Sharper than a switchblade.

di Some kind of sociopath
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Nostos. ***
Capitolo 2: *** Un Templare con il cervello di un Assassino. ***
Capitolo 3: *** "Non sono stato io." ***
Capitolo 4: *** Vesti, spade e ritratti. ***
Capitolo 5: *** Morta due volte. ***
Capitolo 6: *** L'uomo d'azione. ***
Capitolo 7: *** Farsi nuovi amici. ***
Capitolo 8: *** Imboscata. ***
Capitolo 9: *** Convivenza forzata. ***
Capitolo 10: *** Conseguenze. ***
Capitolo 11: *** Uscire fa bene. ***
Capitolo 12: *** Sincero. ***
Capitolo 13: *** Cuore. ***
Capitolo 14: *** Violazioni. ***
Capitolo 15: *** Gradisci un tè? ***
Capitolo 16: *** Nel nome del figlio. ***
Capitolo 17: *** Nel sangue e nella mente. ***
Capitolo 18: *** Alleati inattesi. ***
Capitolo 19: *** Diplomazia. ***
Capitolo 20: *** Il terzo incomodo. ***
Capitolo 21: *** Un bravo soldato. ***
Capitolo 22: *** Due piccioni con una fava. ***
Capitolo 23: *** Antropologia. ***
Capitolo 24: *** Confronto aperto. ***
Capitolo 25: *** Guerra. ***
Capitolo 26: *** Dove portano le idee. ***
Capitolo 27: *** Vecchie conoscenze. ***
Capitolo 28: *** Lupi di mare. ***
Capitolo 29: *** La famiglia esemplare. ***
Capitolo 30: *** Gli errori del passato. ***
Capitolo 31: *** Breaking news. ***
Capitolo 32: *** Thomas Hickey Inc. ***
Capitolo 33: *** La cattura. ***
Capitolo 34: *** Inciampare. ***
Capitolo 35: *** L'esecuzione. ***
Capitolo 36: *** Tra santi... ***
Capitolo 37: *** ...e falsi dei. ***
Capitolo 38: *** Lame. ***
Capitolo 39: *** All hail the King. ***
Capitolo 40: *** Virtù. ***
Capitolo 41: *** The rabbit hole. ***
Capitolo 42: *** Sangue e neve. ***
Capitolo 43: *** Non come m'aspettavo. ***
Capitolo 44: *** Solo una bevuta. ***
Capitolo 45: *** Influenza. ***
Capitolo 46: *** La Mela bruciata. ***
Capitolo 47: *** Fiamme. ***
Capitolo 48: *** Il meglio da ciò che resta. ***
Capitolo 49: *** Jolly Roger. ***
Capitolo 50: *** Si vis pacem, para bellum. ***
Capitolo 51: *** Who the fuck wants to die alone? ***
Capitolo 52: *** È di famiglia. ***
Capitolo 53: *** Mani insanguinate. ***
Capitolo 54: *** In the name of law. ***
Capitolo 55: *** L'ombra. ***
Capitolo 56: *** Onestà. ***
Capitolo 57: *** La falla. ***
Capitolo 58: *** Una fossa. ***
Capitolo 59: *** Persona informata sui fatti. ***
Capitolo 60: *** Il peso del sapere. ***
Capitolo 61: *** Faccia da poker. ***
Capitolo 62: *** Avanscoperta. ***
Capitolo 63: *** Istinto. ***
Capitolo 64: *** Potrebbe persino funzionare. ***
Capitolo 65: *** Wildlife. ***
Capitolo 66: *** Come muoiono i cani. ***
Capitolo 67: *** Agonia. ***
Capitolo 68: *** Damnatio memoriae. ***
Capitolo 69: *** Scheletri. ***
Capitolo 70: *** Soggetto 17 - memo 5 ***



Capitolo 1
*** Nostos. ***


 
I ain't never been afraid to die,
look a man in the eye.

– Janelle Monaé, Givin' Them What They Love.

 
– Haytham.
Mi lanciò uno sguardo strano, a metà tra il sorpreso, l’imbarazzato e l’infuriato. Il guaio era che potevo capirla. Potevo capirla benissimo. Washington aveva fatto dare alle fiamme il suo villaggio. Suo figlio – mio figlio – era fuggito, credendola morta.
E si era alleato con gli Assassini, per amara, assurda ironia della sorte. Come uno schema. Assassino, Templare, Assassino, e poi chissà. Forse mio nipote – se mai ne avessi avuti – sarebbe stato un Templare come me.
– Haytham – mi chiamò di nuovo. Sapeva che poco prima l’avevo sentita, ma speravo avesse capito che stavo riflettendo. Pensando a ciò che avevano fatto Charles, Thomas e gli altri a quel bambino. Loro non sapevano. Non avevano nemmeno idea che fosse mio figlio! Non potevano immaginarlo. Ero sconvolto. Vederla lì, dopo tutti quegli anni, gli stessi occhi e il volto solcato da qualche ruga in più – come me, immagino – ma l’aria mille volte più triste… non era come me l’aspettavo. Era sbagliato. Era tutto sbagliato.
Non era così che volevo rivederla.  
Chiusi gli occhi e strinsi i pugni, guardandola con profondo rammarico. – Non sono stato io – sussurrai, come un bambino che si discolpa per aver mangiato la marmellata con le dita. Come avrebbe fatto il signorino Haytham anni e anni prima. Il bambino orgoglioso, il cocco dei genitori che avevo smesso di essere da tempo. Da quando mio padre era morto.
Mi guardò. Ero seduto a terra, sulla neve, con le braccia strette attorno alle ginocchia. Avrei voluto dirle che mi dispiaceva, perché era la verità. Avrei voluto dirle che ero stato un idiota ad abbandonarla e poi a tornare. Avevo altre idee, altri guai per la testa, ma vederla era come riaprire una ferita che non si era mai chiusa del tutto. Infettarla con le dita sporche e le unghie rotte.
Non mi avrebbe mai perdonato, io lo sapevo. Lo sapevo. – Lo so, Haytham – disse semplicemente, carezzandomi una spalla. – Non sei così cattivo.
Non c’erano malizia o sarcasmo nella sua voce. Mi riteneva cattivo, allora? Lo ero?
Sono un uomo che uccide altri uomini. Ciò mi rendeva cattivo? Lo fanno anche gli Assassini. Lo facevano anche i brav’uomini durante quella maledetta guerra. Andiamo, lo aveva fatto anche lei, all’epoca. Aveva ammazzato dei soldati, no? Uomini che magari avevano una famiglia e grandi aspirazioni, ma avevano compiuto il patetico errore di arruolarsi nell’esercito sbagliato. Come se poi tutti i casini bellici derivassero da loro.
Però io ero diverso, non è così? Io sono un Templare e solo a causa del maledetto anello che porto al dito sono per definizione più cattivo dei portatori di lama celata, degli Assassini. Nonostante porti pure quella. Forse avrei dovuto sventolargliela sotto il naso, magari le cose sarebbero andate diversamente. Avrei dovuto dirle che portare quell’arma indicava la profonda bontà che ho nel cuore. Che sarei stato un bravo bambino.
E se gliel’avessi detto più di un decennio prima, quando ancora ero certo che mi amasse, che fosse felice – o qualcosa del genere – forse avrebbe riso. Era bellissima quando rideva, più che mai.
Imprecai a mezza voce, passandomi le dita tra i capelli, e glielo chiesi. Non potevo resistere con quel peso sulla coscienza. Ero tornato per lei, per scusarmi, e avrei fatto qualsiasi cosa. Anche saltellare su una gamba sola pronunciando i voti matrimoniali in latino.
Voti matrimoniali. Dio, che razza di illuso. – Sono cattivo perché non sono un Assassino? – sibilai. Non riuscii a controllare la rabbia che misi in quelle parole. Assassino. Vedete, è un termine universalmente cattivo, se scritto con la minuscola. Ora per lei rappresentava la bontà. Pace. Uno scopo che la vita tra i Mohawk non le aveva mai dato. Quello stesso che avevo cercato di fornirle io, che aveva accettato senza indugi e di cui aveva condiviso scopo e modalità. Soltanto dopo, quando aveva saputo la verità, aveva cambiato idea.
Semplicistico. Cristo, se lo era.
In ogni caso, gli Assassini erano pazzi. Promettevano libertà e… e fratellanza e tutte quelle cose assurde che l’umanità non metterà mai in pratica. Io li conosco, gli uomini.
Tiio scosse la testa. – No – rispose fissando l’orizzonte. – Io mi sono sempre fidata di te. Ti ho visto con… con quella. – Indicò la lama celata con un cenno. La lama celata che avevo rubato, che in quanto Templare secondo lei non meritavo. E il mio retaggio dove lo metteva? Dio, mi sembrava di essere un cane a una corsa. Dovevo certificare il mio maledetto pedigree per partire e, una volta entrato nella pista, dovevo anche cercare di vincere. Forse stavo chiedendo troppo. – Però sei un Templare. E non sostieni Washington. – Al contrario di lei, supposi.
George Washington. Io ne ho visti di idioti, e ho visto anche un sacco di idioti al potere. Washington ne era l’emblema. Eppure, Gesù Cristo, non aveva rinunciato ad atterrarlo e puntare un coltello alla sua bella gola quando cercavo di uccidere Edward Braddock. Avrebbe potuto tagliarla, così non avrei dovuto subire tutte le sue idiozie politiche negli anni a venire.
La guardai e schioccai la lingua con rabbia. – Che cosa significa? – Ero fuori di me. Mi presentavo da lei per ricongiungerci e l’unica scusa che sapeva trovare a tutto ciò che era successo tra noi era Washington. La politica, le mie scelte, tutto ciò che tra noi non avrebbe dovuto funzionare. Ma non era così. Aveva funzionato allora e poteva farlo di nuovo. Solo che aveva paura.
Avevo appena perso il mio migliore amico, attaccato per il collo a delle corde per i panni. Mia sorella era morta. Volevo soltanto tornare da lei, sentire di nuovo la sua voce confortante e calda che mi sussurrava all’orecchio quanto ogni cosa sarebbe andata bene. O che, anche fosse andata male, ci sarebbe stata lei. Non era così. L’avevo persa anni e anni prima. Era come se fosse davvero morta nell’incendio che, a quanto sapevo, qualcuno aveva appiccato al suo villaggio. Come se ne fosse rimasto solo lo scheletro, un guscio vuoto.
Dove sei, Tiio? Dov’è la donna che amo? – Stai dicendo che le divergenze politiche ci hanno separati? Non voglio essere io adecidere la sorte di questo paese – dissi, rosso in viso nonostante il gelo. Perché? Perché per amarci dovevamo per forza pensarla allo stesso modo su tutto? Io avrei fatto qualsiasi cosa per restare con lei. Avrei fatto qualsiasi cosa per averla ancora con me. – So che dovrei esserlo, ma non voglio. Sappi che Washington, il vostro bravo generale che lotta per l’indipendenza, ha bruciato il tuo villaggio. – Perché di sicuro non ero stato io. E se c’era qualcuno interessato alle terre che i Mohawk continuavano a occupare era l’esercito. Se gli anziani non volevano parlare con me non potevo certo piombare lì e far saltare tutto in aria. Lei mi conosceva, diavolo. Sapeva che non era il mio modo di procedere, non nell’immediato, almeno. Porca miseria, non ero nemmeno nelle Colonie quando accadde! Per non parlare della parte più bella, mio figlio che scappa pensando fosse colpa mia. Non riuscivo davvero a credere alla sfortuna che avuta.
– Haytham – mi ammonì, e mi sentii come quando le bambinaie mi fulminavano con lo sguardo per aver fatto qualcosa di sbagliato. Potevo essere il prediletto di mio padre, ma le briciole per terra e i soldatini in ogni angolo della casa mi avevano fatto prendere un po’ in odio, all’epoca. Sbuffai, esattamente come facevo allora. Era inutile. – Washington vuole il meglio per il Paese.
Mi alzai di scatto, infuriato. – Ha rischiato di ucciderti! – sbottai, guardandola torvo. Non le avevo mai riservato uno sguardo simile. – Io non voglio il bene del Paese. Io voglio il bene della mia famiglia. Ho te. Ho un figlio, adesso. Eppure ci siamo divisi a causa di maledette ideologie. Non siamo diversi come pensiamo, Tiio.
Sorrise appena, per nulla turbata dal mio scatto d’ira. – Non sai quanti Templari lo dicano, Haytham. Abbiamo lo stesso scopo, ma modi di agire diversi. Uniamoci! – Fece il verso a qualcuno che poteva essere me come Charles o come qualsiasi altro Templare. Era vero. Era una cosa che succedeva spesso. E di solito – indovinate? – erano sempre gli Assassini a declinare. Però era la verità, diavolo. Non aveva certo esitato quando l’avevo aiutata ad ammazzare Braddock. I miei modi di agire le erano piaciuti, allora.
Stavo impazzendo. – Non mi interessa un’alleanza politica – sussurrai, cercando di mantenere la calma. – Voglio solo la famiglia che non sono riuscito ad avere quando ero giovane. – La famiglia che nessuno sembrava volermi concedere.  
Ridacchiò tra sé, quasi maligna. Era sempre stata molto realista, forse troppo. Eppure mi piaceva quel lato di lei. Mi era sempre piaciuto, mi portava coi piedi per terra. – Non è più possibile, Haytham.
– Non è vero! – sbottai. Di nuovo, me la stavo prendendo come un bambino. Uno stupido ed insulso bambino troppo cresciuto, che s’infuria appena i genitori non gli concedono ciò che vuole. – Io ti amo – sussurrai. Perché quelle parole suonavano così male, dette da me? Non gliel’avevo mai detto? Non ricordavo, sinceramente. Sì, sì, potete prendere la frutta marcia e tirarmela addosso, ma questa è la verità. Non mi era mai sembrata il tipo da volerle sentire a ogni costo. E poi quelle parole mi procurarono una fitta al petto, come se avessi finito il fiato dopo un lungo discorso. Erano solo tre piccole parole, in fondo. Tre parole come altre, no?
No. Oh, santo Dio, no. Per niente.
Rise di nuovo. – Non mi hai mai amato, Haytham.
Ebbi davvero la tentazione di trapassarla da parte a parte con la spada. Come poteva essere così cieca? Ero lì! Avevo attraversato mari e monti, avevo abbandonato i miei fratelli solo per venire da lei! Ero al suo fianco per avere una famiglia, non per portarla dalla mia parte. Ero lì per lei e mio figlio. Ero sparito soltanto perché lei mi aveva fatto una scenata. Ero tornato. Perché non poteva perdonarmi? Non c’era niente che avessi amato quanto lei. Non c’era niente che mi stesse più a cuore. Cazzo, sono un uomo. Che avrei dovuto fare, dopo che mi aveva cacciato? Chiudermi al Green Dragon e piangere tutte le mie lacrime? Sussultare tra le braccia di Charles mentre lagnavo la perdita della mia donna? Al diavolo.
C’era di mezzo anche un bambino. Come poteva dirmi cosa del genere quando avevamo avuto un figlio insieme? Mio figlio… – Come si chiama?
Mi scoccò un’occhiata guardinga. – Di chi stai parlando?
Roteai gli occhi. Ero arrabbiato come non mai. – Di nostro figlio, Tiio. Lo sai benissimo – risposi con i pugni stretti.
Abbassò lo sguardo, lasciandosi andare a uno sguardo triste e sconsolato. Quello che amavo. O non avevo mai amato, secondo lei. – Non riusciresti in ogni caso a pronunciarlo, Haytham.
La ammazzo, pensai. La uccido adesso e non se ne parla più.
Trattieniti.
Mi stava davvero innervosendo. Non potevo essere un Templare e un buon padre nello stesso momento? Mio padre lo era stato, ma lui era un Assassino, stava dalla parte dei buoni. Dalla parte di Tiio. – Ci proverò – sussurrai, ripensando a quanto mi era stato difficile pronunciare il suo nome. Per quello la chiamavo sempre Tiio. Era stato forse quello ad attirarla? O la mia mirabolante prestanza fisica, o forse – forse – la mia lama. Finché le era stata utile.  
Abbozzò un sorriso, come se sapesse che non ne sarei mai e poi mai stato capace. – Ratonhnhaké:ton – disse. Aggrottai la fronte, imprecando, poi mi rimisi il cappello in testa.
– Bene – mormorai. Avevo saputo ciò che mi interessava, e da lei non avrei ottenuto nient’altro. Era così seria. Così chiusa, poco disposta al perdono. Sentivo il petto chiuso in una morsa gelida. Solo guardarla negli occhi mi faceva male. – Vado.
– Prima ripetilo – esclamò con aria di sfida.
Roteai gli occhi. Oh, voleva giocare. L’aveva divertita una volta, sfidarmi, e le piaceva ancora. Cristo, il fatto è che piaceva anche a me, ed ero maledettamente facile da leggere. Per lei, per chiunque altro. Ero debole. In quel momento più che mai. E Tiio era testarda quanto un mulo, come al solito. – Radonaghédon. – Ripetei il nome così come l’avevo sentito e lei annuì. – Con o senza la tua approvazione, vado a cercare nostro figlio.
Si strinse nelle spalle e sul suo viso si dipinse un’espressione triste. – Gli Assassini ti uccideranno non appena metterai piede nella tenuta, Haytham – sussurrò. – E conoscere il nome di mio figlio non ti concede nessun diritto su di lui.
Parlava di diritti. Proprio lei. Lei, a cui Washington, che tanto ne parlava, li aveva succhiati via tutti assieme alla sua casa e al suo villaggio. – È anche mio figlio! – sbottai, esasperato. – Io sono suo padre, maledizione! Lui non mi conosce! Non sa nulla!
– Ma crede che tu mi abbia uccisa e abbia dato fuoco al nostro villaggio. – Grazie, cara. Adesso sì che mi sento bene, non rischio nemmeno lontanamente di crollare. La voglia di fare del male a qualcuno, a chiunque, mi stava dilaniando il petto come un animale feroce. Era tutto così difficile, maledizione. Parlare con lei, parlare di bambini, una cosa che conoscevo a malapena. Tornare. Tornare era la parte più complicata. E avrei dato qualsiasi cosa per rendere tutto semplice.
Non avevo quella possibilità. Imprecai a voce alta, dando un calcio alla neve fresca con foga. – Tu sai che non è così! – gridai. – Eppure non vuoi aiutarmi! Perché?
– Avresti dovuto pensarci prima di unirti alle persone sbagliate. – Ah, allora si trattava di questo? Era una vendetta per averle nascosto che facevo parte dei Templari? Oh, Dio. Quindi aveva fatto l’amore con me perché mi amava o perché pensava avessimo lo stesso scopo? Mi aveva baciato nel Tempio perché credeva che le sarei stato ancora utile? L’aveva fatto per questo?
Andiamo, non… Non poteva essere così. Non anche lei. Ci doveva essere qualcuno di buono nel mondo, no? Che ignorasse gli orpelli che portavo alle mani, sulla redingote, e mi amasse per ciò che ero. Non per ciò che pensavo, ma per come lo facevo. Avevo sempre creduto che quella persona fosse lei, che lo sarebbe stata in qualunque caso. Ma non era così.
Un favore, d’accordo? Non seguite mai una causa. Non siate fedeli a niente. E se una donna vi chiede di che fazione politica siete, assicuratevi di aver ben capito la sua, poi ripete tale, anche se non avete la minima idea di cosa facciano. Mi avrebbe risparmiato un sacco di problemi.  
– Non puoi farmi questo – ringhiai. – Non puoi strapparmi mio figlio solo perché sono un Templare! Io credo negli ideali dell’Ordine e il fatto che certi uomini li sfruttino a loro vantaggio non significa niente! Io non sono così! E anche negli Assassini esistono traditori, no?
Sollevò le sopracciglia, sorpresa, quasi preoccupata, e abbassò la voce. – Adesso sei diventato un traditore, Haytham? – sussurrò. Perché mi odiava a tal punto? Che cosa le avevo fatto di male? Anni prima l’avevo liberata da uno schiavista, Silas Thatcher. L’amavo. Eppure ero sempre io il lupo cattivo. Certo. Facile basarsi su un incendio senza conoscere la realtà dei fatti. Qualcuno al villaggio, oltre Connor, aveva visto Thomas, Charles e William dare fuoco alla palizzata, alle capanne? Se era così allora perché camminavano impuniti sulla terra? Perché ero io l’unico a dover pagare?
Non era giusto. Non c’era niente di giusto quel giorno. – Sai che non lo sono – bofonchiai. – Intendevo dire che anche alcuni Assassini sfruttano i dogmi a loro vantaggio.
– Non è sempre così.
– Appunto – sibilai nel tentativo di mantenere la calma. – Le persone non sono tutte uguali, Tiio.
Lei trasalì, perché avevo sguainato la spada. Non le avevo mai puntato un’arma contro, ma non lo stavo facendo nemmeno adesso: la punta d’acciaio sfiorava la neve. La tenevo in mano come un bastone da passeggio o un ombrello, da buon gentiluomo londinese. Il peso dell’elsa in mano mi aiutava a riflettere – giuro. Che cosa avevano gli Assassini che noi non avevamo? Volevano la libertà, pensando che avrebbe portato alla pace. Io volevo la pace portata dall’ordine. I principi dei Templari erano chiarissimi. Alcuni pensavano volessimo conquistare il mondo. Non era nei miei piani. Io volevo solo la fine della guerra e la mia famiglia unita. Perché gli Assassini si rifiutavano di capire che volevamo la stessa cosa? Solo perché alcuni di noi avevano agito a favore del totale controllo del mondo non significava che tutti fossero così. – Haytham, smettila – sibilò Tiio, una serpe pronta a sputarmi in faccia il proprio veleno. – I Templari vogliono l’ordine totale. I sottomessi e i potenti.
– Credi sia ciò che voglio io o ciò che vuole l’Ordine?
Abbassò la testa. La stavo mettendo alle strette. – Ciò che fate è sbagliato – grugnì, come a voler convincere solo se stessa.
– Voglio la pace. Ecco cosa voglio – esclamai. – Non mi interessano i principi dell’Ordine. Io voglio solo stare bene con te e mio figlio, anche se siete Assassini o… o quello che è. Non me ne importa.
La vidi avvampare. – Ne sei sicuro?
Che cosa avevo da perdere? Niente. E poi era la verità. Io volevo mio figlio. Volevo Tiio. Volevo far capire che non ero cattivo. Ero un Templare, certo, e allora? Avevo perso troppe cose, troppe persone per lasciarli andare. Dovevo fermarli. Mettere punti fermi nella mia vita prima che fosse troppo tardi. – Sì, Tiio – sussurrai. – Ne sono sicuro.
– I Templari non dovrebbero passare tempo con gli Assassini. Tu… – Abbassò il capo mentre mi avvicinavo cautamente a lei, la spada riposta nel fodero. – Non avremmo mai dovuto…
– Lo so. – Agii d’istinto. – Eppure è ciò che voglio.
Feci un passo verso di lei e le diedi un bacio sul collo. Rimase rigida. – Mi dispiace – sussurrò.
E capii ciò che stava succedendo troppo tardi, quando qualcuno mi strinse le mani intorno al collo.

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Capitolo 2
*** Un Templare con il cervello di un Assassino. ***


Noi dovremmo davvero restare uniti, o, molto probabilmente, verremo tutti impiccati separatamente.
– Benjamin Franklin. 

Non respiravo. – Haytham Kenway – sibilò una voce conosciuta. Scalciai con tutte le mie forze, boccheggiando in cerca di aria. – Io, Charles Lee, ti condanno a morte per tradimento all’Ordine dei Cavalieri Templari.
Charles? Il mio giovane pupillo? Il ragazzo dallo sguardo vispo e curioso per me e sdegnato verso tutti gli altri? Lui? Oh, Dio, no. No, per piacere. Io l’avevo cresciuto e gli avevo insegnato i nostri principi, le nostre mosse. Era una mia creatura.
E l’ossigeno al mio cervello continuava a diminuire. Non… Non era possibile. Era crudele che fosse proprio lui a farmi così male, a portarmi via la vita. L’avevo reso ciò che era oggi. Era come se mi stessi soffocando con le mie stesse mani.
Reagisci!, pensai ad un tratto. Non puoi farti soggiogare così. Tu sei uno di loro! Forse il Templare più leale ai principi dell’Ordine che si sia mai visto! Forza!
Tirai indietro un gomito con forza, centrando la mascella di Charles. Mi lasciò andare imprecando e caddi a terra con la spada in una mano e l’altra premuta sul petto mentre inspiravo. Potevo essere morto.
Alzai lo sguardo e attorno a me c’erano i miei fratelli. Gli altri Cavalieri. Thomas, John, Charles, Benjamin e William. E poi, l’ultimo uomo che mi aspettavo di vedere.
– Reginald? – non riuscii a trattenere il lampo di sorpresa nella mia voce. Era lì. Il mio mentore. L’uomo che, dopo mio padre, mi aveva insegnato tutto. Tutto sull’Ordine e su Coloro Che Vennero Prima. Da quanti anni non lo vedevo? Eppure non era invecchiato di una virgola. Stesso sguardo profondo, intelligente, e le labbra piegate in un sorriso quasi malizioso, da chi sa cose che nessun altro può immaginare.
Birch sogghignò. – Mi piace vederti acuto come un tempo, Kenway – esclamò, sfoderando la spada. Non era cambiato. Poteva sembrare calmo e rassicurante, ma era sempre pronto a sguainare la spada per ogni inezia. E se l’inezia era un presunto tradimento, be’, a maggior ragione. – Anche se sei stato sciocco a far scoprire i tuoi piani in questo modo.
Sentii il bisogno di giustificarmi. Presi silenziosamente la mano di Tiio e vidi che i suoi occhi erano lucidi di lacrime. Non l’avevo mai vista piangere. Dico sul serio, mai. – Non sono un traditore, Reginald – esclamai, la spada sollevata. – Sono pronto a dimostrarlo. – Eppure ero tornato nelle Colonie, andando da lei prima che da chiunque altro, e avevo detto che non m’importava niente dell’Ordine se potevo averla con me.
Ve l’ho detto. Non siate fedeli a una causa, vi ritroverete fottuti. Malamente fottuti.
– E a chi? – replicò lui. Come sempre, sfoderava quella sua classe burocratica solo con gli altri. Quando si parlava di discutere con me nei suoi occhi si accendeva una scintilla violenta a cui ora, finalmente, poteva dare sfogo. Ammazzandomi.
– All’Ordine intero, se necessario! – sbottai. – Io sono un Templare. – Oh, che rivelazione. Idiota.  
Rise con violenza, reclinando la testa come un folle. – Già. Un Templare, ma con il cervello di un Assassino.
Quella frase mi fece uno strano effetto. All’inizio sussultai, ma dentro di me non provavo nulla. Mi fece sentire bene. Mi rivelò una verità che avevo sempre nascosto a me stesso, nel senso che non l’avevo mai ammesso, ma lo sapevo.. In fondo, mio padre era un Assassino. Era logico che avessi il cervello di uno di loro, come diceva Reginald. Che cosa significasse per lui non lo so, ma di certo niente di buono. Era il mio modo di essere, l’unica cosa che mi era rimasta mentre tutti intorno a me se ne andavano, morivano, oppure cambiavano idea sulla mia persona. La maniera di pensare che mi aveva instillato mio padre e la consapevolezza ereditata da Reginald, dall’Ordine, erano le uniche cose in me cui non avevo permesso di cambiare. Il mio cinismo mi teneva a galla da anni. Dall’assassinio di mio padre, giorno più, giorno meno. – È un male, vero, Reginald? – dissi a voce abbastanza alta. – Che cosa mi condanni? Che cosa ho sbagliato?
Mi puntò un dito contro, accusatorio, e un brivido corse lungo la mia schiena. – Rapporti troppo stretti con gli Assassini. Allontanamento dall’ordine per quanto – quindici anni?
– Tu eri in ottimi rapporti con mio padre – sibilai. No, no, basta, non ricordarlo. Non tirarlo fuori. – Ed era un Assassino.
Rise di nuovo, facendomi gelare il sangue nelle vene. – Per favore, Haytham! – esclamò. – Sei davvero un ingenuo, come tutti gli Assassini. Sono stato io ad uccidere tuo padre. Oh, certo, non in prima persona, ma l’ordine l’ho dato io.
No.
No.
No!
Com’era possibile? Mi ero sempre fidato di Reginald. Sempre. Era… non dico un mio amico, ma un alleato, un maestro. Un uomo con dei principi, la testa ben salda sulle spalle e delle idee marchiate a fuoco nella mente, uno di quelli con posizioni precise e stabilite, ma… Mi aveva mentito. Mi aveva raccontato un sacco di balle, facendomi scorrazzare per mezzo mondo alla ricerca dell’assassino di mio padre quando ce l’avevo davanti agli occhi. – Sì, piccolo Haytham, erano tutte bugie – sibilò osservando la mia espressione stupita. Sconvolta. – Oh, povero bambino. Tessa era distrutta e io avevo la mia occasione! Lasciare un abile guerriero come te senza una guida, in casa a fare la dama di compagnia di tua madre… non l’avrei mai permesso. Così sei diventato uno di noi. Un Templare con la testa da Assassino, come ho già detto, ma pur sempre un uomo devoto alla nostra causa. Fino ad ora.
Volevo ucciderlo.
Affondare la lama nella sua gola e pisciare sul suo misero cadavere. Sputarci sopra e darlo in pasto ai cani, tagliarlo a pezzi e bruciare il suo corpo. E poi pisciare di nuovo sulle ceneri.
 Per fortuna c’era la mano di Tiio, che stringeva forte la mia e mi trattenne dall’impalarlo con la spada. – Sei un bastardo, Reginald – sibilai a denti stretti. – E giuro che ti ucciderò. Fosse l’ultima cosa che faccio.
Scoppiò a ridere. – Be’, avrai tutto il tempo per realizzare il tuo misero piano in cella. Oh, e nell’altro mondo. Domani sarai impiccato davanti all’intero Ordine – Mi rivolse un sorriso a labbra strette, il tipico ghigno di chi sa di avere la preda in pugno. – Legatelo.
Thomas azzardò un passo avanti, sfiorando il viso di Tiio con la mano. Gli puntai contro la spada. – Non ci provare, Hickey.
Ridacchiò tra sé. – Pensi davvero di uccidermi, Kenway?
Kenway, ora mi chiamavano così. Non ero mai stato Kenway, per loro. Sempre signore, Gran Maestro o Mentore. Raramente Haytham. Ora ero diventato Kenway. Il cognome di mio padre pronunciato dal suo assassino e dagli uomini che credevo essermi fedeli era come una bestemmia.
– Se necessario – replicai, la voce fremente dalla rabbia. Tiio mi lanciò uno sguardo disperato e scosse la testa.
– Haytham, non lo fare – sussurrò. – Non lo fare.
Quelle parole mi lasciarono sbigottito: come poteva dirmi di non farlo? Non erano mille volte più traditori di me? Io volevo solo una famiglia! Loro volevano negarmela, e non era finita lì! Ero stato il loro maestro, il loro faro, li avevo portati sulla via della grandezza, fino ai rami più alti dell’Ordine.
E volevano uccidermi. Non avevo parole.
William strappò Tiio dalla mia stretta mentre Thomas Hickey e John Pitcairn mi  afferravano per la braccia, strappandomi la spada di mano e gettandola a terra. Avrei voluto reagire, davvero, ma c’era… C’era troppo in ballo. Reginald aveva ucciso mio padre, l’Ordine voleva impiccarmi, stavo per morire. E non ero riuscito nemmeno a salvare Tiio. Non ero neanche riuscito a portarla da nostro figlio, a vederli insieme, mentre lei lo abbracciava e lo stringeva al petto come solo una madre sa fare. Avevo fallito su qualsiasi fronte, e l’Ordine me lo stava rinfacciando, sputandomelo contro con tutto il disprezzo possibile.
Reginald ridacchiò e avanzò di un passo, tendendo la mano verso di me.
D’istinto mi trassi indietro, divincolandomi senza successo: avevo addestrato bene i miei polli, purtroppo. Al mio fianco, Thomas mi fissava con il suo sorriso più subdolo e John sembrava deluso dal mio comportamento. Pareva un padre che guarda il figliolo cattivo, pronto a riempirlo di bastonate sulla schiena. Reginald sorrise ancora e afferrò la cordicella avvolta al mio collo, tirando via la medaglietta dall’aspetto così antico e mistico che avevo conquistato con tanta fatica.
Quando la prese tra le mani, quella che credevamo essere la chiave del Grande Tempio brillò come non aveva mai fatto contro il mio petto, e Reginald la fissò per qualche secondo prima di infilarla nella tasca del cappotto, dalla quale, anche attraverso il tessuto spesso e caldo, era ancora visibile la lucentezza dell’amuleto. – Credo che questa sia più al sicuro nelle mie tasche, Haytham – disse, come se non fossi in grado di capire. Si stava rivolgendo al ragazzo più talentuoso – non per vantarmi – che fosse mai entrato nelle fila dei Templari, e lo trattava come un decerebrato, il bambinetto più insulso e stupido che avesse mai visto.
– Non ti servirà a nulla – sibilai rabbiosamente, tentando di liberarmi dalla stretta di John e Hickey.
In tutta risposta un terzo uomo alle mie spalle affondò lo stivale nelle mie natiche. Che gioia.
Reginald ridacchiò. – Avresti dovuto pensarci prima di tradire l’Ordine – disse con un sorrisetto, e qualcuno – riconobbi la risata di Charles – mi colpì alla nuca.
Poi, il buio. 

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Capitolo 3
*** "Non sono stato io." ***


Mi risvegliai con la punta di un coltello sotto il mento e le mani legate. Qualcuno mi tratteneva alle spalle, sentii il suo alito caldo sul collo. Davanti a me, gli occhi azzurri di Charles mi fissavano divertiti, giocherellava con un coltello come avevo visto fare ad un torturatore molto tempo prima, quando abbiamo reclutato Benjamin. Si chiamava… Cutter. Lo avevo ucciso io. – Ben svegliato, Kenway.
Per tutta risposta, sputai sul suo stivale. Mi tirò una ginocchiata nelle palle con un sorriso sadico sul volto, afferrandomi per i capelli. – Non si disobbedisce ai superiori, Kenway.
Mi limitai a sogghignare. – Be’, è giunta la mia ora?
Sorrise anche lui. – Sai, Haytham, una volta ti guardavo con ammirazione, quasi con riverenza ed ossessione. Volevo essere come te. Volevo essere bravo. Volevo essere un grande Cavaliere Templare. E ci sono riuscito! – la sua voce si riempì d’orgoglio come quella di un bambino cui il padre ha appena fatto dei complimenti. – Tu, invece, ti sei fatto coinvolgere dagli Assassini e meriti la morte. Lo sai. Hai sempre saputo che avere una relazione con quella… - gli lanciai un’occhiata in cagnesco e scoppiò a ridere. – Con quella puttana indiana avrebbe avuto delle terribili conseguenze.
Sollevai una gamba e lo colpii con il tacco dello stivale al petto, macchiando la sua camicia bianca e facendolo indietreggiare. Mi guardò con la sua solita aria divertita e l’uomo alle mie spalle sollevò il pugno per colpirmi, ma Charles sollevò una mano. – No, no, John, lascialo stare – sibilò respirando a pieni polmoni. – Io non ho paura di te, Haytham Kenway, e potrei ucciderti ad occhi chiusi – si avvicinò a me e strinse il mio viso tra le mani. Sputai sulla sua guancia con stizza. – Sei solo un vecchio cane, Haytham. Abbaierai anche, ma non fai più paura a nessuno.
- Lo dici tu – sibilai.
Ridacchiò. – Non hai amici, Haytham. Non ne hai mai avuti, tolta quella donna Mohawk – si pulì lo sputo con la manica della camicia e mi riservò uno sguardo colmo di pietà. Quella che riservava a Thomas e, generalmente, a chiunque incontrassimo in strada. Pietà. Pietà per me! Io l’avevo reso quello che era, quello era il più pesante tradimento che avessi mai subito. Non potevo tollerarlo. – Nessuno ti salverà, Kenway, esattamente come nessuno ha salvato tuo padre.
Ringhiai. – Tu non sai niente di mio padre, Charles – replicai. – Potevi essere a malapena nato, quando lui è morto.
Scrollò la mano. – Non ha importanza. Perché ora, nonostante tutte le tue stronzate, nonostante tutte le tue assurde fantasie, morirai sulla forca come il traditore che sei – avvicinò le labbra la mio orecchio con aria maniacale. – E questa volta, Haytham, non avrai nessuno da sbattere contro la forca per liberarti.
Mi morsi il labbro.
Come lo sapeva? Come poteva conoscere quella storia? Era successa anni prima – ne avevo ventidue – e non l’avevo raccontato a nessuno. Forse a Reginald. Quel bastardo di Reginald.
- D’accordo, Haytham, buon viaggio! – esclamò con un ghigno. – Con un po’ di fortuna rivedrai anche il tuo vecchio, non ne sei contento?
Mi dimenai mentre John Pitcairn mi trascinava via, lungo una scala di legno e poi fuori dalla piccola cantina buia in cui ci trovavamo. Una porta si spalancò e mi voltai, accecato da una lama di luce.
Eravamo in una piazzetta che non riconobbi. C’erano pochissime persone e una forca improvvisata: probabilmente eravamo fuori da una casa o in un retrobottega, dove nessuno ci avrebbe disturbato.
Riconobbi tutti. Reginald sistemato dietro uno sgabello con un sorriso e, attorno, disposti a semicerchio, William, Benjamin e Thomas. John mi spinse fino allo sgabello, issandomi su con malagrazia, per poi sistemarsi accanto agli altri con un sorrisetto. Un istante dopo li raggiunse anche Charles, gli occhi luccicanti per… la gioia, suppongo.
Reginald fece scrocchiare le nocche. – Addio, Haytham – esclamò.
Respirai profondamente, poi sentii solo il suo piede sul fondoschiena e il mio corpo bloccato dal cappio che ciondolava in aria, il fiato che usciva dai polmoni e non rientrava, non rientrava più, gli occhi che rischiavano di uscire dalle orbite e…
Un tonfo, la terra nuda che si riavvicinava, il cappio che si allentava velocemente e il cozzare delle armi. Qualcuno mi trascinò via per le ascelle, ansimando. Le sue piccole mani – probabilmente era poco più che un bambino – mi schiacciarono il petto, aiutandomi a respirare. Sgranai gli occhi quando un sottile filo d’aria entrò nel mio petto, gonfiandomi i polmoni. – Grazie… - sussurrai a mezza voce.
Un ragazzino apparve nel mio campo visivo. Un nativo. Un giovane nativo. Oh, buon Dio… - Figurati – brontolò in inglese. Aveva gli occhi dei Kenway e gli zigomi alti di Tiio. – Ora pensiamo solo a non farci uccidere, che ne dici?
Lo afferrai per la casacca senza riuscire a trattenermi e mi scoccò un’occhiataccia degna di sua madre. – Non sono stato io – gemetti, come avevo detto anche a Tiio. – E tua madre?
Scrollò le spalle. – È morta quando avevo cinque anni nell’incendio del mio villaggio, ma, ripeto, è meglio se ne parliamo dopo.
Senza tante cerimonie, il ragazzo mi caricò in spalla, trascinandomi lontano.
Un urlo risuonò nell’aria. – Vittoria agli Assassini!
Oh, cielo, dalla padella alla brace.
Prigioniero degli Assassini. Una favola. E quel ragazzo… non volevo nemmeno pensarci. Mi stava portando in spalla come se fossi un infante! Tenace come sua madre…
Tiio. Chissà cosa le avevano fatto. Pensai a lei nello stesso letto di Thomas e per poco non vomitai. No, Dio, se l’hanno uccisa, per piacere, fa almeno che non le abbiano fatto del male… prima.
- Avete il prigioniero? – gridò qualcuno.
- Ce l’ha Connor! – sbottò qualcun altro.
- Sul carro, dobbiamo andarcene! – di nuovo il primo uomo.
- Eccomi, eccomi… - il ragazzo mi scaricò sopra delle assi di legno e si allontanò.
Mi sollevai lentamente. – Che diamine… - sussurrai. – Parlano di libertà e non mi hanno nemmeno slegato le mani.
Poggiai un orecchio alla tenda che copriva il carro. Sentivo rumori di armi e imprecazioni. Il familiare ringhio di Reginald e i gemiti di chi è stato ferito. Era uno dei miei? Ma i miei chi erano, in quel momento? I Templari? O gli Assassini che mi avevano salvato la vita?
E Tiio? Di nuovo mi ritrovai a pensare a lei.
Una vocina mi sussurrò che era morta, stavolta sul serio. Era morta e non potevo farci nulla. Me lo sentivo.
E quel ragazzo, quello che chiamavano Connor?
Sentivo anche quello, sentivo che in realtà era Ratonhnhaké:ton, mio figlio. Nostro figlio.
Un Assassino.
 
- Muoviti, non abbiamo tutto il giorno!
Mi ero addormentato. La vecchiaia gioca brutti scherzi, a quanto pare. Un vecchio spalancò le tende e battei le palpebre come un cieco. Non era molto più vecchio di me, ma era nero e portava delle folte treccine sulla nuca. Al suo fianco c’era il ragazzo, con l’espressione seria di Tiio stampata in faccia. Di certo non aveva preso il beffardo senso dell’umorismo dei Kenway. Il mio senso dell’umorismo. – Il gallo non si usa più? – sdrammatizzai con la bocca impastata.
Il vecchio sbuffò e mi trascinò giù dal carro per un braccio. – Portiamolo dentro.
Connor sgranò gli occhi. – Vuoi che ci pensi io, Achille?
- No, no. Non sono ancora morto, ragazzo! Piuttosto prepara una sedia nel mio studio.
Il ragazzo annuì con fermezza e corse dentro la casa. Achille mi lanciò un’occhiatina sarcastica. – Ha tante domande per te, lo sai?
Sorrisi. – Immagino che la prima sia: vuoi essere cremato o preferisci una sepoltura cristiana? – bofonchiai a mezza voce. – Crede che l’abbia uccisa io, vero? Parlo di sua madre.  
Sospirò con una certa amarezza. – Perché, non è così? – replicò.
Sbuffai. Perché quando, per una volta, dicevo la verità ad un Assassino, nessuno mi credeva? Era insulso e frustrante.
Mi guardai intorno: eravamo in una tenuta, probabilmente la stessa di cui mi aveva parlato Tiio. Una villa di mattoni rossi, con le porte, le finestre e i balconi bianchi, circondata da alcune stalle e un paio di magazzini. Niente di troppo sfarzoso, niente stendardi degli Assassini esposti e nessun motto dipinto sulla porta d’ingresso. Chissà che m’aspettavo.
Achille mi fece accomodare su una grande sedia, quasi una poltrona, in un ufficio un po’ buio. Di fronte a me c’era solo una scrivania coperta di carte, libri e registri e dietro vi erano seduti Achille e il ragazzo, Connor.
Sbuffai di nuovo. – Perché mi avete salvato?
Achille scrollò le spalle. – Eri un prigioniero dei Templari. Meglio con noi che morto, non credi? – spalancai la bocca, pronto a ribadire la mia appartenenza all’Ordine, ma l’uomo mi fermò con la mano. – Sì, sappiamo che anche tu sei un Templare. Ma non sei come gli altri, non è così?
Sorrisi tra me, annuendo. – Un Templare con il cervello di un Assassino, mi hanno definito – dissi con un certo orgoglio.
Il ragazzo scosse la testa. – Non è possibile – brontolò. – O sei un Templare o sei un Assassino.
Per un istante vidi l’espressione sul suo volto e mi chiesi se sapesse chi ero in realtà. Quell’espressione confusa, però, scomparve subito, sostituita dalla durezza tipica dei nativi. Sapeva bene che ero un Templare e, con ogni probabilità, sapeva anche che ero suo padre. – Mio padre era un Assassino – spiegai.
- Ma tu sei un Templare – il ragazzo parve di nuovo confuso. – E sei mio padre. Non è vero? – non aspettò la mia risposta. – E io sono un Assassino.
Achille gli diede uno schiaffo sulla mano. – Tu non sei ancora un bel niente, ragazzino! – sbottò. – Ci vuole tempo per diventare un Assassino. Il fatto che tu sia sotto la nostra custodia non ti rende uno di noi. E cerca di mantenere la calma.
Quando Achille disse quelle parole, scoppiai a ridere piano. – Mi ucciderai, ragazzo? – chiesi, davvero incuriosito. – Sii sincero.
Vidi il suo sguardo indurirsi ulteriormente e i suoi pugni stringersi. – Lo farei – sussurrò.
- Allora fallo.
- Haytham! – Achille scattò in piedi. Non pensavo conoscesse il mio nome. Probabilmente gliel’ha rivelato Tiio quando gli ha affidato il bamboccio. Oh, sì, forse dovrei anche fare il padre amorevole, ma non ci riesco. – Cerca di controllarti!
- Di che stai parlando, vecchio? – brontolai verso Achille. – Gli sto dicendo solo che se vuole ammazzarmi può.
- Deve conoscere la verità.
- Non la conosce nessuno! Morirebbe insieme a me – replicai. – Nessun danno. E tu avresti la tua vendetta, ragazzo.
Connor mi guardò in modo strano. Sembrava davvero pronto a farmi fuori in pochi secondi, con la clemenza tipica degli Assassini e il loro modo di buttare tutto sul sentimentale. Lo avrei voluto più simile a me. Più Templare, forse. – Hai ucciso tu mia madre?
Sorrisi. – No – ammisi semplicemente. – Ma ha importanza?
- Certo che ne ha – s’intromise Achille. – Tu non hai ucciso Kaniehti:io, quindi non meriti la morte.
- Secondo i Templari merito la morte esattamente per questo.
Per un attimo pensai che Achille fosse sul punto di darmi un ceffone. Invece si limitò a sbuffare. – Smettila di fare l’impertinente, Haytham – mi ammonì guardandomi torvo. – Potremmo rispedirti ai Templari e lasciarti al tuo destino.
- Ma non è quello che volete, no?
Messi in scacco. Come sempre.
Achille imprecò tra sé e Connor mi lanciò uno sguardo interrogativo. Gli sorrisi appena, mentre il vecchio si alzava in piedi e andava avanti e indietro per la stanza con la testa bassa. – Se non sei stato tu – chiese Achille – allora chi l’ha uccisa?
Sospirai. – Non so nemmeno se sia morta. Prima della mia cattura era viva, ma prigioniera dei Templari. Mi hanno teso un’imboscata – spiegai il tutto molto velocemente. Ripensare a quei momenti mi dava la nausea. Ricordare la nostra… combriccola, se così la posso definire, com’era prima di tutto questo, prima che Washington desse alle fiamme il villaggio di Tiio e Connor cominciasse a progettare la sua vendetta contro i Templari.
Connor abbassò lo sguardo. – Ecco cosa significava quel “non sono stato io” – brontolò.
- Sei perspicace – replicai sarcastico. Achille mi fulminò con lo sguardo. – Io la amavo, ragazzo.
- Ma l’hai abbandonata.
Reclinai il capo. Buon Dio, il ragazzo era davvero troppo, troppo sentimentale e… stupido. Me n’ero andato per cercare Jenny. Per salvare mia sorella. Troppo tardi, come al solito. Il mio ultimo legame con la mia vecchia vita se n’era andato con lei. No! Non era l’ultimo. Restava ancora Reginald. Un brivido corse lungo la mia schiena. – Ho avuto degli affari di famiglia – mi giustificai. – E lei… non voleva un Templare al suo fianco.
Il ragazzo sbuffò. – E chi lo vorrebbe?
- Connor! – il vecchio lo ammonì con un’occhiataccia. – Per piacere!
- Ragazzo, sii più saggio – sussurrai tra i denti. – Se avessi un minimo di cervello sapresti che hai anche sangue templare nelle vene, quindi io non farei troppo lo spavaldo.
Mi scoccò un’occhiataccia. – Io ho un nome – brontolò.
Roteai gli occhi. – Lo so. Ratonhnhakè:ton – mormorai tra i denti. – Tu conosci il mio nome, invece?
Strinse i pugni, come se quel nome lo riportasse a dei ricordi dolorosi. – Qui sono Connor. E il tuo nome non mi interessa.
Si alzò di scatto e Achille dovette afferrarlo per un braccio per impedirgli di andare via. – Non fare il bambino – ringhiò.
- E lui è più infantile di me! – sbottò il ragazzo indicandomi con un cenno del capo.
Gli feci il verso. – Io ho un nome.
Sentii che mi avrebbe ucciso se Achille non l’avesse fatto sedere di nuovo, borbottando qualcosa a mezza voce. Sorrisi tra me. Mi piaceva prendere in giro gli Assassini, nonostante tutto. Come ho detto, sono sempre e comunque un Templare, non potevano aspettarsi chissà cosa. Gli ideali dell’Ordine sono ancora nella mia testa, ci sono fedele. – Calmati – disse Achille a voce più alta, allontanandosi dal ragazzo. Aveva il viso rosso dalla rabbia e questo mi fece sorridere ancora. – E tu cerca di comportarti bene.
Scrollai le spalle, pensando che il tempo in cui qualcuno poteva dirmi di comportarmi da bravo bambino era passato. E nemmeno da poco. – Allora? Che cosa volete da me? – chiesi, seriamente incuriosito.
Achille incrociò le braccia. – L’amuleto.
- Ce l’hanno loro.
- Allora ce lo riprendiamo – replicò lui.
Ridacchiai. – La fai facile – brontolai. – Ringrazia che non siano già qui pronti a tagliarti la gola. Ti sei ficcato in un bel guaio, vecchio. Hai rapito un prigioniero di guerra.
Sorrise anche lui. – Un utile prigioniero di guerra.
  • Se lo dici tu… - intervenne il ragazzo con il mio stesso tono impertinente. Alleluia, finalmente appare un po’ del carattere dei Kenway! Lode sia al cielo!
Achille gli riservò un’occhiataccia. – Haytham, io credo che tu sia più utile come Assassino.
Roteai gli occhi. – Ancora non l’avete capito? Non sono un Assassino! – sbottai.
- Allora cosa sei?
- Un Templare – dissi. – Io credo nei principi dell’Ordine.
- I principi dell’Ordine che stava per impiccarti – bofonchiò Connor senza un briciolo di sarcasmo. Mi corressi mentalmente.
Scrollai il capo. – Loro non sono come me. E so che voi pensate che la maggior parte dei Templari sia come loro, ma non è così. Almeno – abbassai la voce – io non lo sono. L’Ordine si basa sulla consapevolezza e la conoscenza del mondo per ciò che è.
- Sul cinismo, dunque – mi corresse il ragazzo. Lo ignorai.
- Fatto sta che io credo nei principi templari. Non nei vostri.
- Tra i Templari non sei ben accetto – mi ricordò Achille.
Scoppiai a ridere. – Non vorrai dirmi che sono ben accetto tra gli Assassini?
Abbozzò un sorriso. – Potresti diventarlo. Fingere di essere uno di noi. Vedo che le armi le hai.
Indicò la mia lama celata con un cenno. Non me l’avevano sfilata, prima di impiccarmi. Dovevo morire con i simboli del mio maledetto tradimento addosso. Tipico di Reginald. Se ero affiliato con gli Assassini, be’, non c’era miglior prova della lama celata, per dimostrarlo. – Scordatelo – replicai. – Io non mi metto tra le vostre fila. Se devo collaborare, collaborerò in veste di Templare.
Di nuovo, Achille sorrise. – E chi ha detto che tu avresti avuto voce in capitolo?
- Non puoi portarmi in giro legato. E anche in queste condizioni potrei uccidervi entrambi. Ne ho i mezzi e l’abilità – parlai senza alcuna vanità. Lo sapevo, avevo sempre saputo di essere abile nell’arte dell’omicidio. Posso uccidere un uomo senza che se ne accorga. Non sono un pivello.
Connor sorrise tristemente. – E perché non lo hai fatto?
- Perché voglio sapere di che pasta siete fatti – ammisi. – Voglio sapere cosa avete intenzione di fare. Uccidere Reginald?
- Vogliamo l’amuleto. E, se necessario, uccideremo anche gli altri.
Un’idea mi passò per la mente in quell’istante. – D’accordo – esclamai. – Collaborerò alle vostre condizioni. Ma chiedo solo una cosa.
Achille e Connor mi guardarono annuendo. Erano pronti. – Devo essere io ad uccidere Reginald Birch. Io e nessun altro. È tutto ciò che chiedo.
Connor roteò gli occhi, come se pensasse che quella mossa fosse assolutamente tipica di un Templare, un mostro assetato di sangue come suo padre. Achille, invece, sembrò pensarci su, poi sfoderò la lama celata con un clic e tagliò le corde che mi stringevano i polsi. – D’accordo, Haytham. Se è Birch che vuoi, lo avrai.
Non volevo semplicemente Reginald. Lo volevo su un piatto d’argento. Volevo vederlo stramazzare ai miei piedi. Volevo vederlo boccheggiare in cerca d’aria mentre stringevo le mani attorno al suo stupido collo.
Oh, non potevano avere idea di quanta furia assassina ribollisse nel mio sangue in quel momento. 

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Capitolo 4
*** Vesti, spade e ritratti. ***


- Che cosa? Non mi avevate parlato di vestirsi come un Assassino!
- E come pensi di confonderti tra noi? Forza, via la camicia.
- Mi riconosceranno comunque.
- Qui non sei a Londra, Haytham. Non sei famoso come pensi. E ora muoviti, o ti farò raggiungere gli altri nudo come un verme.
Roteai gli occhi, afferrando i vestiti che Achille mi porgeva. – Sei uno stronzo – bofonchiai togliendomi di scatto la camicia e buttandola a terra. Achille sorrise di rimando, guardandomi con scherno anche mentre mi sfilavo i calzoni e m’infilavo i suoi, scuri e foderati di pelle all’interno. – Non sono una puttana, potresti anche voltarti mentre mi spoglio.
Fece spallucce, come a dire: “E perdermi tutto questo? No, mai!”, e cercai di mettermi gli stivali alti fino al ginocchio con velocità. Indossai la giubba con cappuccio degli Assassini e la cintura per le armi, con il loro simbolo al posto della fibbia. Mi sentivo sporco, in un certo senso. Era un abbigliamento semplice. Sopra la manica sinistra infilai la lama celata che avevo rubato a Miko, assicurandola con i ganci e sollevai il cappuccio con teatralità. – Sembro o no un Assassino? – esclamai facendo un’ironica giravolta.
Achille sorrise appena. – Diciamo che puoi migliorare – bofonchiò. – Sei troppo altezzoso per esserlo.
Lo facevo apposta, ad essere sincero. Non mi ero mai piegato facilmente davanti a nessuno, tolto mio padre. Era stato proprio lui ad insegnarmi la ribellione e la discussione: dovevo parlare, senza accettare passivamente tutto ciò che mi veniva detto. Eccolo lì, il lato del mio carattere più in linea con gli Assassini, anche se non tutti sembravano apprezzarlo. – Però non ho delle armi.
Per ora ti basta la lama celata.
Sgranai gli occhi. – No – replicai. – Ho bisogno di una spada. E di una pistola. Nient’altro.
Non siamo pieni di soldi come i Templari. Va’ all’emporio e compra l’indispensabile. – mi lanciò un sacco mezzo vuoto. Sterline. Se non mi avessero ripulito prima dell’impiccagione avrei potuto comprare qualcosa di davvero buono.
Infilai il sacchetto nella tasca. – Posso portare il ragazzo? – chiesi a testa bassa. – Glielo devo.
Achille mi guardò. – Ne sei sicuro?
-
So che sembra non voler avere niente a che fare con me, ma devo dirgli un paio di cose – brontolai. – Se non a lui, lo devo a sua madre.
Sentendo nominare Tiio, Achille sbiancò. – E sia. Portalo con te. La strada la conosce.
Sorrisi. – Anche io. Non crederai che me lo porti dietro a causa della strada, no?
Rise per pochissimo. – Buona fortuna, Haytham Kenway.
Lo salutai con la mano e, scomodissimo nei miei abiti da Assassino, risalii le scale per raggiungere il ragazzo.
 
Merda! – imprecai, rischiando di inciampare in una radice sepolta dalla neve. – Ma come fate a muovervi con questa roba addosso?
Il ragazzo non sorrise nemmeno. Sembrava decisamente più vecchio dei suoi… quanti anni avevo l’ultima volta che ero stato in un giaciglio con Tiio? Trenta, sì. E ora ne avevo quasi quarantacinque. Aveva solo quattordici anni, ma era… maturo. – Sono normalissimi calzoni, credo – mormorò facendosi strada nella neve fresca senza alcuna fatica apparente. Come sua madre. – Perché, di solito come vai in giro, vecchio?
Scrollai il capo. – Niente è meglio della vecchia sartoria inglese – replicai con un sorrisetto orgoglioso. – E, ad ogni modo, io avrei preso un cavallo. E non chiamarmi vecchio.
Mi rivolse un sorriso scaltro. – Quando la smetterai di chiamarmi ragazzo – rispose. Prevedendo la mia reazione, sollevò una mano. – E non pretendere che ti chiami padre, per piacere.
Gli sorrisi di rimando. – Non te l’avrei chiesto – dissi osservando dove mettevo i piedi. Fosse stato facile, con venti centimetri di neve in cui affondare. - Sono Haytham, comunque.
Annuì, come se l’informazione gli interessasse poco, poi continuò la sua camminata. Perché diavolo non avevamo preso un cavallo? Attraversare la frontiera a piedi era senza dubbio la mossa più stupida che avessi mai immaginato. Specie in inverno. – E dove sei stato? – chiese con sincera curiosità. – Quando hai abbandonato mia madre.
Sbuffai, pentendomi immediatamente della mia decisione. Perché me l’ero portato dietro? Che cosa speravo di ottenere? Forse la famosa unione tra Templari e Assassini che tanto bramavo? Ingenuo! – Io non l’ho abbandonata – replicai. Decisi di raccontargli la verità. – Sono tornato in Europa e sono andato a Damasco, a cercare mia sorella. Era stata rapita la notte dell’assassinio di mio padre, da dei Templari. Era diventata un’ancella. Venne uccisa mentre tentavo di portarla via dal palazzo di un governatore ottomano e quando sono tornato qui per controllare come andavano le cose… ho trovato tua madre. E Reginald.
Immagino che questo Reginald non ti stia molto simpatico – brontolò Connor.
- Ha ucciso mio padre! – ringhiai, stizzito.
Lo vidi sorridere. – Adesso capisci perché non ti adoro?
Reclinai il capo, sbuffando. Era proprio cocciuto come sua madre. E, devo ammetterlo, anche come i Kenway. – Lasciamo perdere, rag… Connor. Manca ancora molto? – scrollai una mano per cambiare discorso e sollevai il cappuccio della giubba da Assassino, tirato indietro dal vento.
Per Boston? No – rispose. – Posso farti un’altra domanda? – non attese la mia risposta. – Perché i Templari? Tuo padre era un Assassino.
E perchè gli Assassini, Connor? Tuo padre è un Templare. Sorrisi. Non sapeva niente. Davvero pensava che sarei dovuto diventare un Assassino solo perché mio padre lo era? – Tuo nonno mi ha insegnato a pensare con la mia testa e a scegliere per conto mio – risposi. – E ho scelto i Templari.
- Nonostante tutto.
Scossi la testa. – Nonostante un fico secco, Connor. I Templari non sono crudeli come credete – perché li difendevo? Avevano tentato di uccidermi, eppure… No. I Templari… buoni, in un certo senso, quelli come me, non l’avrebbero fatto. Ma quanti Templari come me avevo incontrato nella mia vita?
Buon Dio.
Mi strinsi nelle spalle, sbuffando. – Credo solo che ci sia un lato positivo e uno negativo in qualsiasi cosa – replicai. – E i Templari vogliono il bene.
Vogliono l’ordine e la soggiogazione.
- È quello che credi tu.
Mi scoccò un’occhiataccia. – Senti, non voglio litigare con te. Dimmi solo perché mi hai portato dietro, va bene?
Per le risposte che cercavi. Non sono uno che si tira indietro tanto facilmente.
- L’avevo capito.
Roteai gli occhi, affondando nella neve fino alle ginocchia. L’acqua penetrò negli stivali, inzuppandomi le calze. Mi trattenni del bestemmiare ad alta voce. – Complimenti – brontolai semplicemente. Nemmeno io avevo voglia di litigare, nonostante, come ho già detto, prendere in giro gli Assassini fosse divertente. Un divertimento assurdo, forse malsano e subdolo, ma pur sempre un divertimento. E un pover’uomo come me cos’altro poteva volere?
Il ragazzo scostò un’ultima fila di alberi e avanzò, respirando profondamente. – Vieni – mi invitò con un cenno della mano. Eravamo su uno spuntone di roccia, su una montagna. Sotto di noi si stagliava Boston, non lontana. – Pronto? – mio figlio mi scoccò un’occhiata di sfida e capii che cosa voleva fare.
Il salto della fede, un’altra caratteristica degli Assassini. Allargai le braccia. – Non lo so fare – risposi.
Sorrise. – Allora meglio, non credi?
Prima che potessi replicare indietreggiò per prendere la rincorsa, mi afferrò per la vita e mi trascinò nel vuoto. Urlai per il panico mentre lui rideva, cristallino, come solo a quattordici anni si può ridere. Per una volta sembrava davvero dimostrare la sua età.
Quando atterrammo in un mucchio di neve fresca credetti di essere morto. Il ragazzo continuò a ridere. – Io ti ammazzo – brontolai scattando in piedi. – Come…?
Rise, togliendosi la neve dai capelli con una scrollata del capo. Eccolo lì, il lato Kenway. L’umorismo di mio padre e mio. – Avresti dovuto vedere la tua faccia, Haytham.
Era la prima volta che mi chiamava per nome. Non c’era affetto vero e proprio, in quella parola, ma pace. Come se non fosse felice di avermi al suo fianco, ma facesse del suo meglio per instaurare una convivenza pacifica. Lo capivo. Ero tutto ciò che gli restava. Oltre la Confraternita, non so se mi spiego.
Spazzai via la neve dalla giubba con una mano, pigramente. Ero fradicio. Gli scoccai un’occhiata a metà tra l’arrabbiato e il comprensivo. Se non fossi cresciuto tra i Templari avrei fatto la stessa cosa con mio padre, a quattordici anni? Chi lo sa. – Muoviamoci – mormorai, prendendo un sentiero dal quale qualche buon’anima aveva spalato via la neve.
Mi seguì svelto, raggiungendomi e superandomi a grande velocità. – Hai finito le domande, Connor? – provai ad aprire una conversazione con lui.
Abbassò il capo. – No, ovviamente. Ci sono così tante cose di cui vorrei parlare.
Capii l’antifona. – Ma non con me.
No. Non con te – ripeté con convinzione.
- Perché?
- Non mi fido di te – ammise semplicemente. – Sei un Templare.
Roteai gli occhi. – Ancora con questa storia? Sono una specie di alleato!
Hai detto chiaramente di non voler abbandonare i tuoi principi.
- Ma non significa che tu non possa pormi qualche domanda sul tuo passato. O sul mio – mormorai, guardandolo con curiosità. – Hai intenzione di parlare?
Prese fiato. – No. Forse un giorno, ma non adesso.
Sbuffai. Capivo. Dopo tutto quel tempo, avrei voluto fare quattro chiacchiere con mio padre, l’Assassino? Avrei voluto davvero sapere se avesse mai sospettato di Reginald, solo per un secondo? Reginald… il suo pensiero mi gelò il sangue nelle vene.
Io non avevo mai sospettato di lui. Forza, datemi dello stupido. Vi capirò. Eppure io l’avevo sempre considerato il degno sostituto di mio padre, forse un po’ più visionario e incline alla violenza gratuita, ma dopo la sua morte – il suo assassinio – era stata l’unica figura genitoriale della mia vita. Mia madre? Non contiamola. Fu lei a mandarmi in giro per il mondo con quell’assassino. Quel lurido mostro assetato di sangue che voleva solo ammazzare mio padre per… interesse. Tutto lì.
Il bosco lasciò lentamente il posto alle casupole e, più avanti, alle strade mezze vuote di Boston. In quel periodo tutti volevano restare rintanati in casa, davanti al camino a mangiare dolcetti. L’emporio era uno dei pochi negozi con un cliente all’interno, un vecchio lentissimo che stava chiedendo all’uomo al bancone una pistola antica, con particolari caratteristiche. Nell’attesa, Connor si adagiò al muro con aria calma, come se non avesse fretta. Io ne avevo, ne avevo eccome. Pregustavo l’attimo in cui avrei stretto le mani sulla gola di Reginald. E le dita mi fremevano al solo pensiero.
Quando l’uomo uscì dall’emporio ringraziai a mezza voce Dio. Non ne potevo più. – Una pistola, una spada e dei proiettili. Faccia alla svelta – intimai al venditore con una certa stizza.
Quello aggrottò la fronte. – Spada lunga o corta?
Rimasi un secondo a riflettere, ricordando quel pomeriggio di molti anni prima, quando Reginald mi aveva interrotto mentre giocavo con i soldatini e mi aveva parlato di mio padre e dell’arma che mi aveva donato. Un’arma che avevo perduto nello scontro con Miko, e in cambio mi ero preso la lama celata.
Quell’arma era una spada, una spada particolare che aveva legato me, mio padre e Reginald in modo indissolubile.
Ed era una spada corta.
Seppi subito cosa rispondere all’uomo. – Corta, se non le dispiace.
L’uomo fece spallucce e si ritirò nel retrobottega per cercare le armi che avevo richiesto. Lanciai un’occhiata a mio figlio, nell’attesa. Non sembrava minimamente stupito dal mio comportamento, come se fossi prevedibile. O fosse abituato a vedere uomini bianchi comprare armi. – Fanno trecentoventi – disse il venditore. Era chiaramente un furto, ma gli lasciai le monete sul bancone, rimirando le armi. La spada era in ottime condizioni, anche se non poteva competere con quella lasciatami da mio padre. Sorrisi con nostalgia, infilando la pistola nel fodero, alla cintura.
Di nuovo, il mio sguardo tornò sul ragazzo. Uscendo dal negozio sembrò prestare attenzione all’ambiente. Sorrisi. – Connor, sai usare una spada?
Mi guardò con sorpresa. – Preferisco questa – e sfoderò una specie di accetta. – Si chiama tomahawk.
Aggrottai la fronte. – Carina – bofonchiai con sarcasmo. – Però credo di avere qualcosa da insegnarti, anche se voi Assassini credete sempre di sapere tutto.
Non vorrai insegnarmi a combattere, spero.
Gli scoccai un’occhiataccia. – Se credi di potertela cavare con quella contro dei Templari, be’, ti sbagli di grosso.
- So anche tirare con l’arco
- Roba da femminucce – replicai. – Si combatte corpo a corpo, non basta una freccia. Alla tenuta ti darò qualche lezione.
Ridacchiò. – Non sono un rammollito come pensi.
Sorrisi a mia volta. – Questo lo deciderò io.
 
Oh, se era un rammollito! Avreste dovuto vedere la sua faccia mentre lo battevo con i trucchi di mio padre. Giocavo di gambe, indietreggiavo, lo colpivo con finte assurde e, a volte, scoppiavo a ridere in modo folle mentre lui arrancava dietro i lampi di luce che si riflettevano sulla lama: se la ritrovò più e più volte puntata al petto e alla gola mentre ci allenavamo nella tenuta. – Devi tenere la guardia più alta – lo correggevo. – E non aprire troppo le braccia.
Lui non sbuffava, semplicemente annuiva e ricominciava con più convinzione. E quando si trovava la mia lama puntata alla gola non imprecava, anzi, si scusava. Non avevo mai visto un simile rammollito. Durante quell’addestramento non sapevo se ammirarlo o spaccargli la faccia.
Solo dopo un bel po’ decise di reagire ai miei affondi, respingendomi con leggiadria. Indietreggiai appena, e solo per la sorpresa. Menai un fendente contro di lui e si abbassò, rotolando a terra. Fece per passare alle mie spalle e puntarmi la lama alla gola, ma mentre lui si rialzava lo afferrai per le gambe, buttandolo a terra e fermandolo con un ginocchio sul suo petto.
Ansimava, il ragazzino. – Non male – sussurrai con sarcasmo. – Ma non abbastanza.
Fece spallucce. Era sudato e infreddolito, come me, ma io avevo la scintilla della vittoria negli occhi, quella che mi impediva di sentire il freddo, la fame e la stanchezza. Mi sollevai, aiutandolo con una mano. – Forza, rientriamo.
Trovammo Achille seduto alla scrivania, chino sul suo libro mastro, e gli rivolsi un debole cenno di saluto togliendomi la giubba da Assassino. Mi mancavano i miei abiti e nella villa faceva un caldo tremendo. – Imparerò.
Guardai Connor, incerto. Aveva davvero pronunciato quella parola? – Prego? – chiesi, da buon gentiluomo.
Imparerò a combattere.
- Combattere… come un Templare, intendi?
Mi guardò in modo strano. – Come un Templare con la testa di un Assassino, direi.
Sfoderai un sorrisetto e sentii i passi strascicati di Achille. – Che diavolo avete combinato? – sbottò con tono di rimprovero. – Sembra che abbiate fatto a botte.
Abbiamo preso un tè, da brave signorine londinesi – replicai sarcastico. – Sto insegnando a Connor la nobile arte del combattimento.
Il vecchio mi fulminò con lo sguardo. – Kaniehti:io l’ha posto sotto la mia custodia, Kenway – ringhiò a pochi centimetri dal mio viso. – E fino a prova contraria sono il responsabile del suo addestramento.
Sbarrai gli occhi. Perché non voleva che avessi a che fare con lui? – Non lo porterò dalla mia parte, se è questo ciò di cui hai paura – dissi guardandolo negli occhi. – Ha il diritto di scegliere la propria strada come ho fatto io. Dico solo che non sopravvivrà a lungo contro un Templare usando un arco e un’accetta!
Connor si alzò in piedi. – Achille, lui ha ragione – mormorò. – Devo imparare.
Subito il vecchio si scaldò. – Tu devi imparare ciò che dico io! – ringhiò. – E ora vattene nella tua stanza!
Restammo soli a guardarci in cagnesco per qualche minuto, prima che io scoppiassi a ridere. – Perché, vecchio? – chiesi soltanto. – Di cosa hai paura?
Scosse la testa. – Lo porterai sulla cattiva strada.
Insegnandogli a sopravvivere?
Batté il palmo aperto sul tavolo, stizzito. – Sei un Templare! Dovresti solo aiutarci con la ricerca del tempio, non credi?
Lo guardai con sospetto. – Credo anche di essere suo padre. E io vi ho detto ciò che so, ma i Templari avranno già controllato quella caverna in lungo e in largo. Non c’è niente, laggiù.
L’uomo assunse un’espressione di sfida, chinandosi accanto a me. – Niente per voi. Quei segreti sono per gli Assassini.
Sono per chi li prende per primo! – sbottai, scattando in piedi. – La ricerca non c’entra niente, vero? Vuoi solo tenermi lontano da lui.
Ringhiò. – Sei stato lontano da lui per quattordici anni, Haytham, che differenza fa? – esclamò con rabbia. – Non hai alcun diritto su di lui.
Un altro che parlava di diritti. Oh, cielo. – Smettila. Ciò che voglio non ha alcun’interferenza con il mio rapporto con lui – bofonchiai. – E, per piacere, non dirmi che George Washington vuole il bene del Paese. Tiio ha combattuto contro di lui, quattordici anni fa.
Non seppe cosa dire. Mi guardò torvo. – Credo che dovresti lasciarlo in pace.
Lasciarlo morire, forse?
- Dovresti stare zitto in un angolo. Ti lascio uscire di qui solo perché lui è tuo figlio e ha bisogno di te.
Ridacchiai. – Ha te – replicai con un certo sarcasmo. – Perché mai dovrebbe aver bisogno di me? Mi odia.
Mi guardò torvo. – Senti, Haytham, puoi fare il duro con chiunque, ma non con me. Conosco il ragazzo e conoscevo Kaniehti:io. – I suoi occhi si persero in una qualche dimensione parallela, un passato di diversi anni prima. Un passato diverso, senza Haytham Kenway tra i piedi.
Quindi è morta – brontolai.
- Credo di sì.
- Lo credeva anche il ragazzo, nove anni fa.
Roteò gli occhi. – Haytham, per piacere… - sussurrò. – Smettila di comportarti come un bambino.
Mi sentii un po’ offeso. – Non faccio il bambino, Achille – risposi. – Cerco solo di trovare delle risposte.
Mi alzai di scatto. Non avevo più voglia di parlare con lui, ma che cosa potevo fare? Volevo solo stare un po’ in pace. Tiio mi avrebbe aiutato, se fosse stata ancora viva. Era da lei che andavo quando avevo bisogno di aiuto.
O da Reginald, i primi tempi.
E ora non avevo più nessuno. Solo due Assassini – anzi, uno e mezzo – che non avevano intenzione di starmi a sentire. Avevo a che fare con i Templari da molto più tempo di loro, conoscevo il loro stile, ma no!, per carità, facciamoci trucidare apertamente piuttosto che dare retta ad Haytham.
Vado a fare una passeggiata.
Achille mi afferrò per un braccio. – Haytham, sei un prigioniero di guerra – mi ricordò. – Tu non vai da nessuna parte.
Imprecai a mezza voce. – Allora c’è un posto dove posso stare in pace per dieci minuti? – chiesi stizzito.
Fece spallucce. – Puoi andare in cantina a combattere un po’, se ti va. Oppure guardare i miei vecchi cimeli. Nessuno ti disturberà, là sotto.
Scossi la testa. – Ho bisogno d’aria.
Lo vidi sorridere. – Al piano di sopra c’è un balcone – disse. – Hai bisogno di una guida?
Alzai le mani come per dire che me la sapevo cavare. – Grazie, Achille, faccio da solo.
E gli voltai le spalle con il cuore gonfio di rabbia.   
 
Il tempo alla tenuta sembrava non passare mai. Il paesaggio, lì fuori, era sempre lo stesso. Alberi, alberi e neve. Ogni tanto, in lontananza, si scorgeva il fumo di qualche accampamento. A volte i suoni dei tamburi delle giubbe rosse arrivavano fin lì, come tuoni. Ero solo, seduto su una vecchia sedia nel balcone della villa, i gomiti sulle ginocchia e l’aria scocciata.
D’un tratto reclinai il capo. Quel posto mi faceva venire la nausea. Tutta quella solitudine mi imponeva di pensare al mio passato. E il mio passato era qualcosa da cancellare a suon di omicidi, primo fra tutti quello di Reginald.
Reginald… dunque aveva anche ucciso mia sorella. Non direttamente, forse, ma a rapirla era stato lui. Non volevo pensarci.
A Londra non c’era più nulla che mi appartenesse.
Che ci fai qui?
Ancora il ragazzo. Buon Dio, era stupido o lo faceva apposta? – Penso a come scappare – replicai. – Non vedo l’ora di tornare in pasto a dei Templari assetati del mio sangue.
Non rise nemmeno. Per carità. – Achille se l’è presa con te? – chiese a mezza voce.
Scrollai le spalle. – Credo sia un po’… apprensivo. Ci tiene a te – risposi, lo sguardo perso tra le colline. – Come hai fatto per nove anni senza dei genitori?
Mi guardò in modo strano, come a dire: “Era colpa tua se non avevo i genitori, idiota!”, ma lo ignorai. – C’erano gli anziani. E avevo un amico.
E poi? – chiesi. – Perché sei scappato?
Sgranò gli occhi. – Non sono scappato.
Lo guardai con sorpresa. – E allora cos’è successo? – Vidi la sua espressione incerta e imprecai ad alta voce. – Lasciamo perdere. Va’ pure a scriverlo sul tuo diario segreto da ragazzina, io vado a prendere un tè.
E lo lasciai lì, tornando in casa con le mani nelle tasche della giubba. Non riuscivo a credere che ancora non avesse fiducia in me. Nessuno aveva fiducia in me! Non i miei vecchi Templari, non gli Assassini…
Andai davvero a farmi un tè, l’unica cosa che potesse rincuorarmi un po’. Con una tazza fumante tra le mani, il mio spirito si calmò e ripresi a respirare profondamente. Quando vidi Achille venire verso di me ci mancò poco che mi cadesse la tazza di mano. – Oh, sei qui.
Aggrottai la fronte. – Davvero, Achille? – ironizzai. Lo vidi roteare gli occhi e sogghignai tra me. Oh, quanto mi divertivo.
Devo addestrare Connor – rispose. – Sarebbe meglio se…
Gli mostrai i palmi sollevati. – Ho capito. Devo rintanarmi in soffitta o qualcosa del genere.
Diciamo che è meglio se non ci stai tra i piedi.
- Non pensavo di essere d’intralcio. Posso almeno dare un’occhiata?
Mi guardò malissimo. – D’accordo, d’accordo. Ma niente commenti, te ne prego.
Feci scrocchiare le nocche. – Ci proverò, Achille.
 
Il ragazzo – lo so, dovrei smettere di chiamarlo così – era nervoso. Combatteva a scatti, mentre io mi aggiravo per la cantina frugando qui e là con poco interesse. Era solo una stanza sotterranea, al centro della quale vi era un manichino con le vesti da Assassino. Probabilmente quelle di Achille.
Il vecchio sembrava rinvigorirsi, combattendo, ma trattava Connor con troppa clemenza. Colpiva con delicatezza, sembrava più un rito di corteggiamento che un combattimento. Imprecai tra me, continuando a camminare avanti e indietro.
Un’intera parete era coperta da un telo di iuta. Mentre i due Assassini si riposavano un attimo bevendo un po’ d’acqua, io lo tolsi dalla parete con uno strattone. E ciò che vidi… be’, un po’ mi stupì.
Sulla parete c’erano sei quadri, sei facce conosciute. No. Sette facce conosciute, disposte come una piramide. La Croce templare era schizzata sulla parete come un appunto, e i visi degli appartenenti all’Ordine – me compreso – mi fissavano con fierezza. Oh, cielo.
Carino – commentai passando le mani sul viso dipinto di Thomas Hickey.
Achille si voltò di scatto verso di me. – Non avresti dovuto.
Feci spallucce. Sulla cima della piramide c’era il mio ritratto. Accanto, la scritta Gran Maestro del rito coloniale e dall’altro lato, un altro ritratto. Se non fosse stato troppo in alto l’avrei staccato dal muro e ci avrei pisciato sopra.
Era un ritratto di Reginald Birch.
Sospirai. – Dunque è così che conoscete i vostri nemici – sussurrai. – Ritratti e riflessioni.
Il ragazzo mi guardò con la spada tra le mani, tremando appena. Forse per la fatica, forse per l’ansia e la rabbia. Non lo so. – Ognuno ha i suoi metodi, Haytham – rispose Achille con aria torva. – E nessuno ti ha dato il permesso di impicciarti.
Scrollai una mano per cambiare discorso. – Ad ogni modo, Achille, credo che l’osservazione sul campo sia l’arma migliore per sconfiggere il nemico. Ed è un metodo usato anche dagli Assassini, giusto? Agiamo nell’ombra per servire la luce… - lessi il motto scritto ancora più in alto sul muro.
Mi guardò con un ringhio. – Non hai idea di cosa significhino quelle parole, quindi sta’ zitto e non interromperci più, capito? – sbottò lanciandomi uno sguardo irato.
Feci spallucce e infilai le mani nella tasca della giubba, come un ragazzino impertinente. Dunque il vecchio mi avrebbe dato la caccia se non fosse successo ciò che era successo. Se non avessi tradito la mia gente ritornando alla ricerca di Tiio. La mia gente… che esagerazione. Un tempo erano compagni, ora non erano più nulla. Solo uomini che credevo legati da un ideale comune, ora scomparso.
Se non avessi tradito i Templari – pur senza volerlo – probabilmente gli Assassini mi avrebbero ucciso. Magari sarebbe stato il mio stesso figlio a farlo. Che ironia.
Sospirando, mi accomodai su uno sgabello con il viso appoggiato al gomito. Giocherellai con la lama celata, lasciandola scivolare fuori dalla polsiera con un leggero clic. Mi mancava l’azione, non mi piaceva stare seduto tutto il giorno a non fare nulla. Volevo combattere, uscire, respirare la fredda aria invernale. Volevo vivere.
Mi alzai di scatto, sfoderando la spada, e azzardai un passo verso Achille e Connor: stavano combattendo con delle spade in modo a dir poco patetico. Avrei potuto ucciderli entrambi – a meno che Achille non facesse il rammollito per il ragazzino. Misi la spada tra le loro proprio mentre stavano per incrociarsi, facendole cozzare contro la mia nuova arma. Mi osservarono, sbigottiti. – Posso unirmi a voi?
Scommetto che se Connor non fosse stato lì, Achille mi avrebbe impalato. Se fossi stato abbastanza stupido da lasciarglielo fare, ovviamente. – Haytham, ti prego – sussurrò. – Devo addestrare Connor.
Non riesco a stare con le mani in mano – risposi semplicemente. Era la verità. – Almeno lasciami uscire.
Roteò gli occhi. – Non se ne parla! – sbottò. Gli lanciai uno sguardo compassionevole e lui scosse la testa.
Imprecai, uscendo velocemente dalla stanza.
Gli avrei fatto vedere io che cosa succede a mettersi contro Haytham Kenway.
A mie spese, purtroppo. 

 

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Capitolo 5
*** Morta due volte. ***


Scavai a lungo nella credenza di Achille per trovare qualcosa da bere – rum, birra o del buon grog – senza trovare nulla, così finii per preparare un altro tè. Per calmarsi poteva andare bene, ma non in quel momento. Volevo dell’alcool, non del tè come una damigella. Terrificante.
La bevanda mi scaldò le viscere in modo brusco, procurandomi un lungo brivido alla spina dorsale. Imprecai tra me e uscii dalla casa. Non volevo andare chissà dove, solo fare una passeggiata per la tenuta.
Sapevo di essere costantemente in pericolo, ma, andiamo, sono un uomo d’azione.
Con le mani nelle tasche mi incamminai verso le stalle, sperando di trovare qualche anima con cui scambiare due chiacchiere. Infatti c’era un uomo un po’ più giovane di me, anch’esso con le vesti da Assassino – erano ovunque, come funghi – che mi lanciò una strana occhiata quando mi avvicinai. Stava sellando un cavallo. Gli mostrai i palmi in segno di pace, ma il suo sguardo non si ammorbidì. E che mi aspettavo?

- Haytham Kenway, giusto? – disse con aria di superiorità.
Inclinai il capo. – In persona.
L’uomo mi guardò in modo strano da sotto il cappuccio, con un’assurda smorfia. – E come mai sei qui fuori? Sei un prigioniero.
Distolsi lo sguardo e diedi una pacca sul fianco del cavallo, che sussultò, come se riuscisse a sentire i miei pensieri da Templare solo attraverso il tocco. – Lo so – risposi. – Sono ancora nella tenuta, infatti.
L’uomo mi afferrò per la camicia, ringhiando. – Le giubbe rosse ti stanno cercando! Ci sono manifesti e strilloni ovunque! Se fossero nei paraggi saremmo tutti morti! – sbottò a pochi centimetri dal mio viso.
Ridacchiai. – Dove sono finite le buone maniere, giovane?
Mi diede uno spintone e sguainò la spada, ma fortunatamente non persi l’equilibrio e seguii il suo esempio. – Ora ho capito perché ti tengono prigioniero! – Si passò appena la lingua sulle labbra. - Sei una spia templare, non è così?
Avrei voluto rispondergli che ero un Templare, ma non me ne diede il tempo, lanciandosi contro di me con foga.
Ah, finalmente un po’ d’azione!
Risposi ai suoi affondi con gioia, constatando che la sua abilità doveva essersi affievolita con l’età o con la rabbia del momento. Peccato. Non era esattamente un degno avversario, ma meglio di nulla.
No, non lo uccisi. Volevo solo divertirmi un po’!
Quando, dopo una specie di impacciato balletto da parte del mio avversario, riuscii a disarmarlo e gli puntai la pistola alla tempia, lo vidi impallidire e scoppiai a ridere, riponendo le armi. – Sei stato bravo.
Mi guardò come se fossi un fantasma, battendo velocemente le palpebre come un pazzo. –C-come? – Strabuzzò gli occhi e non potei fare a meno di sorridere, annuendo. - Era solo un giochetto, Kenway? – sibilò guardandomi negli occhi.
Alzai le spalle. – Mi annoiavo – risposi a mezza voce, come una scusa. – Ti ho spaventato?
Mi diede un’altra spinta. – Diavolo, sì! – sbottò. – Vaffanculo!
Risi di nuovo, anche se sul suo viso non c’era alcuna traccia di umorismo. – Andiamo! Era solo uno scherzo! Buon Dio…

- E hai anche il coraggio di scherzare, Kenway?
Trasalii, perché non era la voce dell’uomo. Era una voce roca e giovane, che non avevo mai sentito. Mi voltai di scatto e per poco non svenni.
Davanti a me c’era una truppa di giubbe rosse con i moschetti carichi.
Pronta ad uccidermi.
 
No, no, devo correggermi. Non ad uccidermi.
Reginald mi voleva vivo.
Lo capii quando i loro colpi contro l’Assassino cominciarono a diventare più letali mentre quelli verso di me erano solo tentativi di disarmo. Be’, peggio per loro.
Era una truppa di sei giubbe rosse: quella che aveva parlato sembrava il capo e portava l’anello dei Templari al dito. Charles, doveva essere stato lui a darglielo. Maledetto, lui e la sua influenza nell’esercito.
L’Assassino era stato colto di sorpresa e probabilmente il nostro giochetto l’aveva stancato, ma io recuperai abbastanza lucidità per entrambi, squarciando il ventre di due giubbe rosse prima che potessero sguainare la spada.
Un soldato sparò, mancandomi di pochissimo, e buttò il moschetto a terra. Ne approfittai, raccogliendolo e dando un colpo con il calcio in pieno viso ad un'altra giubba rossa. Poi, a palmo aperto, gli schiacciai il naso già rotto dal calcio e i frammenti di osso si conficcarono nel cervello. Un altro morto.
E l’Assassino?
Be’, dopo pochi secondi decise che da soli non ce l’avremmo fatta e mi abbandonò per chiamare Achille. Illuso.
In pochi secondi uccisi anche le altre due guardie. Mercenari, senza dubbio: dei Templari avrebbero avuto più stile. Il loro capo, infatti, fu molto più difficile da uccidere. Dovetti combattere a lungo contro di lui, ma alla fine riuscì a piantargli una pallottola nella gamba. Niente di letale. Dovevo parlare con lui.
E Achille e gli Assassini ancora non erano corsi in mio aiuto. Forse perché – indovinate? – non ne avevo bisogno. La neve intorno a me era macchiata di sangue, come la mia faccia, la mia camicia e le mie mani, ma era sangue di altri. Io ero completamente intatto.
Afferrai l’uomo e lo guardai negli occhi. – Chi ti manda?
Sorrise leggermente, quel sorriso di chi non avrebbe parlato. Gli puntai la lama celata alla gola. – Dimmelo.
Afferrai la spada e l’affondai nella sua coscia, bloccandolo a terra. Urlò di dolore. – Lee! – strillò nell’agonia. – Charles Lee. Ti troveranno, Kenway. Io…
Mi ritrovai a ridacchiare. – No, amico, tu un bel niente. Morirai qui – gli squarciai la gola e lo lasciai a terra, alzandomi con aria schifata ed estraendo la spada dalla sua gamba.
Solo in quell’istante gli Assassini – i vigliacchi – uscirono dalla villa. Ed ebbi di nuovo l’impressione che Achille avrebbe potuto uccidermi. Mi guardò con aria triste. – Sei stato stupido, Haytham.
Lo guardai, serio. – Non puoi tenermi rinchiuso lì dentro per sempre, Assassino – risposi con un certo orgoglio. Achille aprì la bocca per dire la stessa stupida frase che mi avevano già detto tutti, quindi lo precedetti, esplodendo. – Lo so! – gridai. – Io sono un prigioniero! E allora imprigionatemi! Legatemi ad una sedia, fate quello che volete! Non c’è niente di peggiore di questa finta libertà!
Vidi i loro sguardi – quello serio di Achille, quello spaventato dell’altro Assassino e quello colmo di pietà di Connor – e scrollai il capo. – Lasciamo perdere – brontolai. – Torno dentro.
Achille mi afferrò per il braccio. – Haytham, lo faccio per il tuo bene – sussurrò.
Lì per lì non riuscii a capire. – Che cosa?
Un attimo dopo qualcosa mi colpii alla nuca e caddi a terra. L’ultima voce che sentii fu quella di Connor: - Scusa.
 

- Ti ho già chiesto scusa – brontolò Connor, accomodato su una sedia nella mia stessa stanza.
- Scusa? Ficcatele nel culo le scuse! – sbottai. – Guarda come mi avete ridotto!
Ero seduto su un letto con delle corde ai polsi e alle caviglie. Se avessi provato a camminare sarei incespicato, crollando lungo disteso per terra. Imprecai. Indossavo ancora la tenuta da Assassino sporca di sangue e il ragazzo mi guardò con quella sua stupida compassione. – È per il tuo bene – bofonchiò, ripetendo le parole di Achille. Lo avrei picchiato molto volentieri. Per il mio bene, dicevano…
- Fa’ come ti pare – esclamai – ma sappi che se non fossi uscito sareste morti tutti e tre, ammazzati da quel Templare.
Il suo sguardo per un attimo brillò d’ammirazione, poi tornò alla compassione. – Se tu non fossi uscito non sarebbero nemmeno arrivate, le giubbe rosse – replicò con calma.
Imprecai di nuovo. La sua tranquillità mi faceva solo diventare più arrabbiato. Il ragazzo tornò a guardarmi e poi abbassò la testa. – Comunque sei stato bravo.
Bravo? Fui sul punto di scoppiare a ridergli in faccia. Certo che ero stato bravo, ero un Gran Maestro dei Templari! Che idiota. – Tu che cosa avresti saputo fare?
Scrollò le spalle. – Probabilmente nemmeno un decimo di ciò che hai fatto tu – replicò. – Erano bravi anche loro, no?
Oh, mamma. Se considerava quegli squallidi mercenari bravi ne aveva di strada da fare. – Dimmi un po’, ma tutto l’Ordine siete voi tre? – chiesi con curiosità. Sapevo che in questo periodo l’Ordine degli Assassini era praticamente a pezzi, ma non immaginavo fosse in simili condizioni.
Mi rivolse uno sguardo triste. – Molti di noi sono morti nella tua missione di salvataggio.
Trasalii. – Come? – Avevano sacrificato degli Assassini… per me?

- Hai capito benissimo, Haytham – replicò a testa bassa. – Eravamo una decina, prima del tuo salvataggio. In sette sono morti.
Imprecai. – Ed erano anche in superiorità numerica – brontolai tra i denti. Il ragazzo mi lanciò uno sguardo interrogativo. – Che razza di addestramento seguite?
Nei suoi occhi tornò il freddo odio con cui sua madre osservava i Templari. – Il nostro comprende la pietà – disse a testa alta. Poi si alzò e mi lasciò solo nella stanza, chiudendo la porta a chiave.
Il nostro comprende la pietà.
Perché si rifiutava di capire? Per grazia del cielo, aveva quattordici anni! E continuava a pensare che i Templari fossero insensibili. Be’, d’accordo, non ero esattamente un padre esemplare, ma avevo dei maledetti sentimenti anche io. No?
Imprecando, provai ad alzarmi. Senza poter muovere le braccia mi trovavo in equilibrio precario e i polsi, stretti dietro la schiena dalle manette, cominciavano a farmi male. Azzardai dei piccoli passi e diedi una spallata alla porta. Niente. Senza poter prendere la rincorsa non l’avrei mai sfondata.
Mi trascinai fino al letto e mi ci lasciai cadere, sperando vivamente che non avessero intenzione di tenermi in quello stato a lungo.  
 
Mi svegliò il cibo, fortunatamente.
Se quella schifezza cucinata da Achille poteva essere chiamata cibo.
Sulla Providence, la nave che avevo preso anni prima per raggiungere l’America, offrivano una sbobba migliore. Ed era una nave carica di Assassini!
Sorrisi mentre Achille mi imboccava con stizza. – Pensavo vi tagliassero l’anulare, non la lingua. Avete ancora le papille gustative? – brontolai con una smorfia disgustata.
Connor, che mangiava accanto ad Achille, inarcò un sopracciglio. – È una vecchia tradizione – disse Achille. – E poi, Haytham, o questo o niente.
Roteai gli occhi inghiottendo un altro boccone di quella schifezza. Giuro, mai mangiato niente di più terribile. E dire che avevo passato periodi a pane secco e acqua sporca! Forse era la vecchiaia. O forse il ragazzino non si lamentava perché aveva paura di Achille, chi lo sa.

- Come si chiama? – chiesi ad un certo punto.
- Che cosa? – rispose Achille, curioso.
Roteai gli occhi. Avevo in mente una serie di fantastici commenti sarcastici che avrei potuto tirare fuori, ma l’idea di stare a digiuno non mi attirava per niente, così risposi: - L’altro Assassino. Quello con cui ho combattuto ieri.
Achille sbuffò aria dal naso. – James Smith – disse, continuando ad imboccarmi.
James, come Holden. Per un attimo mi si bloccò lo stomaco e fui sul punto di vomitare anche l’anima, ma mi trattenni con non so quale misteriosa forza di volontà. – Tutto bene? – chiese Connor.
Annuii poco convinto.
Dopo il pranzo, Achille e Connor mi lasciarono di nuovo da solo. Achille, secondo ciò che avevo sentito, sarebbe andato in città per alcuni giorni a reclutare nuovi Assassini. La tenuta – ed io – era nelle mani di Connor e Smith.
Perfetto.
 
Quella sera fu James Smith a portarmi la cena e ad imboccarmi. Per non farli insospettire feci le mie solite battute, i miei soliti commenti e non cercai di stare più calmo. Poi aspettai che scivolasse fuori dalla porta e andasse a letto per alzarmi, muovendomi con passi minuscoli e leggeri, e avvicinarmi alla finestra.
Poi colpii il vetro con una testata, pregando che il suono non fosse abbastanza forte.
Non sentii altri rumori, quindi il vetro infranto non doveva aver svegliato nessuno. Bene.
A fatica scivolai nell’apertura, usando i frammenti di vetro per segare le corde che mi stringevano i polsi e le caviglie. Ero libero, anche se con la fronte un po’ sanguinante e la vista annebbiata.
Haytham Kenway era libero. Ce l’avevo fatta di nuovo. Assaporai a pieni polmoni l’aria fresca dell’inverno e azzardai alcuni passi nel giardino della villa. Achille non era rientrato e il ragazzino… troppo stupido per capirlo. Troppo ingenuo per sospettarlo.
Coprii lentamente le mie tracce, nonostante l’orgoglio mi invitasse a lasciarle lì, sulla neve, come segno della mia fuga. Come a dire: toh, Assassini, non riuscirete mai a mettere in scacco Haytham Kenway.
Ero arrivato al limitare del bosco quando decisi di smettere di cancellare le tracce e aumentare il passo. Avevo i sensi all’erta. Mi arrampicai su un albero, come mi aveva insegnato Tiio, e osservai la tenuta dall’alto. Sembrava immersa in una calma irreale. Non si sentivano suoni, nemmeno i versi degli animali. Di nessun animale, come se qualcuno li avesse uccisi tutti in una spietata caccia.
Una caccia.
Compresi troppo tardi.
Capii solo quando una freccia passò a un niente dalla mia mano, graffiandola, facendomi perdere l’equilibrio. Rischiai di cadere dall’albero, ma riuscii a tenermi con l’altra mano al ramo, restando pericolosamente a penzoloni. – Merda!
Qualcuno rise e riconobbi la voce. La risata abbozzata di quell’insulso quattordicenne, mio figlio. – Sorpresa! – esclamò, allargando le braccia sotto di me. – Dai, lasciati cadere.

- Nemmeno morto! – sbottai. – Mi spezzerò l’osso del collo!
Lo sentii sbuffare. – Andiamo, io preparo un cumulo di neve e ti lasci andare, d’accordo? – esclamò, raccogliendo manciate di neve a mani nude. Rabbrividii al solo pensiero. – Altrimenti vengo a prenderti lassù.
Sorrisi, annoiato. – Immagino che tua madre ti abbia insegnato ad arrampicarti – dissi.

- Conosci un solo indiano che non sappia arrampicarsi? – non aveva alcuna nota sarcastica nella voce. In quello, non aveva certo preso da me. – Forza, ora puoi lasciarti cadere.
Crollai sulla neve di schiena, con un brivido. La camicia e la giubba inzuppate. – Fanculo – mormorai a mezza voce. – Che ci fai qui? – chiesi al ragazzo alzandomi e spazzando via la neve dai miei vestiti.
Mi mostrò un mucchio di conigli e furetti appesi alla sua cintura. – Caccio, naturalmente – disse. – Credevi che andassimo avanti a sbobba?

- Speravo di no – risposi, un po’ acido. – Mi riporterai a casa?
Scrollò il capo, afferrandomi per un braccio e legandomi di nuovo i polsi. – Perché vuoi scappare? – domandò con interesse.
Non gli risposi, anche se sapevo bene la risposta. Per uccidere Reginald, prima di tutto. Ma, in secondo luogo, per dimostrare – ma dimostrare a chi? – di non avere bisogno degli Assassini. Di sapermela cavare da solo. Preferii stare zitto.
Sbuffai tra me e mi lasciai trascinare dal ragazzo, a testa bassa. Tentativo di fuga numero uno… fallito.
 
Non fu così semplice. Tornato a casa, fui spostato di stanza e la finestra rotta venne coperta con un telo, così la villa divenne molto più fredda. Mi legarono di nuovo al letto e, oltretutto, il ragazzo rimase accanto a me per tutta la notte, osservandomi con occhio critico.
Risposi alle sue occhiate. – Cerchi di attirare la mia attenzione? – chiese, guardandomi di sbieco. – Di comprare il mio affetto?
Scoppiai a ridere. – Come puoi pensarlo? – replicai. – Ti ho apertamente ignorato per quattordici anni. Lo farei ancora oggi, se potessi – ammisi con freddezza.
Annuì. – L’affetto non fa parte dei principi templari, quindi.
Sogghignai. – No, non è così – risposi. – Credo solo che tu abbia dei motivi… stupidi, se posso dire la mia, per non fidarti di me – bofonchiai. – Come la morte di tua madre.
Reclinò il capo. – L’hanno uccisa i Templari. Non cercare di scusarti.
È stato Washington! – sbottai. – Nonostante tutto, Charles e gli altri non c’entrano nulla. Noi…
Alzò una mano per fermarmi. – Non importa.
Ringhiai. – Già, non importa – gli feci il verso. – Per te i colpevoli saremmo sempre noi. Sarò sempre io.
Si alzò di scatto, lanciandomi un’occhiataccia degna di sua madre, e poi mi lasciò da solo nella stanza, ovviamente dopo avermi legato i piedi tra loro e poi al letto. Non chiuse nemmeno la porta a chiave. – Notte, Haytham.
Imprecai nel buio.  
Pensavo davvero tutto ciò che gli avevo detto. Lui… lui non si fidava di me e me l’aveva detto in faccia. Perché ero un Templare. Mi chiesi – me lo chiedo spesso – se le cose fossero andate diversamente con un Haytham Assassino. Se mio padre non fosse mai morto o, ancora, se fossi scappato dalle grinfie di Reginald per unirmi agli Assassini e attuare la mia vendetta contro di lui. Come, in effetti, avevo intenzione di fare in quel momento. Ma se fosse successo quando avevo dieci anni, quando avevo ucciso per la prima volta un uomo per difendere mia madre… chissà. Magari io e mio figlio saremmo stati più uniti.
Era la verità: per Connor, sarei stato sempre io l’assassino di sua madre. E in effetti, lo ero, ma solo la seconda volta.
Tiio era morta perché io ero tornato da lei, attuando l’imboscata. Tiio era morta perché l’avevo raggiunta quando i Templari l’avevano già catturata, usandola come esca per liberarsi di me, ma se non fossi tornato? Se fossi rimasto in Inghilterra a piangere Holden e Jenny? Non avrei mai scoperto di avere un figlio e non avrei mai scoperto il tradimento di Reginald. Sarei rimasto all’oscuro di tutto. E mio figlio avrebbe continuato ad incolparmi per il primo omicidio di sua madre, quello in realtà mai accaduto, quando Washington aveva ordinato di dare alle fiamme il suo villaggio.
Che casino pazzesco.
In fondo, cos’era meglio?
Connor mi credeva comunque responsabile della morte di sua madre. Che cosa sarebbe cambiato?
Niente.
Per ottenere la sua fiducia sarei dovuto diventare un Assassino dopo aver incontrato sua madre e restare con lei. Così tutto sarebbe filato liscio. Magari Jenny sarebbe viva, anche se schiava. Magari Holden sarebbe vivo.
Non ci devo pensare, merda, non ci devo pensare.
Mi morsi la lingua fin quasi a sentire il sangue in bocca, poi mi addormentai in quella scomodissima posizione, braccia e gambe quasi tese, imprecando tra me.

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Capitolo 6
*** L'uomo d'azione. ***


- E quando tornerà Achille?
- Non ne ho idea – sentii uno strano rumore e capii che Smith si stava grattando. – Ha detto di essere impegnato.
Il ragazzo imprecò sottovoce. – Non possiamo tenerlo qui a lungo – borbottò. – Tenterà di scappare. Ci è quasi riuscito l’altra notte – c’era una strana nota accusatoria nelle sue parole.
Nota che James colse, fortunatamente. – Te l’ho già detto, mi sono appisolato un secondo! – sbottò l’Assassino. – Se quello non fosse stato così idiota da infilarsi proprio nei boschi in cui stavi cacciando, ti capirei. 
Connor lo fermò. – È stato solo un caso, James. Se Haytham si fosse casualmente nascosto in un altro luogo lo avremmo perso per sempre – aveva un tono pensieroso mentre parlava appena fuori dalla mia stanza. I muri erano così sottili che riuscivo a sentire quell’assurda discussione addirittura dal mio letto, sogghignando tra me e me.

- Bah. Quello sa cavarsela! – rispose James.
Lo maledissi tra me, pensando che se mi avesse chiamato ancora una volta quello gli avrei fatto sentire com’era avere una lama nella spina dorsale. – Non ti do torto, ma hai visto quanto facilmente le giubbe rosse ci hanno trovato – commentò il ragazzo.
James sbuffò. – È successo solo perché stavamo facendo casino con le spade. Mi ha preso alla sprovvista, il vecchio – bofonchiò. Pensai che vecchio era ancora peggio di quello e strinsi la mascella. – Comunque non succederà più.

- Perché io l’ho legato.
Seguì l’inconfondibile rumore di uno scappellotto e mi trattenni dallo scoppiare a ridere. Anche io l’avrei fatto, se fossi stato Smith. Bel lavoro, Assassino. – Non prenderti il merito, apprendista – lo rimproverò Smith. – Hai ancora molto da imparare.
Connor sospirò. – Comunque, che cosa abbiamo intenzione di fare? – chiese il ragazzo. Sembrava davvero interessato all’opinione di James.

- Turni di guardia – replicò l’Assassino. – Forza, andiamo ad organizzarci nello studio.
Imprecando sottovoce, reclinai il capo, cercando di stendere le gambe. Con quelle maledette corde era praticamente impossibile. Non potevo nemmeno stiracchiarmi. Sentivo i muscoli tesi come non mai e i nervi a fior di pelle. Avrei dato qualunque cosa per potermi alzare.
Ma non potevo, perché gli Assassini avevano preso delle precauzioni contro di me. Contro il loro unico alleato. Li maledissi sottovoce e lanciai un’occhiata fuori dalla finestra: il sole stava per sorgere su un nuovo giorno e io ero ancora prigioniero degli Assassini. Perfetto. La mia solita fortuna.
Pregai di addormentarmi di nuovo senza troppi sforzi.
 
Non ci riuscii.
Mentre la villa era occupata, lentamente, da una spessa coltre di silenzio, io non riuscivo a chiudere gli occhi. Come se quel silenzio mi obbligasse a restare vigile. Mi chiesi che cosa stesse facendo l’Ordine in quel momento, se pensasse a come portarmi via dalla tenuta. Con un massacro, sicuramente. Ma quando attuarlo? E, soprattutto, avevano veramente idea di dove fossi?
Qualcosa mi spingeva a credere che non lo sapessero. Uccidendo quella truppa di giubbe rosse avevo eliminato gli unici Templari che mi avevano visto nella tenuta. Certo, quella mossa avrà insospettito l’Ordine, ma che diamine, non avevano idea di dove fosse diretto il Templare.
Non ne aveva idea nemmeno lui. Era stato il clangore delle armi ad attirarlo o un semplice sesto senso da giovane Templare? E chi l’aveva addestrato? Io no. Poco ma sicuro. Non l’avevo mai visto in vita mia!
Probabilmente era uno dei pupilli londinesi di Reginald, se non addirittura una sua guardia personale. Aveva detto poche parole, non ero riuscito esattamente a cogliere il suo accento. Però non avendolo mai visto, pensai fosse una nuova creatura plasmata a immagine e somiglianza di Reginald.
Così come avevo rischiato di diventare io. L’unica differenza era che io pensavo con la mia testa, come mi aveva insegnato mio padre. Non mi ero mai sottomesso totalmente a Reginald e alle sue idee, ai suoi ragionamenti così burocratici e sofisticati. Sono un tipo pragmatico.
Quando James e Connor entrarono nella mia stanza per slegarmi ci mancò poco che sputai in faccia ad entrambi. – Era ora, maledizione! – ringhiai mentre Connor toglieva le corde dalle mie caviglie.

- Non fare i capricci, Kenway… - mi rimproverò Smith con aria torva. A sentire quel cognome il ragazzo sbiancò e io sorrisi. Probabilmente nessuno lo aveva mai chiamato Connor Kenway. Immagino non volesse avere molto a che fare con quel cognome.
Smith mi tenne sempre fermo per le braccia e mi sbatté violentemente al muro, una mossa che non mi fece nessuna paura. – Haytham – disse con calma – se dobbiamo collaborare tu devi essere consenziente. Altrimenti ti terremo qui legato.
Abbozzai un sorriso. – Consenziente? E consenziente sia, ovvio. Tutti i prigionieri che si rispettino sono consenzienti - esclamai, sarcastico. – Perché non volete lasciarmi andare?
Ignorò la mia domanda, anche perché conoscevo già la risposta. Sapevo troppo sugli Assassini ed ero loro utile. Non potevo semplicemente salutare e allontanarmi. I Templari, per chissà quale benedizione, non mi avevano ancora trovato, ma ci sarebbero riusciti, chiaro. Era solo questione di tempo. – Haytham, dimmi solo se hai intenzione di collaborare. Senza scappare – aggiunse con una certa riluttanza.
Aggrottai la fronte. – E se non volessi?
Intervenne il ragazzo. – Be’, a quel punto ti terremmo qui legato e non avresti voce in capitolo nelle nostre decisioni – spiegò con le braccia incrociate. – Saresti un banalissimo prigioniero.
C’era un motivo per cui gli Assassini erano ritenuti quelli buoni e, ai miei occhi, in quel momento parve quello. La loro gentilezza, la pietà. Gli Assassini non hanno mai avuto veri e propri prigionieri, si sono limitati dalla notte dei tempi ad uccidere o a interrogare nemici in punto di morte, come spesso mi sono ritrovato a fare io. – Avrò davvero voce in capitolo? – chiesi, scettico.
Smith sbuffò. – Per quel che vale la voce di un Templare – esclamò semplicemente. – Allora? Immobilizzato in un letto o dalla nostra parte senza catene?
Sputai sul pavimento con stizza. – D’accordo. Sono con voi – sibilai.
Oh, non avrei certo fatto il bravo bambino. Neanche morto.
James tagliò le corde che stringevano i miei polsi, diventati rossi e graffiati, e mi rivolse un sorriso tirato. – Allora benvenuto nell’Ordine.
Sollevai la mano, mostrando l’anello con la Croce. – Non ci pensare, Assassino.
E poi?
Non feci niente.
Ero dalla loro parte, no? Avevo detto di esserlo.
Almeno all’inizio.
E poi, diciamo la verità, non mi andava di inserire altri tradimenti nella mia vita. Non quando c’era di mezzo mio figlio, non dopo tutti quelli che avevo subito.
Forse mi stavo rammollendo.
 
Mi fecero finalmente fare colazione con qualcosa di decente: tè e biscotti alla buona e vecchia maniera inglese, anche se i biscotti lasciavano un po’ desiderare. Se avessi osato dirlo, loro avrebbero replicato dicendo che “ero un prigioniero”. Idioti. Stupidi e maledettamente prevedibili.

- Allora? – chiesi alla fine della colazione. – Restiamo qui a cincischiare o cosa? – misi gli stivali sul tavolo con aria strafottente e James mi ammonì con lo sguardo. Lo ignorai.
Connor cominciò a girarsi i pollici guardando James con aspettativa. – Achille ha dato ordini? – domandò con un certo timore reverenziale. Mi ricordò Charles. Ridacchiai tra me, pensando che era lui l’uomo che Connor odiava più al mondo, persino più di me.
James si strinse nelle spalle. – Restare qui e tenere d’occhio Haytham – riferì Smith a testa bassa. – Quindi… no.
Roteai gli occhi d’istinto. – Quindi si cincischia, giusto? – assunsi di nuovo il mio tono strafottente. – Peccato, mi piace l’azione.
Mi fulminò con lo sguardo, correndo mentalmente al finto combattimento che avevo ingaggiato con lui il giorno prima. O erano due giorni prima? Chi lo ricorda… - L’avevo capito, Haytham – replicò con serietà. – E avrai tutta l’azione che vuoi quando tornerà Achille.

- Perché? Mi farete addestrare dei marmocchi? – oh, quanto mi piaceva sfotterli. – Sarebbe carino.
Vidi Connor avvampare vistosamente. Forse pensava che lo considerassi un marmocchio. – A proposito. Connor – si voltò verso di me di scatto. – Penso che potremmo impiegare questo tempo tirando un po’ di spada.
Come Achille, anche James saltò in piedi quando avanzai quella proposta. – Lui non studia solo il combattimento – rispose, ringhiando. – Ci sono altre cose che deve sapere. E provvederò io ad insegnargliele. Magari al combattimento potrai pensare tu, ma oggi c’è la lezione di Storia.
Scoccai un’occhiata sorpresa a Connor. – Oh, non pensavo che avessi anche un precettore – sibilai con il mio solito tono sarcastico. Anche io ne avevo uno, all’epoca. Ma avevo otto anni, perdio! – C’è anche la lezione di danza classica in programma? O la lettura di poesie?

- Haytham! – mi rimproverò Smith.
- Personalmente adoro Shakespeare – continuai il mio personale spettacolino. Perché volevo ad ogni costo mettere a disagio Connor? O volevo mettere a disagio gli Assassini? Non lo so, so solo che mi divertiva molto. – Dimmi che gli dedicherete almeno una lezione.
- Haytham! – sbottò nuovamente James, sempre più rosso in viso. Anche il ragazzo aveva assunto uno strano colorito giallastro.
- E, a proposito di Storia, sarà Storia… nel senso degli Assassini, giusto? – chiesi senza alcun accenno a cambiare tono.
In quel momento James Smith sfoderò la lama celata e me la puntò alla gola. Quei due piccoli bastardi mi avevano disarmato dopo la fuga, ma non trasalii. Non volevo fargli credere di essere spaventato da loro. E, tra parentesi, non lo ero. Non lo ero affatto. – Vuoi uccidermi? – domandai con un altro sorrisetto. E lui fletté di nuovo il polso, la lama tornò a rintanarsi nella polsiera.
Ringhiò. – Non rivolgerti più a un Assassino in quel modo, Haytham – mi rimproverò con l’indice puntato.

- È passato il tempo in cui mi lasciavo comandare dalle bambinaie, sai? – replicai. – E ho detto che avrei collaborato, non che avrei ripassato il bon ton con voi.
Perché non sono Reginald Birch, avrei voluto aggiungere. Lui era sempre così pignolo riguardo tutte quelle formalità… Non è mai stato un tipo pratico. Pensava sempre all’astratto, ai Precursori. Ricordo che l’avevo sfottuto anche per quello, prima della mia partenza per l’America.
- Haytham, smettila – bofonchiò James. – Allora, puoi fare un giro della casa, se ti va.
Roteai gli occhi. – Posso riavere le mie armi? – chiesi, gli occhi ridotti a due fessure.
James sorrise tristemente. – Sono nella cassapanca della tua nuova stanza – sottolineo l’aggettivo. – Io e Connor andiamo in cantina a studiare un po’. A dopo.

- So già che mi divertirò!
Nessuno rise.
La mancanza di senso dell’umorismo degli Assassini cominciava a darmi sui nervi.
 
Presi le mie armi e decisi di non intromettermi negli studi di mio figlio.
Almeno, non direttamente.
Scivolai fuori dalla porta e strisciai sulla neve, lungo il muro. Non avevo intenzione di farmi sorprendere. Né dagli Assassini né da chiunque altro. Quindi feci del mio meglio per impedire alla spada corta di strisciare contro la parete con uno stridio e mi avvicinai alla piccola finestra della cantina. Achille la lasciava sempre aperta, per arieggiare.
Era un cantina, non una stalla, ma non rimasi lì a pensarci su. Semplicemente mi chinai e tesi l’orecchio come mi aveva insegnato Reginald, in ascolto.
Per una mezz’oretta fecero la loro stupida lezione. Era incentrata sugli antichi greci, con alcune interruzioni per parlare della mitologia, della religione e dell’Odissea. Tutti argomenti interessanti, davvero, ma che avevo già sentito da giovane. E non ero lì per farmi dire i nomi degli dèi dell’Olimpo. Volevo informazioni.
Dopo un po’, finalmente, arrivarono al punto. O meglio, ci arrivò Connor. – Credi che cambierà?
Non ebbe nemmeno bisogno di dire il mio nome. James capì. – Non lo so. È testardo.
Sorrisi tra me, pensando che Reginald mi avrebbe definito tenace. Trasformare quelli che potevano essere difetti in qualità era il modo migliore in cui riusciva ad attirare la mia attenzione. Non cocciuto, tenace, non incauto, coraggioso. Non ingenuo, ma leale.
Assurdità. I difetti sono difetti, i pregi sono pregi. I classici pregi. Anche se, per quanto mi riguarda, la mia cocciutaggine – o tenacia – giocò spesso a mio favore.

- Credi che lui…? - il ragazzo scosse la testa. – Credi che mi voglia bene? Che ne volesse almeno a mia madre?
Anche James scrollò il capo. – Non sono affari miei, Connor. E non lo conosco bene – brontolò.
Quella domanda mi colpì, ma più che altro mi colpì l’espressione di Connor. Che cosa voleva realmente sapere? Voleva davvero sapere quanto gli volevo bene?
Non gliene volevo, ecco la verità.
Lo conoscevo appena. Insomma, come lui avrebbe voluto uccidere me, forse anche io avrei fatto lo stesso. Non era altro che una spina nel fianco, infondo. Nel mio fianco templare, non nella mia testa da Assassino. Magari, col tempo, sarei riuscito ad affezionarmi a lui. Ma in quel momento no, non gli volevo bene. Lo consideravo un ragazzino stupido ed incapace che credeva di saperne più di me solo perché era cresciuto con quel senso di superiorità, quella certezza che gli Assassini fossero migliori dei Templari.
Ma avevo amato sua madre. E credo che, fino a un certo punto, lei avesse amato me. Eppure non mi aveva amato abbastanza da dirmi della gravidanza. Anche per lei, i miei ideali da Templare valevano più del mio amore per lei. Oltre a tutte le barriere di tipo culturale che c’erano tra di noi, si stagliava anche quella dell’ideologia. Lei Assassina, io Templare.
E nonostante tutto, l’amavo.
Connor sospirò. – So che è una domanda stupida, James – sussurrò con una mano sugli occhi. – Eppure non riesco a pensare a che razza di mostro sia.
Ah, ecco cos’ero per lui. Un mostro. – Smettila, Connor – bofonchiò Smith senza convinzione. – Achille in fondo si fida di lui. E non sta a te giudicarlo.
Sentii la sua voce diventare più tesa mentre esclamava: - È mio padre! Come sarebbe a dire che non sta a me giudicarlo? – Tremai appena. Non ero un mostro. Non era colpa mia se Tiio era morta. Non del tutto. – Mi ha abbandonato – il suo tono era più basso, quasi un ringhio.

- Avrete tutto il tempo per parlarne, Connor – disse Smith. Cercava di mantenere la calma. – Dopo ti addestrerai con lui.
- Per sentirmi rinfacciare cose che non posso cambiare? No, grazie.
Trasalii. Se voleva la guerra, be’, l’avrebbe avuta.
Cocciuto.
Corressi quella vocetta interiore. Tenace.
Non avrei mostrato alcuna pietà. Nessuna clemenza.
In fondo è così che combatte un Templare.
È così che combatte un mostro, avrebbe detto mio figlio.
Rimasi in ascolto. – Forza, Connor. Basta. Abbiamo un programma da rispettare – disse James, ricominciando a leggere il libro. Arrivarono al famoso punto di Ulisse e del cavallo di Troia, una metafora che avevo usato anche con i miei pupilli, molto tempo prima. Quando avevo conosciuto Tiio.
Connor scoppiò a ridere sottovoce, amaramente. – Lui è come quel cavallo – brontolò. Ancora una volta, si rivolgeva a me. – Un Templare infiltrato tra gli Assassini.
Smith sbuffò. – Ora è dalla nostra parte – sussurrò.

- Sempre un Templare resta.
Anche nella mente di James risuonarono le parole di Reginald, le parole con cui io stesso mi ero definito. – Lui è diverso, Connor.
- Ha provato ad ammazzarti per puro divertimento! – sbottò il ragazzo, ricordando il mio primo incontro con James. – È un comportamento da bestie.
- Era solo un gioco – sussurrò Smith, confuso.
Il ragazzo grugnì per la frustrazione. – Lasciamo perdere.
James sospirò. – Dovrai imparare a fidarti di lui – replicò. – Devi giurarmi che ci proverai.
Schioccò la lingua in segno di disapprovazione. – Non ancora – mormorò tra i denti. – Andiamo. Continuiamo la lezione.
Mi bastò. Lentamente strisciai di nuovo verso la porta, togliendomi gli stivali per non lasciare tracce sul pavimento, e salii in camera senza il minimo rumore.
Gliel’avrei fatta vedere io, a quell’idiota.
 
Il pranzo fu… imbarazzante.
Poche parole. Fredde. Quelle indispensabili.
Naturalmente feci finta di nulla, commentando come al solito. – Gli hai insegnato Storia o meditazione? – chiesi a James, indicando Connor con la forchetta. – Ha aperto bocca solo per mangiare. E, francamente, visto che c’era poteva non farlo. Questa roba è uno schifo.
James roteò gli occhi. – Cucina tu la prossima volta, gentleman – sbottò un po’ stizzito. – Comunque abbiamo avuto una mattinata difficile. La tua com’è stata?
Scrollai le spalle. – Illuminante. Ho scoperto che le scale che portano di sopra sono composte da ben ventiquattro gradini! – ironizzai. – Non è grandioso? Insomma, per tutta la vita pensavamo di aver scoperto tracce di Coloro Che Vennero Prima ma, diavolo!, questo è mille volte meglio!
Connor sbuffò. – Giunone – sussurrò tra i denti.
Avevo già sentito quel nome. L’avevo letto nel libro che Reginald mi aveva affidato. Giunone, Minerva e Giove, la Triade Capitolina. La Prima Civilizzazione. – Che vuoi dire, Connor? – chiese James, un po’ sorpreso.
Ingurgitai un boccone di quello che doveva essere stufato – ebbi paura a chiederne la ricetta – senza degnare il ragazzo di uno sguardo. Francamente, sapevo già troppo su Coloro Che Vennero Prima, e quei discorsi mi ricordavano Reginald e la sua fissazione. Qualunque cosa il ragazzo sapesse, be’, non poteva essere più interessante del gorgoglio del mio stomaco, in quel momento.

- Io… mi ha parlato – sussurrò Connor.
Evidentemente mi sbagliavo, perché il boccone mi andò di traverso e James dovette battere un paio di colpi sulla mia schiena per farmi ricominciare a respirare. Connor aveva lo sguardo puntato verso il tavolo con imbarazzo, come se avesse confessato qualcosa di tremendo. Quando Smith si accertò che avessi ripreso a respirare lo spinsi via con una mano, imprecando a mezza voce, e lui si rivolse di nuovo al ragazzo con aria preoccupata. – E che cosa ti ha detto?
Mio figlio si passò una mano sugli occhi. – Ero in un luogo strano. Ha detto che si chiamava Nexus. L’ha detto lei – la sua voce si stava trasformando in un borbottio indistinto. – Giunone. Come una cupola di luce, sprigionata da quella cosa.
Ecco, per poco non mi strozzai di nuovo. – Cosa?
Dio, stavo tremando per l’eccitazione. Ogni pelo del mio corpo era rizzato, l’aria era diventata piena di elettricità e il mio cuore batteva all’impazzata. Oh, cielo, non mi sentivo così felice da secoli. Connor mi lanciò una strana occhiata.
E io capii.

- Niente – si affrettò a ribattere. – Non era niente.
Sul momento mi venne da ridacchiare, ma mi trattenni. L’ingenuo bambino mi aveva appena svelato tutto ciò che volevo sapere.
Quella cosa era ciò che tutti, Assassini e Templari, bramavamo. Noi le volevamo per il potere, loro…
Gli Assassini dicevano di volerle nascondere da noi e dalla nostra fame. Ma i manufatti non danno solo potere. Danno conoscenza. Sapere. E gli Assassini sono esseri umani. Sono deboli e fragili. Perciò sapevamo tutti che anche gli Assassini, in cuor loro, volevano utilizzare i manufatti per scopi personali. Ne avevo sentito parlare nel libretto che Reginald mi aveva dato. Li chiamavano Frutti dell’Eden. Alcuni li avevano definiti Mele. E sapevo che non ce n’era uno solo in tutto il mondo.
Quindi l’Assassino ne aveva una.
Strinsi i pugni.
Avrei aspettato.
Dovevo aspettare. Farlo lì, davanti all’Assassino, sarebbe stato un biglietto di sola andata per delle corde alle caviglie. E, francamente, non ci tenevo.
Deglutii a fatica, riportando lo sguardo sul piatto.
Sta’ calmo, Haytham. Avrai la tua occasione.
 
E sapevo anche quando l’avrei avuta.
Quel pomeriggio io e Connor eravamo nella cantina sotto la villa a tirare di spada. Mi mostrai clemente con il ragazzo, anche se per poco. Gli lasciai credere di essere caduto nelle sue stupide finte male architettate, da bambino, solo per schivarlo e dargli stoccata con più forza. Volevo fargli credere di essere più forte.
E quando gli puntai la lama alla gola capii di avere l’occasione davanti ai miei occhi.
Gli torsi il braccio della spada dietro la schiena, facendo cadere l’arma a terra con un tintinnio. Anche io lasciai cadere la spada, la lama celata che sfiorava la sua trachea.
Il suo corpo tremava.
Io sogghignavo apertamente. – Dov’è, ragazzo? – sibilai nel suo orecchio, la voce fremente dall’impazienza.
Ebbe la forza di rispondere a tono. Si divincolò. – Ti ho già detto di non chiamarmi così – gemette tra i denti.
Avvicinai la lama alla pelle del collo e lo vidi ringhiare. – Non puoi uccidermi – sussurrò. – Achille e James non lo permetterebbero mai.
Non mi faceva alcuna pietà. Era poco più di uno sconosciuto, per me. Non era mio figlio, era solo… un ragazzo. Non lo avrei mai amato come avevo amato sua madre. Non aveva speranze. – Potrei uccidere anche loro – risposi – e di te non rimarrebbe alcuna traccia – si divincolò ancora. – Forza. Dimmi dove si trova.

- Non so di cosa tu stia parlando – replicò. Tenace. Forse quel lato l’aveva preso da me. O da sua madre, nemmeno lei era una debole.
Sorrisi. – Immagino che il tuo maestro ti abbia parlato dei Frutti dell’Eden – sussurrai. Ero davvero pronto ad ucciderlo. – È stato quell’oggetto a farti vedere Giunone, giusto? Dov’è?
- Non lo so – ringhiò. – E anche se lo sapessi, non te lo direi.
Ridacchiai. – Tu lo sai benissimo, Connor – dissi a voce bassa. – È stata la Mela a condurti qui, vero?
Ringhiò ancora. Centro perfetto.
Subito compresi dove si trovava il Frutto dell’Eden. Mi girai di scatto e lo sbattei al muro, la punta della lama sotto il suo mento. – Tu non rivelerai nulla ai tuoi piccoli amici Assassini – lo minacciai. – Se dovessi mettermi in pericolo, ti ucciderò. Se solo oserai farne parola con Achille…
Ancora, cercò di divincolarsi. Lo sbattei nuovamente contro la parete. I suoi occhi si socchiusero. – Tu lo vuoi per gli scopi dei Templari. Non devi averlo.
Ci pensai un secondo.
Lo volevo davvero per la conquista del mondo come gli altri? Non lo so. Forse, più che altro mi interessavano le risposte: quel manufatto era stato l’unico punto di contatto tra Assassini e Templari. Entrambi lo volevano, lo bramavano. Se c’era qualcosa che avrebbe potuto dirmi se era possibile l’unione che tanto desideravo, era proprio la Mela. Sospirai, pensando che semmai l’avessi detto al ragazzo, probabilmente mi avrebbe preso per un idiota.
Avevo tra le mie mani qualcosa di maledettamente potente. Un quattordicenne, uno stupido quattordicenne, che si lasciava sfuggire dettagli di vitale importanza. Potevo avere la risposta, ma se l’avessi lasciato andare…
Addio Frutto dell’Eden e addio collaborazione con gli Assassini.
Con la polsiera menai un potente colpo sulla sua nuca. I suoi occhi rotearono all’indietro e mugolò qualcosa, un insulto, probabilmente. Svenuto.
Lo lasciai cadere a terra e raccolsi delle cinghie di cuoio per legarlo ai polsi e alle caviglie, poi, con una cintura più spessa, collegai mani e piedi, in modo da poterlo portare a spalla. Infilai altre cinghie nelle tasche della giubba e imbavagliai Connor.
Poi spalancai la finestrella, la stessa dalla quale avevo origliato la conversazione di Connor e James Smith, e spinsi il ragazzo svenuto sulla neve: fu abbastanza faticoso, dato che era un peso morto. Dopodiché uscii anch’io e mi caricai Connor sulle spalle, camminando velocemente e silenziosamente verso la foresta.
Ah, l’azione. 

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Capitolo 7
*** Farsi nuovi amici. ***


Non incontrammo – o forse dovrei dire non incontrai, perché Connor era svenuto – giubbe rosse lungo la strada. Quando arrivammo ad una parte del bosco molto fitta creai una carrucola improvvisata: collegai una corda alla cinghia e la feci passare sopra il ramo di un albero, fino a terra, e presi a tirare.
Lasciai il ragazzo appollaiato precariamente su un albero e mi arrampicai anche io; legai i suoi piedi con una spessa corda al ramo su cui eravamo seduti. Se avesse provato a muoversi, si sarebbe trovato a testa in giù.
Alla mia cintura erano appese anche le sue armi, l’accetta – il tomahawk – e la spada lunga con cui si “batteva” – è davvero un’esagerazione. Lui non si batteva, arrancava dietro i miei colpi.
Come ho già detto, ho sempre ammesso di essere abile in maniera di morte.
Eppure, non so, il combattimento ha sempre quel pizzico di pepe in più rispetto alla morte e basta. Che morte è senza prima un bel combattimento? Io non vorrei mai morire senza combattere.
Decisi di tornare alla tenuta – con molta attenzione – e di compiere un ultimo, stupido furto. Niente che lasciasse troppo la mia impronta, ovvio. Avevo visto quello scrigno tante volte, in cantina, sopra una scrivania – quella addossata alla parete coperta dai ritratti dei Templari. Mi intrufolai di nuovo dalla finestra e trovai la cantina vuota.
In un angolo – sorpresa! – ritrovai i miei vestiti, lavati. Li infilai nella vecchia borsa di pelle che avevo a tracolla, per poi avvicinarmi allo scrigno, scassinandolo con mano leggera. Dentro, due lame celate, che sapevo essere lì perché Achille ne parlava spesso. In quello scrigno ci sono oggetti che solo un Assassino addestrato può utilizzare…
Le presi e richiusi lo scrigno delicatamente, schizzando di nuovo fuori.
Lungo la strada, mi fermai a pensare.
Perché?
Perché avevo preso quelle armi?
Volevo renderlo un Assassino? Volevo renderlo ciò che sarei stato io se avessi mai seguito le orme di mio padre? Allora ero un idiota, perché lui non era me. Per Haytham Kenway c’era una sola strada, l’unica strada percorribile per un ragazzo cresciuto con il disprezzo della sorella maggiore, per un bambino costretto ad uccidere a dieci anni e a vedere il padre morire davanti ai suoi occhi. Non avevo mai avuto molte possibilità. Quando cresci con questo, con quest’incredibile cinismo dentro per aver visto tanti tradimenti, tante morti, troppe armi e troppo sangue, non puoi diventare un Assassino, perché gli Assassini hanno speranza – spesso la chiamo idiozia. Credono che il popolo sappia cosa fare con la libertà. Non è così! E non lo capiranno mai.
Tutti hanno bisogno di una guida.
Davvero?
Certo. Io avevo avuto mio padre. Avevo avuto Reginald.
Eppure stavo andando avanti da solo.
Contro gli Assassini. Contro i Templari. Senza nessuno che mi dicesse cosa fare.
No.
Non dovevo farmi prendere dalle farneticazioni. Era vero, non stavo obbedendo a nessuno, ma i Templari – o ero io? – non volevano controllare completamente la vita delle persone. Volevamo solo un capo solido al comando.
E, posso essere sincero?, nonostante tutto ero sempre stato certo che Charles sarebbe stato meglio di Washington. Nonostante Charles si fosse rivoltato contro di me. Contro il suo stesso maestro.
Eccolo. Come me. Aveva rinnegato la sua guida.
Per fortuna interruppi quei pensieri, scoppiando in una fragorosa risata quando vidi il ragazzo penzolare a testa in giù dall’albero sul quale l’avevo lasciato. – Dovresti vederti! – sbottai, guardandolo con scherno. – Pensavi davvero che ti avrei lasciato lì, ragazzo?
Gemette qualcosa, probabilmente il suo solito “non chiamarmi ragazzo!” oppure qualche bell’insulto. Ci sarebbe stato bene. Ridacchiai e lo raggiunsi sull’albero, tirandolo su.
Cazzo!
Non avevo rubato del cibo. Troppo pericoloso. Ringraziai Tiio per avermi insegnato, anni prima, a cacciare. Potevo accoppare animali alle spalle con la lama celata. E probabilmente anche il ragazzo sapeva fare qualcosa, insomma, era un maledetto nativo!
Quando mi sedetti accanto a lui tolsi lentamente la benda dalla sua bocca e ci mancò poco che mi mordesse un dito. Dico la verità: gli avrei dato uno schiaffo senza pensarci due volte se solo avesse provato a mordermi. – Sei uno stronzo – ringhiò. Sembrava calmo, ma cercava solo di non muoversi troppo per non ritrovarsi di nuovo capovolto.
Ridacchiai. – Oh, ragazzo, non è assolutamente vero! – sbottai con una mano sul cuore. – Io sono una brava signorina inglese.
Se l’avessi detto davanti a Jenny, probabilmente mi avrebbe guardato con tutto il suo disprezzo accumulato in un’unica, significativa occhiata. Connor roteò gli occhi. – Vuoi quella… cosa solo per il suo potere, vero? È per questo che mi hai rapito.
Scrollai le spalle. – La vogliono anche gli Assassini. È così. È sempre stato così.
- Io voglio solo che la Corona ci lasci in pace – ringhiò il ragazzino. – E per questo non serve il manufatto.
Sospirai. Perché gli Assassini parlavano della Mela come se fosse un tabù? Assurdo. – Si chiama Frutto dell’Eden – sibilai. – E comunque mi sembra strano che Achille non ti abbia spiegato il loro uso.
- So a cosa serve! – sbottò. Gli diedi una spinta e lo lasciai penzolare dall’albero. Sì, lo so, sono il padre migliore del mondo.
Non ho mai detto di esserlo.
Lo guardai mentre il suo volto arrossiva e cercava di darsi la spinta per tornare sul ramo. – Prima di tutto fa’ silenzio – dissi, sfoderando la lama celata con un clic. – Posso tagliare questi stupidi legacci e lasciarti qui con le ossa rotte, in pasto ai lupi. Non mi fai pietà, ragazzino. E per secondo, be’, tu non sai a cosa serve, altrimenti non mi parleresti così. Credi di sapere per che cosa la userò, ma non lo sai.
Lui ringhiò, ormai paonazzo. – Tirami su! – esclamò. Sembrava quasi… spaventato. Lo lasciai lì ancora un po’, poi lo tirai di nuovo sul ramo.
- Sai che posso ucciderti, ragazzo – sibilai. – Quindi dobbiamo fare un patto.
Ridacchiò, ancora rosso in viso. – Io non scendo a patti con uno stronzo Templare come te – ringhiò.
Feci spallucce. – Benissimo. Allora ti porterò a spalla legato ed imbavagliato. Lo dicevo per la tua comodità – brontolai, come se non fosse importante. Mi resi conto di quanto il mio patto fosse simile a quello che mi avevano proposto gli Assassini. – Almeno ascoltami.
Connor sbuffò. – E perché dovrei? – chiese. Sembrava sincero. – Hai ucciso mia madre. Il tuo diretto sottomesso è venuto a minacciarmi perché gli dicessi dov’era il villaggio.
Mi passai una mano sugli occhi. – Non è il momento di giocare a scaricabarile, e quando Charles ti ha minacciato io non ero in America. Non era un mio ordine. E inoltre ti ho già detto che è stato George Washington a dare alle fiamme il tuo villaggio – spiegai con una certa impazienza. – Anche se so che per te non ha importanza.
- Quindi mia madre era ancora viva? – sgranò gli occhi.
Lì per lì non seppi cosa dirgli che cosa dirgli.
Ma dovevo portarlo dalla mia parte. E con le bugie non avrei mai ottenuto niente. E, merda!, avevo convissuto con le bugie per tutta la mia vita. Non potevo trattare così anche mio figlio. Mio padre era sempre stato sincero con me.
Presi fiato. – L’hanno presa i Templari.
S’irrigidì, interrompendomi. – L’hai catturata? – ringhiò guardandomi con puro odio.
- No! – sbottai con le mani alzate. – Non avrei mai potuto! L’hanno usata come esca. Io sono tornato qui per controllare come procedeva il lavoro dei Templari e…
Assunse uno strano sorrisetto. Il sorrisetto dei Kenway. – Il tempio, giusto? – rispose. Allora Achille gli aveva detto qualcosa!
Sorrisi anche io. – Il Grande Tempio. Ma non è quello il punto. Stavo cercando tua madre e quando l’ho trovata, be’, lei sembrava strana.
Gli raccontai il mio ultimo incontro con sua madre. I Templari sbucati fuori dal nulla, le mie assurde parole – sì, tenni per me la parte relativa al mio voler stare con lui: dopo averlo conosciuto, be’, non ero poi così sicuro di voler vederlo crescere – e le minacce degli altri. Il mio “tradimento”, se così si può chiamare. L’impiccagione mancata per un soffio. E poi, be’, il resto lo sappiamo tutti.
Quando finii, mi guardò con una strana compassione. – Ti sei quasi fatto impiccare… per mia madre? – chiese. Lo immaginai diviso tra il picchiarmi e l’abbracciarmi, nonostante fosse bloccato dalle corde che lo costringevano.
Immaginavo e basta, come al solito.
- Sei un bugiardo, Haytham – ringhiò il mio nome come un’imprecazione. – Tu non amavi mia madre.
Ancora con questa storia. – Ragazzo, credi ciò che vuoi. Non mi metterò a discutere con te! – sbottai, guardandolo in cagnesco. – Vado a cacciare.
Ridacchiò. – Tu non sai cacciare!
Fui davvero sul punto di dargli uno schiaffo. O ucciderlo. La seconda mi attirava di più. – Credi che io e tua madre passassimo tutto il tempo in una tenda a progettare la nascita di un piccolo mezzosangue rompicoglioni? – abbaiai. Non speravo di ferirlo: parlavo con rabbia, ma dicevo la verità. – Vado. Buona permanenza, ragazzo.
E scesi dall’albero, lasciandolo lì a divincolarsi e, speravo, a riflettere.
 
Avrei dovuto smettere di sperare. È tipico degli Assassini. Ma era anche tipicamente da me. Ero disilluso, d’accordo, ma non perdevo la speranza fin quando non vedevo la realtà sbattermi contro gli occhi. E per quanto riguarda Connor, be’, non mi ero ancora arreso.
Tornai all’albero con un paio di conigli alla cintura, le pelli nella borsa, dopo aver evitato per un soffio una truppa di giubbe rosse che attraversava quell’area con i tamburi che battevano con violenza.
Non mi cercavano. Se tra loro ci fosse stato un Templare avrebbero fatto più attenzione. Comunque li evitai, per sicurezza. Non mi andava di finire nei guai. Con Charles posto appena sotto Washington non era una cosa buona farsi trovare in mezzo ad una foresta con l’anello dei Templari e le vesti degli Assassini. Mi avrebbero subito portato da lui.
Il ragazzo non era a testa in giù, per fortuna. Non avevo voglia di tirarlo su per l’ennesima volta. Accesi un piccolo fuoco per terra, arrostendo della carne, e dopo aver mangiato gliene portai un po’, senza parlare. Ficcargli quei pezzi di carne in bocca mi faceva sentire uno stupido, ma lo feci comunque.
Scesi di nuovo e mi rimisi i miei vestiti. – Oh, Gesù, molto meglio – mormorai. Come ho già detto, niente è meglio della vecchia sartoria inglese. Ripiegai i vestiti da Assassino e li infilai nella borsa, salendo sull’albero – quella pratica cominciava a stancarmi – per fare un po’ di compagnia a mio figlio.
A dire il vero, volevo sapere se qualcosa era cambiato.
Presi fiato, incerto. – Allora, ragazzo? Credi ancora che sia colpa mia? – sussurrai senza guardarlo negli occhi.
- Sì – borbottò. Niente da dire, lo credevo anche io. – Se avessi davvero amato mia madre non l’avresti abbandonata.
Oh, cielo, ci risiamo con questa cosa della madre e dell’abbandono. Per quanto mi faccia sembrare un povero idiota, è lei che mi ha lasciato!
Una vocetta nel mio cervello strillava in mia difesa. – Non si tratta di tua madre o di te – dissi, voltandomi finalmente a guardarlo. – Si tratta di me. So di essere un Templare e so che non ti fidi di me, ma, credimi, non voglio quella Mela per il dominio del mondo.
Mi scoccò un’occhiata interrogativa. – Mela?
- Il Frutto dell’Eden – mi corressi. – Facciamo questo maledetto patto.
Dovetti prendere di nuovo fiato. Non ero pronto per quel giuramento. – Ti slegherò se giurerai di condurmi al Frutto dell’Eden senza dire niente agli Assassini e senza scappare – mormorai con tono solenne. – E io giuro di non usare il manufatto per il controllo dell’universo.
Scosse la testa. – E se non lo facessi?
Mi costò tanto dire quell’unica parola.
- Uccidimi. 

Sospirai con violenza. Non era stato facile, per niente. Ma era tutto ciò che potevo fare. – Che cosa farai con la Mela? – chiese Connor senza guardarmi.
M’irrigidii. – Affari miei, ragazzo – sussurrai e allungai la lama celata per slegargli i nodi che stringevano i suoi polsi. Cominciò ad aprire e stringere i pugni come se non lo facesse da secoli. – Allora, ci stai?
Gli porsi la mano. Fasciato nella mia redingote, con il cappello e la camicia, stavo porgendo la mano ad un quattordicenne in abiti da indiano, con il simbolo degli Assassini tatuato nel cervello.
Tremando, si avvicinò e me la stinse. – Ci sto.
 
Niente campane.
Niente strane sensazioni.
Niente. Era solo la sua mano stretta alla mia. Eppure era un giuramento molto più solenne di quanto potesse sembrarmi all’inizio. C’era in ballo la mia vita.   
Scrollai il capo. – Bene – mormorai. – Ricorda che hai giurato, Ratonhnhaké:ton.
Sorrise. – Ricordalo anche tu, Haytham.
- Io non ho giurato di ucciderti.
- Ma lo faresti, se infrangessi il giuramento.
Sorrisi.
In fondo, mi conosceva almeno un po’.
Ehi, era pur sempre mio figlio.
 
Lo slegai velocemente, permettendogli di scendere dall’albero e sgranchirsi le gambe. Mi guardò come se mi vedesse per la prima volta. – Ti sei cambiato – osservò. Non se n’era ancora accorto?
Lanciai uno sguardo alla mia redingote con un sorrisetto. – Mi sento più a mio agio.
Fece spallucce e si mise le mani in tasca. – Allora? Cos’hai intenzione di fare? – chiese. Sembrava non fidarsi comunque di me.
Sollevai lo sguardo, osservando gli alberi e la vegetazione intorno a noi. – Chi ha la Mela?
- I saggi. Nel mio villaggio – ammise. Aveva giurato. – Non è esattamente vicino.
Scrollai le spalle. Ero abituato a viaggiare, dopo tutte le missioni che avevo svolto per i Templari. – Quindi… tu l’hai usata.
Lo vidi abbassare velocemente lo sguardo e avvampare. Non voleva parlarne, ma non mi importava. Avevo bisogno di sapere. – Che cosa ti ha detto Giunone? – chiesi senza tante cerimonie. Che Reginald sia maledetto. Se lui non mi avesse fatto appassionare ai Precursori non avrei mai mostrato tanto interesse. Magari sarei persino rimasto lì, con Connor e James. Invece no. Quell’uomo ha decisamente rovinato la mia vita.
Connor sospirò. – Mi ha detto… - strinse i pugni - che se non fossi diventato un Assassino, voi sareste arrivati a ciò che cercate.
Aggrottai la fronte. – Alla Mela?
- No – replicò il ragazzo. – Al Grande Tempio. E da lì sarebbe stata una rovina per l’intera umanità.
Imprecai, affondando le mani nelle tasche. – E la chiave ce l’hanno loro.
- La chiave?
Gli raccontai della chiave, quella specie di ciondolo che avevo rubato a Miko, a teatro. Quando l’avevo ucciso. E ora era nelle mani dei Templari. – Non fa parte dei miei piani – sibilai.
Il ragazzo assunse un’aria seria. – Ma io devo trovarla, Haytham – mormorò, guardandomi con quegli occhi profondi che mi ricordavano tanto sua madre. – Altrimenti sarà la fine.
Ci pensai su. Di certo l’aveva Reginald, era lui quello più interessato al Grande Tempio.
E ricordai. – Ci abbiamo già provato. Ad entrare nel Tempio, intendo.
Il ragazzo saltò su di scatto. – Che cosa?
Sospirai. – C’era un avvallamento nella parete. Pensavamo servisse per la chiave… o almeno, lo pensavo – ricordavo bene quel momento. Il giorno in cui avevo dato il primo bacio a sua madre. Il momento esatto in cui avevo capito di amarla. O forse l’avevo capito quando era già morta? Non sono mai stato un uomo cui il tempismo girasse a favore. – Ora cercheranno la Mela.
- Perché? – sussurrò Connor. La sua voce sembrava un’implorazione. Sembrava chiedermi pietà, sembrava volesse implorarmi di mettere fine a questa sporca guerra eterna.
Ridacchiai appena. – Avevi detto di saperlo. Per il suo potere – bofonchiai. – Se la Mela è invincibile, può aprire anche quella porta.
Lui non imprecò. Non si infuriò. Si prese solo la testa tra le mani, come un bambino. – Dobbiamo andare! – sbottò, guardandomi con gli occhi pieni di lacrime.
- Al tuo villaggio. Lo so – sussurrai. – Forza.
Mi guardò con gli occhi sgranati. – Forza? Come puoi dirmi così? Non possono bruciare di nuovo il mio villaggio! Tu… - i suoi occhi si riempirono di disprezzo. – Tu non ne sai nulla! Tu non hai mai perso la tua casa, la tua famiglia! Sei cresciuto da bravo inglese, non è così?
Abbozzai un sorriso, mi portai le mani dietro la schiena e, con il mio tono più calmo, dissi: - Quando avevo dieci anni, un gruppo di mercenari ha dato fuoco alla mia casa, ucciso mio padre e rapito mia sorella. Mio padre era un Assassino, e il suo amico di famiglia Reginald Birch mi portò via da casa, con sé, per un viaggio. Mi insegnò i principi dei Templari. E mi crebbe, in un certo senso, con il cuore colmo di astio verso gli assassini di mio padre – sospirai. – Il tutto per scoprire che era stato lui ad inviare quei mercenari. E sai perché, ragazzo? Reginald voleva un libro. Un libro che raccontava di Coloro Che Vennero Prima, questa strana civiltà che ha creato la Mela e il Grande Tempio – lo guardai. Aveva gli occhi colmi di lacrime che, in qualche modo, non riuscivano a scendere lungo le guance. – Un’infanzia da favola, vero?
Singhiozzò, ma non pianse. – L’ha ucciso perché era un Assassino.
- L’ha ucciso perché voleva il Grande Tempio. Nient’altro – sussurrai. – Il suo essere un Assassino era solo un ulteriore intralcio. Se fosse stato un Templare…
- Se tu fossi stato un Assassino… - scrollò il capo. – Forse sarebbe andato tutto in un altro modo, non credi?
Sospirai. – Me lo chiedo quasi ogni giorno.
Perché? Perché gliel’avevo confessato in quel modo? Perché? Era una mia grande debolezza. Pensavo troppo, e soprattutto mi ponevo troppe domande. Che cosa sarebbe successo se…? Ogni santo giorno avevo nuove domande. E quasi mai nuove risposte.
Aprii la borsa a tracolla quasi con solennità, tirandone fuori le lame celate. Alzai lo sguardo al cielo, velato di nuvole e blu chiaro. Era quasi notte. – Forza, mettiti queste – brontolai cedendogli le lame. – Io accendo il fuoco.
Prese le polsiere tra le mani come se gli avessi appena donato il mondo. – Cosa? – mi guardò con sospetto. – Le hai rubate, vero?
Tastai le tasche della redingote per trovare dei fiammiferi. – Sei un Assassino, dopotutto, no? – esclamai con un sorrisetto.
Se le infilò. – Allora dammi anche le vesti, già che ci sei.
Scrollai le spalle. – Sono troppo grandi. Ancora qualche anno – brontolai. Esultai tra me quando finalmente trovai i fiammiferi, accumulando un po’ di legna secca. – Allora, ragazzo, che ne dici di inaugurarle facendo il primo turno di guardia?
Aggrottò la fronte. – Cosa?
- Sì, io me ne vado sull’albero. Svegliami tra un po’, capito? Ci vediamo.
Mi arrampicai di nuovo, acciambellandomi sul ramo senza fatica. Non ero giovane, d’accordo, ma nemmeno vecchio. Avevo ancora parecchia energia.
Per qualche minuto lo guardai dall’alto, perso nei miei pensieri. Qualcosa mi diceva che lui, al contrario di me, mantenesse sempre le sue promesse.
Tra l’altro, non era solo figlio mio. Non era me.
Sorrisi, osservandolo dall’alto, e sospirai, sperando di non svegliarmi con una lama alla gola.
 
Non mi andò poi molto meglio.
Mio figlio mi svegliò tirandomi un sassolino in piena faccia. – Ahi! Ma porca… - mi alzai imprecando e lo vidi lì, sotto di me, con l’aria seria. – Già il mio turno? Che ore sono?
Scrollò le spalle. – Sei tu l’inglese. Non hai… un orologio da taschino o qualcosa del genere? – brontolò. – So solo di essere stanco morto, quindi scendi e cerca di non farci uccidere.
Sorrisi. – Allora non ti fidi per niente di me – replicai. – Io so usare le armi che porto alla cintura.
Non ebbe il coraggio di replicare, sapendo che non sarebbe mai riuscito a tirare di spada come facevo io. Semplicemente aspettò e non appena scesi si arrampicò come un fulmine sul ramo, la schiena contro il tronco e gli occhi semichiusi.
Lo guardai, scocciato. Se avessi avuto un orologio da taschino… Uffa.
Mi sedetti accanto al fuoco, giocherellando con le armi: controllai il caricatore della pistola, frugai in tasca alla ricerca dei proiettili e cominciai a sfoderare la lama celata ad intervalli regolari, come un tic nervoso. Fare la guardia può essere molto, molto scocciante.
Chissà quant’era lontano il villaggio di Connor. Di Tiio. E perché non era mai tornata a casa? Perché non era mai tornata da suo figlio? Non sapeva dove si fossero spostati? Non voleva riunirsi a lui? Non le mancava? O forse i Templari l’avevano già catturata? Forse, quando il villaggio era stato dato alle fiamme erano andati lì a cercare la Mela e… l’avevano trovata.
Il solo pensiero mi dava i brividi. E se c’è qualcosa che un uomo teme, be’, è la paura stessa.
Ero completamente assorto dai miei pensieri e la nottata si stava facendo noiosa, quando un rumore attirò la mia attenzione.
Un rumore accidentale, prodotto da qualcuno che non intendeva essere scoperto. Scattai in piedi, sguainando la spada. – Chi è là?
Non ottenni risposta. Deglutii lentamente. Fa che non sia Charles. O Reginald. Presi lentamente fiato e attesi, pronto a captare qualunque, minuscolo rumore e scattare. Il crack di un ramo spezzato.
Non erano i miei. Io li avevo addestrati bene. E Reginald… non era nel suo stile farsi scoprire in quel modo. Lui sarebbe piombato al nostro accampamento improvvisato su un destriero purosangue, con la redingote pulita e i capelli lavati di fresco. Ci teneva ad essere sempre pronto, sempre attento all’etichetta.
E poi, un uomo sbucò rumorosamente da un cespuglio, il moschetto puntato contro di me e la divisa… la divisa dell’esercito britannico addosso. Era una giubba rossa. – Chi sei? – chiesi, la spada sollevata.
Il moschetto tremò tra le braccia del soldato. Sarà stato di qualche anno più grande di Connor, ma la sua voce tremava come quella di un bambino. – Sta’ indietro! – sbottò. – O ti sparo!
Con un sorriso, sfoderai la pistola e gliela puntai contro. – Direi che sei più in pericolo tu, ragazzo.
Sbiancò. Aveva le guance incavate, come se non vedesse cibo da settimane. Ero chiaramente in vantaggio. Ero più in forze, sapevo combattere sicuramente meglio e avevo più pallottole a disposizione. Avrei potuto ucciderlo in mezzo secondo.
Infatti, l’idiota sparò e mi limitai a fare tre passi di lato. Aveva sprecato la sua unica occasione di uccidermi. – Ben fatto – dissi, guardandolo storto. – Ora, se hai finito di sprecare pallottole, dimmi che cosa vuoi.
Abbassò il moschetto, guardandomi da sotto la testa del cappello. Sembrava molto impaurito e… malinconico. – Cibo – sussurrò. – Datemi del cibo.
Allungò una mano verso la mia borsa, ma gli puntai velocemente la spada al petto. – Attento – sibilai. – Sei un soldato britannico?
Mi guardò con sorpresa, poi abbassò lo sguardo sulla divisa e si diede uno schiaffo sulla fronte. Era davvero così stupido da dimenticare ciò che indossava? – Oh, assolutamente no. Sono un mercenario – disse con un sorriso tirato. – Chet Byrnes – mormorò porgendomi la mano.
Il termine mercenario mi fece accapponare la pelle. Non gli strinsi la mano. – E perché un’uniforme dell’esercito inglese?
Scrollò le spalle. – Mi hanno assoldato per aiutarli in un certo lavoro, ma quando ho capito che era qualcosa di grosso me la sono data a gambe. Era qualcosa che avrebbe potuto farmi secco! – si avvicinò a me con fare cospiratore. – La cattura di un tipo leggendario. Se ne sentiva molto parlare, a Boston, anni fa.
Aggrottai la fronte. – Chi? Chi ti ha assoldato? – esclamai, cercando di non alzare troppo la voce. Non volevo Connor tra i piedi. – E soprattutto, chi dovevi catturare?
Inarcò un sopracciglio, come se cercasse di ricordare qualcosa di molto distante. – Mi ha assoldato Lee, ovviamente – mormorò, guardandomi senza alcun sospetto. – E l’uomo… perdio, come si chiamava? Ci sono! – si colpì la tempia con l’indice. – Adesso ricordo! Kenway. Mi hanno detto si chiamasse Kenway.
Sbiancai.
Quindi Charles e gli altri mi volevano davvero catturare. E se fosse stata una trappola? Guardai il ragazzo. – Non hai intenzione di tornare nell’esercito?
Sospirò. – No. Me la cavo nel combattimento, ma non in queste cose. Si capiva subito che Lee lo voleva morto, quel Kenway. Non volevo immischiarmi e sono scappato dalla truppa.
- Una truppa? – Un’intera truppa mi stava cercando? Mi passai una mano sugli occhi. – Senti, ti do un po’ di cibo, poi vattene.
Alzò le spalle. – Nessun problema – bofonchiò. Gli scaricai un po’ di carne e una pelle, per fargliela vendere. Le prese con un sorrisone sul volto, tentato di mangiare la carne cruda, e fu in quel momento che mi fece pena.
- Chet – sussurrai – torna a casa. Per favore.
- Casa… in Inghilterra?
Sbuffai. – Una casa qualsiasi. Ma non immischiarti negli affari delle giubbe rosse.
Sfoderò un sorrisetto scaltro che non gli avevo mai visto sul viso. – Allora avevano ragione sul tuo conto, Kenway.
Prima che potessi reagire lasciò cadere la carne, sollevò il moschetto e mi puntò la baionetta contro. Balzai indietro sfoderando di nuovo la spada, pronto a combattere. Che razza di bastardo!
Il viaggio doveva averlo davvero sfiancato, perché non sembrava in forma: la vecchia baionetta arrugginita non mi sfiorò nemmeno, perché lo colpii direttamente al braccio, affondando la spada nella carne. Il moschetto gli cadde di mano e imprecò, tentando di sfilare l’arma dall’arto. – Sei un maledetto figlio di puttana, Kenway – sussurrò. Aveva le lacrime agli occhi per il dolore, avevo trapassato il suo braccio da parte a parte.
Scrollai le spalle. – Anche tu non scherzi, Byrnes – replicai, raccogliendo il moschetto scarico. – Ringrazia che non ti ho ucciso.
Stringendo i denti e ignorandomi, Chet riuscì a tirare fuori la spada. Me la lanciò contro con sdegno, urlando. Gli misi una mano sulla bocca. – Buon Dio, sta’ zitto! – sibilai. – Altrimenti ti ammazzo sul serio.
Lui crollò a terra, sulla neve, macchiandola immediatamente di sangue. Attorno al focolare, la neve si era sciolta. – Perché mi hai tenuto in vita, Kenway? – sussurrò. Stava piangendo, anche se faceva di tutto per non singhiozzare davanti a me. – Che cosa hai intenzione di fare?
Portai le mani dietro la schiena, sospirando. – Voglio portarti dalla mia parte, Byrnes – risposi. Ero serio, sì. – Charles Lee è un bugiardo, ma so che questo non è importante. Segui i soldi, non una causa.
Mi guardò, sbigottito. – Come ti permetti? – esclamò. – Mi ritieni un uomo senza morale?!
- Non esattamente – ribattei. – Ti ripeto un viscido mercenario, un pezzo di merda assetato di sangue e di denaro. Tutte queste accuse riconducono alla mancanza di morale, non credi, Chet?
Scosse la testa. – Avevo soltanto bisogno di soldi – sussurrò. – Che ne sai tu? Sei un riccone spocchioso, non è vero?
Passai sopra l’insulto. – Gli uomini che hai servito non sono certo poveri – sibilai. – Non parlare di ricchezza, per carità.
Chet gemette, guardandosi il braccio. La ferita non era gravissima, ma di lì a poco avrei dovuto fasciarlo in qualche modo. – Dicevo, Byrnes, ti offro del denaro e delle cure, se mi giuri fedeltà – alzai una mano prima che potesse porre qualunque domanda. – Sì, se trasgredisci ti verrò personalmente a cercare e ti ucciderò, ma questa è un’altra storia. Adesso, per quanto riguarda te, tutto ciò che voglio sono informazioni. E… bene, diciamo che una lama in più mi farebbe comodo.
Di nuovo, mi lanciò un’occhiata stupita. – Informazioni?
- Sull’operato di Lee e degli altri – risposi senza guardarlo. – Allora, sei dalla mia parte?
Sbuffò. – Ho alternative, Kenway? – mormorò stringendosi il braccio ferito. Sorrisi appena.
Sì, aveva la morte. – Alzati, ti bendo quel braccio – brontolai, scavando nella borsa alla ricerca della camicia che mi aveva dato Achille assieme alle vesti. Ne strappai un pezzo, passandolo nella neve fresca. – E chiamami Haytham.
Chet emise un mugolio d’assenso, allungando a fatica il braccio nella mia direzione. Prima di fasciarlo misi un po’ di neve sulla ferita, cercando di disinfettarla. – Sei mancino, Chet? – sussurrai speranzoso. Gli avevo ferito la mano destra, da stupido spadaccino destrorso.
Il mercenario annuì appena, il volto ceruleo. Forse non avrei dovuto ferirlo in quel modo. Non avevo punti da applicare alla ferita, ma ringraziai mentalmente il cielo. Il braccio con cui combatteva non era stato compromesso. La fasciatura si macchiò appena di rosso. Fortunatamente non gli avevo toccato l’osso, altrimenti sarebbe stata tutta un’altra faccenda.
- Fa’ un sonnellino, mercenario. Ci sono io di guardia.
Sussurrando un ringraziamento, Chet si stese sulla neve. Lo coprii con la giubba da Assassino che avevo nella borsa e mi sedetti di nuovo davanti al fuoco, con le palpebre pesanti.
 
Fu la voce di Connor a svegliarmi. Ad essere sincero, non pensavo nemmeno di essermi addormentato. – Dimmi un po’, sei pazzo o cosa? – sbottò, sollevando rapidamente Chet per la collottola. Non stava facendo niente di male, o almeno, non mi sembrava. Il fatto che non fosse scappato era già una buona, ottima notizia. – Chi diavolo è quest’uomo, Haytham?
Mi stropicciai gli occhi. Fare domande a uomini appena svegli è maledettamente immorale. – Che cosa? – brontolai, guardandolo storto. – È solo un mercenario. Ci aiuterà.
Il ragazzo imprecò. – Scommetto che ha cercato di ucciderti – sibilò, rabbioso. – Sai, forse non te ne accorgi, ma tieni a fare amicizia con gente non esattamente raccomandabile.
Roteai gli occhi. – E con ciò? Tu non sei da meno.
- Io sono con te perché mi hai rapito, Haytham – ringhiò, lasciando cadere Chet a terra. Aveva il volto quasi deformato dall’ira.
Sorrisi. – Eppure hai giurato di darmi una mano – replicai con le braccia incrociate. Era sempre un piacere rinfacciarglielo.
Imprecò di nuovo. – Mi avresti lasciato morire su un albero se non l’avessi fatto!
- Non è il momento di discutere, ragazzo! – lo interruppi. – Mi sarebbe davvero piaciuto vedere la tua piccola crisi da adolescente, ma abbiamo di meglio da fare. Cerchiamo di non mandare tutto a monte, per una volta.
Strinse i pugni. – Io non ho mai mandato a monte un bel niente! – sbottò. – Lasciamo perdere, d’accordo?
Alzai le mani. – È quello che dico io.
- Bene.
- Benissimo – replicai tra i denti. – Forza, allora, mettiamoci in marcia.
Chet si alzò a fatica, tremando e rivolgendomi un’occhiata sorpresa e implorante. – Oh, dimenticavo le buone maniere. Chet, lui è Connor e, Connor, lui è Chet Byrnes.
Il mercenario indicò Connor con timore. – È il tuo schiavo?
Il ragazzo roteò gli occhi e io risi apertamente. – Be’, no, ma adesso ti dirò qualcosa che forse mi farà ancora più ridere – dissi, guardando Connor. – Lui è mio figlio.
Chet spalancò la bocca, stupito. – Mi dispiace… - sussurrò a testa bassa. – Io…
Sollevai una mano. – Non importa. Dobbiamo metterci in marcia, adesso – posai lo sguardo su mio figlio. – Connor, fa’ strada.
Lui mi passò accanto, cercando di darmi una spallata che evitai come niente. – Begli amici, Haytham. Sul serio.
Sorrisi e lo seguii, con gli stivali che affondavano per una buona spanna nella neve. 

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Capitolo 8
*** Imboscata. ***


Camminare nella neve soffice senza farsi sentire era facile. Pure troppo. Il problema erano le tracce. Aveva smesso di nevicare da un po’ e il freddo penetrava fino alle ossa, rendendo i nostri movimenti rigidi. Ogni tanto Chet si spalmava un po’ di neve sulla fasciatura macchiata di sangue e io gli chiedevo scusa con una pacca sulla spalla. Lui rispondeva sospirando. In fondo, aveva provato ad uccidermi.
Connor avanzava tra gli alberi che sembravano tutti uguali completamente a proprio agio. Li guardava come fossero vecchi amici, mormorando qualcosa nella sua lingua natia di tanto in tanto. E io? Io mi stringevo nella redingote, la faccia affondata nella sciarpa, sperando di non prendere troppo freddo e di non pensare a niente. I miei stivali, ormai, erano diventati delle pozzanghere di neve sciolta e stagnante. Imprecai. – Manca molto, ragazzo?
Connor mi rispose roteando gli occhi. – Sì. Il villaggio è stato spostato quando voi… - lo fulminai con lo sguardo, ma mi ignorò. – Quando voi lo avete bruciato.
Si voltò, indirizzandomi uno sguardo di sfida. – Hai detto di essere un Templare, no? Non ti dispiace se ti inserisco nel gruppo, vero?
Scrollai le spalle. Quel ragazzino mi stava seriamente facendo imbestialire.
Mi diede di nuovo la schiena e continuammo a camminare.
 
Perdio, non avete idea di quanto durò la nostra camminata.
Il 1769 scivolò nel 1770 senza che ce ne accorgessimo. E Connor aveva cominciato ad indossare la giubba da Assassino: in principio solo per riscaldarsi durante la notte, ma poi divenne qualcosa di inseparabile, per lui. Camminavamo nel gelo dell’inverno da giorni, se non da settimane. L’inverno era sempre più freddo e la ferita di Chet probabilmente non si sarebbe mai rimarginata se non avessi creato dei punti di sutura improvvisati usando un piccolissimo ramo appuntito e un filo staccato dalla redingote. Cominciava a stare meglio, ma il freddo… Ricordavo bene cosa faceva ai militari. Ne uccideva più dei moschetti nemici, più della crudeltà e della freddezza di Edward Braddock.
Oh, Edward. L’ultima volta che avevo collaborato con Tiio era stata quando l’avevo ucciso. Bene. Se lo meritava. Non aveva solo tradito l’Ordine, ma l’avevo sempre odiato. Specie dopo quella maledetta strage di innocenti, durante la guerra.
Non dovevo perdermi in quei pensieri. Il cammino era terribilmente lungo e più volte mi ritrovai ad afferrare Connor per una spalla, chiedendogli sarcasticamente se sapesse ciò che stava facendo o, più semplicemente, ci stesse guidando tutti verso la morte. Aggiunsi che, se preferiva, bastava piantarmi una pallottola nel petto. Niente di complicato. Non sorrise, ma me l’aspettavo.
Io e Connor ci alternavamo nella caccia – sapevamo entrambi che insieme saremmo riusciti solo a litigare – mentre Chet faceva il palo. I giorni trascorrevano con monotonia, l’uno uguale all’altro.
Fin quando, per puro caso, in una giornata più fredda delle altre, non incontrammo un uomo a cavallo. Quello si spaventò a morte e dovetti sparare al cavallo per impedirgli di scappare – sì, Connor mi fulminò con lo sguardo.
Il ragazzo e Chet lo presero per le braccia. Tremava, ma non sembrava pericoloso. Un normale cittadino, ma che cosa ci faceva da quelle parti? I normali cittadini non passano giornate invernali nelle parti più sperdute del bosco. Prendono i sentieri, se proprio devono.
Decisi di non estrarre la lama, per il momento, e mi accovacciai davanti a lui. – Chi sei? – chiesi, cercando di mantenere un tono tranquillizzante.
Lui aprì la bocca, tremante. – Sono… sono solo un servo, signore! Stavo cercando… - il suo sguardo vagò sui nostri volti, incerto. Probabilmente non voleva rivelarci ciò che sapeva, ma quando vide Connor il suo sguardo s’illuminò. – Un indiano! – sbottò. – Sei Ratonhnhaké:ton? – chiese, gli occhi colmi di speranza.
Imprecai tra me e Connor annuì. – Sì, sono io – disse, lasciandolo andare. – Chi ti manda?
- Sam Adams! – lo nominò con enfasi, come se avessi assolutamente dovuto conoscerlo. – Samuel Adams, di Boston! Il signor Davenport l’ha contattato personalmente per…
Sollevai una mano per fermarlo, portandomi di fronte a lui per guardarlo in faccia. – E chi sarebbe questo Sam Adams? – chiesi, ignorando totalmente Connor.
L’uomo avvampò. – Il signor Adams mi ha detto di parlarne solo con Ratonhnhaké:ton, signore.
Roteai gli occhi, imprecando ad alta voce. – D’accordo, d’accordo, parlate pure, condividete i vostri piccoli segreti da Assassini, io…
- Haytham – esclamò Connor guardandomi con severità. – Smettila di fare il bambino e, piuttosto, controlla che non ci siano giubbe rosse in giro.
Sogghignai. – Lo dici a me perché sai che sarei in grado di uccidere quelle aragoste molto più facilmente di quanto possa fare tu, giusto?
Di nuovo mi rivolse quello sguardo scocciato. Ah, la paternità. – Lo dico perché devi toglierti dai piedi – roteò gli occhi e tornò a guardare il servo. – Forza, muoviti.
Mostrai un sorrisetto sarcastico e mi allontanai verso il bosco. Avrei voluto imprecargli nelle orecchie, fino a spaccargli i timpani. – Vieni, Chet – esclamai invece. – Andiamo a dare un’occhiata.
Chet si alzò di scatto e mi seguì come un cagnolino, come un tempo avrebbe fatto Holden. In un certo senso, si assomigliavano. Chet rispondeva molto. – Non mi dirai che hai veramente intenzione di lasciarli da soli – disse, sorridendo appena. Mi conosceva bene, oppure ero straordinariamente prevedibile.
Sorrisi di rimando. – Ho un piano – sentenziai, guardandomi attorno. – Tu resta qui.
Feci un giretto di ricognizione, per controllare che non ci fossero davvero giubbe rosse in giro, poi girai attorno alla radura in cui avevamo incontrato lo schiavo e mi infilai dietro un cespuglio per origliare.
Connor ascoltava, preoccupato, mentre il servo blaterava con una vocetta irritante e nervosa. – … Il signor Davenport ha detto che non dovete distrarvi dalla vostra missione principale, qualunque cosa voi stiate facendo – esclamò, guardando il ragazzo negli occhi.
Come diavolo aveva fatto a trovarci? Potevano aver capito dove andavamo o era soltanto una supposizione? O, peggio ancora, Connor aveva comunicato in qualche modo con Achille? Il pensiero mi rese ancora più nervoso. – Questa missione è altrettanto importante – bofonchiò Connor, forse più a se stesso che non all’uomo di fronte a lui. – Tornate dal signor Adams. Non ho niente da dire.
- Signore, è impossibile – replicò il servo. – Il signor Adams mi ha detto di aver bisogno di voi e di portarvi a Boston.
Mio figlio sospirò. – Non ho intenzione di seguirvi. Ho un lavoro da fare – disse, il tono noncurante. – Ci sono vicino. Giuro che appena avrò finito con questa faccenda, io…
Lo schiavo fece schioccare la lingua con disapprovazione. – Il signor Adams ha dato degli ordini, signore.
- E io non ho intenzione di seguirli – rispose Connor. – Il vostro padrone è un Assassino, vero? Hai mai visto questo simbolo? – probabilmente il ragazzo gli mostrò le lame celate o il simbolo degli Assassini sulla polsiera.
Quello imprecò a mezza voce. – Solo addosso al signor Davenport, signore – disse lo schiavo. – Avete intenzione di venire con me? Samuel Adams è un uomo potente. Può offrirvi vitto, alloggio e cure. Sembrate stanco.
Come dargli torto? Non mi facevo un vero bagno da secoli. Probabilmente puzzavo da fare schifo. L’idea di una casa, di una vera dispensa e di vero cibo mi fece sentire subito bene.
Se non fosse che Connor rifiutò l’offerta. – No, me la caverò.
- Allora, signore, non mi lasciate scelta.
Scattai in piedi mentre il servo stringeva le mani sul collo di Connor, non per soffocarlo, ma per farlo svenire.
La ricerca della Mela sarebbe stata compromessa da quella deviazione, ma ne avevo bisogno. Un bagno caldo e sentire che cosa aveva da dire questo Adams, nient’altro. Quando lo schiavo mi vide lì, in piedi, parve spaventato. Ricordai di aver ucciso il suo cavallo e sollevai le mani in modo gentile. – Ti seguiremo, d’accordo? – dissi, provando a rassicurarlo. – Ma solo per poco. Abbiamo di meglio da fare.
Mi squadrò con occhio critico. – E voi chi siete?
Sospirai, inventandomi un nome sul momento. Il primo e il peggiore che potesse venirmi in mente. – Jim Holden – mi presentai, porgendogli la mano. – Sto aiutando Ratonhnhaké:ton nella sua missione.
Lui scrollò il capo. – Allora perdonate la mia maleducazione, signore. Potete venire. Chiunque sia amico di Ratonhnhaké:ton è anche amico mio. E del signor Adams.
- Naturalmente – risposi con un sorriso. Richiamai Chet, nascosto nella foresta, e mi caricai Connor sulle spalle, seguendo il servo in mezzo alla neve.
Non sapevo se darmi dell’idiota o essere grato per l’opportunità che mi era stata concessa.    
 
Camminare nella neve con un quattordicenne sulle spalle non era il massimo della comodità, ma Chet non sembrava ancora abbastanza in forma. Dopo un paio di chilometri, il servo di Sam Adams si presentò. – Perdonate la mia stupidità e scortesia, signori – colsi l’occasione per guardarlo meglio. Alto, scuro di pelle è robusto, era ovviamente uno schiavo. Si vedeva dall’atteggiamento. La testa sempre china, quel signore infilato ovunque e l’aria di chi sa che potrebbe ricevere una sana bastonata se fa qualcosa che non va. O forse no, dato che il suo padrone doveva avere qualche legame con gli Assassini. – Il mio nome è Dan. Io e mia moglie Serry serviamo il signor Adams da diversi anni.
Sbuffai con sarcasmo, piegato in due sotto il peso di Connor. – Tanto piacere – replicai – ma quanto dovremmo camminare prima di arrivare a Boston?
Lo schiavo scrollò le spalle. – Ho lasciato un carro non lontano da qui, signori. Raggiungeremo Boston in mezza giornata, se tutto va bene – rispose, facendoci strada nella neve alta. – Preferite che lo porti io, signore?
- No, no – risposi. Volevo essere il primo a parlare con Connor non appena si fosse svegliato. Sbatterlo semplicemente contro un albero, tirargli indietro la testa e chiedergli come diavolo aveva fatto quello stupido schiavo a trovarci. Perché lui, ne ero certo, sapeva qualcosa.
D’un tratto, Dan si fermò in mezzo ad una radura, togliendosi rapidamente il capello e boccheggiando, il fiato che si condensava in piccole nuvolette per il freddo. – Non è possibile – sussurrò. – Era qui.
Chet sbuffò prima che potessi farlo io, prendendo in mano il moschetto che teneva sulla schiena. – Ti hanno fottuto il carro – sibilò tra i denti, guardandosi intorno. Scaricai il corpo di mio figlio sulla neve e sguainai la spada, imprecando.
- Sai chi può essere stato? – chiesi, l’orecchio teso. Io una certa idea ce l’avevo.
- Merda! – sbottò lo schiavo. – Il padrone mi ammazzerà, ammazzerà me e Serry e ci caccerà via di casa, lo so, lo so…
Mi trattenni dal dare un pugno in faccia a quel piagnucolone di Dan, con i muscoli pronti a scattare su chiunque fosse sbucato da quelle maledette piante. Respirai profondamente e feci segno a Dan di stare zitto, cercando di cogliere un suono, qualsiasi suono…
Clic.
Scartai di lato, buttandomi a terra mentre qualcosa piombava su di noi dall’alto. L’inconfondibile suono della lama celata che scattava mi aveva fatto capire che avevo ragione. Era una trappola, una maledettissima trappola per ritrovarmi.
Dio, avrei ucciso Connor in quell’istante se non fossi stato troppo impegnato a salvarmi la vita.
Scattai in piedi, osservando la scena: gli Assassini avevano nuove reclute, e tre di queste si erano sistemate attorno al corpo di Connor con le armi sguainate. Una ragazza combatteva in modo quasi selvaggio con Chet e davanti a me c’erano due Assassini più anziani, probabilmente alcuni superstiti del mio primo salvataggio.
Non persi tempo e attaccai, cercando di colpire gli Assassini in modo non mortale, ma nemmeno troppo leggero. Quei due non erano dei novellini, ma non sarebbero stati capace di vincere contro di me.
Approfittai di un momento di distrazione del primo Assassino per dargli una spinta e farlo cadere sulla neve, quindi gli affondai la spada nella coscia, bloccandolo a terra tra i gemiti, e mi concentrai sull’altro. Usando solo la lama celata riuscii a sfiancarlo e, con pochi, rapidi affondi, quello indietreggiò. Sfoderai la pistola e premetti il grilletto puntando sempre alle gambe.
Nello stesso momento notai che Chet non aveva ucciso l’Assassina con cui stava combattendo, ma l’aveva semplicemente bloccata, stringendole un braccio attorno alla vita e puntando la baionetta alla sua gola.
I tre attorno al corpo di Connor si girarono di scatto e io seguii i loro sguardi. Poco più indietro, accanto a Dan, c’erano Achille e un altro uomo vestito di blu, che ci osservava come se fossimo degli attori. Immediatamente capii di chi poteva trattarsi e azzardai un passo avanti.
Achille avanzò quasi nello stesso istante, mostrando la lama celata. Non pensavo che il vecchio combattesse ancora. – Haytham, fermo – disse, guardandomi con aria severa.
Sorrisi leggermente. – Ti ha avvertito lui, vero? Quello stronzetto – indicai Connor con un cenno della testa, il sangue che ribolliva nelle mie vene.
- Haytham – mi richiamò Achille – non è il momento delle sceneggiate.
Imprecai a voce alta. – Dimmelo e basta – sbottai, guardandolo torvo. – Ti ha avvertito lui?
Scosse la testa e colsi uno strano sentimento nel suo sguardo. Qualcosa di simile al rammarico. – Sappiamo che trami qualcosa, Haytham, ma francamente non mi interessa. Connor mi ha avvertito, sì – ammise. Si guardò le mani, come se potesse leggerci il suo squallido copione. – Mi ha inviato un messaggio con un uccello viaggiatore. Un’aquila ammaestrata, in qualche modo.
Mi chiesi come fosse possibile, dato che non avevo carta con me. – Assurdo – sussurrai. – Sai benissimo che potrei uccidervi tutti, Achille. Lasciami andare.
- No – rispose fermo. – Abbiamo altre faccende di cui occuparci. Faccende riguardanti i tuoi soci Templari, decisamente più importanti di qualsiasi cosa tu voglia fare. Ci sarai utile.
Feci scattare la lama celata, flettendo il polso. – Ti ho detto di lasciarmi andare – replicai. – Se non vuoi altri spargimenti di sangue.
L’uomo vestito di blu fece un passo avanti, le mani sollevate in segno di resa. – Signori, ascoltatemi un attimo… - Parlava con un accento strano, un po’ snob. Come se fosse abituato ad essere ascoltato.
Sguainai la pistola prima che potesse continuare e lui esplose in un risolino nervoso. – Vi prego, cerchiamo di ragionare…
- Io non ho intenzione di ragionare – risposi con fermezza. – Achille, raccogli il tuo piccolo e stupido esercito e vattene.
Scrollò il capo. – Temo di non poterlo fare, Haytham – mormorò. – Metti via la pistola.
Nonostante la rabbia, ero calmo. Certamente non avrei esitato ad ammazzare qualche stupido Assassino, ma sapevo che se l’avessi fatto Connor non mi avrebbe più aiutato. Sospirai. – Che cosa dovrei fare ancora per voi?
Achille prese fiato. – Non possiamo lasciarti libero.
Risi. Erano solo Assassini. – Posso prendermi la mia libertà da solo – sibilai, guardandolo torvo. – Non collaborerò di nuovo con voi.
- Haytham, è meglio per tutti – replicò.
Ridacchiai di nuovo. – Concordo – risposi. – Forza, ritirati.
Scosse la testa. – Sei sempre il solito – mormorò. – Non si può discutere con te.
- No, infatti – dissi a mezza voce.
- Haytham, non voglio che tu ti senta costretto. Deve venire da te – mi guardò con curiosità.
Mostrai i denti. – Non verrà mai da me, Achille.
Alzò le spalle. – Giuro che ti lasceremo fare quello che vorrai… dopo. Ora abbiamo bisogno di me.
- Lasciami agire ora. Ciò che voglio fare è importante anche per gli Assassini.
- Allora rivelateci i vostri piani – s’intromise l’uomo vestito di blu, probabilmente quel Sam Adams, guardandomi con aria divertita.
Roteai gli occhi. – State zitto, Adams – bofonchiai. – Allora? Che cosa hai intenzione di fare?
Achille mi guardò con tristezza e scosse la testa. – Mi dispiace, Haytham.
Qualcosa mi punse su un lato del collo, come un insetto. Un cecchino, un maledetto cecchino. Doveva essere un sonnifero, perché crollai a terra nel giro di pochi secondi, un’imprecazione morente sulle mie labbra. 


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Angolo dell'autrice:
Ehilà, come state?
Mi prendo un piccolo spazio qui per far notare che non c'è giorno migliore di questo per pubblicare il nuovo capitolo.
Duecentottantotto anni fa, il quattro dicembre 1725, a Londra, nasceva Haytham E. Kenway.
AUGURI, KENWAY! *failtrenino*
Bene, chiudo qui. Ci si vede! :)

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Capitolo 9
*** Convivenza forzata. ***


Non è possibile. Non era possibile! Braccato dagli Assassini per la seconda volta – se non si considera il mio primo salvataggio, quando rischiavo di essere impiccato – ma, stranamente, senza catene o corde ai polsi. Aprii gli occhi, battendo le palpebre con violenza. – Stronzi – mormorai massaggiandomi la nuca.
- Ben svegliato.
Sgranai gli occhi. L’irritante e infantile voce di Connor aveva risvegliato la violenza nelle mie vene. Senza riflettere nemmeno un istante mi gettai in direzione della voce, atterrando il ragazzino e colpendolo con un sonoro pugno in faccia. – Dovrei ammazzarti! – ringhiai tenendolo a terra. Il sangue usciva dal suo naso, bagnando mento e collo. – Come hai potuto avvertirli? Avevi giurato!
Tossì, sputando un po’ di sangue, gli occhi profondi e seri. Cazzo, quanto odio quella sua mancanza di rabbia e ribellione. Mi guardò come se fossi un pazzo destinato ad un manicomio, un povero ubriacone che non riesce a mantenere la calma e si butta sul primo che passa. – Non sono stato io – sussurrò tra i colpi di tosse, i denti coperti di sangue.
A cavalcioni sopra di lui, lo sollevai per la casacca. Aveva ancora la giubba da Assassino… - Come hai detto? – ringhiai, il mondo che scorreva lentamente intorno a me. Non badai nemmeno alla stanza in cui mi trovavo, tenevo semplicemente gli occhi puntati su di lui, un pugno sollevato e l’altro che stringeva Connor.
Il ragazzo respirò. – Io non ho inviato nessuna lettera – gemette, battendo le palpebre. – Non so come gli Assassini abbiano fatto a trovarci. Non è stata una mia idea.
Lo colpii con un altro pugno, sull’occhio. – Idiota! – sbottai. – Achille ha detto di aver ricevuto un messaggio da te!
- E io ho detto di non avere scritto niente – replicò, l’occhio che cominciava a gonfiarsi. – Perché dovrei mentirti? Ho stretto un giuramento.
Imprecai a mezza voce, lasciandolo andare di colpo. Forse aveva ragione, Connor non avrebbe mai infranto un giuramento, da buono, stupido Assassino. Attraversai la stanza a grandi passi, i meccanismi del cervello che lavoravano furiosi. Mi avvicinai di nuovo a lui e lo colpii con un calcio al costato. – Allora aiutami! – sbottai. – Dammi una mano ad uscire di qui!
Connor si alzò appena, puntellandosi sui gomiti e passando la manica della casacca sul viso. S’inzuppò subito di sangue. – Non posso, Haytham – annunciò a testa bassa. – Non subito. I Templari sono una grande minaccia.
Scossi il capo, pieno di rabbia. – Se non la prendo prima io, la Mela finirà nelle loro mani! – esclamai, indicando la parete della stanza per intendere gli altri Templari. – Non puoi permetterlo e lo sai bene.
- Non lo permetteremo, infatti – mormorò guardandomi. – Devi solo guadagnarti la loro fiducia.
Lo guardai a bocca aperta per un attimo, il capo inclinato. Non riuscivo a crederci. Eravamo due reietti. Entrambi pensavamo di appartenere ad una fazione, ad un gruppo, ma non era affatto così. Connor non era diverso dagli altri Assassini, ma si era alleato con me, finendo per ingannare anche i propri compagni. Definirli loro. E io avevo fatto la stessa cosa, anche se sotto costrizione, allontanandomi dall’Ordine che tentava di uccidermi. Mi lasciai sfuggire un sorrisetto orgoglioso. – Pensi che dovrei aiutare gli Assassini?
Scrollò le spalle. – Penso che dovresti tenere la testa bassa e stare zitto per un po’.
- Sarebbe sospetto – replicai con un sorriso. – Credi che siano così stupidi da abbassare la guardia solo se me ne sto un po’ tranquillo?
Si mise a sedere, lo sguardo perso nel vuoto. – Ascoltami. La cosa migliore da fare è seguirli. Pedinare i Templari, dire che andiamo ad ammazzarne uno ed allontanarci per la ricerca della Mela senza dire niente a nessuno. – Il suo piano aveva un filo logico, qualcosa degno di un vero Templare. O, semplicemente, di un Assassino più furbo degli altri.
Giunsi le mani dietro la schiena facendo schioccare la lingua. – Interessante, ragazzo, ma per quanto tempo?
- Il necessario – ribatté con una scrollata di spalle.
Sospirai. – E se ci volessero mesi? Anni? – chiesi, non senza una certa preoccupazione. – I Templari non sono stupidi – fermai la lingua prima che potessi dire come gli Assassini con un sonoro morso e un gemito di dolore.
Mio figlio puntò gli occhi scuri, gli occhi di Tiio, nei miei. – Nemmeno gli abitanti del mio villaggio lo sono – rispose con serietà. – Non lasceranno la Mela così facilmente nelle mani dei Templari. Te lo posso assicurare.
Mi lasciai cadere a terra, seduto accanto a lui. – E per ora?
Distolse lo sguardo prima di rispondere: - Per ora aspettiamo. Fa’ il bravo.
 
Feci il bravo per tre lunghi e maledettissimi mesi. Rimasi in casa, al sicuro, lamentandomi del cibo come al mio solito e discutendo con le nuove reclute degli Assassini. Chet, fortunatamente, non mi aveva abbandonato, ma passava la maggior parte del tempo rinchiuso nella sua stanza. Gli spiegai il mio piano, ma ciononostante decise di passare meno tempo possibile con i nostri nuovi amici.
Ci eravamo trasferiti tutti insieme in una casetta a Boston, nel centro, vicino a quella di Sam Adams, che veniva a trovarci spesso. Proprio come un’allegra famiglia felice.
I due Assassini che avevo ferito, Arthur Brown e Joseph London, erano abbastanza giovani: avevano impiegato diverse settimane per guarire dalle ferite che avevo loro inflitto, e mi ritrovai a chiacchierare con loro diverse volte. Arthur aveva senso dell’umorismo e bacchettava spesso Joseph, più serio e concentrato sulla causa. Entrambi ritenevano che i Templari andassero fermati, ma, tra gli Assassini, erano quelli che mi riservavano occhiate meno fredde.
La ragazza che si era battuta con Chet, invece, si faceva chiamare Belladonna: era stata una prostituta in un famoso bordello di New York prima di incontrare gli Assassini e di uccidere il proprio padrone con una sana lama nel collo. Non parlava molto, era soprattutto concentrata sull’addestramento. Un giorno avevo osato farle un complimento e per poco non mi aveva ammazzato. Donne.
Gli altri tre Assassini erano quasi sempre impegnati con l’addestramento o stupide missioni per Achille, così conoscevo solo i loro cognomi: Murphy, Foster e Chapman. Non mi rivolgevano quasi la parola, se non per dirmi Si mangia o Sta’ zitto. Gli altri riservavano loro occhiate fiere, come se fossero l’orgoglio della Confraternita.
Smith stava sempre incollato ad Achille, da buon lecchino, e riuscii a vedere Connor pochissime volte. Lo tenevano quasi segregato in cantina per l’addestramento, lasciandolo uscire solo per mangiare e per andare a letto. Gli Assassini non ci avevano permesso di condividere la stanza e più volte mi parve di sentire il rumore ovattato di alcuni ceffoni mentre Achille e Connor erano in cantina a “studiare”, anche se nessuno ne fece mai parola.
E poi, in una squallida e smorta giornata di marzo, Belladonna piombò in casa di corsa, sbattendo la porta e gridando come un’ossessa. Lì per lì pensai che le avessero mozzato una gamba.
Achille e Connor salirono di corsa dalla cantina per parlare con lei, mentre io rimasi adagiato con noncuranza su una sedia, giocherellando con un filo del cappello. Pensavo che, nonostante tutto, interessarsi troppo agli affari degli Assassini sarebbe sembrato sospetto, un comportamento da leccapiedi. Qualcosa che nessuno si aspetta da Haytham Kenway.
- Sono in città! – strillò Belladonna, incapace di frenare il suo entusiasmo. – Li hanno avvistati in città!
Achille e gli altri Assassini si unirono in un boato di esclamazioni e di domande, ma, anche da voltato, riuscivo a sentire lo sguardo di Connor perforare la mia schiena, la bocca tesa, silenzioso come sempre. – State zitti! – tuonò Murphy, cercando di ristabilire l’ordine. – Chi è stato avvistato, Belladonna?
Lei prese un respiro e cominciò a parlare con più calma. – Charles Lee e gli altri Templari. Sono in città.
Mi limitai a tendere l’orecchio mentre gli Assassini confabulavano tra loro. – Consiglio un attacco diretto – disse Joseph con il suo solito tono calmo.
- No! Non siamo pronti! – replicò Achille.
- Se non adesso, allora quando? – domandò Arthur.
- Non lo so! Io dico che dobbiamo solo tenerli d’occhio, per ora.
Solo a quel punto mi alzai, girando la sedia con uno stridio fastidioso. – Non si può fare – sentenziai. Perdio, erano davvero stupidi. Tutti mi rivolsero sguardi maligni, come se fosse entrato nella stanza un demone o uno iettatore.
Sospirai. – Non credo che siate pronti per affrontare un gruppo di Templari – mi voltai verso Achille. – Ricordi com’è andata l’ultima volta, vero?
Chapman scrollò le spalle. – Secondo me tu sei ancora dalla loro parte e ci vuoi vedere morti – incrociò le braccia e mi guardò con aria di sfida.
Quella frase mi fece infuriare. – Se volessi vedervi morti vi avrei ucciso con le mie mani o, per puro divertimento, vi avrei consigliato di attaccare i Templari! – sbottai con rabbia. – Se vi fate vedere a Boston con queste stupide vesti da Assassini capiranno che siete qui e, per intuito, arriveranno a capire che ci sono anche io. Non vi conviene andare loro incontro.
Chapman grugnì. – Non conviene a te, Kenway.
Mi trattenni dal saltargli addosso e soffocarlo con le mie stesse mani, non senza una certa fatica. – Se proprio volete dare un’occhiata a ciò che fanno i Templari dovete travestirvi. E separarvi.
Connor guardò Achille per conoscere il suo parere e il vecchio sbuffò. – Probabilmente Haytham ha ragione.
Sogghignai. – Io ho sempre ragione, Achille.
Arthur ridacchiò mentre tutti gli altri mi guardavano in cagnesco. – Dicevo – riprese Achille – che dobbiamo muoverci. Andate a cambiarvi d’abito, e velocemente.
Alzai una mano, da bravo scolaretto, mentre gli altri Assassini si ritiravano per cambiarsi. – Tu no, Haytham – sibilò Achille senza farmi parlare.
Ero senza parole. – Ma… l’idea è stata mia!
- Ti riconoscerebbero – replicò.
- Posso travestirmi.
Il vecchio roteò gli occhi. – Haytham… - quando pronunciava il mio nome in quel modo mi sembrava una vecchia governante. Avrei voluto spaccargli la faccia.
Lo guardai dritto negli occhi. – Vaffanculo.
Mi girai e uscii dalla stanza con i meccanismi del cervello che cigolavano furiosamente per mettere insieme un piano.
 
Uscirono tutti, persino Chet, per andare a vedere che cosa stessero combinando Charles e gli altri. Grosso errore. Non avevano ancora capito di non avere a che fare con un idiota. Spalancai la finestra della mia stanza e mi arrampicai sul tetto della casa, in modo da guardarmi un po’ intorno. Il colorato abito da prostituta di Belladonna svettava in mezzo al grigiore degli altri cittadini, così riuscii ad identificare facilmente il gruppetto di Assassini, sparpagliato in una formazione tragicamente ovvia per un occhio allenato come il mio. Pregai solo che non ci fosse nessun Templare sui tetti, perché altrimenti sarei morto.
Saltai velocemente sul tetto della casa accanto, continuando a pedinare il gruppo e nascondendomi dietro i comignoli, ammazzando con la lama celata le giubbe rosse che mi stavano tra i piedi, prima di arrivare in una piazzetta piena di gente.
Connor e Achille stavano guardando una bancarella ostentando la loro falsa tranquillità. Imprecai tra me, pensando a quanto potevano essere idioti quei due. Era davvero assurdo che due comuni cittadini si trovassero davanti a un tale casino senza alcuna reazione. Stupidi.
Con un balzo atterrai su un palazzo da cui la vista sulla Old State House era perfetta: la folla strillava ed imprecava contro la Corona e le tasse e un gruppetto di giubbe rosse cercava di calmare le acque senza successo. Accanto ai soldati, appoggiato ad una colonna con noncuranza, c’era Charles. Se avessi avuto un pugnale forse sarei riuscito ad ucciderlo. Sfortunatamente avevo solo la lama celata, quindi non potevo fare niente.
Mi chiesi dove fossero Thomas, William, John e Benjamin, cercando di identificarli tra la folla. Alla fine mi convinsi del fatto che non c’erano e rimasi lì, sul tetto, in attesa. Anche Connor e Achille non sembravano sapere bene che cosa fare: continuarono a parlottare apertamente tra loro.
Tenni lo sguardo su Charles per tutto il tempo, sperando che non puntasse mai gli occhi verso di me. Non lo fece, ma fu qualcos’altro ad attirare la mia attenzione.
Il rumore dei passi sulle tegole.
Mi voltai di scatto: un giovane magro e agile mi stava guardando con un sorrisetto, portandosi le due dita alla bocca per emettere un fischio soddisfatto. Feci scattare la lama celata e gli corsi contro, cercando di prenderlo. Mi rise in faccia e si allontanò lungo i tetti mentre io lo seguivo con il cuore in gola. Fa’ che non fischi, fa’ che non fischi, per carità…
Avevo il fiato sul suo collo quando spiccai un balzo e lo atterrai. Fischiò tra i denti con le sue ultime forze mentre gli affondavo la lama nella gola. Il fischio non era stato potente, ma non fu quello a tradirmi.
Con un ultimo, misterioso ed assurdo sprazzo di vitalità – Dio solo sa come – la spia diede un colpo di reni, spingendomi indietro e scivolando verso il bordo del tetto.
Troppo tardi.
Il cadavere precipitò giù, nella piazza, e senza dubbio non sfuggì all’occhio di Charles. Sollevò la pistola e sparò un colpo in aria, gridando. Le giubbe rosse seguirono il suo esempio e puntarono i moschetti sulla gente senza alcuno scrupolo, sparando e affondando baionette nei corpi.
Scivolai lungo il tetto per non farmi vedere, l’immagine di Charles che sparava e di quegli innocenti che cadevano a terra, morti, ancora impressa negli occhi.
Improvvisamente capii perché Edward l’aveva voluto nel suo esercito. Quell’esplosione di brutalità davanti alla Old State House mi ricordava in tutto e per tutto il vecchio Braddock e la sua predilezione per la violenza gratuita.
Corsi via, sperando di arrivare a casa prima degli Assassini.
 
Scivolai attraverso la finestra con il fiatone, esattamente mentre Connor ed Achille entravano in casa sbattendo la porta. – Haytham! – strillò Achille, salendo le scale con una certa vivacità.
Mi voltai di scatto, buttando a terra una sedia, come se fossi sempre stato lì. – Che cos’è successo? Dove sono gli altri?
Alle sue spalle spuntò anche Connor, che mi lanciò un’occhiata di disapprovazione. Sapeva. Forse non era poi così stupido. Achille si tolse il cappello e la giacca elegante che aveva indossato per confondersi tra la folla, mormorando alcune imprecazioni. – C’era Lee, Haytham – disse il vecchio. Aveva gli occhi iniettati di sangue e la voce appena tremante. – Ha sparato un colpo e le giubbe rosse hanno cominciato a sparare sulla folla. È stato un massacro.
Abbassai la testa e la scossi. – State tutti bene? – chiesi con noncuranza, passandomi una mano tra i capelli.
- Non lo so, ma credo di sì – rispose il vecchio, allontanandosi. – Voi due restate qui, io vado di sotto ad aspettarli.
Chiusi la porta alle sue spalle e mi lasciai cadere su una sedia. Lo sguardo di Connor era pieno di rimprovero come non l’avevo mai visto. Scrollai il capo e gli restituii lo sguardo senza dire una parola. – Ci hai messi in pericolo – ringhiò il ragazzino, con le braccia incrociate e l’aria seria.
Sospirai. – Non mi ha visto nessuno – ribattei con scarsa convinzione.
- Ne sei sicuro, Haytham? – sbottò, cercando di non alzare la voce. – Io ti ho visto. E se l’avesse fatto anche Charles Lee?
Scossi la testa. – Ha visto solo il cadavere. Avrà pensato che sia stato un Assassino ad ucciderlo – cercai di riflettere ad alta voce. No, Charles non mi aveva visto. Era impossibile. Abbozzai un sorriso. – Sapevi che sarei scappato?
Alzò le spalle. – Lo sospettavo – rispose senza guardarmi in faccia, intento a riflettere quasi quanto me. – Ad ogni modo, Haytham, non dobbiamo correre più rischi simili. Se vogliamo davvero andarcene di qui dobbiamo avere un piano. Non si può agire per mero istinto.
- A volte è necessario – seguii il suo sguardo puntato fuori dalla finestra, verso la Old State House. Il luogo del delitto.
- Sono morte delle persone. Forse non te ne rendi conto…
Alzai una mano per interromperlo con stizza. Come si permetteva? – Io me ne rendo conto, d’accordo? Dico solo che non potevo starmene qui con le mani in mano. Siete un gruppo poco omogeneo e malamente organizzato, non potete sperare di sfuggire all’occhio allenato di un Templare – ripresi fiato. – Soprattutto se l’ho addestrato io.
- Chi ti credi di essere? – Connor sembrava sul punto di saltarmi addosso. – Sappiamo cavarcela.
- Non è vero, Connor, e lo sai benissimo. Mi costa molto ammetterlo, credimi, ma probabilmente sei l’unico tra questi imbecilli con un briciolo di cervello.
Mi guardò con un sorrisetto. – Immagino che sia tutto merito tuo, no? – fu una delle rarissime volte in cui lo sentii fare del sarcasmo. O, almeno, sperai fosse sarcasmo. Scossi la testa in una risata e tornai a guardarlo. Sembrava quasi orgoglioso.
- Certamente – risposi con il mio solito tono impertinente. – Comunque, io credo che dovremmo andarcene adesso. Ammettilo, non ricordavi nemmeno dove fosse il tuo villaggio.
Scrollò le spalle. – È passato tanto tempo – si giustificò. – E non devo renderne conto a te, in ogni caso.
- Mi hai quasi fatto ammazzare, fa’ un po’ tu – sibilai di rimando, acido. Non avevo voglia di discutere con un ragazzino. – Dunque, che cosa ne pensi? Dovremmo restare?
Incrociò le braccia, riflettendo un po’. – Non lo so. Se i Templari sanno che siamo qui sarebbe giusto restare.
Risi. – Per farvi falciare come grano? Non se ne parla – ribattei con una certa amarezza. Non mi andava di vederli morti. Significava che di lì a poco sarei morto anche io, tra le mani di coloro che chiamavo fratelli. – Ascoltami, Connor. Se prendiamo la Mela sarà un bene per tutti.
- Non la cederanno tanto facilmente. Specie davanti a te.
Sospirai e mi passai una mano sulla fronte. Mi serviva un’idea. – Non hai amici nella tribù? Qualcuno che possa fare da tramite?
Rimase un attimo in silenzio prima di riservarmi uno sguardo serio, passarsi una mano tra i capelli e dire: - Kanen’tó:kon.
Sgranai gli occhi, come facevo sempre sentendo un nome indigeno per la prima volta. Scosse la testa. – È il mio migliore amico, può darci una mano. Può parlare con gli anziani di questa cosa… - sospirò con enfasi. – Della Mela.
Non mi sembrava una buona idea. Insomma, mettere il mio destino nelle mani di un ragazzino indiano, soprattutto se era amico di mio figlio… Non era esattamente la mossa più furba del mondo. – Andrà bene, Haytham – mormorò. – Lui è dalla mia parte.
Risposi con un sospiro lamentoso, guardandolo di sottecchi. – Sì, ma tu sei dalla mia parte?
Scosse il capo. Non volevo sentire la sua risposta, non volevo sentire niente. Non volevo nemmeno ascoltare il mio cervello, che mi diceva di scappare, di andarmene da quella casa, da quella città, e di tornare a casa, a Londra, dove puoi essere solo tra migliaia di persone. Volevo solo spegnere tutto, come un cerino, e restare solo. Davvero solo.
Sollevai le mani in segno di resa. – Quando sei certo della tua risposta fa’ un fischio – sibilai con sarcasmo, aprendo velocemente la porta e scendendo le scale, diretto nel piano interrato in cui Connor veniva addestrato.
Nesso stesso momento qualcuno era entrato dalla porta e stava discutendo con Achille. - … Ci sono nostri manifesti ovunque, maledizione. Ne abbiamo strappati un po’, così forse si dimenticheranno di noi – disse un Assassino.
- Quindi ci hanno visti – concluse Achille, tetro.
Non volevo sentire altro. 

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Capitolo 10
*** Conseguenze. ***


Mi rintanai in cantina, chiudendo la porta con il pesante chiavistello in legno e camminando a passi pesanti verso il centro della stanza. Mi sembrava di essere morto, in un limbo, un assurdo mondo in cui non potevo fare assolutamente nulla.
Con fatica, le dita tremanti, sganciai la polsiera della lama celata e la buttai a terra, poi tolsi l’anello con la Croce dal mio dito, poggiandolo sulla piccola scrivania. Mi sedetti a terra, rannicchiato con le braccia intorno alle ginocchia, le lacrime che spingevano per uscire dagli occhi.
Piangevo come un idiota.
Perchè?, si domandò ad un tratto un piccolo angolo sano del mio cervello. Perché stai piangendo?
Stavo piangendo perché non avevo idea di cosa ero diventato. Un Templare con la testa e il sangue di un Assassino, rinnegato da entrambi gli Ordini e marchiato come una minaccia, ovunque andassi. Non ero un Assassino, ma i Templari mi avevano bandito. Che possibilità avevo se non quella di gettarmi tra le braccia di Charles pronto ad affrontare la morte? Avevo scelta? Gli Assassini mi dicevano di sì. Potevo collaborare, ma collaborare significa essere un prigioniero, significa obbedire. E io non avevo mai davvero obbedito a qualcuno, se non a mio padre. Nemmeno a Reginald, in fondo.
Rimasi in quella stanza per ore. O giorni, forse. Con gli Assassini che tempestavano di pugni la porta mentre io rispondevo gridando imprecazioni. Non volevo vedere nessuno. Non volevo sentire nessuno.
Volevo stare solo.
Mi tornò in mente un episodio della mia adolescenza, uno dei tanti momenti passati con Reginald quando ero solo un ragazzino.
Avrò avuto quindici, sedici anni, e non vedevo mia madre da molto tempo. Eravamo tornati a Londra, ma Reginald mi lasciava uscire raramente, e mai da solo. Chissà perché.
Un giorno stavo scrivendo una lettera a mia madre, disposto addirittura a muovermi come un ladro e ad infilarla nella cassetta della posta a notte fonda per consegnarla. Non era niente di speciale, poche righe sul mio operato nell’Ordine e il mio addestramento e quasi un’intera pagina di domande. Come stava? Aveva soldi a sufficienza? Aveva bisogno di me?
Quando avevo sentito i passi di Reginald, volutamente pesanti e provocatori, avevo roteato gli occhi al cielo con stizza. – Haytham, che cosa stai facendo? – aveva domandato con voce suadente, alle mie spalle.
- Niente, signore – buon Dio, lo chiamavo signore! Gli davo addirittura del voi, a quel bastardo. – Qualche appunto sul mio diario.
Era avanzato con falsa noncuranza, poggiando le dita sulla mia lettera. Le prime due parole, Cara madre, mi avevano appena tradito, ma lui aveva semplicemente fatto finta di nulla. – Allora non ti dispiacerà se do un’occhiata.
Avevo scrollato il capo, avvampando. – Sono cose personali, signore.
Reginald aveva abbassato lo sguardo su di me, canzonatorio. – Haytham – aveva pronunciato il mio nome con quel tono sarcastico – che cosa potrai mai scrivere che io non sappia già? Non so, hai conosciuto qualche giovane donna londinese, di recente? O preferisci immaginarle a letto, nascosto sotto le lenzuola?
Ero avvampato ulteriormente per l’umiliazione. – Signore, niente di tutto questo – tenevo il volto basso e avevo tirato fuori una battuta di spirito, giusto per spezzare la tensione. – Sapete benissimo che l’essere femminile che sia stato più vicino al mio corpo è una spada.
Lui aveva grugnito senza cogliere il sarcasmo. – Allora su, Haytham, lasciami leggere.
E mi ero visto costretto a confessare. – Signore, è una lettera a mia madre – avevo sibilato tra i denti, il sangue che ribolliva nelle vene per la rabbia. Reginald aveva preso la lettera, scorrendola con lo sguardo e leggendo.
Aveva persino riso, ad un tratto. – Guarda qua... So che la ricerca degli assassini di mio padre potrebbe avermi distratto e allontanato da Londra, ma ho intenzione di venirvi a trovare. Probabilmente sarà difficile per entrambi, ma non ci vediamo da moltissimo tempo e credo di aver bisogno di parlarvi. Dimmi, Haytham, da quando in qua sei così sentimentalista? – mi aveva afferrato per la nuca, tirando la mia testa indietro. – E, soprattutto, da quando pensi di avere voce in capitolo su ciò che decido?
Avevo risposto in un ringhio di dolore. – Mia madre ha bisogno di me.
- Sei un idiota – aveva risposto. – L’hai lasciata sola per sei anni, Haytham. Tessa è diventata una donna depressa e priva di aspirazioni. La sua scintilla vitale sopravviveva solo accanto ad Edward, non lo capisci? Sei davvero così stupido?
In quel momento avevo provato a divincolarmi. – Morirà, Haytham – aveva continuato con quel tono cinico. – Con o senza di te, lei è già morta. Non lo capisci?
No, non lo capivo, non riuscivo a capire più nulla. Sentivo solo il dolore, l’incredibile dolore alla nuca e le lacrime che volevano ardentemente uscire, qualcosa pesante come un macigno incastonato nel petto. Il cinismo di Reginald mi stava toccando, stava dando forma a qualcosa di nuovo. Mi diceva che l’avevo sempre saputo, che capivo esattamente la situazione. Mia madre non sarebbe andata avanti senza mio padre, semplicemente perché non era abbastanza forte. Era quella la lezione che voleva impartirmi Reginald? Essere forte per me stesso in modo da poter sopportare altre morti? E quante ne avrei viste, da quel momento… Mia madre, Jenny, Holden, vari soldati, Edward Braddock e chissà quanti altri.
Avevo imparato qualcosa?
Ero lì, seduto in una sudicia cantina in mezzo a Boston, ma la mia mente era a Londra, in una giornata di moltissimi anni prima in cui il mio tutore, il mio Gran Maestro, mi aveva tirato indietro la testa e l’aveva riempita di crudeli verità fino a farmi scoppiare a piangere.
Era stato forse quello il momento in cui avevo abbandonato per sempre la possibilità di diventare un Assassino? Avevo davvero capito che il cinismo e la consapevolezza erano l’unica strada per la salvezza, per un mondo migliore, proprio in quel modo? Attraverso la crudeltà e la cattiveria di Reginald?
Non lo so.
Ero solo un ragazzino, per la miseria, eppure tutte le mie speranze si erano dissolte. Perché Reginald aveva ragione. Che senso aveva aiutare mia madre, se tanto era morta con mio padre, in quella maledetta notte prima del mio decimo compleanno? Che senso aveva continuare ad avere fede nel prossimo, se l’istinto dell’uomo lo rende carnefice nonostante le buone intenzioni?
E un giorno arrivai a chiedermi: che senso aveva continuare questa lotta, questa assurda ricerca di qualcosa capace di darci un mondo migliore, se in fondo i Templari non erano altro che comuni uomini, quindi tendenti al massacro e alla sete di potere?
Reginald non mi diede mai una risposta, probabilmente perché non gli posi mai la domanda.
Nella mia testa ero – e sono – fermamente convinto di una cosa: se si vuole davvero una cosa, si segue quell’obiettivo. Ignorando chi vorrebbe fermarti e saltando sopra gli ostacoli, si va avanti.
Non era forse quello che stavo facendo?
Non avevo forse stretto un patto con i miei nemici giurati, gli Assassini, per arrivare alla Mela?
Non avevo forse messo da parte i Templari sempre per il medesimo fine?
Ero diventato un reietto, un rifiuto della società – l’alta società a cui Reginald teneva così tanto – soltanto per un grande fine.
E non era un mondo migliore, no, il mio era un fine maledettamente più egoistico, che in cuor mio consideravo molto più grande.
Assassini e Templari potevano collaborare per un obiettivo comune? Potevano arrivare alla pace insieme?
Dentro di me vagava già la risposta, ma ero deciso ad ignorarla, dicendo a me stesso che erano le farneticazioni di un cinico. Che la verità non è sempre così tragica, che poteva esserci un modo. Solo che non lo conoscevo.
Sì, quel fine accendeva in me una lieve fiammella di speranza, la stessa che avevo provato incontrando Tiio, la stessa che mi aveva reso capace, anche se per poco e male, di amare.
Il mio fine, la mia curiosità, la conoscenza, mi avrebbe dunque inviato ad un’altra grande indecisione.
Se la risposta fosse stata quella che gironzolava nella mia testa, sarebbe significato che i Templari avevano sempre avuto ragione.
Altrimenti sarei stato davvero nei guai e molto, molto più confuso.
 
Chissà come, dopo un po’, le ore nella cantina cominciarono a scorrere più lentamente. Non bevevo e non mangiavo, l’aria diventava densa e le pareti sfuocate, eteree. Quasi sfuggenti.
Un giorno, gli Assassini riuscirono ad intrufolarsi nella cantina. Sollevarono le mie armi e mi afferrarono da sotto le ascelle, trascinandomi via e parlando con calma. – Forza, Haytham, va tutto bene.
Forza, Haytham, va tutto bene.
Non era vero.
Mi dissi che non fossi riuscito a superare quell’ostacolo, se non fossi rimasto fedele all’unico principio saldo della mia vita – la cocciutaggine – liberandomi degli Assassini per un po’, solo il tempo necessario alla scoperta della verità, con ogni probabilità mi sarei lasciato andare e morire.
Esattamente come mia madre.
Non era un giuramento solenne, era una constatazione. Due erano le mie possibilità: combattere o morire.
E, sì, non ero più un ragazzino, ma ero deciso a combattere. Con ogni singola forza che mi restava.
Gli Assassini mi infilarono di nuovo a letto e, per una volta, non protestai nonostante fossi abbastanza sveglio per farlo.
Il leone deve dormire, prima della caccia.
 
- … Non va affatto bene, Achille. Guardalo! Ci sta condizionando! Io dico di consegnarlo ai Templari e smettere con queste stronzate.
- Bella, sai che non possiamo. È un alleato, e ormai conosce troppe cose.
- Allora uccidiamolo.
- È mio padre! Se qualcuno deve avere voce in capitolo, quello sono io!
- Vedi di stare zitto, Connor! Ringrazia Achille per non averti ritirato quelle lame celate, perché…
- Belladonna, stai esagerando.
Il vociare degli Assassini fuori dalla mia stanza era diventato particolarmente fastidioso e mi ero stancato di fingere di dormire, così avevo buttato le gambe giù dal letto ed infilato gli stivali.
Guardai per un attimo il mio riflesso nello specchio: avevo decisamente bisogno di radermi. Sotto i miei occhi c’erano due brutte occhiaie violacee, probabilmente a causa del troppo tempo passato laggiù senza mangiare, al buio, come un ratto.
Eppure mi sentivo bene. Su una sedia erano poggiati la redingote lavata di fresco e il cappello, che infilai con una certa euforia. Gli Assassini dovevano avermi dato da mangiare durante il sonno e fuori, nella città, splendeva il tiepido sole dei primi giorni di primavera. Sembrava una di quelle giornate da romanzo, in cui tutto può andare bene.
Avevo ripetuto a me stesso, nei rari momenti di veglia, di affrontare gli Assassini con uno spirito un po’ meno ostile, sperando di conquistare la loro fiducia. Eppure, secondo ciò che avevo sentito, ero loro antipatico persino nel sonno.
Spalancai la porta della stanza, pronto ad uscire, e mi trovai davanti Chet, che scosse la testa con aria contrariata. – Non posso farti uscire, Haytham.
Inarcai un sopracciglio, un po’ confuso, e ridacchiai. – Che cosa significa? Non mi sembrava di essere segregato – sibilai in risposta, cercando di spingerlo via.
- Dovrei parlarne con Achille.
Risi apertamente. – E da quando in qua rispondi agli ordini di Achille?
Per un attimo mi apparve in mente una tremenda visione di Chet con una bruciatura simile ad un anello intorno all’anulare e la lama celata al polso, parte integrante della Confraternita degli Assassini. Giammai.
Scossi la testa per scacciare quell’orrendo pensiero e Chet mi guardò con pietà. – Ti senti bene?
Sollevai una mano, forse più per calmare me stesso, e annuii. – Quindi devo aspettare qui, disegnando, non so, tacche sulla parete come un prigioniero? – esclamai sarcastico, infilando le mani nelle tasche della redingote.
Chet mi riservò lo stesso sguardo che ogni Assassino mi rivolgeva quando osavo – non sia mai! – fare una battuta di qualche tipo, e risposi roteando gli occhi. – Stavo scherzando, Chet. Buon Dio, stare con gli Assassini ti fa male.
Chiusi la porta quasi sbattendola e mi lasciai cadere sul letto con slancio, imprecando. Adesso mi tenevano persino rinchiuso! Ma chi diavolo pensavano di essere? Io avevo avuto uno stupido crollo psicologico e adesso loro si permettevano di lanciarmi occhiate pietose e di rinchiudermi in una stanza come un pazzo? Gesù!
Aspettai per una decina di minuti prima che Achille e Connor decidessero di farmi visita, ma, credetemi, sembrarono molti di più.
- Come stai? – chiese Achille, pacato.
- Diciamo che una boccata d’aria non mi farebbe male – replicai, acido. Non avevo voglia di essere trattato come un povero idiota e non volevo essere gentile con nessuno, tantomeno con quattro idioti che mi tenevano rinchiuso nonostante dovessero ringraziarmi per essere ancora vivi. – Chi mi viene a prendere per l’ora nella sala comune?
Connor roteò gli occhi e sbuffò. – Hai avuto un crollo nervoso, lo sai? – sibilò, come se fosse sul punto di dire ad Achille che cercavo la Mela. Sempre che non l’avesse già fatto… No, l’avrei ucciso. All’istante.
- Può capitare. Specie se rinchiusi in quattro mura senza poter fare niente per la gente lì fuori.
Achille ridacchiò. – Da quando in qua ti importa della gente lì fuori?
Non ero mai stato tanto serio. – Dovrebbe importare a voi, non a me – replicai con stizza. Avrei voluto picchiarli. – Siete troppo impegnati ad occuparvi di me per capire che la situazione sta sfuggendo di mano?
Connor sollevò un sopracciglio. – Che intendi?
- Sto parlando di Washington e di Charles! – sibilai, seduto sul mio letto e gesticolando come un folle. – Pensavo aveste un Credo, qualcosa che parlava della libertà e roba simile. Ma no, lasciamo che l’esercito si metta a sparare sulla folla!
Achille provò a poggiare una mano sulla mia spalla, ma mi ritrassi. – Haytham, sono morte solo cinque persone – sussurrò.
Mi fece perdere la pazienza. – Come se non avesse importanza! Erano innocenti!
- Non hai mai ucciso un innocente, Haytham?
Come avrei voluto saltare al collo di quel vecchiaccio e accopparlo. – Non stiamo parlando di me!
- Ma di un tuo pupillo.
- Che fa parte dell’esercito assieme a George Washington! Questo non vi dice nulla? – scattai in piedi colmo di rabbia. Non potevo avere un altro crollo nervoso, ma non avevo la benché minima intenzione di restarmene lì seduto come una signorina che lavora al telaio. – Perché non mi date ascolto? – fu quasi un singhiozzo, una supplica.
Connor scosse la testa. – Hai bisogno di un tè, Haytham – sussurrò voltandomi le spalle. Eccolo lì, un altro chiaro segnale: avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di non darmi ragione. Se gli avessi detto che Achille era nero, mi avrebbe guardato male per poi rispondermi: “Che stai dicendo? Lui è albino”.
Imprecai. – Non ho bisogno di un maledetto tè – risposi sibilando. – Forse ne avete bisogno voi, visto che state dormendo! Non vi rendete conto di ciò che sta succedendo? Presto o tardi questa gente si ribellerà! Avete intenzione di aspettare che avvenga per andarli a piangere in un camposanto o aiutarli da ora? Una ribellione tra le mani di popolani che pensano di risolvere i problemi piantandosi davanti ai fucili con un forcone in mano non risolverà niente.
Connor si voltò di colpo verso di me, sgranando gli occhi come se avessi pronunciato una profezia. Achille sorrise, scuotendo appena la testa. – Un Templare con il cervello di un Assassino – ripeté quelle parole con un certo scherno. Mi ero appena reso conto di quanto fossero veritiere.
Feci schioccare la lingua per attirare la sua attenzione: - Li aiuterete?
Achille mi puntò gli occhi addosso, sorridendo. – Faremo il possibile, Haytham. È fondamentale non ostacolare le colonie e ottenere l’amuleto al più presto – disse, incamminandosi verso la porta.
- Quindi li lascerete morire – conclusi. – Bel lavoro. Davvero, nascondersi dietro questa facciata del “difendiamo il popolo” e poi ritirarsi appena la cosa non fa comodo. Meraviglioso, che gentiluomini.
- Haytham…
- Non me ne potrebbe importare di meno – sibilai sollevando una mano. – Quindi, per favore, uscite entrambi di qui e fate quello che pensate sia giusto. Io sono solo uno stupido Templare malvagio, no? La mia opinione non conta.
Mi lasciai cadere di nuovo sul letto con il cappello calato sul viso, mentre gli occhi di mio figlio cercavano i miei in modo complice e quasi colpevole.
 
Ogni volta che provavo ad uscire dalla mia stanza c’era qualcuno di guardia. Di solito si limitavano a scuotere la testa con aria dispiaciuta, ma alcuni, come Belladonna, sfoderavano la spada e mi intimavano di tornare dentro, altrimenti mi avrebbero “staccato la testa dal collo” – giuro, usò queste parole. In quei momenti avrei voluto stringere la spada e uccidere qualcuno, in modo da troncare il mio legame con gli Assassini.
Ogni giorno Connor mi portava da mangiare, ma usciva dalla stanza senza nemmeno rivolgermi la parola. Il più delle volte rispondevo mettendomi sarcasticamente sull’attenti, con la mano alla fronte e l’aria seria. Lui si limitava ad andarsene scuotendo la testa. Adorabile, lo so.
La cucina degli Assassini non migliorava, ma quando decisero di farmi uscire dalla mia stanza per una cena di gruppo – a cui sarebbe stato presente anche Samuel Adams – mi sentii decisamente allegro. Achille spalancò la porta e scattai in piedi. – Dovete infilarmi una camicia di forza oppure bastano delle manette?
Il vecchio Mentore sollevò gli occhi al cielo e scosse la testa con un sorriso. – Forza, Haytham, sono già tutti a tavola.
Ridacchiai. – Non avrete per caso pronunciato la preghiera senza di me! – sbottai con le mani in tasca. Si limitò a scrollare le spalle e a rispondere con un risolino, poi mi accompagnò alla sala da pranzo dove tutti erano già seduti e nessuno sembrava affaccendarsi troppo in cucina.
Ne compresi il motivo quando Achille mi scaricò davanti un piatto colmo di un liquido simile al fango e, d’istinto, arricciai il naso. Sam Adams mi notò e rise apertamente, con le mani sulla pancia come se qualcuno avesse appena fatto qualcosa di spassoso. – Haytham, è un piacere riavervi con noi!
Sospirai e afferrai il cucchiaio con poca convinzione. – Non ero morto, Adams – sibilai acido, guardandolo appena. L’ultima cosa che volevo era fraternizzare.
- Andiamo, Haytham! – esclamò Arthur, festoso come un cagnolino. – Non è il momento di fare il serio! Goditi la sbobba e la compagnia!
Risi. – Tra la compagnia e la sbobba… - scossi il capo. – Buon Dio, mi chiedi troppo!
Arthur era probabilmente l’unico del gruppo con cui riuscivo a scherzare. – Haytham, non essere ostile con Sam – Achille aveva cominciato uno dei suoi stupidi discorsi da bambinaia, trattandomi come un ragazzetto difficile che non vuole fare amicizia a scuola. – Lui è un Figlio della Libertà, non un Assassino.
Scrollai le spalle. – Ma vi ha aiutato a recuperarmi, quindi direi che ho tutti i motivi per essere ostile.
- Forza, bevi un po’ e tutto si sistema! – Arthur riempì il mio bicchiere di vino con entusiasmo.
Svuotai il bicchiere quasi in un solo sorso e la cena fu… allegra, se così posso dire. Non ne conoscevo i motivi, naturalmente, ma vedere quei musoni degli Assassini scambiare due chiacchiere quasi amichevoli fu piacevole.
Naturalmente, Connor mi lanciò occhiate preoccupate per tutta la sera. I suoi occhi dicevano chiaramente: “Ehi, so che ti stai divertendo, ma ho qualcosa da dirti.”
Decisi comunque di ignorarlo, godendomi la serata, per quanto effimera, e gli stupidi discorsi di Samuel Adams sui Figli della Libertà. Solo dopo cena, quando mi ritirai nella mia stanza – o dovrei chiamarla cella? – Connor mi raggiunse quasi di soppiatto, come un ladro.
Credette di sorprendermi alle spalle, ma ovviamente mi voltai prima che potesse aprire bocca, con i sensi più fini dei suoi e sempre all’erta. – Allora? Che cosa succede?
Il ragazzo sbuffò per la frustrazione. – Niente, è questo il problema.
Aggrottai la fronte. – Cioè?
- Achille non ritiene ancora necessario un intervento contro i Templari – sibilò. – Pensa che io non sia pronto.
Ridacchiai tra me, la testa bassa. – E come dargli torto?
Sbuffò con le braccia incrociate. – Sei proprio d’aiuto, lo sai? – mi lanciò una delle sue famose occhiatacce e scosse la testa. – Non riesco a sopportarlo. Mi permettono a malapena di uscire dalla tenuta.
Sollevai un sopracciglio con fare sarcastico, per fargli notare che non mi trovavo in una situazione migliore, e sospirò. – Come possiamo trovare la Mela e l’amuleto se siamo bloccati qui? Tutti e due.
Feci spallucce. – Abbiamo studiato quel tempio per anni e non siamo riusciti ad aprirlo. Se il Frutto dell’Eden è al sicuro non c’è nessun pericolo.
- Non è vero! – sbottò. – Hanno bruciato il mio villaggio una volta, possono farlo di nuovo.
Roteai gli occhi. – Non siamo stati noi! Devo farti un disegnino o capisci da te?
Imprecò a mezza voce, passandosi una mano sulla fronte. – Giunone mi ha parlato dell’importanza di quel tempio. L’amuleto deve essere nelle mani degli Assassini.
- E chi l’ha detto? – esclamai, irritato.
- Giunone! – Il ragazzino mi guardò come se fossi stupido. – Non può restare nelle vostre mani. E hai promesso di non usare la Mela contro di noi.
Scrollai le spalle: - A mio parere starebbe meglio nelle mani dei Templari.
- In caso tu non lo sappia, vogliono ucciderti.
Un brivido corse lungo la mia schiena e mi sentii osservato. Per un secondo mi voltai verso la finestra, sbiancando. – Non mi sembra il caso di parlarne qui – sibilai. Fuori non c’era nessuno, ma non mi sentivo tranquillo. – Comunque, per quanto riguarda i tuoi amici Assassini, cosa pensi di fare?
Scosse la testa. – Non lo so. Ancora mi chiedo come abbiano fatto a trovarci nella foresta. E non guardarmi in quel modo, non sono stato io a scrivergli e lo sai benissimo. È come se qualcuno ci stesse spiando.
Ridacchiai, pensando alla sensazione di pochi istanti prima. – Io non ce la faccio più – sospirai. – Qui è una noia mortale.
Sospirò. – Potresti accompagnarmi in un bordello – ironizzai – o Achille crede che non sia ancora pronto per certe visioni?
- Haytham, smettila.
- Che noia… - roteai gli occhi. – Dunque? Restiamo con le mani in mano?
Distolse lo sguardo, come se fosse una decisione difficile da prendere. – Proverò di nuovo a comunicare con i miei contatti al villaggio, ma per adesso… - alzò le spalle. – Credo non ci sia nient’altro da fare.
Mi lasciai andare ad un sospiro e mi voltò le spalle, lasciandomi da solo. Dovevo fare il bravo per un po’, alla mercé degli Assassini, obbedendo ai loro insulsi ordini e facendo l’amichetto?
Gesù, giammai.
Mi buttai con slancio sul letto, togliendo gli stivali con un calcio, e sperai che Connor diventasse “pronto” il prima possibile. 

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Capitolo 11
*** Uscire fa bene. ***


Settembre 1773
Sorrisi, facendo cozzare il mio boccale con quello di Bob Faulkner, capitano dell’Aquila e Assassino. – Ah, Bob – dissi buttando giù il grog con una certa allegria nella voce – come fai a collaborare con gente così?
Scosse il capo, ridendo. Stavamo bevendo un po’ alla misera casupola di Bob, vicino al porto, mentre Connor faceva pratica con la nave. Da qualche tempo avevamo deciso che restare a Boston era inutile e troppo pericoloso, così, più o meno a metà del 1771, gli Assassini avevano salutato Samuel Adams e mi hanno trascinato con loro, di nuovo alla tenuta.
Gli Assassini erano, come al solito, frustranti ed insopportabili, così cercavo consolazione nel migliore amico degli uomini: il grog – o l’alcool in generale. Bob era un marinaio spigliato e tendente all’alcolismo, ma almeno aveva un briciolo di senso dell’umorismo. Salire sulla sua nave mi ricordò il viaggio sulla Providence, che mi aveva portato a Boston tanti anni prima. Sulla nave vi era addirittura una spia assassina. La situazione non era molto diversa, dunque. – Haytham, pensavo che ormai ci avessi fatto l’abitudine. Stiamo diventando vecchi e…
Lo fermai mostrando i palmi. – Io non sono vecchio! – sbottai con il mio miglior tono aristocratico. Lui rise ancora. – Diciamo che sono sulla via della mezza età. Ma vecchio… Gesù, non ho nemmeno cinquant’anni!
Scrollò le spalle e sbatté il boccale sul tavolo. – Con il ragazzo come va?
Feci spallucce. – Achille quasi non me lo fa vedere – scrollai il capo. – Quando scenderà da quella nave mi piacerebbe sottoporlo ad un piccolo test.
Roteò gli occhi. – Se il vecchio Davenport lo scopre ti ammazza. Sai che non gli piacciono queste cose.
Buttai giù un altro sorso di grog. – Bob, non andrai mica a fare la spia, vero?
Mi guardò con un cipiglio offeso e scoppiai a ridere. – Io non sono una femminuccia, Kenway!
– Scherzavo, Bob, rilassati… 

Non appena Connor mise piede sul molo lo afferrai per una spalla e gli chiesi se aveva voglia di mostrarmi i suoi progressi; roteò gli occhi mentre Bob gli passava una spada. Erano anni che Achille mi proibiva qualsiasi piccolo scontro, con chiunque. A volte mi ritrovavo a parlare con il manichino nella sala d’addestramento, l’unico che mi fosse permesso sfidare.
Robert diede il via e lasciai che fosse il ragazzino a colpire per primo. Ah, i passi sulle assi scricchiolanti e le armi che cozzavano erano come musica nelle mie orecchie. Connor poteva anche essere migliorato, ma non sarebbe mai stato al mio livello. Si lanciò in un affondo che parai facilmente e usai il suo stesso slancio per spingermi in avanti e farlo allontanare. Si accorse della mia finta – qualche anno prima non avrebbe nemmeno saputo cosa fosse, una finta – e tentò di colpirmi, così improvvisai una giravolta a mezz’aria e sfoderai la lama celata con un clic, puntandola sotto la sua gola. Lasciai cadere la spada e gli afferrai la mano, torcendola cosicché facesse cadere l’arma.
Vittoria per il Grande Kenway.
Mi lanciò un’occhiata truce e ridacchiai. – Oh, mi dispiace – dissi con sarcasmo. – Davvero, ti porterò qualche dolcetto durante la tua crisi di pianto post-sconfitta, chiuso nella tua stanzetta alla tenuta.
Scosse la testa. Nell’ultimo periodo ero diventato un po’ acido e avevo recuperato la vecchia ostilità nei confronti degli Assassini – con rarissime eccezioni, come Robert. Occupavo gran parte del mio tempo passeggiando per la tenuta, chiedendomi ancora come avesse fatto Sam Adams a trovarci in quella giornata del 1770 e pensando a quanto gli Assassini avevano allontanato me e mio figlio, nonostante vivessimo nella stessa casa.
Raramente mi era permesso di andare fino a New York o a Boston per fare rifornimento di armi, proiettili o inchiostro, così prendevo quelle passeggiate come doni divini, godendomele e salutando le donne sollevando appena il cappello. Avevo anche comprato una nuova redingote, identica alla prima, e non avevo mai sottovalutato il fascino di quell’abbigliamento. Avrebbe fatto apparire un vagabondo come il più rispettabile colono esistito. Inoltre, girare per la città mi aiutava a capire meglio che cosa avrebbero fatto i Templari: dall’inizio del 1773 si parlava solo di tasse, tasse e malcontento cittadino, ma dal massacro davanti alla Old State House non c’erano più stati molti episodi violenti e la rivoluzione sembrava essere destinata a spegnersi.
Sembrava, appunto.
Connor lanciò la spada a Bob e si avviò lungo il sentiero, le mani che ciondolavano lungo i fianchi come chi ha passato troppo tempo da solo e non sa bene come comportarsi: in quel momento mi ritrovai a guardarlo con un briciolo di pietà. Negli ultimi tre anni avevamo parlato raramente del Frutto dell’Eden e ricevevo pochissime notizie da lui. Passava la maggior parte del tempo insieme con Achille o con qualche altro Assassino, e il mio ruolo nella sua vita diventava particolarmente scarso.
Non avendo niente di meglio da fare, salutai Bob e m’incamminai verso la piccola stalla improvvisata in cui avevo legato il mio cavallo. Con il passare degli anni e l’avanzare della noia avevo ricominciato a pensare agli altri Cavalieri Templari. Immaginare le loro mosse era abbastanza facile dato che avevo insegnato loro ad agire e pensare come me. Che cosa avrei fatto in quel momento? Avevano due priorità principali: recuperarmi e fare in modo da assoggettare pacificamente Corona, popolo e nativi. Non volevamo una rivoluzione violenta contro l’Inghilterra, avevamo solo bisogno di un Paese unito e in pace. Quindi che cosa fare? Controllare il popolo o gettarsi alla mia ricerca? Sapevano sicuramente che ero un prigioniero degli Assassini e che non mi avrebbero lasciato andare tanto facilmente, quindi?
La mia idea era che stessero indagando sull’operato degli Assassini per cogliere due piccioni con una fava.
Arrivai alla tenuta dopo un viaggio abbastanza lungo, il tutto per trovare gli Assassini completamente assorti dalle loro mansioni. La solita noia. Achille, seduto su una sedia appena fuori dalla villa, mi salutò con una mano, avvicinandosi. – Come stai, Haytham?
Scrollai le spalle come un ragazzino viziato. – Il solito. Tu? – chiesi con tono volutamente ironico. – Immagino che ti stia spezzando la schiena alla ricerca dei Templari, giusto?
Sbuffò. – Haytham, sai bene che in questi anni non siamo rimasti con le mani in mano. Abbiamo dato un’aggiustata a questo postaccio e ci siamo addestrati. Ora siamo più pronti che mai.
Sollevai una mano, sbuffando con scherno. – Ho sconfitto Connor in qualcosa come cinque secondi. – Non potei fare a meno di dirglielo. M’infastidiva l’idea che gli Assassini pensassero di essere abbastanza forti. Non lo erano. Non avrebbero combattuto contro sei pivelli, ma contro un Gran Maestro e altri cinque pezzi grossi dell’Ordine. Non era una cosa da poco.
Subito il vecchio mi scoccò un’occhiataccia, guardandomi in cagnesco e abbaiando: - Ti avevo detto di smetterla con questi giochetti, Haytham!
Roteai gli occhi. – Oh, scusami, mamma! – esclamai con un sorrisetto. – Andiamo, volevo solo sapere quanti miglioramenti poteva aver fatto quel bamboccio in tre maledetti anni. Semplice curiosità.
– Avrai sempre qualcosa da dire, non è così? – sibilò con sdegno. – Smettila di essere così immaturo.
– Io non sono immaturo, Achille – dissi con il mio tono più calmo. – Qui non c’è mai niente di interessante da fare e se per una maledetta volta ho voglia di fare due tiri di spada con quel ragazzino credo di avere tutto il diritto di farlo.
Prese fiato. – Haytham…
– Lasciamo perdere – sussurrai. – Vado a passare un altro divertente pomeriggio nella mia stanza. A domani.
Entrai nella villa prima che avesse il tempo di dire qualcos’altro.
 
La maggior parte degli Assassini si era stabilita a Boston e a New York per controllare gli affari dei Templari, così alla tenuta eravamo rimasti solo noi tre, che occupavamo la maggior parte del tempo guardandoci in cagnesco l’un l’altro. La situazione mi era indifferente e i giorni scorrevano lentamente, uno identico all’altro, senza nessun cambiamento. Pasti in silenzio e poi, via, ognuno per la sua strada.
Qualche giorno dopo, all’inizio di ottobre, decisi di uscire per una passeggiata a Boston. Lasciai un misero biglietto sul tavolo della cucina e presi il cavallo, galoppando a tutta velocità verso la grande Boston. Le giubbe rosse girovagavano per i boschi con la testa bassa, i tamburi che suonavano mollemente come in una marcia funebre. Fu piuttosto facile evitarle, e quando lasciai il cavallo davanti ad una locanda mi ritrovai a respirare a pieni polmoni l’aria della città. Mi piaceva quell’atmosfera caotica, l’essere soli in mezzo alla folla, ognuno perso nei suoi pensieri. Mi dava l’opportunità di riflettere.
L’ideologia degli Assassini non mi aveva contagiato: ero anzi diventato più cinico – possibile? – e guardavo la vita con consapevolezza. Donne che si lamentavano per i prezzi assurdi, gentiluomini che entravano nelle taverne con la borsa piena, contenti per il tintinnio delle monete nelle loro tasche, contadini che pregavano a mezza voce di non venire colpiti da altre tasse, non di nuovo.
E tutto questo mentre gli Assassini stavano in panciolle, ad “addestrarsi”. Non sarebbero mai stati pronti.
Agiamo nell’ombra per servire la luce. Non ci si prepara ad un attacco nell’ombra. Il nemico deve sentire il tuo fiato sul collo. Deve sbiancare per il panico, morire sapendo che sei stato tu a volerlo. Oh, Dio, mi stavo facendo condizionare dalla crudeltà di Edward? Oppure mi stavo rendendo conto del fatto che, per un uomo – un uomo come me, per giunta, un Templare -, ragionare in termini di azioni, dolore, morte e panico è normale?
Nulla è reale. Eppure erano così legati alle loro tradizioni, alle loro ideologie… Se davvero nulla è reale, non è nemmeno una tradizione, un’ideologia, un essere umano o una parola. Se nulla è reale, allora cos’è il mondo?
Tutto è lecito. Questo era facile. Qualsiasi cosa è permessa se si agisce per un bene superiore. Un’affermazione da condividere, lo ammetto. Un bene superiore… Io non agivo per un bene superiore. Agivo solo per me stesso. Volevo la Mela per me, anche se credevo che i Templari ne avrebbero fatto un buon uso. E gli Assassini? Che cosa volevano? Volevano davvero qualcosa di superiore, di universale? La libertà faceva davvero comodo a tutti? O era solo una stupida idea che avrebbe portato al caos? Io l’ho sempre pensata così, ad essere sincero.
Mi portai una mano alla testa. Stavo farneticando, i pensieri persi in cerca di un significato occulto. Gli Assassini non mi avevano condizionato, no, ma avevo ascoltato passivamente per mesi – anni! -  le loro stupide conversazioni, farcite fino a scoppiare di parole come libertà, fratellanza, unione e collaborazione. Belle parole, ma stupide, dette da gente che non aveva intenzione di collaborare con me.
Non avevano mai smesso di guardarmi dall’alto in basso.
– Signore, state attento!
Ero andato a sbattere contro una donna, una contadina, facendole cadere una busta piena di frutta. Mi chinai di scatto, raccogliendo tutto alla bell’e meglio, poi le riconsegnai la busta guardandola appena. – Ecco. Mi dispiace.
Lei rise. Una risata cristallina e… dolce, se posso dirlo. Alzai lo sguardo su di lei e rimasi sbalordito.
Era bella. Bella come non ne avevo mai viste. Mi ricordava mia sorella Jenny. Aveva una cuffietta in testa, tipico, ma qualche ciuffo biondo – biondi, come i capelli di mio padre – era scappato all’acconciatura, cadendo lungo il suo collo. I suoi occhi grigi s’infilarono nei miei con dolcezza e posò una mano sulla polsiera della lama celata con noncuranza, senza preoccupazione. – Grazie mille – mormorò, sorridente. Non riuscivo ad aprire bocca. – Siete stato molto gentile. Non preoccupatevi.
Rispondi!
Mi schiarii la voce e portai le mani dietro la schiena, cercando di darmi un tono. – Figuratevi, signorina.
Rise di nuovo e mi sentii avvampare. Oh, Dio! –Signorina, che esagerazione! Avrò qualche anno meno di voi – sorrise con dolcezza. – Volete essere chiamato signorino?
Signorino Haytham, come mi chiamavano le domestiche della mia casa a Londra. Ridacchiai per scacciare il ricordo. – Forse mi farebbe sembrare più giovane – osservai con un certo sarcasmo. E lo colse, perché sorrise, guardandomi senza sapere bene chi si trovasse davanti.
– Non siete così vecchio, signore – mi fece l’occhiolino, un cenno che avrei trovato provocatorio sul viso di una ragazza più giovane o una prostituta in un bordello, ma sul suo sembrava amichevole e gentile. – Dicendo così fate sembrare vecchia anche me. E, lo so, non dico di essere giovanissima, ma signorino!, penso che vostra madre vi abbia insegnato le buone maniere!
Mi lasciai andare ad una lieve risata per i modi da bambinaia che aveva usato con me. La guardai con interesse e sorrisi. – Non sono mai stato bravo con le donne, ad essere sincero – dissi con noncuranza. Era la pura verità.
– Eppure non sembrate un mascalzone.
Infilai le mani nelle tasche dei calzoni con un sorriso. – Non mi conoscete.
Rise. – Sono incappata in un ladro gentiluomo che aiuta le donne a raccogliere frutta e poi da loro delle vecchie, per caso? – Mi guardò con una certa curiosità nello sguardo. Ancora non aveva ben chiaro chi fossi davvero. E chi lo sapeva?
Ridacchiai. Un ladro… – Qual è il vostro nome?
– Un ladro gentiluomo che va di fretta, allora.
Sorrisi di nuovo. Aveva senso dell’umorismo! Cielo, non era una donna come le altre. – O che non riesce a tenere a freno la curiosità.
– Un moderno Ulisse.
– Forse – inclinai la testa di lato, guardandola negli occhi. – Dunque? Posso sapere il vostro nome?
Si guardò intorno con discrezione, muovendo appena il viso, un movimento che solo un occhio particolarmente allenato poteva cogliere. – Mi accompagnereste a casa? – non aspettò la mia risposta e si incamminò, così incespicai e rischiai di caderle di nuovo addosso nel seguirla. – Sapete, tutti questi soldati sono davvero maleducati. Vedono una donna sola e colgono l’occasione per molestarla.
– Gli uomini che la spingono per strada e la accompagnano a casa conoscendola da pochi minuti devono essere decisamente più affidabili, giusto? – sussurrai con la testa bassa.
Si voltò di scatto a guardarmi e schioccò la lingua con curiosità. – Non ne ho idea, ma alcuni di loro hanno avuto il dono dell’ironia – esclamò, voltandosi di nuovo e continuando a camminare.
– Quindi succede spesso che un uomo vi accompagni a casa?
– Per chi mi avete preso? – sussurrò con un sorriso.
La guardai un attimo, sorridendo di rimando. – Ancora non lo so.
– Mi fa piacere. Dunque, no, non vengo accompagnata spesso a casa da altri uomini. Sono una persona abbastanza selettiva, non so se mi spiego. Se un uomo mi da fastidio non ho nessun problema a dirglielo.
Di nuovo, mi lasciai andare ad un sorriso. Perdio, da quanto non sorridevo in quel modo davanti ad una donna? – Devo ritenermi fortunato di essere vivo, dunque?
– Forse.
Non sapevo se trovarla irritante o attraente. Pensai per un attimo che lei avesse di me quella stessa idea. – Ancora non mi avete detto il vostro nome.
Sospirò. – Alice Jackson – disse. – E voi?
Sollevai il capello di pochi centimetri. Eravamo in un viottolo come tanti altri, praticamente vuoto, di quelli che davano accesso alle case e ai retrobottega. – Haytham Kenway – dichiarai con un sorrisetto. – Oh, scusate, non vi ho dato una mano con la spesa. Lasciate che vi aiuti.
Rise. – Non sono indifesa, Haytham – disse, guardandomi dritto negli occhi. – Però potreste tenere queste cose mentre apro la porta di casa? Ci vorrà solo un minuto.
Mi passò le buste della spesa e infilò una chiave nella toppa, aprendo la porta con una leggera spinta. Non un comportamento esattamente femminile, ma avevo visto fin troppe damigelle eleganti e raffinate nella mia infanzia per cercarne ancora nell’età adulta. – Vi andrebbe un tè?
In cuor mio, mi chiesi se avesse notato l’accento inglese. – Mi farebbe piacere, sì – mormorai infilandomi nella casa. – Vivete sola?
L’appartamento era composto da un lungo corridoio, una stanza da bagno, una sala da pranzo e due camere da letto. Pensai che il marito e i figli potevano essere usciti, anche perché sarebbe stato abbastanza strano veder sbucare il signor Jackson da un angolo, pronto a trafiggermi con un attizzatoio. – Sono vedova, Haytham, non temete. Ho una figlia, ma ormai vive a New York con suo marito e non la vedo spesso. Voi?
Alzai le spalle. – Vedovo. Ma non vivo esattamente da solo – ammisi con un sorriso, poggiando le buste e le cassette sul tavolo. – È una lunga storia e non vorrei annoiarvi.
– Non sembrate un uomo dalla vita noiosa – disse, lanciandomi un’occhiata di sottecchi.
Sorrisi. – Mi piace l’azione, infatti. Non sopporto di stare con le mani in mano, guardando il mondo che scorre davanti a noi. – Perché le stavo rivelando quelle cose? Erano pensieri personali, maledizione! Cose che forse non avevo condiviso nemmeno con Tiio.
Il pensiero mi fece girare la testa. – La trovo una cosa molto giusta, Haytham – disse Alice, togliendosi la cuffietta e disfacendo con pochi gesti l’acconciatura. Scrollò il capo e la cascata di ricci biondi le ricadde sulle spalle e la schiena, poi si tolse il cappotto e mi fece un cenno per avere anche il mio, ma rifiutai muovendo appena la testa. Si allontanò con una scrollata di spalle, il vestito azzurro che sfiorava il pavimento. – Non sopporto il modo in cui questa società tratta le donne. Parliamo di libertà e di indipendenza, ma che senso ha parlarne quando ancora vi sono differenze tra i sessi?
Sospirai. No, non un’idealista. – Alice, penso che l’idea oltre la rivoluzione sia quella di una reazione a catena. Se l’uomo ha la libertà poi l’avrà la donna, lo schiavo e così via. Fino ad ottenere un grande mondo di civiltà in cui tutti siano uguali.
Schioccò la lingua. – Che sogno.
Mi ritrovai a sgranare gli occhi come un bambino. – Oh, scusatemi, il tè. Me ne sono dimenticata, provvedo subito.
La guardai allontanarsi e sistemare un bollitore sul focolare con aria sognante. Potevo davvero aver incontrato una donna cinica come me? Per usare le sue parole, che sogno. – Alice, non è necessario che lo facciate voi.
Sorrise con scherno. – Non ditemi che sapete anche fare il tè! – esclamò, quasi sorpresa.
Feci un passo verso di lei, facendole il verso. – Non sono indifeso, Alice.
Arrossì e per un secondo mi pentii di ciò che avevo detto, poi la vidi sorridere di nuovo e mi lasciai andare. – Dovete aver avuto molte amanti nel corso della vostra vita. Siete un uomo brillante, pieno di pensieri, ironico ma allo stesso tempo così serio. – Mi lanciò un’occhiata comprensiva, sistemando il bollitore. – Si legge nel vostro sguardo, Haytham. Vostra moglie deve essere stata molto felice.
– Non avevo una moglie.
– Avete detto di essere vedovo – osservò, avvicinandosi al tavolo e sedendosi senza che spostassi la sedia per lei.
– Non ci siamo mai sposati – confessai. – Mai.
La vidi di nuovo arrossire e allungai una mano verso la sua, poggiata sul tavolo. – E per quanto possa sembrarvi strano, Alice, lei non è mai stata felice con me.
Scosse il capo, come se fosse una cosa impossibile. – Per quale motivo? Sembra assurdo.
Sorrisi. – Per le mie idee.
Era la verità. Alice mi guardò con curiosità e risi di nuovo. – Non tutte le donne sono come voi. Non ve l’ha mai detto nessuno?
Alice mi guardò, mordicchiandosi il labbro, ma non ebbe il tempo di rispondere perché fuori risuonò un colpo, potente come un tuono, e dei suoi che conoscevo benissimo. Scattai istintivamente in piedi, attratto da quella lugubre musica come una falena dalla luce.
Erano i colpi di pistola e moschetto e il clangore delle armi che cozzano l’una contro l’altra, il suono che aveva seguito la mia vita per tutto quel periodo. Anche Alice si alzò. – Che cosa succede, Haytham?
Sfoderai la spada e lei non la guardò nemmeno, gli occhi puntati nei miei. – Niente di buono – mormorai. – Restate in casa.
Scosse il capo. – Mi avete preso in giro, Haytham, ma lo ripeto: non sono indifesa.
– Potrebbero esserci uomini armati, là fuori.
Scrollò le spalle e rise, poi mi voltò le spalle e spalancò un armadio, spinto contro il muro della sala da pranzo. Le ante erano ricoperte di spade e pistole.
Mi sorrise. – E allora, Haytham?
Scossi violentemente la testa mentre lei prendeva due sciabole dall’armadio. – Ve lo proibisco, Alice.
Rise. – E chi siete, mio marito? Qualcuno lì fuori è in pericolo, e posso aiutarlo bene quanto voi.
– Se vi succedesse qualcosa, io…
– Non portate iella, Haytham – mi fece di nuovo l’occhiolino. Era così irresistibile, dannazione.
Sospirai. – Non me lo perdonerei mai, Alice. Mai.
Rizzò la schiena con aria seria e determinata. – Lasciatemi togliere il bollitore dal fuoco, poi vedrò di togliervi ogni dubbio sulla mia aria da santarellina.
Poggiò il bollitore sul tavolo e si precipitò fuori, io due passi dietro di lei, chiedendomi se fosse coraggiosa, determinata e orgogliosa o semplicemente sciocca. 

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Capitolo 12
*** Sincero. ***


Imprecai, piombando nella strada con la spada sguainata. Quattro o cinque giubbe rosse stavano bussando con violenza alla porta di un poveretto, sparando e battendosi contro un uomo malconcio e un ragazzo con il cappuccio calato sugli occhi e un simbolo alla cintura che conoscevo fin troppo bene. – Connor – ringhiai tra i denti, il sangue che ribolliva nelle vene.
Alice si voltò verso di me aggrottando le sopracciglia, così mi buttai addosso ad una delle aragoste, spingendola a terra e affondando la spada nel suo collo.
Fui stupito nel vedere la reazione di Alice. Si buttò nella mischia – vestito permettendo – e cominciò a combattere con le sue spade, roteandole con eleganza e ferocia, probabilmente la stessa che mettevo io nell’uccidere le mie vittime ma con un tocco di… femminilità. Era più precisa di me, ecco qual era la differenza. Mirava in certi punti, non colpiva i soldati dove era più facile. Affondava le sciabole in modo da assicurare la morte.
Connor, intanto, si era a malapena accorto di noi, intento com’era a combattere con le giubbe rosse. Ne erano rimaste quattro, una per ognuno di noi. Semplici soldati, facili da uccidere. Aprii lo stomaco di quella che mi stava davanti e raggiunsi Alice, che aveva appena impalato un uomo sulla lama. Aveva il viso, le mani e il vestito sporco di sangue. – State bene? – chiesi, ignorando completamente mio figlio e l’altro uomo.
Sorrise e sputò a terra, scrollando il capo. – Magnificamente, Haytham. Ci voleva un po’ d’azione, non trovate?
Ridacchiai. – Sì, le giornate si stavano facendo decisamente noiose.
Mi rivolse un sorriso dolce e indicò Connor con un cenno della testa. – Lo conoscete, vero?
Scrollai le spalle. – Diciamo che non siamo esattamente sconosciuti.
– Non lo aiutiamo?
– Facciamo così: lo faremo solo se lo vedremo in difficoltà.
– E non lo è? – In quel momento la adorai con tutto me stesso. Considerava Connor incapace di difendersi, buon Dio, avevo voglia di abbracciarla! – Guardatelo.
Abbassai il capo, scuotendolo appena. Era davvero un incapace. – Volete pensarci voi, Alice?
Sorrise. – Preferirei vedervi all’opera. Sapete, questo vestito diventerà irrecuperabile se lo sporco ancora di sangue.
Le mostrai i palmi vermigli e sorrisi, poi mi lanciai verso la giubba rossa e la pugnalai alle spalle con la lama celata, osservando l’espressione stupita di Connor. L’altro uomo, intanto, stava estraendo una mannaia dalla spalla di un soldato agonizzante sulla strada, ansimando con violenza. Indossava un grembiule da macellaio sporco di sangue – in parte rappreso e in parte fresco – e lanciò un’occhiata a noi tre come se fossimo appena scesi dal cielo, un po’ come un dono divino.
Connor mi lanciò un’occhiataccia delle sue. – Buongiorno, Connor – esclamai con sarcasmo, facendo cenno ad Alice di avvicinarsi. – Che ci fai qui?
Il ragazzo non mi rispose, ma rivolse tutta la sua attenzione all’altro uomo, mettendo a posto il tomahawk e pulendosi le mani sporche di sangue sui calzoni. – Giustizia è fatta – sibilò l’uomo con spiccato e divertente accento francese, sputando a terra. – Che il governatore ne mandi altri.
Connor avanzò di un passo. – Come state?
L’altro scrollò le spalle con noncuranza. – Sto bene. Tenuto conto delle armi che sfoggiano? Combattono come dei bambini – Scoppiò a ridere, mollando una forte pacca sulla spalla di Connor.
– Il vostro stile di combattimento mi pareva piuttosto simile, infatti – commentai rivolto a Connor con una punta di acidità. Alice mi rivolse un’occhiata un po’ contrariata, poi sorrise. Mi era sempre più simpatica.
– Grazie, amico – disse l’uomo con un sorriso di gratitudine. – Ti offrirei una birra, ma ho un appuntamento altrove.
Detto questo, semplicemente girò sui tacchi, stando attento a non scivolare sul sangue ancora fresco, e scomparve nei viottoli di Boston. Alice ed io riuscimmo finalmente ad ottenere l’attenzione di Connor. – Che ci fai qui? – tuonò mio figlio, usando un tono che non sarebbe sembrato autoritario nemmeno davanti ad un poppante.
– Non mi pare di avere le catene ai piedi – replicai, inclinando la testa di lato con scherno. – Tu, invece? Cosa ti porta alla grande Boston?
Fece un passo verso di me, incrociando le braccia e guardandomi negli occhi. – Il mio contatto dal villaggio è venuto ad avvertirmi – disse con amarezza nella voce. – William Johnson ha intenzione di acquistare la terra su cui sorge il mio villaggio. E con la terra… lo sai.
Lanciò un’occhiata contrariata ad Alice e sollevai gli occhi al cielo. – Dimenticavo di presentarvi – esclamai, nonostante la notizia riguardante William, il villaggio e il Frutto dell’Eden mi avesse un po’ scombussolato. – Alice, questo è Connor. E, Connor, lei è Alice Jackson. Un’amica.
Alice strinse la mano di Connor come un uomo, invece di farsi fare il baciamano. – Incantata – mi parve di sentire un filo di ironia nella sua voce, ma non lo feci notare. – Dunque, Haytham, pensate ancora di prendere quel tè o abbiamo altri soldati britannici da uccidere?
– Abbiamo? – sussultai, sfiorandole la spalla. – Alice, vi ho messo già abbastanza in pericolo. Tornate in casa, vi prego.
Grugnì con scherno, infilando le sciabole nella cinta che stringeva il vestito alla vita. – E lasciarvi l’azione? Non se ne parla.
– Haytham – mio figlio mi richiamò con stizza – devo incontrare Sam Adams. Ti dispiacerebbe seguirmi?
– Non sei mia madre – replicai bruscamente, per poi tornare a rivolgermi ad Alice. – Avete intenzione di venire con me?
Incrociò le braccia. – Se me lo permettete.
Sorrisi. – Non pensavo che vi interessasse avere il mio permesso – sibilai con sarcasmo.
Ridacchiò, guardandomi con quegli occhi ardenti. – Allora avete capito che non sono una ragazzina indifesa.
– Non oserò mai più pensarlo – mi misi una mano sul petto, come in un giuramento.
– Bene – replicò con un sorriso. – Allora verrò con voi, Haytham, ma ad una condizione.
Trasalii. Per un attimo pensai che volesse chiedermi la verità sul mio conto, su quello che stavo facendo. Non lo fece, fortunatamente. – Cominciamo a darci del tu.
Scrollai le spalle, prendendo fiato. – Benissimo.
– Ottimo! – guardò Connor con un sorriso. – Allora, dove si va?
Lui imprecò a mezza voce, reclinando indietro il capo. – Oh, non vi permettete di dirmi che sono in pericolo o qualcosa del genere, perché ho appena ucciso un soldato più velocemente di voi, quindi l’ultima cosa che potete offrirmi è uno stupido commento maschilista – sbottò Alice, indicandolo minacciosamente con l’indice. – Non mi interessa il vostro parere, per cui potete anche cucire la bocca.
Quella risposta lasciò Connor senza parole e io scoppiai a ridere senza alcun ritegno, mentre mio figlio ci voltava le spalle e s’incamminava lungo la strada lanciandomi mentalmente tutti gli insulti di questo mondo.
Alice mi rivolse un sorrisetto e s’incamminò lentamente dietro Connor, le braccia ancora incrociate. – Perché il tuo amico ha tanta fretta?
Scrollai le spalle. – Un uomo vuole acquistare la terra su cui sorge il suo villaggio – esclamai con le mani in tasca. – Ha intenzione di non ricorrere ad una soluzione diplomatica.
– E tu vuoi dargli una mano?
Sospirai. – Sono obbligato, a dire il vero.
– Obbligato?
– Ho stretto un giuramento.
– Facciamo che mi racconti la storia dopo, davanti ad una vera tazza di tè?
Le sorrisi, annuendo appena.
Quella donna mi piaceva sempre di più.
 
Seguendo mio figlio, ci ritrovammo in una taverna abbastanza piccola e spoglia: all’interno vi erano Sam, l’uomo che avevamo salvato dalle giubbe rosse e un terzo che non conoscevo. – Ah, Connor! – esclamò Samuel voltandosi di scatto verso di noi. Vedendomi, sbiancò. – Oh, e c’è anche Haytham. E questa signora…?
Lei roteò gli occhi al cielo. – Alice Jackson. Ho dato una mano a sistemare quelle giubbe rosse – aggrottò un attimo la fronte. – E voi chi siete?
– Samuel Adams – sibilò lui di rimando, con una nota di sdegno. Alice parve sul punto di trapassarlo con la spada, ma posai una mano sulla sua per trattenerla leggermente. – Ad ogni modo, Connor, vorrei presentarti alcuni carissimi amici. Il proprietario di questo posticino, William Molineux – Sam indicò un uomo dall’aria rigida con una tendina di capelli neri ed unti che ricadevano sul viso pallido – e il gestore, nonché chef, del suo locale…
Il cuoco ci guardò con lo sguardo pieno di rabbia, probabilmente ancora infuriato con quelle giubbe rosse. – Stephane Chapheau – lo presentò Sam con un sorriso.
– Lui e io…
– E noi siamo invisibili, giusto? – brontolai a mezza voce, appoggiandomi alla parete con noncuranza. Francamente, non mi interessava l’appoggio degli Assassini, dei Figli della Libertà o di chiunque altro avessi davanti, ma ero infastidito. Se non fosse stato per Alice e me probabilmente Connor e Stephane sarebbero morti.
Il cuoco grugnì con stizza, poi continuò il suo discorso da dove l’aveva ripreso, escludendo noi due dal contesto. Eravamo quasi due spettatori. – Abbiamo avuto un diverbio con delle giubbe rosse proprio sotto casa mia.
Molineux scosse la testa, contrariato. – Gli esattori oramai sono sempre più spavaldi – esclamò, battendo il pugno sul tavolo con frustrazione. – Bisognerebbe fare qualcosa, Samuel.
Sam Adams parve pensarci su un momento, poi rispose: - Dobbiamo dare un segnale forte. Qualcosa che dica alla gente che siamo con lei.
Alice fece un passo avanti con leggerezza. – Se mi permettete, signori, vi consiglierei il porto. L’attenzione dell’intera città – giubbe rosse, Figli della Libertà, manifestanti – è concentrata lì.
William lanciò un’occhiata sorpresa a Sam, che annuì. – Avete ragione. Il porto è un posto caldo ora, pieno di manifestanti che picchettano gli ultimi carichi di tè inglese.
Stephane fece schioccare la lingua. – Ah! Non privare mai un bostoniano del suo tè.
Molineux si portò una mano alla fronte, riflettendo. – William Johnson contrabbanda il tè. – Tirò fuori da una tasca della giubba un involto, probabilmente pieno di foglie. – Uno dei suoi è venuto a vendermi questa. Naturalmente ho rifiutato, ma guardate il titolo. Quel maledetto lo fa pagare una fortuna.
Sorrisi tra me, ripensando al mio vecchio amico, l’uomo per le cui ricerche io, Charles e Thomas avevamo quasi rischiato la vita. Scossi lievemente la testa, sentendo lo sguardo di Alice di nuovo su di me. – Adesso dov’è? – chiese Connor. Riuscivo a sentire l’astio nella sua voce profonda.
– Ah, io non l’ho mai visto – replicò William Molineux scuotendo la testa.
– Posso sapere perché lo cerchi, Connor? – chiese Sam Adams con il solito tono da santarellino. Non erano certo affari suoi.
Ovviamente il mio figlioletto, il migliore amico dei rivoluzionari, rispose con la verità: - Vuole acquistare la terra sulla quale sorge il mio villaggio, contro il volere del mio popolo – evidenziò l’ultima parte con la voce, come se fosse una giustificazione.
Il cervello di Adams sembrava lavorare alla velocità della luce nonostante tirasse fuori da quella bocca affermazioni così ovvie da non stupire nessuno. Tranne Connor. – Senza dubbio finanzierà quell’acquisto con il guadagno ricavato dal contrabbando. Come se non bastasse, la nuova tassa introdotta sul tè favorisce il contrabbando. Scommetto che a tassarci sono gli stessi che vendono il tè. – Si portò una mano al mento con aria pensierosa. – Dobbiamo cercare di approfittarne, forse ho un’idea.
Feci un passo avanti con le mani dietro la schiena e un sorriso impertinente. – Siamo pronti a collaborare, allora – sentenziai con un briciolo di ironia. – Tutti noi.
Alice mi affiancò sorridendo e Samuel roteò gli occhi. – Continuiamo ad indagare, per ora, d’accordo?
Annuimmo tutti e tre, poi uscimmo, lasciando i Figli della Libertà soli nella loro locanda.
Alice mi rivolse un sorrisetto e sbuffò con poca eleganza. – Che razza di maschilisti – sibilò guardandomi negli occhi.
Risposi con una scrollata di spalle. – C’è un motivo per cui non si chiamano Figli e Figlie della Libertà – replicai, le mani affondate nelle tasche. Alice ridacchiò e mi diede un colpetto con lo stivale, sorridendo.
– Dunque, per questo tè, Haytham?
– Aspetta solo un minuto. Devo confrontarmi con Connor per capire cosa fare.
Sorrise. – Siete dei rivoluzionari?
Le sorrisi di rimando. – Avevi detto che ne avremmo parlato davanti ad un tè – risposi, facendole l’occhiolino. Portai lo sguardo su Connor e lo vidi scontrarsi contro un uomo con delle casse, spaccandone una con le sue spalle. Degli involti simili a quello che ci aveva mostrato Molineux rotolarono a terra mentre Connor li seguiva con lo sguardo.
– Scusate – bofonchiò.
– E stai attento, amico – replicò quello con una smorfia.
Connor portò lo sguardo sull’uomo, un sopracciglio sollevato, e quello sbiancò. Raccattò gli involti tintinnanti – pieni di denaro, quindi – a tutta velocità, lanciò un ultimo sguardo minaccioso a Connor e si dileguò di corsa nelle strade. – Un contrabbandiere – notò il mio intelligente figlio.
– Pensavo avessimo parlato di farfalle – replicai con un sorrisetto sarcastico. – Allora? Che cosa hanno intenzione di fare i tuoi amichetti?
Respirò profondamente, scrollando le spalle. – Ancora non lo so – rispose a testa bassa. – Io non aspetterò che Johnson prenda le nostre terre. Vado al porto a distruggere quei carichi di tè.
Guardai Alice, che era rimasta pochi passi più indietro ma – lo sapevo, lo leggevo nei suoi occhi grigi – stava ascoltando tutta la conversazione. – Puoi farcela da solo, no? Lo saprebbe fare anche un piromane schizzato – esclamai con il solito sorrisetto impertinente.
– Va’ pure.
– Non mi serviva il tuo permesso.
Girò sui tacchi e si allontanò con stizza, lasciando me ed Alice soli. Sorrisi, guardandolo andare verso il porto con l’aria di chi può aggiustare tutto.
– Pronto per il tè – dissi, voltandomi verso Alice.
Sorrise di rimando, passando una mano sulla mia schiena. – Allora andiamo.
 
Rientrammo a casa di Alice e la vidi risistemare il bollitore sul focolare, sedendosi poi davanti a me e raccogliendosi i capelli con un nastro. – Quel ragazzo mi è sembrato molto triste – disse con il capo inclinato. – È il carattere o gli è successo qualcosa, Haytham?
Sospirai. – Ha perso sua madre quando era molto piccolo, ma credo sia anche un po’ il suo carattere.
Sorrise, cogliendo la nota sarcastica. – Non sembravi contento di collaborare con lui.
– Infatti non lo sono.
– Posso chiedertene il motivo? – mi guardò negli occhi, chinandosi leggermente in avanti e puntellandosi sui gomiti. Gesù, quanto sarei riuscito a resistere?
Mi passai una mano sugli occhi. – Sei sicura di voler sentire la verità, Alice?
Stavo davvero per aprirmi con quella donna, una donna bella, affascinante, sarcastica e determinata. Se non con lei, allora con chi? Sorrise. – Se non sei pronto a raccontarmela potrei farti sentire prima la mia storia.
Annuii. – Sarebbe più facile – sussurrai.
Con una mossa veloce e inaspettata, prese la mia mano sinistra, poggiata sul tavolo, tra le sue. Sentii un brivido correre lungo la schiena. – Sono stata l’unica figlia di un ex-soldato. Niente figli maschi, nessun altra figlia. Solo io. Così mi ha cresciuta quasi come un maschio, facendomi seguire le lezioni e, al contempo, insegnandomi a combattere. La maggior parte delle armi in quell’armadio erano sue – indicò l’armadio alle sue spalle con un cenno della testa e un sorriso. – E mio marito… Non è esattamente morto in modo naturale.     
Sorrisi. – L’hai ucciso tu.
– Sono prevedibile?
– Assolutamente no, ma io sono un genio e ho un enorme intuito per queste cose – replicai.
Ridacchiò, scuotendo la testa. Fu come avere la vista e i sensi annebbiati da qualche potentissima sostanza stupefacente. – Era un mercante. Non avevamo molto denaro e ha tentato di mandarmi a fare la puttana in un bordello. Così gli ho dato una lezione. – Mi guardò, come se pensasse di vedermi stupito. Ero abituato a quelle storie di violenza. – Haytham, lui ha picchiato me e mia figlia per un’intera vita. Non potevo permettergli di rovinare ciò che restava mandandomi a lavorare in un bordello. Non potevo.
Annuii con un leggero sorriso, mettendo la mano destra attorno alle sue. – Ti capisco.
Lentamente mi ritrovai ad avvicinare il viso al suo, respirando piano e inclinando la testa di lato. Sentivo i nostri respiri cozzare l’uno contro l’altro, le fronti sfiorarsi. Le sue labbra si schiusero, piegandosi in un sorriso triste e liberatorio mentre sfioravo il suo naso con il mio, le mani strette le une sulle altre, sicuro di me come non ero mai stato e…
Il bollitore cominciò a fischiare.
Mi lasciò le mani e scattò in piedi, avvampando, e rovesciò la sedia sul pavimento. – Accidenti! – la sentii esclamare. – Haytham, potresti prendere due tazze? Le tengo in quella vetrinetta.
Subito mi alzai in piedi, avvicinandomi alla credenza polverosa abbandonata in un angolo e passandole due tazze di ceramica con la voce che tremava. – Mi dispiace.
Sorrise, versando lentamente il tè nelle tazze. – Haytham, forse sei davvero un mascalzone – mormorò con un tono a metà tra l’ironico e il provocatorio. Non potei fare a meno di sorridere con lei.
Presi la tazza tra le mani e bevvi un lungo sorso per scaldarmi l’esofago. Il tè era ottimo, dolce, caldo e forte. Lei, appoggiata al ripiano con noncuranza, mi fissava da sopra la tazza, sorridendo. – Non volevo metterti in imbarazzo con quel commento – sussurrò, lo sguardo fisso sulla bevanda.
Scossi il capo. – Non mi hai imbarazzato, non preoccuparti. E io non volevo metterti a disagio. Mi sono comportato come un idiota – mormorai a voce bassa, passandomi una mano sugli occhi. – Non avevo intenzione di farlo. È stata una cosa abbastanza spontanea.
Lei posò la tazza vuota sul tavolo, lanciandomi uno strano sguardo. – Sei un uomo fuori dall’ordinario, Haytham.
Scoppiai a ridere. – È un complimento o un insulto?
Sorrise. – Qualcosa nel mezzo – disse, guardandomi negli occhi e torcendosi le mani senza sapere bene cosa fare. Aveva ancora il vestito macchiato di sangue. – Davvero, non ho mai conosciuto un uomo come te. Sei sincero, ironico, gentile. Sei diverso dagli altri.
Rimasi quasi scioccato da quelle parole.
Diverso.
Ero diverso dagli Assassini, ero diverso dai Templari, ero diverso dagli altri uomini. Non avevo una categoria. Ero Haytham Kenway e basta, non potevo essere paragonato a nessun altro. Mi portai la mano alla testa con un sussulto. – Sei ancora convinta di voler sentire la mia storia? Nonostante…
Ridacchiò. – Haytham, non devi preoccuparti per quello che è successo. Davvero. Sta’ tranquillo – sussurrò, stringendo la mano tra le sue. Riuscivo a sentire i piccoli calli causati dall’addestramento alle armi. – Voglio sentire quella storia dalla prima all’ultima parola.
Sorrisi di rimando. – Ma giura di non parlarne con nessuno.
– Con nessuno? – chiese, sorpresa. – Potrebbe mettermi in pericolo?
Sospirai. – Sì, e ti prometto che se questo ti spaventerà potrai tirarti indietro quando vuoi. Te lo prometto, Alice. Però… se intendi restare nonostante tutto, devi promettere di mantenere il segreto.
Abbassò lo sguardo un secondo. – Te lo prometto, Haytham.
Scrollai la testa e ripresi fiato, pronto a raccontargli la verità, quella che avevo nascosto a Tiio per l’intera durata della nostra relazione.
 
Avevo deciso di fidarmi di lei perché non mi ero mai fidato di nessuno. Avevo sempre tenuto dentro di me segreti inconfessabili, avevo serbato rancore e non ero mai riuscito ad aprirmi completamente con nessuno, per cui decisi che se Alice voleva anche solo essere una mia alleata, doveva sapere tutto. Tutto. Presi lentamente fiato prima di cominciare.
Le raccontai ogni cosa, partendo dalla mia vita a Londra: l’esistenza di Templari e Assassini, l’omicidio di mio padre, l’ingresso di Reginald nella mia vita, l’accoglienza nell’Ordine e le varie missioni sotto Edward Braddock, l’arrivo nel Nuovo Mondo, il mio rapporto con Tiio e l’inutile partenza alla ricerca di mia sorella, solo per vederla morire davanti ai miei occhi. Poi, il ritorno in America e la cattura da parte dei miei vecchi amici, l’accusa di tradimento e il salvataggio da parte degli Assassini. E da lì, la mia presenza al massacro di Boston, in quel giorno del 1770. Il resto lo conosceva.
Per tutto il tempo non disse una parola, ma rimase sorprendentemente seria e silenziosa. Posò gli occhi grigi nei miei con dolcezza e abbozzò un sorriso, portandosi un ricciolo biondo dietro le orecchie. Non potei fare a meno di notare quanto fosse bella. – Immagino che mi tirerai un calcio e mi sbatterai fuori di casa nel giro di tre secondi, giusto? – chiesi con un piccolo sorriso.
Sembrò offesa, per un attimo. – Può sembrarti strano, Haytham, ma ti credo.
Sgranai gli occhi, sorpreso. – Cosa? Come… Come puoi? Non ti sembra una storia assurda?
Sorrise, gli occhi che tradivano tristezza. – Ad essere sincera, no. E posso anche dirti perché. Seguimi, Haytham. – Si alzò di scatto e s’incamminò lungo il corridoio, entrando nella camera da letto. Inizialmente mi sentii un po’ a disagio: sul letto vi era un grande ritratto di famiglia, ma nessuno che somigliasse minimamente ad Alice, e di fronte c’era una grande cassettiera sulla quale erano poggiate diverse scatoline e un paio di portagioie. Cominciò rapidamente a scavare in una piccola scatola laccata e notò che il quadro aveva attirato la mia attenzione. Sorrise distrattamente, richiamando la mia attenzione poggiandomi la mano sul braccio. – Guarda qui.
Mi voltai a guardarla e lei aprì lentamente il pugno, con aria solenne.
All’interno, sulla sua mano, vi era un anello metallico che conoscevo bene. Feci per prenderlo, ma lei lo sollevò alla luce della finestra. – Apparteneva a mio padre, Haytham. Faceva parte anche lui del vostro Ordine. Credo che mi abbia insegnato a combattere per quello. – Scrollò il capo, battendo violentemente le palpebre. Sembrava sul punto di scoppiare in lacrime.
– Alice… – sussurrai, premendo le mani sulle sue spalle.
Chiuse gli occhi, mordicchiandosi il labbro inferiore con insicurezza. Non vidi nemmeno una lacrima scivolare lungo le sue guance. – Mi diceva che il mondo era pieno di cattiveria e io, in qualità di donna, dovevo esservi preparata. Dovevo combatterlo. Dovevo avere la mia dignità, combattere non per il caos, ma per una legge.
Sorrisi leggermente. – Un mondo in cui tutti obbediscano alle stesse parole, senza distinzione, ma con una disciplina che non garantisca abusi – completai per lei. Era esattamente ciò in cui credevo io. – Sai, non sono molti i Templari a pensarla così. Ufficialmente sì, ma molti uomini – Templari o no – crollano, sopraffatti dalla sete di potere.
Si voltò verso di me con sicurezza. – Quel ritratto, Haytham, rappresenta la famiglia di mio padre. Guardalo.
Portai di nuovo lo sguardo sul quadro e rimasi esterrefatto. Erano ritratti un uomo sui cinquant’anni, i capelli già bianchi, e altri quattro ragazzi decisamente più giovani, tutti con i capelli castano chiaro e l’aria seria. Due di loro avevano delle donne al fianco, donne belle ed altere come suore o icone religiose. E solo uno degli uomini, con lo sguardo grigio, vivo e familiare, non portava una fin troppo familiare polsiera, abilmente mimetizzata con gli abiti eleganti.
– Erano tutti Assassini – sussurrai, sorpreso. – Non posso crederci.
Per un attimo immaginai il signor Jackson afferrato per una spalla mentre qualche altro membro dell’Ordine gli sputava in faccia la verità, che era un Templare con il cervello di un Assassino, esattamente come Reginald aveva fatto con me. Scrollai il capo per scacciare quel pensiero. – Come mio padre – mormorai.
Alice mise la mano sulla mia spalla, sospirando con tristezza. – Haytham, l’hanno giustiziato davanti a me. Credo fossero mercenari, perché conoscevo bene alcuni Templari e questi uomini non avevano nemmeno una maschera. Ci hanno afferrati entrambi e trascinati in un vicolo, erano in cinque. Due hanno pensato a tenere ferma me, due lo hanno bloccato al muro e un quinto gli ha tagliato la gola da orecchio a orecchio. Ero disperata. – Mi guardò un attimo, come se vedesse quella stessa tristezza nei miei occhi. – Mi hanno lanciato l’anello con la Croce e sono spariti, dicendo che dovevo vergognarmi e ritenermi fortunata. Non mi hanno nemmeno toccato, Haytham – aggiunse, vedendo l’espressione truce che avevo assunto. – Sono stati molto… corretti, oserei dire, da quel punto di vista. Sei il primo Templare che vedo da quella volta.
Sorrisi tristemente. – Entrambi traditi dal nostro stesso Ordine.
Lei mi guardò, sorridendo di rimando. – A dire il vero, i Templari pensano l’esatto contrario. Che voi abbiate tradito l’Ordine.
Scrollai appena le spalle. – E per quanto riguarda Tiio… - mi guardò sollevando un sopracciglio. – Non è andata come pensavi.
– Speravo che si mostrasse più comprensiva, a dire il vero – sussurrai. – Non ha mai tollerato la mia appartenenza all’Ordine. Ha sempre prediletto gli Assassini.
– E immagino che Connor non sia semplicemente un tuo “conoscente”.
Sorrisi. – Lui è mio figlio, Alice, ma il nostro rapporto è pieno di buchi e di vuoti che non possono essere riparati. Siamo troppo distanti, credimi.
– In effetti c’è qualcosa di te in lui – mi lanciò uno sguardo indagatore.
– Di sicuro non il senso dell’umorismo.
Ridacchiò, poggiandosi appena al mio braccio. – Ed è un Assassino anche lui, giusto? Mentre William Johnson, l’uomo che vuole acquistare la sua terra, è un Templare.
– Esattamente. E, Alice – presi tutto il coraggio che avevo in corpo per rivelargli quell’ultimo segreto – immagino tu conosca i Frutti dell’Eden.
Storse appena il naso, come se l’idea non la entusiasmasse. – Papà me ne aveva parlato, sì. Antichi e potentissimi manufatti lasciati da uno strano popolo di predecessori.
– Studentessa modello, vedo – le dissi ironico. – Ho intenzione di prenderne possesso per risolvere un dubbio personale. Poi ho giurato di cederla agli Assassini, nonostante non sia ancora sicuro dell’uso che potrebbero farne.
Mi guardò battendo le palpebre. Non riusciva a crederci? – E di che dubbio si tratta?
Scossi la testa, distogliendo rapidamente lo sguardo dal suo. – Io… è una cosa di cui preferisco non parlare.
 La sentii ridacchiare. – Haytham – mi richiamò, prendendo dolcemente il mio viso tra le mani – quando ti andrà, io sono qui.
Si chinò dolcemente verso di me, le mani che scivolavano lungo il mio collo, e poggiai le mie sulla sua schiena. Sorrisi, sentendomi finalmente libero, lasciai che il suo corpo aderisse al mio. Sentivo il suo cuore battere contro le costole, accanto e opposto al mio, e lei strofinò il viso sulla mia camicia sporca di sangue.
Alice Jackson si sollevò lentamente sulle punte dei piedi, sorridendomi con la testa china. Portai un dito sotto il suo viso, sollevandolo, e sfiorai la punta del naso contro il suo. Ridacchiò sussurrando il mio nome e feci ironicamente lo stesso.
Poi presi un ultimo respiro dal naso, felice di essere lì, felice di essere con lei, e chiusi gli occhi, portando le labbra a cozzare con le sue e baciandola con una passione e un’iniziativa che non avevo mai avuto in tutta la mia vita, né con Tiio né con qualunque altra donna. 

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Capitolo 13
*** Cuore. ***


– Tutto bene, Haytham?
Grugnii, passandomi una mano sugli occhi. Avevo passato tutto il pomeriggio a casa di Alice, standole vicino e chiedendomi se stavo facendo la cosa giusta, se lasciarmi andare con una donna il cui passato era così simile al mio fosse davvero la scelta giusta.
Poi avevo riflettuto, rendendomi conto di quanto poco nelle mie esperienze passate avesse contato la scelta del momento rispetto alle conseguenze, e mi ero buttato, decidendo di starle il più possibile accanto e godermi quei momenti rubati all’estremo ed estenuante controllo degli Assassini.
– Sembri stanco – disse di nuovo Achille, guardandomi con un sorriso.
Scrollai le spalle in risposta e presi fiato. – Dov’è Connor?
– È tornato diverse ore fa – brontolò Achille, le mani strette al bordo del tavolo, in cucina. – Credo abbia combinato un bel casino al porto.
Lo guardai con la testa inclinata di lato. Sembrava esausto, decisamente peggio di me: le rughe che solcavano la sua pelle apparivano più numerose e marcate, teneva gli occhi bassi e le sue gambe tremavano. Sarà stato il pomeriggio il pomeriggio con Alice, ma non riuscii ad andarmene senza preoccuparmi almeno un po’ per lui. – Stai bene?
Mi guardò inarcando appena un sopracciglio. Da Haytham Kenway s’aspettava tutto, ma non quella domanda. Scosse il capo. – Non sono un giovincello, Haytham. Non più…
Feci schioccare la lingua e incrociai le braccia, schernendolo con un sorrisetto. – E dire che fino a ieri mi sembravi così atletico…
Mi guardò sollevando gli occhi al cielo, esasperato. – Perché Connor non è qui a preoccuparsi per la sua tata?
Ridacchiò. – Immagino che tuo padre ti abbia insegnato a portare rispetto per la servitù e le balie – replicò guardandomi appena, come se nominare mio padre e la mia infanzia bastasse per ferirmi o almeno per prendermi in giro. Dio! – Non ti manca mai, Haytham? Una famiglia, intendo.
Risi. Certo che mi mancava, era il motivo per cui i Templari volevano uccidermi! Ero un traditore perché volevo mettere su famiglia con un’Assassina. Avevo urlato davanti all’ordine che, per me, avere una famiglia era più importante dei miei principi. Ma dopo aver sentito le parole di Tiio, dopo aver conosciuto Connor, non posso più dire lo stesso. Lo so, è da vigliacchi. “Ah, volevi una famiglia solo quando eri sicuro che ti sarebbe andata a genio”, no, non è assolutamente così. Il fatto è che volevo una famiglia di nome, quelle sempre perfette, come quella che sarebbe stata la mia se né Reginald né Jenny fossero mai esistiti.
Do spesso la colpa della morte di mio padre anche a Jenny. Reginald non era solo il custode dell’azienda, anzi, era prevalentemente il futuro genero di mio padre. Il motivo principale per cui lui aveva avuto a che fare con i Kenway era Jenny, era il matrimonio. Se Jenny non fosse esistita forse Reginald avrebbe ucciso comunque mio padre, ma loro non sarebbero stati a così stretto contatto, quindi non sarebbe stato esattamente un tradimento e probabilmente Reginald non mi avrebbe preso sotto la propria ala. Forse io e mia madre saremmo fuggiti da qualche altro Assassino – ma chi? Io non ne ho mai conosciuti altri, in Inghilterra – e mi sarei unito alla Confraternita.
Posai lo sguardo su Achille, dopo una lunga pausa in cui mi ero perso nei miei pensieri, e sorrisi. – Secondo te perché volevano impiccarmi, Achille? Perché ho detto che l’anello con la Croce è scomodo da portare in inverno? – Scrollai il capo. – Prima di conoscere Connor, prima di capire che anche Tiio mi disprezzava in qualità di Templare, tutto ciò che volevo era una bella famiglia.
In quel momento Achille abbassò gli occhi, scosse la testa e pronunciò alcune parole che con tutta probabilità non scorderò mai. – Chi lotta per una grande causa, non importa quale sia, basta che sia grande ed importante per l’individuo, non avrà mai una vita felice. Sarà assorbito da essa come in un tornado, risucchiato e spolpato fino alle ossa, fino a morire solo, certo, ma fiero di sé per averci provato.
Battei le palpebre, guardandolo con attenzione. Mentre parlava, una parte di me, nel mio cervello, si era alzata in piedi e stava gridando: “Ehi, sono qui! Stai parlando di me!”, ma cercai di mantenere il controllo e mi schiarii la gola per spezzare il silenzio. – Ed è un bene, secondo te? – Achille mi lanciò un’occhiata perplessa. – Dio, questo fatto del morire fieri di se stessi ma soli.
Mi guardò dritto negli occhi – all’improvviso non mi sembrava più solo vecchio, mi appariva come un saggio e vecchio maestro che dispensa tutti i suoi segreti al discepolo perché sa di star per morire e ha bisogno di certezze, di qualcuno che lo ascolti e gli dia attenzione per l’ultima volta – poi sospirò e disse: – Non chiederlo a me, Haytham. Ormai dovresti averlo imparato. L’unica opinione che conta è la nostra.
Sorrisi. Era una delle mie regole di vita, infischiarmi dell’opinione altrui. – Mi è sempre sembrato un pensiero molto templare. Cioè, voi sembrate così altruisti, pronti a fare di tutti per chi non vi darà mai nulla indietro. – Possono sembrare qualità positive, ma le pronunciai con sdegno. – Insomma, apparite come coloro che ascoltano sempre tutto e non sbagliano mai, quelli che sanno sempre chi è il buono e chi il cattivo, mentre spesso uccidete uomini senza nemmeno conoscerli. Lo so, ora stai per dire: “Non è esattamente quello che fai tu?”, ma io sono diverso, io non ho un Credo santarellino da seguire.
Achille mi guardò sospirando, come se non potesse farci nulla. – Entrambi gli Ordini pensano di essere dei soprelevati dal popolo, dei prescelti, ecco. La sola differenza è che il nostro si poggia sulla fiducia nella gente comune, il vostro sulla fiducia in se stessi.
Sorrisi nervosamente. – Un uomo insicuro non può guidare una nazione. Ecco perché non sostengo Washington.
Achille reclinò il capo e scrollò le spalle. – Quell’uomo ha stoffa.
– Sì, la stoffa del piromane – borbottai con sarcasmo.
Mi guardò con scherno, ma non riuscì a trattenere un risolino. – Haytham, voi Templari siete infilati nella politica fino al collo e pensate sempre di riuscire a fare le cose meglio degli altri…
Gli mostrai i pollici sollevati: – Fiducia in se stessi!
Scosse la testa, sospirando, e continuò: - La verità è che non sempre ciò che è meglio per noi è meglio per gli altri.
– È una lezione di filosofia o cosa?
– Piantala. Bisogna capire che cosa è meglio fare, se si è in politica.
Portai le braccia dietro la nuca con un sorrisetto. – Non sono portato per la politica. È sempre stato Charles quello che voleva far carriera. Nell’esercito, nei Templari…
– E c’è riuscito?
Grugnii. – Non finché c’è Washington. E per quanto riguarda i Templari, be’, era un ragazzo, era il mio pupillo e…
Scoppiò a ridere come non avevo mai sentito. – Diciamo solo che ti venerava come tu facevi con tuo padre.
– Sei un ipocrita – replicai rabbiosamente. – Charles aveva quella scintilla ambiziosa negli occhi, quello che lo ha portato a fare successo persino nell’ordine e a diventare nuovo diretto sottomesso di Reginald. Io non ero così.
– Ma preferiresti che Connor lo fosse, giusto?
Battei il palmo aperto sul tavolo. – Vorrei solo che mi giudicasse per ciò che sono e non per l’anello che porto al dito.
Sospirò. – Parli come se fossi una brava persona.
Sorrisi. – Sono pur sempre un bravo figlio di papà inglese, no? – ironizzai, guardandolo negli occhi. – Abbozzò un sorriso prima di scrollare le spalle come se fossi irrecuperabile. – Forza, Achille, non sono esattamente una cattiva persona.
Scosse la testa, sembrò pensarci un attimo su. – Ma non sei un santo.
– Ah, mai detto di esserlo – ribattei mostrando le mani aperte con un sorrisetto. – Allora, Connor non si preoccupa minimamente per te?
Mi guardò come se avessi appena bestemmiato. – Ha altri grilli per la testa.
Sospirai. – Ti sbagli. Andiamo, Achille, sei la persona più simile ad un padre che lui abbia mai avuto. Lo sai. Non può avere altre cose a cui pensare.
– Il villaggio e William Johnson sono più importanti.
Mi appostai accanto a lui e poggiai una mano sulle sue spalle con un brivido di terrore che correva lungo la mia schiena, mormorando: – Credi di essere in punto di morte?
So di non essere un uomo con tatto. – È la sorte dei vecchi. Certi giorni senti l’alito della morte lì, freddo sul tuo collo, e altri pensi di poter uccidere cento Templari in una volta. – Sospirò con nostalgia. – Non invecchiare mai.
Sorrisi, dandogli una pacca sulla spalla. – Non essere così pessimista. Metti la depressione a noi giovani!
Rise appena, portandosi la mano al petto come se gli facesse male il cuore. Impallidii. – Vuoi che chiami Connor?
Mi guardò un attimo, la mano ferma in quel punto e la bocca semiaperta, poi lo vidi irrigidirsi e roteare gli occhi all’indietro, la cornea bianca in bella vista. Crollò a terra e scattai su di lui, l’orecchio poggiato sul suo petto.
Niente.
– Cazzo! – imprecai a voce alta, cercando di ricordare le scarse lezioni di primo soccorso tenute durante l’addestramento militare sotto Edward Braddock.
Cominciai a comprimergli il petto con una certa violenza, mordicchiandomi il labbro e cercando di mantenere la calma. Gli aprii la bocca e soffiai, ricordando il momento in cui avevo dovuto fare la stessa cosa su un altro soldato, durante gli inverni olandesi. E Edward mi aveva sollevato per un orecchio, esclamando: “Kenway, sei proprio una femminuccia smidollata! Sei un soldato, maledizione, non una baldracca! Lascialo ai medici e va’ a combattere, figlio di puttana!”, e io gli avevo dato un pugno in faccia, giurando su Dio che non avrei mai più salvato un suo uomo dalla morte. Se può interessarvi, mantenni la promessa.
Soffiai con più forza, continuando a comprimere il torace di Achille. Mi sentivo uno stupido, ma quell’uomo non meritava una simile morte. E se fosse morto con me lì, Connor me ne avrebbe dato la colpa. In più avrei dovuto sopportarlo per molto più tempo.
Il vecchio tossì, sollevandosi appena, e mi sentii come se mi avessero appena tolto un grande peso dalle spalle. – Cosa…?
Gli diedi un colpetto sullo sterno con un sorriso. – Non sei tanto vecchio da morire, Davenport.
Me lo caricai in spalla e lo poggiai sul suo letto, pronto a far fare una figuraccia a Connor.
Lo so, sono un bastardo.
 
Lasciai Achille solo nella sua stanza dopo avergli dato una tazza di tè e scesi in cantina, sapendo che vi avrei trovato mio figlio. Ed eccolo lì, infatti, a squadrare i ritratti di me e degli altri Templari con le braccia incrociate, come se stesse escogitando un piano. Mi fermai pochi passi dietro di lui, leggiadro e silenzioso come un predatore, e sorrisi nel vederlo sobbalzare mentre parlavo. – Quel ritratto è abbastanza fedele, ma sembro un po’ troppo giovane. E Charles… probabilmente era appena entrato nell’esercito, ai tempi di quel dipinto.
Si voltò a guardarmi con un’espressione rabbiosa e per poco non scoppiai a ridergi in faccia. Non che mi preoccupassi della sua reazione, ma dovevo restare serio per attuare come si deve il mio piano. – Che ci fai qui? Pensavo fossi rimasto in città.
– Oh, certo, è il sogno della mia vita dormire in mezzo ad una strada – sibilai con sarcasmo. – Non ho un posto letto a Boston.
Grugnì. – Potevi stare in una locanda. O da quella donna.
Il suo tono mi infastidì. Non poteva rivolgersi ad Alice in quel modo senza nemmeno conoscerla. – Quella donna ha un nome – replicai – e mi ha aiutato molto più di quanto tu possa fare.
Mi voltò le spalle, tornando a guardare i dipinti e sfiorando con le dia il viso di William Johnson, il primo uomo che avevo reclutato e il primo cercato da Connor. Coincidenze? – Secondo te vuole la Mela? – chiese, insicuro. – O lo fa solo per politica?
Ridacchiai. – Con Reginald qui? Assolutamente no. Bramano il Frutto dell’Eden per aprire il Grande Tempio, è ovvio. La spacciano per politica, ma non è niente del genere – dissi con calma. – Scommetto che se non ci fosse tutto questo gran casino del tè e della Corona sarebbero già riusciti ad impossessarsene. A proposito, hai parlato della Mela col tuo amico?
Sbuffò. – Non ne saranno felici, naturalmente, ma se li aiuteremo a liberarsi di Johnson ci aiuteranno più volentieri. E hai giurato di restituirla al mio popolo dopo averla usata.
– Non ho intenzione di tenerla. – Era la verità. Reginald mi aveva parlato di un Assassino, Altaïr Ibn-La’Ahad, che finì quasi consumato dal potere della Mela, con la quale uccise erroneamente la moglie e rischiò di impazzire. Non volevo uccidere, anche per caso, Alice, l’unica persona a cui tenevo ancora. – Anche se prima vorrei vedere cosa contiene quel tempio.
Scrollò le spalle. – Se vi interessa così tanto, piacerebbe anche a me – rispose Connor senza guardarmi.  –Forse, un giorno. Giunone è stata chiara, è fondamentale che l’amuleto sia nelle mani degli Assassini.
– E la Mela?
– Non l’ha nominata – bofonchiò.
Ci pensai su un momento. – Forse non sapeva dell’arrivo di Reginald.
Mi guardò come se fossi pazzo. – Stai parlando di Giunone. Uno… spirito, un fantasma, forse una dèa! Se vuole che gli Assassini abbiano l’amuleto, certamente conosce il futuro. Quindi doveva anche essere a conoscenza dell’arrivo di Birch e… tutto il resto.
Scrollai le spalle con noncuranza. – Potresti provare a parlarle di nuovo – proposi senza guardarlo. – Si, insomma… attraverso la Mela. Come la prima volta.
Si voltò a scrutarmi con gli occhi sgranati: - Sei sicuro di star bene?
– Magnificamente – replicai. Perché non aveva fiducia nelle mie idee? Oh, già, l’Ordine. – Se è già successo una volta, potrebbe succedere di nuovo. Credo.
– Sei pazzo.
– Almeno non parlo con i fantasmi. Non saresti nemmeno qui se non fosse per Giunone. Credo valga la pena tentare.
Abbassò lo sguardo e scosse impercettibilmente la testa. – Potremmo provarci, okay? Ma dopo. Quando tutti gli altri Templari saranno morti.
Feci scrocchiare le nocche. L’idea di Reginald in una pozza di sangue ai miei piedi mi fece venire l’acquolina in bocca. – E quando succederà… Io che farò? – chiesi, un po’ sorpreso. Non mi ero mai messo a pensare a ciò che avrei fatto… dopo. Dopo la morte di Reginald, dopo aver posto la mia domanda alla Mela. La peggiore delle ipotesi era perdere il controllo a causa del Frutto dell’Eden, la migliore era una vita serena accanto ad Alice e lontano dagli Assassini. Lontano da Connor, l’ultimo legame con il mio passato.
Sospirò, drizzando la schiena. – Magari tornerai a Londra.
– Magari resterò in America a torturarti per il resto della tua misera vita – sibilai di rimando, le mani dietro la schiena. Sorrisi appena, guardandolo di sottecchi. – Sarebbe divertente.
Sbuffò, poggiando le mani sul tavolo, e mi rivolse uno sguardo colmo di astio. – Non sei proprio capace di fare il padre, eh? – mi ringhiò contro, guardandomi per un istante e uscendo dalla cantina come una furia.
Mi ritrovai solo, a camminare per la stanza con gli occhi fissi sul ritratto di Reginald, pensando. Mio padre era stato un Mentore, un maestro, una figura da idolatrare – quasi un dio – nato per indicarmi la retta via come con una luce divina. Non era il tipo di padre che ti porta in barca sul Tamigi e ti insegna a pescare, assolutamente.
Come potevo essere un buon padre io, che non ne avevo mai avuto realmente uno?
Scrollai le spalle e mi ritirai nella mia stanza senza nemmeno cenare, lasciando che Connor scoprisse il mezzo attacco di cuore di Achille da solo.
 
Con l’orecchio poggiato contro il muro della mia minuscola stanza da bagno riuscivo a sentire Connor e Achille discutere in modo piuttosto animato. Quando udii i passi di Connor farsi più forti e pesanti uscii dal bagno e mi lasciai andare sul letto con un sorriso spavaldo.
Piombò nella mia stanza con l’impeto di un elefante, le mani strette a pugno lungo i fianchi. – Perché non me lo hai detto?
Sorrisi, lanciandogli un’occhiata soddisfatta. – Di che cosa stai parlando, ragazzo?
Fece un passo avanti con sdegno, come se la mia sola presenza lo schifasse. – Lo sai benissimo.
– Eri così impegnato con la tua stupida causa persa, a rinnegare il passato, che non ti sei nemmeno minimamente preoccupato della salute di Achille – mormorai scuotendo la testa. – Sei un ipocrita. È il tuo Mentore, avresti dovuto capire subito che non era in forma.
Mi scoccò un’occhiataccia. – E da quando in qua sei compassionevole verso qualcuno che non sia te stesso?
Ridacchiai scrollando il capo, senza guardarlo. – Non ho detto di essere stato compassionevole. Ho fatto solo ciò che era giusto – risposi con le mani in tasca, scattando velocemente in piedi. – Mentre tu… che stavi facendo esattamente?
– Vuoi saperlo? – ringhiò in preda alla rabbia, sul punto di darmi un pugno in faccia. – Perché non credo sia giusto dirlo ad un Templare!
Lo guardai con ironia. – Davvero? Anche io ho sempre pensato che non fosse giusto salvare il culo a voi Assassini innumerevoli volte!
– L’hai fatto solo perché sapevi che ti saremmo tornati utili! – mi abbaiò contro rabbioso, gli occhi scuri ridotti a due fessure.
Risi. – E senti chi parla! Voi avete bisogno di me molto più di quanto io necessiti del vostro aiuto! – risposi ad alta voce, senza pensare. – Potrei uccidervi tutti, rubare qualche provvista, un po’ di denaro e scappare.
Mi guardò scrollando la testa. – E andare dove? Dai tuoi amici Templari? A Londra nuotando? O verso Occidente, nelle terre ancora inesplorate? Potresti fingerti un indiano! Lascia perdere, Haytham!
Gli restituii l’occhiata truce, sospirando. – Stavamo parlando di Achille, questa storia non c’entra nulla. Connor, voi Assassini pensate di essere gentili, altruisti, sempre pronti a sacrificarvi per un fratello, ma la verità è che sei come me. Egoista fino al midollo. Di chi ti preoccupi? Solo degli abitanti del tuo villaggio, di coloro a cui tieni! Ma tutti gli altri non esistono per te.
– Che cosa stai dicendo? – sussurrò. Sembrava parlasse con un fantasma, uno spirito maligno da scacciare al più presto. – Io non sono come te! Adesso la mia priorità è salvare il villaggio, ma posso giurarti su qualsiasi cosa che quando William Johnson sarà morto mi preoccuperò esclusivamente della causa dei coloni.
Imprecai a voce bassa e sfoderai un sorrisetto, di quelli sarcastici e sfrontati. – Giuralo sulla tua vita, allora, Connor.
– Perdio, non fare il bambino.
– Non sto facendo il bambino! – sibilai di rimando, le braccia incrociate. – È la verità. Vi nascondete dietro la facciata dei buoni, ma siamo uguali.
Mi puntò contro l’indice, accusatorio. – Non ti permettere.
– Hai ragione, almeno i Templari sono consapevoli di ciò che siamo e di come va il mondo – risposi. – E ora esci di qui. Preoccupati del tuo Mentore. Io sono solo un Templare, giusto? Non servo a nulla.
Portò il braccio indietro, come per tirarmi un pugno, ma l’afferrai e lo torsi dietro la sua schiena prima che avesse tempo di reagire in qualche modo. – Che cosa credi di fare? – mormorai nelle sue orecchie, la voce ferma. – Liberarti di me? Uccidermi? Allora preparati a morire a tua volta. Consegnarmi? Sarebbe inutile. La vostra unica possibilità è la convivenza, e sappiamo che nessuno dei due ne è felice, ma, suvvia, che possiamo farci?
Provò a divincolarsi. – Se tu non fossi tanto infantile…
– Io non sono infantile – ribattei a voce più alta.
Sospirò. – Allora perché non mi hai parlato di Achille?
Lo guardai con rammarico. Ero tentato di ucciderlo. Non avevo altre possibilità: ucciderlo o lasciare che gli Assassini lo assorbissero del tutto. E per la mia coscienza – ma quale coscienza? Gesù, ne avevo ancora una? – vi erano differenze? O la sua presenza nella mia vita non aveva alcuna importanza?
Era solo la chiave per arrivare al Tempio o vedevo in lui anche il sangue del mio sangue?
Decisi che avrei dovuto pensarci e che quello non era assolutamente il momento adatto per farlo. – Ho agito all’improvviso, d’accordo? Non l’ho salvato perché tengo alla sua vita, l’ho salvato perché se l’avessi lasciato morire sarebbe stata colpa mia. Maledizione, Connor, come puoi non capire? Non possiamo collaborare e arrivare ad un compromesso se continuiamo a farci gli scherzetti come dei bambini di cinque anni!
– Detto dall’uomo che mi tiene fermo per un braccio quando potremmo parlare a quattr’occhi…
Lo spinsi in avanti lasciandolo andare, un po’ irritato, e continuai. – Io non sono come te, Connor, non cerco la gloria nelle buone azioni. Perché non sono un uomo buono, non salvo i gattini sugli alberi, non do la carità alle vecchie lebbrose lungo la strada! Faccio ciò che ritengo giusto, che non sempre corrisponde al bene. E, ad ogni modo, credo che Achille sia una brava persona e non meriti una morte prematura.
Mi guardò inarcando un sopracciglio, come se stesse esplorando una parte di me che non aveva mai visto prima. – Hai dato la morte prematura a moltissime persone. Da quando in qua te ne fai uno scrupolo, Haytham? – ridacchiò. – Achille è un Assassino come me, come tutti gli altri. Qual è la differenza?
Lo fulminai con lo sguardo. –Ti sembra che abbia cercato di farti fuori spesso, da quando mi avete rapito? – sibilai. – Lo ammetto, ne sono stato tentato, ma sei ancora in piedi, tu come quel fottuto vecchio, e non credo sarebbe stato difficile ammazzarvi entrambi. Hai altre domande?
Mi lasciai cadere sul mio letto, steso, le braccia dietro la nuca. Si sedette ai piedi del letto con un sorrisetto. – Solo un paio di osservazioni – esclamò. – Quindi hai salvato Achille per te stesso.
– Perspicace.
Roteò gli occhi. – Però… è ironico. – Sgranai gli occhi, curioso. Mio figlio era donato di ironia? Che momento memorabile. – Insomma, hai detto di non cercare la gloria nelle buone azioni. Quindi, pensandoci, agisci nell’ombra per servire la luce. – Si voltò a guardarmi con uno strano sorriso e mi diede una leggera pacca sul ginocchio. – Sei proprio un Templare con il cervello di un Assassino, Haytham.
Quelle parole facevano mille volte più male dette da lui – il suono della sua voce le faceva sembrare parole di scherno – che da Reginald e da a Achille. Gli sputai sulla veste in risposta, guardandolo alzarsi con gli occhi pieni di sdegno. Si allontanò velocemente, sbattendo la porta, e mi sentii quasi umiliato.
Umiliato da un maledetto ragazzino che non sarebbe stato in grado di mettere al tappeto nemmeno un bambino.
Scossi la testa con furia e mollai un calcio alla struttura del letto, mormorando tra me e me che forse sarebbe stato meglio se avessi lasciato uccidere Achille da quel suo stupido e mal funzionante cuore.
 
Quando mi svegliai, la mattina dopo, trovai un Assassino davanti alla porta della camera di Achille, e mi limitai a squadrarlo con un sopracciglio sollevato. – Ebbene?
L’Assassino portò una mano all’impugnatura della spada, senza sfoderarla, e rimasi a guardarlo per vedere che cosa avrebbe mai potuto farmi. – Connor mi ha ordinato di non farti entrare.
Ridacchiai, avanzando di un passo. – Credevo fosse Achille il Mentore – sibilai, rivolgendo un’occhiata impertinente all’Assassino.
– Gli ordini sono ordini. Vattene.
Lo ignorai apertamente, le mani affondate nelle tasche. Avevo indossato una camicia bianca lavata di fresco – non chiedetemi da chi, per piacere – e mi sentivo straordinariamente bene. Non sarebbero bastati mille Assassini per spaventarmi. – Come sta? – chiesi, indicando la porta con un cenno.
– Meglio, ma non è ancora nelle condizioni di mangiare da solo.
Grugnii con frustrazione e un certo disgusto. – Se non fosse stato per me non sarebbe nemmeno nelle condizioni di respirare – replicai, acido. Dopodiché rivolsi all’Assassino un sorrisetto e sollevai il cappello. – Buona giornata. A proposito, Connor?
– È in città.
Sbuffai. Le risposte esaurienti di quell’uomo mi avrebbero fatto perdere la testa, prima o poi. Maledetto. Pensai che semmai gli avessi chiesto di che materiale fosse la porta mi avrebbe risposto: “Legno”, senza altre specificazioni. – A dopo – sentenziai chinando la testa e uscendo dalla villa velocemente, montando sul primo cavallo nelle vicinanze e galoppando a più non posso verso Boston, con una fredda voglia nel petto di andarmene e uscire per sempre da quella storia.
Andai abbastanza lentamente per le colline, senza troppa fretta, avanzando sui sentieri pieni di mercanti, contadini e gente come me, in viaggio. Le due ore e passa sul cavallo avrebbero potuto spaccare la schiena di qualsiasi uomo della mia età, ma non la mia. Mi sentivo una specie di roccia, indistruttibile. La gente mi scorreva ai lati come un fiume, ignorandomi: ero solo un colono come gli altri, non avevo un’uniforme in grado di spaventarli né armi sfoderate. Non ero considerato ufficialmente un pericolo.
Il fatto è che il popolo ha un (ennesimo) difetto: non riesce a mantenere i propri sentimenti per sé, non è in grado di mantenere la calma. Ad ogni modo, mi bastò osservare un paio delle persone attorno a me per capire che c’erano delle giubbe rosse in avvicinamento, oltre all’ostentatissimo suono dei tamburi di guerra e i passi pesanti sul terreno, come a dire: “Fermatevi tutti, perché l’onorevole George Washington e l’Esercito Britannico stanno passando e dovete mostrare rispetto per questo!”. Il che, naturalmente, non faceva che aumentare la mia ostilità nei confronti di… be’, un po’ di tutti e tutto ciò che mi circondava. Quando mi oltrepassarono i sergenti, scoccandomi occhiatacce torve semplicemente perché non li stavo guardando con rispetto e reverenza, sollevai il cappello nella loro direzione con ironia, mostrando un piccolo sorriso. Per un attimo pensai che fossero sul punto di spararmi o, peggio, di riconoscermi e consegnarmi a Charles, ma passai oltre spronando il cavallo con stizza. Non avevo bisogno di altri guai.
Lungo la strada, per la prima volta notai quanto odio aveva provocato quella tassa sul tè. Ironicamente, volevamo staccarci dalla Corona ma eravamo dipendenti dal suo tè come da una droga. Comunque, la gente si preoccupava moltissimo per questa storia. – Avete sentito? Un altro aumento sul tè. Ora costa un occhio della testa. Giuro su Dio che se quella mera non comincia a costare di meno attraverso il maledetto Oceano e vado a dire due paroline a Sua Maestà – diceva qualche contadino, e gli altri annuivano con convinzione e levavano i pugni. Con le giubbe rosse pochi metri indietro. L’idiozia della gente non mi stupiva più, ma non avrei certo impedito una strage perché dei contadinotti non sapevano cosa fosse giusto e sbagliato dire in periodi come quello.
Due o tre ore dopo ero a Boston; lasciai il cavallo davanti ad una locanda ed attraversai la città arrampicandomi sui tetti, facendo attenzione alle giubbe rosse di pattuglia e respirando l’aria fredda dell’inverno. Una meraviglia.
Scivolai lungo il muro della casa di Alice e bussai alla porta, sorridendo appena. Durante il poco tempo che impiegò per attraversare la casa ed aprirmi pensai il peggio: che l’avessero rapita, uccisa, che si fosse cacciata nei guai…
Così le saltai al collo appena spalancò la porta, in un impeto d’affetto che la fece scoppiare a ridere. Ne fui felice, e sorrisi mentre respiravo a fondo l’odore dei suoi capelli. Non mi ero ancora reso conto di quanto quella sua risata fosse nervosa, tremante, strana. – Che succede?
Scrollai le spalle. – Avevo bisogno di distrarmi un po’. E non credo di poter resistere alla tenuta ancora per molto – risposi, prendendo un respiro senza lasciarla andare. – Inoltre, be’, il centro del potere templare è Boston, ora come ora. Due piccioni con una fava.
Lei si staccò da me, a malincuore, e mi trascinò dentro. – Non è bene parlare di queste cose all’aperto. Siediti, su.
Avanzai nella casa semibuia e mi accomodai su una sedia in cucina, guardandola mentre faceva lo stesso. Era così bella. Non riuscivo a togliermi dalla mente il nostro ultimo incontro, solo il giorno prima, quando l’avevo baciata. Chissà a cosa pensava lei. – Alice, c’è qualcosa che non va? – le chiesi, sfiorando la sua mano. Mi sembrava un po’ triste. Nei suoi occhi c’era qualcosa di diverso. Non era semplice tristezza, nemmeno paura, quello sguardo grigio era iniettato di sangue, sbarrato, come quello di un folle. Sembrava avesse visto un fantasma. – Tutto bene? – chiesi, allungando ancora un po’ la mano per afferrare la sua. Mi ero allontanato dalla tenuta per passare del tempo piacevole con qualcuno, non m’aspettavo certo di doverla consolare. Non lei, così indipendente, libera e senza problemi. Sarò anche egoista, lo so, ma sentivo di essere io quello con più grane, e speravo che Alice mi aiutasse a risolverli. Mi distraesse.
Sfiorò la mia mano con le dita tremanti e lo sguardo sfuggente. – Haytham – sussurrò lamentosa – che cosa ci fai qui?
Ridacchiai, sollevandole il viso con un dito. – Ho bisogno di rattoppare la redingote, per quello ho  cavalcato mezza giornata. Sai, gli Assassini non sono dei grandi sarti. – Guardandola negli occhi rimasi un po’ interdetto, quasi spaventato. Pensavo fosse una battuta abbastanza esplicita – anche perché le mie redingote non hanno e non avranno mai bisogno di toppe – ma lei mi guardava senza riconoscermi, non sembrava nemmeno la stessa. – Qualcosa non va? – chiesi di nuovo, l’ansia che si gonfiava nel petto. Avevamo passato gli ultimi pomeriggi insieme, chiacchierando del più e del meno e passeggiando per Boston ridendo allegramente, ma sembrava che quella mattina Alice avesse ricevuto una visita di suo padre direttamente dall’oltretomba.
– Devi andartene – sibilò con freddezza.
Sollevai le sopracciglia. Cosa? – C-come hai detto? – Le mie dita si strinsero spasmodicamente attorno alle sue, facendola gemere a denti stretti. Non era mia intenzione farle del male e allentai appena la presa, la mascella serrata.
Lo sguardo tormentato di Alice Jackson s’infossò nel mio. Sembrava sull’orlo della pazzia. – Quello che stiamo facendo è sbagliato, Haytham.
Se non avesse avuto quell’espressione avrei sogghignato, magari risposto con una battuta, invece riuscii solo ad assumere un cipiglio ancor più corrucciato. – E da quando in qua sei così moralista? Non abbiamo nemmeno…
– Io ci ho pensato. – Mollò la mia mano e prese a torcersi le proprie con la testa bassa. – Avevo un marito.
Sbuffai. – Un marito che hai ucciso, Alice. Un uomo che ha tentato di farti prostituire e ha rovinato la vita di tua figlia. Non credo importi più. – Stava davvero succedendo ciò che pensavo? Che cos’era stato ad innescarlo?
– Una vedova che va allegramente in giro con un altro uomo non fa una buona impressione.
Scrollai le spalle con noncuranza. – Un Assassino mi ha detto che la nostra è la sola opinione a contare, e stranamente gli ho dato ragione.
Lei tornò a guardarmi. – Forse per un uomo, servo della Croce. Le donne non hanno potere.
Trasalii. – Come mi hai chiamato? – bisbigliai, quell’appellativo incastonato nella mente più di ogni altra sua parola. –
Alice si alzò e fece un passo verso di me, gli occhi lucidi di lacrime. – Voi avete cavalli e terreni e potere. I giovani uomini scopano come se non ci fosse nient’altro al mondo mentre le donne sono monache di clausura, quindi direi che per una donna l’opinione altrui conta eccome. – Le sue labbra si stesero in una linea severa. – Sei davvero egoista.
– Egoista? Di cosa diavolo stai parlando? Io volevo solo passare del tempo con te! – Sentivo la rabbia montarmi nel petto assieme alla preoccupazione. – Fino a ieri non avevamo alcun problema, Alice. Che cosa ti è successo? E perché mi hai chiamato in quel modo?
Rimasi in silenzio, succhiando l’aria tra i denti stretti, mentre lei mi si avvicinava barcollando, i palmi aperti sul mio petto. – Perché, non è ciò che sei? Io ho solo capito. Lui ha ragione, Haytham. Io e te non possiamo vederci.
– Lui? Di che parli, tuo marito è morto, tuo padre anche! – Era completamente fuori di testa. Mi sembrava di aver capito che non avesse amici tolto il sottoscritto, e i suoi occhi erano come sassi, lucidi e privi di emozioni, gli occhi di una folle o di un cadavere.
Si mise una mano davanti alla bocca. – Non avrei dovuto… – Singultò, il corpo scosso come da spasmi. – Non dovevo parlarne. È per colpa sua che lui è morto. – Prese lentamente fiato, guardandomi da sotto le lunghe ciglia. Quella non era lei. Non era in sé. – Io non posso starti accanto. Non dopo quello che è successo a mio padre. Vado a New York. Da mia figlia. Prima che le persone comincino a mormorare e…
Mi passò accanto e le strinsi la mano attorno al braccio con una forza tale da fermarle il sangue. – Tu mi ami? – Il suo sguardo inquieto incrociò il mio. – Rispondi. Tu mi ami?
Sogghignò tetramente, liberandosi di me con uno strattone. – No – rispose semplicemente. – Tu?
Indietreggiai per il contraccolpo. No, aveva detto, semplice e spontanea. Eppure nei suoi occhi c’era qualcosa di diverso, lo sapevo. E io l’amavo? Avevo passato con lei l’ultima settimana, era lì quando mi sentivo solo e quando gli Assassini non facevano altro che tormentarmi, le sue labbra sempre a mia disposizione. Era di grande compagnia, carismatica, intelligente, spiritosa, bella. La donna che avrebbe fatto al caso mio, se solo non avessi perso la vera capacità di amare molto tempo prima – quando una certa indigena mi aveva scacciato dalla mia stessa tenda, scappando nel bosco – e lei non avesse cominciato a guardarmi in quel modo, con quel disprezzo rasentante la follia. – No – risposi a mia volta. – No. – Mi piaceva, ma non l’amavo. E non guardatemi in quel modo. Sapete da quanto non avevo l’occasione di parlare del tempo con una donna, di baciarne una? Da quando era nato Connor, da Tiio. Ne avevo bisogno, anche se non c’era vero e proprio amore. Cercavo solo di consolare la mia povera testa, di illudermi un po’.
D’accordo, sono un grandissimo bastardo. Tiratemi pure della frutta marcia in faccia. – Però mi piaci molto.
Mi scoccò un’occhiataccia. – Ti piaccio? Io non posso rovinare la mia reputazione per il primo bastardo a cui piaccio, Haytham. Noi dobbiamo stare lontani.
– Perché? È questo che non riesco a capire. Perché vuoi per forza lasciarmi in questo modo? – Dentro di me stava crescendo anche il panico, brividi gelati mi corsero giù per la schiena.
Sospirò e i suoi occhi divennero quasi fissi. Gli occhi di chi è già morto dentro. – Perché questo è troppo complicato. Tu speravi di trovare uno sfogo, una voce amica, anche io, ma non in te. Non posso. Devi lasciarmi andare.
– Io ti lascerò andare, Alice – mormorai senza nemmeno rendermene conto. – Però non capisco.
– Non è facile, lo so. Ho una famiglia a New York, qui sono soltanto una vedova sgualdrina. E non dirmi di infischiarmene, perché non è così facile! – Sugli occhi grigi le cade un velo di lacrime, mi guarda tremando come una bambina. – Haytham – sussurrò, come se il mio nome potesse salvarla. Come se io potessi salvarla e, in qualche modo, mentre ero accanto a lei sentii quasi di poterlo fare, di impedire che sprofondasse nel buio delle altre donne, quelle che restavano a casa mentre il marito era a vendere cibo al mercato, quelle che si arrendevano alla legge.
Laddove altri sono limitati dalla morale e dalle leggi, ricorda…
Il vomito mi salì improvvisamente in gola assieme alla bile e dovetti fare uno sforzo terribile per rimandarlo giù e non sputarglielo in faccia. Levati dalla testa questi maledetti pensieri da Assassino. Fottuto egoista, bastardo e pure imbecille. – Non è così facile – ripeté mentre sentivo il mio viso impallidire e l’acido scivolare di nuovo verso lo stomaco. – Se tu fossi un po’ meno egoista, se non fossi uno di loro… – Si mise le mani in testa e scoppiò in lacrime, ma un’onda di rabbia mi travolse dall’interno e mi toccò ricorrere a tutta la mia forza di volontà per non colpirla con un manrovescio.
– Un’altra volta! – ringhiai allontanandomi da lei e pestando i piedi. – Quel è il problema dell’essere un Templare, esattamente, si può sapere?
Alice si passò un dito sotto gli occhi, asciugandosi le lacrime. Quel pianto sembrava scollegato dalle sue parole, folle. Privo di senso. – Ogni volta che ti guardo rivedo la morte di mio padre. Sei piombato nella mia vita e mi hai fatto afferrare di nuovo una spada facendo cose che mi hanno messo in pericolo. Io devo andare via. Le voci corrono anche in una grande città, Haytham, e loro lo sapranno.
Aggrottai la fronte con sorpresa mentre lei spalancava la porta per farmi uscire. Loro lo sapranno?
Mi balenò in mente l’immagine di uomini con un familiare anello al dito che sfondano quella stessa porta, magari proprio Reginald, con Charles, Thomas e gli altri. Hickey che prende Alice per le braccia e la spinge contro il muro, un Templare che non conosco l’afferra per i capelli e le grida nelle orecchie che è già un disonore di per sé e frequentando uno come me si caccerà solo in altri guai. Poi la lascia andare e Thomas le solleva la gonna mentre Reginald osserva con un sogghigno, pensando a quando avrebbe potuto fare la stessa cosa con mia sorella Jenny ma ha preferito dedicarsi a me.
Scrollai il capo per cacciare quelle immagini raccapriccianti dalla testa e guardai di nuovo Alice, tremante per la rabbia, i pugni stretti lungo i fianchi. Istintivamente strinsi i denti e le mani. – Ti hanno minacciata? – ringhiai, i denti che vibravano l’uno contro l’altro.
Sbuffò con sufficienza, dandomi le spalle. – E che importanza ha? Non li conosci, non ci puoi fare nulla.
– Ti ho fatto una domanda! – Il ringhio si fece più basso e gutturale, il verso di un capobranco che sta per saltare alla gola del suo giovane avversario. – Ti stanno minacciando? – Dio, feci fatica a non usare il noi.
Mi guardò con le mani severamente sui fianchi, sfoderando quei toni da bambinaia che odiavo così tanto. – Adesso vuoi fare l’eroe. L’altruista. Vuoi provare a salvarmi la vita per riguadagnarti la mia fiducia. Che gesto nobile da parte tua! – Sembrava una serpe pronta a sputarmi addosso il proprio veleno. – Lui mi ha parlato di te, Haytham Kenway! Sa come sei fatto, tutti loro sanno come sei fatto!
Rimasi interdetto, un po’ inquietato dei suoi deliri, ma replicai subito. Si era dimenticata che nell’irritare con le parole ero io il maestro. – A dire il vero volevo dire ai tuoi aguzzini cos’hai intenzione di fare, così sarebbe più facile per tutti – sibilai lasciando trasparire il sarcasmo.
Sbatté gli occhi. – Quello che hai detto è terribilmente sgarbato, Haytham – sussurrò con la voce tesa-  Sei così infantile da nasconderti dietro questo genere di battute. Sii uomo, per una volta, invece di nasconderti dietro quel dannato anello! Fa’…
Non finì mai la frase. Il dorso della mia mano impattò contro la sua guancia con una forza tale da sollevarla e mandarla a sbattere contro il muro a qualche pollice di distanza dalla credenza. Le avevo dato un manrovescio. Le avevo davvero mollato un manrovescio. – Credi che questo ti renda un uomo, Kenway? Se davvero tenevi a me avresti dovuto dirmi subito chi eri e lasciarmi in pace, avresti…
– Smetti di dirmi quello che devo fare! – sbottai, e un attimo dopo le mie mani erano strette sul suo collo sottile, i suoi piedi scalciavano il vuoto. – Chi cazzo sei, mia madre? Tu non puoi permetterti di trattarmi così. – I suoi occhi strabuzzati stavano per schizzare fuori dalle orbite, le dita lottavano debolmente per allentare la mia presa.
I suoi occhi incrociarono i miei un’altra volta mentre dalla gola le usciva un rantolo soffocato, ma non erano più grigi. Erano neri. Il nero profondo e senza fine degli occhi di Tiio. E anche la pelle era quella di Tiio, così come il collo che stringevo. No. La stavo uccidendo. Non lei.
La lasciai cadere a terra e afferrai lo spigolo della parete con le dita tremanti e una mano sugli occhi mentre Tiio tossiva. E quando mi girai a guardarla di nuovo non era più la mia Tiio, era una donna bionda, bianca, carponi a terra e con le spalle scosse nel tentativo di respirare. Era ancora Alice, in preda ai conati di vomito.
– Esci da casa mia.
Avrei dovuto dire che mi dispiaceva, ma non avrebbe avuto senso. L’avevo quasi uccisa, liberandola solo quando il mio cervello mi aveva fatto lo scherzetto di trasformarla in Tiio. Ah, quanto sono belle le dichiarazioni d’amore. – Esci da casa mia, dannato figlio di puttana – rantolò con una mano sul petto. – E non farti più vedere. Non voglio vederti mai più.
Mi alzai piano, roteando gli occhi al cielo. Razza di idiota. – Allora finisce così? – grugnii tristemente, un piede fuori e l’altro dentro. Dio, dove trovavo ancora la forza di stare lì a parlarle? Come potevo? – Anche tu mi disdegni per ciò che sono?
Alice mi fulminò con lo sguardo alzandosi piano, le ginocchia ancora a terra. – Sì, perché sei un fottuto egoista. Verranno a cercarmi, Haytham. Io devo andarmene. Non mi sono resa conto di quanto tutto questo potesse mettermi in pericolo. E tu non te ne sei preoccupato. – E come avrei potuto?, volevo gridarle contro. Sono solo capace di uccidere, quando riuscirò a leggere nel pensiero ti farò un fischio. Decisi che era meglio non dirglielo. – Per te ero solo una puttana gratuita.
Scoppiai a ridere. Ah, no, a questa devo rispondere. – Una puttana gratuita. E non credi abbia il diritto di cercarla? Passo le mie giornate con gente che mi disprezza per sfuggire a fratelli e vogliono uccidermi e, Cristo santo, non posso nemmeno cercare un po’ d’affetto? Non ho pensato a quanto potessi metterti in pericolo, va bene, sono stato egoista, ma ne avevo bisogno. – Sogghignai, guardandola di sottecchi. – Non cercare di scaricare la colpa su di me, Alice. Tu non mi sembravi poi tanto seccata quando ti baciavo.
Sentivo il suo sguardo d’acciaio trapassarmi come una lama. – Non sono il tuo giocattolo, Haytham. Tu mi hai trattata così. Sei solo, probabilmente devi restarci. Bastardo sfruttatore, ecco quello che sei, un maledetto bastardo sfruttatore. Non sai quanto mi hai messa in pericolo. – Aprì le mani e mi guardò senza battere le palpebre. – Ti ho detto che non voglio vederti mai più.
E mi diede una spinta a palmi aperti, così di sorpresa da farmi indietreggiare e quasi rotolare nella polvere mentre l’unica donna dopo Tiiio con la quale fossi mai riuscito ad avere un rapporto almeno amichevole mi sbatteva la porta in faccia e tirava i chiavistelli con quello sguardo folle, dandomi dell’egoista e strillando di non volermi vedere mai più.
 
Bruciava. Non avete idea di quanto bruciasse, perché era la verità. Non amavo Alice, era solo un’altra donna con cui mi trovavo bene, intelligente e spiritosa. L’avevo usata, forse era vero, ma non pensavo di metterla in pericolo. Non credevo che i Templari la tenessero sotto controllo.
Mi rialzai a fatica, i vestiti coperti di polvere e il sangue spinto in circolo con l’ira e il nervosismo. Casa Jackson non era altro che una barriera, ora, e ovunque guardassi vedevo il suo viso, ogni donna aveva la cazzo di faccia di Alice. Alice che mi dava dell’egoista, che rideva con me, i suoi occhi folli, le sue mani sporche di sangue, i suoi pianti sporadici, i suoi occhiolini un po’ provocanti, perché anche lei si sentiva sola. Cristo santo, pensai spolverando nervosamente la redingote con la mano, se sono stati loro la pagheranno. Se Reginald ha convinto anche uno solo di loro a minacciarla o a toccarla, la pagherà ancor più cara. Lo giuro su Dio.
Tutto questo contribuiva a far montare l’ira che covavo in petto, e sapevo che soltanto un altro amico poteva aiutarmi in quel momento, poteva impedirmi di esplodere in un urlo primordiale d’odio verso me stesso e verso di lei, e sapevo dove andarlo a cercare.
Il vecchio Al Cool si trova molto facilmente a Boston. 
 
Piombai in una locanda a caso e ordinai un boccale di birra, pregando che non arrivassero giubbe rosse, donne o ubriaconi in vena di chiacchiere. L’uomo al bancone mi guardò come un povero disgraziato e pagai senza troppe cerimonie. Detesto la carità altrui.
Ordinai altri sei o sette boccali, quel giorno. Senza riuscire a scacciare la lucidità delle terribili parole di Alice, bloccate nella mia testa come chiuse in uno scrigno. Non riuscivo a smettere di pensare a lei. Mi aveva cacciato perché le ricordavo un passato che voleva dimenticare e perché avevo messo in pericolo la sua dannata vita.
Tiio mi aveva cacciato per la mia ideologia.
Risi in modo abbastanza folle, pensando che la birra non mi avrebbe mai cacciato.
L’alcool, il migliore amico degli uomini, sarebbe stato sempre lì per me.
– Andiamo.
Una voce familiare, poi crollai con la guancia contro il legno sudicio del bancone, continuando a ridere con gli occhi chiusi mentre qualcuno mi sollevava e mi portava via dalla locanda. 

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Capitolo 14
*** Violazioni. ***


– Grazie tante, Stephane. – Quell’odiosa voce, la voce di Connor, fu quello il primo suono che sentii quando ripresi conoscenza. Emisi un grugnito di stizza.
– E per cosa? Tu mi hai salvato la vita due volte in pochi giorni! – esclamò Stephane, con quell’assurdo accento francese che mi faceva sempre venire da ridere ma, in quel momento, passava in secondo piano, perché la mia testa era trapassata da un dolore allucinante. Stupida birra.
Sentivo di essere tra le braccia di Connor – Gesù, se solo avessi avuto un briciolo di forza in più gli avrei tirato una gomitata e me ne sarei andato a zonzo sulle mie gambe – e l’aria fresca dell’inverno mi stava facendo assiderare. Buon Dio, ragazzo, smettila di parlare con quest’idiota e portami al caldo! – Da oggi considerati dei nostri – disse mio figlio. Immagino che stesse sorridendo. O forse era troppo arrabbiato con me per farlo, chissà.
La voce di Achille si fece un po’ più acuta, come se fosse eccitato. – Intendi… un Assassino? – chiese. Sembrava un bambino al quale hanno proposto di vivere esclusivamente di cioccolata calda.
– Certo – replicò Connor. – Di nuovo grazie, Stephane. Domani ci incontreremo alla locanda per stabilire altri dettagli della protesta, ma per oggi va bene così. Saluta Sam e William da parte mia.
Ecco, ragazzo, bravo, saluta tutti e filiamo a letto prima che questo mal di testa mi ammazzi.
Sentii il rumore di una porta che si chiudeva e Connor mi adagiò lentamente su un letto. Finalmente! Ancora cinque secondi là fuori e sarei morto per il mal di testa o il gelo. Giuro, era come avere delle lame incandescenti che mi trapassavano il cervello da parte a parte. Grugnii di nuovo. – Che diavolo è successo? – sussurrai. Connor trasalì e si voltò di scatto verso di me, come un’infermiera in tempo di guerra.
Vedendo che riuscivo a parlare più o meno bene e non stavo per vomitare, il ragazzo si tolse la giubba da Assassino e la appese ad una sedia. Eravamo nella piccola stanza di una locanda, con due letti, una scrivania e una sedia come unico arredamento. – Ti sei ubriacato. Il proprietario stava per sbatterti fuori quando siamo arrivati io e Stephane.
Mi diede fastidio il mondo in cui disse “io e Stephane”, come se non lo avessi aiutato un miliardo di volte. Aveva deciso che l’ostilità era la via da seguire? Voleva la guerra? L’avrebbe avuta.
Abbozzai un sorrisetto e mi portai una mano alla testa. La colpa era di Alice, in fondo. – E che avete fatto per tutto il giorno, un simpatico picnic? – mugugnai, la testa che bruciava così tanto da farmi impazzire.
– Stavo per chiederti la stessa cosa, sai?
– Ma scommetto che l’avresti fatto con meno senso dell’umorismo. Tagliando le parti simpatiche – replicai, esplodendo in un sospiro. Il solo parlare mi faceva vedere le stelle. – Ero in giro, comunque.
Scrollò le spalle, come se non gli interessasse. – Io ho salvato Stephane Chapheau da morte certa. Si stava mettendo contro gli esattori di William Johnson completamente da solo. È un abile alleato – mormorò quasi tra sé. Forse pensava che fossi troppo ubriaco per ascoltare. – Succederà qualcosa di grosso tra poco, Haytham. Lo so. E so che devo esserci, perché Johnson ci sarà. Tu sei dei nostri?
In quel momento pensare era troppo difficile per la mia povera testa, così risposi che ci avrei pensato e gli avrei detto la mia l’indomani. Lui, in tutta risposta, sbadigliò.
Mi addormentai maledicendo lui, Alice, i mal di testa e l’intero globo terracqueo.
 
Io sono una donna, Haytham, e le donne non hanno potere.
Sentivo ancora la sua voce, nei miei tormentati sogni. Alternata a quella di Reginald, di mio padre, di Achille, di Connor, di Tiio. Ma soprattutto la sua voce, quella di Alice. Chissà se era già partita per New York, chissà se aveva già cambiato idea, chissà se l’avrebbe mai cambiata. Non mi era concesso di saperlo e mi arrendevo a quel destino.
D’altronde, ho sempre pensato che sia stupido provare a cambiare le altre persone. E se i Templari l’avessero uccisa? Non me lo sarei perdonato tanto facilmente, credo.
Fortunatamente Connor diede uno scossone al mio letto, intimando di alzarmi e di muovermi perché i Figli della Libertà non potevano aspettare.
Fantastico.
Le ultime persone che avevo voglia di vedere erano Sam Adams, William Molineux e altri bambocci che si scambiavano per rivoluzionari, ma che potevo fare? Vagare per Boston con il rischio di imbattermi in Charles, William Johnson o – peggio! – Reginald? Giammai. Eppure che altro potevo fare? Mandare al diavolo il mio unico figlio, che mi riteneva utile per un incontro con i Figli della Libertà?
Non sono un vigliacco, d’accordo?
Lo seguii per curiosità. E da quel momento cominciò il peggio del peggio.
Saltai rapidamente giù dal letto, calzando gli stivali e il solito cappello, la solita redingote… Insomma, fino a quel momento sembrava una giornata come tante altre, escludendo la mia mente tormentata dai ricordi. Connor era poggiato contro la porta della nostra stanza, con quell’aria di chi è pronto a sbeffeggiarmi. E, personalmente, non avevo la minima voglia di essere preso in giro da un tizio che pretende di non farsi notare andando in giro con quella ridicola veste.
Li vedevo in quei termini. Non erano colleghi, persone con cui collaborare, nonostante mio figlio fosse delle loro file.
Ecco, forse mi considererete un bastardo – non dico di non esserlo e, francamente, di ciò che pensate non mi importa: la sola opinione che conta è la nostra, ricordate? – ma ammetto di avere più a cuore i miei interessi, i miei ideali, che l’affetto.
Dopo aver perso Alice era come se avessi deciso definitivamente di combattere per me stesso e nessun altro. Per la Mela. Iniziavo a bramarla, per quanto sapevo fosse sbagliato. Non tanto per usarla in prima persona, ma perché mi bastava che non cadesse tra le mani di Reginald. Mi bastava sapere che avrei potuto guardarlo dall’alto in basso con quel manufatto in mano, sentendomi padrone del mondo mentre lui, per una volta, era il mio succube. Avrebbe dovuto implorare pietà, quando si fosse trovato tra le mie mani.
E se per ottenere il Frutto dell’Eden mi sarebbe toccato lottare schiena a schiena con un Assassino o un Figlio della Libertà, l’avrei fatto, per grazia divina. Anche a costo di pugnalare alle spalle un altro Templare.
In fondo, erano stati loro a tradirmi per primi – no, per loro era il contrario. Santo cielo, che casino.
 
– Come stai, ubriacone?
– Zitto – replicai in un sibilo verso Connor. – Da quando in qua hai il senso dell’umorismo?
Scrollò le spalle con un mezzo sorriso stampato in faccia. Irritante da morire. O da uccidere. – Cercavo di essere gentile.
– Ti riesce fin troppo bene – esclamai, guardandolo di sottecchi. Era così impeccabile in quella sua veste beige, la camicia blu, i calzoni attillati e quel maledetto simbolo degli Assassini ovunque. – Sei insopportabilmente gentile. – Specie quando lo sei nei miei confronti, avrei voluto aggiungere. – E non è un complimento.
Roteò gli occhi e mi sentii soddisfatto. Non aspettai una sua risposta, semplicemente spalancai la porta e scesi le scale della locanda, immettendomi rapidamente nel fiume di gente che scorrazzava per Boston. Chi con qualcosa da fare, come noi, e chi semplicemente a prendere una boccata d’aria.
Il ragazzo mi affiancò rapidamente e scosse la testa. – Non sai nemmeno dove dobbiamo andare.
Sospirai. – Immagino nella locanda di quel tipo. – Non ricordavo il suo nome, accidenti. Qualcosa come Steve. – Il francese. Siete prevedibili.
Non replicò. Probabilmente sapeva che avrei fatto quel commento, non ero riuscito a trattenermi. Giusto per stare in tema, perdonnez-moi. – Non ricordi il nome di Stephane ma ricordi la posizione della locanda in cui lavora?
– Non sono ancora del tutto rincretinito, Connor. – E poi c’era Alice quando sono entrato lì dentro.
Quel pensiero mi distrasse, facendomi incespicare: pochi attimi dopo ero andato violentemente a sbattere contro la schiena di un soldato britannico. Può andare peggio?, pensai imprecando a mezza voce. – Scusi – aggiunsi. La giubba rossa mi scrutò, truce, puntando un dito lungo ed insolitamente affusolato per un soldato contro di me.
– Io ti conosco – mormorò. – Tu… – Sgranò gli occhi, sbigottito e quasi spaventato. Feci scattare la lama troppo tardi, perché aveva già aperto la bocca per strillare: – Ha ucciso il Bulldog! È un assassino, un traditore della patria! Ha ucciso un generale dell’Esercito Britannico!
Sfoderò la spada e feci istintivamente un balzo indietro, evitando per un soffio che mi staccasse la testa. Immagino che in quel momento Connor mi guardò come a dire: Accidenti, che genio, ma non ebbi il tempo di voltarmi per controllare. Avrei dovuto uccidere quella maledetta giubba rossa quando ne avevo avuta l’occasione. Corsi via, indietro, verso la locanda dalla quale ero appena uscito, mentre un altro soldato sparava l’unico colpo del suo stupido moschetto su qualche innocente.
Chi diavolo era il soldato che mi stava inseguendo? Di sicuro faceva parte della scorta di Braddock la notte della sua morte, mentre marciavano – non ero uno di loro da un bel po’ – verso Fort Duquesne. Eppure lui mi conosceva. Non mi fermai a riflettere sulla domanda, perché sentivo gli strilli delle persone innocenti falciate da quei bastardi per colpa mia.
Un Assassino forse si sarebbe fermato a salvarli.
Un Templare avrebbe risolto la questione con la diplomazia.
Il Templare con la testa da Assassino seppe solo voltarsi e scappare, scartando ed evitando la gente alle sue spalle pur di salvarsi il fondoschiena.
– Fermati, figlio di puttana!
– Tanto lo prendiamo, non può scappare da nessuna parte!
Ammetto che detto da soldatini rigidi, in alcuni casi con zaini di venti chili sulle spalle, suonava incredibilmente stupido. Specie se l’uomo che “non poteva scappare” scalava edifici da quando era adolescente. Mi spiace ammetterlo, Reginald, ma è anche merito tuo.
Svoltai in un vicolo drammaticamente cieco – i figli di troia dietro di me stavano già ridacchiando come gatti che mettono all’angolo il topo – e senza rallentare corsi sul muro, aggrappandomi ad un davanzale e reggendomi alle imposte per raggiungere il tetto.
Sarò anche un vigliacco, ma spesi qualche secondo per osservare le loro stupide espressioni stupefatte e mostrare loro il medio, prima di ricominciare a scappare tenendomi sul lato opposto del tetto.
 
Quando entrai dalla finestra della locanda, Connor mi fulminò con un’occhiataccia. Iniziamo bene. – Haytham! – esclamò il cuoco azzardando un passo verso di me. Il suo stupido accento francese mi irritò appena. – Che fine avevi fatto? Aspettavamo solo te!
Nascosi la macchia di sangue sul polsino della camicia con un gesto disinvolto. – Ho avuto un diverbio con delle giubbe rosse – dissi, tenendo per me il pezzo forte, il loro omicidio. Era stato divertente, quasi come ai vecchi tempi. Li avevo braccati in un altro vicolo cieco – e questa volta ero io il gatto – per poi assassinarli uno per uno. Sporcandomi un po’, ma è il prezzo da pagare.
Connor alzò gli occhi al cielo e batté la mano aperta sul bancone per richiamare l’attenzione. Oltre a lui e il francese, nella locanda c’erano anche William Molineux, Paul Revere e l’onnipresente Sam Adams. Fu proprio quest’ultimo a prendere la parola. – Ben arrivato, signor Kenway. Avete deciso di collaborare?
L’idea di trovarmi nella stessa stanza con un altro possibile “signor Kenway” mi fece venire i brividi. – Chiamami pure Haytham – borbottai, anche se in qualsiasi altra circostanza essere ricoperto di convenevoli da un Figlio della Libertà, un essere appena meno apprezzabile di un Assassino, mi avrebbe riempito di orgoglio e perfida gioia. – E non ho deciso di collaborare. Non ho avuto scelta. Se posso essere utile, bene.
Sam, Paul e William si scambiarono un’occhiata che non seppi ben identificare, e Connor ne approfittò per sillabare muto: – Sei un bastardo. Erano innocenti.
Abbozzai un sorriso e roteai l’indice per fargli capire che ne avremmo parlato in seguito. Intanto quei tre si erano messi a parlottare fittamente e dovetti schiarirmi la gola per essere degnato di uno sguardo. – Bene, Connor, abbiamo intenzione di combinare un gran bel macello al porto – esordì Paul. Sembrava stesse parlando di una festa in maschera, da quant’era allegro. Sul suo viso era dipinto un certo giubilo infantile. Idiota. – Le tasse danno fastidio a tutti, specie quella sul tè. Ora, il piano è semplice…
Samuel Adams mise una mano sul suo braccio e prese la parola. – Andremo al molo di Griffin e getteremo le casse di tè in mare. Ce ne sbarazzeremo. – Come Paul, anche lui sembrava felicissimo. Non era certo l’idea più geniale del mondo, ma quelli erano i cervelli che avevo a disposizione. Accontentiamoci. – Così William Johnson sarà infastidito dalla perdita di guadagni – guardò Connor, che annuì silenziosamente – e noialtri avremo attirato l’attenzione del governo. Ognuno avrà ciò che vuole.
Sollevai la mano per parlare, un po’ indispettito. – Una domanda, signori: ci sarà anche Johnson?
– Poco, ma sicuro – brontolò Molineux.
Mi passai una mano sulla bocca per coprire un’imprecazione. – È un problema. I Templari mi danno la caccia e se mi vedessero al porto avrebbero la loro occasione.
– E tu avresti la tua per ucciderli – rispose Sam Adams aggrottando la fronte. – Mi sembra uno scambio equo.
Sospirai. – Non è necessario. Non è l’obiettivo di questa missione – precisai scuotendo la testa. – Insomma, non esiste un altro modo?
Paul Revere intervenne con la sua vocetta squillante da bambino francese. – Potresti travestirti, Haytham!
– No! – sbottai di rimando. Ne avevo abbastanza dei piani sbilenchi degli Assassini e dei Figli della Libertà. Quando si trattava di politica e strategia avevano la stessa esperienza di un manipolo di poppanti. – Io non mi travesto. L’ho già fatto in passato e non mi va – lanciai una rapida occhiata a Connor. – Se devo combattere, lo farò a volto scoperto.
Connor, seduto accanto a Samuel, fece schioccare la lingua e si voltò verso di me, il viso piegato in un cipiglio severo. – S’è visto bene cosa succede combattendo a volto scoperto, Haytham.
Mi sentii avvampare. Quello stupido ragazzino stava alludendo al mio incontro con quel soldato, che mi aveva riconosciuto per aver ucciso a volto scoperto Edward “Bulldog” Braddock. Per pochi secondi fu come se uscissi dal mio corpo e osservassi la scena dall’esterno: mi vidi allungare le mani e sigillare il collo di Connor in una morsa, chiudendogli per sempre quella maledetta bocca…
Battei le palpebre, tornando in me. Nella locanda era calato un silenzio imbarazzante, che interruppi spingendomi in avanti e mollando uno scappellotto a Connor. – Chiudi il becco! – sbottai di rimando. Santo Dio, da ammazzare.
Paul, Sam, William e Stephane abbassarono lo sguardo. Tra i miei occhi e quelli di Connor, invece, si stava svolgendo una guerra in piena regola. – Ehm – si schiarì la gola Molineux, toccandosi il mento con aria pensierosa – Haytham, tu potresti controllare la situazione dei soldati, se non intendi farti vedere.
Presi la palla al balzo e lasciai che Connor spostasse lo sguardo per primo, verso William Molineux. Ho vinto. – Che intendi dire? – chiesi con un sorrisetto.
– Al porto ci saranno sicuramente delle guardie. E quando cominceremo a gettare il tè in mare ne arriveranno delle altre, logicamente – spiegò, cominciando a gesticolare animatamente. Sembrava quasi nel panico. – Quindi tu potresti sistemarti su un tetto con qualche fucile e farli fuori. Sarebbe… utile.
Tutti gli sguardi si concentrarono su William e poi su di me, poi annuirono all'unanimità. – Siamo d’accordo – esclamò Sam Adams. Bastava guardarlo un secondo negli occhi per capire che era lui il capo effettivo di quella piccola riunione. – Che ne pensi, Haytham? Combatterai a viso aperto, con tutto ciò che questo comporta, ma non sotto gli occhi di Johnson.
Alzai le spalle. Mi era sempre piaciuto sparare a degli inermi bersagli sotto di me. Era meschino, forse anche un po’ vigliacco, ma divertente da morire.
Vi ho già detto che sono un bastardo, vero?
– Ci sto – risposi battendo il pugno sul bancone. – Ucciderò solo le giubbe rosse?
– Chiunque cerchi di fermarci – precisò Connor.
Sam mi osservò e poggiò la mano per un secondo sulla mia spalla. Fui travolto dalla voglia di far scattare la lama celata e affondarla tra le sue costole, ma resistetti. – Haytham, Johnson non si unirà ai suoi soldati se non all’ultimo secondo. I Templari preferiscono restare a guardare e lasciare che i soldati semplici facciano il lavoro sporco. Non interverranno e non dovrai sparare ai Templari. Sarà un lavoretto facile. – Mi sembrava dannatamente stupido che parlasse a me di come lavorano i Templari, ma che potevo aspettarmi da quel tizio, uno che aveva mandato uno schiavo a cercarci nel bel mezzo del nulla per portarci lì a sollevare i forconi?
Abbozzai un sorriso e contai mentalmente fino a tre, pensando: Se entro il tre non stacca questa sua sudicia mano dalla mia redingote, gli tiro un calcio così forte da staccargli le palle.
Spostò la mano al due e mezzo e sorrisi con soddisfazione.
Samuel Adams non poteva ancora sapere quanto poco facile sarebbe stato quel “lavoretto”.
– A quando, allora? – chiese Stephane in preda all’eccitazione.
Connor sollevò lo sguardo. – Domani notte. Ci vediamo qui davanti.
Per un attimo sembrarono sul punto di scambiarsi un saluto rituale, come il “Che il Padre della Comprensione vi guidi” dei Templari o il “Nulla è reale, tutto è lecito” degli Assassini, ma semplicemente William e Stephane si ritirarono nelle loro stanze mentre io, Connor, Paul Revere e Sam Adams scivolavamo di nuovo fuori dalla locanda, e verso i nostri letti, silenziosi come ombre.
 
Solo quando fummo al sicuro, chiusi nella nostra stanza alla locanda, potemmo parlare liberamente di ciò che era successo. E per “liberamente” intendo insultare e prendere in giro Connor senza il minimo tatto. – Hai ucciso quelle giubbe rosse, non è così? – questa fu la prima domanda che Connor mi fece, chiudendo la porta a chiave e appoggiandovisi contro.
– No – replicai – credo semplicemente che il sangue mi doni. Si abbina al mio cappello, non credi?
Emise un grugnito di frustrazione e mi guardò con la testa bassa. – Quando la smetterai di essere così puerile?
– Io lo chiamo sarcasmo, Connor – risposi togliendomi redingote e stivali. – Allora? È tutto qui quello che vuoi sapere? Se ho davvero ucciso quei soldati? Sì, l’ho fatto. Come ho ucciso Edward Braddock, come ho ucciso molte altre persone. Erano solo impicci.
Connor colpì la parete con un pugno. – Erano esseri umani! Come noi!
Scossi la testa, ridacchiando. – Andiamo, Connor, non sei forse tu il primo a credere nella forza della morte? È intorno a noi. Da sempre. Uccidiamo animali per sopravvivere e ammazziamo le persone che vogliono mettere dei bastoni tra le nostre ruote oliate alla perfezione. – Lo guardai negli occhi e vidi solo rabbia. Sapeva che avevo ragione, nonostante tutto. – Se credi che io abbia ucciso degli innocenti, sei un ipocrita. Ricordi il massacro, e credo ricordi anche quello che avete fatto per fermarlo. – Un bel diavolo di niente. – Non esistono innocenti. Siamo tutti colpevoli di qualcosa. Tutti. Che sia omicidio, furto, stupro, qualsiasi cosa. Gli uomini corretti non sono mai esistiti. Usiamo le nostre qualità, le nostre armi, per sopravvivere al mondo esterno. Per farci strada.
– Smettila! – sbottò Ratonhnhaké:ton. Per un secondo pensai che stesse per colpirmi con un pugno. Invece, mio figlio si passò una mano tra i capelli e incrociò il mio sguardo per un attimo. – Credo che questa collaborazione debba terminare. Ora.
– Benissimo! – Afferrai la redingote senza il minimo rimorso e mi incamminai verso la porta, ancora bloccata dalla sua schiena. – Se vuoi spostarti.
Sapevo che non mi avrebbe mai lasciato andare. Mai. Gli ero utile, nonostante tutto. Tutto cosa, poi? Non avevo ucciso sua madre, non avevo dato fuoco al suo villaggio, era in parte merito mio se era ancora vivo. Eppure, come ho già detto, siamo i cattivi, sempre e comunque. Fino alla fine.
Aggrottai la fronte e lui scosse la testa. – Credimi, se non fosse per questa storia della Mela, dei Templari e di tutto il resto ti lascerei andare là fuori a morire io stesso – mormorò Connor. Non mi parve sincero, ma decisi di non farlo notare. – Sono costretto a tenerti qui, perciò dormi un po’. Quella di domani sarà una giornata faticosa.
– Vigliacco – risposi a denti stretti. – Lasciami andare, se pensi che sia la cosa giusta. La verità è che vuoi il Frutto dell’Eden almeno quanto me.
– Smettila.
– No! – sbottai. Dio, per poco non pestai il piede a terra. A volte so essere davvero infantile (non ditelo a Connor, per favore). – Continuando così menti solo a te stesso.
Abbassò lo sguardo come un cane bastonato. – D’accordo – brontolò – forse ho bisogno di te per la Mela. Forse la desidero.
– Come ogni essere umano che ne abbia sentito parlare – sibilai. Mi fulminò con lo sguardo e continuò imperterrito con il suo discorsetto.
– Non è giusto che tu me lo rinfacci. Non è corretto.
– Non è nemmeno corretto trattenere un uomo contro la sua volontà – sottolineai con un sorriso.  
Connor reclinò il capo e per un attimo pensai che forse aveva ragione, che discutere con un individuo come me era impossibile. Finivi sempre per perdere. Onestamente, è uno dei lati della mia personalità che preferisco. – Haytham, noi non possiamo permettere che la Mela cada nelle mani sbagliate. Non è quello che Giunone ha detto di fare – rispose Connor, prendendo fiato e parlando con calma. Come ad un bambino che non capisce niente.
Aggrottai la fronte. – Be’, perché dovresti obbedire a Giunone? Potrebbe anche essere una tua fantasia. – Mio figlio mi osservò stupefatto, di nuovo sul punto di picchiarmi.
– Non era la mia immaginazione!
– Ho detto che potrebbe, non che è – risposi, un sorrisetto stampato sul viso. – Il problema principale per te sono i Templari. E in fondo lo sono anche per me, ma se non vuoi collaborare non ho alcun problema. Me ne andrò e sistemerò la faccenda da solo.
Fece schioccare la lingua con disprezzo. – Sì, in modo da prendere la Mela e strapparla da sotto il naso agli Assassini.
Inclinai il capo: – Allora non sei del tutto stupido.
Ridacchiò e poggiò una mano sulla porta, respirando profondamente. Per qualche minuto restai in silenzio, aspettando una qualsiasi sua risposta. In quel momento fui abbastanza buono, perché volendo avrei potuto spingerlo di lato e aprire la porta, sparendo dalla sua vita per più tempo possibile; non lo feci. Volevo sapere che cosa aveva intenzione di fare, se era davvero così rammollito da tenermi con sé invece di tentare una sfida, di provare ad arrivare al Frutto dell’Eden prima di me.
Si passò una mano sugli occhi. – Non ti permetterò di andare via – sussurrò, lo sguardo puntato sulle assi del pavimento. Interessanti. Come se volesse contare quanti tarli vi erano annidati.
– E perché? – domandai sollevando un sopracciglio.
Connor scosse la testa senza rispondermi. Si era lasciato sfuggire qualcosa di troppo? Il suo sguardo parlava per lui. – Andiamo a letto – sussurrò. – Domani sarà una giornata faticosa.
Scrollai le spalle e abbozzai un sorriso, svestendomi e infilandomi nel letto alla velocità della luce, con il freddo che mi faceva battere i denti.
Cristo santo, e pensare che la notte dopo Boston sarebbe probabilmente stata la città più calda del mondo…
 
– Vi avevamo fatti a nostra immagine. Fatti per sopravvivere.
Buio.
Strane ombre luminescenti sulle pareti. Una luce dorata e una voce di donna, simboli assurdi disegnati sul pavimento. Non sento il mio corpo, probabilmente
non ho un corpo. Non credo di respirare. Non so più nulla. E la voce sembra provenire da un altro mondo.
Sono morto?

– Eravamo in pochi. Sia noi sia voi.
Ma ricostruimmo.Non ho il coraggio di parlare. Ho una bocca? Non lo so. Però riesco a sentire il mio cuore – è la mia immaginazione oppure sta battendo all’impazzata? E se ho un cuore ho un corpo. Giusto? Non so
nemmeno questo.
– Chi sei? – provo a chiedere. Non mi rendo conto di parlare, forse è solo un folle urlo esploso nella mia testa. – Chi sei?
Una risata, la risata di una donna, sempre la stessa. – Io posso salvarli. Io l’ho imprigionata – dice con una certa soddisfazione, ma continua a non farsi vedere. – Haytham, tu sei in grado di
vedere, non è così?
Non riesco a capire. Perché quella donna sa il mio nome? Chi è? Che cosa vuole e che cosa intende dire? – Tu sai più degli altri. Tu puoi capire. Sei un uomo… neutrale.
No, non è vero. Io non sono neutrale. Io voglio la Mela. – Chiediti perché, Haytham. Perché lei vuole che la abbiano gli Assassini? Perché? Un servo della Croce non potrebbe svolgere il lavoro allo stesso modo? – scoppia di nuovo a ridere. – Un servo della Croce avrebbe più giudizio. Sceglierebbe me.
Un servo della Croce…
Un Templare. – Non capisco. Posso vederti? Puoi almeno… spiegarti meglio?
– No – risponde semplicemente. – Non posso farmi vedere, il mio potere è ancora troppo debole. Eppure posso dire di avere aiutato gli Assassini per molto tempo. Credimi. Alcuni di loro sono forti, coraggiosi e valorosi. Posso dirti il mio nome, se vuoi. Io sono Minerva.
Se avessi un corpo batterei le palpebre per lo stupore. – Minerva? La dea?

Ride di nuovo. – Non esattamente, ma non è importante. Ora rispondi alla mia domanda, Haytham. Perché il Frutto dell’Eden deve essere nelle mani degli Assassini? Perché la chiave del Grande Tempio deve essere custodita da un seguace dell’Aquila? Perché?
– Io non lo so.
Nel buio, vengo colpito da un bagliore improvviso. Come il sorriso di una giovane donna. – Haytham, sei sempre stato isolato. Hai sempre pensato con la tua testa e ne sono contenta. Molto. Sono fiera di te – sussurra, e per un attimo mi sembra di risentire la voce di mia madre. Oh, merda. – Provaci. Prendi la chiave. Prendi la Mela. E tenta.

– Aspetta! – sbotto, sentendo la sua voce un po’ più sottile, come se si stesse allontanando da me. – Ci abbiamo già provato!
– Non con la Mela – risponde febbrilmente Minerva. – Sono qui per aiutarti, Haytham. Ti ho scelto perché sei un uomo intelligente. E allora usa la tua intelligenza. L’Aquila, la Croce, la Mela. Il vostro tempo… Saprai, Haytham. Te lo prometto. Tenta e lo scoprirai. Saprai tutto. Tutto.
Sento un gemito e comincio a credere che provenga dalle mie inesistenti labbra. Santo cielo. – Ora va’ – sussurra Minerva. – Sii fedele a te stesso. Perché la nostra opinione…
Emetto qualcosa di simile ad un sospiro. – La nostra opinione è la sola che conta.
Ride di nuovo, quella risata che mi ricorda così tanto quella di Alice. – Allora seguila, Haytam. Segui la tua mente.
– Aspetta…
Un ultimo bagliore, più forte degli altri. – Segui la tua mente, Haytham Kenway, figlio dell’Aquila, fratello della Croce. Segui la tua mente.

Mi risvegliai nel mio letto, alla locanda, il materasso che dondolava per il calcio che vi avevo appena affondato dentro. Connor si girò di scatto, sentendomi ansimare, ma i suoi occhi erano semichiusi. Emise un gemito e mi voltai dall’altra parte, il volto quasi schiacciato contro il muro.
Segui la tua mente, aveva detto Minerva.
L’orologio da taschino che avevo poggiato sul comodino segnava le nove del mattino passate.
Figlio dell’Aquila, fratello della Croce.
Misi la testa sotto le lenzuola e, sperando di non sentire mai più quella voce, chiusi gli occhi.
Non mi addormentai più, quel mattino di dicembre, e non dimenticai mai le parole di Minerva.

Pochi minuti dopo sentii Connor alzarsi e stiracchiarsi, le giunture delle spalle scricchiolanti. Probabilmente mi lanciò un’occhiata, ma feci finta di niente e continuai a fissare imperterrito la parete, come se mi trovassi davanti al più bel dipinto del mondo. Lo sentii calzare gli stivali fischiettando ed uscire dalla porta, pensai per fare colazione.
Quando, mezz’ora dopo, ancora non era risalito, decisi che poteva essere successa solo una cosa: era andato via. Chissà da chi, chissà perché. Saltai giù dal letto come una molla e corsi alla porta, scoprendo che la chiave era stata portata via. Mio figlio mi aveva chiuso dentro.
Sparai a raffica tutte le imprecazioni che avevo imparato in più di quarant’anni e approfittai dell’uscita di Connor per lavarmi e vestirmi di fresco. Con la redingote addosso e una bella camicia pulita, decisi che non avrei dato a mio figlio la soddisfazione di trovarmi chiuso lì come un animale in gabbia. Mi sedetti sull’unica sedia della stanza per meditare un po’ sul mio sogno – quel vivido, orribile sogno – e afferrai un foglio di carta, abbandonato lì da Connor, per scribacchiare le mie osservazioni.
Mi fermai dopo una decina di minuti perché il mio cuore aveva cominciato a battere come quello di un topo e nella mia mente si rincorrevano pensieri sempre più assurdi e terrificanti. Non riuscii ad andare avanti, così afferrai il foglio con le mie stupide, inutili osservazioni e lo girai, per non dover più ricordare le terribili parole di Minerva.
Nonostante tutto, continuavano a vagare per la mia mente come farfalle intrappolate sotto un barattolo di vetro.
Il mio sguardo cadde sul foglio che avevo appena capovolto e trasalii, a metà tra lo scoppiare a ridere e il darmi dello stupido.
L’altra facciata del foglio era coperta da una calligrafia a zampa di gallina e un po’ appuntita, come quella di chi non ha mai messo piede in un’aula scolastica o non ha mai visto un precettore.
Già dalla prima parola – Achille – capii chi aveva scritto quella lettera, ma non riuscii a trattenere la curiosità e la lessi tutta.
 

Achille,
ti sto aggiornando in ritardo e ne sono dispiaciuto, ma in questi giorni ho avuto pochissimo tempo per prendere in mano la penna e pensare un pò.

Non riuscii a trattenere una risatina per lo stupido errore di grammatica, poi mi diedi mentalmente del bastardo e continuai a leggere.
Ti ho già parlato di Johnson e del tè di contrabbando: le ultime novità riguardano i Figli della Libertà e il nuovo Apprendista, Stephane Chapheau, un uomo irascibile ma decisamente utile e votato alla nostra causa come potrebbe esserlo qualunque altro Assassino. È uno dei nostri, Achille, per quanto tu possa essere scettico leggendo queste righe.
A proposito, ti sei ripreso? Spero di sì.
Dicevo, i Figli della Libertà e me

Scoppiai di nuovo a ridere: Achille gli aveva insegnato sette modi diversi per uccidere un uomo ma il ragazzo non aveva ancora imparato la differenza tra io e me. Assurdo.
Dicevo, i Figli della Libertà e me abbiamo intenzione di boicottare le azioni della Corona e dei Templari con una protesta al porto, questa sera, martedì 16 dicembre 1773. Credo che se ne parlerà a lungo, Achille. E Haytham parteciperà alle operazioni. So che non sei d’accordo e che avresti preferito tenerlo alla tenuta, ma sarebbe scappato, lo conosci.
O no?
Accidenti, Achille, più tempo passo con lui e meno penso di conoscerlo. Lo guardo e vedo un uomo cinico, rassegnato e solo. Sono così? Lo diventerò? E mia madre… lo ha

La lettera era semplicemente stata interrotta, come se Connor avesse ripensato alle proprie parole o non fosse riuscito ad esprimere il concetto come voleva. Mi stupii il fatto che parlasse di me nelle sue lettere ad Achille. Forse gli Assassini non erano prevedibili come credevo… o non tutti, almeno.
Mi descriveva cinico, solo, rassegnato: aveva ragione? Suppongo di sì. Anche Minerva mi aveva definito solo, e in fondo cos’ero – cosa sono – se non un vedovo confuso e cinico?
In quello stesso momento, la porta si spalancò e appallottolai velocemente il foglio di carta tra le mie mani. – Sei sveglio – furono le prime parole di Connor. Indossava la sua solita giubba da Assassino e roteava il tomahawk in un modo che a chiunque altro sarebbe parso minaccioso, ma non a me. – E… da quando?
Feci spallucce, scattando in piedi e lasciando cadere la palla di carta nella tasca della redingote. – Da abbastanza, Connor – risposi, drammaticamente serio. – Abbastanza da sapere che te ne sei andato e mi hai chiuso qui dentro.
Lui sospirò, le braccia incrociate. – Pensavo che volessi andartene. Così non avresti potuto farlo.
Mi lasciai andare ad una risatina amara, senza dirgli che avrei potuto facilmente scassinare la porta o una delle finestre con la lama celata. Poi mi tornarono alla mente le parole di Minerva: “Prendi la chiave. Prendi la Mela. E tenta.”
Se per ottenere la Mela avevo bisogno degli Assassini, non potevo fare a meno di collaborare con loro. Purtroppo. In fondo, però, perché? Era la stessa domanda che mi aveva posto Minerva. “Perché deve essere custodita da un seguace dell’Aquila?”, mi aveva chiesto. L’aquila, il simbolo degli Assassini – lo stesso ricamato anche sul cappuccio della veste di Connor e sulla polsiera della lama celata che avevo rubato a Miko – e, ironicamente, anche il nome della nave di Bobby Faulkner. E…
Santo cielo.
Mi tornò in mente una frase che avevo scritto in un diario di molti anni prima, quando avevo solo dieci anni, mio padre era morto da poco e non sapevo nemmeno cosa fossero Assassini e Templari.
Haytham, un nome arabo per un ragazzo inglese…
Un nome arabo. Ero circondato da John, Thomas, Michael, Paul, William, Charles ed Edward, ma nessun altro ragazzo si chiamava Haytham. Come un lampo, sentii nella mia testa la voce di mia madre, la dolce e tutt’altro che semplice Tessa Stephenson-Oakley.
L’ha scelto tuo padre, Haytham. Ha detto che significa “giovane aquila”.
Giovane aquila.
Aquila.
Perfetto.
Mi ritrovo ad essere un Templare con il cervello e il nome di un Assassino.
Scrollai il capo e mi passai una mano sugli occhi per cancellare quei fastidiosi pensieri; decisi che quella riguardante il ruolo degli Assassini in tutta questa storia era una domanda alla quale solo la Mela poteva dare una risposta. E poi, be’, finché riuscivo a non inimicarmi anche gli Assassini sarei stato protetto. Tra virgolette, perché in anni e anni avevo potuto constatare con i miei occhi che la protezione degli Assassini valeva quanto quella di un bambino.
Anzi, meno! A dieci anni ero riuscito a proteggere mia madre in modo migliore, altroché!
 Scossi la testa con una risatina morente sul viso, tornando a rivolgermi a Connor. – Allora, immagino che tu non mi abbia chiuso qui per andare a fare colazione, giusto? – ironizzai, sentendo la lettera appallottolata farsi più pesante nella mia tasca, come un sasso. – Avevi una riunione segreta con gli Assassini o cos’altro?
Connor sbuffò dal naso, passando accanto a me e tentando di darmi una spallata che evitai senza difficoltà. – Non sono affari tuoi – brontolò.
E poi quello puerile ero io, certo. – E, visto che ti interessa tanto, ci sarà un incontro con i Figli della Libertà questa sera. Prima della protesta – continuò Connor senza guardarmi. I suoi occhi percorsero la stanza e si fermarono sulla scrivania, ora sgombra.
Ero stato proprio un idiota.
– Bene – mormorai, cercando di distogliere l’attenzione di Connor da quel dettaglio che aveva mandato a monte tutti i miei piani. – A quanto pare dovrò esserci.
– Nessuno ti ha obbligato – replicò Connor passando dietro di me. – Così come nessuno ti ha obbligato a leggere la mia corrispondenza, Haytham.
Roteai gli occhi. Scoperto. – D’accordo – brontolai – non posso negare l’evidenza. – Tirai lentamente fuori dalla tasca quel macigno di carta appallottolata e lo lanciai a Connor. – Studia un po’ di grammatica, ragazzino – bofonchiai aprendo la porta. – Io vado a mettere qualcosa nello stomaco. Sai, restare chiusi in una stanza leggendo delle lettere piene di strafalcioni fa venire fame.
Chiusi di scatto la porta, sorridendo.
Non importava quali fossero le mie colpe, ma Haytham E. Kenway doveva – e deve – sempre avere l’ultima parola.
 
In confronto alle schifezze che avevo mangiato alla tenuta, il cibo della locanda in cui alloggiavamo sembrava nettare degli dèi. Era cibo semplice, ma lo ingollai lentamente, assaporando ogni boccone. Ricordavo ancora quando, durante la guerra – quando servivo quel cane di Braddock per ordine di un altro bastardo, Reginald – ingurgitavamo qualunque cosa passasse tra le nostre mani, qualsiasi cosa fosse. Era commestibile – nonostante certe volte provocasse qualche attacco di diarrea, ma, orsù, eravamo in guerra e cagarsi nei calzoni fa parte del gioco, giusto, generale Braddock? – e ci bastava.
Sentii Connor scendere le scale e quando lo vidi lasciarsi andare sulla sedia di fronte alla mia, girandola al contrario – un vero gentiluomo, amante dell’etichetta – gli rivolsi un’occhiata interrogativa con la forchetta a mezz’aria e la bocca piena.
Lui, in tutta risposta, sospirò e scosse la testa. – Haytham, non avresti dovuto leggere quella lettera.
Ingoiai. – Non avresti dovuto lasciarla lì. E poi tutti sanno che sei una ragazzina, non c’era bisogno di confermarlo con una lettera – lo schernii, raccogliendo con la forchetta i resti della mia colazione rimasti sul piatto, come un uomo che non mangia da secoli, e ingollandoli.
Connor sospirò di nuovo. Era proprio una femminuccia. – Era personale. E non era nemmeno definitiva. Chissà che idea ti sei fatto di me leggendo quella lettera.
Inarcai le sopracciglia senza riuscire a capire. – Non era esattamente “personale” – dissi, mimando le virgolette con le dita. – Parlavi della protesta. E di me – aggiunsi provocatoriamente quelle tre parole, come se non contassi niente.
Si passò una mano sugli occhi. – Sapevi che Achille avrebbe preferito che restassi alla tenuta, Haytham? – chiese, continuando a guardarmi masticare. Mi sentivo un po’ in imbarazzo, francamente.
– No, ma potevo immaginarlo – risposi. Gesù, un bicchiere di vino mi avrebbe aiutato a sopportare quel ragazzino e le sue lagne, ma non mi piace bere prima di pranzo. – E comunque? Non è nulla di così personale. La lettera non era nemmeno completa.
Connor alzò di scatto lo sguardo e puntò gli occhi nei miei. – Che cosa? – esclamò. Mi sembrava di essere un vero idiota. – Avevo lasciato due fogli sulla scrivania.
– Io ne ho trovato uno – sibilai con noncuranza, mandando giù un pezzo di pane.
Il ragazzo si alzò. – Qualcuno è entrato nella nostra stanza – concluse, guardandosi attorno.
Sbiancai. – Impossibile. Non mi sono mai mosso di lì. Era tutto sigillato.
– Non sei mai uscito dalla stanza? Nemmeno per andare in bagno?
– Quindi adesso devo rendere conto a te anche quando vado a cagare? Santo cielo, io… – Interruppi la frase a metà, capendo a grandi linee cosa fosse successo quella mattina. Oh, merda.
Il bagno.
Portai istintivamente la mano alla tempia. Nell’altra stringevo un pezzo di pane come un antistress. – Sono andato a lavarmi – sussurrai. – Potrebbe essere successo in quel momento.
– Cazzo – imprecò Connor. Mi lasciai sfuggire un sorrisetto, perché non l’avevo mai sentito imprecare a voce alta. – Quella parte della lettera… Io…
Mio figlio si portò le mani sulla faccia, probabilmente reprimendo un singhiozzo. Fece per voltarsi, ma lo afferrai per la giubba e lo spinsi di nuovo sulla sedia, trattenendolo. – Tu cosa, Connor? – chiesi in un sibilo, rabbioso come non mai perché avevo già capito. C’era una sola cosa che poteva interessare sia i Templari sia Achille – e gli Assassini –, ed era una cosa della quale Connor aveva giurato di non parlare mai. Con nessuno.
– Stupido ragazzino bugiardo… - bofonchiai, sul punto di tirargli un manrovescio. – Traditore. Dovrebbero mettere te sulla forca, pezzo di merda.
Connor abbassò le mani, gli occhi appena lucidi. Stava per scoppiare a piangere – Dio, risparmiami questo supplizio, pensai.
– La… La Mela – sussurrò Connor. – Avevo scritto ad Achille… della Mela. – Gli scappò un singhiozzo. – Poi… ho visto gli errori grammaticali e l’ho riscritta. Ho lasciato la copia sulla scrivania e qualcuno l’ha presa.
Roteai gli occhi, alzandomi di scatto. – Bravo, genio – borbottai. Quanto avrei voluto affondare la lama celata in quei suoi occhioni lacrimosi. – Cos’hai intenzione di fare, ora?
Afferrò un lembo della tovaglia sudicia – santo cielo – e si asciugò gli occhi, poi prese un paio di respiri profondi. – Dobbiamo trovare il ladro – sussurrò. – Ucciderlo.
– In quella lettera… Parlavi anche della posizione della Mela? – chiesi sottovoce, immaginando la risposta.
– Sì.
Alzai le mani al cielo. – Allora siamo fottuti – sussurrai. – E puoi scommetterci le chiappe che William Johnson comprerà il maledetto posto in cui si trova quella cosa, imbecille. Dovrei lasciarti morire nella fossa che ti sei scavato con le tue mani, Connor. E lo farei, oh, sai che lo farei.
Presi fiato. Una coltellata tra le scapole, come hai fatto con Miko. Fallo, Haytham. Fallo e sconfiggili da solo, perché questo qui è il più grande buono a nulla che abbia mai messo piede sulla terra. Sembrava un misto tra la mia voce e quella di Minerva, ma scossi il capo per scacciarla. – Però abbiamo fatto un giuramento, ricordi? E nonostante tu l’abbia infranto, io ho ancora bisogno di te, purtroppo. Motivo per cui adesso andiamo a cercare quel bastardo, dovessi ucciderlo davanti a Reginald in persona.
Gli voltai le spalle e uscii dalla taverna senza aspettarlo.
 
Avessi avuto un sigaro. O dello scotch! Magari mi avrebbe aiutato a calmare i nervi.
Come ho già detto, non bevo prima di pranzo – ammazzo persone, prendo a parolacce mio figlio, leggo la sua corrispondenza da ragazzina innamorata – ma sono pur sempre un gentleman, e l’idiozia di Connor mi aveva reso particolarmente furioso.
Lo sentii aprire la porta della locanda e girai attorno all’edificio, osservando le finestre della nostra stanza, al primo piano, tutte perfettamente chiuse. Scommetto che se avessi provato a forzarle per scappare dalla stanza, le avrei trovate aperte. Accidenti a me.
– Ragazzo – lo chiamai, osservando la parete e le finestre con le mani dietro la schiena, ostentando noncuranza – sai che se quel ladro ha letto tutta la lettera saprà anche della vostra geniale idea della protesta al porto, vero? – Non attesi una sua risposta. – Sei stato così stupido, ultimamente, che mi chiedo se ti sia rimasto qualcosa in quel cervello oltre a un bellissimo e maledettamente utile “Nulla è reale, tutto è lecito”.
Connor abbassò la testa. – Non avevo pensato a questo – sussurrò. Era al mio fianco ma guardava il terreno, la strada. Come un cacciatore.
Come un cacciatore?
Ebbi un’idea geniale. – Tu… La tua tribù cacciava, non è così? Tu sai cacciare, vero? – esclamai, in preda ad una strana euforia. – Chiunque abbia rubato quella lettera ha lasciato delle tracce.
– Oppure è passato dai tetti.
– Sempre positivo, eh? – bofonchiai scrollando la testa. – Insomma, la strada è lastricata solo laggiù. Il terreno è morbido, Connor. Devono esserci delle tracce. Oppure un uccello ha scassinato la serratura della finestra e ha rubato la tua patetica missiva.
Mi fulminò con lo sguardo, poi si chinò ad esaminare il terreno mentre io mi arrampicavo sul tetto dell’edificio accanto alla locanda. Era probabilmente una casa, alta poco meno della locanda e decisamente meno di molti altri edifici di Boston, ma dovevo farmela bastare.
Chiunque avesse scassinato quella finestre doveva sapersi arrampicare. E sapevo benissimo che Reginald non avrebbe mai permesso agli uomini – quelli che erano i miei uomini, ora suoi – di spezzarsi le unghie salendo lungo una parete e rubacchiando lettere come dei ladri. Ai Templari – a Reginald – piacciono gli ingressi scenografici. Se il ladro fosse stato un Templare sarebbe entrato dalla porta. Con stile. E si sarebbe fatto vedere, ovviamente.
No, chiunque avesse preso quella lettera voleva sì la Mela, e forse era affiliato ai Templari, ma non era un Templare in prima persona.
Un mercenario? Per piacere, quelli non sarebbero nemmeno riusciti a capire dove si trovasse il sole in una giornata senza nuvole. Allora un ladro? No. I ladri sono peggio dei mercenari, da’ loro una borsa di sterline e una coscia di tacchino e sono ai tuoi piedi. Infidi e traditori. Forse un soldato. Sì. Le giubbe rosse erano addestrate militarmente, l’arrampicata non era certo un problema. E Charles era pur sempre militante nell’Esercito Britannico.
Forse avevo la risposta. Scivolai giù dal tetto dell’edificio e caddi, accovacciato come un gatto, accanto a Connor. Un simile contraccolpo avrebbe ammazzato chiunque non sapesse come cadere da un tetto, ma io non ero un novellino. – Connor, ho una notizia buona ed una cattiva.
Il ragazzo emise un gemito d’assenso, continuando ad osservare il terreno. – Anche io – esclamò. – Chiunque fosse il ladro, indossava degli stivali. Ed ha un passo un po’ pesante, guarda com’è profonda l’impronta.
Passi pesanti. Come quelli dei soldati britannici che ostentano la presenza della Corona quando il vecchio re Georgie è al sicuro a Londra
– Bene – risposi – dunque, ora ascoltami. Sono quasi sicuro che sia stata una giubba rossa a rubare la lettera. Un uomo addestrato militarmente, fedele ad un capo e con la testa abbastanza vuota da obbedire a chiunque abbia un distintivo del cazzo appuntato al petto. – Sentendo la parolaccia, Connor mi guardò aggrottando la fronte. Gesù, che femminuccia.
– E questa sarebbe la notizia buona?
– Geniale, ragazzo, geniale – lo presi in giro come al mio solito. – La notizia cattiva è che Charles Lee è pur sempre un militare britannico. E se vogliamo trovare il nostro soldatino, dobbiamo perlustrare la città, dalle strade di periferia ai forti. Mi stai seguendo, giovane genio? – Il ragazzino roteò gli occhi. – Molto bene. Il problema principale è che se questo tipo lavora per i Templari e loro sanno già tutto, questa sera al porto ci sarà un pandemonio. Metà dell’Esercito Britannico sarà lì per voi e le vostre idee bislacche. Appunto, un altro problema è: per chi lavora il nostro uomo? Non lo sappiamo. Che ne pensi?
Connor puntò gli occhi nei miei. – La protesta non salta – sibilò. – Né ora, né mai.
Inclinai il capo. – Osservazione arguta, giovane – ironizzai. – Io dico che dobbiamo aspettare stasera per capirlo. Se i Templari e più giubbe rosse del previsto saranno lì, sapremo che la lettera è stata rubata per loro. Altrimenti… be’, ci penseremo.
Il ragazzo si passò una mano sulla fronte. – Andiamo da Sam – sussurrò. – Saprà cosa fare. – Spostò lo sguardo su di me. – Il tuo che è un piano geniale, Kenway.
– Modestamente… – bofonchiai, sarcastico. – Ora, non esageriamo. La medaglia al valore per l’Idea Stupida è solo una, ed entrambi sappiamo a chi appartiene.
Sarà stata l’ansia del momento o la vista di un accenno di collaborazione da parte mia, ma in quel momento, per la prima volta da quando l’avevo conosciuto, Connor ridacchiò ad una mia battuta.
Sì, immagino che il sedici dicembre del 1773 non sia rimasto nella memoria della gente solo per la protesta. 

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Capitolo 15
*** Gradisci un tè? ***


Nonostante considerassi Reginald Birch l’uomo più infimo che abbia mai conosciuto, devo riconoscere che Samuel Adams, Paul Revere e William Molineux finivano per comportarsi spesso in modo molto meno sopportabile. Avrei voluto avere il vecchio Bob Faulkner accanto, o almeno un po’ del suo grog, perché sentii che non sarei riuscito a tollerare quegli imbecilli quanto avevo tollerato gli Assassini.
Connor ascoltava i discorsi farfugliati dei Figli della Libertà con un interesse assurdo mentre io avevo aspettato, quasi in isolamento, che quei deficienti decidessero cosa fare. Stephane Chapheau parlottava fitto nell’orecchio di mio figlio – era infatti seduto tra noi due -, così dovetti afferrare Connor per la giubba per essere ascoltato. – Hai detto a Sam della lettera? – chiesi, facendo finta che il cuoco non esistesse. Non mi importava niente del tè o dei Figli della Libertà, volevo solo che i Templari non sapessero dove fosse la Mela.
Connor scosse la testa. – È impegnato in questa… riunione.
– Io avrei usato la parola pagliacciata – esclamai, e Stephane Chapheau mi fulminò con lo sguardo per poi ricominciare a parlare con Connor. – Parete due comari – aggiunsi a bassa voce, dando un’occhiata in giro.
Nella vecchia chiesa di Boston, la Old South Meeting House, erano entrate a fatica migliaia di persone, stipate come sardine per ascoltare Sam Adams che imbottiva la loro testa con mucchi di idiozie da Figli della Libertà mentre William Molineux e Paul Revere discutevano con un uomo elegante, gesticolando animatamente: nonostante fossi troppo lontano per comprendere le loro parole, riuscii a leggere a tratti le labbra dell’uomo. Usava moltissimo le parole e navi, e riuscii a cogliere solo una frase completa, in quel carnaio – ed eravamo seduti sulla prima panca!
L’uomo disse: – Non ha voluto sentire ragioni. Io sono pronto quando volete.
Tentai di ascoltare il resto della conversazione, ma un uomo stretto alla moglie mi passò davanti urlando come un pazzo e persi il filo del discorso. Il tutto mentre Sam continuava a strepitare: – Dobbiamo ribellarci! Dobbiamo difendere la libertà delle Colonie! Noi siamo qui da conquistatori e non vogliamo dipendere dalla Corona! Siamo dei…
Baggianate.
Quella gente aveva bisogno di una guida, che fosse la Corona, che fosse Samuel Adams, che fosse Charles Lee, ne aveva bisogno. Il popolo non riesce a plasmare la propria libertà, bastava guardarli: erano lì di loro spontanea volontà, nessuno li stava obbligando a correre al porto per gettare tè in mare, eppure erano agitati come topi in una scatola.
Io, ad essere franco, credo che se si è decisi, bisogni obbedire ad un capo – un vero capo, non Sam Adams – e mantenere la calma. La gente nel panico non è mai riuscita ad ottenere nulla, mi bastava pensare a quel maledetto pomeriggio del 1770, durante il massacro.
Lanciai un’occhiata esasperata a Connor e sbuffai. – Andando di questo passo attueremo quest’idiozia verso Pasqua – sibilai mentre Stephane mi rifilava un’occhiataccia.
Sam, in quel momento, agitò le braccia al cielo e ci guardò come se fossimo gli unici a comprendere la gravità della situazione. Scese dall’altare e si sedette accanto a me, scrollando il capo senza parlare mentre Molineaux e Revere portavano l’uomo elegante al centro dell’attenzione.
– Uomini e donne! – esclamò Revere, le guance colorite e l’aria gioviale. – Vi presentiamo il signor Rotch. È il capitano della Dartmouth, una delle navi da carico inglesi ancorate non lontano da qui. È dalla nostra parte, signori! È…
Smisi velocemente di ascoltarlo – quel suo stupido accento francese rendeva impossibile prenderlo sul serio –, limitandomi ad osservare Rotch: sembrava un comunissimo gentiluomo inglese, vestito alla maniera dei capitani, ovvero decisamente più elegante di qualsiasi marinaio, ma col volto solcato dai segni del tempo e della fatica. Avevo sentito dire che il mare rendeva vecchi – era uno dei motivi per cui gli aspiranti marinai si imbarcavano dalla più tenera età – ma non potevo immaginare che rendesse così vecchi. Il capitano Rotch pareva avere quasi sessant’anni.
Scrollai il capo. – Imbecilli – mugugnai, dimenticandomi della presenza di Sam al mio fianco. Adams, però, si alzò di scatto e mi rivolse un’occhiata seria.
– Avete ragione – esclamò, poi alzò le braccia al cielo e corse verso l’altare, attirando l’attenzione dell’intera chiesa stracolma. Lo ammirai, in quel momento, ma non potevo ancora sapere cosa sarebbe successo dopo. – Signori e signore! – strepitò Samuel. – Questa riunione non può più fare nulla per salvare il Paese.
Immediatamente la folla ammutolì. Seriamente? Davvero Samuel Adams aveva pronunciato quelle parole? Connor si alzò istintivamente in piedi, lo sguardo fisso su Sam, e fece scattare la lama celata. Chapheau poggiò la mano sul suo braccio per fermarlo e la lama scivolò di nuovo dentro, ma ogni muscolo del suo corpo era in tensione. – Ora ascoltatemi! – esclamò. Pensai che di lì a qualche minuto sarebbe saltato sulle spalle di Revere, pur di farsi notare. – Non è più il tempo delle chiacchiere! Dobbiamo agire! Vi consegneremo gli abiti da indiani che utilizzeremo durante la protesta e preghiamo le donne e i bambini di restare qui! Potrebbe essere pericoloso, avete capito? Le donne restano qui!
Avevo smesso di ascoltare Adams quando aveva pronunciato la parola indiani; istintivamente afferrai il braccio di Connor. – Che cos’è, una festa in maschera? – ringhiai, guardandolo con severità. – Chi ha avuto questa splendida idea?
Connor indicò Sam con un cenno della testa. – Non ne sapevo niente, Haytham. E, comunque, non è necessario che tu ti travesta. Devi solo aprirci la strada.
Scattai in piedi, il sangue che scorreva nelle mie vene ad una velocità inaudita. Il cuore pulsava nella mia gola. – Sam Adams non ha idea di ciò che sta facendo! Io vado a dirgli due paroline.
– Haytham… – mormorò mio figlio. Non sarebbe riuscito a fermare un coniglietto, con quello stupido tono. – Aspetta!
Non lo ascoltai. Saltai sull’altare e afferrai Sam Adams per il bavero della giacca, tirandolo indietro, interrompendo quel suo stupido sproloquio. – Ehi! – sbottò il Figlio della Libertà, ma lo ignorai, sbattendolo violentemente contro una parete in ombra della chiesa, dove nessuno avrebbe potuto vederci. Samuel gemette. – A che gioco state giocando? Pensavo che avreste collaborato…
Affondai un ginocchio nel suo stomaco. Che soddisfazione. – Stammi un po’ a sentire, Adams – sibilai, a pochi centimetri da quella sua spocchiosa faccia. – Che cosa hai intenzione di fare? Travestire degli uomini da indiani? Perché?
Lui tossì con violenza. – Haytham… Parliamone! – sussurrò. – Lasciatemi andare.
– No! – replicai, spingendolo di nuovo contro il muro. Paul Revere, intanto, continuava a parlottare con Molineux e Rotch. – Rispondimi, Adams.
Samuel Adams avvampò, rispondendo a mezza voce: – Sarà meglio per tutti! La Corona non potrà incolpare dei comuni cittadini se a gettare il tè in mare saranno dei selvaggi!
Selvaggi! Ecco come era considerata quella gente dagli amichetti di Connor, selvaggi! Feci scattare la lama celata per la rabbia, puntandola sotto il suo mento. – Ascoltami bene, Sam – sibilai. – Quella gente ha scelto di rischiare la propria vita per l’indipendenza. Un’azione rappresentata dai cittadini verrà notata molto più di una provocata da dei Mohawk. I tuoi seguaci butteranno il tè nel porto indossando i loro maledetti vestiti! – Specie perché se Reginald vedesse che degli indiani stanno boicottando le azioni templari correrebbe a fottere la terra del villaggio, la terra in cui è custodita la Mela, aggiunsi mentalmente. – Hai capito bene, Sam?
– Non sei nella posizione di minacciarmi! – sibilò. – Avevi detto che avresti collaborato!
Risi. Io avevo una lama sguainata, lui il mento tremante a pochi centimetri dall’acciaio. Se non ero nella posizione di minacciarlo… – Non ti sto minacciando, Samuel, ti sto fornendo un consiglio – dissi, sorridendo in modo un po’ subdolo. – Farai ciò che ti ho detto, Adams?
Non riuscii a sentire la sua risposta perché un calcio mi colpì di sorpresa alla base della schiena, facendomi perdere la presa su Sam, che precipitò a terra, e lasciandomi piegato in due per il dolore. – Stai bene, Samuel? – disse il mio insopportabile figlio, senza nemmeno degnare di uno sguardo il sottoscritto. Lecchino.
Sam si alzò in piedi, continuando a tossire. – Ho avuto giorni migliori, ma diciamo discretamente. Ora, se permettete, devo discutere con gli altri Figli della Libertà. Non manca molto all’azione.
Riuscii a ricompormi e vidi Connor premere una delle sue abnormi mani sulla spalla di Sam, impedendogli di tornare sull’altare. – Solo un secondo, Sam – sussurrò. Pensai che ci sarebbe voluto un po’ più di un secondo per spiegare quella situazione. – Molto probabilmente le giubbe rosse e i Templari sanno che cosa abbiamo intenzione di fare. E sono d’accordo con Haytham per quanto riguarda questa faccenda dei costumi. – Mi guardò dritto negli occhi con uno sguardo supplichevole, uno sguardo che diceva: “Ti prego, non interrompermi, fidati solo di me. Non dire nulla. Ne parliamo dopo.”
Non mi ero mai fidato di lui, ed era ancora più difficile provarci dopo che mi aveva appena preso a calci, ma rimasi zitto. – Travestirsi da Mohawk metterebbe in pericolo me e il mio popolo. E io non voglio che accada.
Sam imprecò a mezza voce. – Preferisci che ci vadano di mezzo dei cittadini innocenti, Connor? – esclamò, quasi con violenza. Non pensavo che Samuel Adams fosse soggetto a scatti d’ira, non l’avevo mai visto alterarsi. Raro come vedere Reginald arrabbiarsi. Era successo poche volte, ma le ricordavo bene.
– Io non voglio che ci vada di mezzo nessuno – rispose il ragazzo. – Però gli indiani non c’entrano nulla con questa storia. Scaricare la colpa su di loro non è corretto.
Sam sbuffò dal naso. – Però tu sei un indiano. – Sul serio, Adams?, pensai, ma rimasi zitto.
– Ma tutti gli altri sono coloni, Sam! Io sono un indiano. Io. – E nemmeno al cento per cento. Sorrisi. – Qui stiamo cercando di difendere la nostra libertà! E per nostra non intendo mia, dei coloni o degli indiani. La libertà di tutti. Di chiunque voglia vivere qui. Mi capisci? Di chiunque abbia lasciato la propria casa alla ricerca di un posto migliore.
Samuel Adams piantò gli occhi in quelli di mio figlio – che, tutto sommato, era bravo con le parole – poi scosse violentemente la testa. – Connor, i coloni costruiranno nuove città anche per gli indiani. Staranno meglio!
Avrei voluto tiragli un cazzotto. – Ti piacerebbe se distruggessero casa tua e ti obbligassero a vivere da qualche altra parte, Sam? Un posto al quale non sei abituato? – sbottò Connor. Non l’avevo mai sentito urlare in quel modo. – Scommetto di no. E abbiamo cose più importanti a cui pensare! Se le giubbe rosse sono davvero al porto e sono più di quante pensiamo ammazzeranno i ribelli, che siano vestiti da coloni o da indiani! Lo capisci, Samuel?
Calò il silenzio tra i due e mi ritrovai ad applaudire mentalmente. Bravo, ragazzo. – Connor… – esordì Samuel, ma mio figlio lo fermò con la mano.
– Ti aspetterò qui fuori, quando avrai deciso che cosa fare – disse, allontanandosi. – E spero che tu non sia del tutto ammattito, Sam. C’è in gioco il destino di questo Paese.
Passò attraverso la chiesa gremita di gente e per un attimo – un solo attimo, però, vi prego, non ditegli nemmeno questo – lo guardai con orgoglio. Sorrisi e mi venne voglia di girarmi verso Sam e dire: “Ehi, quello è mio figlio”, ma avevo altro di cui preoccuparmi. Feci per seguire Connor, poi ricordai una cosa e tornai sui miei passi, colpendo Sam alla bocca dello stomaco con un cazzotto. – Questo è per averli chiamati selvaggi – sibilai con soddisfazione.
Solo allora seguii Connor fuori, senza degnarmi di chiamare anche Stephane. Avevamo qualcosa di cui parlare tra padre e figlio.
 
Connor era seduto in strada, la schiena poggiata contro una casa e la testa stretta tra le mani. – Non è andata poi tanto male, no? – dissi, affiancandomi a lui senza però sedermi. – E hai fatto bene a non parlargli della Mela.
Il ragazzo sospirò. – La Mela ha a che vedere con Assassini e Templari. Gli uomini comuni non devono subirne il potere – brontolò senza guardarmi in faccia. – Hai fatto bene a prendertela con Sam, per quanto tu possa essere stato violento. E scusami per il calcio.
Scrollai una mano. – Niente di che, ho solo perso un rene – ironizzai. – Continua.
Non sorrise, sembrava anzi terribilmente scosso. – Il fatto è… ti ho guardato e per un secondo tutto il resto è diventato buio. Scuro. Erano ancora lì, li vedevo, sentivo le loro voci, ma tu e Sam eravate illuminati. Di blu. – Si prese di nuovo la testa tra le mani, come se stesse diventando pazzo, e io sbiancai. – Vedevo chiaramente la tua lama a tanto così dalla sua gola. Io… nessun altro riusciva a vedervi. Eravate in penombra. E io…
– So che significa – borbottai, lasciandomi istintivamente cadere accanto a lui. Ciao, redingote pulita. – A volte succede anche a me. Se mi concentro su qualcosa… o qualcuno. Riesco a metterlo a fuoco in un certo modo. Reginald me ne aveva parlato, tanto tempo fa: è un’abilità tipica degli Assassini con una discendenza particolare.
– Particolare?
– Te ne parlerò quando avremo la Mela – risposi, liquidando velocemente la questione. – Ne era dotato anche uno dei più grandi Assassini di tutti i tempi, Altaïr Ibn-La’Ahad. Lui lo chiamava “occhio dell’Aquila” e…
Un ultimo, ennesimo collegamento mentale mi travolse in quell’istante.
Haytham, giovane aquila.
L’occhio dell’Aquila.
Non potevo mentire a me stesso. Tutto il mio passato era costellato di piccoli, stupidi dettagli da Assassino. Fin dall’inizio, a partire dalla discendenza di cui mi aveva parlato Reginald, la discendenza dei più famosi Assassini padroni del Frutto dell’Eden.
Smettila, Haytham.
Scrollai il capo. – Si rivelerà utile – sussurrai. – Comunque, mi piace sapere che ogni tanto sei dalla mia parte.
Lui si lasciò andare ad un sorrisetto triste. – Se Achille fosse qui, direbbe che sto sbagliando tutto – mormorò.
– Non provare mai più a scrivergli una lettera – replicai – altrimenti te la faccio ingoiare, ti squarcio lo stomaco e la recupero per leggere l’immane quantità di idiozie e smancerie che vi avrai infilato dentro.
Non sorrise. Avevo detto che quella misera risatina, poche ore prima, sarebbe stato un evento memorabile, appena sotto ciò che sarebbe successo di lì a poco al porto di Griffin; Sam Adams scivolò fuori dalla chiesa e si fermò di fronte a noi, scapigliato e ansante. – Bene – sibilò. – Niente travestimenti. Connor, tu vieni con noi per coordinare le operazioni. Haytham…
– Tu non mi dai ordini, Adams – esclamai con un sorrisetto, balzando in piedi. – So quello che devo fare. Occupati dei tuoi affari.
In quel momento desiderai segretamente un cappuccio come quello degli Assassini da calarmi sulla faccia per una perfetta uscita di scena drammatica.
Avevo solo il mio cappello, purtroppo.
 
Un moschetto su ogni spalla, le pistole cariche e le tasche piene di proiettili, la spada corta facilmente raggiungibile, la lama celata lucida come non mai, anche se in teoria non avrei dovuto usarla, o quasi. Ero pronto.
La luna stava sorgendo quando mi avvicinai al porto camminando sui tetti e pregando tra i denti di non trovare troppe giubbe rosse, ma Dio ce l’aveva evidentemente con me, perché a un centinaio di metri dal porto vi erano già due soldati sul tetto di un edificio, pronti a spararmi addosso. Scivolai giù dal tetto e, tenendomi alla grondaia, mi avvicinai al primo soldato e affondai in fretta la lama nel suo stomaco. L’altro morì ancora più facilmente. Rimase fermo a fischiettare e mi bastò avvicinarmi lentamente e rompergli l’osso del collo alla vecchia maniera, la migliore.
Ah, l’azione.
Accovacciato come un gatto, corsi sul tetto fino ad arrivare praticamente di fronte all’ingresso del porto.
Cinque giubbe rosse invece delle solite due. Meraviglioso.
Le mie braccia agirono prima del cervello: afferrai le pistole e sparai a due guardie nel medesimo istante, poi sparai ad altre due con i moschetti e ricaricai una delle due pistole, mandando un proiettile al centro della fronte dell’ultimo, sventurato soldato.
Non mi ero mai sentito meglio e andavo fiero di quelle macchie di sangue sulla strada. Erano messaggi. Significava: Potete pensare ciò che volete, ma Haytham Kenway ha ucciso tutte queste persone e può uccidere anche voi. Era un avvertimento per chiunque avesse osato fermarmi.
Afferrai l’orologio che avevo in tasca: segnava le nove e tre quarti, e i Figli della Libertà non sarebbero arrivati prima delle undici. Pensavo di avere tempo, molto tempo.
Saltai giù dal tetto e ricaricai entrambe le pistole. Da lì sarebbe arrivata la parte più difficile del mio lavoro, perché le guardie sarebbero raddoppiate. Corsi sotto un gazebo solitamente usato per il mercato e sparai ad un soldato che cadde in acqua, tingendola subito di rosso. Il botto attirò altre due guardie sul luogo del misfatto e io mi rannicchiai dietro un paio di casse impilate, respirando piano.
Ironicamente, notai, erano casse di tè.
– Aveva ragione Lee – brontolò un soldato. – Stiamo attenti. Arriveranno tra poco.
– Lo credi davvero? – Un'altra giubba rossa lo disse con tono quasi impertinente. – Non mi fraintendere, ma Lee non ti è sembrato un po’… paranoico, di recente? Da quando quel tipo…
Sentii il tipico rumore di uno scappellotto. – Zitto. E da’ un’occhiata in giro. – La prima giubba rossa sputò in acqua. – Se quel pezzo di merda è qui da qualche parte, voglio affogarlo con le mie 
– Quanta ostilità!
I due soldati si voltarono verso di me con gli occhi sgranati e le mandibole pronte a crollare a terra. Erano basiti. Prima che potessero dire a, io li avevo ammazzati entrambi con due misurati colpi di pistola alla testa.
È la parte più letale ed è anche la meno protetta. Mi è sempre sembrato un controsenso, ma decisamente utile.
Altri botti, altre guardie, logico.
Ma non solo.
Sentii lo scalpiccio degli stivali alle mie spalle ed estrassi la spada in una giravolta, facendola cozzare con quella decisamente più lunga di un altro uomo e spingendo quest’ultimo indietro. Quando lo vidi in faccia, per poco non svenni. – Charles? – esclamai, esterrefatto. Le altre quattro giubbe rosse, che aveva portato per pararsi le spalle, cominciarono ad attaccarmi.
E mentre facevo scattare la lama celata, difendendomi ed affondandola nei ventri, tra le costole, nella schiena e nella nuca degli altri uomini, evitando lo scontro diretto col mio pupillo, pensai a quanto fosse furbo Reginald.
Sapeva tutto, dunque. Altrimenti perché Charles era lì? Per caso? Non credo proprio.
Quando l’ultima giubba rossa crollò a terra, osservando in un ultimo slancio di vita le proprie budella scivolare sulle assi di legno, Charles fece un passo verso di me. – Non male, per essere un vecchietto.
Era stato come un figlio, per me. – Charles, che piacere – esclamai, ironico. – Ti vedo in forma.
Abbozzò un sorriso e sollevò le mani, captando il sarcasmo nella mia voce: aveva i capelli unti e la giacca rattoppata qui e là, i calzoni consunti e gli occhi lucidi. Sembrava malato. – Abbiamo molto lavoro da fare. Guidare le colonie. – Avanzò ancora. – Stanare i traditori.
Scrollai il capo e gli puntai contro la spada. – Non voglio farti del male, Charles. Vattene. Va’ da Reginald – sussurrai. – Perché lo stai facendo?
– Perché ci hai tradito. Devi morire – mi ringhiò contro come un cane rabbioso. – Stai collaborando con gli Assassini! Il tuo posto è sulla forca!
– Voi volevate uccidermi già prima che collaborassi con gli Assassini! – sbottai. – E, in caso ti interessi, non è certo ciò che voglio! Credi che non preferirei scappare?
Charles scoppiò a ridere. – Certo! Scappare! Magari con la tua troia indiana, che ne pensi? – Sentir parlare in quel modo di Tiio mi gelò il sangue nelle vene. – Sai, Thomas le ha dato una ripassata prima di tagliarle la gola. C’era anche Reginald, ma non l’ha toccata. Immagino che non volesse sporcarsi le mani con le-…
Troppo tardi. Ero saltato sul suo petto, spingendolo a terra, e stringevo le mani intorno al suo collo. – Io ti ho trattato come un figlio! – esclamai, sull’orlo delle lacrime. – Senza di me saresti ancora il cagnolino di Edward Braddock! Perché, Charles? Perché lo fai?  
Quel cane scoppiò a ridere. Le mie mani tremavano come foglie e nella mia testa si susseguivano tutti quei maledetti giorni in cui lo avevo addestrato, gli avevo insegnato come essere uno di noi, lo avevo plasmato e gli avevo dato il benvenuto nell’Ordine. Il tutto per essere cacciato.
Feci scattare la lama celata e l’affondai nel suo petto, in modo da non lacerare alcun organo vitale. Capii di essere stato troppo buono, ma come potevo ucciderlo? Sarebbe stato più facile uccidere il mio vero figlio, ma non Charles. Non lui.
Mentre il sangue macchiava la sua giacca e la mia, lo guardai con profondo rammarico e sussurrai: – Vattene da qui, se ce la fai. Fatti curare da Benjamin. Lasciami finire il mio lavoro, per oggi.
E lo abbandonai sul molo, scalando rapidamente il gazebo e cercando con lo sguardo le navi mercantili. – Ti porteranno via, Charles – sussurrai tra me e me. – Non morirai. Però devi lasciarmi fare.
Altri cinque soldati davanti ad una nave. Dovevo agire velocemente, altrimenti Charles sarebbe come minimo morto dissanguato, e non potevo permettermelo. Mi lanciai rapidamente contro di loro, cogliendoli abbastanza di sorpresa da finirli in pochi minuti. Non c’era più nessuno. Tornai di corsa da Charles Lee, ancora fermo con la mano sul petto, come l’avevo lasciato, e lo presi per le spalle. – Charles – sussurrai – va’. Va’ o ti ucciderò.
Rise di nuovo. – Non ne avresti il coraggio.
Sorrisi, provocatorio. – Ma gli Assassini sì. E arriveranno tra poco, Lee, pronti a danzare sul tuo cadavere. Ti conviene sparire.
– Vaffanculo.
Sollevai le mani in segno di resa. – Sei diventato volgare, di recente! – esclamai, fingendo indignazione. – Sono davvero stupito, Charles.
– Smettila e ammazzami, se vuoi.
– Il problema è questo, Charles. – Mi chinai fino a guardarlo dritto in quegli occhi chiari, che non mi erano mai sembrati tanto ricolmi d’odio e disprezzo. – Io non voglio ucciderti. Voglio che tu vada da Reginald Birch e gli dica quanti uomini sono morti oggi Presto arriveranno i Figli della Libertà, e gli Assassini con loro. Fa’ sapere a quel bastardo di che cosa è capace Haytham Kenway, Charles. Ricordagli che io non sono dalla parte degli Assassini, ma che lo cercherò, dovessi attraversare il globo intero, e lo ucciderò. Sa che sono in grado di farlo. E pagherà per aver ucciso mio padre. – Sorrisi appena. – Oppure muori qui, dissanguato, come un cane, calpestato dai ribelli che arriveranno tra poco, o con una pallottola tra gli occhi, come regalo di benvenuto dagli Assassini. Scegli tu. E, in qualsiasi caso, Reginald saprà che sono stato io. – Sospirai, per un attimo vittima della nostalgia. – Lui sa sempre tutto.
Senza aspettare la sua approvazione, afferrai Charles per una spalla e lo spinsi fuori dal porto. – Non chiamerai Reginald – sibilai guardandolo negli occhi, e non era una domanda né una richiesta. Era una certezza. – Ti conosco meglio di quanto tu possa pensare, Lee.
Grugnì, frustrato. – Quando arriveranno i tuoi amichetti, questo posto sarà pieno di giubbe rosse!
Risi come un folle. – Forse dopo. Quando Reginald ti avrà fatto la sua bella ramanzina e ti avrà umiliato per tutti gli anni a venire. – Lo salutai con un cenno della testa e gli voltai le spalle.
Forse non mi era più fedele, forse non era più il ragazzo che avevo conosciuto, ma avevo passato più tempo con lui di qualsiasi altro membro dell’Ordine, e conoscevo le sue debolezze. Charles era un ambizioso, un uomo che farebbe qualsiasi cosa per non andarsene con la coda tra le gambe. Ma cosa poteva fare, allora? Aveva un foro nel petto, seppur non letale, e camminava a fatica. Quando Reginald avrebbe saputo ciò che avevo fatto, il primo fantoccio su cui scaricare l’ira sarebbe stato Charles. Poi, io.
E sarei stato pronto.
 
I ribelli e gli Assassini – i due Assassini, Connor e Stephane – gettarono il tè in mare, schiamazzando e gridando gioiosamente. Sì, che meraviglia, la più grande tazza di tè del mondo! Magnifico.
Seduto sul tetto di quello stupido gazebo, osservavo la scena – tutti che battevano le mani in sonore pacche sulla schiena di Samuel, Connor, William e Paul – con ilarità. Il grosso del lavoro l’avevo svolto io.
Allora, mi ritrovai a pensare, Reginald sapeva davvero della lettera? Quello era solo un trucco per depistarmi? Oppure no? Oppure era successo qualcosa di diverso? I Templari non erano stupidi, e lo sapevo, ma…
– Haytham! – Lo strillo gioioso di Stephane Chapheau mi riportò con i piedi per terra. – Ce l’abbiamo fatta! Ed è anche merito tuo. Forza, andiamo a bere una birra. Per le colonie!Sorrisi. Era stato solo merito mio, anche un deficiente sapeva prendere delle casse e gettarle in acqua. – Un po’ d’alcool non si rifiuta mai – risposi scrollando le spalle. – Me lo merito.
Il corteo uscì dal porto con me, Connor, Stephane, William, Samuel, Paul e il capitano Rotch alla guida. Qualcuno alle nostre spalle definì quel casino “il più famoso ricevimento del tè di sempre”.
Fu così che, ironicamente, lo soprannominammo.
Il ricevimento del tè di Boston.
Il Boston Tea Party. 


Spazio autrice:
Ciao a tutti! Okay, mi intrometto solo per chiedervi se avete voglia di seguire questo tumblr: http://citimprobabilidihaythamkenway.tumblr.com/, dove di tanto in tanto posterò qualche creazione da malata di mente. 
Alla prossima! *.*
P.S.: Sono in preda ad una crisi esistenziale post-fine-Assassin's-Creed-IV-Black-Flag e mi sto letteralmente drogando di "The Parting Glass", la canzone finale. Un consiglio. Non ascoltatela a ripetizione prima di andare a scuola. A meno che non vi piacciano le lacrime agli occhi, gli attacchi di depressione e tutta quella roba lì. Allora fatelo. 
Ah, e se non avete ancora finito il gioco, non ascoltatela. Per favore. Ha reso il momento perfetto. Non spoileratevela, ne va della vostra salute. 

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Capitolo 16
*** Nel nome del figlio. ***


– Scappare! Magari con la tua troia indiana, che ne pensi?
– Johnson è morto?
Le voci si sovrapponevano nella mia testa, nella mia maledetta testa.
– No. Crediamo si sia ritirato dopo la perdita del tè.
– Sai, Thomas le ha dato una ripassata prima di tagliarle la gola.
– Solo per cambiare il suo piano. È ovvio. Avresti dovuto ucciderlo, Connor.
Portai una mano alla testa, cercando di capire, chiudendo gli occhi. Perché non potevo chiudere le orecchie? Almeno avrei capito quale di quelle voci esisteva solo nella mia mente e nei miei ricordi. Mi morsicai la lingua per non imprecare ad alta voce, appoggiato con la schiena contro la parete della tenuta mentre Achille e Connor parlavano del Tea Pary.
Perché non eravamo rimasti a Boston? Perché avevamo dovuto abbandonare il caos della città, che almeno mi concedeva qualche distrazione, per tornare alla sciocca solitudine della tenuta, in cui tutti i miei pensieri finivano per scontrarsi tra loro e confondersi con la realtà? Non lo capisco ancora.
– Vaffanculo.
– Non serviva, Achille.
– Smettila e ammazzami, se vuoi. 
– Il problema è questo, Charles. Io non voglio ucciderti. Voglio che tu vada da Reginald Birch e gli dica quanti uomini ho ucciso. Fa’ sapere a quel bastardo di cosa è capace Haytham Kenway. 
– Ah! Solo il tempo ce lo dirà, se hai ragione.
Connor si lasciò andare ad un sospiro. – Perché non ti fidi di me, Achille?
– Io mi fido di te, ragazzo. Credimi. – Immagino che Achille guardò Connor con affetto, quello che io non riuscivo a dargli, ma non posso esserne sicuro. Tenevo le palpebre serrate, cercando di scacciare la voce di Charles dalla mia mente. – Più che di chiunque altro.
– Senza di me saresti ancora il cagnolino di Edward Braddock!
Feci di tutto per ricacciare le lacrime, serrando le palpebre e stringendo i denti. Non potevo lasciarmi andare in quel modo, non davanti ad Achille e Connor. – Allora perché mi parli così?
Achille sbuffò. – Credo solo che tu abbia fatto un errore. I Templari non si arrendono così facilmente. – Aprii le palpebre in tempo per vederlo lanciarmi un’occhiata un po’ contrariata, come a dire: “Hai visto cosa abbiamo dovuto fare per ammorbidire questo figlio di puttana?” – Quando torneranno all’attacco, non dirmi che non ti avevo avvertito, figliolo.
Seguii Achille con lo sguardo mentre rientrava nella tenuta, di nuovo in grado di muoversi da solo grazie ad un bastone. – Mi piaceva di più quand’era bloccato a letto – ironizzai non appena si chiuse la porta alle spalle.
Connor esplose in un lungo, frustrato sospiro. – Fa’ lo spiritoso quanto vuoi – brontolò senza guardarmi. – Forse ha ragione. Ho avuto troppe cose a cui pensare. E poi Johnson non era nemmeno lì. Giusto?
Feci di tutto per non avvampare, mordendomi le labbra fino a sentire il sapore del sangue. Lui lo notò, naturalmente, e mi afferrò per una spalla. – Haytham, che cos’è successo durante il Tea Party? – chiese, e per un secondo mi sembrò davvero preoccupato. – Sei più taciturno del solito da quando abbiamo lasciato Boston.
Lo allontanai con una spintarella. – Pensavi che sarebbe filato tutto liscio, vero, Connor? – sibilai, sentendo la rabbia montare dentro di me. – Io non ne ho parlato, forse, ma tu non hai fatto altro che crogiolarti nella tua stupida gloria. Da solo. Le giubbe rosse le ho uccise io! – Io ho quasi ammazzato un ragazzo che una volta consideravo mio figlio, aggiunsi mentalmente. – Tu cos’hai fatto? Hai gettato delle casse di tè in mare.
Ma naturalmente i Templari sono solo dei buoni a nulla, giusto?
Si passò una mano sugli occhi. – Forse hai ragione. Non mi sono preoccupato – brontolò, come se volesse concedermelo per farmi stare zitto. – Allora raccontami cos’è successo.
– Hai parlato con Samuel Adams della lettera? Intendo… hai scoperto altro?
– No – ammise con le spalle basse. – E tu?
Reclinai il capo. Parlargliene o no?, quello era l’unico problema. Mostrare quanto ero stato debole, quanto ero stato sentimentale nei confronti di Charles?
– Usa la tua intelligenza, Haytham.
Mi voltai di scatto, trasalendo. Ero sbiancato. – Hai sentito? – sibilai. – Era…
Connor poggiò una mano sulla mia spalla, ma lo allontanai. Era la voce di Minerva. – Io non ho sentito nulla – brontolò mio figlio. – Sei sicuro di stare bene?
Zitto, stronzetto, sei tu il primo ad aver parlato con una… una di loro!, avevo voglia di rispondergli, ma rimasi in silenzio per qualche secondo, stringendo i pugni. – No – risposi infine. – No, Connor, non sono sicuro di stare bene. E sai perché? – Lo guardai con gli occhi ridotti a due fessure, ma sul suo viso non vi erano tracce di curiosità o sconcerto. Era la normalità, ormai, per lui. Non sopportavo il modo in cui passava dall’essere un perfetto rammollito al non mostrare nessuna emozione. Nessuna. Specie con me. – Ho incontrato Charles Lee al porto di Griffin. E sono quasi sicuro che ve l’abbia spedito Reginald Birch, sapendo che io sarei stato lì.
Connor sobbalzò, come se qualcuno lo avesse colto di sorpresa. Mi lasciai sfuggire un sorrisetto. – Ben ti sta – esclamai. – Allora? Niente da dire?
Inclinò la testa di lato. – Cosa ti ha detto?
– Quasi niente. Ha tentato di uccidermi – dissi con una scrollata di spalle, come se niente fosse. – L’ho ferito. So che ti interessa solo questo. Gli ho detto di tornare da Reginald e dirgli ciò che ero riuscito a fare. Tutte quelle giubbe rosse stecchite.
Scrollò il capo. – Stecchite, che eleganza.
– Zitto – sibilai in risposta. – Non fare l’insolente con me. In un combattimento contro lui saresti morto dopo qualche attimo. – Connor abbassò la testa di scatto e la soddisfazione mi riempì il cuore. – Dicevo, l’ho accompagnato fuori e se n’è andato. Sono sicuro che Reginald sapesse che vi sarei stato anche io, altrimenti non avrebbe mandato proprio Charles.
Connor annuì tra sé, l'espressione di chi sapeva come consideravo Charles.
Non lo sapeva.
Ero stato io la prima figura di riferimento di Charles Lee, io l’avevo incontrato al porto di Boston quando era solo un ragazzo mandato da qualche superiore ad aiutare un uomo “importante”, per così dire. Non era felice, non proprio, ma era fedele alla nostra causa molto più di quanto lo fossero altri uomini, magari già Templari a tutti gli effetti. Era sempre pronto ad obbedirmi e la terra sulla quale camminavo era un terreno sacro, per lui.
Sì, lo ammetto, mi ricordava il modo in cui io trattavo mio padre.
Era come un figlio. Un figlio fedele, affidabile, che mi dava grandi soddisfazioni.
Finché non lo avevo abbandonato per andare alla ricerca di Jenny, lasciando che Reginald lo avvicinasse a sé, portandomelo via per sempre.
Ecco cos’era Charles per me, prima che tutto cambiasse, prima che Connor entrasse in scena, prima che i Templari mi accusassero di tradimento, prima. Semplicemente prima.
– Hai qualche commento? – sussurrai, tornando alla triste realtà della mia vita, una vita in cui non riuscivo ad accettare il mio vero figlio e l’uomo che avevo trattato come tale mi odiava in modo viscerale. – Qualche perla di saggezza da Assassino?
Connor sospirò. – Avresti dovuto ucciderlo, Haytham.
Sgranai gli occhi. Eccolo lì, un egoista come tutti gli altri, fedele solo ai propri interessi. Perché Johnson poteva essere risparmiato, per ora, ma Charles no. Non lui, che aveva dato alle fiamme il suo villaggio, gne-gne-gne. Solite storie, ma questa volta facevano più male. 
Troppo male.
Con la rapidità di un falco mi chinai, raccolsi un sasso grosso quanto il pugno di un bambino, affilato ma non troppo pesante, e lo scagliai contro di lui. D’istinto. Il tutto in pochissimi istanti. L’ultima immagine che mi saltò agli occhi fu un violento fiotto di sangue che colava sulla guancia destra di Connor, a partire da sotto l’occhio. – Era come un figlio – sussurrai, a voce tanto bassa che nemmeno il ragazzo riuscì a sentirmi, tutto intento a controllare quella stupida ferita.
Sentii le lacrime tornare a premere nei condotti e gli voltai le spalle, rientrando nella villetta e sbattendo la porta.
Lo colpii per la frustrazione, per la rabbia, perché non lo aveva capito. Non l’avrebbe mai capito.
Era come un figlio.
 
– Apri!
I colpi risuonavano violentemente contro il legno della porta mentre affondavo la spada nel manichino che Achille usava per l’addestramento.
– Voglio solo parlare!
E io no, pensai, continuando a trapassare un punto preciso di quel petto strapieno di fieno. Il punto in cui la mia lama celata aveva bucato il corpo di Charles Lee. Rabbrividii, ma continuai. – Ti stai comportando da bambino, Haytham.
– Me lo dite sempre – risposi a bassa voce, con un mezzo sorriso sulle labbra. – Sempre le stesse cose. Avresti dovuto ucciderlo, Haytham – feci il verso a Connor. – Era un ragazzo fantastico.
Prima, naturalmente. Ora era un uomo contagiato che ha intenzione di uccidermi. Mi chiesi se una piccola, minuscola parte della sua coscienza fosse contraria all’uccidermi, esattamente come me. Io non volevo ucciderlo. Avrei fatto qualsiasi cosa per strapparlo dalla morsa di Reginald e riportarlo da me, qualsiasi cosa.
Un altro, violento colpo alla porta. – Haytham! – Ancora, continuavano, non avevano intenzione di lasciarmi stare per qualche dannata, maledettissima ora? No, assolutamente no. Siamo Assassini, agiamo nel buio per torturare Haytham Kenway. Dovrei proporre loro il nuovo motto. – Per piacere. Connor non è qui.
Non degnai Achille di una risposta. Lasciai perdere il povero manichino martoriato e mi avvicinai a quella stupida parete con tutti i nostri dipinti. Io, Reginald, e subito sotto Charles. Charles Lee, quand’era ancora giovane e riservava uno sguardo – non dico dolce, mai – amichevole al pittore, prima che il disprezzo lo risucchiasse del tutto. Adesso, a quarant’anni, faceva finta di non avermi mai conosciuto.
Mi aveva rinnegato.
Trattenni un singhiozzo, mordendomi furiosamente le labbra. Era normale che Charles fosse stato sviato da Reginald: l’aveva fatto con me, poteva farlo con chiunque altro. Reginald Birch non era semplicemente un assassino, no: aveva ucciso un suo amico, ordinato di uccidere un suo fedele allievo! Aveva sempre cercato di fuorviarmi, di rendermi come tutti gli altri. E mentre mio padre mi chiedeva costantemente quale fosse la mia opinione, Reginald lasciava che la pensassi come lui. Come i Precursori, come i codici ai quali ci attenevamo. Non gli avevo mai obbedito del tutto, naturalmente, ma lui lo sapeva.
Quando ero tornato da lui, dopo il suicidio di Holden, mi aveva guardato dall’alto in basso come se non mi riconoscesse più, e aveva detto: “Haytham, nonostante tutto non riesco a smettere di vedere tuo padre in te.”
Poteva sembrare una frase come tante, e all’epoca era suonato alle mie orecchie come un complimento, ma ora, sapendo quello che Reginald aveva fatto a mio padre e alla mia famiglia, a me, assumeva tutto un altro significato. Quelle parole volevano dire: “Haytham, nonostante tutti i miei sforzi non sono riuscito a togliere dalla tua testa quello stupido modo di pensare da Assassino, accidenti.”
Accidenti, perché non ho quasi mai sentito una parolaccia uscire dalle labbra di Reginald Birch, che sapeva come comportarsi in ogni situazione e usava la diplomazia con tutti, ma guardava il sottoscritto come se avessi bisogno di una sana, costruttiva ed educativa scarica di legnate. Non che mi odiasse, no. Pensava solo che mi servisse una raddrizzata, qualcuno che togliesse quelle idiozie da Assassino dalla mia testa per fare di me il Templare perfetto.
Non ho mai detto di volerlo diventare. Non è mai stato nel mio destino, ecco.
– Sta’ zitto – sussurrai mentre Achille continuava a battere colpi alla porta. Non ero rivolto a nessuno in particolare, forse solo alla mia stessa mente, la mia stupida mente.
Presi una spada dall’armadio delle armi di Achille in un gesto quasi solenne, osservando gli occhi di Reginald Birch, fissati sulla tela eppure così vivi, attenti, pronti a cogliere ogni mio errore. Come avevo fatto molto tempo prima, ma in modo decisamente più calmo, tirai indietro il braccio, respirando piano. La voce di Achille non era altro che uno stupido sottofondo. Ora sentivo quella di Reginald, così vicina e reale nonostante fossero passati molti anni.
La gamba destra indietro, la sinistra piegata, l’aria un po’ stravolta, il petto che si alzava e si abbassava con regolarità: non ero mai stato tanto calmo. Avevo il braccio destro teso all’indietro, la spada stretta in mano come un giavellotto.
– Hai conosciuto qualche giovane donna londinese, di recente? O preferisci immaginarle a letto, nascosto sotto le lenzuola? –  sentivo la sua voce graffiante contro il mio cervello, l’umiliazione crescente e le lacrime agli occhi, come quel giorno. Nessun altro mi aveva trattato peggio in tutta la mia vita. Nessuno. Io non avevo mai trattato Charles in quel modo, anzi.
C’era sempre stata complicità tra me e quel ragazzo. Era un ventenne senza esperienza nell’Ordine, nessuno gli dava fiducia, eppure aveva le potenzialità. Io le avevo viste, le avevo fatte fiorire. E Reginald le aveva raccolte per lanciarmele contro.
Doveva pagare. Avevo giurato che l’avrei ucciso, e l’avrei fatto.
Non in quel momento, però: ero abbastanza lucido da sapere che se avessi attaccato di lì a poco, con la rabbia e la furia omicida in circolo, sarei stato prevedibile e mi avrebbero scoperto. La mia vecchia famiglia mi avrebbe punito. Con la morte.
Scrollai il capo.
Se Reginald fosse morto, se fossi riuscito a fermarlo prima di tornare nelle Americhe, probabilmente non avrebbe condizionato Charles e gli altri, non sarei mai stato condannato e non avrei collaborato con gli Assassini. Sarei rimasto un Templare che combatteva contro il suo scontrosissimo figlio, un Gran Maestro che teneva nascosto agli altri il suo pericoloso lato da Assassino. Sarei stato un grande capo dell’Ordine Templare, naturalmente.
Eppure Reginald aveva deciso che, una volta uccisi due Kenway – mio padre e Jenny – sarebbe stato divertente sterminare per sempre l’allegra famigliola aggiungendo me e Connor alla lapide di famiglia.
Non gliel’avrei mai permesso.
La spada fendette l’aria e si conficcò nella tela, esattamente sul lato destro del collo di Reginald.
Nella carotide.
Sorrisi appena, osservando l’opera con soddisfazione, e mi sentii subito molto meglio.
Risalii le scale che portavano alla villa e, quando fui sicuro che Achille si fosse rintanato nella sua stanza, aprii la porta e m’incamminai fuori, verso le scuderie, respirando l’aria invernale e rabbrividendo leggermente.
La mia vita non sarebbe stata felice con una famiglia, non era quello il mio destino.
La mia vita sarebbe stata felice solo quando avrei potuto sentire il caldo cervello di quel verme schizzare fuori dalla scatola cranica e macchiarmi la camicia, le mani e il viso.
 
Stranamente, alle scuderie non c’era nessuno, come se gli Assassini avessero deciso di partecipare ad una festa esclusiva. Be’, meglio. Avevo pensato di dover avanzare come un ladro per prendere un cavallo e andare verso Boston, ma non ne ebbi bisogno: ne sellai uno qualsiasi e partii attraverso la frontiera con il sole ancora alto nel cielo, verso le dieci del mattino.
Forse era l’azione più stupida che avessi mai fatto in tutta la mia vita, forse la più furba, non lo sapevo ancora. Fatto sta che la frontiera era tutta per me, non si sentiva volare una mosca e il freddo era come una droga, che mi permetteva di andare avanti con una certa euforia.
Non persi tempo per pensare troppo a ciò che stavo facendo, perché nella mia mente avevo già un piano predefinito: forse non l’avevo studiato, non ci avevo riflettuto sopra, ma non ne avevo bisogno.
Perché gli Assassini, per quanto il nome possa essere ingannatore, hanno qualcosa che un Templare non lascerebbe mai prendere piede nel proprio spirito. Gli Assassini hanno la pietà – sì, il ragazzino ne parlerebbe come se fosse qualcosa di positivo. Non sono in grado di uccidere un uomo per il gusto di farlo, e quando uccidono per vendetta – quelle rare volte – rinsaviscono subito e decidono di non fare mai più una cosa del genere. Trattenere la lama dalla carne degli innocenti.
Scossi il capo. Era strano pensare quanto, in qualità di Templari, dovessimo conoscere bene gli Assassini.
Quando arrivai nei pressi di Boston mi fermai e scesi da cavallo, ancora nel bosco, respirando profondamente e notando che, volendo, avrei potuto benissimo comprare delle provviste e fuggire. Via. Lontano dagli Assassini e dalle loro regole.
Sospirai. Se il mio piano avesse funzionato, non ne avrei avuto bisogno, perché i miei vecchi amici mi avrebbero accolto a braccia aperte e, tutti insieme, avremmo recuperato la Mela, nonostante il giuramento che avevo stretto anni prima.
Il giuramento?
Mi colpii la fronte con la mano.
Il giuramento!
In quei pochi giorni dopo il Tea Party l’avevo dimenticato, ma avevamo giurato di non rivelare a nessuno che eravamo alla ricerca della Mela. Eppure Connor aveva spedito ad Achille una lettera in cui ne parlava, chiaro come il sole, nero su bianco. La stessa lettera che qualche spia ancora ignota aveva rubato.
Avevo giurato che, se l’avesse fatto, l’avrei ucciso.
Scrollai le spalle. Nessun problema. L’avrei fatto. Se lo meritava. Mi aveva tradito.
Io avevo tradito – per così dire – la mia unica vera famiglia pensando che lui e sua madre volessero avermi accanto. Eccome se lo meritava, diavolo.
Dopo, però. In quel momento avevo qualcosa di meglio da fare.
Entrai in città e lasciai il cavallo davanti ad una locanda, assicurandolo con le briglie, poi controllai le pistole e il filo della spada. La lama celata era illibata, affilata e lucida come uno specchio. Il mio sorrisetto sadico venne riflesso sull’acciaio, facendomi rabbrividire.
Ero pronto, e sapevo dove cominciare a cercare.
Il vecchio covo.
 
Quanti momenti felici avevo vissuto tra quelle strade? Avevo reclutato i miei seguaci, avevo incontrato giubbe rosse, avevo origliato conversazioni e, nell’ultimo periodo, avevo fatto cadere la busta della spesa ad una donna che pensavo mi sarebbe rimasta per sempre accanto.
Non ci pensare.
Quella vocetta nella mia mente parlava, ma non era facile. Provate a non pensare alla persona che amate. Forse è facile quando si è circondati da persone che ci vogliono bene, ma io chi avevo? Mio padre, Holden, Tiio, Alice, mia madre, Jenny, Charles e gli altri: tutti morti, oppure mi avevano voltato le spalle. Non avevo nessuno.
Il mio unico figlio mi detestava. Il suo Mentore mi trattava come un decerebrato e i suoi confratelli non volevano avere niente a che fare con me, ovviamente.
Chi mi restava?
La fedele sorella di ogni disperato; la vecchia, cara e dolce vendetta.
Fu proprio lei a spingermi verso il centro di Boston, guardandomi intorno mentre la gente parlava ancora di rivoluzione e ogni tanto le giubbe rosse si vedevano costrette a spingere un contadino contro un muro e a affondare il calcio del fucile nel loro ventre.
Passai accanto alla Old State House e alla Old South Meeting House, scrollando il capo e cercando di dimenticare quegli avvenimenti, il massacro e il Tea Party. Avrei preferito non prenderne mai parte.
Quando, invece, mi ritrovai di fronte alla porta che cercavo, con la vecchia insegna ciondolante e il pesante vociare proveniente dall’interno, fu come tornare indietro nel tempo, come se spalancando la porta potessi ancora trovare Charles a sorridermi, Catherine e Douglas  – i padroni del posto – che si prendevano a parolacce, Thomas con una birra in mano e William Johnson concentratissimo sui suoi studi. Istintivamente riportai la mano al collo per afferrare l’amuleto, dimenticando che in quel momento si trovava tra le mani impregnate di sangue – sangue del mio sangue – di Reginald Birch.
Respirai profondamente. Non sapevo cosa o chi avrei trovato là dentro.
Poi spinsi la porta e misi piede nella taverna Green Dragon.
Come ai vecchi tempi.
 
La prima cosa che mi colpii fu il chiasso e l’odore di birra, perché mi aspettavo tutto, ma non quell’indifferenza. Tutti i clienti della taverna bevevano pacificamente, senza degnarmi di uno sguardo, continuando a schiamazzare, spingersi e ridere.
La vista della birra, del grog e dello scotch sui tavoli mi tentò, ma mi incamminai semplicemente su per le scale, alla ricerca del vecchio tavolo al quale io, Charles, Benjamin, William, Thomas e John sedevamo per parlare. Lo stesso tavolo al quale Charles era diventato un Templare a tutti gli effetti, lo stesso tavolo attorno al quale avevo dato piena fiducia a quegli uomini.
Lo stesso tavolo.
Occupato.
Lui non mi vide, in un primo momento, e ne fui felice. Era così circondato di donne che immagino non riuscisse nemmeno a vedere il boccale di birra che stringeva tra le mani. Rideva, il bastardo. Non riuscivo a sopportarlo. Rideva. E immaginavo Tiio sotto di lui, mentre, come aveva detto Charles, le dava una ripassata.
Sparai un colpo a pochi centimetri da una delle giovani donne che spalmava i seni in faccia al mio vecchio socio e, all’improvviso, non fui più invisibile.
L’intera taverna si voltò verso di me, ammutolendo.
Lo spettacolo è gentilmente offerto da Haytham Kenway e la sua voglia di vendetta, pensai con un sorrisetto.
– Buongiorno, Thomas. – La falange di donne attorno a lui si sfaldò e tutte si voltarono verso di me, verso la pistola. Inorridite. – Mi fa piacere vedere come certe cose non cambino mai.
Thomas Hickey, appunto, non era cambiato: sbarbato di fresco, ubriaco fradicio, ma con gli occhi comunque attenti e vividi, come sempre. Ridacchiò sollevando il boccale di birra nella mia direzione. – Stai per uccidermi, Kenway? – chiese con una risatina.
Avanzai di un passo e tutte le donne si diradarono ancora di più, lanciando strilli colmi di panico che mi fecero venire voglia di ucciderle tutte. Almeno ci avevano lasciati soli. – Non voglio ucciderti, Thomas – risposi inclinando la testa di lato e avvicinandomi a lui. Ero dall’altra parte del tavolo, il nostro tavolo. – Ho solo bisogno di un’informazione. E se non me la darai, sarò costretto a torturarti.
Sputò sulla mia redingote un grumo di saliva e catarro. Che classe. – Non riusciresti mai a fare del male ad uno di noi. Sono stati loro, vero? Quei figli di puttana degli Assassini. Ti hanno mandato qui e…
– … E non sanno nulla – completai per lui, levando gli occhi al cielo. – Thomas, è qualcosa che voglio fare per voi. Per l’Ordine. Quando lui sarà scomparso, tutto andrà per il meglio. Credimi. – Sospirai, voltando la testa verso gli altri clienti. Ci stavano ancora guardando, ma alcuni avevano ricominciato a chiacchierare ad alta voce: non eravamo più la nuova attrazione della taverna e, in fondo, se nessuno era morto non si erano persi niente. Ah, il popolo in cui Connor aveva tanta fiducia amava il sangue (altrui). – Mi aiuterai?
L’espressione di Thomas, rabbiosa fino a pochi secondi prima, cambiò di colpo. I suoi occhi divennero lucidi, come se avesse paura di qualcosa, poi si guardò intorno, aggrottò la fronte e diede un calcio alla sedia di fronte alla sua per farmi sedere. – Mi stai cacciando in grossi guai, Kenway – brontolò affondando il viso nel boccale. – Grossi come il culo di quella grassona di una cameriera.
Be’, non era esattamente sobrio, ma era tutto ciò che mi restava. Crollai a sedere e sospirai, stringendo le mani attorno al tavolo. Era più difficile da ammettere di quanto pensassi. – Ho bisogno di sapere che ho qualcuno ancora dalla mia parte, Hickey. Qualcuno di voi. – Scossi la testa con gentilezza. Sentivo gli occhi dell’intera locanda su di me, pronti per il giudizio. – Io non sono come loro. Non sono un Assassino, per quanto Reginald vi stia… corrompendo dicendo che razza di traditore sia e tutte queste stronzate. Mi hanno rapito, Thomas. E ho dovuto scegliere tra loro, tra un alleato sicuro per ottenere la Mela, e la morte certa. – Alzai gli occhi, cercando il suo sguardo in un momento d’incertezza. – Il mio non è un tradimento. Non ho mai smesso di essere fedele ai principi templari, nemmeno sotto quel tetto. Chiedilo agli Assassini, se ti serve conferma. Io ci credo davvero.
Thomas sbuffò dal naso, giocando con il boccale di birra quasi vuoto. – E forse sei stato l’unico. Io mi sono fatto il mio giro d’affari, ma non ho idea di che fine abbiano fatto John, William e Ben. Di certo non sono con Reginald. – Bevve un lungo sorso. – Ha solo Charles.
Sospirai. Charles, il solo sentire il suo nome mi faceva provare pietà e una vena d’affetto.  – Posso fidarmi di te, Thomas? – sussurrai, tendendo la mano verso la sua e facendo scivolare la lama celata fuori dalla polsiera. – Rispondimi sinceramente.
Thomas Hickey – l’uomo che ruttava, faceva sesso come altri uomini giocavano a cricket e aveva violentato Tiio prima di ucciderla – non mi era mai sembrato tanto spaventato. Nonostante lo schermo dell’alcool, il suo sguardo tremava appena, e non era una cosa solita. Non per lui. La paura non aveva mai preso piede nel cuore di Thomas, finché il Gran Maestro del rito coloniale ero io. – Kenway, ti ucciderà – mormorò.
Capii a chi si riferiva, ovviamente, e anche lui aveva capito cosa intendevo. Sapeva perché ero lì. I miei uomini non erano degli sciocchi, notai con un po’ di sano orgoglio. – Rispondi alla mia domanda, Thomas – sibilai, indicandogli la lama celata che sporgeva dalla polsiera con un cenno del capo. – Posso fidarmi di te?
Hickey lasciò andare il boccale e poggiò il braccio sinistro sul tavolo, tirandosi su la manica della camicia e afferrando un coltello a serramanico con la destra. – Promettimi che non dirai nulla, Haytham. A nessuno.
– Sembri spaventato.
Thomas Hickey imprecò a mezza voce. – Stringiamo questo patto e discutiamone, ma in fretta. – Si guardò attorno. – Diciamo che non passi esattamente inosservato.
Sorrisi. Era uno dei pochi nel gruppo in grado di tirare fuori un po’ di sarcasmo. – Forza, Tom. – Non lo avevo mai chiamato Tom.
Impedito dalla polsiera della lama celata, affondai l’arma per pochi millimetri nel braccio destro invece che nel sinistro, come voleva la tradizione. Thomas Hickey fece la stessa cosa sull’altro braccio, lasciando che il sangue sgorgasse un po’.
Immersi la lama celata nel mio stesso sangue e la infilai nella sua ferita, affondando ancora un po’ l’arma nella carne lacerata. Thomas mi fece lo stesso, poi tastammo le piccole ferite con dei tovaglioli e ci scambiammo un reciproco sorrisetto stentato per nascondere le smorfie di dolore. Avevamo appena stretto un patto di sangue alla vecchia maniera.
Ridacchiai. – Meus cruor tuus cruor est – mormorai, guardandolo negli occhi. Aggrottò la fronte e scoppiai a ridere piano. Era sempre stato lui l’ignorante del gruppo, in un certo senso, ma non avevo mai sottovalutato la sua intelligenza. – Latino, Thomas. Il mio sangue è il tuo sangue.
Lui strinse le labbra. Forse nemmeno Thomas sopportava il mio sarcasmo, tirato fuori spesso in momenti poco opportuni, ma sono fatto così. – Non abbiamo molto tempo – sussurrò – quindi vediamo di parlare chiaro. Che ti serve, esattamente?
Presi fiato prima di parlare. – Voglio solo sapere dov’è Reginald. Tutto qui.
Thomas annuì, aveva capito bene. – Te l’ho già detto, ti ucciderà.
– No, se tu non farai la spia succederà l’esatto contrario. – Sbuffai. – Dimmi una cosa, Hickey – sibilai spostando di scatto lo sguardo su di lui. – Perché lo stai facendo? Insomma, hai giurato fedeltà all’Ordine Templare e…
– Il mio Gran Maestro sei sempre stato tu – grugnì con approvazione, lanciando un’occhiata alla propria ferita sul polso. – Appunto, sono fedele all’Ordine, non ad un uomo che mi ha usato per farti del male ed è sparito nel nulla portandosi dietro il ragazzino solo perché gli faceva comodo.
Sbattei gli occhi come un idiota. Charles era davvero con Reginald. Bene. Almeno avevo una certezza. Abbassai gli occhi con un sorrisetto. – Thomas, mi fa piacere sentire che non ti trovi poi così bene con Birch.
Abbassò lo sguardo. – Almeno mi paga una bella sommetta.
– Di’ la verità, se sei tanto fedele a me come dice quel patto – sibilai. Mi stava veramente dando sui nervi, sembrava un vecchio cagasotto.
Hickey scrollò le spalle. – Sta facendo ciò che faresti tu non ci avessi tradito. – Si guardò ancora intorno e si avvicinò di più a me, sussurrando: – Non si è ancora arreso per quanto riguarda il Grande Tempio. E scommetto che non l’hai fatto nemmeno tu.
Feci spallucce, senza perdere tempo spiegando che io non li avevo traditi: non potevano capire, non gli era stato strappato tutto. Dannati imbecilli fortunati. – Però sembri impaurito. Che succede?
Un’immagine raccapricciante si formò nella mia mente, spaventosa: Reginald e Thomas su un letto, stretti tra le lenzuola sudate, uno felice, quasi in estasi, e l’altro sull’orlo delle lacrime. Scrollai il capo per scacciare quel pensiero e tornai a guardare Thomas negli occhi.
– Non so che cosa diavolo tu voglia fare, Kenway – sussurrò. – Ma è un uomo intelligente. E ti conosce. – Tirò una pacca sul sedere della cameriera – già, la grassona – che gli aveva appena portato un altro boccale di birra e roteai gli occhi. – Qualunque cosa tu abbia in mente, Haytham, lui lo scoprirà. Non so dove tu possa trovarlo, ma probabilmente Reginald sa come, dove e quando farsi trovare. È tutto programmato. E adesso vattene. – Bevve un lungo sorso di birra. – Io non ti ho mai parlato.
Sospirai. Era la verità, Reginald mi conosceva bene, ma Hickey mi nascondeva qualcosa, me lo sentivo dentro. – Ti ha fatto qualcosa, Thomas? – sussurrai, guardandolo fisso negli occhi. – Rispondimi.
Lui spostò lo sguardo e spalancò la bocca come un pesce. – Credi che io mi lasci sottomettere da quell’uomo, Kenway? Se avesse cominciato a prendersela con me avrei fatto i bagagli e me ne sarei andato, cercando qualcuno che mi pagasse meglio. – Bevve ancora. – Reginald non è come te. Non è il miglior capo che i Templari potessero avere, ma è abbastanza intelligente e scaltro da capire come comportarsi con ognuno di noi. – Tornò a guardare fuori dalla finestra, come se il cielo fumoso di Boston fosse decisamente interessante. Feci scattare la lama celata per richiamare la sua attenzione e girò di colpo gli occhi su di me. – Non mi ha mai mancato di rispetto, questo glielo concedo. – Sospirò. – Il problema è Charles.
Fu come se il mondo mi crollasse addosso.
Charles?
– Che cosa gli ha fatto?
– Vattene. – Il boccale era già mezzo vuoto, ma non l’avevo mai visto tanto lucido e serio. – Per piacere, Haytham. Te l’ho detto, ti conosce. Va’. – Scrollò il capo.
Mi alzai di scatto, il cuore e lo sguardo in fiamme. – Ci rivedremo presto, Thomas.
Lo vidi sollevare il boccale nella mia direzione con scarso entusiasmo, come per augurarmi sarcasticamente buona fortuna, poi gli diedi la schiena e feci per uscire. – Ah, Hickey, un’ultima cosa. – Mi girai di nuovo e aspettai che poggiasse sul tavolo il boccale. Mi tremavano le mani e il mio sangue ribolliva nelle vene come magma, ma non potevo andarmene con quel dubbio incastrato nel petto. Non dopo quello che era successo. Dovevo sapere. – Hai mai sentito parlare di Alice Jackson?
Aggrottò la fronte e sperai che non mi mentisse. Non dopo che avevamo stretto quel dannato patto di sangue, per l’amor di Dio! – Mai sentita nominare – disse con una scrollata di spalle. Gli rivolsi un ultimo cenno di saluto e mi girai di nuovo, dritto verso le scale. – Non lo fermerai, Kenway. Sappilo.
Mi voltai un’ultima volta, serio come non ero mai stato. – Lo vedremo, Thomas. Lo vedremo. – E scesi le scale senza rivolgergli un’altra parola.
A pochi passi dalla porta il proprietario della locanda, Douglas, mi afferrò per una spalla. – Senti – esordì. Volevo tirargli un cazzotto. Non ero esattamente dell’umore giusto per discutere: avrei potuto piazzargli una pallottola tra gli occhi senza battere ciglio.
Risparmia i proiettili per quel cane, Haytham. – Sì? – sussurrai, cercando di mantenere la calma.
– Non voglio piantagrane qui dentro, signor Grilletto Facile – grugnì, guardandomi torvo. – La prossima volta che tirerai fuori un’arma tra queste mura sarà probabilmente l’ultima della tua vita.
Grugnii, frustrato. – Non c’è andato nessuno di mezzo, ma mi spiace. Farò più attenzione, la prossima volta – mugugnai. – Ora, se mi permette, avrei da fare. – Uscii.
Dissi a me stesso che avrei rimesso piede lì dentro solo dopo aver ucciso Reginald e salvato Charles, qualunque fosse il suo problema. Il suo problema con Reginald. Dio. Sarei tornato alla Green Dragon quando fossimo tornati solo noi sei, in onore dei vecchi tempi, per una bella riunioncina tra Templari.
Avevo un altro motivo per uccidere Reginald, anche se non lo conoscevo ancora con esattezza. E non gliel’avrei fatta passare liscia, non se c’era in ballo mio figlio.
 
Come Achille poche ore prima, mi ritrovavo a battere furiosamente il pugno contro una porta, strillando come un ossesso. – Apri! – sbottai, tirando un ennesimo colpo alla porta. Una porta che non si sarebbe mai aperta, ma non lo ricordavo.
– Signore – s’intromise un ragazzino con delle casse tra le mani – là non abita più nessuno. Che cosa state…?
Lo ignorai. – Stiamo parlando di mio figlio, Alice! – strillavo contro il nulla. – Come puoi essere così egoista?!
Dietro di me si formò quasi all’istante una massa di curiosi in cerca di qualcosa su cui spettegolare, ma era come se non esistessero. Il giovane lasciò le casse a terra e mi strattonò per un braccio. – La signora Jackson se n’è andata. È partita qualche giorno fa e… – Non finì mai la frase: lo avevo colpito con un pugno sul naso.
– Chiamate le giubbe rosse – sussurrò qualcuno. – I soldati. Sapranno cosa fare.
Diedi un altro colpo alla porta. – Bravi, chiamate i soldati, così sfonderanno questa maledetta porta! Sono così bravi a sfondare le porte della gente che…
– È malato. È pazzo. Non ho mai visto una cosa del genere.
Imprecai e diedi una spallata alla porta di casa di Alice, facendola crollare; si schiantò a terra con un tonfo e non mi accolse nient’altro che il silenzio. – Tu sai che cosa si prova! – sussurrai. Sentivo le lacrime scendere dalle guance. – Hai una figlia, no? Che vive a New York! – alzai furiosamente la voce. – Mio figlio è in pericolo, Alice. È in pericolo!
E poi una specie di armadio a tre ante mi  era apparso davanti, aveva messo un braccio attorno alle mie spalle e, curiosamente, mi aveva stretto a sé in un abbraccio. – Se n’è andata, Haytham – sussurrò. La mia guancia strisciava contro la stoffa ruvida della sua giacca. – Non ha importanza. Io sono qua. Non puoi mollare adesso. Sono qua.
Scoppiai in un altro singhiozzo, che virò in un ringhio quando spinsi Connor a terra.
Mi conosceva talmente bene da non sapere nemmeno che non stavo parlando di lui.
Ed ero crollato un’altra volta sotto i suoi occhi.
Battei furiosamente le palpebre, osservando la polvere che danzava nel fascio di luce proiettato attraverso la porta. Se n’era andata. Se n’era andata sul serio. Non era una balla inventata per liberarsi di me, non si stava rifiutando di aiutarmi.  
Semplicemente non poteva aiutarmi. Non era più lì.
Si era rifiutata di aiutarmi qualche tempo prima, abbandonandomi per sempre solo per dimenticare il proprio passato.
Essere un Templare – cervello da Assassino o meno – era sempre una sventura.
Potevamo avere il potere, i soldi, le armi, ma nessuno si fidava di noi.
– Haytham, aspetta! – strepitò il mio altro figlio.
Troppo tardi. Stavo uscendo di nuovo per la strada, una manica sotto gli occhi per asciugare le lacrime e, in parte, per nascondermi dalla gente che mi guardava come se fossi pazzo, solo perché avevo avuto un ennesimo crollo nervoso.
Come potevano – gli Assassini, Connor, le altre persone – guardarmi con pietà? Forse erano povere, certo, ma avevano la speranza.
La mia era stata disciolta nel sangue di tutte le persone a me care che erano morte, erano state uccise o – forse in quel preciso istante – erano torturate da qualcuno.
– Aspettami!
– Torna a casa. – Scoppiai di nuovo a ridere, come un pazzo. – La tua rispettabile reputazione sarà distrutta se ti vedono girare con uno schizzato. Cosa penseranno i Figli della Libertà? Sam Adams non vorrà più portarti a letto? – Risi. Folle.
Connor mi prese per un braccio. Non sembrava nemmeno offeso. – Haytham, per favore, che cos’è successo? Hai detto che ero…?
Mi allontanai bruscamente da lui. – Non parlavo di te, imbecille – sibilai.
Poi gli voltai le spalle, ma posso giurare che in quel momento doveva essere davvero molto, molto offeso. Arrabbiato.
E allora?
 
Mi trascinò via. Un’altra volta. Riuscì ad afferrarmi per la giacca e a portarmi via, nella famosissima taverna di William Molineux. Non vi era quasi nessuno, lì dentro – solo pochi clienti abituali – ma Connor non se ne preoccupò. Mi chiuse in una camera della taverna aspettando che arrivasse Achille in suo aiuto, per risolvere tutti i problemi che io stesso avevo creato.
Aspettammo quasi ventiquattr’ore, durante le quali rimasi seduto sul letto senza rivolgergli la parola, le braccia strette attorno alle ginocchia e gli occhi costantemente lucidi. Ogni tanto straparlavo, lo ricordo, ma non riesco a ricordare esattamente cosa dicevo. Connor mi fulminava con lo sguardo senza rispondere, e quando Achille arrivò si misero a parlare lì, davanti ai miei occhi, come se non potessi sentirli.
– È malato, Connor. – Achille mi lanciò uno sguardo colmo di pietà. Continuai a dondolarmi sul letto mormorando qualcosa. – Non possiamo fare più niente per lui.
– Gli è successo qualcosa. – Mio figlio, sempre con quella stupida mania di buonismo. Santo cielo. – Lo so. Però non vuole dirmelo. È uscito dalla tenuta, Achille, e tu non te ne sei nemmeno accorto!
Non che non potessi intervenire, ovvio. Solo che non me ne importava nulla.
Achille sbuffò, sdegnato. – Non sono la sua balia! – sbottò. – Io non ti devo niente. Non devo niente a lui! Sta diventando pazzo. Non può più esserci d’aiuto.
– Allora è per questo? – sibilò il ragazzo, irritato. – È sempre stato per questo?
Il vecchio Mentore inarcò un sopracciglio. – Non capisco.
Connor sospirò. – L’abbiamo salvato quella volta solo perché poteva esserci d’aiuto? Non hai mai pensato a cosa potesse significare per me? – Ad essere sincero, non l’avevo mai sentito tanto irrispettoso nei confronti di Achille. – È pur sempre mio padre.
– Sei un illuso, Connor. Non cercare di fare il santarellino, sai benissimo che l’abbiamo tenuto con noi perché ci serviva.
– Se i Templari lo trovassero ora, lo ucciderebbero. Gli è successo qualcosa. Possiamo aiutarlo.
– Sì, con un proiettile in testa.
Connor sgranò gli occhi ed entrambi si bloccarono, guardandosi in cagnesco. Scoppiai a ridere e mimai il gesto di una pistola alla tempia. Non mi degnarono di uno sguardo.
Ero malato?
Non lo so. Continuavano a scorrermi nella mente immagini di Charles vicino – troppo vicino – a Reginald, visi sfuocati e lenzuola, lenzuola candide che per quanto potessero essere profumate e pulite mi si appiccicavano addosso come una crisalide e mi soffocano.
Stavo impazzendo. Lo sapevo, lo sapevano tutti. Anche loro.
– Non sta bene. D’accordo. Lo so. – Connor si passò una mano tra i capelli. – Però possiamo aiutarlo. Non possiamo lasciarlo andare.
Achille sospirò. – Dobbiamo abbandonarlo da qualche parte, Connor. Un posto in cui non possa farci del male.
– Allora è questo che mi hai insegnato in tutti questi anni? – esclamò il ragazzo, indicandomi con quelle mani grandi come pale. – Che le persone si abbandonano come giocattoli vecchi appena non si ha più bisogno di loro?
– Connor, ascoltami. Io…
– No, Achille, ascoltami tu! Lui può essere un Templare, può essere pazzo, può essere tutto ciò che vuoi, ma glielo devo. – Mi lanciò uno sguardo compassionevole e anche un po’ dispiaciuto. – Glielo devo.
Achille imprecò. – Lui vuole solo il Frutto dell’Eden! – sbottò, gesticolando. Sembrava infuriato. – Non gli interessa nient’altro.
– Può darsi. Però gli avevo promesso che avremmo affrontato insieme questa cosa della Mela. Io e lui. – Sospirò. – E l’ho tradito. Te ne ho parlato.
Ridacchiai tra me. – Non posso più fidarmi di nessuno, in questo mondo – sibilai. Gli Assassini si voltarono a guardarmi come se avessi pronunciato una profezia, poi Connor tornò a guardare Achille.
Il vecchio Mentore scrollò le spalle. – Avevamo stretto un patto. Potrebbe uccidermi, se volesse.
– Se ne fosse in grado, vuoi dire.
– Qualunque cosa tu intenda, Achille, lui non è cattivo. – Prese fiato. – Non è nemmeno buono. Te lo concedo. Ma ha dei problemi.
– Che li risolva in un manicomio. Non ha mai voluto il nostro aiuto. E non capisco perché dovremmo fornirglielo. Ci ha dato solo grattacapi da quando l’abbiamo salvato.
Achille si voltò verso la porta e fece per andarsene, ma il ragazzino lo prese per la giacca, tirandolo indietro malamente. Non gliel’avevo mai visto fare. Spalancai la bocca per lo stupore, ridacchiando. – No – disse semplicemente Connor, mandando l’altro a sbattere contro il muro. – Senza di lui non ci sarebbe mai stato il Boston Tea Party. Lui ci ha aiutato un sacco di volte. Mi ha aiutato. Tu non capisci.
Achille se lo scrollò di dosso. – Puoi fare il leccaculo quanto vuoi, Connor – sibilò con sdegno. – Non ti tratterà mai come un figlio.
Uscì, Connor non lo trattenne. Nel mio angoletto ridacchiai di nuovo, poi guardai il ragazzo con la giubba da Assassino e l’aria disperata. Lo vidi spingere la porta con quelle grandi mani e poggiarci la fronte contro, mordendosi il labbro. – Sai – dissi, e fu forse la prima cosa sensata che mi uscì dalle labbra da quando avevo incontrato Thomas Hickey. – Probabilmente il vecchio ha ragione. – Risi. – Non te la prendere. Hai sempre lui. Io non ho nessun altro.
Era la pura verità. Mi lanciò un’occhiataccia comunque. – Non dire così – sussurrò. – Io ti ho tradito. Dovresti uccidermi.
Scrollai le spalle. – Accidenti, ci tieni a queste cose – mormorai. – Ora non me ne importa molto, francamente. Devo salvarlo. – Abbassai la voce. – Devo salvare mio figlio – aggiunsi così piano che nemmeno mi sentì.
– Ecco – sospirò – a questo proposito. Che diavolo ti è successo? Chi devi salvare?
Scesi dal letto e mi calai il cappello sulla testa con un gesto teatrale. – Immagino di dovertelo spiegare, ma ho bisogno di un tè. Un vero tè, non quell’acqua sporca che prepara il francese. Vieni con me.
Poggiai la mano sul pomello, ma lui mi fermò, osservandomi con un mezzo sorriso sulle labbra. – Che ti è successo? Fino a due secondi fa sembravi pronto per il manicomio.
Sospirai. Mi sentivo ancora pronto per il manicomio, ma non potevo lasciare mio figlio in quei guai. Era in pericolo. Era un problema, così l’aveva definito Thomas. E non lo avrei risolto restando in un letto a ridacchiare, per quanto mi facesse sentire bene. Per quanto una parte di me, ancora al sicuro nella scatola cranica, lo stesse ancora facendo. Solo, di nascosto. – Ho avuto dei problemi. Ah, e di’ pure ad Achille che non me ne può importare meno di lui, degli Assassini, delle sue stupide missioni. – Lo spinsi appena di lato per aprire la porta. – E ho capito. Se riuscirò in questa cosa, potrò fare tutto ciò che ho rimandato fin ora. Potrò ucciderti per il tuo tradimento. Potrò darvi una lezioncina e prenderti la Mela. Tornare dalla mia vera parte. 
– Intendi uccidermi? – sussurrò.
– Se riuscirò a fare ciò che voglio, sì. – Ridacchiai ancora. Eccola lì, la parte fuori di testa che affiorava. – Un patto è un patto, Connor, dovresti saperlo. Andiamo, stupido.
Scrollò le spalle, sbuffò e si passò una mano sugli occhi. Poi, naturalmente, mi seguì. Gli Assassini sono ribelli come un gregge di pecore. 

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Capitolo 17
*** Nel sangue e nella mente. ***


Trovammo una taverna come tante altre, centrale, così da non essere sospetta, ma abbastanza vuota da passare inosservata. Controllai più e più volte che non ci fossero altri Assassini, Templari o aragoste in giro, poi ci sistemammo ad un tavolo con due tazze di tè e presi fiato. Non ero pronto a raccontargli tutto, partendo dalla mia chiacchierata a quattr’occhi con Minerva, passando per il mio incontro con Thomas e i terribili pensieri che mi erano passati per la testa riguardo ciò che Reginald avrebbe potuto fare a Charles.
Mandai giù un sorso di tè e mi passai una mano tra i capelli. – Bene – mormorai. – Che vuoi sapere?
Lui guardò il tè come se non avesse mai visto niente di simile in vita sua, rigirandosi il cucchiaio tra le dita. È una tazza, avevo voglia di dirgli. Non ti esploderà tra le mani. – Tutto – sussurrò stringendo il manico. – A partire da dopo il Tea Party. Dopo aver incontrato Lee.
Stritolai la tazza tra le mani: avrei potuto romperla. – Un secondo – sibilai. – Tu hai tradito la mia fiducia parlando della Mela ad Achille. Perché dovrei fidarmi di te? – Mi guardò come un cane bastonato, ma non lo lasciai parlare. – So che farete qualsiasi cosa per tenere il Frutto dell’Eden, e io farò qualsiasi cosa per riprendermelo. Non mi importa quanta gente dovrò uccidere. Sì, Connor, voglio la Mela. Come te. Come tutti.
– Io non voglio la Mela – brontolò, poggiando di nuovo la tazza sul tavolo. – Non la meritate. Non è per voi.
Schioccai la lingua. – C’è per caso il tuo nome su quel manufatto, Assassino? – esclamai con un mezzo sorriso. – No. Perché nessuno la merita. È per qualcuno, certo, ma perché proprio voi? Perché non uno di noi? – Ripensai alle parole di Minerva. – Cosa ti fa pensare che la Prima Civilizzazione sia dalla tua parte?
– Abbassa la voce – mormorò, stringendomi il polso. – Stai attirando l’attenzione.
Roteai gli occhi. – Ascolta un po’, Connor – sibilai, cercando di mantenere la calma. – Voi siete solo dei supponenti. Pensate di essere i prescelti o che so io. Sbagliate. Qui nessuno è scelto da nessuno. Si tratta di saperla usare. Hai la più pallida idea di quanti Assassini – già, Assassini – siano stati travolti dal potere dei Frutti dell’Eden? Forse i Templari avevano intenzione di usarli in modo diverso, d’accordo, ma nessuno di loro, nessun Templare che abbia mai impugnato la Mela è impazzito.
Aggrottò la fronte. – Forse perché sono tutti morti. – Mi guardò con aria soddisfatta. – Uccisi. Da noi.
– Ti prego, non permetterti di fare il grand’uomo. È già tanto che tu abbia ammazzato uno scoiattolo. – Lo fulminai con lo sguardo. – Tu non hai mai fatto nulla, ragazzino.
Connor sospirò. – Lasciamo perdere. Il valore non si misura dalle persone che uccidiamo.
– Io dico di sì. In certi casi.
– Haytham, per favore. Andiamo avanti e lasciamo perdere questa storia.
– Perché? Pensi forse di avere ragione? – Sgranai gli occhi, rischiando di far cadere la tazza a terra. – Io non capisco perché dovrei fidarmi di te. Hai tradito la mia fiducia.
Di nuovo, il ragazzino si lasciò andare ad un sospiro. – Smettila di tirare in ballo questa storia. Dovevo farlo, d’accordo? Achille è sempre stato sincero con me. Non ti permetterò di rovinare il nostro rapporto per il tuo egoismo.
– Allora ti ucciderò. Come avevamo concordato. Se io fossi andato in giro a dire anche solo una parola sulla Mela, avresti già cercato di sgozzarmi. – Sbattei la tazza sul tavolo con stizza. – Perciò, dimmi, Connor: perché io, un Templare cattivone, dovrei essere clemente? Perché non ti ho ancora ucciso?
– Perché ti servo – sussurrò tra i denti.
– Bravo. Hai capito bene. – Gli puntai l’indice contro. – Quindi dammi solo il tempo di rimettere in piedi l’Ordine e allontanarmi da voi, poi sta’ sicuro che farai una brutta fine. – Respirai profondamente, stringendo di nuovo la tazza tra le mani. Il tè era quasi freddo. – Vuoi sapere cosa mi è successo? Ho incontrato Thomas Hickey. E mi ha detto che Birch tiene in piedi l’Ordine… Oddio, non l’Ordine, Charles, con qualche arma segreta. E lui, ragazzo, non ha bisogno della Mela. Ha una capacità di controllare la tua mente superiore a quella di dieci Frutti dell’Eden!
Attorno a me, tutto era silenzioso. Avevo alzato troppo la voce? Mi passai una mano sulla fronte. Cristo. – Qualcosa da dire?
Connor sospirò e premette due dita alla base del naso. – Fa’ quello che ti pare, Haytham. Non ascolti nessuno e non lo farai mai.
Bravo, ragazzo, così mi piaci. Hai capito come gira il mondo. – Io lo fermerò, Connor. – Esattamente come avevo detto a Thomas.
Alzò le spalle. Non poteva, non poteva materialmente sapere come fosse Reginald, perché non lo aveva mai conosciuto davvero. Né lui, né nessun altro Templare. Assurdo. Uccidevano uomini per le loro azioni, non per le loro ragioni. Forse era a causa di quella stupida frase, “colui che accresce la conoscenza, accresce il dolore”: pensavano che conoscendo poco le proprie vittime – dal punto di vista umano – ucciderle sarebbe stato più facile, forse? Connor avrebbe mai potuto uccidermi? Avrebbe potuto farlo per il famoso fine superiore, il Bene?
Io avrei potuto ucciderlo? Ad occhi chiusi, pensavo. Aveva tradito la mia fiducia. Era un traditore molto più di quanto lo fossi io, e se non potevamo fidarci l’uno dell’altro sarebbe stato decisamente più sicuro ucciderlo, cercare Reginald da solo e tornare nell’Ordine come Gran Maestro e vincitore.
L’idea mi allettava, cazzo. Non pensate che quattro anni con lui mi avessero fatto affezionare, perché non era così. Eravamo entrambi taciturni, ma io non avevo una schiera di stupidi Assassini a dirmi che cosa dovevo fare. Agivo per conto mio. Ciononostante, non potevo permettermi di farlo fuori. Non ancora.
Connor sbuffò, interrompendo quel silenzio che mi piaceva tanto con il suo tono “trovo-qualcosa-che-non-va-in-tutto”. – Pendi che sia più pericolo di Charles Lee? Pensi che senza Birch tutto per te tornerà come prima? – Non c’era ilarità nella sua voce, solo curiosità.
– Charles è sempre stato uno dei miei uomini migliori.
– Ti ha condannato a morte, santo cielo!
Imbecille. – Gliel’ha ordinato Reginald, ovviamente.
– È una stronzata! – sbottò il ragazzino scattando in piedi. – Tu credi che torn…
Interruppe la frase a metà e sgranò gli occhi, la bocca spalancata in una smorfia stupita e lo sguardo che si muoveva a scatti per la taverna, come se cercasse un viso conosciuto. – L’hai sentita? – sussurrò con gli occhi quasi fuori dalle orbite, la mano destra al tomahawk.
Sollevai un sopracciglio. – Che cosa, ragazzo?
E poi, un istante dopo, dal nulla, fui travolto da una voce familiare. Una voce nella mia testa. – Con calma, Haytham, non ti agitare. Fa’ il bravo. La prima volta può fare paura, ma ti piacerà. – Quella voce viscida. Quella risatina di scherno nei miei confronti! – Forse farà un po’ male, Haytham.
Per poco non lasciai cadere la tazza di tè. – No! – esclamò un’altra voce nella mia testa, di una donna. La solita voce di donna, in un certo senso. Quella del mio sogno. Minerva. – Lui è MIO! Che ci fai tu qui? Dovresti essere rinchiusa!
Connor si portò le mani  alle tempie e io lo guardai, meravigliato. Avevo riconosciuto i sintomi, i miei stessi sintomi, e ora il pazzo era lui. Io avevo un’espressione a metà tra il sorpreso e il divertito sul viso, ma per me era più facile. Non era la prima volta, non esattamente. In più avevo appena dato di matto buttando giù la porta di una casa vuota e gridando alla ricerca di Charles, accettare le stranezze era più facile.  
– Vattene! – urlò di nuovo la donna nella mia testa. – Non ne farai una tua pedina. Non riuscirai a fermarmi.
Vidi le lacrime cominciare a scorrere lungo le guance di Connor e capii che era spaventato. Nonostante la gravità della situazione, non riuscii a trattenere un sorrisetto un po’ perfido. Ecco, adesso chi è il matto, Connor?
– Lasciami in pace! – strepitò il ragazzo, come se stesse lottando contro un invisibile aggressore. Buona parte della taverna si voltò verso di noi.
Nella mia testa, la risata della donna e dell’altra voce, quella maschile, si sovrapposero in modo grottesco. La donna sussurrò: – Non permetterle di vincere, Haytham.
L’uomo, con quella sua vocetta viscida, disse: – Credo di non averne mai trovato uno giovane e bravo come te, Haytham. E bello, per giunta. – Rise di nuovo. – Somigli tanto a tua madre.
Con un peso che cresceva nel petto e un’espressione decisamente imbambolata in faccia, mi alzai di scatto e decisi di intervenire. Afferrai Connor per le spalle e lo rimisi a sedere. – Abbiamo qualche cosetta da raccontarci l’un l’altro, non è così? – Mi trattenni dal chiamarlo femminuccia, nonostante fossi molto tentato, solo perché mi guardò. Lui mi guardò con quegli occhi neri, profondi e arrossati, gli occhi di chi aveva visto qualcosa di terribile, e mi chiesi se anche i miei avessero lo stesso aspetto.
Oh, sì, avevo visto – sentito – qualcosa di terribile. Le voci di Minerva e l’altro uomo si erano fuse nella mia mente dicendo cose che non riuscivo a capire.
Avevo bisogno di risposte. Più che mai. – Adesso calmati, ragazzo.
– Dov’è?! – sbottò Connor, le guance ancora rigate di lacrime ma gli occhi pieni di rabbia cieca. – Lui dov’è?
Scossi il capo. Cristo santo, quel ragazzo mi avrebbe rovinato. – Rilassati. Non c’è nessuno qui. Nessuno ti…
– Ha ucciso mia madre! – strepitò, scattando di nuovo in piedi. – Ha dato fuoco alla mia casa! Lui! Charles Lee!
Battei le palpebre con violenza, trattenendomi dal portare una mano al petto come una comare. – Non è stato lui e lo sai benissimo – sussurrai, sforzandomi di mantenere la calma. Quasi tutti gli altri clienti erano voltati verso di noi. – Adesso siediti.
– Io lo ucciderò! – Santo cielo, sembrava davvero un pazzo.
Roteai gli occhi. Ironicamente, l’uomo che io cercavo di salvare era lo stesso che Connor aveva tanta ansia di uccidere. – Ti ho detto di calmarti. Sta’ seduto e ascoltami per un cazzo di istante, Connor.
– No! – Aveva gli occhi rossi. Non arrossati, proprio rossi. Una macchia di sangue rosso vivo occupava un po’ del bianco della cornea. – E tu sei con lui!
Perfetto. Grazie!
Con quelle voci che mi risuonavano ancora in testa, decisi di agire d’istinto. Feci scattare la lama celata e premetti l’altra mano sul suo petto. – Sono dalla tua parte, ragazzo. – Se quelle parole mi avessero condotto ad una nuova condanna a morte, Connor l’avrebbe pagata decisamente cara. – Adesso sta’ buono.
– Tu non sei uno di noi! – strillò. Finalmente l’aveva capito. – Sei uno di loro!
– Abbassa la voce o ti taglio la gola, stronzetto – sibilai a pochi centimetri dal suo viso.
Assunse un’espressione dura, pronto a battersi. – Accomodati. Te la farò pagare per aver ucciso mia madre!
 No, non di nuovo. Ridacchiai anche se non c’era niente da ridere. Non riuscii a trattenermi. – Ascolta, io non ho ucciso tua madre. Stiamo collaborando. Ricordi? Smettila di dare retta a quelle voci e ascoltami, cazzo!
Fu lui a battere le palpebre e a scoccarmi un’occhiata stupita. – Allora non erano nella mia testa – sussurrò. – Le hai sentite anche tu.
– Non lo so. Non esattamente. – Scrollai il capo e mi sedetti di nuovo. – Dobbiamo parlarne. Che cosa ti hanno detto esattamente? Chi era?
Si guardò attorno e si sfregò una manica sulla guancia, forse cercando di asciugare le lacrime già scivolate lungo la giubba da Assassino. – Perché dovrei fidarmi di te?
Abbozzai un sorrisetto. – Veramente sarei io a non dovermi fidare di te, ragazzino. – Strinsi i pugni. Parlargli di quella voce era l’unica cosa che gli avrebbe concesso di fidarsi di me e di non credere a quella stupida storia di Charles e l’incendio del villaggio. – Ma il principale motivo per cui dovresti parlarmene è perché anche io le sento.
Trasalì. – Cosa?
– Prima tu. – Me ne ero già pentito. Gli avevo consegnato una parte troppo grossa di me. Un segreto troppo pesante. Quell’idiota non era riuscito a tenere per sé la storia della Mela, figuriamoci questo. – Forza.
Si passò una mano tra i capelli. – A dire la verità, è cominciato tutto da quando sono partito. Io sono sempre rimasto zitto, ma ha continuato a parlarmi. Sentivo la sua voce, diceva cose che non capivo: antiche storie che poi mi ha raccontato anche Achille, alcune parole in una strana lingua ripetute in continuazione… Parlava di civiltà. Di Adamo ed Eva.
Sorrisi. Immaginavo che Connor non avesse mai aperto una Bibbia. – Quindi oggi hai sentito la voce di Minerva?
Sgranò gli occhi. – Minerva? Chi è Minerva?
Aggrottai la fronte.
– Io sento la voce di Giunone, Haytham.
 
Giunone. Come avevo potuto scordarmi di lei? Aveva già parlato a mio figlio tempo prima – era stata lei a spingerlo ad andare da Achille – ma l’avevo dimenticato. Aveva continuato a parlare con lui, esattamente come Minerva stava facendo con me.
Santo cielo, era impossibile. Due membri della Prima Civilizzazione, due… dee che parlavano con me e Connor? Assurdo. Non poteva essere vero! – Che cosa ti ha detto? – sussurrai, in preda al panico. Se mi fossi alzato in piedi sarei caduto, da quanto mi tremavano le ginocchia. – Che cosa ti ha detto?
– Dipende. Quando? – I suoi occhi, per quanto fossero inquietanti, cominciarono a guardarmi davvero. A vedermi di nuovo come Haytham, non come l’amico di Charles Lee. Fu piacevole, in un certo senso. – Prima? Non era mai stata tanto insistente e… strana.
Strana. Com’era stata la voce di Minerva nella mia testa? Aveva parlato sovrapposta ad un’altra voce, una voce maschile che, nonostante tutto, mi era familiare. Quindi, sì, direi che anche Minerva era stata strana, poco prima. – Sì, prima. Quando hai cominciato a farneticare come un pazzo su Charles Lee.
Sospirò. – Ha detto le solite cose. E poi c’era anche la voce di Charles. Sai, no, quelle stesse parole. Quelle che mi ha detto la prima volta che l’ho visto. – Connor scrollò il capo, cercando di scacciare il pensiero. – E a un tratto era come se parlasse con un’altra persona. Giunone, intendo. Ha detto: “Credevi davvero che non fossero dalla mia parte? Il Bene è tutto per loro, stupida. Non riuscirete ad imprigionarmi. Mi libereranno. Li conosco.” Credimi, è stato terribile. E tu, invece? Che cos’hai sentito?
Presi fiato. Non ero pronto a fidarmi a tal punto di lui, ma che potevo fare. – Ho sentito la voce di Minerva. Un altro membro della Prima Civilizzazione, i primi padroni del Frutto dell’Eden. Ha cominciato a parlarmi da… La notte prima del Tea Party. La notte in cui ti hanno fregato quella lettera, ricordi? – La notte in cui mi hai tradito, avrei voluto aggiungere. – E ha continuato. Ogni tanto sento la sua voce. E prima, mentre tu eri mezzo fuori di testa, anche Minerva parlava con qualcuno. Una donna. Aveva detto: “Non permetterle di vincere, Haytham”, proprio così. Non permetterle di vincere. Come se…
E tutto si fece chiaro nella mia mente. – Parlavano tra loro – sussurrai. – Attraverso di noi.
Penso che anche il cuore di Connor, in quel momento, spiccò un salto incastrandosi nella sua gola, come il mio. – Cosa?
– Già. – Annuii con violenza passandomi una mano sulla fronte. – Stanno cercando di dirci qualcosa, Connor. E le altre voci che sentiamo… Tu hai sentito quella di Charles.
Connor inclinò il capo. – E tu?
– Io…
Forse farà un po’ male, Haytham.
– Ho sentito una voce familiare, ma non so dire di chi si trattasse.
Connor aggrottò la fronte, come se non si fidasse di me. – Che cosa ha detto?
Non aveva tutti i torti, in fondo. – Non riuscivo a capirlo.
Sbuffò. – Che diavolo significa tutto questo? Due spiriti…
– Non sono solo spiriti, Connor. – L’osservai di sottecchi, respirando piano. – Sono entità decisamente più reali di quanto possa sembrare. Parlano attraverso di noi!
– Sì, ma sembrava stessero litigando.
Sospirai. – Che ne pensi? – chiese Connor a bassa voce.
Che cosa ne pensavo?
Minerva e Giunone avevano cominciato a litigare quando noi avevamo iniziato a dubitare l’uno dell’altro. In effetti io non mi ero mai fidato totalmente di lui, ma in quelle ultime ore i miei dubbi si erano fatti più profondi. Ancor più dopo quell’assurda conversazione.
Per cui non mi interessava che cosa fosse meglio. Avrei sentito tutte le litigate tra “spiriti” del mondo per arrivare alla fine di quella faccenda.
Perché, come un moderno Ulisse, il mio peggior difetto – nonostante lo considerassi un pregio – era la curiosità.
Così, come al solito, decisi di portare Connor dalla mia parte. – Voglio sapere che cos’hanno da dirsi – sibilai guardandolo negli occhi. – Voglio andare fino in fondo. Se loro due parlano, significa che noi due dobbiamo collaborare. Non credi?
Connor abbassò la testa. – Credo che, in fondo, sia il momento di fidarmi di te.
Bella scelta, ragazzo, pensai, a metà tra il serio e il sarcastico.
Bella scelta.
Presi di nuovo la tazza di tè e bevvi un lungo sorso, come se non fosse successo niente. – Bene. Allora, io ti dico che cos’ho intenzione di fare, d’accordo? Voglio trovare Reginald e tu lo sai.
Roteò gli occhi. – Haytham, pensi davvero che senza Birch i Templari saranno disposti a collaborare? – Era una domanda retorica, mi guardava con la risposta negli occhi: no.
– Vale la pena tentare – replicai poggiando la tazza sul tavolo con stizza. – Mi aiuterai o ti limiterai a tenermi prigioniero e ad ostacolarmi nonostante mi sia fidato nuovamente di te?
Lo guardai e portai la tazza alla bocca per nascondere un sorrisetto.
Non era esattamente dalla mia parte, ma era fedele ai patti, lui. Di solito. Era un Assassino, uno di quelli che non trasgredisce mai e quando lo fa è capace di qualsiasi cosa per farsi perdonare. Quindi perché non sfruttare la cosa a mio vantaggio?
Immagino che se gli Assassini fossero intelligenti tanto quanto sono buoni, probabilmente noialtri saremmo fottuti. 

 

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Capitolo 18
*** Alleati inattesi. ***


Dire che andammo a caccia di Charles e Reginald per mesi è semplicistico. Lo cercai per tutte le più importanti città delle colonie, passandole in lungo e in largo, scavando come un topo nei posti più disparati. Andai a controllare anche l’ingresso del Grande Tempio, e scoprii che non era costantemente sorvegliato. L’incavo metallico nella parete e i graffiti mi riportavano con la mente a dei vecchi ricordi che non vedevo l’ora di seppellire di nuovo. Quando ero stato lì per l’ultima volta andava tutto bene, merda. Poi Tiio mi aveva lasciato, Holden aveva scritto di aver trovato Jenny e io avevo abbandonato tutto. Lei, il figlio nel suo grembo del quale non ero a conoscenza e Charles, il mio mezzo figlio.
Connor? Praticamente non mi aiutò.
E non era un gran peccato, a dire il vero: bastava che non mi ostacolasse e non dicesse nulla ad Achille. Immagino la sua grandezza nel mentire. “Connor, dov’è Haytham?” “A comprare il pane, Achille. Tranquillo, tornerà per cena.” E io che facevo anche affidamento su di lui, illuso. Il fatto è che gli Assassini, per quanto possano sembrare volenterosi, seguono il loro stupido ragionamento dell’agire nell’ombra eccetera, quindi aspettano. Restano in silenzio fin quando il nemico non si dimentica di loro e fa un passo falso.
Non avevo intenzione di aspettare così a lungo. Sapevo che sarei potuto cadere in una trappola, ma Reginald era più vecchio di me, adorava la diplomazia – quindi avrebbe cercato di maneggiare la spada il meno possibile, preferendo ferirmi con le parole – e se fosse riuscito ad uccidermi, l’avrebbe fatto con l’inganno. Io non l’avrei mai permesso.
Durante le solitarie ricerche mi capitava di pensare un po’, come al solito. L’idea di essere quasi impazzito dopo aver parlato con Charles – e di Charles – e la presenza di uno strano collegamento tra me, mio figlio, Minerva e Giunone mi torturava a morte. Mi sentivo confuso e continuavo a pormi un sacco di domande. Perché parlare con Charles mi faceva quell’effetto? Perché Minerva, Giunone o chicchessia mi avevano fatto sentire quella voce maschile, familiare e allo stesso tempo così lontana? Perché avevo la terribile sensazione che quella frase pronunciata da Thomas – “Il problema è Charles”, aveva detto – fosse un presagio di qualche tipo, come se stesse accadendo qualcosa di molto più grave di ciò che poteva sembrare? E, soprattutto, avevo altre scelte?
L’idea di uccidere Reginald era forse la migliore che avessi avuto fino a quel momento. Il resto sarebbe venuto da sé, una volta trovato Birch.
Ma non lo trovai, quello era il problema. Né lui, né nessuno degli altri. Erano come volatilizzati. Spariti nel nulla.
Che meraviglia.
Per quel motivo Connor abbandonò presto le ricerche, tornando alla tenuta per organizzarsi con Achille, nell’ombra, aspettando il ritorno dei Templari. Non si erano arresi, quello era chiaro, ma alla tenuta c’erano gli Assassini. C’era Achille. Non avevano bisogno di Connor.
Potevano essere pochi, ma quando si trattava di ostacolarmi erano svelti ed organizzati. E un uomo solo impiega molto più tempo ad esplorare le colonie di due.
Per quanto mi sforzassi di sembrare normale per la maggior parte del tempo, ogni tanto la voce di Minerva e quella viscida dell’uomo tornavano a farmi visita. Sapere che Connor aveva avuto una reazione decisamente isterica – quasi più della mia – mi faceva sentire meglio, ma quelle parole continuavano a farmi paura. Mi smuovevano qualcosa dentro, come se le avessi sentite e poi rimosse e non riuscissi a ricordare né chi le aveva pronunciate né perché.
E mi spaventavano.
Il peggio del peggio arrivava quando mi mettevo a pensare a che cosa Reginald potesse aver fatto a Charles, o, meglio, in che modo lui si fosse rivelato un problema. Reginald lo aveva torturato? Sottoposto al lavaggio del cervello? Il mio ragazzo – il mio ragazzo – si era ribellato a quel bastardo che mi aveva gettato fuori dall’Ordine e Reginald l’aveva rimesso al suo posto senza buone maniere?
Una mancanza di charme che non mi sarei aspettato da lui.
Così, dopo aver faticosamente esplorato le colonie, mi ritirai alla tenuta insieme agli Assassini, cercando risposte.
Non le aveva nessuno.
A Connor e ad Achille non poteva importarne meno, si limitavano a lanciarmi occhiate colme di pietà – della serie: “Guardalo, cerca ancora il suo onore ammazzando l’uomo che l’ha scacciato, povero idiota” – e scuotendo la testa nel buio. Inoltre, più tempo passavo vicino a Connor e più le voci nella mia testa sembravano diventare forti. Si ripetevano in continuazione. Dovevo portarmi le mani alla testa e lasciarmi andare a dei gemiti soffocati per non farlo notare, la maggior parte delle volte. Non volevo sembrare l’imbecille che si lascia addirittura sopraffare da delle stupide voci, ma era consolante sapere che Connor non se la passava meglio.
Malignamente, mi ritrovavo a sorridere ogni volta che lo sentivo urlare nella sua stanza, alzarsi di scatto dal letto e prendere a pugni la parete brontolando imprecazioni sottovoce. Era quasi una gioia sapere che la voce di Minerva e quella di Giunone si davano – e ci davano – reciprocamente fastidio non appena eravamo a meno di un miglio l’uno dall’altro. Mi faceva sentire meno solo, e il poter controllare le mie reazioni era un modo per sentirmi superiore a lui, il ragazzino che strillava nel cuore della notte.
Sì, spesso dimenticavo che era solo un ragazzino. 
Eppure il disinteresse di Connor per tutto ciò che mi riguardava bastava a farmi arrabbiare come una bestia. Motivo per cui un giorno del 1774 esplosi senza alcun ritegno. – Perché siete indifferenti a tutto questo? Vi aspettate davvero che i Templari vengano a bussare alla vostra porta dicendo: “Ehi, noi andiamo ad occuparci del Paese a modo nostro, quando volete siamo là”? Insomma, ciò che voglio fare aiuterà entrambe le fazioni! Pensate solo a voi stessi, quando vi fa comodo.
Achille mi fulminò con lo sguardo. – Non fare la vittima, Haytham – sibilò sdegnato. – Sei il peggior egoista che io abbia mai conosciuto e vuoi il nostro aiuto solo per ottenere ciò che tu vuoi. Se pensi che il ragazzo sia così stupido da non parlarne con me, sbagli.
Grugnii. – Quindi non è abbastanza furbo da prendere una decisione autonomamente – brontolai guardandolo negli occhi. – Insomma, voi non fate nulla. Niente di niente! Né per aiutare me, né per aiutare voi stessi.
– Noi aiutiamo noi stessi non aiutando te, a dire il vero. Ciò che vuoi fare è assolutamente insulso ed inutile. – Achille sbuffò. – Il problema principale è Charles.
– Pensate davvero che agisca da solo?
– Quindi non è abbastanza furbo da prendere una decisione autonomamente. – Achille mi fece il verso e gli mostrai il medio. Il vecchio Mentore sorrise appena e immagino mi avrebbe risposto se qualcuno non avesse bussato alla porta in quell’istante: si voltò di scatto e sollevò le mani, come a dire: “Riprenderemo quest’adorabile discussione un’altra volta, ragazzo, perché so di vincere”.
Ma, come sapete, non avrei mai dato la vittoria ad un Assassino. Nemmeno in punto di morte. Perciò battei violentemente i palmi sulle cosce, frustrato. – Oh, ma che interruzione inopportuna! – sibilai, sarcastico. – Avrei tanto voluto sentire il vostro fantastico piano per disfarvi di noi, ma…
Achille si avviò verso la porta ignorandomi completamente. – Non sei più uno di loro, Haytham. Non sei più nessuno.
Mi bloccai con le sopracciglia sollevate. – Cosa? – Gli corsi dietro lungo il corridoio e lo afferrai per la spalla. – Cosa?
Il vecchio mi diede una spintarella. – Devo aprire, Haytham.
– Che cosa credi che sia, allora? – sibilai, il viso quasi contro il suo. Per quanto l’idea mi ripugni, ci saremmo potuti baciare.
Achille mi lanciò il suo migliore sguardo truce, mollandomi una spinta più forte, ma non abbastanza da scacciare un uomo deciso ed assetato di conoscenza. – Sei un reietto – sputò quelle parole come se avessero potuto farmi del male, come se potessero ferirmi ulteriormente.
– Io mi sto impegnando – risposi indietreggiando. – Sto facendo del mio meglio per tornare ad essere chi ero.
– Stai cercando di cancellare ciò che è accaduto solo perché hai bisogno di un supporto e non puoi sconfiggere Washington da solo – ringhiò Achille in risposta.
La porta fu colpita nuovamente. Erano come i rintocchi di un gong di battaglia. – Il mio primo obiettivo non è Washington. Connor non te l’ha confessato come al suo solito? – Sputacchiai per l’ira parlando, e per un attimo mi sentii un perfetto idiota. – Sai quello che voglio. È questo il tuo problema, vero? Credi che io sia come tutti gli altri. Non hai fiducia in me. E d’altronde chi l’avrebbe? Insomma, guardami, cazzo, sono un fottuto Templare! – Stavo vaneggiando. Parlavo a vanvera per farlo incazzare, ma le mie parole non erano poi così lontane dalla realtà, anzi. – No, sono un reietto! Un essere senza nessuno scopo, armato e in preda alla follia, hai tutte le ragioni del mondo. Allora cosa mi dici del ragazzo? Anche lui è…
Proprio mentre stavo per spiattellare davanti ad Achille il segreto di Connor, le voci che lo tormentavano come avevano fatto con me, il ragazzo mi diede una spallata, mandandomi a sbattere contro lo stipite della porta segreta che portava alla cantina, e s’avviò verso la porta. – Cazzo! Guarda dove vai! – ringhiai, saltando in piedi di scatto. Achille mi scoccò un’occhiata colma di disapprovazione e seguì mio figlio verso la porta. Non aveva bisogno di sapere ciò che avevo da dire, gli bastava semplicemente vedermi umiliato. Vedere che non ero invincibile.
Stronzo.
Alla faccia del “per servire la luce”.
La cornice della porta era totalmente ostruita da Connor, così lo vidi solo sporgersi per abbracciare calorosamente qualcuno, mugugnando un nome in lingua nativa che suonava familiare. – Kanen’tò:kon! – Achille si lasciò andare ad un sorriso affettuoso, vedendo il ragazzo abbracciare un altro nativo che doveva essere un suo vecchio amico.
Quando i due si separarono e rimasero a parlare sotto il porticato ebbi modo di osservare il nuovo arrivato: Kanen’tò:kon sembrava molto più… nativo di Connor, forse anche a causa delle vesti colorate e ricamate secondo la moda di quella gente e dei capelli, raccolti in due trecce e decorati con delle piume. Sentire Connor parlare nella sua lingua natale mi fece salire un groppo in gola, ricordandomi il tono e l’accento di Tiio. Quanto avrei voluto dimenticarla per sempre…
Ad un tratto Connor assunse un’espressione corrucciata e si voltò verso Achille, che aveva continuato a seguire la conversazione tra i due con lo sguardo, come se capisse. Mi lanciò un’altra occhiataccia che aveva tutta l’aria di voler dire: “Lascia che mi occupi io delle questioni importanti, dannato idiota”, e si avvicinò a Connor per parlare.
Stizzito, sbattei la porta lasciandoli fuori e salii le scale, tornando nella mia stanza. Mi dava il voltastomaco vedere come quegli stupidi facessero fronte comune solo tra loro, senza nemmeno considerare me o ciò di cui avevo bisogno, ciò che avevo chiesto. Mi tenevano lì come un prigioniero, ma non avevo catene: ero teoricamente libero ma loro non mi aiutavano né mi permettevano di andare via. Per loro non ero né Assassino né Templare, per me non ero né prigioniero né libero. Da quel punto di vista non ero nulla.
Arrivato nella squallida stanza che Achille mi aveva lasciato mi abbandonai sul letto con slancio. Il tiepido sole che filtrava attraverso la finestra mi faceva venire voglia di uscire, ma per andare dove? Avevo cercato in lungo e in largo, avevo fatto il possibile, e non avevo trovato né Charles né tantomeno Reginald. Che avrei dovuto fare?
Preferisci arrenderti come una mammoletta?, sibilò una voce nella mia testa. Un’altra. Almeno, questa volta non apparteneva a Minerva. Haytham, dov’è finito il tuo lato cocciuto? Esci a prendere una boccata d’aria, almeno.
Mi alzai di scatto e lanciai un’occhiata all’uomo riflesso nello specchio sporco attaccato alla parete. Non mi facevo la barba da un paio di giorni e probabilmente avrei dovuto fare un bagno. La mia camicia bianca era macchiata di sangue secco e terriccio, e non la cambiavo da quando ero tornato dalla mia ultima escursione al Grande Tempio, durante la quale ero anche stato attaccato da un vecchio lupo, e non parliamo della redingote. – Cristo – sibilai, passandomi una mano tra i capelli. – Ho un aspetto di merda. – Lanciai un sorrisetto folle alla mia immagine riflessa. – Forza. Gli uomini del re indossano i propri abiti migliori per la caccia alla volpe.
Ignorando il lieve lampo di follia che mi aveva portato a parlottare tra me e me, entrai in bagno e cominciai a riempire la vasca. Ne avevo bisogno.
 
Dopo essermi rasato e aver indossato una camicia pulita – alleluia! – scesi di nuovo le scale e uscii dalla villa. O, meglio, feci per uscire dalla villa, ma la prima cosa che vidi quando misi piede fuori fu mio figlio con un’accetta mohawk in mano e tutta l’aria di stare per scagliarmela in faccia. – Cristo santo! – sbottai facendo un salto indietro, ma il fendente non arrivò: la lama ricurva era ben conficcata in uno dei pilastri del portico, fissa come quella di un boscaiolo inetto.  
Mi passai una mano sulla fronte, ancora mezzo scioccato per l’immagine terrificante – la fronte dei Kenway perfettamente divisa in due da un tomahawk – impressa a fuoco nella mia mente. Presi fiato e strofinai i palmi sulla redingote, giusto per darmi un tono. – Ehi – feci sollevando appena la mano in direzione di  Connor, Kanen’tò:kon ed Achille, ancora intenti a parlare. – Quindi il vostro prossimo passo è quello di farmi fuori? Be’, quest’approccio è stato discreto. I miei complimenti. Solo, dovreste migliorare un po’ la mira. – Indicai la mia stessa fronte, ma era come parlare da solo. Sbuffai, sollevando un po’ della polvere depositatasi sul portico con un calcetto. Non mi avrebbero mai ascoltato se non mi fossi comportato da mummia come loro. – Allora, novità?
Connor continuò a parlottare fittamente con Kanen’tò:kon – non ci capivo un’acca – e Achille si voltò verso di me scuotendo la testa. – Dove stai andando?
Scrollai le spalle. – Sto diventando un po’ claustrofobico. Ho pensato di fare una passeggiata – replicai grattandomi la testa. –  Qualcosa non va?
Lui abbassò le spalle. – Forse è meglio che tu resti qui, Haytham.
– Impazzirei. E non sei la mia balia, Achille, per cui… – Gli voltai le spalle e feci per muovere un passo verso le scuderie, ma decisi che quella non poteva essere la mia ultima parola. Mi girai nuovamente e bussai sulla spalla di Kanen’tò:kon. – Piacere di averti conosciuto, ragazzo. Ci vediamo.
Connor roteò gli occhi ma non mi rispose. Mugugnò qualcosa nella sua lingua – Mio padre è grandioso, ne sono quasi certo – e mi allontanai, deciso a fare qualunque cosa, tranne restare lì.
Le scuderie erano deserte, sembrava che gli Assassini fossero scappati. Probabilmente erano in giro per le Colonie cercando di stanare qualcuno di noi, ma decisi di non pensarci. Qualcuno di noi. Achille avrebbe riso sentendomi parlare dei Templari in quel modo. Per lui non ero più nessuno. Solo un povero stupido senza nessuna fazione, senza un punto d’appoggio. Gli avrei fatto vedere io chi non aveva appoggi.
Montai sul primo cavallo sellato, che mi riservò un’occhiata torva, come se fosse stato addestrato a fiutare i Templari con quelle narici dilatate, poi gli affondai i talloni nei fianchi e partii alla volta della foresta, sapendo che, come al solito, avevo bisogno del mio buon vecchio migliore amico.
Il grog.
 
– Il miglior fottuto grog di tutte le Colonie, cazzo! – Mi sentivo leggero. Sollevai il boccale, mancando quello di Bob Faulkner di qualche centimetro, e scoppiai a ridere come un deficiente. Sì, ero un po’ brillo. Ne avevo bisogno. Il capitano dell’Aquila sollevò un sopracciglio e mi scrutò, poi rise di rimando e si scolò il grog insieme a me.
Finito il boccale, lo sbatté sul tavolo come in una locanda e ricominciai a ridere. – Bob, il liquore non volerà da casa tua al bicchiere, sai? – Biascicavo e ridacchiavo senza alcun ritegno, e non mi ero minimamente preoccupato di avvisare Achille e Connor della mia destinazione. In realtà mi ero ritrovato a pensare che era davvero molto, troppo tempo che non facevo una bevuta come si deve, e Bob almeno era simpatico. Meglio di Connor, meglio di Achille, meglio delle stupide voci che si inseguivano nella mia testa e, grazie al grog, sembravano essersi tranquillizzate. Attutite, come tutti gli altri pensieri. – Dimmi un po’, Bob – sussurrai, sollevando il boccale mezzo vuoto. – Sai che diavolo stanno combinando gli Assassini in questo periodo?
È buffo pensare che ovunque, in qualunque luogo mettessi piede, alla fine l’argomento di conversazione principale erano sempre gli Assassini. O Washington, che era comunque dalla loro parte, per cui cambiava poco. Robert Faulkner sospirò e alzò le spalle. – Veramente so solo che gli altri erano alla ricerca di William Johnson. – Come me, pensai. Interessante. Ovvio, da un certo punto di vista. – Principalmente. Ma perché ne stiamo parlando, Haytham? – Mi colpì con una pacca sulla spalla e per poco non infilai la faccia nel boccale. – Sei qui per bere, no? E allora beviamo, cazzo! Frankie! – Un ragazzino smunto, con una vecchia casacca a righe addosso, i calzoni arrotolati fino al ginocchio e i piedi bianchi e nudi sulle assi rozze del molo ci corse accanto, affannato, abbandonando la cassa di legno che stava trascinando. – Portaci dell’altro grog, ragazzo. In fretta.
– Sì, capitano! – squittì quello, scappando dentro la misera casa di Bob con i nostri boccali.
Sospirai, guardando Bob. – Nuovo mozzo sull’Aquila? – chiesi, cercando un nuovo argomento di conversazione.
– No, mio nipote. – Scoppiai a ridere senza ritegno. – Quel ragazzino è una mammoletta, l’hai visto? Avrebbe dovuto darmi il boccale in testa e rispondermi di prenderlo da solo, il grog!
– Ma tu l’avresti massacrato di botte.
– E ciò avrebbe dimostrato che aveva fegato e poco cervello, le qualità ideali di un mozzo. I mozzi, Kenway, non sono altro che stupidi giocattoli. Fanno divertire l’equipaggio, perché i cretini della situazione sono sempre loro. Non abbastanza abili da arrampicarsi su una coffa, ma imparano la nomenclatura di una nave come scolaretti. Sono il capro espiatorio di qualsiasi nave. È stato il mozzo, capitano Faulkner! Non sai quante volte l’ho sentito dire, Kenway. – Bob, pronunciando il mio cognome per la seconda volta, si grattò la barba di qualche giorno e mi scrutò con più enfasi, sollevando entrambe le sopracciglia.
Nessuno mi aveva mai guardato in quel modo, se non forse Reginald, ma la cosa più strana era che mi metteva un po’ a disagio. Insomma, l’ultima volta che mi ero sentito in imbarazzo per lo sguardo di qualcuno che non fosse una donna era piuttosto lontana nel tempo. Frankie tornò di corsa, poggiando i boccali pieni sul tavolo, ma appena feci per portare il mio alle labbra Bob mi bloccò il braccio. – Frankie – mugugnò – guardalo un po’. Kenway. – Di nuovo, pronunciò quell’unica parola come se fosse importantissima. – Come si chiama tuo padre, Haytham?
Come si “chiamava”, al limite. Cazzo. – Edward Kenway – sibilai, quei quattro occhi puntati sul mio viso alla ricerca di dettagli familiari.
– Edward Kenway? – sussurrò il ragazzino, poi si portò le mani sulla bocca e trattenne un gemito eccitato. – Il capitano Edward Kenway? Capitano – afferrò la spalla di Robert in un eccesso di confidenza – i vostri giornali di bordo! Ricordate? – Bob aggrottò la fronte, come se il nome gli fosse familiare ma il grog non fosse l’olio ideale per gli ingranaggi del suo cervello. Frankie saltellò e corse via, tornando dentro la casupola.
Battei la palpebre, guardando Bob negli occhi. – Capitan Edward Kenway? – sbottai, lasciando improvvisamente andare il boccale, che sbatacchiò sul tavolo e per poco non si rovesciò. – Che cosa significa?
– Mi piacerebbe ricordarlo, Haytham – replicò Robert. – Quel ragazzo è troppo impiccione, per i miei gusti.
Mi ritrovai a tenere lo sguardo fisso sulla porta della casa, aspettando con ansia che l’impiccione tornasse con le maledette informazioni di cui avevo bisogno. E quando lo vidi uscire ansante, correndo verso di noi con il viso rosso per l’eccitazione e un vecchio tomo sotto il braccio, per poco non cominciai a ballare. – Eccolo, capitano – esclamò, quasi lanciandolo sul vecchio tavolo. La pelle della copertina era arricciata e consunta, le pagine gialle e raggrinzite. Frankie spalancò il libro e, sulla prima pagina, senza la minima traccia di sbavatura, c’era un simbolo fin troppo familiare.
– Fermo – intimai al ragazzo che stava per voltare pagina. Il solito, vecchio simbolo che mi perseguitava, ma con qualcosa di diverso, questa volta: era quasi identico a quello stampato sui vecchi libri di Achille o Reginald, ma cambiava il simbolo all’interno. In quelli più antichi, quelli scritti da Altaïr Ibn-La’Ahad, l’interno del simbolo era una specie di piccolo labirinto quadrato, mentre nei libri di Achille erano sempre tre piccole stelle lungo l’arco inferiore.
Quello, invece, era sempre il maledetto simbolo, il simbolo degli Assassini – ridacchiai: a quanto pare era propro impossibile non parlare di loro – ma al centro vi era uno stemma decisamente più inquietante.
Un teschio. – Il Diario dei Pirati? – Robert scattò in piedi, avvampando. – E dove l’hai trovato?
– Nella libreria – replicò il ragazzo con tranquillità. – Ho pulito quegli scaffali molte volte, capitano, e i libri mi interessano. – Non ha poco cervello come pensi, Bobby. – Mi è capitato tra le mani. Lo nascondevate, per caso?
Il Capitano Faulkner si grattò di nuovo la barba. – Non ricordavo di averlo, ad essere sincero. Pensavo di averlo perduto in qualche viaggio. O… – O di averlo nascosto meglio, completai la frase mentalmente per lui. Vecchia volpe. Bob si voltò a guardarmi. – Giuro, Haytham, non avevo idea di dove fosse quello stupido libro. Non so se tu voglia vedere quello che…
Sollevai lo sguardo dalla pagina: non stavo veramente ascoltando Bob, ero rimasto fermo con la mente a quella frase pronunciata poco prima. – Pirati? – ripetei, ignorando la sua osservazione. – Quello è il simbolo degli Assassini. – Bob mi rispose con un grugnito. – I pirati erano anche Assassini?
– Certo! – esclamò il ragazzino. – Ammazzavano gli uomini delle navi spagnole! – Lo fulminai con lo sguardo. Non aveva idea della sottile differenza che può esserci tra un’iniziale maiuscola ed una minuscola.
Bob roteò gli occhi. – Frankie, va’ in casa – brontolò, agitando la mano.
– Aspetta! Guardate qui! – Strappò il libro da sotto la mia presa e cominciò a sfogliarlo. Erano soprattutto disegni di isole, vegetazione mai vista prima e scogli che spuntavano dalla roccia come denti aguzzi. Saltò parecchie pagine (avrei voluto staccargli le mani e sfogliare quel libro con calma) fino ad arrivare ad una lista di nomi. Semplici nomi con una data accanto. – Kenway. Kenway. – Cominciò a scorrere la lista con il dito e gli diedi una gomitata, girando il volume verso di me.
Il ragazzo imprecò e Bob lo colpì con uno scappellotto; i miei occhi oltrepassarono una sfilza di cognomi con la A, date, ruoli marinareschi e nomi di navi, ma si fermarono arrivando davanti ad un altro cognome maledettamente familiare. Barrett.
Barrett. – Tom Barrett – sussurrai. Un cognome comune, pensai. Non così tanto, alla fine.
– Eh?
“Che vuoi dire? Cosa dice la gente di mio padre?”
“Dicono che era un…”
– Santo cielo – gemetti, saltando tutte le altre lettere per arrivare alla K. La famigerata K.
Faulkner roteò gli occhi. – Haytham, che succede?
Non gli risposi mai. I miei occhi si fermarono sul terzo cognome iniziante per K e non riuscirono a scendere più in basso. Mi parve persino di non riuscire più a battere le palpebre.
La scritta non poteva essere più chiara.
Kenway Edward, Capitano, 1715, Jackdaw.
Oh, cielo.
Ecco che cosa intendeva Tom Barrett. “Dicono che era un pirata.”
– Cazzo – sussurrai, allontanando il libro da me in un moto di stizza. – Era un pirata.
– Haytham…
Eccolo, ancora quel tono di merda che usavano tutti per rivolgersi a me non appena mi incazzavo. Non lo sopportavo più. – Era un pirata. E non me l’ha mai detto! Non mi ha mai detto nemmeno di essere un Assassino! Si è portato tutti i suoi fottuti segreti nella tomba, e solo per Reginald Birch! La colpa è sua!
Bob poggiò la mano sulla mia spalla. – Haytham, è un’attività popolare. Forse lui…
– Come fai ad avere questo libro? – Ero arrabbiato. Infuriato.
– Era in una delle vecchie casse dentro l’Aquila. Chissà a quanto tempo fa risale…
Grugnii, stizzito. – Non mi ha mai detto la verità! “Dopo il tuo decimo compleanno, Haytham”, e alla fine ha avuto ragione! L’ho saputo solo dopo il mio decimo compleanno! – Sbuffai dal naso. – Solo perché Reginald non poteva sopportare che altra propaganda assassina entrasse nella mia testa! Solo perché gli servivo come Templare!
Bob mi scoccò un’occhiataccia e si alzò un attimo dal tavolo, spingendo il ragazzo verso la casa e chiudendolo dentro. Quando si sedette di nuovo non sembrava pronto ad ascoltare la mia sfuriata, anzi, era sul punto di spaccare la faccia a quel ragazzino che lo aveva ficcato nei guai. – Scusa – brontolò, ma non sembrava sincero. – Va’ avanti.
Presi fiato e mi passai una mano sulla fronte. – Il problema, Bobby, sai qual è? È che sono davvero un Templare. Mio padre, in quei pochi anni, mi ha insegnato a pensare con la mia testa, e io ho scelto i Templari. Forse li avrei scelti anche se lui fosse stato ancora vivo? Non lo so. Non ne ho la benché minima idea, ma so che se mio padre avesse deciso di parlarmene prima, forse sarebbe vivo. Forse io avrei degli alleati.
– Tu hai degli alleati, Haytham.
– Non tra gli Assassini. E, finché Birch è libero, nemmeno tra i Templari. – Grugnii. – Sono sempre stato un perfetto idiota. Devo andare. Prendo la mia roba e vado a cercarlo. Scommetto che lui sapeva tutto di questa stupida storia dei pirati.
– Ma perché ti da tanto fastidio, Haytham?
Lo guardai sgomento. – Perché? Perché pensavo di potermi fidare di mio padre! Non mi avrebbe raccontato nulla sul suo presente da Assassino fino al mio decimo compleanno, e, d’accordo, ci poteva anche stare, ma non parlarmi del suo passato? Mai.
– Non ha voluto condizionarti con le sue scelte.
– Davvero, Bob? Io sono sempre stato condizionato dalle scelte di qualcuno! Mio padre mi ha condizionato insegnandomi come pensare, Reginald mi ha condizionato insegnandomi cosa pensare, ed entrambi hanno cercato di condizionarmi per spingermi verso una fazione, ma alla fine nessuno dei due ha avuto successo, così sono bloccato in un fottuto mezzo senza capo né coda. – Battei il palmo aperto sul tavolo. – Ecco perché mi da tanto fastidio, Bob. Perché non ho mai davvero avuto scelta. Sono sempre stato un succube.
Bob posò delicatamente la mano sulla mia. – Fino ad ora. Puoi rimediare, Haytham. – Sorrise appena, gentilmente, non sembravamo nemmeno più brilli. – Puoi riprenderti il tuo Ordine e dimostrare a tutti quanto si sbagliavano. Puoi riprenderti la tua libertà.
– Libertà – ridacchiai. – Sai che è un pensiero molto da Assassini, vero?
Sorrise di rimando. – Già. – Anche nella sua mente stava prendendo forma l’etichetta “Templare con il cervello di un Assassino” da attaccarmi al petto. – Però è bene che tu ricominci ad essere un leader. E non è affatto vero che non sei nulla, Haytham. Hai idee particolari, lo ammetto. Sei brillante ed egoista, un combattente nato ma arrendevole quando si tratta di figure paterne, cocciuto ed intelligente. Riesci a controllarti quasi sempre, e anche i tuoi scatti d’ira sono organizzati razionalmente. Hai caratteristiche contrastanti, ma che insieme funzionano bene. E gli altri Templari lo sanno. Io sono con te. – Sentii le lacrime salire agli occhi, ma le rimandai da dove erano venute. – Per quanto Achille possa essere contrario, io sono disponibile ad aiutarti. Assieme all’Aquila, naturalmente. Potremmo fare un po’ di pratica.
Sorrisi tristemente. – Non so governare una nave, Bob.
Mi diede una pacca sulla spalla. – Impossibile, Kenway. Ce l’hai nel sangue, cazzo, nel tuo fottuto cognome! È dentro di te. – Si voltò a guardare la casa con tristezza e sospirò. – Bene, è meglio che vada a vedere che combina Frankie. Ti serve il libro?
Lo richiusi con un tonfo, osservando la copertina consunta. Bob aveva ragione, non potevo lasciarmi condizionare dalle scelte altrui, e non potevo permettere che avessero delle conseguenze su di me. – No. – Scattai in piedi. – Grazie, Bob. Ora devo andare.
– Fatti sentire, Kenway. E ricorda che l’Aquila è sempre qui.
Sorrisi. – Lo so, Bob. Nonostante le tempeste, quella signora risorge meglio di Cristo in persona.
Gli voltai le spalle con un sorriso e tornai verso il cavallo, la spada che batteva gradevolmente contro la mia coscia, a ricordarmi che quella stessa arma avrebbe segnato l’inizio e la fine di ogni mio rapporto con Reginald.
O, almeno, lo speravo.
Non era il momento di essere pessimisti. Non quello.

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Capitolo 19
*** Diplomazia. ***


Jackdaw.
Capitano.
Edward Kenway, 1715.

E vent’anni dopo, lui era morto.
Mi dava al cervello. Mi venne voglia di scendere da cavallo e colpire la corteccia dell’albero più vicino con la testa, dandomi dello stupido. Come poteva essere un pirata, lui, l’uomo più gentile e meno incline alla violenza che avessi mai conosciuto? Insomma, sì, aveva quel non so che di selvaggio nello sguardo e nei capelli, quell’espressione folle quando finalmente brandiva una spada – anche se di legno – ma da lì ad essere un pirata c’era il mondo intero.
Quindi Jenny… Quand’era nata Jenny? Millesettecento… tredici? Due anni prima di diventare un pirata? – Oh, Dio – sospirai ad alta voce, reggendo le redini del cavallo con una mano sola. Mi veniva da vomitare, cazzo.
La frontiera non mi era mai sembrata tanto vasta, tanto sconfinata. E, tra me e me, speravo di non vedere mai le rare tenute spuntare qui e là tra gli alberi. L’ultima cosa che volevo fare era tornare da Achille e dargli delle risposte. Giammai. No. Dov’ero stato? Cos’avevo fatto? Non potevo inventare. “Sono sempre disponibile ad aiutarti”, aveva detto Bob. Non ne ero sicuro. Il problema nel non avere veri amici stava proprio lì, non potevo fidarmi di nessuno. – Certo. Dove sei stato, Haytham? Sei un prigioniero, Haytham. Avresti dovuto ascoltare Connor, Haytham. – Sputai a terra. Parlavo addirittura da solo. Cristo. – Fottuti idioti.
Avevo voglia – bisogno – di tirare un po’ di spada, come ai vecchi tempi.
Sospirai e affondai i talloni nei fianchi del cavallo, che fece un paio di passi al trotto prima di impennare con violenza e farmi cadere dalla sella con la schiena a terra, il fiato espulso dai polmoni in un dolorosissimo attimo, la nuca sbattuta violentemente contro qualcosa di duro. – Che diavolo…? – mormorai, ma dalla mia bocca uscì solo un rantolo cupo. Poggiai le dita sul petto, assicurandomi di respirare.
Rimasi lì steso mentre il cavallo scalciava, indietreggiava, impennava sbuffando senza sapere bene dove andare, le narici dilatate e i denti scoperti. Dovetti saltare in piedi per evitare una zoccolata nello stomaco e, quando mi avvicinai all’animale, ciò che vidi non mi piacque per niente. – Cazzo! – sibilai, scivolando su qualcosa di umido. Troppo denso, troppo appiccicaticcio e troppo puzzolente per essere rugiada. – Oh, cazzo.
Abbassai lo sguardo ed eccolo lì. Come avevo fatto a non sentire prima la puzza? – Sto proprio invecchiando – grugnii tra me e me, tirando il cavallo per le redini e allontanandolo dalla chiazza umida. Mi chinai e dovetti mandare giù un conato di vomito. – Guarda qui…
Quello poteva essere il corpo di chiunque, di un mercante, di una giubba rossa, di un misero esploratore sbranato da un orso, di chiunque. Invece era qualcosa di decisamente peggiore. Un uomo, se così si poteva ancora definire, con il petto squarciato da un primo colpo di spada, le budella lucide riverse sul terreno – sì, proprio quelle che avevo calpestato – e il resto del corpo in una posizione innaturale, tutto il torace sporco di sangue e terra, la carne maciullata dal passaggio di uomini, soldati e cavalli. Forse anche un carro. La testa non c’era più, le mani erano rigide e biancastre. Sì, dovetti decisamente trattenere il vomito.
A rendere il tutto terribile erano i suoi vestiti. Semplici, marroni, di un tessuto spesso simile alla tela dei sacchi, i risvolti e i bordi dei calzoni decorati con delle piume.
Piume.
– Nativi. Oh, Cristo santo… – Imprecando e girando attentamente attorno al cadavere, raggiunsi il cavallo. – No – mugugnai tra me e me. Quella bestiaccia era troppo spaventata per andare avanti silenziosamente: si guardava attorno con tanto d’occhi e, se fosse stato in grado di farlo, avrebbe mugolato tutto il proprio disappunto. L’ideale sarebbe stato ucciderlo, ma non avevo mai ucciso un cavallo se non nel mezzo di una battaglia, quando il frastuono è così assordante da non farti capire nemmeno più se sei vivo o morto, quindi evitai. – Diamine. – Cercai di non fare rumore e mi accovacciai.
Fruscii tra le foglie. – Merda – sussurrai tra i denti gettandomi a terra. Come ai vecchi tempi. Come quando combattevo ed Edward Braddock era ancora vivo, come quando mietevo innocenti manco fossero fiorellini. Che bei ricordi.
Cominciai a strisciare con il ventre contro lo sterrato, i denti stretti e i muscoli tesi. Altri rumori, altri fruscii, ma in alto. Sollevai gli occhi  inarcando la schiena, tendendomi al massimo per osservare i movimenti tra le foglie. Un uccello svolazzò verso il cielo gracchiando e sentii un cavallo nitrire. Più lontano. Non era il mio, per fortuna.
O forse no. – Cazzo! – Qualcuno imprecò non lontano da me.
– Cazzo! – replicai d’istinto, infilandomi in un cespuglio. Perché a me? Perché?
Dovetti chiudere gli occhi per non accecarmi con quegli stupidi rametti, ma ciò che sentii mi bastò: – Dobbiamo trovare il forte! – sibilò un uomo. – Quel diavolo di cavallo potrebbe averci lasciato chissà dove.
Un secondo uomo grugnì, la voce più lontana. – Che vuoi che ti dica? Johnson Hall non può essere troppo lontana da qui, no? Abbiamo seguito le indicazioni! – Sputò a terra. – Piantala di lamentarti e piglia il moschetto, quei fottuti selvaggi sono ovunque.
Estrassi velocemente la pistola e rotolai fuori dal cespuglio, sparando contro un tizio alto e decisamente magro che mi guardava con tanto d’occhi mentre l’altro, di spalle, era intento a perlustrare il territorio con il moschetto tra le mani, qualche passo più avanti.
Il colpo tra gli occhi dell’uomo risuonò forte, violento come una cannonata. Me la sarei dovuta cavare di spada, dato che quell’altro aveva un moschetto. – Abbassa le armi e…
Non ebbi il tempo di finire la frase che quello premette il grilletto del fucile. Mi abbassai di scatto, il proiettile che passava qualche centimetro sopra la mia spalla. – Merda! – grugnii rotolando a terra. – Che cazzo ti passa per la testa? – Ha appena sprecato il suo unico proiettile in un colpo del genere, deve essere proprio pazzo.
Quello scrollò le spalle e scoprì i denti in un ringhio. Indossava la giubba rossa dei soldati britannici. E che mi dovevo aspettare, il comitato di benvenuto? – Avresti dovuto pensarci prima di uccidere un soldato dell’Esercito Britannico, stronzo! – Avanzò di un passo, la baionetta sul fucile che scintillava nella luce estiva. – Ti conviene moderare i termini, o scoprirai la clemenza degli uomini di re Giorgio.
Sbuffai. – Voglio solo parlare.
– Parlare? Chi vuole parlare non gira armato – replicò quello a muso duro, avanzando ancora. – E io non parlo con gli assassini.
Sbiancai, pensando che per un attimo mi avesse associato a quella stupida Confraternita, ma scossi subito il capo. Non ne sapeva niente. – Girare armati è un diritto dei coloni, no? Queste foreste sono gremite di animali, devo potermi difendere. – Sfoderai la pistola con un gesto fluido, i proiettili che tintinnavano nella mia tasca. – Allora dovrei chiederti perché porti quel moschetto.
Immagino che se avesse avuto un pugnale me lo avrebbe scagliato contro in quell’istante a causa dell’irritazione. Lo stavo esasperando, lo capivo dal modo in cui sbuffava dal naso e sgranava quegli occhi porcini iniettati di sangue. – Chi ti manda? – grugnì, minaccioso.
– Nessuno. – Fare l’agnellino, il più antico dei trucchi. – Perché mi fai questa domanda? C’è per caso qualcosa che non va?
– Non c’è assolutamente niente che non vada, cazzo! – sbottò la giubba rossa. – Vattene!
Sollevai le spalle. – Non così in fretta, soldato – sussurrai con un mezzo sorriso, poi gli saltai addosso prima che potesse scattare affondandomi la baionetta nello stomaco. Quel pezzo di metallo era schiacciato tra i nostri corpi, io sopra e lui sotto, i denti che digrignavano, i muscoli tesi allo spasmo. Lo colpì alla mandibola con un pugno, il soldato gemette e si liberò del moschetto, facendolo scivolare sul terreno e spingendomi con un colpo di reni. Ora c’era lui sopra.
Scoprì i denti insanguinati e mi colpì con un violentissimo destro sul naso mentre allungavo le mani cercando di graffiarlo, di fermarlo. Non ucciderlo, non devi ucciderlo, strillava una voce nella mia mente, ma non c’erano scelte.
Aprì la grande mano e sogghignò, sputando un grumo di sangue sul mio viso. Non mi sentivo più mezza faccia, il naso rotto emanava un calore assurdo verso tutto il resto, offuscandomi. Stava per fare ciò che facevo io ogni volta che rompevo il naso di un nemico? Mi avrebbe premuto il palmo sulla faccia e i frammenti d’osso si sarebbero conficcati nel mio cervello, uccidendomi?
Non l’avrei permesso. Non c’erano più scelte, quell’uomo era troppo forte. Massiccio, abituato a combattere contro gente che si ribellava.
Ero io a non esserci più abituato. I miei ultimi avversari non erano stati molti e, per di più, crollavano a terra dopo una misera coltellata o una spintarella. Non questo bestione, però: sollevai una ginocchiata e lo colpì alle palle. Lui gemette, chiudendo la mano in un nuovo pugno e colpendomi sotto il mento, dove l’avevo beccato io. Mi morsi la lingua e sentii il sapore del sangue.
Non c’erano vie diplomatiche per risolvere la situazione, non più.
Perché non ti fai mai i cazzi tuoi, Kenway?
Feci scattare il polso e la lama celata affondò tra le costole dell’uomo. Sul lato destro, per fortuna. Grazie al cielo. Mossi un po’ il polso per allargare la ferita e il soldato grugnì, portando le mani verso la mia e collassando su di me. Era pesante, ma riuscii ad estrarre la lama e scrollarmelo di dosso. Avevo la camicia, la faccia e le mani macchiate di sangue. Piantala! Non era il momento di preoccuparsene.
La lama celata si ritirò all’interno della polsiera e afferrai il soldato per la giubba, ora ancora più rossa. – Dov’è Johnson Hall? Che sta succedendo laggiù? – gli sibilai in faccia, gli occhi minacciosamente puntati nei suoi. – Dimmelo e ti risparmierò. – La più grande di tutte le balle, e anche la più frequente. – Forza.
Quello grugnì nel trarre un respiro ruvido. – A nord. Segui il fiume. Il nord. – Gemette. – Ti prego. Ho famiglia. Un bambino e…
Non volli sapere nient’altro, nonostante non mi avesse nemmeno detto cosa avesse procurato tanto scompiglio. Scossi piano la testa e premetti le mani sulle sue orecchie. – Non l’ho mica giurato su Dio. – E anche in quel caso, non l’avrei mantenuto.
– No – sussurrò col suo ultimo fiato. Sarebbe morto comunque.
Sollevai le spalle, strinsi forte la sua testa e la voltai di scatto, deciso, un movimento innaturale. Il consueto crack, poi il capo della giubba rossa ciondolò sul suo petto. Lasciai cadere il corpo a terra, sospirando e passando le mani zuppe di sangue sulla sua divisa. Poi sollevai lo sguardo al cielo e cercai di orientarmi. – Il muschio – sussurrai avvicinandomi agli alberi. Non era la migliore guida del mondo, ma valeva la pena provarci.
 
A nord.
Che indicazione del cazzo.
Il nord potrebbe essere ovunque. Londra è a nord  di Portsmouth, ma lo è anche Manchester, eppure Londra e Manchester non sono affatto nello stesso punto. Il nord è indicativo, come lo è tutto il resto.
Va’ a nord. Chissà quanto avrei dovuto camminare in quella distesa di alberi del cazzo. Non sapevo cosa cercare, sapevo solo di dover continuare in quella direzione, senza una meta precisa. Quel nome, Johnson Hall, mi diceva solo che sarei dovuto arrivare lì prima di Connor, perché se William era davvero lì e l’Assassino lo aveva già raggiunto ero fottuto. Gli Assassini si chiamano così perché ammazzano, non perché intrecciano collane di fiori – anche se di tanto in tanto si dedicano anche a quella nobile arte –, quindi dovevo muovermi.
Quando il terreno cominciò a degradare e gli alberi a farsi più radi, tirai un sospiro di sollievo. Dovevo esserci. A nord. Avevo superato il fiume, quello che chiamavano “fiume Mohawk”, e mi trovavo davanti a un complesso abitativo per la prima volta da quando avevo iniziato a seguire le indicazioni della giubba rossa morente. Bastava sperare in bene, no?
– La guerra non è la risposta! – La voce del mio vecchio socio, quell’uomo ben vestito, sempre pronto a far sporcare di sangue le mani altrui ma sempre apparentemente restio a sfoderare la spada, giunse alle mie orecchie come il richiamo di un fischietto per gli uccelli.
Sussurrai il suo nome e sentii un fruscio tra gli alberi dietro di me, un fruscio basso, troppo lieve e controllato per essere prodotto da un soldato. O era un Assassino o era un Templare, ed entrambe le possibilità mi piacevano poco. Mi feci strada tra gli alberi e scivolai rapido e silenzioso verso la facciata anteriore di una grande casa bianca, pulita, una sorta di miraggio appena uscito da una storia di fanciulle ben educate che bevono il tè attorno ad un tavolo mentre ricamano le loro tovagliette.
Mi ricordò quella casa accanto alla mia quand’ero piccolo, quella del signor Dawson e delle sue figlie che mi avevano salutato, osservandomi come un oggetto da museo.
Appoggiai un piede al davanzale della finestra e mi tirai su con un grugnito. Perché lo sto facendo? Con i denti serrati e le dita tese allo spasmo, mi issai sulla cornice della porta, mi rannicchiai con i piedi schiacciati contro il legno e spiccai un salto per acchiappare il cornicione subito sopra. Non ero ancora tanto vecchio da non riuscire a scalare una casa, fortunatamente. Con il ventre schiacciato contro il muro, strisciai fino ad un’altra finestra e mi ci arrampicai sopra, aggrappandomi al tetto con le dita simili ad artigli.
Non ansimavo nemmeno.
Mi sdraiai prono sul tetto, strisciando sul ventre e puntellandomi con i gomiti per raggiungere l’altro lato del tetto, dal quale proveniva la voce di William. La casa era praticamente in mezzo al nulla: pochi passi più indietro c’era di nuovo il fitto bosco della frontiera, e lo spesso ramo di un albero si protendeva verso di me come il dito di una strega cattiva, accusatorio.
E, al di sotto, qualcosa che non avrei voluto vedere. – William – gemetti, puntellandomi ancora per vedere meglio. Era proprio lì, appena oltre la tettoia della casa, che camminava avanti e indietro con quel fare da uomo politico, scrollando il capo e muovendo le mani dolcemente. Attorno a lui c’era qualche indiano in un semicerchio e, dietro di loro, soldati con i fucili rigidi lungo i fianchi ma le mani già sui calci, pronti ad esibire un perfetto puntat’arm. Il quadretto non prometteva niente di buono.
William Johnson era sempre il solito: ben vestito, rasato e sempre propenso alla diplomazia. Immagino che tra lui e Reginald ci fosse una certa affinità, si somigliavano molto. – … Anche ora i tuoi uomini scavano la terra senza riguardo per chi la popola! – Un indiano si stava facendo avanti, inveendo contro William. Farà una brutta, orribile fine. Sputò nell’erba. – Usi parole suadenti ma false. Non siamo qui per negoziare, né per vendere. Siamo qui per dirvi che dovete andarvene!
Da lassù non potevo vederlo, ma immaginai un sorriso allargarsi sul volto di William, come se sapesse di avere la situazione in pugno. Lui aveva sempre la situazione in pugno. Tranne quando si faceva rubare i frutti delle proprie ricerche da qualche Assassino, come un pivello. – E va bene! – sibilò, probabilmente guardando gli indiani con gli occhi ridotti a due fessure. – Vi offro un ramo d’ulivo e voi lo gettate a terra! – Sollevò lentamente una mano verso i suoi uomini. – Forse con voi servono le armi.
Il fruscio delle foglie. Il mio sguardo si alzò di scatto dalla scena e guardai di fronte a me. – Oh, cazzo – imprecai. Connor, accucciato come un gatto, procedeva sul grosso ramo verso William, sollevando appena lo sguardo verso di me e facendo scattare silenziosamente la lama.
Sembrava dire che non l’avrei potuto fermare.
Si sbagliava.
Gli scoccai un’occhiata truce e gli indiani sotto di me impallidirono. Uno di loro, lo stesso che aveva parlato prima, sussurrò: – Ci stai minacciando? – Senza pensarci mi accovacciai sul bordo del tetto, i muscoli tesi, pronto a scattare. I miei occhi tornarono su Connor.
– S…
Non diedi a William il tempo di rispondere, né a Connor quello di reagire. Gli unici che ebbero il modo di capirci qualcosa furono i soldati, che abbatterono gli indiani nella confusione del momento come birilli. Io ero saltato giù dal tetto, atterrando esattamente su William e spingendolo via, rotolando insieme sull’erba come due amanti mentre Connor, un secondo dopo di me, si gettava sul prato vuoto. Mi parve di sentire la sua lama celata affondare nella terra.
William era sbiancato. – Haytham? – sussurrò. – Traditore! Che cosa ci…
Affondai un pugno nel suo stomaco, strappandogli il fiato, e lo trascinai via. – Uccidili! – gridai verso Connor, allontanandomi per parlare a quattr’occhi col mio vecchio socio, boccheggiante nella mia stretta.
Girai lentamente intorno alla casa, pregando che non ci fossero altre sentinelle nel bosco, e lo sbattei violentemente contro il muro bianco della casa. – Dov’è Reginald? – sibilai, un braccio piegato per tenerlo lì, con i piedi a qualche centimetro da terra e la mia mano che stringeva il collo della giacca, l’altra mano sotto il suo collo con la lama celata sfoderata e splendente. – E, prima che tu possa dire qualunque altra cosa, io non sono un traditore. Non ti ucciderò.
William ridacchiò, gli occhi iniettati di sangue. – Che ti importa di Reginald? – Più di quanto credi. – Ti ha cacciato dall’Ordine! Ora sei solo un reietto! – Uhm, non me l’ha mai detto nessuno finora, grazie. – Continui a pensare di poter aggiustare le cose, Kenway? Ci hai traditi! Devi smetterla!
Lo sbattei di nuovo contro il muro. Gemette. – Io non ho tradito nessuno. – La rabbia cominciava a montarmi nel petto, crescente come la marea. – Mi vuoi ascoltare? Perché tutti voi credete a Reginald e non a me? – Una certa idea ce l’avevo, ma no, non poteva essere possibile. No. Altrimenti perché William sarebbe andato a parlare con gli indiani? Perché avrebbe continuato a cercare di comprare le terre? No. Non aveva senso.
Scrollai il capo e lo guardai negli occhi. Sentivo il sudore freddo cominciare a colarmi lungo la schiena, la camicia che si appiccicava al corpo. – Reginald è il Gran Maestro! Perché dovrebbe mentirci? – sussurrò William, la voce ridotta ad un sibilo sottile ed inquietante. – Che cos’hai da offrirci, Kenway? Perché dovremmo aiutarti? Perché abbandonare l’uomo che ci conferisce potere e ricchezza? In nome di cosa, di grazia?
Magari perché è un gran bastardo a cui interessa solo trovare la Mela e conquistare il mondo, e che importa se uno di voi ci finisce in mezzo, giusto?
– Devi soltanto fidarti di me – sussurrai, quasi in preda ai singhiozzi. – Nessuno sembra farlo. Io non voglio collaborare con gli Assassini, d’accordo? Non voglio farlo. Non ho mai voluto. Sono stato costretto. Forse mi merito tutta questa diffidenza, ma io ti ho aiutato, William. E ti sto aiutando anche ora.
Rise, scrollando il capo. Aveva gli occhi d’un folle. – Stai aiutando te stesso! – sibilò. – Cerchi solo di deviare la nostra opera! Non meriti quell’anello, Kenway! Non lo meriti!
Cominciò a inquietarmi, ma cercai di mantenere la calma. I timorosi non hanno mai convinto nessuno. – Reginald è un uomo subdolo. Può manovrare ognuno di noi. Obbedisci ai suoi folli propositi senza nemmeno accorgertene. È in grado di comandare a bacchetta, di far credere ciò che vuole. Io ci sono cascato, William, e non permetterò che succeda di nuovo. – Presi fiato. – Non se posso evitarlo.
– Sei un grandissimo bastardo! Se sei dalla nostra parte va’ lì in mezzo e uccidi l’Assassino! Fallo a pezzi! Bevi il suo sangue, crogiolati nelle sue budella, pianta la bandiera che segnerà la vittoria dell’Ordine! – Aveva gli occhi rivoltati verso il cielo in atteggiamento estatico. Santo Dio. Non mi aveva mai fatto paura, ma in quel momento era come un gigantesco demonio appena uscito dall’inferno. Anche se non credo all’inferno, ma non penso sia il momento di parlarne. – Se sei davvero uno di noi, spazza gli ostacoli in nome della Croce.
– E a che cosa servirebbe? – gli sibilai in faccia, il naso a due dita dal suo. – A portare la gloria? Ad arrivare più vicini al Tempio? Credi che rubando la loro terra gli indigeni ti condurranno lì a braccia aperte?
– A te sono bastate le gambe.
Sgranai gli occhi. Ancora quella risata folle nei suoi occhi, il viso di un uomo distrutto psicologicamente. Avrei dovuto fermarmi, ma quelle parole, quella frase, era troppo. Non potevo tollerare che infangassero l’onore dell’unica donna che avevo amato davvero. Non lo avrei tollerato in nessun caso. – Brutto figlio di puttana – sussurrai. E sollevai piano la sua testa, poi la sbattei contro il muro. Un crack e una brutta macchia di sangue rovinò la parete esterna bianca ed immacolata. – Tu non sai niente. Reginald ti sta controllando. – E alla fine di ogni frase sbattevo la sua testa contro il muro. – Ti chiedi perché dovresti fidarti di me, ma chi mi dice che tu sia rimasto fedele all’Ordine? – Un altro colpo. – Lo sei?
Allungai le mani verso il suo collo, le dita che fremevano, ma William sembrava in un altro mondo. La sua mascella ebbe un singulto e una goccia di sangue colò lungo le labbra. Il bastardo si era morso la lingua. – Perché, William? – La mia voce era calma, controllata.
– Haytham, basta – sussurrò qualcuno accanto a me. Le sue mani scure si protesero per staccare le mie dita dal collo di William Johnson. – Basta. Portiamolo via. Portiamolo via.
– Perché? – chiesi ancora, un groppo in gola che bruciava. – Perché, William?
L’Assassino strinse la mia spalla come un’infermiera che vuole allontanare il padre dal corpo del figlio morto, pronto per essere portato all’obitorio. – Andiamo, Haytham. – Colsi una nota amara nella sua voce. – Johnson viene con noi. E, per ora, deve solo ringraziare te se non lo uccido.
Lasciai schiantare il suo corpo a terra, poi girai sui tacchi e raccolsi un sasso dalla terra, lanciandolo lontano con un’imprecazione disperata. – Cazzo!

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Capitolo 20
*** Il terzo incomodo. ***


– Che cos’avete in quelle teste, tu e quell’altro idiota di tuo padre? – Una scena del genere, che fino a qualche giorno prima mi avrebbe fatto ridere, o almeno sogghignare, quel giorno sembrava tremendamente triste, patetica e meritata. Mi passai le dita sul naso, ormai tornato quasi come nuovo, per nascondere la colpevolezza dei miei occhi.  – Ti avevo detto di ucciderlo al Tea Party e te lo sei fatto scappare! Avevi una seconda occasione e l’hai portato qui per i capricci di questo stronzo? – Achille mi indicò con le dita tremanti, il bastone stretto nell’altra mano e il viso madido di sudore. Sembrava sul punto di svenire. – Connor, sei giovane e tutto il resto, è normale che tu sia un po’ una testa calda. – Mi fulminò con lo sguardo, come a dire: “È ovvio, guarda di chi sei figlio”. – Non mi disobbedirai mai più. Ci siamo capiti? – E dov’è finita la libertà di scelta di cui tanto parlava mio padre, di cui tanto parlano tutti loro? – Io ti ho dato fin troppe possibilità, ma questa è l’ultima goccia. Hai portato un Templare fin qui per uno sfizio di Haytham! Potevi sgozzarlo e sentire ciò che aveva da dire, avremmo avuto un pensiero in meno!
– E un nemico in più.
– Come dici? – Achille si voltò con stizza verso di me, le palpebre che tremavano sugli occhi sgranati. – Un nemico vale l’altro, ormai. Credi davvero che quell’imbecille mezzo matto ci aiuterà? Già tu ci dai abbastanza grattacapi! Dovresti smettere di creare problemi e attenerti ai piani come tutti.
– Quali piani? – sibilai avanzando di un passo verso di lui. – Non mi sembra che mi abbiate reso partecipe! Eravate lì fuori, tutti intenti a farvi gli affari vostri, e nessuno ha minimamente pensato che avrei potuto scoprirlo? Che anche solo per sbaglio sarei riuscito a passare di lì? Ma che avete nella testa? – Mi battei stizzosamente un dito sulla tempia, guardandolo dritto negli occhi. Il vecchio non avrebbe fatto paura nemmeno a William, legato ad una sedia nella cantina. – Come pensate che possa aiutarvi se mi escludete? Come pensate che io voglia aiutarvi?
Connor fece un passo avanti, la grande mano sulla spalla di Achille. – Te ne sei andato prima che potessimo avvertirti. E poi sapevo che non mi avresti lasciato uccidere William.
– Davvero? – Il vecchio si voltò prontamente verso di lui. – E come lo sapevi, eh?
– Bel colpo, ragazzo. – Tirai un calcio alla gamba del tavolo lì accanto e i bicchieri tintinnarono.
– Io… – Connor abbassò il capo di scatto. – Era una cosa prevedibile. Johnson è un Templare.
– Smetti di mentirmi!
Il vecchio Mentore aveva appena sferzato l’aria con un colpo di bastone così forte che avrebbe rovesciare una sedia. Se Connor fosse stato mezzo centimetro più avanti, quel suo naso schiacciato da nativo sarebbe stato solo un misero grumo di ossa, sangue e cartilagine. Achille fremeva, sbuffando dal naso con le narici dilatate e la fronte imperlata di sudore. Le nocche erano talmente strette attorno al pomello del bastone da sembrare bianche. – Connor – Il suo nome suonò quasi come una minaccia. – Io ti giuro che non accetterò altri intransigenze. Va’ giù e uccidi quel bastardo di Johnson.
– No – sussurrai scattando in piedi. – No.
– Non ti intromettere! – Achille sollevò il bastone e l’abbatté dietro il mio ginocchio così in fretta e con così tanta potenza da farmi cadere a terra carponi, mani e ginocchia sul legno del pavimento. Drammaticamente umiliante. Sollevai lentamente lo sguardo, incrociando il suo pieno di furia e forza. – Non hai alcun diritto di decidere. Né per Connor, né tantomeno per me o per gli altri Assassini.
Mi sollevai su un ginocchio, ansimando. – Posso decidere per me, allora.
Un’altra bastonata, stavolta diretta al mio collo, ma ero preparato e la schivai, afferrando il bastone e strappandolo dalla sua presa. In un secondo il vecchio capitombolò verso di me, il legno stretto tra le mie mani e il suo equilibrio sparito. Lo afferrai per il collo della giacca, come avevo fatto con William, e lo sollevai. – Prova a fermarmi – gli sibilai in faccia. – Provaci, stupido vecchio.
– Haytham! – Connor, quella donnicciola di Connor. Sempre pronto a prendere le parti del vecchio che lo stava privando di ciò che per lui doveva essere fondamentale, la libertà. Lo stavo difendendo, e lui non se ne rendeva nemmeno conto. Cretino.
Sogghignando, sollevai ancora un po’ Achille. – Tu e il tuo misero esercito non sapreste sparare ad un cane moribondo! Che puoi fare contro di me? Non fai altro che ribadire la mia prigionia, ma di fatto sono un uomo libero. E quello che tu e la tua stupida, piccola Confraternita non riuscite a capire è che la libertà non sempre è un dono. Non sempre è meritata. E dipende sempre dai punti di vista. – Sorrisi osservando il suo sguardo inquieto e terrorizzato. – Avresti dovuto privarmi della mia libertà molto tempo fa, Achille, ma il fatto… – Ridacchiai. – Il fatto è, stupido vecchio, che puoi inculcare la libertà nella testa di un Templare, ma ciò non significa che quello la userà come un Assassino. – Presi fiato. – Quindi, Achille, io andrò da William e gli porrò le domande che ritengo di dovergli porre. E tu prova a fermarmi, vecchio. Mi sembra che nemmeno il ragazzino sia più dalla tua parte.
Lo lasciai cadere a terra, lanciandogli il bastone accanto. – Che vuoi fare? – chiesi a Connor da sopra la spalla, diretto al piano di sotto.
Lui mi trucidò con lo sguardo, aiutò Achille a sistemarsi su una sedia e gli sussurrò qualcosa all’orecchio. Qualcosa nella sua stupida lingua natale. Io sentivo crescere nello stomaco il bisogno di qualcosa di alcolico. Bobby saprebbe che fare. Feci schioccare la lingua per richiamare la sua attenzione, come con un cane, dunque mi avviai lungo il corridoio.
Con la coda dell’occhio lo vidi lanciare un’ultima occhiata preoccupata al Mentore, sollevare le spalle e seguirmi a grandi passi.
Sogghignai. Nonostante tutte le loro manie di grandezza, il potere non è nel Credo di un uomo, quanto nel suo carisma.
 
William aveva un aspetto leggermente spaventato. Guardava la parete con i quadri e poi i suoi occhi scattavano subito al manichino spoglio, alle armi poggiate sui tavoli, agli innumerevoli appunti e schemi delle lezioni di Achille. Sembrava che la stanza lo opprimesse, ma almeno riusciva a guardarmi negli occhi. – Resta qui – sibilai a Connor sulle scale. – Sarebbe meglio se non ti vedesse.
Lui aveva annuito, le palpebre pesantemente calate sugli occhi e l’aria esausta. Le battaglie non fanno bene a nessuno. – Connor – lo afferrai per la spalla un attimo prima che si voltasse. – Lo avresti ucciso? Dimmi la verità. Se io non fossi stato lì – Deglutii a fatica e presi fiato. Cazzo. – Lo avresti ucciso?
Lui mi guardò tristemente negli occhi, come se non potesse fare a meno di compatirmi. – Sì – rispose semplicemente. – Ma devi sempre metterti in mezzo, a quanto pare.
Non gli risposi. Sollevai placidamente le spalle e scesi le scale, pronto a parlare con il mio vecchio amico. Il suo parere non aveva importanza per me, come mai ne aveva avuta. – William – esordii, le mani dietro la schiena. – Chi non muore si rivede.
– Potrei dire la stessa cosa – replicò guardandomi dall’alto in basso. – Perché mi hai risparmiato?
Diretto. Ecco perché era dei miei. – Perché voglio che torniate a fidarmi di me – spiegai senza troppi rimorsi. Dovevo essere onesto, se lo volevo dalla mia parte. – Quanti più di voi è possibile. Io non ho tradito l’Ordine, William. Te lo giuro.
– Reginald non è dello stesso parere. – Mi sputò quelle parole in faccia come veleno.
Reginald è il fottuto stronzo che ha ucciso mio padre, ciò che pensa vale meno di una mosca sulla merda di un cavallo. – Non avete voluto sentire la mia versione. Come puoi giudicare la verità?
William sollevò gli occhi al cielo. – Verità. Che concetto da Assassino.
– Giusto, giusto, Reginald è un mago nel dire bugie e mostrare la cose per come vuole che le vediate. Immagino vi abbia spinto a disinteressarvi alla verità, per quanto non abbia mai smesso di fare il contrario. – Alzai gli occhi con disprezzo, desiderando immensamente di ucciderlo con le mie mani. Calmo. – Ti propongo un accordo, William.
Sollevò lo sguardo dalla sua giacca rossa e mi guardò con un mezzo sorriso. – Sono sempre stato io il negoziatore del gruppo, Kenway. Pensi di potermi convincere?
Sorrisi. – Direi di sì. È una scelta facile, credimi. – Feci schioccare la lingua e mi allontanai dal tavolo, camminando per la stanza con le mani dietro la schiena. – Che cosa sai dei piani di Reginald?
– Gli interessano gli indiani – grugnì il mio vecchio socio. – Forse vuole fare la tua stessa fine.
Sogghignai continuando a camminare. – Bene. Tutto qui? – Lui sollevò le spalle. – E per quando riguarda Charles? – Mi ero avvicinato di nuovo sbattendo i palmi aperti sul tavolo davanti a lui, facendolo trasalire.  
Sbiancò. – Non ne so niente! – sibilò. – Quello che fanno quei due non è affar mio. Ha strappato Charles dall’esercito e lo tiene sotto la sua custodia, ma io non sono la sua balia, d’accordo? Ho una vita. Ho degli impegni! Non me ne importa niente.
Ecco che c’è di sbagliato in te, William. Non ti interessi nemmeno della sorte dei tuoi compagni, dei tuoi soci. D’altro canto, mi hai ripudiato senza una parola. Stronzo. – Stai dicendo che Charles e Reginald sono… insieme?
– L’ultima volta che li ho visti stavano in una stanza al Green Dragon, come facevamo con te. Ecco tutto quello che so.
– Impossibile. – Mi passai una mano sul sopracciglio. Avevo controllato ovunque, cazzo, in lungo e in largo per tutte le fottute colonie. – Impossibile. Sono passato di lì. Ho controllato.
Sogghignò, guardandomi di sottecchi. – Credi che Reginald sia uno sciocco?
– Non lo sottovaluto. Io lo conosco. – Al contrario di voi, che credete in qualunque cosa vi propini. – Dico solo che se non è al Green Dragon e non è nemmeno in giro per le Colonie, dove possono essere?
– Ovest?
– Stai scherzando, vero? – Aggrottai la fronte. – Non c’è niente ad ovest.
William Johnson sollevò le spalle. – Non ne ho idea. L’ho visto qualche tempo fa, verso febbraio. Insomma, dove può essere andato?
– In Europa. Può essere tornato a casa.
– E a quale scopo? – William scrollò il capo. – No, Londra non è più importante.
Ricominciai a camminare per la stanza. Riuscivo quasi a sentire il nervosismo di Connor, appollaiato sulle scale sbuffando. – Forse cercava qualcuno per aiutarlo con quell’amuleto. Con il Grande Tempio.
– Oh, quello. – Scoppiò a ridere. – Credi che gli interessi ancora?
– Ha cambiato idea? – Sgranai gli occhi, voltandomi di scatto verso di lui. Conoscevo Reginald, e c’era una sola cosa che amava più dei Precursori: il potere del Frutto dell’Eden, il potere del Tempio. E, effettivamente, se il Grande Tempio in sé e per sé, erano le ipotetiche capacità della Mela a interessarlo. Giusto.
William sbuffò. – Già. Pensa solo agli indiani, al denaro. E va bene così. Io ricevo lo stesso la mia paga. Anche dopo che quel fottuto Assassino ha distrutto il mio tè.
Sogghignai. – Hai incontrato Thomas, di recente?
– Chi, quel bastardo di Hickey? No. Non dopo il “Tea Party”, come lo chiamano. – Risucchiò l’aria tra i denti, le narici dilatate. – Mi è sempre stato antipatico.
Seriamente? No, non l’avrei mai detto! – Non mi interessa – sibilai, le mani di nuovo sul tavolo. –Dunque mi stai dicendo che Reginald è partito mesi fa verso chissà quale destinazione e si è trascinato dietro Charles. E prima? Che facevano?
Sbuffò. – E che ne so? Ho un lavoro, io! – Emise un gemito di stizza e mi guardò con freddezza. – Io mi sono occupato degli affari, del tè e di tutto il resto, poi l’Assassino ha distrutto tutto e quei due hanno cominciato a passare un sacco di tempo l’uno appiccicato all’altro. L’ha preso sotto la sua ala, come hai fatto tu. Non so di che cosa parlassero e non mi importa, so che è sparito e mi deve lo stipendio ed è tutto quello che conta.
Quelle ultime parole mi fecero sollevare le sopracciglia con sorpresa. – Davvero? – sussurrai, le mani nelle tasche della redingote. – Incredibile. Basta un po’ di tempo qui, la ricchezza a portata di mano e dimenticate il nostro fine.
– Il nostro fine qui era trovare il Tempio: si è rivelata una baggianata enorme e…
– La baggianata enorme, come la chiami tu, è ciò che ha perseguitato la mente di Reginald per anni, e continua a farlo. Credi che avrebbe mandato me – me – se non fosse stata una cosa importante? – Feci schioccare la lingua, dandogli le spalle. – Il nostro fine era trovare il Tempio. Hai ragione. Aprirlo. Scoprire come funzionava. A che serviva. Mi pare che siamo riusciti solo a fare una minima parte del lavoro, no?
Roteò gli occhi. – Il resto è impossibile da svolgere se il Tempio non si apre – sibilò William tra i denti. – E comunque non farmi la morale, Kenway. Che cosa hai fatto in quel periodo, a parte scopare e fare l’amicone degli indiani a spese dell’Ordine?
– A spese dell’Ordine? – Mi voltai di scatto verso di lui, la lama celata scoperta. – A spese dell’Ordine? Senza di me non avremmo nemmeno scoperto il Grande Tempio! Brutto idiota, come osi? Senza di me saresti ancora a bussare alla porta degli Assassini per farti restituire le tue fottute carte! – Sentivo una vena sul collo pulsare, il fiato mozzo e il braccio pericolosamente pronto a scattare in direzione della gola di William. Tremavo. – Non siamo qui per parlare di me – sussurrai, sforzandomi di mantenere la calma. – Ti ho chiesto di Reginald e gradirei una risposta.
William Johnson alzò di nuovo gli occhi al soffitto. – Ti ho detto ciò che so.
Emisi un sibilo. – E dove credi che siano?
– Non mi importa! – sibilò di rimando, lo sguardo colmo d’astio. – Non capisci? Sei una sua pedina. Lo sei sempre stato.
– Ha ragione – intervenne la voce di Minerva nella mia testa. – Sei sempre stato il mezzo, mai l’oggetto. Disposto a ubbidire in qualunque momento, consenziente a ogni richiesta. Un cagnolino. Devi stare attento, se non vuoi…
– CHIUDI IL BECCO!
Avevo estratto la spada e nel giro di mezzo secondo la lama sporgeva dal mento di William, quasi in gola. Gli avevo spaccato il cranio in due fino alla mascella in uno scatto d’ira contro di lui, contro Minerva, contro Reginald e tutte quelle cose che non riuscivo a capire. Dalle mie mani grondava sangue. – Merda – sussurrai lasciando andare la spada. Quella rimase conficcata tra ciò che restava del naso e del labbro superiore di Reginald. – Merda!
– Haytham! – Connor era già al mio fianco.
– L’ho ucciso. – Respirai. Feci per staccare la spada dalla faccia di William, ma non ne avevo la forza. Ero completamente svuotato. – Porca puttana, l’ho ucciso! – Colpii la sedia con un calcio e il corpo di William cadde a terra trascinandosela dietro, imbrattando il pavimento di sangue.
– Calmati – sussurrò il ragazzo senza guardarmi. Si chinò ad esaminare il cadavere e sfiorò la spada con la punta delle dita. Non sopportavo la sua vista, l’odore del sangue, il ritmo con cui quello stesso liquido mi pulsava alle tempie. Respirai dalla bocca stringendo il bordo del tavolo con le mani. – Chiamo Achille.
– Achille non deve saperne nulla – gemetti con le mie poche forze. – Né lui né nessun altro. Non solo l’abbiamo portato qui, ma non abbiamo nemmeno ottenuto ciò che speravamo.
Cominciò a tastare la giacca dell’uniforme di William e sollevò un braccio, un foglio di carta piegato tra indice e pollice. – Non direi. Qualcosa c’è.
– Non toccarlo! – sbottai, tirandolo su per la collottola e allontanandolo dal corpo di Johnson. Il sangue stava creando una pozza sul pavimento della stanza segreta. – Aiutami. Fa’ qualcosa.
Il ragazzo mi guardò di sbieco, il foglio ancora in mano. – E perché? – sussurrò con astio. – Sei stato tu a mettermi nei guai portandolo qui. Tu l’hai ucciso. Immagino che una punizione esemplare ti farà bene.
– È una punizione esemplare, Haytham. Sai, ho sentito dire una cosa: la perfetta punizione è quella che rende infelice chi la compie e felice chi la subisce, perché capisce quant’ha sbagliato. – Mi portai una mano alla tempia in un gemito. Era di nuovo quella voce maschile, quella che avevo sentito durante l’incontro tra Minerva e Giunone. – Io però non sono mai stato d’accordo. – Quella voce, così conosciuta, il familiare rumore di una cintura sfibbiata. Tremai. – Forza, inginocchiati. Forse farà tanto piacere a te quanto ne darà a me. Devi imparare dai tuoi errori. – Chiunque fosse, rise. – E dicono che non c’è metodo educativo più efficace dell’affetto, Haytham. Quale modo migliore per scoprirlo? Coraggio. Apri quella bocca.
Mi passai la mano sugli occhi. Il mondo attorno a me si stava lentamente dissolvendo lasciando spazio a delle colline familiari, pareti di pietra, neve all’esterno e delle fioche torce appese ai muri.
– Haytham? – Connor mi guardò con gli occhi sbarrati. – Haytham!
Persi i sensi, sentendo di nuovo quella risata prima di essere letteralmente murato vivo da quelle pietre familiari, opprimenti e sconosciute.
 
– Oh, maledizione. – Le mie prime parole dopo l’ennesimo svenimento, che gioia. Sollevai piano la testa. Niente pareti di pietra, niente fiaccole al muro e niente risata. Sì, un luogo in cui non si ride mai – o quasi – è decisamente un luogo pieno di Assassini. Ero rimasto legato alla realtà, fortunatamente. – Non di nuovo.
La stanza attorno a me era quella che occupavo solitamente alla tenuta. Non si sentiva nemmeno un rumore, tutto giaceva nel silenzio. Tranne la mia testa, naturalmente. – Ben svegliato, Haytham.
Gemetti tra i denti. Minerva. – E tu che vuoi? – brontolai ad alta voce, come se servisse a renderla più vera. Lo era già abbastanza, fidatevi. – Sei venuta a farmi sentire altre di quelle… cose? Che cosa sono? Chi parla? Perché sei sempre così… argh. – Stavo per aggiungere la parola stronza quando una fitta di dolore mi trapassò da tempia a tempia. – Così adorabile – aggiunsi sottovoce.
Sentii lo spirito ridacchiare. – Non sono stata io. È sempre lei. – Ridacchiò ancora. – Pare che tu e tuo figlio non riusciate a scambiare due parole senza farci scontrare. È sempre stato così. Una rivalità vecchia di secoli. Di millenni. Gli uomini ne hanno parlato per diversi anni. Alcuni ne hanno persino fatto una parte della propria religione.
Aggrottai la fronte, cercando di ricordare qualcosa che il mio precettore doveva avermi detto una vita prima su Giunone e Minerva. Mi tornò in mente quel giorno con un mezzo sorriso. Una delle ragazze che vivevano nella casa accanto, le figlie del signor Dawson, era caduta con la faccia a terra per via dello sgambetto fattole da una sorella: aveva sbattuto le ginocchia a terra e le si era sollevata la gonna per il colpo, così ero riuscito a vederle i mutandoni. Ero avvampato per l’imbarazzo davanti ad un inclemente signor Fayling, il mio precettore, che aveva continuato a chiedermi ciò di cui stavamo parlando finché non ho abbassato lo sguardo sulle poche righe di appunti che avevo preso durante la lezione e ho brontolato qualcosa sui romani e sulla loro religione. Era un argomento che sembrava interessare parecchio il signor Fayling – probabilmente si trovava al secondo posto della sua lista delle priorità, sotto il nutrirsi delle meraviglie tirate fuori dal suo stesso naso –, che aveva sollevato un sopracciglio guardandomi prima di esclamare: – Pare che il giardino della casa accanto sia più interessante di un mucchio di dèi inesistenti, eh? Eppure è storia, signorino Haytham. Va studiata per conoscere gli errori dell’uomo e renderci conto di quanto siamo superiori, evoluti. – Aveva fatto schioccare la lingua con sdegno. – Ora sappiamo che esiste un solo Signore, assieme a Suo figlio Gesù Cristo. – Lo aveva detto come se credere in quegli antichi dèi fosse stato il peggior errore dell’umanità. – Non commetteremo più certi scempi. Non appiopperemo mai più facce al nostro unico Dio.
Scrollai il capo. Non sapeva che molti anni dopo mi sarei ritrovato a parlare con una di quegli “dèi inesistenti”, come li chiamava lui, nonostante Minerva avesse ribadito di non essere una dèa. Eppure mi aveva appena detto che il culto era stato chiaramente ispirato a lei, per cui non c’era tanta differenza tra le due cose. – Già, ne ho sentito parlare – mormorai a Minerva, portandomi una mano davanti agli occhi, a distanza. Le dita tremavano appena. – Ho bisogno di bere.
– Non sei ancora in forze – mi ammonì Minerva. Roteai gli occhi. – Abbiamo molte cose di cui parlare.
– Ci sarà anche il terzo incomodo?
– No, se terrai l’Assassino lontano.
– Sai, è un po’ che ci provo, ma spunta da ogni angolo come un gatto al porto.
– Interessante – sibilò Minerva con superiorità. Irritante. – Veniamo a noi. Credi che il tuo piano funzionerà? Devi usare la tua intelligenza, non il tuo istinto.
Roteai gli occhi. – Non mi aiuti certo dicendomi che sono sempre stato una pedina di Reginald, sai? – sussurrai a testa bassa, pregando che davvero gli Assassini non fossero nei paraggi. – Comunque, non lo so più. Devo trovare gli altri e provare. Trovare Charles.
– Hai sentito il tuo socio, Hickey. Lui sa quando uscire allo scoperto. Occupati del Frutto. Guardati dal seguace dell’Aquila.
– Come sempre – borbottai con una mano sul cuore, sarcastico. – Credi che trovando il Frutto dell’Eden troverò Reginald?
– Io non sono più che una semplice consigliera, Haytham. Non do ordini. Concedo agli uomini la scelta, il potere attraverso il cervello. E tu hai un gran bel cervello, Haytham, devi sfruttarlo e fare ciò che ti dice. Non farti cogliere impreparato da lei da Giunone e impara a controllare i tuoi istinti.
– La fai facile – sussurrai roteando gli occhi. – Che devo fare?
– Sta’ in guardia. Pensaci. E ricorda che sei solo, per ora. – Sembrava quasi divertita da quella situazione, notai con stizza. – Fa’ la tua parte.
– Falla anche tu – sibilai di rimando, alterato. – Cerca di tenere i litigi tra comari fuori dalla mia testa, d’accordo?
Sentii un sibilo e un’altra scossa di dolore mi trapassò la testa. – Grazie, ci vediamo – brontolai strofinando un polso sul lato della testa.
Al piano di sotto, sentii la porta aprirsi con un sibilo appena percettibile. – Giusto in tempo – grugnii a mezza voce mentre Connor saliva le scale con passo insolitamente leggero. Troppo leggero persino per lui, ma non per le mie orecchie. – Guarda che ti sento, idiota – borbottai, ancora arrabbiato per come mi aveva trattato Minerva. Si vede che sto diventando vecchio. Mi incazzo persino con le voci nella mia testa. Al diavolo.
Aprì la porta della mia stanza e afferrò la sedia dalla scrivania, girandola con un movimento fluido e sedendoci sopra, i gomiti poggiati sullo schienale e la schiena inarcata. Come un gatto al porto. – Ti sei svegliato. – Perspicace. – Ho portato via il corpo. Achille sa tutto e non l’ha presa bene. Sperava di estorcere qualche informazione in più da quel bastardo. Ti ha anche tirato un paio di calci mentre eri svenuto.
Portai una mano alla fronte con aria melodrammatica. – Oh, no! Non posso credere a cotanta crudeltà! – Sbuffai teatralmente. – Hai altre notizie, spero di no, sono così ansioso ed eccitato che sta per venirmi un infarto. Non posso credere a ciò che sento! Un Assassino che spiattella tutto al proprio Mentore come un fedele in confessione. – Fischiai tra i denti con scherno. – Mai sentito niente di simile.
– Quando hai intenzione di smetterla con le stronzate, avrei qualcosa di cui parlarti. Per quella lettera che ho trovato addosso a Johnson. – Scavò nella tasca della veste e mi porse il foglio, appena macchiato da qualche schizzo di sangue. – Da’ un’occhiata.
Grugnii e aprii il foglio piegato. All’inizio le lettere erano sfuocate e senza forma, ma quando cominciai a leggere mi si formò un groppo in gola.
 
All’attenzione di John Pitcairn, Maggiore dell’Esercito Britannico.
John,
ho delle buone notizie. Gli indiani cederanno il loro terreno, l’affare è praticamente portato a termine. Non rimane che una firma e tutto sarà sistemato.
Intanto, abbiamo altri problemi per quanto riguarda i patrioti. Continuano a ribadire la loro libertà, oggi come allora, e fomentano la ribellione. Non dobbiamo permettere che succeda. Sarebbe un disastro. Sarebbe ciò che Reginald ci direbbe di evitare se fosse qui. Ricordi le sue parole, di certo.
Dobbiamo privarli delle armi e delle risorse. Di tutto ciò che può dare loro potere. Sono male armati ed organizzati, e sappiamo entrambi che non possono competere con l’Esercito Britannico.
La tua idea è particolarmente interessante. La metteremo in atto non appena avremo la terra, te lo garantisco.
Continua ad addestrare gli uomini. Nessuno deve sfuggire alla pallottola che gli è destinata.
Che il Padre della Comprensione ci guidi.
William Johnson.
 
– Poche righe, ma decisamente chiare. – Connor incrociò le braccia e mi guardò con la fronte aggrottata.
– Non voglio saperne niente, per ora – brontolai porgendogli il foglio. – Hai letto, no? “La metteremo in atto non appena avremo la terra”, ma non hanno la terra. Non hanno un bel niente. A proposito, voglio parlare con quel tuo amico, com’è che si chiamava?
– Non capisci? – Connor si alzò con tanto slancio da far cadere la sedia in avanti. – Non si fermeranno! Come non vi siete fermati davanti ad un villaggio di indigeni innocenti, come non vi siete fermati quel giorno a Boston, il giorno del massacro! – Che bei ricordi. – Per non parlare di ciò che ha scritto. “Nessuno deve sfuggire alla pallottola che gli è destinata.” Ti rendi conto?
No. Non me ne rendevo conto. – Perché ti preoccupi ancora prima di sapere che cosa succederà? – La verità è che cercavo di prendere tempo. Di calmare lui, di calmare Giunone, per cercare ancora Reginald e Charles. Non mi sarei arreso così facilmente. – Mantieni la calma. Abbiamo altre cose a cui pensare, non credi? Il Frutto dell’Eden, per cominciare.
Il suo sguardo si rabbuiò e il ragazzo abbassò di scatto la testa. – Che cos’è successo? – sibilai puntellandomi sui gomiti, uno strano peso nel petto. – Che cos’è successo?
– Achille non vuole che tu lo abbia.
– Chiedi anche ad Achille quante volte dovresti pisciare al giorno? Porco demonio! – Saltai in piedi con la schiena dolorante e la testa che girava, stringendo forte il comodino. – Dovresti imparare a prendere le tue decisioni da solo. Abbiamo un patto, non ricordi? Io dovrei ucciderti, e qualcuno mi dica perché ti sto risparmiando la vita, cazzo! – Scrollai il capo. – Nessuno di noi ha diritto di proprietà su quel manufatto. Dobbiamo conquistarcelo.
– Non è per voi! – ribadì.
– Indovina? – Allargai le braccia in equilibrio precario, un sogghigno sprezzante in faccia. – Nemmeno questa terra sarebbe per noi, noi coloni! Eppure siamo qui, a sostituire i vostri fottuti accampamenti e villaggi con grandi città, a civilizzare l’inesplorato Ovest! Abbiamo conquistato questa terra con la forza e non ha portato a niente di male, mi sembra.
– L’avete assoggettata!
– Siete sempre così, voi! Sempre pronti a giudicare una parola quando il concetto è lo stesso! Come se tra assassinio ed omicidio ci fosse una qualche differenza! Il concetto è il medesimo, allora perché non chiudete quelle boccacce? – Poggiai di nuovo le mani sul comodino, tremando. – Perché non sei mai completamente dalla mia parte? Sei sempre a cavallo. Non sai di chi fidarti, non sai che scegliere, non sai rispettare i patti perché hai paura di ferire gli Assassini! Credo che sarebbe più facile ucciderti, lo sai?
– Penso la stessa cosa! – sbottò, balzando avanti per raccogliere la sedia. – Sei solo uno stronzo! Non hai saputo fare altro che criticarmi da quando sei arrivato, e…
Arrivato? Questa è bella, questa è proprio bella! – Congiunsi i polsi come se mi avessero legato. – Sono un prigioniero! Non lo ricordi?
– Vaffanculo. Avevo intenzione di parlare seriamente, ma con te è impossibile!
– Solo perché fuggi da ciò che non ti è solito! Bel coraggio, il vostro! Bello davvero! – Imprecai ad alta voce. – Allora, Connor, parliamo seriamente. Che cosa vuoi fare? Sai dove sia John? Sai cosa stia architettando? Sai che cosa voglia fare, sai quando o come distruggerà le armi dei patrioti? Illuminami!
Connor abbassò lo sguardo un’altra volta, stringendo i pugni. – Non resterò con le mani in mano – sussurrò tra i denti sbarrati. – Vuoi un incontro con Kanen’tò:kon? Bene. Lo avrai. Vediamo cosa risolveremo col tuo sistema!
Detto questo girò sui tacchi e uscì sbattendo la porta. Sogghignai e mi lasciai ricadere sul letto con slancio. Avevo un piano, al contrario di lui. Un piano che stava prendendo rapidamente forma nel mio cervello mentre quello del ragazzino restava annebbiato dalla rabbia e da quello stupido Credo. – Allora – mormorai rivolto a Minerva – ho fatto un bel lavoro, no?
 
Mi ero sempre lamentato della cucina di Achille, ma credetemi quando dico che quella di Connor era mille volte peggio. Il pranzo, al quale partecipammo solo noi tre, si svolse in un silenzio quasi totale. Soltanto dopo la quinta cucchiaiata di quella roba disgustosa che Connor aveva osato chiamare cibo Achille aveva alzato lo sguardo su di me, battendo la mano aperta sul tavolo. – Combini sono casini! – sbottò di punto in bianco.
– Ammazzami – replicai con noncuranza, ingurgitando con disgusto. – O ci state già pensando con questa roba?
– Chiudi quella bocca! – sibilò Achille scattando in piedi. Se si alzava per me doveva essere davvero infuriato. – Stai rovinando tutto! Avremmo dovuto lasciarti sulla forca! Ancora mi chiedo perché abbia dato quell’ordine, lo sai?
Abbozzai un sorriso. – Davvero? Io invece credo che tu sappia perfettamente perché lo hai fatto, Achille. – Lasciai cadere il cucchiaio nel piatto, unendo le punte delle dita davanti al volto. – Insomma, un Mentore del tuo calibro non agisce senza pensare, di certo.
Mi fulminò con lo sguardo. – Smetti di sfottere, per una volta! Forse lo sapevo allora, ma penso che avrei fatto meglio a lasciarti morire! Che cos’hai fatto di buono per noi?
– Un Templare è morto. Dovreste esserne felici. Potete fare una bella croce su quegli stupidi quadri che tenete di sotto. – Roteai gli occhi al cielo. – Ho fatto e sto facendo molto più di quanto immagini. Ho ucciso William ed ho sbagliato, d’accordo, ma non avrebbe fatto comodo a nessuno. Gli ho fatto quante più domande possibili, poi… – …poi sono uscito di testa. Semplice, no? – E poi non ho potuto fare altro. Non ci avrebbe aiutato. – O forse sì, ma ormai è fatta. – Prima hai detto che il ragazzo avrebbe dovuto ucciderlo. Ora è morto. Che cos’è cambiato? Hai avuto ciò che volevi. O speravi di ottenere una sua confessione, un suo parere sull’Ordine, le Colonie e tutto il resto mentre esalava l’ultimo respiro? È una cosa poetica, tipica di voi.
Il vecchio avvampò per la rabbia, sul punto di staccarmi la testa con la sola forza del pensiero. – Ecco perché non sarai mai uno di noi! – Non voglio esserlo. – Ecco! Non capisci l’importanza di ciò che facciamo!
– Ho ucciso un uomo che volevi morto anche tu. Qual è il problema, di grazia? – Mi sporsi un po’ verso di lui, le labbra piegate in un sorrisetto. – Forza. Stiamo tutti aspettando una risposta, Mentore.
Achille abbassò lo sguardo, scosse la testa e lo portò di nuovo su di me. – Avremmo potuto sapere almeno dove si trovava Pitcairn. Saremmo stati un passo più avanti, magari. – Sospirò. – E adesso è tutto perduto. Grazie.
– E di cosa? – sibilai scattando in piedi. – Connor, vieni. Ho un indiano da incontrare e credo di aver bisogno di un interprete. Achille, verresti tu? Così almeno potrai controllare ogni mia mossa, esattamente come fai con il ragazzo.
Il Mentore strinse un bicchiere tra le mani e me lo scagliò contro, mancandomi di qualche centimetro e colpendo il muro. Il liquido inzuppò la tappezzeria e i frammenti di vetro si sparsero sul pavimento. Inarcai un sopracciglio. – Benissimo. Vado a sellare un cavallo.
– Vaffanculo! – strepitò il vecchio. – Va’ pure da solo! Connor non verrà con te.
Sogghignai. – Non eravate voi i predicatori della libertà sopra ogni cosa? È una sua scelta, credo. – Lo indicai con un cenno della testa. – Allora, ragazzo? Che vuoi fare?
Ancora seduto a tavola, Connor alzò il suo profondo sguardo cupo, facendolo passare da me ad Achille e viceversa. Sembrava terribilmente in ansia, come se non sapesse cosa scegliere. Ripensai alle parole che gli avevo detto poco prima: “Non sei mai completamente dalla mia parte”. – Bravo, Haytham – sussurrò Minerva nella mia testa. – E dire che iniziavo a dubitare di te.
Connor aprì appena la bocca, umettandosi le labbra. – Io… – Sospirò, scuotendo la testa. – Fate ciò che volete, io me ne vado.
– Tu non vai da nessuna parte – sentenziai, afferrandolo per la giubba e sollevandolo di peso dalla sedia. – Sei davanti ad un bivio. Scegli liberamente. – Ma ricorda che sei in debito con me perché non ti ho ucciso. Ricordatelo, piccolo stronzo. Lo fulminai con la mia occhiataccia migliore.
Ancora, il ragazzo non sapeva che dire. Prese fiato, si grattò l’orecchio e sospirò, poggiando le mani sul tavolo. – Haytham ha ragione, Achille – sussurrò. Per un attimo sorrisi, poi si voltò verso di me. – Ma non verrò con te. Ho altre cose a cui pensare.
Sollevai le spalle. – Tipo?
– Tipo andare in città a vendere i proventi della caccia. – Mi guardò senza battere le palpebre. Conoscevo quell’occhiata, era lo sguardo del: “Tipo allontanarmi il più possibile da te.”
Feci schioccare la lingua. – Se non oggi, Connor, sarà un altro giorno. Se sei un vero Assassino non dovresti avere paura di esprimere un’opinione. Non ti strapperò dalle braccia di Achille, se è questo a preoccuparti. – Il Mentore, notai con la coda dell’occhio, aveva abbassato lo sguardo. Al limite succederà il contrario, ragazzo. – Bene. Devo andare anche io. Buone cose, ci vediamo a cena, credo. Achille, quando comincia il coprifuoco?
Mi mostrò il medio.
Sogghignai con soddisfazione e mi allontanai a passo di marcia, lo stomaco mezzo vuoto ma la testa che lavorava a pieno regime.
Ero così assorto nel mio piano che saltai su un cavallo e mi feci strada verso la frontiera, senza nemmeno sapere dove sarei andato. 

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Capitolo 21
*** Un bravo soldato. ***


Appena avvistai la Federal Hall imprecai tra me e me, chiedendomi chi o cosa m’avesse spinto fin lì, fino a New York. Giubbe rosse che andavano e venivano da ogni parte, patrioti che strillavano, Figli della Libertà che si mettevano in mostra e poveruomini come me che cercavano soltanto di passare inosservati. Riuscii ad entrare in città senza problemi – chissà come mai – ma quando mi resi conto della quantità di soldati presenti fui sul punto di girare il cavallo e tornarmene da dove ero venuto. Perché proprio lì?
Perché avevo bisogno di risposte, ecco tutto.
Arrivato al porto, dei soldati mi si schierarono davanti come se dovessero arrestarmi. – Siete un soldato? – tuonò uno di loro.
– Lo ero – replicai sornione. – Non più. Che cosa succede, aspettate delle reclute?
– Già – grugnì quello stancamente. – Sembra se la stiano prendendo comoda.
Scrollai le spalle, sollevato. – Sono giovani.
– Immagino che voi non siate stato un soldato a trent’anni – replicò lui, e non potei fare altro che assentire. Aveva ragione, per quanto scortese. – Andate.
Non me lo devi chiedere due volte! Li sorpassai, salutando con un cenno della testa, e m’incamminai verso nordovest, verso la base dell’Esercito Britannico a New York. Dopo un po’ di tempo passato alla frontiera, la città appariva caotica come non mai. Uomini intenti a bere, madri che trascinavano i figli a casa, carrozze con nobili a bordo – quella vista mi procurò un groppo in gola, facendomi ripensare alla mia vecchia vita – e giovani mendicanti che per poco non finivano sotto le ruote pur di riceve qualche moneta.
Il forte si ergeva proprio sul mare, sulla costa occidentale dell’isola, ed era orientato verso sud per permettere una visuale migliore. Si sentivano le urla dei generali, il rumore dei tacchi e quel meraviglioso silenzio carico d’obbedienza e timore.
Che, quando ti trovavi nella divisione di Edward Braddock, si tramutava facilmente in terrore. O rabbia, nel mio caso. Non avevo mai conosciuto un uomo tanto malvagio. Tolto Reginald, forse. Almeno il Bulldog era morto. Reginald era ancora vivo, vegeto e pronto a rendermi la vita un inferno. – Che cosa ci fate qui, signore?
Aggrottai la fronte, colto alla sprovvista. Un giovane soldato passava la mano davanti alla mia faccia con lentezza, come davanti ad un bambino piccolo che vede un forte per la prima volta. – Scusate – borbottai passandomi una mano sulla fronte. – Voi siete…?
– Soldato semplice Timothy Buck. Non potete entrare nel forte. – Il ragazzo, che non doveva essere molto più grande di Connor, gonfiò il petto e allungò una mano per darmi una spinta. – Dovete andarvene.
Sospirai. – Non c’è bisogno di usare le maniere forti. Devo solo chiedere un’informazione – dissi scostando il suo braccio. – Per piacere. Non ci metterò molto.
Buck grugnì. – E non potete chiedere a me?
Sollevai gli occhi al cielo. – Ho bisogno di parlare con il colonnello. – Chiunque esso sia. – Credetemi, è una questione importante. Sono stato mandato da Londra. – E non è una bugia. – Per favore.
– Porterò il vostro messaggio.
Feci schioccare la lingua, girandogli attorno con aria di superiorità. – Non è roba da soldati semplici, sapete?
Gli occhi di Timothy Buck divennero due fessure di ostilità. – Non discutete. Perché siete qui? Che cosa volete?
Non mi aspettavo di essere ostacolato a tal punto, ma si sa, a mali estremi, estremi rimedi. – Sua Maestà re Giorgio in persona non ha più notizie di uno dei suoi uomini, il maggiore generale Lee, da molto tempo. Ne sapete qualcosa? – Quello mi squadrò con la fronte aggrottata, come se non avesse mai sentito parlare di Charles. Roteai gli occhi. – L’avevo detto. Non è roba da soldati semplici. – Lo superai con una spallata prima che avesse il tempo di replicare.
– Non potete entrare! – strepitò alle mie spalle. Mi voltai a fulminarlo con un’occhiata. – Non avete nemmeno un mandato!
– La mia parola non basta? – Inarcai un sopracciglio.
– Io… – Il ragazzo impallidì, scosse la testa e scrollò il braccio, frustrato. – Al diavolo. Andate, ma lasciatemi le armi. Ve le riconsegnerò dopo.
Estrassi la pistola dalla fondina e gliela lanciai: Buck la prese con due dita e per poco non si sparò ad un piede. Con un mezzo sorriso, mi avvicinai e gli passai anche la spada. Non la lama celata: dopotutto, sembrava solo una polsiera come tante altre. – Stateci attento – sibilai, voltandomi di nuovo verso l’ingresso del forte. – Anche se suppongo che la vostra intelligenza superiore da soldato semplice non sarà messa alla prova così facilmente – lo sbeffeggiai prima di voltargli le spalle.
Lungo la strada per New York avevo avuto un sacco di cose a cui pensare, prevalentemente la morte di William. Non volevo ucciderlo, ma era qualcosa che, in un modo o nell’altro, sarebbe successa: cercava di mostrarsi agli indiani come un diplomatico, ma non era nel suo stile. Era una versione meno carismatica dello stesso Reginald, e, vedendola in quei termini, capii perché lo appoggiasse. Stessa pasta.
Scansai un paio di spalle sanguinanti, rivolgendo loro miseri cenni di saluto, fino a raggiungere il forte. – Buongiorno – salutai cortesemente le due guardie poste, rigide come pali, davanti all’ingresso.
– Ah! – Uno dei due tossì. – Non è mai un buon giorno, da queste parti. Che volete? Perché siete qui? L’ordine è di non fare entrare nessuno. Perché quel coglioncello là davanti non l’ha ancora capito? BUCK!
Decisi di intervenire a favore del povero ragazzino che m’aveva coperto. – Calmatevi! Calmatevi! – Sollevai le mani in segno di resa. – Sono disarmato. Mi ha mandato Sua Maestà in persona, è una situazione d’emergenza. Ho bisogno di avere qualche informazione sul maggiore generale Charles Lee. Dovrei chiedere al responsabile del forte, ma se voialtri avete qualche informazione non dovete avere timore. – Lo squadrai dall’alto in basso, le mani ancora sollevate. Questa, William, questa si chiama diplomazia. – Potete essermi d’aiuto?
Il soldato mi guardò negli occhi e si grattò il mento, indicando l’altro uomo con il fucile. – Il maggiore generale Lee, dite? Ah, non so. L’ho sentito nominare, certo - stava sotto Braddock, ho ragione? – Non aspettò nemmeno una risposta. – Mi pare che fino a qualche tempo fa fosse a Boston. Perché siete venuto a cercarlo qui, signore?
Ah, non lo so, magari a Boston avrebbero potuto riconoscermi? Dannato idiota. – Io obbedisco agli ordini – sibilai, un po’ irritato. – Boston, dite? Ho saputo che non è più lì da un po’. Per questo sono qui.
– Ah, ma non esiste solo New York nelle Colonie.
Roteai gli occhi. Odio solo una cosa più degli idioti, quelli che fanno gli idioti. – Grazie, soldato. Fatto sta che le basi dell’Esercito Britannico si trovino qui e a Boston, ed essendo un maggiore generale e non un novellino Sua Maestà si aspetterebbe di trovarlo in una di queste città, no? Volete farmi entrare, di grazia? – Cominciavo a capire come si sentiva Achille quando lo irritavo. Non era una bella sensazione, specie se non ci si poteva sfogare su nessuno.
Il soldato sospirò. – Il colonnello è molto impegnato.
– A fare cosa, se posso permettermi?
– Ha un colloquio – sibilò il soldato, avanzando di un passo verso di me. – Con George Washington, cazzo! Con George Washington in persona!
Washington? Mi sfuggì un grugnito sorpreso. Perfetto. – Mi dispiace. Non voglio… disturbare il vostro colonnello. Porrò ancora qualche domanda qui intorno e me ne andrò. Tornerò quando sarete meno occupati. – Presi fiato. – Mi spiace, davvero. Non immaginavo che…
– Serve aiuto?
Ed eccolo lì. Completamente tirato a lucido, la redingote blu, il tricorno, i capelli già bianchi e l’aria seria, ma quel sorrisetto subdolo in faccia nonostante tutto. Il miglior generale dell’Esercito, dicevano. L’idolo dei patrioti e, al tempo stesso, un membro di vecchia data dell’Esercito Britannico. Quell’uomo era un voltafaccia peggiore di Giuda, ma nessuno sembrava notarlo: i due soldati si ricomposero, sistemandosi rapidamente sull’attenti e guardando dritto davanti a loro, le palpebre a malapena battute.
Rimasi lì a squadrarlo per qualche attimo, cercando di capire che cosa rendesse quell’uomo un idolo delle folle: persino Connor lo adorava, rifiutandosi di credere che lo stesso uomo aveva quasi ucciso sua madre. – George Washington. – Mi sforzai di usare un tono che non fosse sdegnato, ma non ci riuscii. Era più forte di me. Perché, bastardo? Strizzai le palpebre e gli porsi la mano con una tranquillità ostentata. Perché l’hai fatto? – Finalmente vi conosco. Siete l’uomo più famoso delle Colonie.
Sorrise appena, guardandomi dall’alto in basso. Mi strinse la mano e le sue labbra si piegarono in una smorfia. Le sue dita, allentando la presa, sfiorarono la polsiera della lama celata. Ricordava. Ricordava quella cavalcata, Tiio che gli saltava addosso mentre cercava di uccidermi e io che correvo nella palude per uccidere Edward “Bulldog” Braddock. – Che esagerazione – sibilò tra i denti, inclinando la testa di lato. – Bene. È stato un piacere. Devo tornare ai miei affari. Arrivederci, Kenway.
Salutando con un cenno della mano, mi sorpassò e percorse lentamente il tratto di strada lastricata che separava il forte dalle comuni strade di New York. Sapeva di avermi in pugno, il bastardo.
E io, in quell’istante, decisi che doveva morire.
 
– Cercate Lee?
– Cazzo!
Sobbalzai come un bambino spaventato dal fratello maggiore, una mano sul petto e l’altra all’elsa della spada. Alle mie spalle, un uomo dall’aspetto tutt’altro che raccomandabile sghignazzava apertamente, in preda agli spasmi delle risate. – Diavolo! – Imprecai ad alta voce voltandomi per osservarlo; dopo aver recuperato le mie armi avevo lasciato il forte di New York e mi ero infilato in città, pensando che se i soldati erano tanto riluttanti potevo sempre contare sul popolo. Ha una propria utilità.
L’uomo, alto poco meno di me, denutrito e con una vecchia giacca indosso, aveva le guance scavate, gli occhi grigi come l’acciaio e un sorriso sdentato bene in vista. Non sembrava assolutamente capace di arrivare alle mie spalle e sorprendermi in quel modo: forse era talmente magro da non fare rumore. – La prossima volta fate un fischio! – esclamai stizzito, abbassando le mani. – Chi siete?
Continuò a sogghignare. – Chiamatemi Tic – bofonchiò, guardandosi intorno. – Forse ho le informazioni che cercate.
– Ottimo. – Un uomo chiamato Tic. Prometteva bene, lasciate che lo dica. – Forza.
– Non qui – sussurrò. – Se le spalle sanguinanti mi trovano ancora in giro mi butteranno a mare con un masso legato alla caviglia! Troviamo un posto più intimo. – Si allontanò grugnendo e, dopo qualche passo, si voltò, accertandosi che lo stessi seguendo.
Io, però, ero rimasto al mio posto. – Sono armato, Tic – esclamai, facendo scattare la lama celata.
Quello grugnì ancora. – Lo vedo. Andiamo. – Fu così che mi ritrovai a seguire le gambe malferme di Tic per la città, cercando di mimetizzarmi e facendo di tutto per evitare le aragoste. Avremmo potuto viaggiare sui tetti, ma Tic sembrava a malapena in grado di reggersi in piedi. Ci addentrammo nella città, superando la Federal Hall e la Chiesa della Trinità, i miei occhi fissi sulla schiena di Tic, che si faceva largo a spallate e spintoni tra la folla, grugnendo di tanto in tanto per assicurarsi che lo seguissi. Le armi costituivano la mia sola possibilità. Quel tipo poteva essere chiunque e avere qualsiasi intenzione, e non potevo fidarmi. Non sapendo che George Washington poteva essere ancora in città.
– Qui. – Girammo attorno ad una piccola casa e arrivammo in una piazzola sul retro. Tic si lasciò andare contro la parete, respirando affannosamente. – Avete dei soldi?
Indicai la borsa tintinnante al mio fianco. – Qualcosa. Perché?
Tic si leccò le labbra. – Perché non parlo senza un boccale di qualcosa davanti. Andiamo. – Silenziosamente, aprì una piccola porta e si fece strada nel buio. – Poco conosciuto e alquanto nascosto. Non avremo problemi. Venite.
Imprecai per seguirlo: non sopporto quando sono gli altri a tenermi in pugno con i loro segreti e le loro conoscenze. Mi faceva sentire impotente, e di solito ero io a rendere impotenti gli altri. – E andiamo – sibilai, seguendo la sua figura tremolante lungo un corridoio che pareva non finire mai. – Si tratta di chilometri? Avrei una certa fretta.
– E di fare che? – replicò Tic con una mezza risata. – Di farvi catturare da Washington? O magari attirare l’attenzione degli Assiani? Avrete tempo per tutto, tranquillo.
Lo seguii ancora, grugnendo, fin quando non incontrammo un’altra porta: ci arrivò il rumore dei boccali che cozzavano, qualche risata e un po’ di musica, ma era così buio che sembrava di essere arrivati nelle viscere della terra. – Ehilà! – Tic spalancò la porta ed entrò in una stanza quadrangolare, le braccia spalancate e un sorriso stampato in faccia. – Come andiamo, eh?
La stanza era ingombrata da cinque o sei tavoli, tutti pieni di gente intenta a bere, chiacchierare o cantare vecchie canzoni. Non avevano facce raccomandabili, ma è in posti del genere che si trovano le informazioni migliori. O, almeno, mi sforzavo di crederlo. Tic si avvicinò al bancone. – Due boccali di birra e un po’ di discrezione, grazie – disse al locandiere con un sorriso sghembo.
– Quel tavolo all’angolo è perfetto, Tic, ma se stavolta non paghi ti butto fuori a calci in culo – sibilò il padrone, un uomo massiccio e barbuto, riempiendo un boccale. – Sappilo. E vale anche per te. – Mi passò il boccale e mi indicò con un cenno della testa.
– Starò attento – bofonchiai sarcasticamente, allontanandomi verso il tavolo.
– Non ti preoccupare, Johnny! – Tic scrollò la mano in direzione del locandiere e mi seguì, sedendosi di fronte a me al tavolo indicatoci. – Andateci piano, d’accordo? Qui non sono tutti gentiluomini come voi. – E mando giù due sorsi, vuotando mezzo boccale.
Seguii con lo sguardo una goccia di birra scivolata lungo il recipiente e guardai Tic di sottecchi. – Immagino che tu non mi abbia portato qui solo per bere, giusto? Hai delle informazioni su Charles Lee?
– Più o meno – replicò battendo il boccale sul tavolo. Gli altri clienti continuarono ad ignorarci. – Ascoltatemi un po’. Ho visto Lee salpare qualche mese fa dal porto di New York. Ricordo chiaramente la sua faccia. Un sacco di gente lo guardava, si sentiva qualcosa di strano nell’aria! Eppure lui non ha detto una parola. Non c’erano giubbe rosse, nessun soldato, una ciurma comune e un carico di casse. Casse, casse e casse. Non ho idea di cosa ci fosse dentro.
Casse? Partito? – E dove stava andando? – Mandai giù la birra con il cuore che batteva più in fretta.
Tic fece spallucce. – Ah, non lo so. Ero solo uno spettatore, sapete, ma credo di aver visto abbastanza. Hanno fatto rotta verso sud, e, all’inizio, ho pensato che volesse girare attorno all’isola per andare a nord. Invece no!
– No? – Bevvi ancora.
– No! Continuò verso sud, sud, sud, finché non mi sparì da davanti agli occhi. E che diavolo è andato a fare a sud? – Tic mandò giù l’ultimo sorso di birra, ridendo.
Rimasi zitto per un istante: possibile che Charles fosse partito per il sud? Cosa c’era a sud? Mi grattai la tempia, cercando di concentrarmi, e vidi Tic strabuzzare violentemente gli occhi, serrando d’improvviso le dita attorno al boccale. – Tic?
– Torneranno – sibilò, le nocche bianche strette al manico. – Lo sapete? Quando meno ve lo aspettate, quando penserete di aver vinto… Bum! Lui sarà qui. Tutto ciò per cui avete lavorato sparirà.
– Vattene! – strillò Minerva nella mia mente. Un’altra volta. Con un gemito, mi portai le mani alla testa, lasciando cadere il boccale sul tavolo. – Stai influenzando chi non è destinato a sapere! Stai sporcando la mente dei deboli!
– Ti sto aiutando! – Un’altra voce, più forte. Giunone, sicuro. Tic crollò a terra, svenuto: fu l’ultima immagine che mi passò coscientemente davanti agli occhi, poi serrai le palpebre e la mia testa esplose in un’onda di luce bianca. Avevo più un corpo? Non lo so, ma non lo sentivo. Solo bianco.
– L’Aquila! – strillò Minerva. Seguire quelle due era complicato come le lezioni di Fayling durante i pomeriggi di gioco delle sorelle Dawson. – Aiuti l’Aquila! Credi che possano agire meglio! Vuoi portarli dalla tua parte. Credi che saranno così stupidi da agire in tuo nome.
– E lo faranno. – Un lampo più accecante, come il sole attraverso una finestra. – Li conosco meglio di quanto tu possa credere! Li seguo da secoli! Obbediranno.
– Non lo porterai con te – sibilò Minerva di rimando. – È la mia pedina!
Se avessi avuto la forza di replicare avrei pensato un bel: “Pedina a chi?”, ma la mia testa era trapassata da continue scariche di dolore. Provai ad aprire gli occhi, ma avevo la vista offuscata da lampi bianchi. Immagini di due donne dalla pelle diafana, una con una specie di elmo e l’altra con una strana acconciatura e un lungo velo in testa, erano impresse a fuoco all’interno delle mie palpebre. – Le pedine, mia cara, sono di chi le gioca meglio. Forse finirò per mangiarlo.
Minerva rise, cristallina. – Sei sempre stata furba, Giunone. Che cosa ci fai qui, ora? Torna al tuo posto! Non è uno dei tuoi tirapiedi e non lo sarà mai.
– Tirapiedi? Tirapiedi? Il mondo sarà migliore!
– Certo. Certo. Oggi come allora, Giunone. Oggi come allora, ricorda. E adesso vattene.
Questa volta fu Giunone a ridere: un suono strano, a metà tra quello di un triangolo e quello fastidioso di un coltello battuto contro una bottiglia di vetro piena. – Non puoi scacciarmi! Non sei così potente! Un servo della Croce… Credi davvero di potermi fermare? Dopo tutti questi anni, Minerva! Ti avevano nominata dea della saggezza. Certo.
– Vattene, ho detto! – Minerva sembrava infuriata. Peggio di un litigio tra me, Connor ed Achille. Non erano solo parole, erano lampi di continuo dolore diretti verso il mio cervello, il mio cuore, ogni organo del mio corpo. Perché erano entrambe dentro di me, a lanciarsi simpatiche frecciatine, e io non potevo farci nulla. – Adesso! Torna al seguace dell’Aquila.
– Credi di potermi sconfiggere?
– Vuoi scommettere?E un attimo dopo ci fu solo un altro urlo, come se qualche gigantesco ordigno fosse esploso direttamente nella mia testa spazzando via Giunone, spaccando le pareti della mia testa e lasciandomi, morto, mezzo steso sul tavolo di una locanda segreta di New York.
 
No.
L’onda d’urto, al contrario, mi fece quasi uscire gli occhi fuori dalle orbite, costringendomi a battere le palpebre e stringere il bordo del tavolo fino a farmi diventare le nocche bianche. Di fronte a me, Tic era ancora stramazzato a terra e nessuno sembrava curarsene: aveva il capo mollemente reclinato all’indietro sulla seduta, le braccia ciondolanti lungo le gambe della sedia. Mi lanciai un’occhiata guardinga intorno: nessuno sguardo puntava apertamente nella nostra direzione, ma parecchi ci lanciavano occhiato furtive con la coda dell’occhio.– Tutto bene, amico? – brontolai con la massima naturalezza che riuscii a raccogliere in quel momento. Non era facile dopo aver assistito impotente all’ennesimo litigio tra spiriti con tanto di duplice possessione del mio corpo.
– Ugh. – Tic gemette. Cominciavo a sentire gli occhi del locandiere e degli altri clienti trafiggermi la schiena.
Avvampai, serrando appena i denti. – Ah, amico – borbottai afferrandolo sotto le braccia e sollevandolo. – Pensavo reggessi meglio l’alcool! Incredibile – scrollai il capo in un amichevole cenno al locandiere, avviandomi verso l’uscita. Idiota. – Vecchia spugna, altro non sei! – Rivolsi un cenno di saluto al padrone del posto – sentendomi decisamente stupido – e quello spalancò la porta squadrandomi dall’alto in basso, come per invitarmi caldamente ad andare via con quell’altro cretino il più velocemente possibile. Quando la porta mi si chiuse dietro le spalle, grugnii esasperato. – E tu – brontolai a Minerva – tu mi devi delle spiegazioni. Tu e quell’altra che adesso non so dove si sia infognata.
– Sei troppo suscettibile, servo della Croce.
– Suscettibile, irritante, bla, bla, bla. Non sentivo queste cose da un po’, sai? – Sistemai meglio il braccio di Tic attorno alle mie spalle e proseguii lentamente lungo il corridoio buio. – Allora. A quanto ho capito era dentro Tic. Che ci faceva? Pensavo fosse legata al ragazzo.
– È stata una sciocca scellerata – sibilò Minerva, la voce piena d’astio, come se avesse sulla punta della lingua decine di aggettivi molto più poetici di “sciocca scellerata” per descrivere Giunone. – Ha colpito un debole, uno di voi. Uno di quelli che non sopravvissero. Pagherà.
Imprecai a mezza voce. – Certo. Naturale. Forza, voglio una spiegazione come si deve.
Minerva sospirò. – Siamo pur sempre spiriti.  Nessuno luogo è inaccessibile, nessun chiavistello indistruttibile. Non possiamo morire, ma possiamo rinascere, viaggiare attraverso le epoche e i luoghi.
Sì, così potete rompere i coglioni a più generazioni nello stesso momento. Non riuscii a trattenermi dal pensarlo e Minerva fece trapassare la mia testa da un’ennesima scossa di dolore. – Suscettibile ed irritante, già – sibilò, facendo schioccare la lingua. – Sembra che Giunone viaggi più facilmente attraverso di voi.
– Noi… Noi Kenway?
– Il sangue dell’Aquila. Servo della Croce, figlio dell’Aquila. Da generazioni. E così deve essere.
Roteai gli occhi e, collegando silenziosamente qualche pezzo di quell’assurdo rompicapo, trasalii. – Mi stai dicendo che Giunone era dentro di me ed è passata a Tic senza che te ne accorgessi? Siete proprio onnipotenti.
Minerva emise un verso di scherno. – Se lo fossimo non avremmo fatto questa fine.
– Giusto – commentai. Stavo camminando a passi minuscoli, facendo di tutto per prolungare la mia conversazione con Minerva. Volevo capire. Uno spirito dentro di me era già troppo. – Se lo foste non avrei queste voci in testa e magari non rischierei di svenire ogni tre secondi per i vostri litigi.
– Vuoi ascoltarmi, servo della Croce, o non ti interessa? Zitto – sibilò Minerva con stizza. – Giunone segue il sangue dei suoi servitori. I seguaci dell’Aquila sono sempre stati legati a noi, esattamente come lo sei tu. E ti dirò di più. Lei ha dei piani per te. Una parte della sua essenza, quella che ha quasi ucciso il tuo amichetto, si sta annidando nei meandri più profondi della tua mente, dove nemmeno io posso scacciarla. Dovrai conviverci o sconfiggerla.
Sospirai, abbandonando Tic a terra e facendo scrocchiare la schiena. – Quindi sarò costretto a convivere con una o, nel peggiore dei casi, due di voi? Sembra carino – bofonchiai, le spalle poggiate al muro. – Che cosa intendeva per “quando meno ve lo aspettate, tutto ciò per cui avete lavorato sparirà”? Non suona bene.
– Lei è subdola. Non lasciarti abbindolare.
– In altre parole, non ne hai la minima idea.
– Lei forse no. – Di nuovo quell’altra voce. Una nuova scarica elettrica in testa. Giunone, bentornata nella mia mente. – Ma io sì. Seguimi, servo della Croce, figlio dell’Aquila.
– No! Aspet-…
E tutto si fece buio.
 
Il rollio di una nave, lo sciabordio delle onde contro lo scafo. Il senso di vomito più forte che mai. Un momento. Come facevo ad avere la nausea? Avevo… un corpo? Dove mi trovavo? Oh, lasciamo perdere.
Ero su una barca. Una nave. Sottocoperta, un esiguo ambiente occupato da una scrivania coperta di libri era illuminato solo grazie ad una piccola lampada ad olio appesa al soffitto: davanti alla scrivania, un giovane uomo sfogliava avidamente i libri, imprecando a mezza voce. – Deve esserci un altro modo – borbottò, i capelli unti, neri e lunghi che ricadevano sulla fronte fin quasi a coprire gli occhi azzurri e freddi come il ghiaccio. – Signor Birch, deve esserci un altro modo.
Nella cornice dell’uscio, improvvisamente, apparve l’uomo che più odiavo al mondo: impeccabile anche senza parrucca bianca, i capelli castani radi e i vestiti perfettamente stirati, sembrava appena uscito dal bagno. Di certo non avevo lo stesso aspetto durante il mio viaggio sulla Providence. Reginald giocherellava con l’amuleto che mi aveva strappato, roteando la cordicella in modo irritante. Avrei voluto strangolarlo con le mie stesse – inesistenti? – mani. – Non ne sarei troppo sicuro, ragazzo mio. In fondo, è pur sempre il Grande Tempio. – Avanzò con un sorrisetto, passando le mani sulle ruvide pagine dei libri. – Perderebbe il proprio fascino se fosse facile da aprire, no? Come ogni cosa. Ciò che otteniamo facilmente smorza il nostro entusiasmo. – Allungò istintivamente una mano verso il ragazzo dietro la scrivania, facendo camminare le dita lungo il suo braccio. – Vero, Charles?
Se avessi avuto un corpo, avrei battuto le palpebre per lo stupore. Charles. Santo cielo.
Il ragazzo si ritrasse appena, sbiancando. Ragazzo. Aveva più di quarant’anni, eppure sembrava così piccolo. Indifeso, ecco. – Signore, non possiamo rischiare fino a questo punto.
– Ho sempre amato i rischi, ragazzo mio. – Le sue lunghe dita sfiorarono la guancia di Charles. Dio santissimo. – Sempre. Anche mandare Haytham Kenway qui è stato un rischio, ma si è rivelato produttivo. – Sorrise, portando la mano fino all’orecchio di Charles. – Raggiungimi in cabina. – Si sbottonò i calzoni e mi parve che la nave si muovesse con più energia. – Abbiamo un lavoretto d’altro genere da portare a termine.
Reginald si allontanò fischiettando e Charles abbassò lo sguardo sui libri, imprecando di nuovo. Era pallido come un cencio, e qualcosa mi disse che non era solo a causa del mal di mare. Avevo capito che cosa non andava, come Reginald era riuscito a portare via Charles.
E, un attimo dopo, capii come era riuscito a portare via me.
 
Era successo per la prima volta qualche tempo dopo la morte di mio padre. Reginald Birch mi era sempre apparso come un eroe, nonostante avesse litigato con lui poco prima della sua morte e avesse quasi ucciso un uomo fuori da White’s. Era elegante, parlava bene, curato e sembrava conoscere ogni cosa. Riferiva avvenimenti dannatamente interessanti, entrando nello specifico per quanto riguardava l’Europa, il Nuovo Mondo e il denaro, molto denaro.
Ah, e le sue vecchie storie.
Non mi raccontò le storie dei Frutti dell’Eden e dei Precursori, quella volta. Gli piacevano le grandi storie, e quel giorno aveva scelto di raccontarmi l’Iliade. Achille, la guerra, gli eroi. Una storia trita e ritrita da secoli, ma che non perdeva mai il proprio fascino.
– Pare che – aveva detto ad un certo punto – Achille avesse uno stretto rapporto con Patroclo.
Avrò avuto sì e no quindici anni. Non ero mai stato con una ragazza, santo cielo, ero pur sempre il signorino Haytham! – Erano molto amici, signore.

Aveva riso con malizia. – Certo. Amici, migliori amici. Uccideresti per i tuoi amici, Haytham? – Non ne avevo. – Certo – continuò senza aspettare una risposta. – Hai ucciso per salvare tua madre.
– Che intendete dire, signore?
– Achille era disposto a tutto per Patroclo, come tu sei disposto a tutto per tua madre. Tessa. – Abbassò lo sguardo e strinse i pugni. Non ero riuscito ad individuare l’ombra di falsità nel suo sguardo. Mi fidavo ancora di lui. – Come io sarei disposto a tutto per riavere Jenny.
Ero rimasto in silenzio. Avevo giurato di ritrovarla, di salvarla, dovunque essa fosse, e vendicare mio padre. Ero uno sciocco, un ragazzino stupido che credeva nel potere della vendetta.
Un momento, no. Ci credo ancora, e non so se sia un bene o un male.

Ad ogni modo, lo avevo guardato con tristezza, sentendo gli occhi bruciare. – La troveremo, signore. Avrete tempo.
Reginald avanzò di un passo verso di me, girando attorno alla mia sedia, e ripeté quel gesto con eleganza e naturalezza: si slacciò i calzoni. – Forse – sussurrò. – Però direi che, nel frattempo, un buon soldato dovrebbe accontentarsi di ciò che offre la mensa. – Aveva passato la mano sulla mia guancia come su quella di Charles. – E tu sembri decisamente un piatto appetitoso. Assomigli tanto a tua madre, Haytham.
Me l’avevano detto in tanti, forse in troppi. Assomigli tanto a tua madre, Haytham. Da grande sarai come tuo padre, Haytham. Eppure nella sua voce c’era qualcosa di diverso. Lasciò scorrere la mano verso il basso, lungo il mio petto, fino al punto in cui la camicia era infilata a forza nei pantaloni. Aveva sorriso, allora. – Queste sono cose che piacciono ad un certo tipo di persone, Haytham. So che non mi deluderai. – No, assolutamente, non potevo deluderlo. Non io, che assomigliavo così tanto a mia madre. Non io, il suo piatto appetitoso.
Mi infilò la mano nei calzoni e per poco non caddi dalla sedia, sbiancando. – Ti piacerà, Haytham. L’affetto è il miglior metodo d’apprendimento. – Scostò il bordo dei pantaloni con una certa soddisfazione e cominciò a muovere la mano. Sentii il vomito risalire dallo stomaco, su per la gola e in bocca, ma lo rigettai giù. Un bravo soldato non solo deve accontentarsi di ciò che offre la mensa, ma deve obbedire agli ordini. –Ti piacerà, Haytham – ripeté.
E poi l’addestramento ebbe la meglio sullo stato di torpore in cui ero caduto. Il mio collo scattò da sé, in maniera totalmente istintiva, e la mia testa si sporse in avanti. La fronte ricevette l’impatto col suo mento e uno scricchiolio mi risuonò in testa mentre le mie mani si allungavano alla cieca, afferrandolo per la camicia e spingendolo indietro con una forza inaudita per un ragazzino di quindici anni. Una forza in grado di mandarlo gambe all’aria con la sedia, un rivoletto di sangue che gli usciva dalla bocca e le mani sulla faccia. Il gonfiore all’altezza del cavallo dei pantaloni si attenuò di colpo: probabilmente tutto il sangue aveva cambiato direzione per correre verso il labbro spaccato e la lingua morsa in malo modo, oppure da laggiù non gli ricordavo più mia madre. Chi lo sa. – Kenway – sibilò con la bocca piena di sangue, così suonò: “Fenway”. – Fei frofrio come tuo fadre. – Si alzò in piedi a fatica, la mano sinistra al labbro e l’altra sollevata. Forse sarei dovuto scattare indietro, sottrarmi alla sua presa, ma l’effetto dell’adrenalina nelle mie vene se ne era andato così com’era venuto. Ero impotente. Mi afferrò per il collo e mi sbattè contro il muro, sputacchiando sangue sulla mia faccia mentre parlava. – Adeffo io vado da un mefico – sussurrò stringendomi per la gola. – Fuando farà fornafo, tutto quefto cafino farà fparito. E fu non oferai mai fiù comfortarti in quefto modo. Mai. Fiù. – Risucchiò disgustosamente un grumo di sangue e me lo sputò addosso, sulla guancia. – Farai difponibile, Fempre. E on penfare fe io non ti conofca, Fenway. – Sogghignò, i denti sporchi di sangue in bella mostra tra le labbra spaccate. – Farai difponibile – ripeté. – Fempre.
Mi lasciò cadere a terra di schianto e colpì il mio torace con un calcio, abbandonandomi lì, rannicchiato a terra con i calzoni ancora mezzi sbottonati, la camicia e la faccia macchiate di sangue, il petto dolorante e il terrore a soffocarmi dall’interno.
Sarai disponibile.
Mio padre non avrebbe mai permesso una cosa del genere. O forse… forse ero io ad essere strano. Forse era davvero un metodo educativo che non riuscivo a comprendere. Ero così ingenuo, mi fidavo a tal punto di Reginald da credere che lo facesse per me.
Sei proprio come tuo padre, Kenway.
Sapeva che non era stato facile per me partire e lasciare mia madre dopo la sua morte. Cercavo sempre di evitare di pensare a lui, ma appena qualcuno pronunciava il suo nome appariva nella mia mente come l’ultima volta, quando lo avevo visto combattere valorosamente e poi soccombere.
Sarai disponibile.
Mi rannicchiai in un angolo, le ginocchia strette contro il petto e la faccia affondata tra loro.
Sempre.
Scoppiai in lacrime.
Da quel momento, lo sarei stato. Per la paura, forse perché in parte lo ammiravo, perché era un uomo persuasivo. Così persuasivo da spaventarmi. Pensate cosa avrebbe potuto fare con una Mela dell’Eden.
Sempre.
Che razza di maledetto bastardo.
Ma allora non lo pensavo. Mi terrorizzava e lo ammiravo, tutto lì.

Ecco ciò che gli Assassini non capiscono. Non sanno quanto si possa ottenere con la paura e
l’ammirazione. Non ne hanno idea.


ANGOLO AUTRICE:
Salve a tutti!
*si fa scudo con le mani* D'accordo, sono una persona cattiva per questo cliffhanger, ve lo concedo, ewe.
E sì, sbuco sempre nei momenti più inopportuni. Scusatemi, -.-"
Ad ogni modo, volevo ringraziarvi tutti per le recensioni e le visite, grazie mille, e poi vi annuncio che il prossimo capitolo sarà pubblicato tra due settimane, perché la prossima sarò in gita, ;)
Immagino che Haytham mi odierebbe profondamente per la piega fatta prendere alla storia, lo capisco :3
Detto questo vi saluto di nuovo, *.*
Ciao, e grazie ancora!

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Capitolo 22
*** Due piccioni con una fava. ***


Sbarrai gli occhi, la mascella serrata e i denti che tremavano. – No.
Sentii il sapore del vomito in bocca – sul serio, questa volta – e rimisi lì, in mezzo al corridoio buio della locanda, steso accanto a Tic con i polsi schiacciati contro le tempie. – No, no, no, no, no, no…
Quella voce, la voce maschile e familiare che sentivo sempre quando Minerva e Giunone entravano in conflitto. Quelle parole mielose, affabili e misurate, ah!, come poteva non essere lui? – Lo uccido – sussurrai tra i denti, pulendomi la bocca con il dorso della mano. – Lo uccido!
Mi parve quasi di sentire una mano sulla spalla. – Una sua pedina – ripeté Minerva con quel suo solito modo di fare realista. – Sei sempre stato una sua pedina.
Roteai gli occhi al cielo e gli abbassai di colpo. – Grazie – gemetti. Cominciò a tremarmi il mento.
Poi, silenziosamente, mi rannicchiai con la testa tra le ginocchia, le braccia attorno alle gambe e cominciai a piangere, il corpo scosso dai singhiozzi e le lacrime che si confondevano al vomito.
Non riuscivo a crederci. Reginald era riuscito ad avvicinare me e Charles, aveva strappato entrambi dalla loro figura paterna e ne aveva preso il posto, facendoci crollare. Non ci aveva solo usati per gli scopi dei Templari, ci aveva usati per il suo piacere personale. E aver rimosso tutto mi mandava in bestia. Se avessi fatto più attenzioni a quelle voci… forse Giunone voleva solo aiutarmi, in fondo.
“Il problema è Charles”, aveva detto Thomas. Perché? Perché Charles era il più vicino a Reginald e voleva allontanarsi, ma Reginald Birch non permette a nessuno di ribellarsi, non quando ti tiene in pugno, stretto per il collo e per l’uccello. Santo cielo.
Mi passai le mani sugli occhi, cacciando le lacrime. Avrei dovuto provare una voglia di ucciderlo ancora più forte, invece mi sentivo vuoto. Squassato, scosso, profondamente turbato, certo, ma vuoto. Avevo solo voglia di sedermi e sospirare, pensando a tutto il male che Reginald mi aveva fatto, assimilandolo, cercando di trasformarlo in qualcosa di meglio.
Ma chi voglio prendere in giro, io, che conosco bene la morte? A chi voglio darla a bere? Ho ucciso uomini per anni. Ho covato rancore, ho tagliato gole, soffocato un uomo con una moneta e una sciarpa, ho squarciato ventri e guardato vite scivolare fuori dai corpi per inzaccherarmi gli stivali. Pochi altri possono dire con più sicurezza di me che, per esperienza, dal male si genera solo male. Possiamo provare a tenercelo dentro, a stritolarlo, a prenderne le parti migliori, ma qual era, nel mio caso? Dov’era il lato positivo della situazione, eh?
Non c’era.
Non si è mai stanchi di fare del male, quando lo si riceve. Mai. Per cui, andiamo, non sono la persona giusta per dire che dal dolore si può trarre qualcosa di buono.
Chiedetelo agli Assassini.
 
Scrollando il capo e passandomi le mani più volte davanti agli occhi, sussurrai a Minerva e Giunone: – Potete tenerlo addormentato ancora un po’? – indicando Tic con un cenno del capo.
Giunone ridacchiò. – Gli mostrerò qualcosa di terribile – bofonchiò, e un attimo dopo la sentii scivolare via.
– Immagino che tu sia un’esperta in questo genere di cose – sussurrai mentre il corpo di Tic fremeva, s’irrigidiva e tornava molle come quello di un cadavere non troppo vecchio davanti ai miei occhi.
Lo spirito tornò dolorosamente dentro di me. – Ecco fatto. Siamo soli.
Minerva sbuffò. – Perché l’hai fatto? Stai infrangendo leggi antiche. Avrebbe dovuto scoprirlo in seguito – sibilò, rabbiosa. E io cosa avrei dovuto dire, eh? – Sei stata crudele.
– Chi non può sapere necessita di motivazioni. Spinte ad agire – replicò Giunone.
– Gran bella giustificazione – bofonchiai con i gomiti sulle ginocchia. – Io direi piuttosto che mi state usando. Tutte e due. Non so che cosa vogliate e so che non me lo direte se non attraverso fottuti indovinelli. – Mi sfuggì un singhiozzo immotivato e dovetti tapparmi la bocca con la mano, imprecando.
Giunone sembrava quasi dispiaciuta, quando parlò. – Dovevi sapere, servo della Croce. Il mondo è un posto difficile da comprendere. Ti serve la conoscenza, quella che vi abbiamo sottratto nei tempi remoti.
Scossi la testa. Quelle storie familiari, le stesse a cui Reginald mi aveva fatto appassionare, non facevano altro che mandarmi in bestia. – Come hai recuperato quei ricordi? – brontolai. – Avevo… avevo rimosso tutto.
Giunone ridacchiò ancora. – I recessi della tua mente. Un brutto posto, devo ammetterlo. Tutto ciò che non vorresti mai aver fatto o subito è nascosto lì. Insieme con i tuoi desideri più primordiali e i più brutali istinti. Persino Minerva non aveva mai esplorato quella zona.
– Non è così, sanguisuga – ribatté Minerva tra i denti. – Io lo trovo un atto scorretto, persino per te. Non avresti dovuto.
Giunone esplose in un indignato: – Ah! E che cos’altro potevo fare? Lui è in pericolo.
Ne avevo abbastanza di quel litigio stupido, delle voci di Minerva e Giunone che si rincorrevano nella mia testa seguite da quelle di Reginald, Charles, Thomas, mio padre. Era come se stessi per scoppiare. – Basta! – sbottai con gli occhi lucidi, e si zittirono entrambe per un secondo. – Basta. Piuttosto, perché siete finite entrambe dentro di me? Perché Giunone non è rimasta da Connor?
– Per aiutarti – sussurrò Giunone, melensa.
– Uhm – ribatté Minerva – io direi più per abbindolarti. Tu vuoi che l’abbiano loro! Vuoi fiaccare il suo spirito! Non te lo permetterò.
Sospirai. Avevano già ricominciato. Mi passai una mano sulla fronte. – Meno fiaccato di così si muore – borbottai in risposta. Non ce la facevo più.
– Ma devo ammettere che la tua testa è  molto più interessante di quella del ragazzo – sibilò Giunone. Mi sentii di nuovo come quando Reginald mi faceva spogliare prima del bagno e mi girava attorno, squadrandomi bene per controllare “i risultati dell’addestramento”, certo. E ricordarmi quanto somigliassi a mia madre. Un altro ricordo represso, probabilmente. Dovetti mordermi le labbra per non ricominciare a piangere. – Ci sono il rimorso, l’indecisione, l’intelligenza, la crudeltà, ma anche tanta determinazione e un gran fegato.
Scrollai le spalle. – Forse è merito di tutto quel grog. – Per la cronaca, gli spiriti non hanno affatto il senso dell’umorismo. Non quelli che ho conosciuto io, almeno. Per niente.
Giunone mostrò tutta la propria disapprovazione schioccando la lingua e continuò. – Il ragazzo è più semplice. Non ha vissuto ciò che hai vissuto tu, ha un po’ d’odio in corpo che cerca di usare come combustibile per le sue azioni, ma non gli riesce bene. Credo sia più un uomo da, come la chiamate voi?, pace diplomatica.
– Il tipico Assassino – mugugnai di rimando.
Minerva ridacchiò. – Una volta ho parlato con un Assassino. Anche Giunone l’ha conosciuto, ma lei ha sempre avuto una predilezione per i seguaci dell’Aquila. – Il tono di Minerva si era fatto decisamente acido. – Quell’uomo, Haytham, si chiamava Ezio Auditore da Firenze. Un Mentore.
– Ne ho sentito parlare – grugnii. Il famoso Assassino affabile: e chi ci credeva?
– Io non sono pressante come Giunone. – Sentii una scossa in testa, come se si fossero scambiate uno sguardo di fuoco. – Lei è brava ad infilare e tirare fuori i fatti dalla mente delle persone. Io guido per aprire gli occhi in modo autonomo.
– Infatti spesso non sai ciò che fai – sibilò Giunone.
Minerva imprecò in una lingua molto antica: somigliava al latino, ma sembrava ancora più vecchia. – Non siamo qui per parlare di questo. In fondo, Haytham ha ragione.
– Come sempre. – Un lampo d’elettricità m’infiammò il cervello. – Ehi! Irritarvi è il minimo che possa fare, occupate clandestinamente la mia testa! Santo cielo!
– Zitto – prosegui Minerva. – Pare che Reginald abbia trovato un modo per aprire il Grande Tempio.
Un modo che non convince Charles, pensai. Ecco un altro dei motivi per cui rappresentava un problema. Per un secondo mi chiesi cosa Reginald gli avesse detto di me. Scrollai il capo: non volevo pensarci. – Avete idea di ciò che vuole?
– No – sussurrò Minerva. – Non ne hanno parlato, purtroppo. È qualcosa scritto su un libro, hai visto anche tu.
I libri! Ecco cosa c’era nelle casse portate sulla nave. Come avevo potuto non pensarci, diavolo? – Bene. Giunone?
– Mi hai sentita, no? – rispose lo spirito. – Il tuo nemico sa come e quando colpire, quando distruggere tutto ciò a cui hai lavorato. Che ti importa? Succederà, che tu ne sappia qualcosa oppure no.
– Oh, certo, hai ragione! Si tratta solo della mia vita, maledizione! Non ho il diritto di sapere, scusate!
– Cerca di controllarti, servo della Croce – sibilò Minerva.
– Forse! Quando smetterete di trattarmi come se non avessi voce in capitolo! Come se fossi… – ricordai le loro parole – …una pedina.
Le due voci si chiusero in un silenzio impietoso per qualche secondo: magari stavano parlottando tra loro e, in qualunque caso, non potevo farci niente. – Grazie tante. Quindi non ho nulla. – Solo la mente scombussolata e il cuore, se ancora ne possiedo uno, a pezzi.
– Ti ci abituerai – mormorò di nuovo Giunone. Bentornata sul palcoscenico.
– Certo – sbottai. Ne avevo abbastanza dei loro stupidi giochetti. Quella Giunone, poi, mi faceva venire voglia di spappolarmi il cervello con un colpo di pistola solo per non sentire più la sua voce. Cazzo. – Perché tu sai come ci si sente, vero? Anche tu sei stata violentata dall’uomo che più ti era vicino, dall’uomo che aveva ucciso tuo padre per prenderne il posto tra i tuoi affetti? Mi chiedo come facevo a non sapere niente di questa storia! Vaffanculo, per l’amor del cielo. Andateci entrambe.
Giunone emise uno strano sbuffo, come se fosse trasalita. – Sei terribilmente sciocco – sibilò quasi con rabbia. – Anche io ho dei sentimenti. Li avevo. Anche io so amare, Haytham.
– Non mi interessa! – urlai quasi, le mani in testa. – Sono scombussolato, maledizione! Guardami! – Mi tremavano le mani come in pieno inverno. – Credi che sia facile?
– Ascolta. Non puoi farti buttare giù da lei, o vinceranno. – La voce di Minerva sembrava più corporea. – Devi scoprire cosa vuole Birch. Fermarlo. Arrivare al Grande Tempio e fare la cosa giusta.
Sospirai. – E se non volessi?
– Potremmo sempre ucciderti. Farti uscire di testa. Dare di matto. – Giunone pareva quasi eccitata all’idea.  
– Grazie, spirito dei dizionari – sibilai stizzito. Giunone imprecò nella stessa antica lingua di Minerva.
– Potrei farti vedere qualcosa di peggiore, servo della Croce. Potrei ucciderti con uno schiocco di dita.
Scoppiai a ridere, una risata stridula, folle ed irreale. – Eppure ti servo. Siete così potenti da potermi uccidere, da controllare la mia mente, ma non abbastanza da cavarvela da sole. – Continuai a ridere, la mano davanti agli occhi. – Incredibile!
Minerva sospirò. – Lasciamo perdere. Ora sai ciò che devi fare. Ferma Birch. Ti spiegheremo in seguito.
Grugnii. – Sembra facile. Lo infilerò tra l’omicidio delle due e l’ora del tè. – Nessuna reazione da parte loro.
Al mio fianco, Tic si riscosse. – Meglio andare – sussurrai, prendendolo di nuovo per la camicia, sotto l’ascella, e caricandomelo sulla schiena. – Signore, serriamo i ranghi e stiamo uniti. Ah, e se si potessero evitare la possessione di uomini comuni, i litigi e l’assenza di una qualsiasi reazione alle mie battute sarebbe la scampagnata più bella del mondo.
Uscii da quel posto come vi ero entrato, insieme a Tic, eppure dei ricordi – chiamali ricordi, erano cose terribili, avvenimenti che avevano e avrebbero segnato la mia vita da quel momento in poi – e uno spirito in più erano riusciti a scombussolare completamente la mia mente.
 
Girare con un uomo sulle spalle non contribuisce a tenere in piedi la facciata del perfetto colono, per cui svegliai Tic con un paio di violenti ceffoni sul retro della locanda. Non l’avrei portato in giro per un passo in più, questo era certo. – Che? Cosa? La birra, io… – S’impappinò una decina di volte prima di riuscire a tirare fuori un eloquentissimo grugnito, sputare per terra e sibilare: - Ai vostri ordini, signore.
Sollevai un sopracciglio. – Ben svegliato, Tic. Ricordi qualcosa? – chiesi con un mezzo sorriso. Finché Minerva e Giunone mi avrebbero dato tregua sarebbe andato tutto benissimo.
Si grattò la fronte con le unghie sudice e sospirò. – Uh, sì. Cioè, no. No, niente. Ricordo di avervi già visto da qualche parte, ma non vi conosco. – Sbarrò gli occhi di colpo e portò la mano alla cintura, stringendola attorno all’elsa di un coltellaccio smussato. – Siete un soldato britannico?
Ridacchiai. – Sì, di quelli misericordiosi – ironizzai, tendendogli la mano per aiutarlo ad alzarsi in piedi. – Ci siamo messi a parlare, poco fa. Mi hai portato qui e abbiamo bevuto un po’. Sei svenuto intorno al decimo scotch. Scotch d’importazione, non sapevo avessi gusti raffinati.
– Cosa? – Per poco non cadde di nuovo gambe all’aria. – Scotch? Impossibile! Ditemi che non l’ho fatto! Ditemi che non l’ho fatto! – Cominciò a bestemmiare a mezza voce e sorrisi. Sì, dovevo liberarmi dal dolore sfogandomi su qualcuno più debole di me. Chiunque. E Tic era a portata di mano.
– Ho pagato io per te – risposi sfiorando appena il borsello tintinnante. – Quindi hai un nuovo debito, ragazzo.
Tic imprecò e singhiozzò, crollando a terra e stringendo le mani intorno alle mie ginocchia. Come nell’Iliade, pensai d’istinto. Maledizione! – Vi prego, vi prego, pagherò, prenderò dei soldi, farò tutto quello che vorrete, ucciderò anche, ma lasciatemi in vita! Ho una moglie e... e dei bambini! – Strabuzzò gli occhi, come se stesse cercando il miglior modo per toccare la mia pietà. Dovrai fare di meglio, amico. – Sette! Sette bambini! Sì, sette, rimarrebbero senza padre, vi prego, io…
Sogghignai in modo sinistro. – Be’, pretendo un certo tipo di restituzione. Niente denaro, se è questo a preoccuparti.
Vidi il suo sguardo illuminarsi. – Parlate di mia moglie?! Certo! Certo, anche subito! Prendetela e tenetela nel vostro letto fino alla fine dei suoi giorni, se vi fa piacere! Seguitemi, vi accompagno, io…
Scoppiai a ridere di gusto. Dopo aver rivissuto quei ricordi terrificanti era bello sentire un poveretto come Tic disperarsi e concedermi la moglie con tanto slancio. – Mi spiace per te, ma non era ciò che intendevo. – Il mio uomo si accigliò. – Informazioni. La città pullula di segreti, vecchio mio, e tu non dovrai fare altro che origliare e riferire. Semplice, no? Mi interessa che tu tenga d’occhio queste persone, e tieni bene a mente i nomi, perché non li riferirò due volte. – I suoi occhi si sgranarono ancora, ma sembrava sollevato. – Reginald Birch, Charles Lee, Thomas Hickey, Benjamin Church, John Pitcairn. – Mi grattai un sopracciglio, soprappensiero. – E aggiungi anche Achille Devenport, Sam Adams e i Figli della Libertà e un certo Connor, anche detto l’Assassino.
Sollevai il tricorno e diedi una scrollata al piede per levarmelo dai ginocchi. – Tieni dei registri, dei resoconti, qualsiasi cosa. Saprò dove trovarti, se avrò bisogno di te. Che ne dici del porto?
– Il porto, signore?
– Sì – risposi con leggerezza. – Mi sembri un uomo acuto, Tic. Ti scriverò prima di partire e sarò lì nel giorno e all’ora stabilita. Fatti trovare al porto. E se non avrai mie notizie, non ti preoccupare. – Lo guardai sollevarsi con le gambe magre tremanti e sorrisi, infilandomi di nuovo il cappello. – Comunque sono Haytham Kenway. E ti garantisco che non sono un uomo facile da uccidere.
Feci per voltargli le spalle ma fui colto da una stretta al petto. Gli lanciai qualche sterlina con un mezzo sorriso. – Saluta tua moglie, ragazzo. – Continuai a camminare verso il porto con noncuranza, ma, siccome non sono una brava persona, gli rivolsi un ultimo ghigno. – E aggiungi quelle sterline al tuo debito! – esclamai.
Poi mi addentrai di nuovo nella città, pregando di ritrovare il cavallo. – Sapete, ragazze, siete quasi sopportabili quando state in silenzio – brontolai verso Minerva e Giunone.
– Tranquillo, Haytham, finirà presto. Dovrai metterti al lavoro. – Giunone sembrava eccitata.
Non ne avevo dubbi.
 
Mi ero quasi dimenticato di George Washington: vederlo camminare per strada con il popolo che gli lanciava occhiate adulanti mi fece imprecare sottovoce per una buona mezz’ora, mentre mi addentravo nella città per non incrociarlo. Avevo rischiato sfidandolo una volta, tentarci di nuovo sarebbe equivalso come minimo all’arresto. Non gli piacevo, chiaramente, e lui non piaceva a me, ma lui aveva quasi ucciso Tiio. Io avevo solo ucciso quel bastardo di Braddock.
Ritrovai il cavallo e me ne andai il più velocemente possibile. Solo una volta uscito dalle mura della città mi battei una mano sulla fronte per la mia immensa stupidità.
Alice. Alice era a New York.
E io non l’avevo nemmeno cercata.
Dannazione.
 
Ad accogliermi c’erano solo il silenzio e l’alba. Nessuno dei fastidiosi abitanti della tenuta in giro, nessuno nelle scuderie, nessuna luce accesa alla villa. Solo io e il cavallo.
Ah, già, e Minerva e Giunone. Come scordarmi di loro? Durante il viaggio erano state stranamente silenziose, tolto qualche simpaticissimo: “Ammettilo, ti sei perso” e mormorii sommessi tra loro che non riuscivo nemmeno a capire. Lasciai il cavallo in una scuderia e m’incamminai piano verso la porta, fischiettando.
Lì per lì, senza Assassini o giubbe rosse intorno, non sembrava nemmeno un brutto posto. Il fianco della collina punteggiato di case, un fiumiciattolo, la strada e la carrozza dall’altro lato della casa, i lievi rumori degli animali e il fruscio delle foglie in piena estate. Mi ricordava Tiio, i giorni passati in una tenda, solo io e lei, mentre gli altri cominciavano già ad allontanarsi da me.
Imprecando, distolsi lo sguardo e aprii piano la porta della villa, intrufolandomi dentro come un ladro. Per un secondo ci fu solo il cigolio delle assi sotto il mio peso, poi un clic decisamente familiare e una voce nota: – Esci o ti sparo, chiunque tu sia.
Ecco, la vista mi si annebbiò e il buio assunse una strana luminescenza grigio-bluastra. Battei violentemente le palpebre, poi, nel buio, s’illuminò una forma visibilmente umana: brillava d’azzurro chiaro e aveva la mano attorno al pomello di un bastone, ma l’arma che stringeva nell’altra emanava un forte bagliore rossastro. L’occhio dell’aquila stava ricominciando a lavorare. – Sono questi atteggiamenti a convinvermi di non essermi sbagliata, scegliendo te – sibilò Giunone nella mia testa. – Sei più Assassino di quanto tu creda.
Sbattei ancora le palpebre, incapace di parlare. Chiudi il becco, pensai umettandomi le labbra. – A… Achille, posa il fucile. Sono io.
Tutte le luci si spensero di nuovo con una specie di fruscio sommesso nella mia testa, poi sentii Achille buttare il fucile a terra e imprecare. – Haytham? – esclamò, allontanandosi rumorosamente verso la sala da pranzo. – Che mi venga un colpo, dove sei stato? Avevi detto che saresti tornato per cena! Sono passati tre giorni!
Avrei dovuto dire che mi dispiaceva, ma non era la verità. Scrollai le spalle. – Sono andato a New York. Connor dorme?
– No – bofonchiò il vecchio, armeggiando con quella che, dal rumore, sembrava una scatola di fiammiferi. Una fiammella sottile illuminò il corridoio tra l’ingresso e la sala da pranzo. – Aveva bisogno di schiarirsi le idee. È andato da Faulkner.
Mi lasciai andare ad un sorrisetto. – Ah, Bob – brontolai scrollando il capo. – Bene. Mi fa piacere. Come stai?
– Che hai fatto a New York, Haytham?
Aveva appena acceso una lampada e mi scrutò per qualche attimo alla luce flebile della fiammella, l’altra mano che tremava per lo sforzo, stretta al bastone. Sembrava davvero preoccupato, ma anche pronto a mollarmi qualche randellata. Come l’ultima volta che l’avevo visto. Soffocai una risatina e lo precedetti in cucina, le mani affondate nelle tasche e l’aria noncurante. – Una visita dal sarto. – Gli lanciai un’occhiata divertita. – Come te la passi?
Achille mi seguì arrancando e sospirò con calma. – Non prendermi in giro, Haytham. Perché New York?
– Ti senti nella condizione di minacciarmi? – sibilai, sporgendomi in avanti.
– Sì. Sei venuto per qualche motivo, o sbaglio? Vorresti uccidermi, lo immagino, magari vorresti uccidere anche Connor, ma non finché i tuoi piani perversi non saranno portati a termine. Ho ragione?
Nella mia testa, Giunone emise un verso di scherno. – Ecco perché mi piacciono gli Assassini. Affrontano la morte con dignità.
Roteai gli occhi. – Mi mancava la tua cucina, devo ammetterlo. – Gli rivolsi un sorrisetto sghembo e tamburellai con le dita sulla superficie del tavolo. – Sono andato a cercare informazioni.
– Immagino che tu non abbia chiesto a che ora parte il treno per il sud, giusto?
– E quest’ironia da dove viene fuori? – Feci schioccare la lingua. – Informazioni. Accontentati.
Achille si lasciò cadere su una sedia di fronte a me e batté il bastone sul pavimento, appoggiandovisi. – Non mi fido più di te, Haytham. Credevo fossi cambiato, che vedere tuo figlio crescere odiando quelli come te ti avrebbe reso un uomo migliore. Invece ho sbagliato, fin dall’inizio. Di lui non te ne importa niente. – Scrollò il capo e aggiunse, mugugnando: – Avremmo dovuto lasciarti sulla forca.
A morire per la seconda volta. Ridacchiai. – Mi stai dicendo che l’hai fatto per lui, Achille? Certo. E io ti credo, naturalmente. Non mi hai rapito per avere informazioni sui Templari. Ovvio. Era tutto per il ragazzo, giusto? – Il mio sguardo si fece improvvisamente duro e piantai gli occhi nei suoi, ardenti alla luce della lampada. Battei il pugno chiuso contro il legno del tavolo. – Sai molto più di ciò che dai a vedere. Dico bene?
Il vecchio non abbassò lo sguardo, miracolosamente. – Hai ragione. Non l’ho fatto solo per Connor. La Confraternita stava cadendo a pezzi, un po’ d’aiuto ci avrebbe fatto comodo. E chi può sconfiggere l’Ordine meglio di un uomo che lo conosce dall’interno?
– Avevi intenzione di usarmi – sibilai con i pugni stretti. – Mi stavi già usando. – Anche lui.
Achille emise un verso stizzito. – Cerchiamo di salvare ciò a cui teniamo. – Mi scoccò un’occhiata di fuoco. – Almeno, alcuni lo fanno.
Sgranai gli occhi. – Se ti riferisci a Tiio, credimi, faresti meglio a chiudere quella bocca – sibilai con stizza. – Bene. Quindi hai ammesso chiaramente che ho aiutato la tua stupida, misera Confraternita.
– No, ho ammesso che credevo lo avresti fatto.
– Idiozie – esclamai con le mani in aria. Odiavo ammetterlo persino con me stesso, ma avevo bisogno del suo aiuto. – Mi dovete un favore. Ho ucciso Johnson.
Achille rise. – Un favore? Noi ti abbiamo salvato la vita! Al limite sei tu a doverci qualcosa, non ti pare? – Strinse il bastone più forte tra le mani tozze e imprecò. – Dimmi perché sei andato a New York e ti aiuterò.
– D’accordo – sibilai – ma lo faccio solo perché vi devo la vita. Volevo cercare informazioni su Charles e Reginald. A Boston le spalle sanguinanti avrebbero potuto riconoscermi, New York era un posto sicuro. – Accavallai le gambe con noncuranza. – Lì, invece, mi sono imbattuto in Washington. E mi ha riconosciuto. Bene, ora mi aiuterai?
Il vecchio sussultò: – Come?! George Washington sa chi sei? E come diavolo… Ah, certo. Tiio me ne aveva parlato. – Batté ancora il bastone sul pavimento, come in una macabra danza indigena. – Era lì quando hai ucciso Braddock. Lei gli è saltata addosso per salvarti la vita.
– E lui ha ordinato di radere al suolo il suo villaggio. Bello scambio, eh? – Scrollai il capo con rammarico. – Hai intenzione di ascoltarmi oppure no?
Achille abbassò lo sguardo. – Devi chiedermi scusa, come minimo.
– Scusa? E per cosa, di grazia? Non mi pare di averti tenuto prigioniero, legato ad un letto o qualcosa del genere. Una volta ti ho salvato la vita, Achille. Non ho mai fatto niente di davvero scorretto nei tuoi confronti, e lo sai. – Sospirai. – Aiutami. Che ti costa? Se tu non fossi qui lo chiederei a Connor, ma devo arrangiarmi, a quanto pare. – Mi risuonarono in mente le parole di Reginald. – Nel frattempo, un buon soldato dovrebbe accontentarsi di ciò che offre la mensa – brontolai con un brivido di disgusto che correva lungo la mia schiena.
L’anziano Mentore sollevò lo sguardo su di me e inarcò la schiena con un gemito, stiracchiandosi alla flebile luce della lampada. Il sole stava per sorgere. – D’accordo, per questa volta hai vinto tu, Templare. – Si lasciò quasi andare ad un debole sorrisino. – Forza.
– Ho bisogno di un incontro con l’amico di Connor, Kanen’tò:kon. E mi serve un interprete.
Sbuffò piano dal naso, le labbra arricciate in una smorfia di rammarico e sfida. – Pensavo che non ti servisse l’aiuto degli Assassini. – Ed eccolo che ricominciava. Era forse una vendetta per tutte le volte che l’avevo sfottuto? Sceglieva proprio il momento giusto. Stronzo.
Sogghignai. – Infatti non mi servi in qualità di Assassino, mi servi in qualità di conoscitore della lingua Mohawk. E, dato che Connor non è qui, dovremmo andare fino al villaggio. A cavallo. Te la senti?
Risucchiò l’aria tra i denti e mi guardò storto. – Non sono ancora morto, Kenway. D’accordo, ci sto. Ora dovresti riposarti. Ci penseremo tra qualche ora, quando il sole sarà alto. – Sospirò, alzandosi in piedi. – Dev’essere stato un viaggio stancante.
Sbuffai. – Diciamo più sfibrante. Ho bisogno di dormire, decisamente. – Scrollai le spalle e cominciai a salire le scale. – Esercita il tuo Mohawk, nell’attesa – brontolai con un ultimo sorrisetto, prima di spalancare la porta della mia stanza e lasciarmi cadere sul letto con slancio.
Quello sì che mi era mancato. 

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Capitolo 23
*** Antropologia. ***


Premessa:
Mi scuso in anticipo per la lunghezza del capitolo - più di ventottomila caratteri, e.e - ma sono spastica e in quello precedente ho dimenticato un pezzo.
Anche perché credo che quando arriverete alla fine di questo capitolo, in particolar modo, vorrete prendermi a padellate in testa o tranciarmi il collo con uno spaccaossa, fate voi.
Ah, e grazie per le recensioni! Sì, sto cercando di fare la lecchina in modo che non mi trucidiate, ma ssh. <3
Vi adoro. Sappiatelo. Tuuuutti quanti.
:)

 

Grugnii esasperato, togliendomi la coperta di dosso con un calcio mentre Achille continuava a menare bastonate contro la porta della mia stanza. Avevo la bocca impastata, le ciglia incollate tra loro e un male del diavolo alla schiena per via della cavalcata. Il pensiero di ripartire di lì a poco mi fece venire voglia di morire. – Arrivo, arrivo – sibilai, spalancando la porta mentre il vecchio, colto proprio mentre sferrava l’ennesima bastonata, per poco non finì faccia a terra nella mia stanza. Di certo gli sarebbe successo, se non lo avessi afferrato per un braccio mentre caracollava senza equilibrio verso il letto. – Usalo bene, quel bastone – dissi con un sorrisetto, afferrando la camicia che avevo abbandonato su una sedia ed infilandomela prima di incamminarmi verso la cucina, i suoi passi strascicati proprio dietro i miei. Il profumo di tè che riempiva la casa mi fece venire un’improvvisa acquolina in bocca: da quando non facevo una colazione come si deve? – Che ore sono?
Achille si appoggiò ad un pilastro, scoccandomi occhiate infuocate mentre riempivo una tazza di tè e arraffavo qualche biscotto da un vassoio. – Le dieci di mattina passate. Dobbiamo metterci in viaggio, non ti pare?
Scrollai le spalle con la bocca piena di biscotti, masticando rumorosamente. – Sai dove si trova il villaggio, vero? – Sputacchiai briciole di biscotti mentre parlavo, ma la sua espressione era un degno compenso. Schifato come neanche davanti a due maiali in amore.
Il vecchio annuì piano. – Sì, sì, è da qualche parte sulle colline, nella valle Mohawk. Li troveremo, ma dobbiamo organizzarci. E lasciare le armi qui.
Gli scoccai un’occhiataccia. – Scordatelo, Achille – brontolai ingollando un altro biscotto. – Io non esco senza armi. Con la fortuna che ho, mi attaccherà un manipolo di giubbe rosse o… un puma, un lupo, o qualcosa del genere.

– D’accordo, ti concedo la lama celata. Forse ti scambieranno per uno di noi.
– Sul serio? No, allora non la porto.
Achille mi lanciò un’occhiata di odio puro e gli feci un sorriso a trentadue denti. – Scherzavo! Sai almeno cosa sia il sarcasmo, vecchio? – Achille si lasciò cadere su una sedia, approfittandone per mollarmi un calcio sullo stinco, poi sospirò. – Sai che la porterò, comunque.
Lui lanciò un’occhiata nostalgica fuori dalla finestra. – Finisci di mangiare e raggiungimi al calesse.

– Come? Non usiamo i cavalli?
Scrollò le spalle. – Sono troppo vecchio per un cavallo. Mi vuoi con te? Accettane gli svantaggi, Haytham. – Si alzò e prese una borsa di pelle piena di cibo, trascinandosi verso la porta. – Datti una mossa, non abbiamo tutto il giorno.
Mi lasciò da solo nella casa e sospirai. – Credete che sia la cosa giusta? – borbottai. Perché le sto chiamando? Sono così adorabili quando stanno zitte. Perché? Sono proprio stupido.

– Dipende – bofonchiò Minerva. – Hai una vaga idea di cosa domanderai? Quale peso avrà la tua richiesta?
Mi passai una mano sugli occhi. – No. Non ancora. Credo sia troppo presto per parlare della Mela, specie senza Connor. E poi non voglio spiegare i miei piani al vecchio.

– Sono abituati a vedere uomini come te piombare lì e rubare la loro terra con le belle parole. Chiedi loro del Frutto. È fondamentale. Devi assicurarti di avere almeno quello, dato che la Chiave è in mano al Gran Maestro.
Annuì. – Sai, Minerva, ti stai rivelando più utile di quanto pensassi. Ma se declinano?
Giunone e la sua vocetta da vedova disperata irruppero nella mia mente. – Tornerai con il ragazzo. Non diranno mai niente con un seguace dell’Aquila. Specie se è un indiano.
Aggrottai la fronte. – Ha lasciato morire degli indiani, quel giorno. Quando William cercava di comprare la terra. Sarà ancora benvoluto? Insomma, in fin dei conti sono io ad averli liberati dalla minaccia di William.
Minerva emise un verso soddisfatto. – Visto, Giunone? Ecco perché mi piace lavorare con lui. – Diciamo che la Prima Civilizzazione non è un granché con i complimenti. – Ha un gran bel cervello. – Giunone schioccò la lingua con disapprovazione, come se non potessi nemmeno pulire le scarpe degli Assassini. – Sei abbastanza intelligente da fare grandi cose, servo della Croce.

– Grandi non significa necessariamente piacevoli.
Roteai gli occhi al cielo e sfregai le mani, saltando in piedi. – Bene. Dopo un inizio tanto incoraggiante, direi di uscire e darci una mossa. I villaggi non si trovano osannando l’uomo più intelligente che abbiate mai conosciuto. – Solita scossa. – Non avete proprio il senso dell’umorismo, ecco perché vi piacciono gli Assassini – grugnii infilandomi redingote, tricorno e stivali.
Uscii, sperando di riuscire in quella piccola missione. Almeno avrei impegnato un po’ il tempo.
Arrivato al calesse che Achille stava faticosamente caricando con qualche coperta e un paio di borse piene di provviste, presi la pistola e la spada corta, riponendo entrambe tra il cibo. La lama celata sarebbe andata bene per un paio di indiani, forse, ma se avessimo incontrato delle giubbe rosse o dei mercenari avrei preferito essere preparato. – Allora – strofinai le mani sulla redingote e menai una pacca sul fianco di uno dei cavalli – pronto a partire?
Achille sollevò lo sguardo su di me, socchiuse gli occhi in un gesto di lieve sfida e sibilò: – Quando vuoi, Kenway.

– Dovrai darmi un paio d’indicazioni – bofonchiai occupando il posto di guida, le redini strette in mano.
Il vecchio annuì e si sedette accanto a me, facendomi cenno di partire. – Non ci vorrà tanto, se partiamo subito e non perdiamo troppo tempo.
Levai gli occhi al cielo, prendendo fiato. – Speriamo in bene – brontolai, poi diedi una scrollata alle redini e i cavalli partirono seguendo il sentiero. Lanciai un’occhiata nostalgica alla villa e scossi la testa, guardando la casa con la coda dell’occhio finché non sparì alle mie spalle.
 
Portare un calesse in giro per la frontiera non era decisamente l’attività più piacevole del mondo, specie con Achille che mi lanciava occhiate storte ogni due per tre. Incrociammo dei soldati, di tanto in tanto, appiattendoci per quanto possibile a lato del sentiero per lasciarli passare: non vorrei mai ostacolare l’opera del così benvoluto Re Giorgio.

– Sicuro di sapere dove stiamo andando, vecchio? – brontolai dopo quasi cinque ore di passeggiate inconcludenti. – Io sono certo di aver già visto quell’albero.
Achille sospirò. – Conosco questi posti.
Roteai gli occhi. – Sì, forse quando riuscivi ancora a camminare senza un bastone. Ahi! – Mi affibbiò una bastonata sulla schiena china. – D’accordo, d’accordo, quell’affare ha i suoi vantaggi.
Il Mentore mi ignorò, annusando l’aria come un vecchio mastino. – Ci siamo quasi. Scendiamo e seguimi. Non combinare casini, capito, Kenway?
Incrociai le braccia. – E quando mai l’ho fatto? – replicai con un mezzo sorriso. – Devi fidarti di me.

– Non me ne hai mai dato motivo.
– Ti ho salvato la vita, non ti basta?
– Vedremo come ti comporterai in una missione diplomatica – sibilò scendendo con una smorfia di dolore dal calesse. – Voi siete bravi solo quando si tratta di squarciare petti o fucilare indiani.
Sollevai le sopracciglia per lo stupore. – Non è stata una mia idea, di certo. Ho salvato degli indiani da uno schiavista, tempo fa.

– Oh, certo, nessuno lo mette in dubbio. Per i tuoi scopi.
Lo raggiunsi a terra con un balzo. – Non parlare di scopi! Quando mai avete fatto una cosa senza che avesse un tornaconto personale? È la natura umana! Solo che noi la accettiamo, mentre voi passate la vita a crogiolarvi nella malsana idea di essere migliori degli altri, pensando di essere altruisti e buoni, vero? Chi di voi non ha mai fatto una sciocchezza, non ha mai agito a sproposito? – Sentivo le guance bruciare per la rabbia, ma non avevo intenzione di fermarmi. Achille si sbagliava, gli Assassini si sbagliavano. – Uno degli uomini più cattivi che abbia mai conosciuto si è allontanato dall’Ordine. L’appartenenza ad un gruppo non ti rende una persona migliore, Achille.
Il vecchio scrollò le spalle. – Io ammetto di non essere stato un uomo onesto. Lo so. – Incrociai le braccia e lui mi diede la schiena, afferrando una delle sacche e lanciandosela su una spalla. – Voi usate la facciata degli altruisti quando vi fa comodo. E ora ne paghi le conseguenze.

– Non siamo qui per parlare di me – grugnì, superandomi e costeggiando un muro di tronchi chiari. – Adesso cuciti quella bocca e vienimi dietro, altrimenti puoi scordarti la Mela e i tuoi sogni di gloria per fare la fine di tuo padre.
Mi bloccai a metà di un passo, rischiando di cadere. – Cosa? – sbottai, le palpebre che non la smettevano più di muoversi. – Sai, esiste anche semplicemente il verbo morire. Non c’è bisogno di tirarlo in ballo.
Achille grugnì qualcosa che poteva somigliare a delle scuse, ma non ci feci caso. Afferrai l’altra sacca e me la gettai stizzosamente sulla schiena, seguendolo prendendo a calci i sassolini lungo il sentiero. Mi sforzai di respirare piano, di mantenere la calma. – Non è un buon momento per perdere la testa, servo della Croce – disse Minerva.
Già, ma non ero certo io a decidere quando perderla.
Imprecando, superammo il muro di tronchi e di fronte a noi si aprì un piccolo avvallamento: un sentiero sottile e tortuoso portava fino ad una palizzata – somigliava ad un forte, ma senza spuntoni appuntiti in cima o soldati all’ingresso. Si potevano sentire i bambini gridare e lo scoppiettio dei focolari.
Se Tiio non mi avesse mai conosciuto, forse ora potrebbe essere lì dentro. Con un marito, contatti più stretti con il figlio. Quel pensiero mi fece venire la nausea. – Ascolta! – Sentii un acuto dolore all’interno della testa, come se Minerva mi avesse colpito la scatola cranica con un ceffone. – Devi mantenere il controllo!
Imprecai ancora. Non riuscivo a farne a meno. Ho ancora il diritto di provare rimorso. Era la verità. L’avevo privata di una vita normale per correre dietro ai miei sogni. O, in quel periodo, ai sogni di Reginald. Scrollai le spalle e seguì cautamente Achille oltre la soglia della palizzata, mordicchiandomi le labbra con fare nervoso. Tenevo lo sguardo basso e la schiena china, senza rivolgere cenni a nessuno. Niente mento sollevato o aria di superiorità, altrimenti solleveranno tutti i tomahawk contro l’uomo bianco. Con calma, passo leggero e muscoli pronti a scattare, ma non dare l’impressione di essere un dominatore. Achille, invece, procedeva rivolgendo deboli cenni di saluto a tutti, come un vecchio amico. Era più facile per lui, era nero e un amico di Tiio. Certe volte pensavo che mi sarebbe stato utile appartenere ad un’etnia, ma da un altro punto di vista ricordavo quanto fosse spiacevole. Quella stessa gente aveva visto il proprio villaggio bruciare, chissà quanti parenti di quegli uomini erano morti nel maledetto incendio in cui Connor pensava di aver perso la madre. Dio. Sentii una goccia di sudore scivolarmi lungo la tempia. Calmo.
Seguii i piedi di Achille infilandomi in una lunga capanna di paglia e legno, sorvegliata all’ingresso da due nativi formato armadio. Ci fu un rapido scambio di battute tra il Mentore e gli indiani: uno dei due mi indicò con la grande mano e Achille mugugnò controvoglia qualcosa in risposta. Di norma i nativi non mi facevano paura, ma se avessi mandato a puttane quella missione tutto il resto sarebbe stato vano. Non avrei potuto trovare il Grande Tempio. La mia vita sarebbe stata quella di un abitante della tenuta come tanti, priva di scopo. Rabbrividii al solo pensiero.
Achille continuò a blaterare a stenti nella lingua Mohawk e i due ci fecero passare. Non sollevai lo sguardo, ma riuscivo a sentire i loro occhi bucarmi il corpo come frecce. Forse c’era anche un cecchino appostato sul tetto, pronto a trafiggermi al primo passo falso. – Adesso – sussurrò Achille quando oltrepassammo la soglia – fa’ quello che faccio io. Non provocare i nativi, Haytham, men che meno la Grande Madre, ci siamo capiti? Ah, e benvenuto a Kanatahséton. Puoi alzare gli occhi.
L’aria era invasa dal fumo e al centro della capanna, lunga e stretta, sedeva un’anziana donna Mohawk girata di schiena, canticchiando una litania incomprensibile e muovendo le mani. Accanto a lei era posato un bastone. Il Mentore fece un passo avanti a disse qualcosa, poi s’inchinò, scoccandomi un’occhiata infuriata affinché seguissi il suo esempio.
Poggiai il ginocchio a terra, la testa china, e, come Achille, mi tolsi la borsa piena di provviste dalle spalle e la lasciai andare davanti a me. La donna si voltò, alzandosi in piedi con l’aiuto del bastone. Non era molto alta, aveva il volto scuro e solcato da rughe profonde, gli occhi piccoli, indagatori. Emanava una certa autorità, ma sollevai lo sguardo verso di lei, curioso. I capelli bianchi, legati in due trecce, erano decorati con piume e perline. Sì, Connor non poteva che venire da un posto come quello.
Achille cominciò a parlare e lo sguardo della Grande Madre passava da me a lui con una rapidità impressionante. Colsi solo una parola del suo discorso:
 ... Ratonhnhaké:ton…
Appena le disse che ero il padre di Connor, lo sguardo della donna s’indurì ulteriormente, ma non chinai la testa. Dovevo farle capire che non avevo cattive intenzioni, che il Frutto dell’Eden mi serviva. La Grande Madre sibilò qualcosa che mi parve terribilmente dispregiativo – suvvia, probabilmente era solo una mia impressione, un reflusso dettato dal senso di colpa per la mia leggendaria cattiveria nei confronti dei nativi, giusto? –, e mi voltai verso Achille, che aggiunse qualcosa. La vecchia sorrise, come se il Mentore avesse appena fatto una battuta, ma era impossibile. Achille non faceva battute. – La Grande Madre ha detto che…

– Perché ti interessa? – Sollevai le sopracciglia, stupito. La Grande Madre parlava inglese, seppur stentato. Come Tiio. Mi si scaldò il cuore.
– Oh – borbottai con sorpresa. – Ehm, io… ne ho bisogno. Devo fermare un uomo molto crudele. Voglio aiutarvi. Porteranno via le vostre terre. – Se non saranno loro saranno i patrioti. Siete fottuti in qualsiasi caso, geni.
La Grande Madre mi scrutò con aria intransigente. – Ma tu sei un Templare. – Mi puntò il lungo dito contro. – Haytham Kenway.
Quel nome suonava come una condanna: impallidii. Fortunatamente Achille corse in mio aiuto, porgendo alla Grande Madre le sacche piene di provviste. – Sono doni, Grande Madre. Potete fidarvi di noi.
La donna spalancò la prima borsa con un veloce movimento della mano, ci scavò un po’ dentro e fece schioccare la lingua soddisfatta al contatto con il cibo.
Poi, la sua espressione cambiò, e improvvisamente ricordai il perché. Scattai in piedi d’istinto e la Grande Madre mi guardò dall’alto in basso, aprendo la bocca per lo stupore e la rabbia. Anche Achille si voltò verso di me, lo sguardo fermo all’altezza dei miei fianchi.
La Grande Madre urlò qualcosa con voce tonante e profonda, svuotando la borsa sulla nuda terra. I due guardiani entrarono di gran carriera nella capanna, lo sguardo che scattava tra me, il cibo a terra e lo stesso punto in cui guardava Achille.
Rispettivamente, stavano guardando un invasore, la sua pistola e una fondina vuota.
Merda, ebbi solo il tempo di pensare. Poi, uno di loro sollevò la lancia dalla brillante punta metallica e me la scagliò contro.
 
Mi buttai a terra, ansante, tendendo i muscoli del braccio fino allo spasmo per afferrare la pistola. Rotolai, finendo prono sulla terra proprio mentre uno dei due nativi spiccava un balzo e mi oltrepassava, atterrando elegantemente dietro di me e afferrando la mia gamba con la mano. – Merda! – mi tirò verso di sé, quasi sollevandomi da terra, e per poco non affondai il dito sul grilletto. Il nativo mi colpì con un pugno nello stomaco e persi la presa sulla pistola, assieme al fiato. La vista mi si annebbiò, ma riuscì ad intravedere l’altro indiano che afferrava Achille per le braccia, legandogli i polsi con un gesto stizzito e violento mentre il povero vecchio provava a divincolarsi. Doveva essere davvero disperato, a malapena riusciva a fare un passo senza quel suo bastone, non avrebbe mai potuto liberarsi di quell’armadio a due ante.
L’indiano calò nuovamente il pugno verso di me, ma rotolai di lato con un agghiacciante scricchiolio al ginocchio. Dio! Stavo ansimando, il petto che si alzava e si abbassava troppo velocemente. La vista mi era tornata, anzi, era come se fossi un falco: i dettagli brillavano, riuscivo a cogliere ogni sfumatura, ogni goccia di sudore sul viso del nativo, le sue narici dilatate. E, in sottofondo, la Grande Madre cantilenava strillando come un’oca. Benedetta sia l’adrenalina. – Achille! – ringhiai, scalciando per liberarmi dell’uomo che stritolava la mia caviglia, nemmeno fossi una bambola di pezza tra le mani di una bambina capricciosa. – Digli la verità!
Il Mentore mi fulminò con lo sguardo mentre l’altro indiano gli legava le mani. – Cioè? Che sei un fottuto idiota?

– No! – Sapevo che era rischioso, ma feci scattare la lama celata. – Di’ loro che non siamo qui per uccidere.
– Allora ritira quell’arma, cretino!
– Lasciami fare – ringhiai, prima che il combattimento mi assorbisse di nuovo.
L’enorme indiano si chinò su di me, provando ad afferrarmi l’altra caviglia, e allungai la mano destra, artigliando la sua casacca, il braccio della lama tirato indietro minacciosamente. Il focherello al centro della capanna era riflesso dall’arma in modo sinistro. Vedevo una vena pulsare sulla sua fronte.
Si sollevò di scatto, trascinandomi con sé con un grugnito. – Sei pazzo – sibilò Giunone. Non avevo tempo di rispondere, ma un sorrisetto di vittoria prese forma sul mio viso. L’indiano si vide costretto a mollarmi la caviglia, provando ad usare entrambe le mani per staccarmi dalla sua casacca. Ero come un bambino piccolo attaccato alle poppe della madre. Ringhiava e sbavava, simile ad un lupo. E la Grande Madre continuava a cantare, tranquilla.

– Diglielo! – sbottai verso Achille, gli occhi sgranati. Sentivo i primi crampi alle braccia, l’adrenalina che scemava. – Diglielo!
– Non mi ascolteranno! Devi…
– Non posso! – sibilai, la voce tremante. Poi mi venne un’idea. L’idea più stupida – o la più geniale, si tratta di punti di vista – che potessi mai avere. – Ehi! Voi due!
– Non parlano inglese, idiota!
Sollevai gli occhi al cielo. Perché? – Non parlo con loro, vecchio! – sibilai voltandomi stizzosamente verso Achille, che aggrottò la fronte con sorpresa.

– E allora con chi diavolo stai parlando?
Scrollai le spalle, ignorandolo. Maledetta sia la mia linguaccia. Così imparo. – Ehi! Fa’ quello che hai fatto a Tic! Hai capito?! Fate qualcosa, dannazione, qualsiasi cosa!
Sentii la risatina civettuola di Giunone risuonare dentro la mia testa. Udii uno strano risucchio, come dell’acqua che rompe una diga e si riversa di nuovo nel letto del fiume. Serrai i denti, sperando che fossero davvero dalla mia parte.
Poi mollai la presa sulla casacca dell’indiano.
Battei contro la terra di schiena, il fiato mi uscì dai polmoni con un gemito strozzato. L’indiano, invece, rimase immobile per un attimo, poi sgranò gli occhi e urlò. Cominciò a gridare come una ragazzina davanti ad un cadavere. L’altro gli scoccò un’occhiata stupita e lo sguardo di Achille passava da me all’uomo con una rapidità impressionante. Sogghignai, respirando piano. Grazie, Giunone, pensai guardando il nativo crollare a terra in posizione fetale sotto le occhiate basite di Achille, dell’altro uomo e persino della Grande Madre. Il tutto mentre io, l’invasore bianco con un’arma da fuoco in mano, ridacchiavo follemente con le mani sul ventre.
La Grande Madre toccò il corpo dell’uomo rannicchiato e sentii Giunone tornare ad occupare i recessi della mia mente. – Che cosa hai fatto? – mi chiese nel suo inglese stentato, punzecchiandomi il petto con il suo bastone. – Tu hai parlato. E ora Onekwenhsa non sta bene. – Affondò il bastone tra le mie costole come una spada. – Per niente. Che cosa hai fatto?
Continuavo a ridacchiare per lo shock, felice di aver scampato la morte per un’altra volta. Sentii Achille borbottare:
 Vorrei saperlo anche io , ma lo ignorai. Grazie, Giunone, ripetei nella mia mente.
La Grande Madre brontolò qualcosa e l’armadio rimasto mi afferrò per la camicia, sollevandomi di peso e fermando i miei polsi dietro le schiena con dei nodi decisamente spessi. Achille mi scoccò una delle sue occhiatacce e l’uomo ci trascinò via. Le ultime parole della Grande Madre furono:
 Stasera. Il fuoco. Gli dèi diranno.
Ridacchiai ancora, sperando che quegli dèi comprendessero Giunone e Minerva.
 
Ci lanciarono dentro un’altra capanna, legandoci ad un palo schiena contro schiena. – “Gran bel cervello”, dicevi – borbottò Giunone con tono acido.

– Ha avuto comunque del fegato – mi difese Minerva. – Può essere stato stupido, ma ti ha chiesto aiuto. Chi altro avrebbe avuto il coraggio di farlo? Ha rischiato. È pur sempre in gran parte umano.
Roteai gli occhi al cielo: pronunciò la parola umano come se comprendesse la peggiore lista di insulti dell’universo. Può capitare a tutti di dimenticarsi una cosa.

– Già – mugugnò Giunone, lamentosa – ma non hai raggiunto il tuo scopo. Un’esecuzione non è il migliore dei momenti per un colloquio.
Nessuno ha parlato di esecuzione
, precisai. Interrogheranno gli dèi. Non potete portarli dalla mia parte?
Minerva sibilò. – Abbiamo già fatto troppo. Non è consuetudine intrometterci così tanto nel vostro mondo. È rischioso.
Be’…, pensai, ma Achille interruppe la mia chiacchierata con Minerva e Giunone tirandomi una gomitata nella schiena e imprecando. – Come hai potuto essere tanto stupido da nascondere le armi nelle provviste?! – Affondò il tallone nella terra nuda. – Credevi davvero che avessi preparato due sacche di roba per una cavalcata di qualche ora?! Che diavolo hai il quella testa, il fumo, per la miseria?!
Veramente, due spiriti. L’ennesima scarica di dolore da tempia a tempia. – E poi ancora non riesco a capire come hai fatto a fermare quel bestione. Con chi stavi parlando, Haytham? E pretendo una risposta! Dimmi te se io, un povero vecchio, devo essere ridotto in questo stato per un imbecille come te! Rispondi, Kenway!
Mi morsi il labbro. – Parlavo da solo. Ero travolto dall’adrenalina, a volte gli uomini fanno delle pazzie. Succede. – Ringraziai che non potesse vedermi in faccia, altrimenti avrebbe capito subito che stavo mentendo. Quella stupida scossa mi stava facendo corrugare il viso in un’espressione addolorata e colpevole.

– Sì, e io sono una fatina! Fammi il favore, Kenway! E mi hai chiesto di fidarmi di te, come posso farlo se non mi dici la verità?
– Non c’è nessuna verità – ringhiai tra i denti. – Questo è quanto. Non so che cosa ho fatto, ho agito d’istinto. – Levai gli occhi al cielo. – Forse lassù qualcuno è dalla mia parte.
Achille emise un verso di scherno. – Ti prego, non dirmi che credi in Dio.
Scrollai le spalle, per quanto possibile, e sogghignai. – Ogni tanto ci insultiamo a vicenda. – Minerva e Giunone sibilarono, contrariate.

– Be’, non ci aiuterà. Se ci vogliono morti, dèi o non dèi, moriremo. Devo ancora fidarmi di te, Haytham?
Sollevai le sopracciglia. – Ehi, vacci piano con quella nota accusatoria – esclamai sulla difensiva. – Sono ancora vivo, no? – Per quanto? Per quanto?Forse dovrei rinunciare, Oppure no. Immagino che se lo facessi, voi due lassù smuovereste mari e monti per tenermi in vita, giusto? Gli spiriti non diedero segni di vita. Probabilmente avevo ragione. – E lo sei anche tu. Puoi salvarti. Sei nero, conosci la lingua Mohawk. Se non sopravvivi tu, che speranze ha il fottuto bianco armato di pistola e senso dell’umorismo?
Achille schioccò la lingua con disapprovazione. – Contribuiranno entrambi alla tua rovina.
Gli feci il verso a mezza voce. – Una risata non ha mai fatto male a nessuno, Achille – mugugnai reclinando il capo contro il suo. – Allora? Cosa proponi, visto che di me non ci si può fidare?
Achille imprecò. – Sei impossibile.

– Ho solo fatto una domanda! Di’ che non hai una risposta. – Risi. – Ammettilo. È umano.
Il Mentore scosse la testa. – Dall’impressione che hai fatto, abbiamo due possibilità. Morire da invasori o essere interrogati e torturati, soprattutto tu, per scoprire cosa cavolo hai fatto a quel poveretto.

– Ho già detto che non ne ho idea! Che devo fare? – Giunone sbuffò con stizza mentre nascondevo il suo operato. – Inventarmi una storiella divertente sui miei poteri magici?
Achille sospirò. – Magari ci porterebbe alla Mela.
Scrollai il capo. – Dovrebbero aiutarmi. Se lo facessero, proteggerei la terra.

– Certo. Immagino che gli indiani non siano in cima alla lista delle priorità templari.
– Oh, giusto, invece sono in cima alla tua lista, subito prima del fanorona! – Gonfiai le guance e cacciai fuori il fiato, innervosito. – Fammi il favore. La verità è che dei nativi non importa niente a nessuno. Non al fottuto Re dall’altra parte dell’Oceano, non ai coloni, neanche a quei falsi dei patrioti. Come possono interessare a te, Achille? Ora qualcuno potrà anche averli a cuore, ma quando la loro terra servirà per costruire case e città dei coloni saranno rasi al suolo. E tu forse non sarai nemmeno qui per impedirlo, stupido vecchio idealista.
Non si è mai troppo duri con questi idioti, pensai rabbioso. – Bel discorsetto, Haytham, bello davvero. Complimenti. Credo che gli indiani là fuori accetteranno volentieri questa notizia. – Achille sospirò. – Dobbiamo farci consegnare la Mela. Magari con un accordo. Giurando su qualcosa.
Sorrisi, ricordando l’ultima volta che avevo visto Thomas Hickey al Green Dragon. – Che ne pensi di un patto di sangue? – Sentii la schiena di Achille irrigidirsi contro la mia. – Insomma, una goccia di sangue bianco e una goccia di sangue nativo nei corpi inversi. Così saremo entrambi dei mezzosangue, in un certo senso. Mettiamo degli Assassini ai confini del villaggio, per proteggerlo. In cambio, un giorno potrò venire qui con Connor, chiedere loro la Mela, usarla e restituirgliela. Non chiedo nient’altro. Quella roba è pericolosa.

– Un Templare senza brama di potere. Interessante.
– Non sono solo un simpaticone, Achille – risposi con un mezzo sorriso.
– Bene. Lo potremmo proporre. – Il vecchio fece schioccare la lingua.
– Che cosa avevo detto? – aggiunse Minerva. – Ha un gran bel cervello.
 
Qualche ora dopo, quando il sole tramontò tra gli alberi della Valle Mohawk, altri due giganteschi indiani vennero a prenderci, slegandoci dal palo e trascinandoci come dei sacchi attraverso il villaggio. Sentivo il crepitio del fuoco e un silenzio irreale, tipico dei riti. Le capanne indiane non erano niente di che, notai. Ah, chissà che palazzo ci sarà qui tra qualche anno. Tempo al tempo. Solo edifici di legno, non troppo alti e sicuramente freddi. Fortunatamente eravamo ancora in estate.
L’intero villaggio – meno di cinquanta persone – era riunito intorno al focolare: la Grande Madre gesticolava mugugnado qualcosa, gli occhi chiusi e uomini, donne e bambini intenti ad osservarla con grande attenzione. Persino Achille sembrava interessato, ma io avevo altre priorità. Mi serviva l’indiano, l’amico di mio figlio. Non potevo sbagliare di nuovo, era la mia unica possibilità di salvezza.
Quando la Grande Madre smise di cantilenare e ci fece cenno di avanzare, i due Mohawk mi spinsero avanti con una forza tale da farmi finire quasi faccia nel fuoco. Grazie a Dio avevo ancora il mio equilibrio. Achille, arrivato al mio fianco camminando con grande tranquillità, mi lanciò un’occhiata rassicurante. Speriamo in bene. La Grande Madre si fece avanti e sfoderò un coltello dalla lama in grezza roccia affilata, schizzato di sangue secco. Già lo immaginavo, piantato nelle mie budella fino a squarciare la redingote…
Invece no.
La Grande Madre fece voltare Achille e tagliò con un gesto secco i legacci che gli stringevano le mani. Sgranai gli occhi, le sopracciglia scattarono in automatico verso l’alto e mi sentii svenire. – Cosa? – mugolai come un gatto castrato. – Perché?
Il vecchio si guardò le mani con stupore e sussurrò: - Avevi ragione.
Come sempre, avrei detto in qualsiasi altro momento. Lì, invece, davanti al fuoco, con un coltellaccio insanguinato potenzialmente letale e un intero gruppo di nativi che pensava fossi arrivato fin laggiù per farli tutti fuori, sapevo di essere a un passo dalla morte. E, tendenzialmente, il senso dell’umorismo tende a scemare quando si è in situazioni del genere.
Tranne quando si è pazzi, pensai spontaneamente. Minerva e Giunone non si fecero avanti, come a dire: “Noi il nostro turno l’abbiamo fatto, sbrigatela da solo”. Grazie tante.
L’anziana donna Mohawk fece cenno ad Achille di sedersi in circolo assieme agli altri. Il Mentore mi rivolse un’occhiata dispiaciuta, poi mi diede la schiena. – Aspettate! – strillai come una donnicciola. La Grande Madre mi rivolse un’occhiata curiosa e nello stesso momento terribilmente fredda, un’occhiata alla Tiio. Una parte di lei forse avrebbe voluto sapere che avevo da dire, ma d’altro canto ero un pericolo, un uomo bianco e armato, un Templare. Sarebbe stato da sciocchi fidarsi di me, no? – Achille – sibilai con il cuore che sbatteva contro le costole, peggio di un tamburo – dammi una mano. – Il vecchio rimase zitto, guardandomi senza indecisione, senza sentimenti. Roteai gli occhi e mi rivolsi alla Grande Madre. Se dovevo pararmi il culo, non avevo alcuna intenzione di aspettare Achille. – Vi prego, non è necessario uccidermi.
La Grande Madre inarcò le sopracciglia, il coltello stretto nel pugno sollevato. Sorrise appena. Attorno a lei, tutti gli altri abitanti del villaggio cominciarono a bisbigliare. Fortunatamente, Achille si diede una mossa e farfugliò qualcosa nella lingua dei Mohawk. – Perché tenerti in vita? – disse la Grande Madre con quel sorriso sottile stampato in faccia.
Mi morsi le labbra. Doveva funzionare, doveva. – Possiamo stringere un patto. Io vi aiuterò. – Abbassai la testa, aspettando che Achille traducesse per tutti. – Degli Assassini proteggeranno il villaggio. Chiedo soltanto di poter usare il Frutto dell’Eden. Non ora. Un giorno. Io e Ratonhnhaké:ton torneremo qui e vi chiederemo di poterla usare. – Presi fiato. Sentendo il nome di Connor, i nativi si erano ammutoliti di colpo. – Ve la riporteremo, posso giurarlo su ciò che volete. Stringiamo un patto di sangue.
La donna fece un passo verso di me, il bastone in una mano, il pugnale nell’altra. – C’è qualcuno di noi che garantisca per te?
Mi morsi ancora le labbra: se avessi continuato così, di lì a poco avrei sentito il sapore del sangue. – Ratonhnhakè:ton.

– Ratonhnhaké:ton non è qui. – La Grande Madre sogghignò, rivolgendosi al suo villaggio con una certa soddisfazione. – Se nessuno garantisce, non possiamo fidarci.
Abbassai il capo e scoccai un’occhiata interrogativa ad Achille. – Kanen’tò:kon. Lui mi conosce, e conosce Ratonhnhaké:ton.
Con un sibilo indispettito, l’anello di Mohawk intorno a me si aprì per far passare lo stesso ragazzo indiano che avevo visto alla tenuta qualche giorno prima. – Io… conosco egli – brontolò in inglese. – Ratonhnhaké:ton…
 e non capii il resto.
La Grande Madre sorrise. – Un bianco disposto ad un patto di sangue. – Era incredibile come quella donna sapesse parlare inglese e al tempo stesso sembrasse parlarlo male apposta, tirando fuori, di tanto in tanto, parole che tre quarti della stessa popolazione londinese non conosceva. – Buono. Molto buono. Non voglio fare un patto di sangue con te. – Mi diede le spalle, camminando lungo il cerchio di persone come un uomo d’affari: sicura, concisa e severa. – Mi basta un piccolo sacrificio. Sai come funziona?

– No – replicai semplicemente, lanciando un’occhiata disperata ad Achille. Sacrificio?!
Lei ridacchiò. – Tagliare un piccolo pezzo del tuo corpo. Conservarlo in ricordo del giuramento. – Mi guardò, gli occhi duri come pezzi di granito, come la roccia del suo coltello. – Sei disposto a giurare sul tuo sangue?
Cercai di assumere un’aria sicura, ma la verità è che mi sentivo accerchiato. Non era il mio territorio, ero io l’intruso, qualunque cosa provassi a fare. – Sì – fui obbligato a rispondere. – Sono disposto a farlo.
Il sorriso si allargò sul volto della donna. Disse qualcosa con aria ferrea e immediatamente i nodi che mi stringevano i polsi si sciolsero. Un enorme nativo mi spinse comunque a terra, stringendomi per la spalla e mettendomi a forza in ginocchio. Sì, l’ideale per sentirsi a proprio agio. La Grande Madre sollevò il coltello, guardandomi dall’alto in basso. – Tendi la mano, Haytham Kenway. Che la Madre Terra sia testimone del tuo giuramento.
La Grande Madre gridò qualcosa nella sua lingua e Achille trasalì. Cazzo. Fece per avvicinarsi a me, ma la folla era esplosa in una specie di danza celebrativa, pestando i piedi contro la terra, mentre uno dei nativi impediva ad Achille di compiere anche un solo passo, spingendolo via con la gigantesca mano.
Allungai piano le mani verso di lei, i palmi schiacciati contro la terra. Ad un ennesimo mugugnare della donna il nativo alle mie spalle mi tirò indietro il braccio destro. – Oh, no.
La Grande Madre strinse il manico del coltello con entrambe le artritiche mani, guardandomi con aria di sfida. La lama di roccia fendette l’aria e il tempo rallentò. Capii. Capii cosa avevano intenzione di farmi. Stavano per compiere sul mio corpo la peggior mutilazione che avessi mai potuto immaginare. Fossi stato qualcun altro, chiunque altro, avrebbero potuto privarlo di qualsiasi cosa. Se al mio posto ci fosse stato Thomas, gli avrebbero tagliato l’uccello. Se ci fosse stato Connor, lo avrebbero privato della Confraternita. Se ci fosse stato Reginald, avrebbero strappato dal suo collo la medaglietta verdastra della Prima Civilizzazione.
Ma lì non c’era Connor, non c’era Thomas Hickey e non c’era nemmeno Reginald Birch, soltanto Haytham E. Kenway.
E i nativi, come avevo imparato a mie spese conoscendo Tiio e quella vecchia misteriosa dall’espressione folle, non erano stupidi.
Un attimo prima che accadesse, mi resi conto di ciò che stavano per farmi.
Mente contorta e perversa, onore al merito. La Grande Madre aveva avuto un’idea a dir poco geniale. Loro mi avrebbero dato la Mela, ma in gioco c’era molto più del mio corpo. Mi avrebbero aiutato, ma avrei dovuto rinunciare all’ultima cosa che poteva ancora rendermi un membro effettivo dell’Ordine.
Mi viene quasi da ridere, ora, ripensandoci.
Quale modo migliore per mettere Reginald, Charles, Thomas, Benjamin e John sul piede di guerra che mutilarmi in modo che la mia sola vista bastasse a far brillare nel cielo la scritta: “Guardatemi, sto dalla parte degli Assassini”?
La Grande Madre stava per mozzarmi l’anulare sinistro.

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Capitolo 24
*** Confronto aperto. ***


Vi hanno mai mutilato da svegli, senza niente che vi stordisca, il dolore in grado di invadere ogni cellula del vostro corpo – letteralmente, dai piedi alla punta dei capelli -, senza adrenalina in circolo per attutire il dolore delle ossa spezzate e della carne trapassata da una pietra tagliente e insanguinata?
Se non vi è successo, ah, quanto siete stati fortunati.
Se vi è successo… be’, sono curioso. Come avete reagito?
Io strillai come una ragazzina, lo ammetto. Il sangue scorreva copioso sulla terra mentre gli indiani continuavano a pestare i piedi, fieri dell’opera della loro Grande Madre. La donna sollevò il mio dito come un trofeo di guerra mentre il sottoscritto continuava a strillare. I due Mohawk che fino a poco prima mi tenevano schiacciato a terra mi sollevarono da sotto le ascelle, stringendo il moncherino dell’anulare in una benda di stoffa spessa. Achille mi corse incontro, guardandomi con una certa pietà.
Immagino che per lui sia stata un’azione gloriosa. Chi altro può dire di aver visto Haytham Kenway urlare e singhiozzare come un bambino al suo primo giorno di guerra? Nessuno. Credo. Non ho pianto nemmeno quand’è morto mio padre, anche se forse avrei dovuto.
Mi si annebbiò la vista. – Sei stato bravo, Haytham, gran bel piano. Ora devi riposare – sibilò, aiutandomi a stendermi a terra. Strillò ancora qualcosa in quella strana lingua che non capivo, piena di lunghe vocali e sporadiche consonanti gutturali, ma io ero già a terra, stringendomi il dito fasciato.
Ho vinto, pensai con un mezzo sorriso, come una carezza in quel campo di dolore atroce.
– Dormi un po’, Haytham – sibilò Minerva nella mia mente. Il mondo sparì davanti ai miei occhi, la terra smise di tremare sotto i pieni dei Mohawk. Mi parve quasi di vedere Tiio impressa a fuoco sulle mie palpebre, nel buio. Il dolore, per qualche secondo, si attutì. – Te lo sei meritato, in fondo.
E tutto sparì.
Di nuovo.  
 
Sospirai, facendo scattare la lama celata per l’ennesima volta, stravaccato sul retro del calesse e sballottato di qua e di là ogni volta che Achille centrava casualmente un sasso. Vedere la lama che faceva capolino tra medio e mignolo mi faceva ancora un certo effetto. – Non posso credere che l’abbiano fatto davvero – sibilai tra me e me. – Bastardi. Perversi e bastardi.
Achille si schiarì la voce. – Piantala, Haytham – brontolò seduto alla guida del calesse. – Non hanno avuto torto. Volevano sapere fino a che punto saresti arrivato per la Mela. Ah, e hanno aggiunto che se non rispetterai i patti il dito sarà solo l’inizio. Hanno usato proprio queste parole, sì.
Lasciai che la lama rientrasse nella polsiera e la feci scattare ancora. Eccola lì, lucente, lunga e perfettamente visibile tra le dita. Non riuscivo a tollerarlo. – Lo devo fare. Ora devo solo aspettare che Reginald faccia la prima mossa. Almeno ho fatto un passo avanti, e dovresti ringraziarmi. Ho fatto fare passi avanti anche a voi, ignobili stronzi. – La lama sparì con un sibilo. Strinsi il pungo, guardando il rigido moncherino fasciato. Da quando eravamo andati via dal villaggio non avevo fatto altro che guardarmi la mano. Fottutissimi bastardi. – Dovresti ringraziarmi.
– Bene, grazie per averci dato qualcosa che potenzialmente non ci serve – replicò Achille continuando a guardare dritto di fronte a sé. – La Mela è uno strumento difficile da controllare, non adatto a tutti. Piuttosto che pensare al potere, dovremmo impegnarci per creare una nazione in cui tutti siano uguali. Indiani, inglesi, negri, tutti.
Sogghignai. – Ed è esattamente ciò che vuole Washington, vero? – Scrollai il capo. – Lui è il primo a cui non può fregare di meno degli indiani. Perché credi che abbia attaccato il villaggio di Connor, per avere più luce durante la caccia?
Il vecchio sospirò con veemenza. – Ancora con questa storia?
– I Mohawk sono alleati della Corona. Lo sanno tutti. I patrioti vogliono solo fottere le loro terre per costruirci sopra gigantesche case e nuove città. Quale vantaggio avrebbero i Templari dall’uccidere un mucchio di indiani? Nessuno. Noi vogliamo solo un mondo in cui tutti siano uguali.
– E voi al vertice.
– Sembri così tanto il ragazzo quando parli in questo modo, lo sai? – Reclinai il capo, una fitta di dolore dal dito mancante alla spalla. – Pensate che gli uomini possano vivere liberamente senza un capo? Tutti hanno bisogno di una guida, altrimenti i Mentori non esisterebbero.
Sospirò ancora, scuotendo la testa. – Hai ancora molto da imparare sugli uomini, Haytham.
Non risposi. Avevo perso il dito per uno scopo più grande, e avrei fatto qualunque cosa per avere la mia vittoria. – Siamo quasi arrivati alla tenuta – brontolò Achille con voce piatta. – Comunicheremo a Connor la grande novità.
Alzai gli occhi al cielo. – Non vedo l’ora.
Achille si chiuse in un silenzio pesante, ma ci pensarono Minerva e Giunone a continuare la conversazione. – Nonostante il mio scetticismo, devo ammettere che non è andata poi così male – esclamò Giunone con soddisfazione.
Un Assassino sarebbe stato disposto a tanto?
– Un seguace dell’Aquila non avrebbe usato questo metodo. Avrebbe fatto affidamento sulle proprie abilità diplomatiche.
Sogghignai. Diciamo sulla propria fama. Gli Assassini non hanno bisogno di dimostrare che hanno buone intenzioni, tutti credono che le abbiano e basta. Per me è diverso, specie quando quegli uomini pensano che abbia dato l’ordine di bruciare il loro villaggio.
Minerva sospirò. – Servo della Croce, buon lavoro. Le cose andranno meglio, credimi.
– Lo spero – brontolai tra me e me. Magari Connor saprà dire qualcosa di diverso dal solito niente. Forse capirà chi dei due è il buono a nulla.  

Arrivati alla tenuta, James Smith mi accolse con un adorabile: - Misericordia! -, correndo immediatamente al mio fianco per aiutarmi a camminare.
Lo fulminai con lo sguardo. – Grazie tante, James, ma non mi hanno mozzato le gambe. Posso camminare. – Lo spinsi via con la mano sana, la sinistra affondata nella tasca della redingote. – Come stai? È un po’ che non ci si vede.
James mi squadrò sotto il cappuccio, affiancandomi. – Ecco, sì, ero in missione. Philadelphia. Connor è venuto a prendermi con l’Aquila, è stato un gran bel viaggio. – Mi guardò dall’alto in basso. Cazzo vuole? – Ti piace il mare, Haytham?
Fu come un pugno in pieno petto. Sembrava fosse passato un secolo dalla mia ultima conversazione con Bob. Non so governare una nave, gli avevo detto.
Impossibile! Ce l’hai nel sangue!, aveva replicato Robert Faulkner. Sorrisi tristemente. Ce l’avevo nel sangue, certo. – Sì – risposi. – La nausea, gli agguati da ogni angolo, la meravigliosa visione del nulla per miglia e miglia nautiche… Sì, mi piace il mare. – Guardai James, intento a sospirare. – Ti sono mancato, Smith?
– Oh, non lo so – rispose sulla difensiva. – Ho visto molte persone, non ho nemmeno avuto il tempo di pensare a casa, è stato… stimolante, sì, molto stimolante, e…
– Stavo scherzando – brontolai prima che mi stordisse con uno di quegli stupidi discorsi da Assassino. – Conosci un sacco di persone ma non impari ad apprezzare il senso dell’umorismo. Assurdo. – Scrollai il capo e allungai il passo. – Connor è in casa?
Smith prese fiato, zampettando per starmi dietro. – Sì, vi stava proprio aspettando. Be’, mi occupo del calesse.
– Ah, un’altra cosa – lo afferrai per un braccio prima che mi voltasse le spalle. – Ci sei solo tu? Come altro Assassino, intendo. Tu e Connor?
Guardò la mia mano – strano, era quella sana – con una sorta di timore. – Sì, gli altri sono ancora impegnati nelle missioni anti-Corona e nel reclutamento. – Il suo sguardo s’indurì. – Posso andare?
Lo lasciai andare, imprecando a mezza voce. Incrociamo le dita, pensai d’istinto.
Ma le dita erano l’ultima cosa a cui avrei dovuto pensare. Mi avevano già dato troppi grattacapi. Lanciai l’ennesima occhiata al moncherino dell’anulare e scrollai il capo, avanzando a grandi passi verso la casa.
Oggi il dito, domani che cosa?
Che cosa avrei dovuto sacrificare per uccidere Reginald, per salvare Charles, per riavere la mia famiglia?
Troppo, sempre troppo. I Templari non sono certo noti per il loro altruismo.
Eppure, se era quello il prezzo per spezzare il collo dell’uomo che mi aveva rovinato la vita con le mie stesse mani, ero ben contento di pagarlo.
 
Spalancando la porta della villa mi ritrovai faccia a faccia con mio figlio. Di nuovo.
Staccai la mano dalla maniglia, agitandogliela davanti alla faccia. La destra, il piatto forte andava lasciato per ultimo. – Quanto tempo – dissi con un mezzo sorriso. – Il mare non ti ha ancora chiamato a sé, eh?
– Simpaticissimo – sibilò scartando di lato per farmi passare. – Sembri migliorare con il tempo.
Scrollai le spalle, pulendomi i piedi sui gradini di casa. – Grandioso. Che bisogno c’era di stare per mare così a lungo? – Lo oltrepassai e chiuse la porta dietro di me.
Connor sospirò e mi fece cenno di seguirlo in sala da pranzo, l’ultimo posto in cui avevo parlato anche con Achille. Quella stanza aveva un non so che di sfortunato, decisamente. – Abbiamo tenuto d’occhio le navi degli inglesi. Ne abbiamo manomessa qualcuna, fatto esplodere un po’ di barili di polvere da sparo e cose di questo genere. – Congiunse le dita davanti al viso in un gesto metodico e serio, troppo serio per un ragazzo della sua età. Era inquietante. – Tu, cosa hai combinato? Ho saputo che ti sei arrangiato da solo e hai organizzato una specie di mediazione con il mio villaggio, dico bene?
Mi lasciai cadere su una sedia: la schiena mi faceva incredibilmente male. Lo chiedo a voi perché dovreste intendervene, visto da quanto siete in circolazione: sto diventando vecchio?
– Spiritoso – mugugnò lamentosamente Giunone.
Ridacchiai tra me e me. – Sì, Connor, ho chiesto il colloquio che volevo e l’ho ottenuto. Però – sfoderai la mano sinistra mostrando il moncherino dell’anulare come un trofeo – hanno dei gusti non convenzionali in fatto di pagamenti, i Mohawk.
Il ragazzo sgranò gli occhi, rizzando la schiena sulla sedia. Sembrava non avesse mai visto un dito mozzato in vita sua. – Non ci posso credere – sussurrò, tendendo la mano per afferrare la mia. – Haytham, non avrei mai pensato che…
– …Che sarei arrivato a tanto? – Infilai la mano in tasca con un sospiro. – Nemmeno loro. Non hanno idea di quanto sia…
– …testardo?
– Tenace, ragazzino. – Lo fulminai con un’occhiataccia e mi stiracchiai, facendo del mio meglio per non cercare l’anulare sinistro con la punta dell’indice. – Se non fermiamo Reginald non avremo possibilità, né tu né io. Abbiamo la Mela, adesso. Birch non può andare da nessuna parte, senza quella.
Connor sospirò, guardandomi con rammarico. Non sembrava felice nemmeno di quell’unico sacrificio che avevo compiuto per loro. Sono più difficili da accontentare di una donna, questi Assassini. – Dobbiamo difendere il villaggio, però – brontolò unendo di nuovo quelle stupide dita.
Annuii. – Giusto. Assassini, questa è l’unica condizione. Credo che dovresti andare tu. Con qualcuno, naturale. A rotazione. – Gemetti, un’altra fitta di dolore al dito mancante. – Potreste iniziare tu e Smith. Quando gli altri arriveranno…
– Non posso – sussurrò lui passandosi una mano sulla fronte. – Non posso. La Rivoluzione è più importante, non capisci? Non posso coinvolgere l’intera Confraternita.
Aggrottai la fronte. – Come? – risposi stizzito. – Si tratta di un manufatto preziosissimo! Non possiamo permettere che cada nelle mani di Reginald perché quattro imbecilli hanno voglia di trasformare il porto di Griffin nella più grande tazza di tè del mondo! Non se ne parla! Tutto questo… questo ribellarsi alle regole è inutile. Ci sono i Figli della Libertà per le stronzate come queste. Non puoi distrarti, Connor.
– Haytham…
– Ho rimesso mezza mano in questa maledetta missione, luridissimo bastardo! – sibilai sventolandogli il moncone davanti alla faccia. – Pensi che un Templare con l’anulare sinistro mozzato sia credibile?! Lo pensi davvero? Mi sono sacrificato per voi!
Mio figlio roteò gli occhi al cielo. Ammazzalo, sussurrò la mia parte più primordiale e istintiva, trapassa il suo collo e liberati dei problemi. Fortunatamente sono una persona razionale. Ucciderlo significava dire addio all’accordo con i Mohawk, l’unica cosa positiva che ero riuscito ad ottenere. – Non è solo per noi che lo hai fatto. Tu vuoi uccidere Reginald Birch. Lo so. È anche… lecito. – Aggrottai un attimo la fronte. Lo dice perché l’ha visto piazzarmi sulla forca o perché Achille gli ha raccontato la verità?
Sollevai le spalle. – Uccidere Reginald gioverà a tutti. Sia noi, sia voi.
Scosse la testa. – Il problema è questo. Ci sono un noi e un voi, e ci saranno sempre. Perché non riusciamo ad essere uniti?
Ci avevo pensato anche io. Prima che sapessi ciò che Reginald aveva fatto a mio padre, a me, ciò che stava facendo a Charles, era quello il principale dubbio che pensavo la Mela avrebbe risolto. – Te lo dico io. Perché non riuscite a capire che abbiamo lo stesso scopo. Siete sempre sul piede di guerra, come se muovessimo ogni passo con i moschetti carichi sulle spalle. Non avete idea di come sarebbe il mondo se solo ci ascoltaste. – Sospirai. – Dovremmo collaborare.
– Ci stiamo provando da quanti anni, Haytham? Guardaci! – Allargò le braccia e le lasciò cadere mollemente, scuotendo la testa. – Ogni volta c’è un problema. Litighiamo sempre. Non combiniamo mai niente di buono.
Sospirai. – Io cerco solo di mostrarti i tuoi errori. Tu non vedi mai quel po’ di buono che faccio. Siete così concentrati sui vostri piccoli e stupidi pregiudizi, tanto impegnati a pensare che io non sappia fare niente se non attaccare briga o fare meravigliose battute, da non rendervi nemmeno conto di cosa sto facendo per voi. – Chiusi il pugno sinistro nella tasca, il moncherino che restava rigido. – Non era un semplice dito, Connor. È un peso.
Connor abbassò lo sguardo. Sapeva che avevo ragione. Non poteva darmi torto, non questa volta. – D’accordo. Comincio ad organizzare i turni di guardia al villaggio. – Si alzò di scatto, guardandomi con la coda dell’occhio. – Grazie.
Ridacchiai. – E per cosa? Grazie piuttosto a te. Ho avuto una chiara dimostrazione di quanto tu sia falso, non ero mai riuscito a constatarlo dal vero.
Scosse la testa e si allontanò, ma mi parve di vedere l’ombra di un sorriso triste sul suo viso.
Mi alzai a fatica. Le cose andranno meglio, aveva detto Minerva. Sollevai gli occhi al cielo, reggendomi al tavolo. – Quando? – gemetti verso il soffitto, verso gli ormai taciturni spiriti che dimoravano nella mia testa a tempo pieno. – Quando andranno meglio?
Come un vecchio, salii le scale a denti serrati e mi lasciai cadere sul primo letto disponibile, sperando che una buona dormita bastasse per farmi passare il maledetto dolore alla schiena.
 
I mesi passarono velocemente, i turni di guardia al villaggio si susseguivano con una monotonia esasperante. Nottate intere passate immobili per non attirare i lupi, perché, non sia mai!, i Mohawk avrebbero potuto ritirare il patto inventandosi che il lupo era il loro animale sacro e noi – io, nella fattispecie – ne avevamo ammazzato uno. Non potevo permettermelo, non arrivati a quel punto.
Ricordo bene la prima notte del 1775: ancora non lo sapevamo, ma quell’anno avrebbe portato con sé accordi terribili. Era solo l’inizio della fine. Il primo gennaio di quello stesso anno, Connor e io stavamo di guardia davanti al portale del villaggio, stretti negli abiti per mantenere il calore. Si riusciva quasi a sentire la musica proveniente dai villaggi vicini, ma Kanatahséton era più silenzioso che mai. Dormivano tutti, o forse aspettavano dietro la palizzata in attesa di un mio passo falso.
Francamente, non mi importava. Levai la bisaccia colma di grog che avevo con me, sorridendo. – Be’, felice anno nuovo. – Un paio di sorsi mi scaldarono con violenza le viscere e la gola. Il massimo, con quel tempo terribile. – Vuoi brindare? – la porsi a Connor con un sorrisetto scaltro, sapendo che non avrebbe mai accettato.
Infatti, sollevò la mano per declinare. – Voglio essere lucido, se mai ci attaccheranno.
Sospirai. – Andiamo, è Capodanno, dovresti festeggiare! – Buttai giù un altro sorso. – Sei sempre così depresso, ragazzo. Non ne comprendo il motivo.
– Io non capisco invece cosa tu abbia per essere così felice – brontolò in risposta. E, effettivamente, non aveva tutti i torti. Ogni tanto mi capitava di ripensare a tutte le cose terribili che mi erano capitate, dalla morte di mio padre, passando per le violenze di Reginald, la vita militare sotto Braddock, Jenny, Holden e tutto il resto. Facevo del mio meglio per reprimere la nausea, ma certe volte era troppo. Troppo dolore. Nessuno avrebbe potuto reggere senza impazzire, e Minerva e Giunone non erano certo di molto aiuto. Sarà anche un pensiero vigliacco, ma sono dell’idea che quando si hanno troppe cose negative dentro di sé bisogna cercare la positività all’esterno. L’alcool è una delle poche sostanze in grado di farti entrare la positività dentro. Nel vero senso del termine. – Dovresti essere frustrato. Reginald sembra sparito dalla circolazione, nessuno ne sente parlare, qui non arriva nessun attacco… Non lo trovi strano?
Scrollai le spalle. – Sai, Connor, a Capodanno mio padre si sedeva su una poltrona, riuniva tutta la famiglia in circolo e raccontava una delle sue storie. Storie di grandi avventure per terra e mare, spadaccini in grado di danzare combattendo e cose di questo genere. Mi coinvolgevano. Poi c’erano i suoi amici, e vedere anche Reginald tra loro mi aveva sempre dato un certo senso di sicurezza. Era una presenza costante, anche all’inizio avevo pensato fosse solo uno dei diversi amici di mio padre. Non pensavo fosse così importante.
Il ragazzo roteò gli occhi al cielo. – Che cosa c’entra ora?
– Fammi finire – lo zittì. – Santo cielo, sempre lì ad interrompere. Dicevo, anche Reginald aveva un sacco di storie da raccontare. Eppure erano diverse da quelle di mio padre, e già lì si riusciva a capire chi dei due fosse l’Assassino e chi il Templare. Le storielle di Reginald erano così… strane. Diceva un sacco di cose, senza mai parlare davvero. Aveva… capacità di controllo. Sapeva esattamente cosa dire o cosa non dire, quali termini usare, come muovere le mani. Mio padre era più istintivo. Raccontava fingendo di brandire una spada invisibile, me la puntava alla gola e mia madre sorrideva. – Abbassai un attimo lo sguardo, ricordando quei momenti. I primi dieci anni della mia vita, sicuramente i più belli, quando i segreti c’erano, ma erano ben custoditi nello scrigno dei grandi. – Capisci, Connor? Capisci perché non sono preoccupato? Reginald non è un uomo che agisce senza pensare. Ogni sua azione è calcolata. Perché farmi prendere dall’ansia, dunque? – Portai d’istinto la mano all’elsa della spada, lo sguardo serio e fisso di fronte a me. – Si farà vedere. Lo so. Ha un piano, e quando lo attuerà sarò pronto. Perché agirà, prima o poi, e non voglio farmi trovare impreparato. – Sospirai. – Lo conosco.  
Lo guardai. Sembrava quasi scioccato. Non s’aspettava una cosa del genere da me? Ah, piccolo, stupido ed ingenuo. Sollevai la bisaccia con la sinistra. – Al nuovo anno. – E bevvi, sentendomi i suoi occhi puntati addosso, ma senza curarmene più di tanto. Qualcosa lo turbava, ne ero sicuro. – Che hai?
Aggrottò la fronte, guardandomi con severità. – Ti interessa davvero? – bofonchiò tra i denti.
– No. Voglio che tu racconti a voce alta i tuoi piccoli drammi, così magari qualche giubba rossa ne sarà attirata, ci attaccherà e ci sarà finalmente un po’ di movimento. – Chiusi la bisaccia roteando gli occhi al cielo. – Quanto sei intelligente, a volte mi stupisci.  
Connor sospirò. – Sono preoccupato. Perché è tutto così calmo? Non… Mi da sui nervi, ecco. Terribile.
Sogghignai. – Allora sei tu quello frustrato, ragazzino – dissi, lo sguardo fisso sui miei stivali. – L’attesa è sempre terribile, di qualunque cosa si tratti. – Sbuffai. Connor non era mai stato in guerra, non sapeva quanto fosse tremendo restare chinati giornate intere dietro una roccia con un moschetto in mano, aspettando per ore che qualcuno sbucasse per sparargli alla fronte prima che lo facesse lui. Specie quando c’era Edward Braddock a dare i suoi maledetti ordini. Avremmo potuto sterminare l’intera repubblica olandese, per lui non avrebbe fatto alcuna differenza. Altro che Bulldog, quello era acido e spietato come uno sciacallo. – Hai più avuto notizie da… Giunone? – Cambiai discorso il più velocemente possibile, picchiettandomi la tempia con l’indice.
Curvò le spalle. – Non si è più… presentata, per così dire, da un po’. Tu?
Scoppiai a ridere. – Ogni tanto Minerva si fa sentire. – Alzai lo sguardo al cielo. – Certe volte è così insistente ed ambigua che sembra scindersi in due personalità, entrambe chiuse nella mia testa. – Ehi, è quasi la verità.
Il ragazzo non replicò, poggiando la testa contro la palizzata. – Certo, la verità. Ecco perché preferisco gli Assassini, lui sarebbe onesto.
Ovvio. E, nel frattempo, un buon soldato dovrebbe accontentarsi di ciò che offre la mensa. Non sei stata forse tu a farmi sentire queste parole, Giunone? Quelle due erano irritanti quasi più degli Assassini, misericordia!
– Erano i recessi della tua mente, cose che erano sempre state lì. E se non te le avessi mostrate io, alla prima occasione ci avrebbe pensato il tuo aguzzino. O forse lo avresti scoperto da solo, e allora saresti scoppiato a piangere maledicendomi perché non te l’avevo detto. – Aggrottai la fronte. Forse era esattamente quello che avrei fatto. Ormai, però, era andata così. – Ti conosco meglio di quanto pensi, servo della Croce. Gli uomini sono creature misteriose.
Davvero? Allora perché non mi mostri che cosa sta organizzando Reginald? Dite entrambe che sono una sua pedina, ma a quanto pare faccio parte del vostro gioco. Dovetti mordermi le labbra per non esclamarlo a voce alta, la rabbia ribollente nel petto. – Non è il momento – replicò Giunone.
Allora quando? E nel frattempo? Mi dedico ai festini?
Intervenne Minerva. – Servo della Croce, mantieni la calma.
– No! – sbottai, scattando in piedi con il moschetto su una spalla e la bisaccia nell’altra mano. Connor mi guardò come un fantasma.
Sollevò un sopracciglio. – Haytham? – sussurrò, afferrandomi per la redingote. – Haytham, siediti.
– Sì, Haytham, siediti – ripeté Minerva. Insopportabili.
– Shh – mormorai a tutti e due, un dito sulle labbra e le orecchie tese. In lontananza, tra un albero e l’altro, mi parve di vedere un luccichio. Una lampada, una torcia? – Merda – sussurrai sollevando il moschetto. – C’è qualcuno.
Connor mi trattenne più saldamente. – Tu non ti muovi di qui. Vado io.
– No – replicai. – Aspetta un secondo.
Mi concentrai sulla fiammella, quella piccola ed insignificante luce tra gli alberi. Insignificante per chiunque altro, ovviamente. Chiunque non possedesse l’occhio dell’Aquila. Bella fortuna. Tutto si fece scuro, e fu come essere un falco – un’aquila, scusate. Misi a fuoco la persona in lontananza, illuminata da una misteriosa aura color mattone scuro. Non avevo mai visto quel colore nella mia vita, non con l’occhio dell’Aquila. – Shh – sussurrai di nuovo, anche se nessuno aveva parlato. Mi concentrai ancora e riconobbi i capelli scuri, ora più radi, il faccione rotondo e gli occhi piccoli, quasi invisibili, come se si stesse sforzando di vedere il più lontano possibile.
Scossi la testa e tutto tornò normale. Mi accasciai a terra, ma non prima di aver sussurrato il suo nome. – John. – Mi lasciai andare, sdraiato sul terreno gelido. – Oh, mio Dio, John.
Connor mi saltò quasi addosso, dimostrandosi incredibilmente insensibile – e poi siamo noi i bastardi, giusto? – John? – sibilò, incoccando una freccia. – John Pitcairn? Dov’è?
Idiota. – Sta’ zitto per un secondo – sussurrai, trascinandolo giù per la giubba da Assassino. – Siediti e non fare casino. – Con una mano alla testa, rotolai sul ventre, il moschetto carico e puntato contro gli alberi.
Che cosa voleva?
E che cosa volevo io?
– Al diavolo – sibilai, scattando in piedi e buttandomi il fucile in spalla. – Probabilmente se n’è andato.
– Forse ti sei sbagliato – mormorò Connor. Sembrava sconsolato, infelice di non poter usare la sua stupida freccia.
Scossi il capo. – Non mi sono sbagliato – risposi. – Quello era John. – E come potrei confondermi? – Ci stanno tenendo d’occhio. Sanno qualcosa. Questo non è più un posto sicuro.
Connor sospirò. – Per questo lo stiamo proteggendo, no?
– Potrebbe non bastare – replicai con tono depresso. – Perché stanotte? – sussurrai tra me e me. – Pensava che sarei rimasto a casa a brindare? – Mi lasciai andare ad un sospiro sconsolato.
Era lui, vero?  
– Sì. – dissero in coro.
Mi sedetti a terra, di nuovo. È qui e non ci attacca. Perché? Perché ci sono io? O perché c’è Connor? Mi passai una mano tra i capelli, stretto nella redingote. Il turno era ancora lungo. Nient’altro da dire?
– No.
Perfetto
, pensai. Grazie, e felice anno nuovo anche a voi. Quanti bei regali, quest’anno.
 
Non sentii parlare di Charles, di Reginald o degli altri per mesi. Persino i miei informatori non li sentivano nemmeno nominare, erano come spariti. Tutti.
Quando, una domenica di aprile, fui svegliato da un corriere, ancora non avevo idea di cosa sarebbe successo. I colpi contro la porta erano insistenti come tuoni, e, naturalmente, a nessuno era venuto in mente di svegliarmi. Connor ed Achille, in quel periodo, passavano il tempo divisi tra il villaggio e la stanza segreta della tenuta, mentre io lo passavo tra il villaggio e le coperte. Una meraviglia, l’unico svantaggio era che quando finalmente aprivo gli occhi ero a malapena in grado di grugnire qualche sillaba. – Che cazzo…? – brontolai aprendo la porta. Davanti ad un meraviglioso me con i capelli modellati dal cuscino, la camicia mezza aperta, i piedi nudi e i calzoni sbottonati, c’era un altezzoso messaggero con un foglio in mano e il pugno sospeso a mezz’aria, che mi lanciò un’occhiata preoccupata.
– Io… – Gli strappai il foglio dalle mani senza tante cerimonie. – Ehm, veramente dovrei parlare con…
Gli chiusi la porta in faccia, lanciando la lettera a terra. – Revere! – sbottai, esasperato.
I Figli della Libertà, sempre lì a ficcare il naso negli affari altrui. Quel Revere, poi, era forse il più insopportabile. Irritante, saccente e con quell’aria da neonato troppo cresciuto. Spalancai la porta della cantina e scesi violentemente giù per le scale, imprecando per infilarmi la camicia nei pantaloni. – Ragazzo, c’è un lavoro per te. Corri, altrimenti i Figli della Libertà potrebbero decidere di non giocare più insieme a te, sarebbe decisamente triste.
Connor mi rivolse un’occhiataccia ferrea. – Chiudi il becco – sibilò, strappandomi il foglio di mano. – A quanto pare mi hanno scambiato per uno di loro.
– Be’ – brontolai armeggiando con i bottoni dei calzoni – Direi che è un errore assurdo. Insomma, perfino un cieco vedendo come stai a baciare la terra sotto i loro piedi e ad elevare ogni loro azione a opera di santità capirebbe che non sei uno di loro. Chissà come fa a pensarlo.
Achille mi rifilò uno scappellotto e mi massaggiai la nuca, fingendo di essere offeso. – Allora, qualche novità? – chiesi a Connor, appoggiandomi contro uno dei pilastri.
Connor alzò lo sguardo dal foglio con un mezzo sorriso, che sparì guardandomi. – A quanto pare, sì. Dice che ha delle notizie su John Pitcairn. Devo andare. – Fece un passo verso le scale, poi si voltò di nuovo verso di me. – Vieni?
Scrollai le spalle. – Ho scelta? – Gli andai dietro. – Vive a Boston, giusto?
– Sì. Meglio mettersi in marcia.
– Prendo la redingote, l’orsetto di pezza e arrivo – replicai alludendo all’aspetto infantile di quell’idiota di Paul Revere.  
Non rise, che novità.
 
– Pitcairn – mormorai in tono lamentoso, come una nenia. – John Pitcairn. Non lo vedo da secoli. – Sorrisi appena, le mani in tasca, e mi voltai a guardarlo. In aprile, a Boston cominciava a respirarsi un anticipo di primavera: i boccioli sugli alberi, i primi fiori qui e là e i campi appena arati in periferia. Il periodo in cui tutto si rinnova. Respirai a pieni polmoni.
– C’era anche lui?Il ragazzo mi rivolse un’occhiata interrogativa. – Quando?
Scrollai il capo. – Al tuo battesimo. Non dire che me lo sono perso!
Roteò gli occhi al cielo. – Parli come se fossi un genio – sibilò prendendo a calci i sassolini lungo la strada. Aveva compiuto diciannove anni qualche giorno prima, e indovinate come avevamo festeggiato? Esatto, avevo consumato le ultime scorte di scotch nella credenza di Achille mentre i due scavezzacollo erano chiusi nella stanza segreta per studiare gli ipotetici piani dei Templari.
Imbecilli. – Io sono un genio. Mi riferivo a quella volta, sai, no, quando abbiamo fatto saltare in aria il tuo villaggio. Immagino che la memoria di un bambino di quattro anni sia così affidabile, specie se lo stesso bambino era mezzo svenuto. – Gli lanciai un’occhiata sbilenca. – C’era anche John?
– No – sibilò irritato.
Sollevai le spalle. – Quindi lo stai cercando solo per quella storia dei patrioti? – Abbassai lo sguardo. – Andiamo, ragazzo, non avete nemmeno prove certe di ciò che stia facendo. Non hai nemmeno provato a parlarci! Non siete voi i paladini delle soluzioni diplomatiche?
Mi guardò in modo strano. – Parlare con quelli come te è impossibile – disse con una certa nota acida nella voce. – E poi perché ci tieni tanto? Credi di poter risolvere le cose come hai fatto con William?
Eccolo lì, un pizzico – appena accennato – di sarcasmo. Una frecciatina. – Penso solo che non dovremmo schierarci da nessuna parte. Né quella dei patrioti, né quella della Corona. Vogliamo che questa terra sia indipendente, ma nelle mani di gentaglia come Washington questo non può accadere, e voi vi rifiutate di vederlo. È una posizione complicata, la nostra. – Sogghignai, lanciando uno sguardo triste alla gente che faceva compere lungo la strada, chiacchierava, leggeva i giornali sulle panchine. Così tranquilli, sapevano che bastava non nominare i patrioti o i Figli della Libertà davanti alle aragoste per vivere serenamente. Erano relativamente al sicuro, ma decisamente ignoranti. Ignoravano la realtà dei fatti. – Dovremmo avere un esercito. Come fate voi? Come riuscite a trovare sempre qualcuno che sia dalla vostra parte?
– Lo fate anche voi, no? – rispose il ragazzo con una scrollata di spalle.
Sfruttiamo gli imbecilli finché ci sono utili. Proprio la stessa cosa, giusto? – Direi di sì – brontolai. – Di tanto in tanto. Questa è una situazione diversa. Chi vincerà avrà il controllo, non c’è modo di metterli da parte. Il problema, fondamentalmente, è questo. È il motivo per cui Charles deve buttare giù dal piedistallo Washington. E poi, ammettilo, George è un idiota. Non si è nemmeno ben capito da che parte sta.
– Finché difende la libertà, sta dalla mia.
– La libertà? La libertà è relativa, ragazzo! – sibilai con una certa enfasi, rallentando il passo. – Oggi ciò che vuole coincide con ciò che vuoi tu, ma domani? Se mai l’otterrà, perché dovrebbe seguire gli umili ideali di un ragazzino cresciuto a frasi fatte? Argh. – L’anulare mozzato si fece sentire di nuovo: avevo l’incredibile bisogno di grattarne la punta, ma non c’era più. Come fare? Non ero ancora riuscito a capirlo. – Perché non sognare in grande, Connor? Una volta che si ha il potere, perché non sfruttarlo?
Sbuffò. – La sete di potere è una cosa sbagliata. Nessuno dovrebbe…
Strofinai il moncone contro la stoffa ruvida dei calzoni. – Sì, sì, ci sono un sacco di cose che nessuno al mondo dovrebbe fare, dire, pensare, comprare, assumere, bere e roba simile, ma il mondo non è perfetto. È questo. – Scrollai la mano per far passare quello stupido prurito. – Perché non volete ammetterlo? Siete esperti nelle cause perse, voi.
Abbassò lo sguardo. – Mi piace pensare che nel mondo ci sia ancora speranza per qualcosa. Che questo non sia il meglio che sappiamo fare. – Indicò con lo sguardo il mondo attorno a sé, tutti gli errori compiuto. Davvero pensava che non ce ne sarebbero mai stati altri in futuro?
Dannato stupido. – La speranza è per chi è troppo stupido da restare fermo ad aspettare invece di agire. Chi spera è chi non è riuscito ad ottenere ciò che vuole con le sue sole forze e si aspetta siano gli altri a procurarglielo. Bel modo di fare.
Mi guardò con la fronte aggrottata, la bocca mezza aperta in un sospiro esasperato. – Perché sei sempre così cinico?
Perché sei sempre così idiota, cieco e cocciuto? – La fantasia non ha mai aiutato nessuno, ragazzino.
– Un ideale non è una fantasia.
– Sono d’accordo – assentii con un sorrisetto. – Eppure bisogna saper essere realisti, certe volte. Puoi cambiare una situazione politica, e se ci riesci è già un mezzo miracolo, ma non puoi cambiare la natura umana. Allora, ammetterai che ho ragione, per una volta?
– No. – E quando mai? – Tutti possono cambiare.
Mi sventolai la mano sinistra davanti agli occhi. – Sarà, ragazzo. Convinto tu… Allora, dove diavolo sono quegli imbecilli?
– Connor!
– Ecco, perfetto.
Paul Revere, più basso di me di tutta la testa, arrivò alle spalle del ragazzo saltellando come un cerbiatto in fuga, solo molto meno aggraziato e decisamente più ridicolo. Gli mise una mano sulla spalla e sfoderò un sorrisone che non avevo sfoderato nemmeno per il mio ottavo compleanno, quella volta da White’s. – Sono contento che ti sia mosso tanto in fretta, Connor! – Dio, quanto mi mandava in bestia quel suo maledetto accento francese. – Ed Haytham, quanto tempo! Dal Tea Party, giusto?
Sospirai, sollevando gli occhi al cielo. – Eh, già, il tempo è volato. Allora, ieri il tè, qual è l’obiettivo di oggi? I biscotti?
Connor mi fulminò con un’occhiataccia mentre il vecchio Revere non colse nemmeno il sarcasmo. Che pubblico eccezionale. – Ci stanno aspettando, amico mio! Willam Dawes e Robert Newman, due amici, grandi uomini, Connor, grandi uomini. Venite! – Si avviò per la strada trotterellando, tutto tronfio e gioioso. Sospirai, scocciato, e lasciai che Connor gli si accostasse, restando in disparte. Per quanto potesse scocciarmi, ero costretto a tenere la testa bassa. Meglio non attirare attenzioni indesiderate. – Vedrai, Connor, vedrai! Non ci si può proprio fidare di quei britannici. Senza offesa, eh, Haytham!
Avrei voluto picchiarlo. Certo, cretino imbecille, strilla pure il mio nome in mezzo alla strada, c’è solo una guarnigione di spalle sanguinanti ad ogni angolo. – Figurati. Ho sentito dire che i francesi sono anche peggio: quelli venuti qui non sanno nemmeno cucinare.
– Haytham. – Connor levò gli occhi al cielo e prese Paul per il gomito, allungando il passo e distanziandomi.
Tenni lo sguardo fisso sulla strada per un bel po’, assicurandomi di seguire sempre il ragazzo e Revere senza attirare l’attenzione. Il lastricato della strada, così regolare e perfetto nonostante l’odore terribile, cominciò a tremolare sotto i miei occhi, come se tra me e il terreno vi fosse uno strato di aria rovente. – Oh – sibilò Giunone nella mia testa. – No.
Mi portai una mano alla testa, sbandando, e andai a sbattere contro un contadino con una cassa di frutta in mano. – E sta’ attento! – sbottò quello, ma non riuscii a fare altro che mugugnare delle scuse quasi sottovoce. Tutta Boston mi girava vorticosamente attorno, sentivo il vomito risalire dallo stomaco.
Strinsi le mani all’angolo di una casa per tenermi in piedi, respirando affannosamente mentre il mondo continuava a girare. – No! – strepitò ancora Giunone. – No!
Le gambe mi si fecero molli e crollai a terra, svenuto. – NO!
 
– Ne sei sicuro?
– Sì. Guardate. – Dei passi trascinati, come quelli di chi non dorme da secoli. L’immagine è sottosopra e ruota, continua a ruotare, piano. Come un dipinto. La prima cosa che vedo è un paio di stivali scuri, seguito da un altro. – Quando l’ho letto ho subito capito cosa dobbiamo fare. Date un’occhiata.
La vista tornò normale: il secondo uomo, i capelli scuri scompigliati, si stava malamente infilando la camicia nei calzoni, imprecando e dandomi la schiena. – Levati di mezzo, fa’ vedere, Lee. Dove?
L’altro uomo si grattava violentemente la testa mentre indicava un punto sulla scrivania, su un libro, probabilmente. La sua voce tremò per l’eccitazione quando disse: - Qui. Leggete, signor Birch.
Oh, merda, no. Un’altra visione. Sempre la stessa nave dell’ultima volta, ma dov’erano? – Incredibile – sussurro Reginald mentre Charles continuava a staccarsi la cute con le unghie. – Incredibile. Abbiamo la chiave, ragazzo mio. Sai, sono convinto che sarai un ottimo Gran Maestro. Nemmeno Kenway è riuscito a darmi tante… soddisfazioni. – Si voltò verso di lui e, per un secondo, mi parve di averlo visto fare l’occhiolino a Charles. Disgustoso. – Continua a lavorarci su, capito, ragazzo?
Charles arrossì, immagino per l’imbarazzo. – Sono… lusingato, signore. Mi impegnerò, sì.
Ragazzo. Come poteva farsi trattare così da Reginald? Era un uomo adulto! Lo stava trattando esattamente come aveva trattato me fino ai vent’anni, quand’ero finito tra le mani di Edward Braddock e Reginald aveva dovuto trovarsi un altro passatempo. Aveva rovinato la mia intera famiglia, merda. – Benissimo, Charles. – Reginald strinse la medaglietta verde che pendeva dal suo collo, e quella splendette di luce propria. – Penserò ad un piano, Lee. Avremo ciò che ci spetta, presto o tardi. Quell’idea… ah, geniale. Dove l’hai trovata?
Charles rivolse un mezzo sorriso a Reginald, un sorriso da figlioletto orgoglioso che finge di essere modesto per ricevere complimenti, e ancora, e ancora. Un sorriso che sentivo di aver fatto anche io, e diverse volte. – Un libro. In una casa abbandonata. Dicevano di aver visto Hayth… Kenway da quelle parti. Era vuota, l’ho frugata da cima a fondo. Certe cose erano inutili, altre… decisamente no. – Passò le dita sulle pagine del libro. Perché non potevo muovermi e andare a vedere di cosa si trattasse? Perché Minerva, Giunone o chicchessia mi stavano mostrando quelle cose se non potevo capire davvero cosa stesse succedendo? Maledizione! – Sono dei buoni risultati, no? – Eccolo, il bambino vanesio che vuole ancora elogi.
Reginald gli fece un gran sorriso, tentennando mentre chiudeva l’ultimo bottone della camicia. – Decisamente. Meriti una ricompensa, non credi? – Charles sbiancò mentre il sorriso sul volto di Reginald si allargava. – Chiudi quei libri e raggiungimi.
Birch, quel bastardo di Reginald, sparì: a quel punto successe qualcosa che ancora non riesco a spiegarmi, forse fu solo frutto della mia immaginazione, addirittura. Charles Lee si voltò verso di me, gli occhi azzurri sgranati, la bocca mezza aperta e le mani giunte, l’aria spaesata e sconvolta.
Mi guardava come se fossi davvero lì. Come se potesse vedermi.
E quando sembrava fosse sul punto di gridare qualcosa, qualsiasi cosa, si umettò le labbra e sbottonò i calzoni. – A-Arrivo – mugugnò.
La stanza ricominciò a vorticare mentre lui si allontanava, poi si dissolse. 

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Capitolo 25
*** Guerra. ***


"This is war – better watch your back, sucker
It's the end of the world as you know it.
"
This is war, G-Stack. 

– Shh, si sta svegliando.
– Stephane, dell’acqua. Veloce!
– Vado!
– Respira, vero?
Battei le palpebre con violenza, le immagini ancora che ruotavano attorno a me. – Cosa…? – mugolai, ma non ero rivolto a nessuna delle persone che si stavano preoccupando per me, lì, a Boston.
– Hanno un piano – sibilò Giunone, stizzita. – E noi non ne sappiamo niente. Com’è possibile?! Cosa possono aver scoperto?
Tirai un mezzo sorriso. Mi faceva male persino la faccia. – Perché non lo chiedi agli Assassini, eh?
– Assassini? Di che sta parlando? Presto, con quell’acqua!
Un altro mi poggiò la mano sulla fronte, ma non riuscii a guardarli. – Sta delirando. Forse ha la febbre.
– Quelle immagini… Non erano per te, servo della Croce – rispose Giunone, preoccupata. – Erano per noi.
– Sapeva che eravamo in ascolto? – Minerva sembrava stupita, io non ci stavo capendo un’acca. – Non è possibile. Sono decenni… secoli che non si manifesta! Non può essere tornato! Dovrebbe…
– Ma anche noi dovremmo, Minerva. E poi la dea della saggezza aveva il suo nome, ah.
Continuai a sbattere gli occhi, senza sapere dove guardare o chi ascoltare. Mi afferrarono per le ascelle, tirandomi a sedere su una sedia, e qualcuno m’infilò a forza dell’acqua in bocca. – Manda giù, Haytham. – La voce giuliva di Revere! Dio, l’ultima cosa che avrei voluto sentire. – Dawes, Newman, andate. Possiamo cavarcela.
– Grazie – brontolò Connor. Lagnoso e insopportabilmente buono, come al solito.
– Non c’è di che – rispose uno degli altri due. – Questo ed altro, per averti dalla nostra parte. Bene, ci vediamo. E pregate Dio per la riuscita di quest’impresa.
Sentii una porta chiudersi e mandai giù l’ultimo sorso d’acqua, tossicchiando. – Ehi – brontolai. – Grazie per avermi aspettato, ragazzi.
Revere mi diede una pacca sulla schiena mentre Connor, appoggiato ad un pilastro in un angolo, sospirava con le braccia incrociate. – Forza, Haytham! Io e Connor andiamo a Lexington! Pitcairn e gli inglesi si preparano ad attaccare. Che fate, venite con noi?
– No – sibilò Connor senza neanche guardarmi. – Sta male. Ci rallenterebbe.
Ridacchiai. – Il marmocchio ha ragione. E poi non ho nemmeno tutta quest’esperienza con la guerra.
– Davvero? – Revere mi guardò con tanto d’occhi.
– Idiota – esclamai sollevando gli occhi al cielo. – Andate pure. Io resto qui a… controllare la situazione. Vi aspetterò con Stephane. E se avete bisogno di rinforzi non aspettate a chiamare. Siete quattro gatti contro l’Esercito Britannico, c’è un’irrilevante probabilità di sconfitta. – Non aveva senso continuare a scherzare, conoscendo Paul Revere e Connor, ma era più forte di me. – Divertitevi.
Connor mi lanciò l’ultima occhiataccia del giorno, poi prese Paul Revere per una spalla e scivolò fuori, brontolando qualcosa sull’andare a cercare un cavallo. Reclinai il capo, respirando piano. – Allora – mormorai. Era come stare da solo. – Stephane, perché non sei andato con loro? Sei un Assassino, no?
Il cuoco rientrò dalla cucina, sistemandosi dietro il bancone con aria stizzita. – Oh, quella roba non fa per me. La guerra. – Passò rabbiosamente uno straccio bagnato sul legno mentre lo guardavo con una certa curiosità. – Sono troppo impulsivo.
Sollevai le spalle. – Sei fortunato, in un certo senso – risposi. Perché? Perché volevo fare conversazione con gli Assassini? – Sai renderti conto dei tuoi limiti e non corri rischi.
Sospirò. – Non sempre. Prima di diventare un Assassino ho rischiato di farmi ammazzare per combattere contro le giubbe rosse. – Scosse il capo con un sorriso sconsolato. – Se non ci fosse stato Connor, quella volta, probabilmente sarei morto. Tu… eravate qui spesso. C’era anche una donna.
Perché parlo con questi dementi? Perché? – Sì – replicai. Adesso quello stizzito ero io. – Alice. Se n’è andata a New York poco prima del Tea Party.
– Oh.
– Eh, già. – Imbecille. – Comunque, mi pare che ora ve la passiate meglio. Non è così?
Stephane scosse la testa. – Ti dico una cosa, amico – sussurrò. Amico? Vade retro. – Sento che oggi qualcosa cambierà. Non chiedermi come lo so: è nell’aria. – Si sbatté lo straccio sulla schiena come un flagello. – Oggi è un grande giorno.
Sogghignai. – Che intendi per grande? – chiesi, le braccia incrociate. – Cosa senti nell’aria?
Naturalmente era stato troppo tempo sotto l’influenza degli Assassini per capire che lo stavo sfottendo. – Potere, principalmente – rispose serio. – E del sangue.
– Suona bene.
Mi guardò in cagnesco: forse collegava quella sarcastica affermazione alla mia appartenenza all’Ordine, quindi sollevai le mani. – Scherzavo. Tranquillo. – Roteai gli occhi al cielo, ficcando le mani in tasca. – Vado a fare un giro. Dove sono gli altri due?
Abbassò lo sguardo, ricominciando a pulire. – William Dawes è partito verso l’interno per annunciare l’avanzata di Pitcairn e le sue truppe, Robert Newman invece è qui, alla Christ Church, col compito di avvisare in caso di attacco.
Scrollai le spalle. – Lo raggiungo, ti spiace? Sembra che tu abbia… del lavoro da fare. – Giusto, darmi fastidio con ricordi che non ho intenzione di farmi tornare in mente. Che abilità! – Ci vediamo.
Uscii senza aspettare il suo parere, sapendo perfettamente che nessuno dei due aveva tutta questa voglia di restare con l’altro più del necessario. Forse questo Robert Newman, questo sconosciuto, sarebbe stato più simpatico.
Ma a quel punto avrei dovuto saperlo: delle amicizie degli Assassini non bisogna fidarsi.
 
Ah, la Christ Church. Un bel posto, bisogna ammetterlo, con quella torre che dall’alto tiene sotto controllo tutta la città, o quasi. Mattoni rossi, come un sacco degli edifici di Boston, e decorazioni bianche. Quando arrivai lì davanti c’erano un paio di donne anziane impegnate a chiacchierare con acidità e sdegno davanti alla porta. – Non è possibile! – sibilò la prima, vestita completamente di nero. – Il signor Newman non rinuncerebbe mai alla celebrazione!
L’altra, con un vestito di tela marrone, passò una mano sul grembiule e scrollò le spalle. – Cosa vuoi che dica, Martha? In questo periodo il sagrestano non è al massimo delle sue forze. – Sbuffò teatralmente e si mise la mano davanti alla bocca, sussurrando civettuola: - Ha solo vent’anni, pover’uomo, ma in città corre già voce che sia un po’… spostato.
Martha si passò la mano sulla fronte, fingendo indignazione. O forse era vera, non ne sono sicuro, ma credo sia davvero esagerato scandalizzarsi per un sagrestano patriota. Be’, d’altronde non ha molto senso, detto da me. Non sono certo una comare bostoniana con l’unica occupazione di andare a scaldare la panca in chiesa. – Oh, povero signor Newman – sibilò Martha, battendo il pugnetto nodoso contro la porta serrata. – Signor sagrestano, vi sentite bene? E se fosse morto?
– Morto? – L’altra donna agitò una mano per scacciare il pensiero. – Suvvia, Martha, e in che modo? Omicidio? Nessuno vorrebbe morto un sagrestano. Forse il suo povero cuore? È troppo giovane. No, Newman è lì dentro. – Strinse gli occhi come un predatore, guardando la cima della torre campanaria. Sembrava più un soldato sospettoso che una rispettabile – per modo di dire – donna di città.
Martha si mordicchiò l’unghia. – Non so, Annabeth. Sono preoccupata. Dovremmo andare alla Old South, e dopo quello c’è successo tre anni fa… No, non se ne parla. – Tornò di nuovo a sbatacchiare la mano contro la porta. – Signor Newman! Signor Newman!
Annabeth scrollò il capo e si voltò istintivamente verso di me. Non ero altro che una figura di passaggio, sia chiaro, e quando si voltarono feci di tutto per fingermi tranquillo e proseguire. – Martha, forse ho un’idea. Signore! – Bingo. – Signore! – Annabeth trotterellò verso di me con la mano sul petto, sfiorandomi appena il braccio per fermarmi. – Signore, scusatemi tanto, ma credo che ci serva il vostro aiuto.
Sollevai le sopracciglia, mi finsi sorpreso, insomma, sfoderai tutto il mio arsenale da abbindolatore e bugiardo di professione. – Il mio aiuto? Che succede, signore? Farò il possibile. – Ah, ecco perché comportarsi da gentiluomini conviene.
– Vedete, la chiesa è chiusa e non sappiamo cosa sia successo al sagrestano, il signor Newman.
– È un uomo così puntuale, di solito! – squittì Martha alle spalle di Annabeth. – Non fa mai aspettare nessuno e le sue porte sono sempre aperte. E se gli fosse successo qualcosa? Non me lo perdonerei mai. E di sicuro non me lo perdonerebbe nemmeno Dio. – Si fece più volte il segno della croce, giungendo le mani e lanciando occhiate terrificate verso il cielo.
Non riuscii ad evitare di sgranare gli occhi. Ecco perché non credo in Dio. – Signora – sussurrai, cercando di essere gentile nonostante il disgusto. – Signora, non vi preoccupate. Andrò io a vedere come sta il signor Newman.
– E come farete? – Annabeth mise le mani sui fianchi, guardandomi con severità. – Non vorrete buttare giù la porta, spero!
Con la mano sinistra in tasca, riuscivo a sentire i grimaldelli tintinnare sul fondo, lucidi e inutilizzati da un bel po’ di tempo, ma sempre utili. – Diciamo che sarà qualcosa di… delicato. – Avanzai verso la chiesa, sperando che si facessero da parte. E quando mai? – Signore, potete andare. Vi porterò notizie del signor Newman il prima possibile.
– Voi non ci conoscete – sibilò Martha. Sembrava davvero preoccupata. Magari il mascalzone che stava per scassinare la porta della chiesa era anche un pericoloso assassino armato e in grado di uccidere un uomo in qualche secondo.
Magari, eh. Sono ipotesi. – Mio marito è un medico, signore. Voglio essere sicura che il signor Newman stia bene. Voglio controllare in prima persona. – Scrollai le spalle, lanciandole un’occhiata comprensiva ed incredibilmente falsa.
– Come volete. Lasciatemi solo un attimo per occuparmi della porta. – Stupide comari bigotte.
Cominciai ad armeggiare con la serratura sentendo i loro fiati sul collo, gli occhietti opachi fissi sulle mie mani e sui movimenti dei grimaldelli. – Affascinante, anche se non esattamente onesto – disse Annabeth. – Sembrate un gentiluomo. Se avessi visto chiunque altro usare quegli affari, be’, avrei chiamato subito i soldati.
– Bisogna sempre essere preparati a certe evenienze – risposi, facendo leva con entrambi i sottili arnesi di ferro. – Ecco qua. – Un attimo dopo la serratura scattò e la porta si aprì senza un cigolio. – Prego, signore.
Martha ed Annabeth, ma soprattutto Martha, corsero dentro come degli animali braccati alla vista del cacciatore, strillando in lungo e in largo alla ricerca di Robert Newman. – Signor Newman! Signor Newman! – Sembrava di essere in un pollaio. – Mi sentite? State bene? Oh, santo il Signore, non può essere successo davvero!
Mentre le due donne si lasciavano andare alle più disperate ipotesi, cominciai a guardarmi intorno alla ricerca delle scale per salire sulla torre. – Non c’è! – strepitò Martha. – Non c’è!
– Calmatevi – ringhiai quasi. Comari, Assassini e Figli della Libertà: la miscela letale delle persone meno sopportabili del mondo. – Sapete come si sale sulla torre?
Entrambe mi scoccarono un’occhiata sorpresa. – Cosa vi fa pensare che sia là?
– Il semplice fatto che non sia qui – risposi acido. – Avete controllato sotto le panche?
– No, ma…
– Scherzavo.
– Signore, questo non è il momento di fare dell’umorismo! Il sagrestano è scomparso! – Annabeth mi si parò davanti con le mani sui fianchi, come una maestrina irritata dall’alunno impertinente. Jenny. – Pensate di trovare il signor Newman lassù?
Scrollai le spalle. – Bisogna provare. Così come dovremmo provare nella sacrestia. – Le lanciai uno sguardo astioso. – Ora, sapete dirmi come salire?
Annabeth rispose al mio sguardo con ulteriore odio, poi spalancò una porticina sul lato sinistro della chiesa, tenendola aperta per farmi passare. – Prego – sibilò la vipera.
Le rivolsi un cenno di ringraziamento. – Troppo gentile. – Poi afferrai la maniglia dall’interno e la chiusi appena dietro le mie spalle, sbattendola e cominciando a salire le scale che portavano alla cima della torre.
– Ehi! – La donna, naturalmente, non si sarebbe arresa nemmeno se Dio in persona le avesse chiesto di lasciarmi in pace per cinque minuti. – Come vi permettete? Pensavo foste un gentiluomo!
– Oh, lo sono – risposi. – Questo non significa che la mia pazienza non abbia un limite.
– Siete davvero maleducato! Cercavo solo di aiutarvi!
– Bene. Allora venite e smettete di starnazzare. Sapete, dicono che i suoni fastidiosi risveglino le anime dei morti, e non vorrei che il nostro sagrestano ci attacchi, sempre che sia morto.
Levò gli occhi al cielo. – Se io sono fastidiosa, voi non siete da meno. E sappiate che se Newman è morto, il primo sospettato sarete voi.
Sbuffai dal naso. – Certo, era il mio piano fin dall’inizio! Entrare, uccidere Newman, uscire, chiudere a chiave la chiesa e passare casualmente qui davanti proprio all’ora della messa! Il piano del secolo, giusto! Santo cielo… - Mi passai la mano sulla fronte. – Se non sarà morto, mi dovete una birra.
– Signore!
– Ma qualcuno in questa città ce l’ha il senso dell’umorismo? – sussurrai con gli occhi al cielo.
– Come?
– Niente. Stavo solo scherzando. – Drizzai la schiena e, alla fine delle scale, mi trovai davanti ad un’altra porta bianca. Bussai a palmo aperto. – Signor Newman?
Dall’interno proveniva un borbottio continuo, come una pentola d’acqua bollente. Sembrava che il sagrestano stesse recitando la predica tra sé e sé. – Oh, lasciate fare a me. – Annabeth passò sotto il mio braccio e spalancò la porta, intrufolandosi nella torre campanaria. – Signor Newman!
La seguii e rimasi basito per un attimo davanti a Robert Newman: era un ragazzino, nel vero senso del termine. Non me l’aspettavo tanto giovane. Indossava una normalissima casacca, calzoni e stivali, e sembrava un po’ imbarazzato dall’improvviso affetto di Annabeth, che si era letteralmente gettata ai suoi piedi abbracciando le sue ginocchia. – Ehm, salve – mugugnò il ragazzo. Capelli scuri, occhi verdi e svegli, un vecchio tricorno usurato calato sulla testa. Uno di noi, insomma. – Mi dispiace, io non… Non mi sono accorto dell’orario. Chiedo scusa – brontolò carezzando appena la testa di Annabeth. – Sono desolato, ma oggi proprio non ci sarà nessuna funzione. Mi spiace tanto.
– Oh, grazie a Dio! – Anche Martha si precipitò nella stanza, spingendomi di lato con l’impeto di un cavallo imbizzarrito. Se una campana avesse schiacciato quelle due, probabilmente avrei avuto molti meno problemi.
Mentre le due donne lo soffocavano, Robert Newman mi lanciò un’occhiata interrogativa. – Revere – sillabai senza fare rumore, e lui annuì, roteando gli occhi verso il soffitto spiovente.
Sembrava molto più affascinato dal paesaggio oltre la grande finestra che dall’affetto delle sue fedeli. – Signore, grazie per esservi preoccupate. È bello vedere persone devote come voi. Grazie, sto bene. Potete andare. Spero di vedervi presto, oggi è stata proprio una pessima giornata.
Martha si staccò lentamente dal sagrestano e si passò una manica sotto il naso, respirando affannosamente. – Grazie a voi, signor Newman. Scusateci per aver occupato il vostro tempo, ma eravamo tanto preoccupate! – Unì le mani sul petto, raggiungendo l’apice della ridicola melodrammaticità. – Arrivedervi, signore. State bene, e attento con quella finestra!
Annabeth s’incamminò giù per le scale insieme a lei, lanciandomi un’occhiata infastidita e chiudendosi la porta alle spalle con malagrazia. – Sia ringraziato il cielo – sussurrò Newman, tornando alla finestra e imbracciando un cannocchiale. – Un macello. Un maledetto macello. I britannici tengono sotto controllo il porto e questo… be’, questo da qualcosa su cui pensare. Non sprecherebbero energie nella difesa di un posto senza uno scopo, non credete? – Abbassò il cannocchiale voltandosi, e fu come se mi vedesse per la prima volta. – A proposito, voi chi siete? – Aggrottò la fronte quando i suoi occhi incontrarono la mia spada e sollevò lo strumento come una clava. – Non vorrete mica uccidermi, vero?
Abbassai la testa, sorridendo. – No, no. Haytham Kenway, piacere – tesi la mano verso di lui. Mi stava simpatico, e non chiedetemene il motivo. – Conosco Paul Revere e so dov’è diretto. Sono rimasto qui e pensavo di dare una mano, per quanto possibile.
Scrollò le spalle, stringendomi la mano con una certa energia. Era elettrizzato. – Bene. Devo solo controllare se il nemico viene da terra o da mare. Avete l’occhio allenato?
Infilai le mani in tasca. – Più di quanto vorrei – risposi. – Voi?
– Argh. Più o meno. – Si grattò la testa e prese di nuovo il cannocchiale. – Cerco di aiutare. Il signor Revere non voleva farmi sentire inutile, suppongo. E mi ha mandato qui. Faccio del mio meglio, Kenway.
Sorrisi. Almeno non si arrendeva. – Sei un tipo volenteroso, Robert. Quelli come te non sono mai inutili.
– Siete gentile – rispose con il cannocchiale davanti alla faccia. – Potete aiutarmi? Il lato nord è tutto vostro. – Indicò i due finestroni alle sue spalle e mi ci diressi, sperando di non vedere nessuna truppa venire verso Boston. Sapendo che tra loro, con ogni probabilità, ci sarebbe stato anche John, ero ancora più nervoso. Alla mia sinistra, il fiume Charles scorreva impetuoso, allargandosi in un bacino che poteva sembrare un lago. Sarebbe parso un paesaggio così pacifico se non fosse stato per quell’imminente battaglia che, come diceva Stephane, si sentiva nell’aria.
Era inevitabile: se fino a qualche minuto prima potevo ignorare la situazione, mi rendevo conto di quanto, davvero, si respirasse l’odore della battaglia. Io che l’avevo vissuta vi ero abituato, ma quello scontro puzzava di sangue, di potere. E non era destinato ad avvenire lì. John doveva andare a Lexington, ad una ventina di chilometri dalla città.
Eppure fremevo.
Il tempo, quando non c’era niente di preciso su cui concentrarsi, scorreva inesorabilmente lento. Con una mano davanti agli occhi e lo sguardo fisso all’orizzonte, ogni tanto mi facevo passare il cannocchiale da Robert, sperando di avvistare qualcosa.
Erano quasi le nove di sera quando accadde.
– Robert! – sibilai, il cannocchiale che fino all’istante prima reggevo con scarso entusiasmo improvvisamente schiacciato contro l'orbita, nella speranza di essermi sbagliato, di aver visto male. – Vieni subito qui, Newman!
Il sagrestano abbandonò la postazione, colpito dal mio tono, e quasi mi strappò lo strumento dalle mani. – Fate vedere.
Nello stesso momento, la porta si spalancò e due uomini si precipitarono nella stanzetta. – Robert! Hai visto?! – Erano entrambi sui cinquanta, le facce solcate da rughe più o meno profonde e l’aria sconvolta. Uno dei due aveva la camicia da notte sbatacchiante attorno alle caviglie, probabilmente era stato trascinato laggiù di tutta fretta dall’altro.
Robert abbassò il cannocchiale, voltandosi verso i nuovi arrivati.
Certo che aveva visto, l’avevo vista anche io. Nessuno aveva il coraggio di parlare, la tensione era palpabile. Mi addossai la responsabilità d’essere il primo a parlare. – Salve – borbottai.
Robert gettò il tricorno a terra, grugnendo per la frustrazione, e si passò una mano tra i capelli. – Kenway, loro sono i fabbricieri Pulling e Bernard, miei amici. – Bernard, l’uomo con la camicia da notte, mi lanciò uno sguardo terribilmente serio. Se avessi spostato lo sguardo dal suo viso per concentrarmi sul suo abbigliamento sarei scoppiato a ridere, poco ma sicuro.
– Bene – continuai. – Immagino abbiate visto ciò che abbiamo appena notato anche noi.
– Lance – grugnì Pulling. – Piccole e veloci, lungo il fiume Mystic. Vanno verso Lexington. – Si avvicinò alla finestra e indicò la fila di luci che correva tra le case e gli alberi, attraversando la città e poi i boschi. – Dobbiamo avvisarli. L’Esercito Britannico dovrà fare qualche chilometro a piedi per raggiungere la città, e i nostri… – Lanciò un’eloquente occhiata a Newman. I nostri non sono proprio nelle condizioni migliori, mi sa.
Robert si passò entrambe le mani sugli occhi, disperato. – Bene. – Gli tremava la voce. – Facciamo come ha detto il signor Revere. Due lanterne. E in fretta.
Il giovane sagrestano lasciò i due fabbricieri ad armeggiare con le lanterne, appoggiandosi al davanzale con un sospiro impaurito. – Andrà tutto bene – borbottai mollandogli una pacca sulla spalla. – Sei un ragazzo forte, te la caverai. E se la caveranno anche loro. – C’è Connor. Connor deve fare del suo meglio, per quanto sia poco. Se lui e Revere non torneranno non farà nessuna differenza, non per me. Perché questo ragazzino mi fa pena, eh? Perché è valoroso, perché fa del suo meglio per intromettersi nell’azione politica di questo Paese nonostante non ci sia più nulla da fare? Sospirai. – Forse è il momento giusto per pregare, Robert.
Newman sospirò. – Grazie. Io… Nemmeno vi conosco, eppure vi comportate bene con me. In questa città non sono esattamente benvisto. Insomma, - si battè le mani sulle cosce – guardatemi: vent’anni, inglese fin nel midollo, e mi rinchiudo tra le quattro mura di una chiesa per non rischiare il culo. Sono un vigliacco.
– No – risposi, cercando di rassicurarlo. – Fidatevi, Newman, la guerra non è una cosa da persone valorose. Affondi la lama nella schiena di uomini come te, combatti per la tua esistenza spezzando quella di qualcun altro solo perché ti viene ordinato. Ci sono passato. E quand’è finita non ti senti meglio, o diverso. Ci sono solo corpi. – Ed eccole, le immagini della repubblica olandese disseminata di cadaveri tornarono alla mia mente, mentre Braddock fissava tutto con esimia soddisfazione, quasi sorridendo. – Corpi che un tempo erano persone. Chiunque vi tratti da vigliacco perché non siete in guerra è un bastardo. Uccidere non è qualcosa che s’impara a fare, sapete? – Lo sguardo del giovane si fece più curioso, quasi spaventato. Succede, quando cominci a parlare di omicidio con un uomo spirituale. – Si può migliorare, apprendere nuove tecniche e cose di questo genere, ma ci sono uomini nati per uccidere, che non possono fare altro. E non perché ne traggano piacere, non fraintendetemi. – Io non ne traevo piacere. Be’, tranne certe volte, come con Edward Braddock. Casi eccezionali. – Solo per un fattore di sensibilità morale. C’è chi giustifica l’omicidio per certi fini e chi no. Non è indice di cattiveria, vigliaccheria o coraggio.
Fu il sagrestano a darmi una pacca sulla schiena, a quel punto. – Bella predica, Kenway. Sono serio. – Si alzò, spolverandosi la camicia nonostante fosse già intonsa. – Se mai vorrete abbandonare… be’, qualunque cosa facciate in questo momento, le porte di Dio sono sempre aperte.
Sogghignai. – Sono lusingato, ma non credo in Dio.
– Davvero? – Era sempre più sorpreso. Chi diavolo è questo sconosciuto bravo a parlare d’omicidio e senza Dio?, sembrava pensare.
– Già.
– Posso chiedervene il perché?
Mi lasciai andare a un sospiro. – Perché credere in Dio significa confidare in qualcuno che agisca per te, che risolva le cose. Sono un uomo più pratico, io. – Lo guardai, cercando una reazione nel suo viso e non trovandola. Non mi stava guardando torvo o con rimprovero, semplicemente annuì, muovendo su e giù la testa, passandosi la mano sul mento. Non voleva giudicarmi. – Siete strano, per essere un uomo di chiesa.
Il ragazzo ridacchiò, sedendosi sul davanzale con slancio. – Uomo di chiesa… Che esagerazione. Ne sono lo schiavetto, il maggiordomo. Quelle due donne… sapete, non erano qui per le prediche o per la mia persona. – Sorrise, lanciandomi un’occhiata eloquente. – E poi, ho chiuso la chiesa, cacciando il parroco con frasi che chiunque altro avrebbe trovato folli. Ha detto che brucerò all’Inferno, e con me anche Revere, le sue idee e, letteralmente, tutti i fottuti patrioti. – Schioccò la lingua. – Che esagerazione, non trovate?
Sorrisi. – Un vero uomo di Dio – osservai, e il ragazzo rise. – Non credo brucerete all’Inferno, in ogni caso. Abbiate fede.
– Sempre – rispose, abbassando il capo. – Sempre.
– Oh, non intendevo… Maledizione! – imprecai a mezza voce, guardandolo con dispiacere. – Non volevo tornare a parlare di Revere e di quella stupida battaglia. È frustrante.
– Come la morte. Incombe su di te e non ne sai niente finché non arriva. Che razza di contraddizione, eh?
– Ti serve una birra, ragazzo mio – esclamai roteando gli occhi, quindi lo acchiappai per un braccio. – Camicia da notte e… coso, tenete sotto controllo la situazione, d’accordo?
Pulling e Bernard si voltarono a guardarmi con astio mentre trascinavo Newman verso la porta. – Signor Kenway, siete impazzito? – strepitò il ragazzo, gli occhi sgranati, dimenandosi come un cervo preso da una delle trappole di Connor. – Non posso andarmene! Io…
Bernard fece un passo e lo prese per l’altro braccio, spingendolo verso la porta. Gli sorrisi con una certa gratitudine. – Andate – sibilò il fabbriciere, gli occhi di ghiaccio e i capelli scomposti. – Qui ci pensiamo noi. State nelle vicinanze.
– Grazie – risposi sorridendo.
Dieci minuti dopo eravamo seduti in una taverna con due boccali di grog, la miglior medicina per l’uomo. – Accidenti, Kenway, non dovevate – grugnì Robert Newman fissando la bevanda con sospetto. – Paul Revere mi ucciderà.
– Ci sarò io a difendervi – risposi con un sorrisone, sollevando il boccale in un brindisi. – A Lexington!
Newman sorrise tristemente, poi si unì a me. – D’accordo. A Lexington. – Rise, vedendo che avevo già mandato giù un buon terzo del boccale, e fece lo stesso, tossendo come un poppante. – Oh! Non credo di riuscire a finirlo…
– Anche per quello ci sono io – risposi. Erano quasi le dieci e nessuno dei clienti della locanda sembrava inquietato da ciò che poteva starsi svolgendo a qualche chilometro in quello stesso istante. – Allora, state meglio?
Scrollò le spalle. – Kenway, vi ringrazio davvero per tutto ciò che cercate di fare per me, ma starò bene solo quando vedrò Paul Revere di nuovo qui.
– Sembrate tenere molto a lui. Devo essere onesto, dopo un po’ lo trovo irritante. – Ah, l’adorabile effetto dell’alcool.
Fortunatamente Robert Newman non era tanto privo di senso dell’umorismo. – Be’, per me è stato come un secondo padre, anche se non c’è un’enorme differenza d’età. – Bevve un sorso un po’ più lungo, riuscendo a non tossire. – I Figli della Libertà mi hanno dato l’appoggio che non sono mai riuscito ad avere dalla mia famiglia, o…
– O dalla Chiesa – completai con impertinenza.
– Già. Sono ancora molto tradizionalisti, in quell’ambiente. Per fortuna ci sono persone come Bernard e Pulling. Sono così rari…
Non riuscii a trattenere un sorrisetto, brillo com’ero. – Quanto gli Assassini sopportabili – brontolai tra me, tanto il sagrestano era troppo depresso per starmi a sentire. – E, ditemi, Newman, non avete mai pensato ad un’alternativa?
– Ve l’ho già detto – scrollò il capo. – L’esercito è da escludere, che altro mi resta? Non sono nobile, non sono niente.
Forse sarebbe un buon Templare, ma è dalla loro parte, non mi fido. Per niente. – Almeno siete realista – risposi mandando giù altro grog. – Farete un buon lavoro, ragazzo, quando diventerete predicatore. – Oppure no, dato che gran parte di quegli idioti là fuori odia sentirsi dire la verità.
– Ne siete convinto?
– Be’, vi ho sentito parlare e prendere decisioni, e non su cose di poco conto. – Sorrisi debolmente per via dell’alcool. – E, credetemi, c’è gente più inetta di voi a predicare. – Achille, per esempio, nonostante non sia religioso. – Non abbattetevi. Sembrate un ragazzo sveglio, su.
Robert Newman mi lanciò un’occhiata interrogativa, abbozzando un sottile sorriso. – Perché state cercando di consolarmi, signor Kenway? – chiese.
– Non ho molto di meglio da fare e siete un bravo ragazzo, credo vi meritiate un po’ d’appoggio. – Sogghignai, le mani dietro la testa. – A quanto pare non ve ne danno in molti, giusto?
Il sagrestano scrollò le spalle e fece per rispondere, ma in quello stesso istante la porta fu spalancata da un soldatino tremante. Vedere che non portava l’uniforme rossa ma quella blu bastò per irritarmi. Un patriota. Il ragazzo – perché non poteva essere molto più grande di Newman – sbatté contro un tavolo, cadendovici sopra a pancia in giù e, borbottando qualche debole scusa, saltò in piedi su una sedia. L’attenzione l’aveva catturata, sicuro. – Concord! – strillò con tutto il fiato che aveva in corpo. – Lexington è presa! – Gli altri clienti, che avevano tranquillamente continuato a bere fino a pochi istanti prima, si videro costretti ad alzare lo sguardo sul povero messaggero.
Un po’ mi faceva pena. Chissà che aveva dovuto attraversare per arrivare fin qui, quante moschettate aveva dovuto evitare, che razza di sentieri doveva aver percorso per non essere visto dalle aragoste. – Spalle sanguinanti e patrioti si dirigono a Concord! Concord!
Un uomo si alzò in piedi. – E allora? Che cosa volete?
Mi voltai a guardarlo. Non aveva un aspetto particolare, e ad una prima occhiata non avrei saputo dire se appoggiasse la Corona o i Figli della Libertà. Era semplicemente un uomo impaurito che non aveva voglia di alzare il culo da quella sedia calda e comoda per andare a prendersi una baionetta nel petto. Da parte a parte. Il soldato sospirò. – Cerco Robert Newman.
S’alzò senza che gli dicessi nulla, con un’espressione grave e seria in viso. Forse gli avrebbero detto che Revere era caduto, oh, come mi dispiace!, un altro boccale, per favore!
L’importante era che Connor non fosse morto. Mi serviva quel ragazzo, non mi fidavo dei Mohawk, soprattutto dopo che mi avevano mozzato il dito con euforia. – Sono io – borbottò Robert, e il soldato si buttò giù dalla sedia per parlare con lui, avvicinandosi al nostro tavolo parlottando fittamente.
– Revere è stato preso dagli inglesi, ma è vivo.
– Cosa? – Robert perse quel poco di colore datogli dall’alcool e s’aggrappò saldamente al bordo del tavolo, tremando. – Preso?
– Sa cavarsela – rispose l’altro con una scrollata di spalle. – Gira voce che siate stato voi a mandare il segnale. Grazie, è stato utile.
Robert grugnì, torturando la tovaglia con le dita tremanti. Non riusciva a tare fermo. – Non abbastanza, a quanto pare. – Quel tono acido non era da lui, ma al soldato non poteva fregare di meno. Tremava come una foglia, il poveretto.
– Devi tornare in servizio? – chiesi. Avevo voglia di essere generoso. Una delle mie prime serate fuori senza gli Assassini, dovevo godermela! – Vuoi qualcosa da bere?
Sembrava non vedesse dell’alcool – alcool come si deve, perché ogni tanto ai fronti qualcuno contrabbanda liquore, ma è quasi sempre roba terrificante, acida e disgustosa – da secoli, però scosse comunque la testa. – Allora, non so, vi servono rinforzi?
Quello sollevò le spalle. – Signore – sussurrò levando gli occhioni lattiginosi da ragazzo impaurito su di me. – Signore, io non voglio tornarci. È già stato abbastanza pericoloso qui. Se tornassi laggiù gli inglesi mi ucciderebbero in pochi minuti, magari acquattati dietro un cespuglio. Non voglio rischiare.
Sospirai. – Sei un soldato di professione? – Ero di parte, essendo stato in guerra, ma non ero un patriota, per cui non potevo dargli formalmente l’ordine di non tornare a Lexington anche se sapevo che, per quel povero ragazzo, sarebbe significato morte certa.
– Non esattamente. Sono stato addestrato alle armi, ma non ho mai combattuto. – Gli occhi si fecero lucidi, ci passò i pugni stretti sopra. – Tutti quei morti… Voi non avere idea, signore. Io non sono in grado di uccidere un uomo! Potrei sfidarlo ad un duello di scherma e forse nemmeno lo batterei. – Oh, almeno non era uno di quegli idioti che agitano la spada come uno schermidore anche sul campo di battaglia. Un conto era l’addestramento, ma la guerra aveva un solo stile di combattimento, quello buono per pararsi il culo e sopravvivere altri cinque, dieci secondi.
– E pensi ci sia bisogno di te a Concord?
Schioccò la lingua e sorrise un poco, l’espressione sognante. – Non finché Accetta è vivo.
– Accetta? – Aggrottai la fronte con un terribile presentimento.
– Sì – proseguì il soldato – l’indiano. Avreste dovuto vederlo, m’è passato davanti a cavallo, come una scheggia, si è buttato giù e ha salvato una famiglia dalle spalle sanguinanti. Li ha mandati all’altro mondo con un’accetta strana, poi è rimontato ed è partito a tutta velocità per Concord.
Strinsi i pugni. – Connor. – Ah, se una pallottola gli prende la gamba per il suo inutile esibizionismo gli sta solo bene. – Dannato imbecille. – Alzai la voce e mi rivolsi di nuovo al soldato. – Credi che possa salvare Concord?
– Oh – esordì lui con ammirazione – in parte l’ha già fatto. Ha attraversato la città per avvertire i nostri alleati laggiù. Addio effetto sorpresa, cara la mia Corona! – Scoppiò a ridere e capii perché quest’esserino considerava Connor la salvezza dei patrioti. Idiota.
Lanciai un’occhiata a Newman, che non aveva aperto bocca da quando aveva saputo che Revere era stato preso. – Torna sul campo di battaglia – risposi con un ghigno. E vedi di crepare. – Cerca informazioni su Revere e di’ a chi comanda che la situazione in città è tranquilla.
– Per ora. – Newman era più pallido che mai, le lunghe mani unite come in preghiera e gli occhi lucidi. – Ragazzo, se non fermate la Corona a Concord anche Boston sarà presa e messa a ferro e fuoco. – Mandò giù un altro sorso di grog con enfasi. – Se sopravvivranno, da domani questo posto non sarà più lo stesso. E se moriranno, idem.
– Bene, Robert, grazie per la parentesi ottimistica. Tu, adesso va’. – Ecco, bravo, fuori dai coglioni, tu e Accetta. Deglutendo piano, il soldato si alzò e corse via, lanciando un ultimo grido – Concord! – davanti alla porta, probabilmente solo per farsi coraggio.
Appena sparì, Newman crollò di nuovo sulla sedia, si mise le mani tra i capelli e scoppiò a piangere. – Se la caveranno – sussurrai dandogli qualche pacca sulla schiena. – Paul è un uomo… – stupido, irritante, noioso, sempre allegro, con un brutto accento, pesante, amico di Connor e perciò odioso – …in gamba.
Per miracolo, decise di non mandarmi a quel paese ma di continuare a piangere. Roteando gli occhi, lo presi per un braccio. – Torniamo alla chiesa, forza, hai bisogno di dormire un po’.
 
Io, Bernard e Pulling restammo insieme a Robert quella notte, loro perché gli erano amici, io perché sono curioso per natura e da lassù potevo scorgere il tumulto della battaglia. Avevo bisogno di vederlo, dovevo aspettare che la battaglia finisse per verificare chi avesse vinto e pensare alle conseguenze, perché Newman, come Stephane, aveva ragione. Qualcosa sarebbe cambiato, dopo quelle battaglie.
Così, durante il mio turno di guardia, stavo seduto sull’ampio davanzale e tenevo gli occhi tra Lexington e Concord, osservando le deboli esplosioni luminose che partivano dalle canne dei moschetti ad ogni sparo. Ovviamente, l’idea che per seguire una battaglia – specie di notte e da quella distanza – ci volesse una certa concentrazione non sfiorava nemmeno Giunone e Minerva. – Così caotici. Non si preoccupano mai delle cose davvero importanti. – Giunone, anche a causa delle immagini che mi aveva mostrato e della sua predilezione per gli Assassini, m’irritava non appena apriva bocca. Perché, voi non avete fatto questa fine per lo stesso motivo?, replicai sorridendo appena. Reginald mi aveva raccontato un sacco di cose, tra una notte brava e l’altra. Sì, ora mi giudicherete un insensibile, ma scherzarci sopra era l’unico modo che avevo per non farmi prendere dai morsi dell’angoscia e non impazzire di nuovo.
– Questi non sono affari che ti riguardano, servo della Croce – ribatté Giunone. Sembrava quasi offesa. Mi riguardano eccome. Fate parte di una civiltà che dovrebbe essere più saggia, invece siete forse più ipocrite di noi.
Minerva rise. – Ecco perché mi piace! È intelligente! – esclamò, cristallina. – Haytham, noi non eravamo più saggi. Eravamo potenti, e lo siamo ancora. C’è un terzo che riesce a disturbare le nostre conversazioni, ad ascoltare e a deviarle, e tutto ciò richiede un grande potere. Eppure noi non riuscivamo a trovarlo. Potrebbe essere ovunque.
– Un terzo? – Non riuscii a trattenermi dal parlare a voce alta, tanto stavano dormendo tutti. – E chi diavolo sarebbe? – chiesi, cercando di ricordare. Non potevo ripensare a quelle storie senza ricordare Reginald, e non potevo ricordare Reginald senza pensare a ciò che mi aveva fatto – Minerva, Giunone e…
– Giove – sentenziarono in coro. – Sta cercando di aiutarci o depistarci? Non lo sappiamo. Ci ha mostrato lui le ultime immagini di Charles e Reginald. – Giunone sospirò prima di continuare: – E mi chiedo come abbia fatto.
Mi grattai la fronte. – Be’, non siete una specie di famiglia mitologica? Giunone e Giove, regina e re degli dei, giusto? Forse è un collegamento del genere. Se siete gli unici sopravvissuti ci sarà un motivo.
– Oh, non siamo sopravvissuti – rispose Minerva. – Riusciamo a manifestarci bene nei nostri discendenti. Ecco perché per te è più facile.
Sospirai. – Grazie dell’aiuto. Intendi quindi dire che ognuno di voi comunica con i propri successori?
– È senza ombra di dubbio più facile che mettersi in contatto con uno sconosciuto. Il sangue ha dei legami forti.
– Quindi… – Mi mordicchiai le labbra, riflettendo su ciò che mi era appena venuto in mente. Il sangue ha dei legami forti. Così forti? – No, è un’idea stupida.
– Perché? – Giunone intervenne di nuovo, con quella sua voce ammaliante. – Potresti provare.
Scossi la testa. – Sì, certo, e se ci riesco organizzerò un bel duello, eh? Fatemi il favore, è la fantasia di un imbecille.
– Non c’è niente di male nella speranza, Haytham. 
Non le risposi nemmeno. Era la prima volta che mi chiamava per nome, e non mi piaceva ciò di cui stava parlando. Voleva indurmi a sperare, a diventare ancora più Assassino. No, mai. Il mondo è ciò che è, quindi i vivi non parlano con i morti.
Già. Difficile da credere quando si sta parlando con due donne di non so quante migliaia di anni fa. – Credete davvero che potrei riuscirci? – mugugnai passandomi le mani sugli occhi.
– E chi lo sa? – disse. 
– Con la Mela, forse… – fece Giunone, più enigmatica. Decisi di cambiare discorso, non mi piaceva dove stavamo andando a parare.
– D’accordo – mormorai. – E credete che il mio piano per tutta questa storia funzionerà?
Minerva sibilò, irritata. – Non siamo le tue balie! Mi fido di te, Haytham, ma confida di più in te stesso. Hai un cervello. Sai cosa fare.
– Ma se oggi Connor dovesse morire? – Ecco, le parole erano uscite dalla mia bocca troppo in fretta. – Andrebbe tutto a farsi benedire. Quindi dovreste farmi un favore. – Non risposero, così proseguii. – Proteggetelo. Non molto e non totalmente, solo un po’. Abbastanza perché non muoia. Mi serve. – Non c’era affetto nascosto nelle mie parole, solo sacrosanto opportunismo.
– Va bene. Ci penseremo noi. Dormi un po’.
– No, non mi va.
– Non era un consiglio.
Un attimo dopo ero praticamente in letargo. 

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Capitolo 26
*** Dove portano le idee. ***


Da ex-soldato posso dire che non esiste risveglio peggiore del caos della battaglia. Alzarsi di scatto con gli occhi ancora incollati dal sonno, perché si è stati così sfortunati da addormentarsi proprio in quel momento, afferrare il fucile più vicino, sollevarsi i pantaloni e affondare la baionetta in qualunque cosa si muova, dato che magari i nemici sono già nell’accampamento e forse hanno già ammazzato l’uomo accanto al quale si stava dormendo. Spesso qualcuno uccide un compagno, altre volte si viene uccisi non appena si aprono gli occhi, succede. È la guerra.
Dal giorno dopo le battaglie, il venti aprile del 1775, fu una frase che sentii troppe volte. È la guerra, è la guerra. Qualcuno muore? È la guerra. Il raccolto è scarso? È la guerra. Il camino esplode e una casa brucia completamente? È la guerra. Sempre colpa della guerra. Ciò che odiavo di più era sentire quelle parole in bocca a Connor, che non aveva mai vissuto una guerra e non poteva sapere come fosse.
Quando arrivò non sapevo se ringraziare Minerva e Giunone o darmi un pugno in testa per la mia idiozia. Avrei preferito non salvarlo.
Robert Newman mi svegliò strillando come un ossesso, affacciato alla finestra della torre campanaria. – Sono tornati! Signor Kenway, svegliatevi, sono tornati! E c’è anche il signor Revere!
Ma che gioia. Grugnendo, mi puntellai sui gomiti e mi alzai: ero steso sul davanzale del lato nord della chiesa mentre Newman saltellava su e giù per la stanzetta infilandosi gli stivali e il cappello. – Dio, il signor Revere è stato liberato! Rendiamo grazie!
Sospirando, lanciai un’occhiata lungo la strada. Connor avanzava verso la chiesa su un cavallo affiancato da Paul Revere e William Dawes, manco fosse Gesù Cristo accolto a Gerusalemme. Disgustoso. Il giovane sagrestano uscì a tutta velocità dalla chiesa, come un topolino eccitato, e stropicciò il cappello tra le mani mentre Revere scivolava giù da cavallo quasi a passo di danza. Connor si limitò a stringergli la mano, sorpassandolo e varcando la soglia della Christ Church con ampie falcate. Aveva vinto e stava cercando me. E, in quello stesso istante, ricordai cosa era davvero andato a fare a Lexington e Concord.
Mi trovò là, seduto sul davanzale con aria scioccata, incapace di dire qualsiasi cosa. – Haytham – esclamò serio. Partecipa a due battaglie e chissà chi crede di essere.
Mi voltai a guardarlo con tanto d’occhi. – L’hai ucciso? – chiesi piano. No, non doveva ucciderlo. Perché non ero andato con lui, perché dovevo sempre svenire nei momenti sbagliati? Cazzo.
– Non ce l’ho fatta – mugugnò senza espressione. – Ma i patrioti hanno vinto e John Pitcairn s’è ritirato con l’esercito. Un passo avanti.
Sogghignai, sollevato. – E quanti ne sono morti?
– Una cinquantina. Nemmeno troppi. – Il suo sguardo sembrava ancora più duro dell’ultima volta che l’avevo visto. – Haytham, è ufficiale. Gli strilloni hanno già diffuso la notizia. Siamo in guerra. Le colonie vogliono l’indipendenza e io darò una mano.
– Auguri. È una causa persa.
Alzò gli occhi al cielo, sollevando le mani. Per te sono tutte cause perse.
– Non è vero. Le cause perse sono quelle prive di qualsiasi realismo. Da’ la libertà ai coloni e la toglierai a qualcun altro. L’uomo non è fatto per la pace. – Sono il più grande idiota che sia mai esistito. Nella mia prossima vita, se mai ce ne sarà una, giuro di non avere mai contatti con un Assassino. Parola del signorino Haytham E. Kenway. – Sai, credo che un morto se ne sarebbe accorto da più tempo di te.
Il ragazzo scrollò le spalle. – Dipende da quand’è morto.
– Fai del sarcasmo?
– Perché, è vietato?
– Va’ in battaglia più spesso, ti fa bene – replicai gelido. Quei due giorni in compagnia dei Figli della Libertà parevano oro in confronto alla prospettiva di chissà quanti mesi di stressante collaborazione con gli Assassini. – A dimostrazione di quanto dicevo prima, hai combattuto per due giorni senza ottenere nulla. E poi dimmi che non è una causa persa.
Scivolai giù dal davanzale e stirai la redingote con una mano, passandogli accanto. – Allora, ragazzo? – chiesi con un sorrisetto impertinente. – Quale sarà la tua prossima mossa?
Mi seguì con lo sguardo, la stessa emozione di un ciocco di legno. – Qualunque cosa possa aiutare George Washington.
Gli voltai le spalle, ricordando il mio ultimo incontro con lui. Mi aveva guardato dall’alto in basso, lo sguardo che parlava per lui. “So chi sei e cos’hai fatto”, sembrava dire. “Sei un traditore della peggiore specie, hai ucciso il tuo tenente colonnello assieme ad una donna indiana, tutto solo per te stesso. Un maledetto bastardo, ecco cosa sei, e per quanto tu mi sia contro devi ricordarti che sono il Comandante in Capo di un esercito. Uno schiocco delle mie dita e centinaia di uomini ti punteranno contro le armi.”
Sospirai. – Bene. Sappi che non sarò dalla tua parte, allora. – Aprii la porta che portava di sotto e feci per scendere le scale.
– Che significa? – sussurrò tenendo la porta aperta dietro le mie spalle.
– Significa che non avrai il mio appoggio – dissi semplicemente, voltandomi a guardarlo. – Non ne hai bisogno, giusto? Hai la tua Confraternita. E poi non è una causa persa.
Tenne gli occhi fissi nei miei, due fessure traboccanti rabbia. – Non ho mai avuto il tuo appoggio – ringhiò. – Smettila di tirare in ballo il fatto che Washington abbia dato fuoco al mio villaggio. – Perché tanto non ci credi nemmeno, giusto? – Tu non vuoi aiutarlo perché vuoi il potere su questa terra.
Scossi la testa. – Sei incredibilmente stupido. Quell’uomo mi odia. – Ridacchiai. – Sai, Connor, in un certo senso sono stato io a spianargli la strada per il comando dell’esercito. Ho ucciso il suo diretto superiore, il tenente colonnello Braddock. Assieme a tua madre, per la cronaca. – Il suo sguardo si fece sospettoso. – Ho fatto in modo che prendesse il posto di Edward, che avanzasse nella gerarchia militare.
Lui scrollò le spalle con noncuranza. – Potevi evitare di ucciderlo.
– Oh, certo. Così tua madre avrebbe lavorato come schiava in una piantagione e Connor, il difensore del primo imbecille che gli passa davanti al naso dicendo di aver subito chissà quale grande ingiustizia, non sarebbe nemmeno nato. Sarebbe stato un bel mondo, in un certo senso.
– Smettila. – Passò accanto a me e fece per darmi una spallata, che evitai scostandomi appena. Cercava di usare i trucchi con un maestro, il ragazzino. – Ucciderò John Pitcairn, se sarà necessario. Sappilo, Haytham.
Lo presi per il cappuccio della giubba da Assassino, tirandolo indietro e rischiando di soffocarlo. – Tu non ucciderai nessuno – esclamai spingendolo contro il muro. – I patrioti sono senza speranza in qualsiasi caso.
– Però non puoi agire a favore della Corona. – Sospirò. – Sei ad un punto morto anche tu, vedo.
– Quindi ammetti di essere ad un punto morto?
– Non ho detto questo.
Feci spallucce con un mezzo sorriso. – Non aiuterò te e Washington, se è questo che vuoi sapere. E non aiuterò la Corona.
Mi guardò con aria di sfida. – Allora cosa vuoi fare?
– Oh, ho una mezza idea. – Con un gran sorriso, gli diedi una spintarella e scesi le scale due gradini alla volta. Avevo un lavoro da fare. 

Stavo slegando un cavallo fuori da una locanda quando Connor venne a farmi visita con i Figli della Libertà. – Dove stai andando?
Sbuffai. – A New York – risposi montando in sella. – Vuoi venire con me?
Indicò Paul Revere con un cenno della testa. – Ho un po’ da fare. E perché a New York?
Scrollai le spalle. – Qui non ho niente da fare, non ti sarei utile.
– Sì, e a chi saresti utile a New York? Ai… – si diede un colpetto sulla testa – …nostri amici?
Sogghignai, tirando le redini del cavallo che sembrava decisamente più ansioso di me di andarsene da quel posto. Non si era ancora reso conto di quanto fosse fortunato, dato che Giunone aveva piantato i paletti della tenda dentro la mia, di testa. – Ci vediamo – risposi ambiguo. – Presto.
Incrociò le braccia e mi guardò affondare i talloni nei fianchi del cavallo senza dire una parola, statico come sempre, la bocca stesa in una linea dritta ed inespressiva. Non lo sopportavo. Non volevo che si gettasse ai miei piedi implorando un abbraccio, ma sarebbe stato più normale. Almeno salutarmi.
La locanda era già lontana quando mi voltai, e Connor era sparito.
 
Seduto nel bel mezzo del nulla, chiunque avrebbe potuto scambiarmi per un malvivente. Magari il fuoco avrebbe attirato qualche aragosta o animali in cerca di cibo, ma era l’ultimo dei miei problemi. Avevo troppo freddo per restare senza fuoco in piena notte. Il cavallo, legato al ramo di un albero, emetteva piccole nuvole di condensa dal naso ogni volta che respirava. Faceva un freddo maledetto, per essere aprile. – Sapete che ho un piano? – sussurrai, stretto nella mia redingote e con le gambe tese accanto al fuoco per ricevere quanto più calore possibile. – Ehi, dico a voi. Cos’è, siete sempre pronte a darmi fastidio ma disdegnate una banale conversazione? Sto solo cercando di essere amichevole.
– Umpf. – Giunone continuava a rivolgersi a me con quel tono di sufficienza, come se stare nella mia testa gli facesse schifo. Poteva benissimo tornare dal suo Assassino, nessun problema. – Sei solo irritante, servo della Croce. Noi abbiamo fatto il possibile per te. Ora devi fare la tua parte. Da solo.
Aggrottai la fronte, lanciando uno sguardo confuso verso il cielo. – Che vuoi dire?
– Abbiamo protetto tuo figlio durante la battaglia. Ciò che volevi. Ora, un riscatto.
– Giunone! – Minerva, chissà perché, era sempre pronta a fermare l’altra, specie quando cominciava a parlare in quel modo. Ci capivo meno di prima e mi pentivo ogni volta che provavo ad aprire un dialogo con quelle due inquiline. Però, insomma, se dovevano vivere nella mia testa senza nemmeno pagare l’affitto, tanto valeva farlo per bene. – Non dobbiamo parlarne. Lo sai.
Agitai una mano in aria. – Ah, fate pure – grugnii. – Io non sono qui. Va tutto benissimo.
Minerva sbuffò. – Chiudi il becco, dannato idiota.
– Sempre gentile. – Quelle due non erano certo le migliori coinquiline di sempre, ma che avrei dovuto fare? La solitudine gioca brutti scherzi. – Dicevo, ho un piano.
Dio, ma con chi credi di parlare, con tuo padre? Questa non era né Minerva né Giunone, solo una vocina nella mia testa, forse l’ultima parte di me rimasta mentalmente sana. A queste due non frega niente del tuo piano. Sai cosa fare, no? Che ti importa di loro? Ti senti solo e hai bisogno di compagnia? Certo che sei un bel controsenso, tu. Reginald poteva darti tutta la compagnia che vuoi e…
Zittii quell’esserino con la sola forza di volontà, mollandomi uno schiaffo sulla fronte. – Chiudi il becco. Sto diventando pazzo.
– Allora parti avvantaggiato. Tutti impazziscono prima di finire sulla forca.
Trasalii, e quando alzai la testa di scatto per poco non l’infilzai sulla punta di una baionetta. – Dio! – sibilai, percorrendo il fucile con lo sguardo. Era retto da una mano pallida e tozza, infilata a sua volta in un polsino bianco chiuso da dei bottoni familiari. Salendo ancora, la manica diventava rossa. Ecco cosa si ottiene a parlare da solo in mezzo ad un bosco con un fuoco acceso. – Mi… Mi dispiace.
Il soldato davanti a me sorrise con aria sprezzante. – Ti dispiace? Sai che siamo in guerra, amico? Fai il finto tonto, dico bene? Sei una spia dei patrioti? – Per poco non scoppiai a ridere. Io? Un patriota? – Rispondi, figlio di puttana!
Sollevai le mani aperte nel banale tentativo di levarmelo di dosso. – Non sono un patriota, posso giurarlo sulla mia stessa vita – mormorai indietreggiando.
– Però giri armato – grugnì il soldato, facendo cenno a qualcuno alle sue spalle di avanzare. Un'altra giubba rossa, un tipo più massiccio e con una faccia crudele, lanciò uno sguardo divertito al mio focolare e al cavallo, manco fosse un asino.
Scrollata di spalle. – Siamo in guerra. L’avete detto voi. – Colpito e affondato. A volte la diplomazia è utile, devo ammetterlo.
– Non fare lo spiritoso con me – sibilò quello, sfiorandomi il collo con la punta della baionetta. – Duke, prendilo. Vediamo se gli torna in mente qualcosa con un occhio nero.
Deglutii, fingendo di essere terrorizzato da quelle femminucce. – Per piacere, signore, non mi sembra il caso di essere così violenti! Io non so nulla, lo posso assicurare! – Feci per coprirmi la faccia con le mani e quei due subito scoppiarono a ridere. – Per piacere, ho un figlio. Io non c’entro niente con questa guerra. Re Giorgio è un grand’uomo, un grandissimo uomo. Lo venero al pari di Dio!
Va bene, glielo concedo, era decisamente troppo, perché il soldato mi mollò uno schiaffo. – Piantala, buffone. Duke, questo è meglio farlo fuori.
Duke il bestione sembrava non essere molto interessato al sottoscritto. Si limitò a grugnire. – E se sa qualcosa? – A dispetto del grugnito, aveva una ridicola voce acuta. Capii perché fino a quel momento aveva parlato il meno possibile. – Sai cosa ci ha detto il comandante. Chiunque sappia qualcosa sui patrioti deve essere interrogato.
Il soldato più smilzo sollevò le spalle. – Che vuoi che ti dica, Duke? Questo ci sta prendendo per il culo, per me possiamo anche farlo secco. Un po’ di sangue farà bene alla terra, con questo gelo.
Aveva pure grandi competenze in campo botanico, Smilzo. Complimenti. – Signore, per favore… Abbassai le mani, accostandole alle mie ginocchia. – Ho una famiglia, sono solo qui per cacciare, non hanno altro con cui sfamarsi!
Fu il bestione a sollevare il fucile, stavolta. – Vorrà dire che finiranno a morire di fame in un vicolo.
Finsi un singhiozzo e proprio mentre Duke controllava il proiettile sguainai la spada corta e scattai in piedi di colpo, infilandola fino all’elsa nello stomaco di Smilzo. Così pieno di sé, eppure cadde a terra come un qualunque poveraccio, la giubba ancor più rossa. Duke mi puntò il fucile contro e tirai il corpo di Smilzo verso di me con uno strattone, assieme alla spada. Il proiettile rimase incastrato nel cadavere e quando lasciai afflosciare a terra il corpo c’era solo furia sul viso di Duke. Aveva sprecato il suo unico colpo. Imbecille. Non sono un patriota – dissi con un mezzo sorriso, avanzando verso di lui. – E non ho nemmeno un figlio. Re Giorgio potrebbe marcire all’Inferno, per quanto mi riguarda, e non sono qui per cacciare. – Il bestione sembrava non capire bene cosa volessi dire. Scattò in avanti senza lasciarmi finire il discorsetto – peccato, sul serio – e provò a trapassarmi con la baionetta. Deviai il colpo con la lama celata, spingendolo indietro, dritto sul focolare. – Oh.
Non ebbi bisogno di fare nient’altro, perché crollò di schiena sul fuoco cominciò a strillare qualche secondo dopo, alzandosi e correndo in cerchio come un ossesso. Non avevo nemmeno dell’acqua. Sollevai la pistola con noncuranza e gli sparai un paio di colpi nello stomaco. – Ringraziami, Duke. Non sono spesso così misericordioso. – Ma era già morto, e avevo imparato a mie spese che parlare quando si è da soli non era un buon affare. Mi lasciai cadere a terra. Ero stanco. Non avevo più voglia di combattere, nemmeno contro due idioti come questi. Sentivo di aver combattuto pure troppo, e adesso, attorno a me, la gente ricominciava a sparare solo perché il rampollo della casa accanto indossava una divisa rossa o blu. Scrollai il capo e riposi la spada, afferrando Smilzo sotto le ascelle e trascinandolo verso un mucchio di foglie vecchie. Lo stesso destino toccò a Duke.
Saltai di nuovo in groppa al cavallo e ricominciai il mio viaggio verso New York. Ho un piano, pensai di nuovo. Che vogliate ascoltarlo o no, non potrete fermarmi.
Non rispose nessuno. Nemmeno alle voci nella mia testa importava più.
 
Il resto della cavalcata fu più tranquillo. Non era certo una passeggiata, ma me l’ero cavata cacciando qualcosa lungo la strada e accendendo fuochi solo dopo un’adeguata perlustrazione. Non volevo altre baionette alla gola, non senza un motivo valido.
Stranamente, non incontrai nemmeno patrioti. Forse mio figlio li stava aiutando a scolpire un monumentale colosso di George Washington. Stupido fanatico, lui come tutti gli altri. Quella guerra non avrebbe portato a niente. Per questo volevo fermarla da subito.
Quando arrivai alle porte di New York dovetti sganciare qualche sterlina alle guardie per passare, ma niente che non succedesse già prima. Una cosa era cambiata in città, ed era la presenza dei soldati. Se prima ne erano piene solo le zone del porto e i forti, dopo qualche settimana era possibile vedere almeno due giubbe rosse in ogni strada. Persino all’imbocco dei vicoli. Ovunque. Mi sentivo osservato, perché qualcuno di loro poteva conoscere Charles. Questo pensiero pungolò più volte la mia mente, trasformandosi in un’idea. Potevo benissimo prendere uno di quegli imbecilli e interrogarlo su Lee, ma dopo? Ucciderlo e attirare l’attenzione? E perché? Perché dovevo lasciarmi condizionare? Volevo sapere dov’era Charles, ovvio, ma se il mio piano fosse andato in porto sarebbe arrivato lui. E al galoppo.
Mollato il cavallo davanti ad una locanda, mi arrampicai non senza fatica – avevo pur sempre un dito in meno – su per l’unico lato scoperto della Trinity Church, sperando che il mio talento non mi avesse abbandonato. E non parlo di quello per l’arrampicata.
Non avevo nemmeno troppo fiatone quando arrivai sulla cima, in bilico con le piante dei piedi fisse sui bracci della croce. Presi un gran respiro e lasciai scorrere lo sguardo sul forte piantato proprio lì, di fronte al mare. Andiamo. Non posso essere così arrugginito. Aggrottai la fronte fin quasi a farmi venire mal di testa, ma ad un tratto accadde. Tutto si scurì. I soldati brillavano scarlatti contro il buio del paesaggio e dei passanti, qualche puttana era illuminata d’azzurro – chissà perché – ma nessuno dorato. Neanche un’ombra. – Andiamo – grugnii a denti stretti. – Potrebbe essere da qualche altra parte. Eppure era qui. E voi – ringhiai rivolto a Minerva e Giunone – potreste anche essere d’aiuto, di tanto in tanto.
– Che cosa ti serve? – sibilò Minerva.
– Se ti scoccio tanto puoi anche sloggiare da là dentro, sai? Cercati un altro cervello.
Ridacchiò. – Non ce ne sono tanti come il tuo – rispose. Sembrava mi stesse facendo delle avance. – Ti serve altro aiuto, servo della Croce?
Sollevai gli occhi al cielo e quella strana luminescenza, l’occhio dell’aquila, sparì. – Solo sapere dov’è.
– Dov’è chi?
Avevo voglia di urlarle contro. – Sai benissimo di chi sto parlando. George Washington. Dov’è?
– Non possiamo dirtelo – intervenne Giunone.
– Ecco, ci mancava l’altra. Tu vuoi solo proteggere gli Assassini e i loro interessi. Ditemi dov’è.
– Altrimenti, servo della Croce?
Cos’era, una provocazione? – Altrimenti mi lancio. E potrete dire addio al mio cervello. – Mi colpii la tempia con un dito e sorrisi. – Andiamo, cosa vi costa? Vi ripagherò. Magari vi offro una birra. – Per una volta nessuna delle due mi fulminò. Progressi.
Sentii Minerva sbuffare. – Cerca bene. Forse troverai ciò a cui aspiri.
Scrollai le spalle, un po’ scocciato, e mi concentrai. L’occhio dell’aquila si attivò di nuovo, e per poco non caddi dalla chiesa quando una figura tra le mille altre nel centro del forte s’illuminò d’oro, come quella volta a teatro. Miko. – Merda! – grugnii, reggendomi con più forza alla croce metallica. – Perché prima non l’ho visto?
– Perché non hai cercato bene.
– Mi piaci quando hai il senso dell’umorismo, Minerva. – Con una mano sugli occhi riuscivo persino a vedere i ciuffi di capelli bianchi che spuntavano dal suo tricorno. Lurido bastardo. – Bene. Grazie.
E cominciai a scendere.
 
L’ultima volta che mi ero intrufolato in un forte non era andata esattamente bene, così decisi di tentare con un approccio più discreto. E c’è qualcosa di più discreto di un soldato in un forte? Un trucco vecchio come il mondo, che avevo già usato, ma la storia è fatta per ripetersi, no?
– Scusa, amico – grugnii dopo aver mollato una botta in testa alla giubba rossa più vicina, trascinando il poveretto dietro una casa e spogliandolo. Mi assicurai che fosse svenuto per bene, almeno non avrei dovuto preoccuparmi per lui. Gli infilai persino i miei abiti, con un certo dispiacere. Ero un perfetto soldato britannico. Un’altra volta.
I soldati di guardia mi fecero entrare senza dire una parola, mi bastò fare il saluto militare. Avevo l’uniforme giusta, quindi tutte le porte erano aperte per me. Il forte era pieno di soldati, tipico dei tempi di guerra: giovanotti che affondavano baionette a vuoto, altri che caricavano e scaricavano i fucili, gente più esperta che girava con un sigaro tra le labbra e gli artiglieri che guardavano dall’alto in basso le reclute. La loro grande conoscenza delle armi da fuoco li rende molto mal disposti nei confronti di chi usa principalmente le lame. Qualcosa dell’essere soldato mi mancava. Non le guerriglie, gli appostamenti o l’essere spronati a suon di minacce e imprecazioni, ma il cameratismo. Qualcuno accanto anche davanti alla morte. Poi c’erano i cagasotto, certo, quelli che non voleva nessuno, ma è un’altra storia. – Dicono che voglia disertare.
Rizzai le orecchie, quasi trasalendo. Un paio di Jäger davanti a me stavano parlottando fittamente, ma quelle parole giunsero chiarissime alle mie orecchie, facendomi tremare d’eccitazione. – Credi sia per questo che è entrato lì dentro in tutta fretta? Vuole mollare? E perché non se ne va e basta? – chiese uno dei due. Con quei giganteschi zaini e visti di spalle, i due potevano anche essere la stessa persona, quindi li chiamerò Destra e Sinistra.
Destra sollevò una mano. – Che vuoi che ti dica? A me hanno detto così. Che vuole passare dalla parte del Continentale.
– Maledizione! Washington vuole farsi ammazzare? – Sinistra sembrava agitato, ogni quattro parole guardava il gabinetto come se avesse un tic. – Quell’uomo sta rischiando grosso.
– Che ci vuoi fare? Se muore è solo meglio per noi. – E anche per me. Destra cominciava a piacermi. – Era un bravo generale, dall’altra parte non ci farebbe comodo. – Ritiro tutto. Avrebbero dovuto torturarmi molto pesantemente prima di far uscire dalla mia bocca le parole bravo generale e George Washington nella stessa frase.
Seguii lo sguardo di Sinistra. Il gabinetto era arroccato sopra i depositi d’artiglieria. Mi sarebbe bastato salire sulle mura, il problema era che non potevo dare nell’occhio, e un soldato che non sa dove si trovino le scale è un tantino sospetto. – Dannazione. – Una porta. Mi serviva solo una porta. Lasciai perdere gli Jäger e costeggiai le mura alla ricerca di un varco. E dovevo pure fare in fretta.
Ripassai mentalmente le armi che avevo addosso. La spada corta, lama celata, due pistole cariche, qualche proiettile in tasca, il moschetto caricato in spalla e un paio di coltelli da lancio sulla schiena. Nella bisaccia che avevo rubato alla giubba rossa c’era anche una corda. Non il massimo, ma decisamente buono. – Permesso – sibilai all’omone piazzato davanti ad una delle porte. Quello mi squadrò dalla testa ai piedi senza l’intenzione di muoversi. – Dovrei…
– Di qua non può passare nessuno. Ordini del generale.
Sollevai un sopracciglio. A quale generale ti riferisci? Al disertore? – D’accordo. Scusa. Gli ordini sono ordini. – Mi allontanai con un sospiro e imprecai a mezza voce. – Ci sarà un’altra entrata, no? – sussurrai. Doveva esserci un’altra entrata.
Quando la trovai, e per di più scoperta, per poco non lanciai un gridolino. Avevo perso fin troppo tempo lì dentro e sentivo l’ansia montarmi nel petto. Se un mio compagno d’arme fosse stato lì sarei morto. Già immaginavo l’incontro. Oh, ma io ti conosco! Tu sei Kenway! E che ci fai di nuovo qui? Dopo aver ammazzato Braddock… Allarme! Non esattamente un bentornato coi fiocchi. O, peggio ancora!, se ci fosse stato qualcuno che mi avesse riconosciuto durante l’ultima cavalcata del vecchio tenente colonnello Braddock? Non potevo correre il rischio.
Aprii la porta incassata nelle mura e le scale due gradini alla volta, sperando di arrivare sulle mura in tempo. Forza. Appoggiato al parapetto, mi concentrai di nuovo su quello stupido gabinetto per dare una spronata all’occhio dell’aquila. Non lo usavo spesso, ma quando lo facevo dovevo sforzarmi come uno schiavo. Maledizione. Attraverso una finestrella di vetro potevo scorgere l’alone dorato del generale Washington, tutto intento a parlare con un altro soldato. Una finestra. Questo non era previsto. – Cazzo. – Dovevo fare qualcosa. Niente che desse troppo nell’occhio, o il mio piano sarebbe crollato come un vecchio muro. Infilai la mano in tasca e ne tirai fuori un proiettile, solo una pallina di piombo. – Speriamo in bene.
Strinsi il proiettile nella mano destra e un pugnale da lancio nella sinistra, prendendo la mira.
Se Connor voleva appoggiare George Washington, avrebbe dovuto seguirlo all’altro mondo.
Scagliai la sferetta di piombo con un grugnito. Il rumore dei vetri infranti allarmò qualcuno, ma il proiettile aveva colpito la testa del bastardo, appena sotto l’orecchio.
Non potevo perdere tempo. Passai il pugnale alla mano destra e mirai alla schiena del generale. – O la va o la spacca – sussurrai prima di lanciarlo.
Lo vidi affondare accanto alla scapola destra di Washington, che cadde a terra con la faccia in avanti. – Generale? – gridò qualcuno. – Un attentato! Il generale è stato colpito!
Cazzo. Avevo le mani serrate attorno al parapetto, le nocche bianche per quanto stringevo, i denti che tremavano. Due uomini aiutarono George Washington ad alzarsi, uno indossava la divisa rossa adornata come quella di un comandante, l’altro aveva una redingote beige e i capelli ricci, un po’ unti, il lungo naso familiare. Mi parve quasi di sentirlo parlare. – Vi sentite bene? Vi sentite bene? – diceva.
Non avevo parole. Potevo solo agire. – Merda! – sibilai tra i denti, tirando fuori la pistola già carica.
Ero pronto a premere il grilletto quando qualcuno mi mise una mano sulla bocca e sul naso, impedendomi di respirare. Bang! Il colpo partì a vuoto, tutto il forte si voltò verso di me, ma l’uomo che cercava di soffocarmi sembrava non avere nessuna fretta di lasciarmi andare. – Calmati, Haytham. – Oddio. No. Non la sua voce. Non di nuovo. – Alla fine era destino che ci incontrassimo ancora, no?
Se avessi avuto un briciolo di fiato gli avrei urlato contro, se fossi stato colto meno di sorpresa sarei riuscito a respingerlo, ma aveva vinto lui. Come tutte le altre volte, era stato più furbo di me, perché mi conosceva troppo bene. Meglio di chiunque altro.
Vinceva sempre lui.
L’ultima cosa che vidi fu lo spigolo del parapetto che si avvicinava alla mia testa, poi udii un tonfo e la sua risata. 

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Capitolo 27
*** Vecchie conoscenze. ***


Mal di testa. – Ah. Cristo. – Però potevo parlare. Be’, un piccolo punto a mio favore.
– Quel maledetto comandante stava rovinando tutti i nostri piani. – Trasalii sentendo di nuovo quella voce. Allora non l’avevo immaginato… – Non me lo sarei mai aspettato. Se non fossi stato lì Washington sarebbe morto.
Sentii il respiro rauco di un’altra persona, una seconda voce che ben ricordavo. – E i nostri problemi non esisterebbero.
Rise. Maledetto bastardo. – Via, Charles! Non avresti potuto lasciar morire un tuo superiore in quel modo, dico bene? È pur sempre il futuro comandante in capo dell’Esercito Continentale, e in qualità di generale credo sia un tuo dovere difenderlo. No, lasciare che Haytham gli sparasse o mollarlo sul pavimento mezzo dissanguato non sarebbe stata una mossa astuta.
– Ma la sua morte lo sarebbe stata. – Charles cominciò a camminare avanti e indietro, le assi del pavimento che scricchiolavano sotto di lui. – Io potrei essere il comandante, a quest’ora. Invece siamo qui.
– Abbiamo Haytham. È un passo avanti, ragazzo mio, non pensi?
Ragazzo mio! Mi veniva da vomitare. – Ah, Haytham! A proposito, come stai? – Si avvicinò a me, guardandomi dall’alto come una divinità, e mi sollevò per le braccia, manco fossi un bambino. Avevo le mani legate dietro la schiena e mi faceva male la faccia. – Temo, per tua grande sfortuna, che George Washington sia ancora vivo. – Battei le palpebre quando me lo ritrovai davanti, perché non potevo crederci. Ero tra le sue mani un’altra volta. Sempre vestito in modo impeccabile, la redingote blu, i capelli puliti, gli stivali lucidi e i calzoni lavati di fresco. Io indossavo una camicia e i vecchi pantaloni di tela beige. Mi avevano strappato di dosso la divisa da soldato. – Che ti era saltato in mente? Tutto frutto della tua testa, giusto?
Digrignai i denti. – Reginald – sussurrai, quel nome come una bestemmia tra le mie labbra. – Come hai fatto a trovarmi?
– Ah, rispondi prima tu. Poi io e Charles ti spiegheremo un paio di cose. Lee, per piacere, potresti portarmi del vino? Gli interrogatori mi mettono sete. – Reginald mi guardò con un gran sorriso. Gli sarei saltato addosso se non avessi avuto le mani legate.
Charles chinò la testa e si allontanò mentre Reginald si lasciava cadere su un divano riccamente decorato. Quello in cui mi avevano portato sembrava un salotto che nessuno puliva da un bel po’, pieno di polvere e ragnatele negli angoli. Il legno del divano, però, splendeva. Immagino che Charles l’abbia pulito con la lingua per te, maledetto porco. – Vuoi sapere perché l’ho fatto, Reginald? Perché pensavo fosse la cosa giusta da fare. Gli Assassini venderebbero anima e corpo per quell’uomo, e io credo non meriti quel posto.
Sogghignò mentre Charles Lee gli consegnava un calice pieno di vino rosso. Era come se stesse brindando con il sangue di mio padre. – Almeno su una cosa siamo d’accordo, Haytham. Due, in verità. – Si alzò agitando un po’ il bicchiere, come avevo visto fare a certi uomini importanti durante i ricevimenti. – Anche io voglio entrare nel Grande Tempio.
Ridacchiai. – Anche tu? Diciamo che non hai mai abbandonato quell’idea. – Concentrai tutto il mio odio nello sguardo e puntai gli occhi su di lui. – E poi a me non interessa il Grande Tempio. M’interessa la Mela. Voglio entrare lì dentro solo…
– …solo perché sei curioso. Lo so. Che cosa sarà mai così potente da attrarre Assassini e Templari? Deve certamente essere qualcosa di meraviglioso, e venerabile! Un oggetto protetto così bene da aver bisogno non di una, ma di due chiavi! – Il ciondolo verde al suo collo, che prima non avevo notato, brillò di luce propria. Succedeva spesso quand’era Reginald a tenerlo, e la cosa mi spaventava un po’. – Che il diavolo mi porti, siamo tutti curiosi.
Scossi il capo mentre Charles prendeva posto accanto al suo nuovo Gran Maestro. Una stretta al petto. – Tu non sei curioso, Reginald. Tu vuoi quell’oggetto, qualunque cosa sia. Vuoi quel Tempio. E magari lo… – Ripensai un attimo a ciò che aveva detto. – Un momento, hai parlato di chiavi?
Charles Lee rise e Reginald gli lanciò un’occhiata orgogliosa. – Chiavi – confermò il ragazzo. – Come abbiamo fatto a non pensarci? Non bastava trovare il Grande Tempio, andava aperto. Logico. E la Mela dell’Eden serve a questo. Ricordi? C’era un avvallamento nella parete. Un avvallamento sferico, perfetto per quel manufatto. – Charles guardò Reginald come se cercasse il suo appoggio. Un bambino egocentrico che ha bisogno di sentirsi dire quanto stia andando bene. Dio. Il Gran Maestro gli fece cenno di proseguire. – E non solo. Alcuni vecchi libri…
– Antichi, Charles. Antichi.
– Alcuni antichi libri – Lee fece un cenno ossequioso a Reginald pronunciando quell’aggettivo – hanno rivelato che nemmeno questo è sufficiente. Questo è il motivo per cui sei qui.
Aggrottai la fronte, sconvolto. – Io sono la chiave del Grande Tempio?
Reginald strinse la spalla di Charles in una morsa, la mascella irrigidita. – Non è così che avresti dovuto scoprirlo, ma il danno è fatto.
– Già, a te piace più l’effetto sorpresa – sibilai con tutto il mio disprezzo.
– Faresti meglio a tenere per te quel sarcasmo, Haytham. Ti ricordo che quello legato e disarmato sei tu. – Reginald mi rivolse un altro dei suoi famosi sorrisi, e sperai che almeno quello fosse seguito da delle risposte vere. – Bene, tornando al Grande Tempio, ti spiegherò con calma più tardi. Ora parliamo di George. Il vecchio Washington ha deciso di cambiare sponda. – Sollevai un sopracciglio. E, parlando di altre sponde, non è l’unico qui, vero, Reginald? Cane. – Così ha preso tutta la sua roba ed è andato a licenziarsi. Però l’Esercito Continentale ha pensato fosse un po’ pericoloso lasciarlo andare da solo.
Roteai gli occhi. – E chissà chi gli ha suggerito quest’idea. – Pensai che se fossi stato tra gli Assassini magari mi avrebbero mollato uno scappellotto, ma lì avevo una reputazione. Ero un Gran Maestro del rito coloniale e Reginald era troppo composto per darmi un ceffone come si fa con i bambini. Ridacchiò, infatti.
– Diciamo che sono piuttosto vulnerabili. – Giocherellò con l’anello che portava alla mano destra. – E che io sono molto persuasivo – aggiunse con un gran sorriso. – In ogni caso, il nuovo comandante in capo aveva bisogno di una scorta. E chi sarebbe stato più appropriato del generale Lee, suo secondo sia nell’Esercito Britannico sia in quello Continentale? – Mi parve quasi che Charles fosse arrossito.
– Un momento. Comandante in capo?
– Ancora niente di ufficiale – brontolò Reginald agitando la mano – ma è solo una questione di giorni. Intanto George ha insistito per correre dalle aragoste e fare il gentiluomo. Non è mai stato un grande stratega.
Abbassai lo sguardo, cercando di collegare tutti i fatti. Una cosa in comune tra Reginald e mio padre c’era, entrambi parlavano senza dire tutto, in modo che io potessi usare la testa. Non avevo più dieci anni, ma il metodo era lo stesso. – Lo schieramento non conta, dico bene? Continentale o Britannico, Corona o Colonie. Non importa. Basta che uno di noi salga al potere e guidi tutti verso un mondo migliore.
– Esattamente, Haytham. Il nostro scopo è quello.
– Però il Grande Tempio è più importante.
Reginald Birch si rizzò in piedi avvampando, il bicchiere stretto tra le dita così forte che poteva benissimo frantumarsi in una miriade di schegge. Charles, al suo fianco, sussultò. – Il Grande Tempio è parte del piano! – Calmo. Non ho mica insultato tua madre. Non ancora. Non ero sconvolto o spaventato da quel suo scatto d’ira, anzi, per la prima volta il ghigno s’aprì sul mio viso. – Come potremmo sedare le centinaia di ribelli risvegliate da questa guerra se non con il Frutto dell’Eden? È l’unica soluzione. Lo sai anche tu. Il Grande Tempio ci guiderà. Aprirà la strada verso… verso il futuro. – Nel dire quelle ultime parole lanciò un’occhiata strana a Charles, che subito s’alzò e corse verso un’altra stanza. – Ed ecco il motivo per cui sei qui, Haytham. Charles è stato molto utile, sai? Mi ha aiutato con le ricerche.
– Ed era anche sempre disponibile quando le ricerche ti avevano sfiancato, no? – Mi passai la lingua sulle labbra con aria perversa, solo per provocarlo. Ne avevo abbastanza del controllo che esercitava su di me. L’aveva fatto per troppi anni.
Sgranò gli occhi. Colpito nel segno. – Il ragazzo ha fatto la sua parte, al contrario di qualcun altro che ha passato il proprio tempo scopando e collaborando con gli Assassini invece di seguire l’Ordine cui diceva di appartenere. – Il suo sguardo si fece scuro. – So che hai ucciso William Johnson.
Oh, maledizione! – Non volevo farlo. È stato un incidente. Un dannato incidente.
– Davvero? Eppure pare che tu fossi lì con l’Assassino.
– Ero lì per impedirgli di uccidere William. Credi davvero che l’abbia ucciso volontariamente?
– Allora dimmi, come si fa ad uccidere un uomo involontariamente?
Rimasi senza parole. Di nuovo come quand’ero ragazzino. Lui riusciva ancora a zittirmi, io chinavo la testa e chiedevo scusa, perché aveva ragione lui. – Uno scatto d’ira – mormorai con un certo sforzo. Vuoi sapere la verità, Reginald? Ho delle voci nella testa. Voci che mi hanno mostrato cosa mi hai fatto e mi hanno ricordato quanto sia impotente quando mi trovo davanti a te. Per questo mi sono infuriato, per questo l’ho ucciso. Non l’ho fatto apposta e me ne pento, perché ho aiutato gli Assassini, ma non è stata colpa mia. I miei occhi cercarono i suoi per invitarlo a una sfida. – Non volevo ucciderlo. Mi dispiace per lui.
– Thomas Hickey è sparito. Dicono abbia un gran bel giro d’affari qui, a New York. Soldi falsi, prostituzione o qualcosa del genere. Non ho notizie di Benjamin Church da secoli. Credo stia cercando di mollarci. Tu sei diventato un mercenario sentimentale.
– Dio, Reginald, questo è davvero pesante come insulto finale. Mi hai ferito.
Sorrise. Se mi avesse detto di chiudere il becco mi avrebbe dato soddisfazione. Lui sì che mi conosceva bene. – L’unico che si preoccupa ancora della nostra causa è John Pitcairn, tutto preso dalla guerra. Di questo tempio non importa niente a nessuno, tranne che a te. Eppure non mi stupisce. Sei sempre stato diverso dagli altri. Anche quand’eri solo un ragazzino.
Gli sorrisi di rimando. – Anche tu. Non eri come gli altri adulti, Reginald. Quelli che lasciavano in pace i bambini.
Charles, rientrato in quell’istante, sollevò un sopracciglio e lui rise. – Arguto come sempre.
– Cosa intende? – sussurrò Charles. Voilà. – Signor Birch, voi…?
– Lee, altro vino, per favore. E porta il libro.
Sparì di nuovo oltre la soglia, come un bravo cagnolino. – Dovrà fare due viaggi – mugugnai, ma Reginald non si scompose. – Dunque, stavi cercando di dirmi perché sono qui.
– Lascia perdere il libro, Charles – gridò per farsi sentire nell’altra stanza. – Non ne ho bisogno.
Non arrivò nessuna risposta, ma Reginald non ci fece caso. – Si tratta di parole molto antiche, scritte migliaia di anni fa dagli uomini e dalle donne della Prima Civilizzazione. Una specie di formula religiosa che oggi come oggi chiameremmo profezia. Ascolta. Ti stupirà. – Prese fiato, come se stesse per mostrarmi qualcosa di sensazionale e mai visto prima. – Il sangue dell’Aquila e il pensiero della Croce, pensiero e sangue per lo stesso scopo, la Chiave. La Chiave porta al Tempio, Fonte del Potere cui il sangue sarà l’unica conseguenza. Il sangue aprirà la via per il futuro, l’Aquila vi porrà la chiusura. 
Non riuscivo a smettere di sbattere le palpebre, una smorfia ebete in faccia. Che diavolo significa? – Le parole mi uscirono di bocca senza che riuscissi a fermarle, e in un attimo mi parve di avere di nuovo quindici anni ed essere completamente alla sua mercé.
Reginald Birch ridacchiò ancora, sollevando il bicchiere di vino vuoto nella mia direzione. – Significa che dovrei fare un gran bel brindisi ai tuoi amici Assassini, dato che tenerti in vita è stata un’idea a dir poco geniale. – Portò le labbra al cristallo con quel ghigno da mastino ben in vista. – Alcune volte sono molto utili.
– E cosa c’entrano quelle parole con me? – Sentivo gli occhi bruciare. – È robaccia scritta migliaia di anni fa, non può…   
– Non può? – Rise ancora. – Credi davvero che non possa, Haytham? Però questo gingillo può – sibilò stringendo tra pollice e indice la brillante medaglietta verde, la Chiave. L’altra chiave. – E secondo gli scritti di Roberto di Sable e papa Alessandro VI, anche i Frutti dell’Eden possono. Nonostante siano passati migliaia di anni, la Prima Civilizzazione non è mai morta.
Chissà perché gli credevo. – Vorresti usarmi per questa pazzia?
– Che brutto termine, usarti. Io non voglio usarti. Hai detto tu stesso di voler entrare in quel dannato tempio, no? Non ti sto sfruttando, anzi, ti sto aiutando ad attuare un tuo desiderio, come ho fatto anche quand’eri un ragazzino.
– Davvero? – ringhiai, sentendomi pronto a squarciargli la gola con i denti. – Non mi pareva di desiderare la morte di mio padre o che tu mi violentassi.
Quelle parole non lo zittirono, anzi, sul suo viso comparve un piccolo sorriso. – Te lo sei ricordato, allora.
Con un aiutino. Lo volevo morto, lo volevo morto con ogni parte del mio maledetto corpo. – Tu non hai fatto altro che sfruttarmi. Anzi, diciamo abusare di me. In ogni senso. – Continuò a sorridere. – Non puoi comunque entrare nel Grande Tempio senza una Mela. Se credi che gli Assassini la cederanno come riscatto o qualcosa del genere…
– No, pensavo di tornare all’originario piano di William e chiederla agli indiani.
– Non sei in Inghilterra, Reginald. Qui non ci sono i tuoi mercenari.
Si alzò in piedi e si stiracchiò, giocherellando con il bicchiere. – No, hai ragione. Ho di meglio. Ho quattro uomini addestrati da un Gran Maestro del rito coloniale, e non mi resta altro da fare che trovarli e metterli ai miei ordini. Ho molto più di qualche mercenario, Haytham. Ho i migliori purosangue delle Colonie, gli uomini che mi permetteranno di vincere anche questa corsa.
Ci paragonava a dei cavalli. Tipico di Reginald. – Non starò sotto di te un’altra volta.
– Oh, ma questo piano non ti coinvolge. A dire il vero pensavo a qualcosa di semplice per te, come spezzarti le gambe per impedirti di scappare e rinchiuderti da qualche parte finché non avremo il Frutto dell’Eden tra le mani. – Sogghignò. – Sì, direi che mi piace molto. – Si voltò istintivamente verso il corridoio, aggiustandosi le maniche della camicia. – Dio, quanto ci mette Charles?
– Che è, hai fretta di scopare?
– Modera il linguaggio, signorino Haytham. Potrei sempre sfogare il mio frettoloso desiderio con te, prima di spezzarti quelle gambette impertinenti. – Gambette impertinenti? Cristo santo.
Immagino che avremmo continuato a minacciarci e provocarci l’un l’altro se in quel momento non si fosse sentito un rumore metallico e Charles, dalla stanza in cui si trovava, non avesse cacciato un gemito. Immediatamente Reginald si voltò l’uscio, poi il suo sguardo scattò su di me, gli occhi grandi come piatti. – Non guardarmi in quel modo! – grugnii con una scrollata di spalle. – I miei poteri telecinetici non funzionano ad una tale distanza.
– Sgrunt. – Mi diede le spalle e s’incamminò verso la stanza in cui Charles era andato a prendere il vino, io che gli trottavo dietro con le mani legate, guardandomi intorno. Quando Reginald mise piede in una grande sala da pranzo Charles era steso a terra, svenuto, una vecchio cavatappi in mano e la bottiglia di vino sul ripiano lì accanto, intatta. Sul tavolo c’era una padella ancora vibrante. – Gesù – brontolò portando la mano all’elsa della spada. Non l’avevo visto spesso sguainare un’arma.
– Magari ha avuto un malore.
Mi mollò una manata sul petto, facendomi indietreggiare e mandando la mia schiena e la nuca a sbattere contro lo stipite senza nemmeno lanciarmi un’occhiata. La botta mi stordì, mi accasciai a terra senza fiato mentre Reginald avanzava nella sala, girando attorno al tavolo. Silenzioso come un gatto, per quanto vecchio.
Con la vista appena fuori fuoco, riuscii comunque ad adocchiare una macchia dall’altro lato del tavolo venire nella mia direzione, strisciando sul ventre. Eh? Sbattei gli occhi per vedere meglio, e quando mi passò davanti – proprio mentre Reginald scostava una sedia con un gran calcio – riconobbi quell’uomo. La testa pelata, una vecchia redingote rattoppata e i calzoni consunti. L’avevo visto per la prima e l’ultima volta proprio in quella città, quando Giunone mi aveva mostrato la verità su Reginald, una verità che ancora mi faceva accapponare la pelle ma che cercavo di usare a mio vantaggio, ridendoci sopra quando possibile.
A dire il vero la maggior parte di quei ricordi non era affatto divertente, no.
– Tic.
– Uh?
Cristo.
Reginald si voltò di scatto verso di me e, come un lupo affamato, saltò oltre il tavolo.
Letteralmente. Il mio Gran Maestro oltrepassò quel vecchio tavolo di legno con un elegantissimo balzo, atterrando placido e rotolandosi con naturalezza. Tic mi scoccò un’occhiataccia e lo evitò di pochissimo, scattando in piedi e afferrando il cavatappi che Charles teneva ancora in mano. – Bene. E questo chi sarebbe, eh? – ringhiò Reginald voltandosi verso di me, i capelli castani appena scompigliati. – Uno dei tuoi amichetti della Confraternita?
– Gli Assassini non c’entrano niente – riuscii a sussurrare, gli occhi fissi su Tic. Dovevo dargli tempo, maledizione. Perché ero stato così stupido? – Almeno credo.
– Tu credi, eh? – Sguainò la spada lunga e la puntò alla mia gola, la punta ben ferma qualche centimetro sotto il mio collo. – Avrei dovuto sgozzarti da orecchio a orecchio quand’eri un poppante, quando ne avevo l’occasione!
Scrollai le spalle. – Però poi avresti dovuto trovarti un altro ragazzino con cui giocare, Reginald. Sarebbe stato un peccato. – Ora mi uccide. Ora mi impala su quella spada e da le mie viscere in pasto ai cani.
I suoi denti si scoprirono come quelli di un vecchio segugio irritato. – Dannato figlio di… ugh! – Dong! Il rintocco di una campana. O il macabro suono di una padella sbattuta violentemetìnte su un cranio.
Vidi il suo corpo cadermi addosso con una lentezza impressionante, la spada che scendeva piano. Mi parve quasi di sentire il rumore di quella punta d’acciaio che mi strappava la camicia, la pelle, e s’infilava dentro di me, l’addome reso caldo dal sangue che sgorgava placidamente. Reginald s’accasciò sopra di me come un cadavere, ma potevo sentire il suo petto sollevarsi. Delle macchie scure cominciarono a danzarmi davanti agli occhi.
– Dah, Cristo! – sentii Tic imprecare mentre sollevava il Gran Maestro per le ascelle e lo mandava a schiantarsi la qualche altra parte. Ancora con il cavatappi in mano, tagliò con un movimento feroce la corda che mi teneva i polsi uniti. Immediatamente le mie dita erano corse alla ferita che mi stava inzuppando la camicia di sangue. – Oddio, mi dispiace.
Strinsi le dita attorno alla lama, graffiandomi il palmo. – Fottuto… – Serrai la presa e mi morsi il labbro per non gridare, gli addominali contratti per quanto me lo permettesse il dolore. Poi diedi uno strattone alla spada, estraendola dal mio corpo con un singulto e un gemito. – …idiota.
Gli occhi di Tic si sbarrarono, mollò un pugno sulla nuca di Reginald e si chinò su di me con preoccupazione. – Ehi, no. No, no, no, non potete morire. Tiratevi su.
– Stupido stronzo…
– Ho delle notizie per voi – brontolò quel bastardo di un informatore, lanciandosi il mio braccio attorno alle spalle.
– Le mie armi… – sibilai con gli occhi socchiusi. Non potevo andarmene senza averle recuperate. – Sono qui da qualche parte, Tic. Valle a prendere, per l’amor di Dio.
Il mio informatore sospirò. – Signore, dovrei lasciarvi qui. Sarebbe rischioso.
Mi lasciai sfuggire una bestemmia. – Sono io quello che t’impedisce di vendere il culo per strada – gemetti con molta meno ferocia di quanto avrei voluto. – Fallo e basta. – Tic mi poggiò su una sedia in modo straordinariamente delicato per essere un uomo appena investito da insulti che non meritava. Sentivo il sangue continuare a sgorgare, più potente ad ogni battito del cuore. Costante, direi. Pensai che se fossi morto non sarebbe stato poi così male. Reginald non sarebbe mai arrivato al Tempio.
Già, ma nemmeno io.
Tic ritornò velocemente con le mie pistole, la polsiera della lama celata e la spada corta, che s’affrettò ad agganciarmi alla cintola e al braccio prima di sollevarmi nuovamente. Grugnii per il dolore, l’altra mano stretta sul fianco sanguinante. – Per quanto riguarda le tue notizie, Tic… – Mi sfuggì un gemito. – Hanno a che vedere con biscotti o tè?
Il mio vecchio amico mi guardò con le sopracciglia aggrottate. – Direi di no – sussurrò titubante. Forse pensava delirassi.
Mi lasciai andare ad un debole sogghigno. – Allora non vi è niente di buono.
– Oh, non ho detto che siano buone. – Spalancò la porta della casa in cui Reginald e Charles mi avevano portato con un calcio, scaricando tutto il peso di entrambi sull’altra gamba. – Credo solo che siano importanti. Abbastanza importanti da correre il rischio di essere ucciso.
– Ucciso dai tuoi creditori o dal vecchio Birch?
Si voltò verso di me con un sorrisetto sghembo. – Da entrambi, signore. Per piacere, dobbiamo allontanarci. – Di nuovo il mondo sembrava scorrere attorno a me al rallentatore. Le strade di New York erano solo uno sfondo fuori fuoco che mi circondava. Sentivo le gocce di sangue scivolarmi lungo l’addome e schiantarsi a terra, piccole, troppe. Dovevo fermarmi. Neppure Tic se n’era accorto, ma stavo per morire. Ne ero sicuro. Strizzai la mano attorno alla sua spalla con tutte le mie forze.
– Fermati – sibilai. – Io non ce la faccio…
Le gambe cedettero sotto il mio peso e il mio informatore fece appena in tempo a spingermi verso una panchina e a farmici abbandonare sopra. – No, no, no, no. Voi state bene. Starete bene. È una ferita stupida, posso vedere? – Ero mezzo svenuto, quasi dissanguato e quell’imbecille pensava a farmi domande. Perché a me?
Scostò la redingote con le mani tremanti, aprendo velocemente i bottoni della camicia. – Ben – mi sentii sussurrare. – Ben sa cosa fare. Lui è un chirurgo.
Tic mi ignorò, grugnendo. – Oh, Cristo – mugugnò scavandosi nelle tasche. Non esattamente la tipica esclamazione di chi si trova davanti una ferita stupida. – Signore, dovete promettermi di non urlare. Se quei due si svegliano siamo morti.
Risposi annuendo a malapena con le testa, e mi tornò in mente il viso di Benjamin Church. Era solo un dipinto, quando l’avevo visto per la prima volta. – Ben fa il dottore – grugnii. – Ben sa come vanno fatte queste cose.
– State in silenzio, Dio santo. – Chiusi gli occhi e sentii un sonoro pop. – Forse brucerà un po’ – sussurrò – ma dovete promettermi di non urlare. Capito?
– Non urlare.
– Ecco. Non dovete urlare.
– D’accordo. – Presi fiato piano, le palpebre sempre più pesanti. Non mi sentivo più le dita. – Fa’ quello che… ah!
Piccola parentesi. L’alcool è davvero il miglior amico degli uomini, ma quando te lo versano su una ferita aperta non ti sembra più così buono. – Cristo! – sibilai aprendo gli occhi di scatto. Sentivo la carne bruciare attorno alla ferita. – Ma che hai in testa? Fottuto… idiota.
Mi accasciai sulla panchina con le dita che tentavano debolmente di avvicinarsi alla ferita, ma la presa rude di Tic le spinse via. – Signore, non toccatela. – Un attimo dopo sentii anche uno strappo e per poco non ebbi un tuffo al cuore. Ma che cazzo fai?, avrei voluto urlargli. Mi hai salvato la vita, d’accordo, non significa che puoi strapparmi i vestiti! Cristo, quella è roba buona! Puro artigianato britannico! Buon Dio. Fortunatamente per lui non avevo abbastanza forze. – Vi porterò da mia moglie, è una brava guaritrice. Non vi preoccupate. Ora però dovete lasciarmi fare. – Mi fasciò l’addome alla bell’e meglio con i miei stessi vestiti e mi mollò uno schiaffetto sulla guancia. – Su, signore, non potete lasciarvi andare adesso.
Tic mi sollevò di nuovo e sentii il mondo capovolgersi. Attraverso gli occhi semichiusi la terra, il cielo e i palazzi sembravano girare, delle macchie nere avevano ricominciato ad allargarsi come inchiostro su una pergamena vecchia. – ‘Fanculo – riuscii a mugugnare prima di svenire.
 
– Nessun progresso.
Mi venne quasi da ridere. Ero rimasto solo troppo a lungo, non potevo godermela, no?
Quando aprii di nuovo gli occhi ero steso su un tavolo senza la camicia, una fasciatura stretta al torace e le bozze dei punti lì dove poco prima si trovava la ferita. Come se Reginald non mi avesse fatto abbastanza male senza armi.
Naturalmente, le prime parole che sentii erano quelle di Minerva. – Hai messo a rischio la tua vita e la tua missione, servo della Croce.
Sospirai, provando a puntellarmi sui gomiti. Un male tremendo allo stomaco, i punti che tiravano in maniera dolorosamente impressionante. La mia missione? Sogghignai. Forse intendi la vostra. Dovreste trattarmi meglio, comunque. Sono la chiave del Grande Tempio, io. Non avevo dimenticato le parole di Reginald, anzi, ma non avevo avuto il tempo di pensarci con una spada conficcata nella carne. Servivano troppe cose per aprire quel maledetto affare. La Chiave di Reginald, un Frutto dell’Eden, la mia magnifica persona. Forse per questo nessuno era mai riuscito ad entrarci. – Spiritoso. Il Gran Maestro ha ragione, non avresti dovuto scoprirlo in questo modo. – Non mi era mancata la loro voce, ma probabilmente erano le uniche persone con cui potessi essere sincero. – Il danno è fatto. Sai cosa ti aspetta.
Scoppiai a ridere amaramente, gli occhi socchiusi. No, invece. Forza, illuminate quel cervelletto da Assassino.Il Tempio deve essere aperto. Se non sarà lui chissà quanto ci toccherà aspettare, Minerva. – Giunone sembrava quasi preoccupata. Potevano sempre costringermi a collaborare, no?, così come avevano fatto svenire Tic e mi avevano mostrato i miei ricordi più oscuri. O, almeno, ero convinto fossero abbastanza potenti da farlo.
Be’, veramente c’era un altro Templare… Uno come me, insomma. Il ricordo del nostro primo incontro, quando mi aveva mostrato il dipinto di quell’uomo circondato da Assassini, ancora mi metteva i brividi. Ma è morto. Si chiamava… Jackson, di cognome.
– Servo della Croce, il cervello non basta – sibilò Giunone con la sua solita simpatia.
– Ma è importante. Fondamentale.Immagino che in quel momento si fossero scambiate un’occhiataccia, perché ricevetti un’altra scossa. Dovete piantarla con questi metodi di comunicazione, ragazze.
– Jackson… Il cognome non mi è nuovo – brontolò Minerva. – Però non è uno di loro.
– Il padre può tutto, Minerva – rispose Giunone continuando ad ignorarmi.
– Noi no. E a lui non interessa questa scaramuccia.
– Oh, certo che gli interessa!
Dio, sembrate proprio due comari. E piantatela di ignorarmi.

Un’altra scossa. Decisi di restarmene zitto. – Non agisce mai a caso – riprese Giunone. – Lui è più potente. L’ha fatto, ma noi non possiamo. – Mi parve di sentirla sospirare con tristezza. – Il sangue e il pensiero, quelli sono i nostri campi.
Il sangue, giusto. Reginald me l’aveva spiegato. Altaïr Ibn-La’Ahad ed Ezio Auditore da Firenze erano riusciti ad utilizzare la Mela senza impazzire – be’, più o meno – perché avevano qualcosa in più. Il sangue dei Precursori, quello che aveva permesso all’italiano di parlare con ben tre membri della Prima Civilizzazione.
Oddio. Sono un maledetto imbecille.  – Mi state dicendo che siete mie parenti? – Storsi le labbra in una smorfia, irritato. Avevo parlato di nuovo ad alta voce, di quel passo mi avrebbero sbattuto in un manicomio e addio Grande Tempio. Non era colpa mia. Sapere che ogni parte di me era legata agli Assassini, a quelle due pazze nella mia testa e ai Frutti dell’Eden mi mandava in bestia.
– Ave, servo della Croce. Antenate. – Non mi piaceva quella storia. Figlio di un Assassino, discendente da due progenitrici di Assassini, con un nome, un’arma e una vista da Assassino. Maledizione.
Mi passai una mano sugli occhi. Che intendete per “non è uno di loro”? Di che diavolo state parlando? Non sapevo più che pensare. Quelle due mi stavano sfiancando più della spada di Reginald nello stomaco, più di tutti i guai che avevo passato nella mia vita. – Ehi, signore, siete sveglio. – Cazzo. Mille grazie, voi due. Crollai di nuovo con la schiena sul legno, sbuffando esasperato. – Come vi sentite? Tutto bene? Mia moglie ha fatto del suo meglio, in questi tempi di guerra è più difficile del previsto trovare un medico, ma vi siete ripreso più in fretta del previsto, devo riconoscervelo. – Tic apparve nel mio campo visivo, un po’ agitato e con un sorrisetto sghembo. Probabilmente ero la sua unica fonte di sussistenza, lasciarmi morire non sarebbe stato saggio. Io lo pagavo e lo tenevo in pugno, a lui toccava solo lavorare per me.
Stringeva il cappello tra le mani, come al capezzale di un moribondo. – Abbastanza bene. Almeno sono ancora vivo, giusto? – brontolai con un mezzo ghigno, puntellandomi ancora sui gomiti per tirarmi a sedere. – Non ti ho ancora ringraziato come si deve per quello che hai fatto, Tic. Se non fosse stato per te sarei morto.
Il vecchio Tic scrollò le spalle, scavando nelle tasche della giacca con le dita tremanti. – Si figuri. A dire il vero, signore, dovreste ringraziare un certo Connor. – Sollevai le sopracciglia di scatto, curioso. Connor? – Se non fosse per la missiva che vi ha inviato, e che ho avuto la prontezza di intercettare e ritirare, non vi sarei mai venuto a cercare. E sareste morto. – Continuò ad aprire e chiudere le numerose tasche interne, probabilmente usate per rubacchiare nei periodi di magra. – Ah, ma dove l’ho messa? Scusate, signore, ma sono stato imperdonabilmente curioso e l’ho aperta – esclamò uscendo dalla stanza per cercare il misterioso foglio.
– Figurati, Tic – brontolai stancamente. – Ricordi che diceva?
– Oh, non l’ho letta tutta. Io… – Passò davanti alla porta tutto trafelato, il cappello diventato un fazzoletto consunto tra le sue dita tese. – Porca miseria, Kate, hai visto quella dannata lettera? Dicevo, signore – ripassò, correndo nella direzione da cui era venuto – che io non so leggere. I miei occhi si sono spinti solo sul mittente, sapete, in caso fosse stata spedita da una delle persone che mi avete detto di sorvegliare. Kate!
Una donna minuta, con una cuffietta calata sulla testa e imbacuccata in abiti anonimi apparve nella cornice della porta porgendo un foglio di carta piegato a Tic, lo sguardo imbarazzato e timoroso a terra. Se l’avessi chiesto ad Alice me l’avrebbe tirata dietro, la lettera, assieme magari ad un tavolino o una sedia d’epoca.
Specie dopo quello che le avevo fatto. – Finalmente! Cazzo! – Sollevò la mano in un gesto appena dispregiativo verso la moglie, che si allontanò ignorandolo. – Almeno si rende utile. Non sa fare altro che sfornare puttanelle e bambini morti da quella fossa che si ritrova in mezzo alle gambe.
Mi lasciai andare ad un sogghigno. Il rapporto tra miei era decisamente buono, l’unica cosa normale della mia famiglia. Avevo dimenticato che fuori da casa Kenway gli uomini non trattavano esattamente le donne con i guanti. Neppure io l’avevo fatto, no? Ecco, papà, è quello che succede ad essere morti quando il proprio unico figlio maschio entra nell’età in cui comincia ad interessarsi alle giovani donne. – Tutte femmine, eh?
Tic spiegò il foglio lasciandosi cadere su una sedia accanto a me. – Dalla prima all’ultima, signore. Una disgrazia. Malaticce, poi, e nemmeno lontanamente belle abbastanza da ricevere una dote decente. Probabilmente le venderò. – Ridacchiò amaramente. – E chi voglio prendere in giro? Nessuno vuole una puttana brutta o una schiava cagionevole. Finiranno a fare le dame di compagnia. Sempre in ombra, ma almeno con un tetto sulla testa. Noi avremo i nostri soldi e tutti saranno felici. E se non lo saranno, ‘fanculo. – Mentre parlava si rigirava la lettera tra le mani, proprio come un uomo che non aveva idea di dove si cominciasse a leggere quell’arcano pezzo di carta e l’utilizzava a mo’ di antistress, giusto per non restare con le mani in mano.
Pensai che fosse meglio cambiare discorso. – Perché il soprannome Tic? Non credo che l’abbia scelto tuo padre.
Il suo viso si rabbuiò. – Preferisco non parlarne.
Risi. – E dai, che ci sarà di tanto vergognoso? – Lanciai le gambe giù dal tavolo, lasciandole dondolare mentre sfioravo la fasciatura con le dita pallide. – Cos’è, te l’ha affibbiato una donna perché eri talmente veloce a letto che avevate già finito quando la lancetta si era spostata di un secondo? Tic. – Sollevai gli occhi sul mio informatore, ridacchiando a labbra aperte. Quando vidi la sua espressione, la risata mi morì sul volto. Oh – sussurrai, un po’ in imbarazzo. – Sono un genio.
– Signore, state zitto, vi prego.
– Allora non è tutta colpa di tua moglie – brontolai facendo spallucce. – Sai, per le puttanelle. Forse non ci metti il giusto impegno.
Tic mi porse la lettera con un gemito simile ad un ruggito trattenuto, il braccio tremante e gli occhi che mandavano fiamme. – Prego – grugnì.
Presi il foglio continuando a ridacchiare. – Scusa se ti ho offeso, Tic, ma davvero, non ho resistito. – Lo guardai allontanarsi, marciando verso la porta mentre emetteva continui mugugni. – Stavo scherzando, comunque. Non te la prendere. Qual è il tuo vero nome?
Mi lanciò un ultimo sguardo un po’ teso, nervoso. – Continuate a chiamarmi Tic, d’accordo? Me lo merito, in fondo. – Mi diede ancora le spalle e sospirò. – Forse mi ricorderà che devo metterci il giusto impegno.
Scoppiai a ridere mentre tornava ad insultare la moglie per sfogarsi, ma quando misi gli occhi sulla lettera mi pentii di averla spiegata e ricevuta.

 
Haytham,
Sempre la stessa calligrafia di tre anni prima, appuntita, fastidiosa alla vista e difficile da decifrare. Che noia.
Haytham,
ho appena ricevuto una notizia da Samuel Adams. George Washington è il comandante in capo dell’Esercito Continentale, finalmente. So che venire a conoscenza di questo fatto non porta alcun piacere al tuo spirito, ma io e Sam abbiamo intenzione di recarci a Philadelphia e presiedere al Congresso Continentale. Ti scrivo queste poche righe in tutta fretta per chiederti di unirti a me e sentire ciò che Washington ha da dire. Forse cambierai idea.
La riunione del Congresso si tiene all’Indipendence Hall di Philadelphia il 16 giugno. Io e Samuel ti aspetteremo fuori, se mai vorrai farti vivo.
Connor.

– Se mai vorrai farti vivo – gli feci il verso gettando la lettera sul tavolo. – Stupido idiota. La puttanella dei Figli della Libertà, ecco che cos’è.
– Brutte notizie? – strepitò Tic dall’altra stanza.
Roteai gli occhi, levandoli al soffitto. – No, non propriamente brutte – brontolai gettandomi giù dal tavolo. Non avevo perso così tanto sangue da non riuscire a camminare dopo un po’ di adeguato riposo. – Nemmeno stupende. Questa – sventolai la lettera con un certo trasporto – l’ha scritta mio figlio. Penso che dovrei andare a Philadelphia.
– Philadelphia? – Tic piombò nella stanza a passi pesanti, le mani piantate sui fianchi come se gli avessi appena confidato un segreto di Stato. – E che ci andate a fare, se posso permettermi?
Scrollai le spalle. – A quanto pare c’è un incontro tra Washington, qualche militare e i Figli della Libertà laggiù. – Infilai la lettera nella tasca di calzoni e scesi dal tavolo cigolante, cercando di acquistare stabilità. – Sai, dare a mio figlio la soddisfazione di non essere lì sarebbe troppo misericordioso da parte mia. – Lo guardai con un mezzo sorriso che non ricambiò. Andiamo, sono davvero così cattivo? Io ti pago, vecchio mio. Ora ridi o dirò a tutta New York il segreto del tuo dannato nomignolo. Non rispose al mio ordine mentale. Peccato. – Be’, grazie mille, Tic. Hai rischiato la vita per salvarmi, meriti una mancia. – Gli lanciai un pugno di sterline, nonostante non le meritasse per non aver riso alla mia battuta. Ehi, non si può avere tutto dalla vita, giusto? – Potresti solo… ridarmi i miei vestiti? Se uscissi così non potrei fare un passo senza che una donna mi salti addosso. La tua Kate deve esserti davvero fedele per aver resistito al mio fascino.
Tic scoppiò a ridere, stavolta. Ah, finalmente hai capito come guadagnarti la pagnotta, Scheggia. – Certo, signore. I vostri indumenti non erano ridotti benissimo, ma attualmente indosso tutto il mio guardaroba. – Mi sentii un po’ in imbarazzo. Quell’uomo non solo aveva preso una lettera per me, ma era venuto a consegnarmela rischiando la vita e salvandomi da morte certa. Insomma, meritava decisamente più di venti sterline.
Mi lanciò la camicia appallottolata, un gran buco all’altezza della ferita che mi aveva inferto Reginald e l’orlo strappato. Era ancora macchiata di sangue, comunque meglio di niente. Uscire di lì senza un cappotto non sarebbe stato facile, ma Tic aveva già fatto fin troppo per me. Ne avrei comprato uno in città. – Ancora grazie. Continui a tenere le orecchie aperte?
Lui si grattò la testa con le unghie sporche, allungandomi la polsiera con l’altra mano. – Per quanto mi è possibile, signore. Sapete, è stato solo per un grosso colpo di fortuna se sono riuscito a trovarvi. Due giubbe rosse si sono messe a parlare di Birch e Lee, hanno blaterato qualcosa su un prigioniero e ho origliato fino a capire dove andare. – Sospirò. – Davvero, una grande botta di culo.
Sogghignai, sfiorando la pistola con la punta delle dita e controllando che la lama scattasse. Clic. Perfetta. Non deludeva mai. – Senti, avrei solo un ultimo favore da chiederti, d’accordo? Niente di che, solo un’aggiunta alla lista delle persone da tenere sotto controllo. – Si chinò in avanti per ascoltarmi meglio. – Sì, ovviamente aumenterò il tuo compenso. Comunque, ascoltami. Si tratta di Alice Jackson.
Tic aggrottò la fronte. – Alice Jackson?
– Esatto, Jackson. Dovrebbe vivere qui. Non so dove, di preciso, ma con lei pare ci sia anche la figlia. – Sospirai. Non era molto e lo sapevo, ma l’avevo dimenticata per troppo tempo. Era stata una parte importante della mia vita, per quanto breve, e non potevo permettere che finisse in quel modo. Avevo tentato di ucciderla. Non potevano essere quelle le mie ultime parole, quelle sussurrate dalle mie dita ferree sul suo collo. Non l’avrei permesso. – Credi di poterla trovare?
Tic si diede un colpetto sulla tempia. – Jackson. D’accordo. Credetemi, signor Kenway, non avreste potuto scegliere uomo migliore per un incarico del genere. Conosco ogni buco di New York.
Sospirai. – Immagino che sia necessario, quando si deve sfuggire ai creditori.
– A-ah, spiritoso – grugnì Tic. Sì. – Comunque, questa città non ha segreti per me. Se la signora vive qui, potete star certo che la troverò. Vi farò sapere.
– Potrei anche farmi vivo io, di tanto in tanto. Sai, Tic, New York è un bel posto.
Ridacchiò. – Immagino che se riuscissi a trovare questa Alice correreste qui come un bracchetto dietro alla lepre, dico bene? – Fece un inequivocabile cenno con la mano verso il basso e roteai gli occhi con un sorrisetto. – Alla prossima, signore.
Gli rivolsi un cenno con la mano. – Alla prossima. Sai dirmi dove posso trovare una sartoria?
– Vi sembro tipo da sartorie?
Sogghignai e lo salutai un’altra volta, stringendomi nelle spalle mentre lui mi apriva la porta. – Tieni d’occhio la città, Tic. Non sembra un posto noioso.
Tic sorrise di rimando. – Oh, non lo è. Credetemi.
Sbuffai e il mio fiato si condensò in una nuvoletta candida. Cristo. – D’accordo, mi piacerebbe restare a parlare qui delle grandiose feste tra indebitati che si svolgono nei vicoli, ma devo andare. – Gli feci un ultimo sorrisetto. – Ho una nave da prendere e mi piacerebbe avere ancora abbastanza dita da potermi reggere al parapetto. Insomma, nove sono già poche, per uno schermidore.
– A proposito, signore, come…
– Un’altra volta, Tic. È una storia divertente, sul serio, ma un’altra volta. 

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Capitolo 28
*** Lupi di mare. ***


Ricordavo fin troppo bene cos’era successo durante il mio primo viaggio in nave verso l’America, prima che le cose si complicassero ulteriormente, così optai per restare nella mia cabina dando nell’occhio il meno possibile e ripensando a quant’era successo in quella casa.
Ero stato veramente stupido. Avevo cercato di uccidere George Washington. Il comandante in capo del dannato Esercito Continentale.
Oh, non sarebbe stato poi tanto male riuscirci. Le parole di Connor – Qualunque cosa possa aiutare George Washington – mi avevano segnato. Non riuscivo a pensare che continuasse ad ignorarmi senza il minimo ritegno, che per quanto insistessi nel ribadire l’inettitudine del nuovo comandante fosse ben deciso ad appoggiarlo. Non mi avrebbe mai ascoltato. E d’altronde, che dovevo aspettarmi? L’avevo trattato male per anni. Non gli avevo mai voluto veramente bene. E lui mi stava tenendo in vita, probabilmente solo perché io stavo facendo la stessa cosa con lui.
Quei pensieri mi stavano torturando, così il secondo giorno di viaggio buttai le gambe giù dalla branda e salii sul ponte della goletta su cui viaggiavo senza la redingote addosso, il vento carico di salsedine che gonfiava le vele. – Signore! Che ci fate qui? – Mi voltai di scatto. Un uomo ben vestito, probabilmente il capitano, con un sorriso sdentato in faccia e una vaporosa barba aggrovigliata scavalcò la balaustra a poppa con un balzo, venendo verso di me a passi rapidi. Aveva le gambe corte e un po’ valghe, una pipa in mano e gli occhi verdi, luminosi. – Siete venuto a respirare un po’ d’aria di mare, eh?
Sospirai, dandomi una grattata alla testa. – Veramente, capitano, volevo chiedervi una cosa.
Rise. – Con tutto quello che pagate potrei anche spogliarmi e ballare davanti all’intera ciurma! – esclamò, mollandomi una pacca sulla schiena. Era più basso di me di tutta la testa e un buon pezzo di braccio. – No, d’accordo, questo non lo farei, ma ritengo che il quartiermastro sarebbe molto contento di danzare per noi, non è così? – Fece un cenno in direzione di un uomo accanto al timone, le braccia incrociate su una camicia color del sangue e i capelli castani legati da un nastro. – Ah, è spagnolo, quello. Preso a Nassau. Hanno ritmo nel sangue, anche se il signor Perez sembra avere un diavolo in corpo quando comincia ad urlare. Dunque, di che stavate parlando?
Presi fiato. Non era facile porre quella richiesta. Insomma, per quell’ometto non ero altro che un riccone sprovveduto, di quelli che hanno sempre avuto la minestra pronta all’ora di cena. Se avevo tanti liquidi da potermi permettere un posto all’ultimo momento su una goletta di Sua Maestà, be’, non dovevo mai aver mosso un dito in vita mia.
Non era vero, ma le parole suonarono comunque bizzarre quando uscirono dalle mie labbra. – Vorrei lavorare sulla nave.
Mi guardò con tanto d’occhi, scoppiando improvvisamente a ridere con una mano sul ventre gonfio. – Lavorare? Santo cielo! – Continuò a ridere rauco e feci un sorrisetto tirato, nonostante dentro di me desiderassi trafiggerlo per la sua insolenza. Ce l’hai nel sangue, aveva detto Bob. Nel tuo fottuto cognome! – Credete basti lasciare il cappotto nella stiva per diventare un marinaio? Tornate a…
– Ho pagato – sibilai afferrando l’uomo per una spalla. – E non accetterò un no come risposta, sono stato chiaro?
Quello sbiancò. – Signore, la merce va portata a Philadelphia a quattro giorni da oggi. Non ho tempo da perdere.
– Nemmeno io – ringhiai guardandolo negli occhi. – Nemmeno io, capitano. Lavorerò come ogni altro dannato marinaio di questa nave, d’accordo? Sono pochi giorni. Di che si tratterà mai? Non ruberò il pasto a nessuno dei vostri uomini, né tantomeno il loro salario.
Lui s’infilò la pipa tra le labbra, spostandomi la mano. – Nessuno vi aiuterà, lo sapete, vero? – disse con gli occhi gelidi. – Nessuno vi dirà cosa significa cazzare o quali sono i velacci. Questi uomini vi guarderanno con ira e sospetto. Potrebbero anche architettare di gettarvi in pasto ai pescecani.
Non potei trattenere un sorriso. – In quattro giorni?
Il capitano era serio come non mai. – Quattro giorni e qualcuno potrebbe già trovare la vostra carcassa sul fondo dell’oceano. Una volta questi bastardi hanno tagliato la gola del loro capitano appena raggiunto il mare aperto. Non gli hanno nemmeno lasciato il tempo di finire la prima botte di rum! So riconoscere un uomo intelligente da uno sciocco, e non ho fatto parola davanti al vostro denaro e alla richiesta di restare anonimo. Ho accettato. – E come non avrebbe potuto? L’ho pagato fior di quattrini, il bastardo. – Ma quest’idea di navigare… Ragazzo, lasciate stare. Ve lo dico trattandovi da uomo intelligente. Lasciate stare, o sarete declassato a perfetto idiota. 
Lo guardai sollevando un po’ la testa, un sorriso di sfida dipinto in faccia. – Me la sono cavata in situazioni peggiori – dissi arrotolando le maniche della camicia. – Allora, da dove comincio?
Il capitano scosse la testa e sputò oltre il parapetto, evitando appena uno dei propri uomini. – Prendete il secchio. Partirete dal fondo, ragazzo. Date una lustrata alla mia cabina. Dopo potremmo cominciare a discutere della vostra abilità di marinaio.
Ridacchiai. – E che cos’hanno in comune la pulizia delle cabine e l’arte della navigazione? – chiesi con sarcasmo.
– Entrambe richiedono meticolosità. Inoltre, una delle due aiuta a distinguere un perfetto idiota da un uomo intelligente. – Diede una grande boccata alla pipa, soffiando il fumo dall’angolo della bocca. – L’altra è la non così nobile arte della navigazione.
Con un sogghigno, gli voltai le spalle e aprii la botola per scendere sottocoperta. Da qualche parte bisogna pur cominciare, non è vero, papà?
 
– Controvelacci! Dobbiamo prendere ogni dannato soffio di vento, capito? – Il quartiermastro strillava come una cornacchia mentre ci affaccendavamo tra le cime e ci arrampicavamo sugli alberi per spiegare le vele. Tutte le vele.
Avevamo seguito la costa americana per tutto il tempo, ma dall’altra parte, verso l’oceano, la vista era incomparabile. Miglia e miglia nautiche di assoluto nulla, ma che dopo qualche giorno imparavi a riconoscere come brulicante di vita e attività. Ogni soffio di vento era un avvertimento o una minaccia, ogni onda parlava. E quegli uomini, gente che capiva il volo degli uccelli e al tempo stesso considerava una bestemmia l’avere a bordo una donna, avevano attratto immediatamente le mie simpatie. Di sicuro partivano avvantaggiati, ma come si può non stimare un marinaio, un uomo che si guadagna da vivere lavorando in un ambiente che non è il proprio, rischiando di non tornare a casa perché ha frainteso le parole delle onde, eh?
Erano saggi. Chiunque altro si sarebbe sentito inferiore, forse, ma per me erano più intelligenti degli intellettuali londinesi.
Probabilmente perché ognuno di loro era passato per la nobile strada della pulizia di cabine.
Comunque, il quartiermastro quella notte stava sfoggiando con orgoglio i propri potenti polmoni, urlando che cosa ognuno di noi dovesse fare mentre il capitano, l’ometto di nome Benjamin Light, teneva la fronte del timoniere intento a vomitare piegato in due sul parapetto.
Perez mi lanciò uno sguardo di sfida continuando a urlare, e salì le scale rabbioso. – Sei sicuro di poterci tirare fuori di qui? – brontolò con le braccia incrociate. La sua camicia rossa era inzuppata dalla pioggia e i lunghi riccioli scuri che dovevano aver condotto chissà quante donne tra le sue lenzuola gli pendevano flosci e bagnati sulla fronte. Probabilmente avevo un aspetto più dignitoso di lui, tolto il ghigno da folle che sentivo formarsi sulla mia faccia.
– Assolutamente – grugnii di rimando.
Rise amaramente, tirandosi indietro i capelli con la mano. – Davvero, riccastro? Mi era parso di capire che tu non avessi mai lavorato su una nave. – Si chinò appena in avanti, stringendosi alla balaustra. – Men che meno come timoniere, direi.
Sbuffai l’aria fuori dal corpo, una mano sugli occhi per osservare l’orizzonte attraverso quella dannatissima tempesta, cominciata intorno alle sette di quello stesso giorno. Accanto a noi dovevano scorrere le coste della Provincia del New Jersey, ma la tempesta le rendeva invisibili. Potevano essere ovunque, magari proprio in quello stesso istante, senza volerlo, stavo facendo rotta per l’Europa. Che potevo farci? – Vado dove ne vedo il bisogno, Perez.
– Potevo stare io al timone.
– Ma non l’hai fatto – replicai virando di scatto per evitare un relitto illuminato all’improvviso da un lampo. – Cristo, non si possono accendere altre lampade? – Il rombo del tuono seguente non riuscì a coprire le mie parole.
Era come stare alla guardia di un formicaio. Tutti correvano da una parte e dall’altra con le cime annodate alla cintola, ammaina, issa, ammaina, issa, sciogli quello, lega quell’altro. Come poteva mio padre aver vissuto per chissà quanto tempo in un mondo come quello? Si urlava, nei giorni buoni si beveva molto e si cantava, ma non mancavano i litigi. Mai. Nemmeno nei momenti più pacifici. E il capitano Light faceva del suo meglio per riportare la calma, borbottando bestemmie con la pipa tra le labbra. Avevo continuato a portare la lama celata al braccio, ma non mi sentivo sicuro. – Lampade? Smetti di lamentarti e portaci via da qui! – sbottò il quartiermastro. – Magari senza farci affogare, che dici?
Brontolai un’imprecazione e mi sforzai di recuperare il senso dell’orientamento. – Santo cielo, Perez, digli di chiudere quelle dannate vele.
– Si dice issare, inglese! Possibile che tu ancora non…
– Vuoi ascoltarmi, dannazione? – Un urlo dei marinai mi avvisò di virare di nuovo, caricando tutto il mio peso sul timone per vincere la resistenza. Stavo ansimando. – Issa quelle cose! Il vento ci starà portando chissà dove, e dove va il vento va anche la tempesta. Usa il cervello!
Il quartiermastro abbracciò il pomello decorativo della balaustra, guardandomi con gli occhi sgranati. – Il quartiermastro sono io, e fino a prova contraria decido io che cosa si fa su questa nave.
Avrei voluto ribattere che toccava al capitano decidere, ma Light sembrava troppo intento ad asciugare la fronte di un timoniere in preda alla nausea per seguire ciò che succedeva sulla nave. – Andremo a schiantarci! – sbottai dando una manata aperta sul timone.
– Forse il vento sta soffiando nella direzione giusta!
Sollevai le braccia con un ghigno sarcastico in viso. – Certo! – esclamai. – Senza alcun dubbio è la direzione giusta! Scusa se ho dubitato di te, riesco già a vedere l’Indipendence Hall!
Gli occhi del quartiermastro si strinsero, colmi di rabbia, e mi sentii afferrare dalle sue mani per la camicia. Clic, la lama celata scattò restando a un pollice o due dalla sua faccia. – Non ti conviene, Perez – dissi in un ringhio.
Quello mi mollò una spinta, gettandomi a terra. – Al diavolo tutto! – urlò afferrando il timone. La botta mi mozzò il fiato nei polmoni. – È il momento giusto, signori! Diamoci da fare!
Ecco, fu proprio in quel momento che le cose cominciarono ad andare a puttane.
Con una mano sul petto mi sforzavo di riprendere fiato, sdraiato sul fianco mentre l’acqua cadeva impervia sul ponte che avevo lucidato il giorno prima con tanto sforzo. Sollevai lo sguardo, puntellandomi sui gomiti, appena in tempo per vedere il timoniere afferrare Benjamin Light per un passante e sollevarlo di peso, scagliandolo fuori bordo.
Non riuscivo a smettere di sbattere le palpebre come un maledetto idiota.
– Qual è la nostra meta, amici?
Il timoniere, con un ghigno simile a quello di un cane stampato sulla faccia bronzea dal sole, si avvicinò per mollarmi un calcio sui denti che non riuscii ad evitare. – Nassau! – strillarono tutti insieme. No, no, no, a sud, troppo a sud, merda, troppo a sud. Philadelphia.
Perez rise. Lo stesso timoniere mi tirò su senza fatica, torcendo il braccio della lama celata dietro la schiena. – Che ne faccio di lui, capitano Perez?
L’ex-quartiermastro si voltò verso di me sorridendo. – Ti è piaciuta la sorpresa, riccone? – chiese tornando a guardare la propria… ciurma, sì, immagino che il termine equipaggio non fosse più adatto alla situazione.
– Ammutinamento – riuscii solo a sussurrare con la bocca piena di sangue. Forse mi si era anche scheggiato qualche dente.
– Sei perspicace – rispose il timoniere, gioioso. – Che ne facciamo di lui, capitano?
Perez non mi degnò d’uno sguardo. Bastardo. Era una goletta della Marina di Sua Maestà, insomma, ne avrebbero notato l’assenza. Credo. Erano bravi a notare le cose, di solito. – Di sotto c’è il suo cappotto. Ripulitelo, chiudetelo in un dannato baule e gettatelo in mare. – Prese fiato, come se fosse stata una decisione difficile da prendere. Sentii il sangue collassare nella parte bassa del corpo, in preda al panico. – Sa troppe cose. Ci denuncerebbe.
Gettatelo in mare. – Sissignore.
– No! – strillai divincolandomi come una donnicciola. Ah, l’istinto di sopravvivenza. – Perez, non lo farò. Non vi denuncerò, lo giuro. Non so nemmeno il nome della goletta, come potrei…
– Sai il mio – rispose lui con estrema calma. – E quello del vecchio nano. Presto qualche coglione in divisa potrebbe venire a reclamare la scomparsa di questa bellezza, e non posso sapere davvero cosa dirai e cosa no. – La tempesta sembrava non turbarlo nemmeno. Muoveva il timone con la sicurezza di chi lo faceva da anni, non con i miei movimenti secchi e impulsivi. – Perché dovrei fidarmi di te?
Abbassai lo sguardo e lo levai di scatto verso l’albero. La bandiera britannica era sparita, al suo posto il vessillo nero dei pirati era frustato dal vento. Non potevo morire in quel modo, dovevo giocarmi il tutto per tutto. E quello straccio mi fece venire un’idea. – Se vi denunciassi alle giubbe rosse, catturerebbero anche me – sibilai, ceruleo. – Hai sentito dell’attentato a Washington, vero?
– Pettegolezzi da taverna. Che cosa c’entra?
Deglutii a fatica. – Sono stato io. Ho cercato di ucciderlo.
Il timoniere avvicinò il viso al mio. – Davvero?
– Davvero? – ripeté Perez lanciandomi un’occhiata curiosa, pur continuando a stringere il timone con estrema sicurezza. – Tu? Tentato omicidio di George Washington?
– Io e nessun altro, Perez. Non sono un riccone santarellino come pensavi. – Sospirai, passandomi la lingua sui denti insanguinati. – Non dirò nulla se mi porterete a Philadelphia. Si tratta di mollarmi lì e ripartire. Niente di rischioso. Lo giuro.
– Lui? – Sentii il fiato caldo del timoniere sul collo. – L’attentatore a Washington? Cristo santo, Perez, c’è una taglia da cinquemila sterline sulla sua testa. Sarebbe un vero peccato se finisse in pasto ai pescecani, no?
Merda. Forse non era stata la cosa più furba che avessi mai detto, d’accordo. Perez tolse una mano dal timone e se la poggiò sul fianco, voltandosi a guardarmi. – Ti prego – sussurrai tra i denti. Non mi andava di supplicare quel bastardo. – Ti pagherò. Ti darò tutto quello che vuoi, ma non metterti contro di me. – Cercai di sembrare un po’ meno patetico. Semplice, davvero, specie con una minaccia di quel genere.
Perez sospirò, sogghignando mentre le gocce di pioggia lasciavano aderire la camicia al suo petto. – Peccato. Oggi qualche squalo rimarrà senza cena. – Tornò a guardare l’orizzonte con entrambe le mani sulla ruota. – Ripulitelo. E chiudetelo nella stiva. Cambiamo rotta.
Il timoniere fece per trascinarmi verso le scale con un gran sorriso costellato d’oro in faccia. – Non credo proprio, figlio di puttana. – Flettei il polso e la lama celata affondò nel braccio del mio carceriere, che mi mollò imprecando.
– Prendetelo! – strillò, probabilmente stringendosi la ferita con le grosse dita da marinaio.
Volò qualche colpo di pistola e i coltelli vennero tirati fuori dalle bende che li legavano alle caviglie mentre correvo come un matto verso il boccaporto, diretto sottocoperta. – Diavolo! – ringhiai scendendo le scale piegato in due, le mani sopra la testa come per ripararmi dai proiettili. Dovevo sapere e ricordarmi che il piombo è pur sempre piombo. – Non lasciatelo scappare! Voglio la sua dannata testa! – Perez non mollò il timone un attimo, continuando ad urlare mentre faceva virare la nave di centottanta gradi, di nuovo verso New York, suppongo, verso i manifesti con la mia faccia attaccati ai palazzi e una bella taglia su chi mi avesse consegnato vivo – o morto? – alle spalle sanguinanti.
Evitai per un soffio un fendente di coltello che mi arrivò da destra, rischiando quasi di spezzarmi il polso per l’impatto. Avevo un lato scoperto, dannazione, e la mia spada era di sotto. Dovevo prendere le armi e sloggiare. Prendere le armi e sloggiare…
Per andare dove? A nuoto non sarei arrivato da nessuna parte. – Merda! – grugnii spingendo indietro il marinaio con il coltello. Che diavolo potevo fare? Un altro proiettile mi sfiorò il ginocchio, mancandomi di pochissimo. Dovetti ringraziare solo il vento, il rollio della nave e la scarsa visibilità data dalla tempesta.
Afferrai bruscamente l’anello della botola per sollevarla, e il calcio di una pistola – o l’elsa di una spada, difficile a dirsi – mi colpì alla testa. Quando levai lo sguardo, intontito, una figura si stanziava su di me come un boia. E, fidatevi, dopo due impiccagioni sfiorate so di cosa parlo. Non era un uomo, pareva più un gigante uscito direttamente dall’oceano per farmi fuori.
Lo ammetto, forse ho ascoltato troppe storie di marinai.
Non mi feci prendere dal panico e il corpo, dopo quasi quarant’anni di addestramento, reagì spontaneamente. Un attimo dopo la lama celata spuntava dalla schiena del misterioso bestione, macchiando di sangue il pavimento. – Quanta fatica sprecata – brontolai scendendo le scale a tutta velocità.
Essendoci una tempesta pensavo, da bravo figlio di pirata cresciuto tra i gentiluomini e per questo inesperto, che tutto l’equipaggio fosse intento a issare o ammainare le vele ogni due secondi sul ponte. Ovviamente mi sbagliavo. Da dietro una cassa apparve una coppia di giovani mozzi – sui sedici anni – che mi squadravano con incredulità, timore e paura. Probabilmente avevano sentito tutto, ma avrebbero avuto il coraggio di mettersi contro un uomo adulto?
Erano stupidi, giovani e su una nave, lontani da casa, convinti di avere il mondo in tasca.
Che domande, certo che sì.
Il primo scoprì i denti e mi si lanciò contro con un grido che forse voleva sembrare virile. Bastò uno spintone per mandarlo dritto con la testa contro lo spigolo di una cassa, tramortito. L’altro, gli occhi lattiginosi e apparentemente addirittura più giovane, mi squadrava concentrandosi sui dettagli inquietanti, come l’espressione folle che credo di aver assunto in quel momento, la lama celata sporca di sangue e la bocca tesa in una smorfia per il calcio del timoniere. – Prendilo, ragazzo! Ce l’abbiamo in pugno! – gridò qualcuno alle mie spalle. Braccato. Ops.
Sollevai gli occhi al soffitto con un sospiro e feci scattare di nuovo la lama, a mo’ di avvertimento, lanciando un’occhiata al mozzo impaurito. Aveva una spada vecchia, smussata e forse anche un po’ arrugginita pendente dal fianco. Non era la mia spada, ma ci sarebbe stato tempo per recuperarla, una volta ammazzato l’uomo alle mie spalle.
E dopo di lui?, s’intromise una vocetta nella mia testa. Non ci sarà solo questo tizio. Sopra ce ne sono altri quindici, come minimo. Vuoi ammazzarli tutti? Questi qui non sono Assassini o soldati britannici, lo sai? Questi…
Ah, sta’ zitto. Ci penserò quando sarà il momento, intimai respirando piano. Poi mi lanciai in avanti mentre il marinaio gridava, affondando la lama nella coscia del ragazzo. Quello mulinò le braccia cercando di scacciarmi, urlando come una femminuccia per il dolore e la paura, ma tesi violentemente la mano destra e gli strappai la spada dalla cintola, aprendogli uno strappo nella casacca verde stinta dal sole e dall’acqua. Quando mi voltai, un marinaio che non riconobbi mi fissava attraverso quelle due fessure che aveva al posto degli occhi con aria tutt’altro che rassicurante.
Scrollai le spalle. – Lasciami passare o sarò costretto ad ucciderti – sibilai guardandolo di traverso.
L’altro sollevò le mani per mostrarmi la sciabola – non un coltello come gli altri, no, proprio una sciabola – e la pistola. – Accomodati. Non sarà facile come credi.
Sorrisi. – Sai quante persone me l’hanno detto prima di te? – dissi con aria da spaccone. E sollevai la spada un attimo prima che la sua sciabola mi staccasse di netto la testa. Era più bravo di un mozzo e meglio armato. In più aveva doveva essere qualche anno più avanti di me. In un’altra circostanza gli avrei chiesto se avesse imparato a combattere in quel modo sulle navi corsare, ma non mi sembrava il caso.
Non sia mai, magari l’avrei distratto dai suoi estenuanti tentativi di ammazzarmi.
Non avevo scontri con avversari degni di questo nome da una vita, e l’incalzante avanzare della sciabola di quel marinaio mi rendeva nervoso e affaticato, impedendomi qualsiasi reazione. Appena provavo a mulinare la spada per staccargli il braccio della pistola quello tentava un nuovo fendente, che mi ritrovavo a parare all’ultimo secondo con la lama celata in una pioggia di scintille.
Ad un tratto lo vidi chiaramente girarsi la pistola nella mano, reggendola per la canna in modo da usare il calcio come arma. Mi balenò in mente una mezza idea, un po’ rischiosa, certo, ma non mi venne niente di più saggio. Niente che potesse salvarmi.
Attraverso la botola ogni tanto faceva capolino qualche viso più giovane e disarmato. Pensavano che fossi in trappola, e forse non avevano tutti i torti. Però non mi conoscevano. Era quasi ovvio che non avessero fiducia nelle mie capacità, giusto? Alcuni di loro stavano addirittura scommettendo su chi di noi sarebbe sopravvissuto. Idioti, sotto ogni punto di vista.
L'uomo continuava a incalzarmi con violenza, emettendo grugniti gutturali e mandandomi a sbattere contro le casse in equilibrio precario nella stiva ricolma. Era più giovane di me, ma sembrava averne viste davvero di tutti i colori e forse, come tutti gli uomini su quella dannata goletta, non pensava fossi in grado di difendermi. Pensava davvero che avessi fantasia a sufficienza per inventarmi la storiella di Washington, dell'attentato e fossi solo un povero idiota ricco in fuga a Philadelphia per qualche motivo futile? Andiamo. Forse sarebbe stato più intelligente e avrei dato meno nell'occhio, ma no. Non sono così furbo, non sempre.
La mia occasione arrivò non appena il marinaio mi si avvicinò un po’ troppo, tentando di affondare con la mano destra la sciabola nel mio fianco sinistro. Aveva la schiena poggiata contro una cassa piena di gallette, o almeno così diceva la scritta sul vecchio legno mezzo marcio, quindi era letteralmente senza via d'uscita. Colsi al volo quell'attimo di fortuna, ovviamente, lasciando che la lama celata rientrasse nella polsiera e intercettando la sua spada con la mia fino ad incastrarle.
Grugnì. Era in trappola. Senza alcuna esitazione – non potevo permettermene – infilai la sinistra tra le spade incrociate e affondai il dito sul grilletto della sua stessa arma. Il piombo gli s’infilò nello stomaco proprio mentre capiva cos’avevo intenzione di fare.
– Cazzo! – strepitai mollando la spada con uno strattone e correndo ancora più a fondo della stiva, verso la mia cabina, perché si sa, un colpo nello stomaco non ha mai ucciso nessuno. Quante gallette sprecate, merda. – Cristo, Cristo, Cristo. – I cassetti della misera scrivania erano stati rivoltati, la redingote aveva sicuramente le tasche bucate e vuote, ma non avevo tempo per curarmi dei miei soldi. Afferrai cappello, cappotto, le pistole e la spada corta, abbandonata a se stessa sull’amaca che avevo usato per dormire, e corsi di nuovo verso la scaletta, cosciente del fatto che avrei dovuto avere un’altra idea. E alla svelta.  
Stavo correndo alla massima velocità consentita dalle mie gambe verso la prua, rischiando di scivolare ad ogni passo, quando qualcuno capì che ero io il sopravvissuto, voltandosi ad indicarmi con una mano sugli occhi per schermarsi dall’acqua. – Merda! – sentii il grugnito adirato di Perez persino da lì, mentre i tuoni risuonavano in mezzo a quella dannata tempesta che sembrava farsi sempre più forte. Non serviva certo un genio per capire che non sarei sopravvissuto senza una scialuppa degna di questo nome, non in quella situazione.
– Maledizione. – Arrivato sulla prua mi guardai intorno. Niente di utile. Uomini esausti che stringevano le cime e mi indicavano col mento, costretti a scegliere tra la loro sopravvivenza e la mia cattura. Sperai fossero abbastanza egoisti da rinunciare a me, ma avrei comunque dovuto calare una scialuppa fuori bordo. Da solo. Impossibile. – Cazzo – imprecai disperatamente.
In quell’esatto istante il quartiermastro saltò su di me da uno degli alberi, atterrandomi. – Tu non vai da nessuna parte – ringhiò stringendo le mani sulla mia gola. Come aveva fatto a non spaccarsi una gamba? Oh, già, c’era il mio corpo ad attutire. – Io avrò i miei dannati soldi e tu finirai sulla forca. – Una terza volta? Per Dio, sta diventando banale. Perché non si torna alle buone, vecchie e divertenti condanne a morte di una volta? La ghigliottina, o quelle strane gabbie in cui infilavano i pirati. Chissà se tu ci sei mai finito, eh, papà? Non ottenni risposta. Forse era offeso dalla mia stupidità, dato che stavo pensando ad una cosa del genere con le mani di Perez al collo.
– No – replicai con un mezzo sorriso.
– No? – Il quartiermastro sorrise. – Sei in trappola. Non lascerai questa nave, riccone.
La brezza scosse le vele sopra di noi. Erano belle, pensai. Ecco perché ti piacevano tanto. – Mi dispiace – grugnii in quell’istante. Feci scattare la lama, e non ebbe bisogno di sentire altro. Scattò in piedi, essendo disarmato, e io subito dopo di lui, correndo verso il sartiame come un topo che scappa dal gatto, cercando di arrampicarmi sulla coffa.
Devo essere sincero, non avevo letteralmente idea di cosa stessi facendo. Mi bastava stare abbastanza lontano da quel bastardo per evitare i colpi di pistola e pensare a qualcosa di più furbo. Stavo correndo sul fuso di maestra, accovacciato con il fiato grosso, con il vento che minacciava continuamente di farmi cadere rovinosamente sul ponte. Dovevo farmi venire in mente qualcosa, qualsiasi cosa.
E quando un lampo illuminò l’orizzonte, rischiando di farmi cadere per lo spavento, ebbi un’altra idea. Stai scherzando, vero?, replicò subito la voce più sana che mi vagava in mente. È da pazzi. Morirai nel giro di un’ora. Non sai nemmeno dove sia la costa! Guardati intorno! Finirai fritto da un fulmine. Gli squali avranno il pasto cotto e servito su un piatto d’argento.
Scrollai le spalle reggendomi all’albero e guardai sotto di me. Perez mi seguiva con lo sguardo, la pistola puntata e il dito pronto sul grilletto. Dovevo trovare un modo per…
Scivolai su una corda bagnata. A quanto pare il modo aveva trovato me. – Cristo! – imprecai reggendomi con le dita al legno inzuppato del fuso. Le mie gambe penzolavano nel vuoto e sentivo lo sguardo di Perez sulla schiena, pronto a spararmi ad una gamba, come minimo, in modo da potermi tenere a bada. – Forse dovresti stenderti un po’, riccastro – gridò da sotto, la voce divertita e sicuramente un gran sogghigno dipinto in faccia.
Premette il grilletto e pensai che la mia vita sarebbe finita nelle prigioni dell’esercito. Addio sogni di vendetta, addio Mela dell’Eden, il mio sacrificio buttato al vento. Sarei morto miseramente, senza nessuno.
Strinsi la presa sul legno, consapevole che l’impatto col piombo avrebbe potuto scaraventarmi giù dall’albero, ma non arrivò nulla. Solo un’imprecazione tra i denti da parte di Perez. – Porca troia!
E, incredibile ma vero, mi sentivo come rigenerato. Non riuscii a trattenere una risata liberatoria e lanciai la mano sinistra sul fuso per tirarmi su. La polvere s’era inzuppata per la tempesta. Quella pistola era inutilizzabile.
Non avevo tempo per verificare se lo fossero anche le mie sparandogli, anche se mi sarebbe piaciuto. Semplicemente saltai giù dall’albero, atterrando sul ponte nel modo più sicuro possibile, rotolando una volta e sollevano il coperchio di una delle botti piene di polvere da sparo che trasportavamo per vuotarne il contenuto nell’oceano. Era rischioso, sapevo che se un fulmine mi avesse preso sarei saltato in aria come un petardo, viste anche le giunture in metallo che permettevano alle assi di non separarsi l’una dall’altra, ma che alternativa avevo?
Rivolsi un cenno di saluto a Perez, che sollevò lo sguardo su di me continuando ad imprecare contro la pistola, e scavalcai il parapetto con un salto, la botte stretta al petto.
Mentre l’acqua veniva verso di me a velocità folle non potevo non pensare a quanto quell’idea fosse stupida. Eppure non confidavo in quello, per salvarmi. Non del tutto.
Quando ricevetti l’impatto con l’acqua smisi immediatamente di pensare a queste stronzate per concentrarmi su qualcosa di più importante: la mia sopravvivenza. Le onde impetuose mi stavano sbatacchiando da una parte all’altra, stavo a galla solo grazie al barile, la bocca e il naso pieni d’acqua salata e piovana, i colpi di tosse che mi squassavano il petto.
Agitavo istintivamente le gambe, sopraffatto dal terrore di finire sotto la goletta ed essere spacciato per sempre. Aggrappandomi alla botte con tutte le mie forza e battendo piano le palpebre sugli occhi brucianti riuscivo a distinguere alcune figure che si sporgevano dal parapetto della nave per guardare nella mia direzione.
Ce l’avevo fatta. Ne ero uscito vivo. Ero in acqua. Ero scappato. – Vivo – riuscii a sussurrare con la gola in fiamme per il sale e la tosse.
Avrei dovuto avere paura. Certamente. Lì, in mezzo all’oceano, nel pieno di una tempesta, senza una scialuppa, avrei dovuto avere paura di morire sbranato da uno squalo, per ipotermia o semplicemente per annegamento, se quella tempesta fosse continuata.
Eppure non ne avevo. Strinsi le giunture del barile e mi tirai su, sforzandomi di respirare a pieni polmoni. Non era abbastanza grande perché mi ci sedessi sopra, naturalmente, così rimasi con le gambe in ammollo e le nove dita strette nel tentativo di recuperare un battito cardiaco costante. – Non potete lasciarmi morire, giusto? – sussurrai con un gran sorriso, scoppiando in una risata roca. – Io sono la chiave del Grande Tempio, cazzo.
– Umpf – sbuffò Giunone. – Non devi necessariamente essere integro per agire.
– Sei andato a cercare guai, servo della Croce – fece Minerva con lo stesso tono di una maestra spazientita.
Mi sforzai di prendere fiato, respirando a pieni polmoni. Non avevo nemmeno la forza di roteare gli occhi o rispondere con una battuta di spirito. – So che non avrei dovuto, ma era l’unico modo per uscire da quella situazione. Ora, mi servirebbe un favore. E se non siete davvero stupide, direi che avete già capito di cosa si tratta.
– Non siamo qui per obbedire ai tuoi ordini, servo della Croce – bofonchiò Giunone.
– Non è un ordine, solo che sarebbe meglio se arrivassi a Philadelphia alla svelta, sano e salvo, magari con tutti e quattro gli arti e diciannove dita – brontolai con un mezzo sorriso, agitando le quattro dita attorno al rigido moncherino dell’anulare. Non mi ero ancora abituato a quell’affare.
Sentii un sospiro provenire dall’interno della mia scatola cranica. – E va bene. Ottima scelta, Minerva, davvero – fece Giunone scocciata.
– Era l’unica – puntualizzò l’altra.
– Grazie per l’incremento istantaneo di autostima che mi avete procurato, ora, per quel passaggio a Philadelphia?
– Argh, chiudi il becco – ordinò Giunone.
E qualche attimo dopo tutto si fece buio. 

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Capitolo 29
*** La famiglia esemplare. ***


Sequiturque patrem non passibus aequis.
(E segue il padre, ma non con passi eguali.)

Virgilio, Eneide.

La prima impressione fu quella di essere annegato – una fine oltremodo dolce, nonostante tutto – e catapultato nel mondo dei morti, poiché ero circondato da una spessa coltre di assoluto nulla, la vista sul mondo di un condannato a morte con il sacco sulla testa. La quiete era assoluta, un silenzio buio e gelido, pesante, che mi attanagliava le viscere formando una morsa alla bocca dello stomaco, un grosso peso nel petto che cresceva e s'intricava a ogni secondo passato. Quello doveva essere l'inferno, viste le mie malefatte. Allora perché non c'erano le fiamme? Perché nessun dannato avvoltoio mi sbranava le palle come punizione eterna?
– In piedi! – Sentii una gelida punta metallica colpirmi il costato senza farmi granché male, quindi grugnii. Quasi sicuramente era una spada. Ironico, la mia condanna sarebbe stata quella di combattere per la maledetta eternità. O fuggire da un avversario armato. Ero sempre stato un dannato codardo, e almeno il mietitore lo sapeva. – Andiamo ragazzo, non ti mangio mica! La colazione di Emily m'è rimasta sullo stomaco, purtroppo, ma direi che per te è una fortuna, no? Su. In piedi!
Con un piede, qualcuno mi rivoltò sulla schiena e, quando misi a fuoco i contorni del mio avversario, la sensazione di pesantezza tra le costole crebbe. I capelli lunghi, biondi e assolutmente disordinati mi fecero venire le lacrime agli occhi, ma più di tutto, i suoi occhi azzurri, familiari e caldi nonostante fossero venati di spietatezza mi provocarono una serie di lancinanti fitte al petto, come se stessi soffocando o fossi sul punto di avere un attacco di cuore. – Forza. Tirati su.
Mi tese la mano per sollevarmi da terra, come aveva fatto innumerevoli volte quand'era vivo e l'afferrai, aiutandomi per riassumere una posizione eretta. – Ecco qua. Bravo, ragazzo. Adesso raccogli la tua spada.
La necessità, più che la voglia vera e propria, di piangere si stava facendo inarrestabile. E come altrimenti avrei dovuto reagire?
Insomma, mettetevi nei miei panni.
Mio padre, morto trent'anni fa davanti ai miei occhi, si stagliava davanti a me come il faro che era sempre stato nella mia vita e mi chiedeva di raccogliere la spada per combattere.
Mio padre. Edward Kenway. E mi aveva chiamato ragazzo.
Mi voltai per andare a raccogliere la spada abbandonata in un angolo della stanza dei giochi – Cristo santo, quella era la mia stanza dei giochi! Con tutto quanto al suo posto ma senza le pareti, un tappeto di parquet che svaniva in un'oscurità apparentemente lontanissima.
– Oh, Dio... – Afferrai la spada corta e la sollevai, studiandone lama ed elsa. Non era la spada corta comprata a Boston, era la spada corta che mi aveva regalato mio padre, quella nascosta in un astuccio in legno dietro la Bibbia, incassata nelle pareti coperte di scaffali che qui sfumavano nel buio, invisibili, quella perduta nello scontro con Miko. – Che cos'è questo...? – chiesi voltandomi.
Prima che avessi tempo di finire la domanda, mio padre sferrò una stoccata da manuale, rapido come un polpo nell'infilare i tentacoli dentro un mollusco. Ma io non avevo più dieci maledetti anni, e avevo fatto le mie esperienze, direi. Sollevai il braccio rapidamente e indietreggiai di mezzo passo per l'impatto, ma ero preparato. Dopo tutti quegli anni, il suo furioso stile di combattimento mi scaldò il cuore come una vecchia ninna nanna. Aveva una sola sciabola in mano, di quelle britanniche, lunghe, dritte e lucide. Sorrisi mentre respingevo i suoi attacchi con tutto l'ardore che riuscivo a mettere insieme, parando e respingendo quando potevo. Se mi concentravo sul suo corpo, con un'arma in mano era come un qualsiasi avversario. Studiavo le sue mosse e prontamente vi rispondevo, valutando i suoi punti di forza e sfruttando quelli deboli, come lo spietato assassino che ero, ma appena sollevavo lo sguardo e i miei occhi incontravano i suoi lineamenti così familiari, il mento in avanti, l'atteggiamento fiero, il sorriso di sfida, i denti scoperti come quelli di uno squalo, e gli occhi!, Cristo santo, quegli occhi azzurri, orgogliosi, capaci di grande amore come di totale mancanza di scrupoli e pietà, così vivi nonostante lo avessi visto morire davanti ai miei occhi, e...
La spada precipitò con un clangore nel buio nulla oltre il legno, come in un baratro, appena l'acciaio di mio padre stoccò contro il mio. Avrei dovuto tenere la guardia più alta e tendere il braccio, tenere duro mentre colpiva vicino all'elsa, ma mi ero lasciato andare, colto dalla nostalgia alla vista di quello sguardo cangiante e così dannatamente intenso, ero come tornato bambino. Io potevo batterlo, avrei potuto persino ucciderlo, volendo. Da piccolo avevo ucciso un uomo con il suo addestramento. Avrei potuto affondare la spada fino all'elsa anche nei suoi occhi, nelle sue cervella. Persino allora, forse.
Era sempre stato lui a fermarmi, lui come personalità. Troppo forte, schiacciante, autoritario senza mai essere ingiusto, troppo onesto. Non avevo pensato mai, per tutta la mia vita, che essere suo figlio sarebbe potuto essere difficile. Non mi ero mai sentito come Jenny, ma ne coglievo il peso in quell'istante.
Dove avevano trovato le palle di ucciderlo, quei bastardi? Nemmeno Reginald le aveva avute. Aveva mandato dei sicari, e poteva inventare qualsiasi scusa per questo, ma, inclinando il capo da una parte come un ragazzino basito davanti a un giocattolo nuovo e strano che non può avere, intoccabile, stavo comprendendo che non l'aveva ucciso di persona perché lo conosceva troppo bene per non essere ammaliato. Come me. Per quei bastardi – bastardi che, in fin dei conti, erano membri dell'Ordine, o qualcosa che vi andava vicino – era un cadavere come un altro. Solo un uomo. Solo un mucchio di carne, ossa, gelatina e sangue.
– Sei migliorato, figliolo – disse passandosi il palmo sulla fronte sudata. – Non c'è quasi più gusto a batterti. – Fissò la spada come se non ne avesse mai brandita una, strofinando i polpastrelli sul metallo dritto della sciabola nel tentativo di scacciare chissà quale alone, quindi scrollò le spalle e la gettò alle proprie spalle, lasciando che, come la mia, svanisse nell'oscurità.
Mi osservò con le mani sulle ginocchia e un sorrisetto, lo sguardo di un pirata, senza ombra di dubbio, e allora ricordai in un colpo solo tutto l'odio che avevo provato per la sua incondizionata fiducia in Reginald. Non so di preciso che cosa avessi intenzione di dirgli, se volessi inveire contro di lui o semplicemente abbracciarlo ed essere cullato dalla sua presa finché non fosse sopraggiunta la morte, ma non me lo permise. Mi voltò di scatto le spalle, prendendo a camminare avanti e indietro per la stanza con un cipiglio preoccupato in volto. Si passò una mano sulla faccia, il pollice che correva lungo la cicatrice a mezzaluna sulla guancia, quindi grugnì una sola parola, un altro stupido mucchietto di lettere che bastava a far diventare il mio cuore un maledetto macigno. – Jenny.
Gli risposi con un gran sospiro e un’altra parola soltanto, il sangue che ribolliva al solo pronunciarla. – Reginald. – Era a metà tra un ringhio e un singulto scocciato, perché non era così che avrei voluto rispondere. Detestavo non riuscire a dirgli le cose in faccia, cagandomi sotto come un poppante, esattamente come mi avevano infastidito le parole di William Johnson quando l’avevo fatto fuori.
Scrollò le spalle, come se per tutti quegli anni se lo fosse aspettato. – Lo sospettavi? – chiesi azzardando un passo verso di lui. Eccola, la mia occasione per sputargli in faccia che eravamo stati stupidi, tutti quanti, e lui più di tutti, perché se davvero aveva qualche piccola avvisaglia il suo unico dovere era quello di scappare, portarci lontani da Londra sani e salvi.
Ma lui non era me. Quello era ciò che avrei fatto io. Una mossa da codardo. Mio padre era stato un pirata, un Assassino, probabilmente anche un omicida, dunque, ma di certo non era un codardo. Strinsi la mascella insieme con i pugni. No, lui non era un codardo. Non aveva paura di dire le cose in faccia. – Sapevi che voleva ucciderti?
L’immagine di mio padre tentennò. – Mi aveva avvisato – disse con un tono più pacato del solito. – Non gli ho dato ascolto. Avrei dovuto?
Risposi con un grugnito. – Saresti morto comunque, no?
Edward Kenway, o il suo fantasma, ridacchiò. – Sì. Ritengo che me l’abbia detto proprio perché sapeva che non gli avrei dato ascolto.
– Un libro – replicai levando gli occhi al cielo. – Tutto per un dannato libro. Sui Precursori.
Sorrise ancora. Sembrava davvero infinitamente più felice, da morto. Quand’era in vita pareva quasi che gli tornassero in mente i giorni in cui era un giovane scavezzacollo, in cui poteva ancora divertirsi e scolare grog dalla mattina alla sera senza nessuna preoccupazione tolta quella di razziare il possibile in compagnia degli altri pirati, arrampicarsi sugli alberi delle navi e cavalcare le onde. – Ah Tabai. Il mio Mentore mi diede quel libro. Per capire di più sulla mia vita. – Sospirò, recuperando da chissà dove la sua redingote azzurra. Lo stesso colore dei suoi occhi, mi accorsi. Lo stesso del mar dei Caraibi. – Non ti ho mai raccontato nulla. Dovevi essere al sicuro. Con tua madre, tua sorella, e…
– Perché ti fidavi di lui? – Avevo raccolto il coraggio a due mani e gliel'avevo chiesto. Nonostante fossero parole dure, spinte con prepotenza su per la gola e verso di lui, era quella l'unica cosa che volevo sapere da lui. Non m'importavano le lezioni di scherma o i motivi per cui Reginald aveva fatto ciò che sapevamo entrambi. Quelli li conoscevo a sufficienza. Volevo solo sentirmi dire che aveva sbagliato, che gli dispiaceva e che avrebbe dato la vita per tornare da me, con mia madre e Jenny e la nostra vecchia casa nella piazza della Regina Anna. 
Si fermò e mi guardò con tanto d’occhi. Non era reale. Lo sapevo. Eppure non mi era mai sembrato tanto vicino, tanto vero. Dicevo a me stesso che non avevo più paura di guardare quegli occhi colmi di ricordi, senso di colpa e sfrontato coraggio represso a stento, che non ero più un bambino, e dunque questo avrebbe dovuto renderlo meno iconico, ma lo sguardo che mi rivolse in quel momento, però, era tanto intenso che dovetti sforzarmi per non spostare il mio su qualcos’altro. – Che domande – rispose pacato, continuando a guardarmi. – Perché c’era. Perché mi ha aiutato quando sono tornato in Inghilterra. – Chinò la testa da una parte, osservandomi con un sorrisetto di sfida. Eccola lì, la faccia del brigante, del malfattore senza scrupoli. – Non è quello che fai anche tu, in fondo? Sei come me. – Incrociò le braccia sul petto e mi squadrò con estremo interesse, come un vascello spagnolo da depredare.
Aprii la bocca per replicare, emettendo un grugnito di stizza e rabbia, ma, come sempre, mi resi conto che aveva ragione. Dannato imbecille. E, per una volta, era riferito a me.
Lui si era fidato di Reginald esattamente come io stavo riponendo fiducia in Charles, in Benjamin e in Thomas. Tenendo conto, oltretutto, del fatto che quei tre mi avevano tradito. La peggiore mossa che potessi fare, ma perché continuavo a confidarci, a rifugiarmici come nel petto di mia madre?
Calmati. Non pensarci. Avrei potuto fare la sua fine. Era forse per quello che lo facevo, per dimostrare ancora una volta che ero più forte di qualcuno, persino di lui, dell'unico che non ero e non sarei mai riuscito ad ammazzare? Sarei, nonostante tutto, morto per mano di Charles Lee o uno degli altri? Del mio stesso figlio?
Mi proponevo di non permetterlo. Non in questa vita, figli di puttana.
Scosse la testa e sorrise, sollevando la redingote per indossarla con un gesto teatrale che il suo carisma rese ammaliante. E il paesaggio attorno a noi cambiò di colpo. Stavamo salendo le scale di una taverna interamente costruita in legno e in condizioni di semi-abbandono. L’insegna ciondolante diceva Old Avery, e il puzzo che ristagnava nell’aria non era quello di Boston, né tantomeno quello di Londra. L’odore del mare invadeva le narici, pesante, persistente, salmastro e così piacevole al tempo stesso. Anche mio padre sembrava diverso, guardandolo bene. Aveva gli occhi lucidi come un ubriaco e non indossava la sua redingote, ma un abito più particolare. Rosso, beige e grigio, quasi tendente al blu. Non era più l’Edward Kenway che avevo conosciuto io, l’affascinante imprenditore londinese, ma Edward Kenway, capitano della Jackdaw e pirata del mar dei Caraibi.
Passò un braccio attorno alle mie spalle in un gesto confidenziale, quasi fraterno. Dio. – Nassau. Ti piacerà, ragazzo. La vera Libertalia. – Scoppiò a ridere con una mano sul ventre. – Stronzate! – esclamò stringendosi al corrimano. – Stronzate.
Non sapevo bene che cosa replicare, e lui mi condusse fino al bancone. Era una taverna costruita su una vasta terrazza quasi interamente coperta da una tettoia di paglia secca, completamente vuota. Tavoli circolari affacciati su un paesaggio che non mi era familiare ma appariva sinceramente bello.
Schioccò la lingua per richiamare la mia attenzione e sollevò uno sgabello caduto a terra. Ci si abbandonò, battendo un pugno sul legno mentre lo raggiungevo. – Il solito, irlandese! – strepitò con una smorfia allegra.
Una giovane donna con i capelli rossi e un vestito che consentiva una gran bella vista sul suo decolleté ci rivolse un gran sorriso prima di tirare fuori due bicchieri e colmarli di liquore. Rum. Ne sentivo l’odore inebriante. – Tieni, stupido gallese che non sei altro – rispose facendogli l’occhiolino, come fosse un vecchio gioco tra di loro. Era un occhiolino alla Reginald. Lascivo. Sperai che i sogni non funzionassero come la realtà, altrimenti, be’, sarebbero potuti scattare meccanismi che non avevo ansia di mostrare davanti a mio padre. In fondo, da quanto tempo una donna non mi guardava in quel modo? Abbassai lo sguardo sul cavallo dei miei calzoni e sospirai. Tutto a posto, per fortuna.
Mentre io ero distratto da pensieri strettamente maschili su quella giovane cameriera, mio padre ingollò il liquore e si umettò le labbra. – Era mio amico. Reginald – grugnì, la voce resa roca dall’alcool. – Li ho visti morire tutti. Uno dopo l’altro. – Batté il bicchiere sul bancone e l’avvenente rossa glielo riempì nuovamente di rum. Mio padre, avvolto in quella che ad un’occhiata più attenta sembrava proprio una tunica da Assassino, mandò giù con un gran sospiro e allargò la mano. Mi lanciò un’occhiata appannata e cominciò a contare. – Il primo è stato Barbanera. Ed Thatch. – Si passò un dito sulla gola, da orecchio a orecchio. – Sgozzato davanti ai miei occhi. Poi Ben Hornigold. Mary Read. – Scoppiò a ridere tirandosi il medio. Una sfilza di nomi senza significato, i suoi migliori amici. Oppure, da come i suoi occhi erano diventati lucidi, qualcosa di più, in certi casi. – O James Kidd, come preferisci chiamarla. John Rackham, meglio noto come Calico Jack. – Sogghignò di nuovo, poggiando il viso sul palmo della mano. – Quel bel culetto là gli occupava il letto minimo tre sere a settimana, te lo dico io – biascicò con una strizzata d’occhio, indicando la cameriera. – Anne Bonny. Bonny, Bonny, Bonny. Booooonny. – Rise. – Forza, bevi! – sbottò puntando il mio bicchiere. – È rum! Non ti piace il rum? Anne! Un altro giro!
– Prenditelo in quel posto il rum, Kenway! – replicò Anne Bonny con un sorrisone, tutta intenta a pulire uno dei tavoli vuoti.
Mio padre rise di rimando e si girò sullo sgabello, la schiena poggiata al bancone, per lasciar vagare lo sguardo sull’orizzonte. Così quella era Nassau. Cielo azzurro, un puzzo in grado di far impallidire i canali di scolo di Londra e capanne accatastate l’una sull’altra. I topi scappavano come greggi al passaggio della folla, lungo le strade, come cittadini in preda al panico quando una salva di cannone apre una breccia nelle mura. – Bella vista, eh? – disse bevendo ancora. Stringeva tra le mani una bottiglia. – Dov’ero arrivato? Ah, Calico. Giusto. Poi ci fu Charles Vane. Steeeede… Bonnet. Lui, il vecchio Bonnet. Idiota. – Sospirò, intimandomi con un altro cenno di vuotare il bicchiere. – Tutti morti, in un modo o nell’altro. Ho cercato di tenermi stretto l’unico nuovo amico che mi restava. Ora capisci. Giusto?
Abbassai lo sguardo sulle assi malferme dell’Old Avery. Sì. Lo capivo. Era solo e si era fidato di Reginald, proprio come io mi ero appoggiato a Thomas nonostante avesse violentato Tiio e facesse parte di quel dannato gioco il cui unico obiettivo era uccidermi. Fedele a me, ma c’era anche lui davanti alla mia forca. Solo che vi era una certa differenza tra Thomas e Reginald. – È la madre di Jenny? – sviai, indicando Anne Bonny con un cenno e bevendo. L’alcool sembrava non avere alcun effetto su di me, ma nemmeno Anne l’aveva avuto. E posso dire con certezza che, be’, se non fosse stato un sogno il mio corpo sarebbe stato di certo meno indifferente a entrambi.
Lui rischiò di soffocarsi con il rum, scoppiando a ridere come un folle. – Oh, Cristo, dici sul serio? – Il rum gli era uscito dal naso e stava tossendo con una mano sul petto. Quando si sollevò aveva il singhiozzo. – Oh, Dio, no. Caroline. Parli di Caroline. – Socchiuse gli occhi con un mezzo sorriso dolce, acquoso e sbronzo. Quelli che rivolgeva a mia madre erano simili, ma non sapevano di alcool. – Caroline Scott. Hawkins Lane, Bristol. L’Auld Shillelag. Non compete con questo posto, ma quasi. – Mostrò di nuovo il ghigno, bevve altro rum. – Hai mai fatto a botte in una taverna, figliolo?
Figliolo. Da quando non mi sentivo chiamare così? Forse fu a causa del rum, ma sentii le lacrime salirmi agli occhi. – In una taverna no – risposi frettolosamente. Credo di aver imparato più in una notte di dicembre, quando avevo quasi dieci anni, a dire il vero. Non ero abbastanza forte per qualcosa di più che pensare quelle parole. – Però ho avuto le mie occasioni. Credimi. – Portai di nuovo il bicchiere alle labbra e il rum mi scaldò le viscere. Pensai che Nassau non sarebbe stato un brutto posto in cui vivere. Ecco perché quei pirati vi aspiravano tanto. Com’è che l’aveva chiamata mio padre?, Libertalia.
– Oh, non lo è – biascicò lui come se potesse leggermi nella mente. – Ci sono i topi e questa dannata puzza, ma il mare è ineguagliabile. E il cielo? Dio, Bristol non è mai stata così. Caroline la rende bella. Caroline e… mamma, e papà. Soprattutto Caroline. Caroline Scott. E la sua bella casa a Bristol. – Strinse la bottiglia tra le gambe, passandosi i pugni sugli occhi. – È morta mentre ero qui. E mi ha mandato Jennifer. – Scostò le dita, le iridi azzurre puntate su di me tra le fessure. – Tu… tu non sei Jennifer, giusto?
Sorrisi, gettando uno sguardo al bicchiere di rum quasi vuoto. – No, papà. – Mi tornò in mente il suo aspetto l’ultima volta che l’avevo vista. Sciupata, con i vestiti di una serva, il cipiglio (o sguardo fumoso che lo si voglia chiamare) contornato da occhiaie profonde, le guance incavate e le mani divenute callose, ma la stessa fierezza negli occhi. Si capiva che era stata una donna di un certo livello, una vita prima.
Correva, lei, che a malapena a casa muoveva le mani per fare il ricamo, fasciata da quel dannato vestito che la intralciava. Trascinavo Holden, ma ero comunque più veloce di lei. Non ricordavo, non facevo caso ai suoi sensi indubbiamente meno fini dei miei: non riconosceva il rumore di un moschetto caricato, non collegava il passo degli eunuchi al momento in cui avrebbero sparato.
Fui stupido. Ed egoista. Mi voltai con gli occhi sgranati sentendo il coro di spari, una nube di fumo e Jenny nel mezzo. Non poté fare altro che buttarsi a terra, sperare di essere più veloce del piombo.
Non lo fu. Lo sapete.
Cadde prona con una mezza dozzina di fori sanguinanti nella schiena, il vestito sporco di polvere e rosso. Un eunuco era sbucato dal fumo e la trapassò con la baionetta, affondandogliela nella schiena.
Seduto all’Old Avery con il fantasma pirata di mio padre ebbi lo stesso sussulto che mi aveva spezzato vedendo Jenny morta.
L’unico motivo che avevo per vivere era Holden. Immagino fosse reciproco. Lui si prese cura di me e io feci lo stesso per quanto mi fu possibile, ma non bastò.
Non avevo mai più appeso abiti su quelle corde.
– No, papà – ripetei portando il rum alle labbra. – È morta anche lei. Jenny, mamma. Sono morte tutte e due. – Strinsi i denti mandando giù. – Sono morti tutti.
Sorrise tristemente. – Lo so, Haytham. – Mi porse la bottiglia indicò uno dei tavoli dell’Old Avery, un lampo di sobrietà negli occhi. – Lo so. Ora le vedo. Ci sono loro… e i miei amici. Sono felici, figliolo. E la senti la musica? Questa canzone… – Mi strappò la bottiglia dalle labbra, facendomi sputacchiare rum con un’imprecazione, e se la strinse al ventre. – Una delle mie preferite. Here’s a health to the company and one to my lass, let us drink and be merry, all out of one glass… – Interruppe il canto ridacchiando e si passò la mano sulla fronte. – Questo posto puzza davvero come una sentina, eh? – Grugnì scuotendo la testa come un cavallo, si rigirò sullo sgabello e spinse la bottiglia sul bancone. Troppo in là. Cadde dall’altra parte con lo squillo dei vetri rotti. – Argh, ‘fanculo – borbottò accasciandosi sul legno, abbandonato come sul punto di svenire. Un attimo dopo si rimise dritto, il suo petto si sollevò di scatto per il singhiozzo. – Sai che facevo prima di prendere il mare, Haytham? – disse sorridendo appena. – L’allevatore di pecore.
Per poco non mi strozzai con il liquore. Questa mi mancava. Lui, pirata e abile commerciante… un ex allevatore di pecore? Gesù Cristo. – Dici sul serio?
– Com’è vero che son vivo e respiro. – Si passò le mani sugli occhi con un grugnito quando, un attimo dopo, ricordò di essere morto. – Sì. Un allevatore. E tu sei mai stato in una fattoria? Sai com’è che muoiono i cani, quando bisogna abbatterli? Quando sono troppo violenti, abbaiano forte e spaventano il bestiame? – Sospirò. – Una bella pietra sulla testa finché non sono stecchiti. E – singhiozzò – i maiali? I maiali strillano dalla paura, si agitano e piangono fino all’arrivo di un bravo ragazzo che li sgozzi. Le pecore. Lo sai come muoiono le pecore? Silenziosamente. Però mordono. Hanno bei denti. Le pecore. Una volta ce ne hanno ammazzate due. Durante la notte. Non hanno fatto un fiato. Le pecore sono… sono brave a morire, lo sai? – Un altro singhiozzo gli sollevò bruscamente il petto. – Ho vissuto come un cane e sono morto come una pecora. Mordendo. E in silenzio. – Tracannò, probabilmente per nascondere gli occhi lucidi. – Mi dispiace. Non sarebbe dovuto accadere, ma è andata così. Dicevamo? Be’, gli alligatori invece sono bastardi. Bastardi coi fiocchi. Quelli non crepano senza combattere, e quando si decidono a morire lanciano un ultimo urletto. – Lo vidi mettersi una mano davanti alla bocca per reprimere un rutto e non riuscii a trattenere un sorriso. – Allevavo pecore e sono morto come una di loro. – Abbassò gli occhi colmi di tristezza e guardò il fondo del bicchiere vuoto. – Cristo, sto per svenire.
Decisi che, per non portare entrambi alla depressione e a un conseguente suicidio, fosse meglio cambiare discorso. – Allora, tu… tu puoi vedere Jenny, vero? – Bravo, bravo, così si rincuora il proprio padre morto, parlando della sua figlia morta! Una medaglia, presto!
Lui scrollò le spalle. – Sì. E Bristol. L’Auld Shillelagh – ripeté con un sorriso triste e gli occhi chiusi. – Ti salutano, Haytham. Lei e… e Tessa.
Ridacchiai, abbassando lo sguardo sui fondi del rum. – Sono ancora troppo basso per capire la tua vita di pirata e Assassino, ai suoi occhi?
– Emmett – rispose mio padre con un sorrisetto stanco. – Mi ricordava tanto Emmett, con quelle parole. Tanto suo nonno. – Imprecò a mezza voce. – Ci siamo quasi. Salta. Nell’Oceano.
Mi voltai di nuovo verso il panorama di Nassau e d’improvviso non eravamo più lì. Quello su cui poggiavo i piedi era il ponte di una nave, un brigantino, per l’esattezza. La Jackdaw. – Devi andare, Haytham. – Mio padre era accasciato sul timone, ancora sbronzo, ancora sorridente, le gambe molli. – Vedi la costa? Le colonie. Quella è la… come la chiamano, Pennsylvania? – Indicò una direzione con il dito e lo seguii con lo sguardo. Nemmeno troppo lontano da lì potevo  scorgere un promontorio, un porto pieno di persone e vita, l’avanzare delle giubbe rosse e l’andirivieni dei mercanti tutti presi dai loro guadagni. E una barchetta a remi con un paio di pescatori a bordo in avvicinamento. Riuscivo a sentire l’odore della salsedine nell’aria. Un odore completamente diverso da quello di Nassau. – Vai, Haytham. Riesci a vedere quella barca? È vicina.
– Davvero? – grugnii con il solito sarcasmo al quale lui non doveva essere abituato, visto che durante il nostro ultimo vero incontro avevo dieci anni e riuscivo solo a chinare la testa per le lusinghe sue e di Reginald.
Sghignazzò comunque, prima di ricominciare a cantare con la voce ridotta a un mugugno. – For we may or might never all meet here again…
Istintivamente, come se non avessi fatto altro tutta la vita, mi arrampicai sul parapetto e allargai le braccia. Cercai il suo sguardo un’ultima volta, accogliendo la sua occhiata di approvazione mista ad ebbrezza con un gran sorriso, come quand’ero bambino.
Poi spiccai il volo, saltando verso le acque di Philadelphia, decisamente meno invitanti di quelle dei Caraibi, con le braccia aperte. Come ali. Come il degno figlio di un Assassino.
Quando risalii in superficie, dopo l’impatto iniziale con l’acqua salata, la Jackdaw era scomparsa. Insieme a lui. Forse per sempre, per sempre davvero.
La barca a remi era davvero vicina, come aveva detto lui. Troppo vicina, pareva essere a pochi pollici dalla mia fronte. Eccola lì, proprio sul punto di sbattermi contro la faccia.
– Merda – dissi, ma non riuscii a trattenere un mezzo sorriso colmo di gioia. 

– Ahi! Merda! – ringhiai passandomi una mano sulla faccia. La gioia aveva preso il volo velocemente, dopo aver davvero sbattuto contro la poppa di una barca a remi. Avevo ancora le dita strette alle assi della botte, che lasciai immediatamente andare per aggrapparmi alla lancia. – Ehi! C’è un uomo in mare, da queste parti – sbraitai con la voce roca di chi ha passato qualche tempo a respirare più salsedine che aria.
– Gesù Cristo e tutti i santi! – sbottò uno degli uomini sulla barchetta, sporgendosi per guardare l’uomo appeso ad un barile che aveva appena tamponato la sua imbarcazione. Lo disse come fosse una parola sola, gesùccristoettuttisanti. – E voi che ci fate lì? State… state bene? – Era un uomo sui trentacinque, rasato di fresco e con il viso costellato di troppe rughe per la sua età. Un uomo di mare. – Frank, dammi una mano a tirarlo su, presto!
Pochi attimi dopo Frank e il suo compagno mi avevano issato sulla barca, guardandomi con stupore. Avevo ancora tutte le dita – tutte e nove, almeno – e nonostante tutte le ore che dovevo aver passato in acqua i miei muscoli non erano nemmeno intorpiditi, i polpastrelli lisci come se non fossi mai entrato in acqua. Ero solo fradicio dalla testa ai piedi. – Ehi. Grazie – borbottai con un mezzo sorriso, ignorando le loro domande da ragazzine agitate. – Quella è Philadelphia, vero?
Frank, il più giovane dei due, sorrise appena. – L’unica e sola, signore. Benvenuto nella Provincia di Pennsylvania. – Non gli avrei dato più di diciassette anni, e stringeva in mano un arpione con estrema sicurezza, i capelli biondicci e impastati dalla salsedine. Sul viso abbronzato, una spruzzata di lentiggini gli dava un’aria particolarmente stupida, ma non feci commenti. Mi avevano pur sempre salvato la vita.
– Fantastico – sussurrai. – E che giorno è?
Frank guardò l’altro grattandosi la testa. – Accidenti, non lo so. Che giorno è, Kevin?
Il trentenne sospirò. – Sedici giugno, mi pare.
– Cristo! – sbottai rizzandomi in piedi. – Potreste accompagnarmi al porto? Vi… – Emisi un ringhio scocciato, ricordando che non avevo più un soldo bucato in tasca. – Vi sarei enormemente grato, signori. E un giorno vi ripagherò, lo prometto.
Frank e Kevin si lanciarono un’occhiata d’intesa e annuirono. – D’accordo. Se insistete tanto. – Kevin mi porse un remo e mi guardò con estremo stupore. – Voi dovete essere benedetto da Dio, signore. Siete maledettamente fortunato, sapete? Qualcuno lassù tiene davvero a voi.
Sospirai. – Già – brontolai immergendo il remo in acqua. Chissà, papà, forse è merito tuo.
– O forse no.
– Cristo santo! – Non era passato molto dall’ultima volta che avevo sentito Minerva e Giunone mugugnare dietro la mia fronte, ma mi fecero comunque prendere un bel coccolone.
Frank mi scoccò un’occhiata colma di preoccupazione. Non potevo biasimarlo, visto il caso umano che aveva appena preso a bordo. Povero, naufrago e pure pazzo. Gran bell’acquisto. – Ehm, niente – grugnii osservando il panorama. – Non pensavo fossimo così vicini alla città, ecco.
I due si scambiarono un lungo sguardo e si cucirono la bocca, probabilmente terrorizzati. Avrei sorriso, ma parlare con quelle due abbassava di parecchio il livello spontaneo del mio senso dell’umorismo. E così volete un ringraziamento, giusto? Non risposero. Due bambine permalose, come al solito. D’accordo. Grazie tante per avermi portato fin qui a cavallo di un delfino o attraverso chissà quale corrente oceanica. Grazie. Come se aveste altra scelta. Dove sareste senza di me, eh?
Una fitta lancinante di dolore mi attraversò la testa, da una tempia all’altra, facendomi gemere come un poppante. Decisi che come ringraziamento era sufficiente e presi a remare senza pensare ad nulla.
Nonostante il sapore agrodolce che quel dannato sogno mi aveva lasciato nel petto, la vista del molo e del profilo, in lontananza, dell’Indipendence Hall bastava a farmi traboccare di rabbia da ogni singolo poro. 

 

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Capitolo 30
*** Gli errori del passato. ***


L’ultima volta che avevo messo piede a Philadelphia risaliva a quando stavo cercando in lungo e in largo Reginald e Charles. La città non era cambiata a livello morfologico, era solo molto più caotica, e la presenza dei patrioti si faceva sentire: alcune donne offrivano ceste di frutta e camicie pulite, gli uomini porgevano una pipa ristoratrice e i bambini giocavano a rincorrersi tra le loro gambe rischiando di sbattere continuamente i denti contro il calcio del moschetto che i soldati dell’Esercito Continentale portavano appeso sulla schiena.
E quelli, di rimando, dovevano stare al gioco. Anche se erano esausti per chissà quale marcia, odiavano le vocette stridule dei bambini o avevano una natura scontrosa e poco amichevole, avevano il dovere di rispettare i convenevoli. Di far capire che erano i buoni. Un sistema di manipolazione degno di Reginald Birch, lasciatemelo dire.
Quando Frank e Kevin mi lasciarono al porto e ripartirono per la loro battuta di pesca, la prima cosa che cercai fu un orologio. Era quasi l’ora di pranzo, secondo il mio stomaco, ma dovevo sperare che quel dannato Congresso si tenesse di pomeriggio.
Attraversando il mercato del porto mi resi conto di quanta fame avessi. Forse Giunone e Minerva potevano evitare che le mie gambe si assiderassero, ma riempirmi lo stomaco era decisamente chiedere troppo. Rubai del pane dalla bancarella di un fornaio e mi allontanai seguendo la guglia impossibile da ignorare dell’Indipendence Hall. Il nome era già tutto un programma. Chissà che credevano, questi imbecilli dell’Esercito Continentale. Se Washington fosse morto avrebbero avuto la pace e una buona, sana guida templare. Altrimenti, be’, il caos. O libertà, indipendenza, comunque diavolo volessero chiamarla.
Affondai i denti nel pane, spinto dalla fame, e mi lanciai un’occhiata attorno. Davvero c’erano cinquemila sterline sulla mia testa. Sei fiero di me, vero, papà?
A Philadelphia però non v’era nessun manifesto con la mia faccia attaccato alle porte delle taverne, e nonostante fosse successo poco tempo prima gli strilloni non fecero nemmeno un accenno sull’attentato a George Washington. Come aveva detto Perez? Pettegolezzi da taverna.
La taglia non era un pettegolezzo, suppongo.
Probabilmente a New York c’era davvero una ricompensa per chi mi avesse consegnato ai patrioti. Magari il buon George non voleva far sapere in giro che un uomo comune come il sottoscritto s’era intrufolato nel suo forte in quattro e quattr’otto ed era quasi riuscito a farlo fuori. Forse pensava di essere al sicuro, avendomi mollato tra le mani di Reginald e Charles. E quando mi avrebbe visto…
Oh, santo cielo.
Avevo trascurato quel maledetto dettaglio. E dire che, in tutto il tempo libero avuto tra l’ammutinamento, il viaggio con le gambe a mollo e quella passeggiata in preda al panico per le strade di Philadelphia, non mi era minimamente passato per la testa. Ah, chissà a che stavo pensando.
Washington sapeva che io avevo tentato di ucciderlo. Ed era lì. Al maledetto Congresso Continentale. Dove stavo andando io!
– Ah, cazzo! – imprecai esasperato con il pane tra i denti, masticando rabbiosamente a bocca aperta. L’Indipendence Hall si stagliò maestosa davanti a me, e riuscivo già ad intravedere due figure poggiate con ostentata noncuranza alla parete esterna. Mio figlio e il suo amichetto, Samuel Adams. – Dio.
Mandai giù gli ultimi morsi di pane cercando di mantenere la calma, ma le mani erano zuppe di sudore e non riuscivo a tenerle ferme. M’invase la paura di essere trascinato fuori dal palazzo con l’accusa di tentato omicidio di un uomo politico, tutto davanti agli occhi di Connor e di un Figlio della Libertà che non vedeva l’ora di criticarmi perché la nostra ultima chiacchierata era finita con un calcio di Connor nei miei reni mentre io bloccavo Adams al muro stringendolo per la gola.
Mandai giù la palla di mollica e tentai di asciugarmi i palmi sui pantaloni. Presti un gran respiro, mi piazzai davanti a Connor e Sam con le mani nelle tasche e il cuore che batteva all’impazzata.
– Sei venuto – brontolò mio figlio senza alzare gli occhi.
Calmo, dissi a me stesso. Comportati come sempre. – Uhm, visto che sei così felice di vedermi ricorderò di portarti un regalino, la prossima volta. – Per questa avevo in mente la testa di George Washington, semplice e non convenzionale, ma un certo Gran Maestro e il suo nuovo pupillo hanno rovinato tutto. – Sono in ritardo?
Adams lanciò un’occhiata al proprio orologio da taschino e scrollò le spalle. – Il Congresso comincia alle tre di questo pomeriggio. Largo anticipo, direi. – Allora perché guardare l’orologio, demente?
Connor alzò gli occhi su di me e vidi la sua mascella irrigidirsi. – Che cosa hai fatto? – sibilò in tono tutt’altro che amichevole.
– Io? – Risi amaramente. – Che hai fatto tu, piuttosto. Sai, è da un po’ che non ci si vede.
Avanzò verso di me sotto lo sguardo intimidito di Sam. – La tua faccia.
Oh. Merda. Immagino fosse un po’ troppo tempo che non mi guardavo allo specchio e che un calcio sui denti da parte di un nerboruto marinaio non fosse esattamente un toccasana per il mio bel visino. Chissà se a Reginald sarei piaciuto in queste condizioni.
Chiudi il becco, dannazione. – Niente di che. Mai fatto a cazzotti, ragazzo? – chiesi sollevando le mani. – Dovresti farlo. È divertente, istruttivo, magari ci finisci ammazzato.
Mi passò accanto, gli occhi truci. – Spiritoso – brontolò immergendosi nel flusso dei passanti. – Vuoi davvero sapere che mi è successo?
– Restare qui sarebbe una valida alternativa, credo. Potremmo cantare canzoni in cerchio e intrecciare corone di fiori.
Roteò gli occhi. – Zitto e seguimi.
Sogghignai. – Non prendo ordini da un ragazzino.
– Muoviti.
– Sicuro? Ti ci vedo a piegare rami, scegliere abbinamenti floreali e tutto il resto.
– Muoviti. Non abbiamo tutto il giorno.
– Va bene, va bene – brontolai con le mani intrecciate dietro la schiena. È un gesto straordinariamente scomodo da fare se vi manca un dito. – Cosa hai fatto, hai… ridipinto le grondaie della tenuta?
Sbuffò, probabilmente desiderando di non avermi mai inviato quella lettera. – Questo Congresso è molto importante, Haytham. Volevo che ci fossi anche tu per farti capire che Washington non è un inetto. – Soffiai aria dal naso in un risolino di scherno. – Lui può davvero salvare le Colonie e dare la libertà.
Incrociai le braccia sul petto. – La libertà a chi? – chiesi con un sorrisetto. – A chi se la merita, come voi angioletti, e al popolo che tanto difendi? Magari tra loro c’è chi appoggia la Corona, Connor. Chi lotterebbe per vivere sotto re Giorgio. E tu dirai che poteva starsene in Inghilterra, d’accordissimo con te, permettimi, ma dare la libertà… – Sospirai, agitando le mani in aria. – È un termine indicativo, ragazzo. Da’ la libertà a qualcuno e la toglierai a un altro. È sempre stato così. Non arriverai tu a risolvere le cose con una sottospecie di miracolo.
Connor mi guardò con le palpebre pesanti calate sugli occhi, lo sguardo di chi è stufo di replicare e accetta semplicemente i miei commenti. Uno sguardo che, devo ammetterlo, non mi andava poi tanto giù. – Non è il solo motivo per cui sei qui, a dire il vero. – Anche lui incrociò le braccia. L’uno lo specchio dell’altro, in un certo senso, nonostante non potessimo essere più diversi. – Dopo Concord, le perdite dei patrioti sono state molto sentite.
Ridacchiai. – Perdite. Chissà a causa di chi.
– Smettila, per favore. Nessuno di noi saprebbe fare meglio di lui. – Sospirò, stringendosi la base del naso tra le nocche. – Il mio dovere è dare una mano, Haytham. E sai che cosa significa dare una mano ai patrioti, giusto?
Strinsi i denti. Certo che lo sapevo. Non faceva altro che parlarne ogni sacrosanto secondo. – Uccidere John Pitcairn – disse.
– Non sono stupido – brontolai di rimando. – Non basterebbe farlo prigioniero e portarlo qui? Il vostro nome non implica necessariamente l’omicidio del primo uomo che vi trovate davanti, se non sbaglio.
Lo vidi sollevare il capo con aria esasperata e guardarmi, ma i suoi occhi si sgranarono di colpo. Non stava guardando me. Non più. Stava guardando oltre me, alle mie spalle, verso la strada. Ogni muscolo del suo corpo si tese come la corda di un violino e fece per muovere un passo.
Scoprii i denti e lo afferrai per un braccio, tirandolo indietro prima che potesse fare… be’, qualunque cosa avesse in mente. – Lasciami – ringhiò senza guardarmi e portando la mano all’impugnatura del tomahawk.
Mi voltai di scatto, seguendo il suo sguardo, e la mia mano si strinse con più forza attorno al suo braccio. – Oh, cazzo.
– Lee – sibilò Connor provando a divincolarsi. – Lasciami. È la mia occasione.
– Tu non farai un bel niente, ragazzino – sibilai trascinandolo ancora, proprio dalla parte opposta rispetto a quella da cui proveniva Charles. – Dobbiamo fare due chiacchiere.
Sospirò. – Almeno mollami.
– Certo. E chi mi dice che non solleverai quella tua accetta in una crisi isterica e gliel’affonderai in gola?
– Non sarebbe poi un grosso sbaglio.
– Chiudi quella dannata bocca e datti una calmata – dissi in un ringhio. – Idiota.
Soltanto quando sentii i muscoli della sua spalla rilassarsi e riprendere a respirare con calma decisi di lasciarlo andare. Con cautela, perché era pur sempre mio figlio e l’avevo visto impazzire in una taverna strillando che avrebbe dovuto uccidere Charles. Insomma, non sono così sciocco. – Charles Lee – sussurrai scrollando il capo. – Santo cielo. Sono stato un idiota.
Avevo già sottovalutato il problema dato da George, sperando che facesse finta di niente vista la presenza di Connor, ma non avevo minimamente pensato a Charles. D’accordo, d’accordo, forse ho mentito. Non sono così stupido, ma un po’ lo sono. Non avevo fatto caso a quel problema perché volevo solo andarmene da casa di Tic ed evitare di essere ammazzato a New York. – Sapevi che sarebbe venuto? – chiesi a Connor cercando di concentrarmi.
– Ti sembra? – rispose brusco. Va bene, mi sarei fatto crescere le antenne e la prossima volta gli avrei letto nel pensiero con i poteri magici che avevo già usato per farmi salvare il culo da Tic.
– Va bene, simpaticone. Be’, fatto sta che quel ragazzo vuole uccidermi – dissi con la massima naturalezza. – E che, oh, guarda caso, anche George Washington voglia farlo. Abbiamo avuto un paio di scontri ravvicinati e il nostro rapporto non è dei migliori.
Mi squadrò con gli occhi spalancati. – Che cosa intendi?
Sospirai. – Niente di che. Io e tua madre non gli siamo mai andati a genio. Soprattutto io. Anche se credo dovrebbe ringraziarmi. È grazie a me che ha ottenuto il posto che occupa ora, dall’alto della sua magnificenza.
Mio figlio grugnii. – Gli uomini degni di questo nome dovrebbero giudicare ognuno dalla sua vita, dalle sue azioni e ideali, non dal suo passato o dalle persone che lo circondano. – Mi lanciò un’occhiata di traverso.
– Ah, zitto – sibilai. – Per non parlare poi di Charles Lee. Portarmi dritto da lui sapendo che i Templari mi cercano? Le tue eccezionali meningi ci sarebbero dovute arrivare prima della mia vecchia testa. Magari hai pensato che volesse offrirmi un tè o, che so, regalarmi una redingote, ed è proprio questo che mi piace di te, sul serio, le buone impressioni che hai di tutti. Ma, indovina?, Charles non vuole offrirmi un tè a meno che non sia scrupolosamente corretto con del buon veleno, quindi direi che posso anche evitare, per quanto ami il tè. – Mio figlio mi guardò, un po’ a disagio. – Ti spiacerebbe dirmi che cos’hai nella testa, nuvole rosa, amore, un allegro girotondo a ritmo di musica da camera? Buon Dio, hai superato limite dato dalla stupidità umana. Quel ragazzo lavora con Birch, santo cielo, ed è il generale dell’Esercito Continentale. Sta subito sotto quell’altro imbecille di George. – Presi fiato senza guardarlo. – Sai, la mia eccellente etica di Templare m’impone di non restare indifferente davanti a un uomo che vuole uccidermi, perché è esattamente questo ciò che Reginald gli ha messo in testa. Tu invece mi stai mettendo in una posizione difficile, perché mi toccherebbe porgergli una di quelle famose coroncine di cui parlavamo prima, e non sono esattamente certo che l’accetterebbe.
Si trattava di virtuosismo fine a se stesso, dato che non potevo contare nel senso dell’umorismo di Adams e Connor si limitava ad accogliere come un buon martire tutta la merda che gli gettavo addosso, il capo incassato nelle spalle e le palpebre calate pesantemente sullo sguardo pensieroso. – Io non lo sapevo – grugnì stringendo i pugni, lasciando che la rabbia crescesse dentro di lui. Mentre lo osservavo con un certo nervosismo in corpo, le campane cominciarono a suonare. Non ebbe il tempo di rispondermi per le rime o picchiarmi, non quella volta. Non ne avrebbe nemmeno il fegato. – Le due e mezza. Forse è meglio tornare all’Indipendence Hall – disse Connor a testa bassa, dopo aver preso un gran respiro a bocca aperta. – Quindi… – si passò le dita alla base del naso. Sembrava stanco. – Ecco perché i manifesti.
Deglutii a vuoto, sgranando gli occhi. – Cosa?
– Verso New York l’intera frontiera era costellata di manifesti con la tua faccia. – Si voltò verso di me, un po’ più pallido del solito. – Vogliono davvero ucciderti, quindi. Sono decisi.
Cosa sta… Oh, Dio, ha frainteso. Cioè, non ha proprio frainteso, ma non sa niente dell’attentato. – Ne abbiamo strappati un po’. Sai, non credevo fosse giusto buttare via così il tuo… sacrificio, dopo quello che hai fatto. – Indicò la mia mano con un cenno e annuii. – Be’, ora andiamo. Voglio sentire il discorso di George dall’inizio e prendere dei posti decenti.  
Già, voglio un tavolo d’onore, al centro della scena, mentre aspetto la mia morte da parte non di uno, ma di ben due uomini.
Lo seguii. – Ah, e visto che ti piace tanto mettermi in condizione di morire da un momento all’altro, ci sarebbe da discutere il mio epitaffio – dissi, portandomi al suo fianco. – Dio, prova a scrivermi sulla lapide “padre amato” e giuro che risorgo solo per infestarti la casa e maledirti a vita.
Lanciò uno sguardo esasperato al cielo e allungò il passo senza aggiungere un’altra parola. Ah, quant’è divertente, quel ragazzo.
 
– Qualora accadano degli eventi infausti, sfavorevoli alla mia reputazione, vi prego di ricordare, gentiluomini qui presenti, che io, oggi, dichiaro in tutta sincerità che non mi reputo all’altezza del comando affidatomi. –  Mi sfuggì un sorriso. Allora non sei tanto stupido come credo, eh, George?
Seduti attorno ad un tavolo nella sala del Congresso Continentale, Connor e Samuel sembravano completamente assorbiti dalle parole vuote di Washington mentre il mio sguardo spaziava tra Charles, da qualche parte alla mia destra, lo sguardo basso e un sottile sorriso in faccia – sollievo? Gratitudine per non avere Reginald dietro anche in quell’occasione? Divertimento per l’evidente inettitudine del nuovo comandante in capo? – e George, a sinistra, ritto in piedi con la mano sul cuore e il cappello sul tavolo.
Sam Adams sussurrò: – In fede, non c’è altro uomo più adatto al compito.
Sorrisi mentre lo disse, e mi parve quasi di vedere Charles ghignare insieme a me, manco avesse sentito le loro parole. Era da stupidi continuare a guardarlo, ma non potevo farne a meno. Mi dava l’illusione di mantenere il controllo della situazione, nonostante sapessi che appena avrebbe alzato lo sguardo sarei stato fregato. Mi aveva visto. Doveva avermi visto, suppongo, eppure continuava a tenere lo sguardo basso e fingere che non esistessi. Un altro dei motivi per cui stavo sorridendo. – Credo sia giunto il momento di presentartelo. Signor Washington! Signore! – Samuel sollevò una mano, sbracciandosi come una donnina infatuata, e immediatamente il comandante in capo si diresse verso il nostro tavolo. – Buongiorno, e magnifico discorso. Connor, lascia che ti presenti il nuovo comandante in capo, George Washington. Signore, so che la sua giovane età può ingannare, ma ha già dato un cospicuo aiuto ai patrioti.
Connor tese la mano coriacea verso Washington, che la strinse. – Ragazzo! – Il suo tono melenso e falso mi fece accapponare la pelle mentre fingevo di essere molto interessato ai decori intarsiati sul bordo del tavolo di legno. – Sono contento che tu sia qui. Le tue azioni a favore dei patrioti non sono passate inosservate. Eri a… Concord, giusto?
– Lexington, a dire il vero, signore – lo corresse Connor. E continuavano davvero a riporre la fiducia in quell’uomo? Dio, qualcuno mi salvi. – Ho soltanto dato una mano.
George prese fiato, tronfio di se stesso come non mai. Avesse fatto una gaffe simile in pubblico, come minimo gli sarebbe arrivato qualche sasso sui denti. Magari anche da parte mia, fossi stato alla giusta distanza. – Umile quanto coraggioso. Uomini come te sono preziosi. – Dai, Georgie, io non esisto, guarda il soffitto, guarda quant’è bello quel dannato soffitto. Io non ti ho ucciso, non ci ho nemmeno provato, non ho mai… – Anche se pensavo ti circondassi di persone più rispettabili – aggiunse con sdegno. Roteai gli occhi. Lo sapevo, sono irresistibile. – Kenway.
Sollevai pigramente la mano sinistra in un saluto. – George. Che onore.
Washington tese le labbra in un sorrisetto. – Ti conviene uscire subito di qui se non vuoi che dica alle mie guardie di farti fuori.
– Perché non date l’ordine e basta, comandante? – replicai con tono provocatorio. Sapevo che sarei dovuto restare al mio posto e che Charles avrebbe potuto cogliere la palla al balzo, ma l’affetto che mi legava a Lee spingeva anche una parte di me a fidarsi di lui. Era mio figlio, in quella strana maniera. – Forza, uccidetemi.
– Come preferisci, Kenway. Guard…
Connor, esattamente come avevo pensato, lo fermò poggiando la grande mano sulla sua spalla. – Non fategli del male, comandante – sussurrò. – Non è il momento di agire in base al passato.
L’altro scoppiò a ridere. – Agire in base al passato? – ripeté con quella risatina nervosa. – Difendi questo traditore? Che razza di uomo sei? Ha cercato di uccidermi non più di una settimana fa, altro che passato, ho tutto il diritto di rispondere con la stessa moneta, no?
Connor si girò di scatto verso di me, gli occhi stretti. – Hai fatto cosa? – Ecco, in quel momento pensai fosse davvero sul punto di lasciare che le guardie del corpo di Washington mi uccidessero.
Agitai una mano con noncuranza, lanciando un’occhiata alla mia destra. – Ne parliamo dopo. Ora, George, se permettete me ne vorrei andare. – Charles Lee, che aveva finto per tutto il tempo di non far caso a me – bravo ragazzo, davvero un bravo ragazzo – si stava avvicinando al suo superiore per scortarlo fuori. Non si può fissare un tavolo per sempre, no? – Sapete, sarebbe un immenso onore essere ucciso da voi, non fraintendete, ma provocherei un gran dispiacere in tutti gli altri che mi vogliono morto. Sono un uomo desiderato. – Mi parve di sentire di nuovo la risata di Charles, una risata sottile e tetra che avevo sentito poche volte uscire dalle sue labbra. Ah, non fare il sentimentalista.
Connor mi fulminò con un’occhiataccia e cominciò a gesticolare mentre parlava, agitato. – Signore, vi chiedo umilmente di non ucciderlo.
Washington mi guardò con rabbia. – Sei un ragazzo in gamba, sai? – Ovviamente non stava parlando con me. – Quest’insolente dovrebbe esserti grato per la misericordia che gli concedi.
Aggrottai la fronte. George, povero lui, non sapeva che quel ragazzo mi doveva la vita per un tradimento che, dal mio punto di vista, era peggiore di quanto io avevo fatto. Perché lui era un Assassino, uno di quelli affidabili e scempiaggini varie. – Veramente, Washington, io dovrei…
– Veramente, signore – intervenne Connor intimandomi di stare zitto con lo sguardo – ve lo sto chiedendo perché lui è mio padre. – Sì, con quel tono facevamo proprio la figura della famigliola felice.
Il viso di Washington fu percorso da un lampo di stupore. – Bene, Kenway, congratulazioni. Dunque quella…– Guardò Connor e decise che era meglio non offendere quel bestione armato fino ai denti. Non aveva idea di quanto scarso fosse l’approccio al combattimento del ragazzo. – Quella donna con cui mi hai attaccato non era solo un’alleata, giusto? – Non attese la mia risposa. – Credimi, è solo merito di tuo figlio se oggi ti risparmio. Fa’ attenzione.
Ci girò attorno, raggiungendo Charles alle mie spalle mentre per tutto il tempo lo maledicevo con gli occhi e la mente. – Ti fidi di quell’uomo? Sul serio? – dissi a Connor indicando Washington con un cenno della mano. – Bah.
Girai sui tacchi, pronto ad andarmene, ma fui fermato dalla sua abnorme mano sulla spalla. – Hai davvero cercato di ucciderlo, Haytham?
Roteai gli occhi. – Non ho passato mezza settimana al mercato del pesce, se è questo che vuoi sapere.
– Non erano questi i piani!
– Il nostro piano riguardava la Mela, non queste scaramucce tra donnicciole armate di fucile! – ringhiai con un tono più basso per impedire a Samuel Adams di impicciarsi. – Sì. Ci ho provato e non ci sono riuscito. Ho rischiato di essere ammazzato, ma ora sono qui. Sano e salvo per vederti leccare il culo a quel dannato imbecille!
Alzò le braccia in un gesto colmo d’esasperazione. – I manifesti. E io che pensavo fosse tutta una strategia dei Templari! Scommetto che Lee non c’entrava niente, vero?
Scrollai le spalle. – No, su quello ti sbagli. Il generale dell’Esercito Continentale mi ha rapito sotto pesante consiglio di Reginald. E se non fosse stato per una vecchia conoscenza, be’, a quest’ora saresti solo.
– E forse sarebbe meglio, santo cielo! – strepitò a voce troppo alta per i miei gusti. Fortunatamente gli altri partecipanti se n’erano andati dietro Washington. – Lasciamo perdere. Io me ne vado.Ridacchiai. – E dove pensi di…
Un destro dal basso verso l’alto mi fece volare all’indietro, cogliendomi di sorpresa e facendomi saltare via un dente o due. – Cristo – biascicai con le mani sulla bocca. Come se non fosse bastato il calcio di un pirata, dovevo pure beccarmi un pugno in faccia da mio figlio.
– Occupati di lui – ringhiò Connor a Samuel, lasciando la stanza con passi pesanti ed innaturalmente lunghi. – Io vado a Bunker Hill.
Provai ad aprire gli occhi, ma vedevo solo strane macchie nere danzanti sul soffitto dell’Indipendence Hall. Bel soffitto, pensai. No, no, no, no! Alzati, imbecille! Sta andando a Bunker Hill! Sai cosa sta per fare, vero? Vero?, gridò un’altra parte della mia testa.
– Oh, merda – sussurrai alzandomi a fatica e aprendo la bocca come un pesce per assicurarmi di non avere la mandibola fratturata. Sputai un grumo di sangue a terra, accanto allo stivale di un impaurito Samuel Adams, e arrancai dietro mio figlio fino alla piazza fuori dall’Indipendence Hall.
Eccolo lì. Stava sellando un cavallo con decisione e fretta, tutto pronto a partire. Samuel mi prese per un braccio. – Non fatelo, Haytham.
Sai cosa sta per fare, vero?, ripeté quella vocina. – Dove diavolo sta andando, Adams? – dissi stringendomi il viso. – Bunker Hill. Perché ha detto Bunker Hill?
Samuel prese un gran sospiro. – Lui ucciderà John Pitcairn.
 
Agii in un istante, spostando Samuel con una manata per liberarmi della sua fastidiosa presenza. – Non gli torcerai un solo capello, Connor! – strepitai con la mascella dolorante mentre il ragazzo montava in sella e dava di sprone. Se quel dannato bastardo di Adams non si fosse rialzato in piedi con inaudita agilità, trattenendomi per le braccia, gli sarei andato dietro per tirarlo giù e minacciarlo con una sacrosanta lama alla gola. – Non lo ammazzerai!
Tirò le redini e si voltò verso di me. A quell’ora del pomeriggio, la piazza era praticamente vuota. – Perché? – chiese serio. – Tu hai ucciso William Johnson. – Oh, cielo, di nuovo con quella storia. – La morte di Pitcairn ci sarà utile allo stesso modo.
Sentivo lacrime di rabbia pronte a sgorgarmi dagli occhi, la tentazione di colpire i cosiddetti di Adams con un calcio si faceva sempre più forte e viva dentro di me. – John potrebbe avere qualcosa di utile da dirci – sibilai tra i denti, sforzandomi di mantenere la calma. Era troppo stupido per capire che cosa intendessi realmente.
Potrebbe essere ancora dalla mia parte.
Connor scosse la testa. – È una minaccia per i patrioti – rispose con sicurezza. – Se ti fa sentire meglio mi assicurerò che dica tutto ciò che sa prima di porre fine alla sua vita.
Mi voltò le spalle, gli lanciai un grumo di sputo e catarro dietro con un ruggito esasperato. A quel punto mi sentii quasi totalmente libero di scrollare il braccio e mollare una gomitata al mento di Adams. – Dannato stronzo – grugnii pensando a Connor. Avrei potuto prendere in ostaggio Sam e ucciderlo se avesse fatto del male a John. Potevo prendere un cavallo e arrivare a Bunker Hill prima di lui per salvarlo. Sarei dovuto intervenire, sicuramente, ma c’era qualcosa dentro di me che mi bloccava.
Era la speranza. Pensavo che Connor non avrebbe mai ucciso un uomo solo per ripicca, solo perché io ne avevo ucciso un altro tempo prima. Pensavo che ci avrebbe riflettuto su, capendo che John Pitcairn ci era più utile da vivo.
Avrei rimpianto quel sentimento, ah, se l’avrei rimpianto. La speranza è da Assassini. Da sognatori. E in quel momento stavo ammettendo a me stesso di non averla mai persa definitivamente. Io continuavo a sperare che qualcosa cambiasse, ed era quello a rendere la mia testa come quella di un Assassino. Non riuscivo mai a rassegnarmi del tutto, ad arrendermi.
Per ciò che ne diceva il mio Ordine, era un atteggiamento sbagliato.
Per ciò che ne dicevo io, non aveva alcuna importanza. Era parte del mio carattere, e non potevo fare niente al riguardo. Aggrovigliare i miei pensieri girandoci attorno non serviva a nessuno, ed era inutile almeno quanto sperare, se non di più. Sapevo anche quello. Mio figlio avrebbe ucciso John, era innegabile, forse persino giusto. Giusto che tenesse più a quella causa che a rendere felice me salvando gli uomini che ai suoi occhi erano a tutti gli effetti gli assassini di sua madre – e, in fondo, non sbagliava.
Penserete che sono un po’ vigliacco, e non sarò io a dissuadervi. Non volevo correre dietro a Connor arrivando magari troppo tardi, giusto in tempo per vederlo calare su John con la lama celata nel suo collo. Non volevo vedere un altro dei miei uomini morto, non volevo che Giunone e Minerva mi facessero di nuovo uscire di testa permettendo che uccidessi anche John. 
E poi arrivai a pormi la fatidica domanda. Anche John era caduto nell’inghippo dei soldati, di arrivare a perdere il vero scopo della nostra guerra per lasciarsi risucchiare dalla sete di sangue patriota? Aveva perso interesse per la Mela e per il potere che ci avrebbe procurato la sconfitta dell’Esercito Continentale? Aveva tradito l’Ordine, in un certo qual modo?
Ardua impresa, trovare uomini disposti a combattere senza sete di potere. Il problema è che quando ce l’hai a portata di mano, il potere, è difficile non afferrarlo e inghiottirne fino a scoppiare. Bisogna essere disinteressati o mirare a qualcosa di più grande e lontano.
Ora. Non sono disinteressato. Solo che avevo un altro scopo, la mia vendetta. La priorità assoluta era la morte di Reginald, per me. Ogni conseguenza di quella guerra sarebbe venuta dopo. Dopo.
Avevo pensato a questo guardando mio figlio fuggire verso la frontiera. E senza rendermene conto avevo abbandonato Samuel e mi ero addentrato nella città, varcando la soglia di una buia taverna. Alla fine è un po’ una costante nella mia vita, l’alcool. Mi passai una mano sulla faccia dolorante, lanciando un sospiro, e affondai le labbra nel primo boccale di birra mezzo vuoto che riuscii a strappare a un ubriaco. Nemmeno del grog bevono, questi imbecilli. Pensai a quante ne avevamo passate, io e John Pitcairn. L’avevo salvato dalle grinfie di Edward Braddock assieme a Charles e, ad essere sincero, quell’incarico mi aveva fatto divertire come un bambino. Avevo quasi ucciso il vecchio Bulldog. Ce la spassavamo, all’epoca.
Perché?, mi ritrovai a chiedere dopo qualche sorso ai due spiriti nella mia testa. Perché non mi avete spronato a salvarlo ma avete lasciato che il ragazzo partisse?
– Nobili intenti. Puri di cuore. Questi sono i seguaci dell’Aquila. E il loro fine conta quanto il nostro, almeno. Senza il loro aiuto, tutto sarà perso.
Minerva emise un verso di scherno nei confronti della compagna. – C’è chi ha un valore maggiore e chi uno minore. Non tutte le pedine devono arrivare alla fine del gioco.
Sospirai. – Sapete, mi pento sempre di intraprendere una conversazione con voi due – grugnii continuando a bere. – ‘Fanculo.
Quello che successe dopo è una nebbia sfocata al sapore di birra. Qualche ricordo ce l’ho ancora. L’odore di una donna, la sua testa sul mio petto quando mi sono svegliato, le dita intorpidite nel tirarmi su i calzoni e una ferrea promessa stretta con me stesso: Il ragazzo pagherà per aver ucciso John. Mi sarei ripreso il mio… onore, se così lo possiamo chiamare, l’onore perduto comportandomi da vigliacco, e gliel’avrei fatta pagare.
Rubacchiai qui e là agli altri clienti della taverna per pagare i servigi di cui avevo usufruito nel tardo pomeriggio e nella notte del sedici giugno. Fino ad allora, però, non ci pensare.
Uscii, cercando con lo sguardo un cavallo. Dovevo organizzarmi. Non. Pensare.

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Capitolo 31
*** Breaking news. ***


– L’hai ucciso?
Restò via quasi tre giorni, ciononostante fu la prima cosa che dissi quando mise piede in casa. Non gli lasciai il tempo di sedersi, di salutare o guardarmi con il suo solito muso inespressivo. Fu la prima cosa che dissi, ma non la prima che feci: appena varcò la soglia della sala da pranzo gli scagliai contro un piatto orribile, che Achille usava come centrotavola.
Il pezzo di ceramica si spaccò contro il muro alle sue spalle mentre fremevo dalla rabbia, poi gli saltai addosso buttandolo a terra, la sua schiena scricchiolante contro i cocci. – L’hai ucciso? – A cavalcioni sopra di lui, sentivo gli occhi bruciare e l’ansia crescermi nel petto. Lui, invece, era incredibilmente calmo. Grosso errore. – Hai ucciso John Pitcairn? Rispondi!
– Calmati! – Cercò di sfilare le braccia da sotto le mie gambe, ma le tenevo strette al suo corpo, come quando avevo rischiato di essere impiccato davanti al tenente colonnello Edward Braddock. – Sì. L’ho ucciso.
Affondai direttamente il pugno sul suo zigomo, sentendo anche un paio di denti saltare nello scricchiolio d’ossa. – Be’, complimenti! – sibilai, gli occhi che continuavano a bruciare. – Quando la smetterai di agire ignorando ciò che dico, eh? Dovevi mantenerlo in vita!
Mi fulminò con lo sguardo. Come sua madre, era in grando, qualche volta, di zittirmi con la sola intensità di quegli occhi neri e duri. – Perché? Per permettere a te di ucciderlo, come Johnson?
Un altro pugno. Si rifiutava di capire, è l’essere con meno empatia che abbia mai conosciuto. No, Reginald era capace di empatia, ma faceva finta di niente. Avevo imparato da un maestro. – Idiota! – digrignai i denti. – Avresti dovuto sentire la sua versione dei fatti! Forse non aveva poi così torto! – Pensavo che in un certo senso l’avesse fatto, nello stile degli Assassini, ma come potevo esserne sicuro, eh? Come potevo sapere che non aveva fatto un buco nella fronte di John lasciando non dette le sue ultime parole?
– Hai detto… – Tossì, il sangue colava lungo il suo mento. – Hai detto di non essere dalla parte della Corona! Perché allora avresti voluto sentire le sue ragioni?
Sollevai appena il suo petto, travolto dall’ira. – Perché i patrioti sono degli imbecilli male armati e peggio organizzati, dei bambini che credono di fermare una guerra! E non fingere che non sia così! – Vedevo la follia del mio sguardo riflessa nel suo, ne ero ammaliato. – L’hanno reso ufficiale dopo la tua impresucola a Lexington e Concord. Guerra! Sangue! Paladini della Corona contro patrioti, coloni che ammazzano coloni! Immagino ti piaccia, no? Esattamente ciò che dice il vostro codice d’onore!
– Per questo l’ho fatto! – Sembrava quasi volersi giustificare, le pupille dilatate, appena distinguibili dall’iride. – Per dare una mano. Per una causa.
Risi amaramente. – Non basterà! Non sai sempre lì per loro, non potrai salvarli tutti! Quanti ne sono già morti, eh? – Il sangue continuava a scorrere verso il suo mento, rendendogli il volto simile ad una maschera di guerra. – Non fare l’eroe, ragazzo. Non funziona mai.
– I patrioti ce la faranno!
– Un uomo solo non cambierà la situazione! Credi che non ci abbia mai pensato nessuno?
Con mia estrema sorpresa, fu lui a sogghignare. – Eppure vuoi uccidere Washington.
Emisi un verso snervato. – Lui è un inetto!
– Ora la sua morte a che servirebbe? La guerra è cominciata! Ci sarebbe scompiglio senza nessuna soluzione.
– Ci penserebbe Lee!
Scosse la testa. – Nessun patriota sano di mente seguirebbe mai Charles Lee, Haytham! A che servirebbe ucciderlo, eh?
Scrollai il capo, amareggiato. – Charles non si lascerebbe sfuggire un incarico del genere per niente al mondo. Come puoi essere così ingenuo?
– Non sono ingenuo!
– Peggio, sei speranzoso! – Dannazione, lo ero anche io, certo, ma non quanto lui. Riuscivo a individuare il sottile confine tra la speranza e l’idiozia, al contrario di Connor.
– No! Credo nell’inutilità dei sotterfugi, nel potere delle azioni fatte apertamente.
– E che fine ha fatto l’agire nel buio?
Sussultò. – Regole di secoli fa. Le cose cambiano.
Con un gemito di stizza lo lasciai andare di nuovo sul pavimento, sollevandomi piano. Avevo le nocche sbucciate e sporche di sangue, le cosce indolenzite a forza di serrare la presa sui suoi fianchi. – Non avresti dovuto ucciderlo, Connor.
Il ragazzo si alzò con una mano sulla bocca. – E allora cosa avrei dovuto fare? – Pacato. Insopportabilmente pacato. – A quale scopo?
Sospirai. – Per seguire i miei consigli e darmi soddisfazione. Solo per una volta. Io non ti ho ucciso nonostante avessi infranto il nostro giuramento del non parlare con nessuno della Mela. – Scosse la testa. – Tu non hai mai fatto niente per me, Non sei mai riuscito a fidarti.
– Ti ho tenuto in vita, Haytham.
Roteai gli occhi. – O-oh, bella scusa, bella scusa davvero! Tu non hai il coraggio di farmi fuori, Connor! – Allargai le braccia in un gesto di pura sfida. – Forza. Sono qui. Tira fuori quella lama celata e affondamela nel collo.
Incrociò le braccia sul petto. – Non posso farlo. – Perché non ne hai il fegato, pensai, ma aspettai di sentire la sua nuova scusa da donnicciola. – Ci sei troppo dentro. Hai fatto troppo per aiutarmi, te lo devo riconoscere. Il dito, Johnson e Pitcairn morti, posso capire come ti senti, credo. – No. Non puoi. – Non getterò via così il tuo aiuto. Avevamo un patto, e ci tengo a rispettarlo, ma sappi che hai ragione, non mi fido di te. E non dirò che mi dispiace, perché non sarebbe la verità.     
– Maledizione! – imprecai agitando il pugno in aria a vuoto. – Washington ha bruciato il tuo villaggio! Prendi la tua rabbia, la tua furia vendicativa o qualunque cosa tu abbia in quel dannato petto e usala contro di lui! – Dio, stavo urlando, ma finché Minerva e Giunone se ne stavano nei loro angoletti senza intervenire con quei commenti snervanti, gli stessi che mi avevano fatto uccidere William Johnson, andava tutto bene. Più o meno. – Non contro di noi! Che ti abbiamo fatto?
– Io non sono arrabbiato con Washington. – Era completamente rilassato, calmo, nemmeno minimamente scosso, libero da preoccupazioni. – I vecchi rancori possono essere messi da parte per qualcosa di più grande, Haytham. Ecco la differenza tra noi due. – Mi guardò, e per la prima volta sentii chiaramente il peso del sentimento che riempiva quegli occhi su di me. Era compassione. Il ragazzo aveva pietà del proprio vecchio. Mi dava la nausea. Avevo una mano sul fegato e l’altra stretta sul bordo del tavolo, un’incredibile voglia di vomitare. Odioso.
– Sei disumano – sussurrai. – Avresti tutti i motivi per odiarlo. Eppure…
Respirò con calma, girò una sedia e vi si lasciò cadere. – Penso solo che non ne valga la pena. Tutto qui.
– Strane, le tue priorità.
– Non sono quelle di un egoista.
Sogghignai, la bile ormai pronta a risalire l’esofago e riempirmi le guance. – Mi accusi di essere egoista? Davvero, Connor? Strano. Pensavo avessi capito, dopo sei anni, che razza di persona altruista sono. – Con uno sbuffo, mi appoggiai ad un davanzale. – Un mondo in mano a tali imbecilli non sarà mai come credi. O come speri.
– Puoi dimostrarlo?
– C’è una guerra. Uomini che muoiono per la vostra tanto osannata libertà. In un altro momento li avreste chiamati martiri, magari eroi, in fondo però sai bene quanto me che sono solo corpi, Connor. Cadaveri. Uomini che potevano avere una vita lunga e felice, stroncata di netto andando a morire per qualcosa che non avranno mai. L’idea è quella di confezionare un futuro ai posteri, poveri illusi. Non avranno nulla nemmeno loro. Il mondo non è fatto come voi Assassini pensate. È così. Vi rifiutate di ammetterlo. – Presi fiato e incrociai le braccia, come se stringermi le costole potesse fermare i conati silenziosi che mi squassavano lo stomaco. – Non ti basta?
Connor mi guardò indeciso. Gli bastava, decisi. Eccome. – Mi piace pensare che il mondo possa cambiare. Che un po’ di sangue possa essere sparso, se è utile per uscire da una situazione del genere.
Gli risi in faccia. – Stranamente, ragazzo, la tua Confraternita predica la libertà ma accetta che vengano spese delle vite innocenti per ottenerla, è fondata su un Credo rigido come una stecca e impone certi doveri anche ai propri membri, ma siete sempre pronti a dichiarare che sono tutte utopie, metafore e cazzi vari quando vi fa comodo. – Agitai le dita attorno al moncherino in un gesto che ormai avevo reso mio. – Sangue, quindi. Credi che sia questa la soluzione? Guerra per il cambiamento. Ha mai portato a qualcosa?
– Sarebbe un passo avanti – grugnì fissandomi sotto quelle palpebre pesanti. – E dipende tutto da chi vincerà.
Ridacchiai. Sembrava stesse parlando di un duello di scherma con delle lame smussate, non di uomini impalati sulle baionette e padri di famiglia schiacciati dagli zoccoli dei cavalli. – Giusto – risposi con un sorrisetto, passandogli accanto e colpendolo con una spallata. Non sarei riuscito a trattenere la nausea ancora a lungo. – Chi vincerà? Quelli con i moschetti o quelli con le pentole camuffate da tamburi di guerra?
Sentii il suo sguardo concentrarsi sulla mia schiena finché, passando da un ghigno trionfante ad una smorfia di dolore, non salii le scale fino alla mia stanza, rintanandomi nel bagno con le mani pallide strette al bordo di un catino. Cercavo di mantenere un ritmo di respirazione regolare. Ero riuscito a zittirlo un’altra volta. Era solo un povero illuso.
Fui travolto dalla nausea che mi avevano provocato il suo punto di vista e la rivelazione della morte di un altro mio uomo, John. John, quello più pacifico, forse. Lui teneva all’ideale di potere dei Templari, credo. Non riesco a ricordare bene cosa pensai in quel momento, troppo intento a vomitare il possibile dentro quel secchio di ceramica.
Qualcosa però ce l’ho ancora in testa. Ricordo di aver mollato il catino sul pavimento e di essermi seduto a terra con le braccia intorno alle ginocchia, allo stremo delle forze. William era morto, John anche. Considerando che Charles era nella gabbia di Reginald, mi restavano solo Benjamin Church e Thomas Hickey.
Ecco, ricordo di aver fatto scattare la lama celata e di averla guardata splendere al posto dell’anulare. Di aver detto: – Non permetterò che muoiano entrambi. – Già. Era una promessa solenne, fatta a me stesso. Avrei potuto tagliarmi anche l’altro anulare, giusto per essere sicuro di mantenerla, ma non avevo un coltello a portata di mano.
La mia volontà contro il destino. Chissà chi avrebbe vinto.
 
Quella stessa sera stavo passeggiando nella tenuta. Passeggiando non è il termine corretto, marciavo davanti al porticato di casa Davenport come quand’ero soldato, colmo di rabbia e cercando un piano per impedire a Connor di ammazzare altri due dei miei uomini. Non avevo la mente abbastanza calma per pensarci. Nella mia mente rivedevo il momento esatto in cui avevo scagliato quel piatto contro mio figlio, e allo stesso momento immaginavo gli innumerevoli modi in cui John Pitcairn poteva essere morto.
Achille, invece, era seduto con noncuranza sotto la tettoia, la pipa in bocca e il ragazzo in piedi al suo fianco. – Quali sono state le sue ultime parole?
Parlavano di John. Non volevo sentire, a essere onesto. Avrebbero dato la conferma della sua morte, una conferma di cui non avevo bisogno. – Voleva fermare la guerra.
Ridacchiai. – E naturalmente è sempre stato uno dei principali motivi per uccidere qualcuno, giusto? – Achille abbassò lo sguardo e Connor finse di non avermi sentito. Lo facevano spesso, ultimamente.
– Qualcosa sui loro piani futuri?
Connor mi guardò in faccia, sospirando. – No.
La conversazione terminò bruscamente ed entrambi rientrarono nella tenuta, lasciandomi lì fuori da solo. I miei pensieri tornarono a John. Avrebbe avuto una fossa? Una tomba? Dove, a Bunker Hill? Oppure a New York, o addirittura a casa sua, in Scozia. Mi dispiaceva. Non ero nemmeno riuscito a parlare con lui, maledizione. Avrei voluto fermare Connor, l’avrei voluto con tutto me stesso. Invece no. Ero stato tanto ingenuo da fidarmi di lui, da sperare davvero che rinunciasse all’intento principale della sua Confraternita per me. Per un padre ingrato che non gli aveva mai dimostrato un briciolo d’affetto.
Ero un idiota, questa è la verità.
Rientrai nella villa e salii le scale verso la mia stanza maledicendo me stesso e il destino, infilandomi a letto il più in fretta possibile. E ora? Ora che cosa vuoi fare? Vuoi diventare un eroe e salvare Thomas e Benjamin dall’Assassino? Thomas sa cavarsela e non hai la minima idea di che fine abbia fatto Ben. Non hai un piano. Non hai fondamenta. Nulla su cui basarti.
Sbadigliai, sprimacciando il cuscino con un cazzotto. Zitto.
Poi provai a dormire, ignorando il senso di colpa e d’impotenza che sentivo crescere nel petto.
 
Ricordate il bel periodo che Connor passò in panciolle mentre io cercavo in lungo e in largo Reginald e Charles? Ecco, ora sembrava che i ruoli si fossero invertiti. Dopo la battaglia di Bunker Hill, mio figlio passò la maggior parte del suo tempo non tanto alla ricerca di Thomas e Benjamin, quanto facendo la guardia del corpo – per non dire lo zerbino – di George Washington. E l’ultima cosa che volevo era star loro alle costole, considerando che per poco il comandante non aveva ordinato di uccidermi al Congresso Continentale. Ne aveva tutte le ragioni, per questo decisi di non stuzzicarlo. Non più del necessario.
Connor non vide mai Charles. Probabilmente lui e Reginald si erano rintanati da qualche parte in città, in una taverna o in un’altra casa. Per quanto riguarda me, a malapena mi mossi di casa. Scrissi qualche lettera a Tic, che rispose più che altro ringraziandomi per i soldi che gli inviavo periodicamente, ma a New York la situazione era piuttosto calma.
O meglio, lo fu per qualche mese.
Eravamo già nel 1776 quando Connor tornò, più frustrato che mai, battendo i palmi aperti sul tavolo per tutte le sue spedizioni andate a vuoto mentre io me la ridevo sotto i baffi. – Non li troverò mai, Achille! – strepitò con la mascella serrata. – E se non fossero loro? Se stessimo cercando nel posto sbagliato? O peggio, le persone sbagliate?
Non mi curai troppo dei loro discorsi. Se non ero riuscito a trovarli io, Connor faceva bene ad essere frustrato. Da solo non sarebbe arrivato da nessuna parte, e finché avesse continuato a girare con Washington non l’avrei aiutato nemmeno sotto cospicuo pagamento. Nemmeno se mi avesse ridato il dito. – Sciocchezze, Connor! Chi altro vuoi che sia? Come procedono le indagini?
– Vicoli ciechi. Tutte. – Scrollò il capo. – Forse è solo una voce che gira.
Achille sogghignò. – Una gran bella voce, direi. – Mi indicò con un cenno della testa. – È già stato fatto una volta, potrebbe essere stato l’inizio di una reazione a catena.
Aggrottai la fronte sentendo un brivido correre lungo la schiena. – Di cosa accidenti state parlando?
Connor spostò di scatto lo sguardo dal Mentore a me, e fu salvato solo da un paio di violenti colpi contro la porta. – Vado ad aprire – grugnì a testa bassa, sfuggendo al mio sguardo. Lanciai un’occhiata interrogativa ad Achille, i palmi sollevati, e quello non rispose. – Achille! – strillò Connor dal corridoio. – C’è un certo Benjamin Tallmadge qui, lo conosci?
Il vecchio si alzò a fatica, puntellandosi sul bastone. – Fallo entrare, ragazzo. Forse abbiamo finalmente una buona notizia.
– Achille – sbottai afferrandolo per la manica della giacca. – Che succede?
Mi fulminò con lo sguardo. – Ora non abbiamo tempo. Ben è qui. Magari ne parliamo dopo, eh? – Lo lasciai andare. Dal suo tono pareva più che avesse detto: Magari se non apri bocca davanti al mio ospite ti lascio vivere, eh? Uh, sentivo già le ginocchia tremare.
Sospirai, grattandomi la testa con frustrazione. – Sappi che resterò qui, Achille – brontolai abbandonandomi su una sedia. – Chiunque sia l’uomo alla porta.
Il vecchio Mentore agitò una mano come se non gli importasse più. Sapeva che avrei fatto di testa mia in qualsiasi caso – Dio, se non l’aveva capito era proprio ottuso – quindi perché fermarmi? Perché affaticare il suo cuore malandato cercando di evitare qualcosa che sarebbe successo comunque?
Per irritarmi, certo, ma sono io quello infantile. Io perdo tempo con giochetti di questo genere, non quei santi. Stavo per appoggiare i piedi sul tavolo con nonchalance quando un uomo longilineo e dall’aria elegante, il portamento fiero di un soldato e l’aria stanca di chi lo era stato troppo – o non lo era da tempo – varcò la soglia della sala. – Benjamin Tallmadge, quanto tempo – brontolò Achille alzandosi faticosamente in piedi. – Connor, ho l’onore di presentarti Benjamin, maggiore dell’Esercito Continentale. Suo padre era uno di noi, sa già tutto. E credo abbia qualcosa da dirci, giusto, Ben?
L’uomo mantenne la propria compostezza passando gentilmente con lo sguardo sopra di me, come si fa con i soprammobili troppo vecchi, e infilando una mano nel panciotto. – Achille dice che ne sei già al corrente – disse Tallmadge serio. Di cosa?, si chiese una parte di me, sinceramente nemmeno con troppa insistenza. I piani degli Assassini potevano riguardare qualsiasi cosa, non necessariamente me. Non necessariamente avrebbero danneggiato il mio Ordine.
– Già, ma ho solo delle false piste e vicoli ciechi, per ora – replicò Connor. Mi parve quasi di sentire il suo sguardo addosso. A che cosa si stava riferendo quel dannato ragazzino? Come aveva detto Achille, prima che arrivasse Benjamin? È già stato fatto una volta.
Altri poderosi colpi risuonarono contro la porta. – Vado io – grugnii prima che qualcun altro avesse tempo d’intervenire. Avevo bisogno di alzarmi, di schiarirmi le idee. Sentivo la testa come foderata con l’ovatta, isolata dal resto del mondo che scorreva troppo velocemente perché potessi capirlo.
E non andava bene.
Spalancai la porta. – ‘Giorno. Posta per Haytham Kenway. – Un uomo di quelli che infestava la tenuta mi porse una busta che strappai dalle sue mani con violenza. – Non so, un ringraziamento? Il corriere ha detto che era urgente, ho fatto del mio meglio per…
Gli avevo già chiuso la porta in faccia e stracciato la busta per leggere. Solo una persona conosceva il mio vero indirizzo, l’unica persona da cui volevo davvero sapere qualcosa. Tic. – Merda – sibilai spiegando la lettera tra le dita.
Oh, Dio.
– Be’, ragazzo – continuò Tallmadge nell’altra stanza. – Le tue ricerche inutili sono finite. So chi è il tuo uomo.
Dio.
Piombai nella sala con la lettera stretta tra pollice ed indice, pronunciando quel nome in perfetta sincronia con il maggiore Tallmadge. – Thomas Hickey.
 
Che razza di coglione, Thomas, pensai non appena ebbi recuperato un po’ di razionalità. Benjamin si voltò di scatto verso di me, annuendo. – Esattamente, il vostro amico ha ragione. Thomas Hickey. Ha già un suo bel giro d’affari a New York, e sappiamo per chi lavora. Arrivato a questo punto…
– Perché non me l’avete detto? – tuonai colpendo una sedia con un calcio. Tallmadge si zittì. – Lo sapevate. Sapevate che Thomas aveva intenzione di uccidere George Washington e non me lo avete detto? – Guardai Connor, gli occhi due fessure colme di furia. – Avevamo detto che non ci sarebbero più stati segreti di questo genere. Non dopo William, almeno.
William. Sembrava passata una vita intera. Un altro piano di cui Connor non aveva voluto parlarmi, scoperto per caso, esattamente come questo. – Non sapevamo si trattasse di Hickey. Avevamo addirittura rinunciato a pensare che fossero Templari – disse Connor, mostrando un certo fegato. – Insomma, dopo il primo attentato qualunque altro fanatico della Corona avrebbe potuto organizzare una cosa di questo genere.
Sospirai. – Da chi lo hai saputo?
– Pitcairn, naturalmente – s’intromise Achille. – Un foglio zuppo di sangue, ma leggibile.
Tallmadge avvampò, visibilmente a disagio. – Insomma, sappiamo che v… che tutti i Templari vorrebbero Washington fuori dai piedi, ma avrebbero benissimo potuto rivolgersi a dei mercenari. Persone che non hanno paura di rischiare in cambio di soldi.
Sorrisi tristemente. Thomas poteva essere definito un mercenario? Forse all’inizio, ma posso mettere la mano sul fuoco dicendo che a Hickey brillavano gli occhi quando agiva in nome dell’Ordine. Il denaro non si rifiuta mai, per carità, ma se la causa è gradita qualsiasi somma è più che soddisfacente. E Thomas si stava divertendo. – Tallmadge – dissi senza spostare lo sguardo da mio figlio. – È stato un piacere. Arrivederci.
Connor roteò gli occhi. – Dove accidenti stai scappando questa volta, Haytham?
– Non importa – replicai ripiegando la lettera di Tic. – Ci vedremo, suppongo. – Uscii dalla casa mentre lui si batteva le mani sulle cosce, esasperato. Aveva bisogno di un alleato, di un uomo come Benjamin Tallmadge, di talpe della classe media che sentissero voci da contadini, i quali avevo captato la notizia in una taverna colma di canaglie.
Non me ne facevo nulla di quei tramiti. Avevo un cane da caccia che si muoveva in mezzo ai ratti senza destare sospetti, una spia tra i miserabili. Un filo diretto con i bassifondi di New York.
Non necessitavo di Tallmadge, né degli Assassini o di qualcun altro. Dovevo impedire a Thomas di condannarsi a morte da sé. Non potevo permettere che altri dei miei morissero. Mi serviva solo un cavallo veloce. Fortunatamente, qualcosa di cui gli Assassini erano muniti.
 
Tic era al porto, come d’accordo. Sedeva su una cassa con le mani in mano e un sorrisetto, sapendo che quell’incarico gli avrebbe permesso di mangiare un pollo come si deve invece del solito rancio. Sarò anche cattivo, ma ho contribuito a sfamare la famiglia di quel poveretto. – Signor Kenway.
– Come l’hai saputo? – Buongiorno anche a te, Tic. Sputa il rospo.
Saltò in piedi, pulendosi le mani impolverate sui calzoni. – Signore, è soltanto una voce. Il vostro amico ed io abbiamo parecchie conoscenze in comune, ed è stata una di queste a dirmi che aveva in programma di ammazzare… lo sapete. – Abbassò la voce e lo sguardo, inquieto. Potevo capirlo, rischiava decisamente più di me. Essere a conoscenza di un piano del genere e non dire niente ai patrioti… Non era ufficialmente un reato, dato che l’autorità era sempre quella britannica, ma un poveretto come Tic poteva benissimo essere trascinato in un vicolo buio e sgozzato come un maiale senza che se ne accorgesse nessuno. I rischi del mestiere.
– E sai dove trovare Thomas?
Sospirò. – Ora mi chiedete troppo, signore. Non ho idea di come agirà né quando, ma ha in mente qualcosa. Posso avere i miei soldi e andare a casa?
– Non ancora – grugnii con la mano sulla scarsella. Gli Assassini potevano arrivare da un momento all’altro, magari addirittura via nave, con l’Aquila. Non era sicuro per nessuno dei due restare lì a parlare, ma dovevo essere certo. – Quali sono state le parole esatte del tuo contatto, Tic?
Si strinse nelle spalle. – Ha detto qualcosa su come per lui sarebbe uno svantaggio se crollasse la Corona. – Avevo capito con che razza di gente aveva a che fare Tic. Strozzini, sicuramente. Poveraccio. Nemmeno i miei soldi gli bastavano per evitare quella gentaglia. – E poi ha aggiunto che “quel pazzo di Hickey non sa quello che fa, ma potrebbe essermi utile”. La situazione è già abbastanza precaria così, signore, senza Washington gli inglesi potrebbero imporre comodamente qui il loro dominio.
Non riuscii a trattenere un sorriso. Lee non poteva permettere all’Esercito Britannico di prendere il sopravvento, se mai Washington fosse morto. Se non lui, ad ogni modo, sarei stato io a impedirlo, giunti a quel punto. Senza John non avevamo nessun rappresentante dalla parte della Corona. Per quanto fosse devastante, il Continentale doveva andare avanti.
Non con George, naturalmente, ma non era il momento di pensarci. Ci sarebbe stato tempo. Altri modi. Ora mi bastava proteggere Thomas. – Bene. Quindi è qui da qualche parte, ma non si sa dove né cosa stia architettando di preciso.
– Non sono riuscito a fare di meglio, signor Kenway.
Sospirai. Non era il massimo, ma bastava. – Non importa, Tic, sei stato utile. Tieni i tuoi soldi. – Gli allungai cinquanta sterline e girai sui tacchi. – Devo andare a messa.
Peccato che fossi di spalle, non riuscii a godermi la sua espressione stupita mentre mi allontanavo a grandi falcate verso la Christ Church. 

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Capitolo 32
*** Thomas Hickey Inc. ***


Robert Newton era ancora lì, insieme alle sue fanatiche seguaci? O magari era stato promosso? Non mi importava davvero, ma l’idea di quel giovane sagrestano, con i suoi sogni di libertà, la paura di non essere all’altezza delle situazioni e quell’idolatrare spudoratamente Paul Revere mi faceva quasi tenerezza. Era un bravo ragazzo. E non mi avrebbe fermato, al contrario di Connor. Forse mi avrebbe aggiornato sui suoi progressi, o mi avrebbe detto che i Figli della Libertà erano in gran forma, ultimamente.
– Merda! – Un consiglio: non pensate mai a un dannato sagrestano mentre scalate la parete di una chiesa. Specie se vi manca un dito. – Merda! – ringhiai artigliando con l’indice sinistro il primo appiglio disponibile. Avere tre dita invece di quattro può essere decisamente fastidioso, specie quando ci si ritrova a quell’altezza. Non mi ero ancora abituato all’idea di non avere quel dito, di essere stato apertamente fottuto dai Mohawk. Una gran bella vendetta. Vendetta per cosa, poi? Nessuno di noi aveva rubato la loro terra – non dopo che io avevo ucciso William – e non avevamo nemmeno bruciato il villaggio. Lasciamo perdere. Troppo cocciuti, loro.
Ricominciai a scalare la Christ Church con un po’ d’affanno, ancora in preda al panico per la caduta sfiorata. Se mi fossi spezzato la schiena cadendo? Connor avrebbe avuto la possibilità di uccidere tutti loro. Benjamin, Charles, Thomas, Reginald, uno dopo l’altro, con quei gesti teatrali che permettevano tutto tranne una sparizione silenziosa. Sputai verso la terra inveendo mentalmente contro gli Assassini, quel branco di stupidi. – Non ricordavo fosse così faticoso – grugnii accasciandomi sul cornicione del tetto, una mano sul petto e il respiro affannato. L’intera città era ai miei piedi. Il mare alle spalle, l’isola che si spandeva sottile e pullulante vita, civilizzata ma caotica, in tutta la sua bellezza. Era un bel posto, sì. Anche da lassù spiccava il rosso delle divise britanniche e l’ordinata fila costiera di Fort George era visibile da quasi ogni zona della città. Non sia mai che dimenticassimo di essere in guerra.
Appena il mio respiro si calmò mi sistemai meglio sul cornicione, cercando di concentrarmi sull’andirivieni sotto i miei piedi ciondolanti nel vuoto. Strizzai gli occhi e battei le palpebre, come avevo fatto le altre volte. Non doveva essere tanto difficile. L’Occhio dell’Aquila era dentro di me, ma i due spiriti nella mia testa non sembravano volermi dare una mano, anzi. Recentemente Minerva e Giunone si erano chiuse in un insistente silenzio, come se a loro non interessasse riunire l’Ordine – perché, effettivamente, così era: non le interessava affatto –, bastava fare il minimo indispensabile perché rimanessi in vita. L’Ordine era un mio scopo, un mio interesse. D’altronde, se fossi morto a quel punto sarebbe stato decisamente uno spreco, da ogni punto di vista. Perdere un uomo affascinante come me. Non ce ne sono molti.
Scrollai il capo per liberarmi di quei pensieri stupidi e feci battere velocemente le palpebre, respirai piano, provando a concentrarmi di più sul popolo, su chi fossero veramente quelle persone, su cosa si nascondesse dentro di loro, sulla loro reale natura.
La mia vista mutò così d’improvviso che quasi caddi giù dalla torre campanaria, sobbalzando. L’intera città era diventata blu, come il mare di notte, ed era incredibile la quantità di rosso che illuminava qui e lì New York. Come pesci. Erano soldati, giubbe rosse e patrioti, i miei nemici – sì, avevo imparato a riconoscere quella luminescenza vermiglia come quella caratterizzante gli uomini che mi erano avversi – sparpagliati in modo più o meno omogeneo per l’intera isola. In corrispondenza dei forti il rosso era così intenso da fare male agli occhi.
E Thomas? Di che colore sarebbe stato il mio ex socio? E se in quegli anni, in quei dannati tre anni che mi separavano dal Tea Party, lui fosse cambiato? Se quel patto di sangue non fosse mai contato nulla, Dio, forse Thomas mi aveva sempre mentito. Magari Hickey era uno di quegli uomini rossi. Non sapevo come avrei reagito se avessi scoperto che mi voleva morto anche lui.
Gesù, non volevo accadesse. Non volevo un altro uomo contro di me, specie se appena tre anni prima mi aveva giurato fedeltà.
Ma è la fedeltà di Thomas Hickey, brontolò l’abnorme lato disilluso dentro di me. Quanto può valere?
Ah, zitto.
Di qualsiasi colore fosse Thomas, da lì non sarei riuscito a vedere un bel niente. Scrollai il capo e mi tirai faticosamente in piedi, battendo le palpebre per il contrasto tra l’Occhio dell’Aquila e la mia solita vista. Tutto sembrava così caotico, ora. Rumoroso e disordinato, proprio come non volevamo che fosse. Con un sospiro, lanciai un’occhiata sotto la chiesa. Sei un idiota, mi dissi reggendomi al tetto. Quanti anni pensavo di avere, venti? Lentamente, mollai la presa e feci un minuscolo passo avanti. Bastava avere un po’ di fiducia, no?
Allargai le braccia e presi fiato, pronto a saltare.
Poi il mio piede destro scivolò nel vuoto. – Cazzo! – ringhiai artigliando con tutte le mie forze il cornicione. Il vento mi aveva fatto perdere l’equilibrio, spingendomi giù dal tetto. Così impari. Stavo scalciando nel vuoto con i denti scoperti e il cuore che batteva all’impazzata, il fiato grosso, la mente in palla. Tirati su! Non sapevo cosa fare. Tirati su, maledetto imbecille! Le tre dita della sinistra stringevano la pietra impregnate di sudore, e restare aggrappati era sempre più difficile.
Non mollare!
Il cornicione scivolò sotto le mie dita e caddi, l’aria che fischiava attorno a me. Forse una palla di cannone si sentiva esattamente in quel modo. Chiusi gli occhi sentendo le braccia che mulinavano nel vuoto indipendentemente dalla mia volontà, le gambe che scalciavano, e nessuno attorno a me ci faceva caso. Una palla di cannone, solo una palla di cannone.
Quando atterrai, pensai di essermi spezzato la schiena, vivo solo per morire di una lenta agonia, i denti stretti e i palmi sanguinanti, le unghie affondate nella carne. Non sentivo niente. Mollai un colpo con il piede e spalancai la bocca nel banale tentativo di respirare.
Per poco non soffocai.
Con la tosse che mi squassava il petto, diedi una spinta con le gambe – sperando nel meglio – e tirai fuori il busto dal mucchio di fieno che aveva attutito la caduta. Ero in un carretto, abbandonato lì per ironia del fato. Incredibile. Non mi avrebbe ucciso una caduta di chissà quanti metri, ma un mucchio di paglia secca. Che ironia.
– Cristo – biascicai appena la tosse smise di tormentarmi. – Cristo. – Mi accasciai di nuovo nel carretto, i gomiti poggiati alle pareti laterali.
Non era possibile. Non potevo essere vivo, non dopo una caduta del genere.
Eppure lo ero. E muovevo le mani, i piedi, respiravo agevolmente, la schiena mi doleva appena. – Grazie a Dio – grugnii passandomi una mano sulla fronte e lanciando un’occhiata di sottecchi alla chiesa.
– Prego – replicò Giunone da dietro la mia fronte. – Non c’è di che. – Sembrava scocciata, e posso capirla. Delle due, lei era quella che mi detestava di più e confidava meno in me. Ciononostante, mi voleva vivo. Entrambe mi stavano tenendo in vita per qualcosa di cui al momento non mi preoccupavo.
I miei soci, gli altri Templari, Thomas Hickey in particolare. Ecco di cosa mi preoccupavo.
Scivolai fuori dal carretto di fieno cercando di darmi un’aria composta. – Porco demonio! – Mi voltai con una certa sorpresa, continuando a spolverarmi la redingote con nonchalance. Alle mie spalle c’era un ragazzino macilento sui dodici anni, i capelli neri che parevano tagliati con un coltellaccio e la faccia sporca. – Come avete fatto?
Sollevai l’angolo della bocca in un mezzo sorriso. – Talento, giovane.
Quello roteò gli occhi. – Mi prendete in giro?
Gli risposi dopo aver eliminato l’ultimo pezzo di fieno dalla redingote. – Forse. – E gli lanciai una moneta in un gesto teatrale, continuando a sorridere. Stavo per dirgli di andarsi a comprare una pagnotta quando mi venne in mente che doveva essere senza dubbio cresciuto in strada. Glielo si leggeva in faccia. Lo afferrai per la collottola mentre mi voltava le spalle, pronto a sparire tra i vicoli per spendere la sua sterlina nella contemplazione del decolleté di qualche prostituta. – Ancora una cosa, ragazzo – sibilai spingendolo contro il muro della chiesa. – Hai mai sentito parlare di Thomas Hickey?
Il suo sguardo si fece incredibilmente duro. Strinse i pugni e fece scrocchiare il collo, come chi è pronto per una rissa nuova di zecca. – Perché lo cercate? Siete forse uno di quei cani che deve sempre infilare il naso negli affari altrui? Il signor Hickey è un uomo onesto! – Pareva che qualcuno gli avesse infilato quelle frasi nella testa a forza di ripeterle. Quindi eccoli qui, i dipendenti di Thomas nei suoi giri d’affari. Non aveva imparato a non fidarsi del primo ragazzino che incontrava per strada, a quanto sembrava.
Ridacchiai, inchiodandolo alla parete con il ginocchio. – Cos’è, ti ha pagato un giro a puttane e ora credi sia Cristo sceso in terra? – Forse era crudele, da parte mia, ma non m’interessava. Sapevo che Thomas era pur sempre Thomas, e bastava una notevole quantità di birra a mandarlo su di giri. Era un tipo perspicace, comunque, attento ai bisogni degli uomini. E per bisogni sapete cosa intendo, dato che è sempre di lui che sto parlando. – Sono un suo vecchio amico. E non ti sto prendendo in giro. – Gli sventolai la mano destra davanti alla faccia, l’anello dei Templari in bella vista. – Lo porta ancora, vero?
Quello irrigidì la mascella. – E chi mi dice che non siate un impostore che vuole uccidere il signor Hickey?
Sollevai gli occhi al cielo. Che palle. – Se non ti fidi di me, portami da lui. Credi che correrei il rischio di raggiungerlo personalmente se pensassi che potesse attaccarmi? Non sono ancora un idiota. – Per dimostrargli che non avevo così cattive intenzioni, lo liberai dalla spinta del mio ginocchio e lo afferrai per la casacca.
– D’accordo – fece il ragazzetto cercando di scostarsi. – Però dovete mollare le armi.
Non scoppiai a ridergli in faccia solo perché la sua espressione era decisamente seria. – Mi prendi in giro? – replicai facendogli il verso. Non colse l’ironia.
– No. Voi mi date le armi e io vi porto dal signor Hickey. Questi sono i patti. – Scrollò le spalle con strafottenza.
Stronzetto. – Senti un po’, se davvero vuoi le mie armi posso infilartele nel corpo una per una e sfilartele solo quando sarai un pezzo di carne senza vita. Sempre che tu le voglia davvero, sai, bisogna dimostrare di tenerci. – Strinsi la destra sull’impugnatura della pistola che avevo al fianco e vidi il ragazzo impallidire. – Portami da Thomas.
Mi squadrò sforzandosi di recuperare quel poco di coraggio che gli era rimasto in corpo. – Bene! Ammazzatemi! – ringhiò con gli occhi lucidi. – Tanto nemmeno io so dov’è! Non posso aiutarvi!
Sbuffai. – Non fare il bastardo, ragazzo. Se vuoi rendermi il compito difficile puoi farlo, ma sappi che ne va della tua vita, non della mia. Dimmi solo in che zona bazzica e ti lascerò andare. E se non lo trovo, caro il mio ricattatore da due soldi, ti verrò a cercare, dovessi frugare in tutto il Nuovo Mondo, ti mozzerò un dito e te lo chiederò di nuovo. A quel punto ti trascinerei con me in modo da potertene tagliare un altro in caso avessi mentito, e così via. Capito il concetto? – Lo guardai dritto in quegli occhi dello stesso colore del carbone. Lo sguardo del ragazzetto s’abbassò di scatto, incrociando la spada corta che dondolava al mio fianco. Potevo scommettere che di lì a poco se la sarebbe fatta addosso. – Oh, hai visto la spada. Bravo. Esattamente come hai visto tutte le altre armi. E se credi che non sappia usarla, ti farò cambiare idea molto presto.
Ecco. Guardate come mi ero ridotto. Minacciare un ragazzino per trovare il bersaglio. Questo è ciò che succede a rimanere soli. Quanto mi sarebbe piaciuto avere ancora degli uomini sotto di me – gente affidabile – da mandare alla ricerca di Thomas, ma la situazione era quella che era. Dovevo arrangiarmi. – In centro – sibilò il ragazzino con la voce piccola. – Dalle parti del mercato. Di solito ci riuniamo in quella zona. E ora mollami. – Lo tenni stretto ancora un po’ mentre assimilavo l’informazione. Non troppo lontano, dunque. Bene. – E mollami, Cristo!
Gli mollai solo una spintarella che lo mandò a sbattere di faccia contro la parete della chiesa. Mi lanciò un’occhiata di disapprovazione e timore a cui risposi scrollando le spalle con un mezzo sorriso. – Ci vediamo. Manderò i tuoi saluti a Thomas.
Quello si massaggiò la guancia con un sogghigno. Aveva recuperato il proprio antico fegato. – Fottiti – borbottò.
Replicai mostrandogli il terzo dito della mano sinistra mentre mi allontanavo. Almeno non mi avevano mozzato anche quello.
 
Il mercato di New York? In fondo era simile al mercato di qualsiasi altra città, diciamocelo. Alimentari, libri, il raccolto di quell’anno, oggetti vari, ladri che rubacchiavano di qua e di là mandandosi strizzatine d’occhio e armeggiando abilmente con coltelli e lacci. Il solito tran-tran. Io, però, non avevo intenzione di comprare un nuovo orologio da taschino o un sacco di farina.
Mi lasciai cadere sulla prima panchina libera, cercando di pensare a dove avrei potuto trovare Thomas. Mi bastava prenderlo da parte e dirgli che stava per fare la cosa più stupida che un essere umano avesse mai architettato, specie in quel momento. Il problema alla base era che Thomas non si trovava. – Merda – grugnii passandomi le mani in faccia.
Poi la fortuna cominciò a girare. – Allora tu mi vuoi fregare! Non sono ancora un idiota, sai? Guardie! Guardie! Dove diavolo sono quei moschetti che camminano quando ti servono?
Un mercante si stava sbracciando come un pazzo dalla propria bancarella, cercando di attirare l’attenzione dei soldati. A pochi passi dalla mia panchina c’erano due uomini dell’Esercito Continentale, uno che si appoggiava con noncuranza al moschetto, l’altro intento a pisciare contro la parete di una casa. – E questo che vuole? – grugnì il secondo rimettendosi l’uccello nei calzoni. Poveraccio, interrompere un’attività così costruttiva per le lamentele del popolo. Non lo biasimavo. – Non si può nemmeno fare una pisciata in santa pace…
Si avvicinarono alla bancarella con passo annoiato. – Ah, alla buon’ora! – sbottò il mercante agitando le braccia. – Se n’è andato! Era uno di quei falsari bastardi. – Lanciò un’imprecazione sputacchiando come una fontana.
Il patriota che non aveva pisciato assunse di nuovo la propria posa noncurante, poggiando il calcio del fucile a terra e caricandovici il peso manco fosse un bastone da passeggio. – Un altro uomo di Hickey?
– Proprio uno di quelli! – proseguì il mercante con trasporto. – Che Dio vi abbia in gloria per tutto ciò che fate, davvero ­– non riuscii a capire se si trattasse o meno di sarcasmo, – ma non riuscite proprio a prendere quel figlio di brava donna? I suoi mi stanno mandando alla rovina! Metà dei miei ricavi è fatta con quella cartaccia colorata, e io ho una famiglia da sfamare! Che dirà mia moglie, eh?
L’altro soldato si grattò vistosamente prima di rispondere scrollando le spalle. – Non è certo colpa nostra se sei troppo idiota per tirare fuori le palle e chiuderle la bocca! – disse facendo la voce grossa. Forse non volevano catturare Thomas perché sentivano di assomigliargli, in un certo senso. Quell’uomo avrebbe venduto sua madre per del denaro da spendere, ma nessuno poteva fargli cambiare idea riguardo i suoi principi. Era un dannato mulo, Thomas Hickey. Almeno sta dalla mia parte, mi ripetevo a forza. Almeno sta dalla mia parte.
Il mercante sbuffò. – Non è questo il punto! È andato di là – sbottò indicando verso nord, – perché non lo seguite? È il vostro lavoro, mi pare.
Per la sua insolenza si beccò un calcio di moschetto nel ventre e qualche pagnotta portata via dalla bancarella. Nessuno può permettersi di dire all’Esercito Continentale, supremo difensore della patria e assiduamente interessato alle rogne dei meno abbienti, che non sa fare il proprio lavoro. Giammai.
Decisi, per una volta, di fare la parte dell’Assassino e d’interessarmi io ai guai di quel pover’uomo. Sperando che avesse ragione e non fosse solo un povero vecchio pazzo, superai i soldati a passo di marcia e puntai dritto verso la direzione indicata dal mercante, constatando che la caduta dal tetto della Christ Church e l’età non mi avevano ancora reso incapace di correre abbastanza in fretta.
A fregarmi c’era il fatto di non aver visto in faccia l’uomo di Thomas. Poteva essere uno qualsiasi di quei loschi tizi che si affaccendavano per il mercato con aria sospetta, io non l’avrei riconosciuto. Probabilmente nemmeno l’Occhio dell’Aquila poteva aiutarmi in una situazione simile, dato che non sapevo letteralmente chi cercare. – Dannazione – brontolai tra me fermandomi ad un angolo con le mani sulle ginocchia.
Quindi Thomas gestiva un giro di falsari, eh? Non ci avevo ancora pensato. Falsari. Soldi facili, certo, ma bisognava anche essere abbastanza furbi da saperli fare, i soldi. E metterli nel posto giusto. Se avessi gestito io quel traffico mi sarei assicurato di usare e far circolare il falso denaro in luoghi che frequentavo poco. Sganciare, salire sul primo cavallo, andarsene e non tornare in quella città per un bel po’. Almeno due mesi.
Probabilmente Thomas si trovava troppo bene a New York per mollare la presa. Magari le puttane di qui sono migliori di quelle bostoniane. E che ne so io? Sospirai, passandomi una mano sulla fronte. Dovevo impegnarmi di più, perché sapevo perfettamente che se Connor l’avesse trovato prima di me gli avrebbe tagliato la gola. Ripresi a camminare, infilandomi in ogni microscopico vicolo della città, passando accanto a cenciosi mendicanti e a qualche iracondo pescivendolo, zigzagando tra gli acquirenti del mercato e accettando placidamente i fiumi d’imprecazioni che mi investivano quando urtavo qualcuno. Non avevo tempo per seminare zizzania, non avevo tempo per cazzeggiare in quella maniera.
Verso mezzodì escogitai un nuovo modo per catturare Thomas.
Mi piazzai su una panchina della Broadway, comportandomi come chi non ha niente di meglio di fare, situata proprio di fronte alla più famosa taverna della città. Avrebbe sentito il richiamo dell’alcool presto o tardi, ed eravamo vicini all’ora di pranzo. Il momento in cui la sete di birra comincia a prendere il sopravvento.
Un vecchio scozzese aveva cominciato a parlarmi della vita che conduceva dall’altra parte dell’Oceano – e, devo essere sincero, trovavo piuttosto offensivo che quell’uomo non si rivolgesse a me chiamandomi giovanotto, ma immagino di doverci fare l’abitudine, no? Stavo dicendo che questo scozzese aveva deciso di sfruttare la mia compagnia quando vidi Thomas uscire di soppiatto da un vicolo, la borsa ciondolante al fianco e un fascio di banconote in mano. Scattai in piedi brontolando un saluto e qualche commento su come le Colonie non avrebbero mai potuto competere con la vecchia isola, poi scattai all’inseguimento di Thomas, artigliandolo per la giacca senza tante cerimonie e trascinandolo nel vicolo da cui era uscito. – Ehi! Chi cazzo credi di essere? – aveva sbottato provando a girarsi.
– Quello che t’impedirà di fare la più grossa idiozia della tua vita – replicai spingendolo al muro in modo più delicato rispetto a quanto avevo fatto con il suo dipendente.
Si voltò verso di me e sulla sua faccia apparve un’espressione stupita. – Haytham? – Era sempre il solito, almeno all’apparenza. Il tricorno calato in testa, lo sguardo sveglio e le mani veloci, ma le sue labbra, solitamente piegate in un sorrisetto sghembo – Dio, l’idea che avesse quella stessa espressione mentre stuprava Tiio mi ripugnava, ma dovevo reprimerla, dovevo – erano aperte in una forma vagamente circolare.
Sospirai. – Ti può sapere che diavolo ti salti in testa, Hickey? – chiesi cercando di non pensare a come poteva essere andata tra lui e Tiio. L’ultima volta che l’avevo visto ero troppo preoccupato per Charles, troppo preso per pensare a quella faccenda che, nonostante tutto, non aveva mai smesso di tormentarmi. Certo che Reginald sapeva come mettermi ogni singolo uomo contro, ma non poteva sapere quanto potessi cambiare pur di toglierlo di mezzo, toglierlo dal trono che, almeno ufficialmente, spettava a me.
Non potevo liberarmi di Thomas “solo” per via di quella faccenda. Avevo bisogno di un appoggio, un bastone della vecchiaia forgiato in legno templare. No, questo non significa che io sia vecchio. Levatevelo dalla testa. – Per l’amor di Dio, Thomas, dimmi che sei ubriaco.
Il mio socio si massaggiò la spalla, guardandomi come se fossi appena piombato giù dal cielo con le ali di piume e un’aureola intorno alla testa. – Di che stai parlando?
Fa anche finta di nulla, complimenti. – Della tua giacca nuova – risposi roteando gli occhi. – Secondo te? Di Washington e della tua intenzione di ucciderlo.
Si passò la mano sulla fronte e il solito ghigno poco raccomandabile prese il posto di quell’aria basita che aveva assunto fino a un attimo prima. Sapeva esattamente di che stavo parlando. – E che cosa c’è di male? Credevo fossimo d’accordo, almeno su questo. – I suoi occhi stavano scavando nei miei per mettermi a disagio, una cosa che Thomas sapeva fare molto bene. Oserei dire che, quando i Templari erano ancora sotto la mia guida, era il nostro intimidatore ufficiale. Fedele all’Ordine eccetera, ma quando si trattava di grandi guadagni, sangue e simili, Hickey non era solito tirarsi indietro. Si scavò in tasca e ne tirò fuori un foglio piegato. – Mi è parso di capire che qualcuno ci ha già provato, e nemmeno troppo tempo fa.
Non ebbi nemmeno bisogno di vedere quel dannato pezzo di carta. La marca visibile in controluce parlava da sé. Era uno dei miei manifesti, consunto e usurato per il tempo, risalente al mio attentato alla vita di Washington. – L’ho scoperto da questi, Haytham. Da questi cazzo di fogli. Perché non me l’hai detto? Avremmo potuto farlo insieme, maledizione!
Oh, Cristo, un altro che chiedeva spiegazioni. E io dovevo fornirgliene, purtroppo. Spiegazioni serie, perché Thomas Hickey non era stupido e non si sarebbe accontentato di un “sai, il mio comportamento non è sempre razionale”. – È stata una decisione improvvisa e avventata – sibilai avvicinando il viso al suo, – perché ad attendermi al valico c’erano Charles e Reginald. Sono stato catturato. – Inclinai il capo di lato, come per sminuire l’accaduto. – Quasi ucciso, direi. E tutto perché volevo Washington morto. – Sbuffai, guardandolo negli occhi scuri carichi di disprezzo. – Non devo giustificarmi con te, Thomas. Inoltre credo tu sappia che John Pitcairn è stato ucciso.
Si lasciò andare ad un sospiro triste. – Prima William, ora lui. I bastardi ci stanno decimando.
Dovetti sforzarmi per non abbassare lo sguardo. Cazzo, lui non sapeva che ero stato io ad uccidere effettivamente William. Non lo sapeva nessuno dei miei. E in fondo, be’, a chi fregava? Nessuno si cura dei morti. Che l’avessero ucciso gli Assassini o meno, William Johnson era bello che trapassato. Forse avrei dovuto… ma no. – Appunto. E conoscono il tuo grande piano. – Mi passai una mano sulla fronte. – Thomas, ricordi quando abbiamo parlato l’ultima volta? Ti avevo detto che ho bisogno di avere qualcuno di voi dalla mia parte, non è vero? – Il suo sguardo si fece perplesso. – Ne sono morti due. Non posso permettermi altre perdite, e tu in questo momento mi sei più utile di Ben, dato che non ho idea di dove sia né di cosa stia facendo. Vuoi uccidere Washington? Bene. Ma non adesso. – Lo stavo guardando dritto negli occhi cercando di sciogliere la sua fierezza, di fargli capire che avevo ragione. – Non con gli Assassini alle costole. Una squadriglia tiene d’occhio il generale notte e giorno, e tra loro c’è anche mio figlio. – Thomas, per quanto non avesse visto recentemente Connor, sapeva della sua esistenza. Era con Charles, il giorno dell’incendio. Avevano portato via Tiio, tenendola prigioniera fino al mio arrivo, in modo che Reginald potesse avere la propria vendetta servita su un piatto d’argento. – Birch s’è dato alla macchia, sicuro, ma non mi attira l’idea che tu possa essere ammazzato da un Assassino solo perché non hai riflettuto su questa cosa.
Aggrottò la fronte. – Mi credi tanto stupido?
Dipende dai casi, ma solitamente no. – Credo solo che persino un piano apparentemente perfetto abbia degli intoppi di qualche tipo. – Sospirai. – Gli imprevisti solo ovunque, Thomas. Io abbasserei un po’ la cresta e ci penserei, fossi in te.
Incrociò le braccia, scrollando vigorosamente il capo in una risatina. – E perché non mi aiuti tu, a far fuori Washington? Insomma, sei così esperto in tutto ciò che riguarda questo genere di cose, quindi aiutami. O te la fai sotto all’idea di rischiare, eh, capo?
Dio, un po’ egocentrico, il nostro Tommy. Gli mostrai un sorriso sghembo. – Non ho mai detto che non ti avrei aiutato a farlo fuori. Solo che non è il momento giusto, dato che abbiamo un problema decisamente più incombente.
– Gli Assassini – ringhiò con gli occhi vitrei.
– Complimenti, vedi che non sei poi tanto stupido?
– Gli Assassini!
Sguainò la spada e sentii la terra tremare. Ebbi appena il tempo di darmi mentalmente dell’idiota, poi chiusi gli occhi, aspettando che i pugnali da lancio m’affondassero nella schiena mettendo fine alla mia vita. 

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Capitolo 33
*** La cattura. ***


A Melina.
Consideralo un regalo di compleanno
con due giorni di ritardo, d'accordo?

 

Dio benedica l’addestramento di mio padre – e di Reginald, purtroppo – e i riflessi da combattimento. Dopo che un uomo lo fa per così tanto tempo diventa facile, spontaneo, un gioco tra te e l’altra lama, una scommessa. Accettare la morte non è esattamente come accettare una sconfitta, ma il concetto è più o meno lo stesso.
Riuscii a smuovermi solo quando il pensiero di poter essere ucciso dagli Assassini raggiunse consapevolmente il mio cervello. Quegli ingrati, inetti e piccoli bastardi che indossavano giubbe ridicole predicando il caos. No, non mi andava di morire in quel modo, e fossero stati appena più esperti avrebbero approfittato di quel mio primo momento di distrazione per impalarmi su una lama.
Invece no.
Il braccio destro quasi si mosse da sé, sfoderando la spada e descrivendo un arco argenteo mentre mi voltavo e spingevo via il primo assassino con tutte le mie forze e un calcio al plesso solare, la spada abbastanza vicina al mio corpo da non tagliargli la gola. Erano riusciti a localizzarci per bene, i bastardi, ed erano più di quanto ricordassi. Sette, forse otto, e nessuno tra questi aveva una faccia conosciuta. Ai vecchi tempi li avevamo sterminati, uno per uno, calando la scure come sui condannati a morte. Poi ognuno aveva preso la sua strada e abbiamo sottovalutato il problema. Se alla mia impiccagione erano già una decina, in quell’anno, con Connor che andava avanti e indietro per mezze Colonie a reclutare qualsiasi ubriacone biascicasse di stare dalla parte di Washington ed essere stanco delle tasse – e dava a Thomas del mercenario, l’ipocrita – non mi sarei dovuto stupire troppo del loro numero. Erano comunque reclute. Illusi.
Oh, e c’era anche Connor. Vuoi che non ci fosse? Si era appollaiato sul tetto della casa di fronte, all’angolo con Dyes Street, il vigliacco. Osservava la battaglia dall’alto, senza muovere un muscolo o mostrare una qualche emozione.
Non potei concentrarmi troppo a lungo su di lui perché un uomo malfermo con il fiato che sapeva di alcool mi venne addosso brandendo un machete. Gli affondai un cazzotto nello stomaco e volteggiai, facendolo indietreggiare a suon di stoccate per spingerlo a terra con uno sgambetto. Stavo ridendo, mi resi conto. Se Connor pensava di fermarmi – meglio, di uccidermi – con sbronzi e femminucce, be’, sbagliava di grosso. Un altro Assassino, una specie di armadio, mi si lanciò contro mulinando uno spadone a due mani. In un vicolo. Geniale. Parai i suoi colpi fino a entrargli nella guardia, chinarmi girando sotto le sue braccia e dare un colpo con il piede dietro le sue ginocchia. Cadde a terra impalandosi sullo spadone come un idiota.
Dove li aveva reclutati, al mercato del pesce?
Un altro grugnì alle mie spalle, sollevando chissà quale micidiale arma. Troppo lentamente. Mi voltai, intercettando il filo della sua scure – era davvero una scure, un’ascia da taglialegna – con la spada corta. Mi stava spingendo con la schiena a terra, gli occhi iniettati di sangue incastonati nel viso scuro. – Cristo! – sbottai lasciando che la scure mi spingesse verso il basso, tutto il peso dell’Assassino scaricato sulla lama, sulle mie braccia. Scivolai tra le sue gambe trascinandomi dietro la lama e aprendogli uno squarcio nel ventre, innaffiato dal sangue.
A dire la verità non avevo intenzione di ucciderli. E Thomas se la stava cavando piuttosto bene, una spada in ciascuna mano e lo sguardo scattante come al solito. Il vicolo si stava riempiendo di sangue.
Qualcuno mi strattonò il braccio, approfittando della mia distrazione, e mi fecero volare via la spada. Non un’altra volta, andiamo! In qualche attimo un Assassino mi buttò a terra, messo a cavalcioni sopra di me e sollevando la daga per trafiggermi la gola.
Era finita. Lo sapevo. La mia morte era vicina, stavolta sul serio. Quest’Assassino era più bravo degli altri, mi aveva fregato. Mi parve quasi di vedere un angelo volare sopra di noi.
No. Constatai irrigidendo la mascella che non si trattava di un angelo, proprio no.
Era mio figlio, intento a spiccare un salto per raggiungere Thomas che, alle mie spalle, aveva sistemato l’ultimo Assassino con un rumore familiare per le mie orecchie, quello di denti fracassati dal metallo. Stava andando a prendere uno dei miei uomini. Per fermarlo. Per ucciderlo.
Ah, no. Non l’avrei permesso.
Mentre la daga si abbassava su di me feci scattare il braccio sinistro, la lama celata scivolò fuori dalla polsiera e spinsi violentemente indietro la guardia dell’arma. L’Assassino sopra di me tentennò, mandato a gambe all’aria dalla forza del colpo. Mi sfilai da sotto la sua presa più in fretta che potei, raccolsi la spada e mi voltai ad inseguire Thomas e Connor, sperando di non arrivare tardi.
Corsi come solo un pazzo può correre, infilandomi nella Broadway e seguendo le scie di devastazione e insulti che quei due si erano lasciati dietro, riflesse su di me. Vidi una donna lanciarsi quasi sul denaro – magari falso – gettato a terra da Thomas per intralciare Connor, che però aveva risolto il problema saltellando su una bancarella e riprendendo la corsa senza intoppi. Quindi finirono per rallentare me.
Spinsi via un uomo e mollai diverse gomitate, ricominciando a correre dietro Connor, giù per la strada. – Eccolo! – strillò un mercante quando i due gli passarono davanti come frecce. – È Hickey, prendetelo! – Lo stesso mercante che poco prima aveva denunciato ai patrioti di essere stato apertamente fregato da un uomo di Thomas, notai. E per quanto riguarda i soldati, be’, questa volta non poterono fare a meno di alzarsi dalla panchina su cui erano accasciati, caricarsi i moschetti in spalla e inseguirli a loro volta.
La situazione si stava facendo complicata. Cercavo di far lavorare il cervello e le gambe allo stesso tempo, ma sapevo che se i patrioti avessero raggiunto Thomas mentre era ancora in vita avrei dovuto farli secchi. Altrimenti, se Connor aveva già sgozzato Hickey sarebbe stato arrestato per omicidio, e io avrei lasciato fare alla giustizia, almeno per un primo periodo. Se lo meritava. Un mesetto di gattabuia, facciamo due, poi l’avrei liberato. Avere bisogno di qualcuno è frustrante.
Portai la mano all’elsa della spada senza smettere di correre, svoltando in Queen Street. I due patrioti si erano fermati pochi metri più avanti, avevano cominciato a camminare agitando le mani e gridando. Non potevo fermarmi. Mi sarebbe bastato arrivare dietro di loro e spingerli entrambi a terra. Uno aveva il moschetto in mano, magari si sarebbe trapassato con la baionetta come quell’Assassino nel vicolo. Mi serviva solo un po’ di fortuna.
Fortuna. Ecco a cosa pensavo quando inciampai.
Avevo infilato il piede in una cassetta poggiata a lato della strada, probabilmente piena di scarti animali di qualche tipo, scivolando. Caddi a terra bocconi, trascinandomi dietro il viscido suono della suola sulla carne, il rumore del sangue schizzato sull’asfalto. – Merda! – imprecai a mezza voce.
Le voci dei patrioti arrivarono alle mie orecchie mentre mi pulivo le mani sporche di terra e sangue sulla parete di un’abitazione, facendomi capire che non avevo fatto abbastanza. – Siete entrambi in arresto! – Troppo tardi.
Strinsi i pugni. Che il diavolo mi porti. – Ehi, calmi! – Questo era Thomas. Non avevo nemmeno il coraggio di guardare in quella direzione. Lanciai un’occhiata più avanti: le guardie avevano i moschetti sollevati, in allerta. Non potevo ammazzarli, avrei detto addio all’effetto sorpresa. Mi sarei dovuto alzare, liberarmi della cassetta in cui il mio piede si era incastrato e sguainare la spada.
Magari fosse stato così facile. Se avessi dato un tale diversivo a Thomas e Connor, quei due avrebbero ricominciato ad inseguirsi come animali da cortile. Li avrei persi di nuovo. Ormai l’attenzione dei soldati l’avevano attirata. Peggio per loro. Maledizione. – Non c’è niente di male in due uomini che si confrontano alla vecchia maniera! Non potremmo…
Thomas gemette. – Cuciti la bocca, stronzo! – probabilmente lo stavano legando per portarlo in prigione. Non lo biasimavo.
– Con quali accuse? – disse invece Connor, sorprendentemente pacato, manco lo arrestassero un giorno sì e l’altro pure.
– Contraffazione. E mani dietro la schiena – gli intimò il secondo soldato.
– Io non c’entro nulla.
– Ah, no, certo che no! Dicono tutti così. Pensi che la gente di qui sia così idiota da lasciarsi abbindolare così? Da uno schifoso selvaggio come te, poi! – Ah, i patrioti, i leggendari difensori della libertà.
– Ci sono cose più importanti, al momento. – Però, mio figlio e la sua logica di ferro mi stupiscono sempre. Charles Lee era un mostro per avergli gentilmente intimato di rivelare la posizione del suo villaggio, quel soldato poteva liberamente insultare la sua etnia e Connor avrebbe continuato ad amarlo solo perché indossava una divisa blu. – Quest’uomo…
Udii un tonfo e la risata di Thomas. – Oh, Cristo, finalmente! Ben gli sta.
Sollevai lo sguardo: uno dei soldati stava spingendo Hickey verso l’altra parte della strada mentre l’altro sollevava mio figlio, privo di sensi e con la faccia sporca di sangue, e lo trascinava via. – Ti ho detto di stare zitto. – Thomas si prese uno scappellotto.
Mi passai le mani sulla faccia, strisciando e abbandonandomi contro la parete. – Merda – mi uscii in un grugnito. – Oh, merda! – sbottai scrollando la gamba per liberarmi di quella dannata cassetta. Ero nei guai, e grossi. Non potevo tornare alla tenuta abbandonando mio figlio e Thomas. Specie il secondo. Dopo tutto quel tempo speso non avevo alcuna intenzione di lasciarmelo scappare.
Dovevo solo pensare ad un piano. Prendere una locanda, intanto, riflettere, alzarmi da terra e darmi una ripulita.
Li avevano arrestati, quindi erano in prigione. Ecco il primo, geniale pensiero che produsse il mio cervello. La prigione. E l’unica prigione di New York – almeno, che io sappia – era Bridewell. Aveva addirittura una piazza tutta per sé, il penitenziario, in fondo alla Broadway. Un’amara ironia, considerando che Thomas passava la maggior parte del suo tempo da quelle parti, vicino a quel posto che incombeva costantemente sulla sua vita costellata di attività criminali.
Bridewell, quindi. Ci sarei entrato. Li avrei fatti uscire. Dovevo solo trovare un modo. E, una volta fatto, evitare che si scannassero l’un l’altro.
Facile. Erano un Assassino e il Templare che aveva violentato sua madre e non solo voleva uccidere il suo eroe, ma addirittura, nella sua testa, aveva dato alle fiamme il suo maledetto villaggio.
Gesù.
 
Alloggiai nella locanda davanti cui avevo beccato Thomas, abbastanza centrale e sulla Broadway, quindi a poca distanza dal penitenziario. Quella notte, nonostante la cena sostanziosa e la più che discreta quantità di alcool che mandai giù, non riuscii a chiudere occhio. Avevo per la testa mille pensieri e ancora più preoccupazioni, e camminare su e giù per la mia stanza non risolveva.
Motivo per cui mi appollaiai sul tetto per scrutare Bridewell e organizzarmi. Non era niente di che, per essere una prigione, e non sembrava nemmeno un posto così sicuro. Immagino che se qualcuno l’avesse riadattato sarebbe potuto essere usato tranquillamente come casa. Una bella casa, perché era piuttosto grande, composto da un corpo centrale e le due ali gemelle ai lati. Decine di guardie ci giravano intorno con le loro stupide lanterne e montavano di guardia sui balconi o sul tetto, come me. Solo che io ero circondato dal buio, invisibile e abituato ad osservare senza essere visto. Insomma, di certo non mi sarei fatto fregare da gente del genere.
Il sonno non mi raggiunse nemmeno là sopra. I miei pensieri cambiavano continuamente direzione, finché non si soffermarono sugli Assassini che avevo ucciso nel vicolo. Non era mia intenzione ammazzarli. Non volevo che Connor avesse un altro motivo per essere contro di me. Ah, no, non gli avrei permesso di mollarmi a metà dell’opera. Avevamo cominciato quella storia insieme. Mio malgrado, avevo bisogno di lui per arrivare al Grande Tempio, esattamente come servivo a Connor, data la sua totale inettitudine. È secondo solo a George, in questo campo.
Non sprecai quelle ore in un’inutile crisi esistenziale, se è questo che vi state chiedendo. La mattina dopo probabilmente avevo le occhiaie fin sotto i piedi, ma conoscevo ogni minimo movimento di ciascun soldato all’interno della prigione. Rischiando di crollare per il sonno su una tazza di tè forte, giurai che mi sarei fatto una sacrosanta dormita e quella stessa sera avrei tratto Thomas e Connor fuori da Bridewell. A qualsiasi costo.
 
Mi svegliò il proprietario della locanda alle sette e mezza, battendo contro la porta della mia stanza come un orso perché stavano servendo la cena. Balzai giù dalla branda con la bocca impastata e la camicia stropicciata dalla dormita, spalancando la porta con una mano sugli occhi. – Sia ringraziato il cielo – grugnì quello con scarso entusiasmo. – Avete pagato per la cena, giusto?
Mi passai i pugni sugli occhi cercando di assumere un’aria decorosa. No, era impossibile. Dio santo, non è corretto chiedere ad un uomo appena buttato giù dal giaciglio di dialogare da buon gentiluomo. Non si fa. – Grazie per l’interessamento, signore, ma non ho fame.
– Sapete che non detrarrò la spesa dal vostro conto, vero?
E voi sapete che se mi fate un’altra domanda potrei picchiarvi? – Certo – mi sforzai di rispondere con un sorriso gentile. – È un vostro diritto.
Quello sollevò le mani, come se avessi toccato un tasto dolente. – Non parliamo di diritti, per l’amor di Dio! – Si passò una mano tra i capelli e desiderai con tutto me stesso che gli prendesse un malore e mi lasciasse andare a sciacquarmi la faccia. Solo per pietà. – Ogni giorno assisto a un paio di scaramucce tra soldati. E quando qualche ubriacone decide di mettersi in mezzo è la fine. – Scrollò il capo. – Credo di dover tornare sotto. Avete ancora tempo, se vi viene fame. – Lanciò uno sbuffo e mi salutò con un cenno della mano. – Buona serata.
Risposi con un cenno e dovetti trattenermi dallo sbattergli la porta in faccia. – Santo Dio – brontolai stropicciandomi la faccia. Avevo una sottospecie di piano, ma ero così stordito che non sarei riuscito nemmeno a mettere piede fuori dalla locanda senza farmi notare.
Presi la redingote che avevo abbandonato su una sedia e m’infilai nella stanza da bagno.
 
Appena il mercato veniva smontato e si avvicinava l’ora di cena la Broadway diventava deserta come un sentiero di montagna. Con l’aggiunta di qualche barbone e un’avvenente puttana qua e là. L’incombente sagoma della prigione, però, contribuiva a diffondere il senso di soggezione per la strada principale della città, di giorno così viva ed allegra. Quell’ombra scura s’infilava tra i vicoli e ne sentivi il fiato sul collo, era come l’occhio vigile di un dio onnipotente e sempre pronto a punirti. Motivo per cui le puttane preferivano altre zone, magari ai confini della città, dove lo sguardo vitreo dei maiali chiusi nei recinti contribuiva all’atmosfera.
Costeggiai il muro del penitenziario camminando basso, l’orecchio quasi accostato al calcestruzzo per sentire i ritmici passi dei soldati sulla ghiaia dall’altra parte. Sapevo che oltre quell’ordinata catasta di mattoni c’era un uomo, un soldato patriota: avrebbe fatto circa venti passi con una tremula lanterna tra le mani, poi sarebbe tornato indietro per altri venti passi, sempre con la stessa andatura, proprio mentre dall’angolo sbucava un altro soldato per controllare la zona scoperta.
Non avevo molte possibilità, ad essere sincero. Dovevo ammazzare uno dei due soldati in maniera silenziosa, spostare il cadavere e magari rubargli la divisa. Con un brivido lungo la schiena rividi l’harem di Damasco in cui era stata rinchiusa Jenny, la macchia di sangue sulla tenuta da eunuco che mi aveva smascherato. Non potevo permettermi errori, questa volta.
Lanciai naturalmente un’occhiata lungo la strada, trovandola deserta. Un uomo appeso al muro di Bridewell in piena notte era pazzo o aveva intenzione di finire in galera – quindi aveva comunque qualche problema mentale. Mentre i passi del primo soldato s’allontanavano verso l’ingresso della prigione saltai, appollaiandomi sul muro e lanciando un’occhiata di sotto. All’angolo di destra s’intravedeva il baluginare della lanterna del secondo soldato. Trattenendo il fiato per non far rumore m’incamminai lungo il muro, piegato in due per essere meno visibile.
Appena la guardia mi sorpassò scivolai giù dal muro, silenzioso come un fantasma, e strinsi una mano attorno alla gola della mia preda mentre con l’altra provvedevo a farla restare zitta. Mezzo minuto dopo avevo un cadavere tra le braccia, lo trascinavo il più velocemente possibile verso una zona d’ombra.
Pensate che muovere un cadavere sia una passeggiata? Non avete mai spostato il corpo di un soldato con armi sferraglianti addosso. Sulla ghiaia. Dovendo necessariamente evitare di far rumore.
Non è esattamente un lavoretto da due soldi. Sfilai le pistole e la spada dal cinturone della malcapitata guardia, le mani tremanti e il fiato trattenuto. Il soldato dall’altra parte, intanto, stava facendo dietrofront. Ancora qualche passo e mi sarebbe passato davanti. Magari avrebbe lanciato un’occhiata a quell’angolo buio e la luce della sua maledetta lanterna si sarebbe riflessa sulla spada del cadavere. Mi avrebbe visto. Sarei stato scoperto e buttato fuori.
Oh, al diavolo. Non potevo permettermelo.
Lanciai un’occhiata timorosa all’angolo del muro di cinta, dove, se la memoria non m’ingannava, doveva esserci una campana d’allarme. Perfetto. Dovevo solo attirare i soldati laggiù, in modo da lasciarmi campo libero davanti al portone d’ingresso. Attorno a me non avevo altro che sassi, e il soldato s’avvicinava fischiettando un motivetto stonato. Sudavo a profusione. Merda, pensai guardando il cadavere su cui ero accovacciato. Dovevo distrarre quei soldati. In qualsiasi modo.
Fu allora che lanciai un’occhiata alla pistola del cadavere ed ebbi quello che posso modestamente chiamare colpo di genio.
Scavai nelle tasche della redingote con un certo impeto, lanciando occhiate inquiete alla guardia. Strinsi le dita intorno a una manciata di proiettili e scagliai le piccole sfere di piombo contro la campana, sperando che avessero l’effetto sperato.
– Che cos’è stato? – Grazie a Dio.
Il soldato mi trotterellò davanti andando dritto verso la campana e fischiando con due dita in bocca. – Milton! Boyle! Venite qui! – Ed ecco gli uomini di guardia davanti alla porta che alzavano i tacchi e correvano dietro all’altro sibilando imprecazioni e bestemmie. Il tutto mentre approfittavo del baccano, lasciando momentaneamente perdere il cadavere – Gesù, non avevo tempo di togliergli i vestiti, appallottolarli, portarli fin dentro l’edificio e trovare un bel posticino appartato per cambiarmi – e oltrepassando silenziosamente l’uscio di Bridewell.
Ce l’avevo fatta.
Ero dentro. E cominciava la parte difficile. 

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Capitolo 34
*** Inciampare. ***


In tutta la mia vita, per quante possa averne combinate, non sono mai stato in una prigione. Men che meno a Bridewell. Se l’esterno dava un’impressione di imponenza e rigidità, dall’interno somigliava un po’ alle segrete di un forte: pareti coperte di muffa, vecchie scale di legno, le celle – disposte su ogni lato – con il pavimento coperto di vecchia paglia e così anguste che i prigionieri non potevano nemmeno stendere le gambe. Ringraziai la mia buona stella per non essere mai stato arrestato e non riuscii a trattenere un sorriso al pensiero di Connor, quel bestione, pressato in una cella con la mente annebbiata dalla rabbia. Si era fatto scappare Thomas ed era stato incarcerato per qualcosa che non aveva fatto. Oh, povero il mio figliolo.
Gli stava bene, ecco cosa pensavo. Se non avesse sempre manifestato tutto quest’interesse per mettere a morte i miei uomini avremmo potuto collaborare sul serio, seguendo il mio piano, e nessuno si sarebbe fatto male. Invece no, mettiamo a soqquadro la città solo perché voglio far vedere a Haytham di avere ragione! Imbecille.
Avanzai con cautela all’interno del penitenziario, le orecchie tese e lo sguardo pronto a scattare su qualsiasi flebile alone avessero proiettato le lanterne sul pavimento sudicio. Il segreto era, come sempre, nello sfruttare le ombre. E sperare che nessun prigioniero avesse voglia di farsi beffe del sottoscritto strillando che c’era un intruso. Dio, sarebbe stato davvero spassoso, certo! Già muoio dalle risate.
Al piano inferiore c’era solo un soldato di guardia, più altri tre o quattro sulle scale. – Giornata produttiva, eh? – fece uno di loro. – Ne abbiamo arrestati due. Altri di quei falsari bastardi.
– Almeno sapessero fare del denaro decente – disse un altro con voce lamentosa. – Persino un bambino capirebbe che quelle non sono sterline. Dicono che a Boston ci sia una banda di falsari imprendibile. I mercanti si accorgono di essere stati fregati solo quando devono versare alla Corona. Diavolo, quelli sì che sanno fare il loro mestiere! – Gli altri soldati ridacchiarono mentre strisciavo davanti alle celle, cercando i visi familiari di Connor e Thomas nella penombra oltre le sbarre.
– Non dovresti dire cose del genere – mugolò petulante un terzo soldato. – E se fregassero te?
– E se la smettessi di dare aria alla bocca, Walker? – Sbirciai lentamente in un’altra cella. Il soldato di pattuglia al piano inferiore si era fermato con la lanterna sollevata verso le scale, tutto intento a seguire la simpatica scenetta in atto tra i suoi compagni. A me serviva che camminasse. Più tempo restavo in uno stesso punto e più facilmente mi avrebbero notato. – Cristo, sei un maledetto iettatore!
Di nuovo ci fu un’esplosione generale di risate. Mi tremavano le mani. Scivolai trattenendo il fiato verso la parete opposta, senza sapere cosa sperare. Se la guardia avesse ricominciato a camminare avrebbe potuto vedermi, ma se fosse rimasta lì sarei dovuta passarle dietro, magari attirando l’attenzione dei soldati sulla scala. Non potevo rischiare fino a quel punto. – Ridete quanto vi pare, stronzi – grugnì di nuovo lo iettatore, – io ho un turno da finire.
– Dai, Colin, si scherza! – esclamò con un sorrisone il soldato di guardia al piano inferiore. Il mio uomo. – Non te la prendere! Certe volte sembri proprio una donna.
Strisciai lungo il muro con il respiro bloccato nel petto. – Fottiti! – Però, per essere a guardia di decine di criminali si divertivano parecchio, questi tizi. Passai velocemente davanti alle celle restanti mentre i soldati si sbellicavano dalle risate. La maggior parte dei prigionieri dormiva, quelli svegli mi lanciavano occhiate vitree o colme di disprezzo, come se fossi uno scherzo della loro mente di cui liberarsi al più presto. Quindi Thomas e Connor erano al piano superiore.
Cazzo, pensai lasciando andare il fiato dalla bocca. Non avevo altra scelta che quella di farmi strada.
Ovvero versare sangue sul pavimento nudo.
Avanzai dalle ombre come se ne fossi parte e pugnalai la prima guardia alla base della schiena con la lama celata. Il rumore del meccanismo scattato e quello più viscido del sangue che imbrattava il pavimento fecero il lavoro di cinque campane d’allarme. – Gesù santo! – strepitò uno dei soldati imbracciando la baionetta e puntandomi la canna contro. – Metti giù le armi, stronzo!
Non attesi che mi colpissero per primi. Sollevai la pistola, che grazie a Dio avevo già caricato prima di uscire dalla locanda, e pochi secondi dopo la testa del patriota aveva un terzo occhio in mezzo alla fronte. Perfetto. Avevo sprecato tutti i miei proiettili lanciandoli contro la campana, mi restavano solo la spada e la lama celata.
Poco, in effetti. Ma d’altro canto erano state quelle armi a far cadere la maggior parte delle mie vittime, quindi mi conferivano una certa sicurezza.
Salii le scale due gradini alla volta e sfoderai la spada evitando una palla di moschetto, dopodiché staccai il braccio di un uomo con una giravolta. Immediatamente quello cominciò ad urlare. Perché devono sempre urlare? Santo cielo. – Non ti muovere – fece con voce tremula il soldatino petulante. Sentivo la punta della sua baionetta tra le scapole.
L’imbecille avrebbe potuto fare fuoco, invece di minacciarmi inutilmente in quel modo, ma come ho detto era un imbecille, quindi non mi stupii più di tanto quando, attraversando la sua faccia con la spada, non ebbe la benché minima reazione. Non mi sparò nemmeno per uno spasmo muscolare. Era bello che morto, il viso – ancora tempestato dall’acne – attraversato da un grosso squarcio slabbrato e grondante rosso.
Ne restavano solo due. No, mi sbagliavo. Due, più il soldato di guardia al primo piano. Maledizione.
Uno degli uomini di fronte a me ebbe la prontezza di sparare alle mie gambe, ma quelle scattarono di lato quasi indipendentemente dalla mia volontà. Dio, era come essere tornato a lavorare per Reginald. O peggio, per Braddock. C’era sangue dappertutto, da quanto tempo non uccidevo così tante persone? Non ero nell’atteggiamento adatto a quei pensieri.
Allungai la mano verso il fucile del soldato in questione prima che ricaricasse, glielo strappai via dalle mani e affondai la baionetta nel suo stesso stomaco mentre implorava pietà. Il penultimo fu forse il più stupido. Mi si lanciò contro alla carica. Forse pensava che per mettere a terra un uomo bastasse correre verso di lui, il povero illuso. Feci un passo verso destra, lo afferrai per i capelli facendogli inarcare la schiena e, con l’altra mano, estrassi la spada lunga dal fodero che portava alla cintura. Un secondo dopo era morto, impalato sulla sua lama come una bizzarra statua di se stesso.  
Ero completamente coperto di sangue. Gesù.
L’ultimo soldato aveva gettato la baionetta a terra e s’era prostrato ai miei piedi come un fedele davanti a un’apparizione della Vergine. Che onore. Invece di avere le mani giunte, però, le tendeva verso di me. Implorava pietà, misericordia, di poter rimanere in vita, la voce rotta dai singhiozzi. Chiamava a raccolta tutti i particolari che avrebbero potuto scalfire il mio cuore, come i suoi compagni prima di lui.  
Era inutile, poverino, e lo sapeva perfettamente, ma al contrario degli altri sembrava avere un’arma segreta. Aveva qualcosa in mano, osservai chinando la testa. Un vecchio anello di metallo arrugginito che sollevai con due dita e l’aria sospettosa. Un mazzo di chiavi.
Mi voltai verso il patriota con stupore, ma quello si era alzato improvvisamente in piedi, probabilmente basito perché non avevo già messo fine alla sua vita, e fece la cosa più ovvia. Quella che non ero riuscito a prevedere.
Strillò come una femminuccia.
Non ero più abituato a vedere uomini strillare, per essere franco. Io… insomma, pensavo che ai soldati s’insegnasse a mantenere un minimo di dignità in tutte le situazioni. Era ciò che mi aveva inculcato in testa Edward Braddock. Dio, si possono dire tante brutte cose di quell’uomo, ma era certamente un soldato migliore di Washington. Rimasi a bocca aperta per qualche secondo prima di avvicinarmi a quella mammoletta, spingerlo a terra e affondargli la lama nella gola.
Sospirai, passandomi le mani sporche di sangue sugli occhi. Non avevo la forza di contare le mie vittime, mi limitai a stringere le mani attorno alle chiavi, sollevare una lanterna superstite – grazie al cielo non era andato a fuoco nulla – e fare un rapido giro delle celle.
– Capo? – Fu Thomas Hickey a vedere me, ad essere sincero. – Capo, sei davvero tu? Te la sei presa comoda.
Roteai gli occhi al cielo avvicinandomi alla sua cella. – Alla faccia della gratitudine – dissi abbandonando la lanterna a terra e stringendo le mani attorno alle sbarre. – Mi dispiace, probabilmente questa giornata senza puttane deve aver scombussolato il tuo fisico.
Thomas sorrise con aria maligna, poi si avvicinò alla porta della sua cella, sporse il braccio magro e diede una manata sul muro della cella accanto. – Ehi, tu! Hai visto chi c’è? – Quel suo gran ghigno sulla faccia lo faceva somigliare ad un lupo. Gli avevano tolto la redingote e gli stivali, lasciandolo a piedi scalzi in camicia e pantaloni. Uh, no, nessun rispetto per un affascinante gentiluomo britannico quale Thomas Hickey, pensai con un mezzo sorriso.
– Haytham. – La voce di Connor arrivò dalla cella accanto in un gelido sussurro. – Complimenti per l’opera. Quanti innocenti?
Mi venne voglia di allontanarmi dalla porta di Thomas e dargli un pugno in faccia. Invece feci scorrere le chiavi intorno all’anello di metallo e ne infilai una nella toppa della cella. – Dimmi una cosa, ragazzo – esordii constatando che la chiave non era quella giusta e cambiandola. – Sarebbero stati ugualmente innocenti se non avessero indossato l’uniforme dell’Esercito Continentale?
Thomas Hickey scoppiò a ridere, mentre si lasciava cadere seduto sul pavimento della cella e mi squadrava con occhio critico. Stava notando qualcosa che gli era sfuggito nella breve conversazione avuta prima dell’agguato degli Assassini. – Che cazzo hai fatto alla mano, capo? – Il suo tono era completamente cambiato e il ghigno aveva lasciato posto ad una smorfia perplessa.
La seconda chiave girò, facendo scattare la serratura, ma bloccai la porta della cella con un piede. Volevo divertirmi un po’, niente di personale. – Moderiamo i termini, Thomas – dissi sorridendo. – O potrei decidere di lasciarti qui ancora un po’.
Si alzò in piedi, arrotolandosi le maniche della camicia con aria di disapprovazione e senza distogliere un attimo lo sguardo dalla mano sinistra. – Perché l’hai fatto? – chiese, e per un attimo mi parve sinceramente interessato.
– Oh, un errore mentre mi tagliavo le unghie. Un banale incidente – replicai guardandolo attraverso la mano sinistra aperta, lui in corrispondenza del moncherino. – Una gentile concessione dei nostri amici Mohawk – ammisi, sentendo la voce venarsi di disapprovazione. – C’è in ballo un affare importante.
Annuì con un grugnito. Aveva compreso precisamente di quale affare si trattasse, ma non era la sua più impellente priorità scoprire quale altra pazzia avevo in mente. Uscire di lì, il succo del discorso era quello. S’avvicinò alle sbarre e spinse la porta con una spallata, ma continuavo a tenere il cancello di metallo fermo con un piede. – Andiamo, Haytham – si lamentò sollevando gli occhi al soffitto. – Fammi uscire. Sono anche in astinenza da birra, non ti conviene farmi incazzare.
Scoppiai a ridere e lanciai un’occhiata noncurante alle unghie della mia mano destra, fischiettando, e spostai di colpo il piede dal cancello proprio mentre lui tornava a spingere con tutte le sue forze.
Thomas caracollò, rischiando di cadere a faccia in avanti pavimento sudicio di Bridewell. Fortunatamente tanti anni di bevute non avevano intaccato il suo equilibrio da schermidore. – Sei proprio un bastardo da quattro soldi! – Mi guardò ridacchiando. – Non cambi mai, Kenway.
Avevo colto la nota d’ammirazione nella sua voce, e non riuscii a trattenere un sogghigno passando dalla cella di Hickey a quella di Connor. Mio figlio era accovacciato nell’angolo della cella con un occhio pesto e la casacca sbrindellata, oltre che sporca di sangue. Oh, be’. Capita. – Sempre contento di vedermi, eh? – feci affondando una chiave nella toppa.
Continuò a guardare fisso davanti a sé, ovvero nella mia direzione, ma senza prestarmi davvero attenzione. – Risparmia il fiato. – Sembrava incredibilmente stanco. Davvero bastava un giorno e mezzo di gattabuia a spossarlo? Bah. Cambiai chiave e decisi che non valeva la pena di provare ad avere una conversazione con lui. – Sei contento, immagino. Stai tenendo in vita quel bastardo, esattamente com’era nei tuoi piani.
Thomas sorrise. Effettivamente, l’aggettivo bastardo sembrava forgiato a misura di Thomas Hickey. – Connor, non puoi andare in giro uccidendo chiunque ti capiti a tiro, lo sai, vero? – Strattonai la chiave per farla girare, e quella non si spostò d’un millimetro. Cambiai ancora. 
Sospirò. – Non sei la persona giusta per dirmelo, Haytham – disse indicando il disastro di cadaveri che mi ero lasciato alle spalle.
– Un gran bel lavoro – constatò Thomas avvicinandosi ai corpi. – Davvero, non hai nemmeno avuto bisogno di combattere, capo. Stupidi.
L’ultima chiave provata non entrava nemmeno nella serratura. Saltai quella che aveva aperto la cella di Thomas e infilai la rimanente nella toppa. – Onore al merito – disse Hickey mimando un inchino.
– Pensa ad aprire quella porta – bofonchiò Connor alzandosi in piedi.
Strinsi la mano intorno alla chiave e vi diedi uno strattone. Poi impallidii.
Non girava. – Oh, merda – grugnii appoggiando la fronte contro le sbarre. – Maledizione. – Tirai violentemente fuori il pezzo di metallo e ne infilai un altro.
Connor scattò in piedi. – Che succede? – Sembrava in preda al panico.
– Non si apre – dissi in un grugnito.
– Non si apre? – Si passò le mani tra i capelli. – Guarda che quella l’hai già provata.
– Le ho provate tutte, genio! – Roteai gli occhi e scelsi un’altra chiave con il sudore freddo che scorreva lungo la mia schiena.
– Ma che peccato – bofonchiò sarcastico Thomas, scavandosi nelle tasche con noncuranza.
– Chiudi il becco, Hickey.
Il mio vecchio socio si sfilò dalla tasca dei calzoni una piccola pipa e qualche fiammifero. Come se li era procurati? Un sorriso malizioso mi lampeggiò sul viso. Quali servigi aveva offerto per ottenere quei beni, cosa aveva dovuto fare – o subire – per la più miserabile dose di tabacco? Thomas Hickey era disposto a tutto per non abbandonar le vecchie abitudini e i piaceri che inseguiva da tutta la vita. Piaceri che creavano in lui una certa dipendenza. In fondo, l’uno valeva l’altro, dico bene? Non c’era l’alcool? Poco male, aveva il fumo. E allo stesso tempo, se le mie ipotesi – che mi fanno sembrare una comare ficcanaso – erano veritiere, avrebbe potuto ottenere anche il sesso. Anche in questo caso, immagino che per lui un buco valesse l’altro.
Scacciai quei pensieri inopportuni, scrollando il capo con una risatina totalmente stonata. Una tremula fiammella brillava sulla capocchia del fiammifero stretto tra il pollice e l’indice di Thomas per dare fuoco al tabacco che riempiva la pipa. Prese una boccata e lo scagliò ancora acceso nella cella di Connor. – Chiudilo tu, mezzosangue! – abbaiò mentre il ragazzo calpestava la fiammella per evitare di finire grigliato.
Mio figlio si attaccò alle sbarre per provocare Thomas. – Sei proprio un idiota – ringhiò con i denti scoperti.
– State zitti tutti e due, porca miseria! – sibilai mollando uno scappellotto a Hickey. Il mio socio gemette, ma non me ne curai. – Ce le avrà addosso qualche cadavere. Le troveremo. Ti porteremo fuori di qui.
Mi voltai verso i cadaveri e per poco non mi pisciai addosso quando un altro soldato tuonò: – Porca puttana! Intrusi! Alle armi!
Thomas Hickey si passò una mano sulla nuca e mi lanciò un’occhiata supplichevole. Merda. Eravamo nei guai. – Torneremo domani, ragazzo – sibilai voltandomi di nuovo verso Connor. – Adesso ci conviene tagliare la corda.
– Domani? – Il mezzosangue infilò la faccia tra le sbarre, guardando in cagnesco Hickey. – Non gli hai detto nulla, vero?
Nonostante il pericolo incombente Thomas non riuscì a reprimere una risatina da iena. – Che mi dovrebbe dire? – sussurrai con un groppo in gola. Altri guai, per l’amor del cielo, no, non ne potevo più.
– Domani gli infileranno una gran bella collanina, capo – disse Hickey a mezza voce, senza smettere di ridacchiare.
Oh, cazzo. Avevo capito, ma guardai comunque Connor con tanto d’occhio. – Stanno allestendo la forca – sibilò con disprezzo. – M’impiccheranno domattina.
Non sapevo bene come reagire. Perché tutti i problemi si presentavano nello stesso momento? I soldati, un’imminente impiccagione… Perdio, non potevo essere lasciato in pace solo per mezzo minuto? – Capisco – dissi sguainando la spada. – Ma ora non ci posso fare niente.
Il ragazzo sbiancò. – Non ci puoi fare niente? Come sarebbe a dire che non ci puoi fare niente? È esattamente quello che volevi, non è vero? – strepitò come una donnicciola. Mi crebbe dentro la tentazione di sbattergli l’elsa della spada sui denti. – Bravo! Ammazza me, ammazza Washington, fa’ quello che ti pare. Non fermerai gli Assassini, hai capito? Non fermera…
– Sta’ zitto. – Prima che io stesso potessi rendermene conto avevo infilato in braccio tra le sbarre, stringendolo per la camicia. – Torneremo – grugnii con le orecchie rizzate. Gesù, sentivo i tacchi risuonare su e giù per la prigione. Oppure era solo la mia immaginazione? Mi stavo facendo condizionare? – Torneremo – ripetei spingendolo verso il muro. – Una sola parola su tutto questo e sei morto, hai capito? Morto sul serio – gli intimai indicando il macello di cadaveri sanguinanti sul pavimento.
Non aspettai che Connor rispondesse, semplicemente gli voltai le spalle e lanciai la spada a Thomas. – Usala, se necessario. – Mi sarei dovuto far strada tra i soldati a suon di lama celata. – Non c’è un’uscita sul retro o qualcosa del genere? – sussurrai con i nervi a fior di pelle.
– Li troveremo. Cani bastardi. – Le voci dei soldati sembravano provenire da ogni angolo.
– Io controllo di qua!
Thomas mi lanciò un’occhiata. Non avremmo lasciato a nessuno il tempo di controllare. Scendemmo le scale il più in fretta possibile e lasciai che Hickey s’acquattasse davanti all’uscio mentre camminavo avanti e indietro, cercando di pensare. Imboccai l’altra uscita, quella che teoricamente portava all’altra ala laterale di Bridewell. Sentii Thomas, dietro di me, tappare la bocca di un soldato e trapassarlo con la mia spada. Un gemito che solo gli orecchi più esperti avrebbero percepito.
Imprecai a mezza voce intravedendo le gambe di un soldato poco più avanti. I soldati non passeggiano allegramente per un penitenziario in piena notte. Specie dopo aver ricevuto un allarme. Tornai velocemente da Tom e lo presi per un braccio. – Ci serve una porta. Una porta, mi hai capito?
Quello sbuffò dal naso. – E io che ci posso fare, capo?
Roteai gli occhi, mollando un calcio al cadavere del soldato che aveva appena ucciso. La sua giacca si macchiò di sangue, facendomi venire un’idea. Sollevai lo sguardo su Hickey con le sopracciglia sollevate. – Non funzionerà – grugnì Thomas scrollando il capo. Forse ha ragione, pensai in cuor mio. Le altre volte non è andata poi così bene.
Già, ma non volevo ricordare le altre volte. – Dammi la spada, trova un corpo messo meglio e cambiati.
– Haytham.
– Sant’Iddio, Thomas, fa’ quello che ho detto. – Ero o non ero il suo Gran Maestro? Aveva una cicatrice sul polso che teoricamente confermava la sua fedeltà a me. Al mio modo di gestire le cose. Quindi era quasi obbligato ad ubbidirmi. – Dammi retta. – Almeno tu.
Scommetto che mi guardò con aria scettica un’ultima volta prima di cominciare a spogliare uno dei cadaveri. I soldati parevano più svogliati del solito, per nulla intenzionati a scovarci davvero. Bastava fare la cose abbastanza silenziosamente.
Infilai la redingote nei calzoni – sarò ridicolo, ma non mi andava di perdere un’altra volta i miei vestiti – calzando l’uniforme blu dei patrioti, l’emblema delle Colonie ricamato sul petto. Thomas appariva appena più credibile di me, ma l’importante era sloggiare, rapidi e senza farsi prendere. Afferrammo due moschetti e avanzammo nei corridoi di Bridewell, diretti alla porta. – Cristo! – esclamò Thomas indicando la stanza che avevamo appena lasciato. – Guardate qua! Pare un mattatoio.
Mi venne istintivo sorridere. Questo sì che è da Thomas Hickey. Immediatamente il manipolo di guardia davanti alla porta varcò la soglia per gettarsi nella sala centrale, imprecando e abbassando le baionette. Il tutto mentre noi indietreggiavamo lentamente, uscendo piano dal penitenziario e costeggiando il muro di cinta.
Nella confusione nessuno fece caso a noi. Non fu nemmeno necessario scalare il muro, uscimmo dal varco principale come se niente fosse, abbandonando le giubbe da patrioti in un angolo della strada, infilandoci nelle viuzze e cambiando continuamente strada per evitare la Broadway. Presto o tardi si sarebbero resi conto dell’assenza di Thomas, e avrebbero cominciato a cercare da lì, dalla locanda in cui avevo alloggiato, magari.
Ci ritrovammo nella zona dei pontili, lungo Water Street. – Dio – brontolò Thomas passandosi una mano in faccia. – Che situazione di merda, eh, capo?
Mi sedetti sulle pietre con le gambe a ciondoloni sull’acqua, cercando di ordinare i pensieri. – Un’esecuzione. – Scrollai il capo. Avevo voglia di pestare qualcuno. – Geniale, non trovi? Il modo migliore per liberarsi dell’Assassino. – Sospirai, lanciando un’occhiata d’intesa al mio vecchio socio. – Forse devo spiegarti un paio di cose, ma senza quel ragazzo io sono fottuto. E non perché tenga a lui, ma perché mi serve per avere la Mela.
Thomas sgranò gli occhi, stupito. – Non ci credo. Corri ancora dietro a quel maledetto tempio, Haytham?
– Certo che sì – risposi con la massima naturalezza. – E anche se non lo facessi, sarebbe Reginald a guidarmici. Ha bisogno di me, esattamente come io ho bisogno di Connor.
Lanciò uno sputo in acqua. – Non ci capisco niente, ad essere sincero.
Affondai il viso tra le mani. Non c’era il tempo materiale per raccontargli tutta la storia e salvare Connor. Avevamo una tabella di marcia. – A che ora si tiene l’esecuzione?
Scrollò le spalle. – Che vuoi che ne sappia?
Grazie, Thomas. Grazie tante. Mi alzai in piedi, snervato dal suo atteggiamento. Doveva solo essere un po’ più collaborativo, non gli stavo certo chiedendo di tagliarsi un braccio. – Hai capito chi c’è dietro questa storia dell’impiccagione, vero? – Scosse la testa. Stavo chiedendo al suo cervello di lavorare senza essere sotto l’effetto dell’alcool, poveraccio, immagino dovesse essere scioccante per lui. – Ascoltami. Dove la faranno?
Sollevò le sopracciglia. – Oh, questo lo so. – Non riuscì a trattenere un sorriso sghembo, e quando mi disse il nome del luogo in cui mio figlio sarebbe stato condannato a morte capii perché. – Delancey’s New Square.
Oh, la Delancey’s. Scrollai il capo con un sorrisetto. Fino a poco tempo prima c’era una fattoria, in quella piazza, confiscata dai lealisti per creare un ampio e inutile spiazzo; Delancey’s New Square era deserta per la maggior parte del tempo, ma di sera – stando a quanto dicevano le voci di New York – si animava, specie a notte fonda, riempiendosi di prostitute e ragazzi, per chi avesse gusti diversi. Invece pareva che di giorno fosse la base operativa di una banda di ladri. Tranne quando i soldati piombavano lì per innalzare la forca, un’altra delle fonti di divertimento preferite dal grande pubblico.
Abbassai lo sguardo. – D’accordo. Andiamo, ti spiego lungo la strada. E muoviti, non abbiamo tutto il giorno.
– Non posso almeno fermarmi per una pinta? Ne ho bisogno. Non riesco a pensare senza.
– Farai uno sforzo – dissi, facendogli cenno di seguirmi e tornando verso la Broadway. – Forza. 

A favore di Thomas, posso dire che sul serio non riusciva a pensare senza birra. Dovetti ripetergli alcune cose – ciò che Reginald mi aveva fatto quand’ero ragazzo, ad esempio, o la faccenda della profezia – almeno cinque volte, perché continuava a distrarsi o si rifiutava di crederci. Straordinariamente cocciuto, quell’uomo. – Aspetta un secondo, capo, fammi capire – bofonchiò mentre ci arrampicavamo sugli alberi attorno alla piazza. – Tu sei una delle chiavi del Grande Tempio. Senza di te quell’affare non si apre.
– Esatto. Naturalmente ci servono anche una Mela dell’Eden e la Chiave, quella medaglietta verde che adesso è nelle mani di Reginald. – Mi issai faticosamente sul grosso ramo di un albero, cercando di non pensare a Tiio, al suo modo di arrampicarsi e di scovare appigli nelle cortecce nodose. – E l’unica Mela di cui conosciamo la posizione è nel villaggio di mio figlio.
– Quella che cercavamo noi.
– Già. – Quando Connor credeva aveste dato alle fiamme la sua casa. Invece avevate solo rapito sua madre.
Sospirò. – I Mohawk ti hanno tagliato il dito come pegno di un giuramento o qualcosa del genere, giusto? E ora tu hai il permesso di prendere la Mela e usarla per il nostro scopo, ma solo se prometti di riportarla al villaggio e di non usarla per dominare il mondo. Ah, e naturalmente tuo figlio dovrà tenerti gli occhi costantemente addosso per impedirti di farne ciò che vuoi.
– E dimentichi che quei bastardi non me la daranno se Connor non sarà lì a garantire per me.
Thomas sbuffò, appoggiando la schiena al tronco dell’albero. – Certo che Reginald è un genio, per quanto mi dispiaccia ammetterlo. Far impiccare tuo figlio per impedirti di prendere la Mela. Geniale.
Espirai violentemente, guardando i patrioti che battevano i chiodi e tiravano su la struttura al chiaro di luna. Eravamo arrivati a quella conclusione lungo la strada, cercando di ricostruire i movimenti suoi e di Charles, dal loro arrivo al metodo usato per convincere le forze dell’ordine a condannarli entrambi. Quand’erano arrivati? Dove alloggiavano? Quale barbone aveva chiesto l’oro l’elemosina, quali puttane avevano sfiorato le gambe di Reginald lungo i vicoli senza sapere che aveva gusti un po’ diversi? Immaginavo che, dopo aver fatto firmare la sentenza, Birch fosse tornato nelle retrovie per tirare i fili, lasciando a Charles il ruolo di facciata mentre il Gran Maestro si strofinava le mani in attesa di portermele infilare di nuovo nei calzoni, come quando ero ragazzo, e giocare con me.
Cercavo sempre di ironizzare su quel lato della faccenda – Gesù, altrimenti avrei fatto meglio a prendere direttamente il posto di Connor sul patibolo –, ciononostante non potevo evitare di riconoscere l’intelligenza delle azioni di Reginald. Era sempre il solito bastardo, ma sapeva il fatto suo, era innegabile. – Naturalmente gli indiani mi accuseranno di non averlo salvato, magari proveranno ad uccidermi un’altra volta. Allora interverrà Reginald, probabilmente spazzerà definitivamente via quell’ammasso di capanne malferme solo per accaparrarsi il Frutto dell’Eden e trascinarmi in catene fino a quella maledetta grotta.
– Avrà ciò che vuole.
Sospirai. – Quello è il vero problema. Che cosa vuole? – Strinsi dolorosamente i pugni. – Che cosa diavolo vuole? Cosa pensa di trovare in quella grotta?
Mi resi conto di star ponendo la domanda alla persona sbagliata. Che cosa c’è davvero oltre quella lastra di pietra?, chiesi, pensando ingenuamente di poter ottenere una risposta. Mute come pesci, quelle due. Lo sto facendo anche per voi. Volevano che lasciassi morire Thomas. Oh, sì, certo, magari mi avrebbero anche detto come dovevo pettinarmi o di che colore dovevano essere i miei mutandoni. Al diavolo.
Thomas lanciò una bestemmia. – Non lo so – aggiunse abbassando lo sguardo. – Gli esperti eravate voi due.
Io? Un esperto della Prima Civilizzazione? Mi venne da ridere al solo pensiero. Dovevo aprire quel tempio. M’interessava, certo, perché Reginald aveva stuzzicato la mia curiosità per anni, ma cosa sapevo di quel popolo, tolto il fatto che due di loro occupavano la mia testa commentando polemicamente tutto il mio operato e sparendo quando mi servivano risposte?
– Il Grande Tempio – ripetei, meditando. – È ancora quello il fine del nostro Ordine. O, almeno, dovrebbe esserlo.
– Ordine? – Thomas Hickey scoppiò a ridermi in faccia. – Per l’amor del cielo, Haytham, l’Ordine non esiste più! William e John sono morti, non ho idea di che fine abbia fatto Ben, tu sei diventato una specie di Assassino… – Lo fulminai con lo sguardo e ridacchiammo assieme. Mi era mancato il suo sarcasmo. – E Reginald ha deciso di condurre Charles, solo Charles, verso il nostro fine.
Respirai piano. – Chissà perchè ha scelto lui – dissi, sorridendo tristemente, sentendo Hickey sospirare nel buio. – Giovane, abile e succube. – Tre aggettivi impossibili da abbinare a chiunque altro, eh? – Lasciamo perdere – dissi passandomi una mano alla base del naso. – Credi che sia qui con Charles?
Thomas strinse i pugni. Se c’era voluto un po’ di tempo per convincerlo degli abusi di Reginald nei miei confronti, aveva sempre avuto il presentimento che Reginald avesse trovato il modo di sottomettere Charles, di piegarlo al proprio volere. E, da assiduo frequentatore di bordelli e varie case di piacere, non aveva tardato a collegare i fatti. Il modo in cui quei due passavano la maggior parte del tempo soli, l’atteggiamento di Reginald, amorevolmente viscido e severo allo stesso tempo… li aveva riconosciuti nei modi degli eleganti gentiluomini inglesi con le loro puttane.
Gesù. A volte la prendevo sul ridere, ma in certe occasioni pensare a quegli avvenimenti mi faceva solo sentire peggio. – Devono essere qui, ma non credo verranno all’esecuzione. Esporsi a tal punto? No, credimi. Non sono così stupidi, purtroppo per noi.
Non lo dissi a Thomas, ma ne ero felice. L’idea di un ulteriore faccia a faccia con Reginald e Charles mi ripugnava. Bastava liberare Connor prima che spirasse, portarlo via, tornare alla tenuta. Tutti e tre. E organizzarsi.
Strofinai i palmi sudati sui calzoni. – Va bene – sussurrai estraendo il pugnale dall’elsa orientaleggiante che mi aveva venduto un ladro. Qualcosa come duecento sterline – letteralmente un furto – ma ne valeva la pena, perché era davvero un bel pezzo di metallo. Affilato, lucente, liscio come il vetro. Quando lo vidi tra le mani del mio mercante non potei fare a meno di tornare con la mente alle decorazioni nell’harem di Damasco. Lo comprai, prendendolo come un omaggio a mia sorella e alla sua morte. L’avrei usato per evitarne un’altra.
– Tieni – feci, porgendoglielo dalla parte della lama. – L’onore di lanciarlo spetterà a te.
Thomas mi guardò con gli occhi sgranati, parevano due biglie. – Dici sul serio, Haytham? Non preferiresti… farlo tu?
Sospirai. – Dimostrami che posso fidarmi di te, Thomas Hickey – risposi con mezzo sorriso in faccia. La verità era che stavo tremando. Letteralmente. Ricordavo che Thomas, ai tempi in cui eravamo ancora un Ordine unito ed efficiente, aveva una mira migliore della mia, persino da ubriaco. Magari a forza di vedere doppio aveva imparato a concentrarti meglio su un punto e colpire nel segno era diventato più facile.
Reclinò il capo, rigirandosi il pugnale tra le mani. – È un Assassino – grugnì, e mi lanciò un’occhiata di sottecchi. – So che non puoi lasciarlo morire, ma è assurdo. Diavolo, anche questa collaborazione lo è. Non negarlo, Haytham.
Sollevai le mani. – Credi forse che abbia altre scelte? – Lo guardai sogghignando. – Non ce ne sono. Con me o con Reginald, e sappiamo bene che lui non ha intenzione di prendere sotto la propria ala qualcuno che non sia Charles. – Già, aveva preferito lasciare gli altri quattro allo sbaraglio, senza nemmeno sapere che cosa passasse loro per la testa. – Anche perché mi pare di aver capito che sei dalla mia parte.
– Lo sono, credimi – disse con uno sbuffo – ma guarda tutto questo dall’esterno. Stai agendo come un pazzo. Pensi che questa sia la cosa migliore da fare? Non potevi lasciarmi uccidere Washington?
Dio, perché quel ragazzo doveva porre così tante domande? A volte l’avrei voluto un po’ più pecora. A volte, eh. – Thomas, lo vorrei fuori dai piedi almeno quanto te, ma ammazzarlo ora significherebbe mettere le redini in mano a Reginald. Non voglio che accada.
Ridacchiò. – Quindi lo fai per spirito di contraddizione, più che altro.
Mi conosceva bene. Sorrisi di rimando. – Sei sveglio. Credi di essere in grado di farlo?
Scrollò le spalle, scoccandomi un’occhiata colma d’irritazione. – Porco demonio, non sono così stupido.
Abbassai lo sguardo con un sorriso triste. – Tieniti pronto a combattere, comunque – gli dissi passando il pollice lungo il filo della lama. – Non si sa mai.
Seduti sul tetto della ex-fattoria come due poveri idioti, eravamo intenti – almeno, io lo ero – ad osservare gli uomini al lavoro sul patibolo. Il palco era già quasi completato, un altro gruppo di guardie stava inchiodando assi e ciocchi di legno con tutta calma. Sembrava che la notte fosse lì tutta per loro, che avessero l’eternità. E, in effetti, speravo davvero che la mattina successiva non arrivasse mai. Se Thomas si fosse sbagliato e Reginald fosse stato in quella piazza a guardare mio figlio morire… che reazione avrei avuto? E lui, invece? Magari mi avrebbe ucciso, o almeno avrebbe tentato di farlo. Oh, no. Piuttosto avrei indossato un’armatura, ma non potevo permettere che mi uccidesse. Andiamo, stavo facendo una buona azione! Voler mandare all’aria anche una delle mie rarissime buone azioni è un’idea decisamente crudele, persino per uno come Reginald.
Sentii Thomas sospirare. – Gesù, capo, non posso andare a farmi una birra?
– A quest’ora? – chiesi senza guardarlo. Speravo che a uno di quei soldati venisse un attacco di cuore. Così, giusto per interrompere l’operazione. Sarei potuto saltare giù e ammazzarli tutti. E non c’è impiccagione senza forca, giusto? 
Potreste ribattere che per la mia impiccagione erano bastati il ramo di un albero e una corda, quindi ho torto. Ma vorrei ricordarvi che quell’esecuzione non era andata esattamente a finire bene, per concludere dicendo che, come al solito, ho ragione io. – E che c’è di male? – replicò Thomas Hickey. – Le taverne sono aperte.
Roteai gli occhi. – È piena notte.
– Allora perché non dormiamo un po’, eh? – disse sollevando le mani. – Almeno tu, capo.
– Sì, così puoi andare a farti la tua stupida birra senza che ti dica nulla.
Il mio socio si mise una mano sul cuore. – Parola d’onore, capo, giuro che ti sveglierò in tempo. Dai, sembri un vecchio straccio. Qualche ora di sonno non potrà farti che bene. – Non aspettò nemmeno il mio parere, era già in piedi, strofinandosi le mani sui calzoni e infilandole velocemente nelle tasche dei calzoni. Ne tirò fuori una banconota. Falsa, pensai vedendo il sogghigno sul suo viso. Cazzo, Hickey, si vede così tanto che non dormo da due giorni?
Sbuffai sonoramente. – Mi aspetto di essere svegliato almeno un paio d'ore prima che inizi questa pagliacciata, Thomas. Sono stato chiaro?
Il ragazzo sollevò una mano nel saluto militare e s'incamminò lungo il tetto. – Dormi bene, capo. Ci vediamo dopo. – E sparì, saltando nel nulla oltre la grondaia con la naturalezza di chi lo faceva da sempre.
Rimasi solo sul tetto, intento a fissare il buio e i soldati al lavoro. Probabilmente una birra non avrebbe fatto poi così male nemmeno a me, ma ciò di cui avevo una maggiore necessità era il sonno. Da quanto non facevo una dormita decente, eh? L'ultima notte in un letto comodo era stata prima di partire per New York. E non era nemmeno stata così tranquilla. In quel periodo ero stritolato nella morsa dell'ansia per la morte di John, ferrea come le ganasce di un alligatore.
Devo ammettere che mi fidavo di Thomas Hickey, o, più precisamente, dovevo fidarmi di lui. Charles mi aveva detto che era stato lui ad abusare di Tiio e sgozzarla, per cui cercavo di non pensare a Thomas in quei termini, per quanto certe volte si dimostrasse inevitabile. Era Hickey, il mio socio. Non lo stupratore o l'assassino. Se le parole di Charles avessero rovinato l'unico rapporto decente che ancora avevo con un Templare… Gesù Cristo, sarei proprio andato a cercare una grana. Non ne avevo bisogno. Assolutamente no.
Trovai un punto abbastanza comodo – il che, parlando di un fottuto tetto, è piuttosto indicativo – e chiusi gli occhi, facendomi cullare dal rumore dei martelli e delle seghe che tagliavano le assi di legno. Come se l'impiccagione di mio figlio dovesse essere effettuata con una tecnologia perfetta, una forca all'avanguardia e magari anche qualche innovativo sistema di apertura della botola, invece di quella leva obsoleta.
Dio, i coloni credono di essere diversi dai britannici, ma devo ammettere – a costo di apparire patriottico – che la grandezza tecnica e la competitività in questo settore sono caratteristiche molto inglesi.
Questo mi fece ripensare a casa, all'Inghilterra. Sarà che avevo viaggiato molto, ma non ero mai stato davvero colpito dall'architettura o dalle strutture delle carrozze londinesi come lo ero stato nel corso dei miei viaggi. Il castello francese in cui ci rifugiammo io e Reginald aveva un proprio fascino diroccato, così come la Corsica, Damasco – una città bellissima, nonostante tutto – e le Colonie avevano caratteristiche proprie. Cose che a Londra davo per scontate.
Ripensai alla casa della mia infanzia, nella piazza della Regina Anna, e ora che ci faccio caso non riesco a ricordare l'aspetto della facciata prima che andasse a fuoco. Anche dell'interno ho pochi ricordi. La stanza dei giochi – ancora ho i brividi, maledizione –, l'ingresso della servitù in cui mi nascondevo per giocare, le scale e la porta degli alloggi di Edith. Oh, e la porticina che dava sul giardino dei Barrett. Come dimenticarla? Ero lì quando Reginald decise che era giunto il momento di recuperare il suo stupido libro e strappare un bambino di dieci anni da suo padre.
Immaginando di ripercorrere quelle scale e di abbracciare ancora i miei genitori, mi addormentai. 

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Capitolo 35
*** L'esecuzione. ***


Datemi sei righe scritte dal più onesto degli uomini, e vi troverò una qualche cosa sufficiente a farlo impiccare. 
(Attribuita a Armand-Jean du Plessis de Richelieu) 

– Cazzo!
Una precisazione. Ho detto di avere fiducia in Thomas Hickey, ma avrei fatto meglio a cucirmi la bocca. Lo dico col senno di poi, dato che mi svegliai sbattendo il torace contro una grondaia, un colpo che mi fece schizzare tutto il fiato fuori dai polmoni.
Improvvisamente sotto i miei piedi non c'era più il tetto della dismessa fattoria e le costole sembravano non avere la forza di sollevarsi e riempire il petto d'aria.
Avevo gli occhi aperti, ma non vedevo altro che un'enorme, luminosissima macchia bianca. Forse ero solo morto e quella era la famosa luce alla fine del tunnel.
No, un momento. Non credo che in quel tipo di tunnel ci sia un tale fracasso. Udii una donna gridare "A morte il traditore!" e in cuor mio maledissi Thomas Hickey, sbattendo le palpere per scacciare la macchia bianca. Mi sentii artigliare per un piede e Thomas apparve nel mio sfuocato campo visivo. – Ti tengo, capo – grugnì, cercando di tirarmi verso di sé. Mi resi conto di essere aggrappato alla grondaia con entrambe le mani, un piede scalciante nel vuoto e l'altro incastrato nel semicilindro di rame, il polpaccio stretto tra le mani di Thomas. – Ti avevo detto di svegliarmi – sibilai a denti stretti, puntellandomi sui gomiti per risalire sul tetto. Il caos attorno a noi era inimmaginabile, urla, lanci di oggetti, insulti che volavano e gridi patriottici in favore di Washington. L'attenzione doveva essere tutta sul condannato. Chi mai avrebbe fatto caso a un uomo sul punto di precipitare giù da un tetto, in quella confusione?
– Dammi la mano – bofonchiò Hickey con scarsa convinzione.
– Faccio da solo – ringhiai, scrollando la gamba per liberarmi di lui. – Pezzo d'imbecille che non sei altro.
Thomas sollevò le mani in un gesto stizzito. Lui! Gli avevo chiesto una cosa, sant'Iddio, una cosa. E faceva pure l'offeso se rifiutavo il suo aiuto? – D'accordo, capo, mi dispiace, forse mi sono fatto un po' più di una birra e sono crollato, ma siamo qui, no? – sfoderò il pugnale e si mordicchiò l'interno della guancia, forse per concentrarsi, mentre finalmente recuperavo stabilità issandomi sul tetto. – Andiamo, non gli hanno nemmeno ancora infilato il cappio! Direi che siamo in orario.
Sollevai gli occhi al cielo con esasperazione. Non avesse avuto un compito tanto importante gli avrei mollato uno scappellotto. Scrollai il capo e lanciai un’occhiata sotto di noi, sulla Delancey’s New Square.
Il patibolo era stato montato in maniera eccelsa, come un forte britannico: costruito per durare, compatto, forse se avessi passato la mano sulla struttura verticale della forca le mie dita non sarebbero nemmeno state intaccate da qualche scheggia. Pura ostentazione. Pareva una sfida tra ragazzine invitate alla festa di un giovanotto affascinante: entrambe le fazioni erano prese da loro stesse, disposte a tutto per far colpo su quel pubblico schizzinoso ma al tempo stesso tanto facile da plasmare, la folla. "Guardate, noi patrioti abbiamo le forche più resistenti!", "L'Esercito Britannico ha le divise più belle!", e così via. Non era solo uno scontro per dimostrare quale controparte sapesse usare il moschetto nel miglior modo, no. L’attenzione era rivolta a tutte quelle scaramucce su chi se la cavasse meglio nell'artigianato, la tessitura, la costruzione di forche. Insomma, le stelle più luminose nel firmamento della vita quotidiana.
Un mare di persone – letteralmente, pareva una distesa infinita – occupava lo spazio della Delancey's New Square tra la fattoria in disuso su cui eravamo appostati, la strada e il patibolo. Tutti gridavano, prede della furia, dell'eccitazione e in minima parte dello spirito politico. Mezza dozzina di soldati circondava il ragazzo che identificai come mio figlio, già sui gradini del patibolo. Una donna – lasciatemelo dire, certamente aveva del fegato, oppure era scappata da un manicomio – lo aveva afferrato per i capelli e gli stava sputando addosso mentre i soldati trattenevano le risate. Li vidi spingerla via con delicatezza e buttare Connor lungo disteso sul patibolo con un calcio nel didietro tutt’altro che delicato.
Da buon padre quale sono, ammetto che se non fossi stato in quella situazione sarebbe venuto da ridere anche a me. Era... divertente, sì, in un certo qual modo. Vedere quel ragazzino, che da anni pensava di avere tutto sotto controllo, certo che tutti fossero dalla sua parte, innocente, per di più, in punto di morte e detestato dalla folla... aveva il suo lato ironico. Se posso dire qualcosa a mio favore è che mi sono sempre sforzato di salvare il lato frivolo, per non dire stupido, delle situazioni difficili. In qualsiasi caso. Tranne, be', quando si trattava di gatte troppo difficili da pelare.
A essere sincero una parte di me – la solita, stupida ed ingenua parte da Assassino – voleva pensare che questo non fosse uno di quei casi. Che per una volta, solo una, sarebbe andato tutto secondo i piani.
– ...in nome del nostro beneamato comandante in capo, George Washington, la cui vita, già devastata quanto e in maniera notevolmente maggiore rispetto a quella di tutti noi dalle prepotenze della guerra contro la Corona, è stata messa ulteriormente a rischio da questo criminale! Questo selvaggio privo di senno, un uomo miserabile a cui non interessa nemmeno della terra su cui vive! – Un soldato stava strillando come un ossesso, leggendo il discorso – a dir poco di parte, ma ritengo sia scontato – che avrebbe preceduto la morte di mio figlio. Grandioso. Mi sono sempre chiesto perché non impicchino i condannati senza tante cerimonie. Poi, solitamente una parte di me tende a ricordare che quelle litanie mi hanno salvato la vita per due volte, quindi ben vengano. – Pertanto, l'Esercito Continentale e il suo comandante in capo George Washington, supervisori delle Colonie in nome di Dio e di Suo figlio Gesù Cristo, hanno l'onere, il peso, la difficoltà  e il dispiacere di annunciare, col cuore pesante...
– Cristo, ma quanto dura? – Thomas passò le dita sulla lama, tamburellando sul metallo lucido con lo sguardo esasperato al cielo.
– Zitto. Ci sono quasi, credo.
– ...a morte.
– Alleluia. – Thomas tirò indietro il braccio per prepararsi a lanciare. – Nel vero senso della parola. Guarda, s'avvicina il sacerdote.
Fu il mio turno di roteare gli occhi. – Thomas – lo richiamai, lamentoso. – Concentrati, piuttosto. E sta' zitto.
Un uomo avvolto nella toga, piuttosto sdegnato e al tempo stesso stupito – suvvia, stava facendo il segno della croce e chissà quale inutile benedizione a un indiano con gli occhi colmi di disprezzo e terrore, non esattamente la quotidianeità – si era avvicinato a Connor, salmodiando e agitando la mano a destra e a manca. – Ci siamo quasi – mormorai torcendomi le mani. – Quando abbasseranno la leva aspetta qualche secondo. – Un soldato in uniforme blu scacciò violentemente il sacerdote, aizzato dalla folla urlante ed eccitata. Il mio cuore saltò un battito mentre il patriota si calava un cappuccio scuro sulla testa e faceva scrocchiare le nocche. – Qualche secondo, capito? Non mezzo minuto. Devi essere preciso e veloce.
– Sì, sì, ho capito. Dio santo! Credi che sia un idiota, per caso? Un fottuto senzapalle? E porco…
Clang. Trasalii. – Thomas – dissi in un sibilo, e nello stesso istante lui si voltó verso il patibolo circondato da una marea di esseri umani urlanti. – Ah! – Non riuscii a trattenere un gemito sorpreso. Connor era precipitato nel vuoto sotto il patibolo, scalciando, acclamato dalla folla come un eroe, il cane favorito della corsa. Santo cielo. Lancia. Non riuscivo a fare altro che pensarlo. Lancia. Almeno all'inizio. – Thomas!
Il braccio di Hickey disegnó un arco perfetto e il coltello partì sfavillando nel cielo sopra la Delancey's. Fu come se il tempo fosse rallentato e la lama dovesse attraversare la melassa per passare sopra le teste di quel mucchio di imbecilli e mozzare la corda. Vidi il dardo volare in uno scintillio argenteo, attraversando la piazza con una traiettoria perfettamente diritta, passando proprio dove la corda tesa stava fermando il respiro di mio figlio, ostruendo le sue vie respiratorie e stringendogli il collo in una morsa letale.
La lama stava volando su quell’angolo di New York, dove pareva si stesse svolgendo un’antica cerimonia trionfale. Di quelle in cui lo sconfitto è trascinato per la città in catene.
Il coltello roteò un paio di volte nel vuoto, silenzioso, ammaliante e letale, un dardo divino che aizzò le urla vendicative della folla.
Il tutto pochi secondi prima di mancare il bersaglio.
Il pugnale andò a conficcarsi nel legno della forca. La corda intatta stava trascinando Connor all’altro mondo.
Sentii i tendini della mandibola mollare come cime abbandonate al vento. Mi voltai verso Thomas e riconobbi sul suo viso la mia stessa espressione terrificata, colma di consapevolezza e rammarico. – Ah, merda! – sbottai. Non sapevo se definirmi esasperato o disperato.
– Mi dispiace – lo sentii sussurrare. Il tempo sembrava scorrere ancora piú lentamente, sempre più, fin quasi a sembrare fermo. – Mi...
Eccolo davanti a me, le mani tremanti nell'aria solida, le labbra che si muovevano tanto lentamente da non permettermi di capirlo. Il mio cervello, invece, si sforzava di lavorare in fretta, per quanto possibile. Da un lato stavo per scoppiare in una risata isterica, perché tutti quei guai erano decisamente troppi per la vita di una sola persona, dall'altro sentivo gli occhi bruciare per la medesima causa. Come mai non me ne andava mai bene una? Perché c'era sempre qualche maledetto imprevisto, cazzo? E, soprattutto, ora? Che fare? Non avevamo altri pugnali e lanciare una spada sarebbe stato pericoloso e controproducente. Quindi? Mio figlio stava morendo, il suo peso spingeva sul cappio trascinandolo giù, giù, giù, metaforicamente e non. Sarebbe morto. I miei sforzi? Buttati al vento. I miei sacrifici erano stati inutili. Tutta la fatica che avevo fatto, l’immane quantità di merda tiratami addosso da Assassini, Templari e vari terzi...
– Haytham! – strillò Thomas Hickey, la voce acuta come quella di una ragazzina. La guancia bruciante mi riscosse dal torpore, per non dire che mi sconvolse un po': Thomas mi aveva dato un ceffone. Mi aveva davvero mollato un ceffone. Mi massaggiai la guancia con la mano, osservandolo. Potevo leggere l'ansia e la paura nei suoi occhi. – Sta morendo, cazzo! – Non riuscii a trattenermi e scoppiai a ridere, lanciando un'occhiata verso il patibolo. Scalciava ancora, la corda tesa come quella di un violino.
Feci schioccare la lingua mentre Thomas mi guardava sconvolto. La mia risatina si spense. – Ho un'idea – sussurrai annuendo tra me. Non riuscivo a credere che Thomas Hickey avesse assunto quel tono spaventato parlando della morte di mio figlio quando solo il giorno prima lo aveva sfottuto e aveva quasi dato fuoco alla sua cella. Aveva forse capito quanto, nostro malgrado, quel dannato ragazzino fosse importante? E chi lo sa. – Ho un'idea, Thomas – ripetei a voce piú alta.
Ancora una volta, fui spinto ad agire solo dalla rabbia. Ero furioso. Lo ammetto. Furioso per quella dannata concatenazione di eventi, per tutti i guai in cui finivo per cacciarmi anche quando provavo ad essere buono, seppur con qualche secondo fine.
Presi Thomas sottobraccio e saltai giú dal tetto, tirandomelo dietro. Atterrammo aggraziati ai margini della folla esultante: certi emettevano acute urla sgraziate, altri inveivano contro la Corona, qualcuno omaggiava Washington e un crocchio un po' isolato lanciava insulti alla comunità Mohawk, una scenetta che altrimenti mi avrebbe fatto sorridere. Quello semplicemente non era il momento di preoccuparsene. – Fa' il giro e va' sotto il patibolo – sibilai guardandolo negli occhi. Sfoderai la spada e la tenni stretta, la mano abbandonata lungo il fianco. – Quando cadrà, allontanalo un po' e dagli un'arma.
– Allontanarlo? E come...
Lo zittii con un cenno. Le chiacchiere da sala da tè sarebbero venute dopo. – Vai, Thomas. E muoviti.
Sparì, risucchiato dalla folla, e lo stesso feci io, infilandomi nei varchi per avvicinarmi più velocemente al patibolo, strusciando contro ventri, schiene, gambe, corpi di sudici contadini che aspettavano solo lo spettacolo gratuito del mattino, donne singhiozzanti – e allora perché diavolo stavano a guardare? Bah, chi le ha mai capite – e uomini fieri e composti come colossi di bronzo, tutti d'un pezzo, che cercavano di assumere un'aria saggia. Qualcun altro raccoglieva scommesse su quando avesse smesso di scalciare – mi diede una certa speranza – e pensai che se non fossimo stati coinvolti a tal punto Thomas sarebbe sicuramente stato parte di quel gruppetto. – Permesso – ringhiavo a destra e a manca, rifilando gomitate e spintoni. Avevo una possibilità, se fossi stato abbastanza veloce. E, per spirito, sapevo di doverlo essere. Non tanto per il ragazzo o per la Mela, quanto per far capire a Reginald che non avrei mai smesso di combatterlo. Se, come credeva Thomas, era in città, avrebbe saputo.
Giunto davanti al patibolo di legno, quando un soldato in blu mi parò la visuale, affondai la spada nel suo ventre senza nemmeno pensarci. Cadde mentre saltavo sul palco.
Le grida si fecero piú intense, qualcuno allungó la mano per afferrarmi e portarmi giú. Stavo rovinando lo spettacolo – o rendendolo decisamente piú interessante, la versione che preferisco. Mollai un calcio sui denti di un contadino dalle mani veloci mentre i soldati cercavano di farsi strada attraverso la folla, come me, ma ora nessuno si sarebbe smosso tanto facilmente. La gente voleva guardare, doveva stare a guardare.
Tutta questa pappardella fu il pensiero di un istante, nella mia testa. Allungai velocemente il braccio della spada e mozzai la corda. Quella si agitó come una frusta, un serpente in agonia, e Connor sparí tra le braccia di Thomas Hickey, sotto le struttura di legno. Le grida crebbero d'intensità e per qualche secondo non ebbi la minima idea di cos'avrei dovuto fare.
Poi si udí un urlo piú forte degli altri, dal fondo della piazza. Un grido furioso che nessuno poté ignorare. – Kenway! – Tutti si voltarono in quella direzione, compreso il sottoscritto. Essendo piú in alto avevo una visione agevolata, ma il sangue mi si geló nelle vene quando vidi l'uomo che aveva strillato salire su una cassa e abbassarsi il cappuccio, mostrando il volto spossato dalle fatiche di guerra e quei ciuffi ritti di capelli bianchi che uscivano dal tricorno, l'indice accusatorio puntato verso di me.
Che idiota. Mi ero consumato il cervello chiedendomi se Reginald, Charles o entrambi si sarebbero fatti vedere, ma non avevo pensato alla presenza piú ovvia, quella del diretto interessato.
Il comandante in capo dell'Esercito Continentale, accerchiato da soldati patrioti, mi stava indicando dal fondo della piazza con una voce straordinariamente potente e tonante per quell'età. – É lui! – gridó ai suoi soldati e al popolo. – Lui ha cercato di uccidermi!  
I visi del popolo parvero disorientati, mentre cercavano di riportare alla mente la faccia stampata sui manifesti di qualche tempo prima. I soldati in giubba blu continuarono a farsi strada per raggiungermi. Che lo facciano, pensai scaldando le spalle. Mi voltai a guardare George Washington, solo lui, occhi negli occhi, abbozzai un sorriso e portai la mano alla fronte nel saluto militare.
Allora saltai nell'apertura della botola con fare teatrale.
– Complimenti! – fece Thomas, poggiando l’orecchio sul petto di mio figlio e mollandogli uno schiaffo in pieno viso. – E tu, vedi di svegliarti! – tuonò a pochi centimetri dalla sua faccia. Infilò a forza le sue dita nel cesto di una spada. Una gran bella spada, lunga, lucida e affilata. Chissà a chi l’aveva fregata. – Alzati e combatti, altrimenti qui siamo tutti morti!
Mi spolverai la redingote mentre i soldati si spintonavano per passare sotto il giogo di legno. – Calmati, Thomas – dissi con noncuranza. – Basta che resti vivo.
– Calmarmi? – La rabbia di Hickey virò pericolosamente verso di me. – Dovrei calmarmi, Kenway? Siamo circondati da soldati, cazzo! Tu e le tue idee geniali. Guardati intorno. Non c’è uno di quegli uomini che non voglia ucciderci. E, a proposito, capo, grazie!
Tesi l’orecchio. Che stesse zitto, per una volta. – Di cosa? – I patrioti si stavano avvicinando, sicuro. Non mi sarei fatto cogliere di sorpresa. Sentivo lo scalpiccio dei loro piedi mentre cercavano di contenere la folla e, al tempo stesso, avvicinarsi a noi.
Thomas rise. – Per avermi ispirato! Gesù, se ci penso è tutta colpa tua. Se non avessi provato ad uccidere Washington…
Reclinai il capo, scoccandogli un’occhiata carica di sarcasmo. – Stai dicendo che sarebbe colpa mia? – Giuro su Dio che stavo per tirargli un pugno. – Certo. Mi ero dimenticato che avessi sei anni e necessitassi costantemente dell’esempio di un adulto. Vedi di crescere, ragazzo! – Non potevo davvero credere che mi desse la colpa per un’azione di cui era il solo responsabile.
Si girò verso di me con i denti scoperti. – Fottiti!
– Sto tremando di paura! – ruggii di rimando, afferrandolo per la giacca e spingendolo via. – Cazzo! Sveglia quest’idiota e andiamocene.
– E come pensi di…
Un soldato calò dal cielo, esattamente come avevo fatto io. Lo afferrai per la caviglia mentre era ancora a mezz’aria, lo mandai a sbattere sulla nuda terra e affondai la spada nel suo petto. Thomas Hickey non riusciva a staccare gli occhi da me, disgustato. – Muoviti – ringhiai nuovamente. – Per adesso ci penso io.
Storse la bocca e mi voltò le spalle. Mi sistemai in posizione di difesa. – Cristo, se non si sveglia sarò costretto a pisciargli addosso.
Scrollai le spalle. – Tutto quello che vuoi.
Allora i soldati dell’Esercito Continentale cominciarono ad attaccare, come se il mio ordine valesse anche per loro. Sentii Thomas imprecare e tirare fuori l’uccello – non sto scherzando, giuro, vorrei avesse usato un altro metodo, ma era pur sempre Thomas Hickey – mentre due soldati correvano verso di me con le spade sguainate. Indietreggiai mentre quei due sembravano giocare a morra per decidere chi avesse dovuto vedersela con me. Non concessi loro una scelta e morirono quasi nello stesso istante, uno con lo sterno spezzato dalla lama celata, l’altro per un fendente che gli recise la gola.
Altro sangue. Avrei voluto pensare qualcosa come Gesù Cristo, quanto ancora potrò sopportarne prima che la mia coscienza si sporchi?, ma la verità è che non provavo niente del genere. Non mi sentivo in colpa per tutti quegli innocenti. Il sangue rappresentava la quitidianità, più o meno. Ci ero abituato. D’altro canto non ho fatto altro che uccidere per tutta la mia vita. O fingere di farlo, quando mio padre mi addestrava.
Spinsi via entrambi i corpi e scrollai le spalle, aspettando altri passi. Vidi mio figlio rizzarsi a sedere sputacchiando mentre Thomas smetteva di pisciare, ridendo come un matto. – Puttana Eva! – bestemmiò Hickey tra le risate. Sorrisi anch’io guardando Connor piegarsi in due per vomitare senza nemmeno riuscirci. Probabilmente si era perso il lauto banchetto che si offre per tradizione ai condannati a morte.
Sto scherzando. Per l’amor del cielo, state diventando peggio degli Assassini.
– Gesù – sussurrò Connor, fulminandomi con lo sguardo e raccogliendo la spada che aveva fatto cadere a terra durante il suo attacco di conati sforzati. – Ti sembrava il caso? – tossì, e ancora una volta scrollai le spalle con un gran sorriso.
Durò poco, ormai dovevo aspettarmelo. Ne arrivarono cinque o sei, dopo aver spedito a gambe all’aria una donna che si era sistemata in prima fila – e di certo non aveva intenzione di fermarli. Assistere a uno spettacolo del genere da vicino non era una cosa da poco, anzi. Doveva essere eccitante, visto dall’esterno. Pensandoci, sarei dovuto essere terrorizzato.
Spaccai il cranio di un uomo come fosse un melone maturo, il sangue e le cervella si riversarono sulla terra sotto il patibolo. Un altro mi finì addosso, e impalarlo fu terribilmente facile. Ricordo che un soldato provò a mozzarmi il braccio e risposi facendo scorrere il filo della sua arma sulla lama celata per avvicinarlo a me, poi gli tranciai la gola. Altri uomini, vite che diventavano corpi. Nessun viso nella mia mente. Connor si difendeva alla bell’e meglio – lo vedevo flettere il polso nudo d’istinto, probabilmente maledicendosi tra sé e sé per riporre fiducia in una lama che non sarebbe mai scattata – e Thomas sembrava divertirsi un mondo. Sanguinava da una coscia, ma era in piedi e saltellava come un artista teatrale, mulinando la spada e dando stoccate a chiunque osasse avvicinarglisi.
Abbattemo altri soldati, chissà quanti, prima che si formasse un varco e riuscissi a infilarmi. – Andiamocene – sibilai, cominciando a correre giù per la strada. Eravamo nella zona più nuova di New York, in un certo senso, l’ultima in cui fossero stati costruiti edifici. – Venitemi dietro! – ringhiai, continuando a scendere verso la Broadway. La scelta più stupida che potessi fare, lo so, ma dissi a me stesso che avrei svoltato al più presto, prima di Bridewell, prendendo la parallela che seguiva i moli. Saremmo scappati.
Thomas s’affiancò a me, lo sguardo determinato nonostante il continuo flusso di sangue che gli bagnava i pantaloni. Non mi lanciò nemmeno un’occhiata, anzi. Irrigidì la mascella e continuò lungo la sua strada senza zoppicare. Mi superò. E, a bocca aperta, seguii il suo sguardo.
Lungo la Broadway – ormai era in procinto di sbucare nella Common, la piazza di fronte a Bridewell – un uomo correva per allontanarsi da noi. Lo stesso uomo che mi aveva cacciato in quel guaio, la redingote blu svolazzante e una mano in testa per impedire al tricorno di cadere nella corsa. Thomas mise via la spada e tirò fuori la pistola, controllando la polvere e caricandola mentre correva, rallentando appena l’andatura. Merda, pensai. Aveva un piano, lui. Istintivo, abbozzato e stupido.
Di quelli che in genere funzionano.
– Thomas! – gridai, vedendolo correre ancora più in fretta. Era vicinissimo. Lo vidi chiaramente digrignare i denti e mirare. Aveva dalla propria l’età, l’esperienza e la posizione. Stava serrando gli artigli sulla gola della preda.
Ero lì quando Thomas Hickey affondò il dito sul grilletto, sparando un colpo tra le scapole di George Washington, comandante in capo dell’Esercito Continentale, che cadde a terra come un albero malato, faccia nella sabbia. – Oh, Cristo – sussurrai stupito, fermandomi. – Thomas…
Hickey non si voltò verso di me. Non mi aveva sentito. Prese a camminare, ricaricando la pistola. Si stava avvicinando a George per infliggergli il colpo finale. L’avrebbe ucciso, se Connor non fosse accorso in aiuto del suo eroe strattonando Hickey per la giubba. Il colpo andò a vuoto e Thomas si ritrovò stretto nella morsa delle poderose braccia di Connor, ruggendo come un cinghiale ferito. – Lasciami! – Connor m’indirizzò con gli occhi una muta richiesta d’aiuto, trascinandolo verso di me. – T’ho detto di lasciarmi, lurido bastardo!
Mi avvicinai e lo afferrai per un braccio, cercando di calmarlo. – Thomas, adesso basta. Non è il momento giusto per…
– Adesso lo difendi? – Gli occhi di Thomas lanciavano fiamme. Quello era lo sguardo di un uomo sul punto di crollare. – È colpa sua, Haytham! – Stava forse per scoppiare in lacrime? – È tutta colpa sua! Se fosse morto insieme a Braddock sarebbe tutto diverso! Perché non lasci che lo uccida? Perché? Sei dalla sua parte? Mollami!
Riuscii a resistere. Fortunatamente era ferito e debole, altrimenti non so quanto sarei riuscito a trattenerlo. Le sue parole erano sensate, le mie azioni… nemmeno più di tanto. Non volevo salvare Washington, facevo il minimo per impedire che la situazione ci crollasse ulteriormente addosso. – Thomas, lo faremo, quant’è vero Iddio che lo ammazzerai, te lo giuro, ma…
– Codardo! – Thomas mi sputò in faccia. – Sei un maledettissimo codardo! Tu e tutta quanta la tua stirpe! Sei solo un fottuto codardo che non vuole affrontare la realtà! Soltanto… – Gesù, ora sembrerò ridicolo, ma vidi sul serio una lacrima di rabbia scorrere lungo la guancia di Hickey. Non sto scherzando. – Codardo – disse di nuovo. Non era senza dubbio il miglior insulto che potesse scegliere, ma vederlo tanto adirato mi impressionò. Soprattutto perché aveva ragione e lo stavo negando con il mio comportamento. La mia coscienza riconosceva la verità nel suo delirio iracondo, ma la ragione si sforzava di non dargli retta.
Connor lasciò che me ne occupassi io, scappando per leccare le ferite di Washington, quel maledetto imbecille. E io? Cos’avrei dovuto fare? Se George mi avesse visto lì con il suo attentatore avrei passato dei guai. Ne avevo abbastanza, sinceramente.
Sospirai, chiamando a gran voce Connor un’ultima volta. – Ci vediamo alla tenuta – dissi mentre teneva gli occhi inespressivi fissi su di me. Annuì, poi gli voltai le spalle. Thomas singhiozzava con la testa poggiata nell’incavo del mio collo. Probabilmente nemmeno lui sapeva più cosa fare. Era un criminale disperato, costantemente braccato dalla giustizia e da me, dal suo passato. Voleva solo porre fine alla vita dell’uomo che aveva fatto cominciare quella stupida reazione a catena. Non c’era motivo per disprezzarlo, anzi. Aveva forse il modo di agire più coerente, tra tutti noi.
Mi costrinsi a smettere di pensarci e lo strinsi a me, un braccio attorno al suo fianco, incamminandomi lungo la banchina. Qualcuno avrebbe pur dato un passaggio a due disperati, no? Date una sterlina in più ai capitani e le rotte sulle cartine si plasmeranno secondo i vostri desideri.
 
– Sant’Iddio! – ‘Giorno anche a te, Bob. – Che diavolo è successo?
Sospirai, sollevando le mani come a dire che nonostante tutto eravamo ancora in piedi. Dovevo avere un aspetto terribile. Avevamo affrontato il viaggio di ritorno da New York rinchiusi nella stiva di una nave, senza cibo e senza grog. Il capitano – un avvoltoio della peggior specie – mi aveva a malapena concesso delle bende pulite per fasciare la coscia di Thomas, che mi seguì giù per la passerella reggendosi a un bastone.
Non avevo fatto parola di quanto accaduto a New York, non ero dell’umore adatto. E non avevo certo intenzione di riferirlo a Robert Faulkner. – Posso evitare di parlarne? – dissi invece, mollandogli una pacca sulla spalla. – E, vecchio, se hai del grog lo accettiamo volentieri.
Roteò gli occhi al cielo. – Maledetto figlio di puttana, mi finirai le scorte, di questo passo! – S’allontanò verso la casa e guardai Thomas. Non sembrava più il ragazzo superficiale che conoscevo, tutto birra e sesso. Appoggiato a quel bastone come un vecchio, sembrava anche infinitamente più saggio, distrutto dall’interno, disperato. Poveraccio. Ripensando a tutto ciò che avevamo passato, capii che doveva essere stato un brutto colpo. Nessuno lo aveva mai perseguitato, aveva ucciso molti uomini ma senza un vero scopo, semplicemente perché erano d’intralcio, e l’unico cristiano che voleva tra le proprie mani era semplicemente intoccabile per miei ordini. Una brutta situazione, già.
– Andrà tutto bene – mormorai, affondando le dita nella spalla di Thomas. – Beviamo un po’ e ce ne andiamo.
Hickey annuì debolmente mentre Bob tornava con tre bicchieri e una bottiglia impolverata. Aveva evitato di portare il nipotino ficcanaso, questa volta. – Ecco qua – disse abbandonandosi sulla sabbia. – Ma sappi che non si beve senza una spiegazione, Kenway. – Lo ignorai, avvicinando una sedia per Tom. Credetemi, non l’avevo mai visto con una cera così brutta. Scavato, pallido, pareva essersi consumato. I suoi occhi si erano spenti, non aveva nemmeno più la forza di essere sarcastico. Forse aveva bisogno di una dormita, mi piaceva pensarlo. – Ecco qua.
Sospirai, accettando il bicchiere. – Lui è Thomas. Un amico – bofonchiai, indicandolo prima di tracannare il liquore con un brivido lungo la schiena, la naturale risposta del mio corpo. Sollevai una mano verso Bob prima che potesse cominciare a farmi il terzo grado. – Per piacere. – L’ultima cosa che volevo sentire era l’ennesima paternale su cosa avrei dovuto fare, chi sarebbe stato meglio fosse morto e stronzate del genere.
Bevemmo in silenzio. Sentivo lo sguardo di Faulkner scavare nel mio alla ricerca di risposte, e feci di tutto per tenerlo fuori. Thomas mandava giù il grog come fosse nettare, assaporandone ogni goccia e sospirando dalla soddisfazione. – Dov’è Connor? – chiese finalmente Robert. Aveva capito che dal mio silenzio non avrebbe ricavato nulla ed era passato all’attacco.
– È rimasto a New York con Washington. Doveva risolvere una certa faccenda.
– Che tipo di faccenda?
Thomas Hickey si alzò, poggiandosi al suo bastone provvisorio. Avevo sempre pensato a lui come il mio bastone della vecchiaia. Ironico. – Andiamocene, Haytham – sibilò con astio. Si tenne il boccale stretto al petto, notai con un sorriso. – Sei un Assassino, vero?
Bob si limitò a guardarlo attraverso gli occhi stretti, spostando rapidamente le iridi azzurre su di me. Come attirare l’attenzione: corso accelerato dell’illustre professor Thomas Hickey. Mi passai le mani sulla faccia, braccato. – Siediti, Tom – dissi spostando la sedia per lui. – E Bob non è un Assassino. Non ufficialmente.
Sputò a terra e portò il boccale alle labbra. – Lavori con loro, vivi con loro e adesso bevi pure la loro merda. – Mi lanciò contro quelle parole con tutto l’odio possibile, ma mi parve di scorgere una scintilla nei suoi occhi. Si stava ubriacando. Quello era il normale atteggiamento di Thomas, niente di cui preoccuparsi. – Magari ci scopi pure e non me lo vuoi dire – disse con più leggerezza, abbandonandosi sbracato sulla sedia e facendomi trasalire.
Se gli fosse scappato qualcosa su me e Reginald davanti a Bob, la vergogna sarebbe stata inimmaginabile. Io tenni la bocca chiusa, ingoiando un altro sorso di grog per non mostrare il pallore delle mie guance. Il liquore sembrava gelare le viscere, invece di riscaldarle. Robert Faulkner intervenne in mio aiuto con una risata per nulla naturale. – A proposito, Haytham, io non posso offrirvi nulla di più del grog. Se vuoi un altro tipo di intrattenimento ti toccherà andare a Boston. – Lo guardai con tutta la mia gratitudine e sorrisi, sollevando il boccale nella sua direzione.
– Veramente – dissi, serio e ansioso di andarmene da lì, – avremo bisogno di un passaggio per la tenuta. Thomas non può cavalcare, non ridotto così. E sinceramente sono troppo stanco per farlo. Un carro, un calesse, va bene qualsiasi cosa. Vorrei… dare la notizia ad Achille prima che arrivi Connor. – Gesù, sembrava fossi una donna sul punto di annunciare alla suocera di essere incinta. Santo cielo.
Robert scrollò le spalle. – Mi pare che King stia andando laggiù per vendere ad Achille un paio di libri. Gli dirò di aspettarvi. – Calò di nuovo il silenzio. Thomas non faceva altro che lanciare occhiate sospettose e sprezzanti a tutto ciò che lo circondava, io sentivo la testa girare al ricordo dell’Old Avery, la taverna in cui avevo bevuto rum con mio padre in un sogno. Sorrisi, pensando che prima di morire avrei dovuto portare Connor a bere.
Quello beveva? Non mi ero mai preoccupato di chiederglielo. – Allora, Thomas – eruppe Bob in un altro stupido tentativo di conversazione – di cosa ti occupi esattamente?
– Sono un amico di vecchia data di Haytham – rispose, restando sul vago. – Avevo un piccolo giro d’affari a New York. Sai, mi occupavo di prestiti e… ahi! – Gli mollai uno scappellotto sul collo prima che potesse offrire a un alleato degli Assassini il suo stupido denaro falso. – Vedi di calmarti, capo! – esclamò massaggiandosi  la pelle arrossata. – Stavamo solo chiacchierando.
Lanciai un’occhiata comprensiva al capitano, che scoppiò a ridere. – Bene. Mi pare di capire che Kenway debba sembre rompere i coglioni in qualche modo a noi gentiluomini – disse Faulkner facendomi l’occhiolino. Un occhiolino amichevole, fortunatamente. Quel gesto, da parte di chiunque, faceva correre i brividi lungo la mia spina dorsale. – Dico bene?
– Altroché! – Thomas rise fragorosamente, rischiando di rovesciarmi il grog addosso. Non era ubriaco, probabilmente voleva solo dimenticare per un attimo, un misero attimo, tutto il resto. Si trovava davanti ad un uomo che non voleva intromettersi nei problemi delle fazioni e non si sarebbe messo a parlare di politica, meglio approfittarne. – Questo maledetto demonio arriva sempre al momento meno opportuno.
– Be’ – m’intromisi trattenendo un singhiozzo. Io sì che mi stavo ubriacando. – Non è vero per niente. Ti ho salvato la vita.
Thomas roteò gli occhi. Roba di poco conto, pareva dire. – Allora, Bob – intraprese un nuovo argomento con tono confidenziale – tu di che ti occupi, invece? Vendi questa roba alle giubbe rosse?
Robert rise. Per grazia divina, sembravano due cani in calore. – Nah, non hanno il fegato di farsi vedere da queste parti. Io navigo, ragazzo! – esclamò, indicando con enfasi l’Aquila ancorata nella baia. Il mercantile che ci aveva portati fin là aveva dovuto calare una lancia per non speronarla, col rischio di far affondare entrambe le navi. Poveraccia, probabilmente quel giorno si era presa più insulti che in gran parte della propria esistenza. – Ora non è al massimo della sua forma, ma ai bei tempi… filava come una freccia, credimi.
– O un pugnale. – Hickey mi guardò di sottecchi e scoppiò a ridere rauco, battendo il palmo sul tavolo. Quello sì che era un buon metodo per dimenticare i problemi.
Mi alzai in piedi mentre Bob si univa alla sua risata. – Cristo, se volete organizzo la festa di fidanzamento – brontolai reggendomi alla sedia. Non dico che ci vedevo doppio, ma quasi. – Allora, quando parte questo King? Stasera? O… – barcollai e per poco non precipitai faccia nella sabbia. E da quando in qua non reggevo l’alcool? Boh, forse era stata colpa di quel viaggio sfiancante.
– Suvvia, Haytham, non ti reggi in piedi! – Altre grasse risate da parte dei due piccioncini. – Forza, va’ a dormire. Domani partirete per Davenport, lavati, puliti e rasati come due onesti gentiluomini inglesi. – Mi tirò su, afferrandomi da sotto l’ascella, e mi diede uno schiaffetto sui favoriti. –  Probi. E… gentili. – Neppure lui sembrava in ottima forma, a dire il vero. Biascicava, gli occhi vitrei come biglie. – Soprattutto… tu! – Indicò Hickey con l’indice e una risata roca.
– Bob, forse… – Mi appoggiai a lui con un gemito. – Forse dovremmo andare tutti a fare un sonnellino. Dico bene, Tom?
Il mio socio scrollò le spalle, tracannando altro grog. Ci stava prendendo gusto, il giovanotto. – Penso proprio di sì, capo. Vieni, Bob – sibilò alzandosi con l’aiuto del bastone. – Andiamo a dormire. Ninna nanna, ninna… burp. – Rise.
– Che classe. – Sollevai gli occhi al cielo, ma in fondo mi era mancato. – Ah, Bob, non farci dormire fino a mezzogiorno. Il tuo grog è probabilmente il migliore che abbia mai assaggiato, ma sei troppo vicino agli Assassini perché possa fidarmi dei tuoi gusti in fatto di cucina. 

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Capitolo 36
*** Tra santi... ***


«Sai cos'è peggio di un uomo cattivo? Un uomo cattivo che si crede un eroe.» (Dow il Nero)
– Joe Abercrombie, L'ultima ragione dei Re.

Dormii come un sasso, esausto, il viso affondato in un guanciale e probabilmente la bocca mezza aperta. Non ci furono sogni fastidiosi o affascinanti, semplicemente il buio più totale e un profondo silenzio per qualche ora. Pace. Tutto ciò di cui avevo bisogno.
Al mattino, però, la situazione non era così tranquilla. – Cristo santo!
Ecco come mi rizzai su dal letto. Con Thomas che scagliava qualcosa a terra lanciando insulti e bestemmie contro Connor. Doveva aver viaggiato con chissà quale vento favorevole, perché nessuno che conosca è mai riuscito ad arrivare da New York ai pressi di Boston in così poco tempo. Ad ogni modo, buttai le gambe giù dal letto e uscii dalla povera camera di casa Faulkner con la faccia ancora stropicciata dal sonno. – Non smetterà di cercarmi, lo capisci, pezzo di merda?
Appena varcai la soglia della cucina adibita anche a sala da pranzo un bicchiere pieno si schiantò contro lo stipite, all’altezza della mia faccia. – E buongiorno a me! – esclamai, sollevando le braccia intorpidite. Fossimo stati all’esterno avrei sputato a terra con disprezzo. – Che ci fai tu qui?
Non ebbi nemmeno bisogno di guardarlo bene. Conoscevo una sola persona contro cui Thomas poteva prendersela in quel modo, ed era mio figlio. Indossava ancora la casacca sbrindellata e un consunto paio di calzoni, tenuta cui aveva aggiunto una giacca pesante e un paio di stivali. Non aveva più le lame celate, ma una spada – lunga, dritta e con l’elsa a coccia, tipicamente inglese – che penzolava lungo il fianco, gli zigomi gonfi e tinti di viola. – Ti sei comportato da codardo – disse Connor, e sbuffai d’istinto. Che noioso. – Mi hai lasciato lì a liberarmi delle accuse senza nemmeno darmi una mano.
– Già, immagino che tutti avrebbero ascoltato il ricercato colpevole del primo attentato, ma come ho fatto a non pensarci? – Mi grattai ancora la testa, lanciandogli un’occhiataccia. – Hai fatto del tè, per caso?
– Non sono la tua cameriera – rispose con le braccia incrociate.
Sospirai, avvicinandomi alla credenza scardinata e scavando nelle ante alla ricerca del tè. – Allora – biascicai – pare sia stato difficile recuperare la fiducia di George. Racconta, su, sono tutt’orecchi. – Mi voltai un attimo verso Thomas, guardandolo imprecare a mezza voce e abbandonarsi nuovamente su una sedia, il colorito spento e l’aria preoccupata. – Faulkner?
Scrollò le spalle. Non sarebbe stato dei nostri, non quella mattina. Aveva detto di essere dalla mia parte, eppure era scappato appena sentita la puzza di uno scontro. Sperai avesse un motivo più che buono per essere uscito, altrimenti era davvero un ipocrita. – Gli ho detto la verità. – Ah, Connor. Agiva sempre per il bene del gruppo. Del suo maledetto gruppo. – Che ha tentato di ucciderlo e che hai cercato di dissuaderlo. L’ho convinto a lasciarvi in pace, ma non dovrete mai più avvicinarvi a lui.
– Stronzate! – sbottò Thomas, agitando il bastone nella sua direzione. – Quel cane farà di tutto per avere la mia testa. Non hai pensato agli strilloni o ai suoi collaboratori? Capo – si rivolse a me, capendo che dal ragazzo non avrebbe ottenuto niente. Non era in grado di capire. – Se Charles spifferasse qualcosa e mettesse di nuovo Washington sulle mie tracce… saremmo fottuti.
– Non lo farà – disse Connor con calma. Non riuscivo a trovare il tè in nessuna di quelle stramaledette antine: mi stavo agitando non poco. – Fidatevi di me, per una volta. Avete ammazzato alcuni dei miei uomini – sibilò. I suoi uomini, certo, giovanotti incapaci di combattere e ammaliati dalle parole di Achille, tanto stupidi da sottostare agli ordini di un idiota di quelle proporzioni. Mio figlio non sapeva nemmeno distinguere le cose importanti da quelle che si sarebbero potute rimandare. – Non ho alcun interesse nell’aiutarvi, ma George Washington è stato misericordioso. Vi ha concesso la libertà a patto che non mettiate il naso nella politica del Paese.
Scoppiai a ridere. Ecco perché andavano tanto d’accordo, lui e George. – Misericordioso? Devo ricordare quello che ha fatto a… – Ero sul punto dire a tua madre, e le mie pupille scattarono d’istinto su Thomas. Quella convivenza aveva un costo, dunque. L’idea di collaborare con l’assassino e lo stupratore dell’unica donna che avessi amato sul serio, il senso di disgusto ma la necessità di averlo accanto. Avrei dovuto convivere con quei sentimenti, nasconderli senza lasciare che prendessero il sopravvento. Non potevo perderlo, sarebbe stato come darla vinta a Reginald. E ne aveva già vinte troppe. – …al tuo villaggio? – ripresi, deglutendo rumorosamente. – Per non parlare del fatto che abbiamo già messo il naso nella sua politica. Chi crede di avere accanto, una principessina? È così cieco da non riconoscere un anello da Templare quando lo vede? – Risi, scrollando il capo. – Allora non ho tutti i torti a pensare che sia un inetto.
Connor si scaldò le spalle, un gesto a metà tra l’essere casuale e provocatorio. – Ringrazia che non ti abbia già sparato, Haytham.
Allargai le braccia. – Avrebbe potuto farlo in più di un’occasione. Non ti sei mai chiesto cosa lo abbia fermato? – A dire il vero, be’, non ci avevo mai pensato più di tanto nemmeno io, ma capii. Non mi aveva ucciso perché aveva bisogno dell’appoggio degli Assassini. La Confraternita confidava a tal punto in lui da proteggerlo. Chiunque avesse anche solo provato a toccare George Washington con un’arma, in passato, era morto. O, nel nostro caso, era una sottospecie di alleato – colto dalla disperazione, vorrei aggiungere – e non poteva essere tolto di mezzo.
Un comandante in capo che s’appoggiava ad un mucchio di ragazzi con la testa piena di fumo. Esattamente ciò di cui avevamo bisogno. – Fatto sta – disse Connor senza rispondere alla mia domanda – che Washington non sarà più un problema.
Ma io lo voglio morto, pensai. Tempo al tempo. – Pensiamo alle cose più serie, invece. – Poggiò le mani aperte su tavolo, lanciandomi un’occhiata di sottecchi. Uh, che atteggiamento da politico. Che autorità! Mi tremavano le ginocchia, giusto. Imbecille. Era un ragazzino che giocava a fare il militare, il filosofo e l’uomo di Stato nello stesso momento. Non sarebbe arrivato da nessuna parte, finché fosse rimasto fedele agli Assassini, ai loro ideali e modi di insegnare. – Achille poteva a malapena tollerare un Templare in casa. Due sono decisamente troppi.
Thomas Hickey sbuffò, reclinando il capo. – Per me non è un problema alzare i tacchi, mezzosangue. – Abbassai lo sguardo. Quell’appellativo, alternato a bastardo, era diventato il modo consueto in cui il Templare si rivolgeva a Connor. Con disprezzo, certo, ma non per il suo essere nativo. Per l’altra parte, o così mi piace pensare. Thomas lo chiamava mezzosangue perché s’ostinava, nonostante il sangue inglese e templare che portava nelle vene, a rifiutare il proprio lato più Kenway. Voleva essere la mia antitesi, perciò si comportava come sapeva che non avrei mai fatto.
Non voleva essere mio figlio. Scrollai mentalmente le spalle. Volevo essere suo padre? Non mi stavo certo comportando nel modo giusto per dimostrarlo, quindi direi di no. Ero in una posizione di stallo, troppo Templare per accoglierlo tra le braccia da bravo paparino ignorando la sua fazione, troppo orgoglioso per ammettere che non era l’atteggiamento giusto. E va be’.
– Tu non vai da nessuna parte, Hickey – dissi tra i denti, girando attorno al tavolo e calando la mano sulla sua spalla. – Dopo tutta la fatica che ho fatto per portarti qui sano e salvo, cazzo, prova a scappare e ti spezzo le ossa, come minimo.
Connor si schiarì la voce per richiamare l’attenzione. – Come la speghiamo questa, Haytham?
– Dicendo la verità. Puoi dirla a Washington e non ad Achille? Io sarei offeso – ribattei, lanciando un’occhiata alle unghie – le quattro unghie – della mia mano sinistra con falsa noncuranza. – Preferisci che il generale uccida Thomas? O peggio, che Reginald lo metta contro di noi?
– Non sono un traditore, capo – grugnì Hickey. No, hai ragione. Però infili l’uccello in qualsiasi cazzo di buco Reginald ti dica di infilarlo. Scacciai quel pensiero a forza. – Non io, almeno.
Sospirai, rivolgendomi nuovamente a Connor. – Credimi, ragazzo, è meglio avere qualche alleato dalla nostra.
Incrociò le braccia. – Dalla tua, intendi.
– No – replicai. Ecco, cosa dicevo a proposito di non riconoscere le cose futili da quelle importanti? Colto in flagrante, ragazzo. – Stiamo collaborando. Finché vogliamo la stessa cosa, il mio alleato è il tuo alleato. – Thomas non pareva tanto entusiasta dell’idea, ma non lo ero nemmeno io. Bisogna essere poco schizzinosi, in questi casi. – Sta funzionando, Connor. Per quanto ti sforzi di credere che siamo troppo diversi per lavorare insieme, è esattamente quello che stiamo facendo. E ci avviciniamo alla meta.
Sembrava un bambino di otto anni. – Non è vero – disse, lamentoso. – Non è vero. Il mio scopo è uccidere i Templari, tu hai solo delle stupide manie di grandezza su quel tempio. Non lavoriamo per la stessa cosa.
– E chi te l’ha detto, Achille? Roteai gli occhi. – Dai ancora ascolto a quel vecchio? Non sei abbastanza grande da prendere una cazzo di decisione, Connor? – Mi veniva la nausea solo a guardarlo. I Templari volevano sottomettere il mondo, ma quegli ipocriti degli Assassini non esitavano a sottomettere i loro adepti. – Se non avessi – avessi, io – deciso di lavorare insieme a te stareste brancolando nel buio alla ricerca dei miei uomini. E sai cosa succederebbe? Reginald e Charles Lee sarebbero sempre più culo e camicia, inattaccabili e sul punto di prendere la Mela mentre tu e i tuoi amici buffoni ci fate fuori, distruggendo le uniche persone che potrebbero ribellarsi ai folli piani di conquista messi in atto da Birch. – Presi fiato, passandomi una mano lungo le sopracciglia. – E allora sarebbe una guerra tra te e lui, Connor, e lo giuro su Dio, credimi quando ti dico che non la vinceresti mai.
Mi lasciai cadere su una sedia, e il silenzio avvolse la sala da pranzo. Nessuno dei due aveva il coraggio di parlare. Connor mi diede la schiena, mordicchiandosi furiosamente il labbro superiore. Stava per piangere? Mi avrebbe gridato contro? Me ne fregava qualcosa? Appoggiò la fronte all’anta chiusa della credenza mentre Thomas mi rivolgeva un sorrisetto d’approvazione e incoraggiamento. Stavo tremando, per quanto forse né l’uno né l’altro se ne fossero accorti. Avevo detto che Connor non avrebbe mai vinto contro Reginald, e quel pensiero stava instillando in me l’idea che fossi altrettanto debole. Ed era vero, in effetti. In passato non ero riuscito a distruggerlo, per questo stavo lottando. Smettila, dissi a me stesso. – Che si fa? – brontolai svogliatamente, per spezzare la tensione.
Connor si passò il dorso della mano sotto il naso, voltandosi di nuovo a guardarmi. – Torniamo alla tenuta appena la carrozza sarà pronta.
– Una carrozza? – Thomas Hickey fece schioccare la lingua. – Bello.
Sorrisi. – E poi?
Mio figlio strinse i pugni, due fessure al posto degli occhi. Aveva il labbro superiore arrossato, notai. – Troveremo la Mela e metteremo fine a questa storia.
 
– Capo?
Thomas Hickey. Maledetti siano lui e la sua dannatissima insonnia. – Che succede? – brontolai con la bocca impastata, girandomi su un fianco nonostante fossi seduto. Connor si era preso tutto il sedile di fronte, sdraiato come un principino, ma io e Thomas dovevamo dividercelo. Perciò si dormiva da seduti.
– Devo pisciare.
– Oh, Cristo… – Sollevai una mano e la battei sulla parete alle mie spalle, un pannello di legno che mi separava dal cocchiere. I cavalli si fermarono e Thomas spalancò la portiera, facendo entrare uno spiffero gelido all’interno della carrozza. – Stupido stronzo – ringhiai chiudendola e stringendomi nelle spalle.
Definirla carrozza è un’esagerazione. Era più che altro una scatola di legno sgangherata, le giunture male assortite, i cardini cigolanti e i sedili in cuio duro, assolutamente indegni di questo nome. Non ci si riusciva nemmeno a dormire. Le sospensioni dovevano essere state montate male, perché sobbalzavamo pericolosamente ogni due per tre, e un paio delle assi che chiudevano il fondo della diligenza erano separate da un varco largo come il palmo della mia mano, garantendo l’entrata di un altro spiffero. Favoloso.
Holden sì che sapeva guidare una carrozza. E, diavolo!, quella era una signora carrozza, non come la specie di mezzo di trasporto che Achille forniva ai lavoratori nella sua tenuta. Avevo il presentimento che, di lì a poco, il tetto ci sarebbe crollato sulla testa e il baule pieno di armi nuove di zecca – comprese due lame celate che Bob Faulkner aveva trovato chissà dove – di Connor mi avrebbe ucciso, schiacciandomi il cranio in una poltiglia di ossa e sangue sul cuoio consunto.
– Dio – Thomas rientrò soffiandosi sui pugni, la cintura mal infibbiata. – Fa un freddo cane lì fuori.
Scrollai il capo e gli diedi le spalle; aveva scelto il momento sbagliato per fare conversazione. Volevo solo chiudere gli occhi, sperando che Achille non ci buttasse fuori dalla carrozza con un coltellaccio in mano. Connor aveva ragione. Portare un altro Templare davanti ad Achille poteva avere risvolti inaspettati, ma era la mia unica possibilità. Volevano me? Avrebbero avuto anche Thomas. O tutto o niente, miei cari Assassini.
Con la testa poggiata al vetro appannato, pensai di essere a un passo dal chiudere gli occhi, cullato – si fa per dire – dal movimento discontinuo della diligenza, ma Hickey non sembrava l’unico in vena di chiacchiere, quella sera. Connor, infatti, emise un sospiro, rigirandosi sul suo sedile.
Sentirlo mugugnare mi fece ribollire il sangue nelle vene, d’accordo? – Che cazzo hai da lamentarti? – grugnii con le gambe intorpidite. – Sei al sicuro. Il vecchio non proverà a farti secco appena metterai piede in casa, non sei un ricercato e hai un sedile tutto per te. Io starei zitto, al tuo posto.
Non aveva colto il sarcasmo, così finì per alzarsi in piedi, reggendosi alla maniglia. – Vuoi il mio posto? – Sì, e magari mi chiami anche papà, vero? Scossi il capo. Se era un modo per farmi cambiare atteggiamento, be’, carta giocata male.
– Allora lo prendo io. – Thomas non se lo fece ripetere due volte, lanciandosi spensierato sulla seduta, le gambe tese e una mano sulla coscia. – Ah. ‘Fanculo, la prossima volta me la faccio a piedi.
– Mi sa che hai ragione – sibilai mentre Connor si sedeva accanto a me, il respiro controllato. Non aveva intenzione di chiudere gli occhi. – Hai fatto un brutto sogno, ragazzo?
Thomas scoppiò a ridere. Attraverso gli occhi socchiusi lo vidi darci le spalle, il viso alla parete lignea della diligenza. – Più che altro è un presentimento – bofonchiò il ragazzo, nessuna emozione particolare nel tono. – C’è qualcosa che non va.
– Non è che sei incinta? – Scoppiai a ridere con Thomas, artefice della battuta. – Santo cielo, bastardo, dovresti bere un po’ di più. – Sentii un tintinnio metallico; Hickey gli aveva lanciato la fiaschetta piena di grog che si era accuratamente fatto riempire da Bob prima della partenza.
Connor la raccolse, silenzioso come un gatto. Riusciva comunque a mettermi ansia addosso. – Piantala di pensare, va bene? Di che si tratta? – Non mi interessavano i suoi problemi, ma prima se ne fosse liberato e prima sarei riuscito a dormire tranquillamente. Che palle.
Non mi voltai nemmeno a guardarlo, ma rispose. – La sento di nuovo, Haytham.
Roteai gli occhi sotto le palpebre. Dio, no. Per piacere. Pensavo che dopo aver preso possesso del corpo di Tic, avermi fatto rivivere il passato per com’era veramente ed essersi intromessa più del necessario nel mio presente, Giunone si fosse trasferita in pianta stabile nella mia, di testa. – In che senso? – Mi pentii immediatamente di aver preso il discorso. Thomas Hickey era lì, e non era uno stupido. Sollevai appena la mano, poggiandola sul braccio di mio figlio. Ammutolì.
Qualche attimo dopo ero nel mondo dei sogni. Il ragazzo, con ogni probabilità, fingeva di esserlo.
 
Fortunatamente eravamo ancora in mezzo alla frontiera, quando mi svegliai. L’ira di Achille – ironico, ripensando al mio rapporto con l’Iliade – era rimandata, avevo qualche ora di meritato riposo prima di ricominciare la routine. Dare spiegazioni, controllare i movimenti degli Assassini, cercare di portarli verso di me, sollevare gli occhi al cielo davanti ai Figli della Libertà, schioccare la lingua e commentare con sarcasmo la cucina di Connor – le tipiche, faticose attività di un ospite della Confraternita.
Ma non prima di aver parlato con mio figlio riguardo Giunone. Feci fermare il cocchiere – un uomo con la barba scura più grossa della faccia e le labbra sempre serrate – in una zona boscosa decisamente fitta, quindi trascinai Connor giù, svegliandolo di soprassalto con la scusa di andare a pisciare. Grazie, Tom. – Che stai architettando? – chiese, venendomi dietro con gli stivali che rumoreggiavano sulle foglie secche. E pensare che, in qualità di indiano, sarebbe dovuto essere lui quello in simbiosi con la natura e stronzate simili. – Haytham?
– Chiudi quella boccaccia e seguimi senza fare casino.
Sbuffò. – E se perdiamo la diligenza?
Sollevai un sopracciglio. Sarcasmo? – Costruirai una bussola con una foglia e guiderai entrambi verso la salvezza, ragazzo, come fai sempre. Forse il tuo sangue nativo sarà utile, per una volta. – Proseguii nella boscaglia, scostando rami con le mani e scacciando nugoli di animaletti con i calzari. – Santo cielo. – Preferivo la neve, era molto più comoda, per muoversi in quella zona.
– Bene – feci, una volta trovato il punto giusto. – Direi che questo posto è abbastanza tranquillo. – Portai le dita alla cintura e, con un movimento fluido, sganciai la fibbia. – Forza. Ti riferivi a Giunone, sulla carrozza?
Rimase zitto mentre ero sul punto di tirare fuori l’uccello. – Gesù, sembri una verginella timorata di Dio – ringhiai, voltandogli le spalle per pisciare sulle foglie secche. – Allora? Così va meglio?
– Sì.
Roteai gli occhi. Sarei dovuto essere io quello inquietato dalla prospettiva di vedere un altro membro maschile a distanza ravvicinata, non lui. Crescere con sua madre non l’aveva solo reso un Assassino, a quanto pare. Quindi è colpa tua se è così pappamolla, Tiio. Complimenti, pensai con un sorrisetto. – Grazie per aspettarmi, ragazzo, sono così stupido da non riuscire ad ascoltarti e pisciare nello stesso momento – esclamai, esasperato. – Vuoi darti una mossa?
Connor prese fiato. Lo sentivo camminare avanti e indietro, alle mie spalle. – Non è ancora finita.
– No, infatti. Senti che scroscio? – Sono un bravo padre, eh?
Il bello è che più andavo avanti a sfotterlo e meno sembrava accorgersene. – No, è quello che ha detto Giunone. Non è ancora finita. – Sospirò. – Non so di cosa parlasse, Haytham, ma sono preoccupato. Che può significare?
Lasciai che le ultime gocce di piscio intaccassero le foglie, poi rimisi tutto a posto nei calzoni, sistemando la fibbia. – Con me non hanno parlato – dissi semplicemente. – Non è giusto.
– Forse non hanno niente da dirti.
– Ehi, è egocentrismo quello che sento nella tua voce? Pensavo predicaste l’esatto contrario. – Sbuffai, irritato. – Dico solo che io devo pregarle per avere informazioni pressappoco inutili mentre tu non hai nemmeno bisogno di schioccare le dita. Insomma, è…
Connor mi squadrò con le sopracciglia aggrottate. Uno sguardo che bastò per far crollare le mie parole come un castello di carte sgangherato e farmi rendere conto del terribile errore commesso.
Cazzo. Perché continuavo a dare aria alla bocca? ‘Fanculo. Ormai… – Sono entrambe nella mia testa – sbottai prima che potesse porre la domanda. – Di solito, almeno. Parlano tra loro, mi mostrano cose, e di tanto in tanto si degnano di rivolgermi la parola. – Non aspettai nemmeno la risposta, continuando il mio discorso. Pensavo che se gli avessi lasciato la possibilità di parlare sarei rimasto sopraffatto dalle sue domande, non sarei riuscito a tirarmene fuori, sarei crollato a terra in ginocchio e gli avrei confessato tutto sugli abusi di Reginald, piagnucolando come un bambino. – Credo si riferisca a qualcosa che pensi di aver concluso. Non si tratta della caccia alla Mela, perché non è nemmeno cominciata, né della tua folle corsa omicida verso i Templari. – Ma non tutti, ovviamente. Uno in particolare spettava a me.
– Ne manca ancora uno, vero? – sussurrò.
– Benjamin Church, ma nessuno sa dove sia, quindi… – allargai le braccia e scrollai le spalle, proseguendo. – Che cosa resta? Di cosa ti stavi occupando?
Incrociò le braccia. – Degli affari delle Colonie. Gli interessi dei patrioti. – Parlava come se fosse il suo unico fine, superiore addirittura al catturare gli uomini che un tempo chiamavo fratelli e scaraventarli all’altro mondo.
Lo superai, passandogli accanto e dirigendomi nuovamente verso la carrozza. – Ecco fatto, tutto qui – dissi semplicemente. – Non è ancora finita – ripetei, rivolgendogli un sorrisetto sghembo.
Sul suo viso apparve un’ombra. – Che cosa…?
– Con Washington – sussurrai, il volto reclinato e gli occhi fissi sullo sprazzo di cielo visibile tra le cime degli alberi, i rami tesi come se volessero afferrare l’azzurro. Non m’aspettavo che Connor capisse cosa volevo intendere, così schioccai le dita come un pastore davanti ai cani e m’incamminai di nuovo verso la carrozza. – Tu devi pisciare? Hai bisogno di sgranchirti le gambe o di piagnucolare tra i cespugli? – Affondai le mani nelle tasche, guardandolo con un ghigno. – Posso sempre chiedere a Thomas di tirartici fuori e minacciarti di morte. Sai, in memoria dei vecchi tempi.
Mi guardò con disapprovazione, poi si allontanò nella direzione opposta. Chissà, magari stava davvero andando a piagnucolare tra i cespugli. Io ne approfittai: salii sulla carrozza e occupai un intero sedile, stendendo le gambe e godendomi il momento.
 
– Un’altra volta.
– Anche per me è un piacere – replicai sventolando il cappello. – Thomas Hickey, ti presento Achille Davenport, proprietario di quest’adorabile località, Mentore degli Assassini e pessimo cuoco. Immagino che Thomas non abbia bisogno di presentazioni. – Roteai gli occhi e abbassai la voce, brontolando tra me: – C’è un suo gran bel ritratto appeso al piano di sotto.
Thomas, scapigliato e con la bocca ancora impastata per la dormita, tese la mano con il suo solito ghigno. Achille la fissò per qualche minuto, come se fosse il più schifoso mucchio di letame mai visto da anima viva, sollevò un sopracciglio e mi scoccò un’occhiataccia senza stringergliela. – Il piacere è tutto mio – grugnì Thomas con un risolino. – Bella casa, comunque.
Achille fece mezzo giro su se stesso, piazzandosi a una spanna dal mio viso. – Grazie – rispose, gli occhi piantati nei miei. Pensavo fosse sul punto di mollarmi uno spintone e mandarmi a gambe all’aria nel terreno fangoso della tenuta. Me lo aspettavo da un momento all’altro. Invece mi afferrò il polso sinistro, sollevandolo con disgusto. – Sei indegno della fiducia degli Assassini – sibilò tra i denti. Avrebbe voluto uccidermi. Glielo leggevo negli occhi. Picchiarmi pesantemente, almeno.
Purtroppo per lui, non poteva permetterselo. E anche se ci avesse provato, l’avrei spedito all’altro mondo con qualche colpo ben piazzato. Mi dava una certa soddisfazione, lo devo ammettere. Come replica a quel suo commento da acido, spiegai le labbra in un sorrisetto. Lasciò andare il mio polso con stizza e si voltò, rientrando in casa tra le imprecazioni.
Thomas fece scrocchiare il collo. Si appoggiava ancora a quello stupido bastone, ma immagino lo facesse solo perché gli conferiva un’aria adulta, quasi saggia. Poi vedevi la bava che gli si formava all’angolo della bocca davanti a una qualsiasi donna e l’idea di trovarsi davanti a una persona seria si tramutava in fottuta polvere. – Un tipo simpatico – disse Tom battendo le mani. – Allora, mezzosangue, avrò una stanza o gli esseri immondi come me dormono nelle scuderie?
Il ragazzo tirò giù dal tetto della diligenza la sua borsa piena di armi, passandoci accanto senza un sorriso. – Non sono scomode come credi, Hickey – fece, varcando la soglia.
Il Templare mi lanciò un’occhiata interrogativa. – Oh, Gesù. – Si strofinò le mani sugli occhi, un gesto esasperato e rassegnato. – Sai, avresti dovuto avvertirmi. Mi sarei fatto un’ultima puttana lungo la strada, prima di arrivare in questo monastero di clausura del cazzo, dove tutti sono dei gran simpaticoni che fanno il bagno nell’alcool e si godono la vita!
Ridacchiai, incrociando le braccia e guardandolo con aria di sfida. – Potresti uscire dal giro e fondare l’Ordine dei Seguaci di Thomas Hickey. Unico codice d’onore? La bella vita. – Roteai gli occhi.
– Sempre meglio di questi – brontolò sfilandosi la pipa di tasca. Pareva essersi affezionato a quell’oggettino. – Sembra camminino con un palo su per il culo.
– Non posso darti torto – risposi con le mani in tasca – ma allo stesso tempo non possono farci del male. Hanno bisogno di me.
Hickey si portò la pipa alle labbra, aspirò una lunga boccata prima di parlare ancora. – Però ti tengono prigioniero. Non è esattamente un punto a nostro favore, no? – Sbuffò il fumo in una nuvoletta compatta. – A proposito, e adesso?
– Adesso un bel niente – brontolai. – Ce ne restiamo qui buoni, sperando che Washington non venga davvero più a cercarci, senza dare nell’occhio e sperando che Reginald venga fatto fuori in un’altra di quelle diavolo di battaglie.
Thomas si rimise la pipa in mano, guardandola come se la vedesse per la prima volta, poi la svuotò e tirò fuori la tabacchiera. In ogni suo gesto c’era una certa metodica lucidità. – Non lo pensi davvero, capo – rispose con un sorrisetto. – Sappiamo che è così.
Lo guardai, facendo il finto tonto. Aveva ragione. Sapevamo tutti cosa volevo davvero. – Tieni. – Mi porse la pipa e un cerino, si appoggiò a quel suo bastone e scrutò l’orizzonte fitto di alberi. Di solito non fumo, ma quando qualcuno mi offre un po’ di tabacco non alzo certo le mani dichiarando che si tratti di uno strumento demoniaco. – Vuoi essere tu a ucciderlo, Haytham. Vuoi che muoia per mano tua.
Soffiai via il fumo speziato. – Lo trovi un desiderio immorale?
– No. – Mi chiese la pipa con un cenno, l’avevo tenuta anche troppo. – Anzi, lo reputo giusto. Tu pensi di non doverlo fare? Che la tua coscienza ne risentirebbe?
– E chi ce l’ha più, una coscienza?
Abbassò lo sguardo. – Già. Ti senti mai un mostro? – chiese, ed ebbi la netta sensazione che mi avesse posto quella domanda solo per sentirmi rispondere di sì. Che potevo comprenderlo, magari, perché certamente lui si sentiva così. Un mostro. Un uomo senza morale, assetato di sangue e disinteressato alla vita di chi sta dall’altra parte della lama o della canna.
Sarò egoista, ma mi sentii libero di rispondere sinceramente, ignorando i suoi desideri. – No. Ho smesso di interessarmi a ciò che provo da un po’. Non so più cosa sia giusto e cosa sia sbagliato. Esistono persone che possono essere risparmiate e altre che devono essere mandate all’altro mondo, ecco quello che so, l’unica certezza al mio fianco. – Sospirai, lo sguardo fisso al cielo azzurro. – Non mi sono mai fermato davanti all’idea di uccidere una persona, fosse uomo, donna o bambino. Ma ogni dannata volta mi chiedevo se ne valesse la pena. Per quale ragione devo porre fine alla tua vita, o a quella di un ragazzino o di un vecchio? – Lo guardai, rivolgendogli un sorriso triste. – Anche se devo ammettere che certe volte mi lascio guidare dall’istinto. Uccidere Reginald sarebbe oggettivamente utile? No, ma voglio farlo. E questo non vuol dire che ci riuscirò. Se significa essere un mostro, Thomas, allora hai ragione. – Mi passai le mani sulla faccia. Avevo appena tenuto una specie di predica a Thomas Hickey, testardo come un mulo e all’apparenza altrettanto superficiale. Aveva una strana luce negli occhi, notai con le dita nel collo della camicia per allontanare la stoffa dalla pelle. Guardava lontano senza fissare niente in particolare. Oh, no. No, no, no. Non andava bene. Non andava affatto bene.
Quel ragazzo mi stava tanto simpatico proprio perché era freddo come il ghiaccio e non aveva paura di niente e di nessuno. Se venivo a scoprire che persino lui, nei momenti di maggiore crudeltà, era stufo di quella vita... maledizione, chi mi restava? Nell'Ordine si ammazzava, era un dato di fatto. Morivano molte persone. Se questa vita lo aveva scocciato perché non...
Oh, già. – È per questo che ti sei allontanato dall’Ordine, giusto? – chiesi a mezza voce, fissandolo negli occhi.
– Non ne potevo più – ammise, e non potei fare a meno di ammirarlo. Insomma, il petto mi faceva male, quindi poteva essere ammirazione o voglia di tirargli un ceffone. Un inutile miscuglio di entrambi, magari. Strinsi i pugni. – Uccidere uomini che cercano di fermarci è un conto. Legittima difesa, potremmo definirla. Ma ammazzare delle persone con una famiglia e… e magari dei figli, solo perché sono parte inattiva di una Confraternita devastata che potrebbe distruggerci è completamente diverso, Haytham. – Si voltò a guardarmi torcendosi le mani. – Io non ho dimenticato la caccia, capo. Li abbiamo fatti secchi, stanati nei loro nascondigli ai quattro angoli delle Colonie, uno per uno.
– Thomas… – cercai di interromperlo. Avevamo davvero fatto un sacco di cose poco corrette in quel periodo, ma era necessario. Dovevamo sterminare gli Assassini prima che potessero fermarci. Io stesso avevo tagliato da parte a parte la gola di una donna innocente, impalato un uomo su un attizzatoio e forse, se la memoria non mi inganna, avevo addirittura tagliato la testa di una bambina con la spada per infilarla sul segnavento in cima al tetto, come fosse una picca. Ero stato incivile, sì, forse mostruoso, ma non mi è piaciuto ucciderli. Era lavoro, necessario per la nostra sopravvivenza.
Per poi, ironicamente, essere io il primo a rifornire la Confraternita con i frutti del mio duro lavoro. – Abbiamo fatto cose terribili, lo so, ma…
– Ho impiccato un bambino! – Si voltò ad abbaiarmi contro, un fiammifero acceso ancora stretto tra le dita e gli occhi lucidi. Istintivamente assunsi un’espressione sbigottita. – Hai capito bene, maledetto figlio di puttana, ho impiccato un bambino. – Scagliò il fiammifero lontano, chissà dove in mezzo al bosco, e si piegò sugli avampiedi, in equilibrio precario. La coda della sua giacca sguazzava nel fango. – Non aveva fatto niente. Era piccolo, non più di dieci anni. L’ho… – Si passò le mani in faccia, e da quel punto di vista lo capivo. Voleva solo dimenticare tutto. Come potevo sopportare me stesso avendo agito in quel modo? Come potevo non disprezzarmi nonostante tutto? Ero davvero una pessima persona.
O, semplicemente, tenevo più alla mia salute mentale – probabilmente già andata a farsi benedire – che a un mucchio di fantasmi. Morti erano e morti sarebbero rimasti. Nessuno poteva farci niente. Pentirmi non avrebbe staccato la testa coperta di capelli neri di una bambina da quella stramaledetta banderuola segnavento. – Non te lo ricordi, vero? – ringhiò con lo sguardo lacrimoso. – Gli ho messo il cappio al collo e l’ho tirato su… gli s’è spezzato il collo prima che potesse dire a. Non credo avesse capito quello che… – Strinse i pugni e scrollò vigorosamente il capo. – Io mi sento una merda, Haytham. Mi sentivo un verme, non riuscivo nemmeno più a guardarmi allo specchio.
Per fortuna c'era l'alcool ad annebbiarti la vista, allora. Altrimenti chissà come avresti fatto a tirare avanti. Coglione. Vorrei dirvi di non aver mai pensato cose simili, di averlo compreso immediatamente, perché sapevo che aveva ragione, in fondo. Non posso, non è la verità. Mi faceva incazzare. – E allora? Non fare la vittima! – sbottai, scattando improvvisamente a fronteggiarlo. – Credi di non aver fatto morire di fame altre persone con il tuo stupido traffico di soldi falsi? Che altri uomini non siano finiti in galera per aver usato i tuoi soldi, padri di famiglia, magari?
– Ma non li ho uccisi io! Io non ho fatto niente – bofonchiò sommessamente.
– Sarebbe una giustificazione, Tom? – tuonai, sventolando le mani davanti al suo viso. – Forza, rispondimi. È una giustificazione?
Thomas mi squadrò attraverso le palpebre strizzate. – No. Mi ha fatto sentire meglio, ma tanto a te non interessa niente di nessuno. – Avvicinò il viso al mio, scandendo bene le parole. Voleva minacciarmi? Stupido idiota. – Sei solo un egoista del cazzo. E pensi che ti aiuterò perché mi hai salvato la vita, vero? Hai fatto tutto per te stesso.
– Lo sto facendo perché mi fido di te – replicai, calmo. Non potevo perderlo. Poteva avere ragione su tutta la linea, ma qui sbagliava. Io speravo fosse abbastanza legato a me da seguirmi. Ero egoista, certo, ma, diavolo, all’Ordine ci teneva anche lui, no? Almeno, così mi aveva detto. Sembrava passata una vita. – Hai capito, Thomas? Io ho fiducia in te.
– Smettila di dire stronzate e lasciami in pace – sibilò, scattando in piedi e voltandomi le spalle.
Ah, no. Non gliel’avrei permesso. Lo afferrai per il retro della giacca e me lo piazzai davanti, il muso ringhiante a pochi centimetri dalla sua faccia spaventata. – Tu non vai da nessuna parte, ingrato pezzo di merda – gli sussurrai. – Se sei vivo lo devi solo a me, sono stato chiaro? Metti un piede fuori dalla proprietà e le giubbe rosse ti spolperanno, lasciando la tua testa in mezzo alla strada come una pietra miliare. Anzi, è probabile che vengano a cercarti fin qui per farti la pelle. Vuoi davvero correre un rischio simile, Thomas? Vuoi morire a nemmeno quarant’anni solo per farmi uno smacco? Accomodati! – Lo spinsi, facendolo cadere nel fango. Era steso tremante fra le mie gambe, gli occhi sgranati. – Io lo sto facendo per te. È l’alternativa più sicura che hai, Thomas. Non rischi di essere ucciso, non sei costretto ad uccidere nessuno…
– Non ancora – disse sottovoce.
– Sta’ zitto, per l’amor di Dio. Reginald è disposto a tutto pur di farsi strada. Se non vuoi fare il lavoro sporco puoi anche lasciarlo a quelli con le palle, Thomas Hickey, ma non ti permetterò di fare l’uomo morale.
– Quelli con le palle? – strabuzzò gli occhi. – Credi che uccidere ti renda più uomo, Kenway?
Roteai gli occhi. – Sei steso nella merda a fare discorsi per principi che sai di non poter perseguire. Forse sono un mostro, un sadico bastardo disilluso e senza coscienza, ma almeno ho un po’ più di sale in zucca di te. Sai, Tom, a volte per restare vivo non devi permettere agli altri di fare lo stesso.
– Non posso! – Ecco, mi mostrò i denti in un ringhio disperato e scoppiò in lacrime. Grosse gocce salate gli colavano lungo le guance sporche. – L’ho fatto per troppo tempo – singhiozzò. Era spezzato. – Non posso continuare, capo. Non posso.
Ero diventato una statua di sale. Perdio. Grugnii, mi passai le mani in faccia e tirai un frustrato calcio al fango, facendolo schizzare come le goccioline d’acqua di una fontana. Thomas Hickey era in lacrime ai miei piedi, e per quanto una parte di me volesse lasciarlo lì a marcire, be', sapevo di non poterlo fare. Avevo bisogno di lui, ironicamente, per poter ammazzare Reginald e Ben, e gli serviva la mia protezione per non essere più costretto a uccidere. Era una necessità reciproca. Gli tesi la mano, aiutandolo a rialzarsi. – Va tutto bene, Thomas – sussurrai passandogli un braccio intorno alle spalle. Gesù, potevo passarci sopra mentre frignava come una ragazzina, ma non gli avrei permesso di portare avanti quella storia, lo giurai sulla mia vita. È nei nostri compiti uccidere. Non c’è scritto da nessuna parte, ma è sempre stato così, in fondo. D’altronde gli uomini non cagano fiori, e per quanto riguarda quelli come noi… siamo gentiluomini che ammazzano coprendo tutto con la bella maschera di un grande scopo. Thomas Hickey poteva avere ragione, sentirsi una merda, tutto quello che voleva, ma mi avrebbe aiutato. O sarebbe stato un traditore. Bella compagnia di reietti del cazzo che stavo mettendo su. Sbuffai. – Hai solo bisogno di dormire un po’. D’accordo? Dai, vieni dentro.
Continuò a singhiozzare e a lamentarsi mentre lo trascinavo all’interno della villa. – Non posso – ripeté tra le lacrime. – Non posso più.
 
Forse qualche tempo prima Connor, Achille o entrambi mi avrebbero fatto qualche domanda su Thomas. Su perché fosse crollato in quel modo. Avrebbero detto che la situazione doveva cambiare, o mi avrebbero gridato contro tutto il loro repertorio d'insulti prima di legarmi, imbavagliarmi e gettarmi giù per le scale della stanza segreta, nella speranza che mi spezzassi le gambe e non dessi più fastidio a nessuno.
Invece la villa era come morta. Di mio figlio e del suo Mentore non c’era traccia, probabilmente rintanati in quella specie di cantina, così portai Thomas in una delle tante stanze libere della villa, una proprio accanto a quella in cui avevo dormito per l’ultima volta. Erano piccole camere ordinate, niente di troppo pretenzioso. Misere e trasandate, con la polvere che ispessiva le mensole di un paio di centimetri. – Ecco qua – dissi appoggiando Thomas sul letto, manco fosse un vecchio in punto di morte.
Gli sfilai la giacca, abbandonandola su una sedia, e lo aiutai a levarsi gli stivali incrostati di fango. Si distese con una mano alla fronte. – Mi dispiace – sussurrò, tirando su col naso e continuando a piangere. – Davvero.
Sospirai, guardando le lacrime colare sul cuscino. – Non hai niente di cui scusarti, Thomas. – Sentivo una nota falsa nella mia voce, e pregavo non la sentisse. Ero travolto dalla rabbia. Non potevo nemmeno dirgli di fare come dicevo io e seguire gli ordini, perché, alla fine, io non ero proprio nessuno.
Incredibile. Fosse stato una ragazza, probabilmente gli avrei dato una carezza sulla guancia. Invece era Hickey, l’uomo rude che non aveva mai avuto bisogno di nessuno. Fin quando non aveva deciso che uccidere era sbagliato. E per quanto una parte di me gli stesse dando del senza palle, un’altra non poteva fare a meno di comprenderlo. Era intelligente, ma l’intelligenza e il moralismo non sempre vanno d’accordo. Lui aveva deciso di averne abbastanza, non avrebbe più ucciso nessuno, o almeno così diceva. – Però pensaci bene, Thomas. Se avessi bisogno di difenderti o… se qualcuno ti attaccasse, ci hai pensato? Se Reginald attaccasse entrambi con l’intenzione di non fare prigionieri. Che cosa faresti?
– Sai che tirerei fuori la spada e risponderei d’istinto. L’ho fatto per troppo tempo, Haytham – ripeté con voce lamentosa. – Eviterò di ammazzare chi non lo merita. E farò del mio meglio per non trarne piacere.
Abbassai lo sguardo. Non avevo mai tratto vero e proprio piacere dall’omicidio, ma soddisfazione?, molte volte. Ritengo sia normale, maledizione. Chi di noi non ha mai desiderato uccidere qualcuno, eh? Vogliamo parlare di Edward Braddock? O dell’incessante piacere perverso che provavo all’idea di far fuori Birch? Forza. Siate onesti. – Ora non ha importanza – sussurrai alzandomi in piedi. – Dormi, d’accordo? Riposati un po’.
Si strappò brutalmente le coperte da sotto la schiena. – Che faremo con gli Assassini, capo? – bofonchiò prima di tirare ancora su con il naso.
Uscii dalla stanza con la testa che girava. – Non lo so.

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Capitolo 37
*** ...e falsi dei. ***


Non accadde nulla per mesi. Niente di niente, nemmeno l’ombra di qualcosa d’interessante. Connor andava e veniva insieme ai suoi adepti, ignorandoci completamente. Achille non cucinava nemmeno più, ormai andato in esilio volontario nella stanza segreta, per cui toccava al sottoscritto far mettere sotto i denti della squadra qualcosa che non fosse birra e gallette – il menù che Thomas Hickey aveva sottoscritto da quando le sue ossa erano state sviluppate a sufficienza per reggere un boccale –, riportando in vita la tradizione della cucina inglese.
No, sto scherzando. Cucinava Connor.
E, ovviamente, non perdevo l’occasione per sottolineare la sua indole da donnicciola. Avrei potuto anche cambiare argomento ed evitare di essere tanto monotono, ma ora dirò qualcosa che vi stupirà: alla tenuta non c’era niente da fare. Avevano già tutti i loro compiti, le loro stupide cosette di cui occuparsi. Ingannavo il tempo tirando di spada con Hickey, tanto per fare, ma la maggior parte delle volte finivamo col discutere, lui ribadendo che non aveva intenzione di uccidere più nessuno, io dandogli dell’idiota e mettendo in chiaro che, anche se non avesse più ammazzato – ed era impossibile – le circostanze lo avrebbero costretto almeno a difendersi. Buttare a terra la spada come un fottuto obiettore di coscienza non aveva senso e, soprattutto, lui non aveva l’abilità diplomatica necessaria per azioni di quello spessore. Meglio che continuasse a bere, sputare, palpare e sgozzare senza pietà per poi pentirsi ginocchioni in confessionale.
Quando gliel’avevo urlato contro aveva fatto per darmi un pugno in faccia. – Avresti potuto uccidermi, Thomas! – avevo risposto per sbeffeggiarlo. – I tuoi buoni propositi non durano nemmeno cinque minuti, eh?
Si era rifiutato di parlarmi, affondando il viso in un boccale di whiskey, roba importata direttamente dall’isola di smeraldo e pagata coi bigliettoni falsi di Tom. Motivo per cui il ragazzo si era rifiutato di dividere le proprie bottiglie con chicchessia, a meno che non pagasse profumatamente. Stronzetto.
– Tieni le labbra più attaccate a quell’affare che al corpo di una donna, complimenti – brontolai, entrando nella sala da pranzo per farmi un tè e vedendolo tracannare whiskey direttamente dalla bottiglia. Negli ultimi giorni era stato quasi sempre sbronzo.
La sbatté sul tavolo con stizza. – Trovami una donna degna delle mie labbra in questo buco del cazzo e t’accontenterò, Kenway – mi sibilò contro, pulendosi le labbra con la manica consunta della giacca. – Cristo santo. Se pensi che te ne offrirò sei un maledetto illuso, stronzo.
Scrollai le spalle, sedendomi di fronte a lui con una tazza fumante. – No, grazie, Tom. Non ci tengo a beccarmi un herpes fulminante o simili. – Era più forte di me.
– Fottiti – ringhiò sollevando la bottiglia nella mia direzione, come per brindare alla mia. – Hai qualcosa da dire?
– Ho pestato la merda di un qualche animale mentre rientravo, ieri sera – dissi con noncuranza. La notte mi piaceva uscire da quella maledetta casa e fare un giro nei dintorni. Cacciare un po’, magari. Al contrario di Thomas Hickey, passando del tempo senza uccidere sentivo il bisogno impellente di continuare a farlo. – Un maiale, forse, o un cavallo.
Thomas si fece salire del catarro in gola con un risucchio disgustoso, sputando sul fondo della bottiglia ormai vuota. – Non hanno neanche dei cazzo di stallieri come si deve, qui. – Parlava come fosse il più grande leader della storia, lui, che non era nemmeno riuscito a gestire un traffico di banconote false. – Se fossi il padrone di questo posto, li farei sgobbare per bene.
Sospirai. – Già, tu ci tieni alla pulizia, alla sicurezza – replicai con sarcasmo. – Quella ragazza con cui ti avevo visto anni fa… quella con la febbre gialla… Immagino la stessi accompagnando da un dottore, non è vero?
Roteò gli occhi. – Perché devi sempre essere così stronzo, Kenway? – disse, lamentoso.
Mi riesce facile, avrei risposto, ma in quell’istante la nostra amichevole chiacchierata venne interrotta da quella montagna di ragazzo che portava il nome di Connor: attraversò l’ingresso di corsa e piombò nella sala da pranzo come un toro, sbattendo sul tavolo un paio di fogli di carta con tanto impeto da farmi quasi versare l’intera tazza di tè bollente addosso.
Lo guardai con la fronte aggrottata. – Da’… Dateci un’occhiata – borbottò col fiatone. – È importante – precisò con una mano sul petto, riprendendo fiato. – Dico sul serio.
Thomas abbandonò la bottiglia al catarro e artigliò i fogli prima di me, un’espressione perplessa in faccia. – C’è una vecchia conoscenza, capo – esclamò con il suo solito sorrisetto. – Guarda qua.
Mi passò il plico, e mi chiesi se avesse mai imparato a scrivere. Sulla pagina c’era un ritratto terribilmente familiare, una copia veramente brutta ma che chiunque avrebbe riconosciuto, soprattutto se avesse visto Charles Lee tagliar via con la spada il viso di un vecchio amico sa quella stessa tela. Dall’originale. – Ben – dissi, stupito in una certa misura. – Che diavolo ci fa su questo… coso?
Due pagine, quasi tre, riempite da una calligrafia sottile e fitta. – Un periodico? – chiesi a Connor con aria sospettosa. Non vedevo un affare di quel genere da quando avevo lasciato l’Inghilterra. Londra era piena di gente che pretendeva di poter raccontare a destra e a manca avvenimenti importanti sotto forma di carta stampata, ma quella pareva più che altro un appunto, un’abbozzo di periodico.
– Una specie. Uno dei nostri conosce l’autore e me l’ha passato. È molto importante. – Sembrava un bambino imbottito di zucchero. – Ci credi? Non abbiamo notizie dei Templari da quasi un anno. È un mezzo miracolo.
Sollevai lo sguardo al soffitto e presi a leggere, quasi affamato. Benjamin Church, da quanto tempo non sentivo parlare di lui? Avevo incontrato Thomas un paio di volte, ero praticamente andato a sbattere contro William e per quanto riguarda John, be’, se n’era occupato Connor. Ben era stato una mina vagante per quasi dieci anni.
– Washington l’ha arrestato – proseguì il ragazzo, in visibilio. – Faceva parte dell’Esercito Continentale, capo dei medici. L’hanno messo in prigione per aver passato delle informazioni direttamente agli inglesi. – Fiero della propria capacità di sintesi, Connor mi guardò in cerca d’approvazione.
Non lo notai, ero ancora piuttosto sconvolto. Sollevai lo sguardo dalla stampa, cercando gli occhi di Thomas Hickey. Erano sgranati almeno quanto i miei, e teneva le mani occupate nel riempire la pipa di tabacco, come faceva sempre quando era nervoso e non aveva dell’alcool a portata di mano. Sul viso di entrambi gravava la stessa pesante accusa, ma nessuno dei due aveva il coraggio di pronunciarla.
Traditore.
Non era nel nostro interesse appoggiare l’uno o l’altro schieramento, non lo era mai stato. Aveva ficcato la mano in un vespaio e pretendeva di uscirne senza nemmeno una puntura. Stupido idiota. Era passato dalla parte sbagliata, aveva deciso che per far parte di un Ordine frammentario valeva la pena di uscirne per sempre. Forse pensava che fossi rimasto ucciso e che a nessuno fregasse più niente di lui.
Non aveva messo in gioco che io avevo intenzione di riportare i Templari all’antico splendore e non avrei permesso a dei traditori – o all’omicida di mio padre – di infangare l’organizzazione. Volevo tenere con me un dannato voltafaccia e l’assassino di Tiio, sì, perché era il male minore. Smettete di fare i moralisti, per l’amor di Dio.
Mi passai una mano sulla fronte, desiderando ardentemente una pipa come quella di Tom. Era sempre stato un uomo straordinariamente orgoglioso, Ben Church, credeva di avere sempre ragione e di non aver bisogno di nessuno. Mai.
– Non lo trovate ingiusto? – mi aveva chiesto la sera stessa in cui gli avevo permesso di assassinare Silas Thatcher, quel fottuto schiavista. – La maggior parte di noi è composta da inglesi e irlandesi. Se un uomo vuole una pistola va a comprarla, non può pensare di averla gratuitamente. Allo stesso modo riceviamo beni – braccia, menti, individui, non solo mere risorse materiali – dalla madrepatria e pretendiamo di non dare niente indietro. Non lo trovate ingiusto, signor Kenway?
Mi ero scaldato le scapole, facendo scricchiolare le ossa delle spalle. Stavo pensando a Tiio, a dire il vero, l’affascinante donna nativa che aveva liberato i propri compagni ed era fuggita riservandomi un sorriso soddisfatto e un po’ sarcastico, come se non si fosse aspettata un’azione del genere da parte di un uomo apparentemente rispettabile con la puzza del Tamigi ancora addosso. – Non è nei nostri compiti stabilirlo – avevo ribattuto, sovrappensiero. – Se hai abbastanza soldi da permetterti di pagare le tasse, Church, fallo. La vecchia isola non è messa bene come sembra.
Aveva sputato a terra, per contro. – Io sono del Rhode Island, signor Kenway. Dell’Inghilterra non potrebbe fottermi meno, passate sopra il francesismo. Eppure ritengo sia eticamente corretto porgersi il problema. – Ero riuscito a sentire il disprezzo nella sua voce.
Ero giovane, stupido, appena caduto tra le braccia di una donna – nonostante ancora non lo sapessi di per certo. Avevo risposto al disprezzo con la stessa moneta. – Allora ritieni eticamente corretto tutto il nostro operato, Benjamin? Liberare schiavi, uccidere soldati, dare la caccia a uomini intenzionati a ostacolarci. È eticamente corretto?
– Non ho una risposta, signore – aveva risposto. Aveva ritenuto corretto uccidere Silas, ovviamente, lo stava minacciando.
– Magari quel Thatcher aveva una famiglia. Figli, moglie, forse un cagnolino. – Se al posto di Ben ci fosse stato Thomas, avrebbe certamente colto il mio sarcasmo. Church era peggio di un fottuto prete quando si parlava dei suoi interessi. – E tu l’hai ucciso. La sua famiglia lo considererebbe corretto?
Benjamin aveva stretto le labbra in una smorfia. – Era solo un figlio di puttana – aveva replicato senza guardarmi negli occhi. – Non mancherà a nessuno.
– Mancheresti a qualcuno, Church?
Mi aveva guardato negli occhi, e vi avevo letto qualcosa di abbastanza convincente da farmi girare sui tacchi, rientrando al Green Dragon per una dormita, un gran sorriso che mi si allargava in faccia.
Terrore. Gli era passata per la testa la consapevolezza che avrei potuto ucciderlo, e io mi ero chiesto se avrebbe continuato a difendere la propria cazzo di etica anche con una pistola puntata tra gli occhi.
– Ben – ripetei sfiorando con i polpastrelli il suo brutto ritratto. – Un cane sciolto.
Thomas Hickey sbuffò dal naso. – Io direi un cane e basta, capo – grugnii. – Un maledetto bastardo traditore. – Ecco, finalmente uno dei due aveva avuto il coraggio di pronunciare quella parola.
Sospirai. – Va fermato.
– Concordo – disse Connor, finalmente in grado di intromettersi nella conversazione senza sembrare un imbecille. – Il problema per ora non si pone. Ci penserà Washington.
Roteai gli occhi. – È riuscito a tradire l’Esercito Continentale una volta, può farlo di nuovo. Scappare al loro controllo quando vuole. – Scagliai i fogli sul tavolo e unii le punte delle dita nel tentativo di assumere un’aria sicura. – Farà qualunque cosa sia in suo potere per aiutare gli inglesi.
Sul tavolo della sala da pranzo calò il silenzio. La caccia aveva inizio, un’altra volta, con altri obiettivi. – È ancora dentro, vero? – chiese Thomas. Pareva così disperato da poter tentare di mandare giù quel grumo di catarro nella bottiglia. Connor annuì. – Cazzo. Non ce ne facciamo niente. E in più quei bastardi dei patrioti ci stanno ancora attaccati al culo! – Si passò una mano in faccia, sbuffando.  
Scrollai le spalle. – Quindi dovrai lavorare da solo, per ora. – Immaginavo già Washington vedermi sollevare la mano con un sorrisetto al primo futuro incontro, prendere l’uccello tra le dita e pisciarmi sulla redingote. Ah, il mio grande amico George.  
– Ci metterò il triplo, Haytham.
– Non posso farci niente. Si fidano di te, d’altronde. – Non avete idea di quanto mi desse fastidio. Radunare persone fedeli dava soddisfazione, ma in fondo tutti e cinque erano solo benemeriti traditori, chi più e chi meno. Stanarne uno vero ne avrebbe data molta di più, ritenevo. – Hai altre idee?
Abbassò il capo come un cagnolino. – No.
Si alzò, raccolse i suoi fogli e uscì di casa, diretto chissà dove alla ricerca di notizie su Benjamin Church, traditore della sua stessa patria in favore della Corona.
Guardai Thomas, sospirando con sarcasmo e un briciolo di disprezzo per me stesso. Con quel cazzo di atteggiamento avremmo messo la depressione addosso anche allo scemo del villaggio. Sbuffai. – Credi che potremmo andare avanti così ancora a lungo?
– Che intendi, capo? – Hickey poggiò i piedi sul tavolo e spinse la sedia indietro, restando in equilibrio solo sulle due gambe posteriori. Bravo cagnolino, magari pensi che per questo giochetto vada a riempire il boccale al tuo posto, eh? Va’ a farti fottere. Si passò le mani in faccia. – Ho bisogno di bere.
– Tu hai sempre bisogno di bere – brontolai, le braccia incrociate dietro la nuca. – Sto parlando del nostro modo di fare, Thomas. Ci stiamo un po’ adagiando sugli allori.
Sollevò le sopracciglia, la sua tipica espressione interrogativa. Saltai giù dalla sedia e afferrai la sua giacca, facendolo alzare e trascinandomelo dietro lungo il corridoio e giù per le scale della cantina. – Dobbiamo pensare a un piano – ringhiai tra i denti. La vecchia stanza segreta non era cambiata di una virgola. Con un ampio gesto scaraventai sul pavimento le carte che ingombravano la scrivania spinta contro il muro e vi balzai sopra, picchiettando le nocche contro il ritratto di Ben. Si trovava proprio accanto a quello di Thomas, sotto Charles.
Il mio socio grugnì, le braccia incrociate in un cenno cocciuto e irremovibile. – Ti ho già detto di non voler più uccidere nessuno, capo.
– E io ti ho già detto che sarai costretto a farlo, prima o poi – replicai nella stizza.
Roteò gli occhi. – Perché non lasci che se ne occupi tuo figlio? Sarebbe un problema in meno. – Sbuffai. L’ultima cosa di cui avevo bisogno era un altro rammollito nella squadra già piuttosto scarsina di cui disponevo.
– Andiamo, Hickey, siamo seri. Sai benissimo perché non posso permettere loro di ammazzarlo – bofonchiai lanciandomi dalla scrivania. Per un attimo pensai che l’intera catapecchia mi sarebbe crollata sopra la testa, ma resistette, oltre ogni mia previsione.
Thomas fece un passo avanti con i denti scoperti come un mastino, abbaiando a due dita dalla mia faccia: – Allora sai anche che non ti aiuterò. Qualunque cosa tu voglia fare a Ben, la farai da solo.
Allargai le braccia. – Cosa? – Scoppiai amaramente a ridere. – È un traditore, l’hai detto tu stesso.
– Ma davvero non esiste un altro modo? – sussurrò, e sembrava sul punto di piangere. Quella storia ci stava mettendo davvero a terra, tutti quanti. Lanciai un’occhiata al mio moncherino, giusto per non doverlo guardare in faccia. – Non dirmi che è così, Haytham. Io so che c’è una maniera diversa di risolvere tutto questo.
Continuai a ridacchiare. – Santo cielo, Tom, non cercare di fare il mediatore, non ne sei capace. Sei sempre stato un uomo violento e senza scrupoli, se credi di poter cambiare rotta soltanto perché hai scoperto di avere una coscienza ti sbagli di grosso.
– Non è della mia coscienza che si sta parlando! – strepitò come un bambino capriccioso. – Sei tu quello con qualche problema, capo. – Fece roteare l’indice alla tempia, forse credendomi un po’ duro di comprendonio e pensando necessitassi di qualcosa di più incisivo delle sue parole.
Espirai, buttando fuori tutto il fiato che avevo in corpo e bloccava le mie parole come un masso in mezzo alla gola. – Sai una cosa, Thomas? – ringhiai voltandomi verso di lui all’improvviso, l'indice accusatorio puntatogli contro. Mi faceva incazzare. L'intero modo di gestire gli affari in maniera tale da farmi sembrare quello cattivo, assetato di sangue e senza scrupoli mi faceva prudere le mani. – Penso che a te piaccia uccidere poco meno di quanto ti piaccia infilare l'uccello in qualsiasi buco a tua disposizione e ingollare alcool fino a vedere triplo. Credevo avessi davvero un fottuto crollo psicologico, cazzo, ma guardati! Sei più sereno di un bambino, Thomas. E pensi di fottermi con questa storia della coscienza solo perché vuoi passare la vita in panciolle? Devi lavorare per ottenere le cose, Hickey. Hai mai sentito questo verbo, per caso?
Scrollò le spalle, non aveva alcuna intenzione di ascoltarmi. Era bloccato per bene nella sua convinzione di essere nel giusto, ma sapevo perfettamente quanto fosse sfaticato, maledizione, quanto bramasse la vita facile. – Fare una strage non è la cosa migliore – mugugnò con le mani nelle tasche. 
A quel punto scoppiai davvero a ridere. Piegato in due, colpito dall’ironia della situazione e ricordando ciò che lui aveva dimenticato, vittima della sua stessa ipocrisia. – Eppure è esattamente ciò che si fa con i traditori, non è vero, Tom? – Strofinai i palmi sulle ginocchia. Avevo riso a lungo e in maniera così compulsiva da avere le lacrime agli occhi. – Non mi pare che tu abbia proposto una maniera diversa di risolvere la faccenda quando mi hai issato su quello sgabello. Insomma – affondai le mani in tasca ostentando noncuranza, solo per far entrare meglio il concetto in quella testa di cazzo – non ti sei fatto tutti questi problemi quando ti sei scopato mia moglie, eh?
Lo vidi sbiancare, e in cuor mio non potei che esserne soddisfatto. Se lo meritava, cazzo. Lo meritava perché trovavo dannatamente facile fare il buon uomo quando pensi di avere il culo al sicuro. Aveva deciso di non sporcare più la lama solo da quando nella sua testa aveva preso piede l’impressione di essere protetto dalle forti braccia degli Assassini. Forse credeva che non ci avrebbero mai lasciati andare, che non mi sarei mai ribellato a quella politica da femminucce e fannulloni. Aveva mancato il bersaglio, totalmente. – La situazione è diversa – mormorò grattandosi i favoriti. Poi sollevò lo sguardo su di me, e vedendomi avanzare nella sua direzione fece un balzo felino indietro, le mani sopra la testa. – Non era tua moglie! – strillò di rimando. – Non era affatto la tua stramaledetta moglie!
Roteai gli occhi, sentendo la gola bruciare in una risata. – Ha importanza? Perché, Ben Church è tua moglie, per caso?
– Le persone cambiano, Haytham.
Sogghignai, scrollando il capo. – Pensala come vuoi. – Avanzai e gli artigliai la casacca. – Sei solo un fottuto ipocrita.
– Toglimi le mani di dosso – ringhiò Thomas cercando di spingermi via. – Hai capito? Toglimi le mani di dosso.
Quasi senza rendermene conto l'avevo spintonato giù con tutta la mia forza, facendogli sbattere la schiena a terra ed ergendomi sopra di lui come un dio punitore. – Allora è di questo che si tratta, sei cambiato, oh, povera anima in pena! – Affondai il primo cazzotto, dritto sul suo naso, con tutta l'ira che mi scorreva nelle vene.
– Un dannato, maledettissimo ipocrita – ripetei riempiendolo di pugni, la risata morente nel petto. Gli mollai un calcio sui denti e lo vidi raggomitolarsi in posizione fetale. Sapevo che non era giusto, ma non m’importava. Pensavo non si stesse difendendo per darmi l’ennesima dimostrazione di essere fedele ai suoi maledetti principi da novello santo. Per farmi un dispetto. Non pensavo di fargli davvero male.
Almeno finché non lo afferrai per il collo, chinandomi su di lui e schiacciandogli la trachea con i muscoli doloranti e gli occhi in fiamme. Non era nelle condizioni di dichiararsi innocente, non dopo quello che aveva fatto a Tiio. Si meritava la morte, l’agonia e tutto ciò che sarebbe venuto dopo.
Ma per un uomo come lui – un bastardo crudele e un vigliacco della peggior specie – anche il fottuto inferno, per come lo descrive la Bibbia, sarebbe stato troppo poco.
– Sei un maledetto figlio di puttana, Thomas Hickey – sibilai con le dita serrate sulla sua gola. – Un maledetto figlio di…
E d’un tratto fu come mettere le mani aperte tra le fiamme senza poterle ritrarre. Sentivo ogni parte del mio corpo bruciare, le cellule prendere fuoco e carbonizzare la pelle, lo stomaco, il cuore. Tutto quel caldo mi rendeva impossibile respirare, chiusi gli occhi di scatto e non riuscii più ad aprirli. – Non rischieremo di nuovo – sentii mugugnare dall’interno della scatola cranica.
A volte ritornano, eh? Mi sforzai di sollevare le palpebre, ma erano come due enormi sassi. – Ucciderlo non sarebbe la soluzione.
Strinsi i denti, sentendo lentamente le forze abbandonarmi. Non volevo ucciderlo, maledizione, pensai, le mani serrate intorno al nulla. Non ne avevo l’intenzione, Minerva. Posso giurarlo.
– L’avresti fatto – mugugnò quello spirito polemico. – E non possiamo permetterlo. Né io, né lei. Anche se non intenzionale, il suo omicidio avrebbe solo peggiorato le cose. Non puoi fare tutto da solo, servo della Croce. È un fardello troppo pesante, persino per la tua forza d’animo. Uno di noi appena lo reggerebbe, e voi non siete come noi. La vostra fragilità è palpabile, la carne è debole e dobbiamo fare affidamento sul sangue. – Minerva abbassò la voce fino a raggiungere lo stesso tono di uno sciamano salmodiante. Mohawk, magari. – Troppo pesante, servo della Croce, troppo pesante…
M’avvolse uno stato di torpore improvviso, e tutta l’ansia e la rabbia che avevano avvelenato il mio corpo furono come vaporizzati. Svaniti, depositati sul fondo del mio spirito come condensa impalpabile. – Non porrai fine alla sua vita.
Quelle parole, una dichiarazione d’intenti più che un semplice consiglio, mi ridestarono per qualche secondo. Ha ucciso Tiio!, gridai col pensiero. Se fossi stato cosciente sarei scoppiato in lacrime. Quel maledetto bastardo l’ha uccisa! E lui…
– Non lo farai – ripeté Minerva, categorica.
Il suo ordine invase ciò che restava del mio corpo in quello stato. No…
Non so dire se fosse una protesta o una risposta condizionata da quella specie di ipnosi del cazzo, ma fu dannatamente convincente. Come se fossi stato pronto a fare qualsiasi cosa per quel “no”; era il mio nuovo fine ultimo.
Ma col cazzo, avrei voluto pensare. Invece non ne avevo la forza.
Il lamento di Minerva mi cullò nell’oblio.
 
Mi svegliai di soprassalto, completamente coperto di sudore mentre Tom stringeva il mio polso sinistro e al tempo stesso mi tamponava la fronte con un panno fresco. Cazzo, spero che l’abbiano obbligato. Altrimenti è davvero una mammoletta. – Calmo, capo – biascicò con mio immenso sollievo. Era ubriaco. – Potrei anche farti bere. O forse no. Non ce n’è abbastanza per tutti e due. – Chissà perché, suonò un po’ come una minaccia. Battei le palpebre con stupore, mettendo solo a fuoco il suo pomo d’Adamo che saliva e scendeva. – Allora, hai cambiato idea? Vuoi ancora ammazzare Ben?
Diretto, Tom. Sospirai. Non era così difficile capire che volevo levarmelo dai piedi, e mi chiesi se avesse ragione o meno. Bramavo la sua testa o pensavo fosse solo la cosa più giusta da fare? Hickey si lasciò andare e ruttò, picchiettando con le dita il panno sulla mia fronte. – Tu vuoi che viva? – chiesi.
– Sono stufo di vedere tutti questi cazzo di cadaveri – ringhiò con una bottiglia alle labbra. – Church è  un traditore, ma cosa ne sappiamo davvero? Chi ci dice che Ben non si sia ravveduto durante questa vacanzina in gattabuia?
Il soffitto coperto di macchie d’umidità assunse una tonalità più vivida, più reale, e sbuffai. Hickey aveva ragione. Non avevo nemmeno pensato a quell’eventualità, semplicemente credevo che Ben dovesse lasciare questo mondo per non essermi stato costantemente fedele. Lui, nonostante tutti gli altri si fossero comportati allo stesso modo. Se Minerva e Giunone me ne avessero data la possibilità forse avrei ucciso sul serio Tom. La sete di sangue mi stava davvero consumando? Non potevo fermarla in qualche modo? – Forse hai ragione – mugugnai. – Ho bisogno di riposare. Per adesso… aspettiamo che faccia un passo falso.
Thomas rise. – E se non ne farà?
Chiusi gli occhi, percependo il sonno sul punto di avvolgermi. – Lo portermo qui e brinderemo allla salute l’uno dell’altro. – E avrò un altro uomo dalla mia parte per ammazzare Reginald, fu il mio penultimo pensiero cosciente.
Ammazzare qualcuno, questo fu l’ultimo. Alla fine si tratta sempre di ammazzare qualcuno. Sono davvero un mostro, un succhiasangue senza alcuna remora. Sempre di ammazzare qualc-…
 
Pensavo non ci fosse niente di faticoso quanto la convivenza tra nemici giurati, come Templari e Assassini. Era stato difficilissimo collaborare con quel manipolo di stupidi con la mente ottenebrata dalle loro credenze assurde e l’inclinazione all’agire per un bene superiore, eccetera. Le solite idiozie da perbenisti. Avevamo sempre trovato un pretesto per litigare e menare le mani, oppure ci eravamo andati tremendamente vicino. Sul serio credevo non vi fosse niente di peggio.
Finché gli Assassini non hanno dovuto ospitare anche Thomas.
Mi svegliai grugnendo perché il rumore della porta che veniva sbattuta con violenza m’aveva fatto sussultare, seguito da un fiume di imprecazioni urlate a pieni polmoni e il gorgoglio di Tom che mandava giù un qualche tipo di liquore. – Che cazzo succede? – sussurrai rigirandomi nel letto e facendo cadere a terra il panno che avevo ancora sulla fronte, asciutto come la mia lingua. Porca puttana, che razza di cure. Grazie, Thomas.
Connor aprì appena la porta e sbuffò quando mi vide sveglio. – Sempre al momento sbagliato – mi soffiò contro e piazzò una sedia davanti al letto. Al contrario, come al suo solito. Sollevai un sopracciglio. Forse pensava che solo le signorine sedessero come Dio comanda, con la schiena contro lo schienale. Lasciamo perdere. – Non può andare avanti così, Haytham.
Mi sistemai sulla schiena e evitai di guardarlo. Passando due dita alla base del naso mi sforzai di produrre un po’ di saliva. – Cristo santo – rantolai – dammi dell’acqua. – Ero pur sempre suo padre, maledizione. Non avevo voglia di parlare di Thomas, di quanto rendesse impossibile la pacifica vita da monache di clausura di Connor e compagnia bella, della sua irriverenza.
Il ragazzo si alzò e uscì dalla stanza. Con un sorrisetto, pensai che avrebbe accettato Hickey se fosse stato un Assassino. Ci scommetto tutti i soldi che mi restano. – E tu che vuoi? – sentii dire a Thomas, ma il mio bravo figlioletto lo ignorò. Mi ritrovai a scrollare il capo nella penombra della mia stanza. Avevo visto scoiattoli più aggressivi di quel bestione.
Tornò a sedersi mollandomi un bicchiere mezzo pieno – mi piace pensarla così – sul comodino con un gesto secco e stizzito. – Il tuo socio è fuori controllo.
Gli lanciai un’occhiata gelida e strinsi il bicchiere in mano. – Che intendi? – sussurrai dopo averne mandata giù una buona metà. – Non mi sembra abbia ancora ammazzato nessuno.
– Non fare lo spiritoso – sibilò puntandomi l’indice contro. Sto tremando. – La situazione è seria. Più di quanto sembri. Non fa altro che bere, fumare e stare tra i nostri piedi.
– Nello specifico? – Non volevo essere sarcastico, per una volta. – Non mi pare che voialtri abbiate chissà quali piani in atto per il futuro dell’umanità, no? E poi Tom sta attraversando un periodo di redenzione. Pare che lo abbiano castrato.
Mi guardò con un sopracciglio sollevato e scrollai la mano per cambiare argomento. – Allora, che combina?
Connor incrociò le braccia sopra lo schienale e si fece scrocchiare il collo. Tutto molto d’effetto, certo, sì. – Stiamo aspettando notizie dai patrioti per aiutarli in caso di necessità. Hickey…
– Ah, ho capito – lo interruppi sogghignando. – Non volete che sappiamo cosa avete in mente. Come avete fatto anche con William e John, dico bene? – Sospirai, scrollando il bicchiere e guardando l’acqua dondolare. Ero abituato a farlo con il vino, fu un gesto abitudinario e spontaneo. – Te l’ho detto, lui sta perdendo le palle. Non vuole più ammazzare nessuno, dice di averne avuto abbastanza, oh, povero piccolo.
Connor scrollò le spalle. – Sappiamo che non volete aiutare i patrioti e Washington.
– Non dovresti farlo nemmeno tu. Ha bruciato casa tua.
– Fammi finire – disse con la massima calma. Io mi sarei urlato contro, fossi stato al suo posto. – Non possiamo rischiare che sia vittima di un altro attentato. Se andasse per il verso giusto sarebbe una tragedia.
Ridacchiai, interrompendolo per l’ennesima volta. Devo ammettere che snervarlo mi divertiva. – Quindi credete che senza uno dei vostri al potere l’intero sistema crollerebbe su se stesso e non si raggiungerebbe l’obiettivo finale. Non siete poi così diversi da noi. – Ingollai ciò che restava dell’acqua. – Pensaci. Se Washington fosse in realtà fedele all’Ordine, e ti assicuro che non lo è, lo troveresti comunque un bravo generale? – Se sapessi che sto collaborando con l’uomo che ha stuprato e ucciso tua madre non mi butteresti immediatamente fuori di casa? Tornai a fissarlo. – Ospitate dei Templari ma pretendete di tenerli fuori dai vostri intenti? – Scrollai il capo. – Accidenti. Meritereste un premio per l’intelligenza, un attestato o qualcosa di simile, come minimo.
– Smettila – brontolò. Non sapeva dove andare a parare, quindi stava per giocare la carta del mio padre è tanto cattivo. – Dato che pretendi onestà, che cosa avete intenzione di fare voi? – Oh, mi sbagliavo. Aveva un asso nella manica, il piccolo bastardo.
– Aspettiamo un passo falso di Benjamin Church – ammisi. L’avrebbero scoperto ugualmente. – Ha tradito l’Ordine e io credo debba essere eliminato, ma Tom ha deciso di appendere i coglioni al chiodo e di scaldare una delle vostre sedie. Tutto qua.
Non rispose. Mi guardò come se cercasse di leggermi dentro. Era la verità, diavolo, avrebbe fatto meglio a tenersela stretta. – È un Templare, no? Lo volete fuori dai piedi anche voi, suppongo.
– Sono affari dell’Esercito Continentale. Non potete intromettervici – bofonchiò il ragazzo. Geniaccio che altro non era, lui. – Nemmeno noi, in fondo. Resta sempre una guerra, e il fatto che in passato abbia aiutato la Corona lo rende un nemico. Oltretutto essendo uno di voi è quasi lecito che sia nostro dovere ucciderlo. Credo.
Gli lanciai un’occhiata di sbieco e sorrisi. Riuscivo a leggere l’inquietudine nel suo sguardo, pareva essere tornato un bambino che vede la propria capanna bruciare e collassare su se stessa. Si strofinò le dita sulla fronte con un gran sospiro. – Perché credi?
– Perché tu sei vivo – ammise subito. – Se c’è qualcuno che dovrei uccidere per primo, sei tu.
– Ma non puoi – puntualizzai con il sorriso che si allargava. Non potevo non gioire di quel piccolo e così influente dettaglio.
– Ho già violato i patti una volta. Posso rifarlo.
Fischiettai per richiamare la sua attenzione e un po’ per sfotterlo. – E come pensi di entrare nel Grande Tempio? Con il mio cadavere? – Fece spallucce, ma non lo lasciai aprire bocca. – Non fingere che non ti interessi, ragazzo. Ne abbiamo parlato un bel po’.
Si grattò la testa. – D’accordo. Hai ragione. Mi importa. Questo non significa che Thomas Hickey debba invadere i nostri spazi.
– Vuoi chiuderlo nella stalla, per caso? – Sollevai lo sguardo al soffitto e mi tirai su, poggiando la schiena alla testiera del letto con un gemito, una fitta di dolore che affiancava la colonna vertebrale. – Non credo sia necessario. Se ne sapete quanto noi, allora…
– Ehi, figlio di puttana.
Scostai lo sguardo da Connor e vidi Tom aprire la porta, arrancando faticosamente all’interno della mia stanza e sedendosi ai piedi del letto. Aveva la bocca impastata e la faccia di chi non dormiva da un po’. – Quando pensi di alzarti, capo? Ho bisogno di scopare. – Roteai gli occhi. Il solito ubriacone. Sperai solo che, parlando di scopate, non si lasciasse sfuggire niente su Tiio. Già immaginavo la mia testa appena sopra il caminetto del soggiorno, buon Dio. – Sono due giorni che dormi.
Connor sbuffò. – E che ha fatto di male? – bofonchiai guardando Thomas. – Questo è il suo solito modo di fare. Almeno quando ha bevuto. È più intelligente di quanto possa sembrare, giusto, Tom? – Mi rispose con un rutto. Scoppiai a ridere guardando Connor che si alzava con i palmi al cielo, esasperato. Oltrepassò l’uscio e mi girai a osservare il mio vecchio amico, che rise battendosi un pugno sul petto. – Complimenti per l’interpretazione.
Il Templare balzò in piedi e scrollò le gambe. – Porca miseria, quello non mi ha mai visto veramente ubriaco – esclamò gaio. Si fece scrocchiare rumorosamente la schiena prima di proseguire con un sorriso. – Sai quanto ho bevuto, capo? Qualcosa come mezza bottiglia di vino. – Sollevai l’angolo della bocca, come per complimentarmi. – Mai mandata giù roba più schifosa. La fanno qui? – Sputò addirittura a terra, il mio socio. Di classe.
– Non lo so. Peggio il vino o i viveri?
– Il vino, cazzo!
Sollevai le spalle. – Solo perché è l’alimento base della tua dieta – puntualizzai lanciando via la coperta con un mezzo gemito. – Passami gli stivali.
– E che sono, la tua puttana?
Lo guardai con la fronte aggrottata e decisi di non tirare fuori la storia del suo improvviso pacifismo. Avrei lasciato correre, dato che l’avevo quasi fatto secco. – Non importa. A proposito, scusa.
Raccattò le mie scarpe dall’angolo della stanza e me le tirò contro. – Per cosa?
– Ti ho quasi strangolato, Tom. Te lo sei scordato? – Afferrai gli stivali a mezz’aria, infilando faticosamente il sinistro. – Non so che mi è preso. – Sì che lo sai, misero bastardo. Non sopporti che ti tolgano anche l’ultimo potere che fa di te un Gran Maestro. Diritto di vita e di morte sugli altri membri, dietro accurata giustificazione. Zittii quella ragionevole vocetta nella mia testa calzando anche l’altro stivale e provando ad alzarmi in piedi. – Tutto bene.
Thomas Hickey incrociò le braccia con aria noncurante. – Haytham, non preoccuparti per me. Avremo tempo per parlarne. Andiamo a puttane?
Sorrisi e gli diedi una spallata avviandomi verso la porta della stanza. – In un certo senso – replicai. – Devo scambiare due paroline con Achille.
– E poi usciamo. Giusto?
– Dipende.
Si passò una mano in faccia e sibilò disperatamente: – Oh, Gesù – seguendomi mentre scendevo le scale verso la stanza segreta.
 
– Che il diavolo mi porti.
Feci spallucce, appoggiandomi alla parete con la massima noncuranza. – Ho visto posti migliori, ad essere sincero. – Thomas sfiorò il manichino piazzato in mezzo alla stanza per le esercitazioni, sostituito decine, se non centinaia di volte dopo tutti quegli anni di allenamenti, come se non ne avesse mai visto uno. Probabilmente era così. Noi preferiamo fare pratica sul campo. – Il Green Dragon conserva sempre un certo fascino, non ti sembra?
Si passò le mani sulla nuca e continuò a girare in tondo. Vidi i suoi occhi vagare sulle armi appese alle pareti, i volumi di storia e strategia sugli scaffali, le mappe accavallate sulla scrivania e i quadri che occupavano la parete opposta alla scala. Scostò il colletto della camicia in un gesto teatrale e deglutì a vuoto. – Porca puttana – sussurrò. – Vogliono farci tutti fuori.
Tirai un calcetto alle assi polverose del pavimento, le mani in tasca. L’avevo già portato in quella stanza, neanche tre giorni prima, quando avevo cercato di ucciderlo. Forse i miei pugni gli avevano danneggiato la memoria, oppure era troppo brillo per far caso ai ritratti appesi alle pareti. Chi ci capisce qualcosa della testa di Tom? – No, buon Dio, no. – Lo raggiunsi e salii sulla scrivania ingombra senza curarmi delle carte. Segnavano la posizione delle truppe, roba che tutti noi conoscevamo. Se c’era qualcosa che non mancava alla tenuta, erano le venute di messaggeri con inutili notizie su quella maledetta guerra. – Volevano farci fuori tutti. Poi hanno avuto la brillante idea di salvarmi dall’impiccagione. – Scrollai il capo e passai le dita sul volto dipinto di Benjamin Church. – Fossi morto quel giorno ce l’avreste tutti quanti nel culo.
– Grazie, capo – grugnì Tom guardando il proprio ritratto con occhio critico. – Me lo ricordo, quello. L’aveva fatto una puttana. Diceva che le era sempre piaciuto dipingere ma non aveva potuto realizzare il suo sogno. Aveva usato una tovaglia come tela. – Abbassò lo sguardo, quasi si vergognasse. – Brutta troia.
Sorrisi. Era il ritratto di un Thomas Hickey un po’ più giovane, il cappello in testa, petto nudo e un grosso sigaro tra pollice e indice. D’importazione, sicuro. Lo sfondo era di un bel color panna e Tom sorrideva maliziosamente alla pittrice, lo sguardo illuminato. – Siamo rimasti solo io, tu, Ben, Charles e Reginald. Ne hanno… – Deglutii per non tradirmi. Thomas non era uno stupido, nemmeno dopo mezza bottiglia di vino. – Ne hanno già fatti secchi due. Ti tengono in vita solo perché hanno bisogno di me. Non possiamo fare errori.
Scavò nelle tasche interne della giubba ed estrasse pipa e tabacchiera, sue fedeli compagne di vita. Più delle puttane, aggiunsi tra me con un sorrisetto. – Perché mi hai portato qui? – chiese portando un cerino acceso al tabacco e aspirando una grossa boccata. – Non sono impressionato da… da questo. Anche io sono armato.
– Sei un uomo armato che non vuole uccidere. – Ridacchiai, lanciandogli un’occhiata di sbieco. Il suo petto si alzava e s’abbassava con violenza ogni volta che inspirava. – Commovente.
– Vuoi smetterla? – ringhiò facendo un passo indietro. – Posso sempre difendermi. E non tirare più fuori quella storia. So benissimo come sei fatto, Haytham. Ammazzeresti chiunque pur di dimostrare a Reginald che sei più forte di lui. Che il Gran Maestro sei ancora tu.
Balzai giù dalla scrivania sulle assi scricchiolanti e lo guardai negli occhi. – Quindi non è così? – sibilai. Non pensavo che quel ragazzo potesse leggermi dentro così facilmente, ma d’altronde avevamo lavorato insieme per anni. Mi conosceva bene. – Pensi che un Gran Maestro come si deve abbandonerebbe i proprio uomini per un bieco scopo personale?
– Non lo so! – Allargò le braccia in aria di sfida e mi morsi la lingua, rendendomi conto del casino che avevo appena combinato. Mi ero scavato la fossa da solo. Porco demonio! – Non mi pare che ti sia comportato meglio.
Deglutii. – Si trattava di mia sorella. – Stavo perdendo la pazienza, sentivo del fumo invadermi la testa. Dovevo controllarmi o la Prima Civilizzazione mi avrebbe reso di nuovo privo di sensi. In fondo non volevo uccidere Thomas, giusto?
Giusto? – Voi non ne sapete niente. Nessuno di voi può saperlo. – Strinsi i pugni e tesi le braccia lungo i fianchi per frenarmi dal prenderlo a pugni. Mi morsi convulsamente l’interno della guancia. – Tu che cosa avresti fatto? Che cosa avresti fatto se ti avessero detto che tua sorella era viva, rinchiusa a fare la schiava in un maledetto harem dopo vent’anni passati lontani l’uno dall’altra? Dopo vent’anni in un cui non sapevo che fine avesse fatto! Sapere che un dannato pezzo della mia famiglia era ancora intatto mi aveva dato speranza. – Abbassai lo sguardo, sforzandomi di non piangere. Non potevo crollare davanti a Thomas Hickey, quell’inutile stronzo. – Tu che cosa avresti fatto? – La mia voce era ridotta a un sussurro. Mi passai le mani in faccia, il moncherino dell’anulare che strusciava ruvido contro il naso. – Cazzo – sussurrai senza guardarlo. Non avrei potuto reggere.
– Capo – sussurrò Tom.
Lo sentii avvicinarsi a me e saltai indietro. – Allontanati, cazzo! – sbottai senza riuscire a trattenermi. – Stammi lontano, d’accordo? Stammi lontano.
Gesù, mi sentivo come il bambino di dieci anni cui avevano ucciso il padre davanti agli occhi e l’uomo con il cuore spezzato che aveva visto la propria sorella morire con una baionetta nella schiena. – Per favore – mormorò. Sentivo i suoi stivali rumoreggiare sul pavimento. Non volevo essere compatito dall’ubriacone bastardo che aveva sgozzato Tiio. – Haytham, non lo sapevo.
Scrollai il capo. – Non te ne è mai importato niente – risposi, acido. – Finché hai il culo al sicuro non ti importa di niente e di nessuno. Non è così?
Mi prese per le spalle e mi staccò a forza le mani dalla faccia, costringendomi a guardarlo. – È quello che facciamo tutti – sussurrò guardandomi negli occhi. Non mi era mai parso tanto sincero. Sembrava invecchiato di cento anni in un colpo solo. –È nella nostra natura, credo. – Prese fiato, poi lo ripeté. – È ciò che facciamo tutti.
Un attimo dopo ero crollato a terra, raggomitolato con la testa sulle ginocchia e le braccia attorno alle cosce, piangendo come un poppante. Come aveva detto Minerva? È un fardello troppo pesante, persino per la tua forza d’animo. Aveva ragione, maledizione. Non riuscivo a reggere il peso di tutto ciò che avevo vissuto.
Chiusi gli occhi sentendo il corpo di Thomas caldo accanto al mio. Mi si era seduto vicino e teneva un braccio attorno alle mie spalle. L’avevo quasi ucciso e nonostante tutto era lì. Una parte di me pensava me lo dovesse per ciò che aveva fatto a Tiio, un’altra non poteva fare a meno di notare quanto fosse un buon Templare. Aveva ragione. Nonostante volessimo fingere di fare gli eroi, i gentiluomini e i cavalieri, in fin dei conti eravamo solo cagasotto. Tutti quanti.
Lasciai che tenesse le braccia attorno al mio corpo e mi abbandonai ai ricordi. Ricordi tristi.
Ne avrei mai trovato uno felice, in quella maledetta vita?
 
– Signore? – So di essere egoista e crudele; mi sto interessando solo a me stesso quando dovrei aiutarlo, perché sta soffrendo anche lui. Non ha più i testicoli, diavolo, e ha comunque più palle di me.
Ma io non ho più nessuno. – Per l'amor del cielo, Haytham – Jim abbandona i convenevoli per un attimo, piazzandosi davanti a me con il cucchiaio pieno di zuppa. – Metti almeno qualcosa sotto i denti. – Fa per imboccarmi, e non potrei sentirmi peggio. Non solo non ho alcun voglia di mangiare, ma sento addirittura l'ira mista a senso di colpa invadermi il petto e serrarmi la trachea.

Sono furioso con me stesso, nonostante dall'esterno il mio viso sia una maschera di nulla, perché non posso nemmeno ricordarla. Sono incazzato nero perché questo dovrebbe essere il momento in cui mi rifiuto di mangiare la zuppa perché era il suo piatto preferito e mi ricorda Jenny. Invece, mi rendo conto torturando la tovaglia con le mani, io di lei non so niente. Un maledetto cazzo di niente. Qual è il suo colore preferito? Ha mai avuto un animale domestico? Amava Reginald? Era incinta? Le piaceva andare a teatro, aveva uno scrittore preferito?
Niente. Un maledetto cazzo di niente.
– Signore, per piacere. – Il tono di Jim Holden è sempre più lamentoso e preoccupato, ma ho altro a cui pensare.
Mi viene in mente un pomeriggio in cui eravamo a casa da soli e ho iniziato a starle sempre appiccicato, così, giusto per spirito di contraddizione. – Adesso basta! – aveva sbottato entrando in cucina con le mie gambette alle calcagna. – Per l'amor di Dio, Haytham, tu sei pazzo! Guardati! Ti sembra che gli altri bambini lo facciano? – Avevo inclinato la testa da un lato. Non avevo ancora parlato con Tom Barrett e il suo bulbo oculare. Chiuso tra le mura di casa come una bestia rara, non avevo mai rivolto la parola a un altro bambino. –  Vattene fuori di qui! Smetti di essere così inquietante! – aveva continuato a urlare con i pugni stretti lungo i fianchi. Fortunatamente eravamo soli in casa: papà e Reginald erano fuori per lavoro – col senno di poi, mi chiedo se non fossero lavoretti per gli Assassini – e mamma era uscita con Edith e Digweed per andare al mercato, mi pare. Completamente soli in casa, un’altra come le tante incastonate nella grande piazza dedicata alla Regina Anna. – Sei un mostro!

Non avevo replicato, se non scrollando le spalle. Ero abituato a prenderla con le molle, ma quell'esortazione a uscire aveva fatto battere il mio cuore più velocemente. Mi ero girato, dandole le spalle, ed ero corso in camera mia per recuperare le mie scarpe più eleganti, da buon bambino stupido. Me le ero orgogliosamente infilate senza il minimo aiuto da parte di Jenny, poi avevo spalancato la porta d'ingresso ed ero uscito, lasciandola sola nel silenzio della casa.
Diavolo se è bella, Londra. Ma all'epoca lo era ancora di più. O forse io ero più piccolo e facevo più caso ai dettagli. Più basso di molti ragazzini e garzoni, li guardavo con ammirazione e un pizzico d'invidia per il loro carisma – che col tempo scoprii essere nient'altro che strafottenza –, desiderando solo per un giorno di essere uno di loro.
Avevo attraversato strade aggrovigliate, vicoli bui, mi ero preso uno schiaffo da un barbone, un calcio nello stomaco da un ubriaco e una cinghiata in faccia da un uomo di mezz'età che voleva solo far provare un particolare tipo di uova e salsicce – ma soprattutto salsicce – alla prostituta lì accanto. Aveva minacciato di farmi ingoiare tutti i denti e non solo, quindi mi aveva colpito con la cintura. La fibbia mi aveva aperto un taglio sulla guancia e lui si era voltato, tornando alla sua puttana.
Uno strillone mi rubò le scarpe, un cane minacciò di mordermi e più di un soldato fece finta di nulla, pensando fossi solo un ragazzetto di strada lercio come tutti gli altri.
Jenny mi aveva ritrovato solo di sera, venendomi incontro e infierendo sulla guancia martoriata con un'altra sberla. – Sei pazzo, per caso? – aveva ringhiato stringendomi per le spalle. Aveva i denti scoperti, gli occhi sgranati e l'alito di alcool. Era forse la stessa espressione che aveva preso piede sul viso di mio padre ad ogni assalto di nave spagnola? Chi lo sa. Mi piace pensare di sì. E poi, che importa se non è la verità? Che diavolo importa?
– Non farlo mai più. – Il suo tono era minaccioso, senza accenni di affetto o reale preoccupazione. Non era mai corso buon sangue tra noi. – Hai capito, Haytham? Ora andiamo a casa.
– Non così in fretta.
Ecco, da dietro le spalle di Jennifer era spuntato un bandito, il coltellaccio splendente nella penombra e lo sguardo fisso su un punto a metà tra il mento e il seno. La medaglietta a forma di cuore da cui non si separava mai. Un giorno, per pura curiosità, l'avevo aperta, e dentro c'era il microscopico ritratto di una donna dai capelli rossi, la Caroline che nel mio sogno avevo confuso con l'avvenente Anne Bonny. Nell'altro spazio della collana, destinato a un ritratto di mio padre, non c'era niente. Vuoto. – Dammi la collana.

Lei vi aveva stretto la mano intorno. Un genio, mia sorella. – Corri, Haytham. Chiama le guardie. Fa' qualcosa. – Era paonazza, agitata e tremante. – Fa' qualcosa.
E va bene, dovevo fare qualcosa? Avrei fatto qualcosa, porco demonio.
Non l'avrei lasciata lì da sola, però. Mai. Mi sembrava scortese. Corsi oltre il bandito gridando ai soldati e ai passanti di accorrere, fermo all'imboccatura del vicolo in cui Jenny mi aveva trovato.
Un uomo in uniforme mi aveva scaraventato di lato, allontanando il malintenzionato con un colpo di moschetto – uno solo – mentre era a tanto così da affondare la lama nel collo liscio di Jenny.
Eravamo tornati a casa in silenzio, lei con gli occhi velati di lacrime, io eccitato e fiero di me per l'avventura vissuta. – Sei una stupida palla al piede – aveva ringhiato nuovamente. – Un idiota. Perché non riesci a evitare di cacciarti nei guai, Haytham? La tua curiosità ti farà appendere, un giorno o l'altro.
Avevo risposto scrollando il capo, sbeffeggiandola con un commento dei miei. Forse fu il primo. – Meglio morire che vivere con un’acida zitella timorata di Dio. – Stare in mezzo alla strada aveva ampliato il mio vocabolario, e non di poco. Jenny era avvampata per l'imbarazzo e l'umiliazione, poi mi aveva colpito.
Uno schiaffo. Sembrava che gli adulti non conoscessero altro modo per comunicare. Subito dopo si era morsa le labbra con insofferenza e avevamo varcato la soglia di casa insieme, andando verso le nostre stanze come due perfetti sconosciuti.
Non ho mai chiesto a Jenny se fosse felice, né se le piacesse Londra o il giallo fosse il suo colore preferito. Non me ne curavo, perché credevo di essere su un piano completamente diverso. Due linee parallele. Ci eravamo incontrati di nuovo una volta, solo una maledetta volta, a Damasco. Morta davanti ai miei occhi.
– Signore...
Scoppio a piangere. All'inizio sono solo singhiozzi incoerenti e lacrime che bruciano le guance e la pelle, la gola in fiamme nonostante non stia gridando, il dolore per un altro pezzo di passato che ha preso il volo per sempre. Ho un nodo in gola che non vuole saperne di sciogliersi o precipitare nello stomaco.

Sento uno strano calore e tra le palpebre socchiuse scorgo il tricorno e la giacca consunta di Jim Holden, che mi sta stringendo a sé come un padre mentre non sono in grado di fare niente.
Resto a farmi consolare nella sua stretta per un po', il capo affondato nella sua spalla e il fiato grosso.
 
I miei singhiozzi si fecero più simili a latrati e pensai che Jenny aveva ragione, che farei meglio ad impiccarmi e morire sulla forca prima che mi ci issino a forza. Un’altra volta. – È solo colpa mia – piagnucolai stringendo ora Jim, ora Thomas.
 
Non ce la posso fare, e lui lo sa. È intelligente, Holden, ed empatico. Sa di non potermi lasciar andare, altrimenti salirò di sopra, legherò una corda alla trave portante del soffitto, m'infilerò un cappio al collo e lascerò che l'ossigeno si fermi con tutta calma e mi faccia morire lentamente, come lo stupido bastardo quale sono merita per non averla salvata nemmeno in quel momento.
 
Sono sempre il solito porco individualista, è quello a far più male. Avrei potuto evitare anche la sua morte, sentivo che prima o poi sarebbe successo, ma io non sono un brav'uomo. Io ammazzo la gente per scopi privati e piuttosto futili, trapasso un uomo con la mia spada solo perché è di troppo, uccido chi un tempo chiamavo fratello solo perché mi sbatte in faccia la verità.
Io non merito di sopravvivere. Se mi facessi un esame di coscienza finirei per fare la fine di Holden, ma sarebbe una giustizia, nel mio caso.
Non merito di sopravvivere, ma è tutto ciò che mi resta, tutto quanto è in mio potere per tentare di espiare le mie colpe.
Lavare il sangue col sangue, come se servisse a qualcosa. 
Ma è meglio di morire, dico a me stesso. Perché so di non voler morire, perché sono egoista e voglio fare finta di possedere un minimo di coscienza.
Non mi mantengo in vita per uno scopo, ma perché sono un vigliacco che usa lo scopo come copertura.
Schiacciai i polpastrelli contro i condotti lacrimali, sforzandomi di recuperare un ritmo di respirazione costante mentre Thomas serra la presa su di me.  
Mi sarei dovuto uccidere tanto tempo fa. Avrei dovuto occupare lo spazio vuoto sulla corda accanto a Holden.
– Andrà tutto bene – grugnì Tom passando la mano sulla mia spalla. – Andrà tutto bene.
Non riuscivo a fidarmi di lui, a dargli ragione. Come potevo, insomma? Da quando in qua le cose andavano bene? Che razza di sogno. Uno stupido sogno, come tutti gli altri. Niente sarebbe andato bene. Nella mia vita non era mai andato bene nulla. Nemmeno la più piccola e insignificante briciola. Andava sempre tutto per il verso sbagliato. Mi passai le mani sotto gli occhi e strinsi il pugno tra i denti per non ricominciare a urlare.
– E voi due che ci fate qui? – Abbassai lo sguardo, scrollando mollemente il capo. Achille. Se non avessi avuto la bocca occupata dalle mie stesse nocche sarei scoppiato a ridere.
Thomas balzò in piedi. – Levati dai piedi, bastardo rottinculo! – sbottò facendo un gestaccio in direzione delle scale. Mi era mancata la sua violenza gratuita. Quando la porta della stanza si chiuse di nuovo e lui si voltò verso di me, stavo ridendo con le mani in mano, intento a farmi scrocchiare le dita. – Cazzo, capo, tutto a posto?
Non gli risposi. Non subito, almeno.
Semplicemente sollevai gli occhi su di lui e lo ringraziai con un sorriso e gli occhi ancora lucidi, morsicandomi l’interno delle guance per non ricominciare a piangere.
Tesi una mano verso di lui, e Thomas mi aiutò a rialzarmi.
Era tutto a posto?
No. Direi di no.
Porca puttana, però, non avrei continuato a piangermi addosso in quella maniera. Preferivo fingere che Hickey avesse ragione. Prima o poi tutto sarebbe andato per il verso giusto, ripetevo a me stesso. Prima o poi avrei raggiunto i morti per ricevere la mia punizione e passare l’eternità tra atroci sofferenze, oh, me tapino.
Non faceva tanta paura, confrontato con tutto ciò che avevo vissuto. Potevo sempre sperare che dopo non ci fosse altro che il maledetto nulla. Niente angeli e niente demoni. Non avrei mai rivisto mamma, papà, Jim, Jenny e tutti gli altri.
Il nulla. Sempre meglio del dolore.
Meglio dei ricordi tristi.
– Cazzo – mormorai con il palmo sinistro in faccia. Il corrimano sembrava voler scappare da sotto le mie dita, guizzante come un serpente mentre salivo quella scaletta per tornare in superficie, tra gli Assassini. Thomas mi precedeva lanciandosi sguardi furtivi alle spalle. Avessi una corda, pensai stringendo i denti. Avrei potuto davvero appendermi al soffitto. Avrebbero smesso di combattere, forse. Tutti quanti.
O mi sarei perso la più grande guerra del mio tempo. Io non sono Thomas Hickey. Arrivato a questo punto, un morto in più o uno in meno sul mio conto non faceva tutta questa differenza. Non per me. – Mi serve del grog – biascicai con la luce del sole che m’accecava.
Tom ridacchiò, tenendo la porticina aperta mentre lo sorpassavo. – Credi che abbiano del grog, capo? Ringraziamo se hanno del vino!
Cercava di distrarmi, il ragazzo. Gentile da parte sua. Gli rivolsi un sorriso triste. – Credimi, ce l’hanno. Se lo infilano nel culo pur di non cederlo, ma ne hanno. – Feci scrocchiare le spalle. Stavo facendo il possibile per non ricordare la crisi appena avuta. Volevo che il sangue sgorgato fuori dal corpo di Jenny si trasformasse in alcool, così tanto alcool da farmi annegare e trasportarmi giù.
Cos’aveva detto Tom? Non aveva più voglia di combattere? Be’, nemmeno io.
Non avevo più la forza di battermi contro i miei fantasmi. Preferivo lasciare che s’addormentassero. Godermi la calma prima del prossimo momento in cui sarebbero tornati a scuotermi le viscere e devestare la mia mente.
Forse, pensai varcando l’uscio della cucina e spalancando la credenza. Forse la felicità non esiste. È solo la pausa tra un ricordo devastante, un momento triste e il successivo.
Fottuti filosofi e le loro idee del cazzo. Afferrai una larga bottiglia coperta di polvere cacciata in fondo al mobile di legno. Quando la tirai a me, sul vetro spesso e scuro era rimasta l’impronta delle mie dita. Ci soffiai sopra con tutto il fiato che avevo e stappai, ingollando due o tre sorsi. – Bob – sussurrai staccando le labbra. – Dimmi se non è la firma di Faulkner – dissi con voce strascicata, e gli porsi la bottiglia di grog.
L’accettò – che mi aspettavo? – e bevve con tutto l’interessamento necessario al caso.
Aspettai il suo verdetto accasciandomi su una sedia e godendomi il silenzio.
– Sa di piscio.
– Grazie – risposi, scocciato. – Stavo cercando di sollevare un po’ l’atmosfera. Gesù.
Lui fece spallucce. – Se sa di piscio che ci posso fare? – brontolò sedendosi accanto a me e incrociando le gambe sul tavolo. – Quella roba è lì da chissà quanto tempo. Sei sicuro che non ci sia niente di niente da bere?
Sbuffai. Fuori dalla finestra potevo vedere Connor tirare di spada contro il nulla. Rivolsi un sorriso a Tom. – Vuoi divertirti un po’?
Per un attimo, lo sguardo dell’uomo che non aveva esitato a impiccare un bambino baluginò sul suo volto. – Ti avverto, dovrai sfoderare la spada. – Di nuovo, Thomas rispose sollevando le spalle. Con lo stesso ghigno sul volto, gli indicai il ragazzo intento ad impalare il suo nuovo amico immaginario. – Dimmi solo che lo umilierai come non hai mai fatto nella tua vita.
Hickey mi fissò negli occhi per qualche attimo. Sembrava colpito dal mio tono meschino. Poi spalancò la finestra, estrasse il pugnale dalla cintura e lo lanciò silenziosamente. La lama aprì uno squarcio nei calzoni di Connor e si conficcò nel terreno. Il ragazzo si voltò su se stesso come una ragazzina spaventata e Thomas incrociò di nuovo il mio sguardo. – Cominciamo bene.
Uscimmo dalla villa ridacchiando come due bambini. Pareva quasi che non avessi mai cominciato a parlare di Jenny, né a ricordare Holden o a piangere come una donnicciola durante una tragedia teatrale. Eravamo uomini.
O vigliacchi, come preferite. 

 


Angolo dell'autrice
*fa capolino* Ehilà! Come al solito mi faccio vedere solo una volta ogni morte di papa per puntualizzare le mie solite robette.
Tipo che il titolo di questi ultimi due capitoli – ma credo sia abbastanza intuibile – è preso da Estate, la canzone dei Negramaro.
Se devo essere sincera – e voglio un coro di "gran chissenefrega", lol – hanno fatto quella canzone alla radio mercoledì scorso, giusto prima che pubblicassi. Da lì l'idea.
Prendo anche spazio per ringraziare tutti quelli che recensiscono, leggono e continuano a farlo, io vi adoro.
A mercoledì!
Ah, un'ultima cosa. Mentre scrivevo questo capitolo ho avuto l'idea per la OS pubblicata su EFP, Coward's blood. Se non l'avete ancora letta potreste farlo, please?
Altrimenti ho le vostre bamboline voodoo pronte. Spilloni compresi. Lol.
Skos.

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Capitolo 38
*** Lame. ***


Starry, starry night,
Portraits hung in empty halls,
Frame less heads on nameless walls,
Whith eyes that watch the world and can't forget.

 Don McLean, Vincent.
 
– Bello spettacolino, bastardo. – Thomas afferrò la lama conficcata nel terreno e la fissò alla cintura, guardando Connor come il più grande mucchio di puttane brutte del mondo. Il suo sguardo divertito valeva più di qualsiasi altro commento da parte mia.
Il ragazzo rimise la spada lunga nel fodero e si guardò i calzoni squarciati. Emise un gemito di frustrazione. – Che cosa volete? – Oh, era troppo chiedergli di replicare a tono, per una volta. Una sola volta, niente di che.
Praticamente gli strappai la spada di mano, soppesandola nel palmo e provando qualche affondo a vuoto. Che razza di arma gli aveva dato Achille? Aveva bisogno di una bella affilata e, oltretutto, non c’era niente che odiassi più delle spade a guardia aperta. A mo’ di spadone, insomma. Insopportabili. Roteai gli occhi. – Sai che questa roba non taglierebbe un panetto di burro? – sibilai lanciandogliela dalla parte dell’elsa. Non sono poi così cattivo, no? – E poi quale preparazione pensi di avere addestrandoti senza un avversario?
Sgranò gli occhi per lo sbigottimento e la spada cadde a terra. Sentii Thomas bofonchiare: – Mezza sega – e dovetti soffocare un risolino mentre Connor si passava le mani in faccia. Sembrava gli avessi proposto chissà quale indecenza. – Nemmeno morto – grugnì. – Toglietevelo dalla testa, d’accordo? Tutti e due. E poi – indicò Thomas con stizza – non avevi detto che non volevi più combattere?
Hickey fece spallucce e sputò a terra. Poi, con un solo movimento fluido e fulmineo rotolò giù, afferrò quella schifezza che Connor usava come spada e gliela puntò alla gola. Appena sotto il pomo d’Adamo. Tutto il corpo di mio figlio s’irrigidì, manco gliel’avesse infilata nel culo, e scoppiai a ridere con Thomas. Non avevo mai visto un tale povero scemo, nella mia vita. – Ho detto che non volevo uccidere. Combattere è un’altra storia, mezzosangue. Sono arrivato vivo fin qui, pensi che sia un incapace?
Connor afferrò la guardia della spada per strapparla dalla presa di Tom con un mezzo ruggito, ma il mio uomo fu più veloce. Affondò il piede nel suo ventre e il ragazzo caracollò a terra come un sacco di patate. Alla faccia dello spadaccino. – Cazzo! – Hickey sputò di nuovo, dando prova della mitica velocità di produzione delle sue ghiandole salivari. – Hai bisogno di una mano, sai?
– Non ho bisogno di un bel niente – brontolò l’altro trascinandosi in piedi. – Ho già combattuto con lui – sibilò indicandomi – non ho intenzione di…
– Vuoi combatterci senza conoscerci. – Con un abile movimento delle mani, Tom afferrò la spada con la sinistra per allontanarla da Connor. Geniale e al tempo stesso così abitudinario, una cosa che avevo fatto chissà quante volte nella mia carriera. – Pensi davvero di riuscirci? Io credo di no.
– Quello che credi non m’interessa, Thomas Hickey.
Vidi la lama smussata affondare in maniera impercettibile nel collo del ragazzo. Poveraccio. – Vacci piano con queste risposte da ribelle, bastardo. – Sorrise con la sua espressione da mastino. Lo immaginavo benissimo con le mani serrate intorno al calcio di un fucile mentre minacciava Connor assieme a Charles e gli altri. Riuscivo a figurarmelo perfettamente. – Ti sto dando un’occasione.
Roteai gli occhi al cielo limpido e prima ancora che potesse ribellarsi lo afferrai per il braccio, sentendomi appena ridicolo. – Ehi! – grugnì. – Cosa diavolo…? – Lo trascinai verso la villa mentre Thomas ridacchiava, standoci alle calcagna. – E mollami! – Lasciai che Hickey spalancasse la porta della stanza segreta degli Assassini e lo spinsi giù per le scale. Dimostrò di non essere poi così incapace recuperando facilmente l’equilibrio e artigliando il corrimano per non scivolare giù per l’intera rampa come un cretino.
Chiusi la porta alle mie spalle e flessi il polso. Clic. Non lo sentivo da un bel po’ di tempo, e aveva sempre un che di musicale, quel suono. La lama celata scintillò nella penombra della stanza. – Ora, divertiamoci un po’. Che ne dici, ragazzo?
 
– Gesù! – Thomas diede stoccata per l’ennesima volta a Connor, passando la lama sotto la sua e colpendolo allo stomaco con un pugno mentre si piegava in due. Affondò un colpo vicino alla guardia dell’arma di Connor, che mollò la presa come una femminuccia. Aveva un graffietto rosso sul dorso della mano e l’aria di chi ci avrebbe volentieri picchiati entrambi. Soprattutto me. – Chi ti ha addestrato, si può sapere? Voglio andare a stringergli la mano, non mi sono mai divertito così tanto!
Abbandonato su una sedia dietro la scrivania, ridacchiavo tra me e me giocherellando con l’anello dei Templari. Chissà a chi l’aveva strappato Reginald. Non era originale, giusto? Praticamente nessun anello lo era. Mio malgrado, sollevai lo sguardo su Connor. Era completamente zuppo di sudore, la giubba da Assassino mollata sul pavimento e il fiato grosso. Poveraccio. Tom era un osso duro, mica la prima mammoletta di turno. Mi mancavano quei giochetti, comunque. Mi erano sempre mancati. Mi ricordavano il periodo in cui mio padre era ancora vivo e fingevamo di essere una famiglia normale. – Andiamo, prendi quella spada e ricominciamo. Mi sto solo scaldando, bastardo! – Thomas affettò l’aria con qualche fendente e si leccò le labbra con soddisfazione. – Capo, ti va di dargli una dimostrazione?
Sollevai l’angolo della bocca in un ghigno. – Io e te, Hickey? – Schioccai la lingua. – Non hai speranze.
Allargò le braccia e mi puntò la spada contro. – Dimostralo, vecchio.
Staccai una sciabola con l’elsa a cesto dalla parete, controllandone il bilanciamento in mano. Una buona arma. Il filo della lama rifletteva splendidamente anche le misere fiammelle delle lucerne, come se non fosse rimasta in quella cantina abbandonata per chissà quanti anni. Gli Assassini tenevano a quelle vecchie armi, bisogna concederglielo. Peccato che poi le lasciassero lì ad ammuffire ripiegando su certe schifezze che tagliavano meno di un coltello da burro. Comunque, qualche pregio di tanto in tanto ce l’hanno.
Ah, ma non tutti. Ricordiamoci che mio figlio andava in giro con una spada smussata. – Pronto, Tom? – dissi rivolgendogli un sorriso di sfida.
– Quando vuoi. Non preoccuparti, non ti ucciderò. – Mi mostrò i denti in un ghigno. – Sono fedele ai miei principi. E all’Ordine. – Aggiunse l’ultima parte con tono tremendamente serio, povero. Forse pensava che avrei usato quel pretesto per ammazzarlo così come volevo fare con Ben, io, insensibile succhiasangue senz’anima. 
Scrollai le spalle. – Più che in quelli, Tom, confido nella scarsità del tuo gioco di gambe. – Lo attaccai senza un vero e proprio via. Come avevo fatto per mesi interi quando lo avevo dovuto scollare dagli sgabelli delle taverne. Che razza di attacco è se prima c’è un avvertimento? Non si combatte così. Non tra uomini veri.
Parò con l’efficienza di un vero soldato, aspettandoselo. La maggior parte delle volte dimenticavo che era stato un uomo d’arme anche lui, prima di passare dall’amore per la patria a quello per i liquori d’importazione. Eppure eccolo, a contrastare i miei affondi con delle parate eccezionali e ogni tentativo di colpo basso svicolando via.
Conoscevo lo stile di Tom. La regola d’oro di ogni scontro, sapete qual è?
Se non riesci a sconfiggere il tuo avversario, lasciagli credere di aver vinto. A patto che sia abbastanza stupido. Thomas Hickey non era stupido, semplicemente s’ubriacava facilmente di vittoria. Appena allentai un po’ la presa su di lui cominciò a incalzarmi con una stoccata più forte delle altre, facendomi indietreggiare. Mi sfiorò l’orecchio in un affondo di taglio che riuscii a evitare per un soffio. Mi parve di vederlo ridere. E poi il succhiasangue sono io.
Sfruttai il momento buono non appena si presentò. Quando fece per spezzare la mia difesa con un fendente orizzontale parai con la spada quasi perpendicolare al pavimento, usando tutta la mia forza per non tentennare. La lama di Thomas rimbalzò sulla mia come una palla di carta. Rimase a guardare il nulla per un attimo, sbigottito, rischiando di caracollare all’indietro, e fece ciò che a ogni spadaccino sarebbe venuto istintivo in quella situazione. Usò tutto il proprio slancio per tuffarsi in avanti e tentare un nuovo affondo.
L’avevo in pugno. Lasciai che la sua lama scorresse lungo la mia finché ci trovammo faccia a faccia. Ringhiava come un vecchio randagio, e immagino di aver avuto più o meno lo stesso aspetto. Non sono mai stato poi così bravo a bluffare, quindi credo che nel mio sguardo fosse ben visibile la scintilla di chi sa di essere sul punto di vincere. Avviluppai la gamba intorno alla sua come un rampicante per impedirgli di allontanarsi da me, poi flettei il polso. Clic. Meno di un attimo dopo la luccicante lama celata sfiorava la barba di qualche giorno sul mento di Tom.
– Ho vinto – esclamai crogiolandomi nella mia stessa gloria. – Ammettilo, Tom. Coraggio.
Con un gesto frustrato, Thomas lasciò cadere a terra la spada lunga e s’allontanò da me, rivolgendo il suo ghigno nervoso a Connor. – Vince sempre lui, mezzosangue – grugnì mollandogli una pacca sulla spalla. Avevo appena la fronte imperlata di sudore. Mi sentivo come se potessi calzare di nuovo l’uniforme rosso sangue e sterminare civili e soldati nella Repubblica Olandese. Rabbrividii per la repulsione un secondo dopo. – Bisogna farci l’abitudine.
Mio figlio aveva lo sguardo fisso su di me, come se non mi avesse mai visto combattere. C’era ammirazione nel suo sguardo, per una volta riuscivo a leggercela sul serio. Gli sorrisi con una punta di fierezza. – Forza. Tocca a te, giusto? – dissi con il mio tono più amichevole. – Tom, ci penso io?
– No – disse lui. Ripeté la pacca sulla schiena di Connor, ma questa volta somigliò più a uno schiaffo. Gli era tornato il ringhio da cane in faccia. – Almeno so di vincere con lui, capo.
Scoppiai a ridere. – Tutto tuo – feci un mezzo inchino mentre spintonavo appena il ragazzo. Connor continuava a voltarsi. A scrutarmi come se non mi avesse mai guardato davvero. Che potevo farci? – Sì – sbuffai sollevando gli occhi al soffitto. – Lo so, sono bravo. Ora, per favore, da’ al vecchio Tom la soddisfazione di vincere. Dopo, se vuoi, ti faccio una dedica carina da tenere tra le tue memorie.
Hickey rise di rimando e diede a Connor giusto il tempo di estrarre la spada. Poi si schiarì la gola – non chiedetemi perché. È Thomas Hickey, suppongo sia fatto così – e si lanciò in una prima, grandiosa stoccata alla base della lama.
Come potevo non esserne orgoglioso? Era una mia creatura, pressappoco. Avevo insegnato io a Thomas come usare i colpi bassi in un duello vero e proprio. Ero stato io a sferrargli il suo primo pugno sulla gola. Ricordai quel momento con un mezzo sorriso. Aveva passato il quarto d’ora successivo piegato in due dai conati di vomito, senza riuscire a respirare.
Un ricordo felice. L’ho trovato.
Continuai a sorridere mentre Connor si allungava cercando di passare sotto la guardia di Tom. In risposta, lui gli torse il braccio dietro la schiena e gli mollò uno spintone. Voleva sconfiggerlo come si deve, teatralmente. A Thomas piace vincere, ma di solito preferisce la soddisfazione di uno scontro lungo. Quando sa di avere l’avversario già tra le proprie grinfie, s’intende.
Un ricordo felice? Ha pur sempre a che fare con spade, pugni sulla gola e vomito. È davvero questo il meglio che la mia vita riesce a fornirmi?
Feci scrocchiare le articolazioni delle spalle nel silenzio rotto solo dagli sbuffi, i passi sul parquet – il terribile gioco di gambe di Thomas – e il cozzare delle lame, pensando che dovevo accontentarmi, in fondo. Cosa pretendevo? Anche quand’ero piccolo, non c’era un ricordo – uno – che non avesse a che fare con delle armi o, in alternativa, non si concludesse tragicamente. Tutta la mia infanzia, in fondo, aveva portato alla morte di mio padre. Anche il più piccolo episodio racchiudeva qualche dettaglio – qualche parola sussurrata, qualche sguardo di mia sorella, l’espressione preoccupata di mia madre – che già faceva presagire quanto la vita dei Kenway sarebbe stata difficile, breve e ricca di morte.
Come se fosse scritto.
Mia madre sapeva, dunque? Sapeva di aver sposato il famigerato pirata Edward Kenway? Certo che lo sapeva, doveva essere così. Le voci giravano, in qualsiasi caso. L’avrebbe scoperto. Pensava fossimo in pericolo, per questo? No. Mio padre era l’uomo più gentile che avessi mai conosciuto, maledizione. Non ci avrebbe mai fatto del male. Non di proposito, almeno.
Focalizzai la vista sullo scontro. In preda all’ira, Connor aveva gettato la spada a terra e si era lanciato come una macina contro Thomas, cercando di travolgerlo. Lui sgusciò via come un’anguilla e gli fece lo sgambetto, lasciando che mio figlio crollasse con il muso sul pavimento e puntandogli la spada alla base del collo. Rideva come un pazzo.
Nessuno nella mia famiglia aveva vissuto una vita lunga, felice e normale. Finché eravamo immersi fino al collo nella millenaria guerra tra Templari e Assassini, nessuno di noi sarebbe stato al sicuro. Chi riesce a fuggire non è fortunato, di più. Ha Dio dalla propria parte.
Sogghignai. E poi mi chiedono perché non ci credo. Ripensai a tutte le storie che mi aveva raccontato Reginald a questo proposito. C’erano troppe responsabilità per uscirne. Bisognava addestrare i nuovi arrivati, stanare i traditori, cercare seguaci fedeli, scegliere chi appoggiare politicamente e fare di tutto per assicurarsi la vittoria finale. Tutti, a qualsiasi età, potevano avere un compito. Nessuno era inutile, tranne i traditori.
Allontanati dall’Ordine e rischi la morte. Restaci dentro e, toh, guarda, corri lo stesso pericolo.
Perché non potevo semplicemente andare in pensione? Ritirarmi a vita privata e lasciare che gli altri svolgessero il lavoro per me?
L’unico motivo che avevo, l’unico sempre lì a puntellarmi la mente come un picchio fastidioso su un tronco d’albero, era il Grande Tempio. Ero sopravvissuto a due impiccagioni scoprendo di essere indispensabile per quella dannata reliquia. La curiosità era più forte della paura di morire.
Poteva davvero essere peggio di tutto ciò che avevo vissuto?
Sorrisi vedendo Thomas che sghignazzava nell’aiutare Connor a rialzarsi e poi lo ributtava giù con un pugno nello stomaco.
Stentavo a crederci.
– Hai visto, bastardo? Non siamo facili da uccidere come sembra – sghignazzò Tom sputando a terra e passandosi una mano tra i capelli. Continuava a sorridere con aria famelica, un animale che sa di avere la preda in pugno.
Connor, dal canto suo, era piegato in due con una mano sul petto e il fiato grosso, la casacca impregnata di sudore. Sembrava che non avesse mai tirato di spada in vita sua, ed effettivamente le uniche volte in cui l’avevo visto battersi non erano state esattamente dimostrazioni di grande talento. Scrollai il capo ridacchiando e Thomas si girò verso di me, le guance gonfie d’aria e gli occhi al cielo. – Porco demonio – sbuffò passandosi le mani sulle cosce. – Che schifezza. Non ne vale nemmeno la pena.
Sogghignai, passandomi le dita sulla tempia. – Pensavo ti piacesse vincere.
– Già – grugnì. Lanciò un’occhiata a Connor e tirò su col naso, disgustato. – Non così, però. Non ha mai avuto qualcuno con cui combattere veramente – sentenziò Thomas con occhio critico, asciugandosi il sudore dalla fronte. – Solo quel vecchio che, francamente, non credo sia il massimo. Mai prese delle vere lezioni di scherma. – Si voltò nuovamente verso il ragazzo, la punta della spada che tremolava nell’aria. – Hai la forza, e volendo potresti anche raggiungere un minimo di tecnica, caro il mio bastardo, ma – si girò rapidamente la spada in mano e assestò un colpo con l’elsa al poplite di Connor, che non crollò a terra come un sacco di patate solo per un misero colpo di fortuna, – ti mancano le basi.
Mio figlio si passò le dita nei capelli, come se cercasse di recuperare la propria dignità. Probabilmente l’Assassino più attivo dell’intera Confraternita. Ha ammazzato un Templare, eppure combatte come una ragazzina. – Be’ – Thomas prese un gran respiro e si sfregò le mani, rivolgendomi il consueto ghigno da lupo che ha appena stanato la preda. – Io vado a bere qualcosa. Forse tuo padre mi darà il cambio dopo, non è vero, capo? – esclamò con una strizzatina d’occhio prima di lanciarsi su per le scale come se avesse ancora vent’anni.
Rimasi solo con Connor tra quelle quattro mura, i ritratti dei miei vecchi amici a scrutarmi dalla parete. Osservai con un sopracciglio inarcato mio figlio che sferrava un calcione alla vecchia scrivania. – Diavolo! – sbottò con uno sbuffo irritato. Mi venne spontaneo sorridere.
– Non preoccuparti – dissi, le mani in tasca, abbandonandomi mollemente su una sedia. – Gonfiamo un po’ la dote e qualcuno ti sposerà comunque. Abbi un atteggiamento più positivo, ragazzo.
Se lo sguardo potesse uccidere, immagino che sarei almeno ferito dopo l’occhiataccia di Connor. Io, al contrario di lui, so difendermi. – Senti, toglimi una curiosità. – Accavallai le gambe e cominciai a giocherellare con il meccanismo della lama celata, facendolo scattare tanto per. – Come hai ucciso John? So che lui non era un grande sostenitore della violenza, ma non significa niente. Era un buon soldato, uno stratega in gamba. Come sei riuscito a mozzargli la gola se stramazzi al suolo per un calcetto?
Sollevò lo sguardo dalle proprie ginocchia e sospirò. Provava vergogna? Ansia? Paura del mio giudizio?
Quant’è bello essere padri. – Non mi sono fatto vedere. L’ho ucciso silenziosamente, calandomi da un ramo. Colto di sorpresa. Sono bravo a non farmi scoprire.
Sbuffai, ripensando a quando Giunone l’aveva fatto impazzire, facendogli credere che Charles avesse bruciato casa sua, ucciso sua madre, eccetera. Non cercavano la verità, in fondo? Allora perché continuava a credere in quella menzogna? Sciocco. – Non sempre, direi – brontolai come un vecchio. – Un metodo un po’ vigliacco, se posso permettermi.
– Mi avrebbero ammazzato, altrimenti. – Abbassò lo sguardo. – So che l’avresti preferito.
– Oh, smettila di fare la vittima facendomi sembrare il padre cattivo! – esclamai sollevando gli occhi al soffitto. – Povero ragazzo, tua madre è morta, tuo padre è uno stronzo, il tuo Mentore non t’insegna nemmeno a combattere, adesso prendo i fazzolettini, non riesco a trattenere la commozione! – Agitai il braccio in un gesto scocciato. Non lo sopportavo più. – Piantala, per piacere! Sei patetico. Se vuoi davvero cambiare le cose prendi quella spada e combatti. Thomas ti tempesta con i suoi attacchi all’elsa e i colpi bassi? Svicola e spingilo al muro, maledizione. Usa il cervello. Fallo indietreggiare e guardagli i piedi. – Sputai a terra. Urlare in quel modo mi fece montare una strana sensazione nel petto. Per un attimo ero tornato a intestardire gli altri Templari con i miei insegnamenti. Tutti utili, ovvio.
Finché un Assassino non decide di giocare sporco e ammazzarti da un albero. – Io… – Connor non riusciva nemmeno a guardarmi in faccia. – Scusami. Non…
– È ciò che pensi. Non devi scusarti. – Incrociai le braccia e m’alzai, guardandolo dritto negli occhi. – Tieni gli occhi sui piedi di Tom. Ricordatelo. Sono il suo punto debole. – Sogghignai. – Se fossi davvero stronzo avrei lasciato che lo scoprissi da te. Pensaci su.
Con un grugnito, Connor prese a camminare in tondo per la stanza, lo sguardo sui propri piedi. Tornai ad accasciarmi sulla mia sedia, la polsiera ricominciò a scattare nel più totale silenzio.
O quasi. All'inizio non lo sentii, lo ammetto. Lo scambiai per il più familiare e rassicurante clic della lama celata. Connor, invece... chi lo sa. Perché mi chiedo ancora cosa passi per la mente di quel cretino? Sorvolate. Diciamo solo che nemmeno Connor lo sentì. Fummo terribilmente stupidi, da quel punto di vista.
Ci accorgemmo del terribile errore che avevamo compiuto solo quando sentimmo il grido. Un grido che mi fece scattare in piedi e raggelare il sangue. La voce era quella di Thomas, poco ma sicuro, e sembrava che gli avessero squarciato lo stomaco e infilato la mano nuda tra le viscere. Era un urlo sorpreso. Udii il rumore dei vetri infranti e – Dio santo, pensai, fa che sia solo parte della mia immaginazione – mi parve di sentire il viscido sgusciare di una lama nella carne.
Sollevai lo sguardo verso la porta e prima che Connor potesse anche solo aprire bocca furono le mie gambe ad agire, rovesciando la sedia con violenza e scavalcando i gradini due a due. Poggiai le dita sul gelido metallo della maniglia e girai, già pronto a lanciarmi nel corridoio per soccorrere Thomas.
La mia mente era intenta a ipotizzare chi avesse mai potuto organizzare quell’attacco. Reginald? Benjamin? Le giubbe rosse che ancora ci stavano cercando dopo il casino di New York?
Ogni idea mi pareva peggiore della precedente. Dovetti abbassare la maniglia un altro paio di volte prima di rendermi conto che la porta non si era aperta.
Chiusa a chiave.
I rumori della lotta mi raggiunsero attraverso il legno massiccio. Sentii il sangue collassare nei miei piedi e mi voltai verso Connor con gli occhi sgranati, senza riuscire a smettere di battere le palpebre. – È chiusa – sussurrai con la bocca asciutta.
Connor sussurrò una sola parola, ma bastò. Probabilmente in quel caso, per quanto mi dolga ammetterlo, il suo cervello fu più veloce del mio. – Achille – disse a voce bassissima, praticamente un soffio.
Ci mancò poco che cadessi a terra per lo stupore. – No – sussurrai. Non riuscivo nemmeno a immaginare Thomas lottare con Achille. Che cosa passava per la testa di quel vecchio? Non ero un pazzo, allora. Non il solo. – Figlio di puttana! – gridai battendo il pugno contro la porta. – Maledetto figlio di puttana!
Pensare che non avevo mai nemmeno fatto caso alla serratura che chiudeva quella porta. Entravo e uscivo dalla stanza segreta degli Assassini come avrei fatto in qualsiasi altra camera della mia vecchia casa. Non pensavo potesse essere chiusa. E, soprattutto, non avrei mai pensato che Achille avrebbe potuto mettersi contro Thomas.
Potevo perdere tutto il tempo che volevo ipotizzando i motivi per cui il vecchio Mentore figlio di troia se l’era presa così tanto con Hickey, ma dovevo intervenire. In qualsiasi modo. Oltre la porta non si sentiva alcun gemito, niente che potesse far intendere chi stesse avendo la meglio in quello scontro. Ed era questo a farmi più paura.
Ma come potevamo pensare di intervenire, maledizione? Aveva architettato tutto, quel bastardo. Erano entrambi abituati ad uccidere senza farsi sentire. Achille aveva escogitato quella follia nei minimi dettagli, così da non farsi beccare. Così da avere le spalle coperte.
Che bravo maestro. Aveva istruito mio figlio su ciò che sapeva fare meglio, essere un fottuto vigliacco che si muoveva di nascosto. 
A mio favore, però, va detto che i Templari non sono degli sciocchi. Thomas non lo era stato, almeno. Aveva gridato, almeno. E ora io e mio figlio ci ritrovavamo paralizzati davanti a una porta chiusa, una porta che avrebbe stabilito la vita o la morte del mio socio. – Sfondala, Connor.  – Mi voltai a guardarlo con i palmi zuppi di sudore. Aveva gli occhi sgranati e fissi sul vuoto, la spada in mano, ma non sembrava sapere bene cosa farsene. – Cristo santo – grugnii passandomi le mani tra i capelli. Pareva ormai chiaro che non avrei potuto fare affidamento sul ragazzo. – Cristo santo! – gridai, colpendo la porta con un calcio. Non potevo lasciar morire Thomas dall'altra parte di quel pezzo di legno, non me lo sarei perdonato. Mai. Anche se aveva ammazzato Tiio e probabilmente lo meritava, ma non lo avrei permesso. Ammazzare un mio uomo così, davanti al mio naso? No. Inammissibile.
Un'altra occhiata astiosa a Connor mi convinse del fatto che fosse stupito almeno quanto me e non sapesse niente di quella pazzia. D'altro canto, m'interessava relativamente. Avevo bisogno di uscire da lì. Subito. – Aaagh! – sentì Thomas gemere e d'istinto strinsi i pugni. Achille fu colpito da un accesso di tosse proprio mentre colpivo la porta con una spallata, senza sentirla smuoversi di un millimetro.
– Porco... demonio! – sussurrai affondando le mani nelle tasche alla ricerca dei grimaldelli. Maledizione, dovevo uscire di lì. Il prima possibile. Strinsi le dita attorno ai pezzi di metallo e li tirai fuori, affondandoli nella serratura e agitandoli con le mani tremanti. – Porca puttana. Porca puttana.
Sentii i ferri bloccarsi e abbassai con violenza il tensore, più e più volte, lasciando che il grimaldello sfiorasse con mano esperta gli ingranaggi, nell’attesa di sentire quella maledetta serratura scattare. Oltre la porta, come in un universo lontano, udivo solo una sinfonia di colpi, rumore di piatti rotti. Posate che si schiantavano a terra. – Cazzo! – La serratura scattò con il clic di repertorio e mollai un'altra spallata, facendomi solo un male del diavolo. – E porca merda!
– Il chiavistello – mugugnò Connor alle mie spalle. Non feci nemmeno troppo caso al suo tono da ragazzina spaventata.
Mi voltai lentamente, massaggiandomi il braccio destro con la mano. Cazzo, se faceva male. – Come... hai detto, scusa? – Se aveva davvero tirato fuori ciò che credevo... Oh, Dio.
– C'è un chiavistello esterno. Per... per le emergenze. – Connor si grattò il sopracciglio come se non sapesse nemmeno di averlo, un’appendice sconosciuta del suo corpo. – Non ho mai capito a che servisse davvero – grugnì con sguardo ebete, quasi bovino.
Un chiavistello. Per le emergenze? – Oh, Gesù santo – sibilai a testa bassa. Che razza di scusa era, "per le emergenze"? Mio figlio aveva seriamente qualche problema. Non ci pensai due volte e mi lanciai verso la scrivania, spostando le scartoffie con le mani fino a stringere le dita attorno al manico del tomahawk di Connor, abbandonato lì quando aveva sguainato la spada. – Diavolo. – Levai il braccio indietro per caricare il colpo e affondai la lama con tutta la mia forza nel legno massiccio. Più volte, come se volessi amputare un arto a un cadavere, mentre Connor sembrava proseguire con la sua inattività alle mie spalle. Imbecille. Imbecille e ancora imbecille. Come può essere figlio nostro? Che razza di parenti avevi, Tiio? Scrollai il capo, sentendo il sudore correre verso le orecchie, passandovi dietro e solcando le arterie del collo, poi sollevai l'accetta da guerra e calai un altro colpo da boia. Un'asse di legno si spaccò di netto e saltò via, mancandomi di tanto così e schiantandosi sulla faccia di Connor.
Come minimo gli aveva rotto il naso. In un altro momento avrei riso, magari mi sarei anche scusato – Gesù, no, siamo seri. Però non ne avevo il tempo. Allungai il braccio dall'altra parte dello squarcio e scostai il metallo freddo del chiavistello, spingendo la porta e correndo come un pazzo per la casa. Sentivo la gola secca e la lingua come un grosso boccone di tacchino stopposo che non riuscivo a mandare giù. D'istinto portai la mano all'elsa della spada, ma agguantai solo il vuoto. L'avevo lasciata di sotto. Porca merda, pensai di nuovo. Bastava che uno dei due gridasse, e io li avrei trovati. Quel silenzio, invece, mi stava angosciando, perché come minimo significava che uno dei due era morto e l'altro stava a guardare come un povero idiota. Artigliai la parete per cercare di restare in posizione eretta, ma fui sconvolto da un paio di violenti crampi allo stomaco, pur senza vomitare. Merda. Attraversai l'ampio androne della villa e mi infilai nella sala da pranzo costeggiata da quella stupida credenza. Vuota, tolto il nuovo tappeto di stoviglie rotte e coltellini da burro. Biascicai una bestemmia a mezza voce e mi infilai nella stanza accanto, la cucina.
Il luogo dei coltelli.
Non riuscii a dire niente, e per un istante mi parve di essere morto. Che il mio cuore si fosse fermato per sempre. Tum, e poi più niente.
Giacevano a terra, tra i due tavoli.
M'inginocchiai di colpo accanto ad Achille, privo di sensi e con una macchia di sangue raggrumato vicino all'attaccatura dei capelli scuri, e poggiai la testa sul suo petto scarno. Si sentiva un battito costante, scandito dal lieve raschiare dell'aria nei polmoni.
Mi rizzai in piedi con un certo sollievo e m'accostai al mio socio, preoccupato ma al tempo stesso un po' più tranquillo. Almeno non erano morti.
Non ancora.
Tom aveva un ginocchio sollevato e l'altra gamba distesa, il braccio sinistro in una posa scomposta, la mano destra alla gola. Vicino alle dita tese della mano sinistra c'era la pistola. Riuscii addirittura a scorgere del sangue sul calcio.
Il suo capo era circondato da un velo di sangue simile a un'aureola.
– Fa' vedere – sussurrai gettandomi a terra. I calzoni assorbirono il sangue come spugne, merda.
Tom grugnì come un bambino all'idea di staccarsi la mano dal collo, quindi lo feci io. Afferrai le sue dita – una per una – e le allontanai dal collo con slancio. Ero terrorizzato all'idea di vedere il sangue zampillare in spruzzi, la gola squarciata fino alle orecchie con un taglio così profondo da ammazzarlo.
Invece era poco più che un brutto graffio. Il coltello non era affondato abbastanza da recidere un'arteria, ma abbastanza da fargli credere di essere in pericolo di vita. E lo capivo, povero lui. Chiunque avrebbe reagito allo stesso modo, colto di sorpresa da un vecchio fuori di testa armato di coltello. – Va tutto bene, Tom – sussurrai mollandogli uno schiaffetto leggero sulla faccia. – Sta' tranquillo, d'accordo? Io vado a prendere delle bende e...
Avrei volentieri finito la frase se non avessi avvertito la gelida pressione di una lama di piatto sulla mia nuca e una mano artritica afferrarmi per i capelli. Spostai lo sguardo senza movimenti bruschi. Alla mia destra, il corpo di Achille non c'era più. Che tempismo. – Non ti muovere – alitò il Mentore nel mio orecchio. Sembrava di parlare con il diavolo. – Altrimenti ti sgozzo. E poi sgozzo per bene anche lui, dannato figlio di puttana!
Thomas, dal canto suo, non m'aiutò. Prese a tossire alzandosi lentamente a sedere, schiena contro il tavolo della cucina. – Achille – sussurrai cautamente. La mia unica arma era la lama celata e non potevo ucciderlo, così come non avrebbe potuto farlo nemmeno Tom. Con Achille morto e niente in mano, l'intera operazione andava a puttane. Tutti i miei sforzi buttati in una squallida latrina insieme al resto della merda. – Achille, ti prego, cerchiamo di ragionare.
– Col cazzo! – strillò, e la lama mi gelò la spina dorsale. – Non si tratta di ragionare. Io sono un Assassino e tengo due di voi in casa! Qui! Con il pieno accesso alla mia vita, ai miei segreti e a quelli della Confraternita quando dovrei solo ammazzarvi entrambi! Ammazzarvi come si fa con i parassiti, perché è questo che siete voi, solo dei fottuti dannati parassiti!
Mi stavo mordendo il labbro a sangue nell'attesa della prima coltellata nella schiena. La morte mi aveva a portata di mano, eppure si faceva aspettare. Era sempre stata una grande stronza. – Due Templari! Nella mia casa? No. – Il vecchio Mentore tossì e raschiò come se i polmoni gli si stessero sganciando dalle costole. – Io non tollererò tutto questo. Voi siete la nostra rovina! Noi dovremmo uccidervi tutti, e io ne ho accolti due come farei con il sangue del mio sangue!
Avevo lo sguardo fisso su Thomas – e dove altro avrei potuto guardare? – mentre il sudore gelido spruzzava la mia schiena. Hickey si allungò debolmente verso la pistola abbandonata a terra, controllando che il proiettile fosse in posizione e puntandomela contro. Perfetto. Prigioniero tra due fuochi.
A quella vista, Achille cambiò la posizione del coltello, facendolo scorrere sulla mia gola, il filo premuto contro la pelle. La parte destra del collo di Thomas presentava quello squarcio slabbrato e una macchia rossa e acquosa che arrivava fino al collo della camicia. – Che cosa vuoi fare, eh, bastardo figlio di puttana? Vuoi spararmi? Fallo e lui morirà.
– Non ti ucciderò, se non mi costringerai. – Che belle parole dette dal nostro amico mediatore, complimenti, bastardo. – Ce l'hai con me per quello che ho fatto? Per come sono andate le cose, lo so. Mi vorresti morto, ma io sono qui per aiutarti, in fondo. Vogliamo la stessa cosa, no?
Avrei anche potuto sibilargli di smetterla con quel discorso patetico che chissà dove aveva sentito, ma Achille incise una linea sottile con la lama sulla mia trachea. E se fosse diventata più lunga e profonda avrebbe anche potuto uccidermi. Non me la sentivo di correre il rischio. – Sta' zitto, brutto bastardo, zitto! Tu sei peggio di tutti loro! Tutti quanti!
Tom sbuffò. – Sono un uomo diverso.
– Ma impugni la pistola e minacci di morte come se non fosse cambiato niente – rispose Achille disgustato. Per la prima volta da quando lo conoscevo avevo voglia di erigergli un statua. Finalmente diceva qualcosa di sensato.
Thomas deglutì lentamente e lo vidi sbiancare. – Non puoi ucciderci, Achille. Né me, né lui. Smetti di combattere e...
Cazzo di merda! La lama del Mentore filò nell'aria sibilando a mezzo millimetro dal mio orecchio per affondare nella tappezzeria, proprio dove fino a meno di secondo prima c'era l'occhio destro di Tom. Aveva avuto la prontezza di riflessi di gettarsi a terra con una mano sul petto. Non era spaventato, solo sorpreso. La signora con la falce non ci metteva paura, ma quando s'affacciava sulle nostre patetiche vite era sempre un bell'infarto. – Non posso tenervi in casa mia! È disonorevole! Una vergogna per me e per l'intera Confraternita, come Mentore. –  Serrò le mani rugose intorno al mio collo e istintivamente mi irrigidì. Il vecchio cominciava a farmi preoccupare, perché sembrava che, potendo, ci avrebbe veramente ammazzati entrambi. Alla faccia della follia momentanea. Non può, mi aggrappavo a quell'inutile speranza. Io sono la Chiave del Grande Tempio, non può uccidermi.
Ancora?, mi rispose la voce del raziocinio. A nessuno frega niente di quel maledetto Tempio, lo vuoi capire? Solo a te. Ti tengono in vita così da ammazzarti per ultimo, immolarti come un agnello sacrificale.
A Connor interessa il Tempio, replicai per non dare ragione a quella stupida vocetta. Non lascerà che mi uccida. Non lascerà che questo stronzo ci ammazzi tutti e due.
Chi, tuo figlio? Quello che non ha nemmeno avuto il fegato di sfondare una porta, paralizzato come un bambino che si caga sotto per ogni inezia? Fiducia ben riposta, la tua.
Che idiota. Mi stavo sforzando di sperare quando, da Templare, sapevo benissimo che non serviva a niente. Era nella natura umana, la speranza. Perché? Perché, se tanto non ci salverà mai, la speranza è parte dell'uomo, primordiale come l'istinto di sopravvivenza?
Come no, vuoi anche del tè, pasticcini, un massaggio ai piedi per concentrarti e giungere a capo di cotanto mistero? Coglione.
Grazie, raziocinio. Chiusi gli occhi e mi preparai alla morte, ma in quello stesso istante per la casa risuonarono i passi di Connor, pesanti come quelli di un animale spaventato. Lo stava facendo di proposito, suppongo. Voleva che il suo Mentore si salvasse certamente più di quanto voleva che io mi salvassi. Però non aveva scelta fuorché lasciarmi vivere. Il mio spirito si risollevò, dato che forse avevo la possibilità di arrivare alla fine della giornata che ancora respiravo. – Lascialo – sentii la sua voce alle mie spalle e sollevai lo sguardo con sollievo. Grazie a Dio. – Achille, per piacere, lascialo andare. E non ucciderli.
Il vecchio mi spinse a terra e si voltò verso Connor. Non sanguinavo. Stavo bene. Mi alzai accanto a Thomas mentre la lama scattava col solito clic. – Che cosa vuoi saperne, tu? – ringhiò il vecchio levando i pugni rachitici come se potessero fargli del male. – Noi siamo votati ad ucciderli, Connor! È il nostro compito, il nostro giuramento!
Mi ritrovai a pensare quanto tutto ciò fosse assurdo. Noi ci impegnavamo a difendere la causa, non necessariamente a uccidere gli Assassini. Anche se alla fine accadeva lo stesso, per carità, ma loro non avevano il concetto di neutralizzazione. Noi Templari o eravamo morti o rappresentavamo il pericolo. E un pericolo non si lascia in vita. Non lo si fa camminare tranquillamente per casa, con la libertà di sapere dove sono le armi, il grog e le stanze segrete. Per gli Assassini, un pericolo si ammazza come un qualsiasi scarafaggio.
Thomas Hickey non faceva la differenza soltanto perché era amico mio. Nemmeno per me era diverso. Vedevo bene quanto Achille avrebbe voluto appendere la mia testa al muro come un trofeo di caccia. – Sono un cancro! – strillò di nuovo il Mentore. – Ci stanno massacrando dall'interno! Cacciamoli di qui o li ammazzo tutti e due, hai capito bene? Tutti e due.
– Achille, noi...
– Sono io il maledetto Mentore, qui, stupido novellino, e se ti dico di fare qualcosa tu obbedisci, chiaro?
Più che il tono di voce o il modo in cui Achille si rivolse a Connor, mi fece sobbalzare il ceffone. Un grosso schiaffo scaricato proprio sulla faccia del ragazzo, come quello che si da a un bambino cattivo. Trasalii, lanciando una piccola occhiata a Thomas. Per una volta, la violenza non lo stava divertendo. – Fa' quanto ti ho detto – grugnì Achille tra i denti – prima che decida di sgozzare anche te.
Detto questo, emise un ultimo ruggito esausto e uscì ad ampie falcate. Non l'avevo mai visto così furioso. Ci lasciò a noi stessi, due Templari rassegnati all'idea di una vita fuori da quella dannata casa, un po' più libera ma anche un po' più pericolosa, e un Assassino sconvolto dai trattamenti del suo stesso Mentore, la mano incollata alla guancia che il vecchio gli aveva percosso.
– Be' – Thomas ruppe il silenzio con voce roca, guardandosi le dita sporche di sangue e pulendosele sulla tappezzeria. – Direi che ci tocca fare i bagagli, capo. Ehi, bastardo – esclamò in direzione di Connor – sai per caso dove posso trovare delle bende?
Non so dire se fu per il nervosismo, ma scoppiai a ridere come un cretino davanti all'espressione di Connor.
D'altronde, credo sia così che si affrontano le cose.
 
Thomas Hickey stava fischiettando, stravaccato sul letto con le gambe accavallate e allungate sulla tappezzeria della camera, come se il vecchio Mentore non gli avesse mai affondato un coltello nel collo. Si limitava a fissare il soffitto con il cappello piantato in testa e le dita che giocherellavano con la benda candida sistemata a coprirgli la ferita. Connor si era reso utile fornendomi il necessario per medicare Tom, poi si era lasciato cadere su una sedia nella sala da pranzo e non aveva più aperto bocca.
D’altronde non avevamo certo bisogno del suo ingegno per capire che i nostri giorni di quiete – Gesù, se possiamo definirla tale – alla tenuta erano finiti e ci toccava infilare i nostri averi nelle valigie, togliendoci definitivamente dai piedi. Thomas aveva quasi fatto i salti di gioia davanti alla prospettiva di uscire da quella casa e tornare in città. Gli sarebbe bastato qualunque paesino inculato con un bordello. Non gli importava nient’altro.
– Capo – brontolò voltandosi a pancia in giù e lanciandomi un’occhiata preoccupata. – Tutto bene?
Mi ero accasciato un attimo con il fianco contro il muro, fissando le chiazze biancastre che gli stivali di Tom avevano lasciato sulla tappezzeria spessa. Da un lato non riuscivo a comprendere la reazione di Achille, ma una parte di me lo capiva eccome. Mi avevano dato pieno accesso ai loro segreti, alle loro armi e ai loro piani – un paio dei quali ero anche riuscito a sventare –, ma se di me potevano minimamente fidarsi, quale uomo dotato di senno avrebbe dato le chiavi di casa propria a Thomas, un falsario omicida dipendente dall’alcool e dal sesso?
Forza, datemi dell’idiota. Aveva persino ucciso la madre di mio figlio, è un vostro diritto darmi dell’idiota per questo.
– Diciamo di sì – esclamai tornando a spalancare l’armadio addossato alla parete. Le camicie e i calzoni di entrambi erano disposti nel caos più totale. Avevo detto fin dall’inizio che non volevo saperne niente di bucato – soprattutto di corde da bucato, per l’amor di Dio –, quindi Connor si occupava di strappare i nostri abiti quand’erano asciutti e scaricarli nell’armadio. Era la donna di casa, ma probabilmente voleva conservare un briciolo di dignità.
O forse era solo sfaticato. Chissà. – Come va il collo? – chiesi con un lungo sospiro, lanciandogli un paio di calzoni chiari e costellati di toppe. Decisamente suoi. Sollevai una bracciata di abiti e li scaricai sul letto, spalancando una delle due vecchie valigie che Connor ci aveva fornito.
Thomas si rimise nella comoda posizione di prima, rigirandosi i calzoni in mano. – Si respira ancora, capo. Si respira ancora.
Dopo quell’attentato, la voglia di conversare tra noi era scesa sotto i piedi, ma non volevo arrendermi. Avevo bisogno di chiarirmi con lui, almeno. – Mi dispiace – dissi piegando alla bell’e meglio una camicia. – Sono stato io a coinvolgerti in questa storia.
Ridacchiò. – E a liberarmi da Bridewell. Sì, dovresti proprio scusarti per una cosa del genere. – La sua voce si era fatta nostalgica e quasi gentile, come non l’avevo mai sentita. Forse era davvero cambiato. – Capo, non preoccuparti per me. Sto bene. Non m’aspettavo un’accoglienza del genere, lo ammetto, e quel vecchiaccio è stato un maledetto bastardo per avermi attaccato in questo modo, ma non sono uno stupido.
Una domanda mi balenò in testa e non potei fare a meno di sogghignare mentre gliela ponevo. – Thomas, se avessi la possibilità di uccidere un solo uomo tra Ben e Achille, chi ammazzeresti? – Di proposito non gli avevo chiesto di scegliere tra Achille e Reginald. Sarebbe stato troppo facile. Almeno per me.
Sbuffò. – Colpo basso – esclamò svogliatamente. – Non possiamo uccidere Achille e non sappiamo quanto convenga uccidere Ben. Un bel casino.
– Mi capisci, quindi? – chiesi sedendomi sul letto di fronte a lui. Parlare col suo tricorno era un’esperienza interessante, lo ammetto. – Mi avresti capito, se avessi deciso di ucciderti?
Mi rispose sospirando, ovvero nel modo migliore. Stava confermando la mia teoria: se avessi deciso di farlo fuori il vecchio Thomas Hickey, quello che impiccava bambini e viveva consapevole delle proprie malefatte, senza rimorsi, sarebbe saltato fuori per accoltellarmi alla gola prima che potessi farlo io. Scossi il capo con tristezza. – Ehm – gorgogliò Connor infilando la testa nella porta. Mi fece prendere uno spavento tale da farmi sobbalzare, per quanto tentassi di non darlo a vedere. – Achille ha detto solo di… fare in fretta. – E sparì, così com’era entrato, come se stando troppo vicino potessimo infettarlo con la nostra pericolosissima malattia.
Scrollai le spalle e afferrai un’altra camicia, gli occhi che scrutavano nostalgici la valigia.
– Mastro Kenway! Mastro Kenway!
Un sorriso triste m’attraversò il viso. Quanto tempo era passato? Dov’era finita quella valigia, poi? Era uno dei pochi gingilli che ero riuscito a salvare da casa mia e che mi ero portato dietro da sempre, fin dai miei primi viaggi con Reginald. In Francia, e poi sulla Providence. Fin lì. Addirittura nella repubblica olandese. Ricordai con un mezzo sorriso l’ultimo luogo in cui l’avevo lasciata, addirittura dopo il Green Dragon.
Era rimasta nei miei alloggi, immagino. Fort George.
Pensai con un sorrisetto all’espressione che Washington poteva aver fatto trovando una valigia abbandonata con il mio nome inciso sopra. E il vecchio indirizzo, addirittura!, quando ancora abitavo nella piazza della Regina. L’indirizzo di mio padre, che forse per lui era sempre rimasto un brigantino ormeggiato a Nassau.
– Per caso tu sei il figlio di John e Isabella? – avevo chiesto a quel giovanotto così sicuro di sé e contemporaneamente tanto ansioso all’idea di incontrare un uomo del mio calibro. Glielo si leggeva negli occhi. Aveva predisposto tutto per il mio arrivo, dalla prima all’ultima quisquilia. Aveva addirittura fatto in modo che i miei averi arrivassero al Green Dragon senza che mi dessi pena di portarmeli dietro. 
– Il solo e unico. – Già. Non mi ero mai chiesto che fine avessero fatto i suoi genitori, mi bastava sapere che la sua famiglia era la mia. L’Ordine. Già questo – e il fatto che mi ammirasse come pochi altri – lo rendevano una brava persona ai miei occhi. La migliore che potesse mai accogliermi, dopo un viaggio faticoso come quello. – Se devo servire l’Ordine, non posso immaginare un mentore migliore di voi.
Dovetti trattenermi da stringere la testa tra le mani. Lo stesso ragazzo mi aveva minacciato di morte. Aveva detto che non valevo più niente. Che non ero più nessuno. E, allo stesso tempo, avevo letto il terrore nel suo sguardo mentre Reginald gli chiedeva – ordinava, prego – di unirsi a lui nei suoi giochetti perversi. Sentivo che avrebbe preferito avere me al suo fianco, in quell’istante.
Le stupide illusioni di un padre che preferirebbe avere qualcun altro come figlio. Che potevo farci? Era nella mia natura.
Sospirai e serrai la valigia con i miei pochi averi all’interno. Avevo tutte le armi addosso, una redingote appena più leggera all’interno del bagaglio, il cappello calato in testa. Aspettavo solo che ci dessero l’ordine di andare. Saremmo stati liberi. Avremmo avuto finalmente la possibilità di abbandonare quella casa soffocante per dedicarci ai nostri affari.
Allora perché sentivo un vuoto nel petto alla sola idea di non vedere più la tappezzeria scura e i nostri rassicuranti ritratti nella stanza segreta, una stanza che rappresentava solo più brutti ricordi sia per me, sia per Thomas?
Due poderosi pugni sferrati alla porta mi fermarono prima che potessi rispondere. Tom saltò giù dal letto e andò ad aprire nonostante non ve ne fosse bisogno, preparando un ghigno sufficientemente carico di disprezzo e sarcasmo da spezzare qualsiasi convinzione di aver vinto avesse preso piede nella mente degli Assassini.
Eppure l’unico che sembrava soddisfatto della situazione era proprio Tom. Finché non aprì la porta e s’imbronciò di colpo, non trovandosi davanti Achille. – E tu chi cazzo sei? – grugnì appoggiandosi con la smorfia di chi voleva solo attaccare briga stampata in faccia.
– Credo che il tuo amico mi conosca, Hickey.
Il modo dispregiativo in cui il nuovo arrivato pronunciò il cognome di Tom mi spinse a voltarmi, quasi più del fatto che avesse detto di conoscermi. La cornice della porta era occupata, oltre che da Thomas, da un Assassino con il cappuccio abbassato, la carnagione olivastra e gli occhi scuri come l’inchiostro, dello stesso colore dei capelli impastati, infossati nelle orbite e circondati da un paio di brutte occhiaie. Si dedicavano ancora tanto assiduamente alla protezione di George Washington da non andare nemmeno a dormire? Che brutta vita. Con due Templari morti e altri due sotto controllo, chiunque avrebbe acchiappato al volo l’occasione per una vacanzina. Un po’ di tranquillità. Gli Assassini non sanno cosa voglia dire rilassarsi, suppongo.
– Joseph London – dissi alzandomi in piedi, stupendomi della rapidità con cui quel nome era tornato alla mia mente. Uno degli Assassini che tanto tempo prima mi teneva d’occhio, socievole e simpatico come un calcio nel culo.
In quel momento, però, sembrava addirittura messo peggio. – Già – disse porgendo con una smorfia la mano a Thomas, che la strinse lanciandomi un’occhiata interrogativa. Mi stava chiedendo se potesse fidarsi o meno di quel tipo. Lasciai scoprisse da solo che razza di persona era. Un Assassino come tutti gli altri, niente più e niente meno.
– Che ci fai qui? – chiesi sollevando la valigia. – Sei venuto a salutarmi?
Abbassò lo sguardo, le labbra contratte severamente. Quanti anni poteva avere, pochi meno di trenta? Eppure sembrava un vecchio, sfinito almeno quanto Achille. – Faccio parte della vostra scorta. – Immaginai, per un attimo, di cogliere un sorrisetto sul suo viso davanti alle nostre espressioni improvvisamente sbigottite. – Pensavate davvero che vi avremmo lasciati liberi di scorrazzare per le Colonie mettendo in atto i vostri piani? Che vi avremmo permesso di distruggerci più di quanto avete già fatto?
Aggrottai la fronte, un po’ scioccato da quell’affermazione. – Quanti ne sono morti da quando sono qui? – chiesi semplicemente, perché sapevo dove voleva arrivare. Tra la tentata cattura di Tom e tutti i guai che dovevo avergli fatto passare in precedenza era ovvio che qualcuno ci avesse lasciato le penne. Probabilmente ammazzati da me medesimo.
Avevo tentato di non ucciderli, davvero. Posso giurarlo in questo momento, davanti a Dio. Immagino fosse stata la forza dell’abitudine. La paura di fallire a così poco dal traguardo. Non fate di me un mostro. – Joseph. Quanti? – Non volevo saperlo davvero. Allora perché lo chiedevo? Per sentirmene addossare la colpa? Per farmi ripetere che ero soltanto un bastardo assetato di sangue? Ci provavo gusto?
– Arthur è morto. Anche Foster. – L’Assassino fissò un punto imprecisato al di là della mia testa, come se riuscisse a vederli sorridere dall’oltretomba. Arthur. L’unico di loro che mi avesse mai rivolto la parola in modo gentile. Gesù. – Kenway, per coprire voi e i vostri stupidi traffici alcuni di noi ci hanno rimesso la pelle. Le giubbe rosse di Pitcairn hanno catturato Belladonna. – Si morse il labbro. Intesi facilmente cos’era successo. – L’hanno stuprata e le hanno mozzato le gambe. Non abbiamo potuto fare niente per lei.
È ciò che succede ad avere una donna con le tette grosse tra le vostre fila, sibilò con una certa acidità la mia parte più insensibile. E poi quella non mi era mai andata giù. A Thomas sarebbe piaciuta. – Mi dispiace per le vostre perdite, London.
Avrebbe potuto prenderla con filosofia, dicendo che cose simili erano già capitate. Si chiuse nel mutismo, invece, e tenne la porta aperta per farci uscire. Quando gli passò accanto, Tom gli mollò un pugnetto amichevole sul petto. In risposta, l’Assassino gli mollò uno scappellotto sul collo. Ringraziai di dare le spalle a Joseph, perché un risolino isterico mi uscì di bocca prima che potessi fermarlo, proprio mentre varcavamo la porta d’ingresso.
Il sentiero era occupato da una vecchia carrozza, Connor che cincischiava lì accanto, prendendo a calci i sassi. Quando mi vide uscire sollevò lo sguardo e l’abbassò di colpo. Si vergognava di averci accolto e trattenuto in casa propria per tutto quel tempo? Oppure, al contrario, la causa del suo imbarazzo era proprio il vecchio Mentore, probabilmente chiuso in casa a brindare sperando che la carrozza si ribaltasse nel corso del viaggio? Senza uccidere i suoi preziosi Assassini, naturalmente. Non sia mai.
Scaricai la mia valigia a un Assassino, notando con uno sbuffo la scritta stampata sul fondo, Abigail Davenport. Un’altra idea di quel geniaccio di Achille per umiliarmi. Che grand’uomo. Almeno aveva dimostrato un minimo di senso dell’umorismo. Oppure era semplicemente uno stronzo, e non che la cosa mi stupisse. Thomas, trotterellando dietro di me, poggiò la valigia sul vialetto e scoccò un’occhiata nervosa alla nostra scorta. I nostri carcerieri fuori di lì. Il cocchiere, un Assassino armato di spadone – santo cielo, da quanto non vedevo uno spadone? Gran bella arma, comunque – scese con grazia e ci venne incontro. Come se stessimo andando in vacanza. – Abbiamo predisposto tutto – tuonò, la voce potente. Non l’avevo mai visto prima, eppure la sua sicurezza mi ricordava mio padre. E, osservando di sbieco sotto il cappuccio sollevato, notai che non era poi così giovane. Qualche anno più di me, addirittura. Con uno spadone. Tanto di cappello. Avevo sempre pensato che quelle armi fossero da giovani, in quanto necessitavano di più forza che astuzia. Avrei visto bene Connor, con una lama del genere. – Vi spiegheremo una volta arrivati. Forza.
Thomas mi guardò, aspettando che gli concedessi con un’occhiata il permesso di sguainare la spada e impalare quel guastafeste, o come minimo sputargli in faccia. Scossi appena il capo e la saliva di Tom, già bella che pronta sotto la sua lingua, si schiantò sul vialetto. – Bella merda, la libertà – grugnì spalancando lo sportello della carrozza e stravaccandosi sul sedile, le gambe stese di fronte a sé. Accese addirittura la pipa.
Osservai la scena con un sorriso e vidi Connor affiancarmi con pochi passi pesanti. – Mi dispiace – sussurrò con gli occhi su Hickey. Non aveva nemmeno il coraggio di guardarmi in faccia. – Non volevo andasse a finire così.
Scrollai le spalle, voltandomi per primo verso di lui. – Boston? – chiesi senza grande interesse. Qual era la differenza, in fondo? Boston, New York, una qualsiasi delle altre Colonie. Non sarebbe cambiato nulla. Sempre prigionieri eravamo, anzi, senza Connor sarebbe andata peggio. Lo sapevamo entrambi. Chapman, uno dei vecchi Assassini rimasti in vita, un nero grande come una montagna, abbatté le nocche sul finestrino di Thomas appena vide il fumo invadere l’angusto ambiente.
Sapevo di avere un minimo di potere sul ragazzo. Gli altri erano ossi più duri, perché nessuno riponeva la minima fiducia in me. Oh, be’, pensai guardandomi la mano sinistra, non sono gli unici. Ci sto facendo l’abitudine. – Già – sussurrò, fissandomi ostentando sicurezza. Era solo una mia impressione o aveva gli occhi lucidi? – Boston.
London emise un lungo fischio tra i denti e mi fece un secco cenno con la testa, invitandomi a entrare nella vettura. Mollai una pacca sul petto di Connor. – Tienici informati, ragazzo. Ritengo tu sappia dove trovarci. – Aprii il piccolo sportello e feci per salire, ma mi bloccai. Avevo ancora qualche cosetta da dirgli. – Ah, e prova ad ammazzare uno dei miei senza che io lo sappia e te ne pentirai. Anche se si tratta di un bastardo come Church. – Soprattutto se si tratta di Church. L’idea di poter appendere un traditore mi faceva sentire di nuovo forte. Un membro effettivo dell’Ordine.
Si morse il labbro, lo sguardo colmo di rammarico. – Io sono votato a farlo, Haytham. – Usò le stesse parole di Achille, e non seppi se prenderla o meno come un’offesa personale.
Gli sputai comunque un commento acido addosso. – Ti sembra un buon motivo per agire, sorella? – ribattei con mezzo ghigno. Avrebbe anche potuto sorridere, sarebbe stato gentile. Chi altro avrebbe avuto la forza di scherzare in un momento simile? Il momento in cui smetteva di trattarmi, non dico da padre, ma da conoscente e diventavo a tutti gli effetti un prigioniero, un essere umano da affidare a una scorta e di cui non interessava praticamente nulla a nessuno. – Questa è davvero tutta la vostra profondità? Complimenti. Avrei dovuto ucciderti fin dall’inizio e fare una grigliata con le tue palle, sempre che fossi riuscito a trovarle.
Abbassò lo sguardo. Niente, non funzionavano nemmeno le frecciatine da stronzo. Ero proprio senza speranza. – Haytham, mi spiace – ripeté con una mano sulla nuca. – Ci rivedremo. Giusto?
Ridacchiai. E cosa ne potevo sapere io? L’idea di cacciarci era stata loro. Chissà quando avrei avuto un’altra occasione per parlare con lui. Il tempo passato a contatto mi era sembrato insopportabile, ma al tempo stesso mi sentivo come se non l’avessi sfruttato a sufficienza. Ma non è finita qui, sussurrò una vocetta dentro di me. Lo rivedrai. Giusto? Scrollai le spalle e gli porsi la mano per salutarlo. – Magari dall’altra parte di una lama.
Deglutì annuendo con una certa violenza, le dita carnose strette intorno al mio palmo. Dopodiché saltai sulla carrozza con Chapman e Joseph London a oscurarmi la vista sull’esterno con le loro enormi spalle. Il cocchiere si fece scrocchiare il collo e io m’infossai mollemente nel sedile. – Spegni quella merda – intimò Joseph a Thomas.
Le volute del tabacco svanirono nell’aria più o meno quando oltrepassammo il vecchio cartello di legno che indicava l’ingresso nella tenuta di Davenport.
Chiusi gli occhi. L’unica cosa che volevo vedere quando li avrei riaperti era l’insegna di una locanda con una cucina decente e letti comodi. E, trattandosi della grande Boston, non era certo pretendere chissà cosa, no? 

 

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Capitolo 39
*** All hail the King. ***


Take your time coming home,
Hear the wheels as they roll.
Let your lungs fill up with smoke,
Forgive everyone. […]
I’m just a boy inside a voice,
And if it’s true, if it’s true, if it’s true,
Then what the fuck have I been doing the last six years?
How did I end up here?
– Fun., Take Your Time (Coming Home).
 
 Oh, sì che lo era. Lo era eccome.
– Dio, no! – esclamai con un sospiro lamentoso balzando giù dalla carrozza. – Tutto, ma non questo! Per l’amor di Dio! – Credetemi, almeno voi: in tutta sincerità avrei voluto soltanto risalire, sbattere forte lo sportello e andarmene da lì. Boston, la grande Boston, probabilmente ha più taverne, bordelli e locande che abitazioni vere e proprie. Tra tutte, tutte quelle in cui potevamo alloggiare, gli Assassini avevano scelto quella giusta.
La peggiore. – Anche per me è un piacere, Kenway. – Sentire di nuovo l’insopportabile accento francese di Stephane Chapheau mi fece correre un brivido lungo la schiena. Quanto tempo era passato, eh? Sembrava sempre troppo poco.
Mi bastò lanciare un’occhiata indagatrice a Thomas per capire che entrambi ci aspettavamo di rivedere la porta di massiccio legno verde e la ciondolante insegna familiare del Green Dragon. Illusi. Era stato il nostro covo e rifugio, un seno materno in cui potersi cullare dopo faticose giornate di ricerca, lavoro e caccia. Nonostante io preferissi mille volte quello di Tiio. Thomas si umettò le labbra e abbassò la voce fin quasi a farla diventare un sussurro. – Dimmi che quello non è chi credo sia, capo – mormorò in tono vagamente minaccioso. Sollevai le spalle. Non avevo certo bisogno di scusarmi con lui, io.
Scrutai l’edificio in cui sorgeva la taverna con una smorfia di scherno. Il solito, vecchio palazzo fatiscente, ricoperto in parte dalle muffe e con l’intonaco che cadeva a pezzi grossi come carte giù dalle pareti. L’insegna sopra la porta, cui prima non avevo mai fatto caso, mi fece sorridere. – French – lessi guardando Stephane negli occhi. Grazie a Dio non indossava il completo degli Assassini, altrimenti sarebbe proprio sembrato uno stupido. – William deve averci pensato su parecchio. Dio, originale.
Stephane lanciò un sospiro e s’avvicinò a me, poggiando una mano sul mio braccio. Pareva quasi stesse rivedendo un vecchio amico, o meglio, trascinando un povero idiota su per i gradini del manicomio. Mi lusingava, davvero. – William è morto.
Strabuzzai gli occhi. – Ah. – Non trovai nulla di più intelligente da dire. – Mi… dispiace? – Sentii gli occhi di Chapheau trapassarmi come lame, quindi sollevai di nuovo le spalle, sperando che capisse. Non avevo nessuna voglia di fingermi dispiaciuto per un uomo che a malapena conoscevo. Ero deluso dal comportamento infantile degli Assassini, mi sentivo come tradito un’altra volta. Dovevamo lavorare insieme, invece finivamo sempre per combinare casini. Anche quando le intenzioni erano le migliori. – Potremmo uscire, di tanto in tanto? – chiesi solo per spezzare quel silenzio imbarazzato. Si prospettava un altro bel periodo di attesa. Evviva.
Stephane spalancò la porta, invitandoci a entrare. L’odore intenso della birra mi travolse appena misi piede lì dentro: era come se il bancone, i tavoli e le sedie ne fossero completamente impregnati. Guardai Hickey di sottecchi. Aveva le narici allargate come un cane da caccia e la mano istintivamente corsa al borsellino vuoto. Achille non ci aveva dato un solo penny – ci avrei scommesso – e per quanto riguardava i miei soldi, be’, non li avrei mai spesi per Tom. Non per la schifosissima birra francese di Stephane. – Joe e Chapman resteranno di guardia alla vostra stanza tutto il giorno, in qualsiasi momento – spiegò il francese salendo le scale scricchiolanti. La taverna era buia e intima, ma così piccola da farmi sentire soffocato. Oltretutto era vuota; il sole che filtrava attraverso le finestre era ancora luminoso e proiettava le lunghe ombre di sedie e tavoli sul parquet consumato. Dovevano essere le cinque e mezza, forse un po’ più tardi. Nessuna taverna poteva essere vuota a quell’ora, ci posso giurare. – Se volete uscire, loro vi seguiranno. Non provate a fare qualche casino. – Il piano superiore era una semplice balconata che dava sulle diverse stanze, due per lato. Nessun quadro alle pareti, le porte delle altre stanze aperte e sbatacchianti per gli spifferi. Thomas mi guardò interrogativo. – Eccoci. – Stephane batté la mano su una porta aperta e mi rivolse un sorrisetto beffardo. – Buona permanenza. – E ci lasciò lì.
Hickey infilò il muso nella cornice della porta, guardandosi intorno. Un cubicolo completamente occupato da due letti e un misero tavolino. Lo spazio tra una struttura metallica arrugginita e l’altra era di appena mezzo metro. – A Bridewell c’erano celle migliori – sbraitò sputando sulle assi del pavimento. – Dio! Che schifo. – Stephane ci guardò con tristezza scendendo le scale, quindi Thomas gli fece un gestaccio. – ‘Fanculo! – esclamò stravaccandosi su uno dei due letti. – Hai visto, capo? Ci trattano come appestati. Non possiamo fare un passo senza che questi due rottinculo ci perseguitino – sbottò, incurante della porta aperta. – Che cosa facciamo? – chiese, e sembrava fosse sull’orlo del pianto. Aveva ragione lui, ma non potevo farci niente.
Sospirai lentamente, guardandolo senza compassione né pietà, solo semplice impotenza. Non avevo risposte per lui, e non ne avevo nemmeno per me stesso. Scossi il capo e feci schioccare la lingua. – Chapman – chiamai muovendo un passo verso la balconata – sbaglio o gli affari non sembrano andare poi così bene, da queste parti?
L’enorme Assassino nero – forse più grosso di Connor – mi si parò davanti con le braccia incrociate e una smorfia contrariata in volto, tutto intento a gettare occhiate nervose giù per le scale e al suo collega. Che avessero paura di Stephane? Mi sembrava un po’ fuori luogo. – Questo posto è fallito, Kenway – sibilò a voce così bassa che quasi non lo sentii. – Le giubbe rosse hanno costretto Stephane a chiudere. Sanno qualcosa. Hanno dato fuoco a casa sua e lo hanno picchiato più volte. Si è ridotto alla miseria, quindi ora fa questi lavoretti per gli Assassini, cercando di tirarsene fuori.
Aggrottai la fronte. – Stephane è un Assassino.
– Certo che lo è, buffone – brontolò Joseph nella tipica posa da guardia, gambe appena divaricate e mani unite all’altezza del bacino. – Hai visto quanti anni ha? Prova tu a difenderti da mezza dozzina di spalle sanguinanti armate fino ai denti e a uscirne vivo. – Non scrollai le spalle solo perché l’idea di uno dei giganteschi pugni di Chapman stampato sui denti non mi attirava poi chissà quanto, ma io avevo affrontato di peggio. Molto di peggio. – Le minacce sono diventate sempre più frequenti, finché non ha deciso di averne abbastanza. La causa gli interessa, certo, ma niente ripercussioni personali. Sapevano che questo posto era ritrovo per eccellenza di chiunque volesse andare contro l’Esercito Britannico – Assassini, Figli della Libertà, eccetera – quindi doveva chiudere. – Sospirò. Non l’avevo mai sentito parlare così tanto e con un tale tono compassionevole. – Il problema è che non ha più un posto dove andare, quindi questa è casa sua.
Annuii con lentezza. Una situazione difficile, la sua. – Perché non gli avete dato una mano? – chiesi, spinto dalla curiosità. – I paladini della giustizia che non aiutano un compagno? – Ridacchiai placido, gettando appena la testa indietro.
Chapman strizzò i grandi occhi neri, due fonti di disprezzo. – Lo paghiamo.
– Sai che intendo – brontolai, il sorriso ancora stampato in faccia.
– Sì – fece London a testa bassa. Imbarazzo? Timore? Semplice stanchezza per il viaggio? – Non abbiamo voluto inimicarci ulteriormente i soldati. Sai quanti manifesti abbiamo dovuto strappare in giro per New York, quanti funzionari abbiamo ammazzato e quanti strilloni sono stati corrotti per la vostra bella scenetta a Bridewell? – La sua mascella s’irrigidì, come se quella storia lo avesse ferito.
Gli restituii lo sguardo più duro che mi riuscì. – L’ho fatto anche per Connor. Era lui quello che rischiava di finire all’altro mondo, non io. Né tantomeno Thomas. – Azzardai un passo verso Joseph, trattenendomi dal far scattare la polsiera. – Quindi tieni per te le tue minacce, Assassino. Non agiamo in modo moralmente corretto, ovviamente, ma nessuno di noi lo fa. – Nemmeno tu. – Cerchiamo solo di servire la causa al meglio, per quanto possibile. Giusto?
Gli occhi gelidi e ghiacciati di Joseph London s’infilarono nei miei come scaglie di ghiaccio. – Giusto, Kenway.
– Mi fa piacere. – Rientrai lentamente nella piccola stanza che gli Assassini ci avevano fornito e chiusi la porta, bestemmiando tra me. Thomas, dal suo letto, ridacchiò stancamente e si passò le mani in faccia.
– Immagino che stasera non si esca, giusto, capo? – Il suo tono lasciava benissimo intendere che ne aveva bisogno. Lo sapevo. Anche io avrei preferito passare una nottata all’aria aperta, ma la sorte non era dalla nostra parte.
– Hai proprio ragione – sussurrai, schiacciandomi contro la porta. Con l’orecchio poggiato al legno riuscivo a sentire i lenti respiri di entrambi gli Assassini, lo scricchiolio delle assi a segnalare lo spostamento del loro peso da un piede all’altro. Erano calmi, rilassati e controllati. – Dobbiamo trovare un modo di uscire di qui.
Thomas Hickey mi guardò, sgomento, poi scoppiò in una fragorosa, calda e rumorosa risata. Qualcosa che, certamente, avrebbero udito anche due sordi. Persino se si fossero trovati oltre la porta. – Oh, Dio, parli sul serio? – Allargò le braccia, gli occhi lucidi di lacrime per le risa. – Guarda questo posto, capo. Guarda questo maledetto posto.
Mi passai le mani sulla testa osservando quell’orribile stanzetta. Era come se avessimo firmato la nostra stessa condanna a morte. Ci eravamo consegnati nelle mani del nemico come dei rei confessi, e se Thomas aveva avuto per un solo, misero istante la possibilità di dimenticare i Templari e avere una nuova vita – basata sul denaro contraffatto ma non sull’omicidio, oh, per piacere, non più, che razza di idiota – io gliel’avevo impedito portandolo con me. Strizzai gli occhi e il mio sguardo corse sulle pareti sudice che un tempo dovevano essere di un colore almeno simile al beige, invece avevano assunto una sfumatura marrone, gli spigoli decorati magistralmente dalla muffa, le ragnatele attraversavano la travatura del soffitto come delicate tende di pizzo. Quel posto, se mai avesse avuto uno splendore, l’aveva perduto completamente. Era una topaia. Oltretutto non c’era nessuna finestra sull’esterno, tolto un microscopico lucernario dal quale passava un filo d’aria. L’unico modo per fuggire era liberarsi degli Assassini, scendere e uscire dalla porta principale. Infattibile, se non volevamo dare nell’occhio.
Abbassai lo sguardo e m’infilai le mani in tasca, improvvisamente abbattuto. Ogni possibilità di uscire da quella situazione era sfumata. Sfumavano sempre, ormai ci ero abituato. Mai che qualcosa andasse bene. – Non c’è modo di andarsene – dissi inutilmente. Sentirlo m’abbatté ancor di più. Thomas accompagnò questa mia affermazione con una risatina stridula, da nevrotico figlio di puttana qual era. – Siamo bloccati.
Mi strizzò l’occhio, calandosi il tricorno sul viso ed esponendo solo quel suo irritante ghigno. – Già, capo. Bloccati – cantilenò, come se non gli importasse. – Non possiamo uscire senza portarceli dietro. Non sappiamo niente del vecchio Ben. Siamo fottuti. – Scoppiò a ridere anche se non era una battuta. Rideva per non piangere, o forse era solo l’astinenza da alcool a dargli alla testa.
Sedetti sul mio letto con aria sconsolata, menando un pugno contro il muro sopra la testiera. – Non ho intenzione di aspettare qui con le mani in mano mentre pensano a cosa fare dei miei uomini – ringhiai stringendomi le nocche nell’altra mano. Thomas ridacchiò ancora, estraendo la pipa e il tabacco prima di lanciarmi un’occhiata in tralice.
– Allora che vuoi fare? – Non voleva saperlo davvero. Sapeva benissimo che non potevamo agire in alcun modo, lo sapevo anche io. Però lo divertiva vedermi in quello stato, forse. 
Sbuffai, strofinando le dita sul sopracciglio. – Voglio informazioni, Tom – sibilai nervosamente. Il mio unico informatore era a New York. Dov’era Benjamin? Che cosa voleva? Non sapevamo nemmeno da dove cominciare. Troppe cose da sapere, troppe poche già in  nostro possesso. Le indagini del genere non arrivano da nessuna parte.
Estrasse un fiammifero e lo affondò nel focolaio della pipa, sbuffando volute che ristagnavano nella stanza come fantasmi, per poi scivolare oltre il lucernario. – Che cosa abbiamo?
– Niente – ringhiai dando un calcio alla struttura metallica del letto su cui stava comodamente spaparanzato. – Un maledetto cazzo di niente.
– Non essere così pessimista, capo – esclamò continuando a ridere. – Ti dico che qualcosa lo sappiamo. Sappiamo sempre qualcosa, giusto? Tutto è utile.
Emisi un sonoro sospiro e mi piegai verso di lui. – Che intendi dire?
Mi guardò sollevando le sopracciglia e l’angolo della bocca, con aria cospiratoria. Aspirò un’altra boccata e si tirò a sedere, raddrizzando la schiena mentre soffiava via il fumo dal naso, poi si schiarì la voce e mi fissò dritto negli occhi con quel ghigno divertito. – God save great George our King, long live our noble King, God save the King! Send him victorious, happy and… – Thomas non riuscì nemmeno ad arrivare alla fine della prima strofa senza una risatina isterica che gli impedì di proseguire. Forse il Tom ragionevole che non voleva ammazzare nessuno era un alter ego, un pazzo, e il vero Hickey era quello che mi stava davanti. – Avanti, capo! Ci tieni alla patria o no? – Si mise la mano sul cuore e m’invitò con un cenno a proseguire l’inno. Ma neanche morto. – Che razza di soldato sei? Traditore – biascicò ridacchiando. Non mi pareva che avesse bevuto, a essere onesto. – Send him victorious, happy and glorious, long to rign over us, God save the King! – Terminò battendo addirittura il tacco sinistro a terra, come facevamo nell’esercito.
…Come facevamo nell’esercito.
Dio, era un dannato rito che già dal quarantasei tantissimi colonnelli avevano deciso di adottare. Erano venuti a conoscenza di quella stupida canzone e la facevano cantare ai battaglioni, sull’attenti, uniti con una mano sul petto davanti alla bandiera del Regno di Gran Bretagna. A Edward Braddock, però, come al solito, non bastava. Magari si fosse accontentato di farci cantare. Era un tormento. Quando non c’era niente di meglio da fare che marciare per tutta la repubblica olandese, costeggiando i nostri avamposti nei periodi pacifici e percorrendo i fangosi sentieri fino al fronte della prossima battaglia, il Bulldog amava sentire i suoi uccellini cinguettare in allegria. Con uno zaino da venti chili, o forse più, sulle spalle e il terreno paludoso che sembrava risucchiarti fino alle viscere della terra, magari dopo aver mangiato solo un piatto – piatto, Gesù, che esagerazione – di merdoso stufato al mattino con la prospettiva di miglia e miglia di marcia. Lui sedeva in sella al proprio cavallo, davanti a tutti, e canticchiava come un lirico di professione. I suoi ufficiali percorrevano la colonna con grandi ghigni sul volto e non ci pensavano due volte a spingere nella fanghiglia con il calcio del fucile chi non avesse dimostrato abbastanza impegno. Una delle reclute, forse poco più di diciotto anni, era stato ammazzato davanti ai miei occhi perché non conosceva l’inno. Non giustificherò mai quel gesto. Trapassato da una baionetta come mia sorella. Braddock aveva sorriso, e il corpo del poveraccio era rimasto appeso a un albero in una foresta olandese, completamente nudo e con la scritta traditore della Patria sul petto, rossa di sangue.
Dio salvi il Re, allora, e tutta la fottuta grandiosità e gloria del suo esercito.
Sospirai, scrollando il capo per cancellare quelle immagini. – Non ho bei ricordi di quella canzone, Tom.
Lui sbuffò scocciato, come se fossi un bambino troppo stupido per capire ciò a cui voleva arrivare. – L’Esercito Britannico, capo! – esclamò sventolando le mani davanti alla mia faccia. – Se il buon vecchio Ben vuole salvare il Re e tutti i suoi uomini, da qualche parte dovrà pur cominciare, no?
Osservai di sbieco il suo sorriso. – Pensi che i soldati britannici ci aiuterebbero?
Svuotò a terra la pipa e spinse la cenere sotto il letto con lo stivale. – E perché no? – rispose ghignando. – Dopotutto – le sue labbra si contrassero in una smorfia viscida e scaltra, da mettere i brividi, – siamo o non siamo gli uomini che hanno cercato di uccidere George Washington?
 
Bisogna dare atto a Thomas di una cosa: è intelligente. Era stato in grado di trovare la speranza quando persino io l’avevo persa, quando chiunque altro avrebbe sollevato le mani sopra la testa e si sarebbe arreso, lasciando fare agli Assassini. Lui aveva trovato una soluzione, o qualcosa che vi ci s’avvicinava. – Dobbiamo uscire di qui, prima di tutto – dissi ravviandomi i capelli. – Non possiamo portarceli dietro, Tom.
Spalancò la bocca e si grattò la mascella. L’aria imbambolata di chi non aveva calcolato questo dettaglio. – Cristo, è vero – brontolò lamentoso. – Non li possiamo ammazzare.
Abbottonai la redingote con mezzo sorriso. – Un tempo l’idea ti sarebbe piaciuta, ma devo darti ragione, stavolta. Non possiamo. – Mi morsi le labbra aspettando che un altro colpo di genio lo travolgesse, ma i suoi occhi erano spenti e opachi. Non dovevo aspettarmi più di un’idea intelligente al giorno, da Tom. – Se provassimo a parlargli?
– Sono Assassini – disse storcendo la bocca. – Non lo so.
Sbuffai. – L’unica cosa che vogliamo è infilarci in un forte britannico e chiedere notizie al comandante. Chiariamo subito che siamo amici di Ben e loro ci danno ciò che vogliamo. – Il succo del suo rozzo piano parve rinvigorirlo. Era decisamente fiero del proprio operato al riguardo. – Sarebbe utile agli Assassini, poiché loro non possono avvicinarsi, e noi potremmo trovare Ben.
– Faremmo un favore a tutti. – Aggrottò la fronte. – È un punto a nostro favore. Ma se non funziona?
Sorrisi. – Non essere così pessimista, Tom – gli feci il verso. – Ci sono sempre le maniere forti. Oppure li spingi al suicidio cantando God save our lord the King. Come preferisci.
Scrollò il capo ridendo. – Stronzo – sussurrò prima di seguirmi verso la porta. Se volevamo contrattare, dovevamo agire in fretta. Nel caso in cui gli inglesi avessero già liberato Church, che cosa avremmo fatto? Non volevo saperlo.
Feci per girare il pomello, ma quello neanche si mosse. Sollevai gli occhi al soffitto e mollai un calcio allo stipite. – Che razza di scherzo è questo, London? – ringhiai con la guancia schiacciata contro il legno. – London? Mi hai sentito? – Thomas, alle mie spalle, espirò e lanciò via gli stivali con un calcio. – Abbiamo anche il coprifuoco? Sant’Iddio!
– Sì, Kenway. – Mi rispose Chapman, in tono decisamente pacifico. Certamente non stava dormendo. – London è sotto. E il coprifuoco è a nostra discrezione. Buona notte.
– Fottiti!
Colpii di nuovo il legno con tanta forza da farmi male, quindi imitai Thomas e buttai la redingote ai piedi del letto, insieme con stivali e cappello. – Stasera si va a letto, a quanto pare.
Si era già sdraiato, la camicia gettata a terra in una palla di tessuto e la mano destra nei calzoni. – Già. Sarà per un’altra volta. – Si voltò a guardarmi con noncuranza, soffermandosi sulla smorfia di disprezzo che avevo in faccia. Sorrise. – Ti unisci a me?
Sollevai le mani e mi tolsi la camicia, lasciandolo ai suoi trastulli.
Non era ciò di cui avevo bisogno per sfogarmi. Bastava che concentrassi il mio odio su qualcosa, qualsiasi cosa. Sferrai un pugno al muro, rischiando di spaccarmi le nocche, e m’infilai a letto mentre le molle del letto di Thomas continuavano a cigolare. L’ideale per una sana dormita.
 
– Ho un piano, capo.
Thomas Hickey era fatto così, dovete saperlo. Si comportava come un completo imbecille dedito solamente alla polemica, all’alcool e alle puttane, ma dietro tutta quella nebbia le rotelle del suo cervello lavoravano a pieno regime e, di tanto in tanto, producevano qualcosa d’intelligente. Se non fosse che Tom è nato con lo spirito del mercante e ti fa dannare l’anima per ottenere qualunque cosa, specie se non ti aspetteresti niente del genere da lui. Quindi, quando dichiarava di avere un idea non apriva bocca sui suoi reali propositi. Ti accorgevi di essere parte del suo brillante piano solo quando vi eri dentro fino al collo e la tua vita era completamente nelle mani di Tom.
Non era la fine che avevo intenzione di fare. Non quando mi ero già giocato tutto ciò che avevo. – Stai dicendo che hai alzato il culo dalla branda e sei riuscito a ottenere un… permesso per uscire? – chiesi abbottonandomi la camicia e calzando gli stivali in tutta fretta. Un’altra caratteristica di Thomas era quella di svegliare bruscamente. Mi aveva quasi sfondato un timpano, quella mattina.
Si appoggiò dolcemente contro lo stipite e prese a giocare con una catenina priva di orologio. Chissà per cosa – o chi – lo aveva dato via. – Abbiamo fatto due chiacchiere mentre mi rasavo – disse, intenzionato a rimanere sul vago. Mi era bastato gettare le gambe giù dal letto e vedere il rasoio buttato sul pavimento della camera, appena sporco di sangue, per capire che diavolo aveva combinato.
– Già – bofonchiai mentre scattavo in piedi. – Avrebbero potuto ammazzarti, Tom.
– Non l’hanno fatto. Sanno quello che rischiano. Sorvegliano dei criminali, porca miseria! – Si puntò un dito sul petto, come orgoglioso di quel titolo.
Gli scoccai un’occhiataccia. – Criminali – stabilii annuendo. – Come darti torto? – aggiunsi a voce bassa. Assassini, uomini che impiccavano bambini, congiurati e bastardi di vario genere. Criminali, sì. Sulle nostre teste pendevano taglie e il comandante dell’Esercito Continentale avrebbe smosso mari e monti per vederci dondolare dalla forca, se non ci fossero stati una guerra in atto e gli Assassini di mezzo. – Quindi possiamo uscire liberamente? Non l’hai ammazzato, vero?
Avevo visto London uscire in tutta fretta dalla taverna trascinando Chapman sanguinante per un braccio, alla ricerca di un medico. – Figurati. Era un graffietto. – Si passò le mani sulla benda, un po’ sudicia lungo i bordi, che copriva la ferita sul collo. – Me ne intendo, di solito. Consideralo un riscatto, capo. E muoviti.
– Hai qualcosa da fare, per caso? Una festa? – Scossi il capo, calzando il tricorno. – Per carità divina, Hickey, a che diavolo stai pensando?
Sollevò gli occhi al soffitto, le mani pesantemente calate in tasca. – Penso tu possa immaginarlo. Ora andiamo.
– Perché tanta fretta?
– Perché se ci cacceranno dovremmo sguainare le spade, e preferisco ammazzare prima dell’ora di pranzo. – Deglutì rumorosamente e si grattò le guance rasate di fresco. – Trovo che non faccia bene all’appetito. Per niente.
Feci spallucce, trovandomi necessariamente d’accordo con lui. – Non avevi messo la parola fine alla tua lista degli omicidi?
Guardò l’aria danzare nella luce gettata dal piccolo lucernario e diede una grattata alla propria nuca con un gran sospiro. – Ti spiace evitare di parlarne? Dobbiamo muoverci. – Abbassò gli occhi e si comportò come se non avessi mai posto quella domanda, spostando il peso da un piede all’altro. Era inquieto come un agnello che si getta nella tana del lupo. Eppure non mi sembrava un piano tanto rischioso, non per lui, almeno. Avevano smesso di cercarci, a Boston. Di che cosa aveva paura?
– Thomas…
– Andiamo, capo – grugnì spalancando la porta. – Mi pare che tu sia pronto.
Decisi di non porgli altre domande. Non che mi fidassi di lui, non del tutto, ma pareva davvero troppo turbato. Aveva forse qualche asso nella manica? Mi avrebbe spinto in un vicolo per sbattere la mia testa contro l’acciottolato fino a spaccarla? Avrei combattuto contro di lui, per ucciderlo, magari? O mi sarei arreso, come mi ordinava una parte di me? Ero stritolato tra quei pensieri e l’ansia per il piano che Thomas evidentemente aveva, ma di cui non voleva parlare. E questo mi teneva parecchio sulle spine.
Scese le scale, l’unico suono che occupava il piano inferiore era il gorgoglio del liquore buttato giù da Stephane, accasciato su una sedia a dondolo come un moribondo, il solo movimento quello del suo pomo d’Adamo. Era un’immagine di miseria. Stravaccato in quel modo, lui, che fino a pochi anni prima aveva visto nella causa degli Assassini la propria via di fuga dai soprusi delle giubbe rosse, ora si trovava abbandonato a se stesso mentre il sole, impietoso, lo accecava e lo illuminava come una vecchia reliquia.
Mi mordicchiai le labbra con un briciolo di pena per lui. Tom strinse il mio braccio, invece, e mi trascinò oltre la soglia a testa bassa, serio, teso come non l’avevo mai visto. Sembrava dispiaciuto per Stephane almeno quanto me, ma sapeva che certe volte le cose non andavano bene e ne prendeva atto. Era ciò che avrei dovuto fare anche io, lo so e lo sapevo, ma in quel momento provavo solo una grandissima pietà. Avevo sempre saputo che gli Assassini avevano torto e il loro fallimento era inevitabile, ma vedere l’effetto della sconfitta su quell’uomo mi metteva tristezza. Fui sollevato dal lasciarmelo alle spalle quando ci riversammo nella luce quasi accecante del mattino autunnale di Boston, con il vento che sferzava violentemente i visi e s'infilava sotto i vestiti, come a prenderti in giro per quanto ti fossi vestito pesante. Thomas non sembrava in vena di chiacchiere, quel giorno, e prese la strada dirigendosi a sud a grandi passi. Non potei fare altro che seguirlo, scocciato e un po' ansioso. Perché non poteva mettere le carte in tavola e mostrarmele, parlarmi del suo piano? Stupido ragazzino orgoglioso, ecco cos'era.
Boston di prima mattina era un luogo affascinante, lasciatemelo dire. I bambini che scorrazzavano da una parte all'altra mentre le galline, i cani, i gatti e qualche maiale s'infilavano tra le gambe dei passanti, rischiando più volte di far ammazzare qualcuno, e i soldati si passavano i polpastrelli sulle palpebre, esausti in attesa del cambio di turno. Probabilmente erano lì in piedi a sorvegliare il nulla dalla sera precedente.
Le persone, invece, erano più attive che mai, non sembrava nemmeno fossimo in guerra. I ribelli non escono di casa prima dell'ora di pranzo, diceva Reginald, e in fondo aveva ragione. – Tom – lo richiamai con lo sguardo al cielo opaco, irritato dal suo silenzio. – Tom, dove stiamo andando? Voglio una risposta – sibilai facendo scattare la lama celata. Quel tempo orrendo non rendeva giustizia alla sua lucentezza, no. – E la voglio adesso, se possibile.
– Davvero non ti fidi di me? – fece ghignando e prendendo Ann Street, sempre verso sud. Verso nord non c'era niente, tolta la Christ Church, un sacco di casupole e un'infinita distesa di moli che circondava tutta la città. C'era un forte, giù in città, a quanto ricordavo. Fort Hill, una parte del quale era stata presa dai patrioti all’inizio di quell’anno, verso marzo. Per quanto avessero ordinato ai soldati britannici di allontanarsi dalla città, qualcuno era rimasto lì, per spirito di contraddizione e protesta, quasi. A così poca distanza l'uno dall'altro, la parte britannica di Fort Hill e quella americana si guardavano in cagnesco come due bravi giocatori di carte. Credetemi, non ci fossero state tutte quelle case di mezzo, lì si sarebbe disputata una battaglia senza quartiere. Potevo immaginare le palle di cannone spezzare le pietre, le granate da mortaio affondare ripetutamente nel soffitto del gabinetto e spaccare il raffinato mobilio all'interno, le palle incatenate spezzare l'asta con la bandiera britannica – o delle Colonie, relativamente – e spargere schegge ovunque. Sarebbe stata una battaglia a distanza, di quelle tremende per tutti. Non senti il nemico arrivare da dietro con la baionetta sollevata, confondi gli scoppi del tuo cannone con i loro, l'aria diventa piena di fumo. Non è una battaglia, è l'inizio della fine. Il modo in cui la morte si presentava più spesso agli uomini, in tempo di guerra.
Un brivido mi corse lungo la schiena e giurai a me stesso che, almeno per un po', non avrei pensato a quelle cose. Solo per un po'. M'avrebbe fatto bene, suppongo.
Mi voltai non appena Thomas s'inoltrò nel traffico mattutino di King Street da una stradina laterale, quasi un vicoletto. La prigione torreggiava sulle altre case appena più avanti, oltre il municipio. Gran bello spettacolo, e mi fece tornare in mente Bridewell. Chissà come stavano le famiglie di tutti gli uomini che avevo ucciso. Forse a volte Thomas aveva ragione, avevamo fatto fuori troppa gente per troppo tempo, ma se lui avrebbe potuto comunque ingannare il tempo smerciando denaro falso o nel letto con una prostituta, io, una volta messa la parola fine al mio incarico come sicario, sarei rimasto a crogiolarmi nel letto, travolto dal senso di colpa perché l'uomo che mi aveva violentato per poi uccidere mio padre, mia sorella, mia madre e Tiio, anche se indirettamente, era ancora vivo o, se morto, non ero stato io a porre fine alla sua vita.
Non potevo permettere che un uomo che avesse fatto così tanto male, a me come a chissà quanti altri, Charles compreso, avesse una morte dignitosa. L'avrei considerata un'ingiustizia, la peggiore di tutte le beffe.
Non traggo piacere dall'omicidio, solitamente, ma direi che per Birch faccio un'eccezione. Tutti noi abbiamo almeno un'eccezione alla famosa regola del non ammazzare a sproposito. L'omicidio è un peccato, certo, ma come tutti i peccati, Dio!, quanto da soddisfazione. – Ci siamo quasi – disse finalmente Thomas dopo un quarto d'ora di cammino nel mutismo. – Scusa per la camminata e l'effetto sorpresa, capo, ma penso che ora capirai tutto. – Si appoggiò all'angolo di un palazzo a due piani con nonchalance, stretto nella giacca per il freddo e intento a scrutare l'ampio spiazzo che si apriva dietro l'angolo. E ampio spiazzo poteva significare solo tre cose: prigione, forte o piazza per le impiccagioni. Nessuna che mi andasse poi così a genio, a dire la verità. – Fort Hill – disse con un sorriso nostalgico. Sbaglio o aveva gli occhi lucidi? No, forse era solo il vento. E anche fosse, be', che m'importava? – Andiamo.
– No – sibilai afferrandolo per il gomito. – Tu non vai da nessuna parte se prima non mi spieghi che cosa diamine hai intenzione di fare per filo e per segno. Se è una trappola, Tom, considerati un uomo morto. – Non era impressionato dalle mie minacce, mi scrutava solamente, un maestro severo che valuta l'allievo. – Non hai nessuno che pianga per te. Saresti solo uno dei tanti cadaveri sbudellati in mezzo ai vicoli, non più riconoscibile per quanto i topi ti divoreranno. – Gli diedi un buffetto sulla gota con mezzo sorriso, un sorriso perfido, almeno nell'immagine mentale che avevo di me stesso, e i suoi occhi si abbassarono appena. – Niente mosse azzardate, Hickey. Non ho bisogno di un torturatore professionista per sventrarti come un maiale. Bastano un coltello, tanta pazienza e un po' di forza di stomaco. Dico bene?
Poggiò la mano sul mio polso, invitandomi ad abbassarla con un gesto gentile. – Calmati. Ho un'idea. Dobbiamo solo entrare nel forte – disse indicando con un cenno della testa un punto imprecisato a sud-est, – e chiedere di parlare con il generale Cornwallis.
Trasalii. – Cornwallis? – esclamai, inciampando quasi nelle pietre della strada. – Il marchese, dici?
Thomas sollevò il mento con orgoglio. Che tipo. – Lui. Era un mio vecchio superiore già allora, mi conosce e odia Washington come poche altre persone. Chiediamo solo se sa qualcosa di Church, lo ringraziamo e giriamo i tacchi. – Incrociò le braccia sul petto. – Semplice, ma funzionale. Non trovi?
Passai la lingua tra le labbra cercando di ricordare cosa avesse mai fatto Cornwallis in Inghilterra. Non avevo notizie della madrepatria da troppo tempo, e nell’ultimo periodo che avevo passato lontano dalle Americhe avevo pensato poco alla situazione politica britannica. Avevo una sorella da trovare. Due funerali da organizzare.
Sospirai, strofinandomi due dita alla base del naso. Davvero bastava essere ex militari e odiare Washington per avere delle informazioni su Ben? D'altro canto, se non le avevano i britannici chi poteva averle? Volevo sapere che cosa aveva detto, dove lo tenevano e quando lo avrebbero liberato. Traditore di merda. Doveva essere mio. Conoscendo Reginald, non avrebbe certo fatto i salti mortali per tenerlo in vita, ma la sua morte lo avrebbe indispettito, come minimo. Un suo vecchio allievo, uno di quelli che ha persino tentato di uccidere più volte, che decide della vita e della morte di un membro dell'Ordine mentre lui si dedica a un altro tipo di membri. Un po' disonorevole. Abbastanza da irritarlo e risvegliare in lui la voglia di vedermi morto e, nello stesso tempo, la consapevolezza di non potermi uccidere.
Ma potrebbe torturarmi, in effetti. Che incoraggiamento.
Hickey si sottrasse lentamente alla mia presa, si schiarì la voce, forse per spezzare la tensione, e disse: – Non ti preoccupare, d'accordo? Devi solo avere un po' di fiducia in me. Cornwallis è un brav'uomo, sempre meglio di Gage – commentò sputando a terra. – Stammi alle costole, parla quando vieni interpellato e sempre come se Re Giorgio fosse l’unico fine della tua vita, chiaro?
Roteai gli occhi, dandogli un colpetto sulle spalle proprio mentre Fort Hill appariva davanti ai nostri occhi, maestoso ma un po’ decadente. Proprio come il regno di cui faceva parte.  – Non sono stupido, Tom. Vedi di fotterti.
– Non sai quanto mi piacerebbe – disse prima di scoppiare a ridere tra sé. Poi, lentamente, attraversò lo spiazzo, diretto alle grosse doppie porte in legno del forte, rinforzate dai cardini e dalle borchie metalliche. Forse c'era addirittura del ferro tra i due pezzi di legno, utile anche contro gli arieti, ma chi poteva dirlo?
Era il classico forte britannico, un quadrato in pietra chiara, con le quattro torrette angolari, vista diretta sul mare e un paio di giubbe rosse piazzate davanti alle porte. Questi due, però, sembravano decisamente spaventati. Percorsi il confine del forte con lo sguardo, come per abitudine. Non c’era nemmeno un cannone puntato verso sud, verso la parte presa in custodia – per non dire conquistata con la forza – dai patrioti. Avevano sottratto solo la zona che contava, quella con gli armamenti, permettendo ai soldati di Sua Maestà di restare solo nell’unica parte del forte cui nessuno poteva importare, con il gabinetto, i vari uffici, forse un paio di scuderie e un magazzino. Nient’altro.
Non c’era bisogno di mettere a ferro e fuoco la città, brulicante proprio tra le due costruzioni. Re Giorgio, per il momento, a Boston era già bello che sconfitto. Sorrisi appena: non potevo che trarre una certa soddisfazione da quella notizia. Oltretutto sapevo che, una volta messo piede oltre le porte, sarei dovuto essere il perfetto soldato inglese, fedele alla patria, al Re e tutto il resto. Come se il Regno di Gran Bretagna avesse bisogno di qualche leccaculo in più, ne era già colmo.
Thomas si diresse con sicurezza da uno dei soldati che montavano di guardia, salutandolo con complicità mentre ero rimasto indietro a squadrare Fort Hill. Con la gentaglia amica di Tom volevo averci il meno a che fare possibile. Lo vidi indicarmi un paio di volte, annuire, ridacchiare e passargli qualche sterlina. Eravamo stati soldati, davvero non avevamo il diritto effettivo di entrare lì dentro? Bah.
La guardia accettò il denaro guardandosi intorno con sospetto e aprì appena la porta, dopo aver fatto segno di non muoversi. Thomas, tutto contento, tornò da me quasi saltellando. – Il tempo di avvertire Cornwallis e siamo dentro. – Sbuffai. Conoscendo la burocrazia, anche quella inglese, ci sarebbero voluti almeno dieci minuti prima che il generale potesse congedarsi da ciò che stava facendo solo per parlare con noi. Hickey, invece, non parve affatto turbato dalla prospettiva di aspettare. Chinò il capo con tutta tranquillità e tirò fuori la tabacchiera, infilandosi la pipa tra le labbra. – È bello tornare a casa – disse riempiendosi i polmoni di fumo. – Non è vero, capo?
Sospirai tristemente. – Dipende dai punti di vista. – Battei una pacca sulle pietre squadrate del forte, guardando l’intonaco sgretolarsi sotto le mie dita. Gesù santo, pensai deglutendo. Erano – o eravamo, come un buon soldato di Sua Maestà avrebbe dovuto pensare – davvero messi male.
I forti non erano mai stati casa mia, nessuno di quelli in cui avevo messo piede in tanti anni. Possono essere davvero definiti in milioni di modi, ma sono luoghi accoglienti quanto può esserlo un carcere. Buchi puzzolenti in cui si combatte leccando i piedi nella speranza di ottenere qualche giorno di congedo o un po’ d’alcool in più. Qualche ora di sacrosanto sonno accasciato contro una parete, nel migliore dei casi. Cloache coi muri sporchi di sangue, in cui l’unica legge è la gerarchia e si fa prima a salire di propria volontà sul patibolo che a sfidare un superiore. Il vecchio Bulldog si crogiolava nella libertà assicurata dal suo grado come un maiale nella merda, e le uniche persone in grado di chiamare casa un posto simile erano bastardi, sadici assetati di sangue o ricconi con la possibilità di comprarsi un grado che permettesse la vita facile. Non sto nemmeno a specificare la categoria cui Thomas appartenesse. – Ve la spassavate, da queste parti? – chiesi per spezzare il silenzio che si era creato davanti alle porte. Noi no. In quella schifo di repubblica non se la spassava nessuno, a parte quel figlio di puttana, pace all’anima sua.
Si tolse un pezzo di tabacco rimastogli incastrato tra gli incisivi e sputò a terra un grumo denso di saliva marrone. – Giocavamo un sacco a carte – brontolò con noncuranza. – Ogni tanto c’era qualche idiota che decideva di attaccarci e lo mandavano a ‘fanculo con due cannonate. Durante la guerra, quello sì che è stato un brutto periodo. Bloody Creek. Senza dubbio la peggiore battaglia cui abbia mai preso parte. – Svuotò la pipa a terra e schiacciò il mucchietto di cenere con il piede, come se ce ne fosse bisogno. – Dannati indiani. Senza offesa, eh, capo.
– Tranquillo – mormorai a testa bassa. Thomas non faceva sconti a nessuno, e mi piaceva quel lato di lui. – Che dicevi di Bloody Creek?
Sputò nuovamente sul terreno, la mascella serrata in una smorfia rabbiosa. – Eravamo pochi, forse duecento, forse meno. Uno su dieci di noi è crepato per mano loro. – Sospirò, mi guardò in faccia e fece spallucce. – Potevo essere io. Trapassavano uomini con quelle dannate frecce come demoni dall’inferno. Avresti dovuto vederli.
Sorrisi tristemente. Nonostante la rabbia, c’era un non so che di glorioso nel modo in cui parlava di quel periodo. Sembrava che in fondo si fosse divertito, ma fosse davvero troppo anche per uno come lui ammetterlo. Anche davanti a me, il suo Gran Maestro, l’uomo per cui aveva impiccato un bambino e ucciso chissà quante persone. Il che vuol dire tutto. – Ti manca mai? Questa vita, intendo – dissi indicando il forte con un cenno del mento.
– Certe volte – ammise finalmente. Grazie, Tom. – Mi ricorda che, almeno un tempo, una parte di me valeva qualcosa. Ero parte attiva in un organo più grande, lottavamo tutti per qualcosa. Combattere con uno scopo… – abbassò lo sguardo sulle proprie scarpe. – Sapevo farlo bene, suppongo. Mio padre mi ha messo un fucile in mano appena sono stato alto abbastanza per farlo. Sparare… uccidere. Non ho mai fatto altro, finché non ho scoperto i Templari.
E anche allora, non che le tue attività siano cambiate chissà quanto. – Hai lasciato questa bella vita per noi? – chiesi, appoggiando un piede contro il forte e ridacchiando.
Thomas sospirò. – Non solo. – Fui travolto dalla voglia di tirargli un cazzotto. Aveva assunto un tono fastidiosamente nostalgico. Se c’è qualcosa da non fare con chi ha un passato oggettivamente triste è paragonarvi il vostro. Con tutto il rispetto per Thomas, la sua triste vita da soldato e i chissà quanto terrificanti avvenimenti vissuti in caserma. Idiota. – Avrebbero dovuto uccidermi. Mi hanno tenuto lì dentro, in congedo per qualche anno, ma ciò che ho fatto… è stato quasi un tradimento. – Colpì il terreno polveroso con il lato interno dello stivale, frustrato, poi inspirò lentamente e con aria meditabonda, fissando un punto nel vuoto verso King Street. Ero tentato da chiedergli se volesse parlarne, ma aprì bocca per primo, umettandosi le labbra prima di dire: – E tutto per una stupida vacca di campagna. – Sembra commovente. Racconta, forza. Alzò lo sguardo su di me e feci del mio meglio per non ridere. – Ho ammazzato un soldato semplice, il fidanzato della figlia di Howe, l’altro generale. Si chiamava Sarah, o qualcosa del genere – aggiunse grattandosi. – Una cagna del cazzo. – Già, Tom, ma doveva essere la tua cagna. Non la sua. Giusto? – Un colpo di moschetto, solo uno. Poteva averlo colpito chiunque, non avevano abbastanza prove. Cornwallis... è stato clemente con me. Nonostante mi avesse visto… – Si fermò, mordendosi le labbra e scattando di nuovo con gli occhi da un angolo all’altro dello spiazzo. Che c’è? Non faccio mica la spia. – Mi ha aiutato. Comunque… dire che mi manca credo sia troppo. A te, capo?
Eccolo lì, lo stronzetto che cambiava discorso. Intelligente. Dopo la storiella strappalacrime, ecco l’inghippo. – A me? – Con un risucchio mi feci risalire del catarro in bocca. Sentire Thomas parlare di guerra, battaglie, di Bloody Creek e del fidanzato della sua donna ammazzato, le mie sanguinarie gesta sembravano ragazzate. Brutto idiota. Non aveva idea di cosa significasse massacrare davvero qualcuno. O forse sì, solo che io non me ne rendevo conto. Dopo aver lasciato morire civili per anni, nel corso di una guerra vera, impiccare un bambino non può essere così grave. Avevo sentito parlare di Bloody Creek. Lottare contro un centinaio di indiani… lasciatemelo dire, non era la stessa cosa. Non lo era affatto.
Sputai a terra. – Nemmeno se fossi morto e tumulato sotto St. James’s Palace. – Come potrebbe? Come potrebbe?
Mentre Thomas tornava a guardarmi con uno strano sorrisetto in faccia, il soldato che era sparito pochi minuti prima fece nuovamente capolino dalla porta, aprendola verso di sé con una gran fatica. Sbuffava nuvolette candide di condensa nell’aria nonostante la spessa sciarpa di lana avvolta attorno al viso scarno. – E dammi una mano, Potter! – strepitò rivolto al compagno d’arme, che nemmeno si diede troppa pena di aiutarlo in fretta. Sollevai gli occhi al cielo bianco e abbagliante, e Thomas ridacchiò tra sé, forse contento di rientrare in quella che considerava, in fondo, casa sua.
Qual era davvero casa mia? Me lo chiesi mentre varcavo la soglia del forte. Quella bruciata in piazza della Regina Anna, il vecchio castello arroccato in Francia, la tenuta di Achille, gli alloggi di una volta a Fort George, la tenda divisa con Tiio, il Green Dragon? Una di queste? Oppure nessuna?
Qual era davvero?
Chiusi gli occhi. Mi tornò in mente mio padre, ma non come l’avevo sempre conosciuto. Riapparve con i capelli scompigliati e gli occhi lucidi per l’ebbrezza, mentre cantava tracannando rum e dicendomi che riusciva a vedere tutti i suoi amici lì, seduti con lui in una taverna di Nassau, persino mia madre e Jenny, il tutto con una bella ragazza rossa di capelli che gli riempiva in continuazione il boccale.
Li riaprii, colpito da una sferzata di vento gelido in pieno viso. Inspirai lentamente, lanciandomi un’occhiata intorno. Fort Hill era solo una distesa di terreno gelato, qualche ufficio ammassato in cima ai magazzini, scale e sentieri che occupavano gran parte dello spazio, soldati infreddoliti ovunque. Che casa può mai essere?, pensai guardando Thomas. Sembrava quasi crogiolarsi in quella visione misera, così triste da apparire oscena. Poggiava gli occhi sulle rastrelliere per i moschetti, ora vuote, con il sorriso che si allargava sul suo viso. Scrollai il capo.
L’unico posto, l’unico in tutta la mia vita, in cui mi ero sentito davvero al sicuro, accettato, protetto, come non era mai accaduto prima, era una taverna in cui mi sarei dovuto ubriacare a forza di rum insieme a mio padre. Casa, per me era l’Old Avery del mio sogno.
– Il gabinetto è da quella parte. Cornwallis vi sta aspettando. – La vocetta da pubertà del soldato che aveva aperto la porta mi distolse dai miei pensieri. Si stava asciugando un velo di sudore freddo dalla fronte madida. – Come se fosse mai in attesa si qualcosa. Sono secoli che qui non succede niente. – Ci squadrò entrambi con un sorrisino. – È meglio di quanto pensassi.
Ridacchiai tra me, Nassau definitivamente fuori dai miei pensieri, rimpiazzata da quel relitto triste, abbandonato a se stesso e semivuoto di forte, e allontanai il ragazzino con una leggera spallata. – Preparati. Il meglio deve ancora venire. – Dalla smorfia terrorizzata con cui mi rispose devo dedurre che colse il mio sarcasmo. Un punto a suo favore.
Mi leccai le labbra gelate mentre Thomas mi sorpassava, prendendo un sentiero che saliva ripido verso l’edificio principale del forte. Mi era venuta un’improvvisa voglia di rum.
 
– Generale Cornwallis. – Non avevo mai visto un gabinetto più buio. Le finestre su tre dei quattro lati erano senza vetri, un miracolo architettonico di ragnatele danzava tra le sbarre metalliche, sospinte dolcemente dal vento freddo. Fosse stata per la gelida luce bianca dell’esterno non saremmo nemmeno riusciti a vedere in faccia il generale, ma con il mozzicone di candela acceso e poggiato sulla scrivania la situazione non migliorava chissà quanto. Era la quintessenza della miseria. – Quanto tempo è passato, eh?
– Meno di quanto avrei voluto, sergente.
William Cornwallis scivolò verso di noi da dietro la scrivania con passo leggero, la giubba abbottonata in tutta fretta e il collo quasi inesistente cinto da una sciarpa candida. I distintivi sul suo petto scintillavano debolmente alla luce della candela, ma i vaporosi e scompigliati capelli bianchi gli conferivano comunque un’aria trasandata, Somigliava al collasso di un generale nonostante i suoi occhi brillassero ancora d’orgoglio, quello che probabilmente aveva conservato dalle sue nobili origini britanniche. Nonostante fosse più giovane di me, aveva l’aria di chi non avrebbe mai avuto la forza di sollevare il moschetto. Non un’altra volta.
È il bello dell’essere generali. Ti comporti come se valessi più di quelli che affondano le baionette quando la tua unica preoccupazione è abbassare il braccio per ordinare agli artiglieri di sparare le salve di cannone. – Credetemi, è un onore. – Thomas strinse con un sorrisetto viscido la mano di Cornwallis tra le sue, infilate in un paio di guanti senza punta che sembravano rubati a un mendicante. – Sarà passato qualche mese, dico bene, generale?
– Più di quattro mesi. – Gli occhi grigi di Cornwallis scintillarono, scattando curiosi da Thomas a me. Incrociò il mio sguardo e inclinò la testa, un bambino davanti a una lucciola chiusa in un barattolo di vetro. – Che cosa siete venuti a fare? – Scostò delicatamente Thomas e mi si piazzò di fronte continuando a studiarmi. – Voi e il vostro… ospite?
Incrociai il suo sguardo. Era un marchese, un rimasuglio dell’alta nobiltà inglese in terra straniera. In fin dei conti, scrutandolo, pensai non fosse a un gradino molto più alto del mio, data la situazione in cui si trovava. Gli avevano sottratto il forte, il peggiore di tutti i disonori, e lui si ostinava a occuparlo come un parassita. – Haytham Kenway – dichiarai tendendogli la mano. Vi abbassò subito lo sguardo, sorpreso. Eh, già. Era la sinistra. Niente di personale. I moncherini fanno ribrezzo a tutti. Specie a chi è nato marchese in una bella casa di Londra. Ti capisco, forse. Gli rivolsi un sorrisetto rigido. O forse no. – Ho passato qualche anno nella repubblica olandese con il tenente colonnello Braddock.
– Ah – fece Cornwallis dipingendosi una smorfia disinvolta in faccia e stringendo le quattro dita con le proprie. Mi parve di percepire un fremito di disgusto nella sua stretta. – Il Bulldog, buon’anima. È stato l’orgoglio del nostro esercito, prima di morire. – Si scostò e mi rivolse un’occhiata compassionevole. – Sono cose che capitano anche ai soldati più valorosi.
Sospirai tristemente. Parole sante. Vostra Maestà, c’è un usurpatore nel bel mezzo delle Colonie. Non parlate in modo così diverso, sapete? – Soprattutto a loro, devo dire. – Thomas, oltre le spalle del generale, mi guardò con soddisfazione. I bravi soldati convincono tutti e sono sempre credibili, specie davanti a uomini come Cornwallis. Mi sembrava di aver già capito con chi avevo a che fare: un vecchio arricchito a suon di frasi fatte, convinto che tutti fossero fedeli alla grande Inghilterra e la sua patria fosse una sorta di paradiso terrestre. Un illuso, un povero stupido che avrebbe fatto la stessa fine di Braddock, se non una più crudele. E non per mano mia, di sicuro.
Trovando la mia risposta abbastanza soddisfacente, si voltò per rivolgere la propria attenzione a Thomas. Non sei qui per farti esaminare da quest’uomo, dissi a me stesso. – Signore – esordì Hickey con calma, dandomi la schiena, – devo dire che mi è dispiaciuto molto per Washington. – La tensione era palpabile. Portandomi al fianco di Thomas, vidi gli occhi del generale che lo squadravano con astio mentre il soldato più giovane, rimasto di guardia davanti alla porta, tendeva le mani tozze verso il moschetto. Respirando piano, cercai di ricordare il momento in cui l’avevo considerata una buona idea, ma non riuscii a riportarlo alla mente. Dannazione. – Soprattutto per aver portato via anche un valido elemento come Lee. Disertori – sibilò sollevando la polvere dal pavimento nudo con un calcio.
Il generale, mani giunte dietro la schiena, prese a camminare avanti e indietro per il gabinetto e rivolse al soldato sottoposto un’occhiata austera, come per metterlo in guardia e al tempo stesso invitarlo a mantenere la calma. – Disertori? – ripeté Cornwallis. – Sbaglio o siete entrato nella guardia del corpo di Washington subito dopo? Detto da voi – inclinò di nuovo il capo, sorridendo, – non mi sembra una parola di grande valore.
Thomas roteò gli occhi. – Siete al corrente del motivo per cui l’ho fatto, io come tutti gli altri. Eravamo d’accordo, generale, non penserete certo che lo dimentichi? – Fece un passo verso il proprio superiore, le dita passate nello spazio tra il cinturone della pistola e i calzoni. – Ho solo obbedito agli ordini. Io non sono un disertore, signore.
– Siete un doppiogiochista, un bastardo e un opportunista, il che è peggio, se mi…
– O-oh! – Thomas sferrò una manata alla scrivania, facendo tremolare la fiammella già sul punto di spegnersi. – Facile dirlo adesso, dopo aver saputo del nostro fallimento! Immagino che fino a qualche mese fa avete rivolto i vostri migliori pensieri a me e agli altri poveri disperati mandati a compiere quella maledetta missione impossibile col vecchio Georgie, non ho ragione?
Cornwallis si umettò le labbra, scoccando un’occhiata omicida a Thomas. – Dovreste ringraziarmi. Se non vi avessi raccomandato a Howe per quell’incarico, a quest’ora sareste cibo per vermi.
– Lo sarei stato in qualsiasi modo – replicò Hickey con stizza. – Se sono vivo lo devo solo a quest’uomo – sbraitò indicandomi con un braccio.
Parve accorgersi in ritardo di quanto aveva appena detto e si passò una mano in faccia mentre lo sguardo di Corwallis passava a scandagliare me, quell’assurdo sguardo gelido, calcolatore e apparentemente gentile che mi aveva rivolto poco prima. Deglutii a vuoto. Quelli non erano gli occhi di un riccone illuso, no. C’era una scintilla di malvagia intelligenza in quelle occhiate. – Perdonatemi, come avete detto di chiamarvi?
Grazie della considerazione, generale. Dovetti trattenermi dall’afferrarlo per il collo della giubba e sbatterlo contro il muro scrostato del gabinetto. Ero pur sempre un soldato. – Haytham Kenway – ribadii, lo sguardo fisso davanti a me. – Ho combattuto per il tenente colonnello Edward…
– Haytham Kenway? – Cornwallis m’interruppe, sollevando una mano e voltandosi improvvisamente verso Thomas. I suoi occhi brillarono e sul suo viso si disegnò un sorrisetto furbo. – Quell’Haytham Kenway? – chiese. Vidi Thomas annuire e mi parve un po’ maleducato che a nessuno dei due fosse minimamente passato per la testa di inserirmi nel discorso, ma un soldato britannico è abituato a cose peggiori. Io stesso ero passato attraverso cose di gran lunga peggiori durante i periodi di leva. Il rispetto dei sottoposti non era certo uno dei valori fondanti l’Esercito Britannico.
Il generale Cornwallis scosse il capo, ridacchiando, e parlò senza più guardare nessuno dei due, quel ghigno da sciacallo ancora sulle labbra. La sua espressione parlava più delle sue labbra. Aveva in mente qualcosa. Un’idea stava prendendo forma nella sua testa nonostante non sapesse nemmeno perché eravamo arrivati fin lì. – In tutta franchezza – domandò a entrambi a quel punto, riprendendo a percorrere la stanza in lungo e in largo, – perché siete qui? Che cosa volete?
Thomas arricciò le labbra nella consueta smorfia, cercando di mantenere comunque un’aria composta, più consona a un soldato britannico. Il suo primo accesso di rabbia poteva già aver compromesso gli esiti della nostra ricerca, e l’idea di essere arrivato fin lì per essere fermato dalla sua maledetta boccaccia mi faceva prudere le mani. Lo guardai attentamente. Più che a un sergente, con quella faccia somigliava a un pedofilo. Solo pensare quella parola mi fece venire i brividi e salire il vomito in gola. – Sono tornato in nome dei vecchi tempi, generale. – S’avvicinò a Cornwallis con fare cospiratorio. – Benjamin Church. Pare abbia passato qualche informazione ai nostri, dico bene?
– Tu non sei più dei nostri da tempo, Hickey – replicò il generale, scuro in viso.
– Che importanza ha? – sbottò nuovamente Tom, affrettandosi a coprire lo scatto d’ira con un sorrisetto. – Sono un sostenitore della patria, generale. Lo faccio solo per il nostro Re. Tutto ciò che ho fatto – si mise un mano sul petto e chinò appena il capo, – tutto ciò che ho cercato di fare, è stato per il Re.
Il generale lo guardò storto. Che attore. – E voi? – fece Cornwallis voltandosi verso di me. – Avete servito l’Esercito Britannico da uomo onorevole? – Cominciò a girarmi attorno come una mosca sulla merda.  Non replicai. – In questo caso, è un peccato che vi accompagnate a tali soggetti.
– Ho dato una mano nella guerra dei sette anni – ripetei per la terza volta, un po’ frustrato. M’irritava il fatto che facesse domande senza essere realmente interessato alle risposte, dato che gli avevo già detto un paio di volte chi ero, da dove venivo e sotto chi avevo prestato servizio. Il classico modo di gestire le cose dei potenti. Strinsi i pugni, già serrati l’uno nell’altro. – Solo contro gli olandesi. Non ho mai servito nelle Americhe, ma speravo di aiutare un vecchio amico e il Re, per quanto possibile. – Pancia in dentro e petto in fuori, Kenway. Sissignore, nossignore, agli ordini, signore. – Church è stato un buon compagno, oltre che un assiduo servitore di Sua Maestà. Se possiamo aiutarlo in qualche modo, in qualunque modo… – Il generale m’interruppe un’altra volta, affondando le dita carnose nella mia spalla.
Lanciai un’occhiata in tralice a Thomas. Che gran generale aveva scelto. Complimenti. Persino Braddock sarebbe stato più utile facendo meno storie. – Ragazzo – brontolò fissandomi. – So quello che hai… che hai tentato di fare a Washington. – Adesso si spiegano un sacco di cose. Quell’Haytham Kenway. Già, Cornwallis, sono io. Sorpreso? Si umettò le labbra, sembrava avesse appena nominato un peccato capitale. – E so anche che Lee ha voluto prenderti in custodia, dopo quel macello. – Sputò un grumo di saliva e catarro a terra, un palmo premuto sul ventre. – Leccaculo – sussurrò raschiando.
Annuii tristemente, il capo chino. – Perché mi state dicendo questo, generale? – La sceneggiata dei soldati fedeli, che non si lamentano nemmeno quando il superiore li interrompe circa ogni tre parole, stava riscuotendo un certo successo, ma se Cornwallis sapeva dell’attentato – il mio attentato – sapeva anche di Braddock? Che l’avevo quasi ammazzato per farlo morire come un cane in un ospedale da campo?
Non che volessi saperlo. Cornwallis s’abbandonò a un sospiro lamentoso. – Non possiamo fare niente per Church. Sappiamo che è vivo e che lo è solo perché ai bastardi serve un medico. Ci ha dato una mano e ha rischiato l’impiccagione, per cui stiamo cercando di ricambiarlo. – Improvvisamente mi rivolse un mezzo sorriso gentile, quasi paterno. Perché quello sguardo? Non sono più solo un soldato semplice? Un fastidioso moscerino venuto a chiedere un favore che non vuoi concedermi? Davvero facciofacciamo la differenza solo perché abbiamo quasi ucciso George Washington?
Lo guardai di sbieco. Sembrava decisamente più vecchio di quanto realmente fosse. Mi chiamava ragazzo, sant’Iddio, ma non era solo per il suo grado. Aveva il viso solcato da rughe profonde, i capelli già radi sulla testa. Sparuti ciuffi di peli gli facevano capolino dalle orecchie. Nonostante tutto, Reginald aveva più classe. – Sembrate un bravo ragazzo – proseguì, continuando a parlare come se fossi un orfanello raccattato per strada – e penso che abbiate avuto una buona influenza sul sergente Hickey, dato che non mi ha ancora bestemmiato contro. – Osservai Thomas, comodamente poggiato alla parete. C’è sempre tempo, generale. – Kenway, non posso darvi Church, non ancora. Niente di personale, davvero, ma lui… Nemmeno noi possiamo prevedere che cosa gli succederà se lo libereranno.
Sollevai lo sguardo. – Quando sarà libero… – dissi cautamente in un sussurro. Avevo il cuore in gola. Quell’uomo mi stava servendo Benjamin su un vassoio d’argento. Pensava fossi un bravo ragazzo. Aveva fiducia in me. E in cambio dovevo solo continuare con quella buffonata.
Lasciatemelo dire, era quanto di più vicino al paradiso avessi conosciuto. In quel periodo le mie aspettative erano calate notevolmente. – Ne parleremo allora, giovane – disse il generale. Sembrava quasi una battuta. Mi si avvicinò ancora. – Nel frattempo, ho qualcosa che penso possa farvi comunque piacere. – Di nuovo, si passò la lingua tra le labbra. Una donnicciola che spettegola su un argomento tabù. – Abbiamo preso Charles Lee. È prigioniero nel forte oltre l’Hudson, vicino New York. Tutto vostro. È il minimo che io possa fare, dopo quanto vi ha fatto e visto il servizio offerto all’Esercito Britannico.
Sbattei le palpebre per lo stupore. Charles? Avevano preso Charles? – Mi state chiedendo di ucciderlo, signore? – chiesi con il cuore che batteva prepotente contro le costole.
– No! – esclamò sbigottito. – Oh, no, no-no-no, mai! State scherzando, spero! – Certo. Nessuno ha mai fatto prigionieri per farli ammazzare dal primo attentatore che passa per strada, eh? Furbacchione. – No, lui ci serve vivo. Pensavamo di organizzare uno scambio, a dire il vero. Lui per Church. Non prima di esserci divertiti un po’, ovviamente. Sto solo dicendo che è lì. E che il buon George Washington se lo riprenderà volentieri anche con un solo orecchio o un paio di dita in meno. – Ruotò elegantemente su se stesso, avvicinandosi alla scrivania per scribacchiare velocemente qualcosa su un foglio di pergamena che piegò e sigillò con la stessa efficienza di un garzone di bottega, poi me la porse tra due dita. – È stato un piacere, ragazzo.
Presi la busta sigillata con tanto di ceralacca lucida e la riposi nella tasca della redingote con sospetto. L’intera situazione puzzava di trappola. – Signor Cornwallis – lo chiamai quando mi aveva già voltato le spalle. Mi rivolse nuovamente quel sorriso gentile. – Non avete davvero niente di più su Church?
Affondò la testa nelle spalle, scuotendola appena. – Niente che possa davvero contare qualcosa. Benjamin non ha più fatto giungere sue notizie da quando è stato arrestato. La nostra unica possibilità è lo scambio con Lee, e speriamo vivamente che quei cani accettino. – Si mordicchiò le labbra e fece nuovamente per voltarsi, ma, una volta tanto, fui io a interromperlo.
– Perché lo state facendo? – chiesi. – Il vero motivo, intendo. Solo per Washington?
Ritornò appena sui suoi passi, la mano nuovamente tesa verso di me e un pezzo di carta consunto tra le dita. Il sorriso era diventato una linea tesa appena sollevata agli angoli, colma di rammarico. Di solito questo è il momento in cui scatta la trappola. Davvero vi tradite in questo modo, generale? Oppure sono io che vedo complotti ovunque? Forse dovrei soltanto arrendermi, rifiutarmi di combattere. Forse mi farebbe bene. Si schiarì la voce, l’aria decisamente seria. – Per nessun motivo particolare. Avete cercato di uccidere un traditore e siete interessato a uno degli uomini più devoti alla patria che abbia conosciuto nella mia vita. Siete stato un militare e non credo abbiate mai causato problemi. – Non mi conoscete, allora. Oppure avete una strana definizione di problema. Agitò la mano per dirmi di accettare ciò che teneva in mano. Uccidere quasi il proprio ufficiale superiore è un problema? Non ero nemmeno più in servizio. – Siete un bravo soldato, e Re Giorgio non ne ha molti dalla sua, di recente. I vostri occhi, poi…
Gli strappai quasi il pezzo di carta di mano e annuii violentemente prima che potesse dire qualsiasi cosa. Mi si leggeva dentro così facilmente? Apparivo davvero tanto disperato? E i miei occhi? Che cosa poteva mai vederci quell’uomo?
Era molto, molto meno stupido di quanto mi fosse sembrato. Battei velocemente le palpebre e guardai il foglietto sgualcito con le mani tremanti.
Era un ritratto, il ritratto di un ragazzo con l’uniforme da militare e l’aria fiera, i tratti del viso confusi, usurati dal tempo e dalle volte in cui il generale doveva averli sfiorati con le dita. Non sapevo dire se mi somigliasse, ma capii che io e Cornwallis avevamo avuto la stessa reciproca impressione. – Era un così bravo ragazzo – sussurrò scrollando il capo. – Un onore per la famiglia, la patria e il Re. – Abbassò gli occhi e strinse la mano sull’elsa della spada fino a farsi diventare le nocche bianche. Incredibile, sembrava che per quell’uomo non contasse nient’altro. Mi morsi il labbro, facendo attenzione a non guardarlo negli occhi. Non volevo che stesse peggio. – Washington, quel maledetto figlio di puttana, ha preso il suo reggimento e li ha catturati, fucilati tutti, dal primo all’ultimo. Non ho mai riavuto il corpo. Sua madre non gli ha mai potuto dire addio. – Allungò lentamente le dita e si riprese in ritratto, riponendolo sotto la giubba rossa, contro il petto. – Non chiedete perché lo faccio. Solo i mediocri agiscono per un fine, ricordatevelo. – Mi diede un’altra pacca sulla schiena. – Gli uomini… quelli veri, intendo, quelli che di solito muoiono, agiscono per le persone.
Cornwallis diede le spalle a entrambi, puntando lo sguardo oltre la propria scrivania, contro il muro sudicio del gabinetto. Thomas m’afferrò per la spalla, trascinandomi verso la porta. – Siete stato molto generoso, generale – disse, spingendo il legno cigolante. – Grazie mille.
– Grazie, generale – fu l’unica cosa che riuscii a dire, la lingua secca come un pezzo di legno in bocca. Uscimmo dal forte passando inosservati, quasi come quand’eravamo entrati. Per quanto riguarda Cornwallis, non lo rividi mai più. Ma suppongo di doverlo ringraziare. Non solo mi aveva consegnato Charles, ma aveva fatto di meglio.
Mi aveva dato un altro motivo per odiare Washington. 


Note dell'autrice :3
Okay, okay, tre cosette veloci e mi tolgo dai piedi.
Uno: quando finirò all'inferno Thomas Hickey mi farà un culo grosso come una casa perché l'ho fatto cantare, lol.
Due: la prossima settimana balzo, D: sarò in vacanza, ma potrei anche aggiornare di sabato e poi mercoledì, devo decidere, e.e
Terzo e ultimo: la versione dell'inno britannico nel capitolo è vera, così come esisteva davvero il generale Cornwallis. Mi sono inventata il grado di Haytham e il fatto che Cornwallis fosse un vecchio superiore di Tom, :3.
Dopodiché, be', ancora grazie a chi legge, chi recensisce e chi riesce a sistemare i bug del sito in tempo per farmi pubblicare, ;)

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Capitolo 40
*** Virtù. ***


Capitolo eliminato per essere riveduto e corretto a tempo di record. Scusatemi, ehw.

"Dow il Nero diceva sempre che l'unica cosa migliore di una battaglia era una battaglia e poi una scopata, e Brivido non poteva dire di dissentire."
– Joe Abercrombie, Il sapore della vendetta.
 
Appena usciti, Thomas si accasciò sul muretto che circondava lo spiazzo di Fort Hill, la testa tra le mani. – Gesù – grugnì tra le dita. – Non va bene così. Non va bene. – Si ravviò i capelli, sputando a terra con frustrazione. – Non abbiamo ottenuto niente, porca puttana! – Scattò in piedi e colpì la terra brulla con un calcio, sollevando una nuvola di polvere. – Niente di niente.
Sospirai mentre prendevo il posto che aveva appena liberato e reclinai il capo. Aveva ragione, alla fin fine, ma non sono mai stato uno che si arrende così facilmente. – A parte Charles.
– Charles! – Thomas allargò le braccia, gli occhi sbarrati iniettati di sangue. – Per grazia di Dio, capo, che diavolo ce ne facciamo di Charles? È merce di scambio! Non otterremo niente da lui, e lo sai benissimo!
Non risposi. Lo sapevo, diavolo. Certo che lo sapevo. – Ma tu… – Si passò una manica sulla bocca, come se volesse liberarsi delle parole. – Tu vuoi andarci lo stesso, dico bene? A New York.
Mi conosce proprio bene. – Un mio informatore vive lì. Potrebbe avere qualcosa da dirci. E poi…
– Dio santissimo, allora proprio non vuoi capire! – Thomas mi si parò davanti e fece per afferrare la redingote. Pareva volesse tirarmi in piedi come una delle sue puttanelle. Gli puntai contro la pistola, gli occhi freddi nei suoi.
Immediatamente sbuffò, rispondendo con un gesto frustrato. – Capisco che tu voglia andare da lui, va bene? Dico solo che è inutile. Perché esporci a un pericolo simile? Arrivare lì solo per… perché tu vuoi scambiare due amichevoli chiacchiere con Charles? No. Io non ci sto.
Roteai gli occhi e gli mollai una spinta a palmo aperto. D'istinto. Lo vidi indietreggiare per la sorpresa, agitando le braccia come pale di un mulino. – Qual è il problema, maledizione? – Mi alzai con la pistola stretta nel pugno, la voce resa un sibilo iracondo. – Preferisci restare qui in panciolle? Ragiona, testa di cazzo che non sei altro. – Non mi ero rivolto spesso a lui in quel modo, e forse non l’avrei mai fatto, ma che diavolo aveva contro Charles? Mi nascondeva qualcosa? Complotti ovunque. Gesù, ho bisogno di dormire. – Se Charles è stato preso dai soldati significa che era in servizio. Mi segui, giovane genio? E se Charles era in servizio, di grazia, dimmi un po’ tu che cosa potrebbe mai significare! – Girai su me stesso con un movimento un po’ melodrammatico, ma, diavolo, quel ragazzetto spocchioso cominciava a innervosirmi.
Thomas, dal canto suo, prese un altro sospiro, sollevando l’ampio petto. – Che Reginald voleva fosse lì – mugugnò senza voglia.
– Esatto! – esclamai di rimando. – Reginald voleva fosse lì. Voleva fosse catturato. Quindi, Thomas Hickey, non mi importa niente di quello che dici o pensi in quella tua testolina da sciupafemmine – esclamai mollandogli una stecca sulla fronte, – ma io andrò in quel forte a parlare con Lee. E tu verrai con me. Intesi?
Tom sollevò gli occhi al cielo, esasperato. – Intesi. - Finalmente. - Ma non subito.
– Perché? – chiesi con mezzo sorriso. – Che cos’hai da fare?
– Niente – biascicò, le mani affondate nelle tasche. – Però mi avevi promesso un’uscita. Sai da quanto non frequento una puttana di Boston, capo?
Sollevai le mani in segno di resa, scrollando il capo mentre un sorriso si allargava sulla sua faccia. – D’accordo – bofonchiai. – D’accordo. Stasera. – Mi passai le mani tra i capelli. – Credo di averne bisogno anche io.
 
Di tutti gli uomini che ho conosciuto nella mia vita, ho sempre considerato Thomas Hickey il più grande degli esperti in bordelli e puttane. Be’, sarà anche un grande intenditore di prostitute, ma certamente non lo era di bordelli: mi trascinò nei peggiori tuguri di Boston, attraverso vicoli sudici, affiancati da canalette straripanti letame, catapecchie fatiscenti senza vetri alle finestre e piani superiori di taverne sull’orlo del fallimento. Forse dietro quei separé zozzi si nascondevano le donne più sensuali delle Colonie, ma tendo a essere un po’ conformista quando si tratta di sesso a pagamento. – Thomas – lagnai quando m’indicò con un cenno del capo un vecchio edificio in legno che pareva sul punto di crollare, con un paio di gatti in calore piantati davanti alla porta e una fila di topi in fuga da chissà quale pericolo imminente. E se scappano anche i topi... – Non sapevo fossi diventato così tirchio. – Dovetti stringere i pugni per rimanere calmo. Non mi restavano molti uomini, e se persino Thomas si rivoltava contro le mie scelte ero seriamente messo male. Per quanto fosse scomodo, dovevo tenermelo stretto, e urlargli contro per ogni cretinata non credo fosse il modo giusto per farlo. In più, Tom non era tipo da farsi sottomettere tanto facilmente. A meno che non indossassi una giarrettiera, e anche così doveva essere difficile. Non sarei stato molto convincente con tutti quei peli sul petto, là dove avrebbero dovuto esserci i seni. – Davvero non conosci niente che sia un po’ più di classe? Non che voglia sminuire questo posto, eh. – Soppesai il borsellino in mano, lasciando che il tintinnio arrivasse come musica alle sue orecchie. – Andiamo, per una volta che offro io. Non ti sprecare, Hickey.
Lanciò un’occhiata sconsolata alla struttura decadente, quindi scrollò le spalle con noncuranza. – E sia – esclamò, prendendo a costeggiarla con la mano tesa verso di me. – Forza. Se vuoi un posticino un po’ più sofisticato dovrai sborsare. Sei diventato schizzinoso, dopo l’indiana.
Una morsa mi serrò la bocca dello stomaco mentre tutti il sangue defluiva dal mio viso. Sapendo ciò che aveva fatto aveva persino il coraggio di nominarla? Di parlarne come se non fosse mai successo niente? Dio. La voglia di stringere le mani sul suo collo era fortissima, impossibile da ignorare. – Almeno t’è piaciuto? – ringhiai senza riuscire a trattenermi. Avevo le mani poggiate contro la parete in legno marcio del bordello nel tentativo di rimanere eretto.
Thomas si voltò con un sorrisetto sfrontato e menefreghista. – Altroché – gli scappò. Pregai con tutto me stesso che fosse così, che gli fosse scappato.
Improvvisamente l’espressione gli si gelò sul volto. – Volevo dire… capo, io…
– Va’ avanti – grugnii scaricando il peso contro l’edificio mezzo crollato. – Ti raggiungo. – Respiravo a fatica, il petto come pieno d'olio di pietra. Mi lasciai cadere a terra seduto, la testa stretta tra le mani e le palpebre tremanti sugli occhi umidi. Che cosa faceva più male, le immagini di ciò che un nemico aveva fatto a me o gli atti di un sanguinario che mi sforzavo di chiamare fratello nei confronti della donna cui tenevo di più? Il petto s’alzava e s’abbassava al ritmo del mio respiro ansimante e i particolari di quella scena – di come doveva essere andata – correvano davanti ai miei occhi, dolorosi, pungenti, sicuramente più cruenti che nella realtà. Doveva essere andata meglio di come immaginavo.
Ma perché? Perché mai la vita avrebbe dovuto farmi un favore, eh? – Capo… per favore.
Ancora la sua voce. Era ancora lì, per portarmi  in un bordello. Un bordello dove avrei potuto – dovuto – sfogarmi. Forza. Devi essere forte. – Thomas – sussurrai – dammi qualcosa da bere. – In cosa trova la forza chi non crede in Dio, se non nel familiare calore alle viscere dell’alcool? Tesi una mano, la testa ancora bassa e i polpastrelli premuti sulle palpebre, finché Tom non chiuse le mie dita attorno al metallo gelido della fiaschetta. – Grazie. – Ingollai un paio di sorsi brucianti – Che razza di liquore di merda beve? – e scrollai il capo per scacciare quelle immagini terrificanti. Nel tendere la fiaschetta al mio socio, lui mi strinse l’avambraccio e mi aiutò a tirarmi su nonostante non gliel’avessi chiesto. Le mie nobili intenzioni erano quelle di restare lì seduto finché il cuore non avesse rallentato il proprio battito. – Andiamo. Mi dispiace ancora, capo. Scusa. – Thomas mi diede una pacca sulle spalle che somigliava più a una spinta gentile.
Non voleva che mi calmassi, anzi, voleva che il mio cuore scuotesse le costole con più forza, ma non per la rabbia o il dolore. Per l’eccitazione. La libidine.
Mi passai le mani in faccia, spintonato come un bambino restio dal vecchio Tom. Ne avevo proprio bisogno. Proprio bisogno.
 
– E per il compagno d’arme Haytham Kenway, che mi ha offerto una serata con le migliori puttane della vostra magnifica città… hip, hip… urrà! – Thomas Hickey levò a fatica il boccale verso il soffitto, affondando immediatamente la faccia tra i seni di una prostituta.
Sorrisi, tracannando un sorso di birra. Ci eravamo faticosamente trascinati fino alla taverna solo perché Thomas pensava di aver bisogno di un bagno. Nella mezz’ora che aveva passato immerso nell’acqua bollente con un sigaro tra le labbra, io mi ero seduto sul letto con la testa tra le mani, osservando di sbieco i miei nuovi carcerieri, incazzati più che mai. Non dico che non avessero i loro motivi, solo che non avevamo fatto niente di male. Eravamo ancora lì a sopportarli per quella causa del cazzo, solo perché la scelta – almeno per me – era tra loro e Birch. E sapevo perfettamente quale fosse il male minore.
Oltre a London, che mi squadrava rigido come se avesse una mazza di scopa infilata nel culo, c’era un ragazzino tremante poggiato allo stipite della porta, tutto impettito nel tentativo di incuterci timore. Non l’avevo mai visto prima, doveva essere una recluta fresca d’indottrinamento da parte di Achille, Connor e compagnia cantante. – Andate a puttane, eh? – aveva chiesto, nel banale tentativo di dare inizio a una conversazione virile. Avevo aggrottato la fronte. Magari ha anche una sirena con le tette al vento tatuata sul petto. Idiota.
– L’idea era quella – era stata la mia risposta.
A quel punto London si era piazzato con le gambe divaricate davanti alla porta, come il guardiano imperscrutabile di un santuario. – E cosa vi fa pensare che vi permetteremo di andarci?
Perché non mi lasciate tutti in pace, cazzo? Non ne comprendevo proprio il motivo. Avevo bisogno di mettere piede in un bordello. Bisogna essere realista, certe volte, e l’unico modo per togliermi dalla testa una donna – almeno temporaneamente – era far sesso con un’altra. Anche se non era la mia donna, non quella che amavo. Poteva esserlo nella mia fantasia.
Però, si sa, gli Assassini sono noti per la loro insistenza e l’idiozia, non credo avrebbero compreso questa spiegazione psicologica. Oh, sì. Ha una certa psicologia. Maschilista, d’accordo, e parecchio anche, ma pur sempre una psicologia. – Il fatto che pago io – avevo biascicato passandomi una mano in faccia. Non riuscivo a immaginare Thomas con un’espressione sul viso che non fosse di soddisfazione post-scopata. Maledizione. – Ci seguirete passo passo pensando di scroccare un servizietto? – London, in risposta, mi aveva grugnito contro, per poi voltarsi e andare a sbattere il pugno chiuso contro la porta del bagno. Avevo reclinato il capo contro il muro mentre il ragazzino poggiato alla porta si umettava le labbra, pronto a mostrare tutta la propria mascolinità.
Mi ero lasciato sfuggire uno sbuffo. Perché non potevo essere come Thomas Hickey, senza – o quasi – limiti dettati dalla moralità? Aveva stabilito il suo limite – impiccare un dannato bambino –, ma non sembrava mai davvero pentito delle sue azioni passate, non fino in fondo. Aveva un proposito ottimo, ma impossibile da mettere in atto. Non uccidere più nessuno? Sì, e io ero un venditore di Bibbie.
– Esci di lì, coglione! – aveva urlato London, spingendo un caracollante Thomas all’interno della nostra stanza; rideva come se avesse fatto il bagno nel whiskey, una camicia lavata di fresco poggiata sulla spalla e i calzoni sfibbiati.
Sembrava proprio pronto per una serata di sesso, non c’è che dire. – Coglione lo dici a qualc-… – Prima che Thomas avesse avuto il tempo di finire la frase London aveva chiuso la porta con un fragoroso schianto. – ‘Fanculo! – Il grido di Tom, seguito dall’impatto del suo petto contro il legno, aveva reso l’intera scenetta piuttosto patetica.
–Dio santissimo – avevo grugnito afferrandolo per il braccio, – si può sapere che cazzo hai bevuto?
– Acquavite, capo. E che te ne fotte, comunque? – aveva risposto Thomas, scrollandomi di dosso e infilandosi la camicia. – Mi diventa duro più facilmente quando bevo. Qualche problema? – Stava ringhiando proprio a pochi pollici dalla mia faccia. Eh, già. Acquavite.
In risposta avevo scrollato le spalle. – Sai, Thomas, non ero esattamente ansioso di saperlo. Vestiti e andiamo, d’accordo? – Il grugnito che aveva emesso mi era sembrato una risposta sufficiente, così ero tornato a sprofondare nel materasso. Non riuscivo a togliermi dalla testa gli occhi di Tiio. Il suo sguardo triste e determinato mentre trascinavano lei e gli altri membri della sua tribù, suoi amici, magari anche suoi familiari, dritti verso la schiavitù. Avevo adorato quello sguardo. Sembrava che avesse sempre avuto un piano e, anche se io non fossi stato lì, sarebbe riuscita perfettamente a trarre in salvo tutti gli schiavi. Anzi, mi guardava come se potessi creare un ostacolo.
E non ero stato altro, in un certo senso. Uno stupido ostacolo. Non fosse stato per me sarebbe stata viva. Forse schiava, forse senza figli, forse stuprata da qualcun altro, ma viva. Me lo sarei fatto bastare. Ma i rimpianti non sono esattamente l’ideale prima di una serata a puttane. – Thomas – avevo esclamato con le mani sulle ginocchia, deciso a uscire da quella mezza depressione, – hai ancora un po’ di quell’acquavite?
Così avevo mandato giù un paio di grandi sorsi e, con i due Assassini a guardarci le spalle con la stessa pressante pesantezza di due schiavisti che si assicurano che il lavoro sia svolto alla perfezione, ci eravamo avviati verso uno dei bordelli più famosi e cari di Boston. Certo, tanto paga Haytham.
Eppure ne valeva la pena. Forse era stato merito del liquore, della scollatura che continuava a danzare davanti ai miei occhi o della penombra che occupava la stanza in cui io e Thomas stavamo stravaccati come dei re sui divani più comodi su cui avessi mai poggiato il fondoschiena, ma non potevo fare a meno di essere felice. Soddisfatto, con la camicia sbottonata e un dolore piacevole in mezzo alle gambe. London e il ragazzino erano poggiati contro la cornice della porta, come alla locanda, ma non m’interessava. Non c’era niente che potesse interessarmi più di una prostituta, in quel momento.
A questo proposito, la ragazza con una matassa di riccioli neri, sistemata quasi a cavalcioni sulle mie ginocchia, si leccò le labbra e slacciò la fibbia con un movimento rapido ed esperto. Non c’era musica, l’atmosfera era già creata dagli ansiti di Thomas. Si può ben dire che fosse un tipo diretto.
Vidi London sgattaiolare fuori dalla sala, richiamato da chissà quale impegno imminente, e annuì con un cenno verso la ragazza. Mentre quest’ultima scivolava verso il basso, pensai che sarebbe stato il momento perfetto per scappare, per sfuggire al loro controllo ed essere di nuovo liberi, senza che gli Assassini ci trattenessero per la collottola, impedendoci quasi tutte le azioni. L’unico ostacolo – ostacolo, Dio, mi viene da ridere a chiamarlo così – era la recluta. Difficile da aggirare, eh.
Da mesi – anni – avevo il loro maledetto fiato sul collo con il desiderio di liberarmene, davvero, e avevo la mia occasione. Scappare. Agire senza che loro sapessero tutto ciò che avevo in mente. Arrivare al forte, liberare Charles, magari. Fuggire per sempre e avere una vita pacifica, fuori dalle Colonie, a ovest.
Strinsi le palpebre. Era davvero realizzabile? E, soprattutto, aveva poi tutta quest’importanza? Ero braccato su due fronti, da Reginald, che mi cercava per il Grande Tempio, e dagli Assassini, che a loro volta non potevano lasciarmi cadere nelle mani sbagliate. La mia libertà di agire si sarebbe tramutata poi in una nuova prigionia, perché mi avrebbero preso, se non fossi morto prima. Quest’illusione – non era altro, in fondo – valeva davvero più di qualche minuto, qualche ora di dannatissimo piacere? Valeva più di una ragazza che mi si strusciava contro, di un paio di mani desiderate tra le gambe, di quell’alcolico e piacevole calore alle viscere, della sensazione di calma che mi riempiva il petto mentre fingevo per una notte, una sola notte, di essere un uomo normale, con l’unica preoccupazione di farsi sbattere da una giovane disinibita, sapendo di avere magari una moglie vecchia e stanca a casa, con cinque pargoli da sfamare e un lavoro sottopagato di merda? Valeva davvero più di tutto questo?
Mentre spingevo con delicatezza il capo della ragazza, aiutandola nei movimenti – come se ce ne fosse bisogno – decisi di no.
 
Thomas barcollò nel vicolo fuori dal bordello, dando spallate alle pareti e ridacchiando come se avesse appena sentito la battuta più divertente del mondo. Era soddisfatto, ubriaco e a stento si reggeva in piedi, ma ne era valsa la pena. Non mi sentivo tanto bene da secoli, e penso che a volte Hickey abbia ragione. Un po’ di sesso non ha mai ucciso nessuno. Certo, avevo la scarsella mezza vuota, ma niente a cui non potessi rimediare in breve tempo. I soldi non erano mai stati una mia preoccupazione. La fortuna dell’essere l’unico rimasto, pensai con un sorrisetto. Una battuta che da sobrio non avrei mai fatto, nemmeno tra me e me.
– Mi aspetto delle spiegazioni da te, Kenway – disse brusco London. Indicò Thomas con un cenno della testa e subito il suo fedele cagnolino si fiondò ad afferrarlo per un braccio, impedendogli di cascare dritto in una canaletta.
Risi. Hickey aveva appena colpito il giovane Assassino con una gomitata sullo zigomo. – Spiegazioni? – chiesi dopo un fragoroso sbadiglio. La notte era quasi passata, a est il cielo cominciava a tingersi di grigio mentre la città era ancora addormentata. Un soldato sonnecchiava, comodamente sbracato su una vecchia seggiola davanti a una locanda. Persino il lerciume a lato delle strade pareva brillare. Avrò anche bevuto troppo, ma, cazzo, quant’è bello. – Che vuoi, di preciso?
– Sapere perché avete avuto bisogno di accoltellare alla gola un mio confratello e che cosa avete ottenuto. – Mi prese per una spalla, puntandomi l’indice contro come un carceriere che tenta di spaventare il più pericoloso dei suoi prigionieri. Senza riuscirci. – Non succederà mai più. Ci siamo capiti? Vi seguiremo in ogni vostro movimento, e se solo ci provate un’altra volta giuro su Dio che…
– Mi spiace – lo interruppi scrollando le spalle con noncuranza. Il ragazzino non demordeva e aveva provato un nuovo approccio con Thomas, serrando la presa intorno alla sua vita e trascinandoselo dietro mentre scalciava come un mulo. – Ci serve che restiate buoni alla locanda un’altra… Gesù, come si chiama quel povero idiota?
London guardò la patetica scenetta e lanciò un sospiro sconsolato. – Tyler. L’abbiamo trovato dalle parti di Augusta. Brutta zona. Quell’idiota di Brown e i suoi l’hanno quasi ammazzato, dobbiamo ritenerci fortunati. Da un po’ troppa aria alla bocca, ma sta dalla nostra parte. – Deglutì faticosamente, continuando ostinatamente a non spostare lo sguardo. – Casa sua era stata data alle fiamme. Genitori, un paio di sorelle e forse anche dei bambini piccoli. Una maledetta strage. – London sputò un grumo di saliva a terra in un gesto frustrato, quindi tornò a pensare alle cose davvero importanti. – Torniamo al nostro discorso, eh, Kenway? Che cosa stavi dicendo?
Sbuffai con le mani nelle tasche della redingote. Tyler era proprio un caso disperato. – Siamo andati da Cornwallis, a Fort Hill. Non vi avrebbero mai fatti entrare. Le giubbe rosse hanno occhi e orecchie ovunque, e la vostra patetica Confraternita è stata così indiscreta che persino un cieco avrebbe capito che voi c’entrate con tutta la protezione messa attorno a Washington. – Sanno persino di me, che non sono sprovveduto fino a questo punto. Vuoi che non abbiano notato voi idioti? – Il generale ci ha offerto… – Mi morsi le labbra, fermandomi sul più bello e simulando un colpo di tosse per far funzionare il cervello.
Ero a un bivio, come sempre, e come sempre non potevo rischiare. Mi restavano troppi pochi fedeli per poterne sacrificare anche solo uno. E non so nemmeno se Lee mi sia davvero fedele. Dannazione. Sapevo esattamente cosa sarebbe successo se gli Assassini avessero saputo di Charles. Avrebbero chiesto a Washington il permesso esplicito di ucciderlo, e quel bastardo l’avrebbe concesso. Reginald sarebbe rimasto solo, ma non a lungo. A quel punto sarebbe venuto a cercare me e Connor, sapendo di non avere più tempo, per ottenere la Mela e andare al Grande Tempio.
Se l’avessi ucciso sarei stato il Gran Maestro dell’uomo che barcollava, mollava calci al nulla con un rivolo di bava schiumosa lungo la faccia e bestemmiava in gaelico contro quel deficiente di Tyler. Un re con un solo suddito, per di più instabile e difficile da controllare. No. Nessun re è mai andato avanti con l’appoggio di uno. Dico bene, Giorgio? Già. Se sei ancora in piedi è solo merito dei dannati seguaci dispersi per tutte le Colonie, sempre pronti a fare casino e a dichiarare la forza della patria. Benjamin Church in prima linea. Mi passai le mani sugli occhi. Maledetti lealisti.
– Che cosa vi ha offerto? – insistette London.
Inventati qualcosa, cretino! – Ha offerto… Church. – Oh, complimenti! – Cioè, no, non esattamente. Ha detto che quando Church sarà libero potremmo parlarci, ma è una questione di tempo e prigionieri. Dovranno… – Deglutii a vuoto per trovale le parole giuste. Dalla mia bocca usciva la verità, ma in fin dei conti non stavo dicendo niente. Ed è così che deve andare. – Dovranno mettersi d’accordo, suppongo. E se cominciate a intromettervi voi non ne usciamo più. Abbiamo un incontro con qualcuno dei suoi a New York. Partiamo domani.
London mi fulminò con lo sguardo. – Stai scherzando, spero! – Si avvicinò a me, le labbra pericolosamente ritratte sui denti sbarrati. – Andare fino a New York e ritorno da soli. Certo. Finché si trattava di arrivare al forte era un conto, ma te lo puoi scordare, Kenway. Tu e quel coglione non andrete da nessuna parte.
Scrollai le spalle. – Be’, potreste accompagnarci senza partecipare all’incontro. – Gli scoccai un’occhiata speranzosa. – Se proprio dovete. Siamo così inaffidabili?
– E lasciare la città alla mercé dell’Esercito Britannico per quanto tempo?
– C’è pur sempre Stephane. – Non riuscii a trattenere un sorriso. Quell’affermazione suonava ridicola persino alle mie stesse orecchie. – Non credo abbiate scelta, London. Lascia qui Chapman, il francese e magari anche quel peso morto di ragazzino e vieni con noi.
Emise un grugnito frustrato, sollevando lo sguardo al cielo. Non doveva essere piacevole ricevere dei mezzi ordini da quelli che sarebbero dovuti essere i prigionieri. Svoltò bruscamente a sinistra e davanti a noi si parò la struttura instabile e in rovina della French. Quella taverna rispecchiava in tutto e per tutto la Confraternita degli Assassini a Boston, nient’altro che l’ombra di ciò che era stata un tempo. Le cose stavano precipitando per tutti. – Ne riparliamo domattina – brontolò estraendo una chiave d’ottone dalla tasca e infilandola a forza nella serratura coperta di ruggine.
Spalancò la porta in legno con una leggera spinta, lasciandomi entrare per primo. Vidi con la coda dell’occhio Tyler in fondo alla strada, Thomas caricato sulla schiena come un mercante sul proprio cavallo da soma, intento a canticchiare chissà quale vecchia canzone irlandese, e sorrisi.
La prima cosa che percepii all’interno della taverna fu il sentore dell’alcool, ma all’inizio credetti di essere io stesso a emanarlo. – Stephane! – tuonò London al mio fianco, socchiudendo la porta con una certa violenza. L’intero stanzone era immerso nell’oscurità, eccezion fatta per una chiazza di luce che tremolava sul bancone, così piccola e debole da poter essere facilmente scambiata per una lucciola. Era un vecchio mozzicone di candela, e la fiammella gettava luci sottili e ombre spaventose sul volto scavato di Stephane Chapheau, quasi sdraiato sul bancone con una bottiglia alle labbra. Ubriaco fradicio, forse più di Thomas.
Almeno Hickey non era in preda alla sbornia triste più deprimente del secolo. – Stephane! – sbraitò di nuovo London, mollando una pacca sulla schiena del vecchio e strappandogli di mano la bottiglia. – Ti avevo detto di stare lontano da quella roba. Se avessimo avuto bisogno di aiuto…
– Nessuno! – Il vecchio parve riprendere vita per un attimo, levando con vivacità la braccia al cielo, le labbra distorte per la disperazione, forse, e quel grido invase l’intera locanda. – Nessuno ha più bisogno del mio aiuto! Gli Assassini non possono più fare niente per me! Mi hanno succhiato il sangue! – Puntò un dito tremante nella mia direzione proprio mentre Tyler si trascinava faticosamente all’interno della taverna, ignorando l’anziano locandiere e salendo direttamente al piano di sopra, Thomas ancora sul groppone. – Tu lo sai! Li conosci – sibilò, la voce rotta. – Pensavo mi avrebbero ridato una casa, una vita! Rivoglio la mia vita. Rivoglio la mia vita.
S’abbandonò sul bancone piangendo, e immagino che se la luce fosse stata appena più intensa avrei visto London avvampare per l’imbarazzo. Gli Assassini lo hanno salvato da morte certa. Gli hanno dato un ideale, qualcosa in cui credere, ma non è uno sciocco. Li sente gli strilloni, sa che la guerra sta andando male. Vede che non ci sono più tanti Assassini come prima, ha visto come nessuno ha fatto nulla quando gli hanno chiuso la baracca. Il mio sguardo vagò sulla travatura mezza marcia del soffitto. Se gli fosse crollato tutto sopra la testa forse sarebbe stato contento. Seppellito dall’unico posto in cui fosse mai stato felice. Perché l’alcool mi rendeva così sentimentale? Scrollai il capo per scacciare la nebbia e tornare a essere il cinico bastardo di sempre. – Tu non hai nessuno! – raschiò nella mia direzione, tendendo le dita verso la bottiglia. – Eppure sei fortunato, cazzo! Se sei uno stronzo nessuno può ferirti. – Sotto lo sguardo torvo di London, Stephane mandò giù due lunghi sorsi. Magari avessi ragione, vecchio mio. Magari. – Il mio unico amico è morto. Mi hanno lasciato qui, a marcire come un cadavere lasciato al sole. Je suis dejà mort. Un povero disperato sull’orlo del baratro, ecco cosa sono. Andate tutti a farvi fottere!
Stephane continuò a sbraitare, bestemmiando in francese mentre tracannava chissà quale bevanda alcolica da quella bottiglia. – Haytham, vattene. – London mi si parò davanti, facendo un cenno verso le scale. – Lascialo in pace.
Aggrottai la fronte. – Va’ a dormire tu, London. Ne hai più bisogno di me. – Lo spinsi gentilmente via, lo sguardo fisso su Stephane. – Un po’ di compagnia gli farà solo bene.
La fiamma della candela illuminò lo strano ghigno formatosi sul suo volto. – Quando sei diventato altruista?
Risposi sollevando le spalle. – Sarà l’alcool. Non ti ci abituare. – L’Assassino andò comunque alla porta e la chiuse a chiave, facendo rumorosamente scattare la serratura prima di salire al piano superiore.
– Sali entro mezz’ora, Kenway, o ti trascino su per i capelli. – Il suo tono minaccioso era scemato un po’, forse per l’imbarazzo di avermi mostrato Stephane in un momento tanto delicato. Doveva essere una cosa consueta.
Gli risposi con un gestaccio alle spalle e m’avviai con calma verso il bancone, sedendo sullo sgabello davanti a Chapheau. Stava singhiozzando piano, spingendo la bottiglia sul legno, probabilmente disgustato perfino da se stesso. – È vino? – chiesi afferrandola e rigirandomela tra le mani. Annuì, e immediatamente buttai giù un paio di sorsi. Un rosso dolce e fresco. Niente male. – Pensi che sia uno stronzo? – Non m’aspettavo una risposta, infatti non arrivò. Proseguii mentre il mondo continuava a brillare sotto le luci dell’ebbrezza. – Non ti biasimo, anzi. Probabilmente hai ragione. Eppure, sai, non è vero che nessuno può ferire quelli come me. A mio parere facciamo solo finta di nulla. – Sollevai la bottiglia, osservando i depositi sul fondo alla luce della candela. – Cerchiamo di non far notare quanto siamo male in realtà. Non ci piace essere considerati deboli, e il più delle volte gli altri uomini ci detestano e ci temono. Per il nostro ego è come nettare. – Sorrisi tristemente e abbassai lo sguardo su di lui. Aveva la testa mollemente poggiata sul palmo, gli occhi spenti e lucidi. – Comunque, hai ragione sugli Assassini. Le grandi avventure sono finite. Questa è la guerra. – Sospirai. – Tutto ciò che hai sempre conosciuto come portatore di fama, gloria e denaro diventa solo fonte di morte e solitudine. Distruzione. E capisci quanto gli uomini siano stupidi.
Il vecchio locandiere continuò a mugolare. Il suo labbro inferiore tremava come quello di un poppante staccato dalla tetta della madre. – Così… niente più grandi scontri a suon di mannaia, eh? – lo pungolai mandando giù un altro sorso di vino.
Il suo viso scivolò giù dalla mano. – Niente più – biascicò, le dita tese verso di me e la guancia irsuta accasciata sul bancone. Gli allungai la bottiglia, ma la sua mano si abbassò mollemente, abbandonata lungo il fianco. – Niente più… – Svenne.
Mi morsi le labbra e gli diedi una pacca sulla schiena, lasciandomi scivolare in corpo le ultime gocce di vino. Guardai Stephane di sbieco, rendendomi conto di quanto fosse diventato solo l’ombra dell’uomo attivo, entusiasta e iracondo che avevo incontrato anni fa. Non solo non aveva più niente da perdere, ma non aveva più niente per cui combattere.
Girai sui tacchi, salendo le scale e tenendolo d’occhio finché non arrivai davanti alla porta della mia stanza, sorvegliata da London, sempre dritto come un fuso, e Tyler, accasciato su una misera seggiola. Forse avrei dovuto almeno mettergli una coperta addosso, ma avevo di meglio da fare. Stephane non si sarebbe certo fatto troppi problemi a dormire su un bancone, no?
Mi tolsi lentamente di dosso la redingote e gli stivali, affondando nel materasso mentre il sonno mi pervadeva con veemenza. Thomas russava come un cinghiale.
Strinsi gli occhi. Avrei voluto vivere un’intera esistenza di notti brave, scopate e ubriacature, ma non potevo. L’indomani stesso – di lì a poche ore, a dire il vero – mi sarei dovuto mettere in viaggio verso New York per incontrare un’altra fetta di passato. Maledizione.
Caddi addormentato nonostante digrignassi i denti così forte da poterli frantumare. 

 

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Capitolo 41
*** The rabbit hole. ***


Good morning, mama,
You know I’m going down this big road by myself.
Good morning, mama,
Oh, I can’t wait to go to the place of the damned.
– Raphael Gualazzi, Welcome To My Hell.
 
«Se tu fossi più intelligente, magari avresti sogni più intelligenti.» (Mastino)
– Joe Abercrombie, Il sapore della vendetta.
– Cazzo, che male!
Roteai gli occhi, affondando nuovamente gli speroni nei fianchi del cavallo che affondava fino alle ginocchia nella neve. – Piantala di lamentarti, Thomas – esclamai esasperato. – Già c’è questo maledetto tempo a rompere i coglioni, ti ci metti anche tu?
Dalla prima mattina aveva cominciato a nevicare, ma sembrava che nell’entroterra della frontiera non avesse mai smesso. Fiocchi di neve grossi come noci ma decisamente più leggeri danzavano attorno a noi nell’aria densa di vapore e imprecazioni. Thomas cavalcava quasi sbracato, i palmi delle mani premuti sulle tempie per scacciare il mal di testa. – Per te è facile parlare! – ringhiò, fulminando tutti con un’occhiata assassina. – Non ti sta esplodendo il maledetto cervello. Cazzo.
Lanciai una parolaccia a mezza voce e smontai da cavallo. Quella dannata bestia, presa da una delle scuderie pubbliche di Boston per quasi cinquanta sterline, non voleva saperne di andare avanti, quindi avrei dovuto strattonarla a forza o abbandonarla lì, e la strada verso New York era ancora troppo lunga. – Diavolo – brontolai affondando gli stivali nella neve con un gradevole scricchiolio. – Non potevamo prendere una nave?
Dal suo cavallo, un enorme destriero nero che doveva essere nato per la guerra, London mi scoccò un’occhiata bieca. – Con questa tempesta? Fammi il piacere. – S’affrettò a voltarmi le spalle per dare di sprone, ma continuò a blaterare. – Avremmo speso un sacco di soldi per convincere il capitano ad arrivare prima, quindi saremmo rimasti bloccati in mezzo al mare per il vento. Magari finiti in qualche secca, e sarebbe stata la fine. Per non parlare dei pirati. – Mi corsero i brividi lungo la schiena al ricordo di quel Perez e della sua dannata ciurma di ammutinati. Come se il freddo non fosse già abbastanza pungente. Raffiche gelide penetravano le carni come coltelli affilati, s’insinuavano sotto i cappotti e rendevano gli uomini rigidi e insofferenti, me compreso. Dall’ultima sosta, avvenuta poche ore prima per un misero pranzo, London aveva assunto un brutto colorito giallastro, malaticcio, ma faceva del suo meglio per proseguire. Avevo visto tanti uomini crepare per i venti gelidi che spiravano dal mare del Nord, ma di certo non sarebbe andata così. Almeno finché l’Assassino non fosse sceso da cavallo, motivo per cui London restava ben saldo in sella, lasciando che gli enormi zoccoli dello stallone facessero il lavoro sporco per lui.
Chiunque ci avesse incontrati, persino una giubba rossa, ci avrebbe lasciato passare senza troppe preoccupazioni, poiché sembravamo più che altro un disperato trio di mendicanti: Thomas che imprecava senza sosta, governando il destriero solo con lievi spinte dei talloni, London, preoccupato solo di stringere i denti per arrivare alla fine della cavalcata, e io, a chiudere il corteo trascinando il cavallo come in una commedia di quart’ordine. Probabilmente neanche dei banditi avrebbero mai pensato di farci del male. “Perché, questi hanno dei soldi?”, avrebbero pensato, e avrei dato loro ragione.
La grande Confraternita degli Assassini in tutto il suo splendore, signori e signore. Ricordavo bene il momento in cui mi avevano salvato dalla forca, caricandomi su un carro con grande organizzazione e rapidità, ma già allora, dall’insolito numero di uomini persi in quel maledetto salvataggio, si potevano scorgere le prime falle nell’organizzazione. Reginald mi aveva istruito sulla storia degli Assassini, e avevano avuto i loro periodi di splendore, come in Italia, per esempio, o alle radici della loro cultura, in Oriente, a Masyaf. C’era stato un declino costante e inarrestabile, da allora, costellato di stragi, uomini morti, altri reclutati e uccisi in squallide missioncine destinate a portare Washington esattamente dov’era ora, a capo dell’Esercito Continentale. Come se fosse servito a qualcosa. Come se potesse mai servire a qualcosa! Maledetti imbecilli.
– Quanto manca? – ansimai scrollando gli stivali coperti di neve. Un po’ d’acqua gelida scivolò lungo la calzatura, facendomi irrigidire ulteriormente i piedi per il freddo. – Sapete, mi hanno già amputato un dito, dover farmi mozzare anche un piede andato in cancrena per questa cazzo di neve mi sembra un po’ troppo.
London sospirò, rizzandosi appena sulle staffe per vedere qualcosa oltre quel muro interminabile di alberi scheletrici. Il cielo, di un grigio così candido e pesante da sembrare bianco, era un tutt’uno con il suolo, e quei tronchi spiccavano come macchie su un foglio di carta intonso. Anche notare noi sarebbe stato piuttosto facile, ma non interessavamo a nessuno. Sarebbero venuti a cercarci solo per consegnarci personalmente la medaglia al valore per l’idea più stupida del mondo, e avrei indicato loro London, in quanto unica mente pensante e guida durante il viaggio. Che si tenga la medaglia. Io sono un tipo modesto. – Abbiamo guadato il Connecticut un’ora fa. Siamo quasi a metà strada.
Il sole, una macchia indistinta nel cielo, stava già cominciando a calare verso ovest, dritto davanti a noi. – E meno male! – strepitò Thomas, sputando a terra. – Non ce la faccio più. Dio! Sono ore che cavalchiamo in questa cazzo di terra senza incontrare una sola anima, e io sto morendo dal…
– Se pensavi di incontrare puttane anche qui, Hickey, hai sbagliato viaggio. – Il tono di London era acido come non mai, e sputò quelle parole contro Thomas voltando solo il capo nel guardarlo.
– Prova a ripeterlo e ti apro il culo! – gridò Thomas in risposta con immotivata aggressività. – Vorrei vedere te, con questo cazzo di male…
– Avevi solo da bere meno.
– E tu avresti solo da bere di più, coglione!
– Thomas! – sbottai senza riuscire a trattenermi. – Vuoi piantarla? Piantatela tutti e due. Gesù, mi sembra di andare a passeggio con due ragazzine. Litigare non serve a niente. Portiamo a termine questa faccenda e torniamo a Boston in attesa di notizie. – Scoccai istintivamente un’occhiata di intesa a Thomas. Durante una pisciata appena oltre il fiume Charles gli avevo riferito tutte le bugie raccontate a London.
Mi aveva risposto grugnendo e continuando a bestemmiare. Non avevo saputo bene come prenderla, ma mi fidavo più di lui che del bastardo incappucciato che ci precedeva. Ho per caso scelta? – Ci servirà un ponte, giusto? Siamo ancora troppo a nord – dissi per rompere il ghiaccio. La lettera del generale Cornwallis, ancora intatta e sigillata, pareva pesare nella tasca interna della redingote, all’altezza dello stomaco. – Chissà se Tyler ce l’avrebbe fatta.
Hickey arricciò le labbra. – Non sarebbe riuscito nemmeno a mettere piede fuori Boston senza farci beccare o essere sbranato da un puma, te lo dico io – sussurrò così che solo io lo sentissi. E meno male. Allora non sei del tutto stupido, Tom.
– No. Useremo una lancia e percorreremo il fiume verso sud, fino al forte.
Sbuffai e scoppiai a ridere per quel ridicolo abbozzo di piano. Persino Connor – Connor, buon Dio, non so se mi spiego – avrebbe escogitato qualcosa di meno patetico. – Uhm, quindi utilizziamo un’imbarcazione per un tratto che potremmo percorrere agevolmente a cavallo e ci facciamo il culo per miglia e miglia attraverso mezzo metro di neve. Che logica incrollabile.
Thomas ridacchiò e London volse appena il viso verso di me, fulminandomi con un’occhiata bieca, la cornea giallastra e iniettata di sangue. – Preferisci fartela a nuoto? – sibilò acido, tornando immediatamente a guardare dinanzi a sé. – Io non ho alcun problema in proposito, Kenway. – Emise un lento sospiro e il fiato si condensò in una nuvoletta candida come la neve che ci circondava, poi allungò il collo verso l’orizzonte, stringendo le redini tra le dita. – Non è questo il momento di discutere. Il sole tramonterà e voglio arrivare all’Hudson il prima possibile. Con questo tempo… – si strinse nel cappotto, tremando come una femminuccia.
Feci schioccare la lingua con scherno. – Andiamo, London! – esclamai montando sul cavallo mentre grosse gocce di neve sciolta scivolavano lungo il mio polpaccio, allagando gli stivali. Alla faccia della qualità britannica. Lo raggiunsi al passo: il suo sguardo vagava sospettoso all’orizzonte, alla ricerca di qualche grana da evitare o della strada più agevole. Strizzai gli occhi, cercando di distinguere qualcosa all’interno di quel maledetto tappeto bianco e senza fine. Maledetta neve. – Non mi dirai che hai paura di qualche brigante.
Non si voltò nemmeno a fucilarmi con lo sguardo. Un po’ offensivo, da parte sua. – Non sono i briganti a preoccuparmi, dato che in tre portiamo addosso più armi di un intero manipolo di soldati, è la neve. Non mi sembra che tu sia esattamente il miglior cavallerizzo dell’Esercito Britannico, Kenway. – L’angolo della sua bocca si sollevò appena, e per una volta fu lui a schernire me.
Per sua fortuna, non sono mai stato un uomo permaloso. Sospirai, chinando lo sguardo sugli zoccoli del cavallo. London aveva ragione. Solo chi aveva percorso in lungo e in largo quelle lande desolate poteva rendersi conto di quanto il terreno fosse impervio e insidioso. Io stesso, durante la spedizione di Edward Braddock, ero caduto da cavallo in più occasioni, sbalzato in avanti ogni qual volta quella dannata bestia inciampava in una radice o un sasso più grosso degli altri. Inoltre, be’, non riuscivo a condurre un ronzino senza doverlo ridicolmente trascinare per le redini, al contrario di Tom, che sembrava quasi spassarsela. Governava il proprio destriero facendo solo una lieve pressione con le ginocchia sui fianchi, il tutto mentre si dedicava alla propria attività preferita, ovvero continuare incessantemente a lamentarsi per quel maledetto mal di testa. Almeno può tenere le mani in tasca. Avevo trovato un paio di guanti mozzati alla locanda, ma nonostante ciò il freddo aveva reso le mie dita insensibili e il mio umore più irritabile che mai. Stringevo la mascella così forte da non percepire nemmeno il tremore dei denti. – Aumentiamo il passo – stabilì London affondando gli speroni nei fianchi dell’animale.
Lo imitai d’istinto, e immediatamente quel dannato cavallo partì al galoppo verso ovest, verso il sole, come se non ne potesse più di arrancare nella neve e avesse bisogno di liberarsene, di scalciarla via in una fontana di goccioline ghiacciate, esattamente come stava facendo. La nuvola bianca ricoprì ulteriormente Thomas di neve, facendogli lanciare contro di me un altro paio di bestemmie. Mi sarebbe piaciuto rispondergli a tono, ma ero troppo impegnato a serrare le dita attorno alle usurate cinghie di pelle e a evitare di essere lanciato oltre il collo della cavalcatura. Abbassai lo sguardo sulla neve che schizzava via da sotto gli zoccoli mentre il vento gelido e i fiocchi grossi e vaporosi colpivano le mie guance senza pietà, facendomi lacrimare gli occhi e battere i denti con più forza.
Qualche poeta da strapazzo – o forse gli stessi Assassini – avrebbe scritto nelle sue fottute memorie che la sensazione provata in groppa a un cavallo lanciato attraverso la frontiera, più veloce del vento, era una sola, inequivocabile e sacrosanta: libertà, nella sua forma più pura.
Be’, non prendete mai per vere le parole dei poeti. È vero che la sensazione provata in groppa a un cavallo lanciato attraverso la frontiera, più veloce del vento, era una sola, inequivocabile e sacrosanta: panico, ecco di cosa si trattava. Nella sua forma più pura. Un terrore animale e istintivo che serrava le viscere e asciugava la lingua, oltre ad aumentare incredibilmente la voglia di pisciare. Tutto quell’essere sballottato su e giù dalla sella mi faceva sentire come se la vescica stesse per esplodermi. E provocava anche un gran male ai gioielli di famiglia.
Thomas Hickey mi affiancò quasi immediatamente, continuando a inveirmi contro, le redini strette in una sola, nuda mano e il cappello sventolante nell’altra. – Figlio di puttana, non crederai di essere più veloce di me!
È già tanto se credo di poter arrivare vivo al tramonto, maledetto stronzo. – Ti faccio vedere io chi è Thomas Hickey – dichiarò con la mascella serrata, calandosi teatralmente il tricorno sul capo. Affondò gli speroni nel fianco dell’animale, e se devo essere franco ammetto che non poteva importarmi meno di chi fosse arrivato prima a… a cosa, eh? Se London pensava davvero di farci attraversare un altro centinaio di miglia in poche ore, si sbagliava di grosso. Sapete, non esistono solo i bastardi fortunati come lui. Ci sono anche quelli che devono trascinare il cavallo attraverso la neve.
Thomas, completamente teso sul collo della cavalcatura, era proprio sul punto di superarmi. Non capisco perché avesse tanto a cuore queste stronzate, ma era sempre Hickey, per cui avevo smesso di pormi domande sulla sua moralità o i suoi bislacchi modi di fare. Agisse come gli pareva. Bastava che non mi spezzassi l’osso del collo.
– Cazzo! – lo sentii gridare, e per poco non caddi da cavallo: vidi solo un grosso ramo nodoso davanti alla faccia, e feci appena in tempo a piegarmi, aggrappato ai finimenti e con il cuore che batteva forte in gola.
Mi voltai, il respiro affannato. Tom non era stato altrettanto rapido. O meglio, era riuscito a schivare il ramo, ma aveva strattonato le redini con troppa forza e gli zoccoli del suo cavallo slittavano sullo strato di neve compatto – quasi ghiaccio – come i piedi di un pattinatore inesperto. Bastò poco per sbalzarlo giù dalla sella, mollemente trascinato in mezzo alla neve, con un piede infilato ancora nella staffa e le braccia raccolte per proteggere la testa. Gesù, credevo che Thomas sarebbe morto, ma dovetti benedire quella soffice coltre di neve, altrimenti uno dei miei uomini – un altro – a quest’ora avrebbe già usato il suo permesso speciale per l’ingresso nell’altro mondo. Maledetto imbecille, lui e il suo orgoglio.
Strattonai le redini lentamente, non avendo alcuna intenzione di fare la sua stessa fine, e lasciai che il cavallo rallentasse pochi passi dopo. Dovevamo aver percorso un miglio, o uno e mezzo, ma la strada per l’Hudson era ancora lunga, decisamente lunga. Vidi London raggiungere Thomas e dargli una mano mentre facevo del mio meglio per obbligare il cuore a rallentare. Tremavo come una foglia e avevo lo stomaco in subbuglio, quindi i miei compagni di viaggio non si stupirono trovandomi piegato in due a vomitare la misera colazione di quel mattino in un cespuglio d’arbusti coperti di neve. – Capo – grugnì Tom con una mano alla fronte. Nonostante tutto, doveva aver preso una bella botta, e dall’attaccatura dei capelli ruscellava una lenta striscia di sangue. – Tutto bene?
– Magnificamente – sibilai reclinando il capo. Idiota. – Dio mio, London, sei sicuro che non fosse tutto un complotto per ammazzarci lungo la strada?
L’Assassino scrollò le spalle senza degnarmi di una vera risposta e diede una pacca sul fianco del destriero scuro come la notte, guardandosi intorno. – Dobbiamo avanzare fino al tramonto, almeno. Non abbiamo tempo da perdere.
Thomas sbuffò. – Si può sapere che cazzo di fretta hai? – sbottò poggiandosi con noncuranza al tronco di un albero. – Gli inglesi non hanno alcuna intenzione di liberare il nostro vecchio amico Charles, quindi direi che possiamo prenderci un po’ di…
– Non voglio correre rischi – gli abbaiò contro London.
Scoppiai in una roca risata, indicando con un cenno prima me stesso e poi Hickey. – Tu non vuoi correre rischi. Io e quest’altro idiota potremmo anche spaccarci tutte le ossa e morire orribilmente precipitando giù da un burrone, a te non potrebbe fregarne di meno. – Mi passai una manica sulla bocca, tirandomi su ed evitando di scorgere la macchia di vomito giù, in mezzo ai rami secchi. – Anzi, forse non aspetteresti altro. È stato un incidente, Connor. Ad Achille potresti anche non dire niente e brindare semplicemente con lui, che bella scenetta da famiglia felice.
Sospirò amaramente. – La vuoi smettere, Kenway? Voglio soltanto riportarvi a Boston, dove posso tenervi d’occhio senza impazzire o rischiare di finire con una lama nel collo.
Hickey scoppiò a ridere alle sue spalle. – Un colpo di genio, Assassino.
L’altro roteò gli occhi, guardandoci come se avesse a che fare con dei casi disperati. – Montate in sella. Non voglio diventare cibo per lupi qui, in mezzo al niente.
– Concordo – dissi mentre m’avvicinavo barcollando al mio cavallo. – Meglio un bel colpo di moschetto in pieno petto da qualche simpatico soldato britannico.
London scosse la testa con rammarico e lasciò che ricominciammo il viaggio al passo.
 
Iniziavo a pentirmi di aver dato retta a Cornwallis, a dirla tutta.    
La neve, che era stata abbondante e soffice per tutta la giornata, si era velocemente trasformata in una pioggerella fina e fastidiosa, di quella che impregna i vestiti e li appiccica al corpo, rendendoti difficile ogni movimento, provoca dolorosi spasmi al collo e fa gocciolare il naso come neanche la peggiore delle influenze. Il cielo e la terra si confondevano tra loro, trovare quale fosse più grigia e cupa era un’impresa, e se il nostro umore non era stato un granchè con la neve, provate a immaginarlo con la pioggia. Con quella dannatissima pioggia.
Non sapevamo quanto avessimo percorso, ma il sole non si decideva a tramontare – Cristo santo, sembrava che il tempo si fosse fermato –, quindi continuavamo ad avanzare imperterriti verso ovest, senza seguire i sentieri, aggirando le colline quand’erano troppo scoscese e superando quelle più basse e dai declivi dolci al trotto. London apriva il gruppo, ma sapevamo tutti che certe volte era confuso quanto noi, in quella landa desolata. Si guardava intorno, tirava su col naso, cercava di trovare il sole basso nel cielo e riprendeva la marcia dando una scrollata alle redini. – Amico – gli dissi a un tratto, – sei sicuro che l’ovest sia da quella parte?
Ecco, già Thomas aveva cominciato a sogghignare. Rovinava sempre tutto. – Kenway – sbuffò l’Assassino in un lamento, – piantala. Quello è l’ovest.
– Be’, mi piacerebbe essere d’accordo con te, ma non riesco a vedere il sole. Dov’è? – Mi portai con il cavallo accanto al suo, una mano sugli occhi per schermarli dalla pioggia e sfotterlo ulteriormente. – Questo posto è disorientante.
– Già. – Mica mi disse dove stava il sole, però. – Kenway, questo è l’ovest. Ne sono sicuro. E comunque ci fermiamo tra poco. – Tirò su col naso e socchiuse gli occhi, esausto. Sembrava ancora più malaticcio di quando eravamo partiti, e non c’era di che biasimarlo. Quel tempaccio avrebbe potuto mettere a terra un intero reggimento dell’Esercito Britannico. Non sono mai stato cagionevole, ma devo anche ammettere che le marce nella repubblica olandese mi avevano rafforzato, in qualche modo.
Anche Thomas se la cavava piuttosto bene. Si lamentava per le piaghe da sella circa ogni tre minuti, sputava costantemente a terra e malediceva ogni uomo, donna e bambino che camminasse ancora sulla terra, ma almeno gli erano passati i postumi della sbornia. Altrimenti, Dio!, forse sarei stato anche capace di ammazzarlo con le mie mani.
Stavamo attraversando un tratto di frontiera identico a tutti gli altri e il buio era già calato da una buona mezz’ora quando trovammo il posto perfetto per fermarci a riposare.
– Porca puttana! – Forse dovrei dire che lo trovai.
Gli zoccoli di quella dannata bestiaccia scivolarono su un mucchietto di neve inumidita, ma non sciolta del tutto, e l’animale prese a slittare per qualche metro sul terreno fangoso. Strattonai le redini, quasi in preda al panico, ma quello rispose con un sonoro nitrito e un calcio che per poco non mi sbalzò via dalla sella. Ripoggiò le zampe a terra, continuando a scorrere in avanti mentre il mio cuore batteva come un mendicante senza speranza contro le porte di Westminster, e un attimo dopo affondava fino al fianco nel terreno.
Credevo che la gamba sinistra quasi esplodesse per il dolore. Non era affondato nel terreno, no, magari. Ci avrei ricavato solo una dannata macchia sui calzoni, niente di più. No. Quel dannato bastardo aveva trovato una grotta, una spelonca o un riparo roccioso di qualche tipo.
Come lo sapevo? Be’, avevo il polpaccio schiacciato tra una parete di roccia tutta spuntoni e il corpo scalciante del cavallo, che non la smetteva mai di muoversi e fare pressione. Fu l’unico pensiero razionale che riuscì a conferire, prima di mollare le redini, serrare la presa intorno al ginocchio ed esplodere in un urlo da ragazzina.
Non fate quelle facce. Diavolo, se faceva male. – Che succede? – Non mi stupii nel sentire il tono noncurante di London, maledetto bastardo. Si voltò a guardarmi sprofondare nella terra con lo stesso stupore di un porcaro davanti all’ennesima cagata fresca. – Cosa stai...
– Mi annoiavo – ringhiai tra i denti, le dita spasmodiche strette sul ginocchio per cercare di strattonare la gamba via da quella dannata fossa. – Maledizione. – Sentivo la fronte imperlarsi di sudore freddo. Mentre London mi fissava in un critico silenzio, mi parve quasi di udire il sangue stillato dalla mia gamba ferita schiantarsi sul fondo roccioso delle frotta. Un suono nitido, fermo e privo di eco, ritmico e regolare. La caverna non era un pozzo, dunque. Che fortuna, diavolo!, maledettamente interessante. Gesù. – Hai intenzione di tirarmi fuori di qui?
L’Assassino aggrottò la fronte, smontando da cavallo e avvicinandosi con la consueta calma. Immagino si divertisse molto, quell’imbecille. Per una volta, ero completamente alla sua mercè, impotente. Quando sarebbe capitato di nuovo? Se i ruoli fossero invertiti, gli avrei già pisciato addosso o minacciato di abbandonarlo lì. Questi qui sono troppo seri. I miei simpatici pensieri sugli Assassini furono interrotti da un altro spasmo che mi fece agitare convulsamente il polpaccio, portando ancora dolore. Emisi un sommesso gemito tra i denti mentre London pestava i piedi lungo il bordo sporco di neve fangosa della fossa. – Come ci sei finito, Kenway?
Roteai gli occhi, colto dal nervosismo, mentre le palpebre cominciavano a tremolare sugli occhi lucidi. Mi morsi il labbro, cercando di controllare gli spasmi e il dolore nello stesso tempo. Non avrei mai voluto mostrarmi debole davanti a un membro di quella dannata Confraternita, ma il destino pareva avercela con me. – Vuoi darti una cazzo di mossa? Non posso mica restare qui per sempre. – Anche se ti piacerebbe, ci scommetto.
– Diavolo, capo! – Thomas sbucò da dietro gli alberi scoppiando a ridere, tutto intento ad agganciarsi la fibbia. – Se volevi cagare bastava andare dietro un albero, non era il caso di cercare addirittura una latrina. – Rideva come un matto, quasi piegato in due, totalmente rilassato, grattandosi la testa mentre si guardava attorno alla ricerca del suo cavallo.
– Questa latrina – ringhiai, sforzandomi di sembrare calmo, – potrebbe essere un buon riparo. – Fitte irregolari di dolore continuavano ad attraversarmi il polpaccio dall’alto verso il basso e viceversa, le dita dei piedi già assiderate e contratte per i crampi. – Muovetevi a levare questa bestiaccia e tiratemi fuori. – Infilai faticosamente le dita tra la gamba e la roccia, sfiorando con un singulto la carne viva e agitando le dita insanguinate verso di loro. – Credevate urlassi perché mi mancavate? Sto quasi più comodo qui che su questo dannato cavallo!
London scrollò le spalle. – Be’, allora non ti dispiacerà se ti ci lasciamo – replicò. Reazione un po’ tarda, ragazzo, ma è un passo avanti.
– Fottiti! – strepitai mollando un calcio al cavallo con la gamba sana. – Quale dannato bastardo abbandona un compagno ferito, eh?
Thomas continuò a ridere e si aggiustò il cappotto sui fianchi, come un damerino invitato al più importante ballo dell’alta società. Invece eravamo solo tre poveri idioti in mezzo alla neve. Lo vidi portare il braccio dietro la schiena per estrarre una spada. A dire la verità non era proprio una spada normale o una sciabola. Non avevo mai visto niente del genere. La lama era larga e curva, apparentemente pesante e affilata solo da un lato. Avrebbe potuto mozzare la testa di un uomo, quella roba. O una gamba. Un brivido corse lungo la mia schiena mentre Hickey allontanava London con un colpetto sul torace e alzava la spada sopra la testa. Sollevò un angolo della bocca nel suo ghigno sbilenco. – Mi spiace, capo – grugnì. Lo fissai con tanto d’occhi, incredulo. Troppo atterrito per chiedergli cosa stesse per fare.
– Hickey, mettila giù – sibilò London per me. – Hickey.
– È solo un peso! – Sembrava parlasse di una sacca troppo pesante per essere trasportata agilmente. Era scocciato, noncurante, spietato. E io che mi ero fidato di lui. In quel momento un capo gli avrebbe fatto il culo, urlato che era un traditore e sarebbe dovuto marcire all’inferno, ma io non ci riuscivo. Niente di personale. Non avevo più voglia di gridare contro le persone. Volevano tradirmi, uccidermi, abbandonarmi a sporcare la neve di sangue? Che lo facessero, maledizione! Almeno tutto quel dannato tormento sarebbe finito, e forse almeno dei morti mi sarei potuto fidare ciecamente. – Lo tireremo fuori da quella buca, ci serve un riparo. A pezzi sarà più facile.
Poggiai su di lui uno sguardo stupefatto, nonostante tutto. Le mie palpebre ripresero a fremere per la paura. – Mi spiace, capo – ripeté, e la lama calò veloce come un lampo.
D'istinto girai il capo e serrai gli occhi, le palpebre tremanti strizzate in attesa del dolore.
 
La grossa spada affilata affondò nella carne e una fontana calda e appiccicaticcia investì il lato destro della mia faccia e del mio corpo. Ruscellava verso il basso inzuppando i miei abiti, ma non faceva male. Non ancora. Succedeva, in certi casi, il dolore impiegava un po’ più di tempo a raggiungere tutte le parti del corpo. Probabilmente sarei morto lì, dissanguato, con mezza gamba – Thomas non poteva avermi mozzato nient’altro – in meno, gemendo come un maiale sgozzato. Forse me lo merito.
– Gran brutta macchia. Sarà difficile da mandare via, quella.
Mi accorsi di respirare quasi tranquillamente. Sudavo a profusione. Perché cazzo non fa male? Da quando in qua non fa male, diavolo? Obbligai le palpebre a sollevarsi e vidi Thomas e London intesi a sollevare qualcosa da sopra il mio cavallo. – Dio, quanto pesa! – gemette l’Assassino, affaticato. Tom rispose con una risatina, tirando con violenza le redini verso di sé e facendo scivolare il capo della bestia via dal collo con altri schizzi di sangue.
Facendo scivolare il capo via? – Oh, porca puttana. – Gli aveva mozzato la testa, e la mia gamba destra giaceva integra sull’altro fianco dell’animale, oltre il gigantesco squarcio, i calzoni macchiati di rosso in tutta la loro lunghezza. Dal collo del destriero – se ancora poteva essere definito tale – sgorgavano fiotti di sangue lenti e inarrestabili, le ossa recise di netto quella maledetta arma. – Hai… – Deglutii a fatica per non vomitare. Diavolo, avevo ammazzato Dio solo sa quante persone e per poco non rimettevo davanti a un cavallo decapitato. Un cavallo, perdio. Ma, a mia difesa, era sempre diverso trovarsi dall’altra parte di una spada, e la strizza coglie tutti, senza distinzioni. – Avresti un futuro nella macelleria, se mai questo lavoro ti scoccerà, Thomas.
– Grazie, è un onore. – Scagliarono la testa pochi passi più in là, afferrando l’animale per le zampe prive di vita. – Te la sei fatta sotto, eh? – Fu tanto gentile da non pretendere una risposta. – Leva ‘sta gamba di mezzo.
Abbassai lo sguardo, percorrendo i miei indumenti macchiati di sangue. Un’altra redingote da buttare. Sul dorso delle mie mani erano dipinte piccole costellazioni rosse, i respiri erano dei rantoli affaticati e secchi. Il sangue non mi aveva mai fatto paura o impressione, era il panico per l’essere stato tanto vicino alla fine a stringermi le viscere in una morsa. Essere ucciso da un uomo che si chiamava amico fino a pochi minuti prima non mi pareva esattamente uno spasso. Cominciavo a capire come si fosse sentito il vecchio William, ma quel bastardo era pazzo. Non penso mi ritenesse ancora un amico.
E poi se l’era cercata. Quel pensiero mi stupii: da quando Johnson era morto avevo sempre evitato di rammentarlo, un cadavere sepolto sella frontiera come chissà quanti altri, ma alla fin fine era ciò che credevo davvero. Lui se lo meritava.
Mi venne quasi da ridere. William Johnson meritava la morte per avermi sbattuto in faccia la verità, ma le mie azioni – non verso l’Ordine, non verso qualcuno in particolare, colte nel loro insieme – potevano davvero essere ritenute meno riprovevoli? Tutti quei morti nella repubblica olandese, le guardie di Bridewell, Miko e tutti gli altri uomini uccisi per conto di Reginald… Davanti alla lista delle mie malefatte Thomas Hickey avrebbe potuto scrollare le spalle, ma qualsiasi uomo appena più onesto non avrebbe esitato a darmi un calcio nel culo per spingermi verso i gradini del patibolo.
– Che è, ti stai adattando? – Sentii il piede di Tom spintonarmi sul fianco. – Mi sembrava di aver capito che volessi uscirne.
Mi riscossi da quei macabri pensieri e obbedii, gettando la gamba sana verso l’altro fianco del cadavere. – Lo spingiamo giù, Hickey. – Quella donnicciola di London, che stringeva tra le braccia lo zoccolo del cavallo, rosso in viso, pareva non aver mai sollevato niente che pesasse più di un barile di rum in tutta la sua vita. – Non possiamo estrarlo, peserà mezza tonnellata.
– Se lo buttiamo giù, London, dove dormiamo? Sugli alberi? Sai, non mi sembri tanto in salute da permettertelo. Ehi! – L’Assassino mollò uno scappellotto sulla nuca di Thomas. Certo, certo, andate avanti, magari scopate in mezzo alla neve, e chi vuoi che abbia fretta qui?
– Non fare lo schizzinoso, idiota. – London lasciò andare la zampa con un’imprecazione, poi indicò la malefica arma di Thomas. – Lo lasciamo cadere giù e lo facciamo a pezzi. Poi lo tiriamo fuori. – Le stesse parole usate da lui. Perché detto dagli Assassini suona tutto più stupido?
Thomas si leccò le labbra e portò le mani sui fianchi, un’espressione sognante dipinta in viso. – Magari potremmo mangiarcelo. – Si toccò il ventre con una smorfia. Da quando eravamo partiti non mangiavamo altro che carne secca di pessima qualità, per poi sciacquarci la bocca con un vino da due soldi che sapeva di acqua piovana. L’idea di mangiare qualcosa che, per una volta, avesse un sapore diverso da quello del cuoio, be’, era allettante. Lo capivo.
London scosse  la testa. – Certamente! Costruiamo un grosso spiedo e offriamo la cena a un cacciatore di passaggio che per ringraziarci racconterà come ha ucciso un orso con solo un coltellino da burro e arriveremo a New York pervasi dalla gioia e dal buon… – Un colpo di tosse lo fece piegare in due, scosso e senza fiato, le ginocchia che tremavano mentre della bava filamentosa ciondolava dalle sue labbra. Mi voltai a guardarlo da sopra la spalla e mi parve di vedere una chiazza di sangue sul terreno grigio e fangoso.
Non sarebbe durato a lungo. – Diavolo – brontolai provando a stendere le gambe, – ecco perché non fate mai del sarcasmo su niente. Va contro la vostra salute.
Thomas emise un sonoro sbuffo e scrollò le spalle, sollevando la gamba per caricare il calcio. Con quella dannata spada in mano sembrava un boia o un assassino professionista, non il solito ubriacone con la battuta pronta e la pacca sul didietro facile. Sembrava veramente in grado di uccidere qualcuno, in modo cosciente, di proposito, e non per difendere la sua vita o perché gliel’avevo ordinato io. Tutti i suoi buoni propositi crollavano come miseri castelli di carte quando stringeva in mano quell’arma, perché, a vederlo, si sarebbero dette un sacco di cose su Thomas Hickey, ma che non avesse più intenzione di uccidere qualcuno per divertimento non era una di quelle. Anzi.
– Tieniti forte, capo – disse con un sorriso sghembo. – Non ho nessuna voglia di portarti a spalla.
Sollevai gli occhi al cielo, facendo leva sulle braccia per appoggiarmi al terreno con tutte le mie forze, le gambe doloranti mollemente abbandonate oltre il corpo senza testa del cavallo. Sembrava un centauro, una creatura mitologica brutalmente mutilata. Un brivido corse lungo la mia schiena e Tom affondò la gamba in un calcio. Con una mezza acrobazia, le zampe del cavallo mulinarono a pochi pollici dalla mia testa prima che la bestia si disincagliasse e il cadavere si schiantasse sul fondo poco profondo della fossa. Immediatamente si chinò su di me, afferrandomi per il gomito e tirandomi verso di sé con un grugnito. Il polpaccio diede un gran colpo contro il bordo sbeccato della spelonca, facendomi strillare. – Cazzo, Tom! – sbottai afferrandomi la gamba. Mi stava trascinando sulla schiena sopra lo strato di neve sporca, come un becchino avrebbe fatto con uno qualsiasi dei suoi cadaveri. – E mollami!
London si tirò lentamente su, le mani poggiate sulle ginocchia e il respiro affannoso. Sbuffai, lanciando un’occhiata colma di preoccupazione alla ferita. Appena una decina di centimetri sotto il ginocchio, il calzone si apriva in uno squarcio irregolare e sanguinolento, da cui sporgeva una specie di pezzo di pietra sottile come un ramo, che affondava nella carne e usciva dall’altra parte, non molto in profondità, fortunatamente.
Lo strinsi tra le dita. Avevo sentito parlare di quelle… cose, erano pezzi pietra che crescevano come vere e proprie piante sui soffitti delle grotte. Le alimentava l’umidità, mi pareva, facendole allungare di anno in anno con esasperante lentezza. Stalattiti. Emisi un gemito più simile a un ringhio tra i denti sbarrati. Solo io potevo avere la sfortuna di andare a impalarmi la gamba su un maledettissimo pezzo di pietra appuntito. – Tom – brontolai afferrando la spada corta, le dita che fremevano davanti a tutto quel sangue. – Dammi una mano.
– Ah, adesso vuoi il mio aiuto? – replicò scocciato. Aveva già estratto la pipa e si era appoggiato al tronco di un albero con la massima noncuranza. – Cazzo, quel bastardo non fa niente di niente, a parte lamentarsi e dare ordini. Io devo fare a pezzi un cadavere. Fatti aiutare da lui! – Indicò l’Assassino con un gesto stizzito e bestemmiò a gran voce, affondando un fiammifero acceso nel focolaio.
Scrollai le spalle. Uno valeva l’altro, e in fondo Thomas aveva ragione. Che cosa aveva fatto London per rendere il viaggio più facile? Nulla. Non era di compagnia né proponeva soluzioni comode. Pensava solo a farci tornare a Boston il prima possibile, così non saremmo più stati solo una sua responsabilità. – Mi servirà una camicia – sbuffai. Quel viaggio, come tutto il resto, cominciava a stancarmi. Avrei potuto sopportare una cosa simile da giovane, quando pensavo di aver avuto una vita tutto sommato decente, quando la vendetta alimentava ogni mia mossa. Era un fuoco ancora ardente dentro di me, ma l’inverno cominciava a intaccarlo.
Se mi fossi trovato davanti Reginald, in quello stesso istante, sarei riuscito a farlo fuori? O sarei caduto privo di forze a terra, lasciando che mi schiacciasse definitivamente e mettesse fine a ogni mio vano tentativo di riscossa? Mi strinsi nelle spalle congelate, sforzandomi di cambiare argomento. – Delle bende, cazzo – bofonchiai, dato che nessuno dei due sembrava disposto ad assiderare per me. – Qualsiasi cosa. Non posso viaggiare senza pantaloni, vi pare?
– Le giubbe rosse fuggirebbero a gambe levate. – Thomas aspirò una gran boccata di fumo e rise. – Sarebbe utile.
– Ah-ah. – Roteai gli occhi. – Visto che ti diverti tanto a spese mie, Hickey, ti conviene mettere in mostra il tuo scultoreo fisico e passarmi quella cazzo di camicia. Complimenti.
Sbuffò. – Andiamo, era una battuta! Non starai certo dicendo sul serio, capo!
Mi rigirai la spada corta in mano, menando un fendente nell’aria. – Ti conviene muoverti, o ti ritroverai a raccogliere le tue viscere dalla neve. – Scrollai le spalle. Un esercito che funziona collabora con il suo comandante.
Tranne nel caso di George Washington: l’esercito funzionava benissimo, era il nucleo di comando a essere pieno di idioti. Ma se un esercito mediocre può essere reso perfetto da una buona strategia, per un capo deludente non c’è rimedio.
Lo si può solo far fuori.
Thomas mi lanciò la propria camicia, ringhiante come un cane rabbioso, e si strinse nel cappotto. – Gentile, da parte tua. – Strappai le maniche con un paio di tagli ben calibrati e gli restituì il tronco di stoffa. – Grazie.
– Fottiti – rispose abbottonandola. Sorrisi nel sentire la vena di ira nella sua voce. Sollevò la sua strana arma e saltò all’interno del fosso mentre London arrancava verso di me, le gambe piegate rigidamente e lo sguardo spento.Sembrava davvero un uomo sul punto di morire. Stendendo la redingote sotto di me, sfibbiai velocemente i calzoni, tirandoli giù dalla parte sinistra. Non avevo mai assistito a niente di più ridicolo, nella mia vita. Thomas che tagliava e sminuzzava carne nel suo antro, l’Assassino malaticcio che respirava a fatica, guardandomi con quegli occhietti sempre più privi di vita, e infine io, misera caricatura di un gentiluomo inglese, con i calzoni abbassati nella neve e una spada in mano.
È arrivato il circo. – Tirala fuori, London. – Ruotai faticosamente la gamba, porgendogli la carne sanguinante come un dono. – E fa’ in fretta, per l’amor di Dio.
Si chinò, e non potei fare a meno di notare le palpebre tremanti sulla sclera giallognola, un rivolo di saliva che ancora scorreva verso il suo mento e la patina di sudore freddo a ricoprirgli le guance, la fronte, il naso. Mi fece un cenno d’assenso in cui non colsi alcun significato e strinse le dita tremanti attorno al pezzo di roccia. La parte fuori dalla carne era spezzata, acuminata e tagliente come la lama di un rasoio – Gesù, mi sembrava di non vederne uno da secoli –, probabilmente per merito di qualche fenomeno precedente. Strinsi i denti e risposi al suo cenno, quindi strappò il minerale dalla carne con tutta la propria forza.
Emisi un gridolino strozzato mentre il sangue ricominciava a sgorgare in fiotti rossi e scuri dalla ferita. Stirai tra le mani le maniche della casacca di Thomas e feci del mio meglio per stringerle sulla carne viva. Non avevamo nient’altro a disposizione e la ferita non era poi così profonda. Dovevo pensare positivo. La ferita non era così profonda. Non faceva così male. Potevo andare avanti. Potevo arrivare a New York, poi avrei trovato un medico di qualsiasi tipo.
Cazzo, Ben, per una volta che potevi essermi utile.
– Stringi – sussurrai a London, che immediatamente unì le bende in un nodo, fermando o almeno rallentando la fuoriuscita di sangue. – Andrà bene – dissi, più a me stesso che a lui, mentre infilavo le gambe nei calzoni. – Ce la faremo. Però dobbiamo fermarci. – Sentivo il sangue del cavallo diventare secco e appiccicoso sul lato destro della mia faccia. Dovevo essere spaventoso, ridicolo, grottesco.
Immagino sia ciò che succede a combattere anche quando sai di doverti arrendere. Dannato figlio di puttana testardo, pensò una piccola parte ragionevole rimastami in testa. – Finito, Tom? – sussurrai, stringendo la mano sul ginocchio. Il dolore sarebbe passato, perché passava sempre. Una persona con un minimo di buonsenso avrebbe scelto di cogliere l'occasione, ritirarsi a vita privata e sperare di non essere trovata da nessuno.
La mia non era una questione di buonsenso. Osservai le gocce di sangue imbrattare la neve mentre Hickey scagliava fuori dalla grotta pezzi di carne grandi come massi, lasciando che i pensieri corressero per la loro strada. Reginald mi avrebbe trovato, ci potevo scommettere. Mi aveva braccato quando avevo cercato di uccidere Washington e aveva bisogno di me. Sarebbe stato disposto a tutto pur di varcare la soglia di quel dannatissimo tempio.
Stava combattendo su due fronti, ma mi sembrava ovvio quale gli interessasse di più. Quello che gli era sempre interessato di più, in fondo. Non sperava nel governo, perché sapeva che se anche Charles fosse diventato comandante in capo, alla sua morte sarebbe salito al potere un altro di quei maledetti paladini della libertà e delle belle parole. Il suo piano era di uccidermi, e Lee non era mai stato un gran reclutatore. Chi avrebbe difeso il nuovo comandante in capo dagli attentati? Chi avrebbe stabilito una linea di successione politica tendente verso i Templari se Lee fosse stato l’ultimo di noi? Thomas? Per carità divina. Benjamin? Probabilmente i patrioti l’avrebbero ammazzato prima.
Non restava niente. Per questo gli interessava di più il Grande Tempio, la Prima Civilizzazione e quell’altro mucchio di stronzate.
Tom balzò fuori dal buco con i vestiti, le mani e il viso imbrattati di sangue, legandosi nuovamente la spada alla schiena, sotto la camicia. Un potere con il sapore dell’eternità era di certo più allettante di quello politico, effimero e sfuggente.
Respirai piano mentre Thomas indicava il nostro rifugio con un gran sorriso, risultando decisamente grottesco su quella sua faccia insanguinata. – Prego, signori.
Mi aggrappai al gomito di London, facendo leva per alzarmi in piedi e scaricando con cautela il peso anche sulla gamba sinistra. Poiché la roccia non aveva intaccato l’osso, riuscivo a reggere. Potevo farcela. Passa. Non fa poi così male. Non è poi così profonda. Pensa positivo. – Hai ancora fiammiferi, giusto, Tom?
– Abbastanza per dare alle fiamme tutta New York, capo. – Continuò a parlare, il ghigno sghembo stampato indelebilmente sulle labbra, tirando fuori la piccola scatola e accendendo un cerino tra le unghie. – Non sono mai troppi. Come le donne, o il tabacco. – Lo scagliò nella neve alle sue spalle e rise, falciando qualche ramo umido con la spada. – Forza, accomodatevi nella nostra umile dimora, prima che anche gli altri cavalli decidano di provarla.
Lanciai un’occhiata vuota alla carcassa fatta a pezzi della mia ex cavalcatura, e pensai che in fondo meritava quella fine. – Dannata bestiaccia del cazzo.
– Che hai detto, capo? – Tom raccolse un ciocco di legno e lo infilò nella tasca del cappotto.
Gli feci cenno con una mano di lasciar perdere e scesi cautamente dentro la grotta. Era piccola, decisamente, larga appena a sufficienza per stendere le gambe. Doveva essere già stata utilizzata come rifugio, a vedere l’avvallamento scuro al centro dell’antro, e altre piccole stalattiti pendevano dal soffitto come un macabro lampadario. L’intero fondo era costellato di gocce di sangue, ma sarebbe andata più che bene.
Avrei dormito anche sul ceppo della ghigliottina, stanco com’ero.
Lanciai un’occhiata al cielo bianco sopra di noi, attraversato dai rami artritici che si tendevano come artigli verso il sole. Thomas oscurò la vista per un attimo, scendendo tra noi con le braccia cariche di rami. Mi accorsi solo allora che aveva smesso di piovere.
 
Un po' di carne la mangiammo comunque, ma solo perché London era troppo stanco per mettersi a urlare contro di noi e si era reso conto che lasciando tutto quel ben di Dio in bella mostra avremmo attirato l'intera fauna della frontiera. Thomas sminuzzava nervi, cartilagine e carne con i denti come un cane o un uomo che non vede del cibo da secoli. – Tua madre non ti ha insegnato le buone maniere, Tom? – brontolai gettando un osso alle mie spalle, la gamba ferita tesa davanti a me.
Hickey mi lanciò un'occhiataccia con un pezzo filamentoso di carne che pendeva dal labbro, l'osso puntato minacciosamente nella mia direzione. – Senti un po', gentiluomo del cazzo che non sei altro – ringhiò pulendosi le mani sulla nuda roccia frastagliata alle sue spalle, – tu non hai passato tutta la fottuta notte a scavare fosse per nascondere roba che poteva benissimo essere mangiata. Sei rimasto lì a riposare come un principe mentre io mi facevo sanguinare le mani.
Afferrai la ghirba dalla sacca dei viveri e la sollevai nella sua direzione. – Ma ti ho aspettato sveglio per tutto il tempo – replicai con un gran sorriso.
– Oh, com'è carino da parte tua! Fottutamente gentile! – sbottò lanciando una miriade di sputi. – Io mangio come cazzo voglio, Kenway. Hai capito bene?
Sollevai le mani. – Gesù santo, Hickey, abbassa la voce o credo che dovrò uscire di qui per nascondermi in un cespuglio. – Lo fissai con un sopracciglio sollevato, buttando giù due sorsi di quella robaccia acquosa che gli Assassini chiamavano vino. – Mi sto fottutamente cagando addosso – grugnii nel fargli il verso. Scaraventò l'osso del cavallo verso di me con impeto, spezzandolo contro la parete.
– Sei un bastardo – esclamò sdraiandosi con il cappello sotto la testa. – Un bastardo fin nel midollo. Un fottuto sciacallo. I lupi non ti toccherebbero nemmeno. – S'infilò le dita in bocca, scavandosi tra i denti alla ricerca di Dio solo sa cosa. – Quelle bestiacce non sbranano mai i loro simili. Puoi dormire tranquillo, stronzo.
Reclinai la schiena, puntellandomi sui gomiti per cercare la posizione più comoda per fare un sonnellino. London se la dormiva della grossa in un angolo, accoccolato con il viso rivolto alle fiamme e la giubba ben stretta sopra il corpo. – Sai, capo, da quando siamo partiti il lavoro sporco l'ho fatto solamente io, da queste parti. Affettare cadaveri, seppellirli, regalarti mezza camicia.
– Sei l'unico di cui possa fidarmi, per certe cose. – Poggiai la testa sulla roccia e sbuffai. – E poi devo tenermeli buoni. Gli Assassini, intendo. Il loro Mentore è pazzo, e ovviamente tutti lo seguono.
– Mi suona familiare – disse con una risatina.
Roteai gli occhi. – Oh, zitto. Ti ho mai obbligato a uccidere qualcuno o a scacciare dal tuo letto una puttana solo perché mi stava antipatica? No. – Non potrebbe fregarmene meno, in effetti. – Pensano che i loro mezzi siano gli unici possibili. Non siamo poi tanto diversi da loro, lo so. Ci siamo frammentati, abbiamo molteplici scopi e siamo disposti a tutto per arrivarvi. Abbiamo forza nella collaborazione e sosteniamo le idee utili, non quelle migliori, più gentili o che possono salvare più vite. Quelle più utili. – Un brivido corse lungo la mia spina dorsale poggiata sulla terra. Probabilmente un omicida professionista avrebbe parlato con più scrupoli, più umanità.
Eravamo più di quello. Cospiratori, assassini, stupratori, torturatori e piromani, le peggiori barbarie ci erano concesse solo perché era la nostra coscienza a ordinarci quando fosse necessario smettere. E dentro di noi l'ambizione è sempre stata molto più forte della semplice coscienza. – Che ne dici, Tom?
Mi rispose con un grugnito, tirando un calcio al nulla e girandosi sul fianco, emettendo un lieve russare. Dormiva. – Maledetto idiota. – Mi girai sul fianco, dando la schiena a entrambi i miei compagni di viaggio, e chiusi gli occhi.
Avrei anche potuto augurargli la buonanotte, ma non è poi così solito tra gente come noi. Quante persone hai ucciso, mutilato, torturato o picchiato oggi? Quindici. Proficuo. Tu? Solo tre. Ah. Capisco. Buonanotte. ‘Notte anche a te.
Sorrisi tra me e me, sprofondando rapidamente nel sonno.
 
Soffiava il vento. Un vento caldo, stranamente, perché da che mondo è mondo nella frontiera non fa mai caldo. Nemmeno in estate. Quella landa desolata è coperta da uno strato perpetuo di nebbia che s’insinua tra gli alberi e attenua la vista, rendendo la traversata ancora meno piacevole. Gli uccelli la fendono con il becco e le piume solo nei casi d’estrema necessita, ovvero quando sentono nell’aria l’odore di una bella carcassa pronta per essere fatta a pezzi. Gli animali si aggirano guardinghi finché uno di noi – oppure un puma, un lupo o qualcosa del genere, è indifferente – taglia loro la gola e li fa a brandelli lasciando solo i residui, quella robaccia inutile persino all’ultimo dei disperati.
Un posticino piacevole, la frontiera. Decisamente.
Volsi lo sguardo intorno a me. Quella non era la frontiera. Non era nessun posto che avessi mai visto o di cui avessi sentito parlare. Una piana infinita di nulla. Terra bruciata, crateri frammentari e vuoti in quel polveroso terriccio rosso, che si estendeva fin dove potevo volgere lo sguardo. Il cielo era scuro, pareva notte, il buio squarciato a intervalli irregolari da potenti deflagrazioni di luce verde, arancione e rossa.
– L’Apocalisse. – Mi ritrovai a deglutire rumorosamente, la bocca secca. L’avrei definita esattamente allo stesso modo. – Questo è ciò che accadde. La vita se ne andò, ma noi restammo. Nelle fondamenta. – Sprofondai nella terra così com’era successo quando avevo scoperto quella dannata, piccola grotta in mezzo al gelido nulla.
Attraversai metri e metri di minerale senza alcun danno, come se niente fosse. Strinsi i pugni. Il peso della terra avrebbe dovuto schiacciarmi i polmoni, non avrei dovuto vedere quella desolazione, i miei occhi si sarebbero dovuti chiudere o riempire di sabbia. Ogni secondo che passava aumentava la sensazione di disagio, di trovarmi dove non avrei assolutamente dovuto mettere piede, nemmeno per tutto l’oro del mondo. Mai. Una risata acuì quella sensazione e una cascata di sudore freddo prese a correre giù per la mia schiena. Con quel fottuto caldo. Ancora più inquietante. – È normale, servo della Croce. Hai ragione. Non dovresti essere qui. Nessuno di voi è sopravvissuto a questo. – Mi passai i pollici sulle palpebre, cercando di capire che cosa stesse succedendo. Quella voce mi era familiare, meglio, l’avevo già sentita tantissime volte, ma quella sensazione di gelo al petto m’impediva di riconoscerla. Come se il mio cervello si fosse paralizzato al primo segnale di pericolo. Perché quel maledetto luogo era pericoloso. Molto, anche. Qualunque cosa fosse, nessuno di noi vi era sopravvissuto.
La terra si aprì nella stanza più sobria e al tempo stesso dall’aspetto più regale che avessi mai visto. Il soffitto e le pareti di liscissima pietra nera, così luminosa da rischiarare l’ambiente senza alcun bisogno di lampade. La luce si rifletteva sulle decorazioni dorate e filiformi sulla roccia stessa, e sembrava che quella sala fosse stata costruita per darvi delle feste o banchetti sfarzosi con ospiti importanti, non certo per ospitare i superstiti dell’Apocalisse.
Perché era esattamente ciò che avevo davanti agli occhi.
Una donna in lacrime, il viso affondato tra le mani, emanante una flebile luce bianca, sedeva su una panca di marmo con un lungo mantello calato sulle spalle e i grandi occhi grondanti lacrime, appena visibili tra le dita schiuse. Accanto a lei, un’altra donna sedeva con la schiena dritta, il viso teso e le mani strette a pugno sulle ginocchia, con uno strano elmo calato sulla testa. Osservava l’altra come se la colpa di quanto appena accaduto in superficie fosse sua, ma al tempo stesso sembrava commiserarla. Osservava le pareti alla ricerca di un’uscita, e solo in quel momento capii perché ero entrato dal soffitto. Non c’era nessuna porta. Nessuna via di scampo.
Il terzo era un uomo. Alto e solenne, con l’aspetto reale e avvolto da una forte aura dorata, agitava le braccia nel vuoto davanti a sé e si toccava la lunga barba in continuazione, sbuffando sonoramente e riprendendo a percorrere il rifugio in lungo e in largo. – Non avrei dovuto lasciare che provasse – disse la donna in lacrime con una voce melliflua che ben conoscevo. – Sapevo che non ne era capace. Non ne aveva il potere. Ho lasciato che tentasse. L’ho lasciato morire. L’ho lasciato morire.
L’altra donna si voltò e sollevò il mento, come se tutta quella faccenda non la riguardasse. – Quindi è successo davvero – sussurrò con lo sguardo rivolto all’uomo.  – Abbiamo dubitato tutti, fin quando non è avvenuto davanti ai nostri occhi. Non siamo così diversi da loro. Abbiamo dimenticato nonostante lo sapessimo. Siamo stati scettici. – Anche lei, le sue movenze e la sua voce mi erano familiari. I suoi modi decisi. La riconobbi all’istante. Siccome il terzo si ostinava a ignorarla, Minerva si alzò in piedi e tese un braccio verso di lui. – Non siamo così diversi da loro.
Sembrava mi avessero letto nel pensiero. Templari e Assassini, umani e Prima Civilizzazione. Qual era la differenza, in fondo? Eravamo tutti sulla stesa barca in entrambi i casi. Un nodo mi strinse la bocca dello stomaco. – Siedi, Minerva – proruppe l’uomo con tono pacato. – La tempesta si placherà e torneremo a popolare la terra. Non ripeteremo gli stessi errori. – Abbassò lo sguardo e sembrò quasi rivolgerlo nella mia direzione, piegando le labbra in un sorrisetto. Quella voce… non l’avevo mai sentita prima, ma fu come se una parte della mia mente si sbloccasse. Era la stessa che mi aveva accolto in superficie. Chinai istintivamente il capo di lato e tutti i pezzi del rompicapo s’incastrarono alla perfezione. Giove. Non poteva essere nessun altro. – Si placherà. Si placa sempre.
– Aita è morto ed è solo colpa mia! – Giunone, dal suo angolino, continuò a piangere con la testa bassa. Sembrava non le importasse di nient’altro, ma Giove e Minerva non erano d’accordo con lei. Avevano cose più importanti di cui preoccuparsi.
Minerva emise un grugnito rabbioso, lanciandole una brutta occhiata. – L’hai aiutato, per quanto hai potuto. Ora dobbiamo preoccuparci per i vivi. Per noi. – Afferrò brutalmente Giove per un braccio, strattonandolo verso di sé. – Non possiamo più sbagliare. Dobbiamo impedire loro di prendere il sopravvento. Fare in modo che non sappiano. Se noi… – Giunone scoppiò nell’ennesimo singhiozzo e Minerva pestò violentemente i piedi a terra. Una bambina. – Chiudi la bocca! – sbottò verso la donna. Non sembravano esseri ultraterreni, potenti o superiori. I superstiti sono uguali in tutte le popolazioni, anche tra quelle di migliaia di anni fa. – Cercherebbero di fermare tutto. E non servirebbe. Capiterà di nuovo, non possiamo impedirlo. Non funzionerà niente.
Giove si grattò le guance ispide, quindi sospirò tornando ancora una volta a guardarmi. Quindi sollevò un braccio e tutto si ghiacciò. Minerva rimase immobile in quella posizione, i pugni stretti lungo i fianchi e il viso teso verso di lui, gli occhi sgranati in attesa di una risposta che potesse farle soddisfazione, le spalle di Giunone smisero di scuotersi e lei si bloccò a metà di un singhiozzo. Il pianto le morì in gola senza eco né strascichi. – Finalmente possiamo parlare – disse Giove. La sua voce cavernosa e calda somigliava a quella di Cornwallis, ma era decisamente più inquietante. Come se solo guardandomi potesse infilare una mano nel mio corpo, rimestare le viscere dall’interno, scrutare tutti i miei ricordi, il mio terribile passato, e quindi agire di conseguenza. Mi fissava con rimprovero, sapendo che avrei fatto qualcosa di sbagliato ancora prima che avessi la possibilità di agire. Un genitore scettico davanti al figlioletto combinaguai, ecco come appariva Giove. – Solo io e te. Senza intermediari.
Sentivo la lingua gonfia e secca come un pezzo di legno. Guardare i suoi occhi d’oro, tempestosi e ardenti, metteva soggezione e angoscia. Non riuscivo ad aprire la bocca. Nemmeno una sillaba sarebbe uscita dalle mie labbra, di quel passo. – Non giudicarmi superbo, servo della Croce, ma sto diventando più potente. Loro… – Il suo sguardo impietoso si girò sulle mie due amichette, poi scrollò il capo in un cenno sconsolato. – Non si arrendono mai, non l’hanno fatto nemmeno allora. I miei poteri stanno crescendo. Sono sempre stato in grado di fare di più. Fin dall’inizio. La prima volta…. Quand’è accaduto tutto questo, non ho agito. Ho lasciato alla saggezza e alla fede il compito di guidarci.
– Se un esercito mediocre può essere reso perfetto da una buona strategia, per un capo deludente non c’è rimedio.
Sbattei le palpebre per lo stupore. Ero riuscito a parlare. E con quel tono, per giunta! Usando quelle parole. Un capo deludente. Oddio. Già vedevo il mio corpo esplodere a un suo cenno, schizzi di sangue e secchiate di cervella e interiora a imbrattare quelle mura luminose. Abbassai d’istinto la testa. – Già. Avrei dovuto aiutarle quand’ho potuto. – Puntò l’indice verso di me con aria accusatoria. – Questa volta non ho sbagliato, servo della Croce. Anzi. Entrambe mi credono debole, rinchiuso chissà dove, o intento a pensare soltanto a me stesso in qualche remoto angolo di mondo. Invece mi sono dato da fare. Ho preso l’iniziativa. – Socchiuse gli occhi, azzardando un passo nella mia direzione. La sua intera aura parve tremolare. – Non ti preoccupare. Manca ancora molto tempo. Però non posso permettermi di lasciare che muoiano un’altra volta. Tu mi capisci, no? Certo che mi capisci. – Ridacchiò tra sé e la stretta alle viscere parve crescere d’intensità. – Nemmeno tu puoi lasciarli morire. Non tutti. Stiamo facendo entrambi del nostro meglio, anche se per scopi diversi. Il tuo è nettamente più umano, servo della Croce, ma sei l’unico qui dentro che può sapere cosa si prova ad avere la responsabilità di altre vite sul groppone.
Sollevai appena lo sguardo, incrociando il suo. Nonostante tutto, i suoi occhi avevano assunto una piega dispiaciuta. Era meditabondo, pensieroso, ma quasi gentile. Sembrava davvero disposto a fare del bene. A impedire che l’Apocalisse s’affacciasse di nuovo sul nostro mondo.
Di nuovo. Era terrificante, pensare che la più grande catastrofe che gli esseri umani possano immaginare sia destinata a ripetersi. – Capisci? Non c’è più nessuno di noi. Siamo solo rifiuti, residui, misere briciole di ciò che eravamo nei tempi antichi. Con i pochissimi umani sopravvissuti siamo riusciti a originare una nuova stirpe, ma ora? Morirete tutti quanti se non facciamo qualcosa. E non possiamo permetterlo. – Si lasciò andare sull’angolo della panca, accanto alla statua di Giunone in preda ai singhiozzi. – Ti dico solo di non giudicarmi male, servo della Croce. Tutto ciò che ho fatto e sto facendo è per i posteri. Per garantire la sopravvivenza di un gruppo di persone. Tu puoi capirmi. Tu puoi capirmi.
Mi rivolse un ultimo sorriso paterno, poi fece un mezzo giro su se stesso e sfiorò l’aria davanti ai volti di Giunone e Minerva. L’atto riprese esattamente là dove era stato interrotto, l’una che piangeva ininterrottamente tutte le proprie lacrime e l’altra in attesa di una risposta, stizzita e nervosa. – Generiamo un nuovo popolo, Minerva – sentenziò Giove con fermezza. – Non accadrà che tra migliaia di anni. Abbiamo tempo. – Allungo le grandi dita verso il viso di Minerva e lo sfiorò. Più che esseri umani sembravano immagini. A contatto l’una con l’altra fremevano come fiamme di due candele. – Non permetteremo che soccombano tutti.
L’ennesimo getto di sudore inzuppò la mia schiena. Quel “non tutti” mi stava paralizzando per l’inquietudine. Non tutti. Qualcuno sarebbe morto comunque. Migliaia di anni. “Manca ancora molto tempo”, era la verità?
O di lì a poco saremmo semplicemente morti tutti, bruciati da quelle esplosioni di luce come gli esseri umani della Prima Civilizzazione?
Solo cenere nel vento.
Scattai a sedere con un doloroso strappo alla schiena. I miei vestiti insozzati di sangue secco erano anche impregnati di sudore e sentivo il bisogno impellente di andare a pisciare. Il silenzio era assoluto mentre dalle braci spente saliva un sottile filo di fumo. In quell’angolo di frontiera regnava la pace più completa, allora perché non riuscivo a respirare, come se la terra rossiccia fosse ancora lì a schiacciarmi i polmoni con il suo peso?
Appoggiai la schiena inzuppata alla roccia fresca, le mani serrate intorno agli spuntoni irregolari, il respiro affannato. Avevo decisamente bisogno di pisciare, altrimenti sentivo che l’uccello mi sarebbe esploso con il resto del corpo. Il mio cuore batteva troppo forte, come se volesse fracassare le costole. La neve. Ciò che mi serviva era la neve. Sciacquarmi la faccia un attimo. Svuotare la vescica.
Qualsiasi cosa, bastava che mi togliessi dalla testa l’Apocalisse.           
 

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Capitolo 42
*** Sangue e neve. ***


Un viaggio del cazzo, si stava rivelando questo qui, e in tutti i sensi.
– Joe Abercrombie, Non prima che siano impiccati.

Entra nell'esercito: visita posti esotici, incontra gente interessante e poi uccidila.

– Steven Alexander Wright.

 
Pochi attimi dopo stavo pisciando faticosamente dietro un albero, la gamba sinistra tesa per placare gli spasmi e il peso diviso tra la destra e la mano poggiata al tronco freddo e spesso, rassicurante. Gesù, ero così scosso che tremavo, e tremavo tanto da essermi quasi bagnato i calzoni. Non potevo andare avanti in quel modo. Non se volevo arrivare alla fine del viaggio senza la mente a pezzi.
Infilai l’uccello nei pantaloni e m’appoggiai all’albero accanto, lasciandomi cadere seduto su un mucchio di neve gelata. Presi un paio di respiri profondi, lo sguardo fisso alle figure rassicuranti dei  cavalli di Thomas e London in lontananza. Erano lì. Erano vivi. Io stesso ero vivo, e l’Apocalisse era solo una stronzata. Quello era stato un sogno, uno stupidissimo sogno e niente di più.
Allora perché mi faceva così paura?
Serrai le palpebre premendovi contro i pollici, dunque reclinai il capo contro il tronco dell’albero. Non potevo perdere anche la salute mentale, l’unica cosa che mi restasse. Avevo bisogno di buttare giù un po’ d’alcool decente, qualcosa di forte. Non potevo… crollare.
Afferrai un pugno di neve, passandomelo da una mano all’altra per cercare di rilassarmi. La notte non era mai stata tanto tranquilla. Il cielo era striato di nuvole violette, con sprazzi di blu qui e là e qualche stella brillante. Rilassati. Hai parlato con un altro membro della Prima Civilizzazione, e che vuoi che sia? Dovresti essertici abituato, ormai. No? Respira. Fissai lo sguardo sul nido di un uccello, sospeso proprio sopra la grotta. Se un mucchio di neve fosse caduto dal ramo appena superiore, qualche uovo sarebbe andato a farsi benedire. Dovevo concentrarmi sulle idiozie, sulle piccole stronzate, per non uscire definitivamente di senno.
Per un attimo pensai di tornare nella spelonca, ma la roccia scura delle pareti riportava alla mente quelle del rifugio di Minerva, Giove e Giunone. Rimasi accasciato con la schiena contro l’albero, tentando di calmare il respiro e senza più la forza di chiudere gli occhi per paura che Dio in persona, Gesù, Satana o magari mia madre, qualcun altro dei miei morti venisse a farmi visita.
Non ero io a voler vivere di ricordi, cazzo. Erano loro a cercare sbocco nella realtà attraverso di me. Erano tutte le dannate voci nella mia testa, nel mio sangue, nelle… i ricordi del mio passato, le azioni terribili che costellavano la mia storia. Le guerre. Tutto pareva venire a galla nei momenti più inopportuni. E come se tutto questo non fosse abbastanza, c’era anche la paura del futuro a tormentarmi. La paura di essermi dedicato per anni a qualcosa di inutile ed effimero piuttosto che pensare a un modo per salvare il genere umano. Potevo fare qualcosa di più, ma il tempo era quello che era. Forse ne avevo già sprecato troppo, forse era già tardi.
Dovevo svagarmi in qualche modo, un modo qualsiasi.
Chinai il capo, lo sguardo fisso a quel maledetto nido in equilibrio precario, e presi a far scattare la lama celata a intervalli regolari.
Clic. Clic. Clic. Clic. Come la pioggia. Reale, vera, in grado di uccidere un uomo e di far scorrere la sua anima ai miei piedi, ecco ciò a cui mi stavo aggrappando. Alla morte. All’unica compagna costante della mia vita, che non mi aveva mai tradito. Allo stesso modo presi a sfoderare la spada, i pugnali, le pistole, a ripulire l’acciaio e il piombo con quelle parti della redingote che non mi sembravano ancora totalmente sudice, per disporre tutto davanti a me.
Le armi non ingannano mai chi le impugna. A parte le pistole, se la polvere si bagna. Ma generalmente erano fedeli, sincere, sempre pronte all’uso. Reali. Consistenti. Solide nelle fondine e nei foderi. Nelle polsiere, nascoste negli stivali, alla cintura o sulla schiena.
Clic. Clic. Il suono che costellava la mia esistenza con inquietante ripetitività. E con quel clic il rumore delle gole squarciate, delle viscere che scivolavano sui pavimenti, i grugniti e gli ansiti degli uomini in punto di morte, lo sgusciare del sangue e lo sciaguattare dei feriti che tentano di strisciare lontano dal mietitore. 
Clic. Fino all’alba, perché quel suono era reale, lo sapevo e sapevo che si sarebbe ripetuto nel tempo. Era il mio bastone della vecchiaia.
Clic. Fino all’alba. Fino a quando dovrò estrarla per strappare e dilaniare la vita di qualcuno e non solo per mantenere un contatto con il mondo reale.
Clic, mentre il tempo passava e la notte correva via.
 
– Dormito bene, capo?
– Va’ a farti fottere, Thomas Hickey. – Quel maledetto bastardo e il suo sorrisetto si erano ringalluzziti nel corso della notte, sul viso gli brillava ardente la voglia di prendermi in giro. Non aveva altri passatempi, a parte trastullarsi come un maiale.
Ero di ottimo umore. – Calmati – grugnì di rimando, le mani sollevate e unite dietro la nuca. – Sembri mia madre.
Scrollai le spalle digrignando i denti, quindi mi voltai per chiudere le sacche. London aveva deciso di ripartire alla volta del fiume, come se un minuto di riposo in più stravolgesse la nostra esistenza. Il problema era che ci mancava un cavallo, ma non era una mia preoccupazione: io ero ferito e il colorito dell’Assassino sembrava peggiorare di giorno in giorno, dunque sapevamo tutti alla perfezione a chi sarebbe toccato cedere il cavallo. Ovviamente, Tom faceva finta di nulla e fischiettava, ciondolandosi sopra la sella mentre noialtri mettevamo via le misere provviste. Sembrava volesse godersi ogni attimo su quel pezzo di pelle consunto, prima che London lo obbligasse definitivamente a smontare e camminare sulle sue gambe. – È morta? – Va bene, ve lo concedo. Non sono bravo a spezzare la tensione. – Tua madre.
Thomas sputò sul terreno gelido e strinse le redini tra le dita mezze congelate, sbuffando sonoramente. – Boh. E chi può dirlo? Non sono mai più tornato a casa dopo essermi arruolato. – Si grattò la guancia coperta di barba ispida, sollevando le spalle. Non sembrava afflitto o preoccupato, ma avevo imparato che Thomas Hickey mostrava qualcosa di diverso dal menefreghismo solo quando la sua stessa vita era in pericolo. Per il resto del tempo era solo un maledetto stronzo. – Mi manca la birra di casa. Qui non la sanno proprio fare.
Sogghignai. La birra. E che m’aspettavo? Parole dolci nei confronti della sua vecchia famiglia? Non sia mai. – In compenso sono bravi con il grog – brontolai controllando un’ultima volta le sacche di provviste e le armi, dopodiché mollai una pacca sul fianco del cavallo di London. Il gelo quel mattino era ancora più attanagliante del solito, e non avevo proprio idea di come Thomas riuscisse a restare comodamente sbracato in sella senza la paura di farsi cadere la punta del naso o le dita dei piedi. Passavo il peso da un piede all’altro come un povero idiota con la vescica troppo piena, fissando la nostra buca con un po’ di rammarico e lanciando singulti ogni volta che poggiavo il piede sinistro a terra. Ripartire non mi sembrava più una grande idea, ma a quel punto che altro avremmo potuto fare? Avevamo già portato a termine metà del viaggio, tanto valeva arrivare a New York, fare ciò che andava fatto e riposarsi un po’ prima di partire. Una bella taverna, vino caldo, l’acqua pulita di una tinozza. Il massimo.
– Accidenti! – London capitombolò nella radura in cui lo stavamo aspettando, accompagnato dallo scricchiolare dei rami e delle radici sotto i suoi piedi. Rischiò quasi di precipitare nella grotta, ma né io né tantomeno Thomas ci sforzammo per dargli una mano.
D’altronde, l’idea di accompagnarci era stata sua. – Piedi assiderati? – chiesi gettandomi una sacca in spalla.
– Una dannatissima radice – sibilò aggrappandosi al tronco di un albero, ansante e con il piede stretto in una mano. Le labbra di Tom si stesero in un sorriso maligno. – In questo posto non si può fare un passo senza rischiare di finire ammazzati.
Lanciai un’occhiata ai due alberi tra cui era spuntato, lasciando una scia d’impronte nella neve sporca alle sue spalle. Non sanno fare altro che lamentarsi, pensai inclinando il capo. Attraversano i boschi e lagnano, quando questi sono spianati per costruire grandi, comode città lagnano ancora più forte, intraprendono guerre sapendo di non avere speranza e, nonostante tutto, hanno sempre qualcosa di cui lamentarsi. Dio! – Hai scovato qualcosa, London? – Qualcosa di utile, intendo.
Mi lanciò un’occhiata di sbieco, gli occhi stretti in due fessure cariche di disprezzo. Era forse preoccupato dal fatto che Haytham Kenway, il grande difensore del popolo e interessato più di chiunque altro al mondo alla salute degli Assassini, non si stesse dannando l’anima per il suo fottutissimo piede? Povero piccolo. – C’è un carro. Più avanti, avanza lento lungo la strada principale.
– Che non abbiamo preso perché…? Ti spiace ricordarmelo? – Thomas roteò gli occhi. – Sappiamo tutti quanto sia divertente attraversare lande desolate, cadere in una fossa e stare attenti ogni secondo a dove mettiamo i piedi.
– Non ci sono strade dirette all’Hudson. Deviano tutte verso l’interno – sussurrò London, tirando su col naso e ricacciandoci dentro un candelotto di muco gelato, – e ci metteremmo molto di più per arrivare a New York.
Sbuffai. – Non avremmo rischiato così tanto.
– Stai scherzando, spero! – sbottò l’Assassino agitando un braccio in maniera ridicola. A cos’è disposto un uomo per evitare la cancrena, eh? – Le strade sono piene di giubbe rosse e patrioti. Perché correre rischi inutili?
Thomas scese giù da cavallo con eleganza, le mani affondate in tasca e il volto corrucciato. – Che cazzo stai dicendo, London? – ringhiò piazzandoglisi davanti con la sua migliore espressione intimidatoria. – Hai detto che non siamo più ricercati, non è così? Capo – sibilò afferrando la strana spada legata sulla schiena e tenendola lungo il fianco, – a me pare quasi che questo qui stia cercando il modo di farci fuori.
– No – sussurrò lui cercando di apparire sicuro. Non avrebbe mai ingannato uno di noi. Il suo sguardo scattava dai denti sbarrati di Tom alla punta della sua arma, che si sollevava inesorabilmente e s’avvicinava al suo ventre. – Io… che vantaggio potrei mai trarne?
Osservai Hickey sputare di nuovo a terra. Devo ammettere che era bravo negli interrogatori. Minacce, torture e ricatti. Proprio roba degna di lui. – Che vantaggio, London? Ah, proprio non saprei. – Sollevò l’arma, fulmineo, e gli diede una spinta a mano aperta sul petto, facendogli battere la schiena contro il tronco di un albero. La fronte del nostro amico Assassino si stava imperlando di sudore nonostante l’aria fredda. – Un paio di famigerati nemici della Confraternita, gli attentatori di George Washington in persona, misteriosamente spariti nel bel mezzo della frontiera, soltanto cadaveri in fuga, vittime di un tragico incidente. Caduti da cavallo, magari, e con la testa sfondata da un sasso. – Il filo scintillante della lama sfiorava la gola bianca di London. Thomas scostava la sciarpa dal suo collo come avrebbe fatto con un’amante, un grosso sorriso stampato in faccia e quella scintilla folle negli occhi. – No, credo proprio che voi bastardi non ne trarreste alcun vantaggio.
– Non sto cercando di ammazzarvi – sussurrò con le mani alzate. – Davvero. Io… io lo giuro. – Che ironia. Tutto il tempo a sfotterci, a parlare di come il nostro Ordine fosse caduto in basso, e poi bastavano un paio di minacce a farli cagare addosso. E l’esperienza m’insegna che chi si caga addosso, solitamente ha qualcosa da nascondere.
Mi lasciai sfuggire un sorriso, guardando l’opera di Thomas come un fantasma. – Lo giuri, eh? Potrei sgozzarti e vedere quante cazzo di bugie ci sono in fondo a quella maledetta bocca! – gli abbaiò in faccia. Fossi stato davanti a un uomo meno sensibile, avrei quasi detto che si stesse divertendo. – Perché non abbiamo preso la strada, eh? Rispondi, bastardo!
Abbassai gli occhi sui calzoni di London. L’istinto mi diceva che da un momento all’altro si sarebbero scuriti intorno al cavallo, lasciando una macchia calda e giallognola sulla neve fresca. – Credi che Washington non abbia sentinelle ovunque? Se uno dei suoi ci becca siamo tutti morti! – Sbarrò gli occhi, assumendo un aspetto ancora più terrificante e grottesco. Avevo visto illustrazioni di demoni meno paralizzanti, eppure London non incuteva proprio terrore, no. Era più che altro la gelida consapevolezza della morte incombente su di lui, in quel caso, riflessa nei suoi occhi. E anche in qualsiasi altro caso, a guardarlo bene. Era morto comunque. Scossi impercettibilmente la testa. – Metti giù quella spada e ascoltami, per l’amor di Dio! – sussurrò poggiando la mano sul polso di Tom. D’istinto, lui reagì facendo scattare l’altra mano e inchiodandolo all’albero per il collo.
– Non osare mai più toccarmi, bastardo del cazzo! – sbraitò con la spada sollevata.
Levai gli occhi al cielo. Il momento d’intervenire. Che noia. – D’accordo, d’accordo, Tom, direi che ho i pantaloni sporchi a sufficienza per tutti e tre, non c’è bisogno di farlo cagare addosso – brontolai avvicinandomi e dandogli una spintarella sul petto. – Spostati. Ci parlo io, va bene?
Thomas strizzò gli occhi e fece mezzo passo indietro, poi scagliò un manrovescio sul viso di London, passando a mezzo pollice dalla mia testa e spaccandogli di netto un labbro. – Brutto bastardo! – ringhiò di nuovo, abbassando la spada. – Parla chiaro! Se stai solo lontanamente provando a farci fuori, bellezza, di te non resterà altro che un mucchio di pezzi di carne da dare in pasto ai lupi. Siamo intesi? – Girai lentamente il volto verso di lui. Nonostante mi fossi messo in mezzo, continuava a sbavare e latrare contro l’Assassino, più pallido e smunto che mai. Chiunque se la sarebbe fatta addosso davanti alla sua espressione omicida. Forse anche io, se non avessi visto con questi occhi il suo sguardo quando aveva dichiarato di non voler più fare del male a nessuno.
Magari intendeva gli innocenti. Grosse gocce di sudore scivolavano giù dalla fronte di London. E un uomo che si presume ti stia ingannando con lo scopo di farti fuori non è proprio innocente. – Intesi – sussurrò quel poveraccio. – Intesi.
– Bravo – sibilò tirandogli uno schiaffetto leggero sulla guancia. Passò il pollice sul rivoletto di sangue che grondava dal suo labbro spaccato e si succhiò il dito con soddisfazione. London s’irrigidì ancora di più e un singulto gli sgusciò fuori dalla gola. – Spero che tu abbia capito.
Scossi la testa, guardandolo allontanarsi verso i cavalli mentre fischiettava con noncuranza. Dovevo proprio farci una chiacchierata, ma non adesso. – Amico – dissi lasciando andare l’Assassino, – non ci stai vendendo a Washington o cercando di ammazzarci, vero? – Ancora complotti. Allora non sono l’unico a immaginarli in ogni dannatissimo angolo.
– Lo giuro, no – sussurrò scrollando il capo. – Connor vi vuole vivi. Sapete cosa succede se i patrioti ci beccano, eh? Impiccagione, come minimo. Siamo tutti e tre traditori! Vi stiamo tenendo in custodia invece di buttarvi nelle fauci dell’Esercito Continentale, siamo disertori tanto quanto voi. Tutti quanti.
Lanciai un sospiro, soffiando una nuvoletta di condensa nell’aria gelida. – Che cosa sa di preciso Washington?
– Niente! – sbottò lui, le mani sollevate a coprirsi la faccia. – Non sa niente finché Connor non parlerà. – Oh, già. E sappiamo entrambi perfettamente che ha intenzione di farlo. Una lunga e lagnosa lettera in cui scriverà quanto siamo, o meglio, sono utile per i loro scopi. Quindi il comandante vorrà tenerseli stretti e non farà storie. Hanno armi migliori di quelle che lui stesso può fornire, nonostante tutto, e un minimo di strategia in più, glielo concedo. Forse vogliono solo che li conduca a Reginald e lo faccia fuori, poi ci penseranno loro. Non riuscii a trattenere un misero sorriso. Allora il mio corpo non sarà niente più di cibo per i cani. Piccoli, insulsi bastardi. – Non possiamo permettere che Washington vi uccida.
Lo guardai in faccia. Se esisteva un momento buono per estorcergli la verità, era questo. – Perché ci tenete tanto? – Mi strinsi nelle spalle. Se tutto fosse andato secondo i miei piani, una volta ottenuta la Mela e scoperto che cosa nascondeva il Grande Tempio, sarebbe iniziata una lotta all’ultimo sangue tra noi e Connor. Il ciclo sarebbe tornato a ripetersi, la caccia ricominciata e la guerra per accaparrarsi il governo non avrebbe risparmiato nessuno. Washington sarebbe stato il primo a cadere, poi gli Assassini. Una volta lasciato senza scorta, Lee sarebbe diventato il nuovo comandante in capo e avremmo sbaragliato completamente la Corona.
– C’è… – La voce di London era poco più di un sussurro. – C’è un patto.
Il mio corpo e le mie aspirazioni s’afflosciarono all’improvviso. Ah. Giusto. Il patto. Non c’era nessuna strana ambizione nella testolina di mio figlio, non aveva alcuna intenzione di farmi secco, se non avessi estratto la spada per primo. Non dopo una simile collaborazione. – Hai ragione, London. – Tendevo sempre a dimenticarmi di quelle parole, stipulate così tanto tempo fa. Ormai la Confraternita sapeva che cosa c’era in ballo, e io avrei solo potuto porre il mio quesito alla Mela, poi sarebbe passata nelle mani degli Assassini.
Oppure il sangue. Com’è che diceva la profezia, già? “…Il Tempio, Fonte del Potere cui il sangue sarà l’unica conseguenza…” Un brivido corse velocemente lungo la mia schiena. – Una delle clausole era di non ammazzarci l’un l’altro. Connor ha già infranto quella promessa una volta, se proverete a sfidarci di nuovo non avrete più possibilità. – Strinsi i pugni dietro la schiena, l’uno nell’altro. – Sarete sterminati. Non sarà risparmiato nessuno, e questa maledetta causa morirà con voi.
London singhiozzò. – Una causa non muore mai, Kenway – sussurrò coi pugni stretti.
– Belle parole – risposi, spostandomi di lato. – Le farò incidere sulla tua lapide. Se mai riceverai una degna sepoltura, chiaro. – Stesi la bocca in un sorriso tetro e lo vidi portare lentamente le dita al labbro spaccato, tastandolo come fosse la più grave ferita che avesse mai dovuto sopportare. – Allora, stavi dicendo di un carro, prima che Thomas t’interrompesse con tanta gentilezza. Continua.
Azzardò un passo in direzione di Tom, occupando lo spazio tra me e lui, timoroso, gli occhi colmi d’angoscia. – Possiamo barattare i cavalli con quel carro, travestirci e percorrere la strada principale. Allungheremo di parecchio il viaggio, ma sarà senza dubbio più comodo per tutti. No?
Incrociai le braccia sul petto. Stare seduti per tutto il tempo, in mezzo a quel gelo? Un po’ rischioso, ovvio, ma da quando non avevo un vero pezzo di legno sotto i piedi, qualcosa di lontanamente simile a un pavimento su cui poggiare la schiena? L’idea mi allettava. – Per me va bene. Thomas?
– Se mi fate vestire da donna vi sgozzo tutt’e due – ringhiò rinfoderando la spada.
– Sempre collaborativo, vedo – commentai acido. – D’accordo. London, andrai tu a concludere l’accordo, io sembro appena uscito da un macello. – I miei vestiti insanguinati non contribuivano proprio a conferirmi quell’aria da gentiluomo londinese, a dirla tutta. – Ti aspetteremo sul ciglio della strada. Vedi se hanno degli indumenti o roba simile e compra quello che puoi. – A malincuore, gli passai il borsellino. Stavo sperperando praticamente tutto il mio denaro per quegli idioti. Quando invece potrei usarli per curare il giardino della mia magnifica villa o acquistare un purosangue da corsa. Oppure in abbigliamento di lusso. Seta, cotone, gioielli. Un aumento di stipendio per il mio seguito di schiavi. Scrollai il capo con mezzo sorriso. – Va’.
London non se lo fece ripetere due volte e sgusciò di nuovo tra gli alberi trainando i cavalli per le redini, le sacche di provviste in spalla e lo sguardo fisso sui propri piedi. Mi volsi appena verso Thomas. – Forza, scendiamo – ordinai ignorando la sua occhiata scettica. – C’è il sedile di un carro che mi aspetta.         
Sorrise leggermente, avviandosi verso la strada mentre si soffiava sulle mani. – Ti fidi troppo di loro, capo – mormorò con lo sguardo puntato ancora al culo dello stallone nero di London che spariva tra i tronchi scheletrici. – Dopo tutto quello che ci hanno fatto.
– Hanno i loro nemici in casa, Thomas.
Mi fulminò con lo sguardo. – Non cercare di scusarli! – ringhiò. – L’hanno voluto. Siamo nelle loro mani perché così possono tenerci sotto controllo, non perché hanno intenzione di organizzare una grande festa per noi! Credi che quando non gli serviremo più ci terranno in vita?
Scrollai le spalle. – Allora saremo noi a sguainare per primi – bofonchiai noncurante. – Coraggio.
– Perché non scappiamo, invece?
– Senza cibo e senza mezzi, sporchi di sangue e facilmente identificabili. Grande idea. – Gli diedi una pacca sulla schiena, lo sguardo basso. – Ricorda sempre chi ha il Frutto dell’Eden.
Serrò la mascella. – Senza di te sono fottuti ugualmente.
Sbuffai. – Il Grande Tempio interessa più a me che a loro. Specie perché Birch lo vuole. A loro basta ammazzarci tutti e tenere Washington in cima.
– Forse è ciò che vogliono farci credere.
Mi fermai in mezzo alla neve, guardandolo di sbieco. – Thomas Hickey – dissi, scandendo bene il suo nome. – Dieci minuti fa sembravi pronto a squartare un uomo senza alcun rimpianto, ora sei talmente lucido da credere che ci stiano mentendo e siano interessati ai segreti del Tempio almeno quanto noi. – Scossi il capo e ripresi a camminare. – Sei uno strano tipo di persona, sai? Forse l’uomo più strano che abbia mai conosciuto.
In fondo al crinale si poteva intravedere la strada fangosa e segnata dalle ruote dei carri. Era come un ritorno alla civiltà. – È una cosa buona? – chiese sogghignando.
Risposi a quella specie di sorriso. – Ah, non lo so. – Affondai le mani in tasca e proseguii, i piedi che slittavano pigramente sulla neve. – Mancanza di scrupoli, lucidità e un buon intelletto. Oltre a un insaziabile appetito sessuale. – Incrociai il suo sguardo. Continuava a sorridere, tutto tronfio e fiero di sé. – Cerca di usarli bene, ragazzo.
Si tirò un leggero pugno sulla patta, il ghigno perennemente aperto. – Uno sicuramente, capo. Uno sicuramente.
Ridacchiammo all’unisono e proseguimmo silenziosamente lungo la discesa, con aria complice.
 
– Dimmi una cosa. – Thomas si voltò verso di me con una smorfia, come se l’avessi interrotto nel bel mezzo di un amplesso. – Dove hai preso quella spada?
Accovacciati sul ciglio del sentiero che percorreva la frontiera in lungo e in largo, diramandosi come un fiume e congiungendo le principali città dell’est, nessuno avrebbe mai potuto fare caso a noi. Un centinaio di metri più avanti, London stava amabilmente confabulando con due contadini dall’aspetto appena più misero del suo, indicando i cavalli, i soldi e agitando le mani in grandi volute. Sarei riuscito decisamente a fare di meglio, ma il mio aspetto non me lo permetteva, e per quanto riguardava Thomas, c’era sempre il rischio che li decapitasse entrambi. Due cadaveri in più o in meno da nascondere non intaccavano certo la sua routine, ma io avevo una tabella di marcia. Più il tempo passava e più temevo che Lee fosse già stato liberato e scambiato con Ben. Non potevo permettermi di fare un viaggio a vuoto. – L’ho presa a quella puttana, a Boston. Era una di lusso, sai? – Certo che lo sapevo, avevo pagato io. – Ce l’aveva appesa alla parete, apparteneva al marito. Francesi, tutti e due. – Sorrise. La luce gelida del sole bianco baluginava sulla lama, lanciando lievi bagliori attraverso la foresta, niente di allarmante. – Due colpi di cote e ho scoperto che era la maledetta cosa più affilata che avessi mai visto. Non so che cazzo di metallo sia, ma è praticamente perfetta. – La estrasse, esibendo il suo ghigno da cane rabbioso. Non c’era nemmeno più traccia del sangue del mio cavallo lungo il filo privo di tacche. – Dimmi se conosci fabbri in grado di eguagliare qualcosa di simile.
Sospirai, quasi abbagliato dalla bellezza di quell’arma, ma mi sforzai di fargliela rinfoderare. Non potevamo correre il rischio di essere scambiati per briganti. In confronto, la lama celata sembrava un giocattolo. – Ssh – sibilai per troncare quel discorso. Avrò anche avuto armi peggiori, ma ero senza dubbio un combattente migliore di lui. Buono per le minacce, gli omicidi alle spalle e le lame affondate dentro uomini indifesi, Thomas Hickey, niente di più.
D’accordo, forse sono solo un gran codardo e non voglio ammettere che se fosse stato travolto da un qualche accesso d’ira, Thomas avrebbe potuto staccarmi la testa di netto con quella dannata lama. Scrollai le spalle e mi sporsi appena, cercando con lo sguardo il vecchio London. Stava stringendo con un certo affetto le mani degli uomini che gli avevano appena appioppato il carro. – Non mi piace – ghignò Tom, portando le dita alle pistole. – Hai visto com’era confidenziale? Non mi piace per niente.
– Sei paranoico – replicai deglutendo, ma la verità era che non piaceva nemmeno a me. Andiamo, non puoi tradirmi. Non con il mio stesso denaro. Mi passai la lingua sulle labbra, sospirando. Non sono abbastanza intelligenti per tradirmi, giusto? Connor s’è fatto beccare subito, questo qui ha ricevuto più minacce di morte di Washington e la spada del mio amichetto qui farebbe cagare in mano Re Giorgio in persona. Stiamo calmi. Posai una mano sul mio stesso petto, come una comare nel panico o un uomo sull’orlo di un infarto. Ripetevo tra me e me, in un impercettibile sussurro, che sarebbe andato tutto bene. Per una sola volta, pregavo che quello laggiù tra gli alberi non fosse un traditore. O che, come minimo, non cercasse di ucciderci.
Thomas estrasse dalla fondina la pistola a pietra focaia, usurata e quasi arrugginita, caricandola tra grugniti e imprecazioni. – E tu sei una fighetta – ringhiò scattando in piedi. – Io non mi fido di quel coglione. Se avesse chiamato i rinforzi?
Soffiai il fiato fuori, lentamente. – Da quando in qua hai paura di qualche Assassino?
– Io non ho paura! – sbottò alzando il cane. Io sì. In quel preciso istante ne avevo eccome. Tesi i muscoli, cercando di prepararmi a scartare di lato in caso avesse sparato. – Sono solo un branco di idioti! E io non mi faccio fottere da degli idioti, cazzo!
Roteai gli occhi. Perché più cercavo la calma e la tranquillità, più lui strepitava per ogni minima cosa? Lo faceva apposta? Dio, sarebbe stato veramente un grandissimo stronzo, in quel caso. E, a pensarci bene, anche in qualunque altro. – Metti a posto la pistola, Thomas. Non siamo qui per…
– Ah, te lo puoi scordare, capo! – esclamò, partendo con il petto in fuori verso il sentiero. – Adesso pianto una pallottola in testa a quei bifolchi, così metteremo subito in chiaro chi fotte e chi sarà fottuto.
– Thomas... – Tesi debolmente una mano verso di lui, afferrandolo per la giacca. – Thomas, resta qui… – Non riuscivo a impormi su di lui. Il petto mi faceva male, l’aria fredda entrava e usciva come un pugnale affondato in profondità, mi sentivo completamente stordito. Se avessi perso un solo secondo spremendomi le meningi nello scoprire se quelli oltre gli alberi erano davvero traditori o cacciatori di taglie, nella mia mente si sarebbero rincorse decine di sospetti, trappole, inganni e ipotesi. E non avevo la forza di sopportare un attacco di quel genere.
Altro che Thomas Hickey, se c’era uno dei due che non voleva combattere più, quello ero io. Lo sentivo dentro di me. – No! – gridò, colpendomi con un piede sul costato. Caddi a terra, colto alla sprovvista, e Tom ripose la pistola per brandire la spada. Si lanciò sul sentiero con un ruggito di battaglia, potente come quello di un orso.
Cazzo. Mi sollevai lentamente, tastando le costole attraverso il cappotto. Niente di rotto, sembrava. Niente di rotto, ma non potevo permettere a Thomas di rovinare tutto. – Porca puttana… – Aggrappato a un albero come un disperato al suo ultimo brandello di vita, riuscii a issarmi in piedi, lanciandomi di corsa, per quanto me lo permettessero il dolore alle gambe, al petto e il fiatone, all’inseguimento di Tom. Niente ruggiti, niente urli disumani o mosse eroiche.
Semplicemente mi tuffai nella sua direzione, le braccia tese, stringendole attorno al suo corpo e spingendolo con tutto il mio peso sulla ghiaia gelida e fangosa del sentiero. – Cazzo! – berciò sollevando la spada sopra la testa. Ecco, un millimetro più giù e sarebbe affondata nel mio bulbo oculare, ponendo fine a tutti i miei dubbi e i miei drammi. Peccato che la fortuna non giri mai nella direzione giusta, eh? – Tu, brutto…
Rotolammo sul sentiero di pietra come due amanti, ma gli bastò una semplice spinta di bacino per trovarsi sopra di me. Era giovane, perennemente incazzato e conosciuto come uno degli uomini più agguerriti e sanguinosi delle Colonie. Non m’aspettavo certo che si lasciasse schiacciare da un vecchio. Lo vidi sollevare la spada sopra la testa, gli occhi scuri socchiusi in due schegge di follia. Abbassai le palpebre e mossi appena la testa, aspettando il colpo che mi avrebbe reciso la gola da orecchio a orecchio, lasciando le mie opere incompiute, esattamente come la mia vita. Era lì, sospeso, la lama di una ghigliottina, ma assai più temibile. Non m’aspettavo lo facessi tu, Thomas... – Oddio!
D’improvviso sgranai gli occhi. Un urlo aveva squarciato l’aria, un grido troppo acuto per essere uscito dalla gola di Thomas Hickey, agghiacciato e colmo di paura. E tanti saluti al carro. – Che Dio m’aiuti, quell’uomo è ferito! Dobbiamo…
Thomas balzò in piedi e lo sentii alzare di nuovo il cane. La deflagrazione dello sparo coprì ogni altra parola di quel poveretto. – No, non dovete proprio un cazzo di niente – disse Tom, gioviale.
Sollevai la schiena dalla ghiaia, la redingote inzuppata aderente alla schiena, e fissai la scena davanti ai miei occhi con insolita vivacità.
Perché, be’, credo di dovervelo dire, non c’è niente che risvegli un assassino quanto l’odore della morte.
Diversi metri più avanti, London ci guardava con la bocca abbandonata mollemente in una smorfia stupefatta, le mani strette l’una nell’altra e le sopracciglia sollevate in alto sulla fronte. Al suo fianco c’era un uomo con i calzoni scuriti da un fiotto di piscio, gli occhi grandi come piatti, lucidi e tremanti, i palmi sollevati sopra la testa e un singhiozzo incagliato in gola, così emetteva uno snervante rantolo. Proprio in mezzo a loro, accasciato a terra in un lago di sangue, c’era il cadavere cui Tom aveva appena sparato, con un grosso buco sanguinante proprio tra gli occhi. – Hickey – sussurrò l’Assassino, lanciandomi un’occhiata in cerca di soccorso. – Hickey, per piacere, metti via quella…
Bum!
Si voltarono entrambi verso di me, e all’inizio non ne compresi il motivo. Poi feci scorrere lo sguardo giù dalla mia spalla, lungo il braccio destro, percorrendo la redingote insozzata di sangue e fissando la pistola stretta tra le mie dita con un’espressione sbigottita. Dalla canna fuoriusciva una sottile voluta di fumo e laggiù, vicino a London, il secondo uomo era appena collassato a terra con il volto cereo e una poltiglia rossastra al posto dell’occhio.
Merda.
Riposi la pistola con una mano sul petto, cercando di sembrare rilassato. Il cuore batteva con forza tale da potermi spezzare un paio di costole, sentivo un sapore salato in bocca e l’impellente bisogno di sputare a terra e sciacquarmi la faccia. Che cosa ho fatto? London si fiondò sull’uomo, tastandogli il torace e mugugnando qualcosa che non riuscii a interpretare. Mi faceva male la testa e avevo le orecchie tappate. Tutto sembrava ovattato. Persino Thomas mi fissava con il capo inclinato, stupefatto. – L’hai ammazzato! – La voce dell’Assassino si erse sopra il mio respiro affannoso, fendendo la nebbia che s’ostinava a occuparmi il cranio. – Li avete ammazzati tutti e due, dannati bastardi!
Scossi la testa, passandomi le mani sulla faccia con disperazione. – Spogliali – riuscii a grugnire con un minimo di lucidità. Se avevo ammazzato un uomo, un motivo c’era. Doveva esserci. London mi squadrò con gli occhi sgranati, come se non potesse credere alla mia insensibilità. – Mi hai sentito, no? Non posso andare in giro vestito così.
Thomas si strinse nelle spalle, colpendo la neve con un calcetto. Sembrava non avesse fatto altro che sparare a uomini innocenti solo perché pensava stessero complottando contro di lui per tutta la vita. E forse non era così lontano dalla verità. – Tu sei pazzo – rispose lui balzando in piedi con impeto tale che il cappuccio della tenuta gli crollò sulle spalle. – Mi hai sentito? Tu sei pazzo! Siete pazzi tutti e due!
– Sì, abbiamo capito – borbottò Thomas rivoltando il cadavere cui aveva sparato e cominciando a tastarlo. – Adesso muoviti e prendi quei vestiti, prima che si sporchi tutto.
– Col cazzo! – strillò. Perché devono sempre fare storie? – Voi… Col cazzo! Io non vi porterò a New York, ve lo potete scordare! Prendiamo… prendiamo le nostre cose e torniamo a Boston. Ovviamente dopo aver seppellito questi poveruomini. Io non vi porterò da nessuna parte!
Emisi un sospiro scocciato, portando le mani dietro la schiena e torturandomi l’interno della guancia nel mordicchiarlo. – Pensi davvero che abbiamo bisogno di te, London? Puoi rifiutarti di arrivare all’Hudson e unirti nell’allegra danza della morte ai nostri due amici, non è assolutamente un problema – gli dissi, camminando avanti e indietro lungo il sentiero. Se qualcuno aveva sentito gli spari eravamo morti.
Thomas sorrise, tirando fuori la pistola e ricaricandola con gesti secchi. – Non è… – La riempì di polvere con precisione da esperto. – …assolutamente… – Lasciò che il proiettile scivolasse fino all’imboccatura della canna. – …un problema. – Con un ghigno minaccioso abbassò il cane e puntò l’arma verso il nostro alleato. Gli fece un impercettibile cenno con il capo e un attimo dopo London stava sbottonando con violenza il cappotto dell’uomo che avevo ammazzato io, le dita tremanti e i denti affondati nelle labbra violacee. Un uomo sul punto di rigettare anche le viscere avrebbe avuto un aspetto migliore.
Con tutta la noncuranza che riuscii a ostentare, mi avvicinai al carro, tastando le ruote, l’asse e la seduta. I due cavalli imbrigliati, vecchi e decisamente più rilassati di me, non sembravano affatto turbati dai cadaveri grondanti sangue a qualche passo dalle loro belle zampe, anzi, avevano il muso affondato nella neve alla ricerca di qualche ciuffo d’erba che non fosse del tutto ghiacciato. Non era esattamente il miglior mezzo di trasporto del mondo, ma sarebbe andato bene. – Tieni – sbottò London nello scagliarmi contro i calzoni di uno dei morti.
– Grazie – risposi automaticamente. – Thomas, che ne facciamo dei corpi?
Scrollò le spalle. – Leviamoli dalla strada, direi. – Tastò il cappotto dell’altro cadavere, consunto e pieno di toppe. – Cazzo, è lana! Questo me lo prendo.
Roteai gli occhi. Avevo cose più importanti di cui preoccuparmi, in fondo, e Thomas aveva sempre avuto una certa predilezione per il brigantaggio. – Come credi, Tom. Che ne dite di gettarli in quella dannata grotta? – Il solo ricordo mi metteva i brividi e trasmetteva brutte fitte alla mia gamba, ma avevamo un dannato nascondiglio già bello che pronto, perché perdere tanto tempo?
– E per le macchie di sangue? – sussurrò London con la voce spezzata. Oddio, sangue! Che schifo! Quanti anni hai, ragazzo, quattro? Cristo santo. – Lasceranno… delle scie. Suppongo.
– Chi se ne importa, cazzo! – esclamai sfibbiando la cintura e scagliando via gli stivali con un calcio. Avrei preferito evitare il contatto con la neve gelida, ma non potevo pretendere anche una stanzetta tutta per me in cui cambiarmi. Le circostanze erano quelle che erano.
Adattarsi, pensai grugnendo e calzando i pantaloni strappati al cadavere. Scomodi, di tela grezza. Non si può avere tutto dalla vita, proprio no. Adattarmi. È ciò che faccio da tutta la vita, in fondo. – Passami il cappotto di quell’altro – sibilai infilando la camicia nei pantaloni, – e portateli via. Ce ne andiamo.
– Sei un maledetto bastardo.
– Cos’hai detto? – Dio, quell’idiota voleva decisamente morire, eh? – Ripetilo ad alta voce, se ne hai il fegato. – Le sue mani fremettero mentre mi tendeva il cappotto. Stupido fifone. – Ti hanno affidato questo lavoro e sapevi a cosa stavi andando incontro, suppongo. Se hai qualcosa da dire, cazzo, urlamelo in faccia o crepa tenendolo per te.
Si morse le labbra, sollevando il mento verso di me in un impeto di spavalderia. – Non credevo esistessero le decisioni democratiche, tra i Templari.
– Infatti non esistono – replicai facendo scattare la lama celata. – Ripeti quello che hai detto, stronzo, o farai la fine di questi due.
Thomas ridacchiò, saltando silenziosamente oltre i cadaveri e afferrandolo per i capelli già punteggiati di grigio. – Hai sentito il capo – disse, stranamente mieloso, portando le labbra all’orecchio di London. – Ripeti quello che hai detto, su. Non ti faremo niente.
Non ci scommetterei. L’Assassino abbassò lo sguardo e scagliò il pesante indumento che stringeva tra le mani nella mia direzione. Gran bell’attacco, sto ancora tremando. Maledetto imbecille. – Ho detto che sei un bastardo – ripeté con i denti stretti e i pugni serrati. – Hai… Avete ammazzato due uomini senza nessun motivo.
– Oh, non è vero. – Thomas fece scendere il cane e strinse la pistola sotto l’ascella, passando le dita tra i capelli del nostro accompagnatore. – Perché ci tieni tanto, London? Le tue chiacchiere con questi due deficienti avevano cominciato a scocciarmi, se vuoi saperlo. Mi sembravi proprio uno che si accorda per bersagliarci di frecce dai rami di quegli alberi laggiù.
– Cosa… Cosa state dicendo? – London cercò un appoggio nel mio sguardo, senza trovarlo. Non eravamo solo due bastardi. Questo povero e stupido Assassino aveva di fronte a sé i più gelidi figli di puttana che l’Ordine avesse mai sfornato. Due uomini armati e senza scrupoli, di cui uno, oltretutto, era anche una specie di stupratore seriale paranoico e colto da crisi d’identità legate all’omicidio. – Io… Ragazzi, lo sapete! Non avrei mai fatto niente del genere, perché…?
Scossi la testa. – Lascia perdere. Thomas e io stiamo prendendo un paio di precauzioni di troppo, recentemente, ma penso sia meglio preoccuparsi un po’ di più prima che piangersi addosso quando ormai non c’è più niente da fare. – Buttai a terra la redingote inzaccherata di sangue e indossai il vecchio indumento trafugato. Caldo e ruvido. Mi sarebbero mancati i miei vestiti, decisamente. – In quanto a me… – Sbuffai. Sapevo precisamente perché avevo sparato in testa a quel mercante – o quel che era – ma ero ancora basito pensando alla freddezza con cui avevo estratto la pistola, puntandola senza accorgermene e sparando come per riflesso. D’istinto. – Quello si sarebbe messo a urlare e sarebbe arrivato mezzo esercito. A proposito, dobbiamo andare. Buttateli da qualche parte prima che ci vedano – dissi, afferrando le sacche con le provviste e lanciandole sul retro del carro. – Non vorrei correre nessun rischio, da questo momento in poi.
London abbassò il capo, per niente convinto dalle nostre scuse. Che m’importava? Si alzò debolmente e afferrò uno dei cadaveri per le caviglie mentre Thomas lo strattonava dalle braccia, quindi sparirono in mezzo agli alberi. Con un grugnito scocciato spostai l’altro maledetto uomo morto – quello cui avevo sparato – sul ciglio del sentiero, cercando di renderlo il meno visibile possibile. Gli colpii le gambe nude con un calcetto. – Be’, grazie, direi.
– Porca puttana, quello è sangue?
Oh, Dio, no. No. No, no, no, no, perché, eh? Perché? Coraggio, vecchio mio, ridimi pure in faccia, già che ci sei!
Ero talmente paralizzato che mi tuffai nella neve, inoltrandomi in quella foresta di alberi scheletrici, come se contribuisse a nascondermi, senza nemmeno sussurrare una bestemmia. Non poteva essere possibile. Dopo tutta la fatica che avevamo fatto, maledizione, dopo le precauzioni prese e… il piano, avevamo sudato per quel piano. E ora c’era un cadavere sanguinante sul ciglio della strada e i miei vestiti sporchi abbandonati nel bel mezzo del sentiero, accanto al carro, mentre una scia di macchie rosse portava dritto verso di me. – Maggiore! – Emisi un sibilo, simile a un singhiozzo strozzato, e il mio primo istinto fu quello di afferrare il cadavere e trascinarlo verso di me per levarlo di mezzo. Prima l’avessero visto, prima mi avrebbero trascinato in catene alle prigioni, qualunque fosse il colore che quei bastardi indossavano, in attesa di potermi impiccare.
– Sembra che ci sia stato un bel macello. – Le voci s’affievolivano e proseguivano nel loro incessante brontolio, peggiori di qualsiasi tortura. Eravamo morti. Avrebbero seguito il sangue e sarebbe stato dannatamente facile scovarmi, piegato in due nel trascinare un corpo su per il crinale lasciando una striscia rossastra nella neve fangosa, allora mi avrebbero messo dei ceppi alle mani e un sacco in testa, e poi…
– Cazzo, capo!
Che Thomas Hickey sia benedetto, davvero. Bastardo che altro non è, quante volte ci eravamo salvati reciprocamente la vita fino a quel momento? Avrei dovuto ringraziarlo come si deve. – Chiudi la bocca! – sussurrai lasciando andare il cadavere e gettandomi su di lui. Gli ero andato a sbattere contro più o meno a metà della salita, mentre tornava giù camminando all’indietro per ammirare la propria opera. Razza di vanesio. – Dammi una mano – sussurrai strattonando di nuovo il corpo del mercante. – Ci hanno trovati – grugnii sottovoce. Lanciando uno sguardo veloce verso il sentiero, scorsi un ragazzo ben vestito e un uomo più anziano, intento a fumare la pipa chinato accanto alle ruote del carro. Sui miei vestiti. Dietro, altre figure sottili zampettavano lungo il sentiero.
– Giubbe rosse? – mormorò Thomas con la voce strozzata, seguendo il mio sguardo. – Porca puttana.
Puoi ben dirlo, Tom. – Dobbiamo trovare un altro…
– Non muovetevi!
Non capimmo immediatamente di essere stati braccati.
La consapevolezza vera e propria giunse subito dopo lo schiocco secco di un cane che veniva alzato. Mi ricordò stranamente il rumore delle ossa spezzate, probabilmente le mie, quelle del mio collo quando avrebbero aperto la botola e sarei rimasto a scalciare nel vuoto con un gran bel cappio schiacciato sulla trachea.
Ci voltammo di scatto, il fiato bloccato in gola. – Mi hai sentito, cazzone! Ti ho detto di non muoverti! – Il ragazzino, con un moschetto puntato dritto verso di noi e la baionetta opaca nella luce gelida dell'inverno, si stava facendo strada con le ginocchia quasi affondate nella neve e le labbra ritratte sui denti candidi. Afferrai Thomas per la giubba e gli diedi uno strattone, spingendolo davanti a me mentre tentava di indietreggiare. Se eravamo in trappola, tanto valeva non essere ammazzati tentando una fuga tanto stupida. – Quello stronzetto di Ban ha colpito ancora – strepitò qualcuno dal fondo della valle. Il ragazzino, tutto intento a tenerci sotto tiro senza impantanarsi o cascare a terra di faccia, riuscì solo a berciargli contro: – Cuciti la bocca, bastardo! Ce li ho!
– Ce li hai? – Una voce più matura, quella di un uomo stufo della guerra, prevalse su quei capricciosi toni da bambini e, in men che non si dica, un'altra giubba rossa si fece strada verso di noi. – Cazzo! Prendete il cordame, abbiamo un cadavere.
Il ragazzo fece una smorfia di disapprovazione dietro il calcio del fucile. – E ci voleva tanto per capirlo.
Il soldato più anziano voltò il capo verso l'altro e sentii un groppo serrarmi la bocca dello stomaco, preso dai vecchi ricordi. Qualsiasi uomo d'arme, per un commento del genere in presenza di un superiore, si sarebbe preso come minimo uno scappellotto dietro la testa. L'uomo qui presente, invece, sollevò il petto in un sospiro e si voltò a guardarci. – Identificatevi!
– Sergente Thomas Hickey, signore! – strepitò con tutto il fiato che aveva in corpo. – Servo l'Esercito Britannico dalla guerra franco-indiana, io... – Ti prego, basta che non canti di nuovo. Inclinò la testa di lato, le braccia sollevate unite dietro la nuca, come fosse totalmente a proprio agio. – Un momento, identificatevi voi! Io non ho niente da perdere, siete voi quelli col dito sul grilletto! Se c'è qualcuno che...
– Sta' zitto, maledizione, o ti riempio la bocca di fottuto piombo! – gridò il ragazzo, facendo scendere e salire di nuovo il cane. Nonostante la giovane età che evidentemente tradiva, la sua voce era grave abbastanza da non farlo sembrare ridicolo, percorsa da autorità e freddezza.
Era uno come me. Un assassino. So riconoscerne uno, quando lo vedo.
Dalle sue spalle giunsero altri commenti poco lusinghieri su “quel pezzente di Tarleton”, cui il ragazzo poté rispondere solo irrigidendo la mascella e lanciando occhiate torve al suo superiore. – Maggiore Banastre Tarleton – disse tonante, il petto in fuori, – ufficiale dell'Esercito di Sua Maestà Re Giorgio III, al servizio del generale Cornwallis e dei suoi diretti sottoposti!
Al suo fianco, il soldato di grado superiore sorrise tristemente. – Il ragazzo è nuovo nell’ambiente, potete capirlo se ogni tanto si comporta da stronzo, suppongo. – Sospirò. – In quanto a me, tenente colonnello Christian Bigbott. E nessuno di noi ha niente da nascondere. Piuttosto, di chi è quel dannato...
– Fermo dove sei! – sbottò nuovamente il ragazzo, ruotando il corpo di scatto per puntare il moschetto alla mia destra, in mezzo agli alberi. Roteai istintivamente gli occhi. Persino il peggiore dei cretini avrebbe capito che, da qualche parte alle mie spalle, anche London era stato preso. A testa bassa, scrollandola appena, il tenente colonnello sollevò l'artiglieria, puntando la canna sporca verso di noi per tenerci d’occhio. – Identificati!
– Oh, Dio, non è necessario.
Trasalii. Quelle parole erano davvero uscite dalla mia bocca o... o l'avevo immaginato? No, da come mi fissavano tutti e tre, e sicuramente anche London, dovevo aver parlato proprio io. Quand'avrei smesso di aprire la bocca e agire d'istinto? È roba da giovani, che noi uomini temprati dalla guerra e dalla morte cerchiamo di evitare, perché sappiamo dove porta. Nel migliore dei casi, a una morte rapida. Nel peggiore, be', torturati o lasciati morire di fame, malattia e dolore nelle celle di un qualsiasi forte.
Fantastico. – Come hai detto? – fece il tenente colonnello con calma, abbassando l'arma su di me. – Coraggio, amico, sii chiaro. Non sappiamo nemmeno il tuo nome.
Perfetto. Mi ero immerso in una buca di guai e mi ci stavo seppellendo con le mie stesse mani. Maledizione. – Haytham Kenway – esclamai, buttando la prima, metaforica manciata di merda sulle mie gambe. – Tenente dell'Esercito Continentale durante la guerra dei  sette anni, sotto Edward Braddock, il Bulldog. – Mi morsi le labbra, abbassando la testa in atteggiamento. – Possa la sua anima riposare in pace. – Possa la sua anima marcire all'inferno e il suo corpo essere ridotto a una schifosa massa di carne coperta di feci, mangiata dai topi e colonizzata dai vermi.
Il ragazzino imprecò tra i denti, sbattendosi violentemente il calcio del fucile sulla coscia nello scrollare la gambe dalla neve. Bigbott lo seguì con lo sguardo, e potevo chiaramente vedere la preoccupazione nel suo sguardo, la mascella contratta di chi ha troppe responsabilità. Non voleva che quello stronzetto macchiasse la reputazione impeccabile che di sicuro si era procurato col sudore. I miei occhi scattarono impercettibilmente verso Thomas. Non era il solo. Un attimo dopo vedemmo Joseph London spintonato con violenza giù per il fianco della collina mentre il piccolo bastardo gli puntava la baionetta alla base della schiena. – Dicevate, tenente? – ringhiò bloccando il braccio dell’Assassino dietro la schiena e rivolgendomi un sorriso tutto denti poco rassicurante.
Sollevai le sopracciglia con aria di sfida. Era un povero illuso come tutti gli altri se pensava di spaventarmi ammazzando London – o minacciandolo, senza sapere che mi stava solo riempiendo il cuore di muta soddisfazione –, ma almeno aveva un briciolo di fegato e cervello in più di quei minorati dell’Esercito Continentale. Tra cui, ricordai estemporaneamente, c’era anche Charles. Non è questo il momento. Non sai nemmeno se lo rivedrai, preoccupati piuttosto di arrivare vivo all’ora del tè. – Siete ufficiali britannici.
– Allora ci vede bene! – grugnì uno degli altri maiali in giubba rossa, piegandosi a ridere e a sputare in un cespuglio.
Tarleton colpì London con un misurato calcio al basso ventre che lo lasciò cadere nella neve con un gemito. Un bravo ragazzo, decisamente. Si avvicinò con un gran ghigno sulla faccia, sollevando il cappello per farsi guardare bene in faccia. Aveva le labbra rosa e carnose, quasi da donna, un naso dritto e affilato e luminosi occhi verdi, scaltri come quelli di uno sciacallo. – Posso mettere giù le mani, dolcezza? – Sì, così le uso per abbassare la mia stessa leva sul patibolo. Che cazzo sto dicendo?
Thomas ridacchiò accanto a me e Tarleton inclinò il capo da un parte, continuando a sorridere con fare meschino. – No, tienile pure lì. Non vorrei mai che ti saltasse in mente di strizzarmi l'uccello – replicò, facendo aprire la bocca di Thomas in un grande sghignazzo. Aveva davvero del fegato. – Avevi qualcosa di cui metterci al corrente o volevi solo vedere se riuscivi a farmelo rizzare?
Ridacchiai, guardandolo negli occhi e facendo schioccare la lingua. Probabilmente intorno a noi doveva essersi formato un coro di risatine, compreso il tenente colonnello Bigbott. – In effetti, sì. Se riesci a far star zitto questo branco di scrofe, forse potrei anche...
Torse nuovamente il corpo di centottanta gradi, caricando il fucile e portandolo alla spalla in un unico, fluido movimento, il calcio fischiò a pochi centimetri dal mio muso e quando alzò il cane, Dio!, la paura di beccarselo in faccia per il rinculo mi fece fare un balzo all'indietro. Insieme a me, gli altri soldati e lo stesso ufficiale superiore scattarono, terrorizzati e ammutoliti. – Grazie, gentiluomini – disse con il solito sorriso. Quanti anni poteva avere, venti? Ventidue? E quante donne dovevano essere entrate nel suo letto? Gesù. Era affabile, carismatico, attraente e, da buon assassino, letale come l’Inferno. – Andate avanti, voi.
– Fantastico – grugnii, l'attenzione di tutti finalmente addosso. Come ai vecchi tempi, quando quei cinque uomini riservavano tutte le loro forze a una causa e ad azioni da me decise. – Nel cappotto c'è una lettera del generale Cornwallis. Me l'ha data pochi giorni fa, a Boston. Mi da il permesso e... l'ordine, in un certo qual modo, di incontrare Charles Lee, prigioniero di voi spalle sanguinanti. – Puntai il mento con uno scatto verso il carro, osservando gli uomini rimasti girarsi rapidamente e osservarmi ridacchiando, Banastre Tarleton più di tutti. Chissà cosa pensava London. Tutte quelle balle… un incontro con delle giubbe rosse, certo. Dio santo, probabilmente era spaccato a metà, diviso tra il panico e l’istinto sempre più prepotente di sfondare il mio cranio con una lama. Chi se ne frega. Ansimai. – Controllate, se non credete alle mie parole.
Il giovane maggiore incrociò le braccia sul petto e abbassò lo sguardo sul cadavere che faceva da fronte di guerra tra me e lui, un limite che speravo non fosse poi così invalicabile, dannazione. – Portatemi quella lettera – disse, fissandomi negli occhi con inequivocabile freddezza. – Se ciò che dite è vero, Dio solo sa se potevate capitare in mani migliori. – Sollevò nuovamente il berretto, quel tanto che bastava a guardarlo dritto in faccia senza che fosse oscurata dalle ombre. Il freddo non intaccava la sua voce né il suo aspetto, sembrava non ci fosse nessuno in grado di far cadere le sue convinzioni o disobbedirgli. – Sono stato io a catturare Charles Lee, in una spedizione ordinata dal colonnello Harcourt. – Sogghignò, abbassando la voce e indicando con un cenno della testa gli uomini alle sue spalle. – È per questo che posso trattare i gentiluomini del reggimento e persino un mio diretto superiore come fossero le mie puttane. Se non fosse per me, Benjamin Church sarebbe già un cadavere sul fondo del fiume Mohawk. Perché dovrei credervi, comunque?
Mi sforzai di non abbassare lo sguardo e imprecare. Ecco, qui stava il difficile. – Cornwallis in persona ha scritto e sigillato quella dannata lettera. Sarà un po' sporca di sangue, forse, ma è stato un viaggio travagliato.
– Direi che travagliato è un eufemismo, signori – ringhiò trasudando sarcasmo. Afferrò una caviglia del cadavere e lo rivoltò davanti ai miei occhi, schioccando la lingua, e sfiorò il grumo sanguinolento che gli grondava dall'orbita vuota come fosse il capezzolo di una donna. – Quanti altri? Immagino che questo non sia il primo uomo che avete ucciso.
– Chi vi dice che l'abbia ucciso proprio io? – chiesi sollevando le spalle, ma il ragazzino non ci cascava. Era dannatamente furbo e non esitava nel darlo a vedere. Doveva essere un arricchito, uno che quel rispetto e quella posizione se li era guadagnati. E in guerra, si sa, ci sono soltanto due modi di far carriera: fare il leccaculo o ammazzare il più possibile in gloriose battaglie.
Se aveva leccato qualche natica di troppo lo nascondeva proprio bene. – Siamo stati costretti a ucciderlo. Ha tentato di rapinarci – ammisi con la spalle abbassate.
– Ma poi a quanto pare siete stati voi a rapinare lui – disse, punzecchiando la carne pallida e quasi blu per il freddo del povero mercante. – E la vostra precisione è ammirevole, se siete stato voi a sparare. Chi altro in una collisione riuscirebbe a sparare un colpo tanto preciso?
Roteai gli occhi. Faceva errori da principiante, ancora, come chi non è del tutto abituato alle armi, non ancora, e quindi non riesce a distinguere queste piccole cose. – Stava avendo una collisione con i miei soci, io ero rimasto indietro. Un colpo a distanza.
Si abbassò e passò le dita in quella poltiglia di bulbo oculare e sangue, le affondò nel buco, rigirando le carni e insozzandosi le mani di sangue con la stessa freddezza di un macellaio. – A distanza. – Tirò fuori le dita rosse con un risucchio viscido, dunque rimase a guardarsele con interesse. Un fottuto assassino fatto e finito. – Interessante. Molto interessante. Ma...
– Trovata, Ban! – Un giovane soldato tutto baldanzoso si avvicinò e gli porse la busta macchiata di sangue, un sorriso da orecchio a orecchio, come se si aspettasse un bacio da parte del bel superiore che si trovava davanti, che invece gli strappò la lettera di mano e lo afferrò per il collo della giubba, lasciandovi un'impronta rossa.
– Quante volte devo dirti di non chiamarmi Ban, cazzo? Per te sono il maggiore Tarleton, coglione! – gridò a denti serrati, sbavando addirittura un pochetto.
Il ragazzone che teneva stretto continuava a sorridere, guardando Banastre come una mosca facile da schiacciare, ma sacra, che nessuno poteva far fuori. Gli mollò comunque una spinta tale da fargli perdere la presa. – Vaffanculo, Ban – esclamò, guardando caracollare all'indietro il maggiore. – Sei solo una troietta avida di potere che si crede chissà chi per una cattura e qualche battaglia andata bene. Chissà come sarebbe andata a finire se Harcourt non si fosse... 
La sua bocca aperta esplose in una fontana di denti bianchi e sangue, sangue che zampillava da un grosso buco nella scatola cranica, grondante cervella e pezzi d'osso. Il soldato rimase in piedi un attimo mentre il proiettile lo attraversava, come un uomo impalato su una lama, poi si accasciò a terra, annaffiando quella terra già martoriata. Banastre Tarleton mise via la pistola con un grugnito di rabbia mentre lo fissavamo tutti, io sbigottito, Thomas con mezzo sorriso e London come un uomo che sta per cagarsi addosso. Per non parlare poi del tenente colonnello, che aveva istintivamente abbassato lo sguardo. Era già successo? Perché nessuno faceva niente?
Perché avevano paura. E davanti a un uomo d'arme evidentemente insano, che ammazza un suo sottoposto per puro piacere personale o in uno scatto d'ira, tutti se la fanno sotto e nessuno interviene. Rischiamo – permettetemi di inserirmi nella categoria – la vita troppe volte nelle battaglie e nelle marce per andare incontro anche alla possibilità di essere ammazzati da uno squilibrato tra le nostre stesse fila. – Dunque – Banastre strappò la ceralacca sulla busta, lasciando le impronte dei polpastrelli insanguinati sui lati. Stranamente, la carta era intonsa, liscia e pulita come appena uscita dal gabinetto di Cornwallis. Era sopravvissuta alle intemperie, a una pioggia di sangue di cavallo, ai piedi delle giubbe rosse. Quindi, secondo la mia fortunata esperienza, probabilmente mi avrebbe fottuto. – Diamo un'occhiata. Compagni d'arme, spero che chiunque apra questa missiva abbia piena fiducia in quanto sto per riferire e confido nella vostra lealtà per l'esecuzione dei miei comandi, affinché..., e bla, bla, bla, il solito mucchio di stronzate, andiamo al nocciolo. È ciò che interessa a tutti noi, dico bene? – Ghignò come uno sciacallo e scorse la lettera con lo sguardo. Gioiva nel vederci almeno stupiti dalle sue azioni, pendenti dalle sue labbra. Non era il primo soldato assetato di sangue e rispetto che incontravo, ma fanno sempre un certo effetto. – Oh, ecco qui! ...pertanto chiedo al colonnello Harcourt e ai suoi sottoposti, il maggiore Tarleton in particolar modo..., oh, avete visto, tenente, il vecchio si cura di me tanto da citarmi nella vostra lettera di raccomandazione! Sono senza parole. – Ridacchiò tra sé e si schiarì la voce, leggendo in tono altisonante. – ...in quanto responsabile in primo luogo della cattura del generale Lee, di accogliere a Fort Lee Haytham Kenway e Thomas Hickey. In caso non rammentiate i loro visi o i loro nomi non abbiano alcun riferimento nelle vostre memorie, vi prego di riportare alla mente i due attentati al comandante Washington di non molto tempo fa. O-oh, Cornwallis ha ragione! Io li ho già visti questi due, cazzo, e li avete già visti anche voi! Ricercati, eh?
– Non siamo ricercati – grugnì Thomas con un'alzata di spalle, – ma l'Esercito Continentale sarebbe molto felice di poterci prendere in custodia per farci assaggiare un ferro rovente su per il culo. Va' avanti.
Banastre Tarleton fece schioccare la lingua, lanciando un'occhiataccia a Tom. – Certo, sergente Hickey, oppure? Farete rapporto a Cornwallis come una brava puttana?
– Ehi, ehi, vacci piano, bambolina, io non sono la puttana di...
– Hickey, chiudi quella cazzo di bocca e lascialo parlare, prima che si decida di nuovo a prendere la pistola e spararti in testa! – sbottai con gli occhi innaturalmente sgranati. Mi voltai a guardarlo, la sua espressione contrariata parlava più di qualsiasi insulto. Trasudava rabbia da ogni poro. – È un fottuto ordine, Tom. Lascialo parlare.
Digrignò i denti, sputando il più vicino possibile alla divisa di Tarleton. – Come dici tu, capo – ringhiò scrollando i piedi dalla neve. Anche io sentivo le dita perdere la sensibilità. – Ma se fa ancora una volta lo stronzo con me giuro su Dio che se ne pentirà amaramente. 'Fanculo quello che mi ordini.
– Sta' attento a quello che fai, Tom... – Gli puntai un dito contro. Stupido bastardo insolente.
– Altrimenti? Mi stacchi l'uccello? Eh? – Sputò anche nella mia direzione. – Mi cacci dall'Ordine? Mi ammazzi? Che cazzo vuoi farmi?
La testa di Thomas scattò indietro appena le mie nocche impattarono con la sua mandibola, un fiotto di sangue sgorgò fuori dalla sua bocca mentre tossiva per il gancio. Tieni duro, tieni duro, non cedere, cazzo, non cedere... Mollai una manata sul petto di Tom che, sbilanciato, cadde all'indietro nella neve, le braccia mulinanti per cercare di non cadere rovinosamente. Fu inutile. Sdraiato come un bambino a fare angeli nel periodo natalizio. Gli fui addosso in fretta, poggiando la suola dello stivale sul suo pomo d'Adamo. Lo guardai mentre rantolava, preda dei colpi di tosse. Sono calmo. Sono calmo. Non lo ucciderò. Parlavo con Minerva e Giunone per paura che mi fermassero di nuovo, ma quella merdina aveva bisogno di una lezione che solo il suo capo poteva impartirli. – La prossima volta che mi parli così, Tom, non ti taglierò solo l'uccello. Ti farò mangiare le palle e pentire di essere nato, al punto che i ferri nel culo ti sembreranno delle amorevoli carezze. Manderai giù tanta di quella merda e ti scuoierò con queste mani, stupido porco decerebrato, e allora, quando la morte ti sembrerà una fottuta benedizione, lotterò con tutte le mie forze per tenerti in vita. – Lo afferrai per i capelli, sollevandolo e mandandolo a sbattere contro il tronco di un albero. – È chiaro il concetto?
Thomas, la bocca grondante sangue e il petto scosso nel tentativo di far passare un po' d'aria nei polmoni, sollevò gli occhi stanchi su di me. – Cristallino, capo – sibilò con mezzo sorriso. – Cristallino.
Gli diedi un pugno nello stomaco e Tarleton scoppiò a ridere di gusto mentre Tom s'accasciava a terra. – Dannato coglione.
– Calmatevi, ragazze, buone! – strepitò infilandosi in mezzo a noi e poggiando una mano sul mio petto. Con tutta la furia che avevo in corpo avrei potuto spezzargli le dita uno per uno. – Gesù, non mi pare il caso di interrompere gli ordini del beneamato generale Cornwallis per una patetica scaramuccia di questo genere. Vi prego, cazzo, ricomponetevi! Non è mica finita qui. – Punzecchiò il foglio di carta con un dito e si schiarì la voce, riprendendo a leggere. – Essendo questi tempi assai bui, vorrei essere certo che nessuno del nostro esercito sia ingannato da volgari impostori. Pertanto, voglio sappiate che la mano sinistra di Haytham Kenway è sprovvista di un dito, l'anulare, mentre Thomas Hickey è una vecchia conoscenza e garantisco personalmente per lui. Vi prego di concedere loro ogni aiuto possibile e di permettere il loro formale incontro con Charles Lee, affinché possano, forse, aiutarci con il caso di Benjamin Church. Conoscono entrambi e ritengo sia vostro dovere fornire loro ogni informazione chiedano al riguardo. In fede, generale Charles Cornwallis. Ah! – Tarleton si diede una sonora pacca sul ginocchio, ghignando e sventolando la lettera nella mia direzione mentre Thomas balzava in piedi, spolverandosi gli abiti pieni di neve, i denti che battevano così forte da ricordarmi il rumoreggiare dei tacchi durante un incontro di scherma. – Sembra che il mio capo tenga parecchio a voi macellai, eh? Eppure non dice niente per quanto riguarda quello stronzetto laggiù – sbottò voltandosi verso London, – dico bene?
Sospirai, abbassando lentamente le mani e azzardando un passo in quella direzione. – Calma, lui... non è parte di quest'operazione. Non entrerà in contatto con Lee. È solo... – Non riuscii a evitare di lanciare un sonoro sbuffo. Avrei dovuto rivelare la verità, almeno in parte, e non avevo alcuna voglia di dare spiegazioni a quello spocchioso mocciosetto con troppo potere e troppa violenza nelle vene. – Lui è...
– Una specie di associato – biascicò Thomas, tastandosi la mandibola come se fosse spaccata. Mi scoccava occhiatacce ogni due per tre, continuando a toccare le ossa nel costante terrore di sentirne qualcuna squarciare la pelle e sbucare, puntuta e piena di schegge, in una posizione completamente anomala. – Tranquilli, non parteciperà al nostro incontro con Lee, posso giurarlo.
London, la testa abbandonata mollemente sul petto nonostante fosse sveglio e vigile, non osò muovere un muscolo né ribattere. Dio, come poteva essere così cagasotto? Insomma, gli Assassini, i paladini della giustizia e della libertà. Che bel mucchio di stronzate, pensai con un sorrisetto. Ma, d'altronde, nessun Mentore ha mai detto ai suoi novizi che gli uomini non sono eroi. Tutti gli atti che li portano a essere considerati tali sono errori di calcolo, sconsideratezze dettate da banali sentimenti o idiozie per la vanagloria di un generale. – Dunque – proseguì Tarleton – ritengo di avere finalmente qualcosa da fare! – Sfregò le mani l'una con l'altra, sogghignando. – Mettiamo fine a questo cazzeggio privo di senso, tenente colonnello! Si torna a New York! E voi, in marcia. Seguiremo gli ordini del caro, vecchio generale Cornwallis.
Bigbott sospirò, ricaricandosi il fucile in spalla e sollevando London per la giubba. – Muoviti – sibilò mentre gli mollava uno spintone ed entrambi scendevano il crinale per tornare sul sentiero. – Torniamo ai cavalli! – gridò al resto della truppa. Lanciò un'ultima occhiata bieca al maggiore Tarleton, quindi precedette i suoi uomini con le spalle abbassate e scrollando il capo lentamente, sconfitto.
– Spero che stiate scherzando, Christian!
Le parole di Banastre ci fecero gelare più dello stramaledetto inverno. Il tenente colonnello s'irrigidì, voltandosi appena, il collo teso per osservare Tarleton, intento con tutta la tranquillità di questo mondo a osservarsi le unghie a mano aperta con il guanto bianco stretto tra le lunghe dita dell'altra mano. – Che intendi dire, Tarleton? Riponi le armi e obbedisci agli ordini – disse, cercando di mostrare un minimo di autorità davanti ai suoi soldati. Sulle labbra di Thomas apparve un sorrisetto di scherno mentre osservava quella patetica pantomima.
Tarleton si pulì la mano sulla divisa prima di rinfilarla nel guanto, quindi ridacchiò, fissando il suo ufficiale superiore con uno sguardo che conoscevo fin troppo bene: l'occhiata dello spadaccino esperto davanti allo sfidante senza speranza ma pieno d'orgoglio, del maestro imperioso e autoritario nell'occhieggiare un marmocchio ribelle. – Parlate come se fossero i vostri, di ordini. Andiamo, tenente, credo sappiate perfettamente chi comanda qui. – Il sorriso s'allargò sul suo viso mentre si sfilava nuovamente il guanto, come volesse usarlo per schiaffeggiare Bigbott. La tensione era palpabile nella condensa, ma si trattava pur sempre di tensione tra due infreddoliti soldati dell'Esercito Britannico, l'uno tanto trasandato e concentrato sui suoi doveri quanto l'altro era curato e trasudante vanagloria, un maggiore con più potere di un tenente colonnello. Talmente penoso da essere ironico, ironico da fare schifo. – Tenente colonnello, Tarleton. Esservi comprato il grado leccando il culo di Cornwallis e inciampando su Charles Lee non vi da il diritto di comandarmi a bacchetta – provò a ringhiare Bigbott.
– Che il diavolo mi porti, è una battaglia persa – sussurrò Hickey, le mani infossate nelle tasche e le labbra ritirate sui denti per sputare un grumo di catarro nella neve. – Vuoi un tiro, capo? – Sfilò la tabacchiera e la pipa, come un qualsiasi gentiluomo che sta per godersi la prima al Royal. Lanciai uno sguardo agli attori della misera sceneggiata che ci si presentava davanti, quindi annuii, scoraggiato. Ne avevo bisogno.
Tarleton gonfiò il petto e poggiò la mano sul calcio del moschetto che si era caricato in spalla. – Io ho guadagnato quella posizione! Sarò anche inciampato su Charles Lee, ma certamente ho compiuto atti più degni di notorietà dei vostri, tenente colonnello dei miei coglioni! – Si puntò le mani al pube e le sollevò in direzione di Bigbott mentre Tom accendeva la pipa e sogghignavo con le braccia incrociate sul petto.
– Banastre... – Christian Bigbott sollevò le mani per fermarlo. Chiunque altro l'avrebbe come minimo minacciato d'impiccagione per un affronto del genere. Questo era davvero un senzapalle coi fiocchi. Quasi strappai la pipa dalle dita di Hickey. Avevo bisogno di distrarmi, rilassarmi solo un po'. Il fumo caldo del tabacco m'invase i polmoni come un abbraccio.
Banastre Tarleton, invece, era sempre più infuriato. Forse aveva bisogno lui, d'un abbraccio. Che fosse illusorio come quello del tabacco o reale, magari con il culo di una ragazza premuto contro lo stomaco.
Lo so, ho troppe false speranze ed è troppo tempo che non sto con una donna. Lo so. – Siete arrivato a questo grado con la pietà di Cornwallis e Harcourt – sibilò il maggiore puntandogli il dito contro. – Non hai mai rischiato la vita per la tua patria! Mai, mai nella tua squallida esistenza!
– Ah, tu sì, invece? – Bigbott stava perdendo la pazienza, senza ombra di dubbio, ma non era poi così bravo nel gestire la rabbia. Erano banali ondate che andavano e venivano senza danni. Non era un uomo da mareggiate, lui.
Banastre sorrise ancora. – No. – Portò le braccia lungo i fianchi, calmo come non era mai stato. – Ma è esattamente ciò che ho fatto credere a Cornwallis. Saresti il miglior soldato di questo mondo se non fossi nato senza le palle!
– Palle? Sei solo un ragazzino sfacciato, assetato di sangue e potere. Non si tratta di avere le palle, soltanto… soltanto… – La voce sembrò lentamente morire nella gola di Bigbott mentre io e Thomas osservavamo la scena con noncuranza, fumando e scrollando il capo. Anche la testa del tenente colonnello finì per chinarsi sul petto, definitivamente sconfitto. Poveruomo. Aveva decisamente scelto il mestiere sbagliato, lui.
Con un sorrisetto di trionfio, Tarleton calzò il guanto e strinse le mani l’una nell’altra, dietro la schiena, per poi scendere il crinale a piccoli passi cauti. Sollevò il mento di Bigbott con un dito nonostante fosse più basso di qualche centimetro, costringendolo a guardarlo negli occhi. – Torniamo agli affari, eh, Christian? – Il suo tono era mellifluo, dolce come quello di una puttana che cerca di fotterti tutto il denaro che hai addosso invece della solita parcella. – Prendi quel pezzo di merda là e fallo fuori.
Tossii all’improvviso, piegandomi in due e sputacchiando saliva come un povero scemo, ma quando Christian Bigbott si voltò con gli occhi sgranati verso il fondovalle capii di essermi sbagliato. La mia mente era più confusa di quella di Thomas, e nonostante le giubbe rosse avessero appena detto di volerci aiutare, be’, i complotti sembravano appostarsi dietro ogni dannato angolo.
Non propriamente contro di me, stavolta. Contro la mia sicurezza. – Oh, no – sussurrai facendo mezzo passo avanti. – Tu non farai ammazzare proprio ness-… – Il gentilissimo maggiore Tarleton pensò bene di cucirmi la bocca sollevando il moschetto nella mia direzione. Non ricordavo di averlo visto caricare, ma aveva puntato lo stesso fucile contro uno dei propri uomini poco prima, con la velocità e la precisione di un cecchino. Sarebbe stato come tuffarmi di proposito nella pozza di merda dalla quale ero appena uscito con le braccia ancora indolenzite e la giacca puzzolente. – Ah – grugnii nel fare un passo indietro e lanciando un’occhiata di scuse a London, ancora in piedi pochi passi più giù, quasi arrivato al sentiero. Non che mi dispiacesse nel vero senso del termine, ma era la nostra guida. E gli Assassini ci avrebbero fatto il culo vedendoci tornare senza di lui.
Oh, ma che importa, maledizione? Sono un codardo e un egoista, lo sapete. Meglio London che io, no?
Gli occhi di Bigbott non mollarono un attimo quelli del ragazzo mentre estraeva un proiettile dalla bisaccia e caricava la pistola che portava alla cintura senza nemmeno guardarla, concentrato nel cercare di far sentire in colpa Tarleton. Come se ne valesse la pena. So riconoscere un assassino quando ne vedo uno, dopo tanta esperienza. E, credetemi, Banastre Tarleton era un maledetto omicida a sangue freddo.
Christian sospirò e strinse la mascella nel volgere il capo verso London. – Sei un bastardo del cazzo – sibilai a pugni stretti. Tarleton mi rispose con un sorrisetto malvagio, e mi chiesi se avessi avuto la stessa espressione durante tutti i miei lavoretti per Reginald, quando ero solo un ragazzino. Ero davvero felice di uccidere qualcuno?
Guardai Thomas, ricordando quella schifosa sottospecie di redenzione che andava ostentando di tanto in tanto. Nessun uomo, sussurravo a me stesso, nessun uomo è felice di uccidere per tanto tempo. Torturare, magari, o fare del male. Sono giochetti perversi. Ammazzare è un altro paio di maniche.
Banastre annuì e Bigbott alzò il cane. Dio, non potevo lasciare che quello stupido Assassino, che si aveva sopportato me e Thomas a Boston e per tutta la durata del viaggio fino a quel momento morisse in modo così privo di dignità. Non è che mi sentissi in colpa, ma, lasciatemelo dire, Joseph London era già bello che morto da un pezzo. Il suo aspetto malaticcio, la costante stanchezza, sarebbe morto comunque, in un modo o nell’altro. E mio figlio non avrebbe potuto rinfacciarmelo.
Si trattava di una scelta piuttosto stupida, lo so. L’apprezzamento di quel piccolo bastardo o un briciolo di gratitudine per gli Assassini? Al diavolo tutto, pensai. Mi spiace. – London! – Avevo deciso che, se doveva morire, tanto valeva che lo facesse con la giusta consapevolezza. Preparandosi, almeno, nel lunghissimo istante che trascorre tra il momento in cui viene premuto il grilletto e quando il piombo lacera le carni, dilaniandole e cospargendole di schifosissimo dolore.
L’Assassino si voltò di scatto, la sclera bianca bene in vista negli occhi sgranati per l’ultima volta.
Poi fu solo un altro corpo in mezzo alla neve con un buco in testa. – Bel tentativo, Kenway – disse Tarleton sorridendo. – Peccato. Adesso andiamo. Prima che mi penta della mia decisione.
Sollevai tristemente le spalle e seguì i due ufficiali con Thomas al mio fianco, lasciando che gli occhi si posassero sul corpo del cadavere di London, abbandonato scompostamente sul ciglio del sentiero già inzuppato da troppo sangue. Thomas Hickey mi strinse la spalla. – È normale, capo – grugnì. – A volte tocca anche a loro morire.
Deglutii e trassi un corto respiro. L’aria gelida mi si bloccò nella gola mentre mi rendevo conto della giustizia divina di quell’azione. Connor aveva ucciso John Pitcairn. Ora, in un certo qual modo, mi ero preso la rivincita su uno dei suoi uomini.
Se credessi in Dio, direi che ha un senso dell’umorismo più strano del mio.  

 

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Capitolo 43
*** Non come m'aspettavo. ***


Just for old time’s sake,
Won’t you give my heart a break?
Let’s get together again,
Let’s relive the time,
I was yours and you were mine,
Life was so wonderful then.
– Elvis Presley, Just For Old Time’s Sake.
 
Se diventi troppo rigida, diventi anche troppo fragile. Una crepa, e crolla tutto.
– Joe Abercrombie, Il sapore della vendetta.


– Che rottura di coglioni.
Le ruote cigolavano placide nella fanghiglia di neve sciolta e sozzura, la ghiaia al di sotto che scricchiolava come ossa spezzate mentre, attorno a noi, il convoglio di soldati a cavallo sembrava stesse prendendo parte a un funerale. Sempre utile, Thomas.
Solo Tarleton avanzava, tutto tronfio e ringalluzzito, in capo alla colonna, testa alta e petto in fuori, addirittura fischiettando lungo certi tratti. La frontiera era fottutamente silenziosa, un dannato cimitero – già che siamo in argomento –, e quei pochi uomini che incrociammo per strada parevano demoni usciti dall’inferno, coperti di stracci e con qualche sacco di viveri in spalla. Due bambini avevano teso la mano verso il nostro carro, da qualche parte lungo la strada, implorando per una moneta. Banastre aveva trapassato lo stomaco del più piccolo con il piombo prima che la madre riuscisse a tirarlo verso di sé con uno strattone. Maledetto bastardo.
Thomas e io ci ritrovavamo stretti l’uno accanto all’altro nel posto di guida, sussurrando tra i denti come due pettegole per non farci cogliere in flagrante dalle giubbe rosse. – Vedi di cucirti la bocca, Hickey – ringhiai con una piccola scrollata alle redini, – ché l’idea di andare da Corwallis è stata tua.
– Se tu non avessi deciso di cazzeggiare da Charles, a quest’ora non saremmo qui! Con quel matto e la sua allegra combriccola. – Si ritrasse e sputò a terra, pulendosi con la manica il candelotto di moccio liquido sgorgante dalle sue narici.  
Roteai gli occhi. Avrei preferito essere in qualsiasi altro posto, forse persino Bridewell. Persino sullo sgabello dietro quella casa di Boston, su cui mi avevano issato i sei uomini che pensavo fossero più vicini a me, uno dei quali ce l’avevo davanti. – Sicuramente saresti a fare qualcosa di costruttivo come, che ne so, scoparti l’ennesima puttana o fumare un po’ mentre ti masturbi. – Sospirai, scrollando il capo come un cavallo. – Davvero, a volte sei così crudele, Hickey. Mi fai sentire proprio in colpa.
Il fiato di Thomas si condensò in una nuvoletta davanti al suo viso mentre sbuffava. Il gelo mi stava sfiancando più di un’intera vita di omicidi, e viaggiare d’inverno era una delle peggiori torture che l’umanità potesse concepire. Con ogni probabilità stavo trascorrendo un'altra dannata notte di Capodanno al freddo e al gelo della frontiera. Non cambiava mai niente, nella mia dannatissima esistenza. Il settantasette sarebbe stato come tutti gli altri anni: qualche morto, un paio di disgrazie, molta noia, piccole vittorie – non ci speravo, non ci speravo affatto – e sicuramente un mucchio di fottute grane. Scrollai le spalle con un lugubre scricchiolio e aspettai che Thomas si voltasse a guardarmi, per ribattere con qualche commento acido. – Che c'è, il freddo t'ha fatto cadere le palle?
Mi scoccò un'occhiataccia, soffiandosi sulle mani con stizza. – Senti, non mi va di litigare con te – brontolò nell'infilarsele in tasca. Allungò i piedi di fronte a sé, si fissò le scarpe, a disagio come non mai. Che diavolo gli passava per la testa?
– Thomas Hickey che non va in cerca di guai? – Scoppiai in una risata forzata e un po' nevrotica, e un brivido s'inerpicò su per la mia schiena, facendomi rizzare i peli sulla nuca. – Che cos'è, un miracolo? Sono stupefatto.
I suoi occhi scuri scattarono verso di me. – Sai, magari mi grideresti contro, così questi bastardi ammazzano pure me. E chi può dirlo? – Strinse le mani a pugno e se le passò sugli occhi con un ghigno sarcastico. Ecco, quello era Thomas Hickey.
– Oh, meno male! – sbottai lasciando per un attimo le redini, una mano al petto. – Sai, iniziavo a credere che fossi tornato a quelle stronzate del "non posso più uccidere nessuno" e “oddio, sono un’anima pura che ha impiccato un bambino!”. – Roteai gli occhi e strinsi nuovamente le fettucce di cuoio tra le dita, dandovi una scrollata.
Grugnì, lanciandomi un’occhiata minacciosa. Aveva le nocche bianche e il mento tremante, come se il mondo intero gli avesse fatto un enorme torto. – Sembra quasi che tu lo faccia di proposito, Kenway – ringhiò guardandomi in tralice. – Che ti diverta a vivere costantemente nella minaccia della morte.
Aggrottai la fronte. – Mi stai forse dando del masochista? – Ecco, quello era divertente. – Andiamo, Hickey, cerco solo di conversare. – Sollevando le spalle, tornai a fissare il sentiero davanti a me. Riuscivo a sentire i suoi gemiti frustrati mentre si passava le mani in faccia e imprecava tra i denti che sbattevano. – A quanto pare, riusciamo solo a pigliarci per il culo e urlarci l’uno contro l’altro.
– Smettila, cazzo! – sbottò, sollevando la mano come se volesse mollarmi un ceffone. Il suo colorito poteva fare invidia a un fantasma, per non parlare delle labbra così pallide da sembrare blu, in cui il sangue circolava a forza di morsi, e la punta del naso ormai insensibile. Per quando il suo aspetto fosse patetico – non garantisco che il mio fosse migliore –, aveva comunque un’aria temibile. Era pur sempre un omicida esperto. Come i suoi fratelli nell’Ordine, però, dimenticava troppo spesso che l’avevo addestrato io. Erano brutte copie del sottoscritto, niente di più. E le brutte copie non sono mai arrivate da nessuna parte. – Non ci hai forse insegnato a essere inclementi con i traditori? – strepitò, con una rabbia tale da far arrestare i cavalli nel bel mezzo del sentiero.
Strabuzzai gli occhi, colpendo il fianco di quelle bestiacce con il tacco dello stivale. – Sì, ma mi aspettavo che un uomo dai precetti nobili come i tuoi desse un minimo di peso alle proprie parole – sussurrai, chinandomi su di lui mentre le ruote ricominciavano a portare il carro in avanti, scricchiolando sulla crosta di neve ghiacciata. – D’altronde, così fanno i dannati egocentrici che si beano delle proprie opere come fossero Dio in terra. E questa descrizione sembra essere cucita su di te. – Mi ritrassi, scuotendo la testa. Con la coda dell’occhio vedevo i suoi pugni stringersi, la mascella serrarsi e la lingua andare compulsivamente a leccare le labbra, come avesse un brutto tic nervoso. – Quelli erano solo stramaledetti mercanti, idiota! – replicai. Cercavo di tenere un tono di voce basso, perché l’ultima cosa che volevo attrarre era l’attenzione delle giubbe rosse e dei loro moschetti. Il venerabile ufficiale Banastre Tarleton non avrebbe esitato a spararmi in testa per poi riferire a Cornwallis che nessun Haytham Kenway era passato di là, né tantomeno qualche fantomatico Thomas Hickey. – Non ti capisco, Tom. Devo essere onesto. Li ammazzi su due piedi per poi tirarti indietro davanti ai veri disertori! Cos’è, vuoi usarla come scusa? O preferisci usare questa storiella dei princìpi solo quando ti fa comodo, quando senti di non avere le palle per uccidere? – Sentii la forza venire meno da ogni estremità del mio corpo, gli arti farsi molli. Dovetti usare quel poco  che mi restava per stringere le redini e non lasciare che Minerva e Giunone prendessero il sopravvento sulla mia furia, la quale, al tempo stesso, cercava di calpestarmi, di strapparmi il controllo di mani. Calmati, calmati o finisci per picchiarlo un’altra volta, sta’ calmo…
Thomas tese la schiena all’indietro, le labbra ritratte sulle fauci schiumanti come quelle di un cavallo. – Se ti stai riferendo a Ben, sappi che lui era nostro amico! – tuonò. Le sue mani si allungarono nell’aria tra noi due, cercando di ghermirmi. – E poi non farmi la predica! – Il braccio sinistro scattò, ma ne uscì solo una specie di gesto piuttosto scortese. – Ne hai ammazzato uno anche tu.
Almeno ammetto di averlo fatto. Senza accorgermene nemmeno, d’istinto, perché è ciò che faccio meglio. – È stato diverso. Avrebbe detto tutto al primo soldato nelle vicinanze, diavolo!, ti aveva visto sparare a un innocente. – Strofinai una mano sulla fronte imperlata di sudore freddo. Dopo un altro accesso d’ira sfiorato, mi sentivo come un ragazzino febbricitante. – E il fatto che Ben fosse dei nostri non significa niente.
Ben. Benjamin Church. Alla fine tutti i nostri discorsi convergevano verso di lui, rinchiuso nelle segrete di un tetro forte continentale, alle prese con George Washington e i suoi ufficiali. Davanti a noi, pareva quasi che Tarleton se la stesse spassando mentre i soldati proseguivano come diretti verso il patibolo, per nulla allarmati dalle nostre chiacchiere poco civili. Sospirai. Thomas non riusciva a concepire che Ben fosse il mio obiettivo – e dunque anche il suo, il nostro – semplicemente perché l’Ordine era sempre stata una costante della sua vita. Un conto era allontanarsene, ma uccidere un membro con le sue mani…
Sarebbe stato come afferrare una sega, stringere i denti e amputare il suo stesso braccio. Pur essendo a conoscenza della cancrena che avrebbe potuto contagiare l’intero organismo, era un gran brutto sacrificio, un sacrificio per cui quell’uomo non era pronto.
Oh, ma chi se ne importa, maledizione? Ero forse stato pronto quando avevo ucciso un uomo con una spada, a dieci anni? O quando mia sorella era morta davanti ai miei occhi? Nella vita non si può essere preparati a tutto. Che affrontasse la realtà, per una volta, e capisse che non poteva contrapporre quei suoi pochi affetti al dovere, se erano gli affetti sbagliati. – Dovresti smettere di discutere e tenere gli occhi sui fatti – sibilai, desiderando ardentemente qualcosa da fumare. Non mi pareva il caso di chiedere la pipa a Tom, in fondo.
Sbuffò, afferrandomi per il gomito cosicché mi voltassi a guardarlo. Sembrava fremere per la rabbia, più che a causa di quel gelo peggiore di qualsiasi tenaglia. La colpa era mia, in fin dei conti. Della dannatissima buca in cui era caduto il mio cavallo, della spada di Tom, che s’intravedeva sotto il cappotto quando ingobbiva le spalle, di tutto il tempo che avevamo perso. Per colpa mia, London non c’era più, eravamo sorvegliati costantemente da soldati britannici – e non so dire con precisione se fosse una fortuna o meno –, ma almeno avevo una destinazione certa. Ripetevo a me stesso di stare andando nella direzione giusta. In una direzione, come minimo.
Che mucchio di colossali stronzate. Come tutto il resto, in fondo.
– Sai che sono dalla tua parte – sibilò Thomas, gli occhi scuri colmi d’ira, – ma ordinandomi di uccidere Ben ti stai comportando esattamente come Birch. – Il suo sguardo si conficcò nel mio, affilato e colpevolizzante. – Sai che è la verità, per quanto ti ostini a negarlo.
Avessimo avuto ancora i nostri destrieri, avrebbe sicuramente dato di sprone per allontanarsi. O forse no, avrebbe dimostrato un po' di coraggio e sarei stato io ad andarmene come un codardo, scattando in avanti a testa bassa, la coda tra le gambe. Invece nessuno dei due poteva muoversi, incastrati l'uno con l'altro com'eravamo sulla seduta del carro. La sua osservazione mi aveva fatto gelare il sangue nelle vene. – Io non ero un traditore – sibilai tra i denti, dando una scrollata alle redini per la frustrazione. – È completamente diverso.
– Stai progettando di uccidere un uomo solo perché ha delle idee differenti, nonostante fosse tuo amico. – Si strinse nelle spalle, premendo le braccia sul petto. – È sbagliato.
Roteai gli occhi. Non ne potevo più del suo atteggiamento moralista solo nei miei confronti, dannazione. Come poteva lui, uno stupratore, un assassino, l’uomo più amorale che avessi mai conosciuto, definire ciò che era giusto e ciò che era sbagliato? Parlava come se dicessi stronzate. Aveva ucciso uomini per tutta la vita, e quando gli toccava farlo per una buona causa, si tirava indietro. – Non hai mai pensato di star lottando per la causa sbagliata?
Che ha detto? Se le sue accuse nei miei confronti mi avevano lasciato di sasso, quella frase mi fece sgranare gli occhi e serrare le dita insensibili sulle redini, come per tenermi ancorato alla realtà. Perché non poteva averlo detto sul serio, giusto? Era… era una battuta, doveva essere una battuta.   
– Insomma... – Portò le mani alla nuca, fissando la distesa di neve davanti a sé come il Paradiso Terrestre. – Forse lui ha ragione e c'è... qualcuno che può fare la cosa giusta per noi. Non sei onnipotente, Haytham.
Strizzai gli occhi, allungando il collo per fissare la luce spettrale del sole che tagliava le nubi spesse e grigie. Che razza di santarellino e maledetto bastardo. – Thomas – sussurrai, stringendo la gobba del naso tra le nocche di indice e medio, il fiato che invadeva i polmoni in grandi respiri, – Thomas, sai che potrei impiccarti per tradimento all'Ordine, dopo quello che hai detto?
Tom sollevò lo sguardo al cielo, reclinando il capo e mollando una pacca sulla corteccia del grosso ramo che pendeva sulla nostra testa come la lama di una ghigliottina, i denti scoperti in una risata da sciacallo. – Dio, capo, certo che sei un bel pezzo di merda, eh? – esclamò, schiaffeggiandosi il ginocchio. – Metti sempre in mezzo l'Ordine, tu. E quando non è l'Ordine si tratta della tua donna, di tuo padre, di tuo figlio, di tua madre che non ti ha attaccato alle poppe a sufficienza o della puttana che non te l'ha succhiato abbastanza! – sbottò, continuando a ridere come fosse ubriaco. Ecco com'era Thomas Hickey. Un saggio o un folle, un omicida o un pacifista. Non aveva vie di mezzo. – Sei un uomo fallito, Haytham. E l'unico che possa capirti, l'unico a cui sia concesso di bearsi almeno della tua approvazione è Charles Lee. Charles Lee e nessun altro! – Aveva alzato la voce e ogni sua parola era come una pugnalata al petto. Maledetto bugiardo. Non ero io il codardo, il cagasotto, era lui. Io almeno non avevo paura di uccidere Ben. – Vuoi impiccarmi per tradimento, Haytham, certo! È normale, no? Ma, capo, che io possa morire in quest'istante se non sono sicuro che avresti accolto Charlie, il povero piccolo Charles, a braccia aperte, fosse nella mia situazione. Lo avresti capito, perdonato! Potrebbe spezzarti le gambe a martellate e gli baceresti comunque i piedi! Invece a me dai del vigliacco. Non è così?
– Perché lo sei! – sibilai con la mascella contratta, i tendini del collo tesi e il sangue che a malapena mi arrivava ai pugni, tanto erano stretti. – Uccidi solo quando puoi, ammazzi uomini disarmati, senza un nome né storia, come fossero soldatini di maledetto piombo! E questa non è la guerra , Tom! È sadismo!
Si strofinò le mani per scaldarle, noncurante. – Lo sarebbe se uccidessi anche Church. Ma io non lo farò. – Lanciò uno sputo tra i cavalli. – Ho una coscienza, cazzo.
– Scherzi? – Feci una mezza pernacchia, scoppiando a ridere. – Tu non hai le palle di ammazzarlo.
Mi fulminò con lo sguardo. – Vuoi scommettere? Vuoi scommettere? – Sollevò le mani in segno di resa. – Senti, fottiti, ti va? Vuoi soltanto litigare, sentirti dire che hai ragione, allora sai una cosa? Hai ragione. Non voglio uccidere Benjamin. Ma tu hai il problema opposto, cazzo – sibilò mentre si picchiettava la tempia. – Dannato egocentrico. Tu uccideresti anche me, pur di mostrare a Reginald, al mondo, che il tuo è il modo giusto di fare le cose! Quindi vaffanculo, mi hai capito? Vaffanculo! Vittimista del cazzo.
Mi ritrovai a sbattere le palpebre con l’aria da povero idiota. Non riuscivo nemmeno a pensare, tutte le sue parole avevano trovato un bersaglio dentro di me, come stramaledetti coltelli lanciati da un acrobata. Mi sentivo mancare, la testa che vorticava come se la seduta del carro fosse improvvisamente diventata un budino. L’aria pareva così spessa da non entrare nemmeno nel naso, il mondo era tempestato di macchie nere. Artigliai la sua giacca in un gesto che dovette sembrargli minaccioso, ma in realtà cercavo solo di non cadere giù, preda di quella strana sensazione. – Scendi dal carro – ringhiai nel tentativo di levarmelo da davanti agli occhi. Pensavo che con lui sarebbe stato più facile, dopo il nostro patto di sangue, il fatto che l’avessi salvato da morte certa e tutto il resto. Mi sbagliavo, era evidente. Era fedele all’Ordine, e le sue parole non erano poi così campate per aria – innegabile –, ma nonostante detestasse Reginald c’era qualcosa che odiava di più, ed era il mio atteggiamento nei confronti di ciò che era giusto e ciò che era sbagliato.
Lui non aveva le palle, ma io non facevo altro che comportarmi come una vittima del mondo intero. Aveva ragione. Però io sono il Gran Maestro, quindi ne ho di più. A priori. – Te lo puoi scordare – sibilò, arricciando la lingua e sputando sul cappotto che avevo rubato al proprietario del carro.
Lo fissai un secondo, la mascella contratta.
Poi gli tirai uno schiaffo che per poco non lo fece cadere, spingendolo con la schiena sul sedile e tempestando il suo corpo di pugni, a cavalcioni sopra di lui per quanto mi permettesse lo spazio ristretto. – Figlio di puttana! – grugnii spaccandogli il naso con un sinistro. Un rivolo di sangue cominciò a ruscellargli lungo la faccia, ma è così per tutti i nasi. Ne esce sempre molto più di quanto uno s’aspetterebbe. Agitava le gambe sotto le mie e mulinava le braccia, cercando di buttarmi giù, oh, col cazzo che gliel’avrei lasciato fare. – Razza di bastardo…
– Bravo! – ringhiò, allungando le mani per graffiarmi la faccia, sperando forse di cavarmi un occhio. – Picchiami! Ammazzami, così resterete solo tu e Charles, e potrete succhiarvi l’uccello a vicenda senza paura di ferire la mia delicata sensibil-…
Affondai un pugno nel suo stomaco, guardandolo portarsi le mani al ventre con un gemito strozzato. Lo colpii con le nocche in un manrovescio, quindi mi scostai dal suo corpo faticosamente, riprendendo le redini in mano e sputandogli addosso un grumo di catarro. Grande oratore di ‘sto cazzo. – Contento? Ti toccherà stare a guardare mentre ci succhiamo l’uccello. – Maledetto stronzo.
Scoppiò a ridere, un suono ancora meno rassicurante con il naso chiuso dal sangue e i denti rossastri. – Possiamo sempre fare una cosa a tre, se ti va, capo – brontolò sollevando l’angolo della bocca e si tamponò con delicatezza il naso, usando la manica del cappotto. – Ah, Cristo, guarda quanto sangue. Ti spiacerebbe…?
Gli scoccai un’occhiataccia e scrollai le spalle. – Direi che per adesso ti dona. Tienitelo. – Era incredibile la velocità con cui passava dall’offendere un uomo a scherzare su qualsiasi cosa, ma era anche il motivo per cui mi fidavo così tanto di lui. Ci somigliavamo.
– Avete finito di strillare, voi fighette? – ci gridò Tarleton dalla sua cavalcatura, quasi sicuramente un purosangue arrivato dall’Inghilterra, conoscendolo.
Tom roteò gli occhi, continuando a tastarsi il naso con i polpastrelli, cautamente. – Ehi, Ban, dovresti approfittarne! – esclamò, per quanto gli permettesse la bocca piena di sangue. – Offriamo i migliori pompini che possa trovare da queste parti!
Ridacchiai mentre il maggiore si voltava a guardarci con ostilità, Thomas che esibiva l’eloquentissimo gesto della lingua gonfia premuta contro l’interno della guancia sporca di sangue e il pugno chiuso che scorreva avanti e indietro di fronte al viso. L’espressione di Tarleton era troppo divertente per farmi colpire Tom con uno scappellotto. Supponevo di avergli già fatto abbastanza male. – Se facessi più spesso queste cose – sussurrai mentre Banastre si voltava, indispettito, – probabilmente l’istinto di farti fuori non sarebbe così frequente.
– Ah, sta’ zitto – grugnì con un gesto secco della mano – e aiutami con questo schifo. Devo ammettere che tiri pugni come vent’anni fa.
– Ti avevo spaccato il naso anche allora? – Mi spostai appena, tenendo ferma la parte alta della sua faccia con la mano sinistra, le dita della destra serrate su quel pezzo di carne storto che era il suo naso. Lo sentii prendere un po’ d’aria attraverso i denti serrati e, con uno scatto, gli raddrizzai l’osso. Fossimo stati uomini d’altra tempra, probabilmente lui avrebbe urlato e lo scricchiolio mi avrebbe fatto rabbrividire.
Sopportiamo il dolore molto più facilmente, a forza di infliggerlo e riceverne. Sono i vantaggi dell’essere come noi, pagati con il sangue e con la carne morta, e bisogna cercare di coglierli, quando non si ha niente di meglio. – Diavolo! – sussurrò sputando sangue a terra. – Nemmeno Ben avrebbe saputo farlo meglio.
Sollevai lo sguardo al cielo pallido e smorto. – Smetti di parlarne, cazzo – sussurrai. Avevo le nocche escoriate, coperte del suo sangue. Che poi poteva essere il sangue di chiunque altro. Quante volte avevo strofinato la carne sotto le unghie per cancellare quelle mezzelune rossastre? Triste a dirsi, ma era banale routine. Aggiustare nasi con le mani, cancellare le tracce e andare avanti come se non fossimo in grado di ammazzare un uomo in dozzine di modi diversi. – Sembra che tu tenga a lui più di quanto tenevi a John, o a William.
– Non ho potuto fare niente per loro – borbottò affondando la testa tra le spalle. Sembrava che le botte lo rinvigorissero molto più dei vecchi ricordi. – Qui è una nostra scelta. Lasciare che ci pensi l’Esercito Continentale o ucciderlo con le nostre mani.
– I patrioti non lo uccideranno, lo sai. È solo merce di scambio. – Dio, a volte era proprio duro di comprendonio. O faceva finta di nulla, altrettanto plausibile. – Mi hai quasi impiccato, ma non vuoi che un traditore muoia. Sei strano, Tom.
Prese un gran sospiro, passandosi le mani sulle tempie e lasciandovi due chiazze di sangue. – Perché ho cominciato a pensarci dopo, capisci? Quando sei sopravvissuto. – Se si mette a piangere di nuovo o comincia una di quelle sue lagne da ragazzina proseguo a piedi. Drizzai le spalle e mi sistemai di tre quarti, confidando nel suo cinismo. – Sei davvero sicuro di ciò che stai facendo? In generale.
– Non ho altra scelta – ammisi. – Questo, oppure mi arrendo e divento una fottuta pedina degli Assassini. O un cadavere. – Scrollai le spalle. Mi sembrava di essere stato sufficientemente chiaro. – Dubiti dell’operato dell’Ordine? – No, sei forse un dannato megalomane e pensi che tutto andrebbe meglio se Thomas Hickey, dall’alto della sua magnificenza, ci dicesse come far andare le cose?
Mi scoccò un’occhiata scettica. Riusciva a leggermi nel pensiero anche lui, oppure aveva colto l’ira nel mio tono. – Non sempre. Non finché ero pagato. Poi tu sei sparito, Reginald è un fottuto tirchio, mi sono dovuto costruire un giro d’affari. E mi sono messo a pensarci.
– Sul serio? Tu che pensi? Ricordi la data, per caso? – Sollevai gli occhi, sognante. – Rimarrà nella storia per l’eternità.
– Ah, zitto – disse con mezzo sorriso, passandosi la lingua sui denti ancora macchiati di sangue. – Non dico che quanto facciamo sia sbagliato.
Gli sorrisi. – Ma non vuoi la responsabilità diretta delle nostre deplorevoli azioni, giusto? – Abbassai lo sguardo sulle mie ginocchia. Finché ciò che faceva non aveva alcuna interferenza con come andava il mondo, aveva la possibilità di agire come volesse. Quando si trattava di prendere decisioni, di salire al comando e stringere uno scettro, guidare esseri umani verso una specie di pace, preferiva lasciare il compito agli uomini più decisi di lui. Un piccolo tiranno nelle sue piccole azioni.
Sbuffò. – C’è una linea, nella mia testa. – Nella mia due spiriti. Vuoi favorire? Mi sforzai di trattenere una risatina, fissando i miei stivali consunti. – Una linea di confine che separa ciò che posso fare per me, senza grandi conseguenze, da ciò che se facessi porterebbe l’intero mondo a cambiare, pur sotto la giurisdizione dell’Ordine. – Strinse le mani l’una nell’altra, si voltò e, spingendo il mio viso con due dita, mi costrinse a guardarlo in faccia. Aveva gli occhi lucidi o era solo una mia patetica impressione da vecchio sentimentale? – Quella linea, capo, è Benjamin Church. E finché non la oltrepasso…
– Sarebbe più corretto dire trapasso, ma prosegui pure.
Scosse il capo. – Sei un bastardo, lo sai? – disse con una risatina nervosa, tirando su col naso. Oddio, forse stava veramente piangendo. Bel lavoro, Kenway. Tenne la testa bassa per qualche secondo, dunque ordinai alla mia bocca di cucirsi il più saldamente possibile. – Finché non la oltrepasso non può succedermi niente di male. Non sono fatto per i cambiamenti, e uccidere Benjamin... farlo io, in prima persona, sarebbe una mossa azzardata. Ho ucciso troppe persone per lasciare che anche quelli che chiamavo amici muoiano.
Per piacere. Cane schifoso, lui e Ben non erano amici più di quanto fossero lo stesso Ben e Silas Thatcher. – Diavolo, Tom. – Non puoi dare di matto ancora. Non puoi. Presi un gran respiro e ordinai a me stesso di restare calmo. – Non pensavo che le cose stessero così, mi spiace. – Il mio tono suonava involontariamente sarcastico e le mie scuse sarebbero valse di più se fatte da un poveraccio sul punto di farsi ammazzare dal proprio strozzino, ma che potevo fare? Non volevo essere costretto a picchiarlo ancora davanti a Banastre il Sanguinario e il suo simpatico seguito di giubbe rosse. E non potevamo certo parlare sempre di Ben, Ben e Ben.
Church è uno di quegli uomini che porti al tuo fianco solo perché è utile, altrimenti riesce mille volte più facile investirlo col disprezzo. A nessuno era fregato mai qualcosa di Benjamin finché io non avevo deciso di ammazzarlo. E Tom... o era ancora in fissa con questa storia del brav'uomo o si annoiava a morte e voleva soltanto fare il bastian contrario. E io so a quale credevo di più, nonostante mi fidassi abbastanza di lui.
Presi fiato, fissando l’accidentata strada davanti a me. Ci eravamo appena distanziati dalle giubbe rosse, non abbastanza per scappare, ma sufficiente affinché non sentissero ogni nostra parola. Le mie erano scuse di circostanza, e lo sapeva anche lui, ma avevamo bisogno l’uno dell’altro, era un'innegabile evidenza. Rabbrividii, stretto sul carro, sentendo il suo corpo tremare lievemente accanto al mio. – Cerchiamo di andare d’accordo, ti va?
– Non sarà facile – sussurrò. – Hai ragione, comunque. Ti chiedo scusa anche io. Non sei un vittimista. – Scrollò le spalle. – Non sempre, almeno.
Non replicai, e Tom scosse la testa. Fortunatamente, a guardargli le guance, non doveva avere pianto, e nei suoi occhi era tornata la gelida espressione omicida che aveva per tre quarti del tempo. – Ah, e poi, – disse con una risatina – posso anche essere senza le palle, capo, ma per quanto riguarda l’uccello ti posso assicurare che non mi batte nessuno. Vedremo quale gradirà di più Charles.
Morte e sesso. Pareva che non sapesse parlare d'altro. Tarleton scelse proprio quell’istante per voltarsi a guardarci, e Thomas s’alzò precariamente in piedi, sventolando il tricorno e sfibbiandosi i calzoni. – Ehi! – gridò, afferrandosi la patta con una mano. – Sembrate interessato, maggiore! Volete succhiare?
Le risate dei soldati si udirono fin là, ma Banastre non era mai stato tanto serio. Tom agganciò la cintura con una scrollata di spalle e si risedette. – Avremo tempo per questo più tardi, sergente – replicò, la mascella serrata. – Ora abbiamo un ponte da attraversare. Signorine – riservò a tutti noi un’occhiata carica di disprezzo, – ecco a voi il fiume Hudson.
La più larga distesa di merdosa acqua grigia e piena di schiuma che avessi mai visto. Il fiume Charles e il Mohawk erano delle pisciatine, in confronto, ma almeno erano limpide. Dio benedica chiunque avesse costruito il precario ponte in legno, fatto di tronchi solidi e rinforzato con assi mezze marce, probabilmente strappate dallo scheletro di qualche nave, che collegava le due rive del fiume, perché io non avrei messo piede in quell’affare per niente al mondo. Non era ghiacciato, anzi, l’acqua scorreva torrenziale e impetuosa nel letto, aiutata dalle maledette piogge dei giorni precedenti. Guadarlo… era impensabile, Cristo santo. Persino il nuotatore più esperto sarebbe arrivato appena a metà, poi sarebbe annegato per il freddo e il peso dei vestiti che portava addosso, se non addirittura trascinato dalla corrente e spezzato dai massi che spuntavano, minacciosi come denti di lupo, sopra il pelo dell’acqua.
– I ponti! – disse Bigbott in un sospiro. – Ciò che distingue l’uomo civile dai barbari, che si limitano a evitare il fiume e pregarlo come fosse Dio. Lo temono e ne dipendono.
Sbuffai. – Come i londinesi dal Tamigi – sibilai, scrollando le redini per superarlo con il carro. – Se non esistesse, dove getteremmo tutta la merda che quelli come voi sputano dal culo e dalla bocca?
Non era mia intenzione offenderlo – non così duramente, almeno – ma sentire parlare di barbari in quel modo mi dava sempre un certo fastidio. – Ehi – ringhiò il tenente colonnello tentando di ghermirmi, – sta’ un po’ attento a come parli, chiaro? Pezzo di merda.
– Capo, dagli retta – sussurrò Tom afferrandomi il braccio. – Arriviamo da Charles, gli dici quello che gli devi dire e ce ne andiamo, chiaro? – Si passò le mani sulla faccia, sbuffando, l’unghia del pollice in bocca. – Perché sono venuto con te, eh?
– Perché ti ho salvato dal patibolo e da Bridewell – gli ricordai con un sorrisetto. – Quindi farai quello che ti dico, finchè rimane nella tua zona mentale del “moralmente accettabile”. – Inclinai il capo da una parte mentre i cavalli poggiavano gli zoccoli sul legno del ponte. – A proposito, non è che potresti dirmi perché ce l’hai più con Charles che non con Benjamin?
Si sporse dal carro, osservando gli zoccoli e le ruote che fendevano il sottile strato di neve croccante e mezza sciolta a copertura del ponte. – Semplice – replicò, la voce venata di panico. – Benjamin non ha venduto il culo per il potere. Altre domande?
Alle nostre spalle, immaginavo che Tarleton, Bigbott e il resto della truppa stessero pregando perché il ponte crollasse sotto le ruote del carro. Non li biasimavo. Mi volsi di nuovo a guardare Tom. – Lee non ha venduto il culo. Reginald se l’è preso, come ha fatto con me.
– Però tu ti stai ribellando. E l’avrei fatto anche io, ne avessi avuta la possibilità. So quello che stai per dire, che Birch è persuasivo e tutto il resto, ma l’esperienza mi ha insegnato che niente è più persuasivo di un coltellaccio da cucina nel petto, cazzo! – Nei suoi occhi ardeva una scintilla d’odio. – Eccetto il potere, forse. Ed è proprio ciò che il vecchio gli sta offrendo.
Osservai gli ufficiali britannici dietro di noi che, con estrema eccitazione, ansia e timore, tenevano gli occhi fissi sulla nostra traversata. Sbuffai. – Concordo. Ma, andiamo, Tom, credi davvero che Church non abbia dato il culo per un po’ di potere, una razione in più di sbobba o un altro ciocco di legna per il fuoco? – Sollevai un sopracciglio in un cenno malizioso. – Non l’hai mai fatto?
Mi scoccò un’occhiata sorpresa, scostandosi appena sul sedile del carro. – Dio mio, capo, cominci a farmi paura – sussurrò con sospetto. – Hai dato il culo a Braddock?
– Ma figurati – replicai scrollando le spalle. – Nemmeno morto. Suppongo solo perché Reginald mi aveva comprato il grado di tenente.
– Ti voleva tutto per sé, eh?
Trasalii. Dio, sapeva essere terribilmente crudele, certe volte. Non credo lo facesse di proposito, in fondo. Era un modo come un altro di reagire al dolore. – Suppongo di sì – sussurrai, scacciando quelle immagini, che continuavano incessantemente a risorgere dalla mia memoria. – Ho sentito un sacco di storie, giovani soldati che facevano questo e altro solo per una notte sotto una tenda invece che in mezzo al fango. Dai sottufficiali in giù. Quindi…
– Certo che l’ho fatto – grugnì a testa bassa. – Sei un cazzo di maniaco, capo. Un cazzo di maniaco. – Si grattò la nuca, e con un sospiro pensai a quanto tempo era passato dal mio ultimo bagno. Dio, dovevo puzzare come un cadavere. – Non con Braddock, puoi sognartelo. Ma, be’, è capitato. Con uomini decenti, di solito. Dormire sotto le stelle d’inverno non è poetico come qualche poeta rottinculo vuole farti credere. Specie con quei fazzoletti che chiamano divise. 
– Qualcuno sopra i quarant’anni, mai?
– Che sei, una puttana?
Sollevai una mano, ghignando. – Cercavo di fare conversazione – replicai. – Discorsi che ti facessero sentire a tuo agio. Non vorrei mai superare il tuo...
Scosse la testa. – Qualcuno mi dica perché te l’ho raccontato – sussurrò guardandomi con un sorrisetto. – Su, facciamo un discorso che metta te a tuo agio. Quanti uomini hai ammazzato fin ora?
Emisi uno sbuffo e il carro sussultò quando toccammo di nuovo il terreno. Voltandomi verso sud potevo intravedere la sagoma del forte in mezzo a quel grigio, il colore del piscio molto diluito. Fort Lee. Ci eravamo quasi. Evviva. – Sarebbe più facile dire quanti non ne ho uccisi – brontolai nel grattarmi i favoriti ispidi. Avevo anche bisogno di una rasata. – Fin ora? Tra giubbe rosse, soldati olandesi, Assassini e nemici di vario tipo? Un centinaio, o forse due? Chi può dirlo? Alla fine è solo un numero.
Thomas Hickey ghignò. – Come fai a parlarne così? Insomma… quante persone hanno cercato di ucciderti da quando sei nato? Quanti uomini avrebbero voluto e vogliono ancora oggi puntare la lama alla tua gola? – Mi guardò, grattandosi vigorosamente le palle. – Hai rischiato di essere parte di quel numero per altri chissà quante volte. Come puoi pensare che siano solo corpi?
– Allo stesso modo in cui tu pensi che ogni vagina o ano che incontri sia solo un buco. – Sorrisi, inquietando persino me stesso. – Uccidere per me è come per te il sesso. Sono nato per farlo. Tutto il mio corpo è stato forgiato appositamente per togliere la vita, fin da quand’ero un bambino. Quando hai fatto sesso per la prima volta?
Roteò gli occhi. – Vuoi smetterla con queste domande? Sono cose completamente diverse, cazzo! – Che razza di idiota. Bastava ammettesse che in fondo si divertiva, come sempre quando qualcuno gli poneva una domanda attinente alla sua vita sessuale. – Mi pare di averlo chiesto a una puttana quando avevo dieci o dodici anni. Mio padre mi faceva solo guardare, di solito. – Gli Hickey, la famiglia perfetta. – Avevo accumulato soldi lustrando scarpe per tutta la città, ed ero riuscito a permettermelo. Il mio vecchio mi aveva dato una pacca sulla spalla così forte da farmi quasi cadere in avanti, gridando che è così che spende i soldi un uomo.
Sollevai un sopracciglio. – Visto? È un’attitudine. Omicidio, sesso, guerra. – Mi umettai le labbra, orientando il carro verso Fort Lee mentre gli ufficiali britannici attraversavano quella maledetta passerella. – E tua madre che diceva?
– Niente. Immagino lo sapesse. – Mi scoccò un’occhiata d’intesa. – L’offerta che ho fatto prima al maggiore vale anche per te – disse tastandosi l’uccello. – Se hai sete…
– Scordatelo.
– Era solo un promemoria. Ah, e, nel caso, voglio essere pagato.
– Mi si è già afflosciato.
Scoppiò a ridere, mollandomi una pacca sulla schiena simile a quella di suo padre, perché quasi precipitai addosso al cavallo. – Stronzo! – esclamò, e suonava quasi come un appellativo affettuoso. – Stronzo.
Sorrisi di rimando mentre Tarleton e il suo seguito ci superavano, aprendo la strada verso il forte. – Al forte ci sarà molta gente disposta a farlo. Certo, se menti sul tuo grado accorreranno come pecore, ma anche un sergente può…
Portò un braccio attorno alle mie spalle in un gesto fraterno. – Sai troppe cose sull’argomento, amico – disse, con un colpetto sul mio torace. – Hai ragione. Ci sono uomini nati per il sesso e altri nati per uccidere. Quindi lascia fare ai professionisti – portò le labbra al mio orecchio mentre l'altra mano strisciava lentamente lungo la mia coscia, a un pollice o due dall’inguine – e pensa ai tuoi affari.
Proprio quando pensavo che mi avrebbe stritolato l’uccello fino a farmi sbiancare, si schiaffeggiò con violenza un ginocchio e prese le distanze, scavando nelle tasche alla ricerca del tabacco. – Gesù! – sbottò, ed esplose in una risata. – Avresti dovuto vedere la tua faccia, cazzo!
Gli diedi una spallata con un sorriso forzato. – Sta’ zitto, – brontolai inutilmente. Qualunque tentativo di minaccia sarebbe stato inutile a quel punto, maledizione.
Thomas Hickey continuò a ridere, e io giurai a me stesso che non mi sarei mai più seduto tanto vicino a lui in un carro e avrei intrapreso meno discorsi sul sesso che potevo, perché era in grado di farmela pagare a modo suo, quel bastardo.
E, con il mio pessimo trascorso a proposito di uccelli, l’ultima cosa che volevo era il cazzo di Tom dentro di me.
 
Thomas Hickey lanciò una bestemmia e scagliò il pugnale a terra, cercando di tamponarsi il taglio sulla faccia con un dito. – Porca puttana! – ringhiò tra i denti, sputando tra le pietre del pavimento. – Possibile che in questo cazzo di posto nessuno abbia un rasoio?
Scrollai le spalle. Probabilmente ce l’avevano eccome, ma quando mi vidi allo specchio – specchio, era un pezzo d’acciaio fatto con qualche vecchia spada fusa alla bell’e meglio e lucidato – pensai che non avrei dato a me stesso neanche un pezzo di pane marcio. Avevo visto barboni moribondi per Londra in uno stato migliore del mio. Se non avevo i pidocchi, be’, dovevo solo ringraziare qualche fortunata coincidenza. Non mi aspettavo certo un bagno caldo e sali profumati, ma, santo cielo!, per sciacquarci la faccia dovemmo accostarci alla riva dell’Hudson. – Cani bastardi – sussurrai, passando il filo della spada quasi sulla pelle. – Che possiamo farci?
Mi rispose con un grugnito, raccogliendo il pugnale e provando a rasarsi con lo sguardo fisso sullo specchio. Dopo nemmeno due ore di cavalcata dal ponte, eravamo arrivati a Fort Lee. Non c’erano molti soldati, e quei pochi avevano lo sguardo dei superstiti e occhiaie spettrali, peggio di fantasmi. Me ne intendevo, su quel fronte. Il gabinetto di guerra, soprelevato, sembrava sul punto di crollare, più o mano come le mura e tutto il resto. – Il colonnello Harcourt starà dormendo come al solito – aveva sibilato Tarleton come una vecchia pettegola, sistemato davanti alle doppie porte che non volevano saperne di aprirsi. – Be’, se è Lee che volete, è da Lee che vi porterò, dannazione. Andiamo.
A quel punto, dato che le occhiatacce dei soldati iniziavano a farsi pesanti, gli chiesi un po’ di tempo per lavarci e renderci presentabili. Banastre ci concesse venti minuti. Venti cazzo di minuti, senza darci né un rasoio né una tinozza con un po’ d’acqua. – Vada a ‘fanculo quel piccolo figlio di puttana – ringhiò Thomas, passandosi una mano sulle guance. La barba non se n’era affatto andata, nemmeno dalla mia faccia, e puzzavamo come prima, ma almeno eravamo riconoscibili. Devo ammettere che senza quella peluria sulla faccia faceva un freddo fottuto. – Sai già cosa gli dirai, capo?
Sbuffai. – Spero solo che sia vivo – dissi in un sibilo, le mani in tasca. – Viste le condizioni di questo posto, mi stupirei se avesse ancora tutti gli arti al loro posto e liberi dalla cancrena.
Sollevò le spalle, rinunciando a quella rasatura approssimata e infilandosi di nuovo il pungnale alla cintura. – Chissà, magari lì sotto fa più caldo – sussurrò sognante. – Come al maledetto inferno.
Tarleton sbatté con violenza il pugno chiuso contro la porta ed entrò con un paio di falcate, senza nemmeno aspettare che rispondessimo. – Per la miseria, signore, non abbiamo mica tutto il giorno! – Sollevò la mano per colpire quella di Tom, tutto intento a controllare la bella presenza della propria mascella, ma lui fermò il maggiore con una presa secca e rapida, esperta, e gli scoccò una gran bell’occhiataccia. – Forza – ringhiò Banastre in risposta, indicando la porta. – Toccami un’altra volta e ti appendo alle mura, bastardo.
Thomas sbuffò, osservando la propria immagine riflessa, e si stirò la giacca sul petto con una mano. – Almeno sarò presentabile per la forca – bofonchiò scrollando le spalle.
– Ti metteranno un sacco in testa, quando accadrà – replicò con una frecciatina acida. – Il tuo aspetto è l’ultima cosa di cui dovrai preoccuparti.
– Non sono un idiota, cazzo – brontolò Thomas, le braccia aperte e l’espressione truce. – So cosa succede durante un’impiccagione. – Già, stronzo, l’hai sfiorata. Però non sai cosa significa avere un pezzo di corda intorno al collo, lo sgabello che sparisce da sotto i tuoi piedi e l’aria che non passa, i polmoni non si aprono più e tutto si fa scuro…
Strinsi le dita alla base del naso. Non sai niente di tutto questo. – Maggiore, possiamo andare? – grugnii, scocciato. Quel ragazzo era troppo seccante per i miei gusti. Ubriaco di potere e di sé, forse un paio di bastonate gli avrebbero messo la testa a posto. – Siamo qui per vedere Lee, potete sempre chiudervi in un alloggio più tardi e… darvi da fare come più vi va.
Tarleton esibì un ghigno bastardo e s’allontanò, aprendoci la strada. – Ah, capo – sussurrò Tom affiancandomi. – Non hai idea di quanto voglia scopare.
Roteai gli occhi, stringendo la presa sulla sua spalla. – Vedi di non combinare casini, chiaro? – sussurrai gelido. Fissava Banastre Tarleton con gli occhi del predatore, e mi spaventava, in un certo senso. – Tieni l’uccello nei pantaloni, ragazzo. Hai capito bene?
Sollevò una mano. – Ho capito, capo – rispose sorridendo. – Terrò l’uccello nei pantaloni. – Il suo tono, però, non era affatto rassicurante.
E che diavolo, avevo delle responsabilità su Thomas, non sui suoi istinti perversi. Che si controllasse, Cristo santo.
Attraversammo il cortile del forte, percorso a passo di marcia da soldati con l’aria smarrita e gli occhi vitrei, aggrappati ai moschetti sulle loro schiene come alle poppe delle madri, limitandosi a storcere il naso al nostro passaggio. Solo un mucchio di merda con un odore appena diverso dal resto. Ecco cos’eravamo, per loro.
Banastre si fece aprire un cancello metallico con un cenno e, insieme, cominciammo la discesa verso le viscere della terra. L’unica luce proveniva da un paio di torce alla parete, i gradini sotto i miei piedi, scivolosi e consumati al centro, sembravano senza fine. La scala girava su se stessa, una chiocciola senza capo né coda, e mentre il buio si faceva intenso l’aria era sempre più pesante, umida. Mi passai la manica della giacca sulla fronte, e la sentii completamente coperta di sudore. – Manca molto? – sussurrai, rendendomi conti di essere senza fiato. La salita sarebbe stata una consolazione, in confronto. Almeno avrei respirato come si deve.
– Ci sono latrine profonde un piede e segrete miglia sotto terra – sibilò Thomas, sdegnato. – Siete strani, qua.
– Che vuoi farci? – rispose Tarleton, staccando faticosamente una lanterna dall’anello arrugginito che la teneva appesa alla parete, in equilibrio precario. – Siamo quasi arrivati, comunque. Per di qua.
Per di qua, un’indicazione alquanto inutile dato che vi era una sola direzione, giù. Verso l’inferno, o un luogo che vi si avvicinava parecchio. – Tutti i prigionieri vengono spinti giù per queste scale, quando arrivano – disse il giovane maggiore, pieno di sé persino nel tono. – Così capiscono immediatamente con chi hanno a che fare. Sotto non c’è nemmeno un ratto, muoiono soltanto se non collaborano.
Scrollai le spalle. – O se sbattono la testa contro un gradino, no? – Tarleton si grattò il palato con la punta della lingua ed emise un suono gutturale senza dare segno di starmi a sentire. – Grazie tante. E Charles Lee sta collaborando?
– No, ma è troppo prezioso per lasciarlo morire vittima del sadismo di qualche torturatore. – Tarleton aumentò il passo, cominciando a scendere i gradini di due in due. Nemmeno io ce la facevo più, l’ansia mi stava divorando. Ma, nel suo caso, doveva essere paura. Timore che Lee fosse morto durante la sua assenza, o che l’avessero mutilato, sfigurato, pugnalato ma ancora vivo.
Cornwallis voleva che giocassi un po’ con Charles, o, almeno, così mi aveva detto a Boston. Per fortuna del giovane Banastre, non ne avevo alcuna intenzione. Quando finalmente la scala si allargò in un misero corridoio con porte di ferro e sbarre a ogni lato, Tarleton ridacchiò. – Eccoli qui, i nostri prigionieri! – Quello che le lampade mostravano non era certo un bello spettacolo: arti scheletrici, ventri gonfi, corpi con ferite aperte e mosche a banchettarvi allegramente dentro, monconi d’arti abbandonati nelle loro pozze di sangue secco, resti di uomini a piangere la propria casa, implorando per un pasto.
Ecco a voi, signori e signore, i frutti del civilissimo regno di Sua Maestà Giorgio III. Congratulazioni, vecchio bastardo. – Arrivati! – esclamò Banastre, fermo davanti a un uscio. I suoi occhi erano luminosi come quelli di un giocattolaio che mostra le proprie meraviglie a un piccolo gregge di bambini eccitati, solo che nessuno di noi moriva dalla voglia di entrare in quella cella. Nemmeno io. Eppure avevo faticato e rischiato molto, per giungere fin là. Non potevo mancare le mie promesse, il mio sudore. – Divertitevi. Quando volete uscire, battete qualche colpo e lanciate un urlo. Non ho intenzione di sembrare indiscreto. – Appena muovemmo i primi passi nell’ambiente angusto della cella, Tarleton chiuse di scatto la porta, serrandola. Alla luce, anche il suo giovane viso era imperlato di sudore, e s’allontanò ansioso come un viaggiatore con gli stivali troppo stretti. Un attimo dopo, nuotavamo nel buio più profondo.
Stupido soldatino. – Thomas, fa’ luce.
– Agli ordini. – Lo sfregare dei fiammiferi sulla carta parve rassicurante e l’odore del fuoco mi ricordava le serate davanti al camino di casa, a parlare del più e del meno mentre i Templari, fuori dalla casa, mettevano a punto il piano perfetto per uccidere mio padre. Quando, però, le due lanterne della cella furono accese, quasi me ne pentii.Era cambiato dal Congresso, ed era cambiato da quando mi aveva rapito insieme a Reginald, ma non come immaginavo.
Chissà perché, mi aspettavo che liberarsi del Gran Maestro giovasse un po’ almeno al suo umore, ma non avevo messo in conto il simpatico trattamento che le giubbe rosse solevano riservare ai traditori e ai prigionieri. Charles Lee aveva il labbro inferiore gonfio e tumefatto, due occhiaie livide e marcate appena sopra gli zigomi, resi sporgenti dalle guance scavate e circondate dai capelli lunghi, più crespi e unti che mai.
Sollevò il viso di scatto e nei suoi occhi azzurri brillò una scintilla di speranza nel sentire la serratura scattare, la confortante presenza di altri esseri umani in quello spazio vitale che doveva stargli fin troppo stretto, come un ratto infilato a forza dentro un cunicolo sotterraneo, ma quando mi vide lì, in mezzo alla stanza, attraverso le palpebre strette per la luce improvvisa, la sua mascella scattò come una tagliola, rigida, i denti scoperti in un ringhio. Pensai che quell’espressione sarebbe stonata terribilmente sul volto del Charles gioviale venuto ad accogliermi al porto di Boston, un ricordo cui m’aggrappavo con tutte le mie forze. Persino posando lo sguardo su quel volto emaciato, coperto di lividi e sangue secco agli angoli delle labbra, facevo di tutto per non ammettere che c’era dell’odio nei suoi occhi. Odio nei miei confronti, odio che non avrebbe dovuto provare.
Era come me. Meritava di essere salvato. Io, però, io non avevo nessuno disposto a farlo, nemmeno un’anima ad alleviare il mio dolore, nessuno che se ne facesse carico.
E preferivo aiutarlo, sfottendolo e snobbandolo alla mia solita maniera, piuttosto che mostrarmi debole e lagnoso come mi sentivo dentro. Avrei voluto allungare una mano e toccargli la faccia, controllare che stesse bene come una madre apprensiva con il suo poppante. – Che cosa ti hanno fatto? – avrei voluto singhiozzare. Presi un paio di grossi respiri, boccheggiando nell’aria stantia della cella, e parlai solo quando fui sicuro che la voce non mi si sarebbe spezzata in gola. – Allora – dissi, cominciando in tono sarcastico ma senza sogghignare. Ci pensava Thomas per entrambi, fissandolo come se anche nella sua testa riecheggiassero le parole di Corwallis e avesse l’occasione di sfogarsi su qualcuno d’inerme. – Da quanto tempo sei qui in astinenza, eh? – Convivere con Tom Hickey per qualche tempo rende piuttosto facile offendere qualcuno per prima cosa dal punto di vista sessuale. E, lasciatemelo dire, Charles era il bersaglio perfetto.
Le sue labbra si ritirarono ulteriormente e un rivolo di saliva rosata scivolò giù, verso la barba lunga e ispida. – Nemmeno così tanto – rispose debolmente, cercando di usare il suo tono più minaccioso. Ovvero, una specie di guaito. Tutto il suo corpo, appeso al muro per i polsi, tendeva mollemente in avanti, abbandonato e terribilmente scarno. Ogni movimento della sua testa era accompagnato da un brusco spasmo delle braccia, i bicipiti tesi nello sforzo di sollevare il busto e guardarci in faccia con l’antico orgoglio. Stavolta era lì, alla mia mercé, e io potevo fargli tutto ciò che volevo. Tranne liberarlo o ucciderlo, ovviamente.
Thomas ondeggiò il bacino in un gesto piuttosto esplicito, sogghignando apertamente. – Anche qui si danno da fare, eh? – Scoppiò a ridere, colpendo il suo viso con uno schiaffetto. – Via, dolcezza, intendevamo astinenza dal cazzo di Reginald. – Lo prese bruscamente per i capelli, facendo scattare la sua testa all’indietro e sussurrando, le labbra accostate all’orecchio: – So che ti manca, Charlie, oh, ammettilo. Nessuno dei miseri uccelli flosci di questi bastardi può cancellare il ricordo del Gran Maestro, vero? – Tom infilò l’altra mano sotto la camicia sbrindellata di Charles mentre osservavo la scena con un groppo in gola. Una parte di me era inquietata, quasi sconvolta, ma un’altra era stranamente eccitata. Scrollai le gambe, sentendo un dolorino d’avvertimento lì in mezzo. – Il magnanimo… – Thomas sorrise, passando le dita attorno ai capezzoli di Lee. Il suo petto era così smunto che si riuscivano a contare le costole, e aveva un brutto livido sul fianco destro. –…e focoso Reginald Birch.
Il viso di Charles sbiancò di colpo, come se il solo ricordo gli facesse male al culo. Lo capivo. Non fosse passato tanto tempo, probabilmente avrebbe fatto male anche a me. Eppure sembrava che al mio corpo non importasse nulla del suo dolore, perché tutto il sangue non sapeva se correre all’uccello, per drizzarmelo definitivamente, o alla faccia, per contrarre i muscoli e farmi scoppiare a ridere, maligno. Charles non era un santo, e per quanto gli volessi bene aveva cercato di uccidermi. Due volte. Se io non avevo la forza di fargli del male, be’, che Thomas dirigesse lo spettacolo come più gradiva. Non era divertente, e non dava nemmeno soddisfazione, ma quel calore al cazzo era già qualcosa. – Chiudi il becco, pezzo di merda! – Charles emise un ringhio grondante bava e scrollò debolmente il corpo, ansimando. – Bastardo… maledetto…
– Ssh… – Thomas… Dio, devo ammettere che quel cazzone mi metteva una certa inquietudine addosso, specie quando usava quel tono. Non era normale. Sembrava divertirsi. Era sempre stato un folle figlio di puttana, ma fin da quando li avevo uniti, ormai più di vent’anni prima, era perfettamente chiaro a tutti noi che Charles e Thomas erano due randagi che litigano per un pezzo di carne. Si disprezzavano reciprocamente, nonostante i loro mi fossero sempre sembrati solo litigi da vecchi sposini inaciditi. Cose su cui scherzare, come il menefreghismo di Thomas verso la cultura e l’adulazione di Charles, che il primo interpretava spesso e volentieri come lecchinismo fatto e finito, nei confronti del sottoscritto.
Lo sguardo di Thomas fiammeggiava, invece, e quel poco di eccitazione si era trasformato definitivamente in ansia. Non voleva salvare Charles, non aveva alcuna intenzione di tirarlo fuori di lì. D’accordo, non ne saremmo comunque stati in grado, ma nei suoi occhi non c’era alcuna pietà.
Non sembrava affatto un uomo che non ha più intenzione di fare del male, di uccidere. Aveva appena portato un dito sulle labbra di Charles, dolcemente, in un gesto che doveva aver preso in prestito da qualche puttana. Era il suo – il nostro, in fondo – modo di sfotterlo. Di fargliela pagare. Solo che non ero abbastanza forte da infliggerglielo personalmente, avevo un nodo in gola al solo pensiero. Forse perché sapevo che cos’aveva passato, o forse semplicemente perché sono sempre il solito codardo bastardo. Così come non farà mai del male a Benjamin. Siete uguali. – Credi forse che non possa capirti, Charles? – sussurrò con voce lamentosa e musicale. Mi fece venire i brividi e un capogiro. L’idea che Reginald potesse usare quelle stesse parole, gli stessi atteggiamenti con me, anche se molti anni prima, mi traumatizzava più dell’atto in sé e per sé. Birch li aveva scelti bene, i propri galoppini. – Che non sappia cosa significa o non abbia mai provato un uccello nel culo? Io… so quello che provi, davvero. – Si passò la lingua sulle labbra, meccanico, un’espressione stranamente dolce e perversa in volto. – Da quanto tempo? – Vidi le dita di Tom insinuarsi lentamente nei pantaloni di Charles, sul retro. Mi si formò un groppo alla bocca dello stomaco, che non voleva sapere di sciogliersi o sfociare in un conato di vomito. Sentivo il sangue rombare nelle orecchie come l’eco di uno sparo. Eppure non riuscivo a distogliere lo sguardo, dannazione. Il sangue correva, sbatteva contro le vene, e io sapevo solo guardare. Tutto il corpo di Charles s’irrigidì mentre quel maledetto maniaco giocava con lui. Si morse le labbra con i denti ingialliti, torturando le croste e facendo ricominciare la carne a sanguinare. – Sì, vero? Era proprio così…
Thomas caracollò indietro, schiantandosi contro la parete sudicia della cella. Sarebbe cascato in terra se il suo bolso non fosse rimasto bloccato tra la cintura dei calzoni e il culo di Charles. – Capo, che diavolo fai? – berciò con una smorfia stupefatta. – Dovrò comprare un’altra giacca, cazzo!
Senza nemmeno rendermene conto, avevo reagito. Gli avevo mollato un sonoro spintone sul petto, avanzando di un paio di passi. Che mi era preso? Avevo deciso che Charles mi faceva pena? Strinsi il dorso del naso tra indice e pollice. Sei proprio un rammollito, cazzo. – Togliti dai piedi – sussurrai, cercando di moderare la mia rabbia. Stavo fremendo, e ce l’avevo con lui, con Charles, con Reginald, ma soprattutto con me. Con me stesso e con la mia fottuta viltà. – E cerca qualche altro culo in cui infilare le dita, maledizione.
Mi scoccò un’occhiata confusa, in cerca di risposte che non sapevo dargli, dopodiché alzò le spalle, scostò la cintura consunta e sfilò la mano dai calzoni di Charles, mollandogli una sonora pacca sulle chiappe e gongolando nell’appoggiarsi alla porta della cella. – Dannato maniaco di merda – mormorai in tono così basso da non essere nemmeno certo di averlo detto davvero. Mi schiarii la voce nel rivolgermi a Charles. – Stai bene? – La mia voce suonava strana. Mi sforzavo di non sembrare uno che sta per scoppiare a piangere da un momento all’altro, ma il singhiozzo che preannunciava le lacrime era lì, bloccato in gola, ed era mio compito tenercelo bloccato il più a lungo possibile, senza lasciare che sfuggisse al mio controllo.
Dopo il trattamento di Thomas non m’aspettavo niente di meno di uno sputo in faccia, ma i lucidi occhi azzurri di Charles si poggiarono nei miei, intimoriti. Non pensavo bastasse davvero così poco per atterrire un uomo, specie dopo tutto ciò che aveva vissuto. Noi inglesi siamo mai stati dei grandi gentlemen con i traditori. Credo che chiedergli di resistere sarebbe stato troppo. Dov’è Reginald, Charles? Stranamente, sentivo un sorrisetto di soddisfazione piegare le mie labbra, nonostante vederlo in quelle condizioni fosse quasi doloroso. Ci sono solo io. La stessa storia, tutte le volte. Non è mai come ci aspettiamo. – Sai bene? – ripetei. Tutta la pietà che avevo provato per lui sembrava essere stata sostituita da una gelida cattiveria. Non sentivo più niente nel petto, nessun singhiozzo, niente che potesse invogliarmi a trattarlo almeno come il vecchio amico che credevo fosse. Avrei preferito accarezzare uno dei bastardi rabbiosi e pieni di pulci che intasavano la città piuttosto che toccarlo. Appena l’avevo visto non desideravo altro che portarlo via di lì, salvarlo, ma avevo capito un paio di cosette mentre Thomas si sfogava. Non ero mica Gesù Cristo. Non ero lì per donargli la salvezza eterna, e non avrei rischiato in un forte britannico pieno di uomini armati solo per lui. Sarebbe arrivato il momento giusto, senza ombra di dubbio, ma non era quello. Avevo momentaneamente rinunciato al suo appoggio perché non potevo fare altro. Tutto lì. 
– Sì – sussurrò agitando la testa su e giù. Dal suo angolo, Tom emise un risolino. – Sì. Credo. – Era spaventato, un naufrago che aveva bisogno di essere tirato a galla. Oh, ma fortunatamente ci sono quei bei catenacci a tenerti al muro, a impedirti di annegare.
Annuii con un cenno distratto. – Mi fa piacere – risposi. Non ne ero poi così sicuro. – Non vedevi il vecchio Hickey da un po’, eh?
Thomas avanzò, le braccia incrociate sul petto e un grosso sorriso da predatore. – Sempre un gioia, fratello – lo sbeffeggiò con una riverenza.
Charles tese il capo verso di me come una bestia assetata e abbandonata a se stessa. – Che cosa ci fate voi due qui? – chiese in un sussurro. – Vuoi provare a uccidere anche me? Ti sei rivolto a questo bastardo sanguinario per farmi fuori perché sei troppo vecchio per…
Non aveva nemmeno finito di parlare e Thomas gli era già addosso, stringendogli la faccia tra le mani. Non gli avrebbe infilato niente che non fosse una spranga di metallo tra le chiappe, questa volta, non era in vena. – Starei attento a non provocarmi, Charlie – sibilò, e gli diede un buffetto tutt’altro che amichevole. – Kenway potrà essere il magnanimo sentimentale che vuole, ma io a te non devo nulla.
– Thomas, non complicare le cose. – Lo presi per la giacca sporca di muffa e umidità per allontanarlo da Charles. – Siamo qui per discutere da uomini civili. – Quale uomo civile prima di discutere non infila le dita su per il retto dei suoi cari e vecchi amici, eh? L’intera situazione era così bizzarra da sembrare divertente. – Discutere – presi a camminare avanti e indietro per la cella con le mani giunte – di Benjamin Church. Pare che ci sia stato un buffo equivoco o mi sia perso qualcosa, ma vi siete scambiati di esercito.
Tom s’appoggiò ansante alla parete, un piede contro le pietre nude e la testa reclinata. Stringeva i pugni e la mascella, tutti i tendini in evidenza. Si prospettava un incontro magnificamente tranquillo. Dio santissimo. – Davvero divertente! – mormorò Charles con i denti scoperti. – Così spassoso! Quel cane mi sta facendo quasi ammazzare!
Mi strinsi nelle spalle. – Io direi che ti sta tenendo in vita, invece. E se sei tanto stupido da non capirlo, direi che non meriti nemmeno quattro chiacchiere di conforto. – Ah, quanto avrei voluto che ci fosse Reginald appeso a quella parete. Sarebbe stato perfetto, ma sono abituato agli inconvenienti. Dopo tutti questi anni… – Come hai fatto a farti beccare?
– T’interessa davvero? – grugnì, gli occhi ancora lucidi. Non sapevo se compatirlo. Si faceva scudo con l’arroganza, ma, Dio!, non c’era niente da cui dovesse proteggersi, o quasi. Era stato Reginald ad averlo manovrato e abbandonato lì.
Oh, al diavolo. Nessun Gran Maestro aveva fatto la storia baciando i piedi dell’imbecille che lo aveva quasi impiccato, per quanto vi fosse legato. Feci un cenno a Thomas e, senza che avessimo concordato alcunché, affondò un vigoroso cazzotto nel suo stomaco, lasciandolo afflosciato a dondolare dalle catene, senza fiato. – Rispondi e basta, Charles. – Prese a tossire come un vecchio, cercando di succhiare un po’ di quell’aria ammuffita. Povero idiota. – O preferisci che ti lasci solo con Tom a ricordare quanto sia bravo a letto Reginald?
– Ah, non ci tengo – brontolò Hickey massaggiandosi il pugno con una smorfia. – Godrebbe e basta.
– Già – assentii con un sorrisetto. – E mi pare alquanto evidente che non siamo qui per farti godere, Lee. Ti prego di rispondermi e lasciare che questa amichevole conversazione prosegua senza troppi intoppi. Il generale Corwallis ci ha lasciato ampia libertà su di te. Basta non ucciderti. – Sbuffai. – Altri uomini si sarebbero illusi di essere salvi, in questo modo, ma ci sono cose peggiori della morte, vero? Dopo aver passato una vita a uccidere e infliggere dolore lo capisci, lo impari. Lo sappiamo bene tutti e tre. – Infliggere a volte è peggio che subire. Giusto, Tom?
Mi voltai a guardarlo mentre roteava gli occhi e mollava una pacca sulla schiena di Lee per aiutarlo a riprendere fiato. – Cretino – mormorò mentre quello ansimava e sgranava gli occhi, tornando alla sua confortevole posizione contro il muro della cella. – Ti conviene parlare, donnicciola del cazzo.
Charles sollevò gli occhi su di me, piano, passandosi la lingua in mezzo alle labbra con lo sguardo di un  cucciolo bastonato. Se mi guarda ancora in quel modo glieli stacco dalla faccia, gli occhi. Non poteva semplicemente rispondere, dire come stava senza quell’inutile doppia faccia? Eravamo amici di vecchia data. Di che cosa poteva avere paura, tolto l’uccello di Tom? Dov’è finito il valoroso ufficiale dell’esercito, il cane da guardia di George Washington, che abbaia e morde a comando? È rimasto fuori di qui, Charles? In strada? – Ero in servizio. Reginald mi ha suggerito di tornare e tenere d’occhio Washington. Stavo bevendo un po’ quando quella fighetta ci ha catturati. Tarleton.
In cuor mio pensavo che Charles Lee non fosse nella condizione di dare della fighetta ad alcuno, ma volevo almeno lasciargli la libertà di esprimersi come gli pareva. – Già, ce l’ha raccontato. – Affondai le mani nelle tasche, proseguendo a rumoreggiare per la cella. – Reginald sa dove sei?
– Lo sa Washington. Quindi direi di sì. – Si mordicchiò le labbra, ci lanciò un’occhiata alla ricerca di conforto. Non ne avrebbe mai trovato in Thomas, poco ma sicuro, e nel frattempo io non sapevo cosa pensare. – Mi farà uscire. E Benjamin tornerà in mezzo alle giubbe rosse.
Non c’era niente per cui annuire, ma lo feci comunque, come un tic. – Lo ucciderete? – Thomas si stava torturando le unghie con i denti, ma riuscì comunque a porre l’unica domanda cui fossimo davvero interessati. Charles gli puntò gli occhi addosso, di scatto, e lui nemmeno si smosse. – Ben. O non ve ne frega niente?
Lee sospirò. – Birch lo considera fuori dall’Ordine. Come te – sibilò indicandomi con un cenno, – e non è una priorità. Non farà del male a nessuno, in fondo.
– Be’, è un medico. – Thomas Hickey mi guardò con le sopracciglia aggrottate. – Che c’è? Cercavo di sdrammatizzare. – Mi strinsi nelle spalle, facendo schioccare la lingua. – Dimmi che cos’ha in mente quel bastardo, Charles. Reginald.
– Non lo so – disse sottovoce, abbassando le palpebre sugli occhi lucidi. – Davvero, io… credo stia aspettando. Aspettando te, Kenway.
Mi voltai verso Tom, che rispose alla mia occhiata facendo spallucce. Grazie. Stava aspettando me. Bene. – Hai perso, Haytham. Non hai mai avuto nemmeno una possibilità di vincere. – Parve ritrovare un briciolo di dignità e forza interiore, pronunciò quelle parole con tutta la rabbia di cui può essere capace un uomo appeso a una parete. – Avevi già perso quando ha ucciso tuo padre.
Strinsi i pugni un istante. – Capo? – Thomas posò la mano sul mio braccio, avanzando appena. Sentivo il suo fiato dritto in faccia, mi concentrai su di lui per mantenere la calma e non saltare al collo di quel bastardo. – Vuoi…?
Lo scacciai sollevando una mano, scrollai il capo e mi morsi la lingua per non reagire. Non lo ucciderò, pensai aprendo di scatto gli occhi. Ma non impeditemi di dargli una lezione. Per favore. Presi fiato, senza confidare troppo in un assenso da parte di Minerva e Giunone, quindi mi voltai, i denti stretti, puntando l’indice contro Charles. – Sai una cosa, Charles? – sibilai a pochi pollici dal suo viso.
Poi mi fermai. Che cosa avrei dovuto dire, eh? Che ero arrivato fin lì facendo morire un Assassino con le migliori intenzioni, per trovare un accordo, per fargli capire che ero dalla sua parte e rassicurarlo un po’ e invece mi ero trovato davanti a un rottinculo ingrato che non aveva intenzione di fare nulla per me? Avrei dovuto fare la figura della femminuccia, del sentimentale?
Gesù Cristo, mai. Non quando mi aveva trattato in quel modo. Con un risucchio, mi feci risalire del catarro in bocca e glielo sputai su una guancia. Sussultò, come gli fosse arrivato in faccia uno schizzo di sangue caldo, e mentre mi pulivo la bocca con una manica del cappotto rubato, sibilai: – Ingrato figlio di puttana. Andiamo, Thomas.
Presi a battere l’elsa della spada contro le sbarre e la porta metallica.
Avevo sbagliato tutto. Non sarei mai dovuto andare a New York. Sarei dovuto rimanere a Boston con gli Assassini, chiuso in una locanda a guardare il mondo scorrere attorno a noi, con una mano nei pantaloni e l’altra a grattarmi la testa nella vana attesa di mio figlio o dell’uscita di prigione di Benjamin Church. – Sì, abbiamo capito, basta fare casino! – La voce di Tarleton pareva quella di un angelo dal paradiso. – Aprite.
La porta si spalancò e uscii con le mani sollevate per l’esasperazione. – Finalmente! – grugnii nell’oltrepassare le giubbe rosse. Alle mie spalle, Thomas Hickey si voltò un’ultima volta, esibendo quel suo ghigno da malefico bastardo, quindi portò una mano alle labbra e soffiò un bacio verso Charles.
Non sarei mai stato in grado di salutarlo in modo migliore, lo ammetto. 

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Capitolo 44
*** Solo una bevuta. ***


I'm back, folks! 
Scusatemi davvero per aver saltato la scorsa settimana, e senza nessun preavviso, per giunta. Si tratta di una lunga e memorabile storia di compagnie telefoniche e divergenze tecniche con il modem che ci hanno tenuti isolati dal resto del mondo per la bellezza di un'intera settimana. 
Sì, la mia sociopatia era a mille. A mille. 
Va beeeeeene, ringrazio comunque chi recensisce e chi legge, siete la meraviglia.
E io non so scrivere un ringraziamento che non sia banale come la merda. Scusate. 
D'accordo, la smetto con questa roba e vi lascio al capitolo, ci vediamo la settimana prossima!
Some kind of sociopath.
                                                                                                                                                                                                                                                          
 
No one has the power to hurt you like your friends.

– India.Arie, Get It Together.
 
She said: “Drink, drink, drink,
Oh, fiddle-de-dink,
I can dance with a drink in my hand.”
– Elvis Presley, Bossa Nova Baby.
 
Quando avvistammo il forte, in attesa di vedere sbucare, poco più avanti, le porte di Boston e i viali poco trafficati del primo mattino, Thomas mi scoccò l’ennesima occhiata di scherno. Chiuso nella mia delusione, non avevo aperto bocca da quando avevamo lasciato Fort Lee, Banastre Tarleton e i suoi soldati, cercando di non pensare a tutti i miei errori. Continuavo a riporre fiducia in bastardi senza via d’uscita, ma di chi altro può fidarsi un figlio di puttana, se non di qualcuno che almeno lo eguagli?
Thomas Hickey non aveva mai smesso di guardarmi con un sorrisetto in faccia, e per quanto cercassi di ignorarlo sentivo la sua risata pronta a esplodermi in faccia, fragorosa. Dovevo affrontarlo, prima o poi. Lo guardai di sbieco, esasperato. – Fallo – brontolai premendo con i talloni i fianchi del cavallo, uno dei due vecchi ronzini strappati dal carro, un gentile regalo da parte dell’Esercito Britannico. Come a dirci che non saremmo mai più dovuti tornare da quelle parti, e probabilmente avevano ragione. Non ci sarei mai dovuto andare. – Di’ pure quello che devi dire.
– Oh, no! – Si sfregò le mani, se le portò a coppa alla bocca e vi alitò sopra, poi mi rivolse il suo sorriso sarcastico. – Sei tu che devi dirlo, capo. Io insinuo e basta.
Sollevai un sopracciglio. Non poteva averle tutte vinte, in fondo. – Conosci il verbo insinuare? Questo mi stupisce molto più del comportamento di Lee. – Sapevamo entrambi quale fosse il centro intorno cui continuavamo a girare come ragazzini immaturi. Qualcuno doveva pur aprire il discorso. Sgonfiai le guance in uno sbuffo, massaggiando le tempie con due dita.
Si stiracchiò, le braccia tese dietro la testa, e fece scrocchiare il collo da entrambi i lati. La palizzata dell’ultimo avamposto prima della mura si stagliò davanti a noi oltre un mucchio di neve. – Quello non è mai stato una sorpresa – biascicò nel mezzo di uno sbadiglio. – Coraggio. Sto ancora aspettando.
– E va bene! – sbottai roteando gli occhi. Che razza di bambino, ma sapevo essere peggiore di lui. Chiedete agli Assassini. – Mi sono sbagliato, d’accordo? È stato un viaggio a vuoto e quel London è morto per niente. – Ma le morti nella Confraternita non sono mai vane, no? – Credevo fosse diverso, che ci avrebbe aiutato. Spalami in faccia tutta la merda che vuoi, su.
Sollevò le mani in segno di vittoria e allungò un braccio tra i due cavalli per darmi una pacca sulla schiena. – Finalmente, capo! Hai finalmente avuto le palle di dirlo! – Scoppiò in una risata cavernosa, cupa e un po’ inquietante. Metteva i brividi, ma era tanto che non sentivo qualcuno ridere in quel modo. – Charles Lee è un pezzo di merda più grosso di quanto immaginassi, vero? Non è più il tenero ragazzino che si faceva quasi prendere a schioppettate per te. Birch l’ha cambiato e non puoi farci niente. Arrenditi.
Storcendo le labbra, cercai di non sembrare una ragazzina sentimentale. – Non lo conosci come lo conosco io. – Niente da fare, era più forte di me. Di lì a qualche giorno probabilmente mi sarei comprato gonnella, ventaglio e una cuffietta. – Né lui, né Birch. E poi tu e Charles non siete mai andati d’accordo.
Mi scoccò una stana occhiata. – Era una bambina saputella che non accetta la sconfitta e ti avrebbe seguito ovunque. Anche all’inferno o sulla forca.
– E come avrebbe fatto Birch a portarlo via? A convincerlo che sacrificarsi per il suo prode cavaliere era la mossa sbagliata? – Sollevai lo sguardo al cielo velato di nuvole bianche w lanciai un sospiro.
Ridacchiò tra sé e sé, passandosi una mano sulla faccia. – Capo, non sai quante battute mi stiano venendo in mente riguardo te e la tua principessina, ma cercherò di restare serio. – Si drizzò sulla sella e prese le redini in una mano, gesticolando come un oratore dei tempi andati. – L’hai deluso. Hai deluso Charles, me e tutti gli altri, ci hai abbandonati come cani troppo vecchi per partecipare alla corsa di quest’anno. – Prendendo un gran respiro, fece un cenno di saluto ai soldati di guardia sul parapetto dell’avamposto, che risposero agitando i moschetti nella nostra direzione. Oltrepassammo il portale nel silenzio, e desiderai non avergli mai posto quella domanda. – È semplice raccogliere gli scarti e rimetterli in piedi quando hanno perso tutto. Per te sarà molto più difficile, soprattutto perché Charles è un idiota che non sa prendere decisioni con la propria testa. – Sputò sul sentiero, raschiando con la lingua in bocca. – Birch l’ha mandato a morire in mezzo agli altri soldati e s’è fatto catturare come un poppante. Da quanti anni sta nell’esercito, eh? Ho conosciuto pivelli più furbi.
Mi strinsi nelle spalle. Per strada c’erano solo i soldati di pattuglia e i primi contadini diretti al mercato. L’inverno era un fottuto periodo di magra e astinenza per tutti, nessuno poteva concedersi gli sfizi della primavera e dell’estate. I campi non erano altro che distese di terra secca e fango coperto di neve, per cui tutti puntavano sulla pesca. Qualunque stagione tu scelga, ci sarà sempre un grosso pesce abbastanza stupido da farsi beccare. – Non è mai stato un eccellente stratega – brontolai con le labbra congelate.
– Già. È più bravo a parlare, quel coglione. – Scosse violentemente il capo e diede di sprone, allineandosi sulla destra della strada. – Sei ancora convinto di voler uccidere Benjamin? – Eccolo lì, l’altro argomento di conversazione che toccavamo più spesso. Ucciderlo o no? Che stress.
– Qualcuno deve pur mantenere l’ordine in questo maledetto mattatoio – sibilai nell’indicarci con due dita. – Eliminare i parassiti e tenere dalla nostra parte chi se lo merita.
Mi zittii, senza sapere bene come andare avanti. Non volevo essere costretto a prenderlo nuovamente a pugni, né tantomeno mi andava di strillare come una comare davanti a tutti quei soldati. No. Che discutessimo civilmente o non discutessimo affatto, dannazione. – Adesso mi capisci, eh, capo? – Gli scoccai un’occhiata bieca. Tom non riusciva proprio a levarsi quel ghigno di merda dalla faccia, e proprio perché sapevo che aveva ragione non riuscivo a tollerarlo. Non mi andava giù di essermi sbagliato. Non su Charles. – Lo so. Da lui ti aspettavi fedeltà, affetto o un'altra stronzata simile, e non hai avuto un cazzo. – Si strinse nelle spalle, sbracato sul cavallo, e distolsi lo sguardo per sputare a terra. Quanto avrei voluto farlo dritto sulla sua faccia. – Con Ben potrebbe succedere la stessa cosa. E se avesse un piano?
– Avrebbe mandato qualcuno a dirmelo – ringhiai con frustrazione. – Non è il tipo da architettare grandi imprese da solo. Non lo è mai stato. – Piccole vendette e molto denaro da sperperare cercando di sembrare un uomo migliore, più acculturato, più dignitoso. Ecco cos'era Ben Church, un bastardo come chiunque altro. Reginald aveva sbagliato a volerlo con sé. Che cos'aveva, poi? Nemmeno mi fosse poi tornato così utile nella caccia o nella ricerca della Chiave.
Immagino che fosse sempre un uomo in più da rivoltarmi contro, per il mio buon vecchio Gran Maestro. – Ben vuole schierarsi perché non ha mai aspirato a molto di più. Si è abbassato, ha perso di vista il disegno generale per il dettaglio.
– L'hai fatto anche tu, eh. Solo che il tuo dettaglio era a forma di figa.
Per una volta non riuscii a ridere. Effettivamente aveva ragione, di nuovo. Le donne mi avevano distolto dal mio obiettivo, distratto. Tiio, Jenny, in parte Alice. Meglio vivere di puttane, allora.
Oh, andiamo, ma chi volevo prendere in giro? Nessuna puttana sarebbe mai stata come Tiio. – Tom, quando capirai che ho ragione mi ringrazierai. Dirai di essere stato un idiota. – E lo era stato, eh, ma aspettarselo da Hickey era davvero troppo.
– Difendi Charles senza nessuna prova.
– Non ne ho mai avuto bisogno.
– Ma a impiccarti c'era pure lui, no?
– E c'eri anche tu, mi pare! – sbottai. Stavo perdendo la pazienza, con lui come con tutto il resto. – Benjamin Church ci ha traditi scegliendo di favorire la causa della Corona, anteponendola alla nostra. – Scrollai le redini in un gesto scocciato. – Avrà ciò che merita.
Thomas scosse la testa. – Andiamo, Haytham, io avevo scelto di favorire la causa di un mucchio di figli di puttana bravi a colorare la carta per arricchirmi. Eccome se l’avevo anteposta alla nostra. Però sono ancora vivo, e spero tu non abbia intenzione di…
Lo interruppi bruscamente. Ne avevo abbastanza delle sue stronzate. – So che ti eri allontanato, ma hai un'altra testa. Non sei come Ben e anche se non vuoi darlo a vedere, non fai tutto questo solo per il denaro.
Si stiracchiò di nuovo, un gran ghigno stampato in volto. – Oh, vero, lo faccio anche per il piacere della vostra compagnia, Mastro Kenway. Vi prego, Mastro Kenway, passatemi l'altro piede, così posso leccarlo per bene! – Roteò gli occhi, ponendo fine alla sua beffarda imitazione di Charles. – Ben è uno di noi.
Inutile discutere con quel mulo. – Ha fatto la sua scelta e ne pagherà le conseguenze. – Ero pronto a ribadirgli il motivo per l'ennesima volta. Non avevo più nulla da perdere. – Io non sono persuasivo come Reginald, non posso convincerlo a tornare dalla mia parte. E ogni uomo fuori dal mio esercito può quasi sicuramente finire nel suo. Ecco perché lo farò, che tu lo voglia o meno. – Scossi le redini in un gesto secco e frustrato mentre il cavallo sotto di me nitriva tutto il suo disappunto. – Istinto di sopravvivenza. E poi io e Benjamin non abbiamo bei trascorsi – grugnii guardando dritto di fronte a me. Le insegne coperte di neve pendevano davanti alle porte delle taverne, il ghiaccio aveva formato una lastra scivolosa in mezzo alla strada e quei pochi uomini che giravano per la città sembravano usciti da una tomba. Maledetto inverno. – Credo che…
– Perché non me ne parli, cazzo, invece di supporre, credere e blaterare a vuoto?
Mi aveva afferrato per la manica della giacca, tirandomi violentemente verso di sé, i denti stretti e un’espressione non proprio raccomandabile. Scese leggiadro da cavallo, mollando una pacca sul mio ginocchio. – La locanda è dietro l’angolo. Facciamo una passeggiata. – Era un tono che non ammetteva repliche, e che altro avrei dovuto fare? Continuare a tenermi tutto dentro? Al diavolo. Al diavolo me, le mie idee, il mio dannato modo di fare da ragazzina, Benjamin Church e tutto il resto.
– Hai qualcosa da fumare? 

Scesi da cavallo, seguendolo nell’intricata ragnatela di strade della città, molto più caotica di New York, per quanto piccola fosse. Non c’era uno schema in quelle vie, curvavano a destra e a sinistra in modo del tutto casuale, e l’idea che per arrivare alla locanda dovessimo attraversare quasi tutta la città, da est a nord-ovest, mi atterriva. Almeno avrei avuto un po’ di tempo per chiacchierare con Thomas. Seguimmo la Newbury, che per un tratto seguiva la palizzata, curvando successivamente verso il mare, a ovest. Non c’era ancora molta gente, e Tom stava riempiendo il focolaio della pipa con estrema lentezza. – Ti interessa davvero questa storia o è solo una scusa per fermarci da qualche parte e non rivedere quelle teste di cazzo? – gli chiesi con un’occhiataccia.
Rispose scrollando le spalle. – Entrambe, diciamo. Dai, comincia pure. Non che abbia fretta. – Stringendo la pipa tra le labbra, sfoderò un pacchetto di fiammiferi e diede fuoco al tabacco, prendendo un paio di ampi respiri.
– Non hai proprio nessuna intenzione di farmi fumare un po’, eh? – Incassai la testa tra le spalle con una certa disperazione. Non avevo nessuna voglia di parlare degli affari miei con Thomas Hickey. Conosceva fin troppo della mia vita, ma forse quello glielo dovevo.
Affondò le mani nelle tasche. – Mi hai chiesto se avevo da fumare, non se ero disponibile a favorire. – Si tolse la pipa dalla bocca e soffiò il fumo fuori, sollevando pigramente gli occhi nel seguirne il movimento nel cielo grigio. – Dio santo, capo, sto per tagliarmi le palle. Muoviti a raccontare le tue interessantissime avventure al fianco di Ben, prima che cambi idea e decida di impiccarti di nuovo. – Mi guardò con un sorrisetto, stringendosi nelle spalle in attesa che mi decidessi a parlare.
Prima di dire qualsiasi cosa gli tirai un pugno sul braccio, come un ragazzino. Svoltammo nelle strade meno trafficate, quelle che affiancavano il porto, e mi decisi a rompere il ghiaccio. Ne avevo abbastanza di essere guardato come un sanguinario da Thomas Hickey – lo stinco di santo per eccellenza – solo perché non conosceva Ben come me.
– Fin dall’inizio – sussurrai espirando piano, come fossi io a fumare, e guardando le volute candide uscire dalla bocca di Thomas e salire nel cielo invernale. Avrei dovuto capire subito che non avrebbe sprecato nemmeno la più ridicola dose di tabacco per me. Perché ancora non mi ero deciso a comprare una pipa e dello stramaledetto fumo? Troppi complotti, troppi marinai a fottermi i soldi, troppo poco tempo e la mia passione per l’alcool. Mi sembrano motivazioni sufficienti. Lo scrutai di sottecchi. Doveva avere anche una fiaschetta addosso, ma non gliel’avrei chiesta nemmeno in cambio della salvezza eterna. – È stato un personaggio strano fin dall’inizio, Benjamin Church. Sapevi che stava con i Figli della Libertà?
Balzò indietro, fingendosi indignato, una mano sul petto e la bocca mezza aperta. – No! Dio, ho bisogno di sedermi. – Fece schioccare la lingua, tronfio della sua stessa battuta, e sollevò un sopracciglio con aria di supponenza. – E allora? Che importa?
– Se la smettessi di interrompermi potrei anche spiegartelo, cazzo! – replicai colpendo la sua nuca con uno scappellotto. Non era come Charles, lui, non era mio figlio. Era più il fratello minore che mi era sempre mancato. – Benjamin è un uomo ambizioso, Tom, e con la vecchiaia lo è diventato ancor di più. Allora cercava un dialogo con i Figli della Libertà per fermare la guerra prima ancora che scoppiasse, si sentiva l’unico in grado di far convivere pacificamente la madrepatria e le Colonie.
Thomas ghignò, battendosi sul polso la pipa per far uscire la cenere. – Peccato che come diplomatico faccia schifo. – Sollevò la pipa in un cenno, ma declinai scuotendo la testa. Mi era passata la voglia di fumare. Come capita solitamente in queste occasioni, non hai mai voglia di parlare finché non apri bocca, allora le parole escono da sé, trovando il giusto ordine, ed è quasi impossibile serrare le labbra e frenarsi.
Promisi silenziosamente a me stesso che non mi sarei lasciato scappare niente di compromettente o che potesse farci notare dai soldati. – Non fa poi così schifo, ma è convinto di poter fare tutto da solo, che altalenare tra le due fazioni cercando di far capire che la collaborazione non è poi così male lo renda più apprezzato. – È riuscito solo a farsi odiare dall’Esercito Continentale per averlo tradito e dalla Corona per averla cacciata nei guai. Se Tarleton non avesse trovato Charles… Scrollai il capo come un cavallo esausto, facendo il possibile per mantenere la concentrazione. Sentivo un principio di mal di testa pulsare dietro la fronte. – Quando ho scoperto che stava dalla parte dei Figli della Libertà gli ho fatto un discorsetto. Gli ho detto che avrebbe solo incasinato le cose, ma non ha voluto ascoltarmi. Mi ha risposto che “la collaborazione è sincronia, è l’armonia delle onde dell’oceano”, o una stronzata simile. – Sentivo la bocca colma di saliva per aver parlato troppo, così ne approfittai per sputare a terra, pieno di disprezzo.
– Sei mai stato dalle parti del Nuovo Mondo? Quello vero, intendo. – Thomas indicò la terra alle proprie spalle con il pollice. Sud. – Quelle isolette paradisiache con donne mezze nude e caldo per tutto l’anno. – Si passò la lingua sulle labbra, e per un attimo pensai che mi avrebbe chiesto un secondo per vuotare le palle e menarsi l’uccello. Non lo fece, fortunatamente. – A volte le così armoniche onde dell’oceano devastano interi villaggi del cazzo. Almeno, a me hanno detto così. – Scrollò le spalle e mi rivolse un cenno ossequioso. – Prego, capo, continua pure.
Incrociai le braccia sul petto, stringendomi in quella giacca logora per impedire al vento gelido di oltrepassare le falde e lasciarmi assiderare. – Avrei dovuto rispondergli così. È andato avanti spalando merda sul Re, sui governatori delle Colonie, e così via. Appena gli ho ricordato che non poteva permettersi di fare il padrone del mondo e che se voleva fare il fanatico poteva benissimo andare a predicare dalla cima di Westminster, mi ha tirato un pugno in faccia.
Sporse il labbro inferiore, fingendosi offeso. – Addirittura. Immagino che tu abbia difeso il visino e gliele abbia date.
Roteai gli occhi. Era capace di trasformare qualsiasi scontro in una dannatissima farsa. – Ho risposto con un cazzotto, ma non siamo andati avanti. Ho minacciato di ucciderlo se non avesse smesso di combinare casini. – Lanciai un sospiro, fissando apatico la città di fronte ai miei occhi. – Lui ha promesso che avrebbe dato una mano nell’Esercito appena fosse iniziata la guerra. Come medico, perché così non avrebbe favorito nessuno. – Le strade non erano neanche lontanamente trafficate come ricordavo, ma dopo un viaggio nel mezzo della frontiera a mangiare carne secca e farsela sotto a ogni passo tutta quella gente sembrava sottrarmi aria, non riuscivo più a respirare. – L’ha fatto, ovviamente, ma poi ha cambiato idea. Ha deciso che la Corona avrebbe fatto un lavoro migliore, così si è venduto. Tutto qui.
Thomas annuì, come se ci fosse davvero qualcosa cui assentire. – Quindi ha messo in discussione la tua autorità. Voleva cambiare le cose senza capire che nemmeno tra noi siamo davvero liberi e alla pari. – Toh, guarda, un po’ come William. Fu come ricevere un pugno nello stomaco. Oh, andiamo, non poteva riferirsi a William. Non sapeva niente di quella storia, ma faceva male allo stesso modo, anzi, forse di più, perché il quel caso avrei potuto replicare, discolparmi. Invece mi toccava tenere tutto dentro, lasciando che il mio fegato s’ingrossasse fin quasi a scoppiare.
Portai una mano al basso ventre. Razza di fighetta, non t’hanno mica colpito davvero. – Sì – sussurrai, succhiando l’aria gelida tra i denti stretti. – Diciamo così. Fa parte della nostra ideologia vedere il mondo per ciò che è. Ogni uomo dovrebbe sapere che c’è sempre qualcuno sopra di lui.
Si strinse nelle spalle. – E per quanto riguarda i potenti? Persino Re Giorgio ha qualcuno sopra la sua reale testolina? – Inclinò il capo, sogghignando e soffiando una nuvoletta calda di condensa.
– Smetti di difenderlo – quasi ringhiai in risposta. – Certo. Nessuno è davvero onnipotente, e quelli che sembra non abbiano nessuno sopra di loro sono schiavi di se stessi e delle loro ambizioni, difetti e presunzioni. C’è sempre qualcuno a cui ci tocca obbedire.
– Davvero? – Continuava a sorridere. Che ci trovava di divertente in tutto quel casino? Improvvisamente gli era tornata la voglia di fare a pezzi vecchi amici? – Dimmi un po’, capo, tu a chi sottostai?
Strinsi le labbra, sentendo il sangue smettere di circolare. Chi volevo prendere in giro, eh? Se mi concentravo appena potevo sentire le fredde risate di Minerva e Giunone nella mia testa, mi avevano fermato prima che uccidessi Thomas per ben due volte, avevano capito di avere davanti una mina vagante e si erano adeguate di conseguenza, trattenendomi come fantini vigorosi con un cavallo. Scrollai le spalle e sputai di nuovo. – Un giorno te lo spiegherò – grugnii. Quando sollevai lo sguardo, l’insegna della vecchia taverna di Molineux pendeva sopra la mia testa, la porta scrostata e consunta ancora lì, esattamente come l’avevamo lasciata prima di partire per il sud. – Non so se mi crederai, allora.
Tom fece schioccare la lingua, stiracchiandosi un momento. – Be’, ho creduto al fatto che il nostro caro Gran Maestro ti sbattesse quand’eri un ragazzino. – Fece spallucce e bussò prepotente alla porta, il palmo aperto. – Posso credere a qualsiasi cosa, no?
L’uscio si mosse appena e Thomas Hickey sparì nell’oscurità oltre il varco. Non sapevo se trattenere un singhiozzo o scoppiare a ridere come un cretino.
Imprecai a mezza voce, sputai ancora una volta nella neve sciolta ai lati dell’ingresso – sembrava che quella schifo di saliva non fosse mai troppo poca – e seguii Tom senza pensare.
 
La sala della taverna non era affatto cambiata, ma cosa mi aspettavo? Non eravamo rimasti via poi così a lungo, forse a malapena un mese. Stephane ciondolava sul bancone, un fiasco praticamente vuoto stretto in mano e una smorfia da sbornia triste sul volto. Nel vederci, le sue labbra si contrassero in un sorrisetto ebete, e quando fece per sollevare la bottiglia nella nostra direzione le dita cedettero, lasciandola cadere in terra a fracassarsi in mille pezzi. Solo uno dei tanti tavoli era occupato, e vi sedevano Chapman, una sciarpa stretta avvolta attorno al collo, probabilmente ancora segnato dalla cicatrice del vecchio rasoio di Thomas, con gli occhi sgranati e la bocca semiaperta su un pezzo di pane masticato. Che spettacolo. Di fronte a lui, avvolto stretto in una vecchia coperta, c’era Tyler, il ragazzino che aveva preso il suo posto mentre Chapman era convalescente. Ci guardava con sorpresa, ma senza lo sguardo sbigottito dell’Assassino più vecchio. Non sembrava stupito di vederci, anzi. Conoscevo bene l’espressione sul suo viso. Quanti ragazzini olandesi con quella stessa smorfia in faccia hai fatto fuori? Era terrorizzato. La paura, una paura gelida e paralizzante, stava prendendo piede dentro il suo corpo. D’istinto si strinse ancora di più nella coperta, come un bambino impaurito davanti a una storia dell’orrore che i fratelli maggiori gli raccontano per farlo cagare sotto e divertirsi un po’.
Thomas Hickey colpì i cocci della bottiglia con un calcetto, scrollando le spalle. – Peccato – grugnì noncurante. Oltrepassò il bancone con un balzo da ragazzino, osservò le bottiglie impolverate sulle mensole con grande interesse. – Capo, dello scotch?
Sorrisi, avanzando nella penombra della stanza come un predone. – Preferirei del grog, se questo vecchio bastardo non l’ha finito tutto. – Preso da un impeto di pietà e, forse, in minima parte, di nostalgia, diedi una grattata dietro le orecchie di Stephane, trattandolo come un cane anziano e fedele. Non lo era. Be’, forse un cane sì, e pure vecchio. Di certo non fedele, di certo non a me. Thomas mi allungò una bottiglia e ne stappò un’altra con irruenza, portandola subito alle labbra. Ah, l’astinenza non fa bene a nessuno. – Vi siamo mancati?
Tolsi il tappo dalla bottiglia di grog e inspirai lentamente, assaporando l’odore dell’alcool. – Non è un po’ da femminucce? – brontolò Tom, chinandosi sul bancone con la sua bottiglia di scotch tenuta strenuamente in mano. – Il grog, voglio dire. È… d’accordo, lasciamo perdere. – Tracannò nuovamente e si pulì il muso con la manica, schioccando la lingua in un modo che mi ricordò terribilmente mio padre. Non l’avevo mai sentito emettere quel suono, ma sembrava esattamente ciò che avrebbe fatto il capitano Kenway davanti a un bicchiere di scotch. – E rispondete, no? – Eravamo entrambi giulivi, quasi felici di avere di nuovo un tetto sulla testa, una branda sotto il culo e uomini più o meno disarmati di fronte a noi.
Non ci eravamo ancora resi conto del terribile errore di calcolo commesso. Un errore terribile. Chapman scattò in piedi, la sedia stridette nello strisciare e sentii le orecchie quasi bruciare per il fischio. – Dov’è Joseph?
Restammo di sasso. Mi sentii come se qualcuno mi avesse versato un secchio pieno di neve in testa e quella fosse colata sulla mia schiena dal collo del cappotto e da lì fino ai piedi, attraverso gli stivali, paralizzandomi completamente. Bel lavoro, eroe di ‘sto cazzo. D’istinto portai una mano sugli occhi, stropicciandomi la faccia. Dovevo sembrare uno che aveva appena dimenticato il tacchino sul fuoco. Era colpa mia se Joseph London era passato a miglior vita, e qual era il mio tributo alla sua esistenza? Piombavo nel mezzo di una taverna piena di suoi vecchi amici scordandomi completamente della brutta fine che io stesso gli avevo fatto fare.
Non ha avuto nemmeno una fossa. Serrai la presa sulla bottiglia di grog, poggiandola dolcemente sul bancone. – London… – Dio, da quando in qua a un funerale si usa il cognome, testa di cazzo? – Joseph… – Deglutii a vuoto. Quel nome suonava piatto e privo di senso tra le mie labbra, solo una parola senza significato, come qualsiasi altra. Non ero nemmeno degno di chiamarlo com’era stato battezzato. – Lui – Ecco, questo sì che s’addice a te, brutto codardo, un fottuto pronome. – Lui è stato ucciso. Da delle giubbe rosse. – Vigliacco. Avanzai lentamente verso il tavolo, proprio mentre Chapman chinava il capo e portava la mano al collo, alla ferita che Thomas gli aveva inferto e dalla quale il suo vecchio amico Joseph London – nient’altro che carne putrefatta in mezzo alla terra, pieno di uova di mosche, le viscere svuotate dai vermi e i muscoli staccati dalle ossa – l’aveva salvato. Sembrava fosse accaduto in una vita precedente. – Mi dispiace. – Era vero, per una volta. Non riuscivo a smettere di sentirmi in colpa, maledizione. Brutto codardo, ripetei tra me e me. – Mi dispiace tanto.
Chapman sollevò le mani aperte a livello del viso, scrollandole per allontanarmi, dunque ci affondò la faccia dentro, singhiozzando silenziosamente. Non sapevo che fare. Bloccato a metà di un passo, mi chiesi che cosa sarebbe stato meglio fare. Non ero nella posizione di dire nulla. Lui ci odiava, com’era lecito che fosse. Mi voltai a guardare Tyler, il ragazzino, con un’occhiata di scuse. O, almeno, speravo sembrasse un’occhiata di scuse. Non mi ero mai sentito così. Avevo fatto uccidere un Assassino che, per una volta, cercava soltanto di darmi una mano. Sospirai come se non fosse colpa mia. Aveva ragione la vocetta nella mia testa, ero proprio uno stramaledetto codardo di merda. Tyler rispose freddamente, piantando le pupille nelle mie e irrigidendo appena la mascella, il classico gesto di un bambino impotente e arrabbiato col mondo. – Mi dispiace – dissi ancora. Manco avesse un qualche valore.
Thomas girò attorno al bancone, la bottiglia di scotch già mezza vuota ancora stritolata per il collo. – Propongo un brindisi! – gorgogliò mandando giù un altro sorso. – A Joseph London – sussurrò sghignazzando in maniera comica e inappropriata. Si chinò su di me, chiudendo le dita di una mano attorno alla mia spalla. – Un bastardo che ha quasi rischiato di farci ammazzare tutti e tre! – Sollevò il fiasco e rise, quindi bevve avidamente. Era incredibile come fossi riuscito a stringere un patto di sangue con quello stesso uomo ubriaco nemmeno troppi anni prima, mentre ora sembrava più sbronzo dello stesso Stephane. – Grazie, cazzo, per essere morto al posto mio! – gridò ridendo ancora, forte.
Non vidi nemmeno arrivare il cazzotto, ma per poco non crollai di schiena sul bancone quando quello prese in piena faccia Thomas, che caracollò indietro scompostamente, ma con lo scotch ancora stretto nel pugno. – Bastardo del cazzo! – Tyler era scattato in piedi e la coperta era precipitata a terra nella furia del movimento, e ora stava tempestando Tom di pugni al costato, come se volesse pugnalarlo con un coltello invisibile. Non ha la lama celata, vero? Mi ritrovai istintivamente a trattenere il fiato, prima che qualcosa mi desse la spinta dall’interno. Non potevo essere un codardo e un cagasotto anche in quel momento, di nuovo, persino nei confronti dei miei stessi uomini. Che razza di mezza sega colpisce un altro uomo al petto con dei pugni? Non era proprio il momento giusto per mettersi a discutere di combattimenti, così poggiai solo una mano su Thomas che, steso a terra con la testa a tanto così dal bancone, tossiva appena, ponendomi nel mezzo dello scontro.
– Calma, ragazzo! – sibilai poggiando l’altra mano sul suo petto, aperta. – Cazzo, non vedi che è ubriaco fradicio? Lascialo perdere, d’accordo? – Non suonavo convincente nemmeno alle mie stesse orecchie. – Sta’ calmo. Prendi fiato e allontanati. – Strappai la bottiglia dalle dita pallide e inermi di Tom, porgendogliela. – Fatti un cazzo di sorso. – Quel bastardo del mio socio brontolò, mezzo morto, sentendo già la mancanza della sua piccola.
Tyler prese la bottiglia con riluttanza, guardandola peggio di qualsiasi arma, quindi la poggiò sul bancone oltre il corpo di Tom. – Vaffanculo – sussurrò, pieno di rabbia. Immaginavo quasi che mi puntasse un dito contro. – Quando Connor lo saprà… – Si fermò a metà della frase, i denti scoperti e le labbra ritratte, guardandomi con una scintilla di compassione. Non ci voleva poi molto per capire che, qualsiasi cosa avesse mai fatto mio figlio, sicuramente ne avevo passate di peggio. Sicuramente non sarebbe stato abbastanza e sicuramente non avrebbe riportato indietro Joseph.
Quel ragazzino lo sapeva, proprio come lo sapevamo io e Chapman. Chapman, che continuava a singhiozzare piano, chiuso nel proprio oscuro silenzio. – Mi dispiace, Tyler – sussurrai stringendogli la spalla con fare paterno. – Mi dispiace tanto. – Presi un respiro a capo chino. – Scrivi pure a Connor e Achille. Fa’ tutto quello che vuoi. Io… – Mi voltai un attimo a guardare Thomas. Russava sonoramente. Al suo fianco, steso con le braccia penzoloni, anche Stephane dormiva, ma senza emettere un suono. Oppure Tom li copriva tutti. Sorrisi tristemente. – Devo portare questo stronzo a dormire. – Lo presi per un braccio, caricandolo sulle spalle come un mulo da soma. – Mi dispiace tanto.
Chapman s’alzò bruscamente, facendomi trasalire. Si piazzò davanti alla sedia, armeggiando con il cinturone carico di armi ed estraendo la spada, lunga quasi un metro. – Che cosa… – Per un attimo temetti che sapesse tutto quanto, che volesse impalarmi sulla spada e guardarmi stramazzare sul pavimento.
Poi lo vidi poggiare la lama sul tavolo e varcare la soglia a grandi falcate. – Dove vai? – squittì il ragazzino nel seguirlo. Ero impietrito.
– A pregare – replicò Chapman, gli occhi scuri e lucidi, serio come non l’avevo mai visto. La porta si chiuse di scatto e restammo soli, due ubriachi e due sobri, a guardarci con circospezione, disagio e sospetto. Il sole si stava alzando, ma l’atmosfera pareva quella di una notte di sangue e morte. E lo era, in fondo.
Tyler mi lanciò un’ultima occhiata colma di disperazione, dunque sparì in una delle stanze confinanti. Con un grosso sbuffo, sistemai meglio il braccio di Thomas attorno alle mie braccia e salii le scale, gettandolo con slancio sullo stesso letto su cui aveva dormito fino all’ultima notte prima di partire. Non mi degnai neanche di svestirlo.
Scalciai rapidamente gli stivali e buttai la giacca zozza in un angolo, pensando che il giorno dopo sarei dovuto uscire per comprarne un’altra. La vita va avanti anche senza Joseph London, in fondo.  Inspirai piano, poggiando la testa sul cuscino, il corpo al caldo sotto le coperte ruvide. Chissà se è così che si sta sottoterra.
Chiusi gli occhi mentre, al piano di sotto, si udiva solo il rapido e furioso grattare di una penna inchiostrata sulla carta.      
  
Non ci fu mai un vero e proprio funerale per London, non avendo il corpo. La mattina seguente, quando scesi per scusarmi ancora una volta con gli Assassini, Tyler e Chapman stavano seduti l’uno di fronte all’altro, uno appallottolando fogli di carta e gettandoli con foga sul pavimento, l’altro preso a sorseggiare tè come una vecchia signora inglese. – ‘Giorno – brontolai cauto, scostando una sedia e crollandovi sopra. Non avevo dormito poi molto bene. Era come se sentissi ancora il sangue del mio cavallo sulla pelle, misto a quello di London e di Charles, abbandonato al proprio destino a Fort Lee. – Va meglio?
Chapman scrollò le spalle senza dire una parola. Mi sembrava davvero strano che non reagissero. Dopo tante morti ci si abitua, a mio parere. Gli amici iniziano a cadere come frutti dai rami di un albero, è routine, quasi, e nessuno ci può fare nulla, quindi ti limiti a brontolare due parole e prosegui per la tua strada, gli occhi bassi e le mani strette l’una nell’altra. O mediti vendetta, ma speravo che gli Assassini non lo facessero. – Da’ un’occhiata – grugnì Tyler sollevando il foglio su cui stava scrivendo con foga e porgendolo all’altro senza nemmeno guardarmi. Si massaggiò la fronte con i polpastrelli sporchi d’inchiostro. – Non sono riuscito a fare di meglio.
Gli occhi di Chapman correvano avanti e indietro sulla missiva, quindi annuì e me la tese con due dita. – Mi sembra tutto a posto – sussurrò tornando ad abbassare la testa sulla tazza di tè, – ma sei tu quello istruito, giusto?
Roteai gli occhi, quasi strappando la lettera dalla sua mano, ed emisi un grugnito di stizza. – Ti svelerò un segreto, amico – dissi spiegando la carta sul tavolo davanti a me, – usa i termini più semplici che conosci, ché poi Connor non capisce.
Nessuno dei due rise, nemmeno un po’. Dov’era Thomas Hickey quando serviva? Oh, già. Abbandonato nel suo letto con la bocca mezza aperta, un bel po’ di sonno arretrato e molto alcool nel sangue. – D’accordo – proseguii sbuffando, – vediamo un po’.
Chinai gli occhi sul foglio, trattenendo il fiato in attesa di una coltellata alla schiena.
 
Abbiamo commesso un terribile errore. Kenway e Hickey sono tornati dalla loro spedizione a Fort Lee, ma London è stato ucciso dalle giubbe rosse. Non possiamo più correre rischi e non sappiamo cosa fare. I Templari sono pericolosi e non siamo poi così sicuri di essere adatti alla loro custodia. Abbiamo bisogno di aiuto, d’indicazioni.
Metteranno a repentaglio l’intera Confraternita. Uno di noi è caduto e la resistenza a Boston si fa sempre più debole. La guerra sembra essersi fermata, è vero, ma non possiamo permettere che la situazione si capovolga. Ci rimetterà qualcuno.
Vieni a Boston, Connor, oppure aiutaci. In qualsiasi modo. La situazione non sarà stabile ancora per molto.
T., C.
 
Che razza di leccaculo senza spina dorsale. – Non pensavo che le condizioni fossero così gravi, cazzo. – Era più forte di me, sfotterli mi veniva spontaneo, come pisciare, ecco. Mollai la lettera sul tavolo, facendovi pressione con le dita. – Non è colpa nostra se London è morto – sibilai e scattai in piedi, con la voglia crescente di vedere i loro denti saltare in aria per un pugno. – Prendetevi le vostre responsabilità. È successo, tutto qui.
– Avete causato troppe morti – ringhiò Chapman, stringendomi all’altezza del gomito. – La Confraternita conta pochissimi membri, e molti sono passati a miglior vita per colpa vostra.
Sollevai gli occhi al soffitto. Perché dovevano essere così ottusi? – Dovreste imparare a combattere decentemente, forse – risposi guardandolo dritto in faccia. Che mi affrontasse, se ne aveva il coraggio. Bastava portare la mano alla spada e vedere chi sarebbe morto per primo. – È un periodo buio anche per noi, cosa credi? – Noi, ma noi chi? Mi sforzavo di sembrare un Gran Maestro, di comportarmi come tale, quand’ero soltanto un assassino disperato che giocava a fare il grand’uomo. Facevo finta che l’anello al mio anulare destro avesse ancora un qualche peso. – Smettete di piangervi addosso, maledizione.
Dalle scale arrivò un ruggito frustrato e rauco. – Merda! – strepitò Thomas, nudo dalla vita in giù, barcollando sulle scale nel tentativo di sollevarsi i mutandoni. Palle all’aria in pieno inverno, non doveva essere una passeggiata. – Vedete di chiudere quelle fogne per dieci minuti. – Si diede una vigorosa grattata all’uccello, dunque si stiracchiò e cadde su una sedia, sbracato mollemente. – C’è gente che ieri sera ha bevuto, qui.
Ah, Thomas Hickey con i postumi della sbornia e senza calzoni, non c’era migliore pubblicità per il mio Ordine. Stupido figlio di puttana, pensai con due dita strette alla base del naso. – Ce n’eravamo accorti, Tom. Senti un po’. – M’avvicinai alla sua sedia con un sorrisetto tirato sulle labbra. – Scriveranno a Connor. Ce lo ritroveremo tra i piedi in… – Aggrottai la fronte, voltandomi a guardare Tyler con aria interrogativa. – Quanto ci mette una di quelle ad arrivare a Davenport?
– Una settimana, forse dieci giorni, se il cavallo è veloce. – Si strinse nelle spalle e abbassò il capo. Pietosi, tutti quanti.
– Bene! – esclamai sarcastico, strofinandomi le mani. – Quindi tempo due settimane e l’adorabile frutto delle mie palle sarà di nuovo tra noi. – Gli battei una mano sulla schiena in una pacca consolatoria. – Ci conviene bere, finché ancora abbiamo tempo.
Tom sospirò, dunque fece un mezzo grugnito d’assenso e strappò la tazza mezza vuota da sotto il naso di Chapman, vuotandola sul pavimento. Doveva essere tè, ma sembrava piscio. Persino l’odore non era poi tanto diverso. – Dammi qualcosa di forte – borbottò con un’occhiata schifata alla chiazza umida sul pavimento.
– Ma che… – Chapman alzò le mani, forse in cerca di sostegno da parte almeno del suo giovane confratello. Spinse indietro la sedia, preda della furia, chiudendosi una stanza senza averlo trovato. – Vaffanculo! – berciò sbattendo la porta.
Sollevai una bottiglia impolverata di rum, ancora con il sigillo al tappo e tutto il resto. Sorrisi d’istinto mentre la stappavo e ne mandavo giù un po’. – Rum – dissi mentre il liquore mi scaldava le viscere e lo stomaco. Cazzo, se era più forte del grog!
Non aspettai nemmeno il consenso di Thomas, riempii direttamente la tazza fin quasi all’orlo, poi la portai di nuovo alle labbra e tracannai un altro paio di sorsi. Chinai il capo, sentendo una certa voglia di ridere, dunque adocchiai Tyler, ancora tutto impettito sulla sua sedia, e agitai la bottiglia nella sua direzione. – Vuoi un goccio? – esclamai, poi mi lasciai cadere seduto e guardai Tom, che sorseggiava davvero quella roba come fosse tè. Che tipo.
Il ragazzino sgranò gli occhi e saltò in piedi, quasi schifato, facendo sbatacchiare la porta mentre usciva con la sua cara missiva stretta contro il torace. Sollevai la bottiglia e ridacchiai in un brindisi muto prima d’inclinarla sulle labbra.
A questi stupidi smidollati, più facili da uccidere di qualsiasi formica.
 
– Oh. – La sua espressione era ansiosa e un po’ terrificata, per quanto cercasse di nasconderla sotto una maschera di spavalderia. Non aveva poi tutti i torti: io stesso mi sentivo un vero schifo. Nelle tre settimane passate da quando Tyler aveva spedito la sua maledetta lettera ci avevano confinati alla locanda, quindi avevamo finito per lasciarci andare. Andai ad aprire la porta della French con i capelli sporchi ritti sulla testa, completamente impastati dal sudore, la lingua gonfia in bocca, la camicia aperta sul petto e la cintura che dondolava mollemente sui calzoni, aperta. – Sei tu. – Già, era lui. Tyler, quell'irritante ragazzino. Non mi ero nemmeno accorto che fosse uscito quella mattina. Mi sembrava di essere a tanto così dal fare la fine di Thomas, abbandonato sulle scale con la testa ciondolante da uno scalino, ubriaco fradicio e privo di sensi. – Ci hai messo un po’.
Mentre l’arietta di gennaio m’intirizziva i capezzoli notai che indossava un cappotto logoro sopra la ridicola giubba con cappuccio, lunga più o meno fino a metà ginocchio. Aveva un’aria familiare. Era il mio cappotto, quello che avevo rubato ai maledetti proprietari del carro.  Si circondava le braccia con le mani, manco si stesse abbracciando da solo. Piuttosto ridicolo. – Hai intenzione di farmi entrare? – brontolò. Sembrava che quelle tre settimane lontane dalla civiltà avessero riportato entrambi a un livello selvaggio, quasi primordiale. Non che per Thomas ci volesse molto, comunque.
Rimasi a fissarlo in cagnesco per qualche attimo, non tanto perché volessi sfidarlo. Ero solo tutto preso a cercare di ricordare quale fosse la maledetta distanza tra la locanda e le mura della città, e guardarlo male – guardare male chiunque – era per me così facile che doveva essere stato un istinto spontaneo. Chapman mi prese brutalmente per la spalla, trascinandomi qualche passo indietro, all’interno della locanda. – Entra – grugnì in direzione di Tyler, che mi aveva seguito avanzando con il capo chino. Il solito pisciasotto. Osservò la locanda con un grosso sospiro, posando lo sguardo su di me, su Thomas, Stephane impegnato a russare sul bancone e la stanza intorno a sé, dunque si grattò la testa stringendosi nelle spalle. – Te l’hanno consegnata?
Ridacchiai tra me, poggiandomi alla parete con le gambe incrociate. L’aria che mi usciva dalla bocca puzzava di alcool di bassa lega. Non mi sentivo particolarmente stabile in quella posizione, ma per nulla al mondo avrei permesso agli Assassini di guardarmi dall’alto mentre cincischiavo da seduto. – Sì. – Con timore e circospezione, Tyler tirò fuori una missiva piegata dalla tasca del cappotto, dunque la poggiò sul tavolo tra di noi e si soffiò nelle mani a coppa.
Chapman mi guardò con gli occhi stretti. Se ce l’aveva ancora con me per la storia di London, se voleva così tanto punirmi, aveva solo da sguainare la spada e battersi. Io… dov’è che avevo messo la spada, già? Strinsi il pugno nel nulla sul fianco sinistro. Fa niente. – Brutta cera – disse Tyler a Chapman, indicandomi mentre tirava indietro una sedia e ci si accomodava con le braccia perennemente incrociate sul petto scarno. – Non la leggi?
L’Assassino sbuffò, allungando le dita per ghermire la carta. Troppo lento, persino per un bastardo ubriaco come me. Avevo già fatto scivolare il foglio sotto le unghie, sollevandolo per un angolo come contenesse i germi della peste. – Ops – dissi ghignando, le spalle sollevate. – Scusa, dopo tre settimane in questo letamaio ho bisogno di recuperare un po’. Riprendere in mano la cultura, tornare alla civiltà, roba del genere. – Mi ravviai i capelli sudici guardandolo fremere di rabbia per un attimo e abbandonarsi di nuovo nella stessa posizione, impotente. – Che abbiamo qui?
Mio figlio aveva usato le sue incredibili capacità di redattore per rispondere alla lettera di Tyler e Chapman, e non trovavo giusto fossero loro i primi a leggere il frutto delle sue fatiche. Volevano solo sapere se io e Tom avremmo levato le tende. Io avevo bisogno d’informazioni un po’ più importanti. Già. Ad esempio, quando farò un altro bagno? Tyler mi fece un brusco cenno con i palmi aperti, intimandomi di cominciare. Allora non sono l’unico senza più voglia di vivere. Io l’ho persa, sono diventato solo un povero stronzo colmo di alcool in ogni mia parte, ma non ho mai sentito così tanta sete di sangue. Portai istintivamente la lingua sulle labbra, inumidendole appena. O era forse il gesto animalesco di un predatore che spera sia il momento giusto per attaccare, che può finalmente azzannare la gola della preda?
Mi schiarii la voce, tastando con il pollice e l’indice la carta ruvida. Signori e signore, ecco a voi un altro emozionante mucchio di scempiaggini.

Mi spiace. Non è mai un piacere ricevere notizie simili, specie in un momento come questo. Credo che la situazione stia degenerando. Ho lasciato la tenuta, diretto a Valley Forge per discutere con George Washington. Voglio dirgli la verità. Deve sapere che dietro il suo fidato generale Lee si nasconde un Templare, ed è mio dovere spiegarglielo. Achille non è d’accordo. Crede che dovremmo essere discreti. Ci sono stati troppi morti, e Joseph è stato solo uno di loro. Nonostante siamo pochi ricevo lettere come la vostra fin troppo spesso. Mantenere l’anonimato, tenere tutti questi segreti per noi, sono rischi che non ho più intenzione di correre. È il mio Mentore, ma non ha fatto nulla per…

Sbuffai, soffiando tutta l’aria fuori dalle guance. – Solo un mucchio di stronzate sentimentali. – E di questo non frega un cazzo a nessuno. Scorsi la lettera con lo sguardo, scendendo fin quasi a metà pagina. Quel ragazzo sapeva proprio come sprecare inchiostro.

A Valley Forge, Washington ha nominato Benjamin Church, un altro Templare. L’unico rimasto, tolti mio padre, Thomas Hickey, Charles Lee e Reginald Birch, il Gran Maestro.

Ah, finalmente qualcosa di interessante. – Merda – sussurrai, i denti a mordicchiare le cuticole accanto all’unghia del pollice.

Ha detto che è uscito di prigione per poi sparire, diretto a sud. Seguirò il Valley Creek nella maniera più discreta possibile. Vi chiedo solo di resistere ancora un po’. Solo il tempo necessario per capire che cosa fare, poi… 

Scoppiai a ridere, sputacchiando come il vecchio ubriacone che stavo diventando. – Ma col cazzo! – Mi resi conto di averlo praticamente urlato soltanto quando, con la mano ancora in bocca, sollevai lo sguardo sugli Assassini. Feci scorrere la missiva sul tavolo, verso di loro, dunque scattai in piedi e afferrai per il collo la bottiglia di liquore – cognac annacquato che sapeva di piscio –, tracannando un paio di sorsi e correndo a scrollare Thomas.
Troveremo la Mela e metteremo fine a questa storia. Una cosa va detta di mio figlio, mantiene sempre la parola.
Finché non si mettono in mezzo George Washington e i Figli della Libertà, ovviamente.
– Hickey! – sibilai con un gran sorriso ancora in faccia. Appena l’acquavite arrivò allo stomaco contrassi le labbra in una smorfia disgustata. Dio, che schifo. – Svegliati! Stupido cazzone… – Avevo abbassato la voce, sollevandomi per colpirlo alle costole con un calcio. Nemmeno tutto il liquore del mondo avrebbe potuto annebbiare la mia vista in un momento come quello. Non ero così felice – così entusiasta – da… boh, non lo ricordavo. La vista era nitida, la memoria decisamente meno.
– Eh? – Spalancò gli occhi, la sclera in vista dietro le pupille nere e dilatate, allungando le mani verso la bottiglia che stringevo in mano. – Fammi solo…
Lo presi per l’incavo dell’ascella, tirandolo in piedi mentre si portava le mani alla testa. Riuscii a saltare indietro appena in tempo per evitare il fiotto di vomito verdastro che rigettò sulle scale. Dovevamo apparire davvero patetici agli occhi degli Assassini, ma che importanza aveva? Insomma, Ben era fuori di prigione! Avevo un luogo, un punto in cui trovarlo!
Dovevo solo arrivare prima di lui. Strattonai con noncuranza Thomas per un braccio, trascinandolo su per le scale. – Dobbiamo darci una ripulita, ragazzo – esclamai grattandomi con le tre dita della mano sinistra i peli sul petto. – In questo stato non mi riconoscerebbe mia madre, figurati Ben Church!
Parve vedere tutto con una luce nuova, solo per un istante, barcollando e rischiando di inciampare in un gradino. – Ben? – Mi prese per la camicia e per poco non venni trascinato giù con lui. – Ben è libero? – Come un fottuto uccellino, Thomas. Come un fottuto uccellino. Non riuscivo a smettere di sorridere come un bambino con qualche rotella fuori posto. Lo spinsi in bagno, afferrando la spada corta abbandonata sul letto. Ecco dov’era finita, cazzo.
– Sciacquati la faccia e vomita quello che puoi – replicai stringendo nel pugno una ciocca di capelli. Non sarei andato da nessuna parte con quella roba ispida in testa e, be’, non avevo il tempo di lavarli, lunghi com’erano. Dovevo puzzare più o meno quanto un cadavere, e avrei rimediato. Ogni cosa a suo tempo. In fondo, l’armadio era ancora pieno di vestiti puliti. Mi serviva solo un cappotto decente. Sentii Tom gettarsi l’acqua in faccia e mi venne improvvisamente da ridere mentre i capelli crollavano a terra sotto i colpi della spada. – Abbiamo un po’ di strada da fare.
– Oh, voi non andrete da nessuna parte! – Chapman si stagliò nella cornice della porta con i pugni stretti sui fianchi, i denti sbarrati. – Non permetterò che…
Roteai gli occhi, strappando violentemente il catino da sotto il naso di Tom per darmi una sciacquata. – Non ci porteremo nessuno di voi, tranquilli. – Eravamo liberi. Liberi, finalmente. – Ci incontreremo con Connor. – Non era certo la migliore idea che avessi mai avuto, ma lui sapeva dov’era Ben e io lo volevo. Così non avremmo neanche causato scompiglio tra quei poveri cretini della Confraternita.
– Non avete neanche idea di dove sia! – La sua voce era percorsa dal panico, tremava per la frustrazione. Non ci volevano tra i piedi, ma al tempo stesso non potevano lasciarci andare. Che noia, cazzo. – Non potete semplicemente uscire e… e…
Gettai la camicia a terra. Sentivo la testa decisamente leggera, sia per l’alcool sia per l’incredibile quantità di capelli in meno. Erano rimasti lunghi come il mio pugno e dritti, così sporchi che potevo avere i pidocchi. Speriamo di no. – Abbiamo un’indicazione, no? Si tratta solo di fortuna. – Storsi involontariamente la bocca. Ed è sempre stata dalla mia parte, vero? – Non mettetevi in mezzo, per piacere. – Per la prima volta da quando avevo avuto quella notizia, ero terribilmente serio. – Non è la vostra guerra. Cioè, diavolo, certo che lo è, ma la situazione è già abbastanza grave. Vi meritate un po’ di riposo.
Chapman sospirò, abbassando le spalle con aria sconsolata. – Non è quello. – Già, lo sapevo anche io. Le mie erano solo parole vuote. Sapevo benissimo perché non dovevano e non volevano combattere contro di noi. Li aveva pur sempre reclutati Connor, no? Erano assorbiti dalla causa della guerra. Volevano la pace senza sangue. Erano Assassini di nome, ma non di fatto. I sopravvissuti sono sempre di due categorie: quelli fortunati che imbracciano una spada e i vigliacchi che restano sulle retrovie.
Spesso e volentieri mi rendevo conto d’appartenere a entrambe, e con la stessa disillusione mi ripetevo che nella codardia non c’era niente di male. È nella natura umana. Strinsi la mano intorno alla sua spalla con un sospiro. – Capisco – dissi soltanto. – C’è una corriera per Philadelphia?
Annuì vigorosamente, girando sui tacchi e scendendo le scale. Bravo. Pensa a te stesso e al ragazzino. Le spade qui le sguainiamo sempre noi, alla fine. Io e questo povero disgraziato. Mentre gettavo la camicia a terra e ne prendevo un’altra dall’armadio sentii Thomas vomitare rumorosamente alle mie spalle, dentro un grosso pitale. Che bel regalo d’addio, eh? – Tutto bene? – Non rispose neanche, ansimando e sputando come un vecchio malato. Scalciai via anche i calzoni, indossandone un paio pulito e agganciando la cintura il più in fretta possibile. – Ti aspetto giù. – Presi la polsiera della lama celata, sistemando per bene le cinghie sull’avambraccio, poi le pistole, i proiettili e la polvere, dunque la spada. Stavamo tornando a fare ciò che mi ero prefissato.
Ci eravamo inselvatichiti, puzzavamo come capre e non davamo due tiri di spada da secoli, ma questo non significava niente, anzi.
Mi sentivo solo dieci, cento, mille volte più cattivo e assetato. 

 

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Capitolo 45
*** Influenza. ***


Faccenda complicata, ammazzare gente.
– Joe Abercrombie, L’ultima Ragione dei Re

I’m trying to be a peaceful man doing decent things ‘cause I need to be somebody.
– Madcon, The Way We Do Thangs.

– Cazzo!
– Muoviti!
– Cristo santo, ma quanti anni hai? Dodici?
– Chiudi la bocca e seguimi! – Scavalcai una radice con un balzo, rischiando di perdere il tricorno mentre affondavo i piedi nella neve, le impronte subito riempite dalla neve fresca e soffice. Sono o non sono il Gran Maestro del rito coloniale, eh? Tiio probabilmente sapeva arrampicarsi sugli alberi meglio di me, ma non me la cavavo poi così male. Sempre meglio di Tom, che affondava le mani nella coltre bianca e le tirava subito indietro, pallide e mezze assiderate, grugnendo e sussurrando qualche bestemmia.
Con un secco colpo di piedi, mi diedi la spinta, sollevandomi sul ramo spoglio di un vecchio albero. Il legno robusto si tendeva come dita sopra la chiesa in mezzo al nulla, i rami piegati sotto peso della neve fresca. Seguire il fiume era stato facile, precedere Connor… be’, un po’ meno. C’era il cadavere di un contadino, buttato in una delle latrine appena fuori la palizzata di Valley Forge, a testimoniare quanto fosse stato difficile ottenere informazioni su dove stava andando e se era già passato di lì. Non lo uccidemmo per qualche particolare motivo, era solo un peso, un rischio se mai Connor gli avesse chiesto qualcosa. Credetemi, di sicuro stava meglio di noi. Almeno non sentiva tutto quel maledetto freddo. – Serve una mano? – Thomas ciondolava mollemente dal ramo, bestemmiando a denti stretti mentre cercava di prendere la fiaschetta sotto il cappotto. – Su. – Allungai lentamente la mano verso di lui, aiutandolo a salire, entrambi con il fiato grosso e il fondo dei pantaloni bagnato dalla neve. Un figurone.
Thomas inspirò a pieni polmoni, la schiena poggiata contro il tronco. – Dio! – sussurrò strofinandosi gli occhi. – A volte mi pento di aver preso questa decisione.
Roteai gli occhi, strisciando per avvicinarmi al tetto della vecchia chiesa abbandonata. – Quante volte devo ripetertelo? Non hai deciso un bel niente. – La neve smossa dai nostri passi accanto al sentiero mi sembrava così in vista. Sarà stata la posizione, l’occhio allenato o l’ansia, ma sentivo l’impellente bisogno di scendere e cancellare le frettolose tracce di me e Tom. Erano più evidenti del carretto davanti all’uscio, delle ordinate cataste di legno e dei profondi segni di ruote lungo il sentiero che scendeva a valle. – Sono stato io a sceglierti. – Be’, no. Il primo a farlo è stato Reginald.
Cazzo di guastafeste.
Scrollai le spalle, accovacciandomi cautamente sul ramo teso almeno quanto i miei stessi muscoli, il tetto di legno della chiesa proprio sotto i miei piedi. Dovevo solo sperare che la travatura reggesse ancora. E poi, chi diavolo aveva costruito una chiesa lì in mezzo al nulla? Sapete, l’esperienza mi ha insegnato che persino i più devoti tra i soldati cominciano a bestemmiare, maledire Dio e i suoi seguaci e a diventare dei veri ragazzacci dopo qualche simpatica battaglia. Nessuno di noi era mai uscito dall’accampamento in cerca di una chiesa. Non che io ricordi, almeno. – Stammi dietro – brontolai, giusto per riempire il silenzio tra noi e convincermi che Connor non v’avrebbe fatto caso. Andiamo, c’erano così tanti segni del passaggio di carri, pacchi con lo stemma dell’Esercito Continentale abbandonati sul ciglio del sentiero come gli averi di un ricercato sul punto di essere preso, non avrebbe potuto evitare di fermarsi in quella chiesa. Era un posto perfetto. – Avresti…? – Senza neanche lasciarmi finire la frase, Hickey mi lanciò la fiaschetta di grog, che volò sopra la mia testa come un proiettile. L’afferrai appena in tempo, sbilanciato, i denti stretti per la paura e una gamba istintivamente stretta attorno al grosso ramo. – Bel lancio.
Fece spallucce con una mano premuta sul petto e buttai giù un paio di sorsi prima di lanciargliela di nuovo. Il calore dell’alcool nelle viscere era tutto ciò di cui avevo bisogno. Be’, anche una redingote decente mi sarebbe piaciuta. Gli Assassini me ne avevano procurata una prima di partire, già piena di strappi per i rami appuntiti e gli sporgenti rovi della frontiera. Con un ultimo cenno d’intesa in direzione di Thomas tesi le gambe, le braccia allungate per attutire l’impatto con il legno, mentre il terreno tra l’albero e la chiesa volava sotto di me. L’impatto con i palmi delle mani fu così forte da farmi sbattere i denti mentre rotolavo su me stesso in una capriola, la schiena scricchiolante e le gambe di nuovo raccolte sul corpo. Quando poggiai le suole degli stivali per bene sul letto, aggrappato con una mano a ciò che restava della torre campanaria, emisi un gemito nel far scrocchiare il collo a destra e a sinistra, reso rigido dal movimento e percorso dai crampi.
Thomas atterrò poco dopo, saldo sui propri piedi, sollevandosi e spolverando le mani sulla giacca. Dio, mi mancava essere giovane. Saltare da un tetto all’altro senza neanche sentirsi stanco, le gambe forti e la malsana idea in testa di essere invincibile. Fortuna e condanna insieme. – Ora? – chiese, osservando il sentiero da cui eravamo venuti con una mano sulle sopracciglia. Anche attraverso la cortina di neve, il Valley Creek scintillava tra gli alberi, quasi ghiacciato lungo gli argini. – Aspettiamo?
Annuii, alitando sulle mani chiuse a coppa. – Vieni. Non ho mica intenzione di fare da segnavento. – Gli feci cenno di seguirmi, alzandomi lentamente e inarcando la schiena dolorante. Perché lo faccio ancora? È masochismo. Mi calai giù dal cornicione appena trovai la finestra sul retro, proprio dietro l’altare. Le imposte senza vetri sbatacchiavano lentamente nel vento freddo, quasi inquietanti, e all’interno della vecchia chiesa si gelava quanto fuori. Mi appollaiai come un uccello sulla piccola balconata oltre la finestra, senza più un parapetto degno di questo nome, e incrociai le braccia sul petto. Thomas Hickey entrò alle mie spalle, con tanto slancio da farmi quasi precipitare giù. – Guarda dove vai, cazzone – sibilai con un’occhiata di rimprovero. – Ecco. Ora aspettiamo.
Scrollò le spalle, lasciando dondolare le gambe tra i monconi della ringhiera, fischiettando un motivetto lugubre. – Perché non ammazziamo Washington, invece? – chinò il capo da una parte, curioso, ma con gli occhi luccicanti di scherno.
Gli sorrisi e feci spallucce. – Non sarebbe così divertente.
– Oh, ti stai divertendo? – Thomas strinse gli occhi, e con un solo fluido movimento scattò in piedi, chinandosi su di me. – Ti dico io cosa sarebbe divertente, cazzo.
– Sbattermi qui? – replicai, le dita poggiate sul suo petto e i visi così vicini da potersi sfiorare. – Scaldarci l’uno col corpo dell’altro? Oh, magnifico. 
Indietreggiò, arricciando le labbra per il disgusto e la rabbia. Sono davvero così messo male? Non lo credevo. – Stronzo. – Si accovacciò accanto a me e si voltò a scoccarmi un’occhiata. – La vecchiaia ti ha reso più figlio di puttana di quanto ricordassi, capo.
Sogghignai, poggiando la schiena contro la parete di legno. – Non pensavo fossi così permaloso, Tom – bofonchiai con noncuranza. Feci schioccare la lingua mentre la neve entrava nella chiesa, spinta dal vento gelido attraverso le vecchie imposte rotte. – E per quanto riguarda Washington, non posso farlo fuori. Quante volte devo ricordarti che se muore lui muoiono tutte le possibilità di arrivare alla Mela che abbiamo? – Scrollai il capo. Dovevo aspettarmi che non gli importasse poi tanto dei Frutti dell’Eden. Ero davanti a Thomas Hickey, non a Reginald. Fortunatamente. Le mani iniziavano quasi sempre a prudere appena pensavo il suo nome. Quando me lo sarei trovato davanti… Dio, sentivo il panico crescere nel petto all’idea. Mi sarei lasciato prendere dalla rabbia e l’avrei squartato, cieco e assetato di sangue. Sempre che non muoia prima.
– Ta-dah! – Thomas mi diede una tale gomitata nelle costole da farmi quasi cadere in ginocchio. – Avevi ragione, capo. È più stupido di… – Inclinò il capo alla ricerca di una metafora adatta, dunque scrollò le spalle e strinse le colonne di legno del vecchio parapetto, un gran ghigno sulla faccia. – Che coglione.
Seguii il suo sguardo attraverso la finestra sfondata dall’altra parte della piccola chiesa: sul crinale, tutto intento a scendere lungo il sentiero con le redini in una mano, c’era Connor, l’espressione dubbiosa e soddisfatta al tempo stesso. Oh, ha trovato tracce di Ben! Chissà come sarà contento! Feci scrocchiare le nocche, posando i piedi tra un pezzo di legno e l’altro. Che eroe! Ha scovato il traditore, lo ucciderà e l’Esercito Continentale potrà continuare la sua meravigliosa opera di devastazione per tutte le Colonie. Urrà! Deglutii nonostante desiderassi ardentemente sputare, ma non potevo perdere il suo trionfale ingresso da padrone del mondo tra quelle quattro mura. Il primo leccaculo di George Washington, per quanto non ufficiale, pensava ancora di stare centinaia di passi avanti a noi. Povero illuso.
Con le mani poggiate agli stipiti della porta, il suo volto fece capolino, immediatamente seguito dal resto del corpo. Nel periodo in cui era rimasto solo con Achille sembrava aver assunto un certo orgoglio: avanzava con sicurezza all’interno dell’ambiente vuoto, senza nemmeno dare un’occhiata in giro. Un pallone gonfiato, ecco cosa si diventa quando, improvvisamente, non c’è più nessuno a sbatterti in faccia la realtà. I miei erano quasi sempre insulti, d’accordo, però almeno aveva ancora una certa cautela. E un sicario incauto, un assassino che crede di avere sempre la situazione in pugno, è quasi sempre soltanto un uomo morto o trascinato in catene.
Thomas mi fece un cenno con la testa, sorridendo come uno scolaretto. Sorrisi di rimando e piegai le gambe, colmo di scherno nel guardarlo attraversare la navata a passo certo, spocchioso, con tutta l’aria di chi cerca uno scontro ed è pronto ad affrontare chiunque.
Lui? Per favore. Senza di noi doveva essersi allenato davvero poco, alla tenuta. Era rimasto con Achille, per carità divina, e quell’uomo riusciva a malapena a stare in piedi. Doveva ritenersi fortunato se era riuscito a tirare di spada con uno spaventapasseri.
Il legno neanche scricchiolò sotto i miei piedi quando spiccai il salto, e mi resi conto di sorridere. In modo maniacale, quasi. La chiesa era decisamente bassa, ma riuscii comunque a impedire che si spezzasse un paio di costole mentre gli saltavo addosso, afferrandolo per una spalla e buttandolo a terra con una lieve pressione del ginocchio sul suo ventre. Spero che abbia già pisciato. Tutto il fiato gli uscì dai polmoni in uno sbuffo mentre sbatteva la schiena sul legno e io, da sopra, gli comprimevo il petto con una mano. D’istinto aveva portato il braccio a protezione del viso e tentava si far scattare la lama celata dall’altra parte. – Quanto tempo. – Trasalì quando finalmente capì chi diavolo aveva davanti, quindi spostò il braccio di scatto, cercando di prendere la spada. Istintivamente agii come ero stato abituato a fare, sfilando la spada corta dal fodero e puntandogliela al collo, poiché, fossi stato nella sua posizione, avrei rubato la spada del mio aggressore piuttosto che tentare inutilmente di raccattare la mia.
Aveva gli occhi sporgenti, strabuzzati per la frustrazione di essere stato messo in imbarazzo… di nuovo. Un’altra tacca da aggiungere sul muro accanto al suo letto. Non riuscii a trattenere un sorrisetto perfido. – Haytham.
Ah, il mio ragazzo, come s’è fatto intelligente! Dio santissimo, qualcuno m’aiuti. – Connor! – Sollevai l’altra mano, agitandola in un infantile cenno di saluto. – Hai un ultimo desiderio? – I suoi occhi scattavano dalla lama che gli premeva il collo al soffitto, come se stesse riflettendo su tutto ciò che aveva sbagliato nella vita. Una lista lunga, suppongo.
La sua voce era un sussurro quasi inudibile. – Aspetta. – Tese la mano verso la mia, cercando di allentare la presa sulla spada corta. Patetico. Sbuffai senza nemmeno tentare di fermarmi. – Io… Non puoi uccidermi! – sibilò, la voce più acuta del solito, percorsa da scariche di panico. – La Mela… tu…
– Ne sei proprio sicuro? – Incisi appena la pelle della gola, sogghignando come un mastino. Una goccia di sangue stillò dalla carne e restò appesa alla lama.
Con un tonfo, anche Thomas saltò agilmente al mio fianco, e si chinò su Connor con interesse. – Oh, guarda chi si rivede! – Gli diede un buffetto sulla guancia, la lingua sulle labbra in quella sua solita smorfia perversa. – Ne è passato di tempo, bastardo.
– Non è mai troppo, Hickey – sibilò con aria di sfida, gli occhi ridotti a due fessure. Oh, Dio, che dimostrazione di fegato. Facendo leva sulla gamba sinistra, mi tirai in piedi e gli assestai un calcio sotto il mento. La sua bocca si chiuse di scatto, con un gemito di dolore.
– Anche per noi è un piacere. – Lo tirai in piedi per la giubba. Come poteva indossare solo quella roba? Faceva un freddo infernale, lì fuori. – Allora, come sta Washington? – Gli diedi una pacca sulle spalle un po’ troppo calorosa, facendolo piegare in avanti mentre sputava un filamento di sangue. Probabilmente il calcio gli aveva fatto mordere la lingua. Razza di deficiente.
Si strinse nelle spalle, indietreggiando e mettendo in mostra i denti rossastri. – Ancora vivo – borbottò in risposta. Si passò le dita sulla faccia, come fosse un modello per qualche dipinto che avevo irrimediabilmente sfigurato, e sembrò scavare per un attimo dentro se stesso, alla ricerca di qualcosa che somigliasse al fegato. – Di certo non grazie a voi.
Sollevai l’angolo della bocca e Thomas portò le mani giunte sul petto, il labbro inferiore all’infuori. – Oh, mi spiace! – Lo guardo con scherno, facendo schioccare la lingua e allargando le braccia. – Vuoi che ti ringrazi per l’ottimo lavoro che stai facendo? – Senza aspettare una risposta si sputò sul palmo e afferrò calorosamente la mano di Connor con le proprie, un gran sogghigno aperto in viso. – Senza i tuoi cani da guardia saremmo tutti più vicini alla pace, la vittoria o qualunque cosa tu voglia. Complimenti. Hai ritardato ancora questa patetica messinscena.
Con un gesto di stizza, Connor scrollò il palmo, allontanandosi velocemente da noi solo per lanciare occhiate di rimprovero a entrambi con un solo sguardo, scommetto. Poverino, era sempre convinto che ci importasse qualcosa della sua approvazione. Rimase a guardarci qualche istante, pulendo quel po' di bava insanguinata che gli era schizzata fuori dalla bocca, e noi a squadrarlo di rimando, curiosi, divertiti e quasi eccitati – Dio, quant'eravamo squallidi? – all'idea di avere di nuovo il nostro capro espiatorio, un meraviglioso giocattolino da torturare. Sguainò la spada all'improvviso, con un gesto studiato e misurato per stupire, ma eravamo pronti e nessuno dei due aveva paura di Connor. Nello stesso istante in cui lui sfoderò l'acciaio, la lama celata scivolò con il familiare clic fuori dalla polsiera e Thomas afferrò un coltellaccio che teneva legato alla caviglia. Mi voltai a guardarlo con gli occhi strizzati. Quante stramaledette armi aveva addosso? Sapevo della spada lunga al fianco – una vecchia sciabola britannica, lunga e dritta, che non usava mai – e ricordavo bene quella specie di strano machete che teneva legato sulla schiena, sotto il cappotto, le due pistole e un pugnale con l'elaborato stemma di Sua Maestà sull'elsa. Mi venne istintivamente da sorridere, perché tutto, in lui, emanava l'aura di un bugiardo. Portava armi da inglese addosso ma utilizzava quelle di un assassino e di un ladro, come il coltello da caccia che stringeva in mano. La danza dell'abbagliante riflesso del sole sull'ansa della lama era ipnotica, e persino Connor, suo malgrado, si ritrovò a strizzare gli occhi a metà di un impacciato passo in avanti. – Dove sono gli Assassini? – chiese in un ringhio, ma con la spada bassa. Era un ragazzo strano. Teneva la punta della spada al cielo in quella che di norma sarebbe stata la posizione di parata, ma il braccio teso lungo il fianco e portato appena in avanti: chiunque avrebbe potuto tendere la mano armata all'altezza della sua spalla o del suo cuore e trafiggerlo senza difficoltà alcuna. Una parte di me era tentata di correggerlo, come avevo fatto in una vita precedente con i miei uomini, ma non lo feci. Insomma, andava tanto orgoglioso dell'addestramento degli Assassini, delle grandi qualità di Achille come Mentore, perché sminuirlo così? Io, un umile Gran Maestro? No, l'avrei messo in imbarazzo. Non mi sarei mai permesso.
– In quella topaia, a Boston. – Thomas abbassò il coltello con un sospiro schifato. – Gesù, bastardo, non posso vederti in questo stato. Alza quella guardia, per l'amor del cielo! – Si girò il coltello in mano e diede una botta sulle dita di Connor, spingendo la spada in alto così bruscamente che quasi mio figlio si cavò un occhio. – Capo, dovresti essere tu a dirgli queste cose – brontolò con rimprovero e sarcasmo al tempo stesso. Si divertiva almeno quanto me.
In risposta scrollai le spalle, e la lama celata rientrò nella vecchia polsiera consunta. – Pensavo che gli Assassini non avessero bisogno di consigli sul loro straordinario addestramento. – Abbassai il capo in un gesto di falsa modestia, dunque sollevai l'angolo delle labbra in un sorrisetto.
– Oh, e chi ha bisogno di consigli? – Thomas si gettò addosso a Connor, il braccio stretto intorno alle sue spalle a metà tra un abbraccio e un tentato strangolamento. – Era tutto accuratamente preparato, non è vero?
Il ragazzo non rispose, i denti sbarrati e le membra rigide, ma cercò in tutti i modi di scrollarsi Thomas di dosso. – Quando la smetterete di fare i bastardi? – sussurrò con due fessure rabbiose al posto degli occhi.
– Ehi! – Tom lo lasciò andare, quasi schifato, e lo colpì con uno scappellotto sul collo. – Qui l'unico che può usare quel termine sono io. Copia un'altra volta le mie battute e sei morto, chiaro?
Connor sbuffò. – Capo, Dio santo, possiamo ancora aiutarlo quando si tratta di tirare di spada, ma quegli schifosi bacchettoni non gli insegnano nemmeno un paio di insulti come si deve! – Tom si passò una mano in faccia e Connor, dietro di lui, avvampò fino alla punta delle orecchie. – Non si può andare avanti così. Proprio no – aggiunse, massaggiandosi la mascella con una finta espressione pensierosa. Non riuscii a trattenere un debole risolino, le braccia incrociate sul petto, mentre Connor ci riversava addosso tutto il proprio disprezzo.
– Siete... – La voce gli tremò. Era tentato di riprendere la spada, ma probabilmente la paura di commettere altri imbarazzanti errori tecnici lo stava prendendo al petto, quindi puntò sulla sua parlantina, sopravvalutando un'abilità che era appena meno patetica delle sue tecniche di scherma. – Avete ucciso voi Joseph? – sussurrò infine, e mi parve persino che gonfiasse un po' il petto, giusto per fare scena.
– Chi? – La prima parte della parola svanì in un risucchio. Thomas aveva parlato con una mano in bocca, intento a scavarsi tra i molari alla ricerca di Dio solo sa cosa.
– Joseph London. – Connor serrò i pugni e non seppi fermarmi dal sorridere. Dio, forse senza Hickey le cose sarebbero state più semplici per il ragazzo, ma di certo meno spassose per me.
Roteai gli occhi. – Andiamo, ragazzo, sii comprensivo – esclamai indicando Tom. – È quello del rum. Ti ricordi?
Finse di sgranare gli occhi e agitò l'altra mano nella mia direzione. – Ah, sì – biascicò. Si sfilò di bocca le dita e le strofinò sui calzoni, annuendo vigorosamente. – Quello. Sai, bastardo, abbiamo vuotato metà delle bottiglie della locanda in suo onore. Gran brav'uomo. – Connor serrò la mascella. È sempre stato uno di quelli convinti del fatto che se non conosci il nome di un uomo non puoi permetterti di bere alla sua memoria, né tantomeno di definirlo buono o cattivo. – Oh, no, non siamo stati noi. Non avrei mai osato, no-no. – Sporse il labbro inferiore, scrollando la testa tutto offeso.
– Menti.
Thomas aggrottò le sopracciglia e sorrise, poi aprì la bocca, schioccando la lingua. – Ah… no. Direi proprio di no, amico. – Si umettò le labbra piegate in un sorrisino. Era completamente a suo agio, come in qualsiasi altra situazione, si trattasse di leccare il culo a un vecchio generale britannico o di prendere in giro Connor. Lui e la sua stupida faccia di bronzo. Probabilmente avrebbe portato solo un sacco di guai, ma cercavo di cogliere i lati positivi. Cercate di mettervi nei miei panni. – Perché dovrei mentire sulla morte di qualcuno? Mi conosci, no? – Sollevò le falde della giacca con un gesto che tradiva un’altissima opinione di se stesso, ma nemmeno Connor avrebbe potuto dargli torto su questo. Se c’era qualcosa di cui Thomas Hickey andava maledettamente fiero era il numero delle sue vittime. Fino a qualche anno prima non l’avrei mai detto, ma ero quasi certo che ricordasse alla perfezione gli occhi di tutti gli uomini che aveva ucciso, forse anche le loro ultime parole, grida disperate che lo rincorrevano nel sonno e lo avevano spezzato, facendogli ammettere che non aveva più intenzione di uccidere solo perché glielo ordinavo.
Non aveva messo in conto la barbara necessità di sopravvivere, il povero illuso. – Connor, non l’abbiamo ucciso noi. – Perché dovevo sempre scusarmi con lui, trovare giustificazioni patetiche, dirgli che avrei giurato sulla mia vita, sul mio dito o sul mio dannato uccello? Non poteva semplicemente fidarsi di me? Io… Affondai le unghie nel palmo, perché la sua espressione imperscrutabile, le labbra tese all’ingiù come per tutto il tempo che aveva passato crucciandosi, e gli occhi colmi di disprezzo, freddi e convinti fermamente della mia colpevolezza in qualsiasi atto gli fosse venuto in mente – Il Charles straripa? È colpa loro. Washington ha la dissenteria? Sempre colpa loro. Uh, abbiamo casualmente perso la guerra? Cavolo, Haytham poteva anche dirmi che Washington non era adatto al compito! – facevano crescere nel mio petto la voglia di mollargli un manrovescio. Forte, prima un ceffone dritto e poi il ritorno sulle nocche. Ero quasi eccitato all’idea. Prima Charles, ora questo. Dovrei trovarmi un altro bordello. – Questo è quanto – mormorai con la voce molto più bassa di quanto avrei voluto, dannazione. – Sei qui per farci la predica o in cerca di Church?
Digrignò i denti, puntando l’indice contro di me. – Entrambe, se siete davvero colpevoli dell’omicidio di un mio confratello. – Oh, Gesù, perché doveva cercare di fare l’uomo vissuto, il temibile assassino che ci avrebbe squarciato lo stomaco se non avessimo immediatamente obbedito ai suoi ordini, prostrandoci ai suoi piedi e baciandogli quelle enormi ginocchia? Non era neanche capace di farsi obbedire dagli altri Assassini. La lettera che gli aveva scritto un ragazzino di diversi anni più piccoli era colma di rimprovero, risentimento per un compito affibbiatogli soltanto a causa di un capriccio di Achille. E come reagiva? Prendendosela con noi. Direi che non era esattamente il massimo della maturità.
– Non siamo stati noi a ucciderlo – ringhiai a pochi centimetri dal suo viso. E questo è vero. Sono un bravo bambino, visto? – Fattelo bastare.
Non ebbe nulla da controbattere. Spalancò la bocca come un pesce e Thomas lo prese per la giubba, spingendolo da parte, quasi contro una parete. Sogghignò nell’affiancarmi mentre uscivamo dalla chiesa. Eravamo sempre un passo avanti a lui, e questo contribuì a gonfiare incredibilmente il mio orgoglio, ma decisi che, almeno per quanto riguardava quello che era il suo campo di competenze, decisi di lasciare a Connor una certa libertà. – Bene – bofonchiai con le braccia aperte, indicando l’ampio spiazzo davanti alla chiesa: il carretto accanto alla soglia, le casse rotte disseminate verso il sentiero che scendeva, tornando paradossalmente verso nord per poi volgere con una brusca ansa a destra, e poi, in lontananza, appena percettibile, un vociare acceso ma contenuto, come due sposi che non potevano litigare perché ospiti da amici. Se lo sentivo io e non Connor saremmo davvero stati messi male. – Tutto tuo, ragazzo. Tua madre era un’esperta in queste cose, sai?
Mi fulminò con un’occhiataccia. – Non osare nominarla – sibilò con tutto il disprezzo che ancora non mi aveva sputato addosso. – È solo colpa vostra se è morta.
Nostra? E io che c’entro? Parla col ragazzino qui, è lui che ha fatto tutto quanto! Sollevai le mani in segno di resa, annuendo come per dargli ragione. – Pensa ciò che vuoi. – Ero stufo di difendere la mia posizione, tanto avrebbe continuato a pensare di testa sua. – Pensa solo a trovare tracce di Ben in questo postaccio. – Faceva troppo freddo per mettersi a litigare, discutere o anche solo commentare. Mi appoggiai al fusto di un albero spoglio con le braccia strette al petto mentre Connor inspirava, si chinava rapidamente, esaminava impronte, solchi sul sentiero, toccava i tronchi con mano esperta e tirava fuori la lingua, come a percepire meglio il gelo, o qualcosa del genere.
– Diavolo. – Ovviamente per Thomas Hickey non faceva mai troppo freddo. Osservava il ragazzo con un gran sorriso di scherno, ma al tempo stesso, come me, sapeva che non sarebbe mai riuscito a orientarsi in quel modo. Eravamo uomini di città, con le narici intasate dal puzzo delle fogne e dei fiumi. Era già tanto se riconoscevamo l’odore del piscio da quello del grog. – È un bastardo col naso da pedigree. – Scoppiammo a ridere nonostante non fosse una delle sue battute migliori, ma tradivamo entrambi una certa ammirazione, a guardarlo così. Mi ricordava da morire Tiio. Maledizione.
Connor fece finta di non sentire ed esaminò in lungo e in largo l’intera radura, molto più di quanto doveva aver fatto all’andata, entrando come uno sprovveduto in chiesa senza neanche una piccola spedizione in avanscoperta. Be’, bisogna imparare dai propri errori, no? – Carri – sussurrò con una mano sul labbro superiore, su cui colava un candelotto di muco mezzo congelato. – Le tracce portano lungo quel sentiero. Sicuramente roba rubata, medicine, rifornimenti, anche abiti, a sentire Washington.
Thomas aggrottò nuovamente la fronte. – Mi stai dicendo – esclamò guardandomi, l’indice puntato su Connor – che questo ragazzino ha visto due solchi sulla terra che avrebbe riconosciuto anche un morto? Dio! – Si ravviò i capelli, frustrato. – Lasciamo perdere. Andiamo, allora.
– Dobbiamo essere discreti! – Per la prima volta in vita sua, Connor prese l’iniziativa, afferrando Tom per un gomito e tirandolo indietro prima che partisse a passo sicuro lungo il sentiero. – Statemi dietro.
– Dietro di te? Con quei passi da elefante che fai?
– Thomas.
– Che c’è? – Mi guardò di sbieco, gli occhi pieni d’ilarità. Stava giocando con il suo topolino, come sempre. – Se vogliamo prendere Benjamin dobbiamo essere una squadra. Questo non vuol dire che ci muoveremo tutti insieme, magari a braccetto e cantando in allegria, ma dovremmo fare ciò che…
Lo fermai, poggiando una mano sul suo petto. – Lascialo andare. Magari riuscirà a combinare qualcosa di utile. – Entrambi mi lanciarono un’occhiata basita, ma prima che potessimo spiccicare qualche altra parola Connor si era voltato verso il sentiero e io stavo tornando alla chiesa, trascinando Thomas con me.
– Perché gliel’hai fatto fare?
Scrollai le spalle, avvicinandomi alla parete di legno. Per mia madre sarebbe un dannato sacrilegio. Mi sarebbe tanto piaciuto dire che volevo dare un po’ di fiducia a mio figlio, che finalmente cominciavo a fidarmi di lui, convinto del fatto che, forse, in questo modo anche lui avrebbe cominciato a credere in me. Non era così, non illudetevi.
L’urina schizzò forte contro la casa del Signore, creando una pozza giallognola nella neve fresca mentre sentivo le mani tremare nello stringere l’uccello. Avevo solo un gran bisogno di pisciare.

Nonostante il gesto a dir poco blasfemo, ritengo che Dio – Minerva, Giunone, Gesù Cristo, Giove o chi per lui – fosse comunque dalla nostra parte, perché se non fosse stato per quella pisciata, Benjamin Church sarebbe ancora libero di rubare rifornimenti ai patrioti – e ciò non mi dispiaceva affatto – per donare tutto quanto alla nobile causa della Corona – un tarlo che al solo pensiero mi mandava in bestia.
In realtà il merito fu principalmente di Tom che, voltatosi con un ghigno per controllare se Connor avesse trovato qualcosa o stesse semplicemente saltellando tra gli alberi tutto felice perché, per una volta, non gli ero andato contro, aveva adocchiato un omino correre e sbracciarsi nella sua direzione, urlando come un pazzo in cerca di aiuto.
Non avrebbe potuto incontrare una persona peggiore. – Sta’ calmo, amico! – disse Thomas con quel sorriso poco rassicurante quando, sistemandomi i calzoni, l’avevo raggiunto davanti alla chiesa. – Prendi fiato. Fatti un sorso. – Gli scoccai un’occhiataccia. Insomma, quando si trattava di offrire dell’alcool a me era sempre riluttante come un vecchio scorbutico, adesso faceva comunella con il primo disperato sulla nostra strada?
Mi bastò intercettare i suoi occhi, quando girò attorno all’uomo cui aveva appena allungato la fiaschetta – un tipo anonimo, cappello calato in testa, redingote marrone consunta e le mani che tremavano, metà del viso avvolta in una grossa sciarpa – per capire che Tom aveva un piano, uno dei suoi piani. Quelli che ci avevano trascinato a Bridewell e a Fort George, rischiando di essere ammazzati. Levai immediatamente lo sguardo al cielo biancastro, cercando la forza di sopportare ancora una volta. – Dovete aiutarmi! – sussurrò quello, allungando la fiaschetta e inginocchiandosi nella neve ai piedi di Thomas, che rispose con un sorriso tutto tronfio. – C’è un uomo che vuole uccidermi! È proprio…
Connor sbucò dal sentiero con le mani sulle ginocchia e il nostro nuovo amichetto scattò in piedi come un topo, rifugiandosi dietro le non così forti spalle di Thomas Hickey. Più vicino a me. Potevo quasi sentire la puzza che emanava dopo chissà quanti giorni passati a traghettare i rifornimenti da Valley Forge a… dove, di preciso? Non lo sapevamo. Non ancora.
L’espressione di Connor passò da sollievo a rammarico in un attimo: boccheggiò come un pesce mentre indicava prima l’uomo nascosto dietro Tom, dunque il sentiero alle sue spalle, per poi chinarsi a riprendere fiato mentre con l’altra mano si grattava furiosamente i capelli. – Uccidetelo! – squittì quell’ometto fastidioso. Dio, magari avessi potuto accontentarlo. Magari. Lo afferrai per il retro della giubba, estraendo la pistola mentre trasaliva e singhiozzava. Tentò persino di ripararsi il viso con le mani.
– Bella mossa – grugnii, la pistola puntata sotto il mento dell’uomo e gli occhi su mio figlio. Idiota. Maledetto idiota che non era altro. Avrei voluto scuoiarlo vivo. – Dimmi un po’, Connor, che cosa hai chiesto a questo poveretto per farlo scappare così?
Thomas roteò gli occhi, parandosi al mio fianco e strizzando le palpebre alla luce del sole invernale. – Lui… – Il ragazzo era decisamente frustrato, agitava le mani per aria con fare impotente. Lanciò un sonoro sbuffo. – Era vicino a un carro, giù per il sentiero. Gli ho chiesto se era un uomo di Church e…
– Il mago della discrezione – brontolò Tom, tutto intento a scavare la neve con la punta degli stivali. – Allora, amico – quella parola sembrava avere tutt’altro suono, ma Hickey la pronunciò con lo stesso tono di prima. L’unica cosa diversa era la canna della pistola proprio in centro alla fronte di quel poveraccio. – Be’, direi che alla domanda del cervellone hai già risposto. Ora, dove sono gli altri?
Il ladro sgranò gli occhi in un pessimo bluff. Insomma, persino con due pistole alla testa stava cercando di mentire? Di nasconderci la verità? Bah. Gli uomini sono strani, ma la paura li rende folli. – Io… – Sbatté le palpebre tremanti, tirando un sorrisetto incerto. – Non so proprio di cosa stiate…
Tom gli si piazzò proprio di fronte, a gambe larghe. – Devo essere più chiaro, forse? – chiese. Sorrideva, il figlio di puttana, e di solito questo lasciava solo spazio a qualcosa di peggiore. – I tuoi amichetti del cazzo, quelli che fottono la roba da Valley Forge per passarla a quegli stronzi della Corona! – Gli sputò addosso nella foga e l’uomo di Church prese a tremare, bagnando i pantaloni con i frutti della sua paura. Per poco non inzuppò anche me. – Quanto vi pagano, eh? Quanta merda ti metti in tasca per tradire la tua patria? – Di norma qualunque uomo avrebbe tastato, almeno minimamente, l’accento irlandese nella voce di Tom, ma quello doveva essere troppo spaventato per farci caso.    
Scoppiò semplicemente in lacrime, riparandosi gli occhi con le mani. – A nord! – strillò, la voce acuta per il panico. Sollevai lo sguardo su Connor, che osservava la scena con i pugni stretti, e tirai su un sopracciglio. Visto, ragazzo? Si fa così. – A nord! Siamo accampati a nord, vicino a una capanna dove scarichiamo la merce! Vi prego, non fatemi del male… – Si scoprì le pupille, guardandoci alla ricerca di clemenza. Non ne avrebbe trovata. Thomas schioccò la lingua e si strinse nelle spalle. – V’ho detto tutto quello che so! Per…
Affondai il dito sul grilletto e la testa dell’uomo esplose in una fontana di sangue e cervella calde, che schizzarono in ogni direzione. Abbandonai il cadavere a terra e vidi Thomas fare un balzo indietro, inondato di sangue fino a metà busto. Stava sputando sulla neve, e quando si tirò su i suoi occhi, grossi bottoni neri sul viso rosso, erano lucidi e iniettati di sangue. – Cristo, ce n’era di roba in quella testa di cazzo – grugnì con tutta la tranquillità possibile. Mi pulii la mano sui calzoni rendendomi appena conto di star sorridendo. Era più forte di me.
– Ma che hai fatto?
Per un attimo io e Tom restammo a guardarci, sbigottiti. Aveva la bocca mezza aperta, un angolo sollevato in un sorriso accennato, e quando ridacchiai spostò lentamente lo sguardo su Connor.
Ci misi qualche secondo a rendermi conto di cos’era appena successo. Secondi di troppo, perché mentre finalmente capivo che era stato mio figlio a gridarmi contro – non Thomas, no, probabilmente il ragazzo aveva soltanto battuto sul tempo il mio caro santarellino travestito da sanguinario – stavo già precipitando all’indietro, spinto dai palmi di Connor sul petto. I miei piedi slittarono sulla neve ghiacciata e roteai le braccia, in cerca di un appiglio. Fu Thomas a fermare la mia caduta, afferrandomi per la redingote. Gesù, chissà quanto se la stava ridendo, quel bastardo. – Che cos’hai fatto, eh? – Il fiato scappò dai miei polmoni in un solo rauco sibilo. Mi aveva mandato a sbattere contro un albero, la faccia insanguinata a un pollice dalla mia. Dalle sue fauci colava un rivolo di saliva, appena lucida su quell’inquietante maschera. – L’hai ucciso! – Mi scagliò a terra, e in un attimo mi ritrovai a ingoiare neve con la bocca mezz’aperta, il viso sprofondato in quel candore accecante. No, non somigliava per niente al paradiso. Sembrava più la morte. – Bastardo! L’hai…
– Ehi, calmati! Bastardo, vedi di… – La voce di Tom. Sempre a impicciarsi, quello stupido. Si sarebbe fatto male. Insomma, non metto in discussione l’addestramento che l’Esercito Britannico e io eravamo riusciti a mettere in piedi, ma Connor era due volte più grosso di lui. Rischiava, altroché. 
– Va’ al diavolo! Andate al diavolo tutti e due! – Connor ruggì, e in un attimo venni rivoltato sulla schiena, le ginocchia di mio figlio a schiacciarmi il costato. – Bastardo – berciò, gli occhi lucidi fissi nei miei. Sembrava volesse piangere davvero. Insomma, in famiglia ero io quello che piangeva, parlava con gli spiriti e impazziva. Non… non lui. Almeno, così credevo.
Tom era sparito dal mio campo visivo. Chissà che gli aveva fatto. Forse si era soltanto ritratto per paura di pisciarsi sotto dalle risate. – L’hai ucciso! Come hai potuto?
A essere sincero, non riuscivo neanche a battere le palpebre.
– Come hai potuto?
Con il cuore che impattava contro le costole con tutta la propria violenza e una cieca sensazione d’impotenza nel petto, mi sentii ancora peggio, stranito, confuso, decisamente disorientato, quando mi accorsi che Connor aveva gettato la sua stupida accetta a terra e stava singhiozzando, stretto su di me. – Come hai potuto? – Manco avessi sparato a lui.
– Pensavo… – sussurrai debolmente. Iniziavo a vedere strane macchie scure danzarmi davanti agli occhi. Credevo che uno di noi l’avrebbe fatto davvero, alla fine. Io, Tom, forse lo stesso Connor. Anche se non in quel modo.
– Che? – Si alzò di scatto e d’improvviso non vidi più nulla, completamente accecato dal violento dolore alla mandibola. Portai istintivamente le mani in faccia: cercavo con ogni mio sforzo di sussurrare una bestemmia, ma sembrava incastrata in gola assieme a qualche rantolo di dolore. Per quanto ci provassi, la parte bassa della mia faccia era come addormentata. – Che cosa pensavi? – Non avevo mai sentito la sua voce così vibrante di rabbia. Avevo cominciato a pensare che non fosse nemmeno in grado di provare quel sentimento, non a simili intensità.
Mi sentii tirare su per l’incavo del gomito, di nuovo in piedi. Oh, forse Connor non aveva sparato a quel mercenario, ma qualcosa mi diceva che stava per sparare a me. Dannazione. – Rispondi! – Diede un colpo sulla mia faccia a palmo aperto, all’altezza della tempia, ma riuscii a pararlo, sferrandogli una testata dritta contro il naso. Non aveva ancora il diritto di prendersi tutte quelle libertà.
Aprii e chiusi meccanicamente la bocca, rendendomi conto di poter ancora gemere, lamentarmi e continuare a dire battutine sarcastiche. Il massimo. – Era uno spreco di soldi, avrebbe potuto fare la spia. – Mi fermai un attimo a tastare le ossa, riflettendoci su. – Sia con i patrioti, sia con Birch. Tra due fuochi. Avresti davvero voluto…
– Potevamo trattenerlo! – sibilò con le mani davanti al volto. Cristo santo, ragazzo. – E lasciarlo andare quando tutto fosse finito! Potevamo…
Sollevai le mani. – Credi che sarebbe cambiato qualcosa? Piantala! – Indicai il cadavere sulla neve con un gesto stizzito. – È morto ormai, non c’è più niente da fare! Avevi solo da dirmi prima di abbassare la pistola.
Lo sentii chiaramente reprimere un singulto, il petto che si alzava e si abbassava in fretta. – Lo stava spaventando – sussurrò iracondo, con i pugni stretti e due solchi pallidi sulle guance sporche di sangue, dove le lacrime avevano compiuto il loro percorso. Non ci credevo. Non riuscivo, davvero… Mio figlio che difendeva Tom e il suo operato? Buon Dio! Che diavolo era successo al mondo? Come se Tom non avesse la stessa intenzione a punzecchiarlo dietro le orecchie, dentro la testa.  
Emisi un sospiro più simile a una risatina. – Già – replicai, l’anulare della mano destra sventolato davanti al suo viso. – Perché è proprio questo ciò che facciamo quasi ogni giorno. Spaventiamo. Ed è per spaventare che portiamo lame alla cintura, dietro la schiena, in fondo ai calzari. È per spaventare che Tom punta l’uccello contro qualunque cosa respiri, e… – …ed è per spaventare che ha infilato le mani tra le chiappe di Charles. Non perché uccidere, scopare e sottomettere ci ecciti, ci soddisfi. No. Per spaventare, perché siamo brave persone, e le brave persone non uccidono, non scopano e soprattutto, per carità di Dio, non sottomettono nessuno. Mai. A parole non riuscii ad andare oltre, dunque mi fermai, scrollando le mani e stringendomi la gola, come a sentire di nuovo il peso di un cappio sulle clavicole. – Lasciamo perdere. Tutti e due.    
Connor gemette con tutta l’aria di chi non aveva la minima intenzione di lasciar perdere. – Sei un sanguinario – sussurrò con i pugni serrati e gli occhi bassi. Avrebbe potuto uccidermi, con tutte le volte in cui ci avevo provato io, ma forse sarebbe stato troppo… stupido. Insomma, darmi del sanguinario per uccidermi poi a sua volta? Di certo non il massimo della logica.
Sembrava di aver già vissuto quel momento, diavolo. Per l’ennesima volta nella mia vita ero immobile davanti a un uomo armato con l’occasione di uccidermi lì, su un piatto d’argento, e aspettavo con il petto colmo d’aria, senza il coraggio di lasciar andare l’ossigeno per paura di non sentirne mai più il fresco sapore in bocca, quella sensazione di sollievo e vita che riempie i polmoni e si diffonde in ogni capillare come il tè più forte che sia mai stato preparato.
Non mi uccise. Non so dirvi il perché, ma vidi lentamente i muscoli delle braccia rilassarsi sotto il cappotto e i suoi pugni aprirsi lentamente. – Andiamo. – Quasi andò a sbattere contro il petto di Thomas, appostato alle sue spalle con le labbra strette in un risolino, e prese il sentiero a grandi passi. Il mio socio rimase interdetto per qualche istante, immobile tra i nostri due fuochi, e parve non sapere cosa fare. – Hickey – chiamò Connor lagnoso, le narici dilatate in un respiro profondo. – Vieni con me. Non credo ci aspetti un solo uomo. – Con un gesto fulmineo Tom si slegò la spada dalla schiena, poi scrollò le spalle in un gesto strafottente, di nuovo libero da quella lama incastrata in mezzo alle scapole.
Osservai Connor, alzando cauto gli occhi. Aveva ancora quella luce sanguigna nello sguardo, portatrice di un terribile messaggio di morte. Mi bastava guardarlo per capire che se non avesse abbattuto la propria furia sui mercenari di Benjamin sarebbe tornato per sfogarsi su di me, magari mentre dormivo, con la sua strana accetta e gli occhi pieni di lacrime. D’istinto feci cenno a Thomas di seguirlo. Dio, anche un idiota avrebbe capito che quella, tra tutte le minacce di morte che avevo ricevuto nel corso di una vita, era l’unica che mi facesse davvero cagare sotto dalla paura. – Oh, fai bene – esclamò Tom, come se fosse riuscito a leggere i miei pensieri e quelli del ragazzo con un semplice sguardo. Oltre al sorriso sghembo e giallognolo che gli brillava in faccia ne delineò un altro, ampio, con la punta del pollice lungo tutta la gola, quasi da orecchio a orecchio. – Fai proprio bene, capo. – Ancora non sono capace di dire se facesse sul serio o meno, ma seguì mio figlio come se non aspettasse altre occasioni.
Un attimo dopo erano spariti nella foresta. Sollevai il colletto della redingote a mo’ di sciarpa, le ginocchia che fremevano con violenza. Connor poteva anche essersi allontanato, ma il peso della sua scure sulla mia nuca sembrava più reale che mai. Temetti persino di essermela fatta addosso.
Espirai piano. Quanto tempo era trascorso da quando avevo preso fiato per l’ultima volta? Ringrazia che ancora respiri. Una parte di me voleva seguirli, almeno pedinarli per udire quanto avrebbero sparlato del sottoscritto, ma la soffocai immediatamente. Mi ero già cercato troppi guai, dannazione, e che male c’era nel lasciare fare ai giovani mentre accendevo un fuoco e mi godevo la sensazione del freddo in gola?
M’allettava molto più di tutto il calore che mi sarebbe esploso in bocca appena Connor avrebbe affondato una lama nel mio collo.

–  Let us drink and be… And be… – Sputai nella neve con un risucchio frustrato e rivoltai le mani davanti alle fiamme. Non sapevo dire con precisione da quanto tempo Thomas e Connor fossero spariti tra gli alberi, ma senza dubbio dovevano aver trovato pane per i loro denti. Oppure questo fantomatico accampamento a nord era decisamente lontano, chi lo sa.
Scalciai via uno degli stivali, sistemando il piede mezzo congelato proprio sulla scia di calore del fuoco. La fasciatura al polpaccio, sporca di sangue secco ma ormai praticamente rimarginata, mi riportò con la mente a quei tremendi giorni trascorsi con il fiato grosso e la paura di essere scoperti a pesare tra me, Tom e London con la stessa forza di un tradimento. Mi mordicchiai le labbra, cercando di cancellare dalla mia mente l’istante preciso in cui la testa di London si era aperta sotto i moschetti degli uomini di Banastre Tarleton, e cercati di ricordare nuovamente quella maledetta canzone. Aveva cominciato a risuonare nei meandri del mio cervello qualche tempo prima, e con essa il viso di mio padre, la sua risata e il suo modo di parlare quand’era ubriaco.
Non potevo riavere nessuna di quelle cose, dunque facevo leva su quella dannata canzone. Mi sforzavo di trarne coraggio, o qualcosa del genere. Non che fosse facile. Oltre alla musica, nel mio cervello vagavano mille ipotesi su come Connor mi avrebbe definitivamente fatto fuori. Mi avrebbe soffocato. No, meglio, avrebbe spaccato a metà il mio cranio con un sasso. Poteva tramortirmi e poi impiccarmi, o, perché no?, affondare la lama nella mia schiena mentre cercavo di recuperare la sensibilità alle dita dei piedi. Erano tutte fini piuttosto patetiche, non avrebbe fatto molta differenza. – Here’s a health to the Company and one to my lass, let us drink and be… – Niente. Per quanto mi sforzassi di distogliere la mente da quei pensieri, non avevo alternativa. Il mondo dei morti era lì, a un passo da me. Che potevo farci?
Non avevo il coraggio di chiedere a Minerva e Giunone nuove sul mio destino. Un’altra possibilità sarebbe stata quella, per Thomas, di uccidere Connor e schierarsi con il suo amato Ben. Un altro giro di affari clandestini e tanta, tanta rosea armonia. Mi veniva quasi da vomitare. – And be… Al diavolo. – Allungai una mano e rimisi il piede all’interno dello stivale. Insomma, se dovevo morire, che almeno accadesse con un minimo di dignità.
Mentre le cinghie tintinnavano attorno al polpaccio, sentii un chiaro movimento nella foresta. Lo sgusciare di una suola sulla neve ghiacciata. Un ansito, o comunque dei respiri in rapida successione. – Fantastico. – Strinsi l’elsa della spada e saltai in piedi con un grugnito. Connor non poteva scegliere momento migliore per farmi secco, no? Eccomi lì. Pronto. Perché tenevo ancora una spada tra le mani? Non sarebbe stato assai più facile lasciarla cadere e aspettare il colpo di pistola sotto la lingua o in mezzo alla fronte, oppure la baionetta tra una costola e l’altra? Era forse un simbolo di patetica ribellione, l’ultimo che potessi permettermi?
Mi strinsi nelle spalle. Nonostante il fuoco fosse ancora acceso, faceva troppo freddo per quei pensieri. – Va bene, ragazzo – esclamai, gettando la spada nella neve. Si incastrò di punta in quel mezzo ghiaccio. Il momento sbagliato per tali dettagli degni di una morte eroica. – Fallo in fretta, almeno. – Strizzai le palpebre. Aspettavo solo il calore del sangue e della vita che se ne andava, accompagnato da una grande luce bianca e dalla sua folle risata.
Mi sentii scaraventare a terra, la schiena completamente congelata. Strambo. Non avevo appena… Insomma, avevo sempre pensato che il sangue fosse caldo. Che il sangue sgorgasse come lava, plasmando gli uomini a mo’ di paesaggi e rendendoli migliori, a volte. Schiusi appena gli occhi. Eccola, la grande luce bianca. E nera. C’era anche del nero. Da dove veniva? Perché c’era anche quel nero, allungato e…
Un piede mi calpestò le dita e acuì la mia vista. Misi a fuoco la vera natura di quelle striate scure mentre gemevo di dolore. – Cazzo! – Strinsi la mano nell’altra. Non era la luce bianca che conduce alla morte. Solo l’accecante cielo chiaro di Valley Forge. Quando mi voltai, l’unica cosa che vidi fu la schiena di un uomo in corsa, con le braccia agitate verso il cielo e la camminata sbilenca. Una vecchia ferita o una distorsione presa lungo la strada? Oh, chi se ne importa. Da come scappava, doveva essere uno degli uomini di Benjamin Church. Quindi li avevano trovati. Prima che sparisse definitivamente tra gli alberi, notai che il fuggitivo non aveva una spada e la mia era ancora lì, con l’elsa che ondeggiava una ventina di centimetri sopra il manto di neve. – Auguri – brontolai tra me e me. Mi abbandonai nuovamente accanto al fuoco, stretto nelle spalle. Non m’importava niente di niente. Un superstite impaurito non avrebbe certo potuto fermarci, se mai fossi uscito vivo da quell’inghippo.
A voler essere sincero, finché riuscivo ancora a respirare non m’importava un bel niente di nessuno. Soltanto i morti non si preoccupano mai per se stessi. E gli Assassini, ma i due concetti tendono ad avvicinarsi piuttosto in fretta, sapete? Insomma, stavo per morire, e che il mio ultimo atto fosse gentile, allora. Mi avrebbero ricordato come il bastardo assetato di sangue che aveva salvato la vita di un povero mercenario giusto prima d'andare incontro alla propria fine. Quale onore.
Una figura balzò oltre una radice coperta di neve, la spada sguainata e un ghigno iracondo sul volto schizzato di sangue. – Dove vai? – gridò, scoppiando immediatamente a ridere. Thomas Hickey. – Ti vengo a prendere, tanto! – S'allontanò con i piedi che sollevavano nuvole di neve. Aveva scelto un bersaglio per la propria furia, dunque, ma questo non escludeva che dopo sarebbe comunque toccato anche a me. Quasi risi al pensiero di Hickey, uno degli attentatori alla vita di Washington – alto e infimo tradimento! – che uccideva gli uomini addetti ai furti di rifornimenti a Valley Forge, al suo esercito. Non era una questione di ideali, suppongo. Aveva bisogno di sfogarsi e loro erano lì. Se non Thomas, ci avrebbe pensato Connor, dunque perché sprecare una tale occasione? Avevano una condanna a morte attaccata al collo, che agissero in fretta, non come stavano facendo con me. Mi mordevo le labbra a sangue, pensavo che tanto, anche se ci fosse stato qualcosa dopo la vita, sicuramente mi sarebbe toccata una punizione. Non mi faceva sentire poi così sollevato, devo ammetterlo.
Udii il viscido sgusciare di una lama nella carne e dei gemiti, giù nella frontiera, tra gli alberi spogli. Era la mia immaginazione o avevo davvero visto qualche schizzo di sangue trapuntare la neve, descrivendo parabole perfette? Ah, l'armonia che c'è nella morte, negli arti scomposti e nella vita che scivola fuori dai corpi dagli squarci del piombo e delle lame. Aveva sempre avuto un proprio fascino.
Tom interruppe il mio filosofeggiare balzando fuori da una macchia di alberi mentre strofinava un pugno di neve sul filo della spada, lavando via il sangue con una smorfia, come se gli dispiacesse. – Perché quello non l'hai ucciso? – sussurrò. C'era una nota amara nella sua voce, ma non solo. Era più roca, pareva la voce di un condottieri che aveva consumato le proprie corde vocali per incitare gli uomini nella più gloriosa carica di sempre. Un vecchio condottiero, come quelli delle fiabe, con una cotta di maglia sulle spalle, un grandioso, inutile e pomposo senso dell'onore, gonfio di patriottismo, biondo, gli occhi come zaffiri e una gentile fanciulla ad aspettarlo a casa a gambe aperte, solo per lui. Un perfetto ritratto di Thomas Hickey. – Mi hai sentito?
Scrollai le spalle con le mani tese verso le fiamme per scaldarmi. – Oh, non avrei mai sopportato di ferire ulteriormente il vostro nobile animo. Mi si sarebbe spezzato il cuore. – Sputai a terra e gli mostrai un sorrisetto sprezzante. – Dato che siete voi gli unici con il diritto di vita e di morte su tutti quanti, giusto? Io non posso uccidere un mercenario, lui fa una fottuta strage soltanto per sfogare i suoi istinti omicidi, ma naturalmente l'unico stronzo qui sono io. – Ridacchiai: chinò lo sguardo e prese a ridere tra sé, e tentennando nel legarsi la spada sulla schiena. – Che si levi i pantaloni, così posso leccargli meglio il culo.
Thomas emise un grugnito, le palpebre mezze calate sugli occhi nella sua stupida imitazione di mio figlio. – Dovresti ringraziarmi! – berciò puntandomi un dito addosso. – Potevi esserci tu al loro posto.
– Oh, santi numi, no! Un'altra minaccia di morte! Sono terrorizzato! – Scrollai le spalle con noncuranza. Connor si era sfogato, mi sentivo appena più al sicuro. Di poco. – Che vuoi farci? Banale routine. A proposito, se vuole ammazzarmi, ti prego, digli di farlo ora. Sono troppo vecchio per le sorprese.
Si morse le labbra a testa bassa, le dita che correvano alla nuca. Si divertiva, era evidente, e questo non faceva altro che riempirlo di soddisfazione. – Forza. Sarebbe il suo grande omicidio, giusto? Qualcosa di epocale. Il Gran Maestro dei Templari finalmente morto. – Puntai gli occhi su di lui con un sorriso divertito. Il sorriso sembrava non voler sparire dal suo viso e si torturava l'interno della guancia come preda di un tic. Fu gentile, almeno, non mi ricordò che ancora non ero un bel niente. – Poi potrebbe ritirarsi a vita privata e passare gli ultimi anni della sua vita a filosofeggiare mentre Washington conquista il mondo e gli Assassini crescono come un cancro, si diffondono e infettano tutto ciò che incontrano sul loro cammino.
– Andiamo, non dire così. – Tom sembrava un bambino, l’infido consigliere del prepotente del gruppo. Che quindi sarei io. Carino. Con lo sguardo puntato dritto di fronte a sé e i pugni stretti, Hickey volle a tutti i costi difendere l’etica del ragazzo. Non gli stava mai bene nulla, eh? – C’è quel morto, lì, London, sarà ancora una cosa fresca per lui. Non se l’aspettava.
Quasi scoppiai a ridere. D'accordo, forse aveva ragione, uccidere mi veniva facile e aveva contribuito a gonfiare il mio ego, ma ero abbastanza coerente da non negarlo. Allungai una mano e gli diedi un buffetto sulla guancia. – Hai ragione – sussurrai con un sorriso, in piedi di fronte a lui. – Ma è sempre meglio che tenere in vita qualcuno per illudersi di essere una brava persona. – Ignorò la frecciatina. Dio, lo adoravo. Ci mancava solo che mi facesse incazzare anche lui. – Guardaci, Tom. Pensi che per quelli come noi ci sia possibilità di redenzione? Dopo tutto ciò che abbiamo fatto e con la nostra consapevolezza? – Scossi tristemente il capo e Tom trasse un breve respiro, sbuffando subito il fiato fuori in una nuvoletta di condensa. Aveva un'espressione rassegnata in volto, ma quasi soddisfatta.
– Haytham... – Non fece in tempo ad andare oltre che mio figlio sbucò dal sentiero, piegato in due per il fiatone, i vestiti schizzati di sangue e il tomahawk stretto in mano. Dal polso sinistro, la lama celata sembrava non voler sapere di ritrarsi. Tom batté le mani, scocciato. – Perfetto!
Quanto gaudio. – Ehi – brontolai, girato di tre quarti.
– Mi hai... – Connor sollevò appena il volto: era rosso per il sangue e la corsa appena affrontata, e pareva avere ancora serie difficoltà nel respirare. – Mi hai lasciato da solo a combattere quei mercenari! – berciò contro Thomas, recuperando finalmente un tono di voce più alto. – Ora sono morti, ma...
Tom scrollò le spalle, e m'accorsi che teneva i pollici infilati nel cinturone, la mano destra fin troppo vicina all'elsa della spada. – Di che ti preoccupi, bastardo? I loro cadaveri sono cibo per i lupi. Cerca dei cavalli, piuttosto, e di' a Washington che può trovare la sua merda lassù. – Lo fissai. Non c'era niente che non andasse nella sua soluzione, ma Connor lo guardava comunque contrariato. Avesse saputo quello che aveva fatto a sua madre... Gesù.
Mio figlio annuì tra sé e tornò a guardare il sentiero che portava a Valley Forge. Avevamo legato i cavalli a un albero poco lontano dall'accampamento, dunque tanto valeva che ci incamminassimo. – Cos'avete scoperto? – La neve si era consolidata a sufficienza da camminarci sopra, c'era solo da fare a patti con il costante terrore di scivolare e spezzarsi una gamba. Proprio la cosa più utile in quel momento.
Thomas passò davanti a Connor con una smorfia di disprezzo e lo trascinò con sé afferrandolo rudemente per la giubba. – Oh, questa è interessante. Digliela tu, bastardo. – Il suo tono tradiva un certo divertimento, come quasi ogni volta che gli toccava avere a che fare con Connor. I suoi unici svaghi, che erano poi anche i miei: uccidere e prenderlo in giro. Eh, già, uno dei principali motivi per cui le nostre coscienze erano andate a farsi benedire, o s'avviavano per quella strada. Che cattivissime persone. – Coraggio! Non ammazzerà pure te, giusto?
Sollevai le mani. Se voleva davvero giocare avrei seguito le regole, per quel che valeva. – Solo perché non posso – replicai, e Thomas batté una manata sulla schiena di Connor mentre sghignazzava. Oh, guardateli. Erano coperti di sangue, probabilmente disperati – be’, almeno Connor –, entrambi colpiti da quanto facilmente gli uomini intorno a loro morissero. Su, doveva essere difficile. ‘Fanculo. – Parla, Connor. – Insomma, loro non uccidevano da quando avevano dieci anni e non erano nati per farlo. Il destino di Connor non era la vendetta, e non mi era mai sembrato seriamente intenzionato a fare della morte la propria vocazione. Per me era diverso. – Su. – Io ce l'avevo nel sangue.
Connor si strinse nelle spalle. – New York. Pare che Church sia laggiù.
Merda. – I suoi cagnolini sono tutti morti? – Mi passai le dita tra i capelli corti. Era una strana sensazione, sembrava che il freddo s'infiltrasse nel colletto e scivolasse lungo la schiena con una facilità molto maggiore, ma non ero pentito di quella scelta. Per quanto dettata da un'esigenza, si era rivelata poi decisamente comoda. – Sono tutti morti? – Quasi senza rendermene conto mi ero piazzato di fronte a lui come un generale pronto a flagellarlo, guardandolo in faccia con aria di sfida.
– Sì! – replicò con un sussulto. – Sì, li ho... abbiamo... non è rimasto nessuno. – Il suo sguardo tentennava su Tom, e pareva evidente quanto poco si fidasse di lui.
Ringhiai comunque, aumentando il passo nel discendere il sentiero davanti alla chiesa. – Spegnete quel maledetto fuoco e muovetevi. Rapidità e discrezione, questo è il nostro motto ora. Sono stato chiaro? – Immagino che se mi fossi voltato avrei colto in flagrante Tom che, alle mie spalle, m'invitava con un cenno silenzioso a succhiargli l'uccello mentre Connor spegneva il fuoco. Non c'era rimorso nei suoi occhi. Non c'è mai, non si riflette nelle pupille di quelli che pensano di fare la cosa giusta. Aveva ucciso uomini contro la causa di Washington, dunque anche contro di lui, ma non era pur sempre omicidio? Forse qualcuno di quei ragazzi aveva una mogliettina gravida a casa, e di norma questi struggenti pensieri tendono a disorientare le brave persone dotate di coscienza. Non io, dunque. – Quanto ci mettiamo fino a New York, Tom?
Sputò a terra. – Faremmo prima in nave, capo.
– Attraccare proprio di fronte a Fort George, grande idea. – Oddio, poteva anche darsi che Connor l'avesse ipnotizzato con qualche rito Mohawk nel breve tempo passato insieme, trasmettendogli il proprio talento per le intuizioni cretine. – Dobbiamo trovare una corriera o muoverci a cavallo. Church potrebbe essere al lavoro per Tarleton, e a quel punto sarebbe complicato prelevarlo senza dover fare una strage.
– Ucciderlo, intendi – puntualizzò Tom.
– Chi se ne frega – ringhiai. – Se vogliamo avere almeno qualche possibilità di trovarlo dobbiamo arrivare in fretta giù a New York, intercettare la sua scorta e braccarlo. Dovrebbe essere semplice, in fondo.
Tom sbuffò. – La città è grande, capo.
Non riuscii a trattenere un ghigno. – L'ira e gli ordini me ne hanno fatte attraversare di più grosse, amico  – sentenziai. – Devi solo avere pazienza. Adesso seguitemi, invece di lagnarvi come due femminucce. – Quella smorfia sadica non voleva saperne di andarsene. L'ennesimo vecchio amico da uccidere, servito su un piatto d'argento. Fortunatamente questa non è una Confraternita, o ne avrei già violati i principi due volte di troppo. Anzi, ora che ci penso, questa sarebbe la terza. Con le mani affondate nelle tasche, presi a passo spedito il sentiero che, parallelo al Valley Creek, riportava all’accampamento. Probabilmente Washington stava prendendo un tè, oppure era intento a limarsi le unghie delle mani. Tutto, tranne preoccuparsi del proprio esercito disastrato.
Sorrisi. Probabilmente tenevo la mente impegnata su quei pensieri, sull’incompetenza di qualcun altro, solo per evitare di urlare contro me stesso ciò che già sapevo: ero un fottuto traditore. Per la terza volta stavo andando ad uccidere un uomo che era stato dalla mia parte.
Appunto, era stato. Udii Thomas e Connor farfugliare qualcosa alle mie spalle, ma non avevo motivo di curarmene. Erano due ragazzini, che giocassero. Ora che ci penso, non avevo mai visto Connor comportarsi da adolescente. Era sempre stato così serio, rigido e devoto alla causa. Mi scappò un sospiro triste. Di sicuro non aveva preso dai Kenway. – Ehi, capo! – Tom comparve al mio fianco di corsa, con il cappello calato sulla testa e un’espressione strana in viso. – Ti posso parlare?
– Ti sembra il momento, Hickey? Sono sommerso dagli impegni, non vedi? – Mollai un calcio a un sasso nel mezzo del sentiero e roteai gli occhi, scocciato.
Thomas arricciò le labbra, segno che aveva capito la battuta ma non aveva voglia di ridere. Qualcuno mi dia soddisfazione o potrei impiccarmi, per favore. Scostò il collo della camicia dalla pelle, passando un dito tra le superfici. – Mi dispiace per quello che ti ho detto. Per quello che ti dico, in generale. – Si strofinò le mani e fece schioccare le lingua. Cercava una giustificazione. Era decisamente un bravo bugiardo, perché quando si trattava di dire ciò che realmente provava faceva davvero schifo. – Solo… Io voglio davvero smetterla con questa roba. – Indicò stizzosamente tutte le armi che gli pendevano dalla cintura, buttando il fiato fuori. – So che non sembra, che continuo a uccidere e che sembra pure piacermi. È difficile. Essere una brava persona.
Scrollai le spalle. – Le brave persone non esistono. Ci sono solo punti di vista. – Non sapevo di preciso come rispondergli. Forse voleva solo essere consolato, sentirsi dire che non aveva alcun bisogno di cambiare perché era già uno stramaledetto brav’uomo. Avevo puntato sulla sincerità perché se mi era fedele lo era anche per come gestivo le situazioni. Capiva. Vedeva il mondo e lo accettava, ma non riusciva a farlo con se stesso. Snervante. – Sai perché non abbiamo più possibilità, Tom? Io e te, intendo.
Gonfiò le guance. – Perché non abbiamo fatto altro per tutta la vita. Perché ci hanno insegnato che spargere sangue è l’unico modo per risolvere i problemi e allungare la propria patetica esistenza. – Mi scoccò un’occhiata d’intesa e tirò su un angolo della bocca davanti alla mia espressione sbigottita. – Credevi non lo sapessi?
– Volevo la battuta d’effetto – grugnii in risposta. – Diavolo, hai ragione, comunque. Va’ avanti. – Maledizione. Quel ragazzo stava diventando troppo intelligente, per i miei gusti. Anche se, pensandoci, era stato l’unico motivo per cui avevo deciso che non doveva morire. Non in quel modo, non in prigione né tantomeno appeso a una forca per il tentato omicidio di Washington.
Annuì tra sé e sé. – Ho visto il tuo bastardo combattere. – Si mordicchiò le labbra. Il mio bastardo. Chiamare Connor per nome faceva uno strano effetto anche a me. Non riuscivo a capacitarmi del fatto che non fosse un semplice alleato, ma mio figlio. Il mio bastardo. – Ha… Non che non sappia combattere, eh, la sua tecnica fa un po’ pena, ma non è quello il fatto. – Perché diavolo non arrivava al punto? Riuscivo a scorgere il fumo che si levava dai falò di Valley Forge in lontananza. Ancora qualche minuto e saremmo dovuti partire per New York. Ci aspettavano giorni di cavalcata senza possibilità di privacy, sicuramente pieni di discordia e azioni sbilenche. Che parlasse, maledizione. – Si vede che non sa ammazzare. Cioè, non sa ammazzare. Ha quella cazzo di faccia dispiaciuta quando uccide qualcuno, è… Mi fa sentire un mostro, ma al tempo stesso mi rendo conto che non posso farne a meno. Mi diverte, porre fine alle vite degli altri. E mi faccio schifo mentre lo dico, ma dovrei forse mentire?
– Non con me – sussurrai con l’unghia del pollice in bocca. – Quindi? Dove vuoi arrivare?
– Quel tipo che t’è passato accanto… l’ho fatto scappare di proposito.
– Eh? – Staccai d’improvviso la mano dalle labbra. Non pensavo di aver capito bene. – Cosa? Tu…
Sollevò le mani, intimandomi di abbassare la voce. – Non me la sentivo di ammazzare tutti quei bastardi. Non lì, non davanti al ragazzo. Sapevo che se fossi rimasto lì avrei cominciato a trucidarli, a… a ridere delle loro morti e cazzate simili. Sono assetato di sangue, Haytham, e quando lo sento vicino non posso fermarmi. Per questo mi sono allontanato con quell’altro, in modo da ucciderne solo uno. E, porca puttana, posso dire una cosa? – Si guardò attorno, come se qualcuno potesse acchiappare quell’informazione al volo e distribuirla per tutto il Nuovo Mondo. Le crisi d’identità di Thomas Hickey in esclusiva, signori e signore! Abbandonò quell’aria di cospirazione e tirò su l’angolo della bocca. – Mi sono sentito vivo – sibilò. Scrollò le spalle mentre tirava su col naso, respirando l’aria pura della frontiera come se la sentisse davvero per la prima volta. Era così deciso. Fiero, quasi. Non sapevo più cosa pensare. – Capisci? – sibilò con il capo chino. – L’unico modo che ho per vivere è far morire qualcuno. Non posso essere un brav’uomo. Non posso essere niente se non un cazzo d’assassino. – Fece spallucce e si passò la mano su una guancia, stropicciandosi la pelle ispida. Guardava un punto fisso nel vuoto, come se stesse solo constatando un fatto. Era così, punto. Aveva ragione. – Per quanto mi sforzi… – Storse le labbra in una smorfia rassegnata. – Io non vorrei essere così, ma finché porto un’arma alla cintura non… non c’è… – Rizzò la schiena di colpo, passandosi le mani umide sul davanti della giacca. Fece un passo indietro e scrollò le spalle per l’ennesima volta. – Mi spiace, capo.
Lo guardai negli occhi scuri, gelidi e colmi di razionalità. Nella mia mente si stavano diramando due ipotesi su ciò che avrebbe potuto fare, e nessuna delle due mi piaceva. Ah, no. Non lui.
Lasciate un attimo che vi dica come la penso su Thomas Hickey, per favore.
È uno di cui fidarsi, certo. Ho sempre creduto in lui, ma fin dall'inizio, dai primi tempi, sembrava che qualcosa nella sua testa non fosse esattamente al posto giusto. Io lo ascoltavo, eh. All'epoca un po' meno, perché era facile ignorarlo avendo altre quattro persone intorno, gente seria e composta, che ci pensa su un milione di volte prima di parlare, ma bastava guardarlo un minuto per capire che qualcosa in lui non andava.
Ora... be', non avevo nessun altro. Mi toccava ascoltarlo, maledizione, ma con le dovute precauzioni. Dopo quel primo stupido sfogo avevamo litigato mille volte per mille inezie diverse, e mi ero appuntato mentalmente una cosa: prendilo con le molle, ecco cosa pensavo, e quando lo vedi troppo accorato semplicemente ignoralo. Non era in sé. Era su di giri, pazzo, ebbro di se stesso. Ebbro e basta.
E poi ero stufo di picchiarlo, di litigarci, di fare mille storie per i suoi comportamenti istintivi. Voleva fare di testa sua? Bene, ma che non mi coinvolgesse. Quello che Tom non capiva, che non aveva mai sperimentato, forse, era il peso di un capo sopra di lui. Non eravamo mai stati così legati, prima, ma, diavolo, ero io il Gran Maestro. Decidevo io chi ammazzavo, e se lui voleva fare il santo era ben libero di farlo, ma, che cazzo, che mi lasciasse fare ciò che volevo.
Eravamo amici, o qualcosa di simile, ma non poteva prendersi tutte quelle libertà. La mia pazienza aveva un limite, limite abbassato dalla mia seconda impiccagione, da William Johnson e dal periodo passato con gli Assassini. Cercavo di usare al meglio il poco che avevo, ma... Dio, Hickey era pazzo.
Non c'era altra spiegazione nella mia testa, e nonostante ciò, nonostante mi preparassi mentalmente per i futuri inconvenienti che sicuramente mi attendevano, il destino sembrava piazzarsi davanti a me con le gambe larghe e le braccia incrociate ogni due per tre, impedendomi di proseguire spedito e, almeno, senza troppi intoppi.
Eppure Tom non fece nulla. Semplicemente incrociò le braccia e abbassò lo sguardo. – Mi dispiace. – Sembrava che volesse rimandare la sua decisione a un altro momento. E non avevo intenzione di lasciarglielo fare.
– Thomas, smettila di pensare. Davvero. – Abbassai la voce in un sibilo. – Andiamo, tu non mi mollerai qui, giusto? Non puoi farlo. – Sospirai, lo sguardo incollato al suo. – E nemmeno… t’ammazzerai, o simili. – Aggrottò le sopracciglia davanti alla mia seconda ipotesi. Complimenti per avergli dato l’idea. Mi passai una mano sulla fronte. L’idea che potesse abbandonarmi, anche lui, anche l’ultimo che mi era rimasto, mi faceva scendere a livelli di patetismo inimmaginabili. – Dobbiamo soltanto trovare una soluzione. Credi che io sia felice di essere un sanguinario? Di stabilire quanto valga la vita di un uomo soltanto in base alla cifra che dovrei spendere per sfamarlo o alle azioni che potrebbe svolgere? Credi che non mi senta meschino almeno quanto te? – Le parole uscirono dal mio petto senza che me ne rendessi conto, e cominciò a crescere un gelido sospetto al loro posto, proprio accanto al cuore.
Magari non stavo mentendo, né tantomeno cercavo di convincerlo. Forse mi sentivo davvero meschino, uno stronzo senza speranze di ritorno. – Sei giovane, Tom. Hai tutta la vita davanti per la redenzione, il perdono e… – Avrei aggiunto “quelle stronzate”, ma mi trattenni. Oh, non finché ancora marcio su questa terra, Hickey. – Però io ho bisogno delle armi nelle tue mani. Solo fin quando Reginald non sarà morto. – Scrollò le spalle e distolse lo sguardo, un sorrisetto poco convinto in faccia. Non ci credeva neanche lui, e, a pensarci bene, nemmeno io ero poi così sicuro che ce l’avrei fatta. Rischiavo la vita un giorno sì e l’altro pure. Ci voleva un piano decente e una gran bella dose di fortuna per la vendetta. – Per favore. Insomma… Maledizione, Tom, hai detto di essere fedele a questo. A tutto questo. Sei uno di noi. Uccidere è parte di te, e… – Mi strinsi nelle spalle e dipinsi un sorriso fasullo sul mio viso. Nessuno meglio di me poteva sapere che una volta cominciata a scrivere la tua lista degli omicidi è difficile trovare un ultimo nome quando ancora sei in grado di impugnare una spada. – Staremo bene. Credimi.
– Ci proverò – bofonchiò con il capo chino. – Se mi togli una spada dalle mani… è come togliere gli uccelli a una puttana.
Scoppiai in una risata sommessa, lo sguardo volto velocemente a destra e a sinistra per controllare se Connor fosse nelle vicinanze. – Vorrei, ma non credo che sarà possibile.
– La tua coscienza contro il tuo istinto. – Una fottuta battaglia persa. – Sta a te scegliere.
– So che quello che faccio è sbagliato, eppure non riesco a smettere davvero di farlo. – Strinse forte i pugni e si alzò in piedi, massaggiandosi il graffio sulla mano. – Credo sia una decisione da rimandare – grugnì. – Sono con te. Finché questa storia non finirà, almeno. – Raccolse la cintura carica di armi dalla terra, le riservò un’occhiata e sbuffò, dunque se la gettò in spalla. – Grazie. – Mi tese la mano.
Sembrava passato un secolo dalla prima volta che l’avevamo fatto e, in un certo senso, era così. Conoscevo Thomas Hickey da più di vent’anni, ma avevo imparato a comprenderlo davvero solo in quell’ultimo periodo. Pazzesco. Decadi passate a chiamarsi amici, compagni, e alla fine di quegli uomini non sapevo praticamente nulla. Mi sentivo davvero un ipocrita.
Invece di stringergli la mano presi forte il suo polso, come una radice cui si aggrappa un poveraccio appeso a un precipizio. Con Charles ben stretto alla sottana di Reginald e Benjamin che andava in giro per le Colonie mostrando affetto e tenerezze per i compatrioti britannici, gli unici rimasti eravamo io e lui. Superstiti, quasi. E tra superstiti ci si da una mano.
O ci si sbrana a vicenda.
Un groppo gelido mi serrò la gola mentre stringevo l’avambraccio di Thomas e Connor faceva capolino dalle nostre spalle con un braccio teso a indicare la palizzata di Valley Forge. Eravamo arrivati. – Andiamo a prendere i cavalli – sussurrò Hickey passandogli davanti. – …bastardo. – Sorrisi e lo seguii verso gli alberi a est della palizzata. I soldati di Weedon, sistemati proprio lì davanti, appena oltre il muro appuntito di pali in legno, dovevano essere troppo cagasotto per avventurarsi in quelle terre selvagge a meno di cento metri dalla loro prima linea, perché le nostre cavalcature erano rimaste lì, placide, a masticare neve e guardarsi intorno alla ricerca di qualche ciuffetto d’erba.
Tom sganciò le armi dalla cintura e le chiuse nella sacca che pendeva dalla sella del suo destriero. – Ascolta. – Diedi una pacca al mantello bruciato del cavallo per attirare la sua attenzione. – Io ho bisogno di saperlo, d’accordo? Non prenderlo come un fatto personale. – Sbuffai. Dovevo sempre fare la figura dell’egoista. – Mi aiuterai a uccidere Benjamin Church? Basta soltanto che non ti opponga, non è necessario che lo faccia tu, chiaro, ma…
– Non lo so.
Sbuffai. Non avevo nessuna voglia di discutere con lui. Non più. – D’accordo. Rimandiamo. – Mi grattai il capo. – È la tua ultima parola?
Si strinse nelle spalle con un sorrisetto. – No. Diciamo che lo è per ora. – Prese un respiro profondo. – A volte è necessario far fuori qualcuno. Io ero un soldato, e in guerra… Ci sono delle regole. – Montò in sella e strattonò le redini con un’abile mossa. – Non c’è niente di nobile nella guerra, ma perdio!, rubare dei rifornimenti per vincere senza neanche uno scontro diretto è quanto di più meschino possa fare un soldato.
Mi sforzai di non sorridere mentre infilavo il piede nella staffa e lasciavo che l’animale si adattasse al mio peso. – Ci credi davvero?
– No – sussurrò. – Dovrò ripetermelo comunque per impedire a me stesso di prendere una pistola e puntarmela alla tempia.
Schioccai la lingua. – Non lo faresti mai. Non ne sei capace. – Sei un vigliacco tanto quanto me. – Ma grazie. Queste due chiacchiere… Hanno fatto bene a tutti e due, suppongo. – La palizzata scorreva alla nostra destra mentre giravamo attorno a Valley Forge, abbastanza lontani da non essere scoperti. Tra me e me già immaginavo la strada da percorrere. Avremmo potuto seguire il Valley Creek, continuando a scendere verso sud, per raggiungere New York e cercare Benjamin. Sperai che Connor avesse ancora delle provviste, perché le nostre cominciavano a scarseggiare.
Come se avessi espresso un desiderio, mio figlio sbucò da un valico tra le palizzate e fece impennare il cavallo per la sorpresa. – Che cosa…? – Oh, non sia mai che imprecasse, quell’imbecille. – Haytham! – esclamò. Mi hai visto fino a dieci minuti fa e, sì, anche tu mi sei mancato. Coglione. Prese a scavare in una tasca interna della giubba da Assassino. Mi squadrava con occhio critico, come una madre che coglie il figlioletto con le mani nella marmellata. – Achille l’ha spedita fin qui dalla tenuta – ringhiò porgendomi una busta sgualcita, il sigillo di ceralacca rotto.
Un’ondata d’ira mi travolse dall’interno. – Washington legge la mia posta? – mi uscì in qualche modo tra i denti stretti. – Figlio di una gran troia.
– Hai cercato di ucciderlo. Direi che è più che giustificato.
Roteai gli occhi e sfilai la missiva dalla busta. – Sempre a fare il difensore dei deboli, eh? – Senza attendere una sua risposta spiegai quel foglio consumato. La calligrafia era quella di Tic. Mi gettai nella lettura praticamente senza fiato.
Dio.
Quando sollevai lo sguardo mi sembrava che il mondo si fosse fermato. Non era cambiato niente, ma dentro di me… – Dobbiamo andare New York – sussurrai. M’accorsi che la lettera era diventata una piccola palla stretta nel mio pugno e lanciai un’imprecazione.
– Già – fece Connor, piuttosto inutilmente.
Non aveva capito nulla, ma non mi sarei certo messo lì a spiegarglielo. La verità era che io dovevo andare a New York, che Benjamin Church fosse lì o meno. Avevo delle faccende da sbrigare, cose abbandonate sul fondo della mia anima e seppellite da tutti i vari intrecci che aveva intrapreso la mia vita.
Era il momento di tirare gli scheletri fuori dall’armadio, guardarli in faccia e rammentare tristemente a chi appartenevano. – Dobbiamo andare a New York –, ripetei. Poi diedi di sprone e partii al galoppo, parallelo al corso del fiume, deciso ad allontanarmi da Valley Forge il più in fretta possibile.     

 

 

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Capitolo 46
*** La Mela bruciata. ***


Cigarettes are raining hard on the Upper East Side.
– Fun., I Wanna Be The One.
 
No matter where she’s a hiding,
she’s gonna hear me a comin’,
gonna walk right down that street
like Bulldog Drummond,
‘cause I’ve been searchin’.
– The Coasters, Searchin’.
 
Non era così che volevo andasse. Avevo intenzione di infiltrarmi a New York con discrezione, approfittando di qualche comitiva di mercanti, in modo da nascondermi, o rubando un mantello per scendere da una nave imbacuccato e irriconoscibile.
Attraversare il porto a passo di marcia, sotto il gelido sguardo delle bocche dei cannoni di Fort George, e sollevare il gracile corpo di Tic per la giacca gridandogli contro non faceva certo parte dei piani. – Dov’è? – Il mio informatore era in una posizione decisamente scomoda, schiacciato tra le mie gambe e un mucchio di casse colme di merci. Rischiavo di spezzargli qualche osso, ma non aveva importanza. Avevo attraversato mezze Colonie per arrivare fin lì, con la barba rasata alla bell’e meglio e i capelli che già cominciavano a ricrescere sulla nuca, non vedevo un catino da troppo tempo per dare importanza alle buone maniere. – Dov’è?! – Gli mollai uno spintone, forse troppo violento, e lo guardai accasciarsi a terra con i denti serrati così forte da fare male.
Avevo riletto la sua missiva durante tutto il viaggio. L’avevo resa la mia ancora di salvezza. Thomas l’avrebbe definita una via per la redenzione, credo.
Oh, non diciamo stronzate. Non c’era nessun perdono per me all’orizzonte, eppure, sarò onesto, lo cercavo. E poi mi ripetevo che era impossibile ottenerlo, ma non lo pensavo davvero. Il problema era la scintilla di speranza che mi scaldava il cuore, maledizione, infiammava il mio petto come legna da ardere in un camino. Non avevo mai avuto una tale possibilità di chiedere scusa a qualcuno. Ciò che Tic mi aveva scritto era un sollievo, una spinta ad agire, e al tempo stesso un tarlo che mi consumava la mente. – Avevi detto… – Mi resi conto di tenere i pugni serrati lungo i fianchi e feci del mio meglio per aprire le mani. Lo aiutai addirittura ad alzarsi, cercando di ricordare che non ero lì per seminare altra discordia. Avrei dovuto misurare bene le mie parole ed evitare che qualcuno si facesse male. Tic mi stava aiutando, era dalla mia parte, mi aveva avvertito, esattamente come gli avevo ordinato, e trattarlo bene era il minimo che potessi fare per dimostrare che non ero un bastardo fuori di testa che avrebbe mandato tutto all’aria un’altra volta. – Mi dispiace – biascicai. Avevo già mormorato qualcosa prima, ma pensai che fosse più importante chiedergli scusa. Gli spazzolai addirittura la giacca con una manata non troppo gentile. La forza dell’abitudine.
– F-Figuratevi – sussurrò, allontanandosi istintivamente da me. Cominciamo proprio bene.
– È tutto a posto, capo? – Thomas sbucò da dietro le mie spalle e trasalii, le guance gonfie d’aria. Avevamo abbandonato Connor dalle parti della Broadway, lasciando che trovasse una locanda mentre mi occupavo di quella faccenda. Non sapevo di preciso perché mi fossi portato dietro Tom, forse solo per impedirgli di coalizzarsi con mio figlio o, chi lo sa, di farlo fuori. Non mi sentivo comunque al sicuro. – Lui è…
– Tic – dissi, stretto nelle spalle. – Mi ha aiutato a scappare da Reginald e Charles quando ho cercato di uccidere Washington. Gli avevo detto di tenere d’occhio la situazione qui a New York. – Tenni per me il fatto che mi aveva anche aiutato a localizzare la sua simpatica attività clandestina in città. Gli avevo già parlato abbastanza per quanto riguardava la lettera, mi sentivo scoperto persino guardandolo negli occhi. Era assurdo quanto quella storia mi mettesse a disagio. Parlargli di Reginald e di ciò che aveva combinato quando ero solo un ragazzino era stato molto più facile. – I suoi occhi qui sono i miei – aggiunsi per spezzare la tensione creata tra noi.
Thomas annuì, l’espressione ferma di chi avrebbe potuto spezzare il suo collo con una sola, rapida mossa. Che la tenga per sé. Voleva fare l’uomo pacifico? Quello era il momento giusto per dimostrarlo. Tic mosse su e giù la testa di rimando, dunque allungò una mano davanti a sé e si lasciò alle spalle i moli, diretto verso la parte occidentale dell’isola. – Ci aspetta dietro la Common – sussurrò. Io e Tom ci scambiammo un’occhiata d’intesa. Dietro la Common era solo un modo elegante per dire dietro Bridewell. Nessuno sembrava voler pronunciare il nome di quel maledetto posto, men che meno un uomo come Tic. Non credo che i lavoretti svolti per me fossero esattamente legali.
Attraversammo la città in fila, parlando a malapena. I miei occhi tendevano verso il basso, tranne quando incrociavano con timore e una certa sfida i bastioni di Fort George. I merli, coperti di neve e più candidi che mai, lo facevano somigliare a un castello, ma chiunque ci avesse messo piede una volta, anche solo per sbaglio, conosceva perfettamente la gerarchia di merda che regnava lì dentro. Contavano solo il grado e la capacità naturale di spaventare gli uomini, tutto lì. Non aveva alcuna importanza che Banastre Tarleton fosse un ragazzino e che persino Connor sarebbe riuscito a buttarlo a terra con un pugno ben assestato: il mio caro figliolo ben educato non si sarebbe messo per nulla al mondo contro di lui, fosse stato un soldato. Fort George funzionava allo stesso modo. Chi disobbediva era un bastardo traditore, e spesso l'ufficiale incompetente che dava l'ordine se ne tornava a casa con un proiettile nella gamba e una medaglia da esporre sul camino, tranne quando restava sul campo a esibire il proprio fottuto eroismo. La vita militare è così, non cambiava niente tra le giubbe rosse e l’Esercito Continentale. Non mi mancava affatto.
Non fu solo il forte ad attirare la mia attenzione. C'era qualcosa di strano nella città, qualcosa che la rendeva diversa da come ricordavo. Avrei dovuto fare un salto quando eravamo andati a Fort Lee, sarebbe stato più utile. Tra la Broadway e la base dei patrioti in città si stagliava quello che una volta doveva essere un edificio, ma non ne restava che lo scheletro, completamente annerito laddove il calore del sole aveva sciolto la neve. Mucchi di pietra nera, calce sbeccata e travi spezzate a metà, bruciate, rinsecchite come le dita di un vecchio. La sagoma spettrale dell’edificio metteva a disagio, era un cumulo informe di macerie, sudiciume e rifiuti. Chissà quanti uomini erano morti tra quelle mura, quanti ancora giacevano sotto le travi del soffitto di casa. I patrioti avrebbero potuto fare qualcosa, invece di cazzeggiare a Fort George e divertirsi a bestemmiare contro Ben. Solo qualcosa per i corpi, per chi tra quelle deboli pareti di mattoni aveva costruito la propria esistenza. Mi sembrava quasi di capire Thomas, quando diceva che non voleva farlo fuori. C’erano problemi ben più gravi della gerarchia all’interno dell’Ordine, aveva ragione, ma non sono mai stato un uomo tanto buono da farsi carico anche degli irrisolvibili problemi del popolo. I patrioti erano quasi tutti uomini comuni e traditori dell’Esercito Britannico che cercavano asilo, saliti al potere perché la stessa moltitudine gliel’aveva permesso. Sentivo un peso nel cuore solo pensandolo, ma, dannazione, se l’erano veramente cercata.
Per strada non c’erano soldati e, anche ci fossero stati, immagino si tenessero bene alla larga da quel posto. Percepii l'aria pesante, ancora satura di fuliggine accanto ai luoghi in cui, evidentemente, il fuoco era divampato e aveva distrutto decine di vite. Forse era solo una mia impressione, ma mi parve di non riuscire più a respirare come si deve. Magari stai solo invecchiando, stupido relitto sentimentale che non sei altro.
Non era un incendio recente, ma sembrava che quei palazzi fossero stati lasciati lì a mo' di reliquia, una testimonianza di quella disgrazia in cui nessuno aveva voluto impicciarsi. – Quand'è successo? – sussurrai senza nemmeno rendermene conto. All'interno di ciò che restava del palazzo si era accumulata una collinetta di spazzatura colonizzata dai ratti e dai randagi di New York. Con la coda dell’occhio scorsi una donna intenta a frugare tra i mattoni bruciati, le mani sudice che sollevavano e rigettavano a terra. Aveva un bambino attaccato al petto, un involto di stracci sporchi che agitava i piccoli pugni e mugolava tristemente. Feci un istintivo passo avanti e la donna sollevò il viso di scatto. Pareva poco più che una ragazzina tanto era minuta e sciupata, con le guance e la fronte coperte di grosse croste nere e i lineamenti come deturpati dalla fame e dalla sporcizia. Gli occhi grandi e scuri tremavano per la paura, ma non si lasciò abbattere nel vedermi, anzi, si rituffò sulle macerie, con il rischio di schiacciare il pargolo sotto di sé, e raccolse rapidamente tutto ciò che le capitava sottomano: brandelli di stoffa, residui di cibo abbandonati lì da qualcuno. Carcasse, forse. Si infilò persino un pezzo di calce appuntito nelle tasche dell’abito a brandelli.
Portai la mano alla scarsella e feci un altro passo nella sua direzione. Una fila di ratti che pareva interminabile fece capolino da sotto le pietre e scappò verso Fort George. Lei m’ignorò, sostenendo il capo del bambino con un ginocchio e usando l’altra mano per grattarsi il cuoio capelluto sudicio. Dio mio. Mi sentivo terribilmente pulito a guardarla, e mi pesava. Aprii il borsellino, osservando le monete scintillanti, e una folata di vento mi investì. Una zaffata di merda, cadaveri e terra bruciata, talmente intenso da bloccarmi il fiato in gola e far salire un conato di vomito su per il mio esofago. La borsa di pelle mi sfuggì dalle mani e cadde a terra tintinnando. Le monete si sparpagliarono sulla strada mentre mi piegavo in due, con le mani sulle ginocchia, il petto squassato dalle spinte che il mio stomaco produceva per svuotarsi nonostante non avesse niente di cui liberarsi. Qualcuno mi batté una mano sulla schiena senza troppa convinzione e Tic corse a recuperare la sacca del denaro nell’istante esatto in cui la donna scattava e artigliava furiosamente il prezioso metallo sparpagliato per il vicolo. – Lascia quei soldi, puttana! – ringhiò il mio informatore. Quando si trattava di monete, santo Dio, era peggio di uno strozzino.
Emisi un gemito che voleva essere un “no”. Che prendesse pure quei quattro spicci caduti a terra, bastava che mi portassero via da lì. Non sapevo se la nausea mi fosse venuta per ciò che avevo visto o fosse una semplice reazione di rigetto al mio tentativo di fare una buona azione. Non sono portato per queste cose. Tom, continuando a sbattere la mano sulla mia schiena mentre ansimavo faticosamente, si allungò verso Tic. – Lascia perdere. Andiamocene. Tutto bene, capo? – Col cazzo. Rizzai la schiena e presi un gran respiro, le dita serrate spasmodiche attorno al braccio di Thomas. Annuii. Sentivo il peso del borsellino gravare sul palmo della mano sinistra. – Perfetto. Andiamo via da questo merdaio.
Per una volta eravamo d’accordo. Che il diavolo mi porti. Quel posto era un diffusore di malattie a cielo aperto, un esempio di miseria che solo l’uomo poteva provocare e poi ignorare deliberatamente. Peccato che Connor non fosse con noi. Era esattamente questo ciò che volevo evitare, e aveva appena perso l’occasione di capirlo. Voltai le spalle all’edificio bruciato, ma prima mi assicurai che la donna si fosse levata di torno. Quelle croste sul suo viso non promettevano niente di buono, e il contatto con la merda, i cadaveri e i rifiuti non le avrebbe certo fatto bene.
Rabbrividii e mi passai una mano sulla faccia. Se c'era qualcosa di più duro della guerra erano la guerra e un’epidemia. – Il Grande Incendio del settantasei. Brutta storia. – Tic sputò a terra un grumo di catarro e si calò il cappellaccio in terra, le spalle sollevate in un cenno noncurante. Sembrava abituato a tutto questo, e non mi stupiva che non si sentisse in colpa. Quando una qualche cosa è solita viene spontaneo comportarsi come Tic, si tratti di una mendicante mezza morta come dell’ennesimo cadavere che crollava misero ai miei piedi in una pozza di sangue. – Mica è finita qui. Quella merda ha sterminato mezza città. – Mi resi conto che aveva aumentato il passo, e dovetti aggrapparmi a Thomas per tenere quell’andatura.
Strano, ma non mi sentivo meglio. Ero lì per il perdono, con l’intenzione di diventare un uomo appena migliore, eppure fare del bene sembrava prosciugarmi, consumare la mia essenza come quella di un pezzo di legno gettato nel fuoco. Uccidere non mi aveva certo reso una grande persona, ma almeno dava soddisfazione. Invece ero ancora più amareggiato, volevo vomitare ancora, stritolato dalla sensazione che il mondo andava in quel modo e non sarei mai riuscito a cambiarlo.
– Non lasciarti andare, Servo della Croce, o morirai prima del tempo. – La voce di Minerva sembrò scaldarmi dall’interno. Era passato molto tempo dall’ultima volta che l’avevo sentita, ma faceva piacere in modo inaspettato. Trassi un corto respiro. Quel giorno sembrava che tutto fosse scombussolato, dentro di me. – E i morti devono essere forti, altrimenti diventano come la brezza durante una tempesta. Impotenti.
– Hai sbagliato a venire qui. – Giunone, invece, era la solita stronza acida. Sentii lo stomaco ricominciare ad aggrovigliarsi su se stesso. – Questa città è pericolosa. Non ricaverai niente. Stai solo perdendo tempo.
Mi mollai una pacca sul lato della fronte sotto lo sguardo stranito di Thomas, dunque scrollai le spalle e proseguii. A loro non sarebbe mai andato bene niente, quindi tanto valeva che stessero zitte. La mia vita faceva già abbastanza schifo senza che si intromettessero a commentare con la loro filosofia spicciola riguardo ciò che dovevo o non dovevo assolutamente fare. Lasciatemi in pace, pensai faticosamente. Ricordavo il sogno in cui Giove, l’ultimo rimasto di quella bizzarra triade, mi aveva confessato di essere parte attiva in quel casino, nonostante le altre due non lo sapessero. E ora? Ora che lo stavo pensando? Sapevano? O c’era qualcosa che impediva loro di percepire la presenza del compagno? L’ultima volta che avevo parlato con un membro della Prima Civilizzazione ne ero rimasto traumatizzato. Erano solo morti, così ripetevo tra me e me. Non avevano alcun potere.
Poi le immagini dell’Apocalisse e le parole di quei tre, la certezza che la disgrazia si sarebbe ripetuta, invadevano la mia testa e mi sembrava impossibile non avere paura. Che cosa dovrei fare, allora?, chiesi con i denti serrati. Non ottenni risposta. Era come se Giunone, Minerva e Giove si combattessero a vicenda dentro di me. Come se non fossi già abbastanza disperato e confuso di mio, preda della mia battaglia personale tra moralità e dovere, coscienza e consapevolezza. Che andassero a farsi fottere. Non potevo certo sconfiggere tutto e tutti nello stesso istante.
Sollevai lo sguardo, lanciando occhiate colme di preoccupazione a destra e a manca mentre percorrevamo silenziosamente la Broadway. Dov'era finita la New York che conoscevo io? Tutta quella gente che andava e veniva per le strade, la vivace attività del mercato, tutto sparito, persino le navi che di norma andavano e venivano a tutte le ore dal mare. Gli alberi che di norma facevano capolino sopra i tetti ora sembravano solo le antenne di un gigantesco insetto pronto a sbranare l'isola, inferendole il colpo di grazia. Dalla Broadway all'Hudson non era rimasta che cenere: quella parte di New York non era mai stata stupenda, adiacente ai forti com'era, ma, maledizione, era naturale avercela con l’Esercito Britannico guardando un tale disastro. Quasi mi pareva di sentire le grida di quella notte di due anni prima. Uomini e donne, famiglie intere che scappavano dalle loro case in fiamme e battevano le mani contro le doppie porte di Fort George mentre i soldati, all'interno, giocavano beatamente a carte, al sicuro grazie a quelle maledettissime mura di pietra, e al di fuori la gente moriva. Pensandoci, sono un ipocrita. Probabilmente anche io, al loro posto, avrei fatto la stessa cosa. L’errore era, ancora una volta, da parte di Washington. Perché non aiutava quella gente ricostruendo le case? Voleva forse essere un monito? Sarebbe stato più semplice riprodurre quella tetra veduta in un dipinto e indicarla con un cartello campeggiante la scritta “Ecco, questo è ciò che succede quando la Corona prende il potere”, ma parlare con George Washington di soluzioni semplici era come nominare delle suore davanti a Thomas Hickey. La pappardella gli sarebbe entrata da un orecchio per uscire dall’altra parte.
Volgere lo sguardo a occidente faceva solo male. Il fatto era che, dannazione, mi sarei dovuto sentire in colpa, eppure guardavo quella distesa di mattoni bruciati, travi, spazzatura e miseria senza riuscire a provare un vero rimorso. Ero stato un soldato, sapevo cosa significasse obbedire agli ordini. E anche disobbedire, purtroppo. Non era semplice dire di no quando un superiore ordinava di restare barricati, e da là dentro la maggior parte degli uomini considerava il popolo misera carne da macello. Specie le giubbe rosse, che della plebe non avevano minimamente bisogno. Proprio per questo il vecchio George avrebbe dovuto alzare le chiappe da quell’inutile buco di merda che era Valley Forge per portare l’ordine in città. New York era un porto, maledizione. Senza quello, addio rifornimenti per davvero. Se i moli saltavano in aria o i poveri contadini pagati dall’esercito si rifiutavano di scaricare le casse piene di viveri all’accampamento ci sarebbero stati così tanti morti da far ballare Benjamin Church per il resto della sua vita.
Non molta, se l’avessimo trovato lì dove doveva essere. In città.
Adocchiai Thomas Hickey tenere lo sguardo basso, intento a guardare le proprie calzature con straordinario interesse. Mi piace pensare che si sentisse come me, incerto. Forse neanche lui sapeva di preciso che cosa credere, come orientare il proprio spirito, dunque preferiva rimanere zitto e concentrarsi su qualcosa di concreto. Gli stivali, per esempio, sono semplici. Non c’è niente da spiegare sugli stivali, non parlano e non hanno bisogno di essere capiti. Sono lì. Ti proteggono i piedi dalla neve e non chiedono nulla in cambio. Sorrisi tra me e me, e Tic si voltò a guardarmi. Gli lanciai un cenno, sentendomi davvero uno stupido idiota. Oh, guarda che bella passeggiata tra le rovine di una città in fiamme! Che fantastico luogo di villeggiatura! Sì, carogna d’un poveraccio, ti darò il tuo maledetto denaro, ora portamici e lasciami crogiolare nel senso di colpa, cazzo.
La Common s’aprì davanti a noi così in fretta che a malapena mi resi conto di aver percorso tutta la Broadway, tanto ero perso nei miei pensieri tristi e squallidi. Mi facevo pena, peggio. Compassione. Se mai era esistita una persona peggiore di me, sarebbe dovuta apparire in quell’istante e darmi una pacca sulla spalla, giusto per sollevare un po’ il mio morale a terra. Non mi ero mai sentito tanto spregevole e misero.
Allora perché la tentazione di mollare tutto e andarmene, abbandonare quella schifosa missione suicida e ritirarmi a vita privata come Tom non mi aveva ancora travolto? La sola risposta che la mia mente riusciva a trovare era l’accusarmi di essere davvero una cattiva persona. Mi veniva da piangere, sentivo la lingua gonfia in gola e i muscoli contratti, le gambe pronte a scattare per farmi scappare il più lontano possibile da quel luogo in caso ciò che mi aspettava mi terrorizzasse o mi convincesse che il mare, a pochi isolati di distanza, fosse il posto migliore per quell’uomo di merda che ero diventato.
Non degnai di uno sguardo Bridewell. Eccoci di nuovo nel posto in cui hai messo fine alla vita di altri promettenti giovani uomini. Flagellati, vecchio mio! Prendi una frusta e pentiti, stupido bastardo! Perché New York, eh? Perché non qualsiasi altro posto? Quella città era così piena di miei errori, di cadaveri diventati tali grazie a me. Lì avevo salvato Connor dalla morte per il rotto della cuffia e Washington si era preso l’ennesima pallottola da parte del mio amorevole seguito. Ogni macchia di sangue che avesse toccato le strade lastricate della città conosceva il mio nome, lo sussurrava piano, ipnotica, insieme con tutte le altre. E ora, tutto quel rosso stava urlando la mia colpevolezza, gridava, e l’istinto di mettermi le mani sulle orecchie e crollare in ginocchio era così forte da pesare nel petto come un macigno, l’ennesimo macigno della mia vita. Torniamo a casa?, volevo sussurrare all’orecchio di Thomas. Accetterò qualsiasi cosa. La tenuta, la cucina di Achille, persino Reginald che mi preme il cazzo contro il fondo dei calzoni, ma, ti prego, torniamo a casa. Andiamocene di qui.
Dovetti mordermi la lingua per impedire alle parole di scivolare fuori, e il sapore del sangue mi fece solo sentire peggio. Non ci provare, disse autoritaria un’altra parte di me. E, arrivato fin lì, non potevo più tirarmi indietro. Non senza aumentare ulteriormente il peso della mia colpa. Mi sentivo già con il morale abbastanza a terra per ciò che mi toccava affrontare, tornare a Bridewell con il pensiero, solo per quella sanguinosa notte, sarebbe stato troppo. – Ci siamo quasi, signore. – Tic si abbassò il cappellaccio in testa e girò attorno alla prigione. Dovetti aggrapparmi al muro di cinta per non caracollare a terra per un crampo che dal polpaccio sinistro stava strisciando velenoso su per la gamba, fino all’osso sacro e lungo la spina dorsale.
Fatti coraggio. Facile da dire, per la vocetta rinchiusa nella mia testa. Fin troppo facile. Fatti coraggio. Finirà presto. Già, sarebbe finita presto, e allora mi sarei potuto dedicare alla nobile ricerca di uno dei miei più vecchi amici per stanarlo e farlo fuori. Oh, il primo punto nel manuale dell’uomo per bene, certo. Scrollai le spalle e sollevai lo sguardo, cercando qualcosa su cui concentrarmi. A parte il senso di colpa che continuava a rosicchiarmi l’anima come un gatto che affila le unghie sulla corteccia degli alberi. Non c’era nemmeno più qualcosa da guardare lì intorno, dato che oltre Bridewell la città svaniva, nel senso proprio del termine. Gli edifici a due o più piani che ingombravano le strade principali, l'uno accanto all'altro, si diradavano per lasciare spazio a campi, piccole fattorie e qualche umile chiesa abbandonata, come quella in cui io e Tom ci eravamo nascosti per architettare l'ennesimo scherzo bastardo ai danni di Connor. Thomas mi lanciò un'occhiata d'intesa; lo ricordava, e quel sorriso in evidenza sembra assicurarmi che era pronto a rifarlo. Io no. Non avevo la sua leggerezza di spirito in quelle situazioni, non riuscivo a... – Dio –, sospirai. Non riguardava lui, era così facile non essere preoccupati, non sentirsi una persona orribile. 
Guardai Tom, gli occhi stretti e l'invidia a bruciarmi le cornee. Un brivido d'odio mi trapassò il corpo, come un fremito. Ricordavo le sue dannate crisi di identità legate agli omicidi, e detestavo il fatto che lo nascondesse così bene. Io non riuscivo neanche a fare una pisciata tra gli alberi senza che tutta la Confraternita degli Assassini, l'Esercito Continentale e le maledette spalle sanguinanti lo sapessero all'istante. Era un bravo bugiardo e un maledetto bastardo baciato dalla fortuna, Tom, tutto qui. La sua bravura m'infastidiva, tale da far credere persino a me, certe volte, che non avesse alcuna remora a uccidere tutto quanto si parava a tiro di spada o pistola. Detestavo non riuscire a mantenere la calma, e quel maledetto casino non faceva altro che ricordarmi una delle ultime volte in cui avevo perso la testa.
Presi a mordicchiarmi l’unghia del pollice per non gridare una bestemmia o scoppiare in lacrime. Porca miseria, il mio cervello mi stava giocando qualche brutto scherzo, perché sentivo il sapore rugginoso del sangue tra la carne e la cheratina. Sangue di chi, poi? L’ultimo uomo che avevo ucciso… mi pareva fosse il proprietario di quel dannatissimo carro, prima che avessi l’onore di conoscere l’adorabile maggiore Banastre Tarleton. No, no, l’altro. Quello per cui Connor aveva fatto una scenata epocale. Che bei ricordi.
Con l'ennesimo grugnito, Tic riuscì a distrarmi da quei pensieri. Oh, grazie, amico. Prese un sentiero che tagliava i campi gelati. Quel poco di raccolto che trovava il coraggio di fare capolino dalla terra tiepida pareva quasi vergognarsene, e chinava le estremità per morire rapidamente. Le città dovevano ricorrere alle scorte e ai prodotti importati dall'Inghilterra, mentre i bastardi fortunati come Achille, quelli rintanati al sicuro nelle loro tenute, avevano vita facile. A pensarci bene, Church non polemizzava poi tanto a sproposito. George Washington e i suoi galoppini a New York potevano far parte del più forte esercito del mondo – e così non era –, ma dovevano mandare navi per tutto l'oceano e nutrire il popolo, scaldarlo, rifornirlo con merce inglese. Scrollai il capo, grattandomi i capelli ispidi dietro l'orecchio senza sorridere. Alla faccia dell'indipendenza.
Non avevo la forza di piegare le labbra in una smorfia che non fosse di disprezzo per me stesso o terrore. Dietro la Common, aveva detto Tic, e la prigione, nonostante fosse ormai dietro le mie spalle, non sembrava affatto più rassicurante. Confermava che mi stavo avvicinando sempre più alla mia rovina, la stavo andando a cercare come un idiota. Fottuto masochista. Perché lo fai, eh? Non te lo ordina nessuno.
Sbuffai. Il problema era esattamente quello. Nessuno ordina a un uomo di pentirsi, di chiedere scusa e di cercare la redenzione, è un bisogno interno, come pisciare quando si ha la vescica troppo piena. Tic mi aveva dato l’occasione di farlo, anzi, era stato proprio lui, senza saperlo, ad accendere il ricordo dentro di me. Il ricordo del tempo in cui, per qualcuno, ero ancora una brava persona. Una brava persona che ammazzava, certo, ma un uomo affabile, di cui ci si poteva fidare. Poi il sangue aveva cambiato le cose – io avevo cambiato le cose – e da quel momento in poi mi ero sentito sempre più solo. I miei compagni morivano, finivano in prigione, rischiavano la morte, e mi sembrava di non arrivare mai da nessuna parte. Ero lì per diventare migliore e per uccidere un uomo, ma, ovviamente, mi sforzavo di ignorare la seconda parte delle mie intenzioni. – Ci siamo – brontolò Tic. Sollevai lo sguardo senza vedere nulla. Eravamo fermi in mezzo alla terra, la città rumorosa dietro di noi e solo il mare ai lati. Aggrottai la fronte e si lasciò andare a un sospiro. – Non voglio impicciarmi, signore – disse con le mani sollevate. – La troverete in quella chiesa laggiù. – Indicò il sentiero che proseguiva alle sue spalle. Una chiesa c’era davvero, poco più grande di una rimessa per gli attrezzi agricoli, quasi una capanna con una croce piantata sul tetto. Poteva anche essere un segnavento cui qualche burlone aveva tirato via l’elemento ornamentale, chi lo sa. Era un posto squallido, non rappresentava certo il grande trionfo del perdono che si poteva leggere nella Bibbia.
Ah, già. Non mi avrebbe mai perdonato. Dovevo essere proprio stupido. – Pure io resto qua, capo. – Thomas mi diede una pacca sulla spalla e tirò la pipa fuori dalla tasca. – Non combinare stronzate, d’accordo? E vedi di fare una bella impressione sulla signora. – Si grattò le palle, probabilmente solo per cercare di farmi sorridere. Toh, allora sperava anche lui, di tanto in tanto.
– Grazie, Tom. Restate qui, eh. – Volevo essere autoritario, ma la mia voce sembrava il sussurro di un bambinetto terrorizzato. Mi allontanai con il capo chino, senza sapere se fosse meglio restare lì con loro, a disagio, o affrontare con la paura nel cuore e il rimorso a divorarmi ciò che mi aspettava.
Guarda in faccia la realtà. Avrei mai perdonato Reginald per aver ucciso mio padre e rovinato la mia infanzia? Potevo forse accettare le scuse quasi campate in aria di mio padre sul perché si fidasse di Birch? Quella povera ragazza aveva più o meno lo stesso diritto di accettare le mie scuse.
Però non ce l’avevo più con Thomas per avermi quasi impiccato. Per quanto riguardava Tiio, be’, cercavo soltanto di non pensarci. Faceva già abbastanza male di per sé. Una possibilità, per quanto piccola, di andarsene a cuor leggero esisteva.
Di certo, data la mia fortuna, non era per me.
Spinsi la porta senza neanche bussare. Che giorno era? Boh. Avevo perso il conto da un po’, ma non sembrava che la gente si spintonasse per entrare lì dentro. Il legno mezzo marcio si spostò con un flebile cigolio, e se l’esterno della chiesa era misero, l’interno era così disadorno da far stringere il cuore. O era il panico? Scrollai il capo. Niente segno della croce. L’unica Croce cui ero rimasto fedele la portavo al dito, quindi perché fare l’ipocrita con un gesto in cui non credevo?
Sfiorai l’anello al mio anulare con la punta dell’indice sinistro, come a darmi coraggio. Inutile, ricordando le nostre conversazioni. Maledettamente inutile. Avanzai tra le panche con lo sguardo fisso al grosso crocifisso di legno poggiato alla parete di legno. Due travi spezzate – magari anche trafugate dalle rovine della città in fiamme – tenute insieme da una corda spessa, sartiame da marinai. Non c’era anima viva tra quelle quattro mura. Perché? Perché non potevo subito gettarmi in ginocchio, chiedere scusa e accogliere la redenzione per celebrare baldanzoso davanti a una tazza di tè e latte? Al diavolo. Non ero abbastanza religioso da sentirmi peggio solo per aver nominato Satana in una chiesa.
Mi lasciai cadere su una panca, i gomiti affondati nelle ginocchia, e chinai il capo nei palmi sudaticci. Oppure erano le mie lacrime? No, no, non stavo piangendo. Non ancora. Ci sarebbe stato tempo, giusto? Avevo tutto il tempo del mondo per fare la figura della femminuccia.
– Haytham Kenway?
Rizzai la schiena di colpo, con un singulto acuto. Eccolo lì, il primo squittio da ragazzina di quella giornata. Qualcosa mi diceva che ce ne sarebbero stati molti altri. Alzai lo sguardo, e pregavo non fosse lei. Qualcun altro, chiunque altro, che conosceva il mio nome per un bastardo scherzo del destino. Invece no. Le mie aspettative – che novità, eh? – erano state deluse. Non c'era nessun dubbio su chi fosse, andiamo, mi aveva chiamato per nome, mi fissava con le labbra contratte in una strana smorfia – disapprovazione, e pure tanta, trattenuta a stento sotto quello che voleva essere un sorriso a labbra strette – sul volto sudicio. La rabbia doveva essere più forte della buona educazione che le imponeva di sorridermi, perché non mostrava tutta questa disponibilità nei miei confronti. Manteneva le distanze, come impaurita, e per me fu un bene. Potevo osservarla, riprendere a respirare con calma e trovare un po' di stupido coraggio nel mio cuore da codardo.
Scattai in piedi e strofinai il palmo sudato della mano sulla redingote, aspettando un suo passo avanti. Dio, non poteva sapere che, in realtà, mi spaventava molto più di quanto lei temeva me. Mi tremavano le ginocchia davanti a una donna. Da quanto non succede, eh, vecchio bastardo?'
Abbassai gli occhi per non scoppiare in una risatina fuori luogo, quindi la squadrai con la coda dell'occhio, il capo chino così da sembrarle almeno un po' pentito. Lo ero. Lo ero veramente, non fraintendetemi, ma... mi conoscete, no? Tendo a esagerare un poco quando sento il panico fiatarmi sul collo.
Indossava una camicia da notte bianca, come se si fosse appena alzata dal letto, e non era una cosa buona. Mi ricordava mia madre nella notte del mio decimo compleanno, ma era molto più magra, smunta in viso, i polsi scheletrici sbucavano dalle maniche della lunga casacca che le cascava addosso, informe. Stringeva un bambino al petto, a cavallo del fianco, stretto in una ruvida coperta di lana da cui sbucava solo qualche ciuffo di capelli castano chiaro. Vigliacco. Aveva i piedi infilati in un paio di zoccoli di legno. Con quel freddo? Porca puttana, nemmeno Edith in inverno indossava quegli affari. Sotto la camicia da notte, poi, portava un paio di calzoni larghi, con una grossa macchia di sangue all'altezza della caviglia. Forse erano stati recuperati da qualche mucchio di cadaveri. Alza gli occhi, codardo che non sei altro.
Non volevo. Non volevo guardarla in faccia e vederla... vedere sua madre in lei. Ma che altro potevo fare? Come potevo chiedere il perdono se non avevo neanche il coraggio di guardarla negli occhi, eh? Su. Su, idiota.
Mi costrinsi a guardarla in faccia e mi morsi un labbro per non singhiozzare di nuovo.
Aveva il viso piuttosto tondo, ed era giovane nonostante dimostrasse almeno quarant'anni. La carne era sparita dal suo volto teso, scavato, ma gli zigomi ne tradivano l'antica forma gioviale. Abbozzò un sorriso imbarazzato, a labbra strette, e notai che, fortunatamente, non le somigliava poi così tanto. Forse era anche merito della pelle attaccata alle ossa, di quei ciuffi sporchi di capelli biondi avvolti in una cuffietta o delle strisce di sudiciume che le scurivano il viso e il collo, ma per un attimo fu più semplice guardarla senza scorgere qualcosa della madre in lei.
Poi fece un passo verso di me, con gli occhi grandi come piatti incastonati in quel viso smagrito, e incrociai il suo sguardo disperato.
Crollando miseramente, con una mano sulla bocca e il petto che si alzava e si abbassava di pari passo con i miei singhiozzi, più disperati di quelli di un uomo che ha bevuto un po' troppo.
Non ero riuscito a starci lontano troppo a lungo. Non era neanche lontanamente bella e affascinante come sua madre, ma gli occhi grigi brillavano d'intelligenza e scrupolo nonostante la fame, mi squadravano cercando di mettermi a mio agio e tranquillizzarmi. Ci credetti pure, per un istante. Avesse avuto il talento di sua madre con le armi mi sarei già trovato a rantolare, impalato sulla lama di una sciabola.
Dio santissimo, sul viso le brillavano, velati di lacrime, gli occhi di sua madre.
Gli occhi di Alice Jackson. 




 
Angolo dell'autrice:
Eeeeeeehilà, quanto tempo!
Sì, okay, sembra patetico smorzare lo pseudo-cliffhanger di fine capitolo con le mi stronzate, ma vabbè. Comunicazione di servizio.
Ho deciso di modificare un po' il testo dei primi due capitoli perché a rileggerli mi facevano un pochino ribrezzo, ehw.
Quindi, non so, mi piacerebbe sapere che ne pensate anche solo per messaggio privato, senza perdere tempo a recensire e simili – anche se è sempre ben accetto, lol.
D'accordo, ringrazio comunque tutti quelli che leggono, recensiscono, sclerano con me e compagnia cantante. Vi voglio bene.
Oddio, non fatemi diventare sdolcinata, per piacere.
<3
Alla prossima!
Skos

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Capitolo 47
*** Fiamme. ***


For you I was a flame, love is a losing game.
– Amy Winehouse, Love Is A Losing Game.
 
Everything we had is gone, you can see,
That's what you get for loving me.

– Elvis Presley, (That's What You Get) For Loving Me.
 
Il senso di colpa mi spinse a tendere la mano verso di lei, quasi spontaneo, per rendermi poi conto che reggeva il pargolo con entrambe le mani e non sembrava certo disposta a rischiare la vita del proprio figlio per un bastardo sanguinario come me. – Oh – sussurrai, e l’arto si abbassò mollemente lungo il fianco. Tra me e lei c'erano ancora due passi di distanza, ma nessuno dei due aveva intenzione di coprirli e prendere l'iniziativa.
Io ero lì per chiederle scusa, e mi sembrava già un compito abbastanza gravoso, ma lei non mostrava certo l'intenzione di facilitarmi. Al diavolo. Avevo sofferto troppo, anche solo lungo il cammino fino a quella maledetta chiesa, per permetterle di farmi annegare per un altro secondo nella collera verso me stesso. – Sono Haytham Kenway – dissi con una mano sul petto, nonostante lo sapesse bene. Fin troppo bene. Piegai persino le ginocchia in una mezza riverenza.
Sistemò il bambino sul fianco, un braccio sotto le gambette e la mano a stringere la testa coperta del piccolo contro la sua spalla. – Grace… Jackson – disse, il tono rauco ma con una punta di autorità, come quello di Alice. Sua madre era riuscita a mettere la vita nelle mie mani, tenendomi sotto controllo e guardandomi come fossi davvero capace di fare del bene. Avevamo pensato di amarci, e non era sembrata una mossa sbagliata. Almeno finché non avevo stretto le dita attorno al suo collo.
Dio, ricomponiti. Ricomponiti e falle il baciamano, brutto bastardo. Giuro, gliel'avrei anche fatto, ma non staccava le mani da quella dannata coperta. A quanto pareva non la pensava come sua madre, e nonostante tutto non si fidava affatto di me. Abbassai lo sguardo sulle armi che portavo addosso, celando un sorriso. Nessun uomo sano di mente o con meno proiettili in tasca l'avrebbe fato, quindi figuriamoci una ragazza in camicia da notte e calzoni, dall'aria affamata e con un bambino di cui occuparsi. – Bel posto. – Possibile che non riuscissi a tirare fuori niente di meglio? Dio! Non avevo mai avuto problemi a conquistare una donna, né a usare la parlantina per sfuggire da una situazione scomoda. Sentivo la gola secca come un pezzo di corteccia, e a malapena riuscivo a brontolare quelle poche, stupide parole.
Grace – faceva meno male che pensarla direttamente come la figlia di Alice – fece spallucce, per quanto possibile con un bambino in braccio, e fece un cenno con il capo per invitarmi a sedere di nuovo sulla panca. Non me lo feci ripetere due volte, sistemandomi di tre quarti mentre lei reclinava la schiena e si lasciava andare a uno sbuffo liberatorio. – Come state? Avete fatto un lungo viaggio per venire fin qui. – Si preoccupava per me. Sant'Iddio. Non mi ero aspettato una simile reazione, intento com'ero a mangiarmi il fegato ripensando al mio passato con sua madre, ma l'avevo presa in considerazione. Mi spaventava, a dire il vero. La guardai negli occhi, i più freddi che avessi mai visto. Perdonatemi la poetica spicciola, ma se le iridi di sua madre somigliavano alle nuvole prima di una tempesta, quelle di Grace Jackson erano dello stesso colore, ma affilate come la maledetta spada che Thomas Hickey teneva legata alla schiena. Il suo sguardo mi scaldò il petto con un'ondata di rabbia. Nonostante le parole fossero gentili, il suo unico fine era farmi sentire peggio. Colpevole. Una parte di me quasi voleva colpirla al viso, raccontarle che non era mia intenzione arrivare a tanto così dall'uccidere sua madre. Che comunque non l'avevo soffocata per davvero, dunque non aveva alcun diritto di trattarmi in quel modo. Non sei qui per questo.
Aveva ragione, quella stupida vocetta. Ero lì per Church, prima di tutto. In secondo luogo, avevo intenzione di migliorare. Ma sarei venuto ugualmente a New York, no? Quindi quella ragazza non era nella posizione di…
Ingoiai la bile, serrando i denti fino a sentire fremere i molari gli uni contro gli altri. Sta' calmo. – Sono stato meglio. – Con le nocche contro il tuo naso, per esempio. Calmo. Calmo. – E non preoccupatevi per me. Sono abituato a questo genere di spostamenti.
Annuì, scostando la camicia da notte per attaccarsi il bambino al capezzolo. Ero in una brutta situazione, perché stare a guardare sarebbe stata una mancanza di rispetto, ma distogliere lo sguardo poteva farmi passare per menefreghista. Quindi fissai il suo viso e tentai di non spostare le pupille. – Ho interrotto un momento di preghiera, sono… – Mi sentivo un perfetto idiota, ecco la verità. – Dovrei passare…
– Vivo qui.
Che qualcuno mi spari. Sparatemi e mettete fine a questa farsa. Volevo passarmi le mani in faccia e darmi dello stupido, perché neanche per un attimo avevo collegato il suo aspetto trasandato al recente incendio, alla possibilità che le fiamme le avessero portato via qualcosa. Troppo preso a pensare ai suoi occhi senza scrupoli e alle parole con cui mi avrebbe accusato. – Perdonatemi – sussurrai con una smorfia imbarazzata in viso. – Non lo sapevo. È stato l'incendio a condurvi qui?
Gli occhi grigi di Grace non sembravano avere intenzione di mollarmi. Il sudore cominciò a scorrermi gelido lungo la schiena, sprizzava dai pori e colava imbarazzato attraverso i capelli sporchi. – Il vostro uomo vi ha raccontato come ha fatto a trovarmi? – A ogni parola avevo la sensazione sempre più insistente che volesse fottermi.
Mi sforzai di assumere un tono rassicurante. – No. – Però non mi ha neanche detto che avrei dovuto avere paura di te. Portai la manica della redingote alla fronte a tamponare le gocce di sudore.
Il piccolo emise un gemito, ma la madre schiacciò la sua testa contro il seno. – Mi ha trovata sul retro della chiesa. Stava urinando sulla parete e io mi sono avvicinata per chiedergli l'elemosina.
– Questa storia sembra fantastica. – Non so dire perché mi lasciai scappare quel commento sarcastico, fatto sta che Grace mi lanciò un'occhiata in tralice. Non aveva neanche il senso dell'umorismo di sua madre.
– Avevo bisogno di soldi. Gli ho succhiato l'uccello in un vicolo. – La figlia di Alice tirò su l'angolo delle labbra in un sorriso. – Poi mi ha pagato e ha chiesto come mi chiamassi. Quindi ha parlato di voi e… – ridacchiò, una risata perfida, che mi fece venire i brividi. Stronza. Scusami, Alice, ma… che stronza. – Non ho potuto farne a meno. Ho voluto incontrarvi. – Mostrò i denti nel sorriso. Le sue labbra sembravano quasi rosse, sanguigne, risaltavano contro i denti gialli. – Volevo vedere in faccia l'assassino di mia madre, prima di andarmene.
Eh? Non stava dicendo sul serio, giusto? Insomma, io… C'erano poche cose su cui potevo dire di essere sicuro, ma sapevo di non avere ucciso Alice. Non erano molte le persone sul mio cammino che non finivano sotto tre metri di terra, quindi le ricordavo piuttosto bene. Alice Jackson era una di queste.
Qualcun altro avrebbe negato, si sarebbe scusato o le avrebbe inzuppato la gonnella con le proprie lacrime. – Però non avete risposto alla mia domanda… – Fu l'unica stronzata che riuscii a sussurrare. Stupido bastardo. Stupido maledetto bastardo. Pregai addirittura che non mi avesse sentito. L'idea che Tic si fosse imbattuto in lei cercando una pompa poteva essere esilarante per Thomas, e di norma avrebbe fatto ridere anche me, ma quell'accusa bruciava di più. Io non avevo ucciso sua madre. – Lo giuro su Dio – dissi a voce un po' più alta. Avevo intenzione di recuperare un po' della dignità perduta. – Possa essere fulminato in questo istante se non dico la verità, Grace, ma io non ho… non ho ucciso vostra madre.
Schioccò la lingua e abbassò lo sguardo, ma non prima di mostrarmi un altro dei suoi sorrisi maligni. – Certo che no. Non di persona. – Sembrava non riuscisse più a guardarmi negli occhi. – Non eravate nemmeno qui, quando è successo.
Deglutii a vuoto. Forse avevo un'altra possibilità. – Parlate dell'incendio? – Mi infilai nel varco apparso lì per me, come un polpo che sfugge alla rete attraverso fenditure nella roccia. – È stato un paio di anni fa, se non sbaglio.
– Non sbagliate. Abitavamo proprio davanti a Fort George, tra la Broadway e le bocche dei cannoni. – Tirò su col naso, forte, ma dopo le sue affermazioni non riusciva a farmi pietà. Lasciai persino cadere lo sguardo sulla tetta infilata a forza tra le labbra del bambino. Per il solo fatto di avermi accusato della morte di Alice meritava una punizione ben peggiore. – Nella lettera vi ho accennato, immagino. – No, ma non aspettò che lo precisassi. Nella sua dannata lettera diceva solo che Alice era morta. Tutto qui. E come diavolo potevo essere stato io a farle del male, eh? Avevo immaginato diverse cause, ma da quando ero entrato in città la sensazione che quello stupido incendio c'entrasse qualcosa si era fatta palpabile, sempre più pesante sotto le costole. – L'incendio è divampato in piena notte, la città era sotto il controllo delle giubbe rosse e nessuno… nessuno ha fatto nulla per impedirlo. Furono accusati i patrioti, ma metà della città era stata distrutta, ormai. Mio marito ci lasciò le penne. Gli cadde una trave sulla nuca. Morto sul colpo. – Non sembrava importargliene molto. I morti, vi dirò, non sono divertenti come i vivi, specie quando questi ultimi hanno grosse ferite slabbrate nella coscienza, buchi sanguinanti in cui infilare le dita e godere della sofferenza procurata. – Era tutto programmato per incolpare i patrioti. – Sputò a terra con impeto. – Stupidi figli di puttana.
Presi fiato. A quando pare non potevo fare a meno di inciampare su altri nemici. – Sostenete l'Esercito Continentale? – Non ero sicuro di voler sapere la risposta, ma il senso di colpa era più forte della voglia di sfidarla, e la mia curiosità aveva preso il sopravvento sul raziocinio, come al solito. Dovevo solo sperare di non tradirmi con la sua risposta.
Si accigliò, le sopracciglia corrugate e il mento alto. Una nobildonna che squadra i mendicanti dalla propria carrozza coperta di gemme. E, ironicamente, la situazione qui era l'esatto contrario. – Sostengo George Washington – disse, fulminandomi con un'occhiata fiammeggiante. Riuscivo a sentire il peso del suo disprezzo sulla mia redingote, vi scorreva come il piscio di Tic sopra le vecchie pietre della chiesa. Quel bastardo e il suo stupido uccello si spostavano di pari passo con i miei guai.
E all'improvviso capii. Non mi riteneva solo responsabile della morte di sua madre. Aveva l'espressione di una donna che sapeva esattamente cos'avevo fatto al comandante in capo. Una delle poche ad aver visto i manifesti prima che gli Assassini li stracciassero. E certamente non approvava. Abbassai di nuovo lo sguardo, e mi sentii impotente. Mi ci sarei dovuto abituare, suppongo, almeno per il tempo necessario a quella conversazione verso il perdono.
Al pensiero mi veniva da ridere. Non c'era nessuna redenzione per me, santo Dio, come avevo fatto a sperarci? – Bene. Non siamo qui per parlare delle nostre ideologie politiche, giusto, signor Kenway? – Sapete da voi quanto siano divergenti. Se pensava che le avrei dato soddisfazione mi credeva proprio stupido. Le feci un cenno con la testa, le mani affondate in tasca, e le intimai di proseguire. – Si tratta di mia madre.
Le scoccai un'occhiataccia esasperata. Quello era il culmine. Non ce la facevo più. Poteva essere casuale una volta o due, ma, Gesù Cristo, se avesse tirato ancora una volta in ballo Alice con quel tono di sfida, calcolato per farmi imbestialire e mostrare al mondo che razza di persona orribile ero, be', non avrei esitato a metterle davvero le mani al collo. – Vi prego, signora Jackson. – Suonava strano chiamare "signora" una ragazza tanto giovane, ma quelli erano i convenevoli, essendo sposata. – O vedova Jackson, come preferite. – Non potevo farle del male fisicamente? Niente mi impediva di sfotterla. – Sono qui per sapere come è morta vostra madre e sperare che voi, almeno, riusciate a perdonarmi. Non giriamo attorno al discorso. – Esatto, stupida stronza. Non svegliare il cane che dorme, o come diavolo si dice. Fui quasi tentato di far scattare la lama celata a mo' d'avvertimento, per abitudine. Questo non è solo un cane rognoso, ma sa mordere straordinariamente bene. Pensai a Thomas Hickey, rinchiuso in chissà quale taverna con Tic. Sicuramente lui vi avrebbe colto un qualche doppio senso, e per poco non scoppiai a ridere. – Desidero davvero sapere perché mi ritenete responsabile della morte di vostra madre. – No, non perché siete un'insopportabile rompipalle. Quello lo so, è già nella lista. Il motivo vero. Riuscii persino a lanciarle un sorriso di sfida senza cadere nel sarcasmo. Da ammirare, per me.
Grace si strinse nelle spalle e prese un respiro, schiacciando la testa del bambino contro il seno. Quanti anni poteva avere quel pargoletto? E ancora succhiava latte? Be', questi erano i segni di quanto non aver allevato Connor mi avesse reso ignorante in materia di poppanti. – Volete sapere la verità, signor Kenway? – disse in un ringhio, lo sguardo più gelido che mai.
Roteai gli occhi e mollai una manata sulla panca, tra noi due. Dentro di me fingevo di star colpendo il suo maledettissimo viso. – Che cosa vi ha detto vostra madre di me? – esclamai, le dita strette sul legno umido. Mantieni la calma. Non perdere il controllo. – Vi ha detto che l'ho quasi ammazzata, suppongo. Che ho perso la testa e ho rischiato di ucciderla perché sono un bastardo mentalmente disturbato. Complimenti! Colpito nel segno! Aveva tutte le cazzo di ragioni! Ma questo non c'entra nulla con la sua morte, ed è per questo che sono qui, perché non le ho chiesto scusa e mai potrò farlo. Per rimediare ai miei dannati errori. Ma ora, vi prego!, continuate a deliziare la mia giornata con le vostre insinuazioni, i  commenti acidi e gli sguardi d'accusa senza assolutamente spiegarmi che cosa non vada in me! Non so proprio come potrò abituarmi alla vita di tutti i giorni una volta che sarò uscito da questo posto e vi avrò detto addio!
Aveva la bocca mezza aperta e lo sguardo tremante. Ops. Forse era esattamente ciò che voleva, oppure stava tremando di paura, la netta sensazione che avrei potuto ammazzarla da un momento all'altro, che ne sarei stato capace per davvero, e non come avevo fatto con sua madre. Stupida stronza. Non mi vergognavo più a pensarlo. Orfana, vedova, quel che era, restava comunque una gran cattiva persona. Peggio di me. E io ero un assassino. – Prego – esclamai brusco. – Vorrei sapere la verità.
Alzai lo sguardo su di lei, le braccia incrociate sul petto come un bambino capriccioso e una smorfia carica di disprezzo in viso. Non ero neanche sicuro che mi interessasse ancora saperlo. Andiamo, vecchio bastardo, non permettere all'ira di fare di te una persona peggiore. Peggiore di quanto già sei. Tesi i muscoli della mascella, le dita allungate a grattare i favoriti. Dio, se mi serviva un rasoio. Solo quando poggiai lo sguardo su di lei capii quanto fosse davvero sconvolta. Stringeva il bambino al petto, il labbro inferiore tremante e le dita che scattavano furiose sulla vecchia coperta. Eppure non riuscivo a dispiacermi. Non per lei, che mi aveva soltanto reso le cose più difficili. – Lei… – Prese di nuovo fiato e la coperta scivolò giù dalla testa biondiccia del piccolo, mentre lei sussultava e agitava le dita scosse dai tremori per porre uno schermo tra il figlio e l'intero mondo esterno. – L'ho vista morire lì dentro, signor Kenway. – Si strinse il capo del bambino al seno, solo un'indistinta macchia più chiara nella penombra della chiesa. – In quella casa. Lei continuava... a urlare. Ha spinto me e James fuori, in strada, e s'é chiusa la porta alle spalle. Urlava. – I suoi occhi grigi s'infilarono nei miei, per la prima volta lacrimosi e preoccupati. Sembravano quasi sinceri, cazzo, e mi fecero scordare l’istinto di chiederle chi diavolo fosse James. Il poppante, con ogni probabilità. – Ho visto mia madre consumare tra le fiamme, signore. E continuava ad urlare una parola, una sola parola. Con questi occhi ho visto la casa collassare su di lei, il tetto crollarle addosso.
Strinsi il pugno sinistro, passando la mano integra sulla testolina del piccolo. Non me lo portò via. Forse aveva deciso che le sue parole mi facevano già sentire sufficientemente in colpa. Passare le dita su quei soffici capelli biondi mi rilassava, per quanto in minima parte, ovattava l’urlo colpevole della mia mente straziata. – Che diceva? – sussurrai con la voce grondante panico. – Che cosa diceva, Grace?
Prese fiato e si scostò, avvicinando il bambino all’altro seno: un modo come un altro per staccarlo dalle mie mani, le mani del nemico. Quindi pochi secondi prima era solo distratta. Grandioso. – Urlava il vostro cognome. – Il bambino gemette e lei gli schiacciò la testa contro il seno, attaccandolo al capezzolo di forza. – Kenway – disse sprezzante. Non aveva un minimo di rispetto per me e forse, in cuor mio, cominciavo a capirla. Probabilmente pronunciavo il cognome di Reginald con lo stesso tono. – “Kenway”, continuava a urlare. Come una pazza. E intanto le fiamme la uccidevano.
Sbattei gli occhi, incapace di proferire una sola parola. Era morta urlando il mio nome. Era impazzita dopo il nostro ultimo incontro, Dio, non era una follia momentanea. Era qualcosa di mille volte peggio. – É tutta colpa mia – ammisi, il dolore al petto così forte da farmi ignorare il grugnito d’assenso della figlia. Mi passai le mani sulla fronte, sbigottito. – L'ultima volta che l'ho vista...  – Dio, era passato troppo tempo. Il ricordo delle dita sulla sua trachea era ancora troppo vivo, rischiavo di esplodere. – Come stava quand'é venuta qui?
La figlia di Alice sospirò. – Smozzicava frasi a metà, parole senza senso, diceva che James sarebbe diventato esattamente come suo nonno e sarebbe morto come lui. – Abbassò lo sguardo, sbattendo le palpebre per scacciare le lacrime. – Ha lasciato... una lettera per voi, signor Kenway. – Non ammise nemmeno di averla letta, si capiva dal suo sguardo. Dal modo in cui mi guardava. Non le importava della discrezione o degli affari privati di sua madre. Voleva un colpevole. Dio santo, mi disgustava, eppure la comprendevo così bene. – La tengo sempre con me e quando... – Le sfuggì un singhiozzo che s'affrettò a soffocare con la mano. Non sembrava falso, maledizione. – Quando quello strano uomo mi ha detto di conoscervi ero così confusa... Tutte quelle parole sconclusionate, nella lettera, mi hanno fatta spaventare a morte. Non so più cosa pensare. – Bugiarda. Lo sai benissimo. Persino io so cosa stavi pensando. Pensavi a che razza di schifoso bastardo fossi.
Scavò nella tasca della camicia da notte e mi porse un foglio piegato con le dita tremanti. – Forse voi capirete più di me, ma io non voglio altre spiegazioni. – Già. Voleva solo la soddisfazione di vedermi distrutto. – Mia madre é morta, voglio mettere fine a questa storia. Il vostro nome, il vostro viso, tutto questo non fa che ricordarmi lei, ricordarmi il modo in cui se n’è andata. Non é stata una bella scena, signor Kenway. – Quasi mi fece venire da ridere. Non avrei mai pensato una cosa del genere. E avevo visto morire i miei genitori, perdio, osservare impotente la propria madre morire asfissiata dalle fiamme… Un vero spasso. Si mordicchiò le labbra, carnose come quelle di sua madre. – Prendete quel foglio e andate via. Non voglio vedervi mai più, signor Kenway.
Si alzò velocemente, il bambino ancora stretto al petto, e mi salutò con un cenno del capo silenzioso e inquieto, poi mi voltò le spalle e s’incamminò verso la porta laterale della chiesa. – Aspettate! – esclamai sentendo le lacrime pungermi gli occhi. – Volevo… Chiedervi scusa. Non…
Sollevò semplicemente una mano, senza neanche degnarmi di uno sguardo. Aveva fatto bene. Forse le mie scuse l’avrebbero fatta sentire in colpa, e tanti saluti alla meravigliosa soddisfazione della vendetta. Era meglio così. 
Mi lasciai andare sulla panca con slancio, la testa stretta tra le mani con il rischio di deturpare la lettera con le mie lacrime. Buffo, pensai senza poter trattenere un risolino nervoso. Esattamente come sua madre, Grace Jackson mi aveva salutato perché le ricordavo troppo un passato scomodo. Usando le stesse identiche parole di Alice.
Asciugai le lacrime che pendevano dalle mie ciglia, ridicole, e mi sforzai di drizzare la schiena per mantenere un minimo di contegno. Ero un uomo. E Grace aveva ragione, l’avevo uccisa io, in un modo o nell’altro. Forse non di proposito, ma, diavolo, era colpa mia. Nemmeno se mi fossi inginocchiato ai suoi piedi avrebbe potuto perdonarmi.
Schifoso figlio di puttana, pensai. Presi un paio di respiri a bocca aperta, espirando con sbuffi lamentosi e spezzati. Schifoso figlio di puttana. Poi spiegai la lettera.
 
21 settembre 1776
Haytham,
dovunque tu sia, non siete al sicuro. Accadrà di nuovo. Non devi avvertirlo. Il sangue dell’Aquila è pericoloso. Ti ha fatto del male. È come tutti gli altri.
Succede di nuovo. Smettila! Non hai imparato dai tuoi errori? Da tuo marito, da tuo padre. Stagli lontana. Lui è qui, Haytham. Mi parla. Il tuo sangue è debole. Non vedi? Sto cercando di salvarti. Ti darà una morte peggiore. È instabile. È combattuto. Finirà per ucciderti. Finirai per uccidermi? Tu? Sì. L’hai già fatto. O quasi. Salva te stessa, tua figlia. Salva ciò che conta davvero. Ha fatto le sue scelte. C’è un destino per lui, e non Aiutami. Aiutami, per favore. Tu lo sai. Ascoltami! C’è un destino per lui. Non è buono, è costellato di sangue e di dolore. Non sei abbastanza forte. Lo… lo ero. No. Ti ha già fatta soffrire abbastanza, non credi? Pensa alla tua famiglia. C’è il sangue del Padre, in te. Dio? Lo senti, Haytham? È… Dio? Oh, no, dolce, ingenua Alice. Più antico. La mia famiglia è frammentata, e sto cercando di salvarla. Aiutami. Fa’ lo stesso, sei nata per questo. Hai lo stesso altruismo. Mettiti in salvo dal sangue dell’Aquila e del cervello della Croce. Non ti porterà sulla buona strada.
Dove mi porterai, allora?
Alla salvezza, sciocca. Alla salvezza. Non la senti nell’aria? È vicina. L’hai lasciato per tua figlia e tuo nipote. Non pensare a lui. Fidati di me, e sarai salva presto. Presto. Non sarai qui per vedere la fine, il sangue e la guerra. Non vedrai la devastazione che  essa porta con sé come un’ombra. Non lo vedrai sporcare di sangue la terra. Lo senti, Haytham? Lo senti? Non posso starti vicina. Non è sicuro. Voglio la salvezza, la voglio per loro. Questo mondo è pericoloso. Sono venuto da te, a Boston. Era il 1773. Dovevi seguirmi per la vita o restare e morire nell’agonia. Per un uomo! Per uno stupido uomo! Hai fatto la scelta giusta, Alice. Non mollare. Non mollare adesso, quando sei così vicina. Non farlo per lui.
Che cosa devo fare? Tu lo sai, servo della Croce? Tu lo sai? Morire. Non è difficile. Lasciarti andare, permettermi di portarti via. Lascia che compia il proprio viaggio da solo, senza ferirti ancora. Ci hanno già pensato troppe persone. È solo meglio per te. Lo conosci. È un egoista, come tutti gli altri. Non ti merita.
Morire, Haytham.
Non è difficile. 


Mi disfai rapidamente di quella dannata lettera.
Affondò in una pozza di vomito appena fuori dalla chiesa, mentre mi stringevo lo stomaco in preda ai conati e singhiozzavo come un bambino, piangendo tutte le mie lacrime con la gola che bruciava e gli stivali schizzati di giallo. La lasciai andare per uno spasmo della mano, guardai le parole sparire sotto il fiotto acido successivo. Magari avessi potuto riempire la mia testa e cancellarle per sempre, ma della mente non se ne andavano. Non volevano saperne di andarsene, maledizione.
Mi tirai lentamente su, ravviandomi i capelli con le mani. Respira. Respira. Mentre leggevo, il freddo presentimento che quelle parole non fossero tutte scritte da Alice aveva preso il sopravvento. La calligrafia cambiava, a guardarla bene. Misi una mano davanti alla bocca per non rigettare quel poco che mi era rimasto nello stomaco e singhiozzai. Che razza di patetico bastardo ero.
Sembrava che Alice volesse parlare con me, ma al tempo stesso qualcuno la disturbasse. E quelle parole, con quella strana inclinazione, sicuramente una sua idea, scritte di proposito con un diverso carattere, erano familiari, per quanto distanti.
Un uomo che si definiva Padre ma non era Dio. E le parlava.
Abbassai lo sguardo, scrollando il capo. Avevo la testa così piena di dubbi e dolore, gli occhi vuoti, ma prima che potessi porgerne uno solo vennero in mio soccorso, a ricordarmi quanto fossero profondamente immischiate nella mia vita e non solo. Non potevo essere l’unico frutto di quella bastarda progenie, no? Aveva ragione Alice, quella volta, sono un maledetto egoista. – Non è possibile. – Minerva. Che qualcuno la portasse via, per piacere, non ce la facevo più. Avevo solo bisogno di riposare. In silenzio. Senza che Alice o chiunque altro mi tormentasse. – Non è lui. Non può essere lui.
– Perché? – sussurrai. In fondo, era la domanda che più premeva con forza contro la mia testa. – Chi è? Perché lo ha fatto? – Avevo un’idea, ma non volevo crederci. Gli avevo parlato, e non… Era sembrato amichevole, in confronto alle sue amichette. Mi ero quasi fidato di lui.
L’unico suono che Giunone emise, dal canto suo, fu un ringhio da animale selvaggio. – L’hai lasciato entrare! – gridò, e un’improvvisa scarica di dolore percorse tutto il mio corpo, dalla testa ai piedi, contraento ogni muscolo in un mare di crampi e dolore. Le dita si contorsero, i lineamenti assunsero una piega grottesca, sembrava di essere trasformato in pietra. Pietra rovente. – Come hai potuto, servo della Croce? Come hai potuto? Senza neanche avvertirci!
Risposi con un mugolio di dolore. Non avevo né lo spirito né la voce sufficiente per qualsiasi altra cosa. – Tinia! – Ruggì Giunone. Non pensavo che fosse capace di fare qualcosa di diverso dal lamentarsi e piagnucolare roba incomprensibile per la maggior parte del tempo. Ah, e insultarmi. Lo scordo sempre. – Giove, stupido… bastardo! Ci ha tradite!
– Non ha tradito nessuno. Calmati. – Il dolore si dissolse e trassi un sospiro di sollievo. Non m’interessava nemmeno più capire cosa ci fosse dietro. Volevo solo che mi lasciassero in pace. – Lui è qui, vero, servo della Croce? Ti ha trovato. È sempre stato così. – Se pensavano di stuzzicare la mia curiosità, be’, sbagliavano. Pregavo solo che un cavallo cagasse sopra quella stupida lettera, rendendo impossibile a chiunque ritrovarla, leggerci il mio nome e riportarmela in un impeto di gentilezza. Sentire il nome di Giove… Giove… Gesù santissimo. – Il terzo della Triade. Conosci la mitologia? Passava tutto il proprio tempo libero a procreare, ma per te ha scelto un futuro diverso, direi. Ti vuole concentrato sull’obiettivo. E non ha tutti i torti, Giunone.
Smisi di ascoltarla. Giove. Lo ricordavo, a pensarci bene. Mi aveva parlato durante un sogno. Era rinchiuso sotto terra con Giunone e Minerva. Parlava di una catastrofe e… e mi aveva detto che si sarebbe ripetuta. Che poteva essere evitata. – Me l’ha portata via. – Strinsi i pugni, sentendo un rivolo di bava schiumosa scorrere lungo il mento ispido. – È stato lui. L’ha minacciata e me l’ha portata via.
Non c’entravano i Templari, dunque e, per qualche stupida disgrazia, non c’entrava nemmeno Reginald. Erano stati quei maledetti spiriti. Ancora una volta stavano facendo di tutto per impedirmi di avere una vita normale. – Che cazzo, non posso neanche scopare senza il vostro permesso? – gridai, incurante di chi avrebbe potuto sentirmi passando di là. – Ditemelo, razza di bastardi! – Avrei voluto avere un tono meno lamentoso, ma la mia voce si era già spezzata. Senza che me ne rendessi conto mi ero afflosciato su una panchina lì vicino, i gomiti sulle ginocchia e la testa stretta tra i pugni. Non sapevo che fare. Non sapevo che cosa diavolo fare. – Lei… – Singhiozzai, le mani premute sulle labbra tremanti come un disperato. – Non aveva nessuna colpa, cazzo. – A metà frase crollai miseramente e presi a singhiozzare, le parole strascicate, lamenti di un animale ferito. – Fatelo uscire – mugugnai. – Voi potete… potete farlo, vero? Mandatelo via da lì dentro –, il mio petto si sollevò in un singulto, – per l’amor di Dio, portatelo fuori. Portatelo…
– Mi piacerebbe tanto, servo della Croce – disse Minerva, fredda e calcolatrice. C’era una punta di pietà nella sua voce? Oh, e che importanza aveva, maledizione? Non me ne fregava niente. Volevo solo riavere Alice lì, abbracciarla un momento, un momento solo, e dire a lei, non a sua figlia, che mi dispiaceva. Che era tutta colpa mia e sarebbe stato mille volte meglio se non fossi mai andato a sbattere contro di lei cinque anni prima, a Boston. – Ma non possiamo. È più forte. È nascosto. Non possiamo fare niente.
Singhiozzai ancora, annuendo tra me e me. Avrebbe potuto avere qualsiasi altro uomo, una vita normale e senza l’incursione della Prima Civilizzazione, ma era andata così, e non c’era nulla che potesse mandarmi più in bestia. La colpa era mia. Io l’avevo messa in quel casino, io e il mio stupido sangue. Colpii la terra umida sotto i miei piedi con un calcio, sollevando degli schizzi di fango che macchiarono le pareti della chiesa. Al diavolo. Era solo colpa mia. – Smetti di sentirti una vittima, figliolo.
Sollevai d’istinto le spalle, la bocca spalancata in un’ellisse di stupore. Non era Giunone e non era Minerva. Era quello stronzo dalla voce grossa.
Mi venne istintivamente da ridere, perché tutto ciò che volevo fare in quel momento era ammazzarlo e non avevo modi per metterlo in atto. A parte suicidarmi, ma non credo che avrebbe risolto chissà quanto le cose.
Giove. Grandissimo figlio di buona donna. – Ormai è morta, ragazzo mio. E che puoi fare per lei? – Ridacchiò, addirittura. Ridacchiò. M’infilai le nocche tra i denti e strinsi quanto più forte potevo. Maledizione, dovevo cercare di dimenticare la pistola che avevo al fianco e tutti i modi più facili per porre fine a quella stupida situazione. – Era nel suo destino sacrificarsi per la sua famiglia, ma tu… Tu hai voluto conoscerla. – Sollevai gli occhi al cielo di New York, trattenendo tutti gli insulti che continuavano a vagare per la mia mente. Certo. Io. Io le ero andato a sbattere contro solo perché sentivo la mancanza del profumo della figa. Dio santissimo, quanto avevo bisogno di qualcuno che mi tenesse a freno. – E il mio sangue ha reagito. Il mio sangue in lei. Sono sempre stato piuttosto sensibile alla presenza della mia famiglia, quando mi si avvicina.
Il suo sangue in lei. Aveva ragione, in fondo. Come potevo essere tanto egoista? Pensavo davvero di essere l’unico frutto della progenie della Prima Civilizzazione, quei pochi fortunati a sopravvivere? Eravamo… parenti, quasi. Io e lei.
L’idea che parte del sangue di quel bastardo poteva scorrere nelle mie vene era così poco tollerabile da far male. – L’hai fatta impazzire per Minerva e Giunone? – sussurrai con il petto dolente. Sta’ calmo.
– No, non esattamente. Mi è servita come… come lo chiamate voi? Un trampolino di lancio? – Le mie mani presero a tremare. No, no, non volevo saperlo. Probabilmente avevo già capito, ma speravo di sbagliarmi con tutte le mie forze. Dannazione, non mi volevano vivo? Non avevano bisogno di me per il tempio? Allora perché continuavano a trattarmi così? – La sua energia per entrare dentro di te. È sempre così complicato…
– La sua salute mentale, vorrai dire. – Non ero riuscito a trattenermi. Dannato bastardo. Non potevo schiantare la testa contro una roccia e farlo uscire? Mi sa di no. Era sempre così complicato… Figlio di puttana.
Giove sospirò. – Non puoi fare più niente per lei. È di te che abbiamo bisogno. – Oh, quello sì che mi lusingava, cazzo. – Sarebbe stata una distrazione, doveva starti lontana. E poi...
– Eri già nella mia testa, dunque? Da cinque anni? – Avrei detto qualsiasi stronzata pur di fargli cambiare argomento. Non doveva nominare Alice. Tutto, ma non lei. – E poi…
– La mente di quella povera donna era fragile. Non ha sopportato il cambiamento improvviso, è stato un crollo. Pensava di sentire ancora la mia voce. È sempre spiacevole quando un figlio fa una simile fine.
Mi strinsi nelle spalle, prendendo un respiro per mantenere la calma. – Non sembri poi tanto disperato – grugnii con aria di sfida. Strizzai le palpebre, sperando che per una volta quelle altre due simpaticone mi dessero una mano. Dov’erano quando avevo bisogno di loro, maledizione? – Mandatelo via – pregai. – Per… piacere.
Il terzo di loro scoppiò a ridere. Mi ricordava lontanamente la risata di mio padre, ammisi con un brivido lungo la schiena. – Sono qui, ragazzo. – Fu l’ultima cosa che disse. Poi, come un serpente velenoso, strisciò via dalla mia testa, almeno in apparenza, e mi lasciò in pace.
Il silenzio. La gente che andava e veniva con la testa bassa e i pensieri persi nei propri affari, nessuno che si fermava a parlare, i patrioti che fumavano appoggiati alle pareti.
Ecco. Così andava bene, era perfetto.
Scoppiai in lacrime con le mani in faccia, conscio che, in ogni caso, nessuno in quella città avrebbe fatto caso a me.
Tanto valeva approfittarne. 

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Capitolo 48
*** Il meglio da ciò che resta. ***


 

– Capo! – Avevo adocchiato Thomas da una certa distanza, esattamente dove ci eravamo lasciati, dall’altra parte della chiesa. Era strano che non fosse venuto a cercarmi, o forse no. Le varie birrerie della zona erano di certo attrazioni più interessanti di un vecchio Gran Maestro piagnone. Cazzo.
Dicevo, ciò che mi aveva incuriosito era stato il grosso uomo al suo fianco, con una divisa che avevo visto indosso a diversi uomini in giro per la città e mi metteva addosso una certa inquietudine. Un lungo cappotto marrone, calzoni appena più scuri, il panciotto in tinta con la giacca da cui spuntava una vecchia camicia consunta e un tricorno. La perfetta uniforme di un mercenario. Dalla lunga distanza avevo pensato che Tom mi avesse venduto. Perfetto. Tanta fatica per finire tra le braccia di Ben Church senza neanche provare a combattere. Potevo forse desiderare di meglio?
Pochi passi dopo, però, avevo riconosciuto l’uomo nascosto sotto quei vestiti. Era soltanto Connor, che si guardava intorno come se i suoi nuovi abiti dessero nell’occhio. Che cazzo, andava in giro con un cappuccio ridicolo e pantaloni blu e si preoccupava di quell’abbigliamento? Santo Dio, era preoccupante. – Capo! – Hickey mi si parò davanti, un gran sorriso sul volto e gli occhi un po’ lucidi, come se fosse solo brillo e non completamente ubriaco. – Hai visto come l’ho conciato bene, il tuo bastardo? – Si allungò e diede un buffetto sulla guancia di Connor, che immediatamente lo fulminò con lo sguardo. Non sapeva che c’erano dimostrazioni d’affetto peggiori, da parte di Tom, tipo una mano su per il culo. Che fosse grato per ciò che la fortuna gli dava, no? – Con quei vestiti da deficiente non avrebbe potuto fare un fottuto passo.
Come dargli torto? Dopo secoli, gli Assassini sembravano ancora non rendersi conto di quanto il loro abbigliamento li evidenziasse in una folla, e Connor non era diverso. – Non ne sono poi tanto sicuro – brontolò scaldandosi le spalle. – Church deve sapere chi vuole ucciderlo.
Thomas fece una mezza pernacchia unita a un mugolio di scherno. – Come se tu fossi davvero qui per conto degli Assassini. – Si lasciò cadere su un vecchio barile abbandonato lì da qualche marinaio scansafatiche. – Potrai anche essere tu a muoverti, ma è la mano del vecchio Georgie quella infilata nel tuo culo per governarti dall'interno, cazzo!
Thomas Hickey, vecchio mio. Guardai Connor con un sorriso a labbra strette stampato in faccia, dunque ridacchiai, il capo chino. Non ci fosse stato Tom probabilmente avrei davvero finito per buttarmi a mare e lasciarmi morire affogato. Mi avvicinai e gli strinsi la mano, accompagnando il cenno con una pacca sulla schiena. – Sei ubriaco? Mi servi lucido, oggi. – Sollevai un sopracciglio in una smorfia scettica. Dubito che Thomas Hickey fosse mai stato davvero lucido nel corso della sua vita.
– Sto tenendo spazio libero per il gran finale, capo. – Mi circondò le spalle con un braccio. Sogghignava come un mastino, quel vecchio bastardo. – So dov'è Ben. – Improvvisamente sembrava quasi felice alla prospettiva di ammazzarlo. Lui, sì. Il nostro novello santo. – Un birrificio. – Oh, questo spiegava tutto. Scoppiai a ridere, liberandomi della sua stretta per sputare a terra. – Non c'è niente che potrebbe rendere un omicidio più dolce, cazzo.
Sogghignai, le braccia incrociate sul petto. Stavo cercando lo sguardo di Connor, certo di trovarlo pieno di disapprovazione. Era sperduto chissà dove, lontano, nel vuoto. Forse cercava di capire che cosa diavolo fosse successo al suo vecchio in quel significativo periodo d'assenza, o magari voleva solo tenere le distanze da noi. Le apprezzavo entrambe, a essere onesto. – Nemmeno il whiskey?
Hickey si strinse nelle spalle, come se non ci fosse poi tutta questa differenza. –  La birra è birra, capo. Immagini? Botti così grandi che una sola basterebbe per tutta la tua cazzo di vita. – Sollevò lo sguardo sognante al cielo. Scrollai il capo. Neanche una puttana avrebbe potuto renderlo così felice, ma sapevo bene che non voleva mostrarsi debole davanti a Connor. Dal canto suo, poi, al ragazzo non fregava niente di Tom. Penso lo odiasse quasi tanto quanto odiava Charles, a dire il vero. – Un sogno. Comunque – prese a dondolarsi sul suo barile – ho sentito dire questa cosetta da due mercenari mezzi sbronzi sulla Broadway. Coglioni. Gli ho dato una lezioncina e ho preso i vestiti per il mezzosangue.
Sollevai una mano per interromperlo. – Sono morti?
– Preferirei dire che sono svenuti e hanno perso un po' di sangue, ma non è così. Ho dovuto – disse in un grugnito. Certo, hai dovuto. Avevo sempre più la sensazione che quelle di Tom sulla sua redenzione fossero solo stupide parole. Uccidere era parte di noi, e rinnegarlo sarebbe stato come per me negare il sangue della Prima Civilizzazione, per quanto mi facesse imbestialire. Ah, ma chi se ne importa. Che decidesse da solo ciò che doveva fare, il suo livello di moralità e bla, bla, bla. Balle. – Prima, visto che sono un bravo bambino, ho dato un'occhiata a questo posto. Ci sono un paio di guardie fuori, gente che non ho mai visto. Mercenari, appunto. – Fece schioccare la lingua. – Non dovremmo avere problemi, ora.
– No, infatti. – Connor sospirò e si voltò a guardarmi. – Vogliamo andare?
Mi strinsi nelle spalle e afferrai Tom per la giacca, buttandolo giù dalla sua botte. – Fa' strada.
Ghignò, una mano sulla pancia a pregustare già il sapore dell'alcool. – Ah, basta seguire la puzza di birra, segaioli che non siete altro.
Dubitavo vivamente che Connor fosse un segaiolo, ma risi comunque. Lo seguii.
Finalmente. Non mi serviva altro per sbollire la mia rabbia: Benjamin Church. Dopo tutti i morti e il tempo che avevo perso dietro di lui, era una volta per tutte a portata di mano, lì. Bastava mettersi in cammino e seguire Thomas Hickey. Attraversava le strade inspirando a pieni polmoni e voltandosi ogni tanto a ghignare. Non sembrava triste di portarmi verso un altro omicidio. Tanto il mostro ero io, no?
Connor continuò a tenere le distanze da me, camminandomi davanti. C’era qualcosa di strano nel suo modo di camminare, come se qualcuno gli avesse tirato una lunga serie di calci nei gioielli di famiglia. Teneva le gambe larghe e faceva passi così piccoli che, volendo, avrebbe potuto superarlo anche un bambino. Mi passai una mano in testa mentre lo guardavo, e i miei occhi caddero casualmente su una striscia di pelle scura che sbucava tra il bordo dei calzoni e gli stivali. E poi, be’, anche sulla spanna buona di camicia che sporgeva da sotto il cappotto.
Dovetti trattenermi per non scoppiare a ridere, cazzo. Nonostante le parole della lettera di Alice – la sua ultima lettera – ancora impresse a fuoco nei meandri della mia testa, guardare Connor conciato in quel modo mi tirò su il morale. Mi fece sentire un po’ meno bastardo, a essere sincero, e quando lo superai per avvicinarmi a Tom non riuscii a evitare di scoccargli un’occhiata colma di scherno che evitò abilmente, lo sguardo fisso sulla strada. – Thomas Hickey – scandii con le mani in tasca e lo sguardo che vagava sulle rovine bruciate della città. – Re degli stronzi. Giuro su Dio che quando tutta questa storia finirà ti farò fare una targa del genere, cazzo. – Tom ghignò, le labbra aperte sui denti ingialliti, ma non si voltò a guardarmi in faccia, anzi. Sporse il labbro inferiore in un’espressione offesa, abbassando il capo. – Dimmi un po’ –, giocherellai con la stoffa delle tasche, costellata di buchi per l’usura, – quanti cazzo di mercenari hai dovuto pedinare prima di trovare quello giusto?
Scoppiò a ridere, la sua risata da brividi, simile a un latrato. – Meno di quanto pensi, a essere sincero. – Mi diede una pacca sulla schiena e si voltò a guardare Connor. – Non ce ne sono tanti di cazzoni grossi come lui, è bastato uno qualsiasi. – Tom sporse il labbro inferiore e si diede una grattata in testa, poi si voltò a squadrarmi con aria critica. – Sai una cosa, capo?
– M-mh? – Hai scopato con un'altra puttana? Tic ti ha succhiato l'uccello per dieci sterline mentre ero in quella chiesa a rivivere il mio allegro passato? Feci un sorriso tirato immaginando la scena. Ce li vedevo straordinariamente bene.
Si guardò le unghie con nonchalance, come se non avesse nessun’altra preoccupazione al mondo. – Non ti ho mai visto con addosso qualcosa che non fosse quella fottuta redingote.
Dio solo poteva sapere quanto fossi vicino a mollargli un pugno. Davvero era tutto ciò di cui  quel maledetto figlio di puttana riusciva a preoccuparsi? – Oh, no. Avevo anche una giacca insanguinata rubata a un mercante. – Roteai gli occhi, le guance gonfie. Perché non andava a infilare la lingua nella bocca di qualche prostituta e stava zitto per un po', eh? Perdio.
– Ehi, bastardo! – urlò all’improvviso. Sollevò il cappello da sopra la testa e lo sventolò nella sua direzione mentre mio figlio avvampava fino alle orecchie, la testa che sembrava voler sprofondare nelle spalle. – Come si sta lì dentro, eh? Bene? Cazzo, mille volte meglio dei vostri vestitini da lord! – Rise della sua stessa battuta e si portò l’unghia del pollice alle labbra, mordendola quasi con ferocia. – Ah, è per questo, capo, che non faccio storie per portarmelo dietro. È il miglior fottuto passatempo che abbia mai avuto. – Sollevò lo sguardo, come se ci stesse pensando. – Dopo le puttane e le bevute, mi pare ovvio. Ha un gran bel terzo posto! – La risata gli morì in faccia e si sbatté il palmo della mano sulla fronte, scoccandomi un’occhiata interrogativa. – A proposito, com’è andata?
Dio santissimo, Tom, perché non sei sbronzo? Eh? Quanto avrei voluto che lo fosse. – Non esattamente come pensavo. – Non avevo nessuna voglia di parlarne con Tom, ma a quanto pare non potevo proprio tenere la bocca chiusa. – Sua madre... 
– Quella che ti sei... no, scusa –, si parò una mano davanti alla bocca per nascondere una risatina, – quella che ti sei quasi fatto a Boston, giusto?  
Roteai gli occhi mentre Thomas barcollava, si aggrappava al mio braccio e rideva comunque come una ragazzina. – Sì, Tom – assentii, grattandomi il crostoso moncherino dell'anulare. Mi prudeva la punta del dito, o forse fingevo che fosse così per avere qualcosa cui pensare che non fosse la risalita della bile nel mio corpo. Decidete voi. – Quella lì. È morta. 
Sputò a terra. – Ma non mi dire. 
Non sapevo se ridere o tirargli un pugno in faccia, quindi non feci nulla. È brillo, ricordai a me stesso. Non fare stronzate, ché è solo brillo. Fosse stato facile. Era pomeriggio inoltrato, ormai, e il cielo stava già volgendo al buio, grigio e innaturale. Sembrava fosse fatto di fumo. E il sole non era nemmeno tramontato. – Nell'incendio – ammisi senza pensarci. Se dovevo essere onesto con qualcuno, che fossero loro. – La figlia pensava fosse...  colpa mia. 
Thomas prese un sigaro dalla tasca – cane, chissà dove e con cosa l'aveva comprato – ed estrasse un fiammifero per accenderlo. Razza di menefreghista. – È un'abitudine, allora. 
Oh, Dio, Connor. Perché non si cuciva quella boccaccia, quando serviva? Mi volsi e l'afferrai per una manica della giacca troppo stretta, trascinandolo brutalmente avanti, in mezzo a noi. Nel posto migliore, eh? – Che hai detto, bastardo? – Thomas gli mise un braccio intorno alle spalle e fece un tiro, osservando il cerino ancora acceso nella sua mano. – Ti spiace ripeterlo? 
D'istinto abbassai lo sguardo, preda della vergogna. Certo che mio figlio era stronzo, niente da dire. – Mia madre. Quella donna. – Si strinse nelle spalle e giocherellò con una piuma che pendeva dai suoi capelli. – Era Alice, vero? – Annuii in silenzio. Stupido ragazzino. – Be', hai una certa tendenza a sceglierti donne che muoiono tra le fiamme. 
Thomas scoppiò a ridere e il fumo gli andò di traverso, soffocandolo quasi. Fu costretto a strapparsi il sigaro di bocca e piegarsi in due per respirare, quella risatina sincopata che gli strappava tutto l'ossigeno dai polmoni. – Oh, Gesù! – esclamò, asciugandosi una lacrima all'angolo dell'occhio. Un filo di bava penzolava giù dalla sua bocca. – Capo, davvero non gli hai detto niente? 
Qualcuno mi salvi. Se parla sono morto, ma prima ammazzo lui e l'uomo che gli ha dato da bere. Deficiente. Connor mi prese per una spalla, una smorfia seria in viso. – Dirmi che cosa, Haytham? – Per l'amor di Dio, perché doveva essere così ingenuo? – Haytham? Stai bene? – Ci mancava solo che gli vomitassi addosso, l'apice del patetismo. 
– Sì – sussurrai senza convinzione, la mente annebbiata. – È solo che... Thomas, diglielo tu. – 'Fanculo. Mi aveva infilato in quel casino e ne sarebbe uscito lui. E cerca di non farti ammazzare. 
Hickey si tirò su, ancora scosso dalle risate, e poggiò un avambraccio sulla spalla di Connor. – Ti svelerò un segreto, meticcio. – Si sollevò sulle punte dei piedi, le labbra accostate al suo orecchio. Avevo la cocente paura che ci infilasse la lingua dentro. Oh, chissà perché. – Tua madre non è mica morta in quell'incendio. – Ecco, Thomas, cazzi tuoi. Stavo pensando di poter fingere di non saperne niente, quando avesse tirato fuori la verità, e menarlo fino a fargli cadere tutti i denti, ma era un'idea stupida. Avevo già ammesso di saperne qualcosa con quel "Thomas, diglielo tu." Ero proprio un cazzone. Feci un passo indietro, pronto a evitare la furia omicida del ragazzo. 
– Cosa? – sussurrò con un sopracciglio aggrottato. – Ma non è possibile. Io l'ho vista, l'ho... 
– George Washington è andato a scavare tra le macerie e l'ha trovata viva. Ha ben pensato di finire il suo adorabile sterminio di massa, quindi credo l'abbia venduta come schiava. – Prese un altro cerino, concentrandosi per accenderlo. – Immagino sia già morta da un pezzo. 
Non riuscivo a crederci. 
Si era parato il culo anche quella volta. Era... Cristo, a pensarci mi veniva mal di testa. Si cacciava nei guai e ne usciva come fosse nato per farlo mentre io precipitavo malamente da un disastro all'altro senza che nessuno facesse qualcosa per fermare tutto ciò. Nemmeno io. Era un fottuto bastardo scaltro come pochi altri, e lo invidiavo. Lo invidiavo da morire. 
Connor sussultò appena e spinse il suo braccio giù, sospirando. – Grazie per la sincerità, Hickey. – Riprese a camminare come se gli avesse confessato che mancava il burro alla tenuta. Dio santo. 
– Mi dispiace – dissi lanciando un'eloquente occhiata a Tom. – Lo...
– No, Haytham, non ucciderò Washington – rispose fulminandomi con uno sguardo truce. – È passato tanto tempo, nemmeno mi conosceva, e le Colonie hanno bisogno di lui.
Sbuffai. Manco fosse  una buona giustificazione. Mi aspettavo troppo da quel ragazzo, lo ammetto. Che avesse un cervello era davvero... Dio, che siano maledetti le altissime aspettative che avevo nei suoi confronti e il mio speranzoso ottimismo. – Probabilmente non ci tieni quanto dici, a questo stupido Paese. – Lo ammetto, non riuscii a trattenermi. – Nessuno sceglierebbe lui, Connor. Nessun...
– Non ti permettere! – Scattò come una molla e si voltò all'improvviso, i denti scoperti sotto le labbra. Sbaglio o aveva... aveva gli occhi lucidi, vero? – Non osare dirmi che non ci tengo! Darei la mia vita per avere un Paese unito! 
Roteai gli occhi e un grumo di catarro mi salì in  gola, pesante alla base della lingua. – Tu daresti la tua vita per quell'inetto di Washington, è diverso. – Per una volta non gli stavo urlando contro, forse volevo solo capire che cosa diavolo non andasse in lui. – Preferiresti morire che vedere un uomo cui io tengo al comando di questa stupida cloaca! 
Allargò le braccia, un ghigno di sfida dipinto in viso. Non l'avevo mai visto così ma, santo Dio!, era una faccia da Kenway. Terribilmente da Kenway. – Oh, certo! E vuoi sapere perché? – Mi puntò un indice contro e proseguì senza aspettare risposta. – Perché per tutta la vita sono stato messo in ombra da Charles Lee. Quell'uomo mi ha umiliato quand'ero un bambino e ancora oggi è lui il fine per cui stai facendo tutto questo! – Era un perfetto idiota. Non sapeva, non sapeva niente. Strinsi i pugni in preda all'ira. – Tu... Tu ti fidi di lui nonostante quello che ti ha fatto, e ti fidi di Hickey, ma non di Church, perché sostiene l'Esercito Britannico. Io voglio che a guidare questo posto sia un uomo pacifico, per questo favorisco... 
– Pacifico? – Sputai a terra e mi ravviai i capelli, scrollando la mano per non avere l'istinto di mollargli un manrovescio. – Ma sei scemo? Non hai sentito? Ha bruciato il villaggio! 
Connor scoppiò nervosamente a ridere, passandosi i polpastrelli sugli occhi. – Vedi? – sussurrò. – Ti leghi al dito il passato quando dovresti pensare a garantire un futuro migliore. Non è questo che vuole l'Ordine? 
Oddio. Adesso voleva pure saperne più di me sull'Ordine, quel deficiente. Ah, no. Perché diavolo continuava a parlare? Dava aria alla bocca senza sapere la verità. Il mio fine ultimo non era Charles, era la vendetta. Ma lui che poteva saperne? Non si legava il passato al dito, lui, l'uomo più puro e corretto del mondo, e voleva Washington al potere per lo stesso motivo per cui noi volevamo Lee. Sarebbe stato manovrabile, per gli Assassini. E siamo tutti molto più pacifici con un uomo armato dalla testa ai piedi di fronte a noi. 
Pretendeva di conoscere le mie motivazioni, quell'idiota. Io volevo salvare Charles perché sapevo ciò che stava provando, ed era terribile, e nonostante tutto non lo meritava. 
Cazzo, che fosse un minimo più selettivo quando era lui a legarsi il passato al dito. Non faceva altro che ricordare le cose sbagliate, ignorando del tutto la verità. – Lasciamo perdere – sibilai con le mani alzate. – Tu conosci a malapena la tua stessa Confraternita, vedi di cucirti la bocca quando parli dei Templari. – Gli diedi rapidamente le spalle e presi Thomas Hickey per la giacca. Volevo solo che mio figlio non parlasse più. – Piuttosto pensa a ciò che farai a Benjamin. – Ai motivi per cui lo vuoi morto. Washington. Di quel passo, le cose si sarebbero invertite e sarebbe stato Washington a tenere le redini degli Assassini, non il contrario. Ah, dovevo solo lasciar perdere. Cazzi loro, in fondo. 
Con la Mela e il potere del Grande Tempio, nessun uomo sarebbe stato d'ostacolo. – Manca molto a questo birrificio del cazzo? – ringhiai all'orecchio di Thomas, facendo del mio meglio per restare calmo. 
– Una decina di minuti – replicò Tom con un sorrisetto. – È abbastanza per un altro piccolo litigio tra fighette con la luna storta?  
Gli mollai uno scappellotto, ma non riuscii a trattenere un sorriso. – Direi di sì, ma preferirei usare il tempo in un altro modo. – Lo presi più da vicino, le labbra quasi accostate al suo orecchio. Sentivo la voce tremare in fondo alla gola. – È vero quello che hai detto di sua madre? – L'hai stuprata e uccisa, mi devi almeno un minimo di onestà, giusto, Tom?
Parve pensarci un attimo, mentre si grattava il collo con lo sguardo perso. – La parte su Washington? Sì. E stava davvero per venderla come schiava, ma Charlie ha pensato bene di comprarla a spese dell'Ordine. Un modo come un altro per riportarti tra noi, capo. – Mostrò i denti giallastri in un sorrisetto e annuii. – Washington non s'è fatto pregare. Birch pagava bene, e poi non voleva sporcarsi nemmeno la punta dell'uccello con lei. – Tu invece non ci hai pensato due volte, eh?, pensai mentre cercavo di mantenere la mente fredda. 
Connor non avrebbe mai saputo nulla di quella storia, sia chiaro. 
Almeno, io non avrei certo sgomitato per raccontargliela. – Toh, guarda – Tom si aggiustò il tricorno sulla testa e sistemò le falde della giacca. – Siamo arrivati. 
Oh, non sto più nella pelle dalla gioia.
Il birrificio, accostato ai rari moli sul lato est della città, era un compatto edificio in legno, poco più che un magazzino. Sembrava essere strappato da un forte e portato fin lì da qualche forza primordiale, oppure Ben l'aveva scelto come base perché gli ricordava i campi di battaglia. 
A me non erano mai mancati chissà quanto. Forse perché ero rimasto costantemente circondato da morti, oggi come allora. – Un birrificio – brontolai con le braccia incrociate. – Tra tutti i posti che poteva scegliere... un fottuto birrificio. Perché? 
Thomas si strinse nelle spalle, inspirando a pieni polmoni l'aria umida del mare mescolata all'odore acre della birra. – Perché sa che metà... no, i tre quarti dei soldati britannici non sanno resistere all'alcool? – Sogghignò e sputò a terra. – Te lo ricordi, capo? Non passava marcia senza che una bottiglia di scotch corresse per la fila. – Qui, forse. L'unico che trincava nella repubblica olandese era Braddock, stupido figlio di puttana. – Tranne quando c'era qualcuno di troppo pignolo. Cornwallis era uno di quelli che ti facevano bere di più, cazzo. Non controllava neanche che rispettassimo le razioni. Grand'uomo. 
Aggrottai la fronte, interrogativo. – A proposito di Cornwallis, Tom – chiesi, improvvisamente travolto da un dubbio. – È stato lui a chiederti di entrare nelle guardie del corpo di Washington, vero? 
– Eh, già, capo. – Si strinse nelle spalle prima di guardare Connor con una smorfia maligna. – Lo voleva morto più di noi, quel vecchio sciacallo. E si obbedisce agli ordini, giusto? – Tastò l'interno della giacca e le sue dita si strinsero sul calcio della pistola. – Avevo il compito di ammazzarlo quando fossi stato sicuro di farcela. 
– E che ci facevi sulla Broadway coi tuoi falsari, allora?
– Un giorno di pausa. Mai sentito parlare di questa pratica, capo? – Scrollò il capo come un cavallo, le dita premute sulle narici. – Ci conviene entrare, comunque. 
L'entrata, come aveva detto Tom, era sorvegliata da quattro mercenari impettiti, intenti a controllare quella viuzza deserta con la stessa vitalità di un busto in marmo. – Facciamolo – brontolai rizzando la schiena. Sono il Gran Maestro, no? Più o meno. 
Uscimmo dall'ombra e attraversammo il piazzale a grandi passi, raggiungendo i mercenari che corsero immediatamente con le mani alle armi. Due erano armati di fucile, un terzo reggeva un coltellaccio e l'ultimo brandiva una sciabola inglese. Insospettabili, cazzo. – 'Sera. – Sì, mia madre m'ha insegnato l'educazione, che volete farci? Non trovavo un modo migliore per presentarmi. – Possiamo...?
Quello con il coltello, un brutto ceffo pieno di lentiggini, la faccia larga e il naso schiacciato, incrociò le braccia sul petto, la lama dritta verso di noi. – Identificatevi. 
Thomas ridacchiò, scocciato. – Haytham Kenway – dissi dandomi un colpetto sullo sterno. – Lui è Thomas Hickey e lui...
– Non me ne fotte un cazzo dei vostri nomi. – Coltellaccio aveva uno strascicato accento scozzese, come avesse bevuto un po' troppo, ma mi fissava con uno sguardo decisamente lucido. – Identificatevi. 
Roteai gli occhi. E chi potevamo essere, di grazia? – Va' al diavolo! – strepitò Tom, sventolando la mano destra aperta davanti alla faccia di Coltellaccio. – Da quando in qua i fottuti Cavalieri Templari devono...
– Calmo, Thomas. – Premetti una mano sul suo petto e lo spinsi indietro, scoccandogli un'occhiata d'avvertimento. Che non facesse stronzate, per una volta. Scrollai le spalle e fissai il mercenario negli occhi. – Che il Padre della Comprensione... 
Non ebbi neanche il tempo di finire. Hickey si allungò con un balzo di fronte a me e menò un destro sulla guancia di Coltellaccio, facendolo caracollare all'indietro contro le imposte in legno. – E che cazzo! – berciò, afferrando il mercenario mentre cadeva a terra e sollevandolo di peso. I due armati di fucile avevano estratto le armi e ci puntavano le baionette contro. – Vedete la cazzo di Croce o vi serve un cannocchiale? 
Coltellaccio si contorse per sputare un paio di denti che gli erano cascati dalle gengive, ma bastava un'occhiata superficiale per vedere la Croce che l'anello di Tom gli aveva lasciato sullo zigomo. Gli altri mercenari si guardarono con sospetto e un'ombra di timore. – Possiamo entrare, ora? 
Fu quello con la pistola a farsi avanti, brandendo un mazzo di chiavi tra le mani che appena tremavano. – Ancora un momento. – Si piazzò a gambe larghe di fronte a noi mentre Thomas sistemava di nuovo l'anello sulla nocca, in modo che lasciasse il segno al prossimo pugno. Quel mercenario aveva fegato. – Non riconosco il mezzosangue. Non si è identificato. – Deglutì a vuoto. Era già tanto che non si fosse pisciato addosso. 
Sbuffai. – Lui è mio figlio. 
Uno degli uomini con il moschetto fece schioccare la lingua e mi lanciò un'occhiata lasciva. – Però! – esclamò mentre aiutava Coltellaccio a tirarsi su. – Ti piace la donna selvaggia, eh? 
Varcai le porte del birrificio spingendo Tom a suon di scappellotti. Gesù Cristo, credo di non aver mai visto un uomo ridere di gusto a tal punto. Non per una battuta del genere. Era piegato in due, posso giurarvelo, e immagino che di lì a poco gli sarebbe pure esploso l'uccello per tutto il piscio che stava trattenendo. 
Connor ci seguiva con il capo chino, la lama celata pronta a scattare. Era nervoso come fosse entrato in un bordello, il che mi parve strano, dato che di uomini ne aveva già ammazzati. I corridoi del birrificio straripavano di casse poggiate contro le pareti, e l’unica illuminazione era costituita da qualche lucerna appesa a ganci metallici. Nessun mercenario ci avrebbe accompagnato fin da Ben, non dopo la figura che avevamo fatto. Ah, gli inglesi, sono sempre così fottutamente beneducati. – Dove si va? – chiese Connor con voce flebile.
– Avanti – replicai con uno sbuffo. Vedeva forse altre direzioni? Idiota.
Più andavo avanti lungo quel corridoio buio e più mi prudevano le mani. Benjamin Church sarebbe stato lì, appena oltre qualche porta. Eravamo in tre. L’avrei ucciso, avrei estirpato il cancro del tradimento che aveva portato all’interno dei Templari.
Non c’era nulla che mi rendesse più fiero. – Oh, Dio. – Thomas aveva appena smesso di ridere e si asciugò una lacrima all’angolo dell’occhio. – Porca puttana, capo, scusa, scusa, davvero, ma… Oh, Dio. – Continuò a ridacchiare trascinandosi, i piedi che strisciavano sul pavimento di legno del birrificio, mentre lo sguardo di Connor scattava, sincopato e velato di paura.
– Connor. – Che diavolo aveva? – Sai qualcosa che noi non sappiamo, per caso?
Si strinse nelle spalle. – Troppo silenzio. – Aveva fatto scattare la lama celata, il nuovo modello perfezionato da Achille, e stringeva la lama nel pugno, pronto a usarla come un pugnale. – Non ti pare strano? Sa che vuoi ucciderlo, no?
Storsi la bocca. Ben sapeva che era pericoloso appoggiare una delle due fazioni, per noi, specie quando lui era solo un maledetto chirurgo e non mirava affatto a comandare l’Esercito Britannico – dunque le Colonie, in caso di vittoria. – Non lo so, a essere onesto. – E poi, che importanza aveva?
– Troppo silenzio – ripeté Connor, i muscoli tesi e pronti a scattare.
– Sempre il solito ottimista, eh? – Thomas, pochi passi avanti a noi, stava esaminando una serratura con aria esperta, e lo lasciai fare. Era probabilmente quello che se ne intendeva di più, tra noi.
Mi fermai, con tutta l’intenzione di pensare a ciò che mi aveva detto Connor, ma riuscii solo a concentrarmi sui suoi vestiti. Con il corpo contratto dal panico, la giacca sembrava esplodere intorno al suo bicipite, come una bambola di pezza con troppa imbottitura. – Capo, hai dei grimaldelli? – Glieli porsi a testa bassa, per nascondere il risolino che mi si era aperto in faccia. – Se ci pensassi tu a ‘ste cose domani saremmo ancora qui.
– Devo ricordarti chi ti ha insegnato a scassinare?
Sorrise, infilando delicatamente il tensore nella serratura. – Devo ricordarti quante puttane ho pagato con i miei soldi falsi? – Gli ingranaggi scattarono con un clic. – E poi sono sempre stato più bravo di te, quando si trattava di criminalità.
Oh, certo, perché io ero un santo. – Apri la porta e sta’ zitto, Tom. – Portai la mano all’elsa della spada e sguainai. Forse mio figlio era paranoico, ma non era l’unico ad avere la sensazione che qualcosa non andasse.
L’ambiente successivo era una grande stanza con le pareti coperte da grandi botti piene d’alcool. Storsi il naso appena misi il naso lì dentro, perché Connor aveva ragione. Oppure, altra ipotesi, Ben Church era straordinariamente stupido.
Era lo stesso posto che avrei scelto io per un’imboscata. Tutti quegli spazi in ombra tra una botte e l’altra, la semioscurità della stanza e la vista sulla porta, oltre, con ogni probabilità, al numero, erano dalla loro parte. E l’uomo al centro della stanza, voltato di schiena, con una parrucca bianca sulla testa, sembrava fin troppo tranquillo. Perché la parrucca?
Ti sembra il momento di pensarci, cazzo? Strinsi le spalle tra me e me. Probabilmente quella era l’acconciatura scelta dal bastardo ora che stava perdendo i capelli.
Ah, non potevo perdere tempo in quel modo. Se avessi attaccato, addio informazioni sull’importantissimo carico di Washington, quindi non mi restava altro che aspettare di subire. Eravamo in tre, e nonostante Connor abbassasse la nostra abilità media, direi che non ce la cavavamo male.
E poi, chissà, poteva darsi che fosse davvero Ben Church.
Feci un cenno a Thomas prima di declamare, con tutta la sicurezza che riuscii a trovare in fondo alla gola: – Benjamin Church. – Dio, già solo pronunciare quel nome mi riempiva il petto di soddisfazione. Le frasi successive sarebbero state paradisiache, pensavo. – Sei accusato di aver tradito l’Ordine Templare, violandone i principi per interesse personale. – O così diceva la frase di circostanza. Gli parlavo con quel tono confidenziale, come quand’eravamo tutti più giovani e uniti. All’epoca tutti loro mi parlavano come fossi Dio sceso in terra. Tranne Tom, forse. L’unico Dio per lui era sempre stato l’alcool. – In considerazione del tuo crimine… – Dovetti umettarmi le labbra. Mi sentivo eccitato come una ragazzina al primo appuntamento. Che razza di idiota. – …io ti condanno a morte.
Finalmente! Non avete idea della soddisfazione che provavo. A incrinare la perfezione del momento ci pensò quel bastardo, voltandosi di scatto con un sorriso di vittoria in viso.
Non era Ben. Oh, mannaggia. – Ora!
Immagino che il suo volesse essere un grido, ma fu solo una parola detta voce un po’ più alta del normale. Ops, forse era stato Tom a terrorizzarlo, piazzato strategicamente alle sue spalle. Gli sogghignò, un gesto che orami era la sua firma, e gli sbatté la fronte contro il naso, trascinandolo dall’altra parte della stanza mentre intorno a noi cominciavano a volare i coltelli. – Ci serve vivo, Tom! – gridai con il corpo appiattito contro una botte. Dov’era Connor? Boh. E i mercenari di Ben? Oh, questa è facile.
Stavano un po’ dappertutto. Uno di loro saltò fuori da dietro un barile con la spada sguainata, cercando di sfruttare l’elemento sorpresa per prendermi al fianco sinistro. Peccato che avesse fatto più casino di Thomas Hickey sbronzo quando saliva le scale, quindi fu facile intercettarlo con la lama celata e portare la faccia a pochi centimetri dalla sua, ringhiante e spavalda, carica d’eccitazione. Allungai un ginocchio per colpirlo ai gioielli di famiglia prima che ci provasse lui, ma quello fece un salto indietro, preparato. Con la coda dell’occhio vidi Tom battersi con uno jäger, vicino alle botti. La sua spada rubata a una puttana contro la baionetta da quaranta centimetri montata in cima al moschetto del mercenario. Sarebbe stata una bella sfida da guardare – per quanto le gambe di Thomas mi facessero venire il voltastomaco – se non avessi avuto l’altro di cui occuparmi.
Il suo solo vantaggio era poter mantenere le distanze da me. L’unico modo per avvicinarlo: rompergli la guardia. Disarmarlo, al massimo. Non scelsi di proposito la seconda, a dire il vero. Fu un istinto. Mentre bloccavo la sua spada con la sinistra menai un fendente verticale, dall’alto verso il basso, con la spada corta. La sciabola gli volò via dalle dita intorpidite e prese a urlare come una ragazzina. Dall’avambraccio gli pendevano il polso e la mano, attaccati al resto dell’arto solo per un lembo di pelle insanguinato. – Bastardo! – gridò. Alternava le imprecazioni a quelle urla colme di panico che gli uscivano dalla gola per istinto di sopravvivenza, come se avessero mai potuto salvarlo.
Gli tagliai la gola e lo lasciai morire a terra, gorgogliante. Non lo sopportavo più.
Osservai la situazione intorno a me. Thomas gridava parole senza senso mentre sbatteva la testa dello jäger contro i rinforzi di ferro di una botte, fino a spappolargli il cranio. Sembrava una vecchia canzone irlandese, ma non ne sono sicuro. Connor, invece, aveva appena pugnalato alla gola un mercenario, che gli si accasciò addosso come una fanciulla svenevole.
Erano rimasti cinque mercenari e un assiano. Indovinate chi scelse quel forzuto bastardo?
Me. Immagino non ci fosse nemmeno bisogno di chiederlo. Mi si buttò addosso con tutta la propria forza, spingendomi contro una botte e sbattendo una granata sui miei denti. L’unica cosa che mi parve istintivo fare fu scivolare lungo la superficie di legno e accasciarmi a terra, strisciando in mezzo alle sue gambe. Quando riuscii a mettermi di nuovo in piedi quello aveva estratto una scure e la roteava sopra la testa, urlando qualcosa di incomprensibile in tedesco.
Non avrei mai potuto batterlo con le mie lame. Feci per rinfoderare la spada, ma il bastardo menò un colpo vicino all’elsa con tutta la sua forza. Per poco non persi anche un paio di dita della mano destra e, come se non bastasse, la spada volò via, affondando a una spanna buona dalla gamba di Connor, intento a soffocare un mercenario con le sue enormi braccia. Lo spavento gli fece mollare la presa e il soldato finì a terra, tossendo e rantolando in cerca d’aria. Dovevo ringraziare che mio figlio non si fosse cagato addosso, quindi.
Ero fottuto, lasciate che lo dica. Di tirare fuori la pistola non se ne parlava, non lì dentro. Affondai la mano destra in tasca e la strinsi intorno al tensore. Cazzo. Non avevo niente di meglio, forse sarebbe bastato.
Oppure sarei morto, addio vendetta e benvenuti pomeriggi di noia in cui Reginald avrebbe sicuramente saputo come spassarsela con Charles.
Aveva ripreso a roteare l’ascia sulla testa. Era un tipo decisamente teatrale, questo jäger, quindi presi la palla al balzo e mi buttai contro di lui, la lama celata estratta. Il mio solo peso non avrebbe potuto spingerlo giù, ma fortunatamente aveva lo zaino sulle spalle. Stupido idiota. Crollò indietro, sbattendo la testa contro la canna del fucile, e io affondai la lama celata nella sua ascella, fracassandogli la spalla. La scure cadde a terra mentre mi calavo a sedere su di lui, cavalcioni sul petto, e gli affondavo il tensore nell’occhio. Dio santo, quanto urlava. Era un ruggito primordiale, roba da animale selvatico, ma non era tutto. Agitava il braccio sinistro, quello sano, alla cieca, cercando di artigliarmi la faccia e soffocarmi. Vista la dimensione della sua mano, forse ci sarebbe anche riuscito. Spinsi il tensore più giù, estraendo la lama celata per cercare un altro punto in cui affondarla.
Non ci riuscii mai. Mi mollò un manrovescio così forte e di sorpresa che caddi di lato, rischiando di farmi schiacciare la gamba sotto il suo corpo. Il tensore gli era rimasto infilzato nell’occhio, l’orbita rossa grondava sangue e per quanto la sua palpebra cercasse di calare incrociava sempre quel maledetto pezzo di metallo. Non aveva più un bulbo oculare, solo una massa di carne trita grossa come il pugno di un neonato. Si puntellò sul gomito sinistro, cercando di rialzarsi, quindi mi lanciai in direzione dell’unica arma che mi restava, la scure.
Dio, erano secoli che non ne usavo una. Reginald mi aveva insegnato, eh, ma non era mai stata un’arma nel mio stile. Sembrava più qualcosa da Tom o da Connor, adatta a uomini più forti. Appena strinsi quell’affare tra le mani quasi caddi a terra. Non era una spada. Non era affatto come una spada.
Il bestione, intanto, si era alzato e stringeva la mano sul tensore, cercando di sfilarselo dalla faccia. – T’ammazzo! – gridava mentre lacrime rosse gli rigavano la guancia, un torrente di sangue che sfociava nei baffi sotto il naso. – T’ammazzo! M’hai capito, bastardo? – singhiozzò. – Ich werde dich töten!
Non avevo sinceramente idea di cosa significasse, e non m’importava. Volevo solo farlo secco e lasciare il suo corpo a marcire lì. Avevo un impostore da interrogare, un traditore da ammazzare, cosette del genere. Desideravo soltanto uscire da quel posto vivo.
– Andiamo, Haytham, ti pare che si possa uccidere qualcuno con quel colpo? – I bei tempi, quelli di cui avevo ricordi vividi e tangibili. Quelli in cui mi addestravo sempre con armi diverse. – Sembri un taglialegna, perdio!
Mi faceva sollevare quella fottuta scure ogni giorno. Uccidere con un’ascia non è mica facile. Devi avere la forza necessaria per reggerla e caricare un colpo decente senza farti trascinare giù con la lama. Dare lo slancio senza girare su te stesso come un povero idiota. Lasciai uscire l’aria dalla bocca tra i denti serrati. Probabilmente se avessi dato più attenzione a quell’arma sarei stato più simile a Connor, con le spalle spesse come mura di mattoni. Gesù.
Ricordavo quando ero riuscito ad affondare quella dannata cosa dentro un manichino. Avevo esultato come un pazzo. Insomma, quale ragazzino sarebbe stato capace di ammazzare un uomo – seppur di pezza – con una scure? Io non ne conoscevo nessuno, ma probabilmente l’Ordine ne addestrava chissà quanti. Presi fiato, cercando di concentrarmi sull’assiano davanti a me. Continuava a stringere la mano sul tensore, gridando qualcosa in tedesco. – Mein Gott! – Strillava come se ne andasse della sua vita. – Bitte! Bitte, ich… ich… – Mi strinsi nelle spalle e sollevai la scure sopra la testa, esattamente come aveva fatto lui prima. – Nein! Nein, bitte!
– Niente di personale, amico – ringhiai tra i denti stretti, i muscoli delle braccia in fiamme per il peso della testa d’acciaio. Sentiva l’odore della morte così forte nelle sue narici che prese ad agitare convulsamente l’unico braccio ancora utile. Una macchia scura gli si allargò sul cavallo e gli inzuppò i calzoni. Gli sarebbe bastato sfilare le braccia dallo zaino e scappare, uscire da quel cazzo di birrificio, ma aveva paura, lo capivo. Lo capivo. – Un po’ per uno, no? – E a me ne son già morti troppi.
– Bitte! – esclamò un’ultima volta, disperato. La sua voce era un latrato privo di qualsivoglia traccia di virilità, ma che mi aspettavo? Stava per morire. Si era pisciato addosso. – Bitte! – Allora perché, nonostante tutto, continuavo a guardarlo gelido, pensando solo alla forza che imprimevo sull’ascia levata? – Oh, mein Gott, mein…
La lama della scure affondò tra le sue sopracciglia con uno scricchiolio. Il colpo fu tale da fargli cadere il tensore in grembo e mordere la lingua tra i denti. Dalle labbra ruscellava un piccolo torrente di sangue scuro.
Perché sono un fottuto mostro, ecco perché.
– Capo! – Lasciai la presa sul manico di legno e mi accorsi di avere la faccia costellata di piccoli schizzi di sangue, che m’affrettai a ripulire coi polpastrelli mentre Thomas si avvicinava. – Sei stato… porco demonio. – Lo guardai. Aveva un’espressione strana in viso, a metà tra un ghigno di soddisfazione e una smorfia dispregiativa. – L’hai fatto a pezzi. – Sembrava non sapesse dire se fosse contento o no.
Feci spallucce, un piede premuto sul torace dello jäger, e raccolsi il tensore prima di stringere le mani sul manico di legno della scure e strappargliela via dalla testa. Sentii di nuovo la voce di Reginald, sapete? Sembri un taglialegna, perdio! Non aveva poi tutti i torti, su quel fronte. Combattere con un’ascia era un po’ come fare il boscaiolo. Solo più faticoso, e richiedeva più forza di stomaco. – Grazie, Tom – brontolai caricandomela in spalla. – Sono morti tutti?
Sorrise appena e mi mostrò i palmi sporchi di sangue. – Due e due, capo. Due e due. Bastardo! – Si mise una mano davanti alla bocca per farsi sentire. – Come va con quello?
Connor, in fondo alla stanza, stava aiutando il nostro caro impostore ad alzarsi in piedi, tendendogli una mano e sorreggendolo per la giacca. – Parlerà. – Lo tenne fermo per un braccio, la lama celata ritratta nella polsiera. Thomas mi fece un cenno e annuii d’istinto, ma sentivo le dita serrate sul legno più forte di quanto credessi possibile. – E ha la mia parola che non gli faremo del male. – Mollò una pacca sulla schiena di quell’idiota con la parrucca storta sul capo. – Avanti.
La verità è che non mi interessava nemmeno molto sapere dove fosse Church. L’unica cosa che sentivo, in quel momento, era l’ira. Grande e furiosa come un’onda, mi colmava il petto e si nutriva di ogni mio respiro, aumentava ogni volta che inspiravo una boccata di quell’aria puzzolente di birra e sangue. Perché Ben doveva essere lì, e invece non c’era, ed era tutto ciò cui riuscivo a pensare. Che quel bastardo gli aveva coperto le spalle invece di aiutarmi a prenderlo. Insomma, io avevo fatto fin troppo per arrivare fin lì, solo per lui, che invece era scappato come un cagasotto.
– È partito per la Martinica. – Non me lo meritavo. – Si è imbarcato su una corvetta che si chiama Welcome. – Non me lo meritavo proprio. – Metà della stiva è piena delle merci che ha rubato ai patrioti! – Non lo meritavano neanche tutti quei morti, e non lo meritava la loro vita sparsa a terra, in cui i miei piedi sciaguattavano rumorosamente mentre camminavo per la stanza. – Non so altro. Lo giuro.
Ma a me non basta.
Mi resi conto per davvero di ciò che avevo fatto solo quando un fiotto di sangue caldo mi finì in bocca, rischiando di soffocarmi, e l’impostore strillò di dolore come un eunuco. – Haytham! – La voce di Tom. Aprii gli occhi e vidi la scure affondata nel petto dell’uomo. L’avevo tagliato quasi a metà, dalla spalla fino allo stomaco, e doveva ritenersi fortunato. Un paio di spanne più in profondità e sarebbe già stato in terra a gorgogliare, trattenendosi le budella con le mani impotenti. Niente di particolarmente piacevole.
Non per lui. – Avete promesso… – sibilò l’uomo prima che lo spingessi a terra con un piede per estrarre l’ascia. Le sue ultime parole. Ne ho sentite di migliori. 
– No – sibilai con un sorriso che tirava sulle guance sporche di sangue. Ridevo, e non mi sembrava nemmeno così strano. – Lui ha promesso. 

Thomas spalancò la bocca e batté le palpebre, un’ombra come d’eccitazione sul suo volto. Connor si chinò sul cadavere con un’espressione sconvolta in viso. – Che ti è preso? – gridò. Probabilmente si sarebbe anche allungato nella mia direzione, ma avevo una scure in mano. Una scure con cui avevo appena spezzato un uomo.
Combattere con un’ascia è quasi come tagliare la legna, ma, Dio, assassinare con un’ascia… ti fa sentire potente come nemmeno la miglior scopata della tua vita, cazzo. – Oh, Dio…
Scrollai le spalle, facendo dondolare l’arma avanti e indietro, lungo il mio fianco. – Non era Ben – sussurrai fissandolo negli occhi. – Doveva essere lui. – Doveva. – Pensavo che l’avremmo finita qui. Capisci? – Scrollai il capo, sollevando la sinistra sopra la testa in uno strano cenno. – Invece no. Invece… – Sbuffai. – Non abbiamo finito proprio un cazzo. E io non ce la faccio più a seguire quel povero stronzo. Doveva finire – ripetei, e mi allungai per riprendere la spada corta abbandonata a terra. – Non era giusto che rimanesse in vita dopo tutto ciò che abbiamo sopportato. – Dopo un Assassino morto, mesi di ebbrezza e tedio, il rischio, dopo Fort Lee… – Qualcuno doveva pur pagare.
Thomas storse la bocca. – Ma perché… – Sputò a terra. – Dannazione, Haytham, perché lui?
Avrei potuto dare un milione di risposte, cazzo, ma non riuscii a pronunciare nemmeno la prima, quella che più mi era venuta spontanea. Tutto per colpa di Connor, naturalmente, che puntò un dito verso il soffitto ed emise un singulto strozzato, quasi cadendo all’indietro per lo spavento. – A terra! – riuscì a gridare. Seguii d’istinto la direzione della sua mano e scorsi tre mercenari armati di moschetto sparare verso di noi.
Cioè, no, non esattamente verso di noi. Verso le botti. Verso l’alcool. Porca puttana.
Afferrai Thomas per il cappotto e mi buttai a terra mentre un muro di fiamme s’ergeva a qualche passo da noi e rischiava di farci saltare tutti per aria. Cristo santo, il calore era così forte che pensavo mi fosse andato a fuoco il tricorno, ma fortunatamente era ancora lì, saldo sulla mia testa. – Connor! – brontolai mentre la polvere sollevata dall’esplosione mi entrava in gola. Non ero poi tanto preoccupato per lui, ma, diavolo, l’avevo completamente perso di vista.
– Lascia perdere il mezzosangue, cazzo! – Tom scattò in piedi con una manica della giacca premuta sulla bocca, le dita strette sul mio avambraccio. – Muoviti! – Si guardò intorno qualche secondo e cominciò a correre verso il pavimento del piano superiore che, crollato, costituiva una scala perfetta per chiunque avesse un minimo d’esperienza con l’arrampicata.
E non era nemmeno in fiamme, oltretutto. Meglio di così si moriva. Ustionati, magari.
Oh, d’accordo, va bene, non era il momento delle battutine stupide. Lo ammetto. Corsi dietro Tom con il cuore in gola e lasciai cadere la scure, conscio di poter morire lì dentro. Non volevo accadesse. Che cos’è questa, la mia punizione divina o qualcosa del genere?  Mi passai una mano sulla fronte e artigliai un pezzo di legno sporgente mentre le schegge s’infilavano nella carne, sotto le unghie, ma non me ne curavo. Avrei fatto qualsiasi cosa per uscire vivo da quel casino. – Dobbiamo andarcene di qui.
Connor. Dunque era vivo, uhm? – Cazzo! – sussurrai mentre un frammento legnoso conficcato nel medio mi faceva correre una scossa di dolore per tutto il corpo. – Ma non mi dire! – esclamai, un po’ incazzato con quelle stupide schegge e in parte irritato dall’ovvietà della sua osservazione. Pensavo volesse rimanere lì a fare la fine di Alice. Dannato imbecille.
Le assi erano a malapena tiepide, ma le fiamme che s’intravedevano al di sotto erano come finestre aperte direttamente sull’inferno. Mi pareva quasi di scorgervi Lucifero che ci salutava amichevolmente. – Datti una mossa, capo – grugnì Thomas allontanandosi di corsa sul legno pericolante. Eravamo circondati dal fuoco e ogni angolo pareva uguale all’altro. Dove stava andando? E io? Dove cazzo stavo andando? Esisteva una via d’uscita? Voglio dire, esisteva davvero?
Non sapevo come Connor potesse mantenere la calma in un momento del genere. Correva dietro di noi, assecondava i movimenti delle piattaforme e scovava passaggi secondari come se fosse sempre vissuto all’interno di quel birrificio mezzo crollato. La mia unica preoccupazione era quella di non perdere di vista le falde della giacca di Tom. – Merda! – gridò arrivato di fronte al limitare delle tavole di legno. Non c’era il pavimento, più avanti. Solo le nude travi e i pilastri.
E sotto, un lago incandescente. Roteai gli occhi. Non avevamo il tempo di essere fifoni. – Le travi – ringhiai spingendolo con una pacca sulla spalla. – Le travi, Tom. Forza.
– Cazzo! – strillò lui, indietreggiando come una femminuccia. – Qui salta tutto in aria, capo!
– In aria ci salterai tu, se non ti decidi a muoverti. – Lo superai con un balzo e presi a camminare sulla trave di legno, spessa quanto la mia testa, con le braccia aperte e i piedi che si muovevano sicuri. L’addestramento di Reginald mi stava salvando il culo, poco ma sicuro. Che razza di ironia. – Su. Ehi, ragazzo! – Vidi l’ombra di Connor schizzare da qualche parte sotto di me. – Tutto bene? Non la senti la distanza dal tuo vecchio?
Non si prese la briga di rispondere. Cattivo bambino, Connor. Cattivo. Sfondai una porta con un calcio e in men che non si dica i tre mercenari rimasti erano lì, di fronte a me. Volevano crepare? Che crepassero, allora. – Tom, c’è da divertirsi! – gridai sguainando la spada.
La prima cosa che feci fu afferrarne uno e scagliarlo verso Thomas, giù, oltre lo strapiombo senza pavimento, dritto nelle fiamme, mentre urlava in preda al dolore e alle ustioni. Hickey lo evitò per un pelo, ponendosi al mio fianco con la spada sguainata. Non aspettò il mio permesso, non l’aveva mai fatto. Si scelse uno dei due mercenari e cominciò a tormentarlo con la lama, a suon di stoccate e affondi imprevedibili, dettati dalla furia e dalla paura tanto quanto le parate dell’avversario. Poveraccio. A quello che spettava a me non andò poi tanto meglio, eh. Tese il braccio della spada davanti a sé, la lama ritta, come paralizzato. La prima cosa che feci fu mozzargli l’arto all’altezza della spalla, poi balzai indietro e tesi il corpo in un allungo, pronto ad affondare la spada nella sua bocca e guardarla uscire dalla nuca.
Sarebbe stata una bella scena, eh? Teatrale, dall’aspetto epico, quasi. Peccato che non andò così, perché il bastardo non c’era più. Era precipitato sotto di me, collassato insieme al pavimento e perduto tra le fiamme ardenti, gridando e lasciando uscire dalla gola ustionata tutto il proprio dolore. E, ops!, stavo cadendo anch’io. Precipitando dritto dritto dove meritavo, in gola al demonio. – Merda! – Le dita della mano sinistra si strinsero convulsamente al legno. Sembrava un maledetto miracolo. Tom era lì, in piedi, con le mani nei capelli ma i piedi ben saldi a terra, alla mia destra, e mi guardava come fosse davanti a un fantasma.
Non so perché non gli urlai di darmi una mano, a essere onesto. Forse perché speravo lo facesse da sé, senza che glielo chiedessi io. Speravo che dimostrasse di tenerci abbastanza da salvarmi dalle fiamme, insomma.
Mi afferrò per il collo della camicia, una cortesia degna di lui, e mi sollevò faticosamente sulle assi di legno, rischiando quasi di soffocarmi. Gli caracollai addosso e scoppiai a ridere mentre Connor, un lembo del cappotto troppo piccolo fumante, atterrava sulla piattaforma e ci superava manco fossimo due soprammobili, incrementando oltretutto il rischio che quel magazzino schifoso ci crollasse in testa e ci seppellisse tutti.
– Perché era lì – sussurrai, la testa poggiata contro il petto di Tom, mentre l’aria danzava liquida davanti ai miei occhi.
– Cazzo dici, capo? – Stava riprendendo fiato, le dita intrecciate sullo stomaco.
Sorrisi, sistemandomi ginocchioni e riuscendo ad alzarmi in piedi. – La risposta alla tua domanda, Tom. – Era strano il fatto che stessi ghignando riferendomi a una cosa simile, ma pensavo di essere sulla buona strada per perdere il senno già da un po’, quindi che importava? – L’ho ammazzato perché era lì. E grazie. – Gli tesi la mano e attesi che stringesse le dita intorno alle mie.
– Di niente. – Scattò su e si spolverò la giacca con un sorriso sghembo. – Che diavolo sta facendo il mezzosangue, piuttosto? 
Volsi il capo verso di lui e sollevai un sopracciglio. Era fermo davanti a una larga doppia porta, chiusa con un lucchetto grande come il suo pugno, le braccia incrociate sul petto e le gambe divaricate. Stava architettando qualcosa, poco ma sicuro. – Connor? – Lo superai con circospezione, avvicinandomi alla porta, mentre Thomas Hickey mi stava quasi attaccato. – Ah, cazzo, è bloccata. Guarda se c’è qualcosa per aprirla, in mezzo a tutto questo macello. – Tom si chinò sulla serratura, punzecchiandola con un dito. Il mio tensore era rimasto di sotto, insieme al cadavere ormai carbonizzato dello jäger. Misericordia.
Ci stavo pensando. Mi voltai a guardare Connor che, nel frattempo, era indietreggiato e continuava a fissare la porta con uno sguardo strano. – Connor? – Lo sguardo di chi architetta qualcosa. Oh, merda. – Cosa stai facendo?
Allargò le braccia e inclinò il capo. Un grosso falegname esperto che prende le misure. – Oh. No. Non farlo. – Le parole mi uscivano di bocca istintivamente. Era un pazzo! Un maledetto pazzo se credeva davvero di farcela. – Non possiamo sapere cosa c’è dall’altra pa…
Mi sentii afferrare per il busto, come trascinato da un’onda, e il mio fianco impattò con violenza contro la grossa doppia porta di legno.
Oltre, solo il vuoto.
E di colpo aveva di nuovo quattordici anni. Quella volta mi aveva spinto giù da uno spuntone di roccia per farmi atterrare in un mucchio di neve, ma la sensazione era la medesima. Libertà, per quanto sia una brutta parola nella mente di un Templare. Sentirsi parte dell’aria stessa, un corpo fatto di particelle indistruttibili. Invincibile, quella era la parola giusta. Mi ricordava quel periodo, diavolo. Quando rideva ancora per le piccole sciocchezze della vita e poteva trovare divertente uno spocchioso gentiluomo inglese che agitava convulsamente le gambe per la paura di spezzarsele.
Non l’avevo mai più sentito ridere in quel modo.
Mai più.
Non era un bambino. Credeva avessimo rubato la sua infanzia.
Con me non lo era mai stato.
– …rte!
Impattai contro la superficie dell’Hudson, dura come la pietra, e dissi addio a tutte le riflessioni filosofiche di ‘sto cazzo su Connor e la sua infanzia. Era solo un groviglio di arti, braccia e gambe che si agitavano nel disperato tentativo di non morire, di non morire di nuovo. Avevo evitato davvero il fuoco per finire affogato nell’acqua sudicia di quello stupido fiume?
Mi diedi la spinta con i piedi mentre l’acqua mi entrava nel naso, congelava i miei vestiti e mi spingeva giù, al freddo. Cazzo, fatti forza ed escine. Ci stavo provando, davvero. Mossi le braccia sopra di me, in un movimento che speravo spingesse l’acqua sotto di me e mi riportasse in superficie. Perché nuotare nell’Atlantico era stato così dannatamente facile, in confronto? Perché Minerva e Giunone non facevano del loro meglio per salvarmi anche quella volta? E soprattutto, che cazzo di ora era? In cielo – se quello era davvero il cielo, magari stavo solo scendendo ancora più giù – c’era una luce strana, scura…
Anche i dilemmi esistenziali sull’orario ebbero fine quando uno stivale mi colpì sulla tempia. Il naso mi si riempì d’acqua, e così la bocca, i polmoni, persino le vene, pareva. Non respiravo più, e i movimenti di Thomas e Connor si fecero solo macchie indistinte lassù, verso le superficie increspata, mentre io scivolavo giù.
down among the dead men, down among the dead men, down, down, down, down, down among the dead men let him lie.
Sembrava la voce di mio padre. Gesù Cristo, stavo diventando pazzo.
Oppure, più probabilmente, stavo morendo.
Quel mondo d’acqua sparì da davanti i miei occhi.
 
Le voci tornarono, ma parevano demoni.
Quindi mi è toccato l’inferno.
Erano familiari e distorte, come fossi rinchiuso in una bolla e dovessi osservare le persone che avevo conosciuto nella mia vita.
Però mi aspettavo una punizione peggiore.
– Sei sicuro che si faccia così?
Uno sbuffo. – Certo che ne sono sicuro, testa di cazzo!
– E se si sveglia?
– Cristo, sei proprio uno stronzo, lo sai? È tuo padre! Vorresti lasciarlo morire in questo modo? – Qualcuno schioccò la lingua. – Su. Lo farei io, ma non ne sono capace. Cioè, so perfettamente come farlo nella teoria, ma tu non sei abbastanza esperto da capire che cosa cazzo stia combinando e aiutarmi, quindi…
– Sì, d’accordo, Hickey, ho capito. Ho capito.
Una luce davanti ai miei occhi. Una luce danzante e arancione. Un cerino? Attraverso le ciglia era tutto così dannatamente confuso. – Bene, bastardo! Bene! Devi metterti così… e apri un po’ di più.
– ‘osi ‘a ‘ene?
– Cazzo hai detto?
– Così va bene?
– Sì, sì, mettiti solo un po’ più vicino… e vai! Soffia.
A risvegliarmi definitivamente fu la pressione di qualcosa di caldo sulle mie labbra.
Altre labbra.
Sollevai istintivamente il ginocchio e allungai la mano, artigliando un cappotto mentre il corpo sopra il mio – oh, Cristo santo, era un corpo, non potevo crederci – sussultava e s’irrigidiva, finalmente staccatosi da me.
Battei le palpebre e tesi le labbra in una smorfia disgustata. No, no, no, su, non poteva essere vero. Eppure era lì, il petto sopra il mio, la giacca troppo piccola nelle mie grinfie e un’espressione dispiaciuta in volto. – Connor – ringhiai. L’unico altro suono era quello delle risate convulse di Tom, piegato in due a terra, una mano sul basso ventre per contenere la vescica. Fottuto bastardo. – Si può sapere cosa cazzo tu stia cercando di fare?
Connor sgranò gli occhi e si piazzò le mani sulla bocca, i piedi che sbattevano sul lastricato dei moli di New York mentre tentava disperatamente di tirarsi in piedi. E che diavolo, ormai? Il danno era fatto, no? – È stato... io... – Indicò Thomas con un dito tremante mentre il bastardo si asciugava le lacrime agli angoli degli occhi, il petto che sussultava per le risatine isteriche che non sembrava riuscire a fermare. – Io... 
Tom si rialzò e batté le mani in aria, avvolgendo la mia con entrambe le sue. – Che il diavolo mi porti, capo, sei stato... Complimenti – esclamò tutto allegro, agitandomi il palmo nella sua stretta. – Sei stato il primo bacio di tuo figlio! Contento? – Allungò una mano con un gran sorriso e usai la sua spinta per tirarmi su. – Devi essere fiero di te! – esclamò stropicciandomi i capelli, per quanto riuscì senza perdere l’equilibrio.
Lo afferrai per la giacca e me lo levai di dosso, gli occhi roteati. – Vaffanculo, Tom – sibilai con la testa che ancora girava per il troppo tempo trascorso nelle acque putride dell'Hudson. Mi sembrava che persino la notte fosse troppo luminosa e il tempo troppo veloce, volevo solo... volevo solo... 
Che cazzo ero lì a fare, già? C'entrava qualcuno, un bastardo, un traditore, o qualcosa... – Ah, capo, se avesse visto la tua faccia persino quel maledetto cadavere di Ben si sarebbe fatto una risata! – Oh, ecco. Benjamin... Church, Ben Church, sì, adesso ricordavo. Ricordavo che, nonostante l'infelice gioco di parole di Tom, quello stronzo era vivo, più vivo che mai, e stava...
Giusto, dov'era? Non ricordavo praticamente nulla di ciò che era successo nel birrificio, e probabilmente la colpa era tutta di quel deficiente di Connor. Lui e le sue schifose respirazioni bocca a bocca, mi aveva provocato un trauma tale da danneggiare il cervello, o qualcosa di simile. – Che non si ripeta mai più – sibilai puntando il dito contro entrambi. Provai anche a dipingermi un'espressione seria in viso, ma guardandoli era impossibile. E poi, cazzo, mi sentivo malissimo al solo pensiero. Mio figlio mi aveva... mi aveva quasi baciato. Calmati. – Sono stato chiaro?
Tom si strinse nelle spalle con un sorrisino. – Non vuoi più essere baciato, capo? Mai in tutta la tua fottuta vita? – Espose i denti in quello stupido ghigno per cui era ormai famoso, quindi gli colpii la nuca con uno scappellotto, più per il nervosismo che per lo scherzo. Era un ragazzo, e forse era tutto ciò di cui avevo bisogno, qualcuno che non prendesse tutto così fottutamente sul serio.
– Abbiamo cose molto più importanti a cui pensare. – Mi voltai verso Connor nonostante guardarlo mi facesse crescere l'istinto di ridere in fondo alla gola. – Benjamin Church, per esempio. Dov'è che si è rintanato, quel codardo?
Il ragazzo si passò una mano sulla nuca, voltato di tre quarti per non essere costretto a fissarmi negli occhi. Sembrava una verginella timorata di Dio e, forse, se Tom non sbagliava – ma dubitavo sbagliasse mai quando si trattava di sesso – lo era davvero. – Martinica. – Un altro cazzo di posto dal nome ridicolo. E io com'era che mi chiamavo? Oh, Dio, avevo una terribile confusione in testa, invadeva pesantemente le mie palpebre e mi spingeva a rivoltare gli occhi all'interno del corpo per non cadere addormentato, come un bambino stanco alzato a forza dal pisolino. Mi sforzai di sbattere gli occhi e gli puntai contro l’espressione più intelligente che riuscii a mettere in piedi.
– Fantastico. – Maledizione. Strofinai una mano sulla nuca, come se servisse in qualche modo a farmi ricordare chi fossi e dove diavolo mi trovavo. – E noi… – Sbuffai. Benjamin era già partito da un pezzo, e io me ne stavo lì a cincischiare invece di salire sulla prima nave e salpare immediatamente verso questa Martinica, Connor e Tom al seguito. – Church ha un giorno di vantaggio. – Feci spallucce e lanciai un’occhiata a Tom, in cerca del suo supporto. – Meglio muoverci, se vogliamo prenderlo.
– Sicuro – brontolò Hickey, come se non fosse poi così certo di volermi seguire. Nel frattempo, nella mia mente si rischiaravano alcuni dettagli, come il mio nome – Haytham E. Kenway, ma non ricordavo di preciso per cosa stesse la E –, la data di nascita e il fatto che quel Tom bevesse parecchio. Che mi piaceva il grog, e ne avevo una voglia matta in quel preciso momento. – Sentiamo che ne dice il nostro Assassino, esperto di baci tanto quanto dell’omicidio di Templari. – Ghignò, le braccia incrociate sul petto, e non riuscii a trattenere un reciproco sorriso.
Connor si passò le mani sulla faccia e annuì, le palpebre calate pesantemente sugli occhi stanchi. – Ho una nave già pronta. Venite al molo quando volete partire.
Scrollai le spalle. – Oh, non credo proprio di avere fretta. – Maledetto idiota del cazzo. Non ricordavo di preciso che cosa avesse fatto dentro quel vecchio edificio fatiscente che ora, accanto a noi, stava collassando su se stesso come un gigante dalle gambe instabili, ma sicuramente meritava quegli appellativi. – Di che nave si tratta, ragazzo?
Aggrottò la fronte, l’aria spaurita. – Una… nave da guerra. – Che era un po’ come chiedere a un soldato quale fosse la sua artiglieria per ricevere come risposta un’arma da fuoco. Schioccai la lingua e mi passai una mano sulla fronte mentre l’acqua salata scorreva giù dalla fronte e s’incanalava nelle rughe ai lati della mia bocca. – Non ha importanza.
– Ne ha eccome – replicai raccogliendo il tricorno caduto a terra e calzandolo sul capo con un gesto teatrale, – ma fingerò che tu abbia ragione. – Mi voltai verso Thomas e gli feci un gran ghigno. Oh, ricordavo un’altra cosa di lui. Poco tempo prima mi aveva fatto una gran scenata perché non voleva essere costretto ad ammazzare altri uomini. Motivo per cui, be’, mi venne spontaneo rivolgergli quella smorfia. – Abbiamo un uomo da far fuori, no? Un fottuto traditore.
Feci cenno a Connor di proseguire lungo i moli, guidandoci verso la sua famigerata nave da guerra, quindi m’incamminai alle sue spalle con i pollici affondati nel cinturone delle armi.
Mi aveva messo in imbarazzo, vero, ma era stata la sua prima occasione dopo ventitré anni. Al contrario, pareva che io ne trovassi una nuova per ogni passo che facevo. 

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Capitolo 49
*** Jolly Roger. ***


Excuse me, I constantly step over the line, like there’s a lot more there to see,
A little cocktail drink and champagne wine and then I’m acting unorderly,
And it doesn’t even seem to matter how much I try, still end up in the same places.
– Madcon, The Way We Do Thangs.

I came too far, I'm too great,
But I'm too scared and I'm too afraid
To stare this world into his face.
– Fances, Arrows (ft. Macklemore & Ryan Lewis).

– E tu sapresti governare quest’affare? – Battei una mano aperta sul timone, con gli occhi stretti e carichi di scetticismo verso mio figlio, pronto a sparaglielo contro. – Bah. – Mi era tornato in mente un bel sogno, in cui salivo su una goletta con mio padre. Era un pirata. Grand’uomo, lui.
Questo non imponeva certo che Connor avesse ereditato il suo talento. – Perché non ti chiudi in cabina per cinque minuti e la smetti di intralciarmi? – mi soffiò contro. Gli sarebbe piaciuto molto spingermi via, ma aveva entrambe le mani impegnate sulla ruota, cercando di allontanare la grossa fregata dai moli striminziti di New York. Avevamo dovuto attraversare mezza città per arrivare alle lunghe dita lignee tese sull’oceano, al porto sul lato sud, perdendo già abbastanza tempo. Se quell’idiota non riusciva neanche a salpare senza incontrare difficoltà mi ero davvero affidato a mani esperte.
Sbuffai, appoggiandomi al parapetto del cassero di poppa. – E dai, Kenway, vieni a bere qualcosa di sotto e lascia in pace il ragazzo! – Bob Faulkner. Non ricordavo poi molto di lui, ma sapevo che faceva bene il grog e, di norma, mi sarebbe bastato.
Ma quella non era una cazzo di gita in cui potevamo perdere tempo per gli errori di un ragazzino senza esperienza. – Dammi una bottiglia, Bob – sibilai guardando Connor con aria di superiorità. – Io resto qui.
– Sicuro? – Faulkner, affacciato per metà dalla cabina del capitano, si strinse nelle spalle con uno sguardo vacuo che era il perfetto specchio dell’ebbrezza. – Tra un po’ Hickey mi stramazza sul pavimento. Io non lo tiro su, 
– Lascialo lì. È abituato. – Dopo tutte le sbronze attraverso cui doveva essere passato. E poi suppongo che crollare svenuto su delle assi di pavimento non sia tanto diverso da crollare svenuto su un pezzo di stoffa dondolante steso tra due ganci di metallo. – Allora, per quella bottiglia?
Robert sollevò stancamente gli occhi al cielo terso sull’Atlantico e rientrò barcollando nella cabina, probabilmente chiedendosi chi diavolo gli avesse messo in testa di seguirci in quella missione suicida. – Potevi dargli ascolto – grugnì Connor con le nocche sbiancate per quanto stringeva il timone. – Non ho bisogno di te qui. – Mi scappò un sorriso. Quel qui suonava bizzarro, come se avesse sempre avuto bisogno di me in tutte le altre occasioni, nonostante non lo avesse mai confessato. A me, sinceramente, non sembrava messo poi tanto bene. – So cavarmela.
Tirai fuori dalla tasca una sterlina e presi a lanciarla da un palmo all’altra mentre il sorriso si allargava sulla mia faccia. – Sicuro. Certo che sai cavartela. Abbiamo levato l’ancora da mezz’ora e ancora riesco a vedere Bridewell, Connor. – Ridacchiai tra me e la moneta s’infilò nel vuoto lasciato dal mio anulare sinistro, rotolando sulle assi di legno. – Ah, maledizione. Quanto… – Tentennai, arrancando in equilibrio su un piede solo mentre la prua infrangeva le onde alle mie spalle. – Cazzo, Connor!
– Non è colpa mia! – sbottò come una ragazzina isterica. – Il mare si muove, Haytham. Che ci posso fare? – Si calò il cappello in testa con una smorfia e tese la mascella, lo sguardo fisso di fronte a sé. – Cerca di tenerti, piuttosto.Afferrai la mia sterlina e mi strinsi delle spalle mentre, oltre la poppa, New York diventava sempre più piccola. – Stavo dicendo… Qual è la velocità massima di quest’affare?
– Dodici nodi – sputò Connor, come se volesse dirmelo solo per farmi stare zitto. – È abbastanza? – Non c’era alcun sarcasmo nella sua voce, solo sincera preoccupazione. – Perché pensavo di tenermi vicino alla riva, ecco. Seguire la linea costiera delle Colonie e poi le isole, fino a… Mi stai ascoltando?
Dodici nodi. Non era molto. Non era niente. Se quella di Ben era una corvetta e per di più aveva anche un giorno di vantaggio, oh, be’, poveri noi. Ben poteva arrivare in Martinica, accendere un falò, ballare, prendere la sua roba e portarla alle giubbe rosse con tutta la calma del mondo. Probabilmente ci saremmo incontrati a metà strada mentre lui rientrava. – Troppo lenta – grugnii con le braccia incrociate sul petto. – Che dici? Cambiare rotta?
– A-ah. – Virò appena per evitare una microscopica lancia dove due pescatori erano intenti a bestemmiare tirando su le reti che, con ogni probabilità, avevamo appena strappato. – Qualcosa non va?
– Certo che qualcosa non va. – Mi voltai, le mani salde sul parapetto, e guardai la folla di uomini fatti e finiti che scorrazzava sul ponte e sul sartiame, cercando di far funzionare il tutto al meglio. L’ultima volta che ero stato su una nave mi ero gettato in mare per sfuggire a un ammutinamento, per cui l’idea di un equipaggio tanto indipendente mi metteva addosso una certa inquietudine. Sbuffai. – Church avrà sempre più vantaggio, se ti metti anche a cambiare rotta.
Connor mi puntò due dita contro. – Il vento è dalla nostra parte, Haytham.
Roteai gli occhi. – Il vento può cambiare. Non devi fare affidamento su cose del genere, lo sai? – Schioccai la lingua e mi passai una mano il faccia, cercando di cacciare il gusto salmastro dell’aria dalla mia bocca. – Sai, a me sembra quasi che tu voglia fartelo scappare. Voglio dire… a te servono i rifornimenti, a me la sua morte. Prenderlo prima o dopo non ha alcuna importanza, per te. Basta che Washington abbia di nuovo le sue preziose scorte.
Si strinse nelle spalle. – Devo ucciderlo. È uno di voi. – Che bella scusa. – E poi potrebbe farlo di nuovo. Voglio che la guerra finisca, e sarà Washington a vincerla.
Dio santissimo, che razza di esperto bellico. Impallidivo solo a guardarlo. Ma vaffanculo. – Pensi che senza Church ci inchineremo tutti alla maestosità del vecchio George? Che persino la cara Inghilterra, dall’altra parte del mondo, deciderà di rinunciare a queste terre perché ai patrioti sono appena arrivate dodici coperte cucite dalle adorabili massaie inglesi? Per carità di Dio, Connor, cresci un po’. – Mi piazzai accanto a lui con un sorrisetto soddisfatto. – Le guerre non finiscono mai. Dovresti saperlo. – Coraggio, sei o non sei il leccapiedi del comandante generale di quel cazzo d’esercito? Pensavo che avessi imparato qualcosa, a parte come girare la lingua per ottenere una lucentezza perfetta sui magnifici stivali di Washington. Mi schermai gli occhi con una mano mentre le lanterne spente oscillavano placide e il sole volgeva verso la conclusione della sua corsa nel cielo. Il primo giorno in mare di quanti? Venti? Trenta? E Thomas era già ubriaco. Perdio.
– Forse hai ragione – brontolò con la testa incassata nelle spalle. – Dopo questa guerra ne verranno altre. Di sicuro. Ma finché posso dare una mano per garantire la pace, io lo farò.
– Quindi ammetti che per garantire la pace servono i moschetti e… e i cannoni, e tutte le meschinità di cui l’uomo dispone. – Inspirai una gran boccata d’aria salmastra e mi voltai a guardarlo.
– A volte.
– A volte – gli feci il verso con un sorrisetto. – Niente di più poetico di un bell’a volte.
– Smettila, Haytham. Sei qui per aiutarmi o…
– Sono qui per uccidere Church. Ecco tutto. – Quello stupido bastardo di Benjamin Church. Ah, avrei dato un braccio per poterlo ammazzare senza tutta quella trafila. – Ti serve un quartiermastro?
Connor mi lanciò un’occhiata interrogativa, come non avesse mai sentito quel termine in tutta la sua vita. – Qualcuno che ordini alla marmaglia cosa fare. Capito? – Rispose con una stretta di spalle e tornò a guardare dritto davanti a sé, virando per seguire la costa della Colonia del Delaware. – D’accordo. Facciamo a modo tuo, capitano. – Faulkner uscì barcollando dalla cabina e mi lanciò contro una bottiglia mezza piena. L’afferrai al volo e mi lasciai cadere con la schiena contro il parapetto, il timone che ruotava a una spanna dal mio viso. – A Ben Church! – esclamai con aria fin troppo giuliva, tracannando due grossi sorsi di rum. Papà. Non riuscii a pensare nient’altro mentre l’alcool mi scaldava le viscere. Papà. Anche lui probabilmente era stato lì dove ora s’ergeva mio figlio, a guardare una ciurma di figli di puttana con un gran sorriso stampato in faccia, così libero. Così felice di poter fare ciò che voleva. Non faticavo a immaginarlo, con una sciabola in mano o, esattamente come me, una bottiglia di qualcosa – qualsiasi cosa –, incitando i suoi uomini a fare meglio e più in fretta.
Come poteva Connor prendere il suo posto, maledizione? Era così serio. Così rigido, il timone che si muoveva a scatti sotto le sue enormi mani, lo sguardo fisso sull’orizzonte, come se ci fosse sempre uno scoglio o una secca a intralciare la sua rotta. – Perdio, ragazzo, ti serve che vada sulla coffa a dare un’occhiata? – Insomma, non avevo bevuto tanto da vedere doppio. Potevo ancora essere utile.
– Ce l’ho già un uomo là sopra, accidenti! – mi soffiò contro, virando appena a mancina.
– Coffa – scandii indicando con un pollice il pezzo di legno piantato sopra l’albero maestro. – Che razza di capitano sei?
– Vuoi smettere di assillarmi? – Aveva gli occhi fuori dalle orbite e le nocche bianche per quanto stringeva la ruota. – Va’ nella cabina! Non ho bisogno di te qui! – Storsi la bocca in una smorfia scettica. A meno che tu non voglia impazzire.
Roteai gli occhi, lasciando vagare lo sguardo verso il cielo azzurro e senza limiti sopra l’Atlantico, dunque mi alzai con un sospiro. – D’accordo, d’accordo, come preferisci. – Che tipo. Avrei preferito portarmi dietro le piattole. – Ah, ma sai dov’è la Martinica?
– Va’ di sotto, per l’amor di Dio – sibilò con la mascella contratta e lo sguardo indurito davanti a sé. – Fammi solo questo favore. – Oh, dopo tutto quello che ho fatto per te. Che figliolo ingrato. Scrollai le spalle e strofinai le falde della redingote con il dorso della mano, lasciando il cassero di poppa con un sorriso di trionfo e l’acqua che sembrava luccicare intorno all’Aquila.
Il brusio dei marinai era così forte e confusionario da farmi girare la testa più del rum, e le cime arrotolate in ogni angolo del ponte sembravano grossi serpenti pronti a mordere. Non c’era niente di più bello di una nave, ora che ci pensavo. Ecco perché avevo insistito tanto durante il mio viaggio verso Philadelphia, quando Washington ancora non era nessuno e potevo sperare che, per una volta, sarei riuscito a fare qualcosa di diverso dall’ammazzare o tirare di spada. Qualcosa che mi piacesse davvero, che mi facesse sentire come quando mio padre era ancora vivo.
Sbuffai, lanciando un’ultima occhiata in direzione di Connor. L’equipaggio se la sarebbe cavata mille volte meglio senza di lui. – D’accordo, d’accordo – sussurrai mentre stappavo la bottiglia di rum. – Alcool e baldoria. – Inclinai il collo di vetro sulle mie labbra e tracannai il liquore mentre spingevo la porta della cabina con il palmo.
Lo spettacolo oltre quella soglia fu quanto di più divertente avessi visto da quando eravamo salpati, secondo solo all’inesperienza di Connor con il gergo marinaresco. Thomas Hickey teneva la testa fuori da una delle finestre, rovesciando le proprie budella nell’oceano sotto di noi, i piedi ciondolanti nel vuoto e le braccia tese per lo sforzo di tenersi sollevato abbastanza da vomitare oltre il vetro, e Bob Faulkner che canticchiava e rideva rauco – ahr-ahr-ahr, come si immaginano i pirati nei romanzi d’avventura da due soldi –, osservando una bottiglia alla poca luce del sole che passava tra il capo di Tom e la cornice della finestra. – Che diavolo…?
– Kenway! – Robert allargò le braccia verso di me, il capo che penzolava pericolosamente da un lato. – Vieni a bere con noi, cazzo! – Fece per alzarsi, ma caracollò all’indietro prima di accasciarsi sulle proprie gambe e crollare nuovamente seduto. – Perdio, come mi gira la testa… E questo è… – Lanciò un grugnito mentre cercava di leggere l’etichetta della bottiglia. – Questa merda non è nemmeno d’annata! Per grazia di Dio!
Nello stesso istante Tom si lasciò cadere ginocchioni sul pavimento della cabina, un pugno sollevato debolmente verso la finestra. – Peste vi colga – sussurrò, il volto ceruleo e le gambe che tremavano mentre si alzava, in equilibrio precario. – Ehi, capo. Hai del… rum? – Sembrava un senzatetto cui stanno offrendo del tacchino ripieno. A dire il vero pensavo che avesse avuto abbastanza rum nello stomaco per entrambi, fino a... be', fino a pochi minuti prima.
– E ti pare di no? – esclamai ridendo, dunque vuotai gli ultimi sorsi di quella roba, lasciando che scivolasse dolce e bruciante giù per la mia trachea. – Non ne hai mai abbastanza, eh, Hickey?
Bob scoppiò a ridere, questa volta una risatina scaltra e acuta, più simile a quella di Tom. – Un uomo non avrà mai abbastanza rum, o donne, o soldi. A meno che... – Un singhiozzo lo colse alla sprovvista e fece un balzo sulla propria sedia. – A me non che non trovi qualcosa di più grande, ecco.
Aggrottai la fronte. – Come l’amore per la navigazione? – Abbandonai la bottiglia di rum sul tavolo coperto di carte che troneggiava all'interno della cabina. L'Aquila continuava a beccheggiare tranquilla, inchinandosi a destra e a sinistra secondo l'andare delle onde. Troppo tranquilla per un inseguimento. – Porco demonio! – imprecai con una botta al piano di legno. – Cosa pensa di fare quel ragazzino? Una passeggiata lungo la costa?
– Lo prenderemo, Kenway! – Il vecchio Faulkner mi imitò, ma non riuscii a cogliere alcun sarcasmo nei suoi gesti. Si prese la mano nell'altra dopo averla sbattuta, soffiando e imprecandoci sopra. – Maledizione. Ma giuro sul tesoro del capitano Kidd che prenderemo quel diavolo... Quel diavolo di un Church...
Inclinai il capo con una risatina. Pensavo che Bob non avesse la minima idea di chi fosse Church. Magari gliel'aveva detto Connor, o Thomas. – Lo manderemo all'altro mondo, giusto? - L'imbarcazione s'inclinò nel disappunto generale e caddi contro Faulkner, rischiando di buttarlo a terra. – Porca puttana, Kenway, datti un contegno!
– Ah, sta' zitto – grugnii mentre mi tiravo su. Dopo la mia simpatica avventura nelle acque del porto di New York, l'idea di trovarmi insieme a Tom in una stanza circondata da acqua mi fece contorcere le budella. – Tu rimani seduto, piuttosto, e cerca... cerca di non svenire.
Thomas, dal suo angoletto di solitudine, fece un sorriso. – Bobby – sussurrò reclinando il capo. – Racconta una delle tue storie.
– Sciocchezze! – Però questa volta non si alzò. – I capitani non restano nei bassifondi, si gettano al centro della battaglia. – Giusto. Anche noi, quindi. Grandi uomini sbatacchiati da un'imbarcazione e qualche onda. – Non sono qui per raccontare cazzate da due soldi a voi!
Tom fece un sorriso stanco, gli occhi rivolti verso Bob come un fedele che vede Dio in faccia per l'ennesima volta. – Oh, andiamo, vecchio! Preferisci che ti vomiti addosso? – Be', io avrei preferito che lo facesse addosso a Connor, ma decisi di tenere quel dettaglio per me. – E poi le tue non sono cazzate. Giusto? – Scoppiò amaramente a ridere e si tirò su, le dita bianche serrate su un gancio per le lucerne. – O vorresti dirmi che non sei mai stato capitano di 'sto cazzo attraverso tutto il maledetto oceano, eh?
– O-oh! – esclamai con una mano sul petto, poi scoppiai a ridere. Non  c'era niente capace di ferire Bob Faulkner in profondità come le insinuazioni sul suo passato di marinaio. – Diavolo, Robert, non lascerai certo a Hickey il beneficio di credere di aver ragione! – Sembravamo due bambini piccoli che chiedono la favola della buona notte ai genitori. "Fai la voce grossa, papà!" Oh, mi sono perso il meglio dell'essere padre, che peccato. – Forza. Stiamo aspettando solo te.
Il vecchio Faulkner roteò gli occhi e si stravaccò sulla sedia, la nuca che quasi sbatteva contro il tavolo. – D'accordo - mugugnò stancamente. – D'accordo. Nemmeno mio nipote mi chiede queste storielle.
– Ah, hai un nipote? – Sul viso di Tom si dipinse un sorriso malizioso. – Figlio di tuo figlio? - Sì, su, raccontaci com'è stato concepito! Chissà che razza di storie avevano raccontato a Thomas Hickey quand'era piccolo.
Bob scosse il capo. – Di mio fratello.
– Ah. – Batté un pugno contro la parete della cabina. – Un peccato, cazzo.
– Già, un gran peccato. – S'infilò l'unghia dell'indice in bocca e la mordicchiò, imprecando tra sé alla ricerca dell'aneddoto perfetto. – Oh, trovato! Vi ho raccontato del kraken?
Tom sbuffò. – Ne ho sentito parlare solo un milione di volte – disse in un grugnito, gli occhi alla travatura del soffitto. – Non da te, suppongo. Su, dicci un po’.
Mentre la nave ondeggiava beata tra le acque, Bob chiese la pipa a Thomas con un cenno silenzioso. Non sapevo quanto fosse sicuro fumare nella stiva di una nave mentre l'imbarcazione era in movimento, ma lasciai correre. Il vecchio si schiarì la voce. – Bene, è successo tutto molto tempo fa, quando ancora ero un giovane e prestante quartiermastro, e...
 La vuoi sentire una storia, Haytham? Eh?
– Cosa? – Trasalii, voltandomi d'istinto a destra e a sinistra. – Avete...
Tom ghignò. – Su, capo, nemmeno io riesco a credere che questo bastardo fosse prestante, ma lasciagli raccontare. – Sollevai un sopracciglio. A voler essere sincero non sapevo che Thomas conoscesse il significato di prestante, ma la vita riserva sempre delle sorprese. Feci un gesto convulso con la mano e intimai a Bob di proseguire, schiacciando i polpastrelli sulle palpebre. – Su, Faulkner. Va' avanti.
– Ecco, dannazione! – Bob sbatté il palmo aperto sul piano del tavolo e riprese a parlare, lo sguardo perso nel vuoto del suo passato.
Non so dire cosa accadde in quel momento, di preciso. Forse era il rollio della nave, o forse la verità è che non avevo nessuna voglia di stare a sentire Faulkner. Avevo bisogno di distrarmi, e le finestre della cabina, da cui entravano schizzi d’acqua salata, schiamazzi e, di tanto in tanto, qualche merda di gabbiano, non erano esattamente il massimo, né tantomeno la voce roca di Bob Faulkner e il suo stupido kraken. Una di quelle creature di merda con cui tutti i marinai sono fissati. Maledizione.
Quindi, be’, diciamo che feci esattamente come il vero capitano dell’Aquila, quello cui il timone spettava di diritti. Mi persi nel mio, di passato.
  
– La vuoi sentire una storia, Haytham?
– Sì, papà! Sì! – Non avevo ricordi precisi di quei momenti. Solo Jenny che roteava gli occhi e li portava sul suo ricamo, tutta corrucciata, mio padre che chiedeva con un cenno del capo a Edith di fare il palo e la spada di legno stretta nella sua mano, come avesse parlato con una mano sull'elsa per tutta la vita.
Sorrideva, di solito. – Tua sorella non sembra entusiasta.
E a me non importava assolutamente nulla di ciò che pensava Jenny. – Davvero tenete così tanto in considerazione i miei sentimenti, padre? – rispose sarcastica. Aveva la lingua lunga dei Kenway, ma la gelida acidità nella voce che doveva aver ereditato da sua madre. Strinse un punto e osservò la propria opera con occhio critico. – Incredibile.
Mio padre si strinse nelle spalle, allora, mentre io trasudavo eccitazione e lo guardavo con tanto d'occhi. – Dolce figliola, se lo facessi priverei tuo fratello del piacere di ascoltare questa storia. – Mi scoccò un'occhiata serena. – Chissà come la prenderebbe...
– Non voglio, non voglio, non... – Perdio, strillavo come solo un bambino felice poteva fare.
Jenny, dalla sua seggiola, fece un altro paio di punti. – Lui non è mio fratello – la sentii sussurrare tra i denti, l'ago che bucava la stoffa con foga, come se al posto del cotone grezzo ci fosse il mio viso infantile. Non mi curai neanche di quello. Cribbio, avevo mio padre tutto per me, i suoi occhi azzurri che brillavano e capelli biondi come scolpiti dalla salsedine e dal vento, non dal puzzo delle canalette londinesi. Come potevo pensare a lei?
Mio padre rise e mi scompigliò i capelli, dunque chinò il capo indietro, prendendo un gran respiro. – D'accordo, d'accordo. È una vecchia storia, sai, Quando ancora né tu né tua sorella eravate nati e io non facevo altro che... – Ricordavo perfettamente il sorriso che gli si era scolpito in viso allora. Pensava alla pirateria, e a tutte quelle scorribande di cui non voleva più parlare. Forse aveva paura di trovarle più interessanti della sua nuova vita, desiderando di scappare e salire sul primo vascello di Sua Maestà per quelle lussureggianti isole. Le stesse verso cui ci stava portando mio figlio. Bastarda ironia. – ...affari. Conducevo affari.
– Perdio, chiamateli con il loro nome. – Volevo solo che stesse zitta, un po' come ogni altra volta. Anche lei provava lo stesso sentimento verso di me, quindi... be', non guardatemi come se dovessi sentirmi in colpa. Non lo farò mai. Non per quello.
Mio padre rise e si alzò in piedi, il braccio della spada teso lungo il corpo. – Mi trovavo in un posto lontano, dove l'acqua è sempre azzurra e i gabbiani mangiano pesce fresco e cantano come sirene. Io... – Rise, grattandosi il capo con la mano libera. – Li sentivo persino con la mente offuscata e le orecchie piene della voce di Charles Vane. Un trombone, figliolo. Che il diavolo mi porti se non pareva una cazzo di tuba. – Ricordo che all'epoca trasalii, portandomi una mano alla bocca per tappare una risatina. Non avevo mai sentito mio padre imprecare in quel modo.
– Padron Kenway! – squittì Edith facendo capolino dalla porta. – Il bambino.
Agitò una mano. In fondo, nella vita avrei visto molto di peggio. – Dicevo, questo Vane sembrava un trombone. Gridava contro i suoi uomini quand'era in mare e contro qualsiasi povero diavolo gli capitasse davanti sulla terraferma. Gridava contro Dio, gridava contro il suo secondo, contro suo padre. Non mi pare di averlo mai sentito parlare civilmente in tutta la mia vita. – Davanti alla mia contrariata espressione di bambino cresciuto in una famiglia inglese benestante non poté che sorridere. – Il suo quartiermastro... Un assistente o roba simile, a dovertelo spiegare, era tutto il contrario. Lo chiamavano Calico Jack, ma il suo vero nome era John Rackam. Indossava sempre un ridicolo giacchetto ricamato, amava le donne come pochi altri –, al che Jenny aveva emesso un grugnito sarcastico, – ma era anche molto facile mettere i piedi su quella testaccia. – Edward Kenway ridacchiò ancora, il capo chino da una parte. – Vane era di sicuro il peggiore. Un gran bast... una cattiva persona, una gran cattiva persona, ma era divertente stare con lui.
Non osavo interrompere il suo racconto per niente al mondo. Volevo che durasse il più a lungo possibile, così che i crampi alle braccia, alle gambe e ai glutei si sciogliessero dolcemente. – Stavamo discutendo amabilmente di chi avesse fatto più affari quel giorno. Il vecchio Charles gridava che la sfortuna e Calico avevano mandato la sua fregata a schiantarsi contro gli scogli, e scagliava maledizioni contro chiunque osasse interromperlo. Rackham non rispondeva neanche, mi guardava con quegli occhietti ambrati e lucidi e rideva. – Ricordai che all'epoca non avevo trovato nulla di memorabile in quella storia, a parte il grande compiacimento che traevo da ogni parola di mia padre, ma, Cristo santo, non era ciò che volevo sentirmi dire. Io volevo l'avventura, gli scontri epici e le battaglie senza quartiere, quelle delle fiabe da cui le bambinaie cercavano di tenermi lontano. Eppure era una delle storie più istruttive che mio padre mi avesse mai raccontato. – Avevo appena... Concluso un affare sensazionale. Vi avevo ricavato dodici botti di rum. E una botte fanno otto bottiglie. Bottiglie che avevamo tutta l'intenzione di finire, fino all'ultima goccia.
– Novantasei – sussurrai insicuro, come se commettere un errore di calcolo avesse potuto istigarlo a colpirmi la guancia con un manrovescio. – Trentadue a testa.
Annuì, passandosi una mano sulla barba di qualche giorno. – Trentadue a testa. Thatch e Hornigold erano partiti per una trattativa con qualche vecchio capitano britannico, James Kidd non aveva alcuna intenzione di passare una serata con noi perditempo e Anne Bonny... – Si strinse nelle spalle. – Qualcuno doveva pur scaldare le lenzuola del vecchio James, no?
– Padre! – Mia sorella era avvampata fino alle orecchie, il ricamo sbattuto sulle cosce. – Per piacere!
– Jenny! – le fece il verso con una mano sul petto. – È mio figlio, concedimi almeno la libertà di parlargli come voglio. – Scosse il capo verso il corridoio da cui Edith, imperterrita, avrebbe dovuto avvisarci dell'arrivo di mia madre, di Reginald o di chiunque altro. – Stavo dicendo... Ah, sì. Il rum. Trentadue bottiglie. Io ne avevo ingollate quattro quando Calico decise di tirare giù la volta del cielo. Si mise a urlare che ne aveva abbastanza dei modi di Vane, con quei suoi occhietti che luccicavano sporgenti. Non voleva più saperne niente delle sue strategie guerrigliere. Vecchio demonio. – Sorrise come se stesse parlando di un suo fratello deceduto. Ora che ci penso, non aveva mai spiccicato nulla sulla sua famiglia. – Le regole di Vane erano solo due, ragazzo. – Oh, Dio, mi stava chiamando ragazzo! Le guance mi si scaldarono, il petto pieno d'orgoglio. – Prima: usa il cannone contro chiunque ti si avvicini, chiunque esso sia. Seconda: schiaccia il nemico come fosse un topo nella tua dispensa. Non s'accontentava di razziare le navi, privandole di armamenti, rum e scorte. Impiccava gli uomini e dava fuoco alle stive, li faceva saltare in aria come tappi di bottiglia. – Jenny si alzò in piedi e scattò verso la porta, salendo le scale brusca, il ricamo stretto nelle mani bianche. Io feci un sorrisetto e mio padre sollevò i palmi. Sembrava proprio uno di quei momenti in cui esclamare "Donne!" con aria di scherno, ma nessuno di noi lo fece. – John Rackham si piazzò davanti a Charles e gli disse chiaro e tondo che ne aveva abbastanza e quella sarebbe stata l'ultima volta che lo vedevamo. All'epoca pensavo avrebbe aperto un bordello in qualche angolo dell'isola. – Ridacchiò, e io lo seguii nonostante ancora non avessi idea di cosa fosse un bordello. – Vane si alzò in piedi, la bottiglia piena in mano, e bum!, gliela spaccò sulla testa. – Mimò il gesto fendendo l'aria con la spada e scoppiò a ridere mentre io trasalivo. Per grazia di Dio, mio padre era amico di un uomo del genere? – Tutto il rum gli colò in faccia, tra i capelli, sugli occhi. Rimase per mezzo minuto con gli occhi sgranati a fissare  Charles e me, poi Vane rise. Rise come un maledetto demonio e buttò i cocci a terra, dunque gli si lanciò addosso.
– E tu? – Mi venne naturale porgli quella domanda. Mio padre, il mio eroe, che non difendeva un uomo più debole? Oh, no. Mai.
Si strinse nelle spalle. – Stavo a guardare. Charlie prese a pugni Calico come una bambola di pezza, e quello lottava con tutte le sue forze per restare vivo. Agitava le braccia e le gambe, tirava unghiate alla sabbia e mordeva Vane. A un certo punto quel cane riuscì a piazzargli le gambe intorno al collo. Tirava spingendosi con i gomiti e schiacciava la gola di Calico Jack come un cappio. "Dov'è che pensi di andare?", gli gridava dietro. "Eh?" Con l'aggiunta di diversi epiteti coloriti. – Si grattò la nuca, un gran sorriso scintillante sui denti. – Rackham faceva del suo meglio per non crepare, ma i polpacci di Vane gli chiudevano la trachea in una morsa spaccaossa.
– Perché non l'hai aiutato? – sussurrai, la voce piccola per la paura.
Fece un gesto noncurante con la mano. – Sapevo che Charles non gli avrebbe mai fatto davvero del male. – Ucciderlo. Come se non avesse saputo che ci sono cose mille volte peggiori della morte, la pena capitale. Probabilmente ancora gli pesava sul petto la condanna a morte ai pirati. La fine che gli sarebbe dovuta toccare di diritto. – "Tu vuoi mollare me? Charles Vane? Il tuo capitano?" Scoppiò a ridere, rauco come il latrato di uno sciacallo. E Calico diventava sempre più blu. "Vuoi diventare l'amicone di qualcun altro, bel giacchetto? Provaci, e ti faccio impiccare per tradimento. Ciondolerai da una palma come una deliziosa collanina. Siamo intesi?" Era un uomo di fatti, Charles Vane. Le sue punizioni facevano paura a tutto l'equipaggio, e solo i più tosti osavano chiedere un posto a bordo. Essere troppo sanguinario era un peccato, perché superare Vane in un abbordaggio era considerato tradimento. – Ne sapevo ancora troppo poco di navigazione per pensare che le navi fossero utilizzate da uomini con intenti diversi da quelli dei corsari, e per anni, dopo la morte di mio padre, avevo evitato di pormi certe domande, di riportare alla testa certi ricordi. Ma tale era l’effetto che mi faceva vedere il vecchio Bob che raccontava storielle a Thomas. – Quindi, be', che cosa avesse spinto il buon Calico a seguire Vane è un mistero. Fatto sta che Charles lo lasciò andare e si stravaccò sulla sabbia mentre John sputava e cercava di respirare, una mano sul petto. Di quella serata non ricordo nient'altro, a essere sincero. Vane rise ancora e Calico se ne andò bestemmiando, e la storia parve finire lì. Poi, dopo un paio di giorni, la Ranger stava per salpare di nuovo, e io ero andato lì a salutarlo con un boccale, come da tradizione. A un certo punto arriva Calico tutto trafelato, un pezzo di stoffa tra le mani, e lo srotola davanti al suo capitano. – Afferrò un pezzo di carta e un carboncino, schizzando velocemente una figura. Non era bravo a disegnare, lo ricordo, ma quella volta fu straordinariamente conciso. Mi mostrò l'opera con un sorriso, e forse allora avrei dovuto capirlo, ma ero un ragazzino. Quattro anni, non di più. Jenny era così giovane... Maledizione.
Lo schizzo mi fece trasalire. Un teschio con due ossa incrociate sotto. M'inquietava nonostante non avessi la minima idea di che cosa significasse. – Io e Vane... – Ridacchiò. – Sapevamo perfettamente che cosa quell'affare significasse. "Un contributo alla nave, capitano", ribadì con un sorriso il vecchio Rackham. "Voglio che ci sia un pezzo del suo quartiermastro lì sopra." Sapevamo perfettamente che quelle ossa – le toccò sulla carta con i pollici, nostalgico – erano le tibie di Charles Vane, strette sotto il capo di Calico Jack. – Sorrise tristemente. – Il capitano non lo buttò in mare. Divenne il nostro simbolo. Faceva paura a chiunque la scorgesse da lontano, quella maledetta bandiera. Ecco l'unica regola che Edward Kenway ha per te se mai volessi prendere il mare come corsaro di Sua Maestà. – Mi stropicciò i capelli e sorrise, gli occhi azzurri e stretti. – Ascoltami, Haytham. Guardati sempre dalla bandiera nera. Dal pericolo. – Guardati dalla Croce, sembrava volermi dire in quell'attimo. – Avere paura di ciò che è temuto non è codardia, ma saggezza. Cautela. Solo gli idioti affrontano il pericolo senza pensarci. Gli idioti e i folli. E quando sarai davanti a un nemico, così vicino da poter sentire il suo respiro... be', pensa bene a ciò che stai per fare.
Guardati dalla bandiera nera.
Mi venne da ridere. Come se lui l'avesse mai fatto. Era una di quelle classiche lezioni da padre, "Impara dai miei errori" e stronzate di questo genere. Che razza di consiglio avrei potuto mai dare a Connor? Non scopare con donne di altre etnie o fazioni? Per carità di Dio.
– Guardatevi dal kraken! – strepitò Faulkner nello stesso momento, sbattendo la bottiglia sul tavolo. – Mostro schifoso! Guardatevene! Mi hai capito bene, Kenway?
Tornai alla realtà con la violenza di un ceffone sul viso. – Eh? – fu lo scaltro gemito che mi uscì dalle labbra.
Quello roteò gli occhi mentre Thomas rideva come un pazzo, rischiando di sputacchiare rum dal naso. – Il kraken, diavolo! Il kraken! Lui... – Fece girare la bottiglia di fronte al suo viso, come a voler spiegare qualcosa, ma il faccione rosso per l'ebbrezza di Robert Faulkner crollò sul legno del tavolo, un piccolo lago di saliva che si allargava sulle sue stesse antiche mappe. Era svenuto, o semplicemente addormentato. Preferivo non saperlo.
Tom mi lanciò un'occhiata incuriosita, come se volesse sapere da me cosa fare, dunque diede una scrollata di spalle e si allungò oltre l'ampia schiena di Bob, per prendere la bottiglia che giaceva vicino alle sue dita insensibili. Scossi il capo. Poteva mai essere interessato ad altro?
La nave si agitò con un brusco scossone e il fiasco s'inclinò pericolosamente nella stretta di Hickey. Un conato mi salì su per lo stomaco e desiderai soltanto chiudere gli occhi cinque minuti. – Le vele! – udii strillare Connor sopra le nostre teste, la voce acuta e priva di qualsiasi ordine preciso. "Le vele!", terrificante.
Il sole rossastro illuminò la cabina dai lucernari decorati sui fianchi dell'imbarcazione. Il nostro primo giorno di viaggio giungeva al termine, e vi avevo guadagnato un vecchio ricordo e molta noia.
Ma nessuno mi garantiva che gli altri sarebbero stati migliori. Quello era il problema.


 
Note dell'autrice:
Okay, innanzitutto, ehilà, gente, e scusate se mi faccio sentire una volta ogni morte di Papa. Sappiate che vi adoro tutti, davvero, anche perché leggete, recensite, e alcuni (alcune) di voi sopportano persino i miei folli, folli scleri. Quindi, sì, vi farò un monumento, prima o poi.
Vabbè, saltando la parte sdolcinata questa roba era per dire che se andate su Wikipedia (eeeww, sì, le care fonti del vecchio internet) scoprirete che il (o la?) Jolly Roger di Calico Jack era con le sciabole incrociate sotto il teschio. Lo so, okay?
Il fatto è che l'ho scoperto solo tipo oggi all'una, e la storiella creata dietro mi piaceva troppo per cambiarla. Sorry, fanatici della Storia. Anche Calico Jack mi farà molto male quando ci incontreremo, all'Inferno, per aver infangato la sua memoria.
Pazienza.
Questo sproloquio sta diventando più lungo del capitolo. Damn it.
Okay, vi ringrazio di nuovo tutti *s'inchina*, alla prossima!

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Capitolo 50
*** Si vis pacem, para bellum. ***


Se desideri la pace, preparati alla guerra.
– Motto della Royal Navy.

– Vuoi il cambio?
– No.
– Connor, per l'amor del cielo, è tutto il giorno che stai qui. Sei andato a pisciare di recente? – Il suo sguardo vacuo mi aveva fatto pensare più volte che il ragazzo, piuttosto che cedermi il timone, se la sarebbe fatta addosso. Erano passate due settimane dalla nostra partenza, due settimane di navigazione ininterrotta, di vomito che scorreva senza fine dalla bocca di Tom al mare e di alcool che scivolava nelle nostre gole come fosse ossigeno. Nemmeno Faulkner riusciva a far staccare mio figlio da quello stupido pezzo di legno, ma quella notte non me ne fregava niente delle proteste di Connor. Il mare era piatto come una tavola e scintillava – o quello era il grog? –, e io ne avevo abbastanza di bere, bere e tenere la fronte a Tom mentre si svuotava lo stomaco dalle gallette. Biscotti da navigazione, dicevano le scatole. Tra me e me li avevo ribattezzati "biscotti da suicidio": non credo che un uomo potesse andare avanti a lungo nutrendosi solo di quegli affari. Magari mi sbaglio, giusto, papà? – Andiamo, Connor! Sei esausto, dovresti andare a riposare. – Le vele schioccavano violente nel vento contrario e nessuno si degnava di ammainarle. Stavamo tornando indietro, spinti da quelle folate implacabili. – Lasciamela per dieci minuti.
Scosse il capo. – Haytham, è notte. Non... Non posso lasciartela. – Parlava l'esperto, proprio. – Torna a dormire.
– Non ci riesco. Spostati e basta. – Non era propriamente la verità, ma Connor mica doveva saperlo. – Ragazzo, so quello che faccio, al contrario di te. Bob non te le ha mai date due lezioncine su questa meraviglia?
Schioccò le labbra. – Certo che sì. – Ma probabilmente a quei tempi lui pensava a come avrebbe potuto usare quella grossa barca – mi corse un brivido lungo la schiena degno di mio padre – per catturarci e ucciderci. – Quindi lasciami...
– Ammainate quelle maledette vele, branco di sfaticati! - ruggii con le mani a coppa sulla bocca. – Avete sentito? Voglio solo i controvelacci dell'albero di trinchetto e tutti gli uomini assicurati alle cime! E qualcuno salga su quella dannata coffa per dirmi dove siamo! – Gli uomini si voltarono sbigottiti verso di me, poi verso Connor. – Dunque? Volete finire in pasto ai pescecani o rendervi utili? – Alcune di quelle facce da briganti e malfattori mi guardarono con aria incuriosita, ma si strinsero nelle spalle contrariati e obbedirono.
Guardai mio figlio con un gran sorriso. – Come vedi, so quello che faccio. – Non sapevo molto di navigazione, ma quel periodo sulla nave dell'ammutinato quartiermastro Perez mi aveva aiutato. E, al contrario di Connor, non facevo le cose tanto per. Se dovevo governare una nave, perdio, mi preoccupavo di farlo bene. – Coraggio, va' a farti una dormita.
Si scostò dal timone con un grugnito. – Non sono stanco.
– Allora resta e dammi una mano. – Roteai gli occhi e strinsi le mani sulla ruota, la sensazione del legno in mano che mi riempiva di potere. La cosa più bella del mondo. Quella ruota godeva di una mobilità straordinaria, ora che il vento ci sospingeva dolcemente verso sud.
– Passiamo la costa della Carolina! – strillò il ragazzo arrampicatosi sulla coffa.
Gli feci un cenno di ringraziamento con una mano e mi rilassai, il vento che mi scuoteva i capelli tagliati pochi giorni prima – li trovavo decisamente più comodi – e l'acqua che ci agevolava la traversata. Chissà dov'era Ben. Mi sforzavo di pensare positivo, che se mai li avessimo persi saremmo riusciti a intercettarli sulla rotta del ritorno. E ci sarebbero state un bel po' di palle volanti, ma suppongo siano queste le regole del gioco, quindi era meglio cercare di coglierlo di sorpresa. – Allora, Connor. – Battei una mano sul timone e feci spallucce. – Ti piacciono tutte queste responsabilità?
– È un dovere – grugnì in risposta.
– Davvero? Non lo fai soltanto per far vedere a tutto l'equipaggio che razza di bravo ragazzo tu sia? – Gli sorrisi. – Sono veramente commosso.
Non fece alcun cenno di aver apprezzato l'ironia della situazione, quindi scrollò le spalle con noncuranza. – Come sta Hickey?
Roteai gli occhi. – Quindi vuoi fare conversazione, ho capito bene? – Ridacchiai tra me e me. Era solo un ragazzino, alla fine. Uno stupido ragazzino senza nessuna strategia in mente e troppa guerra intorno a sé. – D'accordo. Dunque, Tom è di sotto a vomitare e Bob stava bestemmiando perché il rum è quasi finito e deve ricorrere al gin. – A me non dispiaceva affatto, se dovevo essere onesto. Lanciai uno sguardo alla nebbia fredda come nevischio in cui stavamo per inoltrarci, una coltre grigiastra contro il cielo scuro tutt'intorno. Nebbia. Che schifo. – E tu?
– Non c'è male. – Ah, le conversazioni padre e figlio. Mi riempivano sempre d'orgoglio. – Dovremmo raggiungere la Martinica in... poco tempo.
– Lo dici da due settimane – sibilai spazientito. Stupido ragazzino.
Si strinse nelle spalle. – Non è dietro l'angolo.
I miei complimenti per la tua sicurezza in geografia. – D'accordo – borbottai, un po' a disagio mentre i tempestosi occhi scuri di Connor scavavano nei miei. Quei dannati tizzoni erano le uniche cose visibili nella nebbiosa prima mattina, la prua che a malapena si scorgeva davanti ai miei occhi. – Fammi capire, era Bob a pensare che avessi bisogno di una nave?
Scosse piano la testa. – Credo fosse Achille.
– E perché vogliono farla governare a te? – Io una risposta l'avevo: perché Faulkner preferiva l'alcool.
La sua fu molto meno soddisfacente. – Per essere indipendente.
– Buon Dio, ragazzo, ci sono altri tre adulti su questa nave. Di cui due che sanno navigare. – Più o meno. – Gran bell'indipendenza, la tua. Un bambino di dieci anni corre rischi peggiori. – E ogni riferimento alla mia spensierata infanzia era frutto di una patetica coincidenza.
Connor si abbassò il cappuccio sulle spalle e si passò le dita tra i capelli, gli occhi intrisi di esasperata stanchezza. – Mi fa piacere saperlo. – Dio santissimo, non era affatto divertente. Era così esausto che non riusciva nemmeno a replicare, e nessun gioco è divertente quando si perde. Maledetto ragazzo. Stava riuscendo a sconfiggermi nel peggiore dei modi, con il silenzio. – Non pensavo ti piacesse navigare.
– È un passatempo divertente. – Sempre meglio che parlare con lui. La nebbia stava avvolgendo il primo albero, e sbuffai mentre facevo cenno all'equipaggio di accendere ogni lanterna a bordo di quella dannata nave. – Piuttosto, hai mai sentito parlare di questa Welcome? Sai come sia fatta?
Scrollò le spalle. Immagino che per lui, più o meno come per me, le navi fossero tutte uguali. Che razza di figliolo disonorevole per il grande Edward Kenway. Almeno ne sapevo un po' più di Connor. – Su per giù. Penso sia britannica. – E io penso che tu abbia origini indiane. Buon Dio. Tenni lo sguardo fisso sulla coltre che ci avvolgeva e gli feci cenno di stare zitto. Nebbia del cazzo. – Oh. D'accordo. – Poggiò le mani sul parapetto del cassero, i denti che torturavano furiosamente il labbro inferiore, e l'Aquila cadde nel silenzio.
Lo scricchiolio del legno colpito dall'acqua era quasi ipnotico, le vele schioccavano deboli nel vento che soffiava verso nord, la stoffa accartocciata su se stessa. Un altro cenno, e gli uomini si affaccendarono per ammainarle. – Maledizione... – sussurrai con le mani strette sulla ruota. – Tieni qui – mormorai indicandogli il timone. – Mi serve una mano. – Lo lasciai là, con la bocca mezza aperta in un'esclamazione stupefatta. Nella sua testa doveva già essere con la bocca aperta e la mente a vagare nel mondo dei sogni. Peccato che mi servisse lì.
Varcai a passo di marcia la porta della cabina, Tom che trincava gin con i piedi sul tavolo e Faulkner beatamente addormentato, la testa che ciondolava sul ventre gonfio. – Ehi, capo. – Thomas non mi fece neanche cenno di unirmi a lui. Mandò giù e fece un grosso sorriso, indicando con la testa la nebbia oltre i vetri. – Un silenzio fottuto, eh?
Digrignai i denti mentre scavavo sulla scrivania segnata dai bicchieri alla ricerca di una mappa della zona. – Magari potresti spezzarlo con una bella canzone – gli ringhiai contro, le mani strette a pugno. Non c'era un solo cazzo di foglio lì sopra che potesse essermi utile. – Sempre in vena di scherzi, tu, eh? Non ti passa minimamente per la testa di aiutarmi?
Si strinse nelle spalle. – Dipende. Non so nemmeno dove siamo. – Aggrottò un sopracciglio, lo sguardo perso in tempi lontani. – Sai, capo, mi sono sempre tenuto alla larga dalle navi.
Non stentavo a crederci. Troppo tempo senza una donna. Troppa attesa per poi mollare la schifosa paga di Sua Maestà in un bordello da due soldi. Perché mai, quando poteva fare la bella vita sulle spalle dei Templari e del suo mirabolante intelletto? – Abbiamo passato Bulls Bay prima di infilarci in questa... – Agitai la testa verso il lucernario e mi lasciai andare a un sospiro. – Hai capito, no?
– A-ah, Carolina del Sud! – Sollevò un pugno al cielo con una risatina, il gin che ribolliva nella bottiglia. Mi veniva voglia di strappargli quella roba di mano e spaccare il vetro scuro sulla sua nuca. – Fedeli a Washington dal suo primo respiro. Il ragazzo è in territorio amico, a quanto pare. – Accavallò di nuovo le gambe sul tavolo. Ecco tutto l'aiuto che aveva intenzione di offrirmi, bastardo irlandese.
Sollevai le mani in un gesto stizzito. – Grazie mille, Tom! – berciai acido, una mano sulla maniglia. – Grazie per tutta la saggezza con cui mi illumini...
Non riuscii mai a finire la mia battuta a effetto.
La porta della cabina esplose verso l'interno e volai indietro con le schegge di legno, il petto compresso dall'urto di... be', qualunque cosa ci avesse colpito, le palpebre livide e la mente cieca. Non vedevo e non sentivo, c'erano solo un gran caldo e qualcosa di appiccicoso che mi scivolava sulla mano. Appiccicoso e fresco.
Sono vivo? L’unico dannato interrogativo che contasse qualcosa. Fa’ che non sia sangue, pensavo tentando di tirare su una mano per toccare l’altra e assicurarmi che fosse ancora al suo posto. – Porca puttana! – Tom? Ci fu un altro scoppio, e il botto fu così forte che mi costrinsi ad aprire gli occhi e guardare. Mi pulsavano le orecchie, piene di un fischio acuto e doloroso. Lentamente la cabina sfuocata si schiarì davanti ai miei occhi. Vedevo gli uomini agitarsi sul ponte attraverso uno dei lucernari, i cannoni che venivano sistemati e le micce accese. Urla mute uscivano dalle loro bocche come in un brutto sogno, il tempo che scorreva lento come melassa, le espressioni terrorizzate distorte da quella lentezza impressionante.
No, un momento. Come potevo vedere quelle scene dalla cabina? Come…
Non era un lucernario. La porta era semplicemente saltata in aria, lasciando un buco nella parete e nel pavimento sotto i miei piedi, un baratro su cui si stava affacciando Thomas, le mani sulle ginocchia e l’espressione soddisfatta di un bambino che guarda le formiche fuggire dalla montagnola di terra cui ha appena dato fuoco. – Gesù! – Vidi le sue labbra muoversi per formare quella parola, la destra premuta sul cappello e le labbra grondanti sadismo. – Corrono come topi, eh, capo?
Aiutami. Per carità di Dio, Tom, dammi una mano. Sto morendo? Dimmi solo questo. Dimmi solo se sto morendo. – Hickey… – La mia voce suonò strana alle mie stesse orecchie, flebile come quella di un bambino. Credo di aver teso la mano verso di lui, a quel punto. Di aver tirato su col naso, riempiendomi la bocca e i polmoni di schegge di legno. Fumo. Il cervello in cui risuonavano le esplosioni dei cannoni. Il mondo si riduceva a quello.
– Andiamo, capo, tirati su! – La bottiglia in una mano e l’altra stretta sul mio avambraccio, Thomas mi aiutò a rimettermi in piedi, il braccio libero gettato intorno alle mie spalle. – Eccoli qui, eh, Bob? – Ingoiò le ultime gocce di gin – razza di stronzo – e gettò la bottiglia nel fosso sotto di sé, guardandola cadere nella stiva piena di uomini che correvano, afferravano le casse e le portavano sul ponte, incuranti delle assi di legno spezzate su cui rischiavano di inciampare. Aveva ragione, per quanto cattivo sia dirlo. Da lassù sembravano dei topi, niente più e niente meno. – Il valoroso equipaggio scelto dagli Assassini! I miei complimenti, cazzo!
Robert Faulkner continuò tranquillamente a dormire nonostante la sedia fosse crollata indietro. Un altro esempio diretto della decadenza di quella schifosa confraternita. – Andiamo… – Strinsi gli occhi. Ci sentivo. Ci sentivo di nuovo, e maledettamente bene, per giunta. Udii il chiaro scoppio di un cannone nell’aria e una granata da mortaio s’incastrò nel sartiame dell’albero maestro. Le fiamme divamparono come all’Inferno. – Sul ponte – conclusi tra i denti.
Tom scoppiò a ridere. – Non me lo devi chiedere due volte, capo – disse, la bocca piegata in un sorrisetto. Mise mano alla pistola e si lanciò nella mischia come un bambino gioioso, aggrappandosi all’albero di mezzana. – Datevi una mossa, cazzo! – gridò, la voce così forte che i cannoni a malapena la contrastavano. Pazzo furioso, pensai. Forse si era sempre tenuto lontano dalle navi, ma gli scontri lo attiravano come merda per le mosche. – Voglio vederla affondare, quella bastarda! – Mi aggrappai allo squarcio nella parete lignea con le gambe che tremavano, sporgendomi per osservare la nave cui si stava riferendo Tom.
Fosse stato facile vederla. Come se la nebbia non bastasse, l’aria era intrisa di fumo, gli uomini divenuti sagome indistinte in un’enorme nube temporalesca. Erano le fiamme a guidarci, e le urla. Nient’altro. – No! – Mi voltai verso il cassero. La voce di Connor era tesa, colma di panico. – Non da quella parte! A dritta! – Sa davvero cosa significa dritta? Scrollai il capo, guardandolo mollare il timone e correre giù. – Quella è...
Thomas scivolò giù dalle casse su cui era saltato e gli si parò davanti, le labbra strette su un sigaro. – Quella maledetta nave ci sta attaccando, bastardo. – Scandì bene le parole, in tutta calma, mentre il fumo li avvolgeva come condottieri di qualche poema epico. – E se qualcuno prova a rompermi il culo, io mi alzo e gli faccio vedere chi ha il cazzo più grosso, siamo intesi? E se...
Un capogiro mi travolse, spingendomi verso il parapetto. Avevo un brutto presentimento. C'era qualcosa che non andava, me lo sentivo. L'intera Aquila era circondata dalla nebbia bianca dei cannoni e, in lontananza, riuscivo appena a scorgere la forma oblunga di una nave con uno degli alberi spezzato. Probabilmente stavano ricaricando i cannoni per mandare definitivamente la nave con la pancia all'aria. – Non ho ragione, capo?
Mi voltai a guardare Thomas Hickey che tratteneva bruscamente Connor per una spalla, il sigaro nell'altra mano. Mio figlio si divincolava nella sua stretta, agitando le mani verso il timone e ringhiando qualcosa che non riuscii a intendere. – Eh?
Ci fu un altro scoppio di cannoni e d'istinto mi voltai a guardare la nave a mancina. Il fumo si era diradato velocemente e non c'era traccia delle palle nell'aria. – Chi ha sparato? – strillò Connor, liberandosi di Tom per qualche secondo. Si respiravano tutta la tensione e il panico che percorrono l’interminabile periodo di tempo tra l’attimo in cui la palla è lanciata e quello in cui prende in pieno la tua nave. – Chi...?
Gli alberi s'inclinarono pericolosamente a sinistra seguiti dall'intero scafo, il parapetto cui ero appoggiato a poco più di un metro dalla furiosa superficie grigia. – Ci hanno preso! – gridò qualcuno. Perspicaci, questi uomini. – Colpiscono da dritta! Caricate i cannoni!
– Dove siamo? – Era inutile. In quella nube di fumo, con il puzzo acre del sangue e della polvere da sparo che saliva dal ponte squarciato, nessuno avrebbe mai fatto caso a me. Non che persi tempo a pensarci, in quel momento. Me la stavo praticamente facendo addosso. – Dove siamo?
Le braccia sollevate sopra la testa, Connor si lanciò sottocoperta, i piedi che sbattevano sulle assi mezze spezzate. – Va' al timone! – urlò con la voce acuita dalla paura. – Mi hai sentito? Va' al timone!
Per una volta aveva ragione. E forse fu proprio per quello che tentennai. – Cosa? – esclamai con le mani nei capelli. – E tu? Dove diavolo stai...?
– La polvere da sparo! – Mi aveva già voltato le spalle ed era sparito nelle viscere della nave. Il sibilo che gli usciva dalla gola giunse alle mie orecchie come la campana del mietitore. La polvere. Se un'altra bordata avesse colpito lo scafo... Dio, saremmo saltati in aria come palle di moschetto.
Bella mossa, pensai mentre scattavo verso il cassero di poppa, una mano che serrava il parapetto e l'altra a tenermi il cappello sulla testa. – Capo! – Tom pareva entusiasta. – Che fai, vuoi perderti tutto il divertimento? – Agitava il pugno chiuso, la testa reclinata in una folle risata.
– Te lo lascio volentieri – sussurrai, la voce così flebile che dubito mi avesse sentito. Non era una mia preoccupazione soddisfarlo. Strinsi le mani sulle assi del timone e virai a mancina, gli occhi nella spessa nebbia davanti a me.
– Sparate! – sentii gridare Thomas, pieno di energia come non mai. – Dritta, mancina o dove cazzo volete, ma sparate!
– A dritta! – Connor era riemerso dalla stiva con una grossa cassa tra le braccia, il viso imperlato di sudore. – Sparate tutti a dritta! Haytham! Vira a sinistra!
Sinistra. Sinistra.
I cannoni risuonavano nella notte come tuoni. Le mie mani si mossero come dotate di vita propria, il timone ruotò con violenza su se stesso e...
...e niente. Non tirava un filo d'aria in mezzo al maledetto oceano. – Oh, andiamo – sibilai tra i denti mentre la nave scorreva lentamente sull'acqua. Troppo lentamente. – Forza. Forza. – Avevo i nervi a pezzi. Mentre la mia fronte grondava sudore ghiacciato pensai che se esisteva un momento buono per crollare, era senza dubbio quello.
Ringraziando Iddio, l’altra nave non me ne diede il tempo. La batteria sparò tutta nello stesso istante, accompagnata da un acuto gemito di soddisfazione da parte di Tom. Il fumo si addensò nuovamente e non ci fu altro che bianco e una gran confusione. – Connor! – berciai dal cassero. Le gambe mi tremavano così forte che ero certo mi sarei pisciato addosso, o che sarei svenuto. – Chi diavolo è che spara?
Non arrivò alcuna risposta. Mio figlio, appollaiato dietro il parapetto di babordo, stava caricando con le mani maldestre un cannone, cercando di fare il marinaio e il capitano nello stesso momento. Indicava agli uomini dove e quando sparare con pochi gesti approssimativi, il viso bianco per la paura. Il bello era che quegli idioti gli davano pure ascolto. – Merda!
– Non disperare, capo! – Thomas apparve al mio fianco come un fantasma, facendomi trasalire. Lo guardai in tralice, una mano sul petto nel tentativo di calmare il battito del mio  cuore.
Il bastardo scoppiò a ridere, gli occhi stretti e la bocca aperta come una voragine dritta sull'inferno. – Non hai ancora sentito il peggio. – Con il moncone del sigaro in mano, si voltò a indicare l'ultima nave che ci aveva sparato. – Quello, capo – disse con aria esperta – è un meraviglioso vascello del Britannico arrivato fresco dal Mare del Nord. Una bestia del cazzo.
Non poteva trovare definizione migliore. Mentre il fumo si diradava e il silenzio mi faceva stappare le orecchie, la forma della nave si delineò con più precisione. Quello non era un semplice vascello, sembrava più la casa su acqua di Sua Maestà in persona. Tre file di bocche puntate dritte verso di noi, cannoni rotanti sul ponte mobile e, poco ma sicuro, erano dotati di mortaio. Nel cielo, dall'albero maestro alto e coraggiosamente dritto, sventolava il vessillo rosso dell'Esercito Britannico.
– Se mai tu ti stia chiedendo – la voce di Tom mi riscosse, lasciandomi l'amaro in bocca mentre spostavo lo sguardo dal vascello  al mio socio – per quale diavolo di motivo i leccaculo di Re Giorgio ci stiano sparando... – Fece spallucce. – È presto detto. – Sollevò l'indice sulla sua testa e lo puntò dritto verso il nostro albero. Avevo paura ad alzare gli occhi.
Quando vidi la bandiera che veniva frustata dal vento... Dio, non so assolutamente dire cosa mi trattenne dall'uccidere Connor in quell'istante. In cima a quel lungo pezzo di legno si agitava un pezzo di stoffa a strisce bianche e rosse, un rettangolo trapunto di stelle in un angolo.
Ditemi che non è vero. Una gelida ondata di paura m'attanagliò le viscere, girandole su loro stesse e facendomi venire voglia di vomitare quel poco che avevo in corpo. Gli occhi mi pulsavano, così come la testa, preda di un dolore sordo e implacabile.
La bandiera dei neonati Stati Uniti sventolava sopra la mia testa. Il Britannico si stava soltanto difendendo. – Razza di coglione! – ruggii verso Connor, lasciando andare il timone e lanciandomi su di lui. – Bastardo idiota del cazzo!
– Ehi, ehi, oh, piano con le parole, capo. – Thomas mi prese per un braccio, le labbra aperte in un sorriso. – O il bastardo potrebbe sbagliare mira.
Indicò con il pollice della mano libera la sottile nave alle nostre spalle, quella che ci aveva sparato. – Ed ecco dall'altra parte, signori e signore, il nostro secondo migliore amico. Nientemeno che l'Esercito Continentale. – Si piegò, schiaffeggiandosi le cosce mentre rideva, il vento a scompigliargli i capelli sotto il tricorno. Se c'era un momento buono per spingerlo in acqua, era senz'altro quello.
Tra due fuochi. Mio figlio e la sua stupida rotta ci avevano rinchiusi tra l'Inghilterra e le Colonie, in uno scontro di cui non m'interessava niente. Ben poteva già essere in Martinica, a quell'ora. – Maledizione, Connor! – gridai con tutto il fiato che avevo in corpo, le mani nei capelli mentre i cannoni sparavano e la nave sussultava, balzando indietro per il rinculo. – Dobbiamo andarcene.
– A-ah. – Tom si era afflosciato sopra un barile di gin, battendoci la mano sopra con un sorrisetto. Il solito. – Direi proprio di sì. – Indicò il timone con un cenno. – Quindi datti una mossa.
Giuro su Dio, non ci fossero state due imbarcazioni a minacciarci con dei maledetti cannoni gli avrei tirato un pugno sui denti. Datti una mossa. Come fosse stato facile, in quel casino. Saltai sul cassero e presi il timone, tentando di virare. Le vele strappate ciondolavano in molli brandelli lungo gli alberi integri, e quello spezzato indicava con gelida consapevolezza la nave del Continentale, alla mia sinistra. – Dobbiamo andarcene – sussurrai di nuovo tra i denti. – Dobbiamo...
– Fuoco! – Il vascello dell'Esercito Britannico ricevette le nostre bordate, incassando il colpo come fosse la spintarella di un bambino. Thomas Hickey rise e lanciò il sigaro alle proprie spalle, nell'acqua spumeggiante. Se pensavo a tutto il tempo che stavamo perdendo mi venivano i capogiri.
Non avrei portato a termine quello scontro. – Porca troia! – Il Continentale continuava a spararci contro, la bandiera invisibile nella nebbia, e il legno si spezzava sotto le cannonate. Un uomo risalì da sotto coperta strisciando sulle braccia, la gamba sinistra ridotta a un brandello insanguinato di carne macellata, le urla che gli morivano in gola.
Come poteva Connor permettere che succedesse? Come poteva lasciare che...
Oddio. – Tom! – gridai con tutto il fiato che avevo in corpo. – Maledizione, Tom, tira fuori Faulkner dalla cabina! – Si voltò a guardarmi e sbuffò, teatrale.
– Perché? Se dorme avrà una morte indolore, no? – Si massaggiò lo stomaco colmo di gin e rum. – È mille volte più fortunato di noi bastardi. – Insomma. Un conto era morire sul colpo, svegliarsi con le budella fuori dal corpo o un arto ridotto in poltiglia come quel poveretto era tutt'altra storia. Digrignai i denti nella sua direzione e lui sollevò lo sguardo al cielo viola scuro per la nebbia. – E va bene, te lo porto.
Lo ringraziai con un cenno prima di tornare a preoccuparmi per Connor e la sua idiozia. La nave pareva come incagliata in una secca, ogni movimento lento e scattoso. – Andiamo. – Lo so. Lo so che tutta questa faccenda del non riuscire a far muovere una dannata nave sarebbe dovuta essere una stilettata al mio orgoglio di Kenway, ma in quel momento non me ne fregava niente. Non volevo morire. Ed era tutto ciò che contava. – Connor!
Una bordata di palle incatenate spezzò l'albero di trinchetto. Legno e stoffa collassarono su loro stessi, graffiando il ponte e portando il morale dell'equipaggio insieme a loro. Avevamo solo l'albero maestro. L'Aquila era da buttare. – Connor! – Non avevo più voce. Dalla gola mi uscì un raglio tetro e colmo di disperazione.
– Ed eccolo qua. – Thomas risalì dalla cabina, abbandonando Bob Faulkner contro i rottami dell'albero. – Gli chiedo due o tre consigli sulla navigazione o vuoi fare da solo? – Scoppiò a ridere per la sua stessa battuta, quel pazzo psicopatico. Ne ho visti pochi al mondo di folli come lui. Tirò persino fuori dalla tasca una bottiglia di gin e la stappò coi denti, rischiando di strozzarsi mentre ne buttava giù come se dovesse morire di lì a poco. E forse non aveva tutti i torti.  
L'uomo con la gamba mutilata gli strisciò accanto. Poteva scegliere un momento migliore, a pensarci. Disturbare Thomas Hickey mentre beveva, pessima scelta. – Aiutami – mugolò mentre Connor ordinava di ricaricare. Ancora. Quello voleva farci colare a picco, poco ma sicuro. Vidi Thomas scoccare un’occhiata critica al gin e versarglielo sulla gamba, l'uomo che urlava e urlava disumano, in preda a un dolore troppo forte per essere compreso. Gli gridava che era un bastardo, un folle bastardo, e in fondo non potevo dargli torto.
Mollai il timone, lanciandomi verso mio figlio. E quello fu il momento in cui l'Esercito Continentale mise alla prova il suo favoloso mortaio. Lo scoppio fu forte come una folgore che si schianta a terra e ugualmente minaccioso. – Cazzo! – Granate presero a piovere sulla nave, i barili di polvere aperti e Tom con una bottiglia di superalcolico in mano. Le vele presero fuoco e gli uomini presero a strillare, correndo in circolo come topi e abbandonando i cannoni. Nel frattempo avevo raggiunto Connor, spintonando uomini devastati, in preda al panico e senza più nulla da perdere.
Tranne la vita. – Porca puttana, ragazzo, che stai facendo? – Mio figlio era rimasto ai cannoni e li caricava in solitudine, cercando sotto la giubba una scatola di fiammiferi che non aveva. – Connor! Prendi il timone e andiamocene!
Le granate caddero violente anche sul vascello britannico, così tante e veloci che l'occhio non le distingueva tutte, e la nave prese fuoco come un pezzo di legno imbevuto di pece. Le urla di agonia erano quasi un'abitudine per le mie orecchie, ma il nativo si voltò verso di me con le spalle scosse da un brivido e gli occhi lucidi. Oh, un massacro. Come fosse stata la prima volta. – Siamo... – Deglutì, incapace di parlare. – Siamo...
– La mia nave! – Ci voltammo di scatto. In mezzo al ponte, proprio davanti al cassero, Faulkner si disperava con le mani nei capelli mentre Thomas quasi rotolava dal ridere per le sue disgrazie. – Il mio ponte, era... Era perfetta, maledetto ragazzo, che cosa hai fatto? – Agitò i pugni contro Connor che, per quanto lontano, fece un balzo indietro con un sussulto molto simile a un singhiozzo. Che donnicciola. Forse la prima volta è così per tutti. – Guarda cos'hai fatto alla mia nave!
Connor mi rivolse un'occhiata colpevole. – Mi dispiace – sussurrò. – Non potevo andarmene senza aiutarli.
Non poteva... Oh, Gesù Cristo, certo che poteva! Ma aveva scelto di fare l'eroe abbattendo quasi da solo un vascello britannico e devastando...
No. No. No. Non ci avevo pensato fino a quel momento, ma... no. Sentii la mascella contrarsi e l'ira scorrermi nelle vene potente come alcool. – Bastardo! – gridai, e immediatamente mi lanciai contro di lui, gettandolo sul ponte coperto di sangue, cadaveri, sartiame e polvere da sparo. – Hai mandato a monte tutte le mie possibilità di prendere Ben! – gli gridai in faccia, sputacchiando sopra di lui come un vecchio bollitore. – Tu meriteresti di stare in fondo al mare con gli altri cadaveri, tu e George Washington! Cosa cazzo ti è saltato in mente, eh?
Lì per lì non me ne accorsi, ma il ragazzo non riusciva a guardarmi. Teneva i pugni chiusi davanti al viso, come per difendersi, e singhiozzava. – Haytham – squittì al pari di una ragazzina. – Haytham, basta, per favore! Non volevo, davvero, io... Non volevo!
Lo sollevai e sbattei la sua schiena contro il ponte, rialzandomi in uno scatto. – Affanculo! – gridai pestando un piede sul legno accanto al suo viso. – Affanculo tu e il tuo maledetto complesso dell'eroe! Se Church non morirà sarà soltanto colpa tua, mi hai sentito? – Era rannicchiato come un bambino. Un grosso bambino scuro e sporco di polvere. Mi ricordava tutte le vecchie storie di ragazzetti poveri che cercano di difendersi da padri ubriaconi. Storie cui, essendo figlio del nuovo Edward Kenway, non avevo mai dato molto peso. Eppure mi stavo muovendo in un terreno pericoloso, molto vicino a quello. Solo che non ero ubriaco e Connor lo meritava. Lo meritava completamente. – Affanculo! – berciai di nuovo, una volta che ebbi ripreso fiato.
– Qualcuno qui ha nominato Benjamin Church? – Una voce lontana giunse alle nostre orecchie. Sollevai gli occhi stretti e colmi d'odio alla ricerca di quel bastardo che urlava allegramente nonostante avessimo rischiato la vita senza se e senza ma.
Mi voltai verso mancina con i pugni chiusi, pronto a prendere Connor e quel maledetto idiota a testate. Magari l'uno contro l'altro. La nave dell'Esercito Continentale si era accostata a ciò che restava dell'Aquila. Come la parodia di ciò che era stata un tempo, l'ammiraglia degli Assassini aveva il ponte scivoloso per il sangue e i cadaveri, le assi spaccate e i barili di polvere da sparo aperti e mezzi vuotati sul pavimento. Dall'altra parte della nave, Faulkner non aveva ancora trovato il controllo di sé. Si era gettato a terra con il viso affondato tra le mani, come una madre che guarda il cadavere del suo unico figliolo. Thomas rideva come un pazzo, dal canto suo, e io urlavo in faccia a Connor che sembrava sul punto di unirsi a Faulkner in un coro di lacrime da ragazzine sensibili.
Il capitano della fregata Continentale ci venne incontro con un gran sorriso. Ora che ci penso capisco perché. – Ehi, generosi signori! Parlo con voi! – Si tolse il cappello e lo sventolò alto sopra la testa, giulivo. Si sporgeva verso di noi dal parapetto, un paio di lunghe basette che correvano lungo i favoriti e si univano sul mento, gli zigomi alti e un sorriso felice in volto. E ci credevo, avevano pisciato granate da mortaio sopra la nostra nave completamente indisturbati. Grand'uomini. – Io sono il capitano Hopkins, e questa bellezza è la Warren! – Indicò la fregata con un albero spezzato come un mercante che mette in mostra il suo miglior prodotto, quindi si ricalcò il cappello sul capo. – Credo sia mio dovere ringraziarvi per aver salvato la mia signora dall'arenarsi sul fondo dell'oceano. – Il suo tono trasmetteva un'estrema noncuranza, manco arenarsi sul fondo dell'oceano, come diceva lui, fosse la cosa peggiore del mondo. – Ma che maleducato! Portate la passatoia!
Scoccai un'occhiata stranita a Connor, tirandolo su per la giubba. – Conosci questo schizzato? – gli sibilai contro. Era stato così valoroso da parte sua buttarci in uno scontro che non potevamo sostenere, speravo almeno che sapesse a cosa stava andando incontro. – Eh? – Non mi rispose, e ancora oggi non comprendo il motivo di tale gesto.
Sollevai lo sguardo sull'albero maestro della Warren, oltre i cannoni e le cime. In cima a quel tronco di legno sventolava molle la bandiera con le tredici strisce rosse e bianche. Marina Continentale. E come Thomas avesse fatto a capirlo, be', resta un altro dei miei peggiori dubbi. Forse l'alcool gli permise di vedere oltre la nebbia. Chi può dirlo? – Prego! Passate! – Gli uomini della Warren avevano sistemato una specie di piccolo ponte tra la fregata e l'Aquila. – Non vogliamo che la vostra nave coli a picco con tutto il proprio coraggioso equipaggio.
– State scherzando? – gridò Faulkner, abbracciando l'albero di trinchetto come fosse il suo migliore amico. – Io non la lascio qui! Non la lascio qui, mi avete sentito?
Vidi il giovane capitano roteare gli occhi. – Signore, per carità, avete tutta la mia comprensione, ma le nostre preghiere non impediranno a questa nave di affondare. Possiamo trainarla fino a...
– Certo che potete trainarla, pezzi di merda! – strepitò, senza lasciare per un attimo l'albero. – Io non la mollo qui, bastardi! Capito?
Hopkins si grattò la barba storcendo la bocca. – Faremo del nostro meglio, d'accordo? Ora mi serve che il nucleo di comando della nave venga a bordo. Per favore, signori. – Si strinse nelle spalle, la testa china in un cenno cordiale. – Coraggio! Com'è che si chiama la vostra... – Scommetto che cercava un titolo molto meno lusinghiero. – ...imbarcazione?
– Aquila – disse Connor a voce così bassa che a malapena si sentì.
Stupido ragazzino. – Aquila – ripetei, trattenendomi dal colpirlo con uno scapaccione. – Dobbiamo...?
– Ma certo, certo, accomodatevi! – Hopkins indicò il ponticello. – Non siete nella Marina, suppongo.
Sollevai Connor per un braccio, aiutandolo a rimettersi in piedi. – Supponete bene – replicai a mezza voce. – Tom, Bob, venite?
Thomas fu al mio fianco quasi saltellando, felice come un bambino davanti a una cioccolateria. – Non mi perderei dello schifoso whisky coloniale per niente al mondo, cazzo! – esclamò con un tono decisamente più alto di quello che il galateo avrebbe suggerito. – E credo che il vecchio abbia voglia di farsi una sega sulla nave. – Si strinse nelle spalle e sogghignò, levando alta la bottiglia verso la Warren. – Noi tre, eh, bastardo? Come ai vecchi tempi. – I vecchi tempi. Quelli da cui non era passato nemmeno un anno, praticamente. Oh, Thomas Hickey il nostalgico, che anima. I vecchi tempi erano quelli del birrificio in cui pensavo di trovare Ben, di quando bazzicavamo nella foresta e quel pezzo di merda ubriaco di Hickey mi aveva fatto l'ennesima scenata per aver ammazzato un uomo. E poi ne aveva fatta un'altra per non averne ucciso uno. Strambo bastardo.
Scrollai il capo, tentando di levarmi dalla testa quella stupida storia, e fui il primo a incamminarsi sul ponticello che dall'Aquila portava alla maestosa Warren, membro della Marina Continentale. Mica moscerini. – John Burroughs Hopkins –, il capitano mi strizzò la mano in una stretta gioviale, il cannocchiale in una mano e le labbra fini sparite in un sorriso. Sembrava non gli fosse mai successo niente di male da quando era nato, niente di niente. Il tipo di uomo che meno riuscivo a tollerare. – Piacere di conoscervi, capitano.
Non gli scoppiai a ridere in faccia solo perché, be', la situazione in sé non era delle più allegre. – Oh, no, mi lusingate, ma io non sono il capitano. – Hopkins fece spallucce e mi batté il pugno che stringeva il cannocchiale sulla schiena, dunque passò a Thomas e a Connor.
– Quindi nessuno di voi è il capitano? – La voce di quello strano tipo tremava d'ilarità, come fosse la situazione più comica cui avesse mai assistito. – È... strano. Vorrà dire che lascerò il mio whiskey d'importazione in cabina e, per Bacco!, vi offrirò quel rum disgustoso che beve la plebe qui intorno a me, giusto? – Indicò il proprio equipaggio allargando le braccia e scoppiò a ridere. Di più, si piegò in due e dovette pararsi una mano sulle labbra per mantenere la propria dignità. Uno dei motivi, oltre a quello di averci ridotti a un colabrodo, per cui avrei voluto gettarlo giù dalla sua stessa stupida fregata.
Thomas roteò gli occhi, i denti stretti, e gli poggiai una mano sul braccio. Immaginavo già Tom saltargli addosso e mollare un pugno sul suo mento coperto di pelo. Non cercavo guai. Non ancora. – Ehi, capitano – brontolò invece, ignorando la mia presa, – sbaglio o avete nominato Ben Church?
Hopkins si ricompose, passandosi una mano nei capelli, e si rivolse di nuovo a noi con quel sorriso da ragazzino felice, gli occhi scuri brillanti di gioia. – Sì. Sì, certo, ma...
– Allora prendete quattro bicchieri di rum e parliamone, non vi pare? – Non sapevo se volesse bere o soltanto sentirmi discutere con Hopkins per un po', così da poter fare tutto ciò che voleva.
Il capitano fece un sorrisetto da grand'uomo, tutto tronfio del proprio grado. – Io non bevo...
– Infatti due sono per me – replicò Tom colpendogli il petto coperto dai gradi con l'indice.
Sul viso di Hopkins si aprì una smorfia stupefatta, quasi maligna. Sfidato da un ubriacone. La classica espressione di chiunque davanti a Tom. Con Cornwallis poteva anche trattenersi, ma davanti al Continentale... perché mai? Se devo dire la mia, li odiavo molto più di Re Giorgio e il suo seguito. Almeno non ero costretto ad avere il monarca sempre in mezzo alle palle, mentre i patrioti, tra Figli della Liberta, minute men e ufficiali dell'esercito, George Washington per primo, spuntavano come funghi. – Capisco – brontolò l'uomo di mare facendo un passo indietro. – Bene. Sarei lieto di bere qualcosa con voi nella mia cabina. Dopo di voi, signori.  
   
Picchiettai l'indice su una cornice di legno decorato, con un ritratto del capitano Hopkins al suo interno, e la guardai restare immobile sulla sua mensola nonostante la Warren dondolasse a destra e a manca nei flutti. – È inchiodata – mormorai, ma Connor m'ignorò, come se non esistessi. Tom era sparito sul ponte a vomitare anche l'anima, insieme a quel po' di schifoso rum che ci offrì il capitano, infinitamente inferiore persino al grog distillato da Faulkner. Al grog, intendiamoci. Così Hopkins aveva colto l'occasione per conservare quella botte, facendola riportare sottocoperta. Tirchio, come ogni capitano che si rispetti, ma non c'era vera e propria crudeltà o abilità manipolatoria nei suoi occhi, anzi. Sembrava felice. Probabilmente era una volpe che sapeva giocare col cacciatore, e conosceva le regole.
– Eccomi qui! – esclamò trotterellando attraverso la porta con il cappello in mano. Oh, tu, quanto mi sei mancato. – Tira un gran brutto vento, là fuori! Prego, sedetevi.
Mi avvicinai al tavolo lanciando un'altra occhiata alla cabina. Non era affatto come quella dell'Aquila. Le cartine delle Colonie e delle zone marittime lì intorno erano inchiodate alle pareti, il tavolo lustro e sgombro, gli alcolici e gli effetti personali rinchiusi in un grosso baule da viaggio che Hopkins teneva quasi sempre serrato in un angolo. – Non mi pare che ci siamo presentati, comunque. – Hopkins fece un altro dei suoi famigerati sorrisoni, tendendo la mano. – Il mio nome lo sapete già.
Fu Connor ad allungarsi per primo. – Chiamatemi Connor – disse tirando su col naso. Aveva pianto? Oh, Cristo.
– Non ce l'avete un cognome?
Che lo nascondesse. Ero stato ferito in modi peggiori per preoccuparmi di mio figlio che rinnegava le proprie origini. Magari avesse fatto solo stronzate simili, invece che rovinarmi con le sue idee geniali. Connor scosse piano la testa e Hopkins lasciò perdere. Doveva essere una piaga anche per lui. – E voi?
Mi riscossi, stringendogli vigorosamente la mano. – Haytham... – mi bloccai.
Ero nei guai. Cazzo, se ero nei guai.
Io e Tom viaggiavamo tranquillamente su una nave della Marina Continentale. Era come se navigassimo sulle spalle di Washington in persona. E vuoi che non ricordassero il mio cognome o il suo?
Mi sentii un momento in colpa verso Connor, pensando che forse nascondendo il proprio cognome voleva solo salvarmi la pelle. Quel pensiero se ne andò in fretta, ovviamente. Era pur sempre mio figlio, ed esattamente come per me era più importante prenderlo in giro che volergli bene, lui preferiva rinnegarmi che prestarmi ascolto. – ...Johnson – inventai su due piedi, tornando a fissare Hopkins negli occhi. – Perdonatemi, stavo ammirando la vostra cabina. – E in parte era vero. I lucernari le conferivano un'atmosfera sobria e ordinata, di chi sa quello che fa. Nella cabina dell'Aquila ci si ubriacava e si riportavano a galla vecchi ricordi. Niente di più. – E l'uomo con le viscere in subbuglio è Henry Slum, un mio caro e vecchio amico. Mi spiace non renderlo partecipe, ma...
Hopkins liquidò la questione con un cenno rapido della mano. – Lo stomaco è stomaco. Non deve essere un uomo di mare. Eppure... – Sorrise, quasi nostalgico. – L'ho visto in piedi al centro del ponte, alcool in una mano e sigaro nell'altra, durante lo scontro con quel bestione britannico. Onorevole.
Abbassai il capo, scuotendolo in una risatina silenziosa. – La nave era ferma, no? – replicai. Connor sembrava una vedova a lutto, sbracato sulla sedia al mio fianco. Dio, riprenditi. – Henry è un uomo di scontri.
– Soldato?
– Non ne parla volentieri. – Dovevo pur pararmi il didietro in qualche modo. – Evito di chiedergli, ma non credo. Forse lo era suo padre. – Mi strinsi nelle spalle, lasciando che il capitano credesse ciò che voleva. Bastava che non mi consegnasse.
Hopkins annuì. Non sembrava aver patito l'esperienza nella Marina, anzi. Era divertito. Una versione discreta ed educata di Tom. Un altro uomo di scontri. Il genere di tipo da cui devi sempre guardarti, perché dalle battaglie escono sempre bene, loro. Da qualunque parte stiano. – Devo ringraziarvi per ciò che avete fatto, signori.
– State trainando la nostra nave. – La voce di Connor era a malapena percettibile sopra lo sciabordio delle onde. – Sono io a dovervi ringraziare.
Il capitano rise, spassionato, tirando fuori dalla tasca una tabacchiera e lanciandosela da una mano all'altra. – Non concepite la grandezza del servizio che mi avete offerto. Sono stato io a insistere per provare la nave. George mi aveva detto di aspettare, che era pericoloso, di partire solo quando fosse stato necessario... – Roteò gli occhi, emettendo un grosso sbuffo. – Sapete, no, piani di guerra e inezie di questo genere.
– Ah, io proprio non li capisco, i militari – ironizzai con un sorrisetto. – Già i tempi sono quelli che sono, e si preoccupano pure? Dio! Piuttosto va' a scopare per una santa sera, no?
Connor mi poggiò una mano sul braccio, ma Hopkins aveva colto l'antifona al volo. Maledetti gli spiritosi. Sono intelligenti. – Avete anche il senso dell'umorismo, Johnson, complimenti! – esclamò ridendo.
Se non lo avessi non avrei preso il cognome di un uomo che ho ucciso, dico bene? – A volte serve più dei cannoni.
– E a volte te ne fa arrivare una palla addosso. – Si strinse nelle spalle, fissando Connor come se si aspettasse di vederlo ridere. Io avevo perso le speranze da tempo. – In ogni caso, se la nave fosse affondata sarei un uomo morto, e lo devo solo a voi. Sapete, io sono del Rhode Island.
Un brivido mi corse lungo la schiena. Come Ben. Americano fin nel midollo, ma almeno questo qui aveva un po' di coerenza. Cominciavo a pensare che Church fosse un pazzo, uno che va dove lo porta la propria mente malata. Non... non credevo gli importasse davvero qualcosa dell'Inghilterra. E se era così, perché diavolo aveva combattuto anni nel Continentale senza preoccuparsene? Chissà, forse l'adorato Gran Maestro che ha tentato di impiccare, quel quarto di bue dal sangue britannico, ha fatto esplodere in lui l'amore per la Corona. Sorrisi tra me. A Reginald non era mai interessato molto di Ben. L'aveva lasciato andare, no? Come gli altri. Si era fatto tradire. Accidenti. Come mi dispiaceva. E Birch... era così cieco, vittima della propria sete di potere, da non volerlo nemmeno vedere morto. O forse sapeva che ci avrei pensato io. – È per questo che conosce Benjamin Church? – chiesi nel tentativo di cacciare quei pensieri dalla testa.
Scrollò il capo. Connor era tornato a chiudersi nel suo silenzio. – Oh, no, quando sono nato probabilmente era già a... Harvard, a fare il saputello per accumulare soldi. – Storse la bocca in una smorfia di disprezzo. – Ma da quando è uscito di galera tutto l'esercito non fa che parlare di lui. Quando Lee ha trovato le celle vuote... – Agitò una mano nell'aria. – Pareva volesse tirare giù il cielo.
– Cosa? – Trasalii, quasi strozzandomi con la mia stessa saliva. – Il generale Lee?
Fece un cenno d'assenso col dito, come a dire che lo avevo colto nel segno. – C'era tutta una storia con il Britannico, scambi e cose di cui preferisco non impicciarmi, ma pare che Church non sia mai arrivato a Boston. E nel frattempo una truppa di patrioti è stata trovata morta lungo la strada. – Sollevò le sopracciglia. – Era un chirurgo, dico io, sapeva come tagliare, dove farlo. L'hanno sottovalutato, e ora sembra che George e Charles abbiano cose più importanti di cui occuparsi.
– Non lo stanno più cercando? – Mi voltai di scatto verso Connor. Si era interessato, eh? Era chino sul tavolo, verso Hopkins, manco volesse minacciarlo.
Il capitano, placido come un bambino, aprì la tabacchiera e si portò un po' di polvere al naso, tirando vigorosamente su. – Così ho capito. E voi? – chiese con un sorrisetto colmo di soddisfazione. – Perché tanto interesse?
Per vendetta. Hai presente, Lord Sorriso? Decisi di lasciar parlare Connor. – Ha rubato dei rifornimenti al Continentale ed è scappato. George Washington mi ha chiesto di recuperare quella roba.
– Non possiamo permettere che scappi – brontolai con noncuranza. Hopkins sembrava uno di quelli che fingono di ignorare le cose finché non gliele spiattelli sotto il naso. Per cui, l'avrei fatto. Con la dovuta discrezione. – Si tratta pur sempre di un furto.
– Da cui potrebbe dipendere l'integrità degli Stati Uniti d'America – sibilò Connor. Non mi pareva di avere mai sentito della vera e propria rabbia nelle sue parole, ma senza dubbio c'era passione mentre parlava del suo obiettivo. Gli Stati Uniti. Patetico. Gli uomini non sono fatti per essere uniti. Non è nella loro natura. – Dovete aiutarci. Io...
Hopkins sbuffò e interruppe Connor con un cenno della mano, le labbra strette in una smorfia frustrata. – Amico, lo so. D'accordo? Mia madre mi ha insegnato l'ospitalità, da bambino. – Si picchiò il petto e prese ad agitare le mani in aria. – Grazie, prego e simili. Mio padre era già capitano, e lei voleva che prendessi un mestiere più rispettabile, ma a me piacevano le navi ed eccomi qui. – Batté il pugno sul tavolo. Come se me ne fregasse qualcosa. – Era una donna del sud. Non ho dimenticato i suoi insegnamenti. Voi mi avete salvato la vita e la fregata. Avete salvato l'Esercito Continentale. – Andiamo, coglione, ché poi Connor arrossisce. – Mi sento almeno in dovere di... come si dice, aiutarvi ad aiutarmi ancora. – Si esibì in un altro dei suoi ormai celebri sorrisoni. Se ne avesse fatto ancora uno gli avrei tirato un pugno su quel naso del Rhode Island. – La vostra nave sarà trainata fino a Savannah, e lì prenderete in prestito una cacciatrice. Roba spagnola, catturata dal Continentale e chiusa da un po' nella mia rimessa. È la dannata nave più veloce che abbia mai solcato l'oceano, ve lo giuro su Dio. Voi la pigliate, catturate Church – con due dita fece finta di camminare sul tavolo, – lo uccidete, o fate... ciò che volete, riportate i rifornimenti e io vi ridò la vostra Aquila come nuova. – Si sfregò le mani, guardando prima me e poi Connor, in attesa di una reazione. – Che ne dite?
Pensate davvero che avrei aspettato un parere di Connor davanti a un'occasione simile? – Accettiamo.
– Non dovete... – gemette il ragazzo nello stesso momento, scoccandomi un'occhiataccia. – Posso parlarti un secondo?
Sbuffai. Riuscivo quasi a sentire lo sguardo divertito di Hopkins sul mio tricorno. – Non c'è niente di cui parlare. Accettiamo. – Non volevo sentire ragioni. Era ora che quell'idiota facesse ciò che dicevo io, senza discutere.
– Haytham, non voglio sfruttare l'Esercito Continentale.
– Senza offesa, capitano, ma mi pare che voi abbiate ben sfruttato il diversivo dell'Aquila per abbattere quel vascello inglese. – Hopkins non trovò niente con cui ribattere e si strinse nelle spalle. Quella scenetta doveva essere spassosa, per lui. E non eravamo nemmeno arrivati alle mani.
Connor serrò i denti. – La missione è mia.
– E Benjamin Church è mio – ringhiai sul suo viso, occhi negli occhi. – Non capisci? Se lo lasci andare ora i tuoi rifornimenti non li prendi più. – D'accordo, ero guidato dall'opportunismo, ma, ehi, quella era la verità. Per quanto la Warren fosse veloce, quello scontro ci aveva rallentati. E senza una nave non saremmo andati da nessuna parte. – Accetta la... – Strinsi i pugni. – ...gentilissima opportunità che il capitano ci offre.
Hopkins annuì, calandosi il cappello in testa. – Bene. Allora siamo d'accordo?
Lasciai perdere Connor, intento a guardarmi torvo. – Avremo l'equipaggio originale?
Mio figlio s'intromise. E devo ammettere che non ho mai visto un uomo d'affari più scarso. – Qualcuno dei miei rimarrà a Savannah per riparare l'Aquila. – Perché a me, eh? Quel ragazzo sembrava sprovvisto di qualsiasi talento. Non era diplomatico, combatteva rozzamente, non aveva la minima idea di cosa fosse il carisma e per di più non sapeva neanche mercanteggiare. Ve la dico io la regola numero uno. Sono pur sempre il figlio di un pirata che per un quarto della sua vita ha fatto il commerciante, no? Va bene, avvicinatevi e sentite qui. Il segreto è cercare di strappare all'altro quanto più puoi cedendo il meno possibile. Ta-dah.
Sorpresi, vero? – Oh, Dio! – Incredibile. Persino Hopkins era frustrato dall'angelico atteggiamento di Connor. Doveva aver ereditato l'ultima parte di mio padre, quella da uomo per bene. E il sangue pirata, mi piaceva pensare, era passato in gran parte al sottoscritto. Jenny... Cristo, non parliamone. – Mio caro ragazzo, lasciate almeno che vi fornisca qualche mozzo per sostituirli.
– Andrà benissimo – conclusi alzandomi di scatto e battendo il pugno chiuso sul tavolo. – Vado a dare la notizia a... – Agitai il pollice verso la porta della cabina. Mi ero dimenticato per un secondo il nome fasullo appioppato a Tom. – Henry. – Lo odierà, questo cazzo di nome. – Grazie per la disponibilità, capitano Hopkins. Non lo dimenticheremo. – Ci poteva scommettere.
Sorrise, una mano sul petto. – Nemmeno io, amico. Sono parole sante, le vostre. – Uscite dalle labbra di un uomo che non potrebbe essere più vicino al demonio, a quanto pare. Feci spallucce, come a voler fare il modesto. – Spero che il vostro uomo là fuori abbia ancora il fegato al suo posto.
– Anch'io, capitano – replicai lasciando la cabina. Altrimenti con chi mi sarei sbronzato?
Sorrisi, e il sole mi accecò appena misi piede sul ponte. Avevamo navigato tutta la notte e ora l'alba illuminava il corpo flesso sul parapetto di Tom, ancora intento a vomitare. Gli uomini lo additavano ridendo e lui, troppo debole per rispondere, sputava in mare. – Figli di puttana – sussurrò con gli occhi chiusi quando mi avvicinai. Probabilmente mi aveva sentito arrivare. – Allora, capo?
Trassi un respiro. – Com'era il rum? – chiesi, giusto per sfotterlo. Il bruciore che m'infiammava lo stomaco e i rigurgiti acidi saliti ogni dieci minuti a sciogliermi le guance erano una risposta sufficiente.
– 'No schifo. – S'asciugò la bocca con la manica, lasciandosi cadere con la schiena contro la ringhiera. – Dio santissimo. Sono... – Tossì e rise. Folle ubriacone. – Sono ancora vivo, vero?
Mi strinsi nelle spalle. – Non so se all'Inferno tu possa vomitare, a essere onesto.
Il suo viso acquisì una brutta sfumatura verdastra quando la Warren s'inclinò contro un'onda, spinta dalla mano del timoniere. – Spiritoso – grugnì con la mano premuta sulla bocca. – Capo...
– Sputa.
Non fu esattamente puntuale. Un getto di bile striato di rosso gli macchiò il bavero della giacca, ma il resto finì in mare. Promisi a me stesso di non andare mai a pescare in quella zona.
Tom lanciò una bestemmia. – Altro che Ben – sussurrò con un'occhiata al soprabito sporco. – Questo viaggio finirà per ammazzare me.
Inclinai il capo da una parte con un sorriso. Forse s'è convinto. L'ultima volta che avevamo parlato dei miei programmi aveva detto un gran bel "non lo so". Grazie. Molto d'aiuto.
Inutile mentire. Non avrei esitato davanti al controllo solo per un suo capriccio. Benjamin doveva morire. Fine della storia, e io avevo esaurito la mia voglia di discuterne. Se le nuove Colonie – gli Stati Uniti di 'Sto Cazzo – erano democratiche, a quella votazione avremmo comunque vinto io e Connor, la maggioranza. E la maggioranza voleva un certo chirurgo con il cuore ben fermo nel petto. – E andrà avanti ancora un po', amico – esclamai con un sorrisetto. – La caccia non si ferma.
Prese un gran respiro e si rialzò debolmente in piedi, gli occhi stretti in uno sguardo sospettoso. – Con quale nave? – domandò. Mi parve strano che fosse in grado di pronunciare quella parola senza vomitare. – Quella bagnarola lì?
Oltre il cassero di poppa della Warren s'intravedeva la bandiera degli Stati Uniti che sventolava dal nostro albero. Se si stava bene in ascolto si potevano anche udire gli strazianti lamenti di Faulkner. – Andrei più veloce a nuoto. Hopkins s'è offerto di...
– Slum! – Come un fantasma invocato, John Hopkins e la sua ridicola barba sbucarono sul ponte. Mi passò per la testa l'idea che Connor gli avesse appena confessato chi fossimo in realtà, indisturbato nella cabina vuota. – Vedo che vi siete ripreso, eh?
Thomas si voltò a fulminarmi con un'occhiata, cercando a tentoni la spada sulla schiena. – Com'è che mi ha chiamato? – Gli strinsi il polso destro in una morsa prima che potesse staccare la testa dal collo del capitano.
– Henry Slum – scandii sottovoce, cercando di sorridere. – Ricordatelo.
– Nome di merda – grugnì sputando del muco in mare. – Ehi, Hopkins. Ripresi è una... – Affondò le mani in tasca, come a darsi un'aria da gentiluomo. – ...una parola grossa, cazzo. – Fantastico. Mi pareva strano che ancora non avesse lanciato scurrilità davanti a quello. – Che volete farci, la vita va avanti.
– Sante parole, buon uomo. – E devi sentirlo quando bestemmia, allora, pensai roteando gli occhi con un sorrisetto. – Fortunatamente per voi manca poco – disse con lo sguardo sull'oceano infinito e rischiarato dal sole. Dall'altra parte, dove la notte ancora regnava sovrana, si potevano intravedere le luci sul confine tra la Provincia di Carolina del Sud e la Georgia. Brutta zona. Da quel che dicevano le mappe nell'ufficio di Hopkins, la Carolina era piena di giubbe rosse, zeppa come un formicaio. E senza la nostra nave a fare da bersaglio non pareva più un uomo così propenso allo scontro. Scommetto che Connor se la sarebbe fatta a nuoto con un moschetto tra i denti pur di arrivare in Carolina e aiutare il vecchio Washington a salire in cima. – Siete mai stati in Florida? Lungo il Miami, da quelle parti lì?
Tom reclinò il capo con un sorriso. – Dicono che il sud sia pieno di figa – brontolò.
– Non hanno tutti i torti. Dovreste andarci, Slum. Quelle ispaniche sono... – Fece spallucce. - Da perdere la testa, ecco. Ti accendono un fuoco dentro.
Annuì. – Capitano, quanto vi trastullate qui sopra? – Non mi stupì cogliere un genuino interesse nei suoi occhi. Era pur sempre Thomas. – Io non ce la farei. Non così a lungo.
– Parecchio. Ormai è un'abitudine. Per questo vi passerò la cacciatrice di cui ho parlato al signor Johnson – fece un cenno verso di me – e proseguirò fino laggiù, faremo una piccola sosta e via, di corsa a New York, prima che Washington mi tagli la testa. – Si passò il pollice da orecchio a orecchio e si strinse nelle spalle con quel suo solito atteggiamento noncurante. Come se la morte gli facesse un baffo. Bastardo fortunato. – Non vi ringrazierò mai abbastanza.
Sbuffai. Quella nave mi stava già mandando al manicomio. L'idea di stare così vicino a uomini di Washington, che magari avevano visto i miei manifesti e potevano scoprirmi mi metteva una tale ansia addosso da farmi quasi esplodere il cuore nel petto. Già mi vedevo, catapultato nell'oceano un'altra volta, come due anni prima, per il Congresso Continentale. E stavolta si sarebbero assicurati di vederci morti, con gli occhi smangiati dai gabbiani e le alghe intrecciate ai capelli. Dio santo. – Potreste riscattarvi dicendomi dove posso trovare un'amaca – dissi con un cenno cortese. – E smettete di preoccuparvi, diavolo.
Il capitano diede un'immotivata pacca sulle larghe spalle di Tom. – Siete un brav'uomo, Johnson.
– Me lo dicono in tanti. – Quei tanti che non mi hanno mai visto squarciare gole e impilare cadaveri. – Vi ringrazio, capitano.
Con un cenno, Hopkins indicò la botola che portava in coperta, e senza farmelo ripetere due volte scesi le scale. Dovevo recuperare il sonno perduto durante quelle due settimane di viaggio, oltre a liberarmi di tutto lo stress dello scontro. Lasciai Thomas a sputacchiare nell'oceano e Connor a leccare il culo americano di Hopkins, quindi mi lasciai cadere mollemente su un'amaca, scalciando via gli stivali mentre il mondo, il mare e l'equipaggio continuavano a girare intorno a me.
Affari loro. Avevo cose più importanti da fare.
Per la prima volta da quando avevamo lasciato quel birrificio in fiamme, mi addormentai senza pensare a Ben. Non c'era più bisogno di scervellarsi tanto.
L'avrei ammazzato, a costo di abbandonare per sempre Connor e darmi alla pirateria. 

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Capitolo 51
*** Who the fuck wants to die alone? ***


Stringimi la mano e poi partiamo.
– Tiziano Ferro, Ed Ero Contentissimo.
 
Immortali mortali, mortali immortali: vivono gli uni la morte degli altri, e muoiono questi la vita dei primi.
– Eraclito.
 
– Vi garantisco che è il gioiellino più veloce che possiate trovare tra Philadelphia e Kingston. Non esiste nulla di più aggraziato, flessuoso, rapido ed elegante. Questi gentiluomini non erano certo cacciatori di pirati da due soldi, eh?
Strofinai le dita sul naso e annuii stancamente a qualsiasi cosa mi stesse dicendo Hopkins. Infinite stronzate su quanto la sua cacciatrice battesse qualsiasi altra nave in velocità. Avevamo spaccato l''Aquila' per il suo sporco culo americano, il minimo che potesse fare era renderci il favore, e devo ammettere che la Señora era perfetta per quell'incarico. Tre alberi, un sacco di cannoni, vele appena sostituite e scafo lucido, ancora privo del battesimo di licheni e alghe. I membri dell'equipaggio che avrebbero proseguito la traversata sulla cacciatrice accarezzavano tutto con mano stupita, come se potessero rovinarla, e a guardarli sembrava si trovassero sulla Terra Promessa delle navi. Sorrisi tristemente. Chissà che disonore sarebbe stato per mio padre vedermi al timone di una cacciatrice di pirati.
– ...Johnson, mi state ascoltando?
Posi una mano sul petto con fin troppa drammaticità. – Perdonatemi, capitano, ero stato travolto dalla... – Agitai convulsamente una mano verso l'albero di mezzana. – Sì, dalla flessuosità di questa nave.
Sollevò un sopracciglio, ma subito gli si aprì un grosso sorriso sul volto. – Già, resistere a una meraviglia del genere è difficile. Vi capisco. – Mi diede una pacca sulla spalla e si voltò a guardare l'Aquila, la cui poppa sbucava dalla rimessa. Faulkner era rimasto lì a mangiarsi le unghie, affidando a uno dei membri più anziani tutte le informazioni necessarie per farla tornare come nuova. Non gli avrei certo permesso di restare lì a fare il piagnone. Non ero Connor.
D'accordo, mi piaceva anche l'idea di metterlo contro mio figlio per ciò che aveva fatto alla sua nave. Lo ammetto. Però non era l'unico motivo. Non sono così meschino. Più che altro ci serviva un uomo con esperienza a bordo, se volevamo raggiungere Ben in tempo. Le mie speranze si assottigliavano sempre di più, a essere onesto. Stavamo aspettando troppo. – Quando partirete? – Hopkins mi lesse nel pensiero.
– Appena Connor e Slum si faranno vivi – replicai brusco. Mio figlio era sparito quella mattina, diretto Dio solo sapeva dove, mentre Thomas mi aveva abbandonato per riempirsi lo stomaco e svuotarsi le palle. Bastardo fortunato. Qualcuno doveva rimanere a chiacchierare inutilmente col capitano, no?
– Ah, già, il resto del nucleo di comando. – Roteai gli occhi. Lo conoscevo da appena un giorno e già sentivo i coglioni gonfi per la rabbia di avercelo sempre dietro. – Posso chiedervi una cosa? – Ventiquattr'ore con Hopkins erano abbastanza per capire che non aveva bisogno del mio permesso per pormi domande. Era quel tipo d'uomo. – Se non siete nella Marina perché v'interessa tanto aiutare Washington?
Infatti non è così, anzi, preferirei mangiare merda per il resto della mia vita che dare una mano a quel bastardo. – Benjamin Church è un traditore – buttai lì con serietà, cercando di figurare come un uomo devoto. – Se vogliamo davvero istituire un'unione duratura, dobbiamo estirpare le erbacce. Essere certi di avere l'approvazione del popolo. Vedere la Corona che vince non darebbe proprio un ottimo esempio. – Speravo fosse soddisfatto e chiudesse la bocca. Volevo solo lasciare  Savannah e prendere di nuovo il mare. Senza di lui. Soltanto noi. Non potevo fingere di stare dalla parte del Continentale ancora a lungo, non era nel mio spirito. Faceva male alla salute.
Hopkins strizzò gli occhi e annuì. – Eh, già. Ora, io non so sulla terra, ma la Marina Britannica è straordinaria. Lo dico con tutta l'ammirazione possibile. – Tu sì che mi riempi d'orgoglio, non come mio figlio. Ora potresti andare a inzuppare qualcun altro nella tua schifosa vanagloria? Annuii lentamente, i pugni stretti nelle tasche della redingote. Te lo chiedo per favore. – Disciplina, ordine e pulizia. Le tre regole d'oro.
Mi strinsi nelle spalle. – Siete mai stato su una nave britannica? – chiesi con una smorfia. Non ne sapevo molto. Dubito che mio padre avrebbe mai voluto vedermi su un vascello di Sua Maestà.
– Oh, sì. – Si esibì in uno dei suoi sorrisi divertiti. – Prova ad ammutinare su una di quelle e ti ritrovi appeso all'albero per il collo prima di dire "Libertalia".
Ebbi un tuffo al cuore quando pronunciò quel nome, ma mi sarei sparato un colpo in bocca piuttosto che chiedergli di parlarne. Tempo cinque minuti e avrebbe cominciato da sé, senza alcun bisogno di stimoli.
Libertalia, Nassau o come preferivi chiamarla. Scrollai il capo. Mio padre era passato dalla terra della libertà a quella della più ferrea disciplina in una sola traversata. – Avete mai subito ammutinamenti?
Mostrò i denti, aggiustandosi i bottoni dorati del cappotto. – Nemmeno uno, Johnson. So come fare felici gli uomini.
Pensai  che Tom avrebbe immediatamente colto un doppio senso in quella rivelazione e ridacchiai. Non ne potevo più di fingere di essere una persona per bene. – D'accordo, capitano – borbottai nel tendergli la mano, – credo che andrò a controllare come procedono i lavori. È stato un onore.
Strinse la mia destra con aria fraterna, gonfio d'orgoglio e pieno di sé. – L'onore è tutto mio. – Ah, su questo non c'erano dubbi. – Mi conviene tornare sulla Warren e far rotta verso New York. A Washington scoppierà il cuore se non gli porto quella vecchia signora entro lunedì. Sapete, quell'uomo è così pieno di fissazioni... – Scrollò il capo, levando le braccia al cielo in un gesto esasperato. – Addio isole paradisiache! Che vogliamo farci? Essere comandante in capo è una bella frustrazione.
Già. Quasi come essere il figlio di un pirata su una nave di cacciatori e un Templare con un figlio Assassino nello stesso corpo. – Spero di rivedervi.
Fece spallucce. – Potremmo farci una birra quando questa storia sarà finita.
Istintivamente sorrisi. Brindare alla mia nuova ascesa come Gran Maestro con un grosso idiota del Continentale, magari prima di ucciderlo. Niente di meglio. – Certamente. Chiedete a Washington di Connor, riusciremo a metterci in contatto.
Hopkins a malapena mi ascoltava più. Lanciò un'occhiata soddisfatta alla Señora e si allontanò con baldanza, forse felice di essersi liberato di noi, senza dubbio entusiasta di riprendere il mare. Di uomini come lui non ne avevo mai conosciuti molti. Persone felici del loro mestiere, intendo. Felici davvero. – Arrivedervi, Johnson. E salutatemi il vostro equipaggio.
– Senz'altro, capitano. – E vedi di salutarmi Washington, tu. Altrimenti mi offendo. – Buon viaggio.
Mi fece un ultimo cenno con la mano prima di sparire nelle viuzze del porto, e gliene fui eternamente grato. Mi sedetti sul molo con un grosso sospiro, le gambe penzoloni sopra il pelo dell'acqua. Il porto di Savannah era così vario da far venire male agli occhi. Cannoniere spagnole, negriere, navi da guerra britanniche e continentali si mescolavano a quelle degli esploratori, pronti a doppiare Capo Taldeitali o ad arrischiarsi ai confini del mondo per circumnavigare un'isola dal nome impronunciabile. Magari solo per, che so?, raccogliere zucchero o, come diceva Hopkins, visitare tribù di allegre donnine.
Sospirai. Forse se Tiio ne avesse fatto parte mio figlio sarebbe stato un po' meno pudico. Non lo volevo come Tom, parliamoci chiaro, ma quello era capace di arrivare vergine alla tomba. E se i suoi figli avessero ereditato un po' d'anima templare dal sottoscritto? Non potevo impedire un fenomeno del genere.
Avrei tanto voluto avere più tempo per discorsi stupidi come quello da fare a Connor. Tempo per chiacchierare, invece di dare la caccia a traditori o a evitare di farci uccidere. Era lo stesso tipo di tempo piacevole che mio padre non era mai riuscito ad avere con me. Lo rimpiangevo, ma non sono mai stato tagliato per quello. Forse per essere un maestro sì. Una specie di guida. Un genitore... oh, la vita era già abbastanza triste senza mettersi a pensare anche alle mie carenze nel rapporto tra padre e figlio. Dov'era il grog quando serviva?
– È come stare a guardare mentre ti mozzano una gamba, lo sai, Kenway?
Trasalii. Doveva esserci qualcuno a guardarmi da lassù – perdio, chissà che razza di risate si stava facendo –, perché il mio desiderio fu immediatamente esaudito. Roteai gli occhi, prendendo una boccata d'aria salmastra. – Parla piano, Faulkner – grugnii, – o potresti farmi appendere. – E con chi brinderei, allora?
Ignorò bellamente la mia richiesta e si lasciò cadere sul pontile accanto a me con un sospiro. – Ha fatto così tanto per gli Assassini. Vederla in questo stato... – Scrollò le spalle e annuii. Mi sembrava di risentire Achille quando ci aveva cacciati di casa, o Stephane. Alla fine, gli Assassini sono tutti uguali. Vecchi nostalgici convinti di poter sconfiggere la morte, il progresso, i cambiamenti.
L'unico modo per restare in vita è adattarsi a tutto. Ero riuscito a passare da nessun aiuto al supporto di Charles, Tom, William, Ben e John, cinque uomini completamente diversi tra loro e da me. Quello era il mio compito, l'avrei svolto al meglio con i mezzi che avevo. Ed ero stato stupido. Avevo obbedito. L'avrei fatto comunque se avessi saputo di mio padre, di ciò che Reginald aveva fatto a me?
Bob si strinse le braccia al petto. – Mi ha accompagnato per una vita, maledizione, e ora... – Lo guardai. Sembrava solo l'ombra di ciò che era stato in passato, i capelli bianchi impastati e aggrovigliati, due profonde borse livide e gli occhi spenti, più magro e smunto che mai. – Se fosse un segno?
– Un segno? – Come no. D'accordo che sono io quello con gli spiriti in testa, ma non per questo devo credere a tutto. Ciononostante, una parte di me era stuzzicata dalle sue parole. – Che tipo di segno?
Bob Faulkner fece scorrere le dita lungo le cuciture della redingote, una vecchia e consunta uniforme da capitano. – In mare dicono che una nave è sempre il riflesso di chi c'è al suo timone. – Scavò sotto la giacca e ne tirò fuori una fiaschetta. Solo allora mi accorsi di avere l'acquolina in bocca, che avrei dato un piede per averne un sorso e che dei segni di Robert non m'importava praticamente nulla. – Forse è giunta l'ora di lasciare questo posto.
Strinsi i pugni, la lingua secca premuta con rabbia contro la guancia mentre Faulkner riponeva l'alcool senza offrirmene nemmeno un goccetto. Bastardo nostalgico. – Che dici, Bob? – mi sforzai di brontolare con noncuranza. – Negli ultimi tempi al timone ci stavamo solo io e Connor. – E non avevo certo intenzione di morire solo perché quella vecchia bagnarola era un po' ammaccata. – I marinai sono pieni di leggende di questo tipo. È stato un incidente, poteva capitare a chiunque altro.
– Sono rimasto a bere mentre me la distruggevano. – La sua voce era un concentrato di rabbia. Aveva persino ignorato le mie parole di conforto. Doveva essere davvero infuriato. – Secondo te un capitano fa questo, Kenway?
Cazzo, amico, parla piano. Però non me la sentivo di dirglielo a voce alta. – Tuo padre avrebbe mai lasciato che gli sfondassero lo scafo senza reagire? – Oh, certo. Bella mossa tirare in ballo mio padre, eh? – Sono diventato troppo vecchio. Ho finito la partita. Me ne sarei dovuto restare nella Frontiera.
– E noi saremmo ancora a New York. – Mi strinsi nelle spalle. Non era vero, ma quelle parole erano uscite dalla mia bocca in modo spontaneo. Forse credevo che facendogli i complimenti avrebbe sganciato qualcosa da bere, o magari volevo davvero farlo sentire meglio. – Faulkner, non è niente di irreparabile.
Sbuffò. – Ne sei sicuro? – No. Sono sicuro del fatto che viaggiare con gli Assassini sia noioso come la morte. Hanno sempre qualche stronzata filosofica da sottoporti su quanto la loro vita faccia schifo. Che ti devo dire, Bob, benvenuto nel circolo. Ora dammi da bere. – Il mare è sempre stato sincero, Kenway. Non mi ha mai mentito. Forse dovrei davvero fermarmi.
– Devi venire con noi. – Balzai in piedi, lanciando un'occhiata alla rimessa in cui stavano battendo assi e chiodi sull'Aquila da quella mattina. – Io questa sera partirò, che tu ci sia o meno. – Ed era la verità. – Però preferirei che ci fossi. Lo sai. Connor non può perdere anche te.
Sollevò lo sguardo, gli occhi colmi di stupore e quella che sembrava gratitudine. – Ha...
– Gesù Cristo, so che ha me, che ha Achille, ma io non sono un Assassino. Gli serve una guida, uno di voi. – Così almeno non starà sempre appiccicato a me, con il suo fare da saputello e la morale vuota che a voi agnellini piace tanto. – Crede di essere qui per ammazzare un Templare. Non capisce niente. È uscito da quella fase e si è messo dentro la guerra. Non ucciderà un membro del mio Ordine. Ucciderà quello che è a tutti gli effetti un soldato britannico. – Incrociai le braccia sul petto. – Se vuole farlo, dovrà prendersi le sue responsabilità. Non lo ha capito. Pensa solo che aiutare Washington sia la cosa migliore da fare. Non sa quanti soldati io stesso abbia ucciso. Perché, Ben Church non crederà nella Corona tanto quanto lui crede nell'altra parte? Sta passando dall'essere un cacciatore di Templari a essere qualcosa di fin troppo vicino a un uomo d'arme. – Sbuffai. Avrei potuto dire qualsiasi cosa, Bob nemmeno mi guardava più. Aveva la testa affondata tra le mani e il petto scosso. Stupido vecchio. Anche io ho bisogno di stare al centro dell'attenzione, ogni tanto. – I soldati non vivono felici, e senza dubbio muoiono peggio. Capito? – Non rispose. Scrollai il capo e gli diedi una pacca sulla spalla. – Se vuoi bere un altro goccetto in allegria fammi un fischio, capitano.
Gli voltai le spalle con una smorfia scocciata e m'incamminai davvero verso la rimessa, guardando le nuvole spostarsi nel cielo sopra di me, verso il mare. Ecco, quello sì che era un segno, ma Bob aveva gli occhi troppo pieni di pietà verso se stesso per coglierlo. 
 
Nella vecchia rimessa per le barche di Hopkins un terzo del nostro equipaggio, i membri più giovani, meno esperti nell'arte della navigazione ma abilissimi a scrostare le carene e riparare sentine, si affaccendavano intorno allo scheletro dell'Aquila. L'albero di mezzana era già stato rimpiazzato, lungo, liscio e levigato, mentre due mozzi stavano tirando su l'albero maestro, rinforzandolo con nuovi chiodi, cordame e inserti di legno. Era un altro piccolo stato, caotico, confusionario e anarchico. Connor, che si pensava fosse il capo tra quelle mura, ciondolava mollemente contro un pilastro, osservando gli uomini con aria pensierosa. – Come si procede?
Sobbalzò al suono della mia voce, la mano immediatamente all'impugnatura del tomahawk. – Haytham – sibilò lasciando le dita giù per la gamba. – Sei tu.
Un genio. – Allora?
– Allora cosa?
Roteai gli occhi, poggiato contro lo stipite della doppia porta. – Oh, non so. – Sbuffai. – Smacchiare i tuoi vestiti, ci sei riuscito?
Mi scoccò un'occhiata perplessa. Come al solito. – Stavo scherzando, ragazzo. Volevo sapere come procedono i lavori. – Sputai sulle assi del pavimento, l'ansia a gonfiarmi il petto. Di recente sentivo la voglia di bere e fumare farsi sempre più forte dentro di me, e non poter fare nessuna delle due cose in quel momento mi faceva saltare i nervi. Per non parlare poi delle conversazioni con mio figlio. Quelle erano sempre state un trauma. – Voglio lasciare Savannah prima del tramonto. Ben aveva già un giorno di vantaggio, ma ora... – Agitai una mano in aria. – Potrebbe essere ovunque.
– Potrebbe anche aver preso una rotta diversa per depistarci ed esserne stato rallentato.
Scoppiai in una risata rauca e maligna. – Ottimista, da parte tua! O cerchi solo di evitare che ti faccia saltare la testa?
Connor si strinse in quelle grosse spalle. – Diciamo entrambe. Non volevo che Church si allontanasse così tanto. – La sua voce si fece tesa e sottile, un sussurro carico di nervosismo. – Mi dispiace.
Roteai gli occhi, guardandolo di sbieco. Si girava un martello in mano come fosse quella sua stramba accetta, evitando ad ogni costo di guardarmi davvero. – Sai una cosa, ragazzo? – Gli soffiai il martello mentre lo lanciava in aria, serrando la presa sul legno pesante, e gli sorrisi serafico. – Somigli ai Kenway più di quanto pensi. Sei testardo come un mulo e forse ti dispiace davvero per non aver ancora preso Benjamin, ma non era ciò che più contava. – Sbuffai. I suoi occhi brillavano di una strana luce colpevole. – Non per te. Sapevi cosa sarebbe successo se il Britannico avesse affondato quella fregata, vero?
– Sarebbero rimaste in dodici. – Si strinse nelle spalle. – Altre dodici fregate contro la Marina di Sua Maestà. Per quanti danni faccia, Church è pur sempre un solo uomo. Una fregata in meno significa un pezzo di mare scoperto.
Un... pezzo di mare? Perdonalo, papà. Oppure no. In fondo, questo è colpa sua. – Riesci a capire cosa significhi tutto questo? – Mi guardò con le palpebre mezze calate sugli occhi, stanco. Non ero io a parlargli come se fosse sempre un po' duro di comprendonio. Era un’amara verità, semplicemente. – Perché non ti sei mai arruolato?
La domanda lo spiazzò. Si fece improvvisamente bianco, gli occhi sgranati, le labbra strette e le spalle sollevate in un banale tentativo di risposta. – Io... Non era destino – mugugnò.
– Oh, capito. – Non era destino, certo. Non avrebbe fregato nessuno. – Non pensavi ti sarebbe mai importato così tanto, giusto? È per servire gli Assassini che hai lasciato il tuo villaggio. Per ucciderci.
– Contrastarvi. – Schioccò la lingua. – Tenere in piedi il governo di Washington è l'unico modo che abbiamo per fermarvi.
– Dici? – Ridacchiai appena. – Siamo quasi riusciti a ucciderlo. Due volte. Voglio dire... non ci vorrebbe molto. Secondo me a te piace tanto sentirti parte di qualcosa. – Sostituire la famiglia che ti hanno portato via tempo fa con uno scopo, qualcosa da perseguire. Ci ho preso? Oh, Dio, dove ho già sentito una storia simile?
In qualsiasi momento il ragazzo avrebbe potuto rivoltare quell'arma contro di me, eppure scelse di non farlo. Di incassare il colpo, una volta tanto, e rispondere. – Non mi sentivo parte degli Assassini, quindi?
Guardatelo. Voleva persino testare la mia conoscenza del carattere di famiglia. Per carità. – Non ti hanno mai dato lo scopo che volevi, e non c'era uno solo di noi che non fosse immischiato fino al collo nella Rivoluzione.
– A parte te.
– Giusto, a parte me. Avevo cose più importanti di cui preoccuparmi. – Come non farmi impiccare, ad esempio. Sospirai. – Non hai mai pensato di uccidermi?
Fece ancora spallucce. – Achille mi ha detto che avrei dovuto farlo. E forse, quando questa storia del Tempio finirà, vi sarò costretto. – Lo vidi grattarsi la nuca coperta di folti capelli scuri, un'espressione imperturbabile sul viso. Mi preoccupai. – Non sarà necessario, se manterrai la parola. Prendere la Mela e poi ridarmela. Tutto qui.
– Non credi che sia già abbastanza folle senza quell'aggeggio? – ghignai.
– Questi anni mi hanno insegnato quanto tu sia imprevedibile. – Il mio primo istinto fu quello di insultarlo per non aver colto l’ennesimo tentativo di fare dell’umorismo, ma… Dio, diceva sul serio?
Diavolo. Quel ragazzo mi avrebbe mandato fuori di testa, poco ma sicuro. Ero già sulla strada giusta. Se c’era qualcuno di imprevedibile era lui, da un certo punto di vista. – Io? Stai scherzando? – Sbuffai. – Piuttosto, hai sempre avuto idee tutte tue su cosa sia giusto fare. E non hai mai provato a uccidere né me né Tom. Questo è strano. Ci hai accolti. – Sembrava che in lui ci fosse qualcosa del mio desiderio di vederci uniti, Templari e Assassini. E forse stava funzionando, almeno fin quando non avrebbe cominciato a interessarmi qualcosa di Washington. – Non è un classico comportamento da Assassino.
– Lo so. Il tuo… – Fu lui a piantare gli occhi nei miei mentre soppesavo il martello. Non era stupido come credevo. – Non hai fiducia in nessuno. Pensi che tutti faranno la cosa sbagliata tranne te, eppure cerchi di costruire un Ordine di uomini dalla tua parte. Pure questo è strano.
– C’è un motivo per cui sono quasi diventato Gran Maestro.
– Quasi? – Si voltò a guardare gli uomini che lavoravano incessantemente alla nave, come se sapesse di avermi messo a disagio. – Da questo lato dell’Oceano non si faceva che parlare di te. Anche quando non c’eri. Birch…
Mi strinsi nelle spalle. – Nessuno pensava che sarebbe arrivato a tanto. – Nemmeno io. Diciamo che il mio parere non contava molto. Non pensavo nemmeno che avrebbe ucciso mio padre e rapito mia sorella, che si sarebbe sfogato su di me e mi avrebbe fatto crescere con la testa piena di ricordi troppo tragici per essere riportati alla mente. – Lasciamo perdere. Ho visto Faulkner. È disperato.
– Già.
– Non lo lascerai certo qui, vero? – Mi balenò in testa l’immagine di Bob impiccato all’albero maestro dell’Aquila appena tirato su. Raccapricciante.
Lo sguardo di Connor si rabbuiò, ma non ebbe mai il tempo di rispondermi. Qualcuno sbatté contro la mia schiena e per poco non mi mandò a finire in acqua. Non avevo nessun dubbio sulla sua identità. – Cristo, Tom! – sbottai, stretto al suo cappotto per non cadere. – Che tempismo.
Thomas mi scrollò di dosso come fossi un cucciolo bagnato e s’infilò le mani in tasca con un grugnito. – Parlavate di Bobby, eh? – brontolò senza neanche salutare. – L’ho incrociato mentre tornavo. Tutta l’euforia che potevo avere in corpo è svanita nel nulla.
– Ecco, questo dicevo – mugugnai a Connor. – Senza il mare è perso.
– Senza la sua bagnarola, forse. – Thomas si stava già accendendo un altro sigaro. Doveva averlo comprato su una di quelle navi spagnole che occupavano il porto di Savannah. – La tratta come manco sua moglie, cazzo.
Aggrottai la fronte. Non mi ero mai chiesto se Faulkner avesse una moglie. – Ci stavo pensando, d’accordo? La colpa è stata mia. Devo… parlargli.
Tom scoppiò a ridere e prese un lungo tiro. – Be’, fallo prima che si ammazzi.
Ero abituato alla sua schiettezza, ma Connor pareva avere solo un fiume di ghiaccio nelle vene. Scrutava Thomas con i pugni stretti, la mascella contratta in una smorfia rabbiosa. – Ragazzo… – tentai di fermarlo, ma lui si fece da parte.
– Vado – grugnì semplicemente, scostandosi e prendendo la strada per il molo. – Ci vediamo alle cinque sul ponte.
– Sicuro, bastardo! – Hickey sollevò il cappello sopra la testa, ridendo sguaiatamente. – E vedi di portarti dietro una bara!
– Tom.
– Che c’è, capo?
Mi strinsi nelle spalle. Sembrava strano che Connor non fosse ancora corso indietro per suonargliele come si deve, ma erano affari suoi. – È un po’ scosso. – Sai, non è abituato a vedere la gente morirgli attorno. Non è mica il sottoscritto. – Vacci piano.
Buttò il mozzicone del sigaro nell’acqua lurida in cui galleggiava l’Aquila e fece un sospiro. – Stavo scherzando – bofonchiò. – Peggiora, eh? Non ho mai visto un tale mollaccione.
Decisi di lasciar cadere il discorso. Un po’ mi dispiaceva per quel ragazzo. Appena iniziavo a vedere qualcosa di buono nella sua testa camuffava tutto lasciandosi calpestare da Hickey. – Dove sei stato, Tom?
Allargò la bocca in un sonoro sbadiglio. – A puttane. – E io che ancora ponevo domande del genere. – Ti sei liberato di Hopkins? Posso smettere di farmi chiamare Henry?
– Pensavo ti calzasse.
– Certo, molto carino da parte tua. – Si grattò i favoriti. Appena salito sulla Señora mi sarei dovuto dare una sbarbata. – Non so quanto sia pronto a riprendere il mare, capo.
– Dobbiamo – risposi. Non avevo voglia di discutere anche con lui. – Per Ben.
Annuì. – Già. Per Ben. – Si lasciò cadere su una botte abbandonata lì vicino e mise in mostra un sorriso famelico. – Mi hai convinto.
Cosa? – Che hai detto, Tom? – Non pensavo di aver capito bene. Voglio dire… Thomas Hickey che obbediva a quando avevo ordinato? Davvero? Su Benjamin Church? – Non hai niente contro il suo omicidio?
– No, non è quello – sussurrò. – Per me potrebbe continuare a rubare provviste finché non lo ammazzerà Washington. Mi fa solo un favore. – Mi guardò con i denti scoperti, come se volesse sbranarmi. – Tanto so che alla fine farai esattamente quello che vuoi, né più, né meno. Quindi, sai che ti dico? Ammazzalo. Fa’ il Gran Maestro. – Incrociò le braccia sul petto. – Ma sappi che con lui ammazzi anche la nostra ultima possibilità di infastidire il Continentale.
Cazzo. Purtroppo per me, come al solito, Tom non aveva tutti i torti. Ben stava facendo vedere a Washington che non scherzavamo. Senza di lui non l’avrebbe fermato nessuno, ma non potevo permettere che fermasse me. Quello sì che era un colpo basso. Più il comandante in capo diventava forte e meno possibilità avevo di sbalzarlo via dal suo scranno. – Maledizione – grugnì passandomi una mano in faccia.
– Me l’aspettavo.
– D’accordo, d’accordo, hai ragione – brontolai. Non mi ero mai sentito così frustrato. – Hai ragione. Gli parlerò, va bene? Se vuole ancora essere dei nostri è il benvenuto, a patto che agisca in nome dei Templari. – Maledetto sia Thomas Hickey. Mi stavo concentrando solo su di me, come avevo sempre fatto. Come facevo durante il mio periodo con Tiio, ignorando tutto il resto. Gli Stati Uniti passavano in secondo piano se io non detenevo tutto il potere, se io non ero il Gran Maestro di nome e di fatto. – Altrimenti può considerarsi un traditore. Un uomo morto.
Thomas annuì, fingendo di applaudire debolmente. – Mi commuovi, capo. Stai davvero dicendo che non ci avevi pensato? – Diavolo, quanto mi dispiaceva ammetterlo, eppure era così. – Sono lusingato.
– La possibilità mi era sfuggita – grugnii, colmo di rabbia. – Ma tu quando hai il tempo di pensare a queste cose?
Si era già alzato in piedi, pronto a godersi il suo tempo di qualità sulla terraferma. – Tra una scopata e l’altra! – esclamò tutto contento, prima di voltarmi le spalle. – Alle cinque sul ponte, cervellone. Trovi da solo la nave o vuoi che la mia saggezza ti guidi ancora?
– Vaffanculo! – gli gridai dietro, guardandolo inoltrarsi nel porto. Devo ammettere che per una volta fui sincero nell’insultare uno dei miei uomini.
Mi vedevo già come capo dell’Ordine. Non avrei dovuto lasciar passare cose del genere, ma, che diamine, quello era Hickey. Compensava con le brillanti idee che ogni tanto tirava fuori da quella testa di cazzo.
Strinsi le spalle con un gran sospiro. Connor se n’era andato, Tom anche. Alle mie spalle, la Warren aveva appena ripreso il mare alla volta di New York, abbandonando i suoi mozzi alla mia custodia. In ottime mani, senza ombra di dubbio.
Scrollai il capo e mi lasciai cadere seduto, senza niente di meglio da fare. Non avevo voglia di girare per la città, sapendo che sarebbe stata piena di soldati, né di imbattermi nuovamente in Faulkner e le sue paternali. Preferivo restare lì, attendendo che il sole facesse il suo corso e mi portasse velocemente via dalla terraferma.
Iniziavo a comprendere mio padre, sapete? In mezzo all’oceano sembra che nessuno possa farti del mare, è come vivere su un’isola il cui governo è stretto solo nelle tue mani. L’unica legge è la gerarchia. Accompagnata dall’alcool, senza ombra di dubbio, ma a quello mi abituavo facilmente. Doveva essere stato un trauma, per lui, arrivare a Londra e dover ricominciare tutto da capo. Una nuova vita con mia madre, un’altra casa. Una reputazione da sfatare.
Chissà che mi avrebbe detto, se fosse stato lì. Probabilmente che tenevo le spalle troppo incurvate quando stavo al timone, o qualcosa del genere. Poteva anche chiedermi che cosa pensavo, se credevo davvero di star facendo la cosa giusta. E al contrario di quanto facevo Tom, non me la sentivo di rispondergli male. Dentro di me viveva ancora il timore riverenziale della sua figura, della sua mente. C’erano troppi se nella mia vita, e la sua, nonostante tutto, mi era sempre sembrata più semplice. Non aveva dentro tutto il casino che c’era in me. Era un uomo più concreto, diretto. Conosceva le proprie ragioni e le accettava. O, almeno, così aveva fatto all’Old Avery.
Ecco cosa intendevo. Mi stavo incasinando di nuovo la mente, pensando a un uomo morto.
Avrei dato qualsiasi cosa per una cioccolata calda e un pomeriggio senza pensieri, ma quello non era il mio destino. Non sarebbe mai stato il mio destino.
Chiusi gli occhi, la testa reclinata contro il legno, e sperai che un sonnellino potesse distrarmi.
Non potevo certo permettermi qualche lamentela. Il fato me l’avrebbe fatta pagare con un gran calcio nel sedere e un altro in mezzo alle gambe. Giusto per ricordarmi che la vittoria ce l’aveva sempre lui.
 
– Quindi vorreste uccidermi, giusto?
Intorno a me non c’era assolutamente niente, solo il buio e un silenzio così assordante da farmi venire il mal di testa, anzi, farmi sentire le stupide voci di uomini che credevo avrei visto solo per farli fuori. – Ben? – Provai ad aprire gli occhi, ma non ce ne fu bisogno. Davanti a me apparve il faccione di Benjamin Church, contornato di capelli ingrigiti, l’espressione contrariata che gli ho sempre visto in volto. Come se fosse di nuovo sul punto di farsi tagliare l’uccello. – Sei… sei tu?
Non è possibile. I morti sono una cosa. I morti sono… morti, ecco, da una parte è normale vederseli in testa. I vivi no. Hanno di meglio da fare, solitamente. – Che diavolo ci fai qui, Church? – E che cosa ci facevo io, lì, in un sogno, perché doveva esserlo, a parlare con un vecchio amico che avrei dovuto uccidere? – Dove siamo?
Ben scosse la testa. Intorno a noi non c’era nulla, solo il buio, su cui camminava come se fosse perfettamente a proprio agio. – Vi pare che lo sappia? Questa è la vostra testa, Kenway, non la mia. – Congiunse le mani dietro la schiena con un grosso sospiro, voltandosi verso il nulla. – Darete retta a Hickey?
– Ci devo pensare – risposi di getto. Oh, Dio, ma che stavo facendo? Parlavo con un fantasma ideato dalla mia testa? Il mare non mi aveva giovato, poco ma sicuro. – Che vuoi dire? Che tu non sei reale?
– Certo che non lo sono, Mastro Kenway. – Sollevò gli occhi, come se cercasse di guardarsi le spesse sopracciglia grigie e aggrottate. – Nulla è reale, giusto? Ve lo ricordate? Ciò che cerchiamo di combattere, quello sciocco Credo e tutti i suoi risvolti?
Cercai di chiudere gli occhi e scacciarlo, ma era impossibile. Tanto valeva ascoltarlo, allora, con le sue parole cariche di rancore e vita. Riuscivo quasi a percepirla. Non voleva morire. Esattamente come me, cercava di prendersi la propria gloria nonostante l’età. – Non sono un traditore. Io sto perseguendo l’obiettivo originario. Battere il Continentale. Battere gli Assassini. Siete voi quello sviato, Kenway, non io! – Ben si batté una mano sul petto, prendendo a camminare in circolo attorno a me. I suoi passi erano frustrati, come di un bambino che non viene mai preso in considerazione dai genitori. – Perché volete uccidermi? Perché non vi ho mai cercato?
Il buio non sembrava voler sapere di circondarmi definitivamente. Volevo solo un po’ di pace. Che razza di illuso. – Rispondete, signore! Rispondete a voi stesso, almeno. Perché mi avete salvato allora? In nome del nostro Ordine, giusto? Sto cercando di aiutare, per quanto possibile. Credete che l’Esercito Continentale si meriti tutto ciò? Meriti il tè inglese, e le coperte cucite da mani britanniche? Noi dobbiamo affrontarlo! Dobbiamo…
– Vattene, Ben.
– Era questo il nostro obiettivo! Prendere il potere! – Sputò, e la saliva si perse in quell’oscurità senza inizio né fine. – Dov’è finito? L’avete perso insieme all’amore, a quell’indiana?
No, non un’altra volta. – Lascia stare Tiio, lei non c’entra nulla. – Perché continuavano a tirarla in ballo? Solo perché era un tasto dolente? Volevo mantenere intatto il bel ricordo che mi era rimasto di lei. Senza continuare a mescolarlo con il mattatoio privo di senso che avevo nel cervello.
– Siete sempre stato un sentimentale. Prima lei, ora Charles. Voglio solo il bene dell’Ordine! – Benjamin azzardò un paio di passi nella mia direzione, tendendo le mani verso di me senza riuscire ad afferrarmi. – Non uccidetemi. Non lasciate che lui mi uccida, Mastro Kenway.
– E cosa dovrei fare? – sussurrai stancamente. – Che dovrei fare, Ben?
– Non pensate di esservi macchiato abbastanza con William? Anche lui non era altro che… uno di noi. Non c’era nulla di sbagliato in ciò che stava facendo. Perché? Non fatelo di nuovo. Tornate sulla vecchia via.
William. Oh, quello non era Ben. Non era nessuno. Soltanto la mia coscienza.
Però forse aveva ragione. Dovevano lasciarmi in pace. A pensare. – Non era stato di proposito. Tu…
– Non siate come Birch.
– Eri con loro.
La voce mi uscì di bocca in un ringhio gutturale, carico di rabbia. – Mi hai impiccato insieme a loro, e poi sei sparito per i tuoi affari. Non… – Una fitta di dolore trapassò la carne morbida dietro la fronte, da parte a parte, e l’immagine di Benjamin divenne sfuocata. – Non ti è mai importato nulla di me, o dell’Ordine. Volevi solo qualcuno che ti coprisse. – Sentivo i denti fremere tra loro per quanto ringhiavo, e nonostante il dolore continuavo a buttare fuori quel veleno. Come se facesse bene, in qualche modo. Non serviva a nulla. – Lasciami in pace – sibilai. – Lasciami in…
Una grande luce mi esplose negli occhi, e con essa la mia testa.     
 
– Sei in ritardo, ragazzo. – Mi ero svegliato di soprassalto, l’orologio della chiesa di Savannah che rintoccava le quattro e mezza, e mi ero avviato verso la nave con il cuore in gola, cercando di non pensare.
Ben Church. Avevo davvero visto Benjamin Church. Stupido cervello e stupida Prima Civilizzazione. Nella mia camminata fino alla cacciatrice mi ero fatto la bizzarra idea che la colpa fosse loro. Certo. Albergavano nella mia testa e sembravano divertirsi a vedermi andare fuori di matto, quindi non poteva esserci altra spiegazione. Oppure stavo davvero uscendo di testa, e quello non mi andava giù più di tanto.
Al molo avevo trovato la stiva della Señora già ricolma di viveri, Thomas appoggiato al parapetto, pronto a vomitare appena la cacciatrice si fosse mossa, e di Connor non si era ancora vista traccia, così come di Faulkner, che nella migliore delle ipotesi era chiuso in una locanda a ubriacarsi. Nella peggiore, be', faceva già compagnia ai pesci. – Dove diavolo sei stato, si può sapere?
Eccolo lì, Connor, che avanzava gongolando sul molo, l'espressione sempre corrucciata e i pugni stretti in una morsa rabbiosa. Quasi scavalcò la passerella con due grandi passi, sbattendo una mano sul parapetto. – Bob.
Perfetto, pensai, si è sparato. – Che è successo? – Speravo soltanto di essere il solito pessimista, perché l'ultima cosa che volevo fare era consolare mio figlio.
– Ha dato... – Si passò una mano tra i capelli, lasciando cadere il cappuccio degli Assassini sulle spalle. – L'ho bloccato in tempo. Voleva dare fuoco a un brigantino.
– Cosa? – Bene. Benissimo. Un altro folle a bordo della cacciatrice più fornita del mondo. Che meraviglia. Dio. Il sottoscritto parlava con gli spiriti, Tom aveva oltrepassato la linea della follia da un pezzo, per quanto ne dicesse lui, Connor cercava di passare per il sano di turno, ma non poteva certo mentire a me. Solo io l'avevo visto impazzire per le strade, cercare Charles Lee come un segugio con troppe tracce sotto il naso, gli occhi che brillavano come solo quelli di un assassino possono fare, e adesso ci si metteva anche Faulkner. Dare fuoco a un brigantino? – Cristo, che diavolo gli è preso?
– Era ubriaco. – Come se mi interessasse davvero e non avessi già la testa confusa a sufficienza. – Ho dovuto fermarlo.
– Dov'è ora? – La mia voce fremeva. – Siamo in ritardo, quindi trovalo e fallo salire.
Connor schioccò la lingua, la mano destra stretta sul tomahawk, pronto a conficcarmelo tra gli occhi. – Sta parlando con la polena da venti minuti.
Un folle, come dicevo. – Gesù, ma non sei proprio capace di fare niente da solo? – sbottai mentre l'oltrepassavo, scendendo sul molo. L'aria salmastra mi entrava in bocca e acuiva il gusto della bile che quel ragazzo inevitabilmente mi faceva salire nell'esofago ogni santo giorno. Come diavolo era riuscito ad ammazzare John? Ah, già, saltellando tra gli alberi come un animale. – Faulkner!
Vecchio bastardo. Teneva una bottiglia in mano, l'altra poggiata sui seni di legno della nostra polena, un bel pezzo di fanciulla vestita alla moda spagnola, con una vaporosa gonna a più strati e l'espressione ammiccante deformata dal vento e dalla salsedine. – Lasciami... Voglio... – Oh, avrebbe avuto tempo per scusarsi, l'idiota, ma non in quel momento, maledizione. Benjamin Church poteva già aver raggiunto la Martinica ed essere tornato a New York, da quanto ne sapevo, e quel deficiente si metteva anche a farmi perdere tempo? Dio. Avrebbero dovuto pagarmi per aver fatto da balia agli Assassini tutto quel tempo.
Lo presi per il cappotto, strattonandolo verso la passerella. – Te lo scordi – ringhiai, le dita tese verso la bottiglia. Gli scappò di mano e finì sul fondo della baia.
– Capo! È uno spreco!
Thomas osservava tutta l'opera, affacciato vicino all'albero di trinchetto. – Vedi di stare zitto – ringhiai mentre lasciavo cadere Bob sulle assi del ponte. – Tu –, dissi a Connor, – sai tenere il timone o hai bisogno che ti accompagni anche lì? – Che qualcuno mi levi di torno tutti loro. Non ce la faccio più. Ehi, voi, lassù. Ci siete? Non è che questa è tutta una tortura architettata da voi geni millenari? Persino una conversazione con Minerva, Giunone, Giove – Dio, persino Giove, il bastardo che aveva ucciso l'ultima donna verso cui potevo dire d'aver provato qualcosa – sarebbe stata gradita.
Ironicamente, in quei momenti non desideravo altro che rientrare nella realtà, ma al tempo stesso odiavo quest’ultima per tutti i brutti tiri che mi rifilava di continuo e, a pensarci bene, preferivo staccarmici. Non esisteva un posto giusto per gente come me. Forse solo l'aldilà.
Dalla mia testa non arrivò alcuna risposta. Perché Ben aveva deciso di prendere il mare, eh? Non poteva soltanto rifugiarsi tra le braccia di Re Giorgio?
Lanciai un'occhiata carica di disperazione al cielo mentre Connor riusciva a far salpare la Señora. Nuvoloni scuri turbinavano sopra la nostra testa, riflettendo il mio umore tetro. Oltrepassai il corpo di Faulkner, lasciandolo a singhiozzare con la faccia nel legno, e afferrai il sartiame che circondava l'albero maestro. – Ehi, dove vai? – Lontano da te. Lontano da tutti voi, per quanto me lo conceda questa stupida bagnarola. – Stai pensando di farla finita anche tu?
Sarebbe stato un gran piacere. – Sulla coffa – ringhiai con le dita strette sulle cime che salivano vertiginosamente e il piede pronto a far scattare il montacarichi. – Vuoi farmi compagnia?
Scrollò le mani con un gran sorriso e le corde cedettero sotto la lama celata. Era come volare. E volare lontano da quella massa di inetti era quanto di meglio potessi desiderare.
Balzai sulla coffa mentre il vento cominciava a gonfiare le vele, il legno che tremolava sotto i miei piedi. L'uomo di vedetta, un ragazzo con il petto scarno e il cannocchiale nei calzoni, fece un balzo indietro, rischiando di cadere giù. Non l'avevo mai visto prima, quindi doveva appartenere alla Warren. – Porco demonio!
Aggrottai un sopracciglio. Nemmeno io mi aspettavo di trovare qualcuno lassù, tantomeno un ragazzino con la barba appena accennata, sul punto di essere scaraventato sul ponte dalla mia imprudenza. – Scusa – brontolai sedendomi con le gambe penzoloni contro le vele bianche e gonfie. – Ti do fastidio?
Sollevò le spalle, gli occhi carichi di sospetto. Non si vedevano tanto spesso uomini con indosso una redingote e un tricorno a bordo di una nave, specie con un accento inglese così pesante. Poggiò le mani sul parapetto e trasse un gran sospiro. – Britannico? – domandò con gli occhi rivolti all'oceano che si apriva davanti a noi. Non ci trovavo più niente di interessante, specie con quella schifosa luce grigiastra a penetrare ogni cosa. Forse i Caraibi erano diversi, ma il mare delle Colonie non aveva niente di speciale. Proprio niente.
Annuii stancamente, senza dire una parola. Potevo già sentire i disgustosi suoni emessi da Thomas Hickey mentre abbandonava lo stomaco sul fondo dell'oceano. Chiusi gli occhi, chiedendomi se il Ben Church del mio sogno non avesse ragione. Perché volevo ucciderlo a ogni costo? Solo per il potere? Mi ero davvero abbassato a tanto? 
Ah, è inutile che noi Templari difendiamo tanto la consapevolezza. Mentire a noi stessi viene sempre più facile di molte altre cose, e renderci davvero consapevoli di chi siamo e per cosa combattiamo è spesso una battaglia persa. 
Siamo solo miserabili. Chi più e chi meno, naturalmente. Mio figlio, ad esempio. Nemmeno lui sapeva di preciso per quale motivo si era unito agli Assassini, o perché non mi avesse fatto fuori nonostante le insistenze della sua Confraternita. Thomas era un enigma, e ancora non avevo la più pallida idea di cosa nascondesse nella testa. E poi Faulkner, Ben, Achille, Charles. Persino Reginald. Tutti gli uomini sono controversi, hanno qualcosa da nascondere e se la tengono dentro fino alla tomba, certe volte. Forse Faulkner aveva ragione a dire che solo il mare è sincero. 
Non quello, senza ombra di dubbio. Anzi, a me sembrava più bastardo che mai. – Da quando tutta questa profondità, servo della Croce? – La voce di Giunone rintronò nella mia testa come un coltello battuto sul cristallo. Limpida e fastidiosa. – Fai bene. Presto dovrai essere pronto. 
Ah, lei sì che ero felice di sentirla. Già. E questo cosa vorrebbe dire? Non avevo davvero bisogno di saperlo. Avevo appreso fin troppo bene che quando facevano capolino era per dare brutte notizie, uno più dell'altro. 
Il mare. La terra dei tuoi antenati. – Giunone sospirò, come se ne avesse nostalgia. Chissà se aveva mai conosciuto mio padre, se parlava anche con lui. E per dirgli cosa? Lui non era la chiave di uno stupido Tempio. O, almeno, per quanto ne sapevo io. – Ricordati di loro. Modella le tue azioni sulle memorie. Su ciò che resta. 
Grugnii, frustrato, lasciando che continuasse a blaterare per tutto il tempo necessario. Altre cose che non capivo e che senza dubbio non mi andava di capire. Perché la Prima Civilizzazione doveva farla tanto complicata, con profezie, codici e nenie senza logica? – Ne avrai bisogno per aiutarlo. Per lui. –  Roteai gli occhi e mi diedi una botta alla tempia, sperando che la vedetta non mi prendesse per pazzo. Il rombo delle onde lassù era a malapena percettibile, ma il vento rischiava di strapparmi il cappello a ogni folata. Gelide lame d'aria che mi s'infilavano sotto la giacca, così affilate da far lacrimare gli occhi e spaccare le labbra. Quella non era la terra dei miei antenati. Non era il mare del capitano Kenway. – E come nei ricordi, la tua possibilità andrà persa. Rammenta, servo della Croce. Rammenta. – Non seppi dire se quello che sentii fu un grosso respiro di Giunone o solo il rumore dello scafo che veniva sballottato di qua e di là dalle onde sotto le grandi e maldestre mani di Connor. – Lui non è come te. Le difese di Tinia hanno ceduto, allora. Per lo stesso errore. L'idea che voi tutti foste... foste come noi. 
Un brivido mi corse lungo la schiena. La consapevolezza di aver già sentito parole simili mi balenò in testa assieme alle immagini di devastazione del mio sogno di qualche tempo prima, in quel buco nel mezzo del nulla. L'Apocalisse?, pensai con il corpo scosso dal tremore. È questo ciò di cui parli? 
Non mi giunse alcuna risposta. La mia mente era come una tela bianca. Dovevo aspettarmelo. – Ah, Cristo – imprecai grattandomi con furia un sopracciglio. 
Il ragazzo si voltò. – Brutta giornata? – domandò con curiosità. M'infastidì, sapete? Non ero dell'umore adatto per sopportare l'impertinenza. Avevo lasciato Thomas a vomitare sul ponte, dopotutto. Speravo di stare un po' in santa pace. – E nemmeno il tempo sembra dei migliori. 
– Già. – Non pensavo che a quel ragazzino mancasse socializzare, specie con un vecchio scorbutico come me. Eppure, davvero, sembrava non aspettare altro che l'inizio di una cordiale conversazione. 
Peccato che non avessi alcuna voglia di sostenerla. – Sulla Warren non c'era tutto questo... – Indicò il ponte con un cenno della testa, sogghignando alla vista di Bob, ancora sdraiato a singhiozzare e sbattere i pugni a terra. Un'immagine pietosa e rivoltante, icona di tutto ciò che negli Assassini mancava o funzionava male. – ...movimento. Hopkins era un buon capitano, non mi posso lamentare, e mi ha sempre trattato bene, ma quando mi ha beccato a rubare dalla sua riserva non si è risparmiato. – Scosse la testa in un cenno sconsolato, come se gli mancassero i bei tempi in cui il capitano usava la cintura. Chiudi la bocca. Non m'interessa, capito? – Non l'ho mai visto urlare così tanto. Sapete che mi ha fatto tenere la testa in una botte di rum finché avevo respiro? Ha detto, "Se vuoi bere fallo, invece di rubare ciò che non ti appartiene!". – Ridacchiò e si strinse nelle spalle, chinandosi con i gomiti conto il parapetto. – Tante storie per una bottiglia di whiskey.
Tirchio malefico. Guai a chi gli tocca la sua robaccia. Quindi il ragazzetto che scrutava l'orizzonte e probabilmente aveva visto la nostra bagnarola collassare su se stessa non era altro che un ladruncolo di liquori. Un'altra informazione di cui non avrei mai potuto fare a meno. – Non ho mai visto un indiano su una nave – brontolò, una mano a grattarsi i folti capelli scuri dietro le orecchie. Forse a Hopkins fregava qualcosa dei suoi liquori, ma non credo avesse cura dell'igiene personale dell'equipaggio. Riuscivo quasi a vedere i pidocchi saltellargli in testa, a quel ragazzino. 
Sbuffai. Il viaggio si stava rivelando più estenuante del previsto. – È un mezzosangue – grugnii senza troppo interesse. Chissà che si sarebbe messo a blaterare sapendo che era mio figlio. – Il capitano Hopkins non sembrava stupito. 
Il ragazzo si strinse nelle spalle. – Non si cura molto dell'immagine altrui. Gli basta che sia impeccabile la sua. – Si voltò addirittura a guardarmi con un sorrisetto, invece di badare alla lingua di terra che si allontanava a ovest, le case solo più macchie sfuocate in mezzo alle colline. – Nessuno indossava l'uniforme, là sopra. Almeno finché non vedevamo un forte. 
Fu come se il mondo vacillasse intorno a me. Mi ero scordato di quel dettaglio. Per quanto giovane, dedito al furto e sicuramente fin troppo loquace, quel ragazzo era un soldato. Oh, merda. E meno male che non mi ero fatto scappare niente su Connor. – Credeva che gli inglesi ci avessero scambiati per pirati. Non la smettevano più di bombardare, quei bastardi. – Afferrò il cannocchiale e se lo schiacciò sull'orbita, grazie a Dio. Non so se avrebbe potuto ignorare tanto a lungo il biancore che mi aveva invaso la faccia. – Anche voi figlio della Corona, eh? – brontolò con una debole risatina. Oh, fosse solo quello il mio problema. – Tranquillo, non sono uno che giudica. – Questo era vero. Più che altro mi sembrava uno che parla troppo. – Jeremy Buckett – esclamò tendendomi la mano con un sorriso, – ma il capitano mi chiama Drunk J. – Avessi potuto, avrei sospirato. Il tipico soprannome bizzarro da americano. – Voi? 
– Haytham Johnson. – E il tuo capitano mi chiama il meno possibile, grazie a Dio. – In servizio da molto? 
– Nah, non sono un soldato. 
Aggrottai la fronte. Che cosa? Quello sì che mi scioccò. – Davvero? 
Drunk J si strinse nelle spalle. – Sono un ubriacone. Un topo da taverna. – Sollevai le sopracciglia in una smorfia impressionata. E quanti anni poteva avere? Sicuramente meno di Connor, diavolo. – Hopkins mi ha raccolto dai vicoli di Philadelphia quando avevo quattordici anni. 
– Caspita. 
– Oh, lo so. Brutta storia. Mio padre mi ha sempre dato da bere, per quanto ricordo. – Sospirò, lanciandomi uno sguardo esasperato. – Ora non posso più farne a meno, sapete?
Buon per te. – Ah. 
– Lo so. Una nave è il posto sbagliato. Ma non ho abbastanza soldi per bere altrove. Che ne posso...
– Puoi chiudere la bocca, per favore? – Non riuscii a trattenermi. L'alternativa era solo dargli un pugno sui denti. Che ne potevo, io? – Pensa all'oceano. 
Arricciò le labbra. – L'oceano – bofonchiò. – D'accordo. D'accordo. Come vi pare.
– Grazie – replicai con una smorfia. Alleluia. – Magari dopo ti porto da bere.
La sua espressione fu come illuminata dal cielo. – Veramente? – esclamò. – Sbrigatevi, allora. Arriva una tempesta. 
– Brutta? 
– E che ne so? – Si staccò dal cannocchiale, scoccandomi un'occhiata maliziosa. – Siete voi inglesi gli esperti, no? 
Mi voltò le spalle e smise di parlare, per il momento, lasciandomi con l'amaro in bocca senza sapere bene cosa mi aspettasse. Come avevo detto a Thomas, la caccia non era finita. Anzi, pareva quasi che fossimo diventati noi le prede, indifesi e senza via d'uscita, costretti a percorrere le tappe di un ciclo senza uscita. Seguire un uomo che continuava a sparire, impediti da ostacoli che non s'arrestavano mai. 
Una parte di me cominciava ad averne abbastanza, ma nemmeno per tutte le sterline di Sua Maestà le avrei dato retta. Preferivo continuare a nascondermi nella convinzione di star facendo la cosa giusta. 
Intanto, sull'orizzonte, nuvoloni scuri e pesanti turbinavano nel vento, girando e rigirando come in una danza mortifera, pronti a scaraventare sulla Señora tutta la loro furia. 
Serrai due dita alla base del naso. Perfetto. Oh, Dio. Avevo smesso di chiedermi se per una volta, una sola volta, il cielo potesse donarmi clemenza. Perfetto.
 
Connor quasi arrivò a toccare il pavimento con le ginocchia, ruotando completamente il timone, e Tom gettò in mare un altro litro di vomito. – Ah, merda... – grugnì tra un'onda e un conato, prima che la sua bocca cominciasse a versare altre schifezze. 
– Va tutto bene, Tom, – brontolai con una mano sulla sua fronte, gli occhi rivolti al cielo tinto di cenere e alabastro. Maledetto vento. Ci minacciava da ore, quando la notte ancora non era giunta, e tendeva la cacciatrice a destra e a sinistra con un gran fracasso, ma di acqua non ne scaricava nemmeno un goccio. Certo. Non fosse mai che la nostra tortura finisse lì, lasciandoci ad annegare. No. Meglio un bel po' di dannatissime folate e poi, forse, ucciderci. La nostra vita era così noiosa, mancava proprio una tale dose di pericolo. 
Ah, se lo sentivo, il pericolo. La sua puzza mi penetrava nelle narici fin quasi a raggiungere il cervello, nascosta solo in parte dall'odore del vomito di Tom. – Connor! Va tutto bene? – Certo che sì. Che razza di domande pongo? Idiota. 
Vidi il timone sfuggirgli di mano e sfrecciare per tornare alla posizione originale, rischiando di fratturargli la mascella e far saltar via un paio di denti. La Señora tentennò, senza più una mano salda a guidarla, e mio figlio caracollò indietro, rischiando di finire in mare. – Dobbiamo uscire da quest'affare! 
Drunk J si sporse dall'albero maestro, le mani a coppa sulla bocca. – Non se ne parla, capitano! – strillò. Probabilmente era l'unico a bordo che usava quel titolo con il ragazzo. – Sembra che si estenda fino all'Inferno e ritorno! 
Lanciai un sospiro. Sempre melodrammatici, i marinai. – Cristo. – Sollevai Tom con uno strattone e gli mollai uno schiaffo sulla guancia cadaverica. – Ehi? Tom, hai finito? – Con la bocca mezza aperta e il capo abbandonato su una spalla, sembrava un morto appena tirato fuori da una carneficina. – Andiamo, Tom. Rispondimi – gli sussurrai debolmente. – Devi...? 
Scosse piano la testa, e gli assicurai meglio la cima intorno alla cintola. Non mi fidavo di quel cordame, non mi fidavo della tempesta e ancor meno mi fidavo di Thomas. Chissà che cosa diavolo avrebbe fatto per assecondare i propri deliri. – Connor! 
Mi avviai verso il cassero di poppa, strisciando lungo il parapetto per non essere strappato via dal vento. – Che cosa facciamo? 
Scattò malamente in piedi, le mani strette sul timone. – Ce ne andiamo – borbottò, o almeno, questo capii dalle sue labbra. – Ce ne andiamo. 
– Levati di lì! – Oh, demonio, perché dovevo sempre spiegargli tutto io? Istruire quei cinque testoni dei miei fratelli Templari era stato dieci, cento volte più semplice. Perlomeno loro stavano a sentire. – Se spezzi il timone siamo tutti morti!
Serrò i denti, piegando di nuovo la ruota di legno controvento. – Allora che cosa vuoi fare? – La sua voce pareva il sussurro di un demone marino. Ci mancava soltanto che il kraken, o uno di quegli altri mostri in cui credevano gli uccellacci del malaugurio come Faulkner, spezzasse definitivamente lo scafo a metà e ci lasciasse precipitare tra le fauci della morte. – Abbandonare la nave a se stessa?
Feci spallucce e lui sollevò le sopracciglia, stupefatto. – L'idea era quella – brontolai tra me e me. 
– Haytham, no.
– Fallo! – berciai con la gamba attorcigliata alle sbarre. Dio solo sapeva quanto mi sentissi ridicolo. – Fallo e basta! – E prendi una dannata cima, pensavo, non lasciare che questo mostro ti porti via. Ci siamo, ragazzo, non lo vedi? Nonostante tutto quel casino, stavo davvero andando da Ben. Ero vicino, sempre di più a ogni folata di vento. Ci siamo...
Una goccia di pioggia grossa come un penny parve perforarmi la fronte. Oh, no.
Le nuvole cozzarono l'una contro l'altra sopra di noi, in un'esplosione di viola e grigio seguita da un gran fracasso. Se l'Aquila aveva fatto una brutta fine, quella cacciatrice la stava seguendo a ruota. Santo cielo, perché? Forse il mare aveva visto abbastanza Kenway. Non ne poteva più della mia maledetta famiglia. – Piove – ringhiai tra i denti. – Cazzo! 
– Puoi dirlo forte, capo... – mugolò Thomas alle mie spalle, una mano sullo stomaco e l'altra tesa a raccogliere le gocce. – Andiamo – ghignò, – potrebbe andare peggio. 
– Ovvero? 
Si strinse nelle spalle. – Siamo ancora vivi, no? 
Scrollai il capo, serrando le dita sulla cima bagnata. La pioggia non aveva alcuna pietà, si riversava su di noi come se qualcuno la facesse uscire da un secchio invisibile, sospeso in un beffardo scherzo sopra la nostra testa. E come se non bastasse c'erano anche Tom Hickey e le sue battutine insulse. Quasi capivo Connor, ma, ehi, ci sono momenti in cui il sarcasmo è più che necessario, doveroso. Una tempesta in mezzo all'oceano durante l'inseguimento di un uomo che ero arrivato a sognare e continuava a sfuggirmi di mano non rientrava certo nella lista di quei momenti. – Sta' zitto – brontolai. – Vedi di tenerti forte! 
Drunk J scivolò agilmente giù dall'albero, assicurandosi una cima intorno alla vita. – Quindi? – gridò per sovrastare la tempesta. – Qual è il piano? – I marinai continuavano a correre avanti e indietro, ritirando le vele e lasciando che gli alberi dondolassero nel vento, simili a picche. Di lì a poco, probabilmente ci sarebbero state anche le teste. – Capitano, avete un piano. Non è vero?
– Il piano? Sai qual è il piano? – gli berciai contro, gli occhi serrati per ripararmi dalla pioggia battente. – Stammi bene a sentire, perché non lo ripeterò due volte. Il piano è di chiudere quella cazzo di bocca e farci entrare meno acqua possibile. Ti è chiaro il…
– Attenti!
Levai le palpebre troppo presto, nel momento sbagliato. Vidi gli occhi scuri di Drunk J sgranarsi, colmi di paura. Poi un’onda investì ogni cosa, il ponte, Connor, le mie gambe. L’acqua mi sbalzò contro le casse di provviste, spaccandole in un turbinio di bolle e… polvere. Suppongo si trattasse di quello, polvere da sparo ormai inutilizzabile, neve scura che roteava in mezzo al legno spaccato e precipitava in mare.
Non capivo più nulla, la fronte mi pulsava come fosse sul punto di esplodere. Sapevo che una parte di me era stranamente felice per aver mandato in mille pezzi una cassetta di polvere e non una botte di rum, un pensiero completamente irrazionale, ma c’era più qualcosa che avesse senso, lì in mezzo? Con l’acqua che entrava nel cervello e lo rivoltava, le membra molli come carne già morta, l’unica cosa di cui mi preoccupavo era restare in vita.
Provate ad annegare, d’accordo? Poi vedremo chi avrà i pensieri più futili.
Agitai le gambe nel tentativo di tornare a galla, ma pareva proprio che quella dannata cascata d’acqua volesse portarci tutti all’altro mondo. E dove diavolo era il sangue pirata quando serviva? Mi stava abbandonando anch’esso, come tutte le cose? Sangue pirata, certo. Quando mai? Non avevo ereditato niente da mio padre. Tutto ciò che di ammirabile c’era in lui si era perso lungo la strada. Poteva averlo estirpato Reginald. Pensare che l’avessi trasmesso a Connor non mi sembrava più un’alternativa migliore.
Chiusi gli occhi, lasciando che il buio mi avvolgesse proprio come stava riempiendo la mia testa, lentamente, come una ninna nanna che travolge i sensi con calma prima di trascinarti via del tutto. Dormire, ecco cosa mi andava veramente di fare. Solo dormire un po’…
Thomas fu il primo a riemergere, strattonando la mia redingote per tirarsi in piedi. – Santo Dio! – sbottò, preda dei colpi di tosse come un vecchio.
Boccheggiai, tirato fuori dal limbo con la violenza di un uragano. Oh, Tom, no. Sembrava che i miei polmoni volessero staccarsi dalle costole e precipitare nell’oceano. Per una volta che ero pronto a lasciare questa vita, insomma… Non puoi. Non puoi farmi questo. Mai nella vita avevo accettato con tanta consapevolezza l’idea della fine, e ci pensava quel bevitore da due soldi a riportarmi all’antico splendore, ricordandomi che non potevo mollare. Non a quel punto. Chissà, forse cercava di ripagare tutte le volte in cui io lo avevo portato via dal Mietitore.
Intorno a me, tutti non facevano altro che sputacchiare e tossire, aggrappati alle cime nel tentativo di non lasciare troppo in fretta la nave. Uomini con gli occhi sgranati e i denti stretti, animali guidati dall’istinto di sopravvivenza e da nient’altro. Li avevo visti obbedire a Connor. Alcuni di loro, come i mozzi bloccati in coperta, dovevano aver maledetto la sorte, stretti alle assi dello scafo mentre pregavano Dio che niente lo danneggiasse. Non c’è più nulla di razionale nell’uomo quando lo metti davanti alla fine. Come poteva Connor aver fiducia nella gente? In una specie così maledettamente volubile, che si rende conto degli errori solo quand’è troppo tardi e i massacri sono già stati portati a termine? Sembrava che nel mondo non esistesse più la ragione, come la intendevamo noi. Persino Connor si teneva stretto a un maledetto pezzo di corda come fossero i seni di sua madre, e chiudeva gli occhi bisbigliando parole che non riuscivo a comprendere. Stava… pregando? Oh, per carità. Di certo gli spiriti Mohawk non avrebbero fatto nulla per me. La Grande Madre me li aveva messi contro a sufficienza, direi.
…Narra la storia di Iottsitíson,che scese nel mondo per dargli forma perché ospitasse la vita. Il suo amore ci da la forza.
Serrai le mani sulla prima cosa che mi capitò, i frammenti spezzati della cassa di polvere da sparo. Sentivo le schegge bruciare nelle mani come fiamme. Tiio. La sua fine, e tutto ciò che c’era stato tra noi. Ogni istante, ogni dettaglio pareva così campato per aria, a guardarlo da un’altra prospettiva. Voglio dire… Avrei potuto fare di più per lei. Avrei voluto, d’altra parte, ma non mi ero impegnato abbastanza. Pensavo davvero che sarebbe durata. Che avremmo avuto tutto il tempo del mondo. Poi Braddock era sopravvissuto, lei aveva capito con chi aveva a che fare e tutto era stato distrutto. Cenere nel vento freddo della Frontiera.
– Che cazzo era? – La voce arrochita di Tom mi riportò alla realtà, lasciando che chiudessi di nuovo gli occhi sulla fetta di passato che non aveva mai smesso di fare male. Pure tu, ti pare il momento di pensarci? Avrei dovuto affrontarlo, prima o poi.
Meglio poi, direi. – Acqua! – esclamò Drunk J. Non so dire se avesse deciso di rendersi utile o volesse soltanto fare una battuta. In tal caso, be’, era chiaro che sulla cacciatrice c’era uno spiritoso di troppo. – È la tempesta! Che facciamo?
– Te l’ho detto – sibilai con la gola arsa. Non desideravo altro che farlo stare zitto per un po’. Avevo abbastanza pensieri in testa senza dovermi anche preoccupare delle sue cazzate, su. – Teniamo la bocca chiusa.
Tom tirò su col naso, le braccia strette intorno all’albero maestro. – È una tempesta! – sbottò con disprezzo, facendo il verso a quell’irritante ragazzetto. – Che diavolo ci fa su una nave? Quello deve tornare a poppare, capo, te lo dico io.
Grugnii in segno di assenso, nemmeno troppo convinto. Poppare. Un verbo che mi ricordava fin troppo dei seni, e quell’idea mi faceva immediatamente correre alla mente Tiio, la sua pelle e le notti nella frontiera, sperando di non essere mai più ritrovati…
Uno spruzzo d’acqua salata ribelle mi raggiunse con violenza, entrando nei miei occhi come una fiammata. Dio, ti basta come rimprovero? Smettila, cazzo! Mi passai una mano in faccia, cercando di riacquistare una vista decente. Quella vocetta aveva ragione. Dovevo preoccuparmi di restare vivo, io. – Pensa a reggerti – brontolai, non so bene se a me stesso o a Tom. Diedi un’altra stretta alla corda che tenevo intorno alla vita, certo che quell’onda non sarebbe stata l’ultima. Fu una delle poche cose intelligenti che feci durante quel dannato uragano. Voglio dire, il mondo intorno a me era confuso, il bernoccolo in cima alla fronte pulsava e bruciava come un marchio a fuoco, non sapevo letteralmente se sarei mai arrivato alla mattina successiva, né tantomeno avevo idea di cosa significasse quella disgrazia. Non sapevo più che cosa pensare. Avevo in testa solo frammenti di doloroso passato, taglienti come lame, mentre sul presente non riuscivo a focalizzarmi. L’unica altra cosa che riuscivo a provare era una gran paura all’idea di morire.
Ah, maledetto istinto di sopravvivenza. A volte penso che senza sarebbe tutto dannatamente più facile. Lanciai un’occhiata al cielo, le palpebre strette sugli occhi nel tentativo di vedere meglio che cosa ci stesse riservando la natura. Nuvole, semplicemente, nuvole compatte e senza fine, le esplosioni dei tuoni che mi ricordavano quelle dei cannoni, e poi i lampi, le deflagrazioni delle pistole.
Appoggiai stancamente il capo all’albero maestro, la forza che sembrava avermi abbandonato all’improvviso. Iniziavo a pensare che quel disastro fosse una punizione divina a tutti i miei peccati. Ecco cosa meritavo. L’ira del cielo contro di me. Per non aver più cercato Tiio, per averla abbandonata, per aver lasciato che Jenny morisse, per non aver mai fermato Reginald. Per tutto ciò che non avevo chiesto a mio padre, per come avevo lasciato che mia madre morisse di crepacuore, sola, mentre io cazzeggiavo per la Francia come un ragazzino viziato. Per aver ucciso tutti quegli innocenti nella Repubblica Olandese. Per la caccia. Per i bambini impiccati che Thomas rammentava a giorni alterni, più snervante di qualsiasi acquazzone. – Reggetevi forte! – gridò Connor, ma non gli prestai ascolto. Forse se mi fossi lasciato andare, se avessi restituito al mondo la mia vita per rimediare a tutti quegli orrori… Chissà, magari mi sarei salvato. Niente dannazione.
Sorrisi tra me. Io nemmeno ci credevo, alla dannazione. Bastava davvero una donna a farmi scendere tanto in basso? – Che cazzo hai da ridere? – Tom tirò uno strattone alla mia cima. – Capo!
Un’altra onda ci prese in pieno, e sapete cosa feci? Niente. Assolutamente niente. Strinsi il legno più forte tra le dita, il dolore acuito dal sale, mentre tutta quell’acqua mi entrava in bocca, nel naso, mi sciacquava il cervello e rendeva tutto più nitido, per una volta.
Chiusi gli occhi. Nella mia mente c’era di nuovo il suo viso, le treccine che gridavano innocenza, le gambe forti, portatrici di un messaggio molto meno pacifico. Lei non voleva che portassero via la sua casa, non voleva che morissero altre persone inermi. Aveva un obiettivo, e lo conosceva fin troppo bene. Era un’Assassina, ma non stava davvero con loro. Credeva negli spiriti che davano forza, nell’amore che rigenerava.
Tiio, la donna di cui non avevo mai imparato il nome completo. Con lei avevo fatto l’amore senza preoccuparmi di ciò che sarebbe potuto succedere. Non avevo mai pensato a dirle la verità. E quando i nostri interessi si sarebbero scostati, quando lei sarebbe diventata una seguace di Washington? Come avrei potuto farla rinsavire? Mi aveva lasciato perché il nostro bersaglio era morto con un paio di giorni di ritardo, maledizione.
No, lei… lei aveva visto il villaggio bruciare. Lei sapeva. Non avrebbe mai lasciato che vivesse. Lo avrebbe fermato per suo figlio. L’avevo lasciata sperando di poter almeno salvare mia sorella, e avevo fallito in tutto. Qualsiasi cosa avessi in mente di fare era semplicemente sfumata, proprio come stava facendo la mia mente sott’acqua, portata via. Strappata.
Della vecchia vita mi rimaneva soltanto lei. Lei, che intanto mi accarezzava il viso, laggiù. “Credeva nei suoi figli e nelle loro capacità”, sussurrò con un sorriso debole. Mi aspettavo di più dal Grande Tempio, ma mi aveva dato esattamente ciò di cui avevo bisogno. Dannazione, mi aveva dato lei.
Era… Dio, era troppo per me. Non la meritavo. Non l’avevo mai meritata. Era stato come un furto, e ora dovevo scontare la mia pena. C’era un unico modo. Soltanto…
Fui travolto da un’ondata di dolore in mezzo al petto e mi piegai a tossire, grondando acqua dal naso, dalla bocca e dai capelli. Non c’era nessuna redenzione per me, oh, no. Mentre la cima mi segava i fianchi, con la sensazione che avrebbe senz’altro lasciato una bella cicatrice all’altezza delle reni, capì qual era la verità.
Mi ero illuso. Non meritavo nemmeno quella.
Nemmeno la morte.
– Cazzo, capo, non vorrai mica che il bastardo ti baci di nuovo, no? – Thomas mi prese per la redingote, gettandomi malamente in mezzo alle casse rotte. Tu. Ancora. Tossii debolmente, nel tentativo di chiedergli che cosa diavolo mi avesse fatto. Lui sì che può ripagare il suo debito. Sputò un grumo di muco nell’acqua che fluiva verso il parapetto, abbandonando il ponte della Señora. – Dimmi un po’ se devo strattonarti come un cane per non farti andare all’altro mondo. Quando torneremo sulla terraferma sarai in debito con me, lo sai?
Annuii piano, sbattendo le palpebre sul mondo bagnato che mi scorreva intorno. Non c’era più niente che fosse al suo posto. Drunk J ansimava, una mano sul petto e la schiena poggiata alla ringhiera di babordo, cercando di prendere quanto più fiato possibile. Connor, lì accanto, sembrava avesse affrontato altre mille tempeste, il solito sguardo pesante e le mani chiuse senza tensione alcuna sulle sbarre del parapetto. Mi salì un’ondata d’ira e invidia nel petto. Che diamine, probabilmente le mie mani erano così piene di schegge da sembrare due istrici.
– Pensa a Faulkner! – gli gridai, per quanto possibile, con un sorriso stanco. – Per lui questa dev’essere una passeggiata. Un normale incidente di…
Non riuscii nemmeno a finire la frase. Il sorriso mi si gelò sul volto come una maschera grottesca. – Connor… – sussurrai, ma era già scattato in piedi, sfilandosi la cima da sopra la testa, e correva slittando sulle assi bagnate verso la cabina del capitano. Lì per lì non ci pensai, ma, diavolo, non so dire se per me avrebbe mai fatto una cosa del genere. – Connor!
– Capo? – Thomas si voltò con il viso pallido, l’aria sbattuta come se avesse appena visto un fantasma e una mano premuta sullo stomaco. – Oh, Dio, capo…
Afferrai la cima di Connor, abbandonata ai miei piedi, e cominciai a sciogliere i nodi, tra un’imprecazione e l’altra. La corda bagnata si dibatteva nelle mie dita inesperte come un serpente, aggrovigliata su se stessa. Era un rompicapo che nemmeno un marinaio esperto sarebbe stato capace di risolvere. Perché quello… quello non era un nodo da mare. Ne avevo visti molti simili, nella Frontiera. Trappole per conigli. Intrecci di cordame fatti per durare, resistere agli altri animali. Oh, maledizione. – Dammi una cima – esclamai a nessuno in particolare.
Tom alzò debolmente lo sguardo dalla camicia su cui si era appena vomitato i resti del suo ultimo pasto e sollevò il dito medio. – Vaffanculo – mormorò. Come se non fosse già abbastanza semplice da capire, eh.
– Dammi una cima, ho detto!
– Ma non potete… – Drunk J lanciò un’occhiata preoccupata al mare che continuava a muoversi impetuoso intorno a noi, poi si strinse nelle spalle. – Se mollate quella corda siete un uomo morto.
Emisi un gemito frustrato. Quel ragazzo aveva ragione. Se un’altra onda ci avesse preso sarei stato una frittata per i pescecani, ma non potevo permettere che Connor morisse. Era la mia unica speranza di porre fine a quella storia, di portarmi la Mela e chiudere la partita in vantaggio.
Al diavolo tutto. – Tom – brontolai slacciando il nodo che assicurava la mia cima al grosso ceppo in mezzo al ponte, – se non ce la facessi…
– Vomiterò a sufficienza per entrambi, tranquillo – sibilò, gli occhi stretti e le labbra fini tese sui denti come quelle di un serpente. – Gesù, vedi di evitarmi un simile supplizio.
Gli rivolsi un sorrisetto. Andiamo, ero già stato in punto di morte parecchie altre volte. Ero abituato. – Augurami buona fortuna. – Assicurai la mia cima a quella di Connor, sperando fosse lunga abbastanza da permettermi di seguirlo. Serrai gli occhi contro il vento e la pioggia e maledissi tra me e me la notte in cui avevo deciso che non mi bastava baciare Tiio. Oh, che mi era saltato in testa?
– Fortuna? – Tom storse la bocca. – Come se ti fosse mai mancata.
– Ci stai prendendo gusto?
– Un po’. – Si strinse nelle spalle, tentando di levare la brutta macchia di vomito sulla sua giacca con delle pacche vigorose. – Che aspetti?
Sollevai le mani in segno di resa e mi allontanai traballando lungo il ponte. Tenevo le braccia aperte per cercare di mantenere una parvenza di equilibrio, ma non è affatto facile come sembra. Le raffiche mi sospingevano da ogni parte come fossi uno stendardo, la pioggia mi entrava negli occhi impedendomi di scorgere con chiarezza dove stessi andando, e per di più c’erano le urla confuse degli uomini, i tuoni, i lampi accecanti. Pareva una di quelle notti uscite da un racconto terrificante, un incubo da cui non vedi l’ora di scappare. A meno che tuo figlio non ti tenga intrappolato lì come un pesce nella rete. – Connor! – gridai, la bocca piena d’acqua e bestemmie. – Connor!
Spalancai la doppia porta della cabina, consumata dalla salsedine e graffiata con due brutti colpi di spada, come le ossa sulla bandiera disegnata da Calico Jack non so quanti anni prima. Strinsi i denti. L’idea di non vedere mai più Faulkner non mi faceva né caldo né freddo, a pensarci bene, ma non potevo permettere che Connor rischiasse la vita – e la mia con la sua – per inseguire un ubriacone senza niente da perdere. – Dov’è Bob?
L’intera stanza era sottosopra. Non che all’inizio del viaggio avesse un aspetto chissà quanto curato, ma almeno le cartine non erano buttate a terra, stracciate come vecchie lenzuola, e i cocci di piatti e bicchieri non erano caduti dai loro supporti per schiantarsi sul pavimento. Connor, intanto, scavava tra i detriti con furia animale, sollevando pezzi di legno, vetro e ceramica, la bocca tesa in un’espressione terrificata. – Non c’è – sussurrò semplicemente. Sembrava un bambino cui avevano appena portato via il cucciolo.
– Sarà sottocoperta. – Indicai la botola con un cenno della testa e sperai che non volesse perdere altro tempo. – Dobbiamo…
La potenza dell’uragano lo mandò a sbattere contro la parete, schiacciando il muso sulle assi e trascinando a terra nella sua caduta un’altra cartina. I Caraibi lo coprivano come un sudario funebre. Ansimai, il fiato rotto dallo stipite della porta che mi era affondato nello stomaco. – Merda! – Connor si rialzò con il naso sanguinante e grugnì. Doveva tenere davvero tanto a Faulkner, suppongo. – Andiamo, andiamo! – Lo presi per il braccio, trascinandolo fuori prima che un’altra onda ci buttasse giù entrambi. – Buon Dio, come t’è saltato in mente di slegare…
– Muoviti! – ringhiò, sbalzandomi via e sollevando la botola che dava sulla stiva.
Mi vide esitare, suppongo. Non era poi così stupido. – Che c’è? – Il suo viso era una maschera di ansia e, davvero, mi dispiaceva non aiutarlo nemmeno quella volta, ma… No. Non avrei rischiato così tanto. – Vieni, no?
– Non posso – sussurrai con la voce tremante. Sollevai persino una mano per indicare la cima che mi teneva legato a un certo raggio dall’albero maestro, ma m’ignorò. Aveva già grugnito nella mia direzione prima di scivolare, agile come uno scoiattolo – uno scoiattolo molto grosso – nel buco.
Almeno era stato veloce abbastanza da non farci imbarcare acqua. – Mi dispiace – sussurrai, ma lui era già sparito.
Attraversai il ponte a grandi passi e rischiai di scivolare un paio di volte, ma fui sollevato nel trovare Tom esattamente come l’avevo lasciato, senza una preoccupazione. Fortunatamente non aveva ancora perso le palle, lui. Un caso su quanti, a bordo della cacciatrice? – Dov’è il bastardo? – brontolò con un ghigno, mostrando i denti consumati dal vomito e dall’alcool. – La sorte ha smesso di assisterlo?
– Faulkner non era in cabina – sussurrai. – Qui l’avete visto?
Hickey si strinse nelle spalle, avvolgendosi nel cappotto fradicio e sporco. – Spiacente, capo – grugnì. – Ero troppo impegnato ad ammirare il mio vomito.
Non avevo la forza di fermarlo. E poi, diciamocelo, era piacevole. Nonostante l’ansia mi stesse divorando come una malattia, sapere che mio figlio era confinato in coperta, senza il rischio di essere sbalzato tra i flutti, era un vero sollievo. Gesù, potevo quasi sentire la Mela dell’Eden tra le mie mani. Il suo calore. – Spero che stia bene – sussurrai, i palmi serrati l’uno sull’altro.
– Sicuro – bofonchiò il mio socio con la massima noncuranza. – Ha una bella pellaccia, per essere un Assassino.
– Concordo. – Non c’era nessun altro modo di definire Robert Faulkner. Aveva davvero la pelle dura. Voglio dire, non era da tutti sopportare la Confraternita per tanto tempo. Connor, le lagne di Achille, tutti i loro discorsi… Avrei potuto strappargli le palle e non avrebbe lanciato un solo gemito, ma era bastato spezzare l’albero maestro dell’Aquila per devastarlo. – Se la caverà.
– Come sempre. – Tom si accarezzò il ventre gonfio come una donna incinta. – Dio, capo, non ti andrebbe del whiskey?
Serrai i denti intorno alle nocche. Perché non si facevano vedere? Perché la botola non si sollevava e Connor non ne veniva fuori con il corpo di Bob caricato sul groppone? – Eccome. – Schifoso egoista. Dovresti essere ad aiutarlo. Invece…
– Whiskey? – Drunk J, come al solito, si intromise invece di pensare al proprio lavoro. – Non so quanto sia rimasto, con questo casino. E poi, sapete, gli spagnoli sono più per il rum.
Roteai gli occhi. Lo so. Il cuore mi batteva troppo forte per perdere anche tempo con lui e le sue cazzate. Che risolvesse da solo. – Capo, non stare in pensiero. – Thomas, oh, lui sì che sapeva essere d’aiuto. Certo. – Adesso arriva. È con il bastardo. Sarà di sotto a bere. Tutto qui.
Tutto qui? Tutto qui? E la tempesta non l’aveva minimamente smosso? Era davvero a un tale livello di depressione? – Lo so –, ma il mio tono era sempre lo stesso, piatto come quello di un morto. Non credevo nemmeno un po’ a ciò che Thomas diceva. – Adesso arriva – ripetei. – Adesso arriva.
Ci chiudemmo tutti e tre nel silenzio più teso che sopportassi da non so quanto tempo. I tuoni scandivano il tempo che passava inesorabilmente, e nessuno osava spiccicare parola. Anzi, più si andava avanti e meno tentativi di conversazione venivano fuori. Mi morsi le unghie così a fondo da far sanguinare la carne, torsi le mani e arrivai a trattenere il fiato, desiderando solo che un’altra onda ci travolgesse e mi riportasse nel limbo tra la vita e la morte. In confronto, mi pareva un posto meraviglioso. E se Connor fosse morto? Qual era il senso della mia impresa senza la Mela? Senza l’aiuto dei Mohawk?
Qualche altro spruzzo d’acqua nera si sollevò, inzuppando ulteriormente le assi dello scafo e del ponte, ma non ce ne curammo. – Dio, capo, di ‘sto passo ti consumerai il mignolo.
Lo ignorai. Il sapore rugginoso del sangue che sgorgava dal mio dito riusciva, in qualche modo, a tenermi attento. – Non sono morti – sussurrai tra me. – Sono ancora qui.
– Certo – brontolò Tom in risposta. – Come ti pare.
Allora, quand’ormai ero sul punto di mollargli un pugno in faccia, esasperato dai suoi continui commenti, un grido mi gelò il sangue nelle vene. – Kenway!
Sgranai gli occhi, fissando prima la botola, poi Tom e infine l’espressione esterrefatta della giovane vedetta. – Avete sentito?
– È un segno, Kenway!
Mi sentii svenire. C’era una sola persona, di recente, con cui avevo parlato di segni. Una sola persona che potesse dimenticare la copertura per usare il mio vero nome. – Bob – sussurrai. – È lui, è…
Senza accorgermene ero scattato in piedi e mi ero sfilato la cima dai piedi, lo sguardo fisso come quello di un cadavere. Non volevo crederci. Dov’era? Dov’era? – Laggiù! – sbottò Drunk J, indicando la prua con l’indice teso. – Laggiù!
Corsi in quella direzione, sperando di trovare Connor con lui. Doveva essere lì, no? Voglio dire, non c’erano posti in cui Robert avrebbe potuto nascondersi.
Mollai una gomitata tra le costole del quartiermastro originario, che mi rispose con un ansito e una bestemmia a gran voce. – È pazzo – disse qualcun altro, ma non avevo alcuna intenzione di curarmene.
Specie quando superai l’albero di trinchetto e inciampai in una cima mollemente abbandonata sul ponte, caracollando a faccia in avanti. Parai la caduta con le mani, ma le assi erano fradice. Non sarei mai riuscito a sollevarmi in fretta. – Bob! – gridai con quel poco di fiato che mi era rimasto in corpo. – Bob!
– Guarda l’Aquila, servo della Croce, e ricorda.
La Prima Civilizzazione mi riscosse dall’interno e riuscii a sollevare il viso verso il bompresso, teso nel cielo come il dito accusatore di Dio. All’inizio non ci credevo. Non me l’aspettavo, ero arrivato a pensare che Bob fosse soltanto frutto della mia immaginazione, invece no. Voglio dire, non avrei mai pensato di vederlo appollaiato su quel palo, in perfetto equilibrio nella tempesta che non risparmiava nessuno, nemmeno i marinai più esperti.
Avevo già visto quella posa da qualche parte. In qualche vecchio libro di Reginald. Era… sì, c’era il disegno di un Assassino in quella precisa posizione, immobile su una trave sporgente. Sotto di lui si allargava un canale maestoso, e i pennoni degli edifici spiccavano tra le case basse e accavallate l’una sull’altra.
Mi pareva si trattasse di Ezio Auditore, il vecchio Mentore. Uno di quelli che era passato alla storia come l’Assassino per eccellenza, dopo quell’altro, quello di Masyaf. Perché diavolo fossero tanto legati a quelle inutili tradizioni non lo so, davvero, ma mi spaventavano. Anche la bizzarra idea che buttarsi a braccia aperte da una piattaforma potesse renderli come Gesù Cristo era qualcosa che mi faceva venire i brividi ogni volta. Salto della fede. Salto degli idioti, altroché.
Robert Faulkner non sembrava trovare l’idea tanto terrificante. – Che stai facendo? – gridai, sperando solo di attirare la sua attenzione. Il sale e l’acqua mi bruciavano in fondo alla gola, assieme al terrore accecante di essere arrivato tardi, come sempre mi succedeva nella vita. – Vieni giù, andiamo! – Era come parlare a un muro.
– No! – strillò, la voce acuita da quello che sembrava a tutti gli effetti panico. Alla fine ne aveva paura anche lui, suppongo. Di morire, di quella massa d’acqua grigia che ribolliva sotto di lui come un fiume infernale. – L’oceano mi sta chiamando, Kenway. È casa mia. Ci devo tornare. – Strinse le mani macchiate attorno al bompresso e mi diede le spalle, occhieggiando l’orizzonte. – Capisci? Come tu devi tornare da Church. Il mare è onesto.
– Bob!
Volse appena lo sguardo nella mia direzione e sorrise. – Non lo senti? È lui che comanda, qui. Ci sta portando dov’è giusto che sia. – Prese un grosso sospiro, e per un attimo ebbi l’impressione di vederlo vacillare. – Mi chiama, Kenway. Sono un passeggero sgradito.
– Bob, torna qui. – Strisciai nella sua direzione, per quanto possibile, le ginocchia che bruciavano contro il legno bagnato. Sembrava di parlare con un cane disobbediente o un ubriacone senza speranza, ma avevo l’impressione che Faulkner fosse lucido come mai l’avevo visto in quei giorni. – Per piacere. – Per il ragazzo. Si voltò un’ultima volta, con un lieve sorriso dipinto sul volto. Un sorriso triste e rassegnato.
Lo stesso che, forse, doveva avere mio padre quando lasciò Nassau,
Lo vidi aprire le labbra, piano. – Mi…
 
Acqua.
Vorrei ricordare di più, davvero, ma di quel momento non ho altro che delle brevi immagini, l’una più dolorosa dell’altra. Schegge piene di veleno e rimpianti, punture che non guariranno mai, suppongo.
Vidi l’onda travolgere la Señora per la terza volta, spazzando letteralmente via tutto ciò che si trovava nelle vicinanze dell’albero di trinchetto. Il mare risucchiò le casse, il cordame, un paio di stivali consunti e il sottoscritto, trascinandomi via come quel mostro dell’Odissea, Scilla. La furia dell’acqua mi buttò oltre il parapetto e il fiato mi si spezzò nel petto. Rimasi a guardare la figura di Faulkner, stagliata contro la luce dell’ennesimo lampo come nella raffigurazione di un eroe. Sembrava aver passato l’intera vita ad addestrarsi solo per quel momento, un tutt’uno con il vento.
È un’aquila, questo pensai, perché non c’era niente di più vero. Non c’era Robert Faulkner su quel bompresso. Era morto, collassato insieme all’albero maestro della sua nave. C’era un uomo di mare, un Assassino che, al contrario di tutti gli altri, sapeva riconoscere la sconfitta e l’accettava come un richiamo di ciò che aveva sempre amato, l’oceano.
– Bob… – Non riuscii a mormorare altro, le dita serrate sul legno scivoloso e fradicio. – Bob… – Il mio corpo fremeva mentre ciondolava lungo lo scafo come una cima abbandonata. Non avevo più la forza di richiamarlo sulla terra. E a che scopo, poi? – Mi dispiace.
Mi parve di sentire il verso di un uccello, oltre il rombo dei tuoni.
Oppure erano solo le urla di Connor?
Lo vidi saltare con le ali aperte, un accenno di sorriso sul volto e gli occhi chiusi. In pace. Pensai che mi sarebbe piaciuto morire così, senza alcun rimpianto, in un luogo che avevo sempre amato.
Sentii il rumore del suo corpo che affondava nell’oceano. – Cazzo! – Il viso di Tom entrò nel mio campo visivo, i capelli inzuppati e tirati indietro dal vento mentre mi tirava su, strattonandomi per i polsi come avrebbe fatto con la carcassa di un qualsiasi animale. – Il bastardo non la prenderà bene.
– No.
– Già, però vedi di muoverti – grugnì rabbioso. – Non ho intenzione di tirare a bordo il tuo culo inglese tutto da solo.
La verità era che non potevo nemmeno accusarlo di egoismo o insensibilità. Era un Templare, era giusto che reagisse così, dopotutto. Schiusi le palpebre e lanciai un’occhiata alla massa d’acqua scura in cui Faulkner era appena sparito. – Arrivo – dissi in un sospiro, i piedi premuti contro la parte bassa del parapetto per farmi forza e tornare sul ponte.
Era andato. Sparito per sempre.
E a malapena ce n’eravamo accorti.
– Sarà meglio, cazzo. – Sospirai. Non avrei mai potuto salvare Bob, nemmeno se avessi voluto. Per cosa, poi? Trattenerlo sulla testa, condannandolo a una vita che non voleva vivere? Non sono così cattivo.
L’ordine è frutto della consapevolezza. Gran bella frase, nonostante non avessi mai capito di preciso a cosa si riferisse. – Mi aspetto un aumento, come minimo. È la seconda volta che ti salvo la vita, oggi. – All’ordine inteso come ciò che cercavamo o alla Croce Templare in sé e per sé?
Oh, non aveva importanza. Era morto un uomo, maledizione.
Le sue ultime parole nascondevano la verità, in fondo. Non sapevo se fosse davvero stato chiamato dal mare, mi bastava che ne fosse convinto, che avesse agito in quel modo senza alcun rimorso.
Speravo solo fosse felice, dall’altra parte. – Dov’è Connor?
– Ah, non lo so. Comunque, ehi, grazie, Tom, per non avermi fatto diventare cibo per pesci. – Allargò le braccia in un cenno frustrato. – Non c’è di che, capo, anzi. Lasciamo perdere. Fa’ come se non avessi fatto nulla.
– Chiudi il becco – sussurrai, i pugni stretti in due morse lungo i fianchi. Drunk J, appeso all’albero come una scimmia, stava a guardare con gli occhi sgranati. Chissà se aveva mai visto qualcun altro andarsene, andarsene in quel modo, per di più. – Devo trovare mio figlio. Deve sapere che cosa…
Come se il mare avesse richiamato anche lui, la botola che portava sottocoperta si spalancò con un cigolio sinistro. Era una mia impressione o la tempesta si stava placando? Gesù. – Niente! – esclamò Connor, i palmi al cielo. – L’ho visto salire, ma non ho fatto in tempo a seguirlo. – E non stentavo a crederci. Cazzo, era successo tutto così in fretta. Mi tremavano ancora le gambe. – Dove…
Scossi la testa. I suoi occhi si sgranarono come sotto l’uso di qualche medicina troppo potente e si aggrappò all’albero lì accanto, rischiando di cadere in avanti e collassare su se stesso. Come se avessero svuotato il suo corpo di ogni cosa, sangue, cervello, vene e organi, tutto. Forse non era poi una teoria tanto assurda. – È andato – dissi tra i denti che fremevano. – Lui…
– Perché? – Aveva lo sguardo di chi ha perso tutto, forse lo stesso di quando gli avevano detto che Tiio era sparita, probabilmente morta. – Perché non l’hai salvato?
– Connor, io… – Che spiegazione potevo fornirgli?
Quando perdi qualcuno nessun incoraggiamento razionale riesce a calmarti. Non ci si accontenta mai del sermone che si riceve. Ricordavo la notte in cui Edward Kenway era diventato solo un corpo, come un suppellettile nella sua stessa casa, ma con una spada piantata nel petto. Era morto. Potevo dirlo anche io. Era stato il modo in cui ci aveva lasciato a spezzarmi. L’idea cieca che avremmo dovuto prevederlo, già allora, eppure nessuno aveva fatto niente per impedire che accadesse.
Cosa avrei potuto dire a quel ragazzo, eh? – S’è buttato. – È meglio così, ecco cos’avrei voluto dirgli. La verità, ma a nessuno piace sentirla. Specie in una situazione come quella. – Mi dispiace.
Sgranò gli occhi, due bottoni neri e lucidi dal pianto. – Che cosa vuol dire? – sussurrò. – Perché l’ha fatto?
– Lo sapevi. – Mi voltai di scatto verso Tom. Oh, quello non me l’aspettavo proprio. Si era persino staccato dalla cima per salvarmi, e ora addirittura consolava mio figlio? Diavolo, a volte pensavo di non sbagliare a riporre qualche speranza in lui. – Non ce la faceva più. La nave gli ha dato il colpo di grazia.
– Stai dicendo che è colpa mia?
Come non detto. Bel lavoro, Thomas. – Non sto dicendo niente, bastardo. – Ecco, mi pareva strano che ancora non avesse usato quel nomignolo. – Hai idea di cosa gli passasse per la testa?
– Perché, tu ce l’avevi? – Connor avanzò verso Tom, l’indice puntato verso di lui in un’accusa inflessibile. – Non ti sei mai preoccupato per lui. Pensavi solo a bere ciò che ti offriva, senza nemmeno…
– Andiamo, glielo si leggeva in faccia che un giorno o l’altro sarebbe successo!
Connor ammutolì. Allora se n’era accorto, dopotutto. – Lui… – Abbassò il capo di scatto e tirò su col naso come un bambino. – Lui…
– Gli faremo un funerale – dissi cautamente. – Renderemo un degno omaggio a…
– Avresti dovuto fare qualcosa!
– E che cosa, maledizione? – sbottò Thomas. Che diavolo, cercava di scontare tutti i debiti che aveva con me in un solo giorno? Ammirevole. – Non aspettava altro, bastardo. Che cosa pensi che facesse prima che lo imbarcassimo in questo simpatico viaggio di piacere, eh? Si ubriacava, piangeva! – Schioccò la lingua, le braccia aperte in un cenno frustrato. – Era un disperato!
– Non ti permettere! – Connor s’avvicinò ulteriormente a Tom, oltrepassandomi. – Non osare dire un’altra parola su di lui. Tu non lo conoscevi. Non l’hai mai visto quando…
Tom roteò gli occhi, poggiandosi una mano sul petto. – Per piacere. Io ho bevuto con lui. – Come un esperto intellettuale, sembrava non avere alcun dubbio sulla materia che trattava. – Conosco gli ubriaconi. Guarda uno di noi bere e vedrai la sua vera natura. – Oh, quindi Thomas poteva rispettivamente essere un senzapalle o un maniaco senza scrupoli. Bella teoria, la sua. – Quello vuotava ogni boccale come fosse l’ultimo della sua vita, te lo dico io.
– Non…
M’intromisi. – Basta così, Tom. – La giornata era già stata davvero divertente, ci mancava solo un’altra bella rissa sul ponte. Tra quei due, per di più. Su chi avrei scommesso? Su mio figlio in lacrime o su quella sacca di vomito di Tom? Casi disperati. – La tempesta si sta placando – mormorai, il viso rivolto al cielo che continuava a pisciarci addosso, incurante della fine che Faulkner doveva aver fatto. Sperai vivamente che i suoi abiti lo tenessero sotto la superficie dell’acqua. Vederlo galleggiare gonfio d’acqua e con la carne segnata dalle prime beccate dei gabbiani sarebbe stato troppo, perfino per me. – Torna al timone, ragazzo.
Tom sbuffò. – E io?
– Tu pensa a vomitare. – Avevo lasciato che un altro membro degli Assassini morisse. Mi sembrava di essere tornato ai tempi della caccia, quando ogni cadavere dei loro ci portava in vantaggio. Nemmeno allora vederli senza vita mi aveva dato chissà quale soddisfazione, se devo dirla tutta. – Penseremo a ricordarlo quando il cielo finirà di farcela addosso.
Gli poggiai una mano sulla spalla, guardandolo mentre continuava a tirare su col naso come una femminuccia, e lo spinsi gentilmente verso il cassero di poppa. – Mi dispiace – sussurrai, e Dio solo sapeva quanto mi sentissi uno stronzo a ripeterglielo. È una di quelle frasi di circostanza che non vuoi mai sentirti dire. Quante volte me l'ero sentito dire da Reginald?
Abbastanza da farlo sembrare sincero. Già.  
– È sempre così? – domandò con gli occhi lucidi di lacrime. Mi faceva un po’ pena, lo ammetto. – Quando qualcuno muore.
Vacillai. Perché quella domanda? Come se gli avessi mai parlato di mia madre, o di Jenny, Holden e mio padre, giusto per citarne alcuni. Come faceva a sapere che mi era morto qualcuno?
Un brivido mi riscosse, salendo dall’osso sacro fino alla punta dei capelli. Il mare, aveva detto Giunone. La terra dei tuoi antenati. Ricordati di loro. Modella le tue azioni sulle memorie. Su ciò che resta. Mio padre, senza ombra di dubbio. La morte di mio padre. Oh, Dio. Loro… sapevano, dunque. Be’, non era poi qualcosa di tanto difficile da prevedere. Ne avrai bisogno per aiutarlo. Per lui.
Perfetto. Quindi dovevo anche sopportare le lagne di mio figlio sulla morte. Oh, santo cielo. Prima i sogni in cui Ben mi rompeva le palle, e adesso mi toccava anche farmi prete, diventare un confidente? – È dura, se è questo che intendi. – Così va bene, Giunone? – Passa – dissi con un sospiro. – Passa sempre. All’inizio è strano. Ti chiedi come farai ad andare avanti, che cosa cambierà, o peggio, se tutto resterà come prima. Se lo dimenticherai. Non sai quanta paura faccia, dimenticare i morti. Hai sempre l’impressione che l’abbiano fatto per te, e la sola idea di lasciarli andare ti paralizza. Sarebbe come non dare da mangiare ai propri animali o ignorare un amico. La morte ci distrugge, e per questo cerchiamo di evitarla. Quando la vedi da lontano vuoi soltanto che se ne vada, saltelli un po’ di qua e di là per sviarla, ma quando è tanto vicina da sentirne il puzzo, quando ha appena strappato dalla terra una persona a te cara… Be’, allora hai paura che scappi. Pensi a chi è morto, non riesci a togliertelo dalla testa. “E ora? Ora che si porta via anche la sua anima? E io resto qui, da solo, mentre lui se ne va chissà dove? Che cosa succede?” Ti spaventa, fa gelare il sangue. “Mi odierà. Ce l’avrà con me per sempre.”
Presi fiato. Era una delle chiacchierate più lunghe che avessimo mai fatto, almeno da parte mia. Sui soliti argomenti allegri, per altro. Sembrava che i Kenway fossero accomunati soltanto dalle morti, quei momenti di cui eravamo così esperti.
Connor si voltò a guardarmi con gli occhi lucidi, la bocca stretta in una smorfia sofferente, come se gli stessero strappando un arto. – Ti è morto qualcuno?
Mi morsi le labbra. Dio, quel ragazzo non faceva che sorprendermi, di recente. Per di più non sapevo nemmeno cosa rispondergli. La mia vita era già abbastanza triste senza che sapesse la verità su tutto ciò che avevo dovuto subire. – A parte... lo sai. Mia madre.
Istintivamente sorrisi. Sempre che pensava agli affari suoi, e niente più. – A parte lei? – Scrollai il capo. – Un sacco di gente.
Si passò una mano sotto gli occhi, la testa scossa in cenno d'assenso. – Capisco. – Chissà che pensava. Forse secondo lui mi avevano allevato le fate delle sfavillanti campagne inglesi, magari insieme a qualche simpatico lepricauno. – Lo sai bene, quindi.
– Ho una certa esperienza in campo – brontolai, stretto nelle spalle con noncuranza. – Pensiamo a rimettere questa bagnarola sulla giusta rotta, d’accordo? A Bob penseremo quando le acque si saranno calmate.
Annuì, le mani già strette sul timone. Mi chiesi se gli fosse davvero rimasto qualcos’altro al mondo. – Mi mancherà.
– Anche a me. – Soprattutto la parte di lui che preparava grog e raccontava vecchie storie. – Sai, non l’ho mai trattato come fosse un Assassino. – Incrociai le braccia sul petto, poggiandomi cautamente alla ringhiera. – Credo di essermi sempre sbagliato sul suo conto. Non esisteva un uomo più fedele alla Confraternita di lui. All’idea originaria, a ciò che ci stava dietro, voglio dire.
– Lo so. – Prese un sospiro, lo sguardo fisso sul mare oltre gli alberi e il bompresso. Non avrei voluto essere nei suoi panni per niente al mondo. La mia parte l’avevo già fatta, in quanto a decessi. – Mi ha insegnato ad andare per mare e non gli è mai importato di chi fossi. A lui bastava che avessi uno scopo.
– Era un brav’uomo. – Sarebbe dovuto essere lui tuo padre. In questo momento saresti più felice, suppongo.
O più triste ancora. Connor chinò il capo. – Uno dei migliori.
Mi strinsi nelle spalle e gli rivolsi un cenno di saluto, allontanandomi lungo il ponte. Forse in quel momento dovevo restare con lui, ma non era un bambino. Che diavolo avrei dovuto fare, abbracciarlo? Dirgli che sarebbe andato tutto bene? Da parte mia sarebbe stato un consiglio da prendere con le molle, decisamente.
Eravamo stati addestrati per ucciderci a vicenda. Come sarei mai potuto essere un buon padre per lui, parlando sul serio?
Non avevamo alcuna possibilità. Dovevo fare del mio meglio con ciò che la vita mi aveva dato e, santo cielo, non era molto. Poco ma sicuro.
Mi appoggiai al parapetto, poco lontano dall’albero maestro, a guardare la pioggia che scemava lentamente dal cielo. La costa era svanita nelle nubi basse e nella nebbia, l’unica luce quella proveniente dal cielo cupo sopra di noi, quasi assente. Dov’eravamo? Non era rimasto più un solo uomo a bordo capace di orientarsi in mezzo al mare. Era quello il prezzo della nostra salvezza, un uomo? Scrollai il capo. Cominciavo addirittura a credere nella sorte, nel magico potere del mare e in queste stronzate da ragazzini. Che importanza aveva? Faulkner poteva essere morto, ma io no. E non avevo ancora rinunciato a Ben Church, per quanto la sua voce non smettesse di ronzarmi in testa come un insetto fastidioso.
– Quindi com’è che vi chiamate?
Trasalii, rischiando di finire un’altra volta oltre il parapetto. Drunk J. Quel mozzo mi avrebbe ammazzato entro la fine del viaggio, poco ma sicuro. – Ehi, ragazzo. Come…
– Quell’uomo, quello che si è buttato… – Rabbrividii. Lui sì che aveva piena compassione del povero Bob. Deficiente. – Vi ha chiamato in un altro modo.
Aggrottai la fronte. – E che nome avrebbe usato, di grazia?
– Ah, non lo so. – Drunk J si strinse nelle spalle. – Di sicuro non il vostro. Non ha detto Johnson. – Diavolo, per essere un mozzo non era nemmeno poi tanto scemo. Uff. Il mondo si stava capovolgendo quel giorno. Letteralmente.
– Si sarà confuso. – Dopotutto, quale vecchio rimbambito non è in grado di stare accovacciato in equilibrio sul bompresso di una nave in tempesta? Più fiducia nell’umanità, ragazzo mio. Più fiducia. – Sai, con l’età e tutto il resto gli anziani… – Roteai l’indice alla testa e mi strinsi nelle spalle, sperando che chiudesse la bocca una volta per tutte.
Che diamine, se non gliel’aveva serrata la tempesta quante speranze potevo avere io? – Capito. – Il ragazzino si passò una mano nei capelli e sbuffò. – Mi…
– Sì, lo so. Dispiace a tutti noi. – Per carità di Dio, non volevo più sentire parlare di morte, di Benjamin, di Faulkner o di chiunque altro. – Ora torna a fare il tuo lavoro. La Martinica è ancora lontana.
Annuì e se ne andò con una smorfia sconsolata in faccia. A dire il vero non avevo la più pallida idea di dove fosse quella maledetta isola, ma non m’importava. Speravo soltanto che per un paio d’ore, il tempo necessario a mettere fine una volta per tutte a quello stupido tifone, nessuno venisse a rompermi le palle. Forse Robert aveva fatto la cosa giusta andandosene. Si stava evitando un sacco di problemi. – Cristo – grugnii con una mano premuta sugli occhi. Avevo evitato il Mietitore un’altra volta, e solo grazie a Thomas Hickey. Non sapevo quale parte fosse più ironica. L’idea che Tom avesse davvero rischiato l’osso del collo per me mi metteva a disagio. Non mi piaceva avere debiti con le persone.
Pensavo fossero stati quelli a uccidere mio padre. Reginald l’aveva sempre aiutato nella sua attività, e in cambio lui che gli aveva dato? Nulla. Quindi si era preso la sua vita, il suo stupido libro sugli Assassini, i Precursori o qualunque cosa trattasse quell’affare, e mi aveva portato dalla sua parte.
Anche perché, d’altro canto, nessuno avrebbe potuto crescermi come un membro attivo della Confraternita. Per grazia di Dio, mia madre era sconvolta, di certo non avrebbe mai abbandonato casa sua per trascinarmi in mezzo alla Frontiera, a cercare Achille come due poveri idioti. Sempre che fosse già negli Assassini, all’epoca.
– Smettila di pensare, cazzo.
Aprii gli occhi con un grugnito. – Sarebbe come chiederti di smetterla con tutto quel vomito. – Vomito, alcool, puttane… Oh, ci sono un sacco di cose cui dovremmo mettere fine, io e te. – Come stai?
Thomas strofinò le labbra sulla manica e si strinse nelle spalle. – Per il mal di mare o per Bob?
– Entrambi. – Mi andava di sentire la sua opinione. Lo conoscevo da fin troppo tempo, sapevo che, fosse stato per lui, sarebbero potuti morire tutti, bastava che la sua così grande e immacolata coscienza non ne venisse toccata. Era assai più cinico del sottoscritto, per quanto mi piacesse fingere il contrario.
Non aveva una testa da Assassino, lui. – Sta meglio ora. – Prese un gran respiro, le costole schiacciate contro il parapetto della Señora, e risucchiò un po’ d’aria dalla bocca aperta. – Credimi.
Mi strinsi nelle spalle. Lo pensavo anch’io. – Il mal di mare, invece?                                                   
Tossì, gettando un lungo filo di bava nell’oceano scosso dalla pioggia. – Non hai idea di quanto vorrei maledire te, Church e la vostra stupida passione per le cazzo di barche. – È sangue pirata, Tom. Porta rispetto. Sorrisi appena, il capo inclinato da una parte. – Non voglio più sentir parlare d’acqua per il resto della mia vita.
– C’è anche il viaggio di ritorno.
– Me la farei più volentieri a nuoto. – Sollevò gli occhi al cielo e poggiò i gomiti sul parapetto, l’aria sognante. – Pensa alle sirene. Belle figliole con grandi tette e una voce da far impallidire il paradiso. – Arricciò le labbra in un ghigno. L’idea mi allettava, lo ammetto, e a pensarci non avevo mai sentito Tom usare parole così belle per riferirsi a qualcosa. Era lui il tipo d’uomo di cui avevo bisogno al mio fianco quando… lo sapete, no? Quando il passato faceva capolino e mi ripiombava addosso in tutta la sua allegria. – Un buon motivo per farlo, oltre al non viaggiare su questa zattera di merda. Allora, che voleva il ragazzino?
Aggrottai la fronte. – Chi, il mozzo?
Thomas annuì e mostrò i denti in un ringhio. – Drunk J. L’unica cosa con cui quel coglione può essersi ubriacato è il latte di sua madre – esclamò, prima di sputare in acqua tutto il suo disprezzo. – Gli faccio vedere io chi si ubriaca, cazzo.
Roteai gli occhi. A volte pensavo che in Tom ci fosse davvero qualcosa che non andava. Oltre a tutto il resto, intendo. Sembrava non riuscisse a stare mezzo minuto senza combinare qualche casino. Mi ricordava alcuni dei miei vecchi compagni d’arme, sempre a sparare e attaccare briga pur di non affrontare davvero ciò che stavano facendo. Uccidere innocenti.
So cosa state pensando. Io, un assassino a sangue freddo, mi permetto di far polemica sulla guerra? Stronzate da ipocrita.
Infatti non ho mai detto di essermi tirato indietro davanti a una rissa o a un attaccabrighe. Eravamo ragazzi, tutti quanti, e un motivo per prendersi a cazzotti si trovava sempre. Faceva sembrare l’intero mattatoio un filo più normale. Picchiarsi come si faceva per strada e nelle taverne, come li avevano abituati i padri.
Non ho picchiato nessuno prima dei quindici, sedici anni. Mi ero ubriacato, quella volta, e davanti a un vecchio che si ricordava di mio padre, della casa in piazza della Regina Anna, non ero riuscito a esitare. Non ricordo di preciso che disse, d’accordo? Forse che non somigliavo per niente al vecchio Edward Kenway, che se fosse stato vivo mi avrebbe preso a sculaccioni, qualcosa del genere.
Probabilmente non l’aveva mai visto all’Old Avery di Nassau. In ogni caso, ci pensò Reginald a menarmi quando tornai. Non ricordo di aver mai preso tanti pugni come quella volta. Di ceffoni, oh, Dio, nemmeno uno. Suppongo che per il mio adorato Gran Maestro non fosse necessario rovinarmi la faccia per insegnarmi la disciplina.
Scrollai il capo e lasciai correre quei ricordi. – Ha sentito Faulkner chiamarmi Kenway – sussurrai, chino per parlare con il mio tono più basso. – Non so perché diavolo l’abbia fatto, ma si è insospettito.
– Ah, non credo sia pericoloso. – Tom si mise eretto, una mano poggiata sulla mia spalla per tenersi in equilibrio. – Vado a bere qualcosa.
Sorrisi appena. – Per…
– Perché mi gira così. – Scalciò via una cima che gli intralciava il passo e proseguì nella sua dondolante passeggiata lungo il ponte, dritto verso la cabina. – Speriamo che sia rimasto qualcosa di intero, lì dentro.
Mi strinsi nelle spalle. – Puoi sempre contare sulle botti. – Scossi la testa, travolto dall’immagine delle riserve di rum in pezzi, mentre le provviste e i membri dell’equipaggio rimasti sottocoperta galleggiavano in quel piccolo mare alcolico ridendo come pazzi e facendo del loro meglio per ingollare e godersi il momento. Dio, fa’ che non sia così. Ci mancherebbe soltanto restare senza razioni.
– Sai, capo – sul volto di Tom si disegnò un ghigno sarcastico, – è esattamente ciò che mi piace di questi schifosi pezzi di legno. Le botti. – Schioccò la lingua, una mano sempre premuta sullo stomaco, come ad avvertire in anticipo che qualcosa sarebbe risalito a spezzare i suoi gloriosi discorsi. – A proposito, chiamami per il sermone. – Schiuse l’uscio della cabina e mi sorrise, portandosi la mano al petto. – Non mi perderei la vostra retorica per niente al mondo, Mastro Kenway.
Terminò la frase con una pernacchia e una fragorosa risata, dunque sparì alla ricerca di qualcosa da bere.
Reclinai il capo e puntai i gomiti contro il parapetto. Non sapevo dire se fosse colpa del mare, ma, diavolo!, sembrava davvero che tutti avessero deciso di sorprendermi durante quella traversata. Davvero, ancora oggi fatico a credere che Thomas conosca il significato della parola retorica.
Mi strinsi nelle spalle. Forse l’aveva solo sentita uscire dalle labbra di Charles. Sì, non potevano esserci altre spiegazioni.
Presi un gran sospiro. Forza, è di Tom Hickey che stai parlando.
– Ma che cazzo! – Sorrisi. Appunto. – Questi coglioni spagnoli bevono la stessa merda che ci appioppa Sua Maestà! – Thomas inclinò sulle labbra un’altra bottiglia di gin, scolandosi quel poco che le onde dovevano aver risparmiato, poi schioccò le labbra e scagliò il recipiente oltre il parapetto. – Ecco che ci faccio col piscio reale! Vaffanculo!
Sollevò una mano oltre le spalle e scese le scale che conducevano sottocoperta, inoltrandosi nelle viscere della nave senza smettere per un secondo di gridare bestemmie.
Mi voltai a guardare verso l’albero maestro, dove Drunk J, dalla coffa, doveva avere l’acquolina in bocca soltanto a guardare Thomas Hickey. I privilegi di essere un ospite, ragazzino. A essere sincero non seppi mai se il mio socio stesse fingendo per dargli fastidio o davvero fosse deluso dal gin. Di una cosa ero certo, sapete? Che avrei dato qualsiasi cosa per potermi ubriacare insieme a lui, ma avevo altre cose di cui preoccuparmi, come ringraziare la sorte per essere ancora vivo e, perché no?, prepararmi al sermone, come diceva lui.
Il sole fece capolino da dietro i grossi nuvoloni grigi, un disco luminoso che non vedevamo da troppo tempo. Pareva quasi finto, un beffardo scherzo del destino.
Se non avessi assistito alla morte di un uomo nemmeno due ore prima, avrei potuto definire quella come una delle migliori giornate trascorse a bordo della Señora. Almeno c’era il sole, no?
 
– Che fai, adesso ti metti a piangere?
– Sta' zitto.
Thomas schioccò la lingua e sghignazzò, gettandosi in gola un sorso scintillante di rum. Si era ubriacato, e me lo aspettavo, ma aveva addirittura deciso di essere presente a quella sottospecie di memoriale per Robert. Lui, che a malapena lo conosceva. Era un comportamento bizzarro, ovvio, e preferivo non indagare. Avevo intenzione di smettere con tutta questa curiosità riguardo la testa di Tom Hickey, ma ogni volta era più forte di me. Era sempre come se il funzionamento del suo cervello mi attirasse per il solo fatto di essere così ripugnante. Non lo capivo appieno e la cosa mi infastidiva. Tutto qui.
Comunque sia, lanciò un'occhiata alla sua bottiglia e diede di gomito a Connor con una gran risata. Sembrava che nessuno avesse intenzione di dire una parola. Ce ne stavamo in semicerchio davanti al bompresso – un luogo che mi fa venire i brividi ancora oggi –, spalla a spalla l'uno con l'altro senza che nessuno di noi tre si facesse coraggio e desse inizio al maledetto discorso che avrebbe messo fine a quella buffonata.
D'altronde credo sapessimo tutti a chi toccava prendersi quell'impegno. Per quanto stimassi Robert, io non ero certo un Assassino. Non era mio dovere. Per non parlare poi di Thomas, che conosceva Bob solo per gli sproloqui sul kraken e il grog. No. Se Connor fosse rimasto in vita tanto a lungo da diventare Mentore doveva almeno essere in grado di fare un discorso come si conviene, non soltanto di lagnare e scuotere le spalle come un bambino troppo cresciuto. – Allora? – bofonchiai con aria scocciata. Certo, io potevo anche essere un predicatore, ma non tiravo fuori i sermoni a comando. Anche se poi, ammettiamolo, i discorsi non hanno chissà quale grande utilità. Però mi sarebbe piaciuto averne uno al mio funerale.
Ricordavo fin troppo bene quello di mio padre. Reginald ne tenne uno dei più belli che abbia mai sentito. Se all'epoca avessi saputo la verità l'avrei ucciso proprio in quel momento, mentre fingeva di piangere un uomo che non aveva mai nemmeno rispettato. Mio padre non meritava una simile fine, e Birch non aveva alcun diritto di prendere la sua gloria. – Hai intenzione di restare zitto per sempre, ragazzo?
Un’altra cosa che rammentavo di quel funerale era il silenzio. Mia madre che piangeva piano, io con gli occhi troppo asciutti e pieni di brutalità per versare alcunché, i presenti impettiti, le labbra strette senza sapere bene cosa pensare dell’uomo che era appena stato calato nella terra. C’era serietà nell’aria, la quiete riservata agli uomini che, in un modo o nell’altro, verranno ricordati.
Sul ponte della Señora non c’era niente di tutto questo, anzi. L’equipaggio aveva continuato a svolgere il proprio lavoro come se nemmeno sapessero chi fosse Robert Faulkner. Non pretendevo che piangessero, ma, diavolo, era il loro capitano. Che mostrassero un po’ di rispetto. – Perché fanno così? – esclamai per sovrastare il rumore delle vele ammainate e le urla lanciate da un capo all’altro dello scafo dai marinai incazzati. Oh, se c’era qualcuno che doveva essere incazzato ero io. A quanto diceva il quartiermastro della nave avevamo a malapena oltrepassato il confine tra la Georgia e la Florida, quindi eravamo ufficialmente in terra spagnola. Fantastico. Peccato che mancassero ancora Dio solo sapeva quante miglia nautiche, e il rumore delle vele sfregate le une contro le altre, ammainate nel vento che continuava a sospingere lo scafo minacciando di farmi volare via il tricorno dalla testa, mi rendeva solo più nervoso.
Connor prese un respiro. – Intendi l’equipaggio?
– Già. – Oh, Dio, sta parlando? Stento a crederci. – Faulkner mi aveva detto di non aver mai subito nemmeno un ammutinamento.
– Finché l’Aquila ancora navigava regolarmente era così. Poi ha dato un taglio alle spedizioni, e i marinai non possono vivere anni e anni restando fermi. – Schioccai la lingua. Diciamo che Achille non voleva mantenere un intero equipaggio e avere già Robert sul groppone gli pesava a sufficienza. – La maggior parte degli uomini sono stati assunti apposta per questo viaggio. È normale.
Mi strinsi nelle spalle. – Sarebbe normale se facessero meno rumore.
– Lascia perdere. – Abbassò il capo, gli occhi lucidi di lacrime che, nonostante le insinuazioni di Tom, ancora non gli avevo visto versare. – Siamo qui per Faulkner. – Sì, ma potevo ringraziarlo con il pensiero anche dalla coffa, non era necessario riunirsi tutti come dei deficienti. Scossi la testa e affondai la testa tra le mani. Quel ragazzo ci era mai stato, a un funerale?
Tom, dal suo angolino, ruttò. – Bastardo – grugnì con la bottiglia di rum stretta in mano come fosse quanto di più caro avesse al mondo, – questo dovrebbe essere il momento in cui dici quanto il vecchio ubriacone ti avesse aiutato a superare le crisi adolescenziali e quelle altre cosette da ragazzina. – Sogghignai, il viso ancora coperto dalle dita. Mi parve addirittura di sentirlo coprire la parola “menarca” con un colpo di tosse.
Sbirciai cautamente mio figlio. Prese un respiro profondo e annuì, le mani giunte come in una preghiera. Mi tolsi il cappello dalla testa e, a pensarci ora, forse fu più che altro per impedire a quelle folate gelide di strapparmelo un’altra volta. – Robert Faulkner era uno dei migliori uomini che abbia mai conosciuto. – Annuii, sperando lo spronasse a continuare. – Un grande Assassino, coraggioso fino alla fine. Mi ha insegnato a tenere una nave.
Piuttosto male, avrei voluto aggiungere, ma suppongo non fosse il momento giusto. – Avrei dovuto fare di più per lui, e lo so, ma non è di me che volevo… – S’interruppe, la voce rotta da un singhiozzo. Tom ridacchiò, rischiando di strozzarsi con il rum. – La Confraternita degli Assassini non lo dimenticherà. Ha servito la nostra causa con onore e dedizione. – E un bel po’ d’alcool, direi. – Robert è stato un modello per tutti noi, e sono felice solo che… – tirò su col naso, – che sia finita come voleva lui. Riposa nell’oceano, ora. – Mi guardò come se cercasse un supporto. Aveva proprio scelto la persona giusta, lasciate che lo dica. – In un posto migliore.
Abbassammo il capo come di consueto. Ah, probabilmente avrei fatto un discorso migliore quando avevo dieci anni, ma, come aveva detto Giunone, lui non era me. Dovevo lasciarlo in pace, almeno durante il suo lutto.
Grazie a Dio Thomas non aveva quest’obbligo morale. – Bella roba, bastardo! – esclamò allungandomi la bottiglia. – Sai che ti dico, Faulkner? – Si allungò oltre il parapetto e si levò il tricorno, stropicciandolo tra le dita che non volevano sapere di restare ferme un solo secondo. – Mi dispiace – biascicò, – eppure ti sono fottutamente grato. – Si calò di nuovo il cappello sul capo con un gesto teatrale e si voltò di scatto a strapparmi il rum di mano. – Più bevute per me, no? Così impari a morire, figlio di puttana!
Mi strinsi nelle spalle. Suppongo che non avesse tutti i torti. – Andiamo, Tom, non fare l’egoista. – Dovetti staccargli le dita dalla bottiglia con tutta la forza che avevo, in una sfida fatta di strette e grugniti. Che razza di testardo. – Facciamo un brindisi.
– Come ti pare, predicatore.
Roteai gli occhi. E poi sono io quello immaturo. – A Bob Faulkner – esclamai levando il liquore al cielo. – Che possa la sua anima riposare in pace. – Buttai giù un lungo sorso di rum che mi scaldò fino al fondo dello stomaco, facendomi rizzare i peli sulla nuca. La porsi a Connor, che la strinse tra le mani come fosse una bomba. – Coraggio.
– Possa la sua anima riposare in pace – ripeté titubante prima di buttare giù un sorso che non avrebbe steso nemmeno un neonato. Fu così gentile da ripassarla a Thomas, pensate un po’.
– Niente discorso, capo?
– Niente discorso – replicai mentre gli voltavo le spalle. – Brinda.
– Riposare in pace? – Vidi con la coda dell’occhio le sue labbra che si arricciavano in una smorfia divertita. – Non c’è nulla di più noioso. Bobby, amico, spero che ti stia scopando la sirena con le tette più grosse che l’oceano abbia mai visto. – Sollevò la bottiglia e non potei fare a meno di sorridere. – Alla tua.
Lo lasciai a bere e mi ritirai sottocoperta, alla ricerca di un’amaca su cui fare un pisolino.
Diavolo, se avessi saputo che dopo la morte ci attendeva una sirena popputa con cui consolarci mi sarei fatto impiccare in quel vicolo di Boston. Un’altra delle occasioni mancate da aggiungere alla lista.
Qualcosa mi diceva che non avrebbero mai avuto fine. Non per me.  
In cinquant’anni ne avevo già contate fin troppe.

 

 

Angolo dell'autrice:
Okay. Okay. Questo capitolo è lunghissimo. Lo so. Lo so. Credo sia il più lungo che abbia mai piazzato, scusatemi. o.o
E, come al solito, alla fine ci manco solo io a scassare le balle. Già. LOL.
Allora, in realtà questa è una nota che avrei dovuto fare la settimana scorsa, ma me ne sono dimenticata.
O meglio, diciamo che me ne sono accorta poco dopo aver pubblicato e non avevo voglia di modificare il capitolo, eheh.
All'inizio di ottobre, tipo il nove, quest'infinita pippa mentale di long ha compiuto un anno dalla pubblicazione del primo capitolo.
Trecentosessantacinque fottuti giorni, ragazzi.
E 'sti cazzi, come si suol dire.
Grazie di tutto, per chi recensisce, chi legge, chi sclera insieme a me e chi apprezza tutto questo.
Siete persone fantastiche.
Spero restiate tutti fino alla fine, perché voglio conoscere le vostre reazioni (sì, amo leggerle *-*), ma vi ringrazio tutti, dal primo all'ultimo, per essere arrivati qui.
Vi voglio bene.
Scusate se ho rovinato tutto con questa... roba. :3
Skos.

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Capitolo 52
*** È di famiglia. ***


The wind was sweet and smelled of home,
The sea was rough and felt unknown.
[…]
Are we instrument of fate?
Or do we really have a choice?
– Woodkid, Boat Song.
 
The books that I keep by my bed are full of your stories,
That I drew up from a little dream of mine, a little nightmare of yours.
– Of Monsters And Men, Sloom.
  
Devo ammettere che il resto del viaggio passò nella monotonia, scandito da qualche scarica di pioggia e dai conati di vomito che Tom, di tanto in tanto, rischiava di versarmi addosso dall’amaca sopra la mia.
Fu per uno di quelli che, dopo più di un mese a bordo della cacciatrice spagnola, risalii sul ponte in piena notte. Provate a riprendere sonno dopo essere stati svegliati da un fiotto caldo di bile e residui di biscotti da navigazione – come se un nome sofisticato potesse renderli migliori di quanto fossero in realtà – dritto in faccia. Ricordava in maniera fin troppo fedele le cervella di un uomo, specie quando sono spappolate da un proiettile di moschetto. – Cristo santo, Tom! – sbottai al mio risveglio, colpendogli la gamba con un ceffone. Quell’idiota era tornato a dormire come se niente fosse, russando come un maiale, la pancia gonfia d’alcool all’aria e una bottiglia di grog che aveva annacquato di persona infilata sotto l’ascella. – Guarda che schifo.
Con la faccia che grondava vomito e i brividi a rivoltarmi lo stomaco salii lentamente le scale fino alla botola. Non credo sarei mai riuscito a trovare una botte d’acqua in mezzo a tutto quel casino, non senza risvegliare tre quarti dell’equipaggio. Mentre risalivo pensai alla fortuna che, la sera prima, mi aveva fatto togliere la camicia per paura di sentire troppo caldo. La faccia potevo anche lavarmela, ma per niente al mondo sarei andato in giro con i vestiti che puzzavano di vomito.
– Che ci fai qui?
Quasi trasalii sentendo la voce di Connor. Era tornato al timone, il posto che occupava prima della morte di Robert, e come allora non se ne allontanava mai. A dire il vero odiavo vederlo lì. Mi faceva pensare a mio padre. Non mi piaceva l’idea che il pirata mancato fosse lui, e al tempo stesso mi era passata la voglia di girare quella dannata ruota senza una meta precisa. Preferivo godermi l’aria del mare dalla coffa, i paesaggi. Specie sapendo che per zittire Drunk J bastava rubare un po’ di grog a Hickey o mollargli una gomitata tra le costole. Forse speravo di essere il primo ad avvistare Ben, da lassù, anche se l’idea cominciava a farmi un po’ paura.
Mi voltai a guardarlo, sperando che le lanterne della cacciatrice accentuassero l’aspetto terrificante dato dal vomito. – Sono il demone che vive sotto la tua amaca. Sono venuto a divorare la tua mente – esclamai con il mio miglior tono spaventoso. Davanti alla sua solita reazione roteai gli occhi, prendendo un po’ d’acqua da un barile abbandonato sul ponte.  
Mentre mi sciacquavo la faccia e il collo mi accorsi di guardarlo con un po’ di pena. Immagino che nessuno gli raccontasse storie del terrore prima di andare a dormire, quand’era piccolo. Ero io il figlio di Edward Kenway, quello addestrato a usare una spada fin da quando era stato grande abbastanza per reggerne una. Ora che ci penso, quelli erano gli unici momenti in cui mio padre e Jenny sembravano davvero andare d’accordo. Lei non si era mai tirata indietro quando c’era da spaventarmi. – Diavolo, sei mai stato un bambino o sei nato già come il tirapiedi quattordicenne degli Assassini?
Si strinse nelle spalle fasciate solo dalla camicia di tela grezza. Aveva appeso la giubba da Assassino al timone, e a guardarlo così sembrava quasi una persona normale. Non c’era niente in lui che tradisse l’appartenenza alla Confraternita. Perché aveva deciso di immischiarsi? Non poteva rimanere con il suo villaggio, neutrale e dedito a… qualsiasi cosa facessero in quelle capanne? – Le leggende Kanien’kehá:ka non avevano niente del genere.
– Gani-che?
– Mohawk, è… è la stessa cosa. – Sbuffò. Mi ricordò Tiio, come se non bastasse. Mio padre, la mia donna, certo, tanto ci sono abituato. – Spiegavano il significato delle cose, come le stelle, il vento e la natura.
Mi allungai verso le scorte d’acqua che ingombravano parte del ponte, sciacquandomi la faccia con un sospiro. – D’accordo – bofonchiai, – ma non c’era nessuna storia che raccontaste così, per il puro gusto di farlo? Senza uno scopo educativo?
Si grattò un lato della faccia. Le sue basette si stavano allungando in qualcosa di lontanamente simile a una barba, e guardandolo pensai che non avevo mai visto un ragazzo della sua età con così poco pelo sul viso. – Non so. Non riesco a ricordare. – Chinò di nuovo lo sguardo sul timone, sospirando tristemente. – Mi sembra strano che ti abbiano mozzato un dito. Dovreste andare d’accordo.
– Certo. Più d’accordo di così si muore. – Ovviamente non colse il sarcasmo.
– Anche il mio popolo diffida delle aquile.
– Pensavo che il tuo popolo fosse quello americano.
– Non mi stai nemmeno ascoltando, vero? – Scrollò il capo e tornò a fissare l’orizzonte con le palpebre pesanti mezze calate sugli occhi. – Dovetti fuggire in piena notte per andare dagli Assassini. Lo dissi solo a Kanen’tò:kon. Hanno sempre definito gli Assassini “Aquile”, e per questo non li apprezzavano. – Non che mi interessasse chissà quanto, ma, diamine, Faulkner era morto, e non avrebbe trovato nessun altro disposto ad ascoltare le sue stronzate sulla Confraternita a bordo di quella nave. – Per i Mohawk, quando un’aquila si poggia sul ramo dell’Albero della Pace è in arrivo un pericolo. Sono un cattivo presagio, mandate dagli spiriti.
Aggrottai la fronte e incrociai le braccia sul petto. – Be’, siete un po’ degli uccelli del malaugurio.
Mi scoccò un’occhiata sorpresa. – Noi? – Scrollò il capo. – Gli Assassini nutrono fiducia nell’umanità.
– Sì, ma avete tutte quelle strane credenze. Quella vecchia storia del Profeta, oppure la Prima Civilizzazione… – Mi strinsi nelle spalle. – Non sono poi molto confortanti, ecco.
Aggrottò la fronte con circospezione. – Non sono credenze. – Mi si avvicinò con i denti sbarrati, come se stesse per confessarmi un segreto che l’umanità aspettava da secoli. – Se non sbaglio le hai avute dentro la testa anche tu, no?
Non ho mai detto che non fossero vere. – Appunto. Voglio dire, se ne stanno lì, appollaiate nella tua mente a dire cose che non capisci, e non sai mai quando se ne andranno o quando torneranno per romperti le palle con i loro stupidi indovinelli. – Sospirai. Non mi piaceva parlare di loro. Avevo la netta sensazione che, a forza di nominarla, la Prima Civilizzazione fosse più facile da risvegliare. – La nostra vita è già abbastanza complicata senza questi spiriti provenienti da chissà dove.
Si strinse nelle spalle. – Come fai a sapere del Profeta?
– Me ne ha parlato Reginald.
– Ti ha anche detto che all’inizio si pensava fosse uno di voi?
Gli mollai uno scappellotto. No, guarda, era proprio sul punto di rivelarmelo, ma poi è arrivata l’ora della merenda e abbiamo smesso lì. Oh, Dio. – Lo dici come fosse stato uno qualsiasi. Era il Papa. – Sputai un grumo di saliva e catarro oltre il parapetto. – Rodrigo Borgia. Gran bella pagina buia per l’Ordine. – Avrei dovuto avercela con gli italiani, a pensarci. Non facevano altro che complicare l’esistenza mia e dell’Ordine da più o meno due secoli.
– Il… cosa?
– Massima autorità religiosa. – Sbuffai. – Achille non te l’ha insegnato?
Fece spallucce. – Forse non sapeva nemmeno lui che cosa fosse.
– Può darsi. – Gesù, mi era passata la voglia di parlare con lui. Non avevamo mai passato molto tempo insieme, ma la morte di Bob ci aveva soltanto allontanati ulteriormente. Vivevo con la paura di parlargli, il terrore delle sue accuse ad appesantirmi il petto.
Mi svegliavo in piena notte con la sua voce che mi rombava nelle orecchie e gridava che Faulkner era morto per colpa mia. Non riuscivo più a guardarlo allo stesso modo. C’era qualcosa di diverso in lui. Un’espressione priva di speranza e di passione, come se stesse facendo qualcosa di sbagliato ma vi fosse già troppo immischiato per lasciar perdere. Avevo sempre disprezzato l’ottimismo degli Assassini, ma d’altra parte era ciò che li spingeva a lottare. Con Robert, sembrava aver spezzato l’ultimo anello della catena che lo legava alla Confraternita.
Non mi piaceva vederlo così. Era pur sempre mio figlio. Chissà, una morte di troppo avrebbe potuto renderlo come me, solo decisamente meno spiritoso. – Che hai? – chiesi con un sospiro.
Scrollò di nuovo le spalle. Oh, Dio, ci mancava solo che si chiudesse in sé come una ragazzina nervosa. – Ragazzo, credi di avere qualcun altro con cui parlare dei tuoi delicati sentimenti a bordo? – Incrociai le braccia sul petto nudo e una folata di vento mi fece rizzare i peli sulla nuca. – Tom sta dormendo. Possiamo passare la notte a guardarci in cagnesco o usare questo tempo piacevole per… – Indicai prima lui e poi me con un cenno confuso della mano. Aprirci un po’, confessare quanto mi vuoi bene, oppure parlare della tua cotta segreta per qualche marinaio con i calzoni attillati e cose da signorina di questo genere. Presi un sospiro e distolsi lo sguardo. Tanto non te lo lascerò sposare, tesoro. No, no, voglio qualcuno che dia una dote un po’ più sostanziosa.  
– Credi che dopo tutto questo tempo sia facile? – ringhiò con le mani strette sul timone.
Ovviamente no. – Perché non ci provi e basta invece di sputarmi addosso lagnanze come una vecchia zitella?
Dici che dovrei sforzarmi di più? – Esattamente per questo. – Sbatté una mano sul parapetto e si allontanò dal timone di un paio di passi, lasciandolo ruotare placido nella corrente.
– Connor? – Lo afferrai per un braccio e lui si divincolò. Quasi mi prese con un pugno, e guardandolo pensai che uno di quei cosi avrebbe potuto fracassarmi la testa come fosse una noce. – Andiamo, Connor! Ti pare il modo di chiarire?
– Non c’è niente da chiarire! – Aveva gli occhi sgranati e le mani che penzolavano molli lungo i fianchi. Il mio sguardo si posò sulla vecchia cicatrice che gli avevo procurato secoli prima lanciandogli contro un sasso. Era mio figlio. Una parte di lui era cresciuta con me. Vivevamo a contatto da quasi dieci anni e quando ci parlavamo era per umiliarci, minacciarci di morte l’un l’altro o litigare, in qualsiasi caso.
Certo che c’era qualcosa da chiarire. – Connor... – Provai a parlarci, com’era mio dovere. – Per piacere. Questa storia di Bob ti ha sconvolto, posso capire, ma non risolverai niente in questo modo. – Mi sforzavo di essere gentile, per quanto guardarlo mi facesse imbestialire. C’era la testardaggine dei Kenway nei suoi occhi, quella che aveva spinto mio padre dall’altra parte del mondo per diventare un pirata e mi aveva convinto che uomini come Thomas Hickey e Charles Lee potessero cambiare per me. Era anche dentro di lui, innegabile. – Non devi tenerti tutto dentro. – Gesù Cristo, perché glielo stavo chiedendo? Da quando in qua avevo voglia di subire le sue chiacchiere?
Con il senno di poi, penso sia stata colpa della Prima Civilizzazione. Sì, insomma, tutta quella filosofia spicciola prima che Robert morisse sul fatto che Connor non era come me e avrei dovuto aiutarlo a superare quella morte non faceva altro che ronzarmi in testa ogni volta che restavo solo. Per questo bevevo. Per questo salivo sulla coffa insieme a Drunk J, alla ricerca di qualcosa d’interessante nell’orizzonte di acqua, scogli e beato nulla. Per distrarmi.
Una volta qualcuno mi disse che la vita è quel periodo di distrazione che corre tra un momento indimenticabile e l’altro. Indimenticabile. Termine che può rappresentare una disgrazia come l’avvento di Gesù in terra.
Non era quello il punto, in ogni caso. Distrazione. Passiamo tutta una vita cercando di distrarci dalla morte e da ciò che viene dopo, bla, bla, bla. Odiavo quel genere di discorsi, o meglio, li ignoravo sapendo quanto ci fossi immischiato. Sguazzavo dentro il perfetto esemplare dell’uomo che crede di non morire mai. Quando tutti tranne te iniziano inevitabilmente a cadere pensi che non sia più solo una questione di caso, o di destino. È la tua persona. Sei immortale. Non c’è niente che possa fermarti, quindi cerchi di pensare alla morte il meno possibile. Tanto non ha alcun potere.
Scrollai il capo. Stupida testa, sta’ zitta. – Connor?
– Che cosa vuoi? – Il ragazzo si prese la testa tra le mani. Forse era davvero sull’orlo di un baratro. – Si può sapere che cosa vuoi da me, Haytham?
Gli rubai il posto al timone e cercai di mantenere la rotta. Chissà, magari se non l’avessi guardato in faccia sarebbe stato più facile parlare. – Solo sapere come ti senti. – Dopotutto, Bob era morto quasi per causa sua. Ed era la prima persona che vedeva davvero morire davanti ai suoi occhi, sparire nell’oceano come un tonno al mercato del porto che compie un impossibile salto per tornare alla vita. Bella questa. Gliela potrei anche dire. “Lo sai, Connor, Bob non è morto. È tornato alla vita.” Che mucchio di stronzate.
Rimase in silenzio a strofinarsi i grossi pugni sugli occhi, un bambino nel corpo di un orco. D’accordo, non voleva parlarne. Mi toccava trovare un altro argomento di conversazione. Sembrava che con il passare del tempo ne avessi sempre meno, come se il mio cervello si stesse restringendo. Riuscivo a parlare di alcool, di Benjamin e di morti. Tutto lì. Qualsiasi altro argomento era troppo distante. C’erano cose che non vedevo da troppo tempo, quindi non sapevo nemmeno cosa dire al riguardo. Una famiglia vera, ad esempio, o una donna. Il semplice ricordo di qualcosa di piacevole era difficile da trovare, nella mia testa. Persino quando ero ubriaco. – Allora, sai dove siamo? – chiesi dunque. Era uno degli argomenti classici. Com’è il tempo? Come hai detto che si chiama quell’isola? Ah, capito. A proposito, adesso puoi parlarmi di Faulkner e smettere di comportarti come una vedova?
Ridicolo. – A grandi linee. – Connor fece spallucce. Ci eravamo lasciati alle spalle la Florida e le Colonie da meno di una settimana, e tenere il conto dei giorni in mare aperto era sempre più difficile. Ogni angolo era uguale all’altro. Se non avessimo avuto una bussola avremmo benissimo potuto vagare per mesi con una benda sugli occhi. Sarebbe stata la stessa cosa. Quella notte Dio solo sapeva come riuscisse a orientarsi. Si potevano intravedere un paio di isole e scogli frastagliati in mezzo al mare, ma niente di più. – Quella è Andros, la vedi? – borbottò nell’indicarmi una massa di terra verso prua. A dire il vero non vedevo un bel niente ma, diavolo, se aveva ragione Faulkner doveva aver fatto un buon lavoro con lui. Dopo dieci anni io non ero nemmeno riuscito a insegnargli come combattere decentemente. – Le Islas de Bajamar, o Bahamas.
La prima cosa che pensai fu “Oh, buon Dio, no, non di nuovo in territorio britannico, per carità”. Mi strizzai il naso tra le dita ed esplosi in un gran sospiro. – Bisogna cambiare la bandiera – dissi, scocciato come non mai. Quelle scaramucce politiche mi avrebbero ucciso, un giorno o l’altro.
Per la prima volta da molto tempo, Connor piegò le labbra in quello che poteva sembrare un sorriso. – Vorresti issare quella dei pirati?
Lì per lì sgranai gli occhi. Ero sconvolto per non aver capito una battuta – una sua battuta, per di più – e oltretutto davvero non avevo idea di dove stesse andando a parare. Pirati? Che diavolo c’entravano i pirati con quelle maledette isole? – È… è territorio britannico – farfugliai senza arrivarci. Mi sentivo come se avessi del fumo in testa. I pirati. Mica…
Oddio.
Lo ammetto, fui decisamente tardo. – Nassau – sussurrai con una mano premuta sulla fronte. Mi sentivo un perfetto idiota. Nella mia mente si riformò una vecchia immagine, un ricordo. Una cartina, una manciata di isole come briciole di terra gettate in pasto alle anatre, e il nome di quella dannata città scritto nella calligrafia elegante di Reginald. In alto, poi, c’era un altro nome, esattamente quello che mio figlio aveva sputato con pessimo accento spagnolo. Islas de Bajamar, e per quanto mi aveva detto Reginald – Dio, conosceva anche lo spagnolo? A quell’epoca sembrava che niente potesse sfuggire alla sua mente, maledizione – significava ‘isole del mare basso’. Non che me ne importasse chissà quanto. Cercavo solo di renderlo felice, orgoglioso, come certamente sarebbe stato mio padre – almeno nella mia testa – se fosse stato ancora vivo. Non associavo pienamente quelle parole a qualcosa di vero, d’importante. Mi stupiva aver lasciato l’Inghilterra, non sarei mai arrivato a pensare di partire e abbandonare l’Europa. Era fuori discussione.
Figuriamoci di passare per nientemeno che Nassau. – Oddio. – Il groviglio che avevo al posto del cervello non voleva saperne di districarsi, si avviluppava su se stesso e mi stava portando altrove, a quella notte di dicembre in cui mio padre era morto, al sogno in cui beveva felice in una taverna sconosciuta, a quel posto, l’Old Avery. – Chissà se è ancora lì – mormorai senza rendermene conto. Stavo perdendo il controllo. C’era qualcosa in quelle terre, in quel mare, che mi chiamava. Forse era questo che intendeva Faulkner. Era stata quella sensazione a portarlo giù. Mentre con una mano mi grattavo la guancia coperta di barba ispida e ingrigita, l’altra non riusciva a mollare il timone. Mi accorsi di tenere una postura diversa, all’improvviso. Allargai le gambe, allineandole con le mie spalle. Presi fiato e poggiai le quattro dita della mano sinistra sul legno, sentendolo come vivo sotto la pelle. Non potevo essere lì. Non potevo essere veramente lì. Era un altro sogno, per forza. Mi ero addormentato, immaginando tutto quanto. Connor, ragazzo, dammi un pizzicotto. Aggrottai la fronte nella notte. Libertalia era lì, un paio di scogli più in là. Sicuro. E sarei stato il primo a vederla.
– Haytham?
– È laggiù.
– Haytham, di che stai parlando?
Non capiva. O meglio, avevo dimenticato che non tutti vivevano all’interno della mia testa. – Libertalia – sibilai. Andiamo, come poteva non sapere cosa fosse? – È laggiù, da qualche parte.
Lasciò le braccia a ciondolare lungo i fianchi, come se stesse parlando con un vecchio demente. – Non avevi detto qualcosa sulla bandiera?
Giusto. Issa quella di Calico Jack. Scrollai il capo, chino sul timone come un cane da caccia. – Tira giù quella roba e prendi il vessillo britannico. – I termini marinareschi non erano mai usciti dalle mie labbra con tanta facilità. – È nella cabina. – Sputai sulle assi, conscio a malapena del suo sguardo sconvolto su di me. – A dritta. Forse un filo più a dritta.
– Sicuro di star bene, Haytham? – brontolò mentre calzava di nuovo la giubba da Assassino. – Sei già stato qui?
Non so perché, ma quelle parole mi fecero venire la ridarella. Scoppiai a ridere così forte che per poco non mi pisciai addosso lì, sul ponte della Señora. Suonava tutto così ridicolo. L’idea che lui non sapesse nulla nonostante Achille, nonostante Faulkner e nonostante stesse nella Confraternita da quando era solo un ragazzino. Non si era mai posto delle domande? Conoscendolo, direi di no. Non aveva mai pensato che avessi scelto quella strada facendo di testa mia?
Oh, Dio, no, perché mai? I Templari sono stupidi. I Templari la pensano così solo perché sono cattivi, e di sicuro io ero uno di loro solamente perché ero nato in quel modo, come fosse una malattia. Che caso disperato. – Cos’hai da ridere?
Tutto, avrei voluto rispondergli. Sei tu, e tutto ciò che ti frulla in quella testa piena di bandiere e altre idiozie. – Ragazzo, ti sembra che io sia mai passato da queste parti? – Emisi l’ennesimo risolino prima di concentrarmi di nuovo sull’acqua, su quanto vibrasse sotto di me. Non era per niente come il mare delle Colonie. Era trasparente, limpido. Vi si riflettevano le stelle, in quell’acqua. Meglio del rum, del grog e del gin – quello buono – messi insieme, meglio di qualsiasi scopata, omicidio o bacio mai dato.
Era l’alba del sangue pirata che mi bruciava nelle vene, il sangue che disprezzava il clima di Londra e la mitezza del Tamigi, che si era risvegliato davanti a una spada e un uomo pronto a portare via la mia vita e quella di tutti i miei familiari per uno stupido libro.
Era mio padre. Edward James Kenway. Si poteva respirare, quasi. Udivo la sua risata nel vento, sapevo che in quel mare c’erano i suoi occhi e viceversa. Come poteva essere tornato a casa? Come poteva Jenny averglielo fatto? Non era… Mio padre non era fatto per l’Inghilterra.
Se fossi rimasto lì… forse sarei stato un Assassino, o nemmeno sarei nato. Lui non avrebbe mai incontrato mia madre, né Reginald. Niente di niente. Dio, papà, sai come farmi sentire in colpa. Quella terra, quell’angolo di oceano era Edward Kenway quando ancora non si preoccupava di avere un Credo o una famiglia. Era la libertà che qualunque uomo cerca. Arbitrio, oro e acciaio. Con un po’ d’alcool. Rappresentava la parte di mio padre che avevo visto solo in sogno. Quella più egoista, spavalda e divertente.
Più simile a me.
– Mio padre – riuscii a sussurrare con una specie di groppo in gola. Andiamo. Era il mio vecchio. Devo smettere di fare la ragazzina, perdio. – Lui…
M’accorsi solo in quel momento che stava scendendo dall’albero con agilità, fin troppa per uno della sua stazza, e di nuovo mi venne da ridere. Quel mare mi prendeva alla testa, mi annebbiava la vista e confondeva il mio cervello. Come il vino. Meglio. – Ehi! – berciai mentre evitavo qualche spuntone di roccia come se lo facessi da una vita. – Sai che non è educato mollarmi a metà di una conversazione?
Si strinse nelle spalle. – Già. Forse Achille ha saltato le lezioni di galateo mentre pensava a infilarti in testa l’odio nei miei confronti. – Non ebbe niente da ribattere, quindi proseguii. – Dicevo, io non sono mai stato qui. Sai chi c’è stato, invece? Chi ci ha praticamente vissuto?
Scrollò il testone come un cavallo cocciuto. Ve l’ho detto che era un caso disperato. – Tuo nonno – dissi con il petto gonfio d’orgoglio. – Edward James Kenway. Mai sentito?
– No – brontolò senza un minimo di entusiasmo. Sembrava uno jäger, freddo e letale. – Era un marinaio?
Che Dio m’aiuti. – Marinaio? – Strinsi i denti. Quel ragazzo stava consumando la mia pazienza, già bruscamente calata quando Thomas mi aveva vomitato in faccia. – Diavolo, Connor, mio padre era un pirata.
Con la coda dell’occhio lo vidi curvare impercettibilmente un sopracciglio. Toh, ma guarda un po’. Allora qualcosa ti scalfisce, ragazzo. – Un pirata?
– Capitano della Jackdaw, nello specifico. E vuoi sapere la cosa più bella? – Sorrisi nel pregustare la sua reazione alla notizia della serata, ma che dico?, del secolo. – Era un Assassino.
– Cosa?
Oh, sì. Non c’era niente che potesse darmi più soddisfazione del suo viso spaccato, la bocca aperta in una o istupidita davanti alla gelida consapevolezza di non sapere tutto, anzi, di non sapere nemmeno l’indispensabile. – Hai capito bene. Sono il figlio di un Assassino, niente più e niente meno.
– Allora cos’è successo?
Cazzo. Quella non me l’aspettavo. – Insomma… – Mi mordicchiai le labbra mentre riempiva il silenzio con spiegazioni inutili. Sapevo benissimo a cosa alludesse. – Ti avrà cresciuto con delle idee, qualcosa… Come… Com’è possibile? – Come ha potuto permetterlo?, ecco cosa voleva dire. L’acqua scintillante dei Caraibi sembrava ridere. Ridere della mia sfortuna, guardandomi in faccia con lo sguardo caloroso dell’ubriaco senza alcuna vergogna.
– È morto – ammisi. Non se lo ricordava? Eppure gli avevo detto di aver visto morire un bel po’ di persone. Che pensava, che fossi nato sotto un cavolfiore? – È stata la seconda persona che abbia mai visto morire. – Tra quelle di cui m’importava qualcosa, naturalmente.
Si lasciò cadere sulla botte d’acqua che avevo usato per sciacquarmi la faccia e sospirò, gli occhi volti a babordo. – Mi spiace. – Sono commosso. – La prima chi è stata?
Serrai i pugni sul timone mentre l’oceano continuava a ridere. Non mi chiese se avevo voglia di parlarne o preferivo restare zitto. Poteva tacermi i suoi sentimenti su Robert, ma io non avrei dovuto esitare davanti alla prospettiva di rivivere per l’ennesima volta quella terribile notte.
Non credo pensasse di farlo per me, per alimentare il mio ego. Non gliene fregava niente. Voleva solo sapere come avevo potuto compiere uno sbaglio così grosso. Accipicchia, diventare un Templare. Era come il peccato originale, forse peggio. Avevo infangato la memoria di mio padre scegliendo il Male per eccellenza. Oh, e pensare che potevo diventare una brava persona in tenuta bianca, con un bel cappuccio calato in viso e la testa piena di stupidaggini – scusate, mirabolanti verità rivelate – su quanto la libertà fosse bella e dovuta al genere umano.
Dovevo avere qualcosa che non funzionava, sotto quei capelli.
Sbuffai. – Tom Barrett, il nostro vicino di casa. – Un’altra persona che non volevo ricordare. Il fatto che sapesse di mio padre, il suo comportamento da amico nei miei confronti… Tutto non faceva che rendere la storia più dura da mandare giù. – Avevo dieci anni. Morirono nella stessa notte. – Non si scompose. D’altronde, doveva avere più o meno quell’età quando aveva creduto di vedere sua madre spirare tra le fiamme del villaggio.
Omisi un paio di cose. Per esempio non dissi nulla a proposito di Thatch, il bracco di mio padre. Era stato lui a morire per primo, quella notte, a pagare per i desideri di Reginald e di quello che sarebbe stato il mio futuro Ordine. Dio, quanto teneva a quel cane. Quando ero solo un bambino sparivano per giorni interi, e mia madre non diceva nulla in proposito. Spesso la coglievo a storcere la bocca con aria contrariata, lo sguardo perso fuori dalla finestra.
Un giorno gli chiesi di portarmi con sé in quei misteriosi viaggi. Scoprì che si rifugiava in Galles, la sua agognata terra natale, sperando che sua madre spuntasse da dietro un angolo con le braccia aperte e il perdono nel cuore, o, almeno, così mi disse.
Perdono per cosa? Non mi fu mai dato saperlo. Restammo lì per un paio di giorni, e ricordo che mio padre ordinò una pinta di birra solo per annusarla e guardare come il liquido ambrato dondolava nel boccale. Qualunque altro bambino si sarebbe annoiato davanti alla prospettiva di un pomeriggio del genere, in un mondo che non conosceva e non era interessato a conoscere, ma io sapevo che mio padre aveva con sé le spade per allenarci. Diceva che quella terra lo rinvigoriva e, a pensarci ora, forse era solo un modo gentile per dire che casa sua – la sua vera casa, la terra natia – gli riempiva il cuore di rabbia per quel qualcosa che non gli era mai stato perdonato.
E poi, be’, qualunque cosa mio padre dicesse era come oro colato per il sottoscritto. Non avendo nessun amico né altri modelli maschili pensavo che da grande sarei stato come lui, né più né meno.
Non avete idea di quante notti passai senza dormire, pensando che il mattino dopo mi sarei svegliato con i capelli biondi e gli occhi azzurri, più alto, più uomo. Fantasticavo su come avrei salutato Jenny. Una spada al fianco, la camminata spavalda e lo stesso sorriso di mio padre quando tirava fuori una battuta, pronto a farle vedere chi era troppo basso per capire.
Lo ereditai lo stesso, comunque. Il sorriso dei Kenway, intendo.   
– Immagino che avessi paura. – Mi riscossi per un attimo da quei ricordi, scrollando le spalle con aria noncurante. Certo che avevo paura. Cazzo, avevano appena ammazzato il figlio dei miei vicini di casa, un bambino innocente. Allora non ci pensai, non sul serio, ma niente avrebbe impedito loro di tagliarmi la gola mentre dormivo o afferrarmi per la vestaglia e uccidermi, impilato su una spada come un qualsiasi pezzo di carne. Ero un bambino, niente di più e niente di meno. Addestrarmi con un’arma di legno non mi rendeva migliore, né m’allontanava chissà quanto dalla morte.
– Già. Misero a soqquadro tutta la casa e ammazzarono mio padre nella stanza in cui mi addestrava. Davanti ai miei occhi. – Un altro dettaglio che non doveva colpirlo molto, data la sua esperienza. Se non avesse avuto la fortuna di non vedere davvero Tiio morire in quell’incendio avrei detto che la nostra vita non era stata poi tanto diversa.
Connor si grattò la testa, come stanco di tutto ciò che lo circondava. – Templari?
Davvero ti sembriamo così idioti? – Erano mercenari. – Non persi tempo a spiegargli che sarebbe stata davvero una mossa stupida mandare dei membri dell’Ordine che avrei potuto riconoscere a uccidere mio padre, se Reginald aveva già l’idea di farmi passare dalla sua parte. Sarebbe stato inutile. – Allora non sapevo che mio padre fosse un Assassino. Me lo raccontarono in seguito. Si portarono via mia sorella, e mia madre era… devastata. – Oh, non esisteva un termine migliore. Lo sguardo che le si spiaccicava in viso ogni volta che mio padre spariva in Galles divenne una costante nella nostra vita. Io non riuscivo a vederla in quel modo, e avevo perso ogni svago. Ero bloccato in una casa che nemmeno mi apparteneva, e la sola idea d’impugnare ancora un’arma mi faceva singhiozzare silenziosamente, chiuso nella mia nuova camera. Uscire? Non se ne parlava. Per essere additato come un sopravvissuto, il figlio di quel pazzo che aveva quasi fatto saltare la piazza della Regina Anna, sì, insomma, avete capito, no?, quello che fino a vent’anni fa razziava le navi e ammazzava i valorosi servitori di Sua Maestà? Credo non ne valesse la pena.
L’unico capace di distrarmi era Reginald. – Lei decise di mandarmi via. Reginald Birch all’epoca era un grande amico di mio padre. – Sentii la soddisfazione pizzicarmi il petto davanti alla sua espressione sbigottita. Sapevo che questa parte ti sarebbe piaciuta. – Oggi come oggi non so dire se lei sapesse qualcosa di Assassini, Templari e simili, ma c’erano solo due alternative: diventare una dama di compagnia o seguirlo e imparare qualcosa.
– Anche se era la cosa sbagliata?
Roteai gli occhi. – Achille non ti ha detto che abbiamo lo stesso scopo?
– Non è affatto la verità – ringhiò con le braccia incrociate sul petto. Sembrava un prigioniero che non vuole saperne di spifferare tutto ciò che sa ai suoi carcerieri.
– Davvero? Mi stai dicendo che non vuoi sapere cosa nasconde quel Tempio o che cosa sia capace di fare la Mela? – Un sogghigno mi salii spontaneamente sulle labbra.
– Non era di quello che stavamo parlando!
…d’accordo, d’accordo, per una volta aveva ragione. Mio padre, mia madre, i cadaveri che costellavano la mia vita. I Templari. Ecco di cosa stavamo parlando. – Comunque sia – ripresi con uno schiocco di lingua, – decisi di seguire Reginald. Ci trasferimmo in Francia e m’insegnò tutto quello che gli sembrava lecito farmi sapere. Cose da Templari, lo sai, no? La consapevolezza, guardare il mondo per ciò che è. Il problema… – Sospirai. Era stato davvero un grosso problema, qualcosa che Reginald all’epoca non aveva nemmeno notato ma mi aveva reso parte del grande piano della Prima Civilizzazione. E del suo, dunque. – Mio padre mi aveva insegnato a pensare come un Assassino. Non so di preciso perché continuassi a farlo. Forse era una specie di ribellione ai metodi di Birch. – Togli quel forse. Sai benissimo che era così. – Una delle regole d’oro di Edward Kenway era pensare con la propria testa, e continuai a seguirla.
Aggrottò la fronte. – Sempre? – chiese con aria stupita.
– Quasi. – Non lo facevo nemmeno prima, a dire il vero. Mio padre avrebbe potuto dirmi che le armi sono fatte di pezza e io gli avrei creduto, anzi, avrei portato la sua parola in giro per il mondo.
– E con Birch? Come facevi?
Mi strinsi nelle spalle. Razza d’ingenuo. – Mentivo – risposi con un sorrisetto. – Semplice.
– Oh. – Si sbigottiva per un niente, mio figlio. Lo vidi grattarsi la mascella con una smorfia perplessa in volto, il labbro inferiore sporto e l’altra mano a grattarsi la nuca. – E questo cosa c’entra?
– Come, cosa c’entra? – Non ci credo. Oltre che ingenuo è pure stupido?
– Con Nassau. Quella… – Puntò una mano verso l’orizzonte davanti a noi in un gesto approssimativo. – Quello che hai detto prima, ecco.
Mi sbattei una mano sulla fronte. Nassau. Giusto. Da lì eravamo partiti. Da Nassau. – Prima di diventare un Assassino e un rispettabile gentiluomo inglese, il mio vecchio bazzicava in queste acque.
Annuì. Forse se l’era aspettato, chi lo sa. – Per conto del Re, suppongo. – Mi scoccò un’occhiata carica di ribrezzo. Buon Dio, il fatto che fossi stato nelle giubbe rosse non v’infilava anche mio padre. – All’inizio. Era forse un… com’è che si dice?
– Corsaro? – sibilai con rabbia. – Nah. Non che io sappia, almeno. – Erano così tante le cose che non sapevo di lui. Usavo quel po’ che conoscevo come fondamenta per averne un’immagine più reale. Ricordarlo come un Assassino non mi piaceva affatto.
D’altronde, già che ci pensavo, non  avevo mai visto un altro membro della Confraternita dalle nostre parti, non avevamo niente in casa che potesse lasciar capire ciò che mio padre era in realtà. Allora come diavolo faceva Reginald a saperlo? Era stato lui a dirglielo?
Oddio, ma perché stavo parlando di mio padre al ragazzo? Mi mandava in confusione. Tutto… Niente. Mi passai una mano sulla fronte, cercando di calmarmi. Mio padre aveva un libro. Un libro sui Precursori, vecchie storielle che a Reginald erano sempre interessate. Dunque? Si erano ritrovati per caso a parlare di Coloro che Vennero Prima all’ora del tè?
Oppure… – Ah, Cristo santo. – Non riuscivo a raccapezzarmi. Ricordavo che Birch aveva indovinato – indovinato? Davvero? Chi poteva dirlo? – il punto esatto in cui tenevamo la mia spada. Forse lì, proprio dietro quella stupida scatola di legno, c’era il libro.
Idiota.
Che razza di idiota ero stato? – Oddio…
– Ti senti bene? – No, Connor, no, non mi sentivo bene per niente. Proprio per niente. Reginald era tornato in casa per prendere la spada. Aveva avuto tutto il tempo del mondo per rivoltare casa da cima a fondo e scovare ciò che cercava. Come faceva a sapere che mio padre era un Assassino?
Facile. Cristallino. Lo sapeva Jenny.
L’affetto che mi veniva spontaneo provare dopo la sua morte sparì, sostituito da un’ondata di rabbia e rancore. In quel periodo lei e Reginald sembravano due sanguisughe. Immagino non fosse stato troppo difficile estorcerle un paio di informazioni sulla vita precedente di mio padre, pirateria compresa. Quand’era nata lui vagava ancora per i mari sulla Jackdaw, certo. Logico, da una parte. Al fratellastro ignaro non avrebbe detto una parola, ma perché non spiattellare la verità al socio di suo padre, forse il primo uomo a prestarle davvero delle attenzioni? Era piombata nella vita di Edward Kenway all’improvviso, senza nemmeno conoscerlo e strappandolo dal suo vecchio lavoro. Si sentiva un peso.
Mi venne un brutto istinto, lo ammetto, praticamente animale. Emisi un grugnito di gola, come il verso di un gatto nervoso, e provai la voglia selvaggia di tornare a casa, trovare la sua tomba e svuotarla a mani nude per prendere ciò che restava delle sue schifosissime ossa e farle a pezzi. Il desiderio era tanto forte da colmarmi il petto, come se qualcuno da dentro volesse sfondarmi le costole una a una e farmi scoppiare il cuore dalla rabbia. – Haytham?
Oh, tu, no, adesso che cazzo vuoi? Lasciami in pace. Devo girare questa roba. Devo tornare a casa. Devo pisciare sul suo corpo mangiato dai vermi. La odio. – Haytham? – La odio. Come fai a non capire? Sta’ zitto, d’accordo? Io devo…
No, no, no, quella era Jenny. Jenny, maledizione, mia sorella. Senza di lei non avrei mai saputo che Reginald aveva spezzato la mia famiglia, sterminandola come una colonia di parassiti. Jenny Kenway. Una maledetta stronza. No. Jenny mi voleva bene. Che dici? Jennifer Scott-Kenway. Lei e il suo cognome altezzoso del cazzo. Era mia sorella. Era...
– Haytham!
Certo. Era quella che mi aveva dato del pazzo quand’ero bambino per non aver evitato che un uomo le facesse del male in un vicolo, la ragazza che mi considerava sempre inferiore. Eppure era la mia famiglia. L’avevo salvata, no?
In nome di cosa?
Perché era tutto ciò che restava, ecco. Allora come oggi, volevo soltanto una famiglia unita. Che fosse quella della casa in cui ero nato, quella che mi sarei dovuto costruire nelle Colonie – Tiio, quanto mi dispiace – o l’Ordine stesso.
Volevo essere felice, maledizione. Normale.
– Haytham!
Sentii il mento impattare contro il timone con lo schianto delle ossa rotte. Connor emise uno strillo da ragazzina e mi prese per una spalla, come a volermi trascinare via da lì. – Cazzo! – biascicai con le labbra che grondavano sangue. Mi ero morso la lingua nella botta. – Che è successo?
Non c’era bisogno di chiederlo, a dire il vero. Mezzo equipaggio si stava sbracciando a prua, gridando cose che non riuscivo a capire. – Che è successo, Connor? – domandai nuovamente, dato che il fischio nelle mie orecchie era troppo forte per permettermi di seguire ciò che stava succedendo.
Stava arrivando l’alba e il mare si era tinto di azzurro, il colore degli occhi di Jenny. Più scuro e insignificante di quelli di mio padre, scuro e insignificante, come la sua personalità. No, no, torna indietro. Non lo pensi veramente. Dio benedica la morte di Jenny, perché giuro sulla mia vita che se in quel momento fosse stata viva, magari a vivere la sua maledetta terza età al sicuro, in Inghilterra, mi sarei tuffato e avrei nuotato fin lì pur di ucciderla.
Un po’ com’era successo davanti a William Johnson, ecco. Stavo perdendo il controllo. – Dimmi che cazzo è successo! – berciai con gli occhi stretti e la lingua che continuava a perdere sangue in bocca. Pulsava, sembrava il ticchettio di uno schifoso orologio. Mi stava consumando.
– Hai preso uno scoglio. – Mi lasciò andare all’improvviso, gli occhi sul bompresso. – Vira.
– Lo so! – Io sono un Kenway. Come ha potuto? Come… A pensarci ora, dopo tutto ciò che è successo, mi viene quasi da ridere. Non sapevo nemmeno se fosse andata davvero in quel modo, ma era l’unico scenario plausibile che mi fosse venuto in mente.
Non che avesse importanza, allora. Pensavo che avrebbe sempre potuto dirmi la verità nell’oltretomba. Strinsi il timone con più forza, le nocche sbiancate, e virai lentamente, le vele tirate giù a metà e un’ostentata sicurezza di me stesso. Ero il figlio di Edward Kenway, il sopravvissuto, non come quella stronzetta di sua figlia, che per tutta la vita aveva solo lagnato come una poppante per poi tradirlo miseramente. Mi aveva fatto una specie di terzo grado quando le avevo detto di essere diventato un Templare. Jenny che scusa aveva? Lei se lo stava per sposare, Reginald.
Dovevo portare alto l’onore di mio padre. Dovevo…
Vaffanculo, dovevo bere. – Tieni qua – dissi tra i denti stretti, ma il timone non glielo mollai. Ero appena riuscito a staccare la prua di quella maledetta cosa dalla roccia affilata che affiorava mezzo metro sopra il pelo dell’acqua. – Vammi a prendere del rum – brontolai un attimo dopo, facendo cenno a un marinaio di calarsi per esaminare i danni. Pregai che non ci fossero falle. Avrei potuto giustiziare l’intero equipaggio davanti a una notizia del genere.
– Ma non mi stavi raccontando di…
– Vammi a prendere del rum e poi ne parliamo. – Non riuscivo a dire che cosa m’irritasse di più, se lui, Jenny o semplicemente la mia testa. – Per favore – aggiunsi a mezza voce. Non credo mi sentì.
– C’è a malapena un graffio! – sentenziò qualche idiota dalla prua. Che meraviglia. Due terzi dei marinai che erano arrancati fin sul ponte se ne tornarono giù brontolando insulti alla mia figura, ma pensai che fosse meglio così. Non li volevo in mezzo ai piedi. Non volevo nessuno, a dire il vero.
Jenny e mio padre mi torturavano da sveglio e appena chiudevo gli occhi li riaprivo per la paura di vedere Ben. Non potevo andare avanti in quel modo. Non era sano. Non era… – Tieni. – Connor mi passò la bottiglia con un grugnito scocciato, dunque incrociò di nuovo le braccia. – È tutto a posto?
Annuii piano, scuotendo la testa. – Che ti stavo dicendo?
– Che tuo padre era un corsaro. – Oh, già. Papà. Ecco da dov’era partito tutto. Edward Kenway. – Era davvero così?
Mi strinsi nelle spalle. – Te l'ho detto, era un pirata. Ha passato un bel po’ di tempo a Nassau, laggiù. – Indicai una delle isolette oltre gli scogli, senza sapere nemmeno se fosse davvero New Providence. – La chiamavano Libertalia, all’epoca. La terra della libertà.
Fece sì con la testa come un agnellino. – Adesso è solo un covo di giubbe rosse – brontolò con la testa incassata nelle spalle. – Dovremmo…
– Oh, no, io e te non dovremmo niente di niente. Non pensarci nemmeno. – Sputai un grumo di sangue e saliva sul cassero di poppa. – L’ultima volta che hai cercato di osannare il governo di George Washington abbiamo perso solo un mucchio di tempo.
– Le storielle sono finite? – Per un attimo sembrava quasi sarcastico. Forse quell’aria faceva bene anche a lui. – Peccato. Mi è sempre piaciuto il mare, sai? Non ho mai pensato che fosse di famiglia.
Dio, che ragazzo noioso. – Già. Sorpresa. – Lanciai un sospiro. Probabilmente a lui piaceva il mare come a me piacevano le donne. Passioni che nessuno dei due era mai riuscito a coltivare sul serio. – L’ho scoperto insieme a Faulkner. Che mio padre era un pirata e tutto il resto.
– Ah.
– Eh, sì. – Uccidetemi. – Aveva una specie di registro con i nomi di tutti i pirati del secolo. In ordine alfabetico, pensa un po’. Nome, nave e… sì, anni di servizio. – Stupide isole del cazzo. Se solo Connor avesse preso una rotta diversa, senza passare dalle Bahamas, probabilmente non avrebbe mai saputo niente.
Il problema era che mi sentivo in debito con il ragazzo, d’accordo? Sì, insomma, per Robert e tutte le cose che aveva detto la Prima Civilizzazione. Tutto ciò che desideravo quando avevo perso mio padre era qualcuno che mi capisse. Non mi andava giù che anche lui continuasse a vivere con il vuoto nel petto che ti lasciano le morti. Sapete, no? Una specie di vortice che ti divora dall’interno e ti consuma per il dolore di aver lasciato andare una persona cara senza nemmeno la possibilità di salutarla. Era già abbastanza sentirla pulsare dietro i miei occhi ogni mattina, non avrei sopportato di vederla in qualcun altro. Specie se potevo evitarlo. – Mi dispiace per Bob, Connor.
Sospirò. – Lo so. – Abbassò gli occhi e strinse le spalle, tutto sconsolato. Dio, per carità, fa’ che non mi chieda di abbracciarlo. – Davvero, Haytham, è sempre così difficile?
Feci spallucce. Chissà, magari quando sarei morto io non avrebbe fatto una piega. – Dipende. A volte col passare del tempo fa meno male. – Non è vero. Non è affatto vero. Holden… Serrai la mascella con uno schiocco doloroso.
– Dimmi la verità.
Sbuffai. – Dovresti provare per saperlo. – Non volevo essere cattivo con lui, era soltanto la verità. Ognuno ha il suo modo di reagire alla morte. – Sembri un ragazzo forte. – Non l’avevo mai visto scoppiare in lacrime come il sottoscritto. Era diverso. – Che hai fatto quando è morta tua madre?
– C’era il villaggio. Bisognava ricostruire tutto, avevamo più cose da fare. – Connor fece una strana smorfia, come se non ricordasse con esattezza quei tempi. – Ero solo un bambino. A volte non pensavo nemmeno che fosse morta. Sembrava solo che fosse andata a caccia e avesse tardato un po’. – Un po’ troppo, pensai con un groppo in gola. – Avevo più distrazioni.
Annuii. – Non era morta.
– Cosa?
– Non era morta. – Le parole mi uscirono di bocca senza che me ne accorgessi. – L’avevano presa i Templari.
Connor si piazzò davanti al timone, le mano posate sulla ruota. Che cazzo, così non potevo nemmeno virare. – Perché? – sibilò, e per una volta mi parve di vedere i suoi occhi brillare di lacrime. – Perché?
Cercai di scostarlo con una mano, ma rimase piantato lì come un palo. – Sapevano che quando fossi tornato la prima persona che avrei cercato sarebbe stata lei, credo. Lo sapeva Reginald. Dai, spostati.
– Spostati? – Mi strinse il braccio in una morsa, come una ragazzina in cerca di attenzioni. – Stai parlando di mia madre! Lei… Chi l’ha uccisa? È stato Lee, vero?
Veramente è stato l’ubriacone con il conato facile che dorme qui sotto. Adesso levati, o finiamo tutti in pasto ai pesci. – No, è stato Reginald.
– Birch?
– A-ah, Birch. – Mi strinsi il naso tra due dita. Dio, quanto mi faceva male la testa. Tutto quel parlare di morti, mio padre, Tiio, Holden… Ne avevo abbastanza. Volevo soltanto che quel casino finisse. Dormire un po’.
Le notti insonni non sono divertenti, ma le notti insonni a parlare di cadaveri rimasti insepolti nella nostra memoria sono sempre una tortura. – Io…
– Connor, per piacere. È tardi. Non importa chi l’abbia uccisa, va bene? – Gli poggiai una mano sulla spalla e lo spinsi verso il timone. Non avevo più voglia di mostrare il mio sangue Kenway. Ero esausto, le braccia pesanti e le gambe molli. Dovevo solo chiudere gli occhi e dimenticare. – Ormai è morta. Non cambierà niente.
– Allora perché tu vuoi ucciderlo?
Feci un grosso sospiro, carico d’ansia e acuto nervosismo. Mi sentivo il cervello pieno d’aghi, la testa che prudeva e bruciava. Non potevo più sopportarlo. – Appunto per questo, ragazzo. – Per non sentire più le tue stupide polemiche e farti stare zitto dieci minuti. Dieci sporchi minuti. Niente di più. Ecco tutto quello che volevo, una pausa dai cadaveri nel sonno, la morte apparente. Ironico. – Non sprecare la tua vita nella vendetta.
Scoprì i denti in un ringhio iracondo. – Non dovrei? Non…
– Ssh. – Gli mollai una pesante pacca sulla schiena e lasciai il posto al timone. Non l’avevo mai fatto tanto volentieri. – Sei un Assassino, no? Non hai qualche causa gloriosa cui dedicarti? – Feci una smorfia sarcastica. – La vendetta è così… rozza. Lasciala a quelli come me, quelli senza grandi ideali. Non è una cosa adatta a te, ti sminuisce, ecco.
– Io…
– Su, ragazzo, pensa a incoraggiare un fallito alla guida del Paese e a mandare avanti il suo governo illusorio. – Mi avviai verso la botola sul ponte con le cervella che pulsavano forte nel cranio. Perché non arrivava un’altra tempesta a trascinarmi giù, eh?
Semplice. Perché lo volevo. – In fondo, ti è sempre riuscito così bene. – Varcai la soglia che portava sottocoperta con un respiro profondo, lasciandolo solo sul ponte. Ah. Ora sì che andava bene. Era tutto più calmo, nella norma.
Volevo solo dormire. Lasciarmi alle spalle quella chiacchierata.
Buon Dio, non sono nato per fare il padre.

 
 

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Capitolo 53
*** Mani insanguinate. ***


Facev part’ re cunt, nun è pe nnuje, ma p’’e criatur.
– Nto’ ft. Lucariello, Nuje Vulimme ‘Na Speranza.
 
La sbornia del vecchio mandò tutto a fottere. Mi dimostrò che ero stato un coglione anche soltanto a fare questi sogni.
– Irvine Welsh, Tolleranza Zero.
 
– Ehi, capo! Si può sapere chi è la pollastra su cui continui a crucciarti?
– Eh?
Erano passati dieci lunghissimi e frustranti giorni dall’allegra conversazione avuta con Connor, e praticamente non ci eravamo più parlati. Lo vedevo scoccare occhiate d’odio a Hickey – come se sapesse la verità, ecco – e scuotere la testa in cenni impotenti. Sapeva benissimo che avevo ragione. Non si era unito agli Assassini per vendicare sua madre o per imparare a combattere, in modo da potermi ammazzare. Era entrato nella Confraternita per fermarci, all’inizio. Poi aveva capito che per sconfiggerci bastava proteggere Washington, quindi quello era diventato il suo principale obiettivo. George, George e George. Mio Dio. Iniziava a diventare monotono.
Sì, lo so. Anche io lo ero, con quella fottuta fissa di Ben. Non dovrei aprire bocca, ma di fatto continuavo a considerare Washington un inetto. Connor lo voleva vivo? Benissimo. Si sarebbe distrutto con le sue stesse mani, quel bastardo, poco ma sicuro. Non me ne importava più niente.
I governi cadono. Da sempre. Bisognava solo aspettare un po’.
Ad ogni modo, dopo dieci giorni mi svegliai con Tom che mi fissava, un gran sorriso in volto e l’aria divertita. – Quella di cui parli mentre dormi – ripeté ghignando. – Jenny.
Oh, Jenny. Già.
Avevo rinunciato all’idea di passare da Nassau. Un’altra sosta, altri ricordi, assolutamente no. Quell’aria e il colore del mare erano sufficienti. E poi sbarcare avrebbe rappresentato un rischio per la presenza di giubbe rosse, rischi che non volevo più correre. La Martinica era sempre più vicina, e se Ben si era illuso anche per un solo istante che avrei mollato, oh, non mi conosceva. Non mi conosceva affatto. – Che diavolo stai dicendo?
Tom si strinse nelle spalle. – Cristo, capo, non fai altro che dire quel cazzo di nome mentre russi. Jenny, Jenny – brontolò, scimmiottando la mia voce. – Te la sei scopata?
Gli arrivò uno stivale addosso prima che avesse il tempo di schivarlo. – Era mia sorella, idiota.  
Mi parve che il ghigno sul suo volto, se possibile, si fosse fatto ancor più largo. – Ah, tua sorella, ho capito. La sorellina per cui ci hai mollato tutti tra le forti braccia di Reginald, giusto? – Annuii senza nemmeno guardarlo. Reginald era andato lì per farseli amici, già pronto a sviluppare il suo stupido piano. – Era figa?
– Se fosse viva avrebbe più di sessant’anni, Tom.
Fece una smorfia disgustata e si grattò il petto con le labbra strette. – Ah. Vabbè, non sono mica schizzinoso. Dai, capo, era figa?
– Non lo so.
– Come sarebbe che non lo sai?
– Cristo, era mia sorella. Il mio giudizio non vale – brontolai con la bocca impastata, prima di stringermi nelle spalle in un cenno noncurante. – Aveva un sacco di corteggiatori, ma non l’ho mai trovata questo granché.
Thomas arricciò le labbra, apparentemente confuso. – Tanti corteggiatori. Forse era per merito di tutti i vostri maledetti quattrini.
Mi strinsi nelle spalle. O forse era parte del suo piano per fare in modo che Birch si avvicinasse di più alla nostra famiglia. Ah, piantala. – Non credo che abbia mai avuto l’intenzione di sposarla – grugnii di malavoglia. – Reginald, intendo. Erano fidanzati.
Schioccò la lingua. – Quindi vorresti uccidere il tuo quasi cognato? Non è carino – disse scuotendo il capo, la voce che trasudava sarcasmo. – Dove va a finire l’onore della nobile famiglia Kenway?
– All’inferno – replicai infilandomi la redingote. Marzo aveva deciso di abbattersi su di noi con tutta la sua violenza, poco importava del clima caraibico. Le sferzate erano sempre potenti come tifoni, e quando cominciava a piovere restava davvero poco da fare. Alcuni mozzi s’infilavano sottocoperta a pregare, Tom filava a buttare giù dalla nave tutto ciò che aveva nello stomaco e io mi facevo una dormita.
Sognando di Jenny, purtroppo. Non riuscivo a smettere di pensare che, forse, mio padre era morto a causa sua. Poi, be’, mi assalivano i sensi di colpa. E allora?, ripetevo a me stesso. Credi che abbia importanza? È un morto, tale resta. Era mille volte più facile dare la colpa a mia sorella, a dire il vero. Perché prendermi le mie responsabilità quando potevo appiopparle a un altro cadavere e guadagnare un paio di notti nel mondo dei sogni? Non avevo tempo per pentirmi, solo per uccidere di nuovo. Quindi perché farmi tormentare dai rimpianti pensando a quanto fossi stato stupido? Era inutile.
Avevo iniziato a pensare cosa sarebbe successo se, per caso, avessi deciso di scappare da Reginald e gli Assassini mi avessero trovato. Era impossibile, ma in quella remota possibilità… Uff. Forse sarei andato più d’accordo con Connor e non avrei mai conosciuto Charles o Thomas. Non sarebbero stati affari miei. Niente di tutto quello sarebbe stato un affare mio. – All’inferno – ripetei meccanicamente, – dove è sempre stato.
– Che pessimista – brontolò Tom. – C’è qualcosa da mangiare?
Lanciai un’occhiata oltre la mia amaca, negli interstizi impolverati tra un’asse e l’altra. – Qualcosa da vomitare, vorrai dire.
– Spiritoso, stamattina. – Mi strinsi nelle spalle. Non più del solito. – È facile parlare quando non sei tu quello con lo stomaco in fiamme. Avrò perso dieci chili da quando abbiamo cominciato questa merda di viaggio.
Non avevo niente da ridire. La traversata era stata davvero una merda, considerando tutti gli inconvenienti, la morte di Faulkner e la crisi che mi aveva colto passando in mezzo alle Bahamas. Che diavolo, non era certo colpa mia se avevo fatto quel sogno, così tanto tempo prima. Non sarei mai riuscito ad attraversare quelle acque senza pensare almeno un po’ a mio padre, a Reginald, alla nostra sfortuna come famiglia.
Perseguitati, fin dall’inizio. E tutto per colpa della sua vita precedente.
Presi fiato e superai Thomas con un sospiro, salendo le scale che portavano sul ponte. Se entravi in quella stupida faida non ne uscivi più. L’unica via era la morte, quasi sempre violenta. Assassino o Templare che tu fossi, non saresti mai stato al sicuro. Mai. Nemmeno, che ne so?, tra i ghiacci del Mare del Nord o in un villaggio sperduto nell’Europa dell’Est. Ero un Templare, per la miseria. Sapevo che se davvero avessero voluto trovarci – oh, se lo volevano – l’avrebbero fatto, ovunque ci fossimo nascosti. Non potevo cambiare il passato.
Potevo decidere il mio futuro, in teoria, ma non ero certo nemmeno su quello. A torturarmi nel sonno, oltre a Jennifer, di solito c’era anche Ben. Il sogno si ripeteva come la prima volta, tale e quale, e ogni volta mi risvegliavo più confuso. Lascia perdere. Ora sei sveglio, giusto? Sveglio. Concentrati. Dove siete? Pensa a questo.
Salii sul ponte e feci un rapido giro su me stesso per constatare la nostra posizione. Qualche cassa rotta, relitti di uno scontro recente, galleggiava tra tutti quegli scogli appuntiti e l’acqua resa verdognola dall’ombra tenebrosa delle nuvole che riempivano il cielo e si spostavano veloci, insieme al vento. Connor stava al suo solito posto, dietro il timone, lo sguardo fisso e le membra rigide, e l’intero equipaggio agiva di propria volontà, senza aspettare i suoi ordini.
Tanto non sarebbero arrivati.
Non credo fosse in grado di dare indicazioni specifiche a dei marinai, ma non importa. Erano tutti così vivi, mentre a guardare lui negli occhi… non lo so. Sembrava che ripudiasse la vita intorno a se, affondando la testa nel mucchio di cadaveri che si portava dietro, a mo’ di reliquia. In fondo, non pensavo ci si stancasse così in fretta della morte. Per un po’ è divertente.
Sì, so cos’ho appena detto. Per un po’. Specie quando non ti colpisce da vicino. E poi, ehi, io non sono un Assassino. Sono schietto.
C’erano isolette sparpagliate intorno a noi e, in lontananza, ormeggiata in un’insenatura, una grossa nave. – Ben svegliato – disse Connor dall’alto del cassero con il suo solito tono piatto. – Dormito bene?
Vaffanculo. – Ho avuto sonni migliori. – Non gli chiesi se avesse fatto lo stesso, sapevo benissimo che non si era mosso di lì. Doveva essersi imbottito di tè per resistere così a lungo, o di qualcos’altro. Chi lo sa, magari gli Assassini avevano qualche segreto per essere sempre così tenaci. Droga, erbe o roba del genere. Non si può mai sapere. – Come stai?
Perché mi ostinavo a chiederglielo? Diavolo. – Al solito. – Senza alcuna emozione, ovvero. – Siamo vicini – sibilò con un dito sotto il naso, annusando l’aria salmastra. – Me lo sento.
Certo. Come ce lo sentivamo a New York, al birrificio? Fammi il favore. –  Gli spagnoli se la cavano a costruire navi, eh? – brontolai, giusto per fare conversazione.
– Oh, sì. – Si ammutolì, e immaginai che cosa avesse intenzione di dire. Quella non era l’Aquila. Non sarebbe mai stata come l’Aquila. – Hopkins è stato generoso.
– Te lo doveva – replicai serio. La nave ancorata all’orizzonte era una bestia con quindici bocche di cannone per lato, una gran bella stiva e di sicuro un’altra decina di cannoni rotanti sul ponte. Mica male.
– Sì, ma non l’ha costretto nessuno. – E ci mancava, diavolo. Quell’idiota troppo allegro aveva le chiappe al loro posto solo grazie a noi, perdio, un ringraziamento doveva fornircelo, come minimo. Anche se non eravamo mandati da Washington – ufficialmente, almeno –, gli avevamo reso un gran bel favore.
Oppure, chissà, ho sempre frainteso e il piano di George era perdere la guerra. Non posso sapere tutto. – Come se si fosse sprecato. – Certo, la batteria di cannoni c’era, montata per abbattere scafi rinforzati e qualunque idiozia potesse venire in mente a dei pirati, ma la Señora non era fatta per la guerra.
C’erano cose più importanti, allora, come il saccheggio. Niente rendeva ricchi più in fretta di qualche sano saccheggio. Bastava aspettare che le navi naufragassero ed ecco lì un bottino senza nessuno che ne rivendicasse la proprietà. A parte un mucchio di fantasmi, ovvio.
Pregate solo che non fosse gente della Prima Civilizzazione. Potrebbero entrarvi nella testa e costringervi a fare Dio soltanto sa cosa.  
Connor soffiò come un gatto irritato. – Che altro volevi? – chiese. Che la smettesse di comportarsi in quel modo, ecco. Si rifiutava di darmi ragione anche quando ero certo di averne tutto il diritto. Polemico, noioso ragazzino. Come tutti quelli della sua stupida Confraternita.
Avrebbe potuto annuire e basta. Insomma, che altro volevo? Non mi pareva che gli Assassini o l’Esercito Continentale fossero stati chissà quanto generosi con noi. Volevo una scorta. Volevo una rotta sicura, qualcuno che riuscisse a portarmi alla Welcome in poco tempo, velocemente e senza distrazioni. Volevo Benjamin su un piatto d’argento e senza muovere un dito, senza sogni maledetti a tormentarmi e senza l’ansia di una scadenza, la paura di fallire.
Ecco che cosa volevo. – Il cannocchiale – risposi invece, lo sguardo fisso all’orizzonte tempestato di scogli, l’ambiente selvaggio disturbato solo da quella grossa imbarcazione e dalla nostra traversata. Non immaginavo di vedere così poco traffico marittimo, o forse non avevo prestato sufficiente attenzione.
Ricordavo poco delle navi che ci avevano affiancati durante il viaggio, ma neanche per un attimo avevo pensato che una di quelle potesse essere la Welcome. Ben poteva essere cocciuto come un mulo, ma non era stupido. Non ci sarebbe venuto addosso in quel modo, dritto nella bocca del pescecane.
Be’, lo ammetto, non era una visione così ottimista. Forse pensavo che in quel modo la sorte avrebbe cominciato a girare davvero dalla mia parte. – Tieni. – Connor mi porse lo strumento da dietro il timone, e lo presi con un grugnito scocciato. Avevo paura di chiedergli dove ci trovassimo. E quella nave… Oh, Dio, ci fosse stato Faulkner. Non ero in grado di riconoscere una corvetta da una lancia, a tale distanza. Sapevo soltanto che la presenza dell’imbarcazione mi turbava. – Credi…
Zitto, per favore. Mi strinsi nelle spalle e schiacciai l’ottone contro l’orbita, gli incisivi a torturare il labbro inferiore mentre cercavo nella lente la piccola insenatura tra gli scogli. Eccola lì, la nave. – No… – Percorsi gli alberi con lo sguardo. La bandiera sbatacchiata dal vento era quella delle Colonie, ma poteva essere un trucco. Non siamo tutti stupidi come gli Assassini. – No…
– Che hai visto? – La voce di Connor tremava per l’emozione.
– Sta’ calmo – sibilai, forse più a me stesso che non a lui. Ero eccitato come un cane a una corsa. Sentivo la paura della lepre nell’aria.
Oppure era solo la nostra sentina.
Continuai a studiare la nave. Sfortunatamente era parallela alla nostra, e vedere il nome scolpito sulla poppa era impossibile. – Merda – bofonchiai. – Connor, riesci a portarla indietro?
Dentro di me ne dubitavo. Era già tanto se sapeva come mandarla avanti, quella bagnarola, ma non avevo nessun altro di cui fidarmi. D’accordo, Bob. Faulkner gli aveva insegnato ad andare per mare, o, almeno, così diceva Connor. Non era il ragazzo in sé e per sé il problema. Dovevo avere fiducia in quel vecchio ubriacone trapassato. Potevo affidare la buona riuscita della mia missione a Connor, confidando che sapesse come far tornare la cacciatrice sui suoi passi, oppure calare una lancia e sperare che quella fosse la corvetta giusta.
Sempre che fosse una corvetta. Riuscivo a immaginarmi arrivare lì, al fianco della nave, con una misera scialuppa, e gridare: “Scusate, c’è per caso uno di nome Church lassù? Non tanto alto, una buffa parrucca in testa e l’abitudine di farmi visita mentre dormo, avete presente?”
Dio, ridicolo. – Portarla indietro? È pieno di scogli! – Ecco, appunto. – Pensi che…
– Non lo so.
Distolsi lo sguardo un attimo, solo per vedere Connor che affidava il timone al primo marinaio passato di lì e mi raggiungeva con due grandi falcate. – Fa’ vedere – grugnì.
– Certo, perché tu sei un intenditore. – Non aveva mai visto Ben, se non in quegli stupidi dipinti che tenevano appesi in cantina. Come poteva pensare di riconoscere la sua nave? Gesù. Gli allungai comunque il cannocchiale. Come se avessi qualcosa da perdere, a quel punto.
Si mise a studiare il paesaggio con la bocca mezza aperta, tutto concentrato mentre ordinavo agli uomini di ammainare le vele, così da fermarci. – La stiva è grossa. Potrebbe… – Si bloccò.
– Cosa? – Sentivo le gambe tremare.
– Diavolo.
– Cosa? Che sta succedendo? – Connor abbassò il cannocchiale e tornò velocemente al timone, premendo lo strumento sul palmo della mia mano, come fossi una servetta. – Ehi? Sto parlando con te, cazzo!
– Ci sparano.
– Eh?
Non ebbe il tempo né la necessità di rispondere. Le granate piovvero dal cielo come i primi segni dell’Apocalisse. Non c’era molto da fare, a essere onesti. Potevo decidere se morire sul ponte, guardando il mio nemico in faccia, o scolare le ultime bottiglie di rum mentre la Señora collassava sul fondo dell’oceano. – Merda – grugnì, scattando verso il cassero di poppa. – Come hanno fatto? – abbaiai, la voce piena di rabbia. – Come hanno fatto?
Non poteva essere vero. Insomma, finché avevo gli occhi nel cannocchiale non era successo niente, e poi, così, quando lo prendeva Connor arrivavano le disgrazie? Non era normale. Forse, chissà, la Prima Civilizzazione iniziava ad avercela anche con lui, e non avrebbe avuto tutti i torti. – Non lo so! – strillò, facendo cenno a qualche marinaio di caricare i cannoni.
– Be’, rispondi, no? Getta quel bastardo in pasto ai pesci! – Non so dire come, in mezzo a quel dannato macello, trovassi la forza di tirare fuori le parole che, almeno nella mia testa, avrebbe potuto gridare mio padre quand’ancora era un pirata. Non sapevo nemmeno se volessi davvero gettarlo in pasto ai pesci, eppure suonava bene. Un po’ ridicolo, certo, ma anche magistralmente teatrale, d’effetto.
– No. – Roteai gli occhi. Da quando in qua comandava lui? – La nave mi serve. Il carico va salvato.
Sbattei una mano sulla coscia, frustrato. – Certo. L’ultima volta che hai agito di tua iniziativa abbiamo distrutto l’Aquila. – E per contro aveva firmato la condanna a morte di Faulkner, ma non me la sentivo di essere tanto meschino. – Inizia a sparare.
– No.
– Inizia a sparare o lo farò io.
– Non ti permettere.
Sbuffai, la mano sinistra serrata attorno al parapetto del cassero. – Allora sei proprio stupido – grugnii tra i denti. – Non siamo ancora arrivati in Martinica. Se la nave è qui avranno già scaricato. E poi sei sicuro che sia proprio la Welcome?
Sollevò le sopracciglia. Giurerei che non gli era nemmeno venuto in mente di controllare. – Magari…
Scrollai il capo. Era inutile discutere con uno come lui, maledizione. Avevo le nocche doloranti per quanto stringevo il legno e la mascella contratta dalla rabbia. – Potrebbero essersi fermati lungo la strada. Se perdiamo il carico…
Lo ignorai. Sapevo benissimo che cosa sarebbe successo se avessimo perso il carico, già, George Washington sarebbe stato ancora più svantaggiato. Come se a quel punto cambiasse qualcosa. Preferiva lasciare Ben vivo e perdere chissà quanto tempo a inseguirlo piuttosto che agire e fermarlo? – Il nostro problema è Church – ringhiai tra i denti sbarrati.
Era il mio, a dire il vero. Non il suo. Voleva soltanto che il Continentale vincesse, ecco la sua grande preoccupazione. La guerra. – Dobbiamo ucciderlo – brontolai, ma non ne ero molto convinto nemmeno io. Diavolo, gli correvamo dietro da mesi. Non potevo permettermi incertezze. Reginald non ne aveva mai avute, era un uomo deciso, e ciò che diceva andava fatto, senza se e senza ma. Io ero corso in America come un cagnolino che recupera un bastone. Subito, Gran Maestro. Era l’ultima cosa che volevo, ma nemmeno per un attimo avevo pensato di disobbedire. Fuori discussione, assolutamente. E per quanto odiassi Reginald, Dio, il suo modo di gestire le cose era sempre stato impeccabile. I suoi piani lo erano. Se non fossi stato così fortunato da scampare a quell’impiccagione sarei già stato morto da un pezzo. Senza Connor, senza gli Assassini, tutto sarebbe filato per il verso giusto.
Be’, quasi tutto. Lui non avrebbe mai potuto aprire il Grande Tempio.
– Che è, una festa?
Una bordata mi sbalzò dall’altra parte della nave, contro il parapetto di tribordo, con un colpo così forte da mozzarmi il fiato, sufficiente a farmi abbandonare quei pensieri. Cristo, ci stavano sparando. Avrei avuto tempo per i miei deliri su come essere un buon Gran Maestro.
Stropicciai gli occhi, con la vista sfuocata per la botta, ma riuscii comunque a vedere Tom Hickey che saliva sul ponte, il cappello stropicciato in mano e un ghigno vittorioso sul viso. – Cazzo! – esclamò tutto felice, caracollando su una gamba sola mentre indicava la nave. – Un’altra merda Continentale?
Connor non si degnò nemmeno di rispondergli e Tom sollevò un sopracciglio con aria di ammirazione. – Oppure… Oh, cazzo, non mi direte mica è Ben?
Mi piacerebbe tanto saperlo. – Connor! – Mi rimisi in piedi. Avevo bisogno di certezze, perché se quello era davvero Benjamin io non avevo idea di che cosa fare, e se non lo era stavo soltanto perdendo altro tempo. – Cristo santo, sei sicuro che sia la Welcome?
Non mi rispose. Giuro su Dio che certe volte lo avrei ucciso. Specie quando si comportava in quel modo. Non era l’unico a essere spaventato, l’unico a rischiare qualcosa. C’erano troppe cose in ballo, la guerra, la mia vendetta e i suoi stupidi obiettivi da Assassino. Non poteva soddisfare tutti, e lo capivo, ma se davvero fosse stata la nave sbagliata eravamo nella merda fino al collo.
Gesù, avremmo attaccato una nave dell’Esercito. Ci potevano impiccare per una cosa del genere. Dio, no, non una terza volta. Non avrei sopportato di morire per un suo errore. – Merda!
Scavalcai il parapetto del cassero, dunque, correndo verso l’albero maestro per quanto me lo permettessero le gambe, l’acqua e le bordate. Dovevo salire sulla coffa, dovevo parlare con quel maledetto mozzo. – Ehi! – gridai mentre abbracciavo l’albero come un vecchio amico. Granate e palle di cannone continuavano a colpirci, e Connor non muoveva un dito contro gli aggressori. Non sapevo dire se fosse una mossa stupida o straordinariamente furba, ma speravo che dietro non ci fosse solo la sua maniacale ossessione per quel carico. Ripetevo a me stesso di dover riporre un po’ di fiducia in quel ragazzo, eppure mi veniva difficile.
Era stressante. Questo è il termine corretto. – Porca troia – borbottai passandomi una mano sulla bocca.
– Nave in vista! – gridò a quel punto Drunk J, sospeso metri e metri sopra la mia testa. Riuscivo a vederlo in controluce, una figura sbiadita e traballante. Se ne stava seduto a cavalcioni dell’albero, un altro cannocchiale premuto contro il viso.
La mascella avrebbe potuto cascarmi per terra, tanto ero sconvolto. Dio m’aiuti. Che cazzo stava guardando prima? Era il suo maledetto mestiere, controllare che nessuno si mettesse a sparare.
Presi un respiro tra i denti sbarrati e mi passai le dita tra i capelli. D’accordo. Forse si stava facendo una sega, aveva i suoi bisogni.
Al diavolo. Potevo concederlo a Tom, non a un maledetto ragazzino che doveva soltanto guardare l’acqua e dire se vedeva qualcosa. Perdio, non esisteva un lavoro più facile al mondo, e nonostante ciò ero riuscito ad attirare sulla mia via l’unico inetto che non sapeva fare nemmeno quello. Tipico. Da aspettarselo, direi. – Vedi il nome? – gli urlai di rimando. Calmo. Dovevo soltanto mantenere la calma.
– Argh, non so… Wel-qualcosa. Non si vede niente, c’è un cazzo di fumo che… – Sì, sì. Scommetto che davanti a un bicchiere di rum ci avrebbe visto bene, eccome. Che andasse al diavolo.
– Sentito? – strepitai verso Connor.
Continuava a fissare la nave con la mascella contratta e ogni muscolo teso per l’ansia, pronto a girare i tacchi o a ordinare agli uomini di sparare. Pregavo con tutto me stesso che mi ascoltasse, per una volta. Non chiedevo molto. – Se hanno ancora il carico…
Roteai gli occhi e l’ennesima pioggia di colpi quasi mi mandò a gambe all’aria contro il parapetto. Il rumore grottesco delle assi spezzate, le nostre scorte pronte a saltare in aria da un momento all’altro. E i mozzi là sotto? Oh, mio figlio non si curava minimamente di loro. Potevamo morire tutti, bastava che il carico di Washington non venisse compromesso.
La risata ebbra di Hickey, sdraiato accanto a me, mi riscosse dal torpore. – Tom! – Presi il mio socio per una spalla. Sembrava non aspettasse altro che un mio ordine per far baldoria. – Spara agli alberi.
Mi scoccò un’occhiata sorpresa. – Dovrei disobbedire al vice di Faulkner? – Tom portò una mano al petto con una smorfia dispiaciuta. – Oh, no, non posso.
– Andiamo, non fare lo stronzo. – Prima che potesse dire un'altra parola mi ero tirato in piedi e  lo avevo afferrato per la collottola, il primo bottone della camicia che premeva disperatamente contro la sua trachea. – C’è da sparare. Qui o spariamo o crepiamo, capito? – Forse pensava di essere immortale. Non aveva la più pallida idea di quanto stessimo rischiando. – Fa’ sparare a quei cazzo di alberi. Non me ne frega di quello che vuoi fare a Ben, per me potete anche succhiarvi il cazzo a vicenda, mi basta che quella maledetta nave si fermi!
Gesù, stavo urlando come una comare fuori di testa. Pensandoci, avrei potuto benissimo ammazzare Church, con il suo permesso o meno. Nessuna legge vieta di succhiare il cazzo a un morto, e, anche se fosse, Tom Hickey non è mai stato tipo da rispettare le leggi. – Muoviti! – berciai prima di risalire al fianco di Connor. Si stava riparando dietro il timone, un gigante ridotto alle dimensioni di un bambino, per evitare le palle che ci volavano sopra la testa come una pestilenza. – Spariamo – dissi con una certa soddisfazione.
Si voltò a fulminarmi. – Che cosa?
– Fuoco!
Troppo tardi, ragazzo. Le palle della cacciatrice sfondarono il parapetto della Welcome e distrussero parte del ponte in una fontana di schegge e grida. Il suono della vittoria. – Avvicinati – sussurrai.
– Hai visto? – Buon Dio, sembrava sull’orlo delle lacrime. – Che cosa hai fatto? – Maledetto idiota, era in grado di trasformare qualsiasi cosa in una piccola tragedia. Che noia.
Sapevo benissimo che cosa avevo fatto. Gli avevo salvato il culo un’altra volta, gli stavo impedendo di perdere Ben. Come poteva pensare di fermare i Templari se riusciva a farseli scappare anche quando li aveva sotto il naso? Razza di inetto. – Chiudi il becco e avvicinati a quella stupida corvetta.
– Scapperà – grugnì mentre tirava su col naso. – La Señora non passa di là, ci sono troppi scogli. Dobbiamo aggirarli.
Volsi lo sguardo al cielo che si stava riempiendo velocemente di fumo, il puzzo della polvere da sparo incagliato in fondo ai polmoni. – Stai scherzando, spero! – esclamai con le braccia incrociate sul petto. Come se la sua opinione contasse qualcosa. Era la mia preda. L’avrei presa a costo di far colare quella stupida nave a picco. – Non ci passa? Ma l’hai visto quel bestione? Se c’è passato Ben ci passiamo anche noi. Muoviti!
– Haytham, io…
– Fuoco! – Tom fece partire un’altra bordata e la bandiera appuntata sull’albero crollò a brandelli mentre il legno collassava su se stesso. – Ancora un albero e sono nostri, cazzo!
Thomas Hickey. Dove sarei senza di lui, eh?
Oh, non ha importanza. Connor mi fulminò con un’occhiataccia e virò a dritta, allontanando la Señora dal suo obiettivo. Il mio obiettivo. – Non perderò la nave un’altra volta – ringhiò tra i denti. Che gli importava? Non credo che ci fossero ancora uomini a bordo tanto devoti al nobile mestiere del marinaio da suicidarsi alla prospettiva di una nave distrutta. – Devo…
Mi voltai a fissare Thomas. Stava ridacchiando, il suo solito sorriso animalesco aperto in volto. – Capo, lo sappiamo entrambi. – Alzò il braccio destro, invitando gli uomini a ricaricare. – Palle incatenate, stavolta! – esclamò con un tono autoritario che gli avevo sentito raramente. Non erano ordini, erano quasi… consigli, ecco. – Lui non deve fare un bel niente.
Che Dio mi fulmini, aveva ragione. Gli diedi comunque una possibilità, e Dio mi maledica per averlo fatto. – Connor, dannazione, lo stiamo perdendo!
– Aspetta – grugnì tra i denti mentre cercava di aggirare gli scogli senza perdere di vista l’unico albero della Welcome rimasto ancora in piedi. – Asp…
Col cazzo.
Complice anche l’ultima bordata che la corvetta ci scagliò contro prima di sparire oltre un masso così grosso da sembrare un’isola, Connor caracollò indietro per la botta, allontanandosi un attimo dal timone ma tenendoci sempre le dita serrate sopra, come fosse la sua donna. Basta, pensai con i denti sbarrati. Quella pagliacciata era durata fin troppo.
Lo presi per un piede e lo tirai indietro, mollandogli un calcio verso il suo volto. Qualsiasi cosa, purché mollasse quella stupida ruota. La faccia prese a sanguinargli e, nonostante tutto, le dita non volevano sapere di aprirsi. – Molla! – ringhiai. – Molla! – Strinsi le dita sui suoi capelli, la testa tirata indietro con una smorfia di dolore. – Ti ho detto di mollare, cazzo!
Niente. Cocciuto come un mulo. – Ragazzo... – A mali estremi, lasciate che lo dica, estremi rimedi. Feci scattare la lama celata con un ghigno omicida impresso sul volto. Quando avanzai cautamente verso il timone vidi il suo viso perdere colore. La risata maligna di Thomas era un sottofondo perfetto. – Lascia andare questo maledetto pezzo di legno o lo taglio via con tutta la mano.
Non so dire come mi venne quell’idea. Forse era soltanto un piccolo riscatto per ciò che mi aveva fatto la sua gente, o forse era tutto ciò che ero disposto a fare pur di prendere Ben. Questo e chissà cos’altro. Non potevo lasciarmelo scappare, arrivati a quel punto. – Hai capito bene? – Poggiai l’acciaio lucido contro la carne, all’altezza del polso, il filo della lama premuto contro il carpo. Tra me e me sorrisi. Era la mano destra, quella con cui roteava il tomahawk, scoccava le frecce e scriveva le sue patetiche letterine da scolaretta. Oh, pensava che l’avrei minacciato di morte, eh, l’idiota? Come se fossi stupido.
Mi guardò, disperato, sperando che provassi pietà. Per chi mi aveva preso? Non avrei lasciato a lui il controllo su quella che era la mia caccia. Nemmeno da morto. – Facciamo un gioco, va bene, ragazzo? – Ansimai, l’aria pesante di salsedine che m’inebriava come il tabacco. – Io conto fino a tre, e se per il tre non hai allentato la presa, la tua tenera manina rimarrà a farmi compagnia sulla ruota. Ti va di giocare, Connor? – Gli mostrai un sorriso da predatore, ma non ero mai stato più serio. Sguainai la spada corta, sollevandola come fosse una scure. – D’accordo, cominciamo! Uno…
Vidi i suoi occhi dilatarsi per la paura. No, non era solo paura, c'era qualcosa di più profondo. Il terrore che per una volta facessi sul serio. In effetti qualcosa dentro di me moriva dalla voglia di vedere la sua faccia mentre, con quella mano, tutto gli veniva strappato. Il suo orgoglio di guerriero, l'abilità con le armi e il suo contributo come Assassino. Senza quella sarebbe diventato un relitto, uno scarto della stessa Confraternita. Un po' come Stephane. E dopo essermi fatto mozzare l'anulare dalla sua gente quella prospettiva mi accendeva qualcosa nel petto.
Strinsi i denti, cercando di restare lucido. Non c'era il mio orgoglio in ballo, non solo. Si trattava dell'uomo per cui eravamo stati in mare due mesi, due mesi. Al diavolo il sangue Kenway – con tutto il rispetto, papà –, ma mi mancava la terraferma. La sicurezza di avere qualcosa che non ti si muove sotto i piedi. Nessun rischio di beccarsi una palla di cannone in fronte mentre fai colazione con dei deliziosi biscotti da navigazione. Ecco cosa volevo.
– Coraggio, ragazzo... – Sorrisi tra me. – Due...
Lo sentivo fremere, ma la sua presa sul legno era ancora salda. Quando diavolo avrebbe cominciato a sudare? Freddo bestione. Poggiai la lama sul suo polso, come per calibrare il colpo. Oh, so che avreste dato qualsiasi cosa per vedere la maschera di paura sul suo volto in quel momento.
O forse no. Voglio dire, non tutti sono come me. Fatto sta che era divertente, per quanto potesse esserlo fingere di voler mozzare una mano al proprio figlio mentre le granate da mortaio mi piovevano sopra la testa col rischio di farmi diventare una fiaccola con le gambe.
– E… – Era un rischio che avrei corso volentieri, da un lato. Dall’altro, anch’io avevo solo una gran fifa.
Sollevai la spada e feci per calarla, ma proprio allora Connor decise di lasciare la presa. In quell’istante un paio di cannonate affondarono nello scafo. Caracollammo indietro con uno schianto impressionante. Persi la presa sul terreno e mi ritrovai sopra di lui, le gambe aggrovigliate a quelle di mio figlio e la lama premuta di piatto tra i nostri corpi. – Be’, – grugnii mentre i marinai bestemmiavano e Thomas ordinava una risposta tempestiva – mi piacerebbe restare qui e godere di questo tempo prezioso, ma, vedi… – Strisciai via da sotto il suo corpo con un sorriso. Finalmente. Mi rimisi in piedi e riposi la spada, scoccandogli un’occhiata di sfida. – Ho un traditore da uccidere.
Lo lasciai lì, abbandonato sulle assi del ponte come una donnicciola mezza svenuta, e andai al posto che mi spettava per diritto di sangue. Il timone. Strinsi il legno tra le mani e lo sentii fremere, vivo nelle cannonate e sotto la pioggia degli spari, del sangue. Il vento poteva frustrare qualsiasi cosa, ma non il timone della Señora. No, la cacciatrice e il suo elemento non potevano essere separati. Mai. Erano un tutt’uno, e la natura non avrebbe fatto nulla per ostacolarci.
Il piombo sì, però. E non ero dell’umore giusto per permetterlo. – Che stai facendo? – chiese debolmente Connor. Non era ovvio? Che razza di stupido. La Welcome era lì, si trattava solo di saltarle addosso. Lanciai un rapido sguardo alle bocche dei cannoni, occhi confusi nei fumi della polvere da sparo, e non vidi nessuna palla in avvicinamento. Perfetto. Strinsi forte le mani sul timone e mi preparai a far fuori Ben con un’entrata perfetta, spettacolare. Doveva sapere che chi lo stava cercando non era il primo idiota della città ma Haytham Kenway, il Gran Maestro cui aveva disobbedito abbandonando l’Ordine. Lo stesso che, stando ai miei sogni, continuava a servire tormentando George Washington.
Lo so. Non lo faceva per me. Non avevo il tempo di essere schizzinoso al riguardo, ma Dio solo sapeva quanti altri momenti si era presa la mia mente per essere indecisa. Serrai le dita sul legno e virai con tutta la forza che mi restava.
Solo allora capii perché a mio padre piacesse tanto quella vita, nell'istante esatto in cui lo sperone d'abbordaggio s'infilò nello scafo di Benjamin, quando l'impatto fu così forte da farmi quasi saltare via i denti. Oltre alla sensazione di libertà che dava vedere quella distesa d'acqua quasi infinita, be', c'era anche la fiammata di potere che cresceva nel mio petto lanciando un'occhiata all'equipaggio nemico. Alcuni di loro, specie i più spaventati, mi facevano sentire forte in maniera meschina, superiore. Quelli che digrignavano i denti stringendo un coltellaccio, be', mi riempivano di rabbia a sufficienza da istigarmi a sollevare la spada e cacciare quelle smorfie dalla loro faccia.
Mollai il timone mentre Connor s'abbatteva piegato in due contro il parapetto della nave. – Tom! – gridai verso di lui. Era rimasto in piedi al centro del ponte, le braccia incrociate, deciso e statuario. Sembrava non potesse essere più lucido di così, o più crudele. – Vieni con me?
Mi si gelò il sangue nelle vene quando lo vidi scrollare con calma il capo. – Io resto qui – esclamò con una smorfia ferina sulla faccia, lo sguardo concentrato sulla Welcome. Era davvero un uomo di scontri, non avevo mentito a Hopkins. Davanti alla prospettiva di combattere dimenticava qualsiasi altra cosa, le paure e il mal di mare e, semplicemente, faceva ciò che sapeva fare meglio, ammazzare. – Andate senza di me. Qualcuno deve dire a 'sti pezzenti cosa fare.
Il cuore mi si fermò da qualche parte a metà tra il petto e la bocca, in gola. Oh, no. No, no, no, per favore Tom non farlo, ho bisogno di te, capisci?, ho bisogno di qualcuno che decida per me perché io non ce la faccio, non me l'aspettavo sto diventando pazzo e non so cosa fare, io... io ho bisogno che qualcuno mi aiuti, qualcuno cui affidare la vita di Ben, mi basta che quella stupida decisione non spetti a me. Ho bisogno di mani insanguinate che decretino la fine di Benjamin Church.
– Ne sei sicuro? – dissi soltanto, la voce fatta piccola e flebile nel petto.
– Sicuro – replicò facendo spallucce. Era come una coltellata nelle costole. – Va’, capo. Il traditore ti sta aspettando.
Dio, in quel momento avrei barattato il suo bastardo senso dell’umorismo con qualsiasi cosa, bastava sparisse. Non avevo tempo. Scrollai le spalle, cercai di farmi forza. Poi corsi verso tribordo e saltai sul parapetto per spiccare un salto verso la corvetta, le braccia che mulinavano nel vuoto sotto lo sguardo febbrile e spaventato di Connor.
Atterrai sul ponte con un tonfo, e attorno a me tutto era in fermento. Mi avessero chiesto di descrivere la mia gita sulla Welcome avrei usato una sola parola, confusione. Be', forse allora ne avrei scelta un'altra, come merda o vaffanculo, perché questo era ciò che pensavo, ma sarebbe stato poco dignitoso ammetterlo. Comunque, la descrizione definitiva è anche quella che più si avvicina alla verità su quell'abbordaggio. La Welcome era in subbuglio, una polveriera piena di morte pronta a saltare in aria. C'era fumo dappertutto, e le spettrali sagome dei marinai circondati dalla nebbia parevano demoni scesi in terra, pronti ad aprire le ali di membrana e squame per salvarsi dalla ciurma che pensavano mi sarei portato dietro. Un brivido corse lungo la mia schiena. Alcuni stavano sfoderando le spade e le pulivano vigorosamente con un lembo della giubba o della casacca, come aspettassero un momento del genere da tutta la vita, ma io sapevo che c'era un uomo grosso e rubicondo, uno che non avrebbe mai rinunciato ai piaceri della salvezza sottocoperta. Era un soldato, certo, ma uno come lui che difendeva la patria a costo della vita? Per favore. Non era nemmeno riuscito a difendere me. Che cosa si aspettavano quegli uomini? 
Tossii, scosso dal fumo che s'incollava ai miei polmoni. Ditemi come si può avere un'aria invincibile tossendo ogni tre passi davanti a marinai armati fino ai denti. Da quel poco che vedevo alcuni si erano addirittura colpiti a vicenda nella furia dell'arrembaggio, danneggiando la loro stessa nave. Le lame roteavano feroci e selvagge come zanne, e lo scontro non mi aveva mai fatto paura, ma temevo per quegli affari luccicanti, affilati e potenzialmente letali che non si fermavano mai, davanti a nulla. 
Sentii qualcuno piombare sul ponte della Welcome. Era Connor? No. Non avrei potuto sopportare le sue lagne moraliste e le lamentele su quanto qualunque cosa stessi facendo fosse sbagliata. Come fosse stata colpa mia se quell'idiota mi aveva tradito, certo. 
Oh, Dio, non ce la facevo più. Non resistevo all'idea di dover decidere da solo, di non avere nessuno che mi aiutasse a compiere quella scelta. Thomas era rimasto sulla nave, come Connor, teoricamente, ma non avrei permesso che fosse lui a portare Ben verso la Grande Luce. Non dopo tutti i guai che avevamo passato lungo la strada solo per merito suo. La vita di Ben Church apparteneva a me fin da quando lo avevo salvato e accolto tra le braccia dell'Ordine, molti anni prima. Era in debito con me, lo era per tutto ciò che avrebbe potuto perdere se non ci fossi stato io lì. Portai la mano all'elsa e sguainai, pronto a difendermi se nessuno nel coraggioso equipaggio della Welcome mi avesse seguito per guardare le mie spalle. 
Il mondo intorno a me sembrava privo di senso. Tutto roteava e cambiava nei fumi, e ogni cosa riusciva a confondermi. Quelli non erano semplici soldati britannici. Ricordavo ciò che mi aveva detto Hopkins sulla disciplina della Marina di casa. Mi voltai a guardarli, oscure figure di morte nella nebbia, come spettri. 
Sulla corvetta regnava un silenzio surreale, degno di una storia dell'orrore. Indietreggiai cautamente verso la botola che portava sottocoperta, cercando di non fare nemmeno il minimo rumore. Certo che avevo paura. Diavolo, per chi mi avete preso, per un idiota? Fremevo nel terrore, mi impediva qualunque pensiero razionale che non fosse trova Benjamin che cosa farò allora? Non mi sentivo affatto bene, avevo bisogno di un tè. Sì, sì, un tè, pensavo mentre sgattaiolavo sulle assi piene di polvere, un tè, dei biscotti che non siano gallette e tutta la pace del mondo. 
Un'ombra sbucò dalla nebbia, la spada tra i denti con un che di fiabesco e i lunghi capelli frustati dal vento e dalla velocità mentre correva, esattamente come avevo fatto io, e saltava verso la cacciatrice nel più totale silenzio, come se il tempo si fosse fermato e non ci fosse più niente di reale. Atterrò sul confusionario ponte della Señora, carico dello stesso silenzio ma portato dalla più acuta tensione, dalla paura, e senza che nessuno lo avesse anche solo toccato l'uomo levò la spada sopra la testa. 
Immagino che in quel momento stesse gridando qualcosa, ma la deflagrazione coprì le sue ammirevoli e coraggiose parole. La testa gli si aprì in due come un frutto maturo e la polpa schizzò fuori, pioggia rossa di una nuova era, una nuova battaglia. Il corpo del coraggioso bastardo si schiantò a terra, la testa spappolata rivolta verso la sua nave. Non restava niente della sua faccia, solo la parte inferiore – la carne aperta sul bianco osso della mascella – e parte dell'orecchio destro. Il resto era una maschera di sangue e carne viscida che stava lentamente collassando sul ponte. 
Thomas Hickey emerse dalla nebbia come un dio vendicatore, la pistola in mano, intento a caricarla con i gesti secchi e precisi che lo avevano sempre contraddistinto. – Be', – gridò, e ammetto che se fossi stato parte dell'equipaggio nemico avrei scelto quell'esatto momento per sparargli in bocca, – non immaginate nemmeno da quanto tempo desiderassi dirlo. – Puntò la pistola davanti a sé e sorrise. Un perfetto uomo di scontri. – All'arrembaggio, figli di puttana. 
E il caos aumentò in maniera esponenziale. Uomini che saltavano da tutte le parti, palle di cannone e Connor che, malamente in piedi sul cassero, cercava di impedire che mandassero in pezzi quella preziosa corvetta, senza successo. I cannoni rotanti avevano già distrutto i vetri della cabina del capitano e, be', sperai non riducessero davvero lo scafo a un colabrodo. Ben non poteva essere da nessun'altra padre. Soltanto sottocoperta o in cima agli alberi. Andiamo. Nonostante l'addestramento, non credo fosse ancora tanto in forma da riuscire a salire su un albero, l'unico rimasto, senza cadere giù per i colpi di cannone. 
Non persi altro tempo. Quella pagliacciata era durata fin troppo, e per quanto morissi di paura all'idea di scendere là sotto da solo, senza nessuno che decidesse per me la fine di Benjamin, non potevo aspettare. Chissà, forse anche Connor avrebbe preferito restare lì a strattonare la giubba di Tom, implorandolo di smettere con gli spari. "Per favore, Hickey, per favore!" Dio, lo immaginavo benissimo. 
Il fischio di una bomba fumogena riempì l'aria, facendo cadere giù un paio di marinai instabili o dalla testa troppo leggera. Un'idea di Connor, ci avrei scommesso. Vigliacca a un livello che nemmeno io avrei mai toccato. Che diavolo, non sono un accanito sostenitore della morte, ma a volte è necessaria. È necessario impartire una lezione. Il mio allievo di quel giorno era Ben Church, a capo dell'allegra banda di idioti che l'avevano aiutato a scappare da me, scappare dai suoi doveri nei confronti dell'Ordine per intraprendere una causa che c'entrava poco o niente con lui. Come se fosse inglese o dovesse qualcosa a sua maestà. L'Ordine era nato per elevarsi sopra quelle scaramucce da bambini, basate sulla posizione di una bandiera o su una linea di confine tracciata su un dannato pezzo di carta. C'era un bene maggiore, e abbandonare la causa significava smettere di comprenderlo. Diventare come tutti gli altri. 
Mi stavo ripetendo in testa la dottrina che credevo di seguire, con la manica della redingote premuta in faccia per non respirare e i piedi che percorrevano alla cieca i gradini verso la stiva. C'era qualcosa di più grande, e lo conseguivo, certo, ma Dio solo sapeva quanto avrei voluto vedere la faccia di Washington davanti ai suoi uomini che morivano di fame, malattie e stenti. Un sogno. 
E come tutti gli altri sogni, dovevo lasciarmelo alle spalle. Nella mia missione, nella mia nuova ascesa, non c'era spazio per i desideri, i sentimenti, nemmeno per le persone. Avrei potuto pensarci nel prossimo momento di pace, sempre che non fossi morto prima o non l'avessi sprecato in una sana bevuta. Sentii la gola serrarsi. Circondato da botti di alcool e polvere nell'intricato labirinto che era quella maledetta stiva, il bisogno fisiologico di uno sciacquabudella si faceva sentire. L'ampia e salda travatura sopra di me pareva vorticare, lo scafo simile alla bocca spalancata di un dio crudele che rideva, rideva di me e delle mie debolezze di spirito – letteralmente. Come aveva fatto mio padre a smettere di bere? Soltanto per noi, poi, per mia madre, Jenny e me? Non ci sarei riuscito, al suo posto. Si sa, era sempre stato più forte di me. Aveva ammesso le proprie debolezze con se stesso, se non con me e il resto della famiglia, e sapevo benissimo che a volte è sufficiente. Era senza dubbio più di quanto sarei mai riuscito a fare io. Confessavo per poi ignorare i miei problemi, come non esistessero. Ma c'era di peggio al mondo, no?
Il tradimento, per esempio.
Schiacciai il petto con le mani, cercando di controllare l'incredibile voglia di bere, e proseguii. Estrassi la polvere e caricai la pistola in silenzio, le mani impegnate in gesti secchi e abitudinari. Ben non era sul ponte. Come un bravo padre – o un uomo più fedele di quanto fossi io – che voleva soltanto proteggere ciò per cui si era battuto. Solo stronzate, alla fine. Casse di coperte che non avrebbero scaldato nemmeno in estate, polvere da sparo d'infima qualità, grog con tre parti d'acqua e una di rum e, per finire, quintali di carne secca. Roba di contrabbando dall'Inghilterra, di poco conto. Aveva davvero deciso che era quello il suo scopo nella vita? Non c'era niente di più nobile? Niente per cui valesse un po' di più la pena di combattere? 
Rimisi a posto l'arma, lasciandola dondolare nella guaina. La lama celata era lì, pronta a servirmi, la spada non aspettava che di essere sfoderata un'altra volta. Le armi erano cariche. Avevo tutte le carte in regola per essere pronto. 
Eh, già. Fatto sta che non lo ero più di quando morì mio padre. Presi un gran respiro, procedendo con una mano in faccia nello stretto corridoio tra le casse impilate senza nessuna precisione. Pile instabili di roba che ci sforzavamo di far sembrare utile per avere almeno l'illusione di morire a causa della guerra, non dell'inefficienza del sistema bellico. Alla fine un terzo dei soldati moriva a terra, nella propria tenda. Al freddo. Con la coperta che ancora mostrava allegramente lo stemma inglese ricamato in un angolo, sporca del sangue tossito fuori dai polmoni per l'ultima epidemia. 
La guerra fa schifo. Per questo me ne sono andato. In realtà era stato Reginald a richiamarmi, d'accordo, ma non avete idea di quanto fossi stato felice in quel momento. Era la più bella notizia del mondo, meglio di qualunque altra. Non c'era alcuna soddisfazione nella guerra, né spazio per la tanto desiderata gloria. Solo morti nel fango e arti scomposti.
Ammazzare sul campo non è come fare ciò in cui l'Ordine e la Confraternita si dilettano allegramente. Ogni giorno aumentano le possibilità di morire. Ormai non più. Ero io a scegliere la preda e come affrontarla. Se scappare o meno, e cosa portare con me. 
Tranne in quel caso. Ben era... Era diverso. Tutto ciò che riguardava me e lui, Tom e i miei sogni era diverso. Complicato. Mi spaventava, mi spaventava a morte. 
– Gran Maestro. 
Mi voltai di soprassalto, le mani ancora sul petto, dove le tenevo prima di sentire quella voce. Nessun rapido riflesso in funzione, solo irrazionale stordimento. Tutte le idee che mi erano affollate in testa fino a un attimo prima – sparargli, trafiggerlo, impalarlo sulla spada – si erano volatilizzate, soffocate brutalmente da quelle due parole. Dalla vista di Benjamin Church in ginocchio alle mie spalle, una mano sul cuore e l'altra sulla coscia, come quei cavalieri degli antichi poemi. 
Mi sentivo mancare. – Ben? 
– Gran Maestro – ripeté senza muovere un muscolo, il capo chino in segno di sottomissione e la voce stanca, vecchia. Come il suo aspetto, dopotutto. Identico in ogni parte a quello del dannato impostore, nel birrificio. Una parrucca bianca sistemata con eleganza e precisione a dir poco britanniche sulla testa, impomatato e pulito come fosse appena uscito dalla tinozza per il bagno della domenica. Indossava abiti pesanti, quasi nobiliari: un cappotto lungo e calzoni a maglia fitta, gli stivali stretti fino all'ultimo gancio. Per il Natale seguente avrei anche potuto regalargli una giubba vermiglia, in tinta con il resto. 
Sempre che fosse stato ancora vivo, e per quanto ne dicevano i miei piani... Ah, Cristo, erano spariti con la prontezza e tutte le brillanti riflessioni sul dovere di poco prima. Merda. – È un onore rivedervi, e sano e salvo, per giunta. – Il suo tono era piatto, ma sembrava anche sincero. – Che cosa vi ha portato fin qui?
Questa è facile. – A dire il vero tu, Ben. Sei stato tu a portarmi qui – dissi faticosamente, la voce roca in gola. Deglutii. Già. Lui, il suo tradimento e la sua sfrenata passione per la mia cara e vecchia Inghilterra. 
– Io? – Sollevò appena il capo, le labbra storte in una smorfia perplessa. – In che modo potrei... 
In che modo? E lo chiedi pure? Scrollai la testa con una risatina. Era davvero così cieco? – Ben. – Alzai le mani in segno di resa senza sapere bene perché. – Secondo te che ci faccio qui? Che cos'è che voglio con tanta insistenza da attraversare mezzo Oceano per raggiungerlo?
Arricciò le labbra e si tirò in piedi, pallido come solo un viaggio in mare può renderti. – Non sarete passato dalla parte dei patrioti, spero. Abbandonando la nostra...
– I patrioti non c'entrano – ringhiai, liquidando quella discussione con un cenno della mano. – Dunque sai di chi è tutta questa roba. 
Fece spallucce. Il solito bastardo. – Mi pareva ovvio, Gran Maestro. – Indicò le pile di casse attorno a sé con le braccia aperte, poi s'inginocchiò di nuovo, i tacchi che sbattevano contro le assi. – È vostra – sussurrò con una mano tesa verso di me, come a voler afferrare la mia. – È dell'Ordine. 
Cosa?!
Oh, Dio. Non era... Non poteva essere vero, giusto? Benjamin Church era un traditore, aveva rubato gli averi del Continentale per avvantaggiare la Corona. Era quella la verità. 
E da quando in qua una buona notizia per l'Inghilterra viene scritta per ciò che è su un periodico lealista?
Buon Dio. – Cristo, Benjamin, ma che stai dicendo? Che cosa...
– Non ci sarà bisogno di porre fine alla guerra con la violenza. – Si allungò e mi strinse forte per la redingote, come un fedele devoto sull'inginocchiatoio. – Senza rifornimenti tutto finirà assai più in fretta! Con... Con meno sangue. Non è ciò che tutti vogliamo? 
Esatto. Non era ciò che l'Ordine voleva da millenni, ciò su cui ogni sua forza si era concentrata? La pace. La fine di quella dannatissima guerra.  – Benjamin... – Non sapevo che cosa dire. Sopra di noi gli uomini correvano e le spade cozzavano in un clangore senz'anima, senza tregua. – Diavolo, Ben, allora... Allora perché le stavi portando in Martinica? – Avevo bisogno di una prova che Church non fosse buono, di non aver fatto un viaggio a vuoto. Pensavo di essermi convinto a farlo, finalmente, a ucciderlo. E poi... Le cose si stavano mettendo male. Ah, cazzo. – È territorio britannico. 
– Dove nessuno avrebbe mai cercato quelle cose e la guerra a malapena sanno che c'è. – Schioccò la lingua, come ad ammirare da sé le sue strepitose teorie. – Gran Maestro, era il posto migliore. 
Mi passai una mano sul sopracciglio, esasperato. – Ma tu... – Oddio, basta. Ero stanco di essere l'unico a commettere errori, quello che sbagliava sempre sulle vere intenzioni delle persone e si lasciava influenzare dai sentimenti. Avevo bisogno di constatare che per una volta avevo ragione. Ben era il cattivo e ucciderlo non era sbagliato. Volevo che il mondo la smettesse di assumere quelle irritanti sfumature grigie, ammazzando qualcuno che per una volta fosse nel torto, da qualunque parte lo si guardava. – Ben, tu stai mentendo – ringhiai, i pugni stretti lungo i fianchi. – Credi che basti davvero così poco, mettersi in ginocchio e dire un paio di belle parole? – Volete sapere la verità? Sì. Bastava davvero quel poco per corrompermi. Qualcuno che mi fosse fedele davvero. Che si mostrasse tale. 
Benjamin si strinse nelle spalle, aggiustò la parrucca già perfettamente in posizione sulla sua testa. – La vecchiaia vi ha rammollito, Gran Maestro. – Sbagliato. Ero sempre stato quell'uomo, né più, né meno. Ubriaco di potere e di fedeltà come un capobranco troppo bisognoso di altri cani. – Pensavo che questa sceneggiata potesse distogliervi dall'idea di farmi fuori, ma... – Sbuffò. – Mi sbagliavo. Chi vi ha messo in testa una cosa simile? 
La mia personalità controversa, un'interpretazione sbagliata e il bisogno arretrato di vittoria, di soddisfazione. Sapere che non sono caduto nel buco sbagliato un'altra volta. Presi un gran respiro, le maniche della giacca sollevate sugli avambracci. – Diversi eventi. – Tutti troppo compromettenti. 
– Allora... – Lasciò vagare lo sguardo nella stiva, tra le casse. – Direi che è ora. 
– Già. – Non avrei saputo dirlo meglio. – È ora. 
Mi lanciai su di lui, caricando tutto il peso del mio corpo mentre cercava di estrarre la spada nell'angusto corridoio tra i rifornimenti impilati. Se ne stava semplicemente lì, la mano all'elsa e un ghigno da cane rabbioso sul volto. Non c'era abbastanza spazio per sguainare una spada lunga. Un vantaggio per me, un altro, eppure sembrava soltanto mettermi in difficoltà. Era tutto ciò che lui faceva a rendermi così nervoso. Come se ogni piccola casualità mi costringesse a ucciderlo. Era il motivo per cui mi trovavo lì, ma forse... Forse era sbagliato. C'era qualcosa in tutta quella storia che non andava.
Scrollai il capo e digrignai i denti, tendendo la spada verso di lui con un solo, ampio fendente. Fece un balzo indietro, ancora agile nonostante la vecchiaia, ma fui più veloce di lui. Mi chinai e lo presi per la caviglia, strattonando il corpo di Ben Church. La sua mascella impattò contro lo spigolo di una cassa, il sangue schizzò fuori dal suo viso come un proiettile. – Cazzo – mugugnò con un sorriso sconsolato. – Oh, be'. Mi sa che vi toccherà uccidermi, Gran Maestro. 
Mi piazzai sopra di lui a gambe divaricate, la spada corta levata sopra la testa come la lama di una ghigliottina. – Come se fosse giusto – singhiozzò con le mani alla bocca. Una chiazza rossa invadeva metà del suo viso, grondando e conferendogli quell'aria grottesca che, in fondo, aveva sempre avuto. Persino prima che lo minacciassero di tagliargli il cazzo. – Non potete essere leale a tutto. 
Riposi la spada nel fodero, scoccandogli un'occhiata stupefatta. – Hai ragione –, e per una volta lo pensavo davvero. – Posso esserlo alla cosa giusta. 
Ridacchiò. – Ah, Mastro Kenway, mi avete insegnato voi che non esiste niente del genere. Non ricordate? 
Il maledetto bastardo mi fece tentennare. Oh, Dio. D'istinto mi grattai la fronte, lanciando occhiate scattose per tutta la stiva. Sei qui per ucciderlo. Ricorda. Guardando la sua espressione davvero non provavo nient'altro. Volevo solo che smettesse di parlare e di distrarre mio figlio da ciò che davvero importava. Me, la mia vendetta, Reginald e il Tempio.
Le sue parole... Mi stava mandando al manicomio, cazzo. Devi ucciderlo. Il sogno in cui mi era apparso risuonava nella mia testa dieci, cento volte, sempre più terrificante. Poteva davvero aiutarmi a mantenere il controllo sulle Colonie? Stava... Stava ostacolando Washington, sicuro, ma diavolo, sono un Templare. Conoscevo il maledetto ordine delle cose. Se il vecchio George non fosse salito al trono ci sarebbe stato Giorgio III, aiutato da quel genio di Benjamin Church, e senza nessuno di loro sarebbe potuto essere il turno di Charles, ma Dio solo sapeva da quanto mancava dal campo di battaglia. Poteva anche non essere più un soldato, per quanto ne sapevo. Non contava in qualsiasi caso. Il suo governo sarebbe stato solo temporaneo, come qualunque altro, poi l'avrebbero sostituito. Così via, fino alla fine dei tempi. Fino all'Apocalisse.
E dopo?
Quel pensiero mi attraversò la mente, rapido come un dardo. 
Dopo cosa?
Quando sarà morto. Che farai? 
Oddio. Non ci avevo pensato. Non... Era stato lui il mio scopo. Che cos'avrei fatto dopo? Senza avere idea di dove fosse Charles, nessun aiuto tranne quello di un ubriacone e un Assassino indisponente. E se ci fossero state altre grane con il Continentale da risolvere? 
Lo ammetto. Tentennai. – Avete paura – grugnì Ben, ridendo con gli occhi luccicanti di follia. – Oh, sì, Gran Maestro. Sapete che potrei servirvi. Sapete che uccidermi è...
Con la mascella contratta gli affondai un cazzotto nel ventre. Dovevo sfogare la mia rabbia su qualcuno. Ed ero lì per lui. Voleva dire "controproducente"? Avrebbe avuto ragione, così come se avesse detto "futile", "insensato" o "da idioti". Peccato che non fossi dell'umore giusto per ascoltare i traditori. Specie quando un bastardo del Rhode Island decideva di proteggere l'Inghilterra come il miglior pupillo uscito dalle gambe della Regina Anna. 
Io non ho paura, pensai con i denti serrati. Mi inginocchiai su di lui, le gambe pesanti e un profondo desiderio di tornare sulla Señora e addormentarmi su un'amaca. Non c'era più tempo per rimandare quella decisione, e la fantomatica scelta, appunto, era cambiata. Non si trattava più di decretare se l'operato di Church era giusto o sbagliato, no. Aveva cercato di farmi fesso, di fottermi parlando come se ancora mi fosse fedele. E io c'ero cascato, per quel breve tempo. Ben lo sapeva, ah, se lo sapeva. Non potevo permettergli di vivere. 
Non potevo confermare che bastava leccarmi un po' il culo e fingere di essere dalla mia parte, di essere la mia roccia nonostante Reginald, per essere salvi. 
Certo, borbottatelo pure tra voi. Lo so. Ero il capo più stupido che l'Ordine potesse avere. Però volevo migliorare, annientare definitivamente chiunque avesse scoperto questa mia debolezza. Prepararmi per il nuovo mondo, quello governato dai Templari, in cui la scelta era tra accettare la realtà o morire. 
Non avrei potuto mostrarmi così debole. Non allora. Dovevo pur partire da qualcuno che fosse d'esempio, no? 
– Menti – ringhiai accovacciato su di lui, stringendo in mano il collo del suo cappotto. – Posso avertelo insegnato, è vero, ma la morale di quella storia era la fedeltà all'Ordine. L'unica verità che nessuno può discutere. 
Ben Church scoppiò a ridere, mostrando i denti corti e appuntiti come quelli di un pescecane. – La morale? Gran Maestro, non c'è niente di più amorale dell'essere umano, del nostro mondo! Avete visto! Sapete che alla fine tutto questo non è altro che una maledetta illusione. 
– L'ho scoperto grazie ai Templari. Esattamente come te. – Ah, ma dove voleva andare a parare? Bastardo egocentrico, aveva sempre voluto essere al centro dell'attenzione con le sue scelte fuori luogo. E adesso voleva pure rendere la propria causa memorabile? Non  c'era nessuno lì per prendere e diffondere la parola di Ben. Era solo autocommiserazione. Un'altra cosa che non avrei dovuto concedergli. 
– Credete sia questo il fine dell'Ordine? Usare una tale conoscenza per governare il mondo? – Mi prese il polso, sollevandosi verso di me. – No. Il senso è fare ciò di cui davvero c'importa. È sfruttare l'illusione al meglio. E se io credo che Re Giorgio possa migliorare questo schifo di poco, solo un poco, più di quanto possano fare Washington o il vostro amato Charles Lee, è un mio diritto difendere ciò che credo. 
– Non parlare di diritti, Ben – ringhiai tra i denti, così piano che a malapena mi sentì. 
Scelse di ignorarmi. – Questo è il fine dato dalla nostra conoscenza. La felicità. 
La felicità? Mi stava prendendo per il culo, vero? Oppure il mare lo aveva reso un poeta da due soldi e io non riconoscevo il suo talento, chissà. – Siete diventato come tutti gli altri. Ubriaco di voi stesso e di potere. Pensate che il mondo sarebbe migliore sotto di voi. Che la conoscenza vi permetta di fare ciò che volete del mondo. – Mi si avvicinò ancora, sussurrando nel mio orecchio come un demone consigliere. – Vi ucciderà, Mastro Kenway. La vostra convinzione vi ucciderà, come ha fatto con tutti gli altri! Con William e John! 
– A te penserò io – sibilai.
Questa volta mi sentì. – Sì, ma voi siete un uomo. Un uomo con una volontà. Il solo scopo del comune essere umano è la superiorità, come qualsiasi altro animale. Sapete quanto sia sciocco, assurdo e deprimente essere ammazzati da un'idea? Dalla propria? – Reclinò il capo in una risatina malvagia. – Oh, lo scoprire-...
Lo colpii con un cazzotto alla bocca, dove aveva preso lo spigolo della cassa, con un gancio da fargli saltare i denti. Crollò indietro, il suo capo rimbalzò sul pavimento della stiva con un tonfo sordo. Testa vuota del cazzo. Scrollai la mano, le nocche doloranti per il colpo appena inferto. – Grandioso! – berciai con la fronte madida di sudore ghiacciato. Diavolo. Mi ero sbagliato quando avevo pensato che non fosse un bravo diplomatico. Ci sapeva fare con le parole. Oppure mi conosceva semplicemente troppo bene. – Sai, Ben, sai... – Presi un respiro pesante, faticoso, come faticoso era parlare con lui. Ammazzarlo era ammettere che aveva ragione, e al tempo stesso non poteva vivere con quelle convinzioni. – Sai da quanto tempo sto inseguendo il tuo culo su e giù per le Colonie? – Troppo. – Mesi. Più di due mesi per mare, e prima via terra. Fino a New York, dove hai pensato di dartela a gambe. – Lo colpii di nuovo in faccia, più forte. Il suo viso si accartocciò in una smorfia di dolore, gli occhi stretti e la bocca spalancata in un gemito. Oh, sì. – E alla fine, eccoci faccia a faccia, amico mio. – Era ironico, naturalmente, perché non esisteva nessuno che potesse essermi meno amico di Ben Church. Nemmeno Reginald era tanto meschino. Almeno aveva chiarito la propria posizione e vi era rimasto. Non era un bastardo doppiogiochista come Ben. 
Però, Dio, ero davvero tanto prevedibile? Mi aveva capito bene, quello stronzo. Troppo bene. – È stata una lunga avventura – ringhiai nel colpirlo con un calcio al ventre. Si raccolse su se stesso come un bambino impaurito. E così dev'essere. – Credimi. Riuscire a schivare tutti i tuoi trucchetti e le tue trappole... Astute. Alcune di loro, almeno. – Il suo stupido gioco nel birrificio, la fuga continua ed esasperante, e in ultimo, cominciare a sparare prima che cogliessimo un vantaggio. Ben Church, come tutti i miei compagni, era più furbo di quanto immaginassi. Non era stato scelto da Reginald per caso. E senza dubbio non l'aveva accolto nell'Ordine per il suo faccino. Specie ora, con le guance cadenti della vecchiaia, il viso solcato dalle rughe e quella bizzarra lentezza nei movimenti che si stava avviluppando rapidamente anche su di me, ne sentivo il fiato sul collo. – Questo lo ammetto – aggiunsi con un lento sospiro. Se ne stava semplicemente lì, rannicchiato ai miei piedi, e non facevo altro che pensare al suo doppiogiochismo. A quanto bastardo e quanto vero, in fondo, fosse il suo modo di vedere le cose. 
Ma qui non c'è posto per altri punti di vista. C'eravamo soltanto io e Reginald, e chiunque stesse nel mezzo poteva anche fottersi, sperando di riuscirci prima di essere braccato e morire. – E la freddezza con cui mi hai voltato le spalle. – A me, all'intero Ordine, per poi cercare di salvarsi solo quando sentiva il peso della morte sulle spalle. Dio, se faceva male. Era... Era sbagliato. Nessuno di loro aveva pensato per un attimo, dopo la venuta di Reginald, che mi importasse ancora dell'Ordine. Nemmeno Thomas. Nemmeno Charles. 
Ne avevo abbastanza. – Avevamo un sogno, Benjamin! – gli gridai contro, sentendo qualcosa bruciare nel petto, fischiare dentro la testa. 
Avevamo un sogno? Erano stronzate, cazzo. Stronzate da manuale. Ero io ad avere un sogno. 
Ce l'ho ancora. 
D'istinto presi a colpirlo ancora, i pugni che si muovevano lontani dalla mia volontà. – Un sogno che tu hai voluto distruggere!  
Hai distrutto l'ordine che volevo portare nel mondo.
Hai distrutto l'ordine che voglio portare nella vita, quella stessa esistenza che tu, Reginald e tutti gli altri mi avete spezzato davanti agli occhi.  
– E per questo, mio vecchio amico... 
...stupido stronzo cocciuto...
...maledetto bastardo traditore... 
Mi venne quasi da piangere mentre tutto ciò che avevo fatto per arrivare all'apice della carriera tra i Templari affondava, affondava come i miei pugni nel viso di Benjamin, i lineamenti storpiati dal dolore e dalle ossa incrinate. Presi fiato in un singhiozzo strozzato. – ...la pagherai.
Non c'era niente che potesse fermarmi, nessuno a salvare Ben. E se fino a poco prima pensavo fosse un errore, adesso avevo una scelta definitiva. Niente mi avrebbe distolto dall'eliminarlo. Si era intrappolato con le sue stesse mani chiamandomi Gran Maestro solo per salvarsi la vita e rinfacciarmi quanto fossi debole su quel fronte. Quanto fosse semplice penetrare le mie difese. Non era giusto, né rispettoso. Meritava di morire, soltanto. Ecco cosa pensavo mentre colpivo il suo viso con le nocche, il petto e l'addome gonfiati a suon di calci, lo guardavo piegarsi su se stesso come un pezzo di carta da buttar via. Ecco cosa pensavo nell'osservarlo ai miei piedi, impotente. Che senso aveva credere in un dio giustiziere?, pensavo. È uno spreco. È uno spreco quando il maggior piacere che mai potrò trarre da questa vita verrà dalla vendetta. Da questo, e da nient'altro. È soltanto un'illusione. Solo una scusa per lasciare che un popolo di pecore soccomba tranquillamente con i lupi che si sbranano in piena libertà tra di loro. 
Ero stato cresciuto per uccidere in nome di una causa, ma forse Benjamin Church aveva ragione. Non era per l'Ordine che lo stavo ammazzando. Voglio dire, anche, certo, ma non era quella l'unica ragione. La mia soddisfazione. Vederlo morire come William Johnson, solo per aver messo in discussione chi ero. 
Un paio di suoi denti saltarono via, schizzandomi la camicia di sangue. Tra me e Reginald c'era molto più di un'impiccagione in sospeso. Non lo stavo ammazzando di botte, con le ossa che si incrinavano sotto le mani e rendevano il suo volto una maschera grottesca e deforme di sangue, soltanto perché aveva tradito l'Ordine. Non ero orgoglioso a tal punto da ucciderlo per aver mollato la mia società, né tantomeno per ciò che stava facendo. Cristo santo, mi aveva reso un favore. Stava disturbando George Washington, come aveva ribadito nel mio sogno, aiutandomi nell'ascesa al potere di Charles, dei Templari. Non lo stavo punendo per quello. 
La verità, una verità di cui mi rendevo febbrilmente conto tra un pugno e l'altro, era che mi trovavo al centro di una guerra, una battaglia senza prigionieri, dove o si vince o sei morto. 
Non c'era molta scelta. Stavi da una parte o dall'altra. Ben Church aveva deciso di rimanere nel mezzo, di fomentare una ribellione per via dei suoi affari e delle sue idee. In guerra le fazioni ribelli danno solo fastidio. Vanno annientate, da qualunque parte si trovino. Pensate soltanto ai Mohawk, agli Assassini o ai comuni cittadini come Stephane, cui era stato tolto tutto in quella guerra sanguinosa e brutale che camuffavano gloriosamente da rivoluzione. 
Non c'è niente di rivoluzionario nella guerra, è una storia destinata a ripetersi con nuovi metodi per sterminare. Da sempre i ribelli sono i primi a soccombere. 
Mi spiace, Ben. Mi spiaceva anche allora, davvero, ma non c'eri tu in ballo. Era la mia guerra contro Reginald. E lasciarti agire senza che tu lo facessi per me... non era la mossa giusta. Non era il messaggio da dare. 
Obbedisci o muori. Avevi scelto di allontanarti, di dubitare dei miei metodi tanto quanto quelli di Birch? Non potevo permettermi altri errori. Nessun ostacolo avrebbe intralciato la mia via una volta diventato Gran Maestro. 
C'era Connor insieme a me, ma non ero lì per farti uccidere da lui. Si trattava di me. Dei Templari e della nostra piccola guerra civile. E nei conflitti non ci si può permettere di giocare col fuoco. Si rispetta la gerarchia. Si fa come dico io. 
– Basta! 
Sobbalzai nel sentire la sua voce dietro di me. Non l'avevo sentito scendere, forse a causa del cozzare delle armi o dei miei ingombranti pensieri. Estrassi la pistola e mi voltai a guardarlo. Connor si stagliava, alto e imponente, proprio in mezzo al corridoio formato dalle casse. Nei suoi occhi brillava la pietà. La debolezza. – Siamo qui per un motivo – sussurrò, e nel suo tono riconobbi la paura. Oh, lo spaventavo. Il mio figliolo aveva paura. E fa bene. Faceva dannatamente bene. Doveva temermi, come dovevano temermi e rispettarmi Charles, Ben, Thomas. Questo o la morte. Questo o niente, così è la guerra. 
Poggiai la canna della pistola contro la palpebra sinistra di Benjamin Church, l'occhio gonfio che fremeva sotto la pressione del metallo. Affondai il dito sul grilletto con le labbra ritratte in un rabbioso e grottesco sorriso. 
Bum, pensai. Addio, Ben.
Invece nulla. Scarica. 'Fanculo. Scavai nella tasca per un po' di polvere e dei proiettili, e presi a ricaricare con tutta la furia del caso mentre le ginocchia di Church tremavano sotto i calzoni. – Per motivi diversi, temo – grugnii mentre alzavo il cane e tornavo a puntare la pistola contro Ben. Al cavallo dei suoi calzoni, stavolta. – Una volta ti ho salvato da uno che diceva ti avrebbe tagliato il cazzo – gli dissi con un ghigno subdolo. – Non aveva idea di quante poche palle avessi, già allora. Forse avrei fatto meglio a lasciargli concludere l'opera. – Mi avvicinai al suo viso con gli occhi offuscati dalla rabbia, dalla cieca furia che scavava nel mio petto. – Così non avresti mai potuto prendere me per il culo. 
– Haytham... 
Non m'interrompere, cazzo! Avevo voglia di sfondare il viso di Connor con un pugno. Voleva il dannato carico? Che se lo prendesse! Io avevo di meglio da fare. – Mi spiace. Vorrei essere più teatrale o... O farti soffrire di più. – Schioccai la lingua come se mi dispiacesse. Non ha più importanza. – Ma la causa dei Templari, di cui naturalmente non t'importa nulla, ha un fine pacifico. E io non voglio infrangere i principi dell'Ordine. Inaugurerò il nuovo mondo con un gesto misericordioso, Ben. – Strinsi la mano intorno alla sua spalla, le labbra tese in una smorfia crudele. – Dovresti essermi grato. 
– Andate a fottervi. – La sua voce era rotta dalla paura. Peccato che non si fosse anche pisciato addosso, sarebbe stato più divertente. 
– Mi piacerebbe, ma essendo in mezzo all'Oceano non avrei molta scelta al riguardo. – Mi strinsi nelle spalle. 
– Haytham, non... – Connor avanzò di un passo, lo sentivo fremere d'impazienza alle mie spalle. 
Scrollai il capo. – Mi dispiace tanto, Ben. – Sorridevo. Mi dispiaceva come mi sarebbe dispiaciuto andare a puttane o brindare. Ecco quanto mi dispiaceva.  
– Haytham... 
La deflagrazione coprì ogni altra parola di Connor e il proiettile affondò nell'orbita di Church per restare infisso nel suo cervello come una lezione di vita. O di morte. Si afflosciò sulle assi di legno, la bocca semiaperta e una strana aria di pace in volto, perché nulla aveva più importanza. Era finito all'altro mondo, e io non potevo desiderare di meglio per un simile traditore, un bastardo come tanti altri. Non meritava la consapevolezza. Non era un valido custode della verità. 
Mi alzai con le mani sporche di sangue e riposi la pistola nella fondina, il cuore più leggero. Finalmente. – Possiamo andare – dissi voltandomi verso Connor. Mi pulii le mani sulla redingote in un gesto secco, definitivo. Come un'esecuzione. 
Oltretutto il dolore muscolare alla faccia mi fece intuire che stavo sorridendo. Razza di  bastardo, eh? 
Connor, invece, non aveva intenzione di muovere una sola parola in mia difesa. Glielo si leggeva negli occhi scuri e pieni di rabbia. – Possiamo andare? – ripeté con i pugni stretti lungo i fianchi. – Possiamo andare, dici? 
Mi strinsi nelle spalle. – Tu hai il tuo carico e io ho fatto ciò che devo. Possiamo andare. – Per tornare dove, poi? Non avevo pensato a quello. Ci avrebbe accolto in casa o in un'altra taverna dove ci consideravano un pericolo pubblico? Oh, non aveva importanza. Senza Ben tra i piedi, sapevamo entrambi che c'era solo più una cosa da fare. 
Prendere la Mela. – Il carico, Haytham? – Sollevò il coperchio di una delle casse e sbuffò. – Qui non c'è niente. – La inclinò verso di me. Solo paglia vecchia, resto di qualche imballaggio, e ciuffi di polvere. 
Avevano già svuotato tutto. Non riuscii a trattenere un sorriso. – Dunque avevo ragione. 
– Non ha alcuna importanza! – sbottò con gli occhi spalancati. Non poteva credere che suo padre fosse tanto superficiale, oh, povero ragazzo. Idiota. – L'unico motivo per cui io e te stavamo collaborando era salvare quel carico e portarlo all'Esercito Continentale! E tu hai ucciso l'unica persona che ne era a conoscenza! Complimenti! 
Abbassò lo sguardo e mi ritrovai a fissare il cadavere di Ben. Ah, come mi piaceva vederlo in quel modo. Era molto più divertente quando stava zitto o tremava di strizza. – L'unica persona, dici? – esclamai con un sorrisetto. Scrollai il capo, poggiando una mano sulla sua spalla. – Saliamo. Troveremo quel carico, se ci tieni così tanto. – Papà, papà, il mio pupazzo si è scucito! Oh, no, figliolo, no! Vieni, su, vedrò che posso fare. Sembrava di parlare con un bambino di cinque anni. Patetico. 
Loro e questa fissa di parlare con noi prima di finirci. Come se avesse qualche sorta d'importanza. Cosa credevano, che ci portassimo certi segreti fin nella tomba? Andiamo. Thomas sapeva di me e Reginald, di cosa mi era successo da ragazzino. Nessuno riusciva a tenere la bocca chiusa per un'intera vita. 
Ero già stato sulla Providence, e quel pensiero mi fece salire le scale che portavano sul ponte superiore con un sorriso spavaldo. Non c'era posto in cui fosse difficile mantenere un segreto come una nave. Credetemi. Ci sono orecchie ovunque, il legno crea una buona acustica, e alla fine si sputa il rospo per noia. 
Oh, no. Nulla era facile da nascondere in mezzo al mare.

 

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Capitolo 54
*** In the name of law. ***


Le cose che voglio, di Max Payne.
Una sigaretta.
Un whisky.
Il sole che splende.
Voglio dormire, dimenticare.
Cambiare il passato.
Mia moglie e mia figlia che mi sorridono.
Munizioni infinite e licenza di uccidere.
Max Payne 2: The fall of Max Payne. (Max)
 
Quando poggiai i tacchi sulle assi del ponte rischiai di perdere tutta la sicurezza in me stesso che avevo appena riacquistato con un'assai elegante caduta sulle chiappe, tanto era il sangue versato sulla Welcome. – Tom – grugnii con le dita affondate nell'avambraccio di mio figlio per tenermi in piedi. Niente avrebbe potuto farmi dubitare in quel momento. Niente di niente. I moralisti sbagliano quando dicono che non si deve uccidere. Fa parte della natura umana, della nostra parte animale. Niente ci assuefa più di un sano omicidio. – Meglio dare un'occhiata – aggiunsi davanti allo sguardo preoccupato di Connor, ma la verità è che tutto il mio corpo fremeva d'eccitazione all'idea di vedere uno spargimento di sangue. 
– Bene, bene, bene. – I passi di Tom sciaguattavano regolari sul legno bagnato, cadenzando le sue parole. Il fumo dei cannoni si era finalmente dissolto, dunque lo si vedeva con chiarezza in piedi davanti a uno dei boccaporti. Camminava avanti e indietro, una mano sullo stomaco e l'altra affondata in tasca, con lo sguardo fisso all'albero maestro e alla sua vela stracciata, di cui rimanevano solo lembi sottili a penzolare  verso dritta. – Dunque mi costringete a essere cattivo. – Schioccò la lingua così forte che lo sentii da laggiù. – Volevo evitarlo, davvero, ma nessuno dei vostri amichetti ha deciso di parlare, per quello sono dove sono. Mi sarebbe piaciuto incontrare gente più collaborativa. Tra colleghi... Avrei potuto risparmiarvi. 
– Noi non siamo tuoi colleghi – gli sputò addosso qualcuno, una voce familiare ma distorta dalla paura. Non riuscivo a ricordare chi fosse anche perché il mio cervello annebbiato era inevitabilmente attratto dai lembi di vela ciondolanti dall'albero. 
Che non erano affatto pezzi di stoffa, come scoprii quando mi avvicinai di qualche passo. Ruotavano su loro stessi come prosciutti, sospesi nel rigido vuoto tra la morte e la fossa che non avrebbero mai avuto, mani e piedi legati. Alcuni avevano i calzoni bagnati, altri l'uccello dritto ancora visibile contro la patta. Imbarazzante. Sperai vivamente che non provassero mai più a impiccarmi. Sarebbe stata una fine piuttosto squallida, specie davanti a Reginald. Ugh. 
Erano i marinai della Welcome che Tom stava freddamente giustiziando, uno dopo l'altro. I sopravvissuti, almeno. Ne contavo cinque già morti, più altre tre sagome ancora precariamente sulla punta dei piedi sopra quelle casse, per evitare di soffocarsi prima che fosse giunta l'ora. Oh, sarebbe giunta. Tom non mi pareva tipo da fare prigionieri. – Tra criminali. Colleghi in ciò che facciamo. – Hickey sollevò le mani in segno di resa, come a dire che, Dio!, parlare con quella gente era impossibile. – Per cui ve lo chiederò un'altra volta. Siete già passati dalla Martinica, miei altolocati amici? 
Un brivido mi scrollò le viscere mentre lanciavo un'altra occhiata all’albero pieno di morti. Uomini impiccati, sacchi vuoti e ciondolanti come otri bucati. Tutto ciò che avevano dentro era stato dato via per l'Ordine, per me. Ero loro grato. Mi sentivo quasi felice. Ho sentito spesso dire che il denaro non fa la felicità di un uomo, e iniziavo a pensare che chiunque l'avesse detto fosse nel giusto. Non si parlava di soldi, ma di potere, sicurezza in se stessi. La consapevolezza di un posto sicuro nel mondo. 
Ognuno di loro, di quei cadaveri che dondolavano nel vuoto, era un uomo cui dovevo qualcosa. Ridacchiai tra me pensando che mi sarei riscattato nell'aldilà, sapete, magari portando una bottiglia di scotch con me nella bara o facendola riempire d'oro. Sì. Ce la saremmo spassata, e persino l'inferno sembrava migliore senza il peso di Ben Church sul groppone. Tutto sarebbe andato bene, anzi, meglio. Anche Reginald, per quei pochi minuti, era sparito dalla mia mente. Lui, e Charles e tutti gli errori che avevo fatto in passato. Non importava più nulla, perché ora potevo vincere. Era un gioco ad armi pari, finalmente. Avevo dovuto subire i suoi subdoli giochetti fin da quando ero un ragazzino. Mi aveva rubato il posto con l'inganno e me lo sarei ripreso, diavolo. 
Ero ubriaco di vittoria. Potevo fare qualsiasi cosa. Sì, lo so. Un illuso. Ma era bello, per una volta, godere di quella sensazione. 
Dentro di me sapevo che non sarebbe durata a lungo. 
– Non siamo nemmeno tuoi amici, bastardo! – berciò quello più a sinistra, agitandosi come se potesse liberarsi delle corde. Era un tipo ben piazzato, il viso rosso e un gran brutto taglio sulla fronte che gli conferiva un cipiglio assai inquietante. I pochi capelli che gli erano rimasti in testa, grigi e ritti, presentavano macchie di sangue e vecchie croste. Tutti i suoi abiti erano schizzati di vermiglio. 
Thomas si grattò la nuca e allargò le braccia. Eh, già, non si poteva proprio lavorare con quella gente. – Io ci stavo provando, vecchio. Volevo essere gentile. A quanto pare rendete inutile ogni mio sforzo. – Si voltò teatralmente verso di me, le mani giunte dietro la schiena, e sogghignò. – E non mi piace affatto fare tanto casino per non ottenere niente. 
Con un solo, fluido gesto colpì la cassa sotto il mercenario con un potente calcio. Il vecchio si ritrovò a scalciare nel vuoto, senza più un appoggio, tutto il peso del corpo scaricato sul cappio che teneva al collo, teso come una corda di violino. – Dunque! – Riprese il suo incoraggiante discorso a voce più alta, per sovrastare gli ultimi rantoli del marinaio. – I miei amici qui – indicò me e Connor con un gesto del pollice – hanno già parlato con il vostro capo, Ben Church, che vi saluta con tanto affetto dall'altro mondo. – Sollevai un sopracciglio con ammirazione. Bell’espediente. L’ideale per far cagare addosso i pochi uomini rimasti sulla Welcome. Non… Non sapeva che Ben era morto sul serio, giusto? – Spiacente, non potrà più darvi la paga che è vostra di diritto. Quindi ditemi perché cazzo ogni singola cassa su questa merda di nave è vuota e io vi lascerò vivere. 
Che diavolo... Si era messo anche lui a scavare nel carico? Bene. A quanto pare l'unico cui non fregava niente di quei rifornimenti ero io. – Come sai che è tutto vuoto? – grugnii quasi senza rendermene conto. Ti prego, Dio, fa' che non abbia deciso di appoggiare Washington. Fa' che non abbia perso anche lui. 
Tom fece spallucce. – Bentornato, capo. Non si usava salutare, a Londra? – Ricominciò quella sua beffarda marcia davanti ai due uomini rimasti ancora vivi e sporse il labbro inferiore, fingendosi offeso. – Cercavo da bere. 
– Ah. Questo spiega un sacco di cose. – Incrociai le braccia e ricambiai il ghigno, lasciando che finisse il lavoro. Affari suoi. Io avevo avuto forse più di quanto speravo. 
Connor, invece, non aveva intenzione di lasciarlo sfogare in santa pace. – Be', pensavo che se non avessimo trovato quella roba la principessina qui si sarebbe messa a urlare. – Tom indicò mio figlio con un cenno della testa e tirò un sigaro fuori dalla tasca, rigirandoselo tra le dita come se lo rilassasse. 
 Dov'è il carico? – brontolò Connor ai sopravvissuti. Non avrebbe intimidito nemmeno una mosca. – Nella stiva non c'è nulla, solo le casse. Come siete arrivati fin qui?
Scrollai le spalle. – Forse bevevano acqua di sentina. – Thomas m'ignorò, troppo impegnato a godere del timore che incuteva negli altri, e Connor... Ah, che m'aspettavo?
– Avevamo attraccato per fare rifornimento – mugugnò uno dei due, il volto rigato dalle lacrime. – Abbiamo scaricato tutto su un'isola... Ti prego, non m'ammazzare, tutto ma non farmi fuori, per piacere, c'ho una bambina, cazzo, ho... Ti prego. Ti prego non farmi del male... Pietà. – Davanti alla prospettiva di morire tutti, o quasi, si spegnevano come lucciole quando tutti i loro compagni sono morti. Si arrendevano. Era il caso di questo poveraccio. L'altro, un tizio che arrivava appena alla mezz'età e il cui sguardo brillava selvaggio in mezzo ai capelli neri e aggrovigliati, sembrava fatto di tutt'altra pasta.
Thomas gongolò, puntandogli il sigaro contro come un'accusa. – Davvero?
– Come si chiamava l'isola? – intervenne Connor, tutto ansioso. 
Il marinaio sgranò gli occhi, confuso e distrutto. – Io... – Se la stava facendo sotto. – Non lo so. Non lo so, io non so nemmeno leggere, cazzo, non so che razza di nome avesse, davvero, non... 
– Ah, manco quello sai fare? – Tom si accese il sigaro e prese una boccata con calma estenuante. – Pensavo che Sua Maestà scegliesse con più cura i propri rappresentanti qui. 
Quello scosse il capo con forza. – Non sono inglese, amico, lasciami stare, lasciami stare, per favore... 
– Se la vedessi su una cartina sapresti riconoscerla? – Era una scena spassosa, davvero. Hickey che li incalzava con le minacce, divertito come un bambino, e Connor che cercava di spillare più informazioni possibili senza che nessuno badasse davvero a quanto diceva. 
– Eh? – Lo sguardo dell'uomo brillò di speranza. – Ma che vuoi che ne sappia io delle cartine? – singhiozzò, disperato. – Io non ne ho mai aperta una, cazzo! Lasciami andare, ti prego! Non è lontano da qui, basta andare a sud! 
Cristo, che precisione! Sono commosso. – A sud, dici? – Tom tirò fuori un pugnale dalla cintura e gli squarciò la camicia, graffiandogli appena l'addome scarno e teso come se avesse ingoiato un enorme acino d'uva senza masticarlo. Il marinaio prese a sussultare come un bambino, le lacrime che scorrevano copiose lungo le guance. – Vediamo se questo di aiuta a recuperare la memoria, cazzone. 
Rinfoderò la lama e strinse un capezzolo del poveraccio tra pollice e indice, tirandolo rudemente verso di sé, con il rischio di buttarlo giù dalla cassa. – Non farmelo ripetere – ringhiò mentre quello gemeva e sbiancava. – Qual è la cazzo di isola in cui avete mollato il fottuto carico? – sbottò. Era arrivato alla fine della sua famosa pazienza. 
– Non lo so... – La voce dell'uomo era talmente flebile che dovetti leggergli le labbra per capire. Stava piangendo in silenzio, privato di ogni speranza. 
Thomas prese un altro lungo tiro e strinse il sigaro nell'altra mano. – Ah, Cristo – borbottò. – Forse non mi sono spiegato bene. 
Con un gesto rapido e sicuramente premeditato, Thomas affondò il sigaro ancora acceso nel capezzolo del marinaio. L'odore dolciastro che si diffuse sul ponte – carne cotta, carne umana – mi dava la nausea, ma al tempo non potei evitare di pensare a quanto la terraferma mi mancasse. Terreno saldo sotto i piedi e cibo decente, sempre disponibile. Ah. 
L'uomo strillò come se gli avessero tagliato le palle, un urlo acuto, devastante, con gli occhi che grondavano lacrime sulle guance sporche. Mi sembrava strano che non fosse crollato anche Connor davanti a una visione tanto patetica. Una piccola voluta di fumo si sollevò dal punto nero, ormai carbonizzato, in cui prima sorgeva il capezzolo. Thomas si fece una grassa risata. Mio figlio aveva una mano sulla bocca e pareva dovesse vomitare da un momento all'altro. – Bastardi – singhiozzò Capezzolo nel bel mezzo del pianto. – Sadici bastardi di merda... 
– Oh, esagerato! – Tom estrasse un altro fiammifero e si riaccese ciò che restava del sigaro. – Andiamo, amico, guardami. Credi che questo faccia di me un sadico bastardo di merda? Ti ho bruciato uno stupido affare sul petto che non ti serviva a un cazzo di niente. – Si strinse nelle spalle. Non giudicatemi male, ma non credo avesse tutti i torti. – Oppure mi stai dicendo che sei tu la fighetta di casa, eh? Forse mi sono confuso e là sotto non hai il cazzo, ma un paio di buchi di cui sento parecchio la mancanza. – Sollevò un sopracciglio, come stupito dalla sua stessa teoria. – Questo mi porterebbe a dire che avevi delle tette davvero orrende, amico, quindi è meglio che tua figlia, a casa, non succhi più nulla da lì. Ecco, – prese a gesticolare con il sigaro – controllare che tu abbia la fica o buttartelo semplicemente nel culo, solo perché mi va, quello farebbe di me un sadico bastardo di merda. 
Mi bastava guardarlo per capire che faceva sul serio. Non era un gioco, non questa volta. Gli andava davvero di infilargli l'uccello in mezzo alle chiappe. – Si da il caso che non lo farò. – Sollevò il piede, esattamente come aveva fatto con l'uomo precedente, e mollò un calcio alla cassa su cui l'uomo era issato. Quello cadde e, seguendo il suo predecessore, cominciò a scalciare e mugolare. – O-oh! – berciò tirando un pugno all'aria. – Questo sì che mi rende un sadico bastardo di merda! Questo, cazzo! Questo! 
Sentivo lo sguardo di Connor sulla mia schiena. – Ecco ciò che fa in tuo nome – grugnì mentre Thomas si piegava in due dalle risate. – Ne sei fiero? 
Non m'importava. In quel momento sarei stato fiero anche di vederlo correre nudo per il ponte costellato di cadaveri e tinto con il sangue. – Se sai come ottenere di meglio dal capellone, ragazzo, ti suggerisco di farti avanti. – Prima che Tom lo scambi per una donna e lo penetri davvero.
Il bastardo impiccato sbarrò gli occhi, la lingua stretta tra i denti, e prese a sbavare come un cane rabbioso, con le gambe che si agitavano violentemente nel nulla mentre nessuno di noi muoveva un dito per aiutarlo, nemmeno Connor. Era bizzarro, lo ammetto, che non volesse fermare Thomas. Forse, per una volta, non gli sembrava importante salvare gente come quella. Uomini che presto o tardi sarebbero stati appesi comunque. – Prova a parlarci tu – grugnì guardando l'ultimo superstite con la sua aria compassionevole. – Tienilo in vita – sibilò, tutto sdegnato. – Almeno lui. 
– Come-come? – Thomas si voltò a guardarmi con le braccia incrociate sul petto e le labbra strette.
Perfetto. Ero fottuto. Fottuto. Se c'era qualcosa che non volevo far sapere a Tom – non subito, almeno – era la morte di Ben per mano mia. Avrei dovuto trovare un modo per spiegargli le cose, un buon modo. Dirgli che in fondo era meglio così. E come al solito, mio figlio aveva rovinato tutto. – Allora? 
– Non avevi un uomo da interrogare? – esclamai scrollando le spalle. Avevo deciso di non farmi mettere i piedi in testa da Tom. Nessuno poteva permettersi di discutere ciò che avevo fatto, e anche se Hickey era l'uomo che più avevo avuto al mio fianco, doveva capire che non poteva fare sempre di testa sua. Cazzo, non per niente non siamo noi quelli della libertà e del popolo al comando. 
Tom sputò un grumo di bile e catarro sul ponte, asciugandosi la fronte con la manica. – Ho tutto il tempo del mondo per quello – mi sibilò contro come una zitella inacidita. – Ora dimmi, capo. Che fine ha fatto Ben? 
Dimmi? Stava davvero dando degli ordini a me? D'accordo. Non era un bambino. Era passato il periodo in cui avevo paura della sua opinione. Diglielo. "Gli ho sparato in testa. Ho guardato il suo cervello andare in pezzi sul legno e il suo sangue imbrattare tutto ciò che avevo intorno, ho visto il suo occhio saltare in aria e lasciare un'orbita con una meravigliosa vista sulla sua testa vuota. L'ho guardato morire dopo avermi tradito e preso per il culo, e ci sono stato bene. Non sai quanto, Tom." Coraggio. Che ti fa? Diglielo. Diglielo. – Benjamin è morto – dissi con il volto quasi accostato al suo. – E non ti devo nessuna spiegazione. 
Non sussultò quando glielo dissi. Forse se lo aspettava. La mia testa aveva cominciato a vacillare dopo quel sogno, quando mi ripeteva che soltanto lui avrebbe potuto salvare il mondo da Washington, continuando a infastidirlo in quei giochetti da bambini di sette anni. – Ne avevamo parlato. – Aveva la mascella contratta e lo sguardo gelido. Misi a fuoco l'uomo sulla cassa alle sue spalle e quasi mi venne da ridere. La Welcome ondeggiava lentamente senza nessuno al timone e quello doveva stringere i denti e giocarsela d'equilibrio per restare in piedi, bestemmiando tra sé per ogni movimento di quella stupida corvetta che aveva portato soltanto guai. – Non ero d'accordo. 
Sporsi il labbro inferiore. Mi aveva detto che non lo sapeva. Non che non era d'accordo. – Hai appena impiccato metà dell'equipaggio di questa nave, Tom. Non credo che tu possa dirmi chi sia giusto ammazzare e chi no. – Per una volta non mi sentivo un idiota nel rispondergli. Non avevo più nessuno sopra di me. Tom era soltanto feccia, come tutti gli altri. Perché uccidere Benjamin mi aveva conferito tanta forza d’animo? Era una sensazione potente, animale, che faceva brillare gli occhi di luce nuova, come dopo una sana bevuta. Dopo aver ridotto il confronto tra me e Reginald a una specie di parità non c'era nulla che potesse fermarmi. 
Come al solito, sì, ero un illuso, stronzo e dannatamente stupido essere umano. E in quanto tale, sbagliavo. 
Mi sbagliavo di grosso, quella volta.  Uccidere Ben non aveva cambiato niente. 
Thomas sbuffò e scavò nella giacca fino a trovare il portasigari. Ne infilò un altro in bocca con aria di sfida. – Sai una cosa, capo? – Aveva le labbra piegate in un sorriso tenebroso, strette attorno al sigaro come fossi la sua puttana, come se la sua fosse la sola opportunità che avevo per uscirne vivo. – Ero certo che avresti ucciso Ben. Quindi – estrasse la sciabola e prese a rotearla con maestria, padrone completo della situazione, – d'ora in avanti si fa quello che vuoi tu, senza discussioni del cazzo. Sarai padrone assoluto delle tue scelte, caro il mio Gran Maestro, e la mia opinione resterà a esclusivo vantaggio del sottoscritto. – Si poggiò una mano sul petto con falsa modestia, ma avevo capito dove stava andando a parare. Voleva fregarmi. – Congratulazioni. Sei il capo. Ora ogni scelta è in mano tua. – Mi stava abbandonando a me stesso davanti alle decisioni difficili, quelle che mi spaventavano più di qualunque altra cosa al mondo. – Così dovrai finalmente prenderti la responsabilità delle stronzate che metti in atto, e non potrai accusare nessuno su questa terra di averti consigliato male. 
– Non l'ho mai fatto – dissi, ma la mia voce suonava flebile come quella di uno scolaretto impaurito. 
– Oh, sì. Ti nascondi dietro le paure altrui, dietro ciò che ti consigliano. Sei quasi alla fine, Mastro Kenway. È ora che tu comprenda il peso delle tue azioni. – Sapeva di che parlava. L'aveva imparato impiccando un bambino per me, e ora scaricava ogni responsabilità delle azioni dell'Ordine sul mio groppone. 
Bastardo vendicativo del cazzo. – Questo significa che potrei anche ammazzarti, se volessi. – Feci scattare la lama celata sotto il mento di Tom, la voce iraconda e tutta l'intenzione di far scorrere la sua vita ai miei piedi. Mi aveva in pugno, e aveva ragione. 
– Fallo – ghignò con una scrollata di spalle. – Affari tuoi. 
Sostenni il suo sguardo da cane rabbioso, fermo e assetato di sangue, sinceramente divertito per l'incertezza che era sempre pronto a trovare nella mia voce, nel mio animo. Mi teneva stretto per le palle, ma non per questo mi sarei arreso. Non davanti a lui, per lo meno. 
– Lo sapevo – esclamò con quel ghigno da pervertito sempre stampato in faccia. – Stai imparando a pensarci su. E il vecchio Tom Hickey ti è troppo utile per fargli del male. – Mi girò attorno e strinse una mano sulla mia spalla, civettuolo. 
– Finché non sarò davanti a Reginald – replicai, cercando di sembrare più forte. Come se potessi mentirgli. 
Fece spallucce e s'avviò verso la botola di coperta. – C'è ancora tempo, capo – cantilenò. – C'è ancora un saaaacco di tempo. 
Sparì nella stiva, probabilmente a festeggiare con una sega. Schifoso, intelligente figlio di puttana. Ammazzare Ben e fingere di diventare Gran Maestro non aveva risolto proprio nulla. Che senso aveva cercare di portarsi in pari, di volgere la situazione a tuo vantaggio, quando alla fine sono sempre i tuoi unici amici a ferirti? Sempre quelli che ti stanno accanto, più vicino, a sussurrare sulla tua spalla come demoni? 
Rabbrividii, guardandolo scendere nella stiva, e mi passai una mano sulla fronte. Tanto valeva porre fine a quella pagliacciata. Così mi voltai verso l'ultimo uomo, ancora appeso per il collo all'albero maestro della Welcome, cercando di sembrare sicuro di me. – Ehi! – Il mio sorriso era così tirato da fare male, come se me lo stessero scolpendo in faccia a martellate. – Una bella traversata, non credi?
Prima non ne ero del tutto sicuro, ma quando sollevò la testa e i miei occhi caddero nei suoi... Non so. Semplicemente, per un attimo non dovetti fingere di sorridere in quel modo. Scoppiai a ridere, ridere come non facevo da tempo. E non tanto per lui, no. Sghignazzavo per me, per quanto ironica e assurda fosse la situazione. Un altro vecchio conoscente che aveva cercato di uccidermi e che il caso finiva per piazzarmi di fronte come un beffardo messaggio di sfida. Mi disorientava, così come stare solo e prendermi davvero le responsabilità di qualunque cosa. Perché? Ogni volta che mi ero messo a capo di una situazione, di qualche piano, tutto era andato a rotoli. I miei paletti continuavano a crollare, e senza mi ritrovavo a traballare senza controllo. Ero un inutile fantoccio dalle parole vuote, perché da solo non riuscivo a stare. Forse... Forse la colpa era tutta di mia madre, che voleva per forza impedirmi di restarle accanto, soltanto io e lei. 
Basta. Ecco qual era il problema. Continuavo a mettere me stesso prima del dovere. Non era più tempo di essere egoisti. Dovevo almeno sforzarmi e far finta di stare bene, sicuro e rigido come la colonna portante del mondo. Dell'Ordine, almeno. – A quanto pare non ti ricordi di me, giusto? 
Come se la mia voce lo avesse risvegliato, l'ultimo superstite dell'equipaggio sollevò il capo e mi studiò. Feci lo stesso, perché quei pochi anni non avevano cambiato praticamente nulla. Dal Congresso Continentale i suoi occhi accesi e crudeli erano rimasti gli stessi, solo lontanamente annebbiati dalla paura di morire, e le labbra curvate in quella solita piega strafottente. Il viso sembrava cotto su una griglia, scuro e secco come un ciocco di legno, e la camicia strappata e schizzata di sangue che aveva addosso lo faceva sembrare poco più che un mendicante. – E chi dovresti essere? – abbaiò. La sia voce era carica di disprezzo. 
– Ah, il gioco era per te. Boh. Vediamo se te lo ricordi, va bene? – Gli girai attorno mentre Connor si stropicciava le mani l'una nell'altra, gli occhi sgranati. Non poteva perdere anche quest'occasione. Per quanto mi interessava, poteva anche perdere entrambe le gambe. – Ti do una mano. Ricordi il Congresso Continentale? 
Sul volto smunto e contuso di quel bastardo cresciuto in mare si dipinse un ghigno rabbioso. Probabilmente si stava consumando, preda della rabbia al ricordo di tutti i soldi che gli avevo fatto perdere. Non ricordavo la cifra precisa della taglia sulla mia testa, ma doveva essere un bel gruzzolo rispetto alla paga media di un corsaro. O di un ammutinato in tempo di guerra, stessa storia. Non era più il periodo di mio padre. Tutto ciò che le navi trasportavano era di poco valore, qualche botte di rum, cibo e una cassa di coperte fatte con avanzi di stoffa e tutto l'amore dei soldati, britannici o continentali che fossero. – Forse – grugnì il bastardo. Oh, forse. Bello rispondere così. Non era certo uno sciocco, non teneva a farsi macchiare ufficialmente la reputazione da un ammutinamento. – Lavoravamo insieme? 
Il capitano che hai gettato in mare mi faceva lavare i pavimenti. Forse conta. Mi strinsi nelle spalle con un sorrisetto. – Non credo di esserti mai stato utile in quel senso – risposi con noncuranza. – Fa' uno sforzo. Io mi ricordo benissimo di te. – Niente. Il figlio di puttana era muto, e lo sarebbe rimasto. Sollevò addirittura un sopracciglio, come se la cosa lo sorprendesse. – Eri quartiermastro, un tempo. Hai scagliato il tuo capitano oltre il parapetto di poppa, prendendo il potere a bordo. Ammutinamento. Mi cercavano, allora. Avevo persino una taglia sulla testa. Pensavi bene di sfruttarla per consegnarmi all'Esercito Continentale e riceve un mucchio di soldi. Dunque sono scappato. Mi sono gettato in mare, appeso a una botte come un coglione. Probabilmente hai pensato che fossi morto, ma sbagliavi. Ed eccomi qui. Sono sopravvissuto. A quello come a un sacco di altre cose. – Mi resi a malapena conto di quanto fosse sbiancato e quanto i nostri visi fossero vicini. La punta del naso di quel vecchio amico fremeva contro la mia, con i piedi tentava di allontanarsi senza cadere dalla cassa. Tom aveva avuto una bella idea, niente da dire. – Perez. Allora, com'è stato lavorare con Ben Church? – Mi avvicinai ancora. Schifoso bastardo. Non c'era nulla che potesse fermarmi. – Oh, non ti preoccupare. Non avrai bisogno di ammazzarlo. – Feci scattare la lama celata. Finalmente ero in grado di agire, potevo riparare tutti i torti subiti fino a quel momento.
– A lui ho già pensato io. 
– Haytham, basta. – Una cosa, una soltanto. Mio figlio doveva smettere di intromettersi. Basta a me? Lui, piuttosto. Non era più la sua guerra, non solo. Non contava niente che a trovarlo fossero stati i miei informatori, e che ero stato io a permettere che la traversata continuasse anche dopo la morte di Faulkner? Tutte le volte che lo avevo spronato a non fermarsi, a continuare, avevano perso ogni valore? Chi era saltato sulla Welcome prima di chiunque altro, abbordando quell'affare per impedire che Benjamin scappasse? Oh, diavolo se era un mio diritto. Mio più che di chiunque altro. – Io ho bisogno di...
Sì, sì. Sollevai una mano nella sua direzione, fermandolo prima che scoppiasse in lacrime come una ragazzina in ansia. I tuoi stupidi rifornimenti. – Il ragazzo ha ragione, per quanto mi dispiaccia ammetterlo. So che portavate un po' di cose dell'Esercito Continentale. 
Perez ghignò, pieno di rabbia  e teso come la corda di un violino. – Del Continentale? Questa terra non ha nulla che sia davvero suo. Il tabacco è fatto grazie agli schiavi negri, i fucili, le coperte e le divise sono confezionati in Inghilterra! Non c'è niente che sia davvero americano. – Scrollai il capo. Pareva aver strappato quelle parole da uno degli sproloqui del vecchio Ben. Peccato che nessuno si battesse per i negri o gli indiani ma tutti fossero pronti a inchinarsi davanti all'Inghilterra. 
Sogghignai. – Diavolo, sono belle parole dette da un pirata. – Gli puntai la lama alla gola, guardandolo fremere dalla paura di cadere giù e impiccarsi. – C'è qualcosa che sia davvero tuo, Perez? Forza. 
– Non sono un...
– Ah, zitto. – La lama celata rientrò nella polsiera con un liscio sibilo, e i tendini del suo collo si rilassarono appena. – Smettila. Oggi mi sento misericordioso. – O forse so che ammazzare questo qui non darà la stessa soddisfazione di Benjamin. – Non ho voglia di perdere tempo ammazzandoti come tutti gli altri. Dimmi dove sono questi dannati rifornimenti e ti lascerò in vita. 
La cosa brutta degli esseri umani è che sperano, sapete? Gli occhi di Perez s'illuminarono come di una luce divina, scorgendo nelle mie parole una via verso la salvezza. Manco fossi Dio. Che razza di idiota. – Lo giuri? – Cercò di camuffare il giubilo con quel tono di voce arrochito da anni di grida feroci sul cassero di poppa, ordini, arrembaggi, salsedine, whiskey e canti accorati durante ogni traversata. 
Posi una mano sul cuore. – Lo giuro. – Giocare con la speranza delle persone è meschino, lo so. Cattivo. Non è forse ciò che fanno tutti? Washington, il Re, gli stessi Figli della Libertà sfruttavano i sogni del popolo. Eppure le città continuavano a bruciare, i proiettili schizzavano veloci e la pace non si scorgeva nemmeno in lontananza. Quella era la politica. E noi eravamo sempre c'entrati con la politica. Bisognava essere proprio ottusi per credere che ci interessasse solo far fuori gli Assassini. Non siamo mica come loro. – Voglio solo sapere dove avete lasciato quelle cose. – Ovvero, quante miglia avrò perso per assecondare mio figlio, le sue voglie da patriote e i desideri idioti dell'altro aspirante suicida? La curiosità quasi mi uccide. Non riuscì a trattenere un sorriso, la pelle seccata dal sole che tirava come fosse sul punto di staccarsi dal viso. Quasi. 
– Su quell'isola laggiù – sibilò facendo un cenno con la testa. – La Martinica o come diavolo si chiama. Adesso liberami. 
Mi sfregai le mani. – Capisco. E qua... Dov'è che siamo, di preciso? 
– Cristo, non lo so! Hai detto che mi lasciavi andare, no? 
Connor aveva già fatto scattare la lama celata, pronto a tagliare le corde ai polsi di Perez e lasciarlo libero di scorrazzare su e giù per il ponte o, che ne so, tuffarsi in mare e fuggire sul dorso di un pescecane. Allettante. Poggiai la mano sul suo avambraccio, fermandolo prima che agisse. – Credo che tutte queste onde ti stiano rendendo sordo, sai? – Gli presi il lobo dell'orecchio tra pollice e indice, tendendo la carne morbida verso di me. – Ho detto che ti avrei lasciato vivere, non che saresti stato libero. Goditi il viaggio. 
– Cosa? – Oh, sì. – Che cazzo significa? 
Feci spallucce, intimando a Connor di seguirmi sul cassero con un cenno del capo. – Esattamente quello che ho detto, Perez. Tu rimani qui finché non arriviamo in Martinica e ci assicuriamo che tu abbia detto la verità. 
– Non puoi farmi questo, Kenway! Io... – Sogghignai. Sapevo benissimo che cosa stava cercando, con gli occhi sgranati e la bocca mezza aperta. Un appiglio. Qualcosa che lo salvasse. Oh, e posso anche dirvi che cosa gli frullasse sicuramente in testa allora. La mia vecchia condanna mai scontata. Haytham Kenway, ricercato per l'assassinio di George Washington, o per aver tentato di farlo, piuttosto. Peccato che quella sperduta isoletta in mezzo all'Atlantico fosse territorio privato di Re Giorgio III, il quale probabilmente non sarebbe venuto di persona a stringermi la mano solo perché avevo fallito, mentre Washington camminava libero e beato per tutte le Colonie. 
Ah, già, scusatemi. Stati Uniti d'America. – Te la farò pagare, bastardo! Mi hai sentito? 
Roteai gli occhi. Quel teatrino mi stava scocciando. – Che hai da temere? Se ciò che dici è vero, al nostro arrivo sull'isola sarai libero. – Sì, di scegliere le ultime parole da pronunciare prima che il boia abbassi la leva. 
Incrociai un attimo il suo sguardo. Era colmo di disperazione, proprio quello di un uomo che sta per salire sul patibolo. Mi implorava di avere pietà, di risparmiarlo. 
Come se lui avesse avuto pietà quando aveva scoperto della taglia che mi pendeva sulla testa. Come se avesse mostrato pietà davanti al suo capitano o davanti a me, mentre mi guardava tuffarmi in acqua con il solo aiuto di una botte e della Prima Civilizzazione. 
Non era l'uomo giusto per implorare il mio perdono. 
E anche lo fosse stato, avevo smesso di provare pietà per gli altri. La dispensavo a  me stesso, come ne fossi l'unico meritevole. Avevo ucciso due vecchi amici e stavo andando ad ammazzare l'uomo che per me era stato come un padre. Non c'era tempo per essere caritatevoli. Nessun Gran Maestro lo era mai stato, per quanto ne sapevo. 
D'accordo. Lo ammetto. Non ero cresciuto con i migliori esempi del mondo. 
Consideratelo un effetto collaterale del farsi stuprare da Reginald Birch in giovane età. 
– Sai che cosa mi faranno allora – sussurrò Perez, riscuotendomi dai miei pensieri. – Sei un bastardo. Il peggiore bastardo che... 
– Già – dissi, noncurante. – Che ci vuoi fare? 
– Haytham. – Mio figlio sembrava addolorato, triste. Sentimenti che non aveva mai provato nei miei confronti. Stavo diventando un nemico. Forse lo ero sempre stato. – Sei...
Schioccai la lingua, come se mi stessi rivolgendo a un cavallo. – Al timone, ragazzo. – C'era una nota soddisfatta nella mia voce. La percepivo, un gusto dolce in fondo alla gola. – Prendila come una prova. Se riesci a portarci in Martinica senza impiccarlo ti do uno zuccherino. 
Mi scoccò un'occhiata in tralice. – Zuccherino? 
– È... – Oddio. Troppo difficile da spiegare. Perché doveva essere così lento? – Lascia perdere. Si mangia, comunque. È buono. Molto buono. 
Gli voltai le spalle, lasciandolo salire sul cassero di poppa con quell'aria scettica che lo caratterizzava. – Ah, e di' all'equipaggio del tuo amichetto americano di tornare a casa. Io ho da fare.
Lo sentii emettere un singulto interrogativo. –  Che cosa?
Che dicevo? Così lento. Nuotare con le sirene. Dio, mi manca la vista di un paio di poppe. – Mi faccio un goccetto – replicai grattandomi il collo con una certa soddisfazione. – Devo bere alla memoria di un vecchio socio. 
Furono le mie ultime parole, poi affondai nella calda e materna oscurità della cabina. Il ventre degli ubriaconi e dei figli di puttana.
Casa. 
– Ehi, pluriomicida. 
Sorrisi. Tom. Oh, Tom. Quanto mi era mancato. Non era stata una decisione premeditata, quella di uccidere Ben. Non potevo più farci nulla. Quindi, be', se voleva essere il buonista della situazione, affari suoi. – Che succede, hai iniziato a parlare da solo?
Sentii il rumore del suo pomo d'Adamo che saliva e scendeva al ritmo dei sorsi e, giuro, pregai che avesse lasciato qualcosa anche per me. – Spiritoso – grugnì. – Allora? Torniamo su quella merda spagnola?
Mi strinsi nelle spalle. Significava mollare Perez sulla corvetta. Rinunciare a quella gran fonte di divertimento. Oh, no. Giammai. – Credo che sarà una traversata solitaria. Una cosetta per pochi amici stretti. Io, tu, mio figlio e l'ultimo dei nostri ospiti allegramente appesi all'albero maestro. – Non riuscii a trattenere un ghigno divertito mentre mi sporgevo sul grande tavolo circolare in mezzo alla cabina e gli strappavo la bottiglia di mano, qualunque cosa fosse. 
Sentivo gli occhi scrutatori di Tom su di me mentre mandavo giù quella roba. Altro gin. Non sapeva di niente, solo una colata di fiamme in gola. Chissà da quanti anni era lì a invecchiare. – L'hai appeso davvero, allora? – Scoppiò a ridere, sbattendo il pugno chiuso sul tavolo. – Sembrava un tipo tosto, il capellone. 
Gli passai la bottiglia con un brivido lungo la schiena. Una delle cose più brutte che avessi mai bevuto, diavolo. – È ancora vivo – brontolai. Finché Connor non decide di gettarci tutti in pasto ai pesci. 
– Uhm. – Thomas buttò giù un lungo sorso, gli occhi socchiusi come stesse gustando nettare divino. – Al contrario del vecchio Ben. 
– Pensavo non volessi più parlare del vecchio Ben – grugnii nel fargli il verso. A dire il vero, io non ne avevo più voglia. Sicuramente il mio mondo era un posto migliore senza di lui. – Lo scafo è integro?
Tom ficcò il bulbo oculare nella bottiglia. Sembrava solo un'ombra in quella cabina buia, un demone pronto a sbranarmi per quell'ultimo errore. Suppongo che fosse troppo ubriaco per farlo, ma dentro di me speravo solo che non ne avesse il coraggio. Basta. Non avevo intenzione di combattere ancora con l'unico uomo rimasto dalla mia parte. – Era rinforzato. Non c'è nemmeno un graffio. – Sogghignò, prima di allungarsi e mollarmi un pugno sul braccio. – Ti stai rammollendo, eh, capo? 
Gli afferrai il polso prima che arrivasse a colpirmi e gli diedi uno scappellotto, il sorriso che scemava velocemente sulla mia faccia. La buia cabina della Welcome mi ricordava l’oscura grotta in cui io, London e Thomas avevamo trascorso un'indimenticabile notte – no, no, levatevi quelle espressioni dalla faccia – un po' di tempo prima. Il mio primo contatto con Giove, quel dannato sogno sull'Apocalisse, era avvenuto proprio lì dentro, in un luogo buio e chiuso che non conoscevo. 
Un brivido mi corse lungo la schiena e per un istante desiderai di andare a dormire sotto le stelle. Solo un istante. Poi rammentai le costanti lamentele di Perez, i grugniti di Connor, lo sciabordio delle onde sullo scafo e tutti quegli altri piccoli dettagli fastidiosi cui non riuscivo ad abituarmi nemmeno dopo due mesi in mezzo al mare. Per quanto mi sforzassi di illudere me stesso, non ero mio padre. Il mio corpo non era il suo. E poi doveva essere molto più giovane di me quando aveva iniziato a solcare gli oceani. Un'altra storia. 
Tom si massaggiò il collo con una risatina rauca, poggiando gli stivali sul piano del tavolo. – Diavolo, con te non si può dire niente – borbottò. Mi guardò con le sopracciglia sollevate in un cenno di sfida. – Ehi, capo, non mi hai ancora puntato una merda di pistola addosso. Porco demonio! Devo ritenermi fortunato? – Gli si allargò un gran ghigno in faccia. 
– Vuoi ancora parlare di Church? – No, Tom. Abbi pietà, per favore. 
Detto tra noi, nemmeno Thomas Hickey mi pareva molto in vena di misericordia. Non lo era mai sembrato, a essere onesti, ma quando si trattava di Benjamin avrebbe anche venduto sua madre. Non gli importava niente di niente. – Mi spiace che sia morto, solo. 
– Stava aiutando la Corona – ripetei per la millesima volta. – È sbagliato. 
– Me l'hai detto cento volte. Cristo, ho capito. – Inclinò la bottiglia contro le labbra e buttò rumorosamente nello stomaco altro gin. – È una merda lo stesso. 
Sospirai. Forse non aveva tutti i torti. – Ben era un bastardo. Non ha mai fatto niente per nessuno. Nemmeno il suo mestiere. – Ricordavo bene quella vecchia conversazione con il chirurgo, poco dopo averlo salvato. Lavorava nella medicina per il denaro, non per salvare gli altri. 
Una risatina isterica si gonfiò nel mio petto. – Perché, tu, invece? – Thomas scoppiò a ridere. – Dimenticavo che sto parlando con un cazzo di Gesù Cristo sceso in terra. 
Seguii il suo esempio e ridacchiai. Era liberatorio. Faceva bene. Proprio bene. – Eravate molto amici? 
– No – replicò facendo spallucce, – ma gli piacevano i soldi. Le persone cui piace l'oro mi sono sempre state simpatiche. – Cadde tra noi un silenzio imbarazzato che non avevo voglia di riempire. Il problema con Ben non era la sua passione per il denaro, ma il fatto che l’anteponesse a chiunque, a qualsiasi priorità. Alla guerra civile tra me e Reginald. Era il Gran Maestro quello con i soldi, al momento, e Benjamin non era più affidabile di un qualsiasi mercenario. 
Roteai gli occhi. Era difficile, fare il capo. Spiegare ai tuoi perché agisci in un certo modo, chiedere che capiscano. Forse era un po' troppo. Avrei dovuto ordinare e basta. Illuso. Non con Thomas Hickey. – Sai, una volta, quando tu e Lee non c'eravate, ci siamo sbronzati assieme. Io, Bill e Church. – I suoi occhi brillavano di gioia. Lo fanno all'idea di altro alcool o era, che so, segretamente innamorato di Benjamin? – È stato divertente. Non puoi dire di conoscere davvero un uomo finché non ci bevi assieme. 
Davvero? E tu non puoi di sapere quanto dolore si possa provare sapendo che il tuo maestro ha ammazzato tuo padre, la donna che amavi, la tua intera famiglia, non contento ti ha anche infilato l'uccello in culo ed è disposto a qualsiasi cosa pur di ucciderti una volta per tutte. Strinsi i pugni, affondando le unghie nei palmi. Sentivo il labbro inferiore tremare, gli occhi diventare impotenti palle di gelatina umida sotto le palpebre. – Abbiamo chiacchierato un po'. Il solito, niente di che. Cazzate. – Ma dai. – Ha detto che la guerra era una stronzata, che non voleva entrarci. Un cazzo di uomo di parola. – Sentii la sua risata rauca, una cupa vibrazione nell'orecchio. – Era uno di noi. Forse l'unico con cui sarei ancora riuscito a scambiare due parole senza spaccargli a metà la testa.
– Non ti lascerò spaccare la testa a Charles. – La voce mi uscì dal petto in un ringhio basso, ma mi sentì comunque. – Non dopo tutto quello che sto facendo per tenervi in vita entrambi. 
Sollevò le mani, celando una smorfia di scherno dietro la bottiglia quasi vuota di gin. – Lo so, capo. – Si pulì le ultime gocce d'alcool dalla bocca con la manica della giacca, sogghignando. – E poi la decisione è tua. Io sto agli ordini, niente più e niente meno. 
Si alzò, lasciando il contenitore di vetro in equilibrio precario sul bordo del tavolo. Alle sue spalle campeggiava un'enorme vetrinetta, quasi invisibile per via di tutte le disordinate mappe che vi erano appuntate sopra. – Whiskey? 
Anche veleno. – D'accordo. 
Con quel solenne ghigno dipinto in viso, si affrettò a versare un po' di liquore ambrato in due boccali.
– Alla fottuta gerarchia! 
Aggrottai un sopracciglio. In quel brindisi sembrava un'abbozzata parodia di se stesso. 
Sollevai il boccale di rimando, con un sorrisetto forzato. Avevo solo una gran voglia di dormire. – Alla fottuta gerarchia – ripetei svogliato mentre pensavo alle ultime parole di Tom. 
Non era vero niente. 

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Capitolo 55
*** L'ombra. ***


– Ottantasei. 
Dopo circa tre giorni, avevamo raggiunto la Martinica. Prima di attraccare avevo informato Connor del mio piano. Sarebbe sbarcato lui, poiché io non avevo e non volevo avere nulla a che fare con questa patetica storia dei rifornimenti, e avrebbe detto che Benjamin Church in persona gli aveva chiesto di portare le casse su un'isola meno facile da raggiungere. Povero Church, il grande chirurgo ed eccelso traditore dell'Esercito Continentale perito tanto brutalmente in uno scontro con una nave pirata. Il suo cadavere era ormai in pasto ai pesci – non credo sarei riuscito a dormire bene con la polpa del cranio di Ben sotto il naso per il resto del viaggio –, ma almeno avevamo il suo assassino. Un certo Perez, che era senza dubbio meglio consegnare all'infallibile giustizia britannica. Onore e gloria al Re e bla, bla, bla, dunque. Servire la patria è sempre un piacere.
Pensavo che, per una volta, Connor avesse compreso quel semplicissimo piano senza troppe difficoltà. Invece, mentre il carico dei rifornimenti proseguiva, il ragazzo era piombato in cabina, da me e Tom, esclamando quel numero. 
– Ottantasei – ripeté. Che persona noiosa, se non stava al centro dell'attenzione per un paio di secondi rischiava il suicidio. 
Thomas sollevò il boccale di birra scura davanti a sé con un cenno stizzito. – Veramente sono quindici a dodici per me, bastardo. – Continuava a fissarmi, gli occhi stretti a lanciarmi lampi di sfida.
Lasciai correre con indifferenza, carezzando il mio boccale come avrei potuto fare con una puttana. – Secondo me bari.
Roteò gli occhi. – Oh, certo, baro sempre io – brontolò Tom.  
Mio figlio di schiarì la voce e quando mi voltai a guardarlo, nonostante lo vedessi un po' appannato, nemmeno due boccali di birra avrebbero potuto distrarmi dalla sua espressione corrucciata, fredda e dura, come fosse scolpita su un blocco di pietra. Oh, Gesù, quel ragazzo non aveva davvero idea di cosa fosse il divertimento. – Gara di rutti – gli spiegai con un sorrisetto. – Non credo tu possa capire. – Un altro rutto mi uscì trionfalmente di bocca, il gusto della birra a riempirmi le guance come il fumo di una pipa, dannoso e ricostituente al tempo stesso. – Finalmente! – sbottai, facendo cozzare il boccale con quello di Tom. – E sono tredici.
Thomas arricciò le labbra, come fosse disgustato. E pensare che stava vincendo. – Allora, bastardo, vuoi unirti a noi? – Teneva le mani giunte sotto il mento come una ragazzina civettuola, immagine che Connor ovviamente ignorò. Come faceva? Come poteva andare avanti se restava concentrato sempre e soltanto sulla sua maledetta causa? Non l’avevo mai visto distrarsi, mai cercare la compagnia di qualcuno che non fosse parte della guerra stessa. Non era un ragazzo come gli altri, d’accordo, e non lo ero stato nemmeno io. Cercavo di riscattarmi. Con il sarcasmo, le battutine, gli uomini impiccati e le gare di rutti. Nella vita si fa così.
– No – replicò, i palmi aperti davanti al viso. Tom roteò l’indice alla tempia con un sorrisetto. Sì, Connor forse non era del tutto normale. Annuii, poi tornai a schiacciarmi lo stomaco con il dorso della mano. Forza. Dovevo rimontare. – Ci sono solo ottantasei casse. Erano disposte in tre file. – Tese il braccio verso la porta della cabina, come fossimo troppo stupidi per capire. – Due di qua, un corridoio nel centro e una dall’altra parte. – Mi rivolse un’occhiata perplessa prima di incrociare le braccia sul petto. Andiamo, papà, sgrida il ragazzino che mi ha spinto nel fango!, sembrava dire. Certo. Certo. – Ottantasei non è un multiplo di tre.
Thomas sollevò gli occhi. – E, sentiamo, bastardo, quanto credi che me ne freghi da uno a dieci? – Unì pollice e indice in un cerchio perfetto. – Zero. Un multiplo di tre.
Connor sbuffò. – Zero non è un multiplo di tre. E non sta nemmeno tra uno e dieci.
– Ah, certo che è un multiplo di tre. Lo è per tutti numeri. – Mi esposi con sicurezza, essendo l’unico a quel tavolo con un precettore in età infantile.
– Sentito? – Tom tracannò altra birra. – Il capo ha sempre ragione.
Pensai che Connor non avrebbe mai potuto odiarmi di più. – Non è di questo che volevo parlare. Manca una cassa, come minimo. Le ho sistemate nella stiva, c’è proprio un buco. – A dire il vero non capivo dove volesse arrivare. – Che cosa dirò a Washington?
Aggrottai la fronte. – Che le hai trovate così. La verità. – Sollevai il boccale mezzo vuoto in un muto brindisi alla sua. Forse bere un po’ lo avrebbe distratto da Washington, dall’esercito. Da tutta quella maledetta storia.
– Credi che sia così facile? – I suoi occhi lanciavano dardi brucianti. Be’, sì. Che c’era di complicato? Bastava portare quelle ottantasei magnifiche casse al cospetto di George, inchinarsi fino a leccargli gli stivali e andarsene con i nostri migliori saluti. Come bere un bicchiere di birra e perdere una gara di rutti contro Thomas Hickey. – Da quelle casse dipende l’esito della guerra, Haytham. Ognuna può decretare la sopravvivenza dei patrioti! Di decine di patrioti! Una sola perduta e…
Sporsi il labbro inferiore. – Scusa per non aver compreso immediatamente l’enormità di questo dramma, ragazzo. Mi spiace tanto. Se aspetti cinque minuti, solo che la birra faccia effetto, eh, forse cagherò una cassa piena di coperte in quell’angolo. – Gli diedi una pacca sul braccio, i muscoli gonfi sotto la stoffa pesante della tunica da Assassino. – Abbi un po’ di fede.
Mio figlio sospirò ancora. – Non scherzare.
Mi hai mai visto più serio? – Che dici? Io non scherzo mai. – Un rutto mi uscì spontaneamente dalle labbra, lasciando Tom spiazzato. Connor abbassò lo sguardo, sicuramente pensando che ero un caso disperato. Oh, be’. Quattordici a quindici, quantomeno.
Erano soddisfazioni. – Lascia perdere.
– Certo che lascio perdere! – esclamai mentre mi voltava le spalle. – E dovresti farlo anche tu. Da quando siamo partiti non hai fatto che preoccuparti per Washington. Un Templare è morto. Sveglia! Dovresti essere felicissimo, brindare, ringraziarmi, quantomeno. Non ti sei nemmeno dovuto sporcare le mani, grazie al tuo adorabile paparino. – Scrollai la testa. – Complimenti. Questa sì che è gratitudine.
– Dovrei esserti grato per aver ucciso un uomo? – Il tono tradiva la sua rabbia. Lo disgustavo. Sai che novità.
– A dire il vero, sì! Sembri sempre così disperato all’idea di porre fine alla vita di qualcuno! – Ricordavo la sua assurda scenata nel mezzo della frontiera. Gli Assassini di norma non provavano piacere nella morte delle loro vittime. Non poteva avercela con me solo perché gli avevo impedito di sentire le ultime poetiche parole di Benjamin. Non era corretto. – Dimenticavo, forse Church avrebbe saputo dove trovare la tua ottantasettesima cassa, così Washington sarebbe felice e i patrioti vivrebbero mezza giornata in più!
Mi guardava con la mascella serrata e i pugni stretti. Come se non sapessi quello che stavo dicendo. – Vuoi sapere la verità, Connor? È una guerra, hai sentito? Guerra! La gente muore ogni giorno, e non è certo una coperta a salvarla, o un pezzo di carne secca. Non c’è niente da fare! Continueranno a morire finché non finirà, sempre che succeda. Per quanto sia nobile il tuo intento, aiutare non ha mai posto fine alle uccisioni. Ti rendi conto di quello che stai facendo? – Avevo il fiatone, ma al tempo stesso non riuscivo a smettere di parlare. Dovevo aprirgli gli occhi. Non sapeva niente di ciò che accadeva davvero su un campo di battaglia. – Con le tue azioni così carine e gentili stai ammazzando decine di giubbe rosse. Innocenti, persone come me e te. Che colpa hanno? Sono arruolati nell’esercito sbagliato, e allora? Tu stai collaborando alla loro dipartita. Era questo ciò che volevi, Connor? Forse non hai bene idea di che cosa significhi vincere una guerra. Apri bene le orecchie, ragazzo. – Balzai il piedi e la sedia cadde a gambe all’aria dietro di me. Non importava. Sollevai l’indice, sventolandolo davanti al suo viso. – Si vince soltanto in due casi. Quando l’esercito avversario è così sfornito da essere costretto alla ritirata, e questo è il primo, o quando sono tutti morti. – Allargai le braccia. Adesso basta. – Scegli tu. – Eroe di ‘sto cazzo. – Vediamo come ti sentirai a posto con la coscienza davanti a tutte le donne delle Colonie rimaste vedove, tutti i ragazzini rimasti orfani. Preparati a consolarli, e non dimenticare un bel discorso. Non so, qualcosa del genere “Mi spiace che tuo padre sia morto, ma, ehi, stava nel Britannico. È stata colpa sua. Ucciderlo non è stato bello, no. Condoglianze, a proposito”.
Rimasi a guardarlo in silenzio per qualche attimo, mentre assimilava le mia parole con il corpo teso all’indietro, rigido e pronto a scattare come una fionda. Potevo restare in quella posizione per tutto il giorno, i pugni chiusi e la mascella contratta. Mi facevano male i palmi. Dovevo averci affondato le unghie nella foga del mio discorso. Maledizione. Volevo che capisse. Non era stato in guerra, non sapeva come andavano le cose. Fingeva di essere una persona matura, di quelle che disprezzavano la causa bellica e ci era dentro per forza di cose. Invece no. La gente moriva da entrambe le parti, cazzo. Per lui c’erano soltanto i patrioti.
E, non so, forse per merito del mio passato tra le giubbe rosse, ma l’odiavo con tutto me stesso per questo.
Ero pronto anche a picchiarlo, se fosse stato necessario.
Poi Tom era scoppiato a ridere, il capo chinato indietro e una mano all’inguine. Se la stava facendo addosso. Prese persino ad applaudire calorosamente, lacrime divertite ad appesantire gli angoli dei suoi occhi. – Finalmente! – sbottò. – Oh, sì, Kenway, sì! – Si asciugò le lacrime con l’indice, sorridendo spensierato. – Sai da quanto aspettavo qualcosa del genere? Hai illuminato la mia giornata, cazzo.
No, non ci credo. Più della gara di rutti? – Davvero, sei… – Scrollò la testa come un cavallo. – I miei complimenti. Davvero.
Tom s’incamminò verso il ponte, ma riuscivo ancora a scorgere la sua sagoma dondolante oltre le spalle di Connor. Continuava a ridere. – Scegli tu. La gente muore, cazzo! – Dovetti mordermi le labbra per non permettere a quel sorriso di sfuggirmi. Mi faceva il verso. Oh, Thomas Hickey. – “Scusa, papà, non è colpa mia se sono un coglione!” “Ah, di certo non hai preso da me!” Cristo santo…
Diciamo che sì, facevo progressi sul fronte del buon padre.    
Ridacchiai. Gesù, non poteva… Pensavo di essere io quello con il senso dell’umorismo, ma Tom era capace di rendere ridicola qualsiasi situazione. Qualunque, davvero. Dall’impiccagione di un uomo a quella stupida ramanzina che volevo fare a mio figlio. – Be’ – esclamai con le braccia aperte, – spero che tu abbia capito.
Connor abbassò lo sguardo. – Devo portare tutto a Valley Forge – sussurrò. – Verrai con me?
Che onore. – Oh, no, non vorrei coglierlo di sorpresa. Dagli almeno il tempo di preparare la forca. – Tornai a sedermi. Avevo già fatto abbastanza.
– Voglio che glielo dici.
Cosa? Avevo capito bene? – Vieni all’accampamento e parlagli come hai parlato a me. – Reclinò il capo e prese un respiro profondo. Oddio. Era… Una vittoria. Una vera vittoria, non come sconfiggere Tom a una gara di rutti. Mi stava dando ragione. Voleva che parlassi con il suo idolo.
Oh, mio Dio. – Hai ragione. Non so niente della guerra, ma lui sì. Digli di fermarsi. Che è tutto sbagliato. Basta trovare un’altra soluzione. – Usando la diplomazia, magari. No. Non era nello stile di Washington. – Gli riporterò queste cose e poi… ne esco. – Davvero, non riuscivo a credere a quello che stava dicendo. Mio figlio, che ammirava George Washington come fosse Dio, aveva davvero intenzione di lasciare perdere la sua causa?
Andiamo, lo conoscevo. In quel momento pensai che, davanti all’ennesima richiesta di aiuto del Continentale, si sarebbe inginocchiato come una puttana e sarebbe tornato dietro ai cannoni. Così andava, nella sua testa. – Lascerai che il Continentale combatta? – sussurrai, poco convinto. – Senza fare niente?
Si strinse nelle spalle. – No. Voglio convincerlo che sta sbagliando. – Quale nobile intento. Come poteva essere così illuso? Mi misi una mano sulla bocca per non scoppiare a ridere davanti a lui. – Non cerco l’onore in battaglia, né la guerra – grugnì. Davvero? Oh, e io che pensavo ci fosse portato. Così obbediente, così flessibile, così fisicamente preparato. Per favore. Quello non avrebbe distinto la propria testa da una palla di cannone. – Gliene parleremo. Cercheremo una soluzione con il Re, con i comandanti britannici. – Annuii. Se ne era convinto lui…
Scostai la mano dal viso, lasciando trapelare un sorrisetto. – E se non ci riusciamo?
– Ci riusciremo – brontolò, le mani strette l’una nell’altra. – Vedrai. Washington mi ascolterà.
Scrollai il capo. – Washington non ascolta nessuno. – E men che meno ascolterà me. – Connor, tua madre lo ha quasi ammazzato. Io l’ho quasi ammazzato. Non mi darà retta. – Presi fiato, cercando le parole giuste. La verità era che mio figlio mi dava sui nervi. Perché non riusciva soltanto a lasciar perdere? Consegnava le casse piene a Washington e poi se ne andava senza una parola. Faccenda chiusa. No. Lui doveva provare a convincere le persone, anche se erano casi disperati come il comandante in capo. – Credimi, per una volta.
Strinse i pugni. Non sopportavo il suo stupido desiderio di voler sempre cambiare il mondo. – Lo scopriremo a Valley Forge – sussurrò mentre mi voltava le spalle, pronto per tornarsene al timone, a scrutare noi comuni mortali dall’alto della sua magnificenza. Come se essere un Assassino lo rendesse diverso da me, da Tom o da qualunque figlio di puttana marciasse sulla terra.
Abbassai gli occhi sui miei stessi calzoni. Dunque si tornava sulla terraferma, dove potevo fare tre passi senza che il terreno mi ondeggiasse sotto i piedi. Lo stesso terreno devastato dalle bombe e dalle marce degli eserciti che George Washington osservava con un sorriso sbilenco. Sapeva di essere sull’orlo del collasso o, come mio figlio, era talmente stupido da ignorare quel dettaglio?
Su, in fondo che poteva essere di così grave? Una ritirata in più. Un altro pezzo di terra ceduto, una città che tornava sotto la calda e confortevole ala di Sua Maestà. Per lui non era niente, finché teneva il culo al sicuro dentro la sua stupida tenda. Non aveva la più pallida idea di cosa significasse davvero.
La fame, la povertà, le famiglie distrutte.
L’incendio. Credeva che qualche ubriacone stesse giocando con una scatola di fiammiferi davanti a Fort George, forse?
Schifoso figlio di puttana.
Oh, sì, un faccia a faccia con il comandante in capo dell’Esercito dopo aver tentato per due volte di farlo fuori. Proprio il sogno della mia vita, direi. Niente da aggiungere.
Il tossire rauco di Tom, intento a rigettare la birra mandata giù quella mattina – alla faccia della gara di rutti – arrivò alle mie orecchie attraverso la porta aperta della cabina. Sospirai.
D’istinto allungai una mano verso il suo boccale e ne mandai giù la metà restante in un colpo solo. Dovevo schiarirmi le idee. Quello che stava combinando mio figlio era un gran casino. Portarmi dritto davanti a quel bastardo… Che cosa gli saltava in testa?
Avevo la netta impressione che non ne sarei uscito vivo. Non quella volta. Me lo sentivo nello stomaco, un presagio. La spada di Damocle sospesa sulla mia testa e pronta a trapassarmi da parte a parte come un panetto di burro.
Ero sopravvissuto a due impiccagioni, innumerevoli attentati, battaglie con gli Assassini, con guardie di svariate città e schiere di soldati senza nome. Alla morte di mio padre. A Jenny, mia madre, Holden, Tiio e gli altri.
Tutto per essere ucciso come un idiota da George Washington. Gettandomi tra le sue braccia come una verginella solo perché Connor voleva così.
Il pensiero era talmente ridicolo da mandarmi fuori di testa.
Lasciai cadere mollemente il cranio, la fronte tenuta nel palmo. Strizzai gli occhi. Che razza di fine.
Stavo per sbuffare di nuovo, quando un rutto più forte dei precedenti mi scosse dalla testa ai piedi, facendomi sussultare.
Quindici a quindici.
– Porca troia! – Mi voltai verso l’uscio. Potevo scorgere Thomas accasciato contro il parapetto, il fiato grosso e una mano premuta sulle labbra per trattenere nel corpo quel poco che gli restava.
Poverino. Ormai eravamo tutti abituati a quel dannato dondolio, tutti tranne lui.
Battei le palpebre,focalizzando per un secondo.
Aveva... Aveva vomitato.
Da quando il nobile sport della gara di rutti era stato portato tra i gentiluomini, c’erano sempre state due fondamentali regole.
Numero uno, barare era da maledetti e disonorevoli figli di puttana.
Secondo, solo le peggiori donnicciole finivano per vomitare.
In silenzio, rimasto solo nella cabina in penombra, scoppiai a ridere tra me e me, la testa che sussultava dolcemente nelle mie mani.
Forse Washington avrebbe ordinato di spararmi a vista. Forse di lì a qualche giorno sarei morto.
Cristo, volete mettere la soddisfazione di andare all’Inferno sapendo di aver sconfitto Thomas Hickey – Thomas Hickey – in una gara di quel calibro?
Ne valeva la pena, no?
 
Tenemmo la rotta con la Welcome fino a Philadelphia, in un viaggio di ritorno decisamente più noioso dell'andata. Non c'era molto da discutere, e se prima odiavo aprire la bocca, sapendo che le conversazioni sarebbero sempre cadute su Benjamin, ora non l'aprivo proprio, nel cieco terrore che Thomas si mettesse a parlare di Reginald. 
Non avevo ancora assunto la piena consapevolezza di esserci arrivato. Tutti gli altri erano morti, corpi senza vita trascinati negli abissi dalle nostre battaglie. O, quando le cose andavano davvero male, da Connor. Il fatto era che uccidere Ben mi aveva fatto sentire bene, quasi come quando avevo fatto fuori William Johnson. Per vincere una guerra devi avere un esercito organizzato, e l'unico modo per ottenerlo è la disciplina. Se mi toccava liberarmi dei frutti marci per ammazzare Reginald, lo avrei fatto. 
Frutti marci. Dio. Una volta erano miei amici, fratelli che mi avevano aiutato a raggiungere uno scopo comune. Perché Birch doveva sempre rovinare tutto? Prima la mia famiglia, poi i Templari, e dopo chissà cos'altro. Dovevo fermarlo. Non solo per una questione di orgoglio. 
Probabilmente era anche la mia unica possibilità di porre fine a quella storia con una mente ancora funzionante, prima che i Precursori me la fottessero del tutto. – Hai già pensato a come lo farai? 
Buttai con noncuranza una carta sul tavolo tra di noi, sbuffando un po'. Il poker era diventata la nostra migliore occupazione, dato che parlare con Connor di quanto George Washington fosse carino mentre io lo consideravo niente più che un sacco di merda mi avrebbe fatto letteralmente impazzire. – Di che parli? – Ah, inutile. Lo sapevo benissimo. 
– Ammazzare Reginald. Userai la lama celata, no? – La voce di Tom non era mai stata così seria, probabilmente nemmeno quando mi aveva confessato le sue grandi debolezze davanti agli omicidi. Vecchi fatti che lentamente scappavano dalla mia testa, pezzi di un rompicapo che prima o poi si sarebbe riempito di buchi.
Aggrottai la fronte, studiando le carte rimaste nella mia mano. – Perché dovrei usare la lama celata? – Non ci avevo ancora pensato, a essere sincero. Cercavo di evitarlo. La mia testa andava più verso Charles. Avevo una gran paura. E se fossi arrivato troppo tardi per riportarlo dalla mia parte? O, peggio, se Reginald l'avesse già ucciso? No. Quel bastardo avrebbe aspettato, per farlo fuori davanti ai miei occhi. 
E io non potevo permettere che accadesse. – Per la storia di tuo padre. – Trasalii quando gettò un jack sul tavolo, ma le carte non c'entravano proprio niente. – Orgoglio di famiglia o che cazzo ne so io. 
Schioccai la lingua. Omicidio teatrale. Proprio un affare da Thomas, quello che impiccava file di uomini per estorcere informazioni. Già. – Se fosse così dovrei lasciare che lo faccia il ragazzo. – Scagliai una carta qualsiasi in mezzo a noi. – Colpire con un Assassino per vendicarne un altro. 
– Ma la soddisfazione dove sarebbe? – disse Tom, un gran sorriso aperto sul volto, e mi resi conto che aveva ragione. Proprio io, che da giovane lagnavo di non aver mai tratto piacere dall'omicidio di qualcuno, avevo voluto occuparmi personalmente di Ben. E la stessa cosa valeva per Reginald. Lasciare che Connor se ne occupasse era fuori discussione.
Ero io quello che ne aveva subite di più da parte di Birch. Dunque dovevo essere io a riscuotere il conto, con tutti i fottuti interessi che c'erano di mezzo. Dovevo essere io a godere della sua fine, imprimendola con le mie stesse mani. – Mi ritiro. – Abbassai le carte sul tavolo con un sibilo, alzandomi per raggiungere il ponte. Avevo bisogno d'aria. 
– Quindi ho vinto io! – Tom era felice come un bambino, un grosso sorriso aperto in faccia.
– I miei complimenti.
– Ehi, capo, lo sai che mi devi un giro di whiskey quando arriviamo giù, vero? – Si alzò e mi prese per un braccio, tutto contento della sua grande vittoria.
Grugnii, conscio del fatto che solo tra disperati si scommette dell'alcool. Disperati e ubriaconi. – Tutto quello che vuoi – replicai. A volte mi piaceva parlare con Thomas, ma pensavo che in quel periodo mi sarei sentito meglio se fosse rimasto in silenzio, muto, a lasciarmi riflettere. 
Era tutto così incasinato. Avevo ucciso Benjamin, e ora l'unica cosa che mi mancava per sconfiggere Reginald era la Mela. Ma potevo fidarmi di mio figlio? Giunone poteva avergli detto qualsiasi cosa. E se avesse rivalutato il suo compito, certo che ci fosse un motivo se la Prima Civilizzazione non voleva il Tempio nelle nostre mani? No. Andiamo. Connor poteva essere uno stronzo egoista – e chissà da chi aveva preso –, ma non credevo fosse furbo al punto da sfruttarmi per anni e non concedermi, alla fine, ciò che bramavo con tutto me stesso. – Thomas – brontolai mentre varcavo la soglia della cabina, – pensi mai che il ragazzo potrebbe farmi arrivare davanti a Birch e negarmi il Frutto dell'Eden? 
Mi seguì con una mano sullo stomaco, prevedendo che cosa sarebbe successo di lì a poco. Stringeva i denti, cercando la terraferma oltre le vele chiuse e ciondolanti dell'Aquila. – Non credo abbia mai pensato una cosa del genere. – Poggiò i gomiti al parapetto e mi scoccò un'occhiata d'intesa. – Immagino sia troppo preso a immaginare l’espressione di Washington quando gli infilerà il cazzo dove dico io. 
Non riuscii a trattenere un sorrisino mentre guardavo Connor, sopra di noi come una figura divina. Incredibile. Quando stava al timone sembrava estraniarsi dal mondo, ma senza alcuna soddisfazione. Era solo terribilmente concentrato, e guardandolo lì, sul cassero di poppa, con quell'espressione seria e quasi minatoria, mi chiesi se avesse una passione, nella vita. Se qualcosa gli avesse mai acceso una scintilla nel petto. Se ci fosse stata una qualsiasi cosa, da quando era nato, che gli piacesse fare davvero. Non solo perché qualcuno gliel'aveva ordinato. 
Thomas aveva le donne e il vino. Io... be', non lo so, di preciso. Mi piaceva bere, mi piaceva navigare. Più di qualsiasi altra cosa, amavo perdermi in ciò che pensavo. Nella mia stessa vita. Non voglio fare il supponente, ma immagino che poche persone potessero vantare un'esistenza più... travagliata. Sì, quello era il termine corretto. 
E Connor? Sembrava facesse ogni cosa solo perché gli toccava. Non aveva ancora rischiato la vita e ammazzato a sufficienza per cogliere la bellezza delle piccole cose. Lui puntava in alto. La libertà. 
Razza di idiota. – Manca molto? – gridai nella sua direzione, il tricorno sollevato in cenno di saluto. Era riuscito a gestire la nave fino alla Martinica, e di lì a Philadelphia, praticamente tutto da solo. Oh. Che ragazzo in gamba. Ci mancava solo che dovessi controllarlo ogni cinque minuti. Era un uomo, almeno anagraficamente. 
Pff. Vane illusioni, le mie. – Dovremmo esserci – grugnì lui in risposta. 
– Fammi capire, bastardo, dov'è che stiamo andando? – Ecco, un'altra passione di Tom che condividevo pienamente era prenderlo per il culo. Mi rendeva felice. Fiero di me. 
Connor sbuffò. – A Philadelphia. E da lì a Valley Forge. 
Tom sputò in mare. – E non potevamo andare direttamente a New York e consegnare questa roba alla flotta di Georgie?
Uh. A essere onesto non ci avevo pensato nemmeno io. Non sapevo cosa fosse più divertente, se scoprire i risvolti quasi geniali di Thomas o vedere quale scusa avrebbe campato in aria Connor questa volta. – La Marina Continentale ha tutto ciò che serve. Sono le truppe sulla terra a essere sfornite. – Oh, certo. Erano informazioni che chiunque, dopo due mesi passati in mare, avrebbe potuto ricevere facilmente. E se la situazione si fosse capovolta, nel frattempo? Figuriamoci. – E poi devo parlare con Washington. Gli inglesi stanno marciando sulla città, presentarsi al porto ci avrebbe procurato un'impiccagione. 
– O l'ovazione! – Tom sollevò le braccia sopra la testa con un gran sorriso. – Pensaci. Potevamo infiltrarci nel Britannico e fingere di consegnare la roba.
Mio figlio roteò gli occhi, poco convinto. – E poi come la riprendevamo? 
Intervenni. Ci mancava solo che si scannassero. – Con l'aiuto della tua eccezionale retorica, mi pare ovvio. – Connor decise di non rispondermi. Nell'ultimo periodo lo faceva sempre più spesso. Come se fingere di non sentire le mie battutine lo aiutasse a trovare buone ragioni per convincere il suo stupido villaggio ad aiutarmi. 
Che c'è? Mi avevano mozzato un dito e dovevo pure essere bendisposto? – Non farò marcia indietro solo perché voi...
– Sveglia, è una fottuta nave. – Tom gli diede le spalle, voltandosi a guardare il mare sempre più grigio man mano che ci avvicinavamo alla città, alla costa. Alla civiltà. 
Non mi era affatto mancata, se devo essere onesto. – Non puoi mica fare marcia indietro. – Nella civiltà c’erano i Mohawk, i rivoluzionari e i lealisti, c’erano gli ultimi Templari rimasti e c’erano i Figli della Libertà. Non ne avevo bisogno. Sulla Welcome, in mezzo all’Oceano, avevo tutto ciò che poteva essermi utile: alcool, il mare, la compagnia di Tom e quella di Connor quando la vita si faceva veramente troppo noiosa. La terraferma, il posto schifoso in cui inglesi e inglesi – perché quello eravamo, niente di più – combattevano senza sosta per qualcosa di inesistente, poteva benissimo fottermi. Io stavo da Dio lì.
E l’idea di rivedere Washington in faccia mi dava il voltastomaco. Ecco cos’altro c’era di orribile in mezzo alla civiltà. Il comandante in capo dell’Esercito Continentale. – Chiudi il becco, Hickey. – Assurdo. Quel pretesto, l’unico che spingeva Connor a continuare il viaggio, mi faceva sentire male soltanto al pensiero. Non c’entrava niente l’essere un Templare o un Assassino. Mio figlio amava Washington per ciò che rappresentava, ignorando completamente chi fosse.
Era quello il motivo per cui io e lui non ci saremmo mai capiti. Ogni dannata persona può vivere di principi che sembrano giusti, le differenza sta in come vengono applicati. I Templari, secondo loro, avevano un fine giusto e metodi sbagliati, ma George Washington, che in nome della libertà bruciava il suo villaggio e quasi ammazzava sua madre, veniva considerato un dio.
Vaffanculo. Quella logica mi faceva incazzare più di qualsiasi altra cosa.
Tom sventolò il medio verso Connor. – Fottiti, bastardo. Non prendo ordini da te. – Sbuffai.
Nemmeno una scenetta del genere mi avrebbe sollevato il morale. – Non rischiamo di farci ammazzare saltellando davanti al Continentale come agnellini? – L’idea di essere ammazzato da Washington mi faceva ancora più ribrezzo dello stesso comandante. Se dovevo morire, per carità, almeno che non fosse lui a farmi secco.
– Garantisco io. Non vi farà niente. – La voce di mio figlio trasudava frustrazione. Non sembrava affatto deciso. Insomma, quello non era il suo classico tono supponente, quello che usava sempre, fin da quando era solo un ragazzino, convinto che qualunque cosa gli avessero inculcato in testa gli Assassini o gli anziani del suo villaggio fosse una verità assoluta.
Soltanto che, ops!, Achille non aveva più intenzione di suggerirgli passo per passo la retta via, e probabilmente non ricordava nemmeno come si parlasse la lingua dei Mohawk. Poteva contare solo su se stesso.
Come me. Mi scappò un sorrisetto ripensando a quanto Thomas mi aveva detto dopo la morte di Ben Church. –  Ne sei sicuro? Mi piacerebbe avere ancora la testa sul collo quando ucciderò Reginald.
Tom mi diede di gomito. – Porca puttana, capo, perché parliamo sempre e soltanto di ammazzare gente? – Aveva la fronte aggrottata in un’espressione curiosa. – Dico sul serio. Che so, non abbiamo altri argomenti di conversazione?
– Con te si può solo giocare a chi ce l’ha più lungo. – Presi un respiro. Aveva ragione, ma ci eravamo scelti quella vita. E poi, lo ammetto, parlare di morte non mi dispiaceva così tanto.
Erano le scelte a mettermi ansia. – D’accordo. Quand’è stata l’ultima volta che sei andato a teatro?
– Va’ a farti fottere col tuo bastardo – ghignò in risposta. – Scommetto che sareste una bella coppietta.
Se ne è convinto lui. – Certo, Tom. Sei tu quello che scoperebbe anche con questa nave.
Sollevò un sopracciglio. – Ha un non so che di affascinante.
– Così affusolata, leggiadra… Ah, non ci sono più tante donzelle così.
– Non prendermi per il culo.
Sospirai. – Allora facciamo un gioco. Io nomino un animale e tu mi dici in che modo l’ammazzeresti. Puoi partecipare anche tu, ragazzo! Siamo aperti a tutti gli sfidanti.
Emise uno sbuffo rumoroso. Già. Tutto quel tempo in mare insieme cominciava a diventare troppo. Per me lo era diventato subito dopo la morte di Faulkner, quando le attività disponibili sulla nave erano discutere con Connor o discutere con Tom. Merda. – Piantatela di fare gli idioti e prendete la passerella, piuttosto. – Scese dal cassero, afferrando una grossa cima abbandonata a terra. – Attracchiamo.
Philadelphia. Ci ero stato solo un’altra volta, sempre per mare, e non era stata proprio la migliore delle esperienze. Pregai soltanto di andarmene il più in fretta possibile da quella fogna colorata con le pallide tinte della libertà.
Nient’altro che idiozie.  – Come? – Tom gli mollò una pacca sulla schiena più simile a uno schiaffo. – Tu non eri quello che fa tutto da solo?
Il ragazzo grugnì in risposta, lanciando i capi della lunga corda verso il molo. Philadelphia era una città dall'apparenza florida e ordinata, la capitale per eccellenza dei patrioti. Fatto era che l'Esercito Continentale non avesse bisogno di quella terra, e New York fosse mille volte più utile. Già solo perché si trovava nelle mani degli inglesi. – Lascialo perdere, Tom. – Pareva quasi fosse lui mio figlio. Incredibile come alla fine andassero le cose, ma Connor non aveva mai mostrato di aver bisogno di me. Aveva Achille, aveva avuto Faulkner, e gli restava sempre la sua malsana convinzione di essere dalla parte giusta. Valeva più di un Templare cinico che gli remava sempre contro, immagino. 
– A un cervo sparerei. – Tom si passò una mano sullo stomaco. Da quando non buttavamo giù un pasto decente, con vera carne e vero vino? 
Più o meno dal nostro arrivo alla French. Persino l'odore di pesce che si respirava ai moli pareva invitante. Presi fiato, l'acquolina che mi annegava la lingua in bocca. – E per i buchi? – Connor s'intromise con la solita aria da esperto. – Devi piazzare una trappola vicino a ciò che mangia. Poi aspetti. 
– Ora come ora me lo mangerei anche vivo, un cervo. – Si passò la lingua sulle labbra e la schioccò. Incredibile come Tom sembrasse un pervertito in ogni cosa che faceva. – Ma non dirlo alla tua gente, eh! Non vorrei mai che decidessero di mozzarmi la lingua. – Mi guardò dritto in faccia e scoppiò a ridere, col rischio di cadere oltre il parapetto, nelle acque grigie del porto. 
Non mi divertiva affatto. – Piantala – brontolai mentre gli tiravo uno scappellotto sulla nuca. Era anche colpa sua se non riuscivo più a essere sereno. Il potere di una buona squadra è sempre stato nella collaborazione. Da quando avevo ucciso Ben non facevo altro che pensare a quanto sbagliato potesse essere tutto ciò che facevo. Tutto ciò che avrei fatto. Essere il Gran Maestro comportava un peso bastardo che forse non volevo, ma dovevo pur pagarlo se volevo estirpare il marcio dall'Ordine. Ecco perché Reginald mi aveva mandato nelle Colonie mentre lui si crogiolava tranquillamente – almeno all'inizio – in Francia. Per scaricare su di me i suoi oneri.
Solo che allora era diverso. La squadra funzionava, io credevo ancora che Reginald mi avesse salvato dopo quella notte di dicembre, impedendomi di restare solo a fare la balia di mia madre, ed eravamo tutti più concentrati sulla causa. Ma eravamo solo uomini. Nonostante tutto, non sarei mai arrivato a pensare di finire così. – Porca puttana, Haytham. – Mi voltai di scatto verso Tom, sbattendo le palpebre. – Senti, lo so quello che ti ho detto, eh, ma non puoi andare ad ammazzare Birch con quest'atteggiamento del cazzo.
– Ti sbagli – replicai, le mani serrate l'una nell'altra, – è l'unico modo che ho per preparare una buona offensiva. 
– Sei troppo ansioso. – Ci credo, Thomas non era mai stato agitato per qualcosa in vita sua. Aveva sempre tutto sotto controllo, e se non era così, be', che importava? Un sorso di whiskey rimetteva in piedi l'ordine naturale delle cose. – Dovresti rilassarti, finché non siamo sicuri di avere la Mela. 
Scrollai la testa. – Rilassarmi? – Un sorriso fece capolino sul mio viso. – Sono a un passo dal vendicarmi per sempre di quel bastardo. Non ho intenzione di rovinare tutto solo perché tu hai bisogno di un compagno di giochi. 
– Io lo dicevo per te. – Dalla sua voce cominciava a trapelare un certo nervosismo. – Non puoi darmi la colpa per qualcosa che dovresti fare comunque, capo.
– Non ti sto dando nessuna cazzo di colpa. – La testa. Mi sentivo come se stesse per saltare in aria. – Sto solo prendendo le cose sul serio, maledizione! – Bum. Un moncone sanguinante e una nuvola di fumo dove prima c'era il mio viso. – Hai una vaga idea di tutto quello che Reginald mi ha fatto? Sai come ci si sente quando scopri che l'unica persona di cui ti sei sempre fidato è un figlio di puttana, un grandissimo figlio di puttana? Non posso perdere tempo a giocare perché so benissimo che lui è più forte di me. E non ti sto incolpando, perdio! Cerco solo di far andare le cose nel maledetto verso giusto. Dopo tutti questi anni passati a fuggire, a cercare un modo per risolvere tutto quanto... Non esiste, Tom! Non c'è niente di tutto questo! L'unico modo che ho per porre fine a questa storia è ucciderlo io stesso, e che possa morire in questo momento se non farò tutto quanto è necessario per riuscirci. – Gli occhi e la gola mi bruciavano, ma proseguii. – Per tutto questo tempo, da quando avete cercato di impiccarmi, dopo il mio ritorno, non ho fatto altro che fingere. Fingere di essere felice, di trovare motivi per andare avanti, essere cattivo e ridere un po'. Ho finto per paura di crollare. Ma adesso le cose sono cambiate, Tom. Ho bisogno di vedere il mondo e la vita per quello che sono, per quanto maledetto male possano fare. E non perché mi diverta farlo. È solo l'unico modo che ho per uscirne vivo, capisci? Dimostrare che quello giusto sono io. Che sono un Templare migliore di lui.
Mi voltai con lo sguardo basso, verso l'oceano, e tirai su col naso. Ah, diavolo, stavo piangendo. Che umiliazione. E allo stesso tempo sentivo gli occhi di Tom guardarmi in modo diverso. Con pietà e comprensione, ma anche stranito. Che lo facesse. Non me ne importava. – Scusami – sussurrai, asciugandomi le lacrime con il dorso della mano. Il mio cuore non voleva saperne di rallentare. Avevo sempre cercato di essere sarcastico, nella vita. Trarre ciò che dello schifo era divertente e viverne, ma era solo un altro modo offuscato di vedere le cose. Lo schifo, il marcio e la feccia alla fine erano sempre lì.
– Per cosa, capo? – Tom sembrava seriamente perplesso. 
– Per... – Mi sfuggì un singhiozzo. – Per qualsiasi cosa. Perché forse meriti di meglio. 
Sbuffò. – Mi sembra di parlare con una puttana. – Fece uno dei suoi sorrisi e si grattò l'uccello, guardando Connor che roteava una cima nell'aria. – Non farti tutti 'sti problemi, capo. Hai ragione. Mentiamo per andare avanti. – Colpì la mia spalla con una pacca. – Non c'è niente di male, finché sappiamo che è così. 
Gli lanciai un'occhiata triste e presi fiato. – Dovrebbero fare te Gran Maestro. 
– Nah. Non fa per me. Non avrei più tempo per scopare. – Schioccò la lingua, abbassando la voce in un sibilo confidenziale. – E poi non avrebbe senso. Non sono io quello che Reginald si è inculato, no? 
Mi diede un'altra pacca e mi lasciò lì, con gli occhi sgranati. Connor, con l'aiuto di un qualche marinaio caritatevole, stava ormeggiando la Welcome. Strizzai le palpebre. Avevo capito dove Tom voleva andare a parare. L'unico che avevo sempre – o così pareva – indicato come mio successore era Charles. Ovvero il solo altro uomo del gruppo con cui Reginald si divertiva a giocare. Era un'ironia bastarda, degna di Thomas Hickey. 
Forse aveva ragione. Era troppo forte per essere un Gran Maestro. Troppo sicuro di sé. Però era tutto ciò di cui avevo bisogno quando si trattava di amici. – Andate a prendere le casse – strillò Connor. Eccolo, un altro incapace di fare il capo. – Si sbarca. 
La mia gioia era impossibile da misurare. Maledizione. 
Scesi sottocoperta con la scusa di portare su una cassa o due. Mi appoggiai alla pila di rifornimenti, una mano sulla bocca e le gambe che faticavano a reggermi. Piansi ancora, singhiozzando come un bambino. Piansi fino a essere sicuro di non avere più nulla da versare. E poi di nuovo. Piangevo perché avevo paura. Perché potevo fallire e non volevo accadesse, perché mi mancava mio padre e il tempo in cui eravamo una famiglia felice. Piansi per tutto ciò che non andava nella mia vita, per la paura di morire, perché non avevo più la forza necessaria a mostrarmi battagliero.
E, soprattutto, piansi fino allo sfinimento perché mi toccava trovarla. 
– Capo? Va tutto bene? – Mi trovò lì, dieci minuti dopo, a vomitare in una delle botti di rum destinate al Continentale. 
Un sorriso mi attraversò il volto mentre chiudevo la botte, un filo di saliva acida che ancora mi colava dal mento. – Un regalino a George Washington da parte mia. – Aveva ragione Tom. Fingevamo per andare avanti. E dovevo essere disposto a continuare la farsa.
Scoppiò a ridere e mi diede una gomitata nelle costole, sollevando la botte. – Un brindisi alla sua ascesa, allora – disse con una risatina. 
E alla mia, sperando in bene. 
Washington non mi avrebbe buttato giù. Non gliel'avrei permesso. Né a lui, né a nessun altro. 
Mai più. 

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Capitolo 56
*** Onestà. ***


Il dolore non fa che girare e rigirare in giro. Ci vuole uno eccezionalmente forte per dire: basta. [...]
Io non sono eccezionalmente forte.
– Irvine Welsh, Tolleranza Zero.

 
– Identificatevi.
Roteai gli occhi. Gli accampamenti sono tutti uguali, in qualsiasi momento. Pace o guerra, estate o inverno, non cambiano mai. Una caratteristica è quella di mettere i soldati dall’aria più stupida all’ingresso, come se far impugnare una baionetta a un ragazzino con gli occhi lucidi e una lieve forma di peste bubbonica sulle guance potesse spaventare un nemico al punto da mandarlo via. Solo questa poteva essere l’utilità di quei giovani idioti, dato che non sarebbero stati in grado di riconoscere Re Giorgio III nemmeno se gli si fosse presentato davanti con tanto di corona in testa e Regina al seguito. – Sono Connor Kenway. Un amico di Samuel Adams. – Avevamo affittato due carri con il denaro degli Assassini, dato che nessun uomo sano di mente ci avrebbe mai seguito fino a Valley Forge con una guerra in corso e il rischio costante di essere attaccati. – Devo riferire un messaggio importante.
Già. Prima di essere mollato in Martinica, affidato all’infallibile giustizia britannica, Perez aveva sputato ancora un paio di cosette. Tra queste, l’enorme interesse dell’Esercito Britannico per New York, verso cui stavano marciando le truppe in quell’esatto istante, più o meno. – Washington mi sta aspettando. – Connor aveva l’orrenda tendenza a trattare chiunque non fosse Washington, Sam Adams o Achille come fosse una pezza da piedi, e se davanti a questo ragazzino brufoloso mi sembrava quasi lecito, conoscevo abbastanza mio figlio da sapere che si sarebbe comportato allo stesso modo anche davanti a Dio in persona.
Be’, prima gli avrebbe chiesto se stava con Re Giorgio o i patrioti, poi si sarebbe regolato di conseguenza. Mi pare ovvio. – Perché i carri?
Sbuffai, il carro allineato dietro quello di Connor. Mi ero pentito di aver lasciato Thomas a Philadelphia, ma aveva immediatamente messo in chiaro che era stufo marcio dell’oceano. Il tutto dopo aver rigettato anche i polmoni appena sceso a terra, disabituato ad avere qualcosa che non si muovesse sotto i piedi. Un quadretto esilarante anche per un disperato come me. – Per dargli fuoco e far saltare in aria questo buco – sussurrai tra i denti. Mio figlio si voltò di scatto, come se mi avesse sentito, le sopracciglia sollevate in una buffa smorfia. Gli risposi con un cenno del capo. Aveva un solo compito, dannazione, e pure stupido. Forse era agitato all’idea di incontrare il suo idolo, un po’ come una verginella davanti al suo promesso sposo. Oh, sì. Calzava alla perfezione.
– Ho i rifornimenti che Benjamin Church aveva sottratto all’esercito. – E l’attentatore che nessuno di voi è mai riuscito a catturare, proprio lì. Mi avrebbe messo nei guai, me lo sentivo. – Sono qui per riconsegnarli.
– Puoi dare a me. – Sporsi il labbro inferiore. Il ragazzino era decisamente più tosto di quanto sembrasse. I miei complimenti. – Insieme al tuo fantomatico messaggio.
Vidi Connor reclinare la schiena e sbattere i palmi sulle cosce. Eccolo lì, un altro tipico cenno da Kenway. – Non capisci. Io devo parlare col comandante. – Per quanto potesse essere scarso in combattimento, avrebbe steso il giovane patriota con un dito.
– No, no, amico, sei tu che non capisci. – Il soldato semplice Brufolo appoggiò il calcio del fucile a terra, facendovi leva come fosse un bastone. – Washington ha già subito due attentati, e io non ho ordini di far passare nessuno. Dimmi quello che devi dire e vattene.
Strinsi i denti. Merda. In un bizzarro lampo d’immaginazione vidi Connor scendere dal carro, afferrarmi per la redingote e trascinarmi di peso davanti a Brufolo. “Ecco”, avrebbe detto, “in entrambi c’entrava lui. Ora fammi passare.”
Santo Dio. – Allora chiamalo, no? – sbottò mio figlio. – Ho bisogno di parlare con lui.
Brufolo schioccò la lingua in mezzo ai denti. – Molla qui le armi e potrei farti passare.
– Potresti? – Connor si chinò verso di lui, il tono decisamente più alto di quanto indicato nel Galateo. – C’è il pericolo che l’Esercito Britannico prenda New York! – sbottò. Un’altra volta. La prima non mi aveva portato a grandi risultati, anzi, ma in quel momento non poteva fregarmene di meno. Connor non era lì per salvare la città. Voleva soltanto fare bella figura davanti a Washington.
Quello fece spallucce. – Riceviamo falsi allarmi ogni santo giorno. Quando gli inglesi marceranno su New York…
– Non mi senti? Lo stanno già facendo!
– Calmatevi. – Senza nemmeno rendermene conto ero smontato, piazzandomi tra Connor e Brufolo, la mano sinistra sul petto di quest’ultimo. Fissava il buco tra medio e mignolo con un groppo in gola. Glielo leggevo negli occhi, grandi occhi da bambino. – Facciamo una cosa, ti va?
Entrambi mi fissarono come se fossi appena uscito da una tomba. E, considerando quante volte avevo rischiato di morire, mi sentivo allo stesso modo praticamente ogni giorno. – Chi sei? – chiese Brufolo, la voce assottigliata dalla paura.
Feci spallucce. – Non ha importanza – replicai. “Quello che ha tentato di uccidere Washington” mi sembrava troppo poco musicale, per cui lasciai perdere. – Facciamo uno scambio, d’accordo? Tu lasci passare me e Connor, qui, e continui a vivere la tua patetica esistenza. Tu come tutti i membri dell’esercito. Non siamo qui per farvi del male, che possa morire in quest’istante se non dico il vero. – Sollevai le sopracciglia, come per evidenziare che, diavolo!, se ancora ero lì dovevo essere proprio un uomo di parola. Come no. – Oppure potrei fare la stessa cosa, ma ammazzarti prima e infilare il tuo corpo in una buca, cosicché tu non faccia la spia. – Feci scattare la lama celata, che gli sfiorava la pelle butterata e tremante delle guance. – È una scelta semplice, no? Vogliamo parlare con Washington. Puoi prendere i rifornimenti, intanto. – Gli sorrisi, addirittura. Anche Thomas Hickey sarebbe stato più rassicurante, a vedere la faccia di Brufolo. – Siamo d’accordo?
Il ragazzino annuì. Gli mollai una pacca sulla spalla. – Ottimo lavoro. Andiamo?
Connor scese dal carro con un salto goffo, incamminandosi dietro di me. – Ah, credo manchi una cassa. – Il suo tono si era già addolcito un po’. Bastava soltanto che chiunque, in tutto il Paese, s’inchinasse alla sua grande figura di primo leccapiedi di Washington. Una volta riconosciuta la sua autorità, avevi vita facile. – Mi spiace. Non siamo riusciti a recuperarla.
Brufolo rispose con un grugnito, precipitandosi a scaricare i rifornimenti. – Dai, muoviti. – Lo presi per un braccio e oltrepassai il varco nella palizzata, diretto alle doppie porte miseramente sguarnite. – Non hai niente da dire riguardo l’accaduto?
– In che senso? – I suoi passi pesanti affondavano nella terra bagnata, lasciando una sequela di impronte che persino un cieco sarebbe riuscito a seguire.
– Be’, ho appena dimostrato che i miei metodi sono migliori dei tuoi. – Durante il viaggio non avevamo mai aperto bocca, e ne ero stato felice, ma dovevo ammettere che scoprire il suo punto di vista su certe cose era divertente. – Davvero non hai nessuna polemica su quanto approfittare delle armi che portiamo sia sbagliato? Mi deludi.
– In realtà ce l’ho – sbuffò. – Hai ragione, usare le armi spesso si rivela molto più utile del provare a ragionare, ma non è ciò che farebbe un Assassino.
Sogghignai. – Quindi? Mi porti dietro per lasciarmi fare il lavoro sporco senza sentirti in colpa o perché ti diverte l’immagine di me e il vecchio George che litighiamo come ragazzine?
Connor si strinse nelle spalle. – Nessuna delle due. – E io che mi aspettavo cogliesse il sarcasmo. – Non ti lascerò attaccare briga con Washington. Pensavo solo che fosse giusto farti venire. – Prese un gran respiro, grattandosi i capelli dietro le orecchie. – Tu non lo conosci. Non sai che razza di persona sia, eppure continui a parlarne male.
Oh, buon Dio. Ecco che ricominciava con la predica in nome di Nostro Signore George Washington. – Nemmeno tu, fidati. – Ridacchiai. – Eppure continui a parlarne bene.
– Haytham, lui…
– …sta salvando il Paese, è il meglio per il Paese, è tutto ciò di cui il Paese aveva bisogno. Lo so. – Sbuffai, scrollando la testa come un vecchio ronzino. – Non fate altro che ripeterlo, tutti quanti. Io ti ho avvisato su che tipo di persona è. Ci sono uomini che sanno fingere bene, in maniera magistrale.
Assunse la sua espressione corrucciata, da bambino cui era appena stato tolto il più adorato dei giocattoli. – Non mi ha mai mentito.
– Ah, non dico che lo abbia fatto. Piuttosto, tu hai continuato a ignorare la verità. – Incrociai le braccia sul petto, cercando di ripararmi dal freddo che si insinuava inesorabilmente sotto la redingote. – Pensi davvero che avrei potuto ordinare di bruciare il villaggio di tua madre?
– Era sopravvissuta. Potresti averla tratta in salvo a quei tempi.
– E architettare una messinscena in cui gli altri Templari mi impiccavano, lei veniva ammazzata e voi Assassini dal cuore d’oro venivate a salvarmi per… per quale motivo, di preciso?
Non aveva una risposta. Proprio come mi aspettavo. – Bene, ragazzo. Mi fa piacere vedere che siamo d’accordo.
Ci infiltrammo a Valley Forge a testa alta, senza che nessuno ci ostacolasse. Sulla tenda che doveva essere di Washington, sistemata nel punto più a nord, sventolava alta la bandiera dei neonati Stati Uniti d’America, i cui colori erano esattamente quelli del vessillo di Sua Maestà, rosso, bianco e blu. Oh, che originalità per un popolo che voleva con tutto se stesso l’indipendenza. Non sapevano riuscivano nemmeno a scegliere delle tinte meno utilizzate. – Mi ha colpito molto ciò che hai detto prima – borbottò Connor mentre oltrepassavamo le tende disposte in circoli disordinati. – Su quanto bene sappiano fingere gli uomini.
Sollevai gli occhi al cielo, grigio e pesante come il piombo. Un perfetto riflesso della terra. – Parla chiaro.
– Non pensi mai che Charles Lee sia davvero dalla parte di Birch?
– No. – Non ebbi nessun bisogno di rifletterci. Diavolo.
– Perché? – chiese, le mani giunte.Sbuffai. Stupido ragazzino. – Perché lo conosco. E conosco Reginald. So che cosa sta passando. – E poi, be’, ho anche visto la sua espressione quando il Gran Maestro lo ha gentilmente invitato a piegarsi a novanta e mostrargli le chiappe. In un sogno. Quindi mi scuserai se non ti metto al corrente di queste cose, ma è meglio che rimangano fra gli adulti. Non riuscii a trattenere un risolino a labbra strette. – Qualcos’altro?
– Come fai a fidarti completamente di loro?
Sorrisi nell’osservare i suoi occhi sgranati. – Come riesco a fidarmi di un maniaco stupratore e omicida tendente all’alcolismo, è questo che intendi?
Fece spallucce. – Principalmente.
– La sua spada è dalla mia parte. Mi basta questo.
Scrollò il capo. – La sua spada è dalla sua parte – brontolò. – L’ho visto mentre ammazzava i mercenari di Church, sai? Non credo di aver mai avuto davanti agli occhi un uomo più felice.
Aggrottai la fronte. Qualcosa non mi quadrava. – Parli di quelli sulla nave?
– No, quelli nella frontiera. Qui, a Valley Forge. Quando mi avete raggiunto. Sai, no… – Sbuffò. Probabilmente stava cercando un episodio caratteristico di quel momento che, al tempo stesso, non fosse incentrato su una presa in giro nei suoi confronti. Impresa difficile, diavolo. – La chiesa. Quando mi siete saltati addosso.
Ah. Quello.
Oh, mio Dio. Quello.
Avevo ricordi un po’ vaghi di quell’episodio, confusi. Mi pareva di essere rimasto seduto vicino a un falò mentre Connor e Thomas sistemavano alcuni mercenari di Benjamin Church. Poco dopo io e Tom avevamo fatto una chiacchierata. Mi aveva confessato di aver lasciato scappare un uomo così da inseguirlo e lasciare che fosse Connor ad ammazzare gli altri. Un po’ come mio figlio aveva appena fatto con me per quanto riguardava Brufolo.
Allora come diavolo era andata? – Quanti ne ha uccisi? – Sentivo la paura trasudare dalle mie parole. No. Non poteva avermi mentito, non anche lui, giusto?
Giusto? – Erano… sedici. Lui ne ha ammazzati dodici. – Fece un rapido conto sulle dita mentre sbiancavo. Le gambe sembravano incapaci di reggere ancora il mio peso. Valley Forge roteava intorno a me come una trottola. – Sì, dodici.
Porca puttana.
Era una bugia. Erano tutte… – Uno – sussurrai, le dita premute sulla fronte. Non poteva essere vero. – Mi ha detto che ne aveva… Ne aveva ammazzato soltanto uno.
Di nuovo, mio figlio si strinse nelle spalle. Che ti dicevo?, gridava il suo sguardo. – Mi dispiace. Immagino che per te non sia poi un peccato così grave, ammazzare undici uomini in più o undici in meno.
Oh, stupido ragazzino. Non aveva capito proprio nulla dell’Ordine, eh? Non mi importava niente di quanti uomini avesse realmente ucciso Tom. Mi aveva mentito per fare la figura dell’agnellino, di quello che non riusciva più a essere così violento.
Ci doveva essere qualcos’altro. Forse io e Connor parlavamo di due momenti diversi. Per forza. – A-Appunto – sussurrai con l’ultimo filo di voce che mi restava in gola. – È… È esattamente di questo che ti stavo parlando. Non sempre le persone sono…
– Haytham. – Mi mancava il fiato. Davanti ai miei occhi danzavano macchie nere.
– Sono… quelle che noi…
– Haytham!
Un getto bollente di vomito innaffiò la terra immacolata di Valley Forge. Merda. Mi succedeva troppo spesso in quel periodo. Avevo di nuovo una gran voglia di piangere, di chiudermi in una stanza e urlare fino a far scoppiare i polmoni. – Va tutto bene – sussurrai rauco, forse più a me stesso che non a lui. – Tutto…
Gli vomitai la misera colazione a base di gallette rubate dalle casse del Continentale direttamente sugli stivali. No, evidentemente non andava tutto bene. – Ti vuoi sedere? – So che mi darete dell’insensibile, ma riuscivo solo a pensare quanto sembrasse femminile mentre diceva quelle cose. Ti vuoi sedere? Mi sembrava di risentire Edith. “Vi serve un cuscino più soffice, signorino Haytham?”
Tossicchiai, sciacquandomi la bocca con quel poco di saliva acida che riuscivo a produrre. – Certo – replicai, la voce roca e le mani ancorate alle ginocchia, – immagino che tutti qui si offrirebbero volontari per regalare la branda all’omicida di George Washington. – Presi a ridacchiare come un idiota mentre, lentamente, mi appoggiavo a lui per recuperare una posizione eretta. – Sto bene.
– Non scherzare, Haytham. Davvero. – Mio figlio si preoccupava per me? Che carino. Perché non si dava una svegliata, cominciando a pensare a tutti i lupi che lo circondavano in attesa solo di un suo passo falso? Io avevo Tom, lui aveva Washington. Sembrava che soltanto i Templari dovessero essere traditi, mentre ogni dannato seguace degli Assassini o del loro stupido ideale di libertà diventava, per chissà quale magia, un santo.
Forse la Prima Civilizzazione metteva piede anche in quelle cose. – Andiamo – sussurrai mentre cercavo di darmi un tono convinto. La presi come una vendetta, lì per lì. Connor era riuscito a spiattellarmi in faccia una bugia di Thomas? Perfetto. Avrei colto l’occasione per fargli vedere chi era in realtà il suo stupido beniamino. – Andiamo.
– Ne sei sicuro?
Serrai una mano intorno al suo braccio. Nessuno, nell’intero accampamento, aveva fatto caso a noi. Forse dormivano tutti, o, più semplicemente, Washington era così inetto da non avere nessuna mansione per loro. Voleva aspettare che il Britannico venisse direttamente a buttare giù le falde delle loro tende. – Più sicuro di così si muore – gli sibilai in risposta. – Dobbiamo bussare o… cosa?
Mi sentivo un vecchio pieno di reumatismi. Porco demonio, Reginald non aveva mai avuto bisogno di un bastone. – Lascia fare a me. – Feci un sorrisetto. Ah, se si aspettava che fossi io a parlare con George poteva anche morire su quella terra fangosa. Avrei preferito tornare indietro nel tempo e farmi impiccare dai miei fratelli, piuttosto.
A dire il vero non ebbe nemmeno bisogno di infilarsi nella tenda di comando, aperta su un lato. Washington doveva aver sentito i suoi passi leggiadri da quando avevamo attraccato a Philadelphia, e scivolò fuori dal suo alloggio con le mani giunte dietro la schiena e l’aria placida. – Signore – esclamò Connor, un po’ sorpreso.
– Salve, Connor!
Dio, se era invecchiato. I capelli bianchi che spuntavano dal suo tricorno erano diventati più radi, gli occhi sporgevano nelle orbite e la barba di qualche giorno, grigia e ispida, ornava il suo viso. Forse era il suo modo per allontanarsi dall’impeccabile stile britannico. Non mi sarei mai neanche sognato di prenderla per sciatteria, oh, mai. Allo stesso tempo, sembrava un nonno amorevole che accoglie il nipotino. – Qual buon vento?
– Una visita amichevole in tempo di guerra – sussurrai. Washington poggiò gli occhi su di me, grosse biglie lucide, e risposi mettendomi sull’attenti. Magari avrebbe ricordato. Come se avesse avuto una sola prova del mio coinvolgimento negli attentati alla sua stupida vita.
Lo sguardo di Connor era carico di pietà, per se stesso e nei miei confronti. Non ce n’era mai abbastanza, evidentemente. – Gli inglesi hanno richiamato gli uomini da Philadelphia. – Vero. Non era mai stato più facile attraccare una nave senza il permesso scritto dell’autorità. Sembrava che tutti i soldati della città si fossero presi un periodo di vacanza. – Marciano su New York. – E se le informazioni fornite da Perez erano corrette, sarebbero arrivati il giorno dopo. Il tempismo di Connor mi faceva venir voglia di sbattere la testa contro… qualcosa. Qualunque cosa.
Washington annuì, come se avesse previsto quella mossa. – Molto bene. – Lui e il suo dannato accento del sud. Sentii le viscere rimestarsi in fondo al ventre, sul punto di uscirmi direttamente dalla bocca. Perché si comportava sempre come se avesse la soluzione a tutto? Non era vero. Un uomo più scaltro e previdente avrebbe piazzato delle spie in città. Sarebbe stato avvertito in largo anticipo, e da uomini competenti, non da alleati che, volendo, avrebbero anche potuto inventare una balla per farlo allontanare da Philadelphia. – Sposterò le truppe a Monmouth. Se li invieremo là, finalmente avremo la meglio.
Certo. Far compiere ai soldati un viaggio di centinaia di miglia in una sola notte era l’ideale per avere truppe forti e capaci a New York. Gli inglesi erano già lì. Che diavolo aveva in testa quell’uomo? E, Dio santissimo, che cosa aveva Connor per credergli?
Mi girava la testa. Mi avvicinai alla scrivania protetta dalla tenda di comando, prendendo un paio di grossi respiri. – Arriveranno per domani? – Poggiai le mani sul ripiano di legno. Era tutto coperto di mappe, corrispondenza e lembi di stoffa trovati chissà dove. C’erano persino una piuma e una boccetta di inchiostro ancora aperta.
Diavolo, il nostro comandante in capo era un uomo impegnato. – Certo che sì, ragazzo mio. – Le macchie nere cominciarono a brillare davanti ai miei occhi. No. Vomitare anche sulle lettere di Washington sarebbe stato proprio il massimo. Poggiai gli occhi su tutte quelle missive, cercando di concentrarmi sulle parole. Dovevo distrarmi. Evitare che le idiozie di quell’uomo mi toccassero.
Non erano niente di eclatante. – Abbiate fede, Connor. – Esercito. Posizione. Azioni di guerra e nomi di armi. Edward Braddock.
Che?
Rizzai la schiena e presi lentamente il foglio in questione tra le dita tremanti. Perché si era messo a parlare di Braddock in una lettera? Un uomo morto. Voglio dire, non era esattamente un ottimo auspicio.
Battei le palpebre, cercando di recuperare una vista nitida. Dov’era quel punto? Scorsi le parole con lo sguardo, fino a incontrare di nuovo l’agognato nome. Edward Braddock. Eccolo lì. Più o meno a metà pagina, sulla sinistra.
 
...Edward Braddock, valoroso generale dell’Esercito Britannico che io stesso, in quanto suo vecchio sottoposto, considero tornato al Creatore troppo in fretta, ne conosceva la posizione all’interno della Valle Mohawk, e già quattordici anni fa me ne aveva messo al corrente, con cause e circostanze del tutto differenti. Si tratta di un piccolo villaggio nativo posto su un terreno fertile e pianeggiante, Kanatahséton. I migliori cartografi americani a disposizione dell’Esercito Continentale lo considerano il luogo perfetto per un nuovo insediamento una sorta di quattordicesimo Stato. I miei uomini saranno sul posto in tempi brevi, pronti a…
 
– Non dovete preoccuparvi di nulla, giovane. Le mie truppe saranno lì il prima possibile.
Strinsi i denti, tornando improvvisamente alla realtà.
Il prima possibile. Appena avrebbero raso al suolo il villaggio natale di Connor e sepolto l’unica Mela dell’Eden di cui conoscessi la posizione sotto le fondamenta in pietra della casa di qualche colono. Giusto in tempo, insomma. – E… – Non riuscivo nemmeno a parlare. Avevo la prova che cercavo, diavolo.
Non era per niente come me l’ero immaginato. – Questa cos’è?
Washington si voltò di scatto, gli occhi grandi come noci e puntanti su di me. Se avessero potuto uccidermi, diavolo, l’avrebbero fatto proprio in quel momento. – Corrispondenza privata! – Si allungò verso di me per recuperare la sua lettera, ma, quel giorno come quattordici anni prima, lo superavo di tutta la testa. Fu facile fare un instabile passo indietro e tenere il foglio sollevato, lontano dalle sue grinfie.
Poteva essere anche Gesù Cristo sceso in terra. Non avrei lasciato andare così la mia sola possibilità di dire a Connor la verità. – Ma certo – replicai con una mezza riverenza e tutto il disprezzo che provavo per lui. – Vuoi sapere di che si tratta, Connor? Sembra che il tuo amico qui abbia appena ordinato di attaccare il tuo villaggio. – Con belle parole quali insediamento e luogo perfetto, ma la sostanza era la stessa. Se Washington avesse potuto scrivere ciò che davvero pensava, il testo sarebbe stato “Buttate quei dannati selvaggi fuori e abbattete le loro case, così ci sarà una nuova città in cui gli immigrati inglesi – oh, perdonatemi, americani – potranno intonare il mio nome davanti al camino.” 
Avevo il petto pieno di fuoco, colmo di rabbia e una strana forma di felicità. Quel bastardo avrebbe avuto ciò che meritava. Pensavo che quella lettera fosse abbastanza per far capire a Connor con chi diavolo stesse cercando di collaborare. Servivano forse altre prove?
Non per me. Non ne avevo mai avuto bisogno. – Diteglielo, comandante – ringhiai verso di lui.
– Ci hanno riferito che alcuni indiano stanno collaborando con gli inglesi. Ho solo chiesto ai miei di fermarli! – Fissava mio figlio con gli occhi sgranati e le mani aperte, cercando la sua fiducia. Doveva fidarsi di lui, in qualsiasi caso, perché aveva ragione. Insomma, chiunque in guerra avrebbe agito così, no?
Schioccai la lingua e lasciai di nuovo la lettera sulla scrivania del comandante. – Fermarli? Qui si parla di bruciare i villaggi e spargere sale sulla terra! – D’accordo. Forse le parole non erano esattamente quelle, ma dopo tanti anni a contatto con la diplomazia avevo imparato a leggere tra le righe. – Come quattordici anni fa – gli ringhiai contro, i pugni stretti lungo i fianchi.
Washington roteò gli occhi. – Erano altri tempi. La guerra dei sette anni. – Come se non lo sapessimo tutti.
– E con ciò? Non avevate il diritto di fare una cosa del genere, e non l’avete neanche oggi! – In verità, be’, sapevo che non era proprio così. La terra non appartiene a nessuno, dal punto di vista etico. La realtà è che tutto, dall’erba ai sassi, alla vita stessa, è di chi se lo prende per primo.
Ma avrei fatto qualsiasi cosa per cambiare le idee di Connor, anche a costo di abbandonare il mio tipico realismo. – Vedi, Connor? Il tuo grand’uomo è come tutti gli altri.
– Non osate! – Washington avvampò, muovendo un passo nella mia direzione.
Uccidilo, sussurrava una vocetta nella mia testa. È la tua occasione. Forse l’avrei anche fatto, ma non era una delle mie priorità. Il tempo di salvare Charles e i suoi giorni sarebbero finiti. E poi volevo che lo facesse Connor.
Era la sua occasione. Dimostrare…
– No. – Il ragazzo si sistemò tra me e Washington, le mani alzate e un’espressione cupa in viso. – Io… devo andare. Devo salvare il villaggio. – Aveva gli occhi lucidi e colmi di rammarico. Oh, Dio. – Tornerò presto.
– Cosa? Ma non l’hai sentito? – D’istinto afferrai Washington per il cappotto, fermando ogni sua possibile fuga. Sarebbe stato facile. Smontare le tende da Valley Forge e dileguarsi prima che l’ira di mio figlio si abbattesse su di lui.
Perché l’avrebbe fatto, non è vero? – Voleva quella terra per i tuoi amici coloni! Come puoi non…
Si era già incamminato verso le doppie porte, diretto al fitto della Frontiera. – Non abbiamo tempo, Haytham! – Si voltò un attimo, continuando a camminare all’indietro. Devo ammettere che, nonostante la sua aria idiota, in quel momento nel mio cuore s’accese una scintilla di stima per lui. – Ne riparleremo, Washington – sibilò tra i denti stretti, – ma fareste meglio a spedire quelle truppe verso New York. La città è più importante di un pezzetto di terra, non credete?
Sollevai un sopracciglio. Forse lo era per lui, di certo non per me. Non per noi.
Connor sparì tra gli alberi, correndo come gli avevano insegnato Achille e sua madre. Io rimasi lì, a tenere Washington stretto per la redingote. – E mollatemi, dannazione! – esclamò mentre assestava colpo sulle mie nocche. – Che cosa diavolo vi è saltato in mente, si può sapere? Dovrei arrestarvi!
Battei le palpebre. Forse avevo cominciato a riporre un po’ di fiducia in Connor, ma mi ero reso conto anche di un’altra cosa. Mi sfuggì un sorriso al pensiero.
Avrebbe potuto uccidere il comandante in quel preciso istante, invece se n’era andato con un monito. Gliene avrebbe riparlato. Ecco che cos’era stato in grado di dimostrare.
Che non mi somigliava nemmeno un po’. Non cercava la vendetta, ma il progresso. Voleva aiutare me, il suo villaggio e i coloni nello stesso momento. Recuperare la Chiave perché così aveva ordinato Giunone, ma senza scappare dai suoi impegni politici.
Che il diavolo mi porti, era un Assassino. In tutto e per tutto.  
– Andatevene da qui – sibilò Washington, il viso a pochi centimetri dal mio. – Mi avete sentito? Andatevene!
Scrollai il capo. Gli occhi mi caddero nei suoi, piccoli e acquosi, gli stessi che aveva da giovane. C’era qualcosa che non andava in quella storia. Me lo sentivo. – Dov’è Charles Lee?
Sgranò gli occhi. Bingo. – Come… che avete detto?
Sorrisi. – Charles Lee, signore. Il vostro secondo in comando. – Il mio secondo in comando, più che altro. – Perché non è qui?
George Washington prese un respiro e si grattò la nuca con fare irritato. – L’ho mandato a parlamentare con i vostri amici nativi. – Mi lanciò un’occhiata di sfida. Non poteva ricordare il periodo in cui io e Edward Braddock lottavamo per tenerci Charles. Era troppo giovane. E poi, coraggio, stava ancora con le giubbe rosse. Era meglio che nessuno rivangasse quell’oscuro passato, lui compreso, no?
Che diceva? Charles… a parlamentare con i nativi?
Porco demonio. Il primo pensiero che mi passò per la testa – no, non quello – fu che Charles era un genio. Si era fatto spedire a parlare con gli indiani. Sarebbe riuscito a metterli contro Washington. Avrebbe organizzato un attacco, qualcosa di straordinario, dalle proporzioni mai viste, la prima grande rivincita delle popolazioni indigene sui conquistatori.
Il comandante in capo dell’esercito sarebbe morto quel giorno stesso. Il mio cuore saltò un battito. Finalmente. Avevo aspettato quel momento per tutta la vita, da quando, quattordici anni prima, aveva sparato al mio cavallo. Si era messo tra me e Braddock. Tra me e la mia maledettissima preda.
Era qualcosa che non tolleravo, diavolo.
Charles avrebbe risolto tutto, certo. Altro che Connor. Doveva essere lui a prendere il comando dell’esercito, fin dall’inizio.
Sentivo la faccia farmi male, talmente sorridevo. – Ora, se volete farmi la cortesia di andarvene… – Le parole di Washington mi riscossero. Oh. Mi sarebbe piaciuto assistere alla sua morte, davvero. Per non parlare dell’espressione che Charles avrebbe fatto vedendomi lì. Impagabile.
Nella mia testa, quel momento sarebbe stato memorabile. Forse l’avrei abbracciato. Potevamo brindare al suo nuovo ruolo di comandante, fumare qualcosa e aspettare che Connor recuperasse la Mela. Di certo avrebbe avuto un sacco di cose da dirmi. E Tom? Il loro primo incontro sarebbe stato divertente, senza dubbio.
Alla faccia di Connor, convinto che alle Colonie servisse Washington, la ferrea guida del Paese. Certo. Peccato che il suo villaggio avesse avuto bisogno di Lee, di qualcuno che lo salvasse invece di devastarli tutti. Stupido ragazzino.
Incrociai le braccia sul petto e feci un cenno di saluto al comandante. Entro quel giorno avrei avuto tutto ciò che desideravo. Charles, George Washington che mi aspettava nell’aldilà e il Frutto dell’Eden.
Il Frutto dell’Eden…
Le mie gambe cedettero. Mi aggrappai alla falda di una tenda nel vano tentativo di non cadere a terra come un idiota. Troppo tardi. Il fianco impattò a terra con una forza tale da spezzarmi il fiato. No, errore mio. Era stato il mio secondo pensiero a far scappare di corsa tutta l’aria che avevo nei polmoni.
Charles non voleva Washington morto. Cioè, sì, ma non era quello il perno del suo piano. Ammazzarlo avrebbe comportato la libertà di quel terreno per i successivi cinque minuti. Cinque minuti in cui gli indiani si sarebbero affidati totalmente a Charles Lee.
Al punto da affidargli la Mela dell’Eden senza pensarci due volte. – Mio Dio, ma sapete reggervi in piedi?
La spocchia del comandante mi toccava a malapena. Sentivo il cranio sul punto di scoppiare, lasciando solo il moncone sanguinante del mio collo. Dio, come avevo potuto essere così stupido da dimenticarmi di Reginald? Che cosa diavolo mi passava in testa? Thomas aveva ragione. Dopo aver ammazzato Benjamin credevo già di aver vinto, quando il peggio doveva ancora arrivare.
Perché fino a prova contraria, Charles era ancora dalla sua parte.
E se lo fosse rimasto? Se, anche una volta morto Birch, avesse continuato a lottare contro di me?
Pregavo che non lo facesse. Non sarei mai stato in grado di ucciderlo.
Non mio figlio.
– Tiratevi su, forza! – Washington mi afferrò per un braccio, come se aiutarmi a restare eretto potesse in qualche modo cambiare la mia opinione su di lui. – Un uomo della vostra età dovrebbe stare attento a dove mette i piedi – grugnì.
Mi bloccai di scatto, fissandolo negli occhi. Era appena più giovane di me, le guance ancora imporporate dall’imbarazzo che gli avevo procurato poco prima. Ai lati del naso, i suoi occhietti da topo mi scrutavano. Sembravano scavare nella mia anima.
Rimasi a fissarlo per un secondo, immobile, con il fiato grosso. Riuscivo solo a pensare che ero un idiota. Un enorme idiota.
Gli scaricai un pugno in faccia con tutta la mia forza. Rimasi a guardarlo mentre cadeva all’indietro, con le mani premute su quello stupido naso, mentre i miei denti tremavano gli uni contro gli altri. – Siete impazzito? – sbottò, la voce acuita dal dolore.
Oh, no. Mi buttai su di lui e lo spinsi a terra, affondando un calcio nel suo stomaco prima che potesse aggiungere una sola parola. – Bastardo! – sbottai con una mano sulla nuca. Avevo la lingua asciutta in bocca e la mente annebbiata. Lo guardavo boccheggiare ai miei piedi, un rivolo di sangue che gli colava sulla faccia e stava macchiando la tenda del nucleo di comando. Che gran peccato.
Scoprì i denti, sollevando lo sguardo su di me. Aveva le mani sporche di sangue. Mi guardò dritto negli occhi per qualche secondo, poi i suoi occhi corsero per tutta la mia persona, dalla testa fino ai piedi. Mi parve di sentirli bruciare all’altezza della bocca, dove la mascella contratta cominciava a fare male. – Voi…
Non so dire se mi riconobbe. Non mi importa. Ricordo che mi afferrò per una gamba. – Guardie! – gridò soltanto. – Guardie! – Presi a scalciare come un cavallo imbizzarrito, cercando con tutte le mie forze di ributtarlo a terra. Che andasse a ‘fanculo. Lui come chiunque altro. – Prendete quel bastardo – urlò ancora. Poi il mio stivale lo colpì alla bocca dello stomaco, e il vecchio cane mollò la presa. Grazie a Dio.
– Fermo!
Non ebbi il tempo di replicare che una grossa mano guantata mi si piantò sulla fronte, scagliando via il mio tricorno. Un’altra mi prese il polso, e in un attimo avevo il braccio bloccato dietro la schiena. Scalciai ancora, cercando di raggiungere Washington con l’altra mano, nonostante il dolore alla spalla, alla testa. Al petto. C’era qualcosa di spaccato in me che faceva più male di tutto il resto. – Bastardo! – gridai di nuovo. Non l’avevo mai odiato tanto come il quel momento.
Attraverso gli occhi stretti e umidi di lacrime vidi un soldato precipitarsi a soccorrere Washington. Un terzo mi puntò il moschetto contro, e quando sputai nella sua direzione l’ennesimo maledetto patriota afferrò il mio braccio libero, bloccandomi del tutto. Riuscivo solo a tirare calci al nulla, come un bambino capriccioso. – Bastardo!
– State bene, comandante?
Washington si tirò faticosamente in piedi, lanciandomi occhiate omicide da quegli occhietti piccoli e acquosi. Stupido figlio di puttana. – In nome di Dio – sussurrò tra i denti, ricacciando il soldato dietro di sé, – non stategli troppo vicino. Quest’animale è fuori di testa.
Puntai i piedi a terra, il corpo teso nella sua direzione. Come se non avessi avuto degli ottimi motivi per comportarmi in quel modo.
Un motivo in particolare. – Inutile figlio di puttana! – gridai. La presa dei soldati si fece più ferrea sulle mie braccia. – Come hai potuto? Come hai potuto?
Fece un passo indietro. Il mondo intero era rosso. Lo era la terra e lo erano le tende, lo era Washington, lo erano il sangue, la rabbia, la morte, i soldati e tutto ciò che li circondava. Valley Forge era una tinozza rossa, così come rosso era il peccato. Era la promessa di quanto avrei fatto a quel bastardo appena mi avessero lasciato andare. – L’unico tuo dovere era salvarlo! – Non avevo più alcun freno. Voleva la verità? Eccola. Poi l’avrei ucciso. Sì. – La sola cosa – ansimai, gli occhi umidi sul viso – che dovevi fare era tenerlo al sicuro!
– Che diavolo dice?
– È pazzo.
Bravi. Che parlassero, i piccoli bastardi. Gli occhi di Washington erano abbastanza eloquenti. Aveva capito benissimo a chi mi riferivo. Non era mai stato bravo a mentire.
Non che fosse difficile. La mia anima gridava il suo nome così forte che avrebbero potuto sentirlo anche i morti.
Charles Lee.
O il ricordo che mi era rimasto di lui. – Perché l’hai fatto? – sussurrai, i miei occhi fissati nei suoi come spilli. – Perché l’hai lasciato andare, bastardo? – Colpii la terra con un calcio e la presa dei soldati su di me si fece più salda. Avevano paura. Anche il comandante in capo ne aveva, la fiutavo nell’aria come piscio. Fece un passo indietro, la mano destra ancora al naso sanguinante. Faceva bene, cazzo, perché appena quei pezzi di merda mi avrebbero mollato lo avrei ridotto alla misera ombra dello schifoso essere umano che era.
L’avrei reso un verme peggiore di quando già fosse. Doveva pagare. Doveva pagare per quello che aveva fatto a Tiio, per quello che stava facendo a Charles e per il modo in cui continuava a illudere Connor.
Evidentemente la mia vita non poteva essere rovinata da un solo uomo. Dovevano coalizzarsi tra bastardi e farmi impazzire. Washington aveva Charles al suo fianco, e se lo avesse tenuto lì io sarei stato al sicuro. E lui con me.
Chissà che cosa avrebbe detto mio figlio vedendo che avevo picchiato l'amore della sua vita. – Bastava che te lo tenessi vicino! – ruggii. Il suo volto ceruleo e macchiato di sangue, con quell'espressione scioccata e inerme, come se fossi io il figlio di puttana che non aveva idea di quanto stesse accadendo ai suoi sottoposti, mi fece imbestialire. Faceva l'uomo onesto solo davanti ai suoi. Avessero saputo. – Bastava soltanto che...
Fece un fulmineo passo avanti e sentii la guancia bruciare sotto le sue nocche.
Rimasi a bocca aperta. Uno schiaffo. George Washington mi aveva tirato uno schiaffo. La sua espressione ferrea, la bocca piegata in una smorfia triste, come un padre costretto a punire il figlio prediletto perché stavolta il suo errore è stato eccessivo. Mi venne il voltastomaco, il sangue raggelato nelle vene in un solo istante.
Lui non era nessuno. Non era nessuno, maledizione. Non per me. Scalciai, sollevando un polverone che avrebbe potuto creare un'altra montagna, ma non sfiorai minimamente il caro e vecchio comandante in capo. Bastardo.
Quello non poteva toccarmi. Non doveva toccarmi. Tutto ciò che doveva fare era proteggere Charles, tenerlo al sicuro per me. Invece l'aveva mandato a parlamentare. Parlamentare, certo. Con quel cazzone di Connor in mezzo ai piedi, i nativi avrebbero potuto scegliere. Ammazzare Charles o ammazzare lui.
Oh, certo, e a chi importava? Tanto andavano entrambe a mio svantaggio. 'Fanculo. – Quest'uomo – Washington fece un passo indietro mentre uno dei due uomini che mi trattenevano mi afferrò per i capelli. Sentivo la mascella bloccata in un ringhio animale. – Quest'uomo è un pericolo per la nostra sicurezza – sibilò. Stupido. Quanta gente aveva rischiato di morire per i suoi piccoli sogni di conquista, per un pezzo di terra o un angolo di piazzaforte?
Non sopportavo che se la prendesse con me. – Rinchiudetelo – fu la sua sentenza definitiva. Mi piacerebbe dire che gli risposi con uno sguardo d'acciaio e l'aria severa, ma non sarebbe la verità.
Mi resi conto di essere scoppiato in lacrime solo quando mi sfuggì un singhiozzo, lì, davanti a Washington. – Perché non mi ammazzi, eh? – gli abbaiai contro.
– Rinchiudetelo. – La sua proposta non era cambiata. Figlio di puttana.
– Rispondi, maledizione! Perché non mi ammazzi? Falla finita, perdio, piantami... – Le lacrime mi si bloccarono in gola. – Piantami un proiettile in bocca e metti fine a tutto questo! – I due soldati alle spalle di Washington mi fissarono con gli occhi sgranati, indecisi se puntarmi il moschetto alla fronte o lasciare che morissi nelle celle di detenzione, consumato dalla mia follia. – La sai una cosa, Washington? – dissi tra i singhiozzi, la voce che trasudava rabbia. – Delle volte ho ripensato a quello che ti ho fatto e... e in parte mi sono pentito. Mi sono detto che se mio figlio si fidava così tanto di te doveva esserci un buon motivo, in fondo. Forse non... non tutto quello che avevi dentro era marcio e canceroso.
L'attenzione di Washington nei miei confronti parve ridestarsi di nuovo. Potevo sentire il suo culo stringersi per la paura. – Mi sbagliavo. Avrei dovuto ucciderti molto tempo fa, quando ho avuto l'occasione.
– Voi... – Inevitabilmente spalancò la bocca. Oh, sì. Al diavolo tutto. Tanto valeva che sapesse.
– Charles Lee era accanto a te, quella volta! È solo grazie a lui che ancora sei vivo e respiri! – Parole e singhiozzi disperati fusi in un patetico ibrido, ma non contava. – E tu l'hai lasciato andare! Figlio di puttana! Dovevi proteggerlo! Tu... – Le lacrime mi bloccarono le parole nel petto. Scivolavano lungo il mio viso e bruciavano così tanto che credevo avrebbero lasciato dei solchi. – Tu... lurido... pezzo di merda!
– Portatelo via. – Il grande comandante non aveva nient'altro da aggiungere. – In una cella ampia a sufficienza per la sua pazzia.
Oh-oh-oh, che spiritosone. Premevo i talloni a terra per impedire a quei figli di puttana di trascinarmi via. Volevo strozzare Washington e farlo a pezzi con le mie mani. Dilaniargli la gola a suon di morsi. – E muoviti! – Un soldato mi diede un colpo nel culo con il calcio del moschetto, facendomi sollevare le gambe da terra.
La sagoma di Washington si fece più piccola e indistinta tra le tende. Bastardo. Più mi allontanavo e meno rabbia provavo. Stava prendendo il volo, lasciando spazio solo alla più cupa disperazione. Piangevo come un bambino, la testa mollemente abbandonata sul petto. Avrei trovato un modo per uccidere questi inetti e scappare dalla prigione del Continentale, ma non in quel momento.
Dovevo prima rimettere insieme i miei pezzi. 

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Capitolo 57
*** La falla. ***


But I'm a creep
I'm a weirdo,
What the hell am I doin' here?
I don't belong here.
– Radiohead, Creep.

Dei disgraziati. Tutti noi lo siamo.
– Irvine Welsh, Il Lercio.

 

– Piena anche quella?
– Maledizione! Che è, si sono messi d'accordo? – Il patriota che mi aveva colpito con il moschetto si passò una mano sulla fronte madida. Lì sotto giugno si faceva sentire, ma non sarebbe stato niente in confronto al calore di New York, messa a ferro e fuoco dalle giubbe rosse in quelle stesse ore. – In questa ce ne sono addirittura sei!
Mi schiarii la voce. Dopo aver singhiozzato per un'altra ventina di minuti non avevo più aperto bocca, se non per maledire il nome di Washington tra me e me. Quei soldati non erano il loro comandante. E poi dovevo ucciderli. Tanto valeva farci due chiacchiere. – Disertori?
– A-ah. – Non sembravano curarsi del fatto che stessi parlando con loro. Meno male. Avevo bisogno di sentire qualcuno che non dicesse solo cazzate. – Sembra che tutti abbiano le idee confuse. Dicono che anche se vincessimo le tasse dovranno essere pagate, solo a un governo diverso, quindi saltellano tra un esercito e l'altro per tenere le chiappe al sicuro. – Annuii tra me. Non erano confusi. Solo persone intelligenti che la sfortuna aveva spedito in cella. Al loro posto avrei fatto la stessa cosa. – Washington ha deciso di dare un taglio alle esecuzioni. Per dimostrare di non essere come il Re.
L'altro soldato grugnì, irritato. – Già. Peccato che così non ci sia spazio manco per l'aria, lì dentro. – Colpì la porta metallica della cella con un calcetto. – Così anche se non li impicchi muoiono di fame, di sete o per qualche diavolo di malattia. – Sbuffò. – Vanno tutti nello stesso posto, alla fine.
– Amico, qua non ci starebbe neanche per un topo – replicò il primo, sbirciando in una delle celle attraverso lo spioncino. – No. No, io lo riporto da Washington.
Il secondo fece spallucce. – E che gli diciamo? Che dobbiamo lasciarlo libero perché è stato troppo buono con gli altri cento o centocinquanta traditori?
Sogghignai. – Potrebbe essere un'idea – aggiunse il primo. – Questo posto non ha senso. I bastardi restano in vita e noi rischiamo di morire per la prima pestilenza di merda che parte da qui. Io dico di chiedere a Washington una soluzione alternativa.
L'altro sospirò. – Come vuoi.
Aggrottai la fronte. Che? Forse, per una volta, avrei potuto risparmiare un essere umano. Che novità. Stupiva anche un cinico come me. Schioccai la lingua mentre i due soldati mi spingevano nuovamente verso le scale per uscire di lì.
Al loro posto, io avrei preferito morire che continuare a servire quel figlio di puttana. Quindi, pensandoci, non c'era tutta questa pietà nei miei gesti.
Al diavolo. Tanto sbagliavo sempre.
Mentre mi spingevano alla luce grigiastra che il sole versava su Valley Forge, pensai che la soluzione alternativa di Washington poteva anche comprendere la mia morte. Sì. Un cadavere tra gli altri, buttato in una latrina coperta di terra. Nessuno vi avrebbe mai fatto caso. Tranne mio figlio, forse.
Di sicuro se ne sarebbe accorto Tom, appena fosse stato a corto di denaro. Bugiardo schifoso. Dunque aveva mentito su quanti uomini avesse davvero ammazzato quella volta.
Il fatto era che avevo cose peggiori cui badare, e tutte quelle stronzate si sovrapponevano nella mia testa, mi confondevano. Ce n’era sempre una più grossa delle altre, lì, ad alitarmi sul collo come un lupo famelico. La mia sopravvivenza, giusto per fare un esempio. O l'assicurarmi che la Mela non cadesse nelle mani di Reginald, neanche per sbaglio. Se Thomas decideva o meno di uccidere delle persone non era un mio affare. Neanche un'eternità passata a chiedere perdono al Papa in persona avrebbe potuto espiare le nostre colpe.
– Guarda dove cammini, cazzone! – Uno dei soldati mi afferrò per un braccio mentre caracollavo in avanti, inciampato in un gradino pieno di sbeccature. Imprecai tra me. In un accampamento britannico non sarebbe mai successo. La passione per la forma dei miei compatrioti mi mancava un po'. O forse, semplicemente, avrei preferito vedere il vecchio Church resuscitato piuttosto che inginocchiarmi davanti a Washington.
Serrai i denti, le corde che sfregavano sui polsi come se volessero segare la carne. – Dovrò buttarmi ai suoi piedi e implorare pietà? – bofonchiai sfacciato, sperando che non m'ammazzassero loro stessi. D'altronde, nessuno fuori dalle mura poteva sapere quali fossero i motivi per cui, ogni giorno, decine di soldati morivano negli accampamenti. Potevo essere uno dei tanti, sparito senza lasciare traccia. Oh. Per favore, George. Se proprio avessi dovuto, sarebbe stata quella la mia preghiera. Ho venduto la mia anima per la vendetta. Sono invecchiato e sopravvissuto solo per quella. Lasciami vivere ancora un po'. Solo un po', non chiedo nient'altro.
E speravo che il comandante fosse clemente. In nome della libertà, delle sue stupide idee democratiche o della profonda amicizia che lo legava a mio figlio. Era sangue del mio sangue. Non poteva farmi fuori, giusto? Non senza un motivo valido.
Come un paio di pugni in faccia.
Dannazione. – Farai ciò che vuole Washington, tu. Ora zitto. – Roteai gli occhi. Ciò che voleva. A pensarci, poteva essere di tutto. – Anzi, dimmi una cosa.
L'altro sbuffò, e sentii la sua mano colpirlo in una pacca amichevole. – Andiamo, James, piantala. Se ci beccano a fare amicizia...
– Chiudi il becco per un secondo, cazzo, e dimmi se arriva qualcuno. – James, quello che mi aveva salvato dallo spaccarmi il naso sulla dura terra di Valley Forge, infilò un braccio nell'incavo del mio gomito e mi trascinò con sé in una brusca deviazione dal sentiero principale dell'accampamento, tra le rimesse per i fucili e le casse di rifornimenti impilate con cura. – Adesso mettiamo in chiaro due cose, vecchio.
Aggrottai la fronte. Doveva esserci qualcosa di grosso in ballo se osava disobbedire al grande George Washington. Connor non avrebbe fatto una cosa del genere neanche sotto tortura. – Jim. Vacci piano.
L‘altro rispose con un grugnito. – Arriva mica nessuno, vero?
– Oh, Dio, mi hai sentito dare l'allarme?
James allentò la presa sul mio braccio. – Be', no.
– E allora di che ti preoccupi? Se arriva un cazzo di qualcuno te lo dico. – James sbuffò e prese a caricare il moschetto, il suono del proiettile in canna che mi rimbombava nelle orecchie come una messa funebre.
M'irrigidii di colpo. Avevo la baionetta del soldato tremante sotto il mento, gelida a contatto con la pelle. – Allora smetti di rompere le palle e sta' di guardia! – berciò. Ero talmente concentrato sulle loro parole che quando mi mandarono a sbattere contro la parete di una rimessa per la polvere da sparo lanciai un grugnito d'indignazione, la guancia schiacciata contro il legno.
– Ma se continui a parlarmi come cazzo faccio a stare di guardia? – L'altro si allungò per mollare uno spintone a James. Oh, Dio. Perfetto. Mi ero trovato i due soldati più stupidi che il fato potesse concedermi.
Andiamo, erano patrioti. Da un lato dovevo aspettarmelo. – Sta’ all’erta e chiudi il becco – sibilò James prima di voltarsi a guardarmi. Mi fece girare su me stesso, la schiena contro la parete della rimessa. – Ascoltami un po'. Due punti, ti dicevo. Numero uno, se apri quella tua boccaccia da vecchio di merda ti taglio il cazzo e te lo faccio ingoiare. – Oh, ma che carini. L'emblema della democrazia.
Sollevai un sopracciglio. Numero due, se mi chiami un'altra volta "vecchio" i tuoi denti faranno la stessa fine del villaggio di Connor. Nel peggiore dei casi te li spacco adesso, altrimenti torno tra un paio di mesi e li strappo da quelle schifose gengive con un sorriso ancor più grosso.
Non riuscii a trattenere una smorfia divertita. Con tutte le disgrazie che avevo dovuto attraversare quel ragazzino credeva di spaventarmi con due parole? Uh. Non era un brutto giovane, anzi, a parte le occhiaie violacee e i denti gialli, poteva ancora essere considerato attraente, ma questo non gli dava il diritto di trattarmi come un idiota. Forse – senza dubbio, direi – funzionava con i suoi sottoposti. – E punto due, non provare a mentirmi. – Ringraziai il cielo: credo che se avesse aggiunto un'altra minaccia non sarei riuscito a trattenermi dal ridere.
Presi fiato. – D'accordo. Che cosa vuoi? – Cercai di andarci cauto. Avevo avuto centinaia di conversazioni come quella, nel corso della mia vita. Sapete, ogni uomo con un qualche grado pensa di essere moralmente e intellettualmente superiore a un soldato semplice, e ogni soldato semplice crederà di esserlo nei confronti dell'uomo comune. A volte abbiamo bisogno di conferme della nostra autorità. E avevo già fatto il bambino cattivo con Washington, se mi fossi messo a picchiare anche quei due mi avrebbero impiccato o sgozzato come un maiale solo a causa della mia follia. – Non siate timido.
James emise un grugnito. – Non lo sono, vecchio. – Irrigidì la mascella, e per un istante arrivai a pensare che mi avrebbe chiesto di inginocchiarmi mentre si sfibbiava i calzoni. "Non avevi detto che non avrei potuto aprire bocca?" Mio Dio, perché ogni volta che le cose si complicavano un po' la mia testa tirava fuori quegli assurdi sprazzi d'immaginazione? – Ascoltami un po' – disse con una mano tra i capelli. La sua bocca, piegata in una smorfia triste e ansiosa, sembrava quella di chi ha bevuto un intero boccale di piscio. – Hai detto che le aragoste stanno andando a New York, non è così?
Annuii con decisione. – L'ho saputo da un complice di Ben Church. Sono state le sue ultime parole, ho pensato di potermi fidare.
James mi lanciò una di quelle occhiate con cui i giovani sono bravissimi, da cucciolo disperato, il volto bianco e le palle degli occhi lucide. – Devi... – Si morse un labbro e si premette una mano sulla bocca. L'altro soldato scosse la testa in un cenno scettico. Potevo capirlo. – Devi esserne sicuro. Gli inglesi stanno veramente... andando a New York?
Il mio primo impulso fu quello di fare spallucce, ma al ragazzo sfuggì un singhiozzo. E poteva essere un patriota, un lealista, una giubba rossa o Gesù Cristo in persona, ma mi aveva salvato dal finire in una cella sovraffollata a morire di febbre. Mi sentivo in debito, lo ammetto.
Non dovevo necessariamente fare il bastardo con tutti, no? – È una situazione facilmente verificabile. Philadelphia ormai è in mano a voi, quindi direi che l'unico posto ancora libero e disponibile è New York. – Presi fiato. – Non avete molte truppe lì, o sbaglio?
James prese a camminare rapidamente in circolo, i pugni chiusi e le labbra strette al punto da sembrare ancora più bianche. – Dobbiamo andare da Washington e dirgli di ascoltarlo.
– Jim, è l'alba. – Il secondo scosse il capo. Direi che uno di loro aveva già capito come funzionava il mondo, quantomeno. – Non abbiamo più possibilità di riuscire a...
– Non me ne importa niente, Paul! – Quel James mi fece trasalire, riuscendo a suonare furioso e terrorizzato anche sussurrando. Ah, la vita militare. Uomini chiusi in una ferrea gerarchia, senza alcun potere sulle idiozie di un terzo bastardo con il grado giusto sul petto. – Ci stanno mia moglie e mia figlia laggiù!
– Credi che non lo sappia? Rassegnati, amico. Forse le giubbe rosse le hanno...
– Forse? – James non riuscì a trattenersi e alzò la voce, scagliandosi contro il compagno d'arme con uno spintone. – Dobbiamo mandare delle truppe di supporto! Adesso!
Paul lo afferrò per una spalla. – Stammi a sentire, se mandiamo delle truppe per un offensiva i nostri dovranno aprire il fuoco. Ci sei? Magari la città è stata presa pacificamente e stanno tutti bene, invece noi piombiamo lì e distruggiamo tutto. Li provochiamo, cazzo. – Mi ritrovai a sollevare un sopracciglio, pensando a quanto mi fossi sbagliato sul loro conto. Litigavano come comari, ma non per questo erano stupidi. Anzi, Paul aveva appena detto una cosa molto più ragionevole di tutta la merda che usciva dalla bocca di Washington.
James scosse comunque la testa. – Nessuno prende una città pacificamente. – Aveva abbassato il tono, e quando si voltò nella mia direzione le sue labbra avevano assunto una piega dura. – Devo sapere come stanno, Paul – singhiozzò. – Avrei dovuto mandarle dai miei.
– Amico, scommetto che stanno bene – lo rassicurò l'altro. Iniziavo a crederci anche io. A pensarci, se difendevano New York come difendevano Philadelphia, gli inglesi non dovevano neanche aver snudato la spada. Potevano essere ancora tutti vivi, al sicuro nelle loro case.
Non credo avrebbero più fatto l'errore di due anni prima, con quel maledetto incendio. Mi venivano i brividi solo a pensarci. – Tu – James mi diede una spintarella. – Se scopro che hai mentito, la pagherai cara.
Annuii perché mi spiaceva per lui, ma non temevo le sue minacce. In quel momento Charles poteva già aver recuperato la Mela dell'Eden, e appena fuori da quel casino, se ne fossi uscito vivo, ci avrebbe pensato lui ad ammazzarmi. – Non ho mentito – risposi. – Lo giuro.
Il giovane soldato mi mandò uno sguardo di fuoco. – Lo giuri? Che cos'hai su cui giurare? – La sua voce si era fatta più sottile, sul punto di spezzarsi. – Tu una vita l'hai vissuta, e adesso sei solo, qui, a fare il matto. Che cos'hai da perdere? – Mostrò i denti e diede una botta a palmo aperto sul legno accanto alla mia testa, facendomi trasalire. – Che cosa diavolo hai, tu, da perdere? Io non ho mai visto mia figlia sorridere o... o camminare! Sai da quanto tempo non mi scopo mia moglie? E ogni giorno, ogni minuto, ogni maledetto secondo che passa il suo viso diventa più sfuocato nella mia mente, e non posso fare nulla per cambiare le cose! Io ho ventidue anni e una famiglia che non ho neanche visto crescere per colpa di questa maledettissima guerra!
– James. – Paul lo prese per una spalla e lo tirò indietro. Le lacrime scorrevano copiose sul suo viso, brucianti di rabbia e frustrazione. Lo capivo. Era quello il guaio, ciò che Connor non riusciva a comprendere quando andava ad ammazzare i soldati inglesi. Che c'è la stessa gente da entrambe le parti. Uomini disperati e confusi, con una famiglia e tutto il mondo contro.
A parte Banastre Tarleton, mi pare ovvio. Quel ragazzo mi ricordava Tom da giovane. L'unica cosa che li differenziava era l'aria di classe che Ban il Sanguinario ostentava, tutto orgoglioso. – Andiamo da Washington – lo rassicurò Paul. James si era messo a piangere sulla sua spalla, il corpo scosso dai singhiozzi. Mi facevano davvero pena, ma io non ero in una situazione migliore solo perché non stavo piangendo o non ero rinchiuso in una cella. La mia vita faceva lo stesso schifo. Che novità. – Su. Non disperarti.
– Grazie. – Si asciugò il naso sulla manica della giubba, un debole sorriso stampato in faccia. – Andiamo – disse con un ultimo singhiozzo, afferrandomi di nuovo per il braccio e guidandomi verso la strada principale di Valley Forge, ancora avvolta nella nebbia grigia e squallida del primo mattino. Riuscivo a scorgere la bandiera  sulla tenda di Washington da laggiù, un superbo vessillo simbolo di qualcosa che non esisteva. Stessa terra, con un nome diverso. Come se avere un Parlamento sul suolo americano potesse permettere ai cittadini di avere davvero il controllo sulla politica.
Illusi di merda. – Vuoi che ci parli io? – chiese Paul. James annuì, e io ne fui felice. Sembrava più ragionevole del compagno, calmo, il tipo di persona cui tutti danno retta. Iniziai a chiedermi se la sua famiglia fosse già andata all'altro mondo. Forse semplicemente non ne aveva una. – D'accordo. Amico, sta' calmo. Sono al sicuro. James. Guardami. – Lo prese per le spalle, scrollandolo un po'. – Pensa positivo, per una volta. E prega Iddio di avere ragione.
James singhiozzò di nuovo, ma senza piangere. – Che senso ha? Questo schifo di guerra non ci ha mai portato niente di positivo.
Sbuffai piano, evitando di farmi sentire. Lì la colpa non era della guerra, ma di quell'inetto figlio di puttana che avevano per comandante. – Dopo andiamo a bere qualcosa e scriviamo una lettera a tua moglie. D'accordo? – James annuì. – Ora mi serve che tu stia calmo, però. Puoi rimanere qui, se preferisci. – Scrollò il capo. Perfetto. Forse Washington si sarebbe fatto un paio di scrupoli sul condannare un uomo quasi innocente davanti ai suoi sottoposti.
Quasi innocente, sì. Mi aveva provocato. Se fosse stato più acuto non avrei dovuto organizzare nessun attentato, e senza dubbio non l'avrei mai preso a pugni. L'avrei immaginato, forse. Si era impicciato degli affari miei e di Connor, insieme ai Templari e alla Prima Civilizzazione, e pensava di poter mandare all'aria tutti i miei piani. Mi aveva punzecchiato fin dall'inizio.
Questo mi mandava davvero in bestia. Questo. L'essere tormentati da uno stupido bastardo che aveva sempre voluto solo il potere. Ricordavo le sue parole al Congresso Continentale. Balle. Nient'altro che schifose balle in caso ci fosse stato qualche problema. Avrebbe potuto fare qualsiasi cosa, per poi scrollare le spalle con la scusa del "l'avevo detto che non mi sentivo all'altezza".
George Washington era stato un verme prima ancora di diventare comandante. Forse ce l'aveva nel sangue. Lo ricordavo con Braddock. Cercava di difendere l'uomo che, se non mi fossi mai messo in mezzo, a quell'ora avrebbe avuto il suo posto di lavoro.
A pensarci, era lui a dovermi la vita. Che ingrato. – Comandante? – Paul si era appena schiarito la voce, il petto gonfio, pronto a scattare sull'attenti. – È permesso?
Mi fecero fare il giro della tenda, piazzandomi di fronte all'ingresso. Non sopportavo di essere legato come un quarto di bue davanti a lui. Mi faceva sembrare impotente. Quel bastardo mi si sarebbe messo davanti, con la sua aria da Dio in terra, e mi avrebbe lanciato il suo migliore sguardo caritatevole prima di annunciare la mia condanna a morte.
George Washington era in piedi davanti alla sua scrivania, sfogliava lettere e puntava le dita sulle mappe con gli occhietti lucidi per la commozione. Un altro pezzo di terra da cui ricavare tasse, evviva! Era eccitato come un bambino. – Perdonate l'interruzione, signore, ma abbiamo avuto un piccolo problema. – Con una spinta dietro il ginocchio, Paul mi fece cedere le gambe. Non potevo crederci. Mi aveva fatto inginocchiare davanti a Washington. Tanto valeva che mi slegasse e mi mettesse carponi. Avrebbe facilitato il compito a entrambi.
George si voltò, e una scintilla di sorpresa e rabbia galoppò attraverso i suoi occhi. – Di che si tratta? – grugnì senza nemmeno guardarmi in faccia. – Mi pareva di essere stato chiaro.
Paul deglutì rumorosamente. In quell'istante capii che sarebbe stato disposto a fare – a farmi – qualunque cosa pur di non essere punito a sua volta. Anche ammazzarmi a mani nude. – Le celle sono piene, signore. Non c'è nemmeno lo spazio per aprire la porta. Se posso permettermi...
Washington lo fermò con un cenno prima ancora che cominciasse. Incredibile. Era ebbro di sé e del suo potere, come se essere a capo di un esercito lo rendesse il padrone supremo del mondo. Alla stregua di Dio.
Che ipocrita, sussurrò una vocetta ragionevole nella mia testa, è esattamente ciò che fai tu nei confronti dell'Ordine.
Certo, la vocina aveva ragione. Ma io avevo avuto al massimo cinque sottoposti. Suppongo non fosse come fare il prepotente con centinaia di uomini. – Quest'uomo dovrebbe essere già sulla forca per ciò che ha fatto – sibilò Washington. Bah. Esagerato. Avevo cercato di salvare il mondo dalla sua smania di potere. Con metodi non propriamente ortodossi, ma, come si dice?, a volte il fine giustifica i mezzi. – Siete fortunato. Ho abbandonato la politica della pena capitale diverso tempo fa.
Mi sfuggì un sorrisetto. Quindi anche il buon comandante aveva deciso di smetterla con gli omicidi, oh, che carino.
Bisognava essere proprio stupidi per non cogliere il palese secondo fine di questa buffonata. Dove ti impiccavano appena dicevi che i nuovi boccoli di Sua Maestà erano un tantino ridicoli?
In Inghilterra. Esattamente.
E contro chi stava combattendo l'Esercito Continentale? Da chi voleva l'indipendenza economica a tutti i costi?
Ops. Senza contare che infilare cinque o sei persone in una cella per mesi, magari senza cibo o acqua per darsi una ripulita, non mostrava assolutamente più rispetto per gli esseri umani. Anzi, forse quei poveretti avrebbero preferito morire, mentre io pensavo che se qualcuno doveva essere ucciso, quello era lui.
Lui e nessun altro. – Ho riflettuto a lungo su questo. Ho pensato all'amicizia che mi lega a vostro figlio. – Un modo moralmente accettabile per definire suo servilismo. – Dovete essere molto amico di Charles Lee, e proprio per questo è vostro dovere appoggiarlo di più in ciò che fa. Abbiate fiducia. Quell'uomo non ha bisogno di protezione.
Mi corse un brivido lungo la schiena. Lo diceva perché non aveva mai visto la sua espressione alla prospettiva di farsi fottere da Reginald. La sua disperazione.
Non aveva idea di come fosse fatto Charles. Proprio per niente. – Ciononostante, ho preso in considerazione l'idea di lasciarvi andare vivo. – Sospirò. Eh, che fatica fare il comandante. Maledetto bastardo. – Un'altra volta. E di nuovo, dovreste ringraziare solo vostro figlio.
– Ne siete sicuro, signore? – C'era una nota di stupore nella voce di Paul.
Gli feci un sorrisetto. – Sì, ne sei sicuro? – ripetei. – Perdio, sei così generoso che potrei mettermi a piangere.
– Totalmente, soldato. – Washington fece un cenno d'assenso a Paul, dietro di me, ignorandomi con la sua solita supponenza. – Siete libero. Spiegherò tutto a vostro figlio, quando lo rivedrò.
Sentii la rabbia montare nel mio petto come un'onda. Perché continuava a ripetere "vostro figlio"? Non si ricordava neanche il fottuto nome dell'unico uomo davvero dalla sua parte, che non fosse costretto da un ideale o una gerarchia? Che razza di bastardo. – Perché? – sibilai, i denti stretti gli uni contro gli altri. – Sei forse un vigliacco, George? Andiamo. Ammazzami. Prendi la pistola, un colpo in testa ed è tutto finito. – Non c’era nessun affetto verso Connor nelle sue parole. Solo apparenza. Perché, ovviamente, secondo lui io sarei uscito di lì saltellando, per urlare a tutta Philadelphia che George Washington era un uomo meraviglioso. Insomma, ero vivo! Che cosa poteva darmi di più?
Scosse la testa. – Dovreste essergli grato. Quel ragazzo non vi merita. – Oh, certo, io dovevo essere grato a Connor! Come osava trattarmi in quel modo? Mi stava lasciando andare con la testa e gli arti al loro posto, ma era solo una scusa. Glielo leggevo in faccia.
Non voleva guai con mio figlio. Il ragazzo che l'ultima volta, al Congresso, gli aveva chiesto in maniera esplicita di non ammazzarmi. Avrebbe potuto prenderlo una qualche cieca follia e sarebbe finito ad ammazzare Washington.
Oppure, cosa assai più probabile, gli avrebbe dato uno spassionato bacio sulla bocca. – Quel ragazzo non merita te! – replicai, sul punto di alzarmi nonostante le ginocchia doloranti. Volevo colpirlo di nuovo. E poi di nuovo. Fino a trasformargli la faccia in un mucchio di carne amorfa. – Ti ha dato fiducia e continua a farlo e io, davvero, io... – Scrollai il capo. Le parole mi si sovrapponevano in bocca, e sembrava non ce ne fosse neanche una cattiva abbastanza da fargli capire quanto lo avrei voluto morto, quanto fosse fortunato ad avere un sostenitore come Connor. – Io non so come faccia dopo tutto quello che gli hai portato via.
Washington si prese una mano nell'altra, dietro la schiena. Il suo sguardo debole e acquoso era sviato, puntava a nord, verso il villaggio di Connor. Quel figlio di puttana non aveva neanche il coraggio di guardarmi in faccia.
Come poteva essere ancora vivo? Davvero nessuno aveva avuto la mia stessa pensata, farlo fuori e lasciare che una persona con più buonsenso guidasse gli Stati Uniti?
Che Connor dicesse ciò che voleva, ma io conoscevo George Washington. Da prima del Congresso Continentale. Quand'era solo il leccapiedi di un uomo più grande, il Bulldog. Un altro figlio di puttana, ma non aveva mai cercato di coprire le sue azioni, quantomeno. Era un sanguinario.
Nell'esercito lo sapevamo tutti. Era la sua principale qualità, ciò che metteva paura agli avversari, e così fu anche la sua condanna. Edward Braddock era odiato, ma senza di lui non saremmo mai riusciti a vincere la Guerra dei Sette Anni. Mentre Washington... Che cosa stava facendo, di preciso? A parte mettere inglesi contro inglesi, s'intende.
Sputai a terra mentre lo guardavo riflettere, o prendere tempo, come preferite. Quella guerra era patetica. Uomini che lottavano per non pagare le tasse all'Inghilterra, per una stupida questione di principio. Cosa pensavano? Che quando gli Stati Uniti fossero stati liberi nessuno avrebbe messo in piedi un governo?
Oh, aspettavo solo quel momento. Strinsi la mascella con tanta forza da mordermi la lingua, imprecando sottovoce tra me e me. Sì. Volevo vivere abbastanza da vedere i nuovi americani pugnalarsi alla schiena l'un l'altro per scegliere il loro rappresentante.
A cui versare delle tasse, ovviamente.
Patetico, come dicevo. Eppure tutti la prendevano come... non so. Una questione d'onore. Perché non s'accontentavano del loro maledetto pezzo di terra? Che bisogno c'era di scatenare un altro putiferio?
George si voltò con due dita premute sulle palpebre, l'aria sconsolata di chi ha a che fare con gli irragionevoli. – Vi lascio andare. Consideratevi libero. – Paul mi tirò rudemente in piedi e tranciò con la baionetta i legacci ai polsi. Il sangue riprese a scorrere nelle mani doloranti e insensibili. Forse quel fastidioso formicolio era dato dal bisogno del mio corpo di infierire su quello di Washington.
Non sopportavo il modo in cui mi si rivolgeva. Come fossi il più grosso idiota del mondo. – Ti rendi conto di quello che stai dicendo? – gridai, azzardando un passo verso di lui. Mi sentii trattenere saldamente per un braccio. Paul, sicuramente. Mossa saggia, devo ammetterlo. – Hai venduto sua madre a Charles Lee!
Non ero riuscito a trattenermi, ma a quel bastardo non importava niente. Ero solo un pazzo delirante che urlava e continuava a urlargli frasi senza senso, mentre il comandante mi sbatteva in faccia la sua finta pietà per far colpo sugli allocchi come Connor. – Questo è il mio ultimo avvertimento – scandì, gli occhi chiari fissi sulle mie sopracciglia. Un trucchetto vecchio come il mondo. Avrei voluto cavare quelle biglie dalla sua testa a mani nude. – Oggi vi lascio andare perché le circostanze sono quelle che sono. Nel Nuovo Mondo trattiamo la gente con rispetto. Porgiamo l'altra guancia, come Nostro Signore ci ha insegnato.
Scoppiai a ridere. Oh, ci mancava solo che mettesse in mezzo la Chiesa. Certo. Ero un pazzo, violento e adesso anche eretico. – Ma se dovessimo incontrarci ancora, e se di nuovo finissimo per far scontrare le nostre idee, ed è palese quant’esse divergano, io non sarò così clemente, signore. – Mi diede la schiena, intimando al suo sottoposto con un gesto noncurante di mandarmi via.
– Clemente? – Mi stavano trascinando verso l'uscita di Valley Forge, ma continuai a urlare. Che importava? – Sono io quello clemente, qui! Io, cazzo!
Paul mi spinse oltre la palizzata, mandandomi carponi a terra. Restammo un attimo a guardarci, dunque lui scrollò le spalle e tornò al suo lavoro.
Sentivo gli occhi bruciare per le lacrime. La colpa era tutta di quel bastardo. Incredibile, ma la riuscita della mia missione era nelle mani inette di George Washington, il figlio di puttana che non mi ammazzava solo per mostrare alla gente quanto fosse buono.
Un brav'uomo avrebbe guardato Charles, lo avrebbe guardato davvero. Non gli sarebbero sfuggiti gli occhi iniettati di sangue, le borse violacee sotto gli occhi e i capelli sporchi, la noncuranza nel vestirsi e quell'aria terrorizzata nascosta dal suo miglior sguardo spavaldo. Era così l'ultima volta che lo avevo incontrato. Chissà, magari adesso zoppicava anche un po'.
Mi sfuggì un singhiozzo, che mi costrinsi a tarpare con una mano sulla bocca. Va tutto bene, pensai, va tutto bene.
Non potevo mentire a me stesso. Mi sollevai lentamente, le ginocchia e le gambe che chiedevano pietà. Avevo soltanto due possibilità. Aspettare che Connor tornasse, lì, seduto contro un albero, con il rischio di essere abbattuto dalla prima fila di giubbe rosse che avesse deciso di fare una capatina, o cercare un po' di ristoro e conforto nell'unica casa in cui, speravo, ci avrebbero accolti senza troppe maledizioni.
Un paio, forse. Non di più.
Affondai le mani nelle tasche e mi incamminai verso l’uscita da quel posto di merda, verso Philadelphia, pregando di non dover arrivare fino in città. Pregando di essere ammazzato prima e di non dover assistere alla mia rovina.
Avevamo perso. Questa era la verità. In un colpo solo Washington aveva condannato me, Connor e Charles. Non solo, ora che ci pensavo. Aveva condannato se stesso, e l'umanità con lui.
Perché poteva essere lui quello clemente, ma io... io avevo pensato di essere furbo. Avrei dovuto uccidere Washington in quel momento, o la volta prima. Non me lo sarei dovuto far scappare. Forse ci avrebbe pensato Lee, quando avesse avuto in mano la Mela, mentre io sarei stato chiuso in una taverna a piangere e ubriacarmi, brindando al Nuovo Mondo di Reginald Birch.
Lo immaginavo mentre veniva a cercarmi con il Frutto dell'Eden in mano e mi trovava in quello stato, sbronzo e singhiozzante. Che fine miserabile.
Non ho mai detto di meritare di meglio.
Presi a calci un paio di sassolini, lungo il sentiero. Ero perso nei miei pensieri. – Goditi il ragazzo, Georgie – sussurrai con lo sguardo basso. – Goditelo finché puoi. Prima che apra gli occhi.
Mi passai una mano in faccia, lasciando sfuggire un altro singhiozzo disperato. Lo ammetto. Ormai avevo smesso di sperare, di credere che prima o poi sarebbe successo. Connor era una sua vittima, un succube. Solo perché era a capo di un grosso mucchio di persone con uno scopo apparentemente identico al suo.
– Ma gli uomini non vogliono la libertà – dissi tra i denti digrignati. – Vogliono il sangue, l'illusione di avere potere. Quando dai loro una scelta si ritirano come conigli. Non sono pronti. Non sono abituati. E se facessero la scelta sbagliata? O se qualcuno si scagliasse loro contro perché non hanno puntato il dito sull'uomo giusto? No. Voti fasulli per decisioni fasulle. Da' loro la democrazia, Connor, ma saranno quelli come me a scegliere. – Dalla bocca mi uscì uno strano miscuglio tra una risata e un singhiozzo.
Sempre se sopravvivo.
– Ma sei cretino?
Sollevai lo sguardo di colpo, con un paio di ampi passi indietro. Avevo il placido muso di un cavallo bruno a una spalla dal viso, il cuore che batteva agitato sotto le costole. – Di‘ un po', amico, tu guardi dove vai?
Con una mano sul petto presi due ampi e rumorosi respiri, troppo spaventato per dire qualsiasi altra cosa, come che avrebbero dovuto vedermi anche loro o che, perdio!, dove diavolo erano finite le buone maniere? – Scusa – riuscii a grugnire dopo un silenzioso e interminabile istante.
L'altro rispose con una specie di gemito scocciato mentre facevo mente locale. Il cavallo contro cui ero quasi andato a sbattere era legato a una diligenza, una lunga carrozza da trasporto, e al posto del cocchiere era seduto un trentenne dalla pelle scura, intento a masticare del tabacco con gli occhi luminosi puntati su di me come due astri. Di quelli che per i superstiziosi portano sfortuna. – Allora, ti levi dalla strada o devo passarti sopra?
Sorrideva, ma non sapevo quanto fosse lecito fidarsi di quel tipo. Probabilmente per lui ero solo uno straccione che gli era piombato davanti, e prima mi sarei levato, prima lui sarebbe arrivato a destinazione.
Oh. Destinazione.
Che razza di idiota. – Signor Freeman, perché ci siamo fermati? – Ammetto che trasalii di nuovo quando scorsi il capo coperto dalla cuffietta di una signora sportasi dal finestrino per chiedere informazioni al cocchiere. – Mi pare di essere stata chiara con voi! Ho un matrimonio martedì, è urgente!
Freeman roteò gli occhi, tastandosi i gingilli. La donna aveva un tono così acuto da farmi male alle orecchie, pareva un maiale sgozzato.
Non avrei mai voluto ricevere gli auguri di matrimonio da lei. I miei poveri timpani non avrebbero retto, e avevano subito l'esperienza di più di un decennio ascoltando Connor. Non era cosa da poco. – Lo so, signora Fitzgerald – gridò il cocchiere prima di farsi scrocchiare il collo da una parte e dall'altra. – Sentito, amico? Credo tu debba toglierti. Mi stai proprio in mezzo ai piedi.
– Aspetta – riuscii a sussurrare. Quella diligenza era la mia unica speranza di tornare a casa velocemente, in fondo.
Casa. Un posto dove dormire senza pagare, diciamo. – Dove stai andando?
Sputò il tabacco masticato a terra, in un grumo marrone e informe. – Se mi lasciassi ripartire, io dovrei arrivare a New York.
Mi sentii mancare. New York. Perfetto, diavolo! – C'è posto per un altro passeggero? – chiesi, il cuore illuminato dalla speranza. Forse, per una volta, Dio era dalla mia parte. Sì. La Prima Civilizzazione mi aveva mandato a sbattere contro Freeman e la sua corriera per un qualche motivo.
– Spiacente, sono già stipati come sardine.
Ecco. Cos'è che stavo dicendo? 'Fanculo. – Andiamo, ho bisogno di arrivare a New York. Posso darti un sacco di soldi. – Soppesai la scarsella nel palmo. Non erano esattamente  un sacco di soldi, ma pregavo che se li facesse bastare. – E sono armato.
– Che c'è, è una minaccia?
– No, ma a New York ci stanno andando anche le giubbe rosse. Posso proteggerti – dissi tra i denti. Mi sembrava di essere in ginocchio ai suoi piedi, mentre lo osservavo attraverso i due cavalli che trainavano la diligenza. – Non ti sembra un'offerta generosa?
Lui schioccò la lingua. – Sì, così i miei clienti se la fanno addosso e chiedono un passaggio ad altri. Se vuoi arrivare a New York devi scordarti quest'aria impertinente, capito, Sua Maestà? – Feci un sorrisino tra me e me. L'accento della madrepatria era duro a morire, diavolo. – Quanto grano hai?
Aprii la scarsella con occhio critico. Uff. – Duecentodieci sterline – confessai, sperando che non fosse un avvoltoio. Quelli erano i miei ultimi soldi. Mi serviva una banca, o qualcuno da derubare.
Schioccò la lingua. – Sgancia settantacinque e per me sei a posto – esclamò, battendo il palmo aperto sulla parte libera del sedile, accanto a sé. – Non ti dispiace, giusto?
Gli porsi il denaro e salii, afferrando la mano scura e callosa che mi porgeva per accomodarmi più facilmente sulla seduta. – D'accordo. Allora si parte. – Sentii un mormorio d'assenso provenire dall'interno della corriera. Non credevo che, di quei tempi, qualcuno avrebbe sperperato tanto denaro per arrivare in una zona di guerra così critica. Era folle.
O da comari che vogliono a ogni costo assistere a un maledetto matrimonio. – Come ti chiami, amico? – chiese Freeman con un sorriso cordiale.
– Haytham Kenway. – Pregai che non mi avesse mai sentito nominare, perché non avevo più la forza di inventarmi un'identità nuova. – Tu?
Allungò una mano. – Dandy Freeman. Piacere. – La sua stretta era rapida e forte, come una martellata. Se fosse durata un po' di più, quel Freeman mi avrebbe spezzato tutte le dita. – Cioè, non mi chiamo veramente Freeman. E nemmeno Dandy, ma suona meglio del nome che avevo prima di arrivare qui.
Sogghignai, ricordando i vecchi tempi in cui non riuscivo a pronunciare il nome di Tiio. – Sei uno schiavo?
– Lo ero, amico. Lavoravo in una piantagione. Tutto il giorno a raccogliere e tagliare tabacco. Poi il mio vecchio acquirente è schiattato e i figli hanno cominciato a litigare come puttanelle per dividersi noi e la proprietà. Tre piccoli bastardi. – Sorrise. I denti scuriti dal tabacco erano quasi invisibili alla luce fioca della Frontiera, nonostante non fosse neanche mezzogiorno. – Solo Iddio sa quanto sono stato fortunato. Il figlio di mezzo era contrario alla schiavitù, e quando gli sono arrivati venti negri dalla piantagione del padre se n'è sposata una e ha dato l'appellativo di uomini liberi a tutti quanti. – Schioccò la lingua. – Ed eccomi qui. Vivo e vegeto.
In quel momento non feci molto caso a lui, preoccupato e nervoso com'ero. Dovevo pensare alla salvezza di Charles e della Mela, al mio disperato desiderio di ammazzare Washington. Ero confuso. Una parte di me gridava di ignorare quelle cose. L'altra di agire. E Dio benedica che non avevo ancora deciso di buttarmi da un maledetto terrazzo alto abbastanza da farmi fuori.
Eppure, davvero, avrei dovuto fare più attenzione a Dandy Freeman. Sembrava felice, gioviale, molto più aperto e sorridente di qualunque altra persona vedessi da un po'. Era stato uno schiavo, e nonostante ciò era entusiasta e soddisfatto della propria vita.
Lo ammetto, mi irritava. – D'accordo. – Freeman scrollò le redini, e i cavalli sotto di noi cominciarono a muoversi, accompagnati dai mormorii di assenso dei passeggeri stipati sulla diligenza.
Di lì a qualche ora sarebbe calata la notte. Mi passai una mano sulla faccia pensando che non era stata esattamente la mossa più furba del secolo. Mi ero avventurato nella Frontiera di notte, su una corriera, con la certezza quasi matematica che avrei incontrato delle giubbe rosse lungo la strada e senza neanche un piano di riserva.
Già, quello era il futuro Gran Maestro dell'Ordine. Che fortuna, eh? Gli Assassini avevano quel vigliacco fuori di testa di Achille, i patrioti stavano con Washington, i Figli della Libertà con Paul Revere, il giocherellone. Una pessima annata per le figure a capo delle varie associazioni. – Dunque. – La voce di Dandy mi riscosse da quei patetici pensieri sulla gerarchia del mio tempo. – Che cosa ti porta a New York? Una donna? – Fece un grosso sorriso nella penombra, allungandosi oltre la mia testa per accendere l'unica ciondolante lanterna della diligenza. Intorno a lui, oltre all'odore acre di chi non si lava da un po', c'era il sentore del fuoco. Una puzza che avevo imparato a odiare dopo mio padre. Dopo Tiio, dopo le infanganti accuse di Connor.
E dopo Alice. – Deve esserci una donna. L'unico motivo per cui mi butterei in un viaggio simile sarebbe una bella fregna ad aspettarmi appena poggio i piedi a terra. – Fece un sorriso sconsolato, come se andasse avanti masturbandosi da tutta la vita. – Oltre al denaro, naturalmente. Oggi mi farò un bel gruzzoletto, amico.
Mi strinsi nel cappotto con un grugnito d'assenso. Odiavo il clima della Frontiera. Caldo e pieno di zanzare di giorno, freddo come la morte appena calava il sole. Forse l'inverno mieteva più vittime, ma l'estate era irritante. Parecchio irritante. – Immagino – sussurrai alla fine, con una punta di invidia. Quando fossi sceso da quella carrozza, se le giubbe rosse non ci avessero fatti saltare tutti in aria prima, avrei avuto in tasca poco più di cento sterline. Avevo bisogno di una banca. O di un bordello particolarmente economico.
Sogghignai tra me, sollevando lo sguardo al cielo stellato. – E poi New York non è il massimo in quanto a figa – Dandy scrollò il capo e agitò le redini con enfasi. – Vai in Virginia, da dove vengo io. Ce n'è di tutte le età e le razze, e sono tutte disponibili. Quando non lo sono basta aumentare l'offerta. – Alla lugubre luce della lanterna le sue labbra carnose si aprirono in un sorriso. – Adesso... – Si volse verso la sua clientela e abbassò un po' la voce. – Adesso se la fanno tutte seccare perché hanno paura. Paura qui, paura lì, cazzate. Si comportano come se nulla ci fosse dovuto. Ieri sera sono sceso per una pisciata, e ho beccato uno che cercava di infilare le dita sotto la gonna della moglie. Quella è scoppiata a piangere e ha svegliato mezza diligenza. Perché? – Dandy fece ripartire i cavalli, la lingua che schioccava tra i denti. – Perché chissà cosa sarebbe successo se in quel momento fossero arrivati i soldati – scimmiottò il tono di una di quelle comari bostoniane che tanto mi stavano simpatiche, e non riuscii a trattenere un sorriso. – Dammi retta. Qua più si sale e meno sono disposte a concedersi.
Mi strinsi nelle spalle, appoggiato di traverso allo schienale. – La loro paura è giustificata – replicai senza un tono particolare. Iniziavo a sentire le palpebre pesanti. Avevo avuto una giornata difficile. – Tu non ne hai, di questi tempi?
Mi scoccò un'occhiata in tralice. – Ho i miei sistemi per evitarla, Sua Maestà. E poi, dimmi, quante altre corriere hai visto di recente? Nessuna. Non c'è la minima concorrenza, mi capisci? Si cagano tutti addosso. – Si batté una mano sul petto, fiero di sé. – Se vuoi arrivare da Philadelphia a Boston paghi un negro o non ci vai proprio, semplice.
Feci spallucce. Il suo ragionamento non faceva una piega. Non mi sembrava che ci fossero molte carrozze pronte a mettersi in viaggio. Bisognava essere molto spavaldi, oppure disperati. Chi poteva cavarsela con i soldi che aveva se ne sarebbe rimasto a casa, con la propria famiglia, senza rischiare.
La mia famiglia. Avevo abbandonato mio figlio al suo villaggio e Thomas Hickey a Philadelphia. Non volevo che mi vedessero in quello stato. Quando mio padre morì io ce l'avevo proprio sotto il naso, e chissà come doveva essersi sentito. Me l'ero chiesto spesso.
Quanto diavolo può essere triste lasciare a tuo figlio, come ultimo ricordo, il tuo respiro affannoso, i colpi di tosse, la camicia che si tinge di vermiglio e le parole biascicate per tutto quel sangue in bocca?
Io lo sapevo. Era parecchio triste, al punto da fare ancora male dopo quarant'anni, più male che mai. La mia nuova famiglia non doveva essere lì mentre cadevo a pezzi, mentre lentamente mi lasciavo smontare dai ricordi. – E se... – Mi schiarii la voce. – Alcuni non intraprendono il viaggio armati? Se sanno difendersi da soli non dovrebbero esserci problemi.
Era quello che facevo io da tutta la vita, attraverso due guerre, due continenti. Reginald mi diceva che per comprendere il mondo – forse intendeva "governare", ma usava proprio quel verbo, comprendere – bisogna avere tre cose. La verità, la ragione e un'arma. Era uno dei passi del suo modo di pensare che avevo sempre cercato di seguire. Poi era arrivata la Prima Civilizzazione, e prima ancora William Johnson, con cui la mia ragionevolezza era andata alle ortiche. – Questa gente? – Dandy indicò i suoi passeggeri con il pollice. – Li hai visti? Per favore. Sono riccastri in rovina, gente che pensava di cavarsela col sangue e con i diritti. Se queste supponenti facce di merda fanno girare i cosiddetti a un'aragosta, quelli ti sparano senza pensarci due volte. Non ti guardano neanche in faccia. Moschetto puntato e bum!, sei già all'altro mondo.
Lo ammetto, tutte le chiacchiere di Dandy mentre cercavo solo di chiudere gli occhi e riposare un po' mi stavano innervosendo. Aprii solo un occhio, cercando di non degnarlo di particolare attenzione. – E nel remoto caso che glieli facessi girare tu? – Chiacchierone del cazzo. Presi fiato. Tutte le mie energie erano concentrate sul sembrare calmo, solo per un minuto.
Dandy sollevò un sopracciglio, quasi offeso. – Mi hai preso per cretino? – Schioccò la lingua con disapprovazione, gli occhi fissi davanti a sé. – Li pago. – Uh. Questo spiegava un po' di cose, oh, sì. – Una parte del guadagno per farmi passare. E comunque alle giubbe rosse le corriere fanno comodo. Gli eserciti vogliono mettere paura, ma non al punto da fermare tutto il traffico di merci e gente che s'incrocia in questa fogna. Se anche i patrioti vincessero la guerra, senza un'economia attiva possiamo anche impiccarci con le nostre mani. – Corretto, tutto sommato.
Non giusto, ma vero. Perché Connor pensava che le due cose dovessero coincidere? Non era così, e non lo sarebbe mai stato. Si trattava soltanto di esserne consapevoli. Capirlo. Scrollai il capo. – Dovresti esserci tu al posto di Washington. – Saresti molto più adatto di lui, amico. Molto più di Connor, senza dubbio alcuno.
Dandy ridacchiò, gli occhi sulla pelle indurita delle sue mani. – Non mi metterei alla guida di quel macello nemmeno se fossi George in persona. – Mi scoccò uno sguardo rassegnato, la testa infossata tra le spalle. – Tu scherzi, amico, ma io al posto suo avrei rinunciato senza pensarci due volte. È un incarico per gente con le palle, e una volta che hai preso quella strada puoi uscirne solo quando il nemico ti cattura, te le stacca e ti lascia andare per pietà. – Inclinò la testa da una parte in cenno d'assenso. Era stato chiaro, direi. Al punto da lasciarmi basito, la bocca mezza aperta dallo stupore e una sequela di paralizzanti brividi lungo la schiena. Allora c'erano davvero delle persone col cervello, nelle Colonie. Persone vere, che sapevano come sarebbe finita tutta quella storia.
Centinaia, migliaia di vite annegate nel sangue. Nient'altro. – Peccato che abbia la pelle del colore sbagliato – aggiunse con un sorriso. – E poi non m'impiccio nella politica. Sono troppo ignorante per quella roba.
Sollevai l'angolo delle labbra in un sorriso amaro. La luce del sole sparì dietro le folte chiome degli alberi, e l'unico suono rimase quello delle ruote che cigolavano sullo sterrato, più forte addirittura del quieto vociare dei riccastri che Dandy scarrozzava per la Frontiera. – Troppo attaccato alla vita, forse – gli dissi nel mio tono più sincero, stretto nel cappotto come il vecchio nostalgico che stavo effettivamente diventando. Non rimpiangevo i tempi andati, perché quali erano veramente? Nulla cambiava. La struttura delle cose sarebbe rimasta la stessa, destinata a ripetersi per l'eternità. Era quello a scocciarmi. La banalità del mondo e del suo modo di pensare. Un rivoluzionario è solo l'ennesimo idiota bramoso di potere che propone una soluzione vecchia di secoli, volta solo ai propri interessi, quando tutti l'hanno già dimenticata. E come i suoi predecessori, come tutti quanti, era destinato a fallire.
Perché? Perché quelle trafile, quando sarebbe bastato consegnare il mondo a un'autorità solida che avrebbe potuto fermare imbecilli del genere prima che agissero con poche e ferme parole?
Era così semplice. "Morirai provandoci. E quand'anche tu ci riuscissi, troverebbero qualcos'altro di cui lamentarsi. Per cui farti fuori e riciclarti come un vecchio giocattolo."
Non era supponenza, quella dell'Ordine. Era coraggio, laddove chi capiva preferiva restare nell'ombra per continuare a vivere. Era comprensione, laddove molti altri preferivano tapparsi gli occhi e vivere una favola che semplicemente non esisteva e non sarebbe mai esistita.
Tutto qua. – Non prendertela, non è un'offesa. – Anzi. Quelli come Dandy erano la base dei Templari. Quelli che saremmo stati senza l'Ordine. Quello che io sarei stato senza mio padre, senza Reginald.
Un topo di fogna, con le idee giuste ma senza le palle. Con una vita più facile.
Già.
Presi un gran sospiro. Sentivo gli occhi bruciare, dunque abbassai lo sguardo, trovando improvvisamente le mie ginocchia molto più interessanti del ripetitivo panorama coloniale. – Lo so. – Dandy schioccò la lingua. – Finché sono vivo e libero, a me sta bene così. L'onore è inutile se non hai una vita in cui dimostrarlo. E quando muori nel fango di un fronte, uno qualsiasi, il tuo onore è già andato a puttane da un pezzo. S'è fatto furbo. È dove dovresti essere tu, amico.
Sorrisi tra me, pensando che Thomas avrebbe subito preso in simpatia un uomo come quello, già solo perché preferiva una buona scopata alla guerra. Annuii senza un'altra parola. Per quanto belle potessero essere le sue parole e nonostante mi rispecchiassi davvero nella sua visione, il tempo in cui trovavo divertente discutere di quelle cose era finito.
Avevo assistito al tramonto di quell'era mentre tiravo un pugno sul naso di Washington. Mentre mi tiravo ufficialmente fuori dalla guerra e lasciavo fosse Connor a preoccuparsene. Non c'era scopo nell'impegnarsi in qualcosa che non mi interessava. George era un bastardo troppo grosso per morire in quel modo. Reclinai la schiena contro il sedile, il cappello calato sugli occhi e il respiro calmo, controllato. Ora non parlare più, Freeman. Per favore.
Sapevo perfettamente come sarebbe dovuto morire.
Immobile di fronte a me, circondato dall'aura luminosa della Mela dell'Eden, mentre il peccato e la tentazione, strette tra le mie mani, chiuse in quella sfera di metallo divino, dirottavano lui e tutti i suoi uomini verso la follia. Mi cullava il pensiero che se ne sarebbe andato così, mentre i suoi seguaci si ammazzavano a vicenda. Con lo sguardo fisso nel mio, colmo di terrore.
Prima che il cranio gli scoppiasse per la pallottola che un sottoposto gli avrebbe piantato nella tempia.
Prima che l'Ordine e la nostra verità, il nostro potere, e con esso tutto ciò che aveva cercato di portarci via lo soffocassero a morte.
Di lui mi sarei occupato dopo, senza dubbio. Quando fossimo stati di nuovo uniti e potenti.
Fino ad allora – fino alla mia vendetta – l'avrei lasciato fare come preferiva. E non v'era alcuna pietà in tutto ciò.
Solo rabbia. Quella che, da un po' di tempo, inevitabilmente mi colmava il petto. Mi ero abituato alla sua presenza. Ne avevo fatto un alleato, almeno nella mia testa.
La vendetta funziona così, no? Riversi tutto il male su chi te l'ha fatto e preghi che le dicerie restino tali. Preghi di esserne felice, soddisfatto. Ripagato.
Chiusi gli occhi. Sapevo già che sarebbe andata così. La ricompensa perfetta era riavere Charles. Rimettere in piedi l'Ordine.
Una nuova alba. Feci un sorrisetto.
Dovevo soltanto avere fede, credo.
 
Tutto quel cazzo di filosofare mi aveva reso veramente stupido. Davvero mi aspettavo di riuscire a dormire lì, seduto sullo scomodissimo sedile in legno di una diligenza? Certo. Chissà che gran pisolino mi sarei fatto, eh?
Il terreno era così dissestato che ogni passo del cavallo rischiava di farmi saltare due o tre denti. La carrozza sobbalzava di qua e di là come se avesse vita propria, e i commenti acuti e indignati dei passeggeri mi risvegliavano ogni qual volta che, miracolosamente, riuscivo a passare la soglia del dormiveglia. Il problema era svegliarsi senza farlo capire a Dandy.
Le sue chiacchiere del giorno prima mi avevano fatto venire il mal di testa. Tutto quel tempo a cianciare quando avrei solo voluto pensare a Charles e ai rischi che correvamo poteva essere anche una bella distrazione, ma io non ero lì per quello. Non potevo distrarmi, perché se Charles fosse morto la mia missione sarebbe stata inutile. Anche senza Connor, o Tom. Avevo impiegato anni per rimettere insieme quel nucleo. Se Washington l'avesse mandato a gambe all'aria non sarei mai riuscito a perdonarmelo.
Né a me, né a lui. – Possiamo fermarci un minuto? – trillò la voce acuta di una passeggera dall'interno della diligenza. – Mio marito dovrebbe... – Non proseguì. La frase sfociò in una risatina convulsa, come se guardare il marito con le gambe – o le chiappe – strette fosse la cosa più divertente del mondo.
Dandy sbuffò. – Non c'è problema. Sgranchitevi le gambe, se ne sentite il bisogno. – Il cocchiere mi diede uno scrollone che quasi mi buttò giù dal sedile, sulla terra fredda e bagnata della notte. Non avevo dormito un solo istante. Mi sentivo peggio di prima. Peggio di quando avevo picchiato Washington e gli avevo gridato in faccia la verità, le lacrime agli occhi.
Che cosa mi era saltato in testa? Tornare a casa e lasciare che fosse Connor a risolvere tutto? Non avrei dovuto avere tanta fiducia nelle sue capacità.
Sarei potuto restare a Philadelphia con Thomas, ma non sapevo dove fosse di preciso. Immagino che dopo un paio di giorni avrebbe intuito che me n'ero andato e si sarebbe messo in viaggio.
La verità era che volevo pensare un po' al futuro, a quella nuvola scura che si stava abbassando sopra di noi ed era pronta a schiacciarci a un qualsiasi passo falso. Ne ero terrorizzato. E parlarne con chi non ha paura può essere irritante. Inutile. – Amico, se volete pisciare...
Aprii appena gli occhi e feci cenno di no. Non mi sarei mosso dal confortevole posto sul sedile, che avevo scaldato tutto il giorno e tutta la notte, per niente al mondo. – Dandy – sussurrai, le labbra appiccicate tra loro e la lingua secca per il tempo passato senza bere. – Passeresti per Davenport? – Stropicciai gli occhi con i pugni, come un bambino, mentre il suono del piscio sulle prime foglie secche a terra mi riempiva le orecchie. – Ti pagherò bene – aggiunsi.
Freeman mi mollò un colpo sull'altra spalla e sobbalzai, trovandolo dalla mia parte della carrozza. –  È di strada. Non c'è problema. – Stringeva un grosso sigaro tra le labbra, e il fumo mi fece venire l'acquolina in bocca. Diavolo. – Ti va di darmi il cambio? Ho la schiena a pezzi – brontolò mentre gettava il mozzicone ai suoi piedi e lo schiacciava vigorosamente. – E poi due terzi dei miei clienti sono lealisti. Gli farà piacere avere un inglese che li porta in giro.
Sogghignai. – Oppure diranno che è un lavoro umiliante e dovresti farlo tu. – Fortunatamente non se la prese. Dandy non era quel tipo di persona.
Non era Connor. – Ah, non è male come sembra. A parte la schiena, ovvio. – Fece spallucce, ridacchiando. – A volte incontri persone interessanti.
Incrociai le braccia sul petto, infreddolito. Se di giorno si rischiava di svenire e le zanzare non conferivano un solo minuto di tregua, la notte la temperatura scendeva di parecchio, lasciandoti a battere i denti in pieno giugno come un idiota. – A volte le lasci andare per intraprendere questi stupidi viaggi – grugnii. Non avevo neanche provato a limitare il mio tono indisponente.
Dandy fece un sorrisetto scaltro. – Allora una donna c’è davvero! – chinò il capo da una parte, felice di avere una storia da ascoltare.
Peccato che non fosse come voleva lui. – I miei... figli. E un fratello. – Sì, Tom Hickey non poteva essere definito in altro modo. – Lì ho lasciati  a Philadelphia, dove rischiano soltanto di scannarsi tra loro.
– Be', avete fatto bene – disse dopo aver schioccato la lingua. – Prima o poi la prole deve responsabilizzarsi. 
Presi fiato e mi misi al suo posto, privo di qualsivoglia calore corporeo. – Non è per quello che me ne sono andato. – Feci spallucce, i miei occhi nei suoi. Mi sentivo in dovere di essere sincero, per una volta. Un uomo che non conoscevo mi stava aiutando in tempo di guerra, sotto pagamento, così simile e così diverso da me da spaventarmi. Sarebbe stato un buon amico.
Ai miei vecchi fratelli avevo mentito su Tiio, gliel'avevo nascosta, sperando che ci sarebbe stato tempo per aggiustare tutto, ogni cosa sistemata per bene. Mi sbagliavo. Mi ero dimenticato di mio padre. Non ricordavo più quanto potesse essere imprevedibile la morte, da quali remoti angoli potesse sgattaiolare via per piombarti addosso. Poteva essere dentro i tuoi amici, dentro un estraneo.
Persino dentro di noi. – Io... Non volevo vedere il massacro – sussurrai con i denti stretti.
Dandy annuì. – Capito. È comprensibile. – Si pulì le mani sul davanti della giacca e saltò al mio posto. Avevo come l'impressione che fosse troppo assonnato per ascoltarmi. – Sono i rischi del mestiere di padre.
Sbuffai. Quello non era mai stato il mio forte. – Hai figli?
– Li avevo – disse calandosi il cappello più a fondo sulla testa. – Peccato che siano morti. Ammazzati tutti da questa merda. Non voglio averci niente a che fare. Non più. Me ne fotto di chi vince. – Accavallò le gambe, tese verso l'asse che univa la carrozza e i cavalli. – Io voglio solo che la smettano. Tutti quanti. O non rimarrà nient'altro che un mucchio di vecchi lagnosi, mentre tutti i giovani con un briciolo di iniziativa se ne saranno già andati al Creatore.
Inclinai il capo da una parte. – Parole sante. – Con un chiocciare fastidioso le poche persone che avevano messo piede giù dalla diligenza rientrarono. Non avevano mai sonno? Cristo santo. – Fatti una dormita.
– Vuoi pensare ai tuoi figli in pace?
Trasalii. Che il diavolo mi porti. – No. Lo dicevo per te.
'Fanculo.
Dandy fece un cenno di assenso con il capo e si accoccolò contro lo schienale, un sorriso scaltro dipinto in viso. Come se mi capisse.
Sembrava che chiunque ci riuscisse troppo facilmente, in quel periodo. Perché? L'unica persona da cui volevo essere capito era Charles Lee, il ragazzo che, da sempre, aveva mostrato di non dubitare delle mie capacità. Sorrisi, facendo schioccare le briglie nel silenzio della notte. Avrei potuto ordinargli di saltare giù dalla Christ Church, all'epoca, e lui l'avrebbe fatto. Altroché. Senza un attimo di esitazione.
La sua mancanza era così pesante da far male, sapete? La paura che morisse, o peggio, che riuscisse a strappare la Mela ai nativi e la portasse da Reginald mi attanagliava la bocca dello stomaco. Perché?, avrei voluto urlargli. Perché non ti ribelli a quello che sta facendo?
Ero un ipocrita. Io per primo, da ragazzo, non avevo fatto niente. Non avevo nessun altro. Non era una questione di scelta. O stavo con lui, o andavo a mendicare nei vicoli di Londra, dove il rischio di essere violato si triplicava.
Magari Charles aveva paura. Come l'avrebbe presa l'Ordine – o quel che ne restava – quando se lo sarebbe trovato davanti? Temeva che non gli concedessimo il perdono.
Come poteva... Come faceva a pensare che io non gli avrei dato il permesso di rientrare? Pensava che la mia furia vendicativa contro Reginald si sarebbe consumata su di lui solo perché per molti anni era stato dalla sua parte? E io? Che cos'avrei dovuto dire?
Dunque era così che mi vedeva? Come un mostro assetato di sangue, cieco davanti alla vendetta?
O forse era Reginald a parlargli di me in questi termini. E lui ci credeva. Potevo capirlo. In quel frangente credi a chiunque, a qualsiasi cosa. Quando ti scombussolano così l'unico modo per risalire è trovare un punto fisso. Qualcosa cui aggrapparsi, anche se non è la verità.
E stringere con tutte le tue forze.
Charles Lee non era un bambino. Non era neanche un idiota. Chissà, forse se Reginald non avesse deciso per lui avrebbe avuto una moglie, dei figli. Una vita facile. Quella che volevo anche io.
Scrollai il capo. Il sentiero continuava a scorrere davanti a me, immutabile come il tempo. C'era quiete, nella Frontiera, e non la sopportavo. Il frinire degli insetti, tutti quei cinguettii diversi di adorabili uccellini, le centinaia di alberi tra cui nascondersi. Era il terreno perfetto per qualsiasi brigante, quel buco.
Sospirai, spronando i cavalli a fare più in fretta. Quando si sceglie una causa bisogna esserne convinti. La mia era mutata. L'Ordine non era passato in secondo piano, ma doveva essere come dicevo io. Incredibile. C'era una guerra civile all'interno degli stessi Templari, come pensavamo di vincere quella fuori dal nostro contesto?
Charles avrebbe saputo cosa fare. Era sempre stato un ragazzo attento, fin dalla prima volta che lo vidi. Un po' spaccone, senza dubbio, ma sapeva come comportarsi.
Iniziavo a pensare che lui non volesse i Templari. Dentro di lui non c'era sete di potere o uno sfrenato desiderio della pace. Quello è venuto dopo, probabilmente. All'inizio, l'unica cosa che avevo visto buttando i piedi giù da quella nave era stata una persona fragile, probabilmente sola, con un sogno.
Mio padre era la prova vivente del fatto che quando hai un sogno più grande di te devi farti aiutare a sostenerlo, altrimenti la volta ti crolla addosso.
Charles si era fatto schiacciare da Reginald pensando di essere nel giusto. Proprio come me. E il suo sogno si era eclissato dietro quello del Gran Maestro.
Mi premetti una mano sulla bocca per trattenere un singhiozzo. La vita era una schifezza, fatta di ingiustizie e di cadaveri che marciscono lungo la strada.
Le canalette di scolo per me erano già intasate, ma avrei trovato un buco per il corpo di quel figlio di puttana. Charles mi avrebbe aiutato, insieme a Tom. Saremmo tornati più forti. Avremmo vinto.
Una volta qualcuno, forse lo stesso Charles Lee, mi disse che non gli mancavano i suoi genitori. La mancanza, la nostalgia è ciò che provi nei confronti di qualcosa che avevi e ora non puoi più avere come prima. A lui non mancavano John e Isabella Lee perché per loro non era mai esistito davvero. – Io non ero una persona, Mastro Kenway – mi aveva detto quella volta. Sì, era proprio lui. – Ero un soldato, un uomo d'armi fatto e finito da quando nacqui. Mi facevano provare le vecchie uniformi di mio padre e camminavo avanti e indietro per ore. Quando mi sono arruolato... Passatemi il termine, non gliene fregava niente del fatto che sarei potuto morire. Ero solo la loro piccola giubba rossa.
– I genitori vogliono il meglio per noi – avevo replicato. Quella volta il pensiero andò immediatamente a Reginald. Il padre che mi aveva mostrato la retta via, laddove con mia madre sarei stato solo una balia.
Charles aveva sputato a terra. – Vogliono per noi ciò che loro non sono riusciti a ottenere. Non siamo che un riflesso.
All'epoca probabilmente avevo ridacchiato davanti alla sua presa di posizione così radicale. – E quando lo specchio s'incrina? – avevo replicato.
– È il momento di essere liberi, forse. – Mi aveva scoccato una strana occhiata. Pensava che potessi liberarlo, forse. Che fosse un mio dovere. – Non lo desiderate mai?
Avevo scrollato le spalle. – La mia libertà è l'Ordine.
– Non durerà per sempre – aveva replicato. – Nulla lo fa.
– Lo so. Nemmeno le idee. Prima o poi ti raggiungeranno nella tomba.
Per quanto tempo ero stato il riflesso di Reginald? Vent'anni? Quaranta? E la mia immagine non si era incrinata? Non era forse quello il momento migliore per essere liberi ed esserlo tutti, esserlo insieme?
La libertà degli americani poteva anche andare a farsi benedire.
Mi ero accorto, dopo cinquant'anni di vita, che non volevo essere al vertice di un'istituzione, di uno Stato. Non era il mio ruolo.
Volevo solo essere al vertice di  me stesso, a fare di testa mia senza che nessuno mi desse ordini.
Niente Reginald. Niente Thomas, niente Giunone Minerva Giove. Niente Connor.
Solo io. Col sogno di muovermi senza chiedermi perché lo stessi facendo. Avevo buttato la mia vita dietro uno scopo, quando non ne avevo mai avuto davvero bisogno.
Dovetti fermare i cavalli, in lacrime, le mani sugli occhi e sulla bocca per non lasciar passare i singhiozzi e non svegliare Dandy. Per non farmi vedere in quello stato.
Il mio unico fine, senza Reginald, sarei stato io.
Libero.
Come un Assassino.
Nel silenzio della notte, solo nella Frontiera, solo in mezzo a tutte quelle persone placidamente addormentate, scoppiai in una risatina isterica e folle, una sequela di singulti e squittii che non riuscivo più a fermare.
Un Assassino. 

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Capitolo 58
*** Una fossa. ***


«E così, dopo un paio d’ore mi sono detto: “Ma che ci faccio qui? Che gioco è? Diciannove anni di questo schifo?” E allora… Ho preso una decisione.»
– Max Cherry (Robert Forster), Jackie Brown.

– Sicuro di voler proseguire da qui? Posso portarti più avanti, eh. – Dandy si lisciò le pieghe sulla giacca con un sorriso cordiale. – Per me non è un problema.
Lo sarebbe stato per il mio borsello. – Voglio fare una sorpresa a un vecchio amico. – Amico. Certo. – Di soppiatto fa più effetto.
Nei territori intorno alla tenuta non era cambiato nulla. Gli stessi alberi, rami lunghi e mezzi spogli protesi verso il cielo, fitti cespugli secchi che nessuno aveva più curato. Man mano che  lo sguardo correva verso la villa, per chi sapeva dove guardare, si scorgevano un paio di nuovi edifici rispetto a quando Achille ci aveva cacciati di casa urlando, ma quel terreno era rimasto lo stesso. Ricco di selvaggina e troppo poco interessante per essere un obiettivo dei due eserciti. E poi, se i patrioti si fossero accampati in casa Davenport, sporcando e razziando tutto ciò che volevano, Connor e Achille non avrebbero fatto una piega. Eravamo noi quelli fastidiosi. Andiamo. Non avevamo mai fatto niente di male, a parte scolare alcolici e divertirci un po'.
Sorrisi tristemente. La vista familiare dell'edificio coloniale di mattoni rossi e degli animali che scorrazzavano all'impazzata lì intorno mi era mancata. Era quanto di più vicino a una casa vera avessi avuto, almeno da quando ero tornato da Damasco. – Grazie per il passaggio, Dandy. – Con quello che ho pagato.
L'uomo si strinse nelle spalle con un cenno gentile, come a dire: "Certo, i tuoi quattrini resteranno sempre nel mio cuore." – Di niente – replicò. – Be', è meglio che vada, o i miei clienti mi scuoieranno.
Scrollai le falde della redingote, sporche di terra, solo per non guardarlo negli occhi. Clienti. Soldi. Un’occupazione regolare, una vita normale. – Non sia mai – risposi con un sorrisetto. Non volevo vedesse quanto lo invidiavo. Aveva un lavoro sicuro, rispettabile, in grado di garantire la sua sopravvivenza e proteggergli le chiappe, e della guerra non gli importava niente. Avrei voluto essere come lui, diavolo. Senza grilli per la testa, con l'unico pensiero di vivere un altro giorno. Non per un ideale o per uno schieramento, ma soltanto per se stessi.
Senza l'idea costante della vendetta a torturarmi le tempie come un chiodo arrugginito. – D'accordo. A presto – lo salutai con un cenno. Non contarci, amico. Forse mi rivedrai quando avrò la Mela, e sarai uno dei pochi fortunati che non impazzirà per il potere di quell'oggetto. Mi passai una mano sulla fronte, madida di sudore ghiacciato nonostante la fresca brezza estiva. Sempre che non succeda prima a me.
Dandy Freeman mi rivolse un ultimo saluto e sparì nella Frontiera, diretto a New York. E da lì Boston o qualche sperduta cittadina nel mezzo delle Colonie. Lexington, Concord e simili, ognuna con un diverso orientamento politico. Non ce la facevo più. Non sopportavo di dover moderare il mio tono, le mie parole, a seconda della persona che avevo davanti. Uh, questo tale sosteneva Washington, allora dovevo stare attento, altrimenti avrebbe potuto ammazzarmi. Stessa cosa se si trattava di lealisti, perché la mia neutralità dava fastidio a tutti, senza esclusione. Forse era quello il motivo per cui, alla fine, Connor era caduto nell'inghippo dei patrioti.
Per essere sicuro di star facendo la cosa giusta, qualcosa che almeno un certo numero di persone avrebbe apprezzato. Una volta, quando ero bambino, mio padre mi chiese cosa pensavo della libertà. Mi ordinò di essere sincero.
Gli ordini erano ordini, no? Al limite mi sarei preso uno schiaffo per la mia insolenza. Sorrisi al ricordo. Edward Kenway non era quel tipo d'uomo, e io ancora non lo avevo capito.
Presi tutto il mio infantile coraggio e gli dissi quello che pensavo. Che con la libertà non potevi comprare nulla. Non ti rendeva più forte, non scaldava d'inverno e non aiutava i poveri. Mio padre era un uomo libero, no? E sottostava a un re che mezzo secolo dopo, dall'altra parte del mondo, tutti consideravano un avido bastardo. Quindi, be', poteva essere una cosa bella, ma non ci si faceva nulla.
Qualcosa dentro di lui si spezzò, in quel momento. Il suo figliolo, quello che doveva mettere sulla retta via, aveva appena espresso il suo primo pensiero da Templare. Ops. Immagino non sapesse se essere fiero di me per l'autonomia dimostrata o picchiarmi, perché tutto quello che gli avevo detto era profondamente sbagliato, no? Gli Assassini non la pensavano così.
Invece sorrise. Mi scompigliò i capelli con il palmo, e mi parve di vedere un luccichio sospetto nel suo sguardo. «Hai ragione. La libertà non ti è utile nel senso stretto del termine. Ti accorgi di quanto valga solo quando ti viene strappata.» E lì per lì mi chiesi chi glielo avesse fatto. Nessuno era più libero di lui. «Non confonderla mai con la possibilità di fare ciò che vuoi. La libertà è una scusa. Ciò che ci sta veramente dietro è la pace. Vedi tua sorella, Haytham? Quand'è che si arrabbia di più? Pensaci.»
Avevo aggrottato la fronte, per poi rispondere che s'infuriava ogni volta che le rivolgevo la parola. «No», aveva riso. «Quando la mamma, o io, o Edith non le diamo ascolto. Le persone vogliono essere ascoltate. Questa è la libertà, figliolo. Esporre un problema sapendo che qualcuno ti ascolterà e troverà la soluzione migliore per tutti. Per la pace.»
Connor era convinto che quella soluzione la avesse Washington. Che razza di idiota. Io lo conoscevo fin troppo bene.
Basta. Mentre percorrevo lo stretto sentiero che portava dalla strada principale alla villa, il mio cervello mi ordinò di smetterla. Avevo una vendetta da organizzare. Dovevo aspettare Thomas e sperare che Connor non fosse morto. Pensare a un piano alternativo se le cose fossero andate male.
Salutare Achille con un gran sorriso, dopo tutto il tempo di qualità che avevamo condiviso negli anni passati.
Mi veniva da ridere solo al pensiero.
 
– Chi è?
Roteai gli occhi mentre Achille si trascinava lentamente giù per le scale, il clicchettio del bastone chiaramente udibile da oltre la porta. – Sua Maestà! Devo portarti in una piantagione, dove ancora servi a qualcosa. – Incrociai le braccia sul petto e ascoltai i rumori oltre la porta. Achille tossiva, trafficando con le serrature e i chiavistelli. A quanti anni era arrivato? Settanta? Ed era sempre il solito vecchio scorbutico. Anzi, io ero la prova vivente di come fosse peggiorato negli anni.
– Che? – berciò mentre girava il pomello. La casa sembrava molto più curata, almeno all'esterno. Lo stucco ai balconi e alle finestre rendeva tutto più elegante, e tutte le erbacce erano state strappate via dalle pareti, probabilmente a forza di tomahawk. – Vi dico io dove potete ficcarvi le vostre...
La porta si aprì di pochi centimetri, ma erano abbastanza perché il suo stupore trapelasse, colmandomi il petto di malvagia soddisfazione. – Kenway? – sussurrò tra i denti. Aveva il volto irrigidito dalla rabbia, una fitta rete di rughe intrecciata al fine di trasmettere il più totale disprezzo.
Mi costrinsi a sollevare l'angolo della bocca in un sorriso. – Anche per me è un piacere, Achille. – Oh, quanto mi erano mancati lui e le sue crisi di nervi. Per non parlare della sua cucina di merda. Com'era bello tornare a casa.
Non mosse la porta di un millimetro, esattamente come mi aspettavo. – Vuoi farmi entrare? – Ebbi bisogno di tutto il mio autocontrollo per non far scattare la lama celata.
Mi ignorò. – Sei venuto a prendere quel sacco di merda del tuo socio?
Lo ammetto. Quello mi stupì. – Tom? – Gli occhietti di Achille si strinsero in una smorfia cattiva solo a sentirlo nominare. – È qui? Quando…?
Aprì un po’ di più la porta, appoggiandosi allo stipite. – Pensavo di essere stato chiaro con voi – sibilò. Forse il suo tono voleva essere minaccioso, ma la frase venne spezzata da un fragoroso colpo di tosse. Poggiai gli occhi su di lui, il corpo curvo più smunto che mai, e pensai che, diavolo, in quei pochi mesi era peggiorato. Decisamente.
Fatto sta che non provavo alcuna pietà per lui. – Andiamo, Achille. Non abbiamo un altro posto dove stare e… – Riflettei un attimo sulle sue parole. Il mio cuore saltò un battito. L’idea che fosse riuscito ad ammazzare Thomas fece capolino nella mia testa. Sorrisi tristemente. No. Quello non sarebbe riuscito neanche a sollevare una forchetta, figuriamoci spaccare lo sterno di un uomo con un coltello. – Sono stati i tuoi Assassini a mandarci via. A Boston non eravamo più i benvenuti, ma immagino che tu lo sappia.
– Io… – Si premette una mano sotto la gola e prese fiato, gli occhi sgranati. – Andatevene. Farete solo altri morti – disse in un ringhio.
Sollevai gli occhi al cielo. Davenport era sempre stato un bel posto, ma d’estate dava il meglio di sé. Tolti gli orsi e i lupi, naturalmente. Quel cielo azzurro, così pacifico, pareva strappato a un’altra epoca. Sembrava che la guerra non esistesse in quel piccolo e paradisiaco angolo degli Stati Uniti.
Forse non c’erano gli eserciti, ma il millenario conflitto tra Assassini e Templari aveva il suo nucleo proprio lì, tra la casa coloniale e le stalle. – Un altro cadavere ci sarà di sicuro, se non fili a letto. – I suoi occhi mi fulminarono, sempre più piccoli e incattiviti. – Dico sul serio, Achille. Connor sa delle tue condizioni?
Si strinse nelle spalle. – Quali condizioni? Siete tu e quell’altro a farmi diventare matto! Quando capirete che… – Si piegò in due e perse la presa sul bastone, rischiando di precipitare con la faccia contro i gradini.
D’accordo, una parte di me si sarebbe divertita da morire nel vederlo con gli incisivi spezzati e la bocca piena di sangue, ma i miei riflessi furono più veloci. Lo presi per il collo della giacca un attimo prima che si spaccasse il naso sulla pietra. – Dicevi? – Lo rimisi in piedi, la presa serrata sul suo braccio.
– Figlio di puttana... – Reclinò il capo contro la cornice della porta, il petto sollevato in respiri ampi e trascinati. – Devi…
– Sì, lo so. Andarmene e non tornare mai più. – Gli diedi una pacca sulla spalla con le labbra piegate in un ghigno che non voleva saperne di andarsene. – Magari prima ti porto a letto, eh?
Non l’avevo mai visto tanto arrendevole in tutta la sua vita. Semplicemente chiuse gli occhi e fece un cenno d’assenso con la testa, come a dire che non gliene importava più nulla. – Vattene – sussurrò, la bocca mollemente aperta per far entrare più aria possibile nei polmoni. Certo. Il vecchio Mentore non aveva più alcuna voce in capitolo. Presto il comando sarebbe passato ufficialmente a Connor, e allora sì che saremmo stati nei guai. Che si godesse quel po’ di tempo che gli restava nella sua stanza, magari senza vederci cazzeggiare e ubriacarci intorno al suo prezioso tavolo o, che so, nella sua stanza segreta.
Dubitavo che in quelle condizioni potesse ancora accedervi. – E Tom?
Prese fiato. – È,,, È entrato dalla finestra e ha preso una bottiglia di rum. Poi si è messo… – Mi faceva un po’ pena. Quando non hai fatto altro che correre, arrampicarti e combattere per tutta la tua vita la vecchiaia sembra fare ancora più male.
Per quello cercavo di vivere alla giornata, pregando che non arrivasse mai. – Stai andando bene – grugnii per incoraggiarlo. – Su. Si è messo…?
– La stalla…
Chiuse gli occhi, le costole che si alzavano e si abbassavano piano, a fatica. Me lo caricai in spalla con un sospiro e attraversai il corridoio della villa, la tappezzeria brillante e intonsa, verso le scale che portavano al piano di sopra.
L’unico dettaglio che mi permetteva di riconoscere la camera di Achille dalle altre quattro o cinque era un’enorme e terrificante aquila impagliata, con le ali aperte, che teneva sulla cassettiera di fronte al letto. Aquile. Quegli animali del cazzo non facevano che perseguitarmi. Loro, insieme a Giunone e la sua sfegatata passione per gli Assassini. – Ecco qua – brontolai mentre lo scaricavo sul letto. Cristo, il vecchio poteva essere magro, ma pesava. Anni di allenamento e massa muscolare a marcire su quelle ossa deboli e scricchiolanti.
Sistemai la sua testa sul cuscino, sperando che non si svegliasse prima di parecchie ore. Di certo me ne sarei accorto anche senza rientrare in casa. Con il giusto silenzio avrei potuto sentire i suoi colpi di tosse anche da Valley Forge, ma allora c’erano le idiozie di Washington e l’incessante pensiero di Charles a riempirmi la testa. – Ci vediamo – esclamai, il tricorno sollevato appena in cenno di saluto. Lì vicino trovai una vecchia coperta, e gliela misi addosso senza troppa cura.
In fondo, nemmeno ci voleva in casa. E non me la sentivo più di trattarlo con rispetto solo per fare un favore a Connor. Diciamo che la stima che avevo in Achille era bruscamente diminuita quando aveva cercato di ammazzare me e Tom con un coltello da cucina.
Ah, giusto. Tom.
Affondai le mani in tasca e lasciai la stanza, il sorriso che lentamente svaniva dal mio viso.
Mentre scendevo le scale e oltrepassavo l’uscio mi ritrovai a pregare che Connor non ce l’avesse fatta. Se la Mela fosse stata tra le mani di Charles, Reginald avrebbe vinto. Fine della storia. E mi avrebbe lasciato a morire in pace.
Finalmente. Me lo meritavo, no?
 
Non mi fu difficile trovare Tom, perché era esattamente dove diceva Achille. Stravaccato in una stalla, la bottiglia tra le labbra e un tacchino a fissarlo con sospetto. – Ehi! – Fu lui a vedermi, senza neanche lasciarmi il tempo di pensare a una battuta con cui salutarlo. – Certo che sei proprio un bello stronzo! – sbottò alzandosi in piedi con un colpo di reni. Il tacchino si allontanò sbattendo le ali con indignazione, mentre Thomas Hickey mi si avvicinava a grandi falcate, le braccia aperte in un cenno di saluto poco invitante. – Mi hai lasciato da solo in quella topaia di città mentre tu e tuo figlio andavate a succhiare il cazzo a Washington! Bell’amico che sei!
Mi strinsi nelle spalle. Andiamo. Di’ qualcosa sul tacchino. – Vedo che mi hai già trovato un sostituto – biascicai, indicando il pennuto con la testa.
– Oh, che simpatico! – sbottò mentre ingollava il fondo della bottiglia di rum. – Davvero, capo, sei sempre più divertente. – Roteò gli occhi, una mano premuta sul ventre come quando, in mezzo all’Oceano, sentiva di dover vomitare di lì a poco. – Allora, il bastardo è riuscito a far venire Washington?
Sogghignai. – Non finché sono stato lì, ma c’è ancora tempo. – Abbassai gli occhi. Ecco qui, Thomas, il tuo Gran Maestro e le sue mirabolanti gesta. – Gli ho spaccato il naso e me ne sono andato.
Il rum gli finì di traverso e prese a tossire quasi più forte di Achille, finché un fiotto di liquore non gli uscì dal naso con un risucchio disgustoso. Scoppiò a ridere, come sempre. – Non ci credo! – esclamò, il petto che si muoveva convulsamente nella risata. – E poi? Ti ha condannato a morte? Come sei scappato? Oh, Cristo, capo, ti lascio solo cinque minuti e tu fai tutto ‘sto casino? Senza di me? – Mi circondò le spalle con un braccio. – Allora ho ragione a dire che sei un grandissimo stronzo!
Ridacchiai, aggrappandomi a lui come fosse un’ancora di salvezza. Anche tu mi sei mancato. – Mi ha lasciato andare – dissi a mezza voce, gli occhi bassi. – Ha detto che lo ha fatto per Connor, come sempre.
– Forse pensa che il ragazzo presto o tardi si deciderà a succhiarglielo – esclamò con una scrollata di spalle. – Dunque? Adesso dov’è il bastardo?
– George voleva radere al suolo il suo villaggio. Charles è andato a parlamentare con gli indiani e Connor gli è corso dietro.
Tom incrociò le braccia sul petto, improvvisamente preoccupato. – Porca troia – sussurrò. – E se lo ammazza?
– Non lo farà. – Almeno, così stavo pregando da giorni. Da quando lo avevo lasciato andare. – Dobbiamo anche sperare che riesca a prendere la Mela prima di lui.
– Già. – Thomas prese a camminare in circolo intorno a me, come per far lavorare il suo cervello intasato dall’alcool. – Un momento, capo. E se anche la prendesse lui? Non sarebbe meglio?
Sgranai gli occhi. Oh, Dio, quel ragazzo mi leggeva nel pensiero. Avevo le lacrime agli occhi. Davvero anche lui non ce la faceva più a continuare quel viaggio a vuoto? Anche a lui sarebbe andato bene un mondo con Reginald al potere, bastava che smettesse di fare così male? – Tom…
– Voglio dire, restiamo qui, ci prepariamo e rispediamo Reginald al Creatore a suon di armi. Insomma, non ci stanno mica solo il bastardo e Achille, vero?
Aggrottai la fronte. Che diavolo stava dicendo? Sul suo viso si dipinse un sorrisetto sarcastico. – Ah, ho capito. Te l’eri scordato. – Si avvicinò e mi prese per la redingote, tirandomi verso di sé. Il suo viso era così vicino al mio che avrebbe potuto baciarmi.
Un nodo mi serrò la bocca dello stomaco.
No, non era per l’idea che Thomas Hickey mi baciasse. Cristo santo.
Sentii il respiro farsi più affaticato nel mio petto. – Gli servi tu. Adesso ci sei? Per aprire il Grande Tempio. – Le sue labbra avevano assunto quella piega perversa che di recente prendevano sempre più spesso. Non avevo più ragioni di dubitare di quanto mi aveva detto Connor. Conoscevo Thomas. Poteva benissimo aver ucciso una decina di uomini per poi fingere di non averlo fatto. Era un attore nato.
Un sadico, psicopatico attore nato.
Portò la bocca al mio orecchio. Mi sentivo del tutto impotente lì, stretto nella sua presa. – Ti verranno a cercare – cantilenò. – Reginald e Charlie verranno qui. Per portarti via.
Ecco, in quel momento sì che mi sentii mancare.
Come avevo potuto essere così stupido? D'accordo, ultimamente avevo avuto altri grilli per la testa, come non farmi ammazzare da Washington, ad esempio. O prendere la ferrea decisione di arrendermi a Reginald, se fosse riuscito ad arrivare alla Mela prima di me.
Che idiota. Non mi sarei potuto arrendere proprio a un bel niente. Reginald, il bastardo che avevo considerato un padre per anni e anni, sarebbe piombato alla villa nel mezzo della notte, piantandomi un sacco sulla testa per portarmi al Grande Tempio senza che nessuno se ne accorgesse. Chissà, magari prima mi avrebbe anche fatto una pippa.
La sola idea mi fece venire voglia di vomitare. Dovetti pararmi la bocca con la mano, senza più fiato né speranze. Thomas aveva ragione. L'obiettivo di Reginald non era il dominio sul mondo, sugli Stati Uniti. Lui voleva il Tempio.
Voleva me. Iniziò a crescere, in un angolo della mia mente, l'idea che fosse invidioso delle mie patetiche conversazioni con Giunone e Minerva, del legame di sangue che mi rendeva più utile di quanto volesse.
Non ero soltanto un patetico giocattolo da letto. Avevo uno scopo, un impiego. Ero l'unica persona al mondo in grado di aprire quello stupido coso. Non poteva tollerare di avermi avuto al suo fianco per tanto tempo e avermi perso poco prima di scoprire quanto unica nel suo genere fosse la mia abilità.
Non si sarebbe mai arreso. E con la Mela in mano avrebbe potuto trovarmi persino in capo al mondo. – No – sussurrai, entrambe le mani schiacciate sulle labbra. – Io...
Roteò gli occhi, menando una pacca sulla sua stessa coscia prima di piegarsi in due, travolto da una risatina maligna. – Tu che cosa, eh? Credevi di essere al sicuro? – Dio, mi piacerebbe dire che le sue parole non mi sfioravano nemmeno, ma, lo giuro, era come avere un chiodo per metà conficcato nel petto, e con ogni affermazione Tom vi dava un mezzo giro, lo piantava più in profondità nella mia carne, la dilaniava. – Pensavi che una volta ammazzato Ben saremmo stati tutti al sicuro? Complimenti. Ti credevo più accorto, capo.
Affondò le mani in tasca e prese a girarmi intorno come un avvoltoio. Metafora azzeccata. Non era come le altre volte in cui mi ero sentito vicino alla morte. C'era qualcos'altro, un presentimento terribile che mi fermava il sangue nelle vene.
Era la certezza di non poterlo evitare. – Quindi nel migliore dei casi ci infileremo nella tana del lupo, e, nel peggiore, il capobranco ci coglierà di sorpresa, di notte, quando gli agnelli dormono della grossa, e mi taglierà la gola. – Si poggiò una mano sul petto con un certo orgoglio. Come poteva scherzare in un momento del genere, maledizione? Giuro, quell'uomo era un rompicapo.
O forse aveva solo imparato a non farsi buttare giù. E Dio solo sa quanto lo invidiassi. Non ero più niente di ciò che avrei voluto essere. Le mie aspirazioni si erano dissolte lungo la strada.
Volevo soltanto morire in pace. Anche sconfitto, ma senza preoccupazioni. Era palese che ogni mio desiderio finiva inevitabilmente per essere smontato e distrutto. – Sarò cibo per il resto della cucciolata. Ma il piatto forte, capo, quello da conservare e spartire con la massima sacralità... – Roteò gli occhi. – Oh, allora entri in gioco tu. Pensavi che sarebbe andato tutto bene, eh?
A dire il vero, sì. Ecco dove sbagliavo. Credevo di essere diventato una persona forte e inflessibile. Una rigida autorità cui tutti si sarebbero inchinati. Invece no. Se bastava Tom a disturbare la quiete della mia testa ero davvero nei guai. Significava che non ero affatto forte. Che non ero il Gran Maestro. Che ancora avevo paura di Reginald Birch.
Mi bastò pensarlo per farmi cedere le gambe.
Non mi serviva nessun'altra conferma.
Appoggiai la schiena contro la parete della stalla, e Tom si mise al mio fianco. – Andiamo, capo, non disperare. – Strizzai gli occhi, un riflesso involontario alla noncuranza percepibile nella sua voce quando parlava della morte di qualcun altro. Non disperare? Come potevo?
Sapevo che sarei dovuto andare ad ammazzare Reginald. Era il fatto che lui volesse quello scontro, che lo cercasse, a spaventarmi. Non si sarebbe fermato solo perché poteva avere il dominio del mondo. Non era quello il suo fine. L'unica persona che voleva davvero vedere piegata davanti a sé ero io.
Gesù Cristo, se avevo paura. Reginald era riuscito a sottomettermi per una buona quantità d'anni, e solo con la sua persuasione e forza di volontà. D'accordo, ero cresciuto, capace di ammazzare un uomo in meno di trenta secondi, ma lui aveva il Frutto dell'Eden. La tentazione cui nessuno poteva sfuggire. – Magari stiamo solo pensando il peggio e quell'affare ce l'ha il tuo bastardo. Smetti di essere così negativo. – Thomas mi mollò una pacca sulla spalla non troppo amichevole, scavandosi in tasca alla ricerca di  un sigaro, una fiaschetta o qualcosa del genere. Forse era pentito. Non era nelle sue intenzioni portarmi al punto di rottura.
Ma non me ne fregava niente. Fin quando Connor non fosse tornato io non mi sarei mosso di lì, un moschetto carico in mano – come se servisse a qualcosa – e tutte le mie armi pronte per essere sguainate. E appena avessi percepito un segno della sua presenza nei paraggi...
Oh, chi volevo prendere in giro? Me la sarei fatta sotto a ogni carrozza che fosse passata per Davenport.
– No, hai ragione – sussurrai. Cercavo di recuperare una certa fermezza, ma con i pensieri che mi aveva messo in testa era già tanto riuscire a parlare senza pisciarmi addosso. – Dobbiamo essere preparati a tutto.
Fece un sorrisetto gioviale quando trovò la tabacchiera in una delle innumerevoli tasche interne della giacca. – Quindi dovrei farti da balia mentre dormi? – Ridacchiò, e le apparenze da salvare mi costrinsero a fingere un sorrisetto. Oh, troppo ottimista, Tom. Dovresti farmi costantemente da balia, una balia vera, niente alcool e niente distrazioni. Se ti va, potrei succhiarti un capezzolo. Ma niente di più. Scrollai piano il capo, pensando che se riuscivo a formulare idee del genere forse stavo migliorando.
O ero semplicemente il capo più puerile che l'Ordine avesse mai visto. – Anche – replicai, chiedendogli la tabacchiera con un cenno della mano. Lui sbuffò, prima di tirarne un po' su per il naso con un gemito rilassato. – Dai. La festa è finita, Tom.
– Che? – Fece un istintivo balzo indietro, la scatoletta di metallo premuta sul petto. – Te lo scordi! Tu... Oh, Cristo, non puoi togliermi anche questo. – Mi lanciò quella che voleva essere un'occhiata minacciosa, ma, fidatevi, lo sguardo lascivo di Reginald, piantato nella mia testa come un picchetto, era molto più inquietante. – Piuttosto ti succhio l'uccello, capo, ma il tabacco lasciamelo.
D'accordo, dirlo adesso mi fa sembrare un maniaco, ma per un attimo pensai che stesse dicendo sul serio. E mi sembrò anche una bella idea. Sì, insomma, non c'era niente che potesse farmi rilassare di più.
Poi mi passò la tabacchiera con una smorfia scocciata e la magia del momento finì lì. – Grazie – grugnii in risposta. – Dobbiamo... Dobbiamo preparare una difesa. – Scrollai la testa nel vano tentativo di cacciare ogni pensiero riguardante Reginald e la mia infanzia. Erano pericolosi. Se non li avessi fermati in tempo mi avrebbero fatto implodere la testa, e con essa tutta la parte alta del mio corpo. Controllo. Si basava tutto su quello, no? Riprendere il controllo di me stesso – o fingere di farlo – prima che la situazione mi sfuggisse di mano.
Perché era quello che fa un Gran Maestro. E avrei dato qualunque cosa per dimostrare che meritavo quel titolo.
Che meritavo di restare vivo.
Mi strinsi il naso tra due dita, emettendo un sonoro sbuffo. – Meglio cominciare. Non sappiamo che cosa diavolo stia succedendo in quel villaggio. L’unico modo che abbiamo per cavarcela è prepararci a qualsiasi evenienza, d’accordo? – Tom aveva le dita affondate tra i capelli neri, la bocca aperta in una smorfia sconvolta.
Che cazzo, era o no dalla mia parte?
Doveva salvaguardare l’Ordine. Doveva proteggermi. – Andiamo, non possiamo cominciare domani? – sussurrò. Probabilmente già sapeva quale sarebbe stata la mia risposta.
Roteai gli occhi. – Perché, a Philadelphia non te l’hanno succhiato abbastanza?
– Pensavo lo sapessi. – Abbassò il capo con aria sconsolata. – Non è mai abbastanza, capo.
Non riuscii a trattenere un sorriso triste. – Prendi una vanga.    
 
– Il vecchio ti ammazzerà, lo sai? – Thomas scaricò l’ennesimo mucchio di terra alle proprie spalle. La luce della lanterna si rifletteva sulla sua fronte sudata, conferendogli un aspetto più selvaggio del solito. Aveva lasciato la giacca fuori dalla buca, e con le maniche della camicia arrotolate ai gomiti sembrava di nuovo un soldato.
Mi passai il dorso della mano sotto il naso con un sospiro. – Il tempo di alzarsi dal letto – commentai con la bocca storta in una smorfia. Pensavo che il lavoro manuale avrebbe dato a Tom un motivo di distrazione, invece non faceva altro che lamentarsi. Non che scavare buche in mezzo alla Frontiera fosse il sogno della mia vita, ma non ne facevo certo una questione.
E preferivo un paio di calli in più che la gola mozzata. – Allora l’hai visto. – Si appoggiò alla pala, ghignante. – Cristo, a malapena si reggeva in piedi. Gli ho fottuto una bottiglia davanti al naso, e non ha neanche avuto la forza di rispondermi. Così non c’è gusto.
– Concordo. – Rimasi a guardare Tom che si tirava indietro i capelli, la bocca spalancata nel tentativo di portare altro ossigeno ai muscoli. Mi scocciava ammetterlo, ma era stato lui a fare buona parte del lavoro. Durante la guerra non avevo imparato molto sulla costruzione delle trincee. Braddock era un tipo all’antica, e a una strategia mirata preferiva una gloriosa carica, per quanto possibile.
Nove volte su dieci la prima linea era spazzata via dai proiettili olandesi. Uomini sfortunati – l’idea degli eroi coraggiosi non era altro che un luogo comune buono soltanto per i funerali – con la testa spaccata dagli stivali, dagli zoccoli dei cavalli. Corpi senza vita sepolti dal fango.
E da altri cadaveri, naturalmente.
Tom doveva aver avuto un comandante decente, quantomeno. Gli avevano insegnato che scavare una buca, nascondercisi dentro e sparare al nemico da dietro una barricata era l’unico modo per sopravvivere. Mica male come idea, tutto sommato. Mi sembrava strano che nessuno ci avesse pensato prima. Occorreva un buon terreno, e Davenport non era proprio il massimo, ma non avevo certo intenzione di aspettare Reginald nascosto dietro un albero.
Che provasse ad avvicinarsi. Che ci provasse.
Se fossimo stati fortunati lo avremmo abbattuto da lontano. Altrimenti, be’, sarebbe cascato nella buca, spezzandosi una gamba, e allora sarebbe stato facile. Un colpo di pistola in testa, fine della storia.
Poi avremmo ricoperto tutto, e Reginald Birch sarebbe stato solo un lontano ricordo. – Oddio. – Emisi un sonoro sbuffo, e Tom si voltò verso di me con gli occhi sgranati, la pala a mezz’aria.
– Ti prego – sussurrò – dimmi che non ti sei improvvisamente ricordato che c’era un’altra buca a due passi da qui, perché sarei capace di uccidere.
Ignorai la sua patetica battutina e lanciai uno sguardo disperato al cielo azzurro. – La terra – ringhiai tra i denti sbarrati. – Dove la mettiamo?
Aggrottò la fronte. – Si vede così tanto?
– Non lo so.
– Allora di che ti preoccupi?
Sbuffai. – Come sarebbe a dire? Dobbiamo essere organizzati. Non possiamo farci cogliere di sorpresa! Voglio conoscere ogni angolo di questo stupido posto, da parte a parte, ogni collina e ogni campo, ogni cespuglio, ogni albero, ognuno di quei cervi del cazzo, voglio sapere dove si trovano e che razza di nascondiglio possono offrire. – Avevo il fiato corto a furia di scavare, e dover spiegare tutto a Tom non rendeva certo il mio respiro meno gravoso. – Se ci facciamo fottere da un mucchio di terra…
– Sei troppo nervoso, lo sai?
– Sono prudente! – Roteai gli occhi. Ci voleva tanto a riconoscere l’attenzione dalla paranoia? Era facile parlare, per Tom. Non era lui quello in pericolo.
O meglio, se Reginald l’avrebbe ammazzato, sicuramente sarebbe stato rapido. Sull’indolore, be’, non avrei scommesso. – Nulla va lasciato al caso. Capisci? – Thomas sbuffò. Devo ammettere che il suo senso dell'umorismo mi aveva spesso fatto comodo, ma odiavo quando prendeva sottogamba le mie indicazioni. Avevamo una montagna di terra buttata dietro le spalle, proveniente da una buca profonda quasi due metri. Come una latrina, e ugualmente piena di merda. – Hai qualche idea? 
Fece spallucce. Per tutto il giorno non avevamo fatto altro che scavare, scavare e parlare di quanto facesse caldo. Ogni tanto tiravamo in ballo la Prima Civilizzazione, ma ero troppo ansioso per intraprendere un discorso serio. – Diavolo, capo – aveva esclamato Tom a un certo punto, – levati la pala dal culo e inizia a scavare. – Non era colpa mia. Più il tempo passava e più ero certo che Connor non sarebbe mai tornato. Che Charles e Reginald sarebbero piombati lì, davanti alla nostra patetica trincea, e a quel punto ci saremmo dovuti difendere. 
Odiavo quella parola, difesa. Solo chi è svantaggiato si difende. I predatori attaccano, non si nascondono nelle buche come ratti. Ero il Gran Maestro, maledizione. Ero a capo di metà dell'Ordine. Perché mi rifugiavo, preda della mia stessa paura? Reginald poteva essere rinchiuso nel Grande Tempio a torcersi le mani in attesa di Charles. Poteva essere preoccupato quanto me. Ero troppo pessimista. Avevo attraversato le peggiori sventure da quando Birch mi aveva catturato e quasi ucciso in quello squallido vicolo. La ruota poteva girare, non è vero? Forse per una volta, una sola volta, era andata male a Reginald. 
Affondai la testa tra le mani. Sapevo che soltanto una cosa poteva andargli male: Charles Lee, l'uomo che ci teneva in parità l'uno contro l'altro, poteva essere morto. Oh, poverino, avrebbe perso il suo giocattolo. Che dispiacere. Io avrei perso l'unico figlio che riuscivo davvero a trattare come tale. 
Era... Era quello a distruggermi, a far male più di tutto il resto. Il fatto che, in qualsiasi caso, a subire i risvolti negativi della situazione sarei stato io. 
Sempre io. – Potremmo portarla in casa. – Tom allargò le braccia, come a indicare la buca di pietà in cui mi stavo nascondendo. Grandioso. Che gettasse altro sale sulle mie ferite. – Raccoglierla tutta e... Che ne so, nasconderla nelle stalle. 
Aggrottai la fronte. – Niente di più utile? – L’idea di portare via la terra era venuta in mente anche a me, ma potevamo fare di meglio. Quella roba doveva avere un altro impiego. – Potremmo usarla per fortificare il buco. Creare una specie di protezione dietro cui sparare. – Feci finta di imbracciare un fucile e puntarlo verso il sentiero che collegava Boston, New York e Philadelphia attraverso la Frontiera.
Tom schioccò la lingua. – D’accordo, ma saremmo più visibili. – Giusto. Lo consideravo un rischio da correre, quando l’alternativa era farmi staccare la testa dal primo proiettile sparato nella nostra direzione. – E poi dovremmo essere almeno in quattro, non credi? Uno per ogni lato.
Gettai la pala a terra in un gesto frustrato. – Cristo santo, Tom, così non mi aiuti!
– Va bene, va bene, scusa! Cerco di essere realista. – Seguì il mio esempio e buttò l’attrezzo per terra, uscendo dalla fossa con un balzo agile. – Se vuoi davvero usare quella roba come protezione dobbiamo anche coprirla. Foglie, rami, qualsiasi cosa, basta che sia un po’ meno visibile. – Si schiaffeggiò le cosce, lasciando due ampie tracce fangose sui calzoni. – Io non sono George Washington, capo. Tutto questo casino bellico mi manda in confusione. Perché non aspettiamo e basta, eh?
Non riuscii a sostenere il suo sguardo. Abbassai il capo, mordendomi istintivamente le labbra. – Oh, Dio, dimmi che non è vero. – Si sedette sul bordo della buca, lasciando ciondolare le gambe davanti al mio viso. – Andiamo, capo, non è…
Lo guardai con un sopracciglio sollevato. Non ebbe bisogno d’altro. Semplicemente scoppiò a ridere, rischiando di precipitare dentro la buca, con la bocca piena di fango e una caviglia andata. Rideva così forte che non mi fu difficile tirare su l’angolo della bocca, perché non aveva tutti i torti. Ero in una situazione patetica. Ridicola. Peggio di così non poteva andare.
Sì, insomma, a meno che non mi mettessi a piangere e dondolarmi in un angolo, singhiozzando che Reginald era tanto, tanto cattivo e volevo di nuovo mia madre. – Fammi capire – sussurrò, senza fiato, mentre si asciugava gli occhi con il dorso della mano. – Hai ammazzato Benjamin Church senza battere ciglio. Sei sempre pronto a gridare ai quattro venti che hai tu il potere all’interno dell’Ordine, sì, insomma, sembra che ti venga duro solo all’idea di uno scontro con Reginald, in cui potresti finalmente fargli vedere chi ha ragione, e invece… – Prese un gran respiro. Ci voleva una pausa a effetto prima di lasciar cadere sul tavolo il vero punto della questione. – Ti stai cagando addosso. Non è così?
Feci spallucce. Merda, Tom. – Si nota?
Sollevò le sopracciglia in una smorfia comica. – Mah, vediamo, è mezza giornata che ti scavi la fossa e non fai altro che organizzare una difesa di cui l’Esercito Continentale sarebbe senza dubbio invidioso. Per non parlare della tua reazione quando ho detto che Charlie e Birch potrebbero essere già diretti qui, pronti per fare di me carne da macello e conservare il tuo corpicino per la grandezza del Tempio. – Incrociò le braccia sul petto e si lasciò cadere all’interno della trincea, facendo schioccare la lingua in mezzo ai denti. Sembrava stesse parlando con un cavallo, diavolo. – E, volendo, per un’ultima bottarella. Passando oltre, direi che, sì, capo, hai proprio l’aria di chi vorrebbe solo evitare una morte lenta e dolorosa per schiattare nel proprio letto.
Sbuffai, passandomi una mano tra i capelli sudati. – Pensavo che l’avessero tutti.
– Sì, ma c’è chi la nasconde meglio.
Reclinai il capo, sentendo il sudore scendere lungo il mio collo. Gesù Cristo, se l’aveva capito Tom non ci sarebbe voluto molto affinché ci riuscissero anche Reginald, Charles e, perché no?, Connor. – Senti, adesso non pensarci, d’accordo? Andrà tutto bene. – Mi scaricò una pacca sulla spalla così forte che per poco non caddi in avanti, mandando all’aria tutto il lavoro di sostegno fatto sulle pareti della trincea. – E tanto, anche se venissero qui, mica t’ammazzeranno subito. Hai tutta la strada fino al Tempio per liberarti di loro. – Mi strizzò l’occhio, circondando le mie spalle con un braccio. – A proposito, dove… No, non dirmi niente. Pensiamo positivo. Potrei essere abbastanza fortunato da vederlo con i miei occhi. – Fissava il vuoto con aria sognante. – Il Grande Tempio.
Sbuffai, svicolando dalla sua presa con facilità. – Prega che sia così – brontolai. Quella buca non sarebbe stata un granché come ultima cosa vista prima di morire. – Te l’ho detto, io non garantisco niente. Non sono sicuro che il ragazzo…
Ci fu un brusco schianto, come di un osso spezzato bruscamente a metà, seguito immediatamente dallo sciaguattare liquido della carne aperta. Sangue che si riversa sulla terra bagnata.
Trasalii, sicuro che avrei trovato Thomas Hickey con il petto spezzato dal proiettile di un moschetto. – Cristo di Dio! – Invece no. Cioè, stava strillando come una comare, ma immagino avrebbe lanciato grida molto più indistinte se gli avessero sparato al petto. – Ma sei diventato pazzo? Mi hai fatto venire un colpo! – Tirò un calcio a quello che all’inizio mi parve solo un cumulo di terra bagnata. A uno sguardo mi accurato mi accorsi che si muoveva. E gemeva, addirittura. – Bastardo di merda! Bussare non si usa più?
Aggrottai la fronte nell’osservare quel quadretto. In un angolo Tom, una mano premuta sul petto e i denti scoperti in una smorfia da cane rabbioso, e, ai suoi piedi, mio figlio, completamente coperto di fango, che si rotolava nel tentativo di mettersi carponi. Senza dubbio i calci che Thomas continuava a piantargli nello stomaco aiutavano. – Pezzo di merda! Che cazzo ci fai qui, eh?
Ottima domanda. E, santo cielo, perché aveva fatto tutto quel casino?
I miei occhi corsero alla parete opposta della trincea. Merda, Connor. D’accordo, sono felice che tu sia vivo e tutto il resto, ma… Merda. L’intera struttura utile per tenere su quella dannata parete di terra era collassata su se stessa in una montagnola informe di fango e rami. Perfetto. Non solo piombava dal nulla facendo quasi morire di paura il mio unico alleato, ma mandava anche a puttane tutto il lavoro della giornata.
– Rispondi, cazzo! – Tom l’afferrò per la giacca sporca di fango, tenendolo sollevato a una spanna da terra. A dire il vero non me la sentii di difenderlo. Voglio dire, Thomas non aveva tutti i torti.
E poi, be’, era divertente guardarli litigare come due donnicciole. – Pensavamo che fossi morto – gli ringhiò in faccia. Le enormi mani di Connor lottavano con quelle di Tom, cercavano di liberarsi dalla sua stretta.
– Spiacente di aver deluso le tue aspettative – sussurrò il ragazzo. – Sono ancora qui.
Roteai gli occhi, e Tom non ebbe certo bisogno di un mio segnale per buttare Connor contro la stessa parete che aveva fatto crollare, la schiena nuovamente affondata nel fango. – Grazie al cazzo! – Mi affiancò con un paio di ampie falcate. – Ehi, capo, sicuro che i tuoi coglioni funzionassero quando…
Mi ero fermato un secondo a guardare Connor, e, all’improvviso, tutti i problemi erano scivolati via dalle mie spalle.
Thomas aveva ragione. Per una volta, essere ottimisti aveva funzionato. Il ragazzo era lì, vivo e vegeto, davanti ai miei occhi. E poteva significare solo due cose.
O aveva raggiunto un accordo con Charles, e devo ammettere che non ci speravo per niente.
Oppure aveva la Mela con sé. – Cazzo! – Non mi servì alcuna conferma per capire che Tom e io eravamo giunti a quella conclusione nello stesso momento. Ci buttammo sul ragazzo, tirandolo su per le braccia.
Nella sua testa, nelle sue azioni, era nascosto il segreto del mio successo. Aveva lui tutte le carte, l’attacco e la difesa, la vittoria e la sconfitta. Era la mia unica speranza di uscire vivo – o con una certa dignità, quantomeno – da quella situazione.
Sospirai. Avrei dovuto ucciderlo molti anni prima. – Ehi – sussurrai. Thomas gli diede addirittura una pacca sulla schiena, grattando via un po’ di fango secco dalla giubba da Assassino. Che leccapiedi. – Da dove arrivi, si può sapere?
Ci spinse via, come a dire che sapeva benissimo tenersi in piedi da solo, e si passò le enormi mani in faccia. – Dalla villa – brontolò mentre si stropicciava gli occhi. Aveva gli zigomi più sporgenti che mai sul viso, e due occhiaie così marcate che neanche la sua carnagione riusciva a renderle meno evidenti. – E voi? Cosa sarebbe questa buffonata?
Aggrottai la fronte. Come, prego? Buffonata. Quella. Andiamo, per Washington era già tanto che tutti i suoi uomini avessero un maledetto fucile. Non gli sarebbe mai venuto in mente di nascondersi in una buca.
Orgoglioso bastardo del cazzo. Era così facile, dal posto di comandante. Dove non fai altro che ordinare a dei poveri disperati cosa fare, dove andare, quando sparare. Così dannatamente facile. – Stavamo preparando una difesa, in caso… – Mi fermai, riflettendo un attimo sulle sue parole. Da dov’è che arrivava? – La villa? E cosa… Come mai eri lì?
– Sono tornato – grugnì. – E ho visto Achille.
– Aspetta, aspetta un momento. – Thomas si piazzò tra me e lui, i palmi sollevati. L’espressione sul suo viso tradiva una certa brama di risposte. – Sei tornato… da Valley Forge, giusto?
Connor sbuffò dal naso, come a dire: “Fallo star zitto. Abbiamo cose più importanti di cui parlare. Quel vecchio mezzo morto che dovrebbe essere a capo della mia Confraternita, ad esempio.” Ovviamente rivolgendosi ad Achille con termini molto più lusinghieri. – Da Lexington. Sono rimasto lì… Due giorni. – Spostò gli occhi su Thomas. Sembrava in cerca di una sfida, lo sguardo più duro del solito.
Merda. Non ci voleva chissà quale empatia per capire che qualcosa era andato storto.
Il mio problema era, al momento, assicurarmi che quel qualcosa stesse il più lontano possibile dai miei affari. Dalla Mela. – Lexington? – Ricambiai l’occhiata stranita di Tom. – Perché? Non eri a…
– Sono successe molte cose – ringhiò, ponendo uno strano accento su quelle ultime due parole. – Avevo bisogno di riflettere.
I suoi profondi occhi neri erano puntati su di me. Sembravano voler succhiar via l’anima dal mio corpo. – Riflettere? Per due giorni? – Era come se Thomas non esistesse. C’eravamo soltanto io, lui e quei maledetti pozzi senza fondo. Mi sentivo completamente nudo, davanti a quegli occhi. Un po’ come quando stavo con Tiio.
D’accordo, non esattamente allo stesso modo, ma il disagio iniziale era lo stesso. Stava cercando di confessarmi… qualunque cosa avesse fatto o subito mentre era a Valley Forge, ma ero stanco di interpretare tutto. Lui non era come quella stronza di Giunone. Era perfettamente in grado di parlare senza inutili giri di parole ed enigmi. Che lo facesse, allora.
Perché più il tempo passava, il suo sguardo sempre puntato nel mio, e più la paura nel mio petto cresceva. – Sì – sussurrò alla fine. – Samuel Adams mi ha offerto una casa. Avevo bisogno di rimanere un po’ da solo. Sono passato dalla villa, ma non c’eravate. Ho pensato che poteste essere da queste parti, e mentre vi cercavo sono… – Sbuffò. – Sono caduto nella vostra stupida trappola.
Tom roteò gli occhi. – Te l’avevo detto che non si vedeva niente, capo. – Sorrisi appena. Qualcosa mi diceva che Connor non avrebbe fatto caso neanche a Gesù Cristo in persona, in quel momento. Che cosa poteva essergli successo? E perché diavolo non ne parlava?
Ero sempre più ansioso. Riuscivo a sentire il mio stesso sangue rombare nelle orecchie, potente come un tuono. – Aspetta un momento. – Aggrottai la fronte. Le sue parole si sovrapponevano nella mia mente, una montagna di stronzate che diventava sempre più instabile, col rischio di crollarmi addosso e soffocarmi. – Che è successo a Valley Forge? – Il cervello mi pulsava dietro le orecchie. Mi tremavano le gambe, e una parte di me avrebbe dato qualsiasi cosa per non udire la sua risposta.
Prese un gran respiro. – Non ne voglio parlare.
– E che diavolo significa? – ringhiò Thomas, i denti scoperti. – Mi pare che tu avessi un compito, no?
Il volto di Connor era a pochi centimetri dal suo, le vene del collo gonfie per la furia. – Non è andata esattamente come pensavo – gli sibilò contro. – E non devo rendere conto a te, Hickey. Mentre tu visitavi tutti i bordelli di Philadelphia io ho dovuto salvare il mio villaggio! Non ti devo nessuna spiegazione, chiaro?
Oddio. Non è andata esattamente come pensavo. Quella frase aveva ridotto il mio cervello a un trito di carne. C’era solo un fischio nella mia testa, un suono acuto e doloroso che non riuscivo a scacciare.
Dovetti serrare una mano attorno al gomito di Tom per non cascare a terra come un vecchio infermo. – Dimmi cos’è successo – riuscii a sussurrare. Dimmi che hai preso la Mela. Ti prego, ragazzo, dimmi che almeno uno di noi è riuscito ad avere ciò che voleva. – Hai…
Lasciò perdere Tom per un istante e il suo sguardo fu di nuovo puntato nel mio. – Non ti sopporto più, lo sai?
Ecco. Devo ammettere che in quel momento, con le gambe molli e la mente vuota, mi fece un po’ paura. Mi teneva in pugno, capite? Mi stava tenendo sulle spine con quella stupida storia del Frutto, e più teneva la bocca chiusa, meno stabile mi sentivo. Doveva dirmelo. Basta perdere tempo, avevo… Avevo bisogno di saperlo.
Invece lui continuava a girarci attorno, come se godesse del mio nervosismo. – Sei un menefreghista! Non ti importa niente di me o del mio villaggio. Tu volevi soltanto quella stupida cosa. – Complimenti. Ora, ce l’hai o no? Le sue parole non mi toccavano neanche un po’. Non ero offeso, aveva ragione. Ero un egoista. Voglio dire, il suo villaggio era già stato bruciato e ricostruito una volta. Erano preparati, in un certo senso.
Di Frutto dell’Eden ne esisteva soltanto uno. Si trattava di prenderlo per primi o morire.
– Maledizione, parla. – Non riuscii a fermare le parole. M’uscirono di bocca spontaneamente.
– Stronzo – ringhiò, squadrandomi dall’alto in basso come un mucchio di merda. – Sì, ce l’ho. Tanto è solo questo che ti interessa, giusto?
Socchiusi gli occhi, lasciandomi andare a un sospiro sollevato. Grazie, Dio. Grazie, grazie, veramente, io… Grazie. Potrei anche cominciare a credere in te, sai? La fortuna sta girando. La fortuna sta… – E Charlie?
Thomas Hickey aveva dato voce al mio ultimo dubbio. Quello la cui risposta mi faceva più paura. – Chi?
Non avevo il coraggio di sollevare le palpebre. Schifoso ipocrita. – Charles Lee. L’hai ucciso?
Lo sentii sospirare. Fantastico. Eccolo, pronto a dirmi che gli dispiace ma non ha potuto fare niente perché, sì, insomma, l’ordine di spazzare via il villaggio l’avrà anche dato Washington, ma senza dubbio l’idea gliel’avrà data Lee. “E anche se non è vero, i suoi baffi non mi piacciono. Ho una certa etica, papà. Non mi faccio inculare da uomini che non trovo attraenti.”
Non ero pronto a sentirmelo dire. Non ero pronto per un altro funerale.
Non ero pronto per il suo funerale. – Non ci siamo neanche incrociati.
Spalancai gli occhi, le labbra improvvisamente piegate in un sorriso. – Sei contento? – Connor mi soffiò in faccia tutta la sua acidità, poi ci voltò le spalle e uscì dalla trincea con un balzo. Rimasi lì, basito, a passarmi le mani sul volto come un idiota.
Oh, Dio, non potevo crederci. Charles era vivo. E noi avevamo il Frutto dell’Eden. Mi veniva da piangere. Davvero, forse se Thomas non fosse stato lì mi sarei lasciato cadere contro la parete della buca, raggomitolato su me stesso a singhiozzare, sollevato per come erano andate le cose.
Ne avevo abbastanza di mostrarmi debole. Avevamo un vantaggio, finalmente. Saremmo stati noi a scovare Reginald. A coglierlo di sorpresa, come un topo nascosto in cantina.
Si trattava soltanto di organizzare la caccia perfetta.
Tom, accanto a me, reclinò il capo. – Ti prego – sussurrò, – dimmi che non dobbiamo riempire di nuovo questa buca di merda.
Gli passai la pala con un sorriso. – Meglio muoversi. – Oh, Cristo, non avete idea di quanto mi sentissi bene. Completamente ristorato, come se avessi trovato il mio posto nel mondo dopo anni passati a vagare.
La vendetta, finalmente. Come tornare a casa. – Abbiamo un Tempio da aprire.
 
Un paio d’ore dopo, con la fossa perfettamente mimetizzata nel terreno della tenuta, come se non fosse mai esistita, mi incamminai verso la villa con la pala su una spalla e la redingote sull’altra, mentre Thomas, un paio di passi avanti rispetto a me, giocherellava con i lembi della camicia aperta.
Sembrava non avesse mai fatto più caldo. – È stata dura, eh, capo? – Tom si voltò, proseguendo la sua camminata all’indietro. – C’hai pensato? Il bastardo si è tenuto la Mela per due giorni, mentre noi ce ne stavamo qui a scavare come ratti, e non ha detto niente a nessuno.
A dire il vero, sì, il pensiero mi aveva toccato. Avrei voluto anche urlarglielo in faccia, sinceramente, ma poi se n’era uscito con quella storia di quanto fossi un pessimo padre, un opportunista cui importava solo del Frutto dell’Eden, e avevo lasciato perdere. Ero così felice. Charles era vivo, la Mela ben stretta nelle nostre mani. Avrei potuto spalare la più grande montagna di merda del mondo, e l’avrei fatto con il sorriso sulle labbra. – Lascialo perdere – grugnii con una stretta di spalle.
– Mah. – Mi lanciò un’occhiatina lasciva prima di schioccare la lingua e riprendere a camminare normalmente, la casacca aperta agitata dal vento. – Fossi in te, io mi preoccuperei. L’hai visto, no? Chissà che gli è successo.
Roteai gli occhi. – Magari non voleva parlarne davanti a te. – Diavolo, eravamo amici. Non potevo mentire anche davanti a lui.
Si mise una mano sul petto, gli occhi sgranati nel suo finto stupore da comare. – Me? Oh, capo, così mi ferisci! – Scrollò il capo. – Andiamo. Perché mai dovrebbe fregargliene qualcosa di quello che penso io?
– Boh. – Affondai una mano in tasca, l’altra sempre salda sulla pala. – Forse perché ogni volta che qualcuno ha un problema pensi sempre sia a causa del sesso. Non ha scopato abbastanza, gliel’anno messo nel culo, oppure prova, per ragioni che solo tu sai, un desiderio impellente di farsi fottere. – Sorrisi. Mi sentivo finalmente libero, come se quel momento, quel semplice periodo di stallo tra un’azione violenta e l’altra, mi ripagasse di tutto il male che avrei fatto.
Thomas sogghignò. – Be’, con te e Charles era vero. – Le gambe quasi mi cedettero sotto una delle sue solite manate sulle spalle. – E, a essere sincero, penso che una bottarella non gli farebbe male.
Non replicai, continuando a camminare lentamente verso la villa, un piede dietro l’altro, il petto gonfio d’orgoglio. Non avrei permesso che Connor e i suoi problemi mi distraessero. Avevo sacrificato troppe cose. – Credi che dovrei interessarmi? – dissi in un sospiro.
Il mio socio fece spallucce. – È figlio tuo. Lo conosci, no?
Era proprio quello il problema. Forse Connor poteva dire di conoscere me, ma io che cosa sapevo di lui? Che era un Assassino, si fidava ciecamente di George Washington e teneva alla Confraternita. E poi?
Non era necessario tutto quello sforzo per farmi capire che non ero un buon padre. Lo sapevo già. Parlavamo soltanto dei Templari, della guerra. Di me, al limite. Mai di lui. Sembrava sempre così chiuso, come se il resto del mondo non lo sfiorasse nemmeno. Aveva annullato se stesso in nome della causa, e forse era quello a darmi più fastidio in lui. Ero così diverso. Reginald mi aveva spedito in America per l'Ordine, e io ci ero andato di malavoglia. Avevo abbandonato i miei compagni per interesse personale. Prima Tiio, poi Jenny. E ora di nuovo.
La mia curiosità non c'entrava proprio niente. Volevo aprire il Tempio? Sì. Altroché. Dopo tanta fatica per arrivarci. Perché i Templari e gli Assassini ci tenevano così tanto? Ecco, quello mi incuriosiva, davvero, ma in ballo c'era la mia vendetta. E quando si trattava di chiedere a me stesso che cosa facesse tendere maggiormente il piatto della bilancia – il sangue o l'Ordine, l'onore o la curiosità, la paura o la conoscenza – non avevo alcun dubbio.
Vigliacco di merda. – Ci farò due chiacchiere più tardi. – Feci rotolare un sasso giù per la collina con un calcio, la mente assorta in ciò che davvero contava. Il sottoscritto. – Non possiamo organizzarci senza essere totalmente sinceri e convinti di ciò che stiamo facendo. – Poggiai gli occhi su Thomas, aspettando una sua reazione. Coraggio, Hickey. Un commento moralista, un'incitazione. Oh, già, ma lui aveva deciso. Non si sarebbe mai più intromesso nelle mie scelte, gli ordini erano ordini e cazzate così.
Sorrisi tra me. Non poteva resistere. Così come non aveva resistito con quella puttanata dello smettere con gli omicidi. – Sei con me?
S‘inchinò in una profonda riverenza, rischiando di mozzarmi la testa con la pala. – Al vostro servizio, Gran Maestro – disse, la voce viscida e carica di servilismo. Sventolò la camicia in un cenno noncurante. – Davvero, capo. Questa volta sì. Sono decenni che corriamo dietro a quel Tempio. Reginald sarà anche più furbo, ma abbiamo i numeri dalla nostra parte. E l'elemento sorpresa. Non sottovalutarti.
– Non si tratta di sottovalutarci, ma di sopravvalutare Birch. Prepararci al peggio. – Scrollai il capo. – Se non siamo fermamente convinti di questa cosa... Tutti e tre, intendo, non andiamo da nessuna parte. – Mi accorsi  di quanto stessi stringendo i pugni solo quando aprii le mani, mezzelune sanguigne incise sui palmi. Non avrei permesso alle divergenze tra noi di fermare la mia vendetta.
Non me lo sarei mai perdonato.
Varcai la soglia della villa dietro Thomas, appoggiando la pala contro il muro dell'ingresso. Si trattava di essere cauti. Cauti e accorti, con la testa sulle spalle e i piedi ben piantati a terra. Niente errori. Niente distrazioni. Si trattava di arrivare fin lì e ucciderlo. Fare le cose per bene.
Mi sarei ammazzato, piuttosto che buttare all'aria quell'ultima occasione.
Un brivido mi corse lungo la schiena al solo pensiero. Oh, al diavolo. Come potevo crederci? Io stesso dubitavo di quelle parole. Quand'anche la morte fosse stata la mia ultima scelta, avrei preferito qualsiasi alternativa, la più gretta e umiliante, la più dolorosa, pur di rimanere in vita.
Dopo tutta quella maledetta fatica. – Credi che il bastardo sia di sopra con il vecchio? – Thomas si era tolto la camicia e la teneva appoggiata su una spalla, una manica ciondolante sul petto sudato. – Gli starà facendo l'ultima sega della sua vita.
Mi distolse dai miei pensieri, facendomi scrollare il capo come un cavallo. – Sbaglio o c'è dell'invidia nella tua voce? – brontolai con un sorrisetto. Se Tom e i suoi commenti non fossero stati sempre lì a sollevarmi il morale, probabilmente mi sarei depresso molto tempo prima.
Non ero a quei livelli e non credo lo sarei mai stato. Non volevo smettere di vivere. Volevo soltanto smettere di lottare. – Certo – Thomas appallottolò la camicia umida tra le mani, soppesandola come un grosso sasso. – Un bel paio di palle rugose. Il sogno della mia vita. – Mi scagliò l'involto sudaticcio contro, ma fui più veloce e l'afferrai al volo. – Io non vado a chiamarlo – sibilò, gli occhi carichi di rabbia. – Metti caso che stia davvero maneggiando le palle di Achille. Che visione terribile. Mi scioccherebbe a vita.
Sospirai. – Non ce ne rimarrà molta se continuiamo con queste cazzate.
– Mio Dio! – Tom sollevò le mani al cielo, una smorfia esasperata in volto. – Devi smettere di preoccuparti così tanto, capito?
No, era lui a non aver capito. Quella non era una gara a chi pisciava più lontano. Non c'erano coccarde o corone d'alloro per il valore delle nostre azioni. Bastava funzionassero.
Per questo dovevamo essere organizzati. Pronti a tutto, anche all'irreparabile, o morire soffocati dall'orgoglio. – Smetterò di preoccuparmi quando Reginald sarà morto. – Gli lanciai la camicia addosso, ma la evitò con un movimento fluido, chinandosi, rapido come una serpe. – Non cantare mai vittoria prima del previsto. È la regola d'oro.
Thomas mi si avvicinò. Si tastò il labbro inferiore con l'indice, come un oste pensieroso che deve scegliere il miglior quarto di bue per lo stufato, un sorrisetto lascivo sulle labbra, e prese a girarmi intorno. Troppo vicino. – Regole – ripeté. Sembrava non avesse mai sentito quella parola in vita sua. – Non salvano nessuno. Credi che Reginald sarà corretto? Che seguirà i tuoi schemi? – Ridacchiò. Il suo fiato sul collo mi fece venire i brividi. – Apri gli occhi, capo.
Mi mollò una pacca amichevole sulla guancia, come uno schiaffo leggero e... ambiguo, in un certo qual modo. Come tutto ciò che Tom faceva. – Ascoltami un secondo. – Gli presi il polso con due dita, scostandolo dal mio viso. – Se non mi dai retta gli occhi non li aprirai mai più. So che cosa Reginald sia capace di fare. L'imprudenza non è coraggio. – Nessuna delle mie parole avrebbe avuto un qualche peso su di lui, ma valeva la pena provare. – Hai detto che mi lasciavi il comando. A me le decisioni e a me le conseguenze. Perciò chiudi il becco e mettiti qualcosa addosso.
Sbuffò. – Perché? Siamo tutti adulti, cazzo. E io sto morendo di caldo. – Puoi capire. Se non aveva qualcosa da controbattere non era contento, Tom. Sollevai le mani in segno di resa. Che restasse pure così. Anzi, perché non si spogliava del tutto e si sdraiava sul tavolo mentre io e Connor usavamo il suo petto per appuntarvi una mappa della zona?
Attraversai l'ingresso ed entrai nella sala da pranzo con un paio di ampie falcate. Mi lasciai cadere su una sedia, il capo chino e il petto che si sollevava rapidamente, pieno di rabbia. – Fa' quello che vuoi – gli sussurrai tra i denti sbarrati. – Thomas, io voglio che tu sia sincero. Ti interessa ammazzare Reginald o mi stai soltanto prendendo per il culo?
Aveva tutta l'aria di uno cui l'idea non dispiaceva per niente. E, a essere franco, non stentavo a crederci. – Mi interessa – ammise Tom, seduto con le labbra appena incurvate e le braccia saldamente incrociate sul petto. – Mi interessa vedere il Tempio. Mi interessa sapere che cosa farai dopo. – Sollevò lo sguardo e lo puntò nel vuoto, verso il soffitto. – Mi interessa vedere se Charlie ti farà o meno una pippa di ringraziamento.
– Perché dovrebbe ringraziarmi con una pippa? – Forse avevo sbagliato a lasciarlo andare per bordelli, a Philadelphia. Gesù, sembrava che l'idea della vendetta lo eccitasse più di quanto lo facesse con me. Molto di più.
Si strinse nelle spalle. – Sarà diventato un esperto, ormai. – Reclinò la sedia e poggiò le gambe incrociate sul tavolo, comodo come il Re sul suo trono. La stessa posizione che assumeva spesso e volentieri al Green Dragon, quando discutevamo noiose tattiche di guerra e cercavamo un modo sicuro per ammazzare Braddock. Si calò il tricorno sugli occhi. – Non mi dispiacerebbe riceverne una da quello stronzetto.
Sbuffai. Una parte di me, quella con cui Reginald aveva giocato durante la mia gioventù, non sarebbe mai riuscita a tollerare che si scherzasse in questo modo sull'argomento. Era una cosa delicata. E che cosa ne sapeva Thomas? Anche gli fosse successo, probabilmente ne era stato felice.
D'altronde, però, dovevo assimilare e volgere quei pensieri a mio vantaggio. Vendetta. Ricordati. Ricordare che non era soltanto per me, ma per Charles, per Jenny, per i miei genitori. Per come quel bastardo aveva frammentato l'Ordine, buttando all'aria l'unità che avevo faticosamente messo in piedi. Avrebbe ripagato a tutti i torti che la vita mi aveva inflitto.
Mi piaceva pensarla così. Dava uno scopo al tutto. – Andiamo, capo, levati quell'espressione schifata dalla faccia. – Scoppiò in una risata rauca e inquietante, la sedia che dondolava sotto il suo corpo sussultante. – Hai diritto sulle decisioni dell'Ordine, non sulle mie. E posso benissimo chiedere un lavoretto a Lee. Non mi faccio problemi.
– Oh, no, tu no. – Poteva suonare sarcastico, ma ero terribilmente serio. – Lo sappiamo che non ti fai nessun tipo di problema in questo campo.
Sollevò appena il cappello, la fronte aggrottata con aria interrogativa. – Ce l'hai un po' di sensibilità? Dopo tutto quello che ha subito, Tom. Tu non sai che cosa significhi. Non lo saprai mai. – Mi era impossibile immaginare Thomas che si rifiutava di scaldare le lenzuola di qualcuno. Serrai i pugni, pensando che se ci fosse stato lui al mio posto, le cose sarebbero state terribilmente diverse. – Quindi prova soltanto a chiedergli una cosa del genere e io ti ammazzo.
– Ehi! – Levò bruscamente i piedi dal tavolo. Le gambe anteriori della sedia colpirono il pavimento con uno schiocco secco. – Stavo scherzando! Che è successo, Birch ti ha succhiato il senso dell'umorismo direttamente dall'uccello?
Sgranai gli occhi. – Figlio di puttana – sussurrai tra i denti, la mascella serrata. – Bastardo figlio di puttana. – Senza accorgermene avevo fatto mezzo giro del tavolo e ora gli stavo davanti. Sogghignava come un mastino. Che razza di stronzo.
La mia mano destra s'insinuò nei suoi capelli, tirandogli indietro la testa affinché mi guardasse dritto negli occhi. Dal polso sinistro sbucava la lama celata, scintillante a pochi millimetri dal suo collo. – Ascoltami bene, schifoso bastardo. Puoi scherzare sul mio cazzo o su quello di Charles quanto vuoi, ma metti un'altra volta in mezzo Reginald e giuro che ti faccio saltare la testa. È chiaro?
Rimase a guardarmi per un istante, la bocca mezza aperta per lo stupore.
Poi, come al solito, riuscì a lasciarmi basito. Scoppiò a ridere. A ridere, con il rischio di impalarsi sulla lama a ogni sussulto. – Oh, Cristo – sussurrò, asciugandosi una lacrima con il dorso della mano. Perché rideva? Che cosa ci sarà mai stato di divertente nel farsi sbattere dal proprio Gran Maestro? Lui non sapeva come fossero andate le cose. – Cristo santo, capo, così ti voglio! Questo è lo spirito della vendetta. Ammazzami! Dai, fa' vedere di che cosa sei capace. – Continuò a sghignazzare mentre allentavo la presa, la fronte che sussultava nel palmo. – Non farti toccare... – Non riusciva a mettere in fila più di tre parole senza ridere. – Porca puttana!
Sbatté una mano sul tavolo e prese un gran respiro, cercando di calmarsi nonostante il sorriso ancora appiccicato sulle sue labbra. – D'accordo. Ci siamo. Uh. – Portò di nuovo lo sguardo al soffitto, perso nella travatura. – Dico soltanto che devi essere lucido. Se perdi le staffe per ogni commento che Reginald potrebbe fare al riguardo saremo morti prima di dire “Grande Tempio”. E se ti conosce davvero così bene, credimi, ne farà. Ne farà eccome. – Prese a battere i palmi sul legno a un ritmo regolare, come per concentrarsi. – Userà le tue debolezze contro di te. Per cui adesso ci calmiamo, prendiamo tutti un bel respiro e beviamo qualcosa. Appena il bastardo varcherà quella porta ci metteremo al lavoro, d'accordo?
Non avevo parole.
Solo un pezzo di merda come Thomas Hickey poteva farmi incazzare così per una buona causa. Perché lo faceva? Si sentiva in colpa per aver ammazzato Tiio? Voleva aiutarmi, nonostante tutto. Forse il suo era solo orgoglio. Voleva dimostrarmi che senza di lui non ce l'avrei mai fatta, e mi sembrava sempre più probabile. Tolta la situazione numerica, naturalmente, Thomas era l'unica persona con cui potessi parlare liberamente. Sapeva tutto di me. Tutto. Era il mio unico amico.
Se fosse stato con me dall'inizio, forse anche William Johnson sarebbe stato ancora vivo. Invece lo avevo ammazzato come un cane in quella stessa casa. Erano amici, lui e Tom. Compari.
Dalla parte di chi sarebbe stato? Non morivo dalla voglia di saperlo. Proprio no. – D'accordo – sussurrai. – Allora aspettiamo.
Fece spallucce. – Se vuoi andare a controllare che cosa stiano facendo quei due, liberissimo. – Indicò il piano di sopra con il pollice prima di storcere le labbra in una smorfia disgustata. – Tengo troppo al mio stomaco per uno spettacolo del genere.
Presi un gran respiro. No, non avevo intenzione di mettermi tra Connor e Achille. Il vecchio avrebbe tirato le cuoia di lì a poco. Meglio lasciarli soli per un po’. Non volevo togliergli la possibilità di dialogare con l’unico uomo che l’avesse davvero trattato come un figlio.
– Credi che verrà con noi? – Mi ritrovai a chiedere, le dita intente a torturare un bottone della camicia. – Connor, intendo.
Thomas si era già alzato in piedi, scrutando le vetrinette poggiate alle pareti con occhio critico. – Se vuole la Mela, dovrà farlo. – Brontolò una bestemmia tra sé, lo sguardo che continuava a correre su e giù per gli scaffali alla ricerca di qualcosa da bere. – Non si fida di noi, dico bene?
Complimenti. A dire il vero, le uniche persone in cui Connor aveva fiducia erano i Figli della Libertà e George Washington. Quello che mostrava verso Achille era più rispetto. Quel vecchio bastardo lo aveva accolto quando era solo un ragazzino, non poteva che essergli grato. Io ero piombato nella sua vita all’improvviso, senza neanche provare a trattarlo da figlio. Eravamo nemici. Un giorno o l’altro ci saremmo potuti ritrovare con la lama alla gola. Perché renderlo più difficile?
La pensavamo diversamente su troppe cose. Era meglio così. – Già. È una situazione delicata. – Mi passai una mano in faccia con un gran sospiro. Andiamo, Tom. Fa’ in fretta. Prendi questa maledetta bottiglia di vino e fammi ubriacare. – Tu avresti lasciato il tuo vecchio a morire per seguire i tuoi interessi? – Il cervello cominciò a pulsarmi dietro le orbite. Fammi smettere di pensare.
– Io? – Thomas aprì una delle ante con un sorrisetto, sollevando una bottiglia alla tenue luce della stanza, in ombra nonostante il sole estivo. – Capo, mi sono arruolato lasciando mia madre sola con mia sorella. Beth. Una puttanella isterica. Le faceva schifo vedermi nel Britannico. Ha detto che potevo tenermi le sterline e ficcarmele nel culo. – Richiuse la vetrinetta e scrollò le spalle in un gesto noncurante. – La vecchia è schiattata poche settimane dopo. E Beth ha continuato a fare la puttana finché non l’hanno ammazzata. Non so bene perché, e mentirei se dicessi che me ne fotte un cazzo al riguardo. Se la sono cercata.
S’infilò il collo della bottiglia in bocca, i morali stretti sul tappo di sughero. Mi guardava dritto negli occhi, come se aspettasse una mia reazione. Non riuscivo neanche a battere le palpebre. – Però – sussurrai. La famiglia Hickey è tutta così amorevole? – Non tutto era roseo e felice, in casa tua.
Emise un gemito sollevato quando riuscì a stappare la bottiglia con un sonoro pop. – Niente lo era – replicò, guardandosi intorno alla ricerca di un bicchiere. – E da te? – Inclinò la bottiglia sulle labbra, gli occhi sempre fissi nei miei.
Mi ero sbagliato. Non sapeva proprio tutto di me. – Insomma, la tua sorellina stava con Reginald. Avevate i soldi. – Si staccò il vino dalla bocca e lo poggiò sul tavolo, di fronte a me. – Ve la cavavate bene.
Certo. Benissimo. Mio padre era un Assassino che non si preoccupava minimamente di essere ucciso, e quand’è successo ci è crollato tutto addosso. Soltanto io e mia madre, senza un soldo, senza un posto in cui stare, con l’ombra di un cadavere e una figlia scomparsa a tormentarci. Gli sguardi di mezza città addosso. L’appoggio di un uomo che in realtà voleva solamente portarmi via da lì. Rendermi una macchina per uccidere. Tutti morti, tranne me e quel bastardo. Strinsi la bottiglia così forte da farmi diventare le nocche bianche, ispirando a fondo il profumo dell’alcool. La famiglia perfetta. – Sì. – Lasciai scorrere il vino giù per la gola. Doveva essere lì da un po’, a giudicare da quant’era acido, ma l’avrei bevuto fino all’ultima goccia piuttosto che parlarne. Ero arrivato fin lì proprio per questo. Il destino aveva distrutto la mia vera famiglia. Il sangue dei Kenway sarebbe stato sempre avvelenato, colmo di rimpianti e disperazione. L’Ordine no. L’Ordine poteva rinascere, e fiorire. Riparare agli errori che avevamo fatto.
L’Ordine era la mia famiglia, ora. E non avrei permesso a quel figlio di puttana di distruggerlo. Di cacciarmi.
Ero disposto a qualsiasi cosa per riprendere il mio posto. Quando mio padre m’addestrava non aveva mai detto quanto uccidere mi sarebbe stato utile. Non è solo una difesa, qualcosa che occorre saper fare in caso di emergenza. Era l’unico mezzo a mia disposizione per comunicare al mondo che ero vivo, con la vendetta nel sangue, e che non avrei permesso a nessuno di mettermi da parte.
Non si trattava di ammazzare per sopravvivere. Non solo, almeno.
Si trattava di farlo per se stessi. Per l’onore della famiglia.
Per dare uno scopo a tutti quei morti.
Sospirai, pulendomi le gocce di vino dalle labbra con la manica della camicia. Thomas mi fissava con uno strano sorriso, la camicia infilata per metà. Sembrava sapere la verità, o intuirla, quantomeno. Buon per lui. Non avevo intenzione di raccontarla. – Be’, meno male – esclamò.
Intelligente figlio di puttana. – Già. – Ridacchiai. Non ci sarei cascato.
Una serie di tonfi tali da far dondolare il lampadario sopra le nostre teste ci distrasse da quella stupida conversazione. Grazie a Dio. Vidi Connor scendere le scale a testa bassa, allacciandosi la giubba da Assassino come fossimo in pieno inverno. – Ehi. – Sollevai la bottiglia in cenno di saluto, un sorriso di circostanze in volto.
Mio figlio tirò dritto davanti alla porta della sala da pranzo, percorrendo il corridoio nell’altra direzione. Verso la porta sul retro. E senza una sola parola.
– Maledizione – ringhiai prima che Thomas potesse dire qualsiasi cosa. Dovevo fermarlo. – Connor!
– Capo, forse non…
Non darmi consigli su come fare il padre, Hickey. Al diavolo la sensibilità, il suo rapporto con Achille e tutto il resto. Si stava ritirando come un vigliacco. Mi evitava. No. Poteva volere tutto il bene del mondo a quel vecchio, ma doveva darmi la Mela. – Connor! – sbottai, seguendolo a grandi passi lungo il corridoio.
La porta era già spalancata. La polvere che nessuno si era preoccupato di togliere in tutto quel tempo galleggiava nel fascio di luce che il sole proiettava nell’oscurità della villa. – Dove credi di andare, si può sapere?
M’infischiai di quanto fosse più grosso, più giovane e più forte di me e lo presi per un braccio, dandogli un violento strattone. – Ti ha dato di volta il cervello? – sibilai.
Mi squadrò con l’aria più seria che avessi mai visto sul suo volto. Quei pozzi scuri che aveva al posto degli occhi erano lucidi, come se avesse pianto a lungo. Non aveva alcuna intenzione di reagire. – Ho bisogno di stare solo. – La voce gli si spezzò a metà frase, e gli occorse un grosso respiro per proseguire. – Occupatevi di Achille.
– Tu non vai da nessuna parte! – sbottai, accostando la schiena alla porta come un bambino capriccioso. – Hai passato due giorni in mezzo al niente mentre George Washington meditava su come farmi fuori. Non abbiamo più tempo da perdere, capisci?
Mostrò i denti in un ringhio, le mani serrate in pugni grossi come la mia testa. – Sei tu a non capire – rispose. – Io… Quello che ho fatto…
– Quello che hai fatto? – Non riuscii a resistere e gli mollai uno spintone. Caracollò indietro, impreparato, schiantandosi contro il corrimano. – Allora racconta. Cos’è che avresti fatto? – Mi scoccò un’altra delle sue occhiate colpevoli. Non m’importava. Egoista di merda, ecco che cos’era. Adesso capivo perché Templari e Assassini non erano mai riusciti a collaborare: quando si trattava di mettersi d’accordo uno dei due aveva sempre qualcosa da fare, ferite da risanare, misteriosi fatti a cui pensare.
Ne avevo abbastanza. – Non sei tenuto a saperlo – ringhiò in risposta.
Oh, certo. D’altronde ero soltanto suo padre. Chi meno di me era tenuto a saperlo? – In questo modo non risolviamo niente. Siediti a quel dannato tavolo e parlane, perdio! – Ero furioso. – Non è stato facile neanche per me. So che Achille sta male e non ho idea di che cosa tu abbia fatto in quel dannato villaggio, perciò parlane, va bene? – Respiravo affannosamente, il petto che si alzava e si abbassava in fretta. Forse sarebbe stata tutta quell’ansia a uccidermi, tutte le preoccupazioni. – Liberati di questo peso. Abbiamo un piano a cui lavorare, e io…
– Haytham…
– Fammi finire, d’accordo? – Gli poggiai una mano sulla spalla. Per i primi, interminabili istanti temetti davvero che me l’avrebbe tranciata via con un colpo di tomahawk, ma rimase lì. Gliene fui grato. – Non vado da nessuna parte se non siamo tutti sicuri di questa cosa.
Be’, non era esattamente la verità. Confidavo nelle mie abilità retoriche per convincerlo in caso non fosse stato d’accordo. Almeno a darmi la Mela, se proprio non voleva venire con noi. Poteva restare lì e crogiolarsi nelle sue crisi da ragazzino per tutto il tempo che voleva, ma era suo dovere lasciarci andare.
Lo guardai negli occhi. Incredibile. Più gli stavo vicino e più ero convinto che sarebbe stato terribilmente più felice senza di me. Sereno. Con meno preoccupazioni. Solo lui e il suo vecchio Mentore da accudire come una nonnina malata.
Forse sarebbe stato meglio per entrambi trovarsi da due parti opposte del conflitto. Era troppo difficile. Parlargli, contare sulla sua opinione, richiedeva uno sforzo che come Templare non avevo mai dovuto fare. Ero il capo, allora. La mente del gruppo, una persona influente.
La verità è che volevo Reginald morto più di qualsiasi altra cosa. E che volevo l’Ordine più di qualsiasi altra cosa. Una vita felice. Normale, almeno.
A qualsiasi maledettissimo costo. – Allora? – Affondai le dita nella sua spalla. Aveva chinato il capo, gli occhi fissi sull’elsa della mia spada. – Ti va di…
– No.
Perfetto. – Connor, ti prego. – Gonfiai le guance, stufo marcio del suo vittimismo. Non volevo essere cattivo nei suoi confronti, davvero, ma c’era un’idea che, lentamente, stava prendendo piede nella mia testa, sgomitando tra le altre per portarsi avanti.
E se fosse tutto un suo giochetto per non farti prendere la Mela?
Che io sia maledetto. – Se è per Tom possiamo anche… parlarne da un’altra parte. – Lo stavo pregando. Incredibile. Da quando in qua un padre prega suo figlio? Quella situazione proprio non mi andava giù. Si trattava del nostro fine ultimo, quello per cui avevamo cominciato a collaborare. Non avrebbe potuto fare nulla di più scorretto.
– Non ho niente da dirti – ringhiò, scrollando le spalle per spingermi via come un insetto fastidioso.
Sentii la mascella cedere mentre sbattevo piano contro la parete.
Eh, no. – Non hai niente da dirmi? – Il ringhio che mi uscì di bocca non era del tutto volontario, lo ammetto. Mi resi conto di aver snudato la spada, la lama ricurva puntata verso di lui. Stavo perdendo il controllo. Di nuovo.
Come quando avevo ammazzato William, e picchiato Washington, e sparato a Benjamin, lasciando che tutto mi sfuggisse di mano. Quelle situazioni mi avevano esposto.
Rifletti. Che diavolo stai facendo? C’era in ballo qualcosa di troppo grosso per distruggere tutto a quel modo. La mia testa cercò di avvisarmi.
Ero furioso, d’altra parte. Andiamo. Non si trattava più di me. Stavo provando con ogni parte di me a essere un buon padre, ma Connor… Faceva di tutto per ostacolarmi. – Tu non vai da nessuna parte – gli soffiai addosso. La punta della spada era premuta sulla sua schiena, all’altezza del fegato. Clic, e la lama celata fece capolino dalla polsiera in tutto il suo splendore. Il corpo agì per me, contrastando qualsiasi istinto ragionevole, e un attimo dopo gliela stavo puntando alla gola. – Perché? Che cosa c’è che non va, adesso?
Vidi i muscoli della sua mascella irrigidirsi, i tendini gonfi su quel tronco che aveva al posto del collo. – Non potresti capire – replicò tra i denti stretti.
Non posso? Per carità di Dio, quelle parole mi mandarono in bestia. Avevo il doppio dei suoi anni. Ero stato in guerra. Avevo conosciuto l’amore, l’odio, ogni tipo di bassezza e meschinità umana. L’unico uomo di cui mi fossi mai fidato aveva approfittato di me, in tutti i sensi.
Forse aveva ragione. Non sarei mai stato in grado di capirlo. Di capire lui, il suo modo di pensare, come vedeva il mondo, la Confraternita e tutto ciò che lo circondava. Eravamo troppo diversi.
Ma non m’interessava capirlo.
M’interessava mettere fine a quella scaramuccia da bambini. M’interessava averlo dalla mia parte, per una volta. E non perché fosse mio figlio o un Assassino.
Semplicemente per quello. Perché nonostante fossimo l’uno l’opposto dell’altro c’era qualcosa in quella dannata caverna, nella Prima Civilizzazione e in qualsiasi cosa stesse cercando di nasconderci, che entrambi non vedevamo l’ora di trovare.
Perché i Templari e gli Assassini potevano unirsi. Ne avevo la certezza, la coglievo nell’aria come il puzzo stantio che colmava ogni angolo della villa. – Perché? – gli risposi, più che altro curioso. Sentiamo un po’, coraggio. Gli avevo raccontato di mio padre. Come poteva pensare che non avrei capito?
Si voltò appena verso di me, parlandomi da sopra la spalla. La lama celata ora era premuta di piatto sulla sua carne, innocua, ma sufficiente a tenerlo fermo. – Ti ho visto, lo sai? – sussurrò, la mano stretta sul mio braccio sinistro. – Con William Johnson. E Benjamin Church. – Prese fiato. Non avevo mai visto tanto disprezzo nei suoi occhi. – A te piace uccidere, Haytham. È per questo.
Fui travolto dalla tentazione di affondargli la spada nella schiena. Spaccargli il fegato, guardare il sangue nero che si riversava fuori dal suo ventre, insudiciando la vecchia tappezzeria di Achille. Seguire il suo sguardo mentre si rivoltava all’interno del cranio, senza più nulla da guardare a parte se stesso e i suoi peccati, i suoi rimpianti. Stringere le spalle mentre i suoi muscoli smettevano di contrarsi e il cuore, piano piano, si fermava. Assistere alla fine della Confraternita, perché il vecchio bastardo di sopra era già bello che morto.
Bruciare il suo corpo, come non fosse mai esistito.
Una macchia scura sulla terra.
Abbassai il braccio, invece, e la spada corta tornò nella sua guaina senza alcuno sforzo. Forse la Prima Civilizzazione aveva deciso di guidarmi nella direzione giusta, per una volta. – Andiamo – sibilai, la mano sinistra affondata nell’incavo del suo gomito. Niente più lama celata. – Forza.
– Haytham, lasciami.
– Col cazzo – replicai, addentrandomi nel buio corridoio vicino alle scale. – Adesso vieni con me e ne parliamo. – Mi sembrava di essere tornato bambino, quando mio padre si sedeva davanti a me, le gambe incrociate, e mi chiedeva che cosa pensassi davvero di questo o quell’argomento.
Fatica sprecata, papà. D’altronde, lui era morto e io ero diventato un Templare. Grazie al cielo far diventare Connor un Templare non era nei miei piani. Avrei fallito miseramente, con quella dannata accetta nativa affondata tra le sopracciglia in ricordo delle nostre pacifiche discussioni.
Ingoiai il groppo che avevo in gola pensando che, in fondo, poteva succedere comunque.
Oh, zitto. – Tutto bene? – esclamò Tom dalla sala da pranzo. Lo ignorai. Non volevo farmi false illusioni con la mia risposta.
– Lasciami, ho detto.
Certo, certo. E chi ero io per oppormi alle sue volontà? Gli mollai una spintarella con il ginocchio, invitandolo a percorrere il corridoio davanti a noi. – Stai facendo tante storie per nulla – dissi mentre strattonavo con la mano buona il candeliere affondato nella parete. Quello che forniva l’accesso alla stanza segreta. – Scendi.
– Sono capace da solo! – Di nuovo agitò le braccia per riprendersi la propria indipendenza. Che facesse pure. Non ero lì per impormi fisicamente su di lui, mi bastava parlasse. Già mi immaginavo. “Oh, sì, ragazzo, lo so, è dura, come mi dispiace, su, adesso dammi quel dannato affare di metallo e andiamo ad ammazzare Reginald.” Ridacchiai tra me, e lo sentii sospirare nell’oscurità. – Pensi che venire qui sia la soluzione a tutto?
Aggrottai la fronte. Non ero sicuro che stesse facendo dell’ironia sul modo in cui avevo ammazzato William Johnson, ma decisi di non indagare. Storia vecchia. – Penso che sia abbastanza lontano da Thomas, Achille e Reginald per permetterci di scambiare due chiacchiere in tranquillità. – Pregando che nessuno si risvegli nel mio cranio e mi faccia impazzire un’altra volta. Un brivido corse lungo la mia schiena mentre mi avvicinavo a una delle lucerne, fiammifero alla mano. Potrei finire davvero per ammazzarlo, stavolta. – Non sei d’accordo?
Si lasciò cadere sulla sedia di fronte alla scrivania mentre la debole fiammella appena accesa rischiarava l’ambiente. – Haytham, le chiacchiere sono l’ultima delle mie priorità.
E anche una delle attività cui prestava meno attenzione. Le nostre poche conversazioni erano fatte di monosillabi, scrollate di spalle e grugniti. Da parte sua, almeno. – Lo so – replicai, le braccia incrociate sul petto. Non sapevo dire se fossero i ritratti alle pareti o il suo sguardo, ma qualcosa lì dentro mi faceva venire i brividi. – E tu mi conosci, no? Sai benissimo che nessuno di noi uscirà di qui finché non avremo chiarito cos’è successo.
Aggrottò un sopracciglio e voltò di scatto la sedia per sedere come era solito fare, al contrario.
Che bifolco. – Perché non inizi tu, visto che hai tanta voglia di parlare? – grugnì con strafottenza. – Mi pare di aver capito che anche a te non sia andata poi così bene.
Sollevai l’angolo della bocca, nonostante non ci fosse stato nulla di divertente nelle mie avventure a Valley Forge. Era un illuso, tutto qui. Se pensava che mi sarei vergognato davanti a lui, be’, sbagliava di grosso. Gli avevo raccontato cose peggiori. Avevo fatto cose peggiori davanti a lui, senza alcun dubbio. Di gran lunga. – Ho picchiato George Washington – ammisi.
– Perché?
– Aveva mandato Charles a parlamentare con gli indiani.
Gonfiò le guance. – Pensavi che sarebbe riuscito a portare la Mela a Reginald?
– Dio mio, no. – Scrollai il capo con una risatina. Davvero mi faceva così superficiale? Per l’amor del cielo. – Cioè, non solo. Non volevo tornasse da Birch. Era… Insomma, era sotto la sua custodia. Avrebbe potuto tenerlo al sicuro. Invece l’aveva lasciato andare.
– E perché ti preoccupi? Quei due sono dalla stessa parte – brontolò. – Contro di noi.
O-oh. In quel momento mi ricordai che, di tutte le cose orribili che Connor sapeva sul mio conto, ce n’era una che non gli avevo mai raccontato. Una cosetta insignificante, nulla di che. Solo l’uccello del tuo Gran Maestro che entra ed esce dal tuo buco del culo. E da quello di Charles, non dimentichiamolo.
Strinsi i denti. Era stata una questione di pudore, a dirla tutta. Insomma, era di Connor che stavamo parlando. Probabilmente non immaginava nemmeno che tra uomini si potessero fare cose del genere.
Era lui quello che non avrebbe capito. – Ti sbagli. Conosco Charles. Ci ho parlato. – La Prima Civilizzazione me l’aveva fatto vedere. Era inequivocabile. La questione non aveva più chiavi di lettura.
E nessuno poteva leggere Reginald Birch meglio del sottoscritto. – Reginald lo ha tratto dalla sua parte con l’inganno e la persuasione. Non può sottrarsi.
Connor sospirò, abbassando lo sguardo sulle sue ginocchia. – Se è così, perché non lo uccide?
La palpebra prese a fremere sopra il mio occhio sinistro. Non aveva capito niente. Non poteva capire. Charles, proprio come me, aveva paura. La sua era una situazione delicata. Mi sfuggì un sorrisetto triste. Avrei dovuto raccontargli tutto. Dirgli quale fosse il vero motivo del mio accanimento verso Reginald. Spiegargli come funzionasse il sesso e quanto fosse umiliante ciò cui io e Charles eravamo stati costretti.
Era il momento giusto. Poteva darsi che non ce ne fossero mai più.
Però non ne avevo il coraggio.
Indebolirmi di nuovo in quel modo, lasciar cadere le mie difese e mostrarmi per ciò che ero realmente, un ragazzino spaventato e pieno di rabbia. Era evidente non fosse la mossa giusta. La vendetta veniva prima di qualsiasi altra cosa. Prima dei miei sentimenti e delle sue lagne da ragazzina, prima del Grande Tempio e di quei bastardi che mi abitavano nella testa.
L’unica cosa che potevo mettere al suo stesso livello, l’unica cosa per cui avrei lottato fino a soccombere, era la vita di Charles Lee. La vita di mio figlio.
Nient’altro. – Non lo so – sussurrai per semplificarmi l’esistenza. Poi cambiai discorso, la lingua secca contro il palato. Vigliacco. – Washington voleva sbattermi in cella – proseguii, cercando di riacquistare un tono sicuro, – ma non c’era abbastanza spazio. Ha deciso di non impiccare più nessuno.
– Lo sapevo.
Certo. Probabilmente sapeva anche quante volte cagava al giorno. – Già. È stato costretto a lasciarmi andare. Ha detto che lo faceva per te, in onore della tua richiesta al Congresso Continentale. – Sogghignai, le dita tremanti che giocherellavano con i bottoni della camicia. – Fottutamente nobile da parte sua, eh?
Fece spallucce. – Gli sono stato utile. Non voleva farmi un torto.
Sollevai gli occhi alla travatura. Coraggio, non potevi sperare che questa faccenda lo avesse aiutato a sviluppare il senso dell’umorismo. È e resterà sempre fuori discussione. Con un sospiro, fui costretto a dar ragione alla mia testa. – Già. A proposito, gli hai detto qualcosa? – Davanti alla sua espressione stranita scrollai una mano. Depresso, capriccioso e anche duro di comprendonio. Incredibile. – Per il villaggio. Hai detto che gli avresti parlato.
– Oh. Sì. Non ho più intenzione di aiutarlo. Questa è stata l’ultima goccia. – Puntò i gomiti sullo schienale della sedia, il capo soppesato in una mano. – Dopo questa storia di Birch mi dedicherò alla Confraternita. Devo proteggere il villaggio, impedire che vi avviciniate al Tempio. Prendermi cura di Achille.
– Diventerai una signorina per bene, insomma.
Mi schioccò un’occhiata tagliente come un rasoio. – Ti riesce tanto difficile essere gentile?
– Mi sembra di esserlo stato fin troppo, con te. È il tuo turno. – Allargai le braccia, un sorriso sottile dipinto in viso. – Sono tutto orecchi.
Rimase in silenzio per un istante, lo sguardo fisso all’altezza delle mie ginocchia. Si morse un labbro, meditabondo. Più restava in silenzio e più difficile diventava per me sopportarlo. Sentivo l’ansia crescermi nel petto. Che cosa poteva aver combinato? Forse aveva ammazzato Washington. Oppure Charles. Quello che aveva detto prima, sul fatto che non si erano nemmeno incontrati, poteva essere soltanto una grossa bugia.
Perché non parli?, gridava la mia mente. Perché non dici nulla?
Si tirò in piedi così in fretta che la sedia quasi si schiantò sul pavimento. – Va’ al diavolo.
Mi si gelò il sangue nelle vene.
Che razza di idiota. Avrei dovuto prevederlo. – Cosa? – Sul momento, fu l’unica cosa che riuscii a sussurrare. Un’esclamazione stupita.
Bastardo. La mia mente non sembrava in grado di concepire altro pensiero. Piccolo ingrato bastardo, ecco cosa sei. Un piccolo e ingrato bastardo. – Tu non vai da nessuna parte! – sbottai, afferrandolo per la giubba mentre attraversava la cantina a grandi passi, diretto verso le scale. – Mi hai sentito? Tu non vai da nessun parte!
– Mollami! – Strinsi più forte le dita sulla stoffa ruvida. Era come litigare con un bambino di cinque anni.
Grosso come un armadio e forte come un toro, ma pur sempre un bambino di cinque anni. – Non se ne parla! – replicai, i piedi puntati a terra con tutto il mio peso. – Non te ne andrai adesso. – Suonava quasi come una supplica.
Patetico. Io che supplicavo quel pezzo di merda, dopo tutto ciò che avevo fatto per lui?
Intollerabile. – Perché? Che cosa vuoi ancora? – La sua voce si fece acuta, come se stesse per scoppiare a piangere.
Non smuoveva alcuna pietà dentro di me. – Ancora? – C’erano solo rabbia e sete di sangue, ormai. – Vuoi Reginald morto, no? Proprio come me! Si tratta di provarci insieme o morire da solo, Connor.
– Va’ al diavolo! – ripeté. Continuavo a trattenerlo come una bambola di pezza, tirando per impedirgli di salire le scale. L’avrei ucciso, piuttosto che farlo andare via.
Nella vendetta non c’è posto per i codardi. – Te lo puoi scordare – replicai in un ringhio. – Ho un’offensiva da organizzare, e non ho certo intenzione di aspettare che ti passi quest’umore di merda!
– Vedi? Sei così cieco che non capisci nemmeno come ti stai comportando! – Agitò il braccio così forte da mandarmi a sbattere contro la sedia. Crollai a terra insieme al legno, la seduta affondata di traverso all’altezza delle reni. – Sei un egoista, Haytham! Ti importa solo di te stesso.
– Ipocrita del cazzo – sussurrai, le mani sui fianchi nel banale tentativo di calmare il dolore. – Come puoi dire una cosa del genere se appena provo ad avvicinarmi mi tratti da appestato? Se non mi lasci neanche parlare, se non mi dici niente?
Abbassò gli occhi, i pugni stretti in due masse veloci e letale. – Connor – sussurrai, la mascella contratta e gli occhi lucidi per il dolore. – Rispondi, per favore.
– Fottiti.
– Non serve a niente comportarsi così.
– Fottiti, mi hai sentito? – Fece un passo in avanti con tanto impeto che il cappuccio della giubba gli crollò sulle spalle. I suoi occhi erano umidi almeno quanto i miei. – Andate a fottervi, tu e Charles Lee! – In un altro momento avrei ridacchiato, lo giuro sulla mia vita, ma l’immagine di quella montagna di ragazzo sul punto di scoppiare in lacrime mi paralizzava.
Non sembrava neanche reale. – È colpa vostra! – gridò. – Ho ammazzato il mio migliore amico, ed è soltanto colpa vostra!
Quasi mi vergogno ad ammetterlo, ma la mascella mi cedette all’improvviso, la bocca aperta in una smorfia stupefatta.
Cristo santo.
– Kanen’tò:kon… morto?
Lo vidi avvicinarsi, convinto che mi avrebbe spaccato il cranio in due come una noce solo grazie a quei suoi enormi pugni carnosi. Li abbatté sulla scrivania con uno schianto tale da farmi saltare i denti. – Non pronunciare il suo nome! – sibilò. – Non osare!
Rimasi lì, immobile, a respirare con la bocca aperta.
Cambia discorso, mi suggerì una vocetta nella mia testa. Che diavolo fai? Muoviti. Punta su qualcos’altro, d’accordo? Qualsiasi cosa. Portai inconsciamente la mano alla faccia, grattandomi la guancia irsuta. Era evidente quanto fosse sconvolto, e io con lui. Mio figlio, il ragazzo che teneva alla libertà e sosteneva Washington, che combatteva perché tutti potessero vivere in pace… che faceva fuori il suo migliore amico?
Morivo letteralmente dalla voglia di sapere cosa fosse successo. L’aveva fatto per necessità, perché non riusciva a trovare un altro modo per chiarire le sue idee? Oppure perché avrebbe consegnato il villaggio e la Mela a Charles?
L’aveva fatto per proteggermi? Per salvare il nostro fine ultimo?
Non essere così ottimista, idiota. La mia testa aveva ragione. Mai nella vita Connor avrebbe anteposto qualcosa in cui ero coinvolto al suo villaggio, alla Confraternita o all’Esercito Continentale. Era una questione di principio. Di’ qualcosa, sibilò quel po’ di intelletto che mi era rimasto. Prima che si insospettisca. – D’accordo – sussurrai, forse a lui, forse a quell’assurda vocetta. – Abbiamo bisogno di una strategia. Reginald potrebbe…
Incrociai il suo sguardo appena sollevai il capo, quei pozzi neri e iracondi piantanti nei miei, del tutto privi di buone intenzioni. – Potrebbe? – ringhiò. Giuro, in quell’istante pensai che mi avrebbe ucciso. Non che dovesse sforzarsi molto. Poteva piantarmi la lama celata nel collo, picchiarmi, usare la spada o il tomahawk. Aveva solo l’imbarazzo della scelta, e, stando ai suoi occhi, il modo in cui mi avrebbe mandato nell’aldilà non sembrava poi così rilevante.
Bastava venisse fatto. – Chi ha dovuto sopportare tutte le tue maledette crisi? – sibilò, minaccioso. – Quando hai ucciso Johnson, o quando ce l'avevi con Church, o tutte le volte che litigavi con questo qui, chi doveva starti vicino? – Immagino che con questo qui intendesse Thomas, ma in quel momento non ci badai. Mi tremavano le gambe, la lingua si era fatta secca in bocca. Inarcai d’istinto la schiena, cercando di allontanarmi da lui. – Chi c'era ad aiutarti quando uscivi di testa, eh? Io, Haytham! Soltanto io! – gridò, puntandosi l’indice sul petto. – E ora tu... tu continui, e pensi solo a te stesso! Dopo quello che ho passato!
– Questo è... – Cercai di ritrovare la voce, nascosta nella grande ombra che il terrore proiettava dentro il mio petto. – Questo è un altro discorso. – Non riuscivo nemmeno a convincere me stesso. Aveva ragione. Forse quello non era il modo di affrontare la questione. Mi era sembrato il migliore, sinceramente.
L’unico che potesse salvarmi la vita.  
Connor girò su se stesso, frustrato. – Kanen'tò:kon è morto, e l’ho ucciso io! Non riesci proprio a capire? 
Non so perché lo feci. Reagii d’istinto. Pensai a che cosa avrei voluto io, nella sua situazione. Qualcuno che mi consolasse, e scacciasse quei pensieri dalla mia testa. Avrei voluto sentirmi dire che tutto si sarebbe aggiustato, che la pace poteva trionfare almeno dentro di me. Che non ero pazzo. Che il mondo era fatto anche e soprattutto di scelte sbagliate. Che era un errore cui avrei potuto riparare. Avrei voluto sentirmi dire che potevo sperare ancora, che il mondo non finiva con i miei sbagli.
Speranza. Un concetto da Assassini.
Ecco cos’avrei voluto sentirmi dire, al suo posto.
Ma lui non è te.
Fu quel pensiero a farmi reagire. – Certo! – sbottai. Non voleva sentire scuse, né tantomeno essere abbracciato o altre menate sentimentali.
Lui voleva la verità. Come un Templare.
Diavolo, certo che non era me. Non lo era per niente. – Se… – Girai la lingua in bocca, cercando di prendere quanta più saliva e aria possibile. Con calma. – Se ti fossi preso un minuto in più per parlare invece che sfoderare la spada e menarla a destra e a manca come un idiota forse sarebbe ancora vivo!
Non sapevo neanche se fosse andata esattamente in quel modo. Puntavo sulla mia esperienza. Gli omicidi sono tutti uguali. Non parliamo dei fratricidi, poi. Doveva aver ucciso quel suo amico proprio come io avevo fatto con Ben. Dopo averci parlato. Dopo un fraintendimento.
La solita solfa. Dai tempi della Bibbia, a pensarci. Caino e Abele.
Gli occhi di Connor si sgranarono ancora, colmi di pianto. – Io non intendevo farlo! – abbaiò, il fiato grosso. Il suo ampio petto si alzava e si abbassava velocemente, ma non potevo fare nient’altro. Solo ascoltare. – Io non volevo! È stato... Non volevo ammazzarlo, d'accordo? È successo! E tu dovresti starmi vicino, invece sei sempre il solito stronzo egoista che pensa soltanto a se stesso! A te e a quel maledetto Tempio!
Chinai il capo, nascondendo un sorriso sconsolato. – Tu non vuoi che io ti stia vicino, Connor – sussurrai nel fare un timoroso passo verso di lui. – Perché lo hai fatto? – Una cosa del genere non succedeva semplicemente. Doveva esserci qualcos’altro, in mezzo. – Sono stati loro?
Mio figlio si morse il labbro inferiore, le mani ritorte l’una nell’altra. – Loro…? – domandò con la voce tremante.
– La Prima Civilizzazione – replicai secco.
Affondò il capo nelle mani, scuotendolo in preda ai singhiozzi. – Non lo so. – La sua voce era appena percepibile, soffocata dai grossi palmi. – Lui… Era d’accordo con Lee. Ha detto che i patrioti li avrebbero uccisi, che se si fossero alleati con la Corona la guerra sarebbe finita. – Mi mordicchiai il labbro inferiore, perplesso. Kanen’tò:kon non aveva tutti i torti. Quella lettera era una perfetta dimostrazione delle intenzioni di Washington verso quei territori. Forse Connor era riuscito a fermarlo una volta, ma quattordici anni prima? Quando lui stesso aveva rischiato di morire tra le fiamme? Allora non c’era stato nulla da fare.
Perché continuava ad avere fiducia in Washington?
Al diavolo. Connor poteva anche volere la verità, ma non gli avrei mai detto che la pensavo come quel poveraccio, un ragazzo come lui, ridotto più soltanto a un pezzo di carne abbandonato tra le foglie e il fango.
Chi lo sa? Avrebbe potuto ammazzare anche me, volendo. – Mi dispiace – sussurrai senza un solo movimento. – So che cosa significa perdere un amico. – Strinsi le spalle. Ormai sapevo cosa volesse dire perdere chiunque.
Tranne un figlio. E pregavo silenziosamente che non accadesse mai. – Davvero lo sai? – sibilò il ragazzo, passandosi il dorso della mano sotto gli occhi. – È morto per colpa tua? – C’era così tanta rabbia in lui. Furia e paura, per una volta. Paura di se stesso, di ciò che avrebbe potuto fare.
Paura che succedesse di nuovo.
– Come tutti gli altri – risposi a denti stretti, passandomi una mano tra i capelli. Non c’era uno solo di quei cadaveri che non sentissi sulla coscienza.
Holden, poi, più di tutti gli altri. Smettila. Che cosa stavi dicendo prima? Devi organizzare un strategia, mettere giù un piano. Il resto dopo. Il resto. I rimpianti, il timore, la sensazione che tutto fosse inutile, la stanchezza. La voglia di mollare. Dopo. Certo.
La vendetta prima di qualsiasi altra cosa. – Connor, ascoltami – sussurrai, la mano stretta sulla sua spalla. Avrebbe potuto staccarmela via con un morso, tanto era vicina al suo viso. – Dobbiamo pensare a Reginald, ora. Non c’è nient’altro. Quando lui sarà caduto stringeremo una tregua. Proteggeremo il villaggio, e la Mela. – Sollevò gli occhi, puntandoli nei miei. Non c’era più traccia della fiamma vendicativa che vi avevo colto poco prima.
Era soltanto un ragazzino spaventato e solo. – Sarà tutto vano se Birch resta in vita. Hai capito?
Emise un sospiro sconsolato, scrollando la testa come un vecchio cavallo. – Sì – rispose. – Ve la caverete egregiamente anche senza di me. Ho altro a cui pensare, Haytham. – Affondò le mani nelle tasca mentre il sangue gelava nel mio petto. Cosa? Voleva… Aveva detto davvero quelle parole? Ci stava mollando a tanto così dal nostro scopo? – Sei il Gran Maestro, no? Dovresti essere un esperto pianificatore.
Lo ero. – Connor, non muoverò un dito senza la certezza che verrai con noi – dissi piano, cercando di suonare rassicurante. Proprio perché ero un esperto pianificatore volevo assicurarmi che nessuno avrebbe abbandonato l’opera a metà. – Posso lasciarti il resto della giornata. Domani all’alba partiremo – sussurrai, il volto a due dita dal suo. – O tutti o nessuno. Sei con noi?
La sua mascella s’irrigidì. – Sono contro di lui.
Si staccò la mia mano dalla spalla e risalì le scale, lasciandomi da solo nella stanza segreta degli Assassini. Mi occorse un certo sforzo per chiudere la bocca, rimasta semiaperta nell’espressione basita con cui Connor mi aveva lasciato.
Contro di lui. Contro Reginald, giusto? Mi passai una mano sulla fronte, perplesso. Oh, Dio. Birch era l’unico ostacolo ancora posto tra me e Charles. Tra gli Assassini, i Templari e la pace.
Un orrendo, paralizzante pensiero mi attraversò la mente come quelle maledette scariche di Minerva e Giunone. Peggio. Era un brivido di terrore, ansia e incertezze. Per un lungo istante mi balenò in testa l’idea che Achille sapesse la verità. Che Achille gliel'avesse detta. Lui, o Thomas, o magari aveva incontrato Charles – mi aveva mentito – ed era stato lui stesso a confessarlo.
Niente avrebbe potuto rendermi più vulnerabile ai suoi occhi. Erano mesi che cercavo di rendermi invincibile. Prima con Benjamin, ora con Reginald, ma il concetto era lo stesso.
Nessuno doveva essere in grado di fermarmi.
E lui non doveva sapere quanto fragile fosse quel maledetto castello di carte.
Lo seguii su per le scale con il fiato corto. Sapevo cosa fare. Niente di che. Dovevo solo prenderlo da parte e chiedergli che cosa sapesse esattamente su Reginald, sul mio rapporto con lui. Su Charles Lee. Avrei preteso la più totale sincerità tra noi.
Da parte sua, ovvero. Per quanto riguardava me, Connor sapeva tutto ciò di cui poteva aver bisogno. Gli avevo nascosto qualcosa, d’accordo, ma solo per il suo bene. Niente che cambiasse la nostra situazione.
Mi schiarii la gola e spinsi il pannello che nascondeva l’ingresso della stanza segreta a chiunque non sapesse della sua presenza. Ero pronto ad ascoltare la verità, per quanto facesse male. Anche da parte sua. Erano cose realmente accadute, no? Nessuno avrebbe potuto cambiarlo.
– Connor, io…
Tutta l’aria mi uscì dal petto in uno sbuffo rumoroso, insieme alla porta d'ingresso che veniva sbattuta.
Se n’era andato a riflettere, lasciandomi lì ad articolare un piano per un’azione che, a voler essere onesti, mi spaventava più del solito.
Non mi aveva nemmeno dato la Mela.
Presi fiato. Ero il pianificatore del gruppo. Gran Maestro dell’Ordine Templare. Avevo ucciso Edward Braddock, Benjamin Church, ed ero quasi riuscito a far fuori George Washington.
Inspirai un’altra volta, poi mi diressi in cucina a testa bassa.
Diciamo che, col senno di poi, non erano gli esempi più incoraggianti del mondo, ecco. 

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Capitolo 59
*** Persona informata sui fatti. ***


 
– Allora?
Trovai Thomas seduto sui gradini di casa, intento a fissare con quei suoi occhietti lascivi una donna che stendeva i panni. Non mi sembrava di averla mai vista alla tenuta: alta e slanciata, pelle scura e capelli avvolti in uno strano turbante dai colori vivaci, arrotolato sopra la testa. Tom schioccò la lingua, gli occhi puntati sul suo fondoschiena, e si passò rumorosamente la lingua sulle labbra.
Era così bello vedere come certe cose non cambiassero mai. – In che senso, “allora”? – domandai, distratto. Il mio sguardo finì per seguire quello di Thomas. Il mio ultimo rapporto con una donna era finito tra le fiamme del Grande Incendio di New York, ma niente mi vietava una sana scopata occasionale.
Tirò fuori la pipa dalla tasca della giacca con sorrisetto. – È sposata – brontolò. Oh. Peccato. Sembrava anche decisamente più giovane di me. – Dai, siediti – disse, battendo il palmo sul legno dei gradini, accanto a sé. – Che ha detto il bastardo?
Mi strinsi nelle spalle. – Ha ammazzato un suo amico. Uno del villaggio.
– Sono fottutamente dispiaciuto – sibilò con la pipa tra le labbra, le mani affondate nelle tasche alla ricerca di un fiammifero. – Era giù?
– Parecchio. – E io tremavo al solo pensiero.
Thomas si batté le mani sulle cosce. – Ti stai cagando addosso, eh? – Si era sfilato la pipa di bocca, e ora mi guardava con un misto di sfida e compassione negli occhi.
Insopportabile. E, al tempo stesso, era l’unica persona con cui riuscissi a essere sincero. – Ci hai pensato? – sussurrai mentre gli passavo un cerino. – Potrebbe tornare qui e dire… Dire che non vuole più ammazzare Reginald. Che mi vuole morto e non mi darà la Mela neanche se lo pregassi in ginocchio. – Affondai il capo tra le mani. – Che cosa faremmo, Tom?
– Non ha motivo di agire così – brontolò, intento a respirare una grossa boccata di fumo. – Perché preoccuparsi?
– Perché sono esausto – ammisi. – Ne ho abbastanza di combattere con lui, con Achille e con Reginald. Con la Prima Civilizzazione.
Aggrottò la fronte. – Chi?
– Sono… – Agitai una mano. Non volevo neanche pensarci. – Coloro che Vennero Prima. I costruttori effettivi del Grande Tempio. Spiriti, oggigiorno. – Mi picchiai la tempia con l’indice e presi fiato. Occhio, Tom, adesso viene il bello. – Ce li ho in testa, sai? Mi parlano.
Thomas Hickey sogghignò. – Per davvero?
Avevo solo la forza di annuire. Non chiedermi nulla. Per piacere. – Dev’essere… strano – grugnì mentre tirava nuovamente il tabacco nei polmoni. – Capo, il bastardo tiene a te.
– Metterà sempre gli Assassini prima – replicai tra i denti sbarrati. Proprio come facevo io, no?
– Ah, questo è sicuro. Però, credimi, non ti lascerà solo.
– Non sono solo, Tom. – Sollevai un istante gli occhi. Cercavo i suoi. – Ci sei tu, giusto?
Quando si voltò, la sua bocca era mollemente aperta nell’espressione più stranita che gli avessi mai visto addosso. – Diavolo! – Emise un lungo fischio tra i denti, poi scoppiò a ridere come un ragazzino alla sua prima visita in un bordello. Cristo, per una volta che volevo essere serio. – Oh, Gran Maestro, le vostre parole mi lusingano! – sussurrò tra un sussulto e l’altra, una mano sul cuore, la pipa stretta tra due dita, e l’altra al cavallo dei pantaloni. – Davvero, io… Porca merda!
Diede un botta sul gradino col palmo della mano e mi si abbandonò addosso, la testa sulla mia spalla, senza riuscire a smettere di ridere. Dalla bocca gli usciva un latrato acuto, e lì per lì pensai che il demonio dovesse avere una risata simile. – Gesù – sussurrai con un sorriso forzato in viso. La donna scura che stendeva i panni si era voltata verso di noi, guardandoci come fossimo pazzi. Le rivolsi un cenno cortese con la mano. Fossi stato dell’umore giusto e senza quell’idiota di Thomas in mezzo ai piedi avrei anche potuto convincerla a seguirmi fin dentro la villa per un lavoretto.
Sospirai. La realtà continuava a deludere le mie aspettative. Che potevo farci?
Clic. La lama celata scattò fuori dalla polsiera, la punta premuta contro il petto tremante di Tom. – Piantala – ringhiai. Probabilmente l’occhiata omicida che gli lanciai fu abbastanza per farlo smettere di ridere come l’ebbro bastardo che era. – Cristo, Tom, parlavo sul serio – brontolai mentre mi scostavo. La lama degli Assassini tornò al suo posto con un cigolio fastidioso. – Chi è rimasto dell’Ordine, qui? Io e te. Nessun altro.
Si passò una mano sotto gli occhi e vuotò la pipa a terra. Quanto tabacco sprecato. Cazzone. – Forse il vero Ordine è quello di Reginald, e gli impostori siamo noi – disse noncurante. – T’immagini?
– No – replicai secco. – Ultimamente penso solo a rimanere vivo.
Ghignò. – La più saggia delle mosse. – Mi rivolse un sorrisetto, strofinandosi i palmi sui calzoni di tela ruvida. – Davvero, capo, mi sopravvaluti.
Scossi piano la testa. Era ancora al mio fianco. Chiunque lo fosse non era affatto sopravvalutato, non ai miei occhi, quantomeno. – Quando io e te siamo insieme ammazziamo, andiamo a puttane, parliamo di puttane. – Fece un sorrisetto malizioso. – Non esattamente ciò di cui ti occupavi con Birch, eh?
Sollevai lo sguardo al cielo terso della Frontiera. – Ti piacerebbe sperimentarlo?
– In un posto più intimo, magari – rispose Tom, sporgendo il labbro inferiore.
Gli mollai uno scappellotto senza neanche guardarlo. – Idiota. – In quello stava la sua forza. Riusciva a farmi sorridere, a farmi reagire. Era l’unico che se ne fregasse altamente di tutto quello che avevo subito e parlasse solo perché poteva. Perché aveva l’aria per farlo. Finché era vivo avrebbe continuato a sputarmi in faccia la verità, su qualsiasi cosa.
Mi tornò in mente la mia conversazione con Connor, a Valley Forge, e un rigurgito acido risalì l’esofago insieme ai ricordi. – Tom. – Costrinsi quel getto di merda a tornarsene da dove era venuto, le labbra strette. – So che sei dalla mia parte. – D’istinto le dita corsero alla cicatrice sul braccio, quella lasciata dal nostro vecchio patto di sangue.
Erano passati anni. Ah, Cristo. – Posso chiederti una cosa? – grugnii, lo sguardo perso tra gli alberi di fronte a me. Avevo paura di voltarmi nella sua direzione. Di scorgere qualcosa che non avrei voluto vedere. Avevo deciso di fidarmi di lui, senza nessun vincolo. Che così fosse, dunque.
Emise un grugnito che poteva significare qualsiasi cosa. ‘Fanculo. Tanto il Gran Maestro ero io, no?
Non cantare vittoria.
Ah, zitto. – Perché l'hai fatto? – Davanti alla sua espressione perplessa inalai una grossa boccata d’aria. Devi sempre rendermi le cose difficili, eh, Tom? – Perché nonostante Reginald non ti piacesse ti sei messo al suo servizio per accopparmi?
Thomas Hickey sospirò, le braccia incrociate dietro la testa. Fissava la Frontiera, seguendo l’esempio del sottoscritto, come se non esistesse vista migliore al mondo.
Io ne conoscevo un paio. Quella di me stesso a capo dell’Ordine, per esempio. Il cadavere di Reginald ai miei piedi, nel Tempio. – Te l’ho detto – mugugnò a un tratto, facendomi sussultare. –  A me piaceva l'Ordine. Far parte di un gruppo di persone che hanno il tuo stesso scopo, con cui puoi parlare. Era… interessante.
Sogghignai. – Diciamo che pagavo bene. E c'erano molti più pro che contro. – Avevamo una discreta forza numerica dalla nostra parte, l’addestramento dei Templari, armi e soldi a non finire.
Allora credevo che nessuno avrebbe potuto fermarci.
Quanto mi sbagliavo. – Già – rispose Hickey con un sorrisino, – ma poi te ne sei andato senza dire niente a nessuno. Siamo rimasti soli. – Sbuffai ancora. Immagino quanto si fosse divertito in quel periodo, senza che gli ordinassi cosa fare, con la possibilità di andare a puttane quanto voleva e in qualsiasi momento. Doveva essere stato il periodo in cui l’idea dei soldi falsi aveva preso piede nella sua testolina da criminale. – Ero deluso, sai? – Stronzate. Povero, ecco cos’era. Sicuro. Quindi aveva deciso di arrangiarsi. Bravo, ragazzo. Lui sì che aveva capito la filosofia templare. – Quand'é arrivato Reginald ci siamo tirati su. Pensavo avrei avuto di nuovo uno scopo. Così l'ho accontentato. Se un capo nuovo sostituisce quello vecchio non farà gli stessi errori, giusto?
Sogghignai. Intendeva dire che Reginald avrebbe continuato a pagarli? Sicuro. Per un po’. Quando fosse riuscito a uccidermi… Be’, sapevamo entrambi che cosa aveva combinato.
Dovetti ammettere, almeno con me stesso, che prendere Charles come ostaggio, adepto o comunque si potesse definire era stata una mossa geniale. Vecchio bastardo. – E poi? – Lo chiesi per puro piacere personale. Una parte di me moriva dalla voglia di sentire Thomas Hickey ammettere i propri sbagli.
– Poi un cazzo di niente. Dopo che gli Assassini ti hanno portato via, le cose sono ricominciate da capo. Reginald se n'é andato e noi siamo rimasti soli. – Sputò un grumo di saliva biancastra e catarro nel prato davanti casa. – Ognuno per i cazzi suoi, con i propri affari da sbrigare.
Strinsi i pugni. Aveva saltato un punto. Era la prova di quanto la considerasse importante. Quella promessa del non ammazzare nessuno… Siamo onesti, non sarebbe mai riuscito a mantenerla. Bastava guardarlo per capire che razza di persona fosse in realtà. Uno stronzo sanguinario come pochi altri al mondo. – Non prima di aver ucciso Tiio, giusto?
Ci voltammo, guardandoci l’un l’altro nel medesimo istante. Nei suoi occhi brillava una scintilla gelida. La schiettezza. Una cosa mi era sempre piaciuta di Thomas Hickey.
Non aveva mai avuto paura di me. Diceva la verità, da bravo Templare. Da ottimo amico. E io non volevo nient’altro. Basta con le bugie. Mi ero tappato gli occhi per troppo tempo. Davanti a Reginald. Davanti a mio padre. Aveva ragione, sapete? Essere un Gran Maestro significava prendersi le proprie responsabilità. L’età per le bugie, per il sangue coperto con un letto di petali di rosa e innocenza, era passato da un po’.
Ora, la realtà. Proprio per com’era andata. – Chi? – sibilò, le sopracciglia sollevate in una folle espressione interrogativa.
Non stessi parlando di lei avrei anche potuto sorridere. – La donna Mohawk. La madre di Connor. – Come se parlarne in quel modo la rendesse più distante, più morta. Era un oltraggio a lei, alla sua intelligenza e alla sua memoria. Allora perché sembrava far meno male? – É vero che l'hai stuprata, Tom?  

– Uh. Lei. – Già. Lei.
Sollevò le mani in segno di resa. È andata così. – Mi dispiace, d'accordo? – Strano. Pensavo facesse più male. Che riaprire quella vecchia ferita di mia volontà potesse uccidermi. Invece no. C’era solo il caldo. Un bizzarro prurito in mezzo al petto, tra i peli, come uno sfogo. – Credevo che se avessi fatto quello che diceva Reginald saremmo rimasti uniti. E poi, probabilmente ero ubriaco.
Mi morsi le labbra, cercando le parole giuste. Davvero era quella la sua unica scusante?
Ci pensai un attimo. Giunsi alla conclusione che non fosse nemmeno troppo ignobile. Aveva solo obbedito a un ordine, sperando che avrebbe tenuto in piedi i Templari.
Magari bastasse scopare per aggiustare queste cose. – Quindi… – Non riuscii a trattenere il tono inasprito. Stava… stava parlando di Tiio. Era normale, credo. –  …hai violentato la madre di mio figlio perché avevi paura di rimanere solo? – Avevo alzato gradualmente la voce, lo sguardo che lanciava fiamme. Ah, Gesù, controllati. Non vorrai mica ammazzare pure lui, no? – Perché l'hai fatto?
Il suo sguardo non tentennò, nemmeno per un istante. Come potevo ucciderlo, eh? Non era per niente sopravvalutato. A una prima occhiata poteva sembrare soltanto uno stronzetto con la testa gonfia di alcool e sesso, ma dietro l’apparenza c’era molto di più.
Era l’uomo più coraggioso che mi fosse rimasto accanto. Per quanto mi dispiacesse, per quanto gli volessi bene, di Charles non potevo essere certo. Le mie speranze del cazzo non valevano proprio niente.
I muscoli della sua mascella si tesero, ferrei. – Ti ho già detto che ero ubriaco, Kenway. Lo sai, no? – Fece un sorrisetto, uno dei suoi classici ghigni da bastardo. Fatto sta che non avevo bisogno di nient’altro.
Quando hai la mente così piena di peccati, paura e confusione c’è un solo una persona che può tirarti su. Un bastardo peggio di te. – Da sbronzo faccio sesso anche con i comodini. Sii comprensivo, capo. Manco fossi stato l'unico. – Abbassò la voce, i gomiti puntati sulle ginocchia e l’aria da bambino disobbediente. – Pure Charles le ha fatto un gran bel servizio.
Strabuzzai gli occhi. Oh, merda. – Lee?
– E chi altro? L’ho visto, sai? Era lì,  a letto con la tua donna. E si dava da fare, Charlie. – Ridacchiò amaramente. – Ma immagino che a lui lo perdonerai perché é Charles, giusto?
No, no, un attimo. Cosa?
Charles? Charles aveva violentato… Tiio? La mia Tiio, la donna che avevo amato con tutto me stesso? La madre di mio figlio? Mio figlio… Come aveva potuto? Era sempre stato così schivo, quando si parlava di sesso. Forse pensava che Reginald avrebbe smesso di divertirsi con lui vedendo come se la fottesse.
Oh, Cristo. Era proprio quello il problema. Si parlava di Tiio. La mia Tiio. Non era una puttana qualsiasi. Era la voce della coscienza che mi tormentava quando ero nel torto, era nei tratti severi di Connor, era nell’aria della Frontiera. Era in me, quando mi sentivo solo.
Mi aveva quasi fatto impiccare, Tiio. Era stata presa come esca dai Templari, e tutto grazie a Washington. E Charles… Non gli era bastato farla scopare da Tom. Hickey aveva torto. Perdonare una cosa simile a lui era molto più difficile. Sapevo benissimo che Thomas, potendo, si sarebbe scopato anche la propria branda.
Da lui non mi sarei mai aspettato una cosa del genere. Era sempre stato dalla mia parte. Come poteva fare una cosa simile a Tiio? Era stato l’unico davvero al corrente del mio rapporto con lei, prima ancora che finisse. C’era un solo motivo per cui poteva volerla ferire.
Per colpire me.
Come Tom.
Lo avevo lasciato solo, in balia di un uomo che probabilmente aveva già iniziato a scoparlo come un vecchio tappeto.
Un padre non fa queste cose.
Strinsi i pugni, le nocche bianche e le unghie affondate nella carne. Ah, Dio.
 E Reginald. La colpa era tutta sua. Solo sua. Mi aveva allontanato dall’Ordine con un pretesto cui non avrei potuto dire di no e se l’era preso, infamandomi. Me li aveva messi contro. Un fratello dopo l’altro. Forse pensava fossi tanto stupido ed orgoglioso da ripudiare Thomas e Charles perché avevano violentato l'unica donna che avessi mai amato davvero.
Si sbagliava di grosso.
Così come Charles e Thomas avrebbero fatto qualsiasi cosa per danneggiarmi, per essermi allontanato e averli abbandonati – aver abbandonato l’Ordine – quando più avevano bisogno di me, io avrei venduto la mia anima agli Assassini pur di vedere quel vecchio pezzo di merda andare all’altro mondo. Come aveva detto Connor, i vecchi rancori possono essere messi da parte per qualcosa di più grande.
Era giunto il momento di farlo. Di mettere da parte i morti e concentrarsi su chi ancora era vivo. Chi, di lì a poco, non lo sarebbe stato più. – Considerati perdonato, Thomas. – Non avevo intenzione di spiegargli le mie teorie. Poteva essere un figlio di puttana sempre a caccia di sesso e sbronze, ma era anche abbastanza sveglio da arrivarci. – A una sola condizione. – Portai di nuovo le dita alla vecchia cicatrice.
Quella sì che bruciava, cazzo. Sembrava che un grosso chiodo volesse riaprirla dall’interno, facendomi grondare sangue sul terreno immacolato degli Assassini. – Posso fidarmi di te?
Sorrise. – Senza alcun dubbio, capo.  
Il mio sguardo e la mia voce si fecero duri. La mia non era una scelta, cazzo. William Johnson, John Pitcairn, Benjamin Church: Reginald era riuscito a portarmi via metà dell’Ordine. La mia unica possibilità era quell’ubriacone. Ci eravamo salvati a vicenda. Non c’era praticamente nulla che non sapesse di me. Era l’unico uomo su cui potessi contare, senza alternative. La mia unica possibilità.
Ma, conoscendola, la vita poteva darmene di peggiori.
Mi passai una mano tra i capelli, le gambe tese di fronte a me, oltre i gradini. – Allora rispondimi – sussurrai tra i denti stretti. Forza. Me lo devi, no? Voglio sentirtelo dire. – Chi le ha dato il colpo di grazia?
Tom sbadigliò, come se stuprare e ammazzare una donna facesse parte della sua tipica giornata di lavoro. – Charles l'ha sgozzata.
Annuii, ma non riuscii a fermare la mia immaginazione. Charles. Di nuovo. Le immagini erano così forti nella mia mente, così veloci. Non lui. Chiunque altro, davvero, ma non lui.
Doveva essere una bugia. – Ha detto che sei stato tu ad ucciderla. – Pronunciare quelle poche parole mi provocò una forte fitta all’altezza del cuore, come fossi a un passo dalla morte.
Thomas fece spallucce, lanciandomi un’occhiata divertita. – E tu gli credi, non è così? – Ridacchiò piano.
Sai, Thomas le ha dato una ripassata prima di tagliarle la gola. Le sue parole risuonavano ancora nella mia mente, un’eco distante e dolorosa. – Ti fidi più di lui che di me! Gesù, non può essere. – Si passò una mano sulla fronte, ridacchiando. – Sai che non l’avrei mai fatto, Haytham. Lo sai. Io non sono quel tipo di persona.
Non era quel tipo di persona? Lui? Perdio, aveva impiccato un bambino. Come poteva dirmi di non essere quel tipo di persona? Negli anni lo avevo visto ammazzare così tanta gente da non avere nemmeno il coraggio di tenere un conto, aveva agito senza nessuna remora né rimpianti. Era l’unico, nel gruppo, a guardare le cose in faccia qualunque fosse il loro aspetto. Non si era mai tirato indietro davanti alla violenza. Che uomo pensava di essere, di grazia?
Non era un santo. Nessuno di noi lo era. Peccato che lo conoscessi abbastanza bene da non stupirmi quando mi veniva detta una cosa del genere. Thomas Hickey che ammazza qualcuno? Nessun problema. Quando aveva detto di non voler più uccidere, ecco, lì sì che parte delle mie convinzioni era rovinosamente crollata su se stessa. Per poi essere smentita da Connor, mentre attraversavamo Valley Forge alla ricerca di Washington.
Gesù. Era tutto così complicato, così… strano.  
Tenevo gli occhi fissi davanti a me, torcendomi le mani. – E l’hai violentata? – chiesi, i canini a torturare il labbro. – L’hai fatto davvero?
Allargò le braccia, come se le mie supposizioni lo stupissero. Charles era il mio pupillo. Una mia creatura. Lui… Lui era diverso. E io avevo un fottuto bisogno di certezze. – Dio! – Mi lanciò un’occhiata colma di disprezzo e schioccò la lingua contro il palato. – Vuoi che ti dica la verità? L’ho fatto. E mi dispiace che sia successo, capo, dico sul serio, ma ero sbronzo. – Sospirò. – Una cazzo di spugna. Reginald mi ha fatto ubriacare, ha continuato a ripetere che ci avevi abbandonati, che volevi distruggere l’Ordine, che saresti tornato con gli Assassini per ucciderci tutti… Non lo sto dicendo per giustificarmi, eh. – Sollevò i palmi con quel suo fottuto sorrisetto sarcastico spalmato sul viso. Era la verità, o almeno, lo speravo. Ne avevo abbastanza di dubitare sempre di tutti. Volevo potermi fidare di qualcuno. E che ragioni aveva Thomas di mentirmi?
Nessuna. Era solo… Solo troppo difficile da accettare, ecco. Charles che ammazzava la mia donna?
Oh, Dio. Non era nemmeno così poco plausibile. Chi avevo cercato per primo, tornato da Damasco? Io l’avevo abbandonato a se stesso, a Reginald. Si trattava di una vendetta. Un dispettuccio da bambini di cinque anni.
Come a dire che mi stava bene. Avevo scelto la mia strada, giusto? Ecco che cosa ne avrei tratto.
Reginald, figlio di troia. Soltanto lui poteva aver messo un’idea del genere nella testa di Lee. Charles non era così. Non lo era affatto. Io… Io lo conoscevo, diavolo. Forse considerava Tiio una distrazione al fine dell’Ordine, ma da lì a ucciderla c’era un divario enorme. Non avrebbe mai, mai architettato il suo omicidio tutto da solo. – So che lo credi, Haytham – disse Thomas sbuffando. – A me dispiace di averlo fatto. Ti chiedo scusa, perché non avrei dovuto. Hai ragione, cazzo: Reginald Birch è persuasivo. Molto persuasivo. Che posso farci, arrivato a questo punto? – Si ravviò i capelli tra le dita. – Ma se c’è qualcosa per cui sono profondamente dispiaciuto, una cosa che mi fa venir voglia di vomitare, è la tua fiducia in Charles. A prescindere da cosa chiunque altro possa dire, continuerai a fidarti di lui. È un bravo ragazzo, in fondo, e avete qualche… esperienza in comune. Lo capisco. So che vuoi salvarlo. – Abbassò la voce, appoggiando le mani sui gradini di legno chiaro. – Ma non pensare mai, mai, nemmeno per un secondo che Reginald non sia riuscito a corromperlo. Che sia rimasto puro nell’animo come un agnellino. – Sospirò. – Haytham, è stato lui a sgozzarla. Non io. – Alzò le mani. Non riuscivo a smettere di battere le palpebre per lo stupore, lo sguardo vitreo. – Ora, a te. Credi ciò che vuoi. – Scostò l’orlo del cappotto per mostrarmi la cicatrice sul polso. Avevo capito. Avevo messo insieme i pezzi di quel rompicapo per dar forma alla peggiore di tutte le ipotesi. – Io ho detto la verità.
Era stato lui. Tutto ciò che avevo sempre creduto… Charles Lee aveva ucciso Tiio. Non Reginald. Non Thomas. Charles. Perché Birch sapeva che avrei lottato per tenerlo in vita. Sperava che l’avrei lasciato andare, nemmeno dopo una cosa del genere.
Non riuscivo a capacitarmi di che cosa avesse fatto, di come si fosse comportato. Era diventato la marionetta del Gran Maestro, il suo giocattolo in tutto e per tutto. Il Charles Lee che mi aveva salvato la pelle da George Washington e mi aveva permesso di uccidere Edward Braddock, quello che mi chiamava sempre “signore” e prendeva ogni mia parola come una verità rivelata da Dio non avrebbe mai nemmeno pensato di fare una cosa del genere.
Oh, ma che importava? Le parole di Thomas stavano prendendo il sopravvento su di me, la testa mi bruciava e le immagini si susseguivano l’una con l’altra, come lampi di fuoco dietro le orbite. Sembrava che mi stessero affondando un chiodo arroventato dentro la testa, e a ogni colpo di martello una di quelle terrificanti visioni faceva capolino davanti ai miei occhi. Eccola in una pozza di sangue, un sottile taglio da orecchio a orecchio, i capelli macchiati di rosso, gli occhi scuri ancora aperti, fissi, fieri, e magari anche una macchia vermiglia in mezzo alle gambe aperte, a deturpare l’abito nativo che indossava anche al nostro ultimo incontro e mi aveva affascinato così tanto.
Trassi un breve respiro, i pugni serrati così forte da far male. Charles non ammazzava le donne.
Il chiodo andò più in profondità. Uno squarcio slabbrato e scomposto sul collo aperto, questa volta. Un’altra Tiio, completamente nuda su uno dei materassi sudici del Green Dragon. Thomas che rideva, appoggiato alla cornice della porta. Un ubriacone che cantava dal piano di sotto, forse Benjamin, o John.
Ma Charles non l’aveva ammazzata per ciò che era.
Di nuovo, stesa inerme sotto Tom Hickey, lui che la cavalcava ridendo e Charles che affondava un pugnale tra i suoi seni, proprio nel cuore. Colpiva e gridava, gridava, gridava, e Thomas non si fermava mai.
L’aveva uccisa per me. Per il suo legame con me.
–  Che figlio di puttana.
Hickey ridacchiò, riportandomi alla realtà. – Non hai detto che lo perdonavi?  
– Birch – grugnii soltanto. Mi tirai in piedi e presi fiato, la mano destra poggiata sul pomello della porta. – Ho giurato che gliel'avrei fatta pagare. Questo… – Non riuscivo nemmeno a parlarne, Cristo santo. – Questo non cambia niente. – Anzi, chiariva una posizione.
Tom si alzò dietro di me e si strofinò i palmi sporchi di terra e tabacco sulla giacca. – Mi dispiace, Haytham – sussurrò, la mano poggiata sulla mia spalla. – È andata com’è andata.
Credevo che in un momento come quello mi sarei messo a pensare cose orrende. Su Charles. Su Thomas, soprattutto. Il sanguinario che se l’era scopata e ora mi chiedeva scusa. Poteva essere lecito rammentare chi avessi davvero davanti. C’erano così tante cose cattive in quell’uomo. Il fatto che fosse un mercenario della peggior specie perché era rimasto dalla parte di Reginald solo finché gli aveva fatto comodo, finché io non ero tornato chiedendogli un patto di sangue e delle informazioni, o che fosse un gran figlio di puttana perché aveva violentato la mia donna, la mia Tiio.
Non che fosse il solo, eh. Nessuno, all’interno dell’Ordine, poteva considerarsi una brava persona. Neanche Benjamin, con i suoi propositi per salvare le Colonie da Washington.
Non furono quelli i pensieri che giunsero alla mia testa. Ne avevo abbastanza di prendermela con gli altri, specie quando sapevo di chi fosse la vera responsabilità.
Come vorrei che fossi morto, Reginald. Come lo vorrei. Mi schiarii la voce, temendo di singhiozzare da un momento all’altro. – La sai una cosa, Tom? – Perdio, stavo tremando, la voce ridotta a un sussurro. – Io non volevo questo. Non volevo niente di tutto questo. Non volevo che lei morisse. Non l’ho mai voluto, per nessuno di loro. Non volevo questo – sussurrai agitando il moncherino dell’anulare. – Non volevo tutto il sangue che è stato sparso. – Non volevo che Reginald mi violentasse, o che lo facesse con Charles, e non avrei mai voluto vedere mio padre morire. Non volevo quella guerra, né quella situazione. C’erano così tante cose che avrei potuto evitare. La rabbia di Achille, le accuse infamanti degli Assassini su qualunque cosa facessimo. Potevo evitare la morte di London, e quella di Alice, e quella di Kanen’tò:kon. Perché non l’avevo fatto, allora? Perché?
Mi era mancato il coraggio, forse. E la concentrazione. E la volontà.
Le stesse cose che mi mancavano in quel momento per dirlo a Thomas Hickey. – Quando sono venuto qui dall’Inghilterra volevo soltanto la pace. La pace in questa terra. – Scrollai il capo in un cenno sconsolato. – Dentro di me. Sei in pace seguendomi in un’impresa del genere, Tom?
Mi guardò con un sorriso sornione sul volto e tirò un pigro calcio all’erba. – Tu sei in pace compiendola, Haytham?
Avevo la risposta, senza nemmeno pensarci.
No. Non lo ero e non lo sarei mai stato, semplicemente perché non ero fatto per quell’obiettivo. Ero un Kenway. Buona parte delle persone a me care era caduta per colpa mia. Non sarei mai stato in pace compiendo alcunché, ma la sola idea del cadavere di Reginald steso ai miei piedi, grondante sangue, il petto aperto in modo che soffrisse il più possibile, dissanguando fino all’ultima goccia, era sufficiente a calmarmi.
Quella non era pace. Soltanto… quiete. La pace non esiste. È una stronzata che si sono inventati gli uomini per convincere la gente comune che ci sia qualcosa oltre la guerra.
È sbagliato. La guerra non molla mai la presa. Ti resta dentro, incassata nel petto, è impossibile da fermare, cresce e vive di vita propria, ti ingloba. La guerra non è fatta solo di cannoni, spade e morti. È dentro ognuno di noi, nei nostri dubbi e nelle nostre paure.
Nelle mie, quantomeno. Ecco per cosa ero fatto. Non c’era niente che mi calzasse meglio dell’arte bellica. – Lo sarò – dissi piano a Thomas. – Se non in pace, più tranquillo.
Hickey sbuffò. – La pace non esiste.
Sgranai gli occhi.
Oh, Dio. Non era la mia unica possibilità. Era solo la migliore che la vita potesse offrirmi.
Sul suo volto si disegnò un sorriso sereno. – Non è ciò di cui ho bisogno per stare bene. Mi basta qualcuno che mi dica cosa fare. Insomma, guardami. Sono un puttaniere, un ubriacone. Un cane della peggior specie. Solo il branco mi fa andare avanti, Kenway. – Appoggiò la schiena a una delle colonne in legno bianco che ornavano il portico. – Sapere che c’è una preda, e poi un’altra, e un’altra ancora. Uno scopo.
Mi passò accanto, battendo una pacca sulla mia spalla, e aprì la porta con una lieve spinta. – Ecco cos’è per me la tua fottuta pace.
Sparì nella villa, i passi pesanti che si perdevano tra la polvere e la tappezzeria di scarso valore. Gesù Cristo, Tom. Rimasi un attimo fuori, da solo, a riflettere su ciò che mi aveva appena detto. Uno scopo, queste erano state le sue parole.
Serrai i denti. Mi sarebbe piaciuto avere un’idea altrettanto profonda della vita, dell’Ordine e della nostra amicizia, ma la verità era un’altra storia. Thomas poteva anche pensare che fossi Dio sceso in terra, mi bastava fosse con me. Secondo lui avrei ridato un fine ai Templari? Nessun problema, anche due. Doveva solo rimanere lì, dietro di me sulla corda che portava a Reginald, e non lasciarmi cadere.
Nessuno sapeva dove finisse il baratro. Di certo non sarebbe stato piacevole.
Presi un respiro, l’aria calda e umida sulla lingua.
C’era ancora una persona che non avevo sentito parlare, l’unica di cui mi mancasse il parere. Prendetemi per stupido, ma dentro di me sentivo il bisogno di essere supportato in quell’impresa. Sapere che stavo facendo la cosa giusta. Thomas Hickey poteva smettere di darmi consigli sulla strada da seguire, ma nessun altro aveva stretto quel patetico giuramento con se stesso.
Tentennai sulla soglia, riempiendomi i polmoni con tutto il coraggio che riuscii a scovare dentro di me – ciò che era rimasto da mio padre e mia madre, le persone più forti che avessi mai conosciuto – e presi le scale, saltando i gradini a due a due senza nemmeno preoccuparmi di dove si fosse cacciato Thomas. In cucina a bere? In sala da pranzo, accasciato su una poltrona mentre si faceva una sega? Non mi interessava.
L’unica cosa cui avrei prestato attenzione sarebbero state le parole del vecchio bastardo che aveva cercato di ucciderci entrambi, diversi mesi prima.
Parole. Colpi di tosse, forse.
Feci un sorrisetto.
Ero così vicino alla vendetta da sentirla premere dentro il mio petto. Si agitava per uscire fuori e prendere possesso di me come un demone. Piano, piano. Ancora poco, mia cara. Ancora poco.
Gonfiai il petto senza neanche rendermene conto. Quello era il mio momento. Nessuno avrebbe potuto fermarmi.
Nessuno.
Illuso di merda.

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Capitolo 60
*** Il peso del sapere. ***


I'm evil, evil, evil as can be.
– Elvis Presley, Trouble.

 

– Uh?
– Ben svegliato. – Scostai i piedi dal comodino, rischiando di buttare giù le decine di ninnoli che vi erano appoggiate. La stanza di Achille era forse la più disordinata di tutta la villa, ma anche la più vissuta. A parte quell’aquila terrificate impagliata sulla cassettiera, c’erano ritratti e oggetti antichi da tutte le parti. Un orologio da taschino che doveva valere almeno cinquanta sterline, mucchi di vecchie monete, lettere. Un sacco di lettere. Sopra il suo letto, poi, era appeso un vecchio ritratto di famiglia. Sicuramente lui, la mogliettina e il figlio.
E poi mi stupivo che fosse sempre così triste. Non gli era rimasto nulla, per la miseria. Aveva Connor, certo, ma nient’altro. Perfino la sua salute aveva preferito prendere il largo.
Mi sentivo come se camminassi a mezzo metro da terra. Appena mio figlio fosse tornato saremmo partiti alla volta del Tempio, tutti e tre. A ‘fanculo la strategia, ci saremmo organizzati strada facendo. Non avevamo un esercito. L’effetto sorpresa sarebbe stato sufficiente, poco ma sicuro. – Kenway? – sussurrò Achille. Sembrava faticasse anche solo a separare le labbra. – Che cosa…?
Feci spallucce, anche se non sapevo bene cosa volesse intendere. Poteva star per dire qualsiasi cosa. – Non preoccuparti per me. – Già. Doveva solo annuire. “Certo, Haytham, il tuo piano è perfetto. Salverai l’Ordine. Vorrei fossi mio figlio.” Cazzate di questo genere. Qualunque cosa, davvero. A essere onesto, sapevo perché avessi così tanto bisogno di essere sostenuto in quell’impresa.    
Mi mancavano i Templari. Lo scambio di opinione che, in sei, riuscivamo a mettere in piedi, additandoci e strepitando l’uno contro l’altro. Se fossi riuscito a convincere non solo Thomas, ma Connor, Achille, perfino, significava che forse non ero del tutto da buttare. C’era ancora qualcosa di buono nella mia testa.
Ecco cosa chiedevo. – Allora, come stai? – Domanda del cazzo, ma non mi sembrava il caso di aprire la nostra conversazione con i miei propositi sull’ammazzare Reginald.
Sollevò lentamente le palpebre, come se anche quel movimento richiedesse uno sforzo sovrumano. – Sono stato meglio – sibilò, le dita artritiche strette sulla coperta che io stesso gli avevo gettato addosso. Era il ritratto della sua Confraternita. Un mondo in rovina, che collassava su se stesso mentre noialtri ci preparavo alla nostra piccola guerra civile. Partecipare o meno era una loro scelta. Non chiedevo quel tipo di appoggio, non a lui. Dimmi solo se faccio bene o male, Achille. So che mi odi, d’accordo? Ma almeno su questo dovremmo pensarla allo stesso modo, no?
Deglutii rumorosamente, cercando di assumere un’aria serena e imperturbabile. Niente avrebbe potuto disturbarmi. Niente al mondo. – Non essere così pessimista – gli dissi con un sorriso gentile. In tutta risposta aggrottò la fronte, i denti sbarrati in mostra. Stava soffrendo o era soltanto una smorfia di disprezzo nei miei confronti? – Sto aspettando Connor. Quando tornerà… Ci metteremo in cammino.
Con un colpo di tosse, Achille si accartocciò su se stesso più di quanto pensavo fosse possibile. – Mi lascia qui… a morire. – Rimasi zitto. Non mi sembrava ci fosse molto da aggiungere su quel punto. – Per seguire te e quel… quell’ubriacone in quest’impresa folle.
– Ti sbagli – sussurrai, avvicinando il volto al suo. – Non è una follia, Achille. È l’unico modo che abbiamo per segnare una svolta. Una tregua.
– Non mi interessa la tua tregua – sibilò tra i denti serrati. Oh. Questa sì che era una cosa strana. Un Assassino che si opponeva ai miei piani nonostante non sapesse nemmeno dove volevo andare a finire. Originale, davvero. Classico simbolo di una mentalità aperta. – Hai rovinato tutto, Haytham.
Scrollai le spalle. – Esagerato.
– Idiota! – Lasciò ricadere la testa sul guanciale appiattito e allargò bocca e narici per prendere quanto più fiato possibile. Che pietà. – Non capisci, vero? Potevo convincerlo a combattere contro Reginald. Con te non ho nessuna possibilità. Non ti ucciderà mai.
Sollevai un sopracciglio. Cosa? Achille stava forse dicendo che Connor… che mio figlio teneva a me? Gentile, certo, ma era un’illusione grossa come quella casa. L’unico che il ragazzo avrebbe messo davanti alla sua vita, a quella degli Assassini stessi, era George Washington. Non potevo neanche lontanamente sperare di competere. E se il vecchio Mentore lo credeva, be’, era un illuso. Semplice. – Io non voglio che si arrivi a tanto, Achille. – Era come se tutte le nozioni di Reginald sulla diplomazia mi tornassero in mente, pezzo dopo pezzo. Alla fine il suo insegnamento era servito a qualcosa, quantomeno. Tienilo in pugno. Fa’ di tutto per convincere l’altro che volete la stessa cosa. Non era solo uno stratagemma, ma la verità. Chiedete a Thomas Hickey, forza. – Appena Birch sarà morto sigilleremo un patto. Ci sarà la pace. Te lo giuro.
Solo quando abbassai lo sguardo su di lui mi accorsi che gli angoli dei suoi occhi luccicavano come cristallo. Oh, merda. Troppo tardi. – Mi piacerebbe crederti, Kenway – sussurrò prima di tirare su col naso. – Mi dispiace – gli uscì di bocca in un rantolo di disperazione. – Mi dispiace…
 – Che dici, Achille? – Aggrottai la fronte, passandogli una mano sulla spalla. – Non è colpa tua, non devi dispiacerti. – Stava morendo, era evidente. Non era il momento di discorsi falsi su quanto mi sarebbe mancato. Ero solo in vena di non farlo soffrire ancora. Mi sembrava la cosa migliore da dire in quelle circostanze. Non era colpa sua, di qualsiasi cosa stesse parlando in quella sua testa che lentamente moriva, rattrappita e consumata dagli anni. Pezzo dopo pezzo, gli stava andando in fumo il cervello. Perché cercare di discutere civilmente, di definire cosa fosse vero e cosa falso, se Connor dovesse uccidermi o meno, quando potevo annuire e concedergli cinque minuti di pace prima che morisse? Non sarei nemmeno stato lì per vederlo. Solo, nella grande casa degli Assassini. Lui e nessun altro mentre il ragazzo mi guidava, Mela dell’Eden alla mano, verso la mia vendetta.
A volte bisogna scegliere, Achille. Trattenni a stento un sorrisetto. Il futuro dell’Ordine era senza dubbio più importante del passato della Confraternita.
Che senso ha un ideale quando non c’è nessuno a contrastarlo, eh? Non è nemmeno più tale. – Mi dispiace così tanto, Kenway... – Il vecchio affondò i denti nel labbro inferiore, tirando rumorosamente su col naso. Poveraccio. A volte mi metteva una pietà addosso che neanche potete immaginare. Come un cucciolo di cane bastonato e abbandonato sotto la pioggia.
Si era visto sparire gli Assassini da sotto il naso, uno dopo l’altro. Un po’ come me. Peccato che si trovasse dalla parte sbagliata, quella debole. Fin dall’inizio. – Lui non merita tutto questo, non merita...
– Che cosa? – Sgranai gli occhi nel vano tentativo di acuire i miei sensi e capire dove volesse andare a parare. Non che m’interessasse più di tanto. Solo, mi sentivo in dovere di farlo. Quell’uomo mi aveva dato una casa, un posto sicuro in cui nascondermi. Mi aveva salvato da morte certa. Sì, aveva anche cercato di uccidere me e il mio socio, ma in quel momento aveva importanza?
Quando muori non c’è più niente. Solo il momento.
Volevo farglielo godere. Poteva essere la nostra ultima conversazione. Non mi andava di vederla sfociare nelle urla, nel rancore. I Templari e gli Assassini avevano lo stesso scopo, non è così? Che ci lasciassimo da futuri alleati, non come eterni nemici.
Vedi?, pensai con i denti stretti, i tendini del collo doloranti. Non siete gli unici ad avere pensieri nobili, e altrettanto nobili scopi.  
Achille trasse un respiro, cercando di fermare i singhiozzi che scuotevano il suo piccolo petto scarnato. – Lui non lo merita, capisci? Non gli è rimasto più nessuno! – Si premette le costole con quelle mani artritiche, cercando di calmare il battito del suo cuore. Lento. Poi veloce. Irregolare. Come una candela prima di spegnersi per sempre. – Non c'è più nessuno al suo fianco per guidarlo. Se ne sono andati tutti. Non... Non c'è più nessuno a fargli da padre.
Non riuscii a evitarlo. Digrignai i denti e rivolsi un’occhiata di disprezzo al soffitto. E basta. Connor era un adulto, per la miseria. C’è un momento, nella vita di un uomo, in cui si smette di aver bisogno di una guida. Ora, non fraintendetemi, ma Connor era quel che era soprattutto perché non riusciva a fare niente per sé. Doveva agire per qualcuno. Washington, Achille, la Confraternita, chiunque. Anche me. Bastava ci fosse qualcuno a dirgli dove andare.
Toh. Proprio come dicevano i Templari. Stupido ipocrita. Nemmeno si rendeva conto di esserlo, quella era la parte più… divertente, sì. Sorrisi e Achille, dal suo letto, prese fiato tra i denti sbarrati. Sembrava che soltanto avermi lì, accanto a sé, lo riempisse d’ira come un sacco vuoto. Poveraccio. E dire che stavo facendo del mio meglio per mostrarmi gentile.
Non pensavo di essere diventato così poco credibile. – Né io – disse rauco con quel poco fiato che aveva nei polmoni. – Né Faulkner. Soltanto tu. E questo... Questo è il più grande rimpianto che un uomo... e un Assassino potrebbero avere.
Cosa?
Che diavolo... No. Pensavo di poter fare la pace, di avere una possibilità, almeno con lui. Achille aveva vissuto tutto quanto. La loro ascesa e la caduta, aveva visto gli Assassini morire, sterminati uno a uno durante la nostra grande caccia. Li aveva rimessi faticosamente in piedi e, di nuovo, tra noi e la Rivoluzione, erano crollati quasi tutti. Chi restava? Lui, Connor, quei due imbecilli alla taverna di Molineux. Il resto?
Nient’altro che polvere. Achille lasciò cadere la mano sulla coperta, le dita arricciate su se stesse. Gli mancava persino la forza per stenderle? Era davvero messo così male?
E, nonostante tutto, aveva ancora la forza di odiarmi per essere rimasto l’unica figura su cui mio figlio potesse contare?
Lasciatemelo dire, era un bastardo del cazzo. – Averlo lasciato solo, Kenway, averlo abbandonato... Con te.
Oh, sono stupito. Sapevo che gli Assassini ce l’avevano con me. Era colpa mia se le cose erano precipitate in quel modo. Colpa mia se la Confraternita era ridotta a poco più che il suo nucleo, colpa mia se il suo unico compito, nelle mani di Connor, era obbedire a Washington.
Come se avessi mai chiesto loro di essere salvato dalla forca. Ero pronto a morire. Rassegnato. Non era onorevole, e sarebbe stato doloroso come poche altre morti, ma non avevo vie di fuga. Gli Assassini me ne avevano offerta una e, subito dopo, si erano aspettati che non la sfruttassi. Io. Un Templare, figlio di un Assassino che, oltretutto, era stato un mercante e un pirata.
Che mossa da idioti. – Be’, – dissi, i palmi sollevati in cenno di scuse – non mi pare che ora come ora tu abbia altre scelte. – Non aveva bisogno che glielo dicessi io. Sapeva di essere sull’orlo del baratro. Un colpo di tosse più forte degli altri e il Mentore sarebbe stato solo un lontano ricordo.
E al suo posto ci sarebbe stato Connor. Mi venivano i brividi alla sola idea, la memoria di mio padre che si rivoltava dentro di me. Immagino che il suo Mentore fosse stata una persona più furba, quantomeno. Con degli ideali veri. – Il ragazzo se la caverà.
– E il mondo, Kenway?
Oh, Dio, no. Per favore. Niente discorsi sulla fine che il mondo avrebbe fatto. Sapevamo come andassero le cose, no? Non sempre gli Assassini erano il bene e non sempre i Templari erano il male. Comandare le Colonie non era nei miei piani, nemmeno un po’. Quel posto non mi si addiceva per niente. Era Charles quello immischiato negli affari dell’Esercito Continentale, cui quella carica spettava di diritto. Io volevo soltanto che la smettessimo di tirarci i capelli a vicenda come delle ragazzine.
A noi bastava che non ci fosse Washington e, teoricamente, agli Assassini bastava che quel mucchio di bifolchi gonfi di patriottismo avessero un loro Parlamento, delle leggi, un modo per esprimere il loro parere senza dipendere dall’Inghilterra.
Pff. Bisognava essere proprio stupidi per pensare che, anche con la più poetica delle democrazie, quegli idioti avrebbero ottenuto del vero potere politico. – Non è un problema – grugnii facendo spallucce. – Sarà mia premura mettere in atto una tregua. Sai… – Strofinai le nocche sulla coperta di Achille, cercando le parole giuste dentro di me. – Due guerre mi sono bastate. – Prima i Sette Anni, ora questa. No, ehi, c’era di mezzo anche il ridicolo conflitto interno che spezzava i Templari. Pietà. Mi faceva male la testa solo a pensarci. – Non ne voglio più sapere niente.
Avrebbe dovuto fidarsi di me, per una volta. Non stavo nemmeno mentendo, maledizione. Volevo essere onesto. Fargli capire quanto fosse stupido sprecare tutto quel sangue quando potevamo andare d’accordo.
Almeno nella teoria. Il vecchio tirò su col naso e infilò lentamente la mano rachitica sotto la coperta. Nella stanza aleggiava il puzzo di polvere, chiuso e morte, come se fossimo già chiusi nella sua bara. Maledizione, Achille. Potevi anche dire al ragazzo di lasciar passare un filo d’aria, eh. Giunsi le mani sulle gambe, cercando di sembrare serio. Non mi sarei stupito se fosse morto in quell’istante. Per niente. – Avevate promesso – sussurrò, il viso nascosto sotto quel manto caldo e puzzolente. – Me l’avevano promesso…
Aggrottai la fronte. D’accordo, era sul punto di schiattare. Era vecchio. Aveva i suoi buoni motivi per delirare. Calmati. Non ci riuscivo. Qualcosa non quadrava. D’istinto portai una mano alla testa, cercando di capire che cosa ci fosse di sbagliato in tutto quel casino. L’odore stantio della camera mi stava facendo impazzire, forse.
Poggiai gli occhi su di lui, strizzandoli, come se avessi bisogno di vedere meglio.
Nel suo sguardo brillava una scintilla di lucidità che non vi avevo mai visto prima. Una scintilla che sapeva di tutto, tranne che di delirio. Qualcuno gli aveva davvero promesso qualcosa.
Trassi un respiro strozzato. A quanto pareva, il mio corpo non moriva proprio dalla voglia di scoprirlo. – Ti hanno promesso? – sussurrai. Be’, forse non era proprio tutto il mio corpo a non volerlo sapere. – Chi…?
– Avevamo un patto! – esclamò. La sua voce si era fatta stranamente forte, potente, come se fosse ancora giovane e senza nessun problema di salute. – Mi avevano promesso che tu… – Achille singhiozzò. Sembrava sul punto di piangere, la coperta tirata fin sotto il mento come a un bambino piccolo e spaventato da tutto il buio che lo circonda.
– Mettiti giù – sussurrai, colto da un qualche istinto caritatevole. Cercai di rimetterlo supino, premendo lentamente sul suo petto, sulle spalle.
– Dovevi morire, Haytham! – La sua voce era un ringhio iracondo, grondante tutto l’odio che aveva accumulato nei miei confronti durante gli anni. – Dovevi fallire!
Mi si gelò il sangue nelle vene. Il battito del cuore si fece lento, sordo e un fischio mi riempì la testa, cancellando qualsiasi altro suono.
Era tutto ovattato.
Dovevo… cosa? – Chi è stato? – Ascoltavo la mia stessa voce da un altro mondo. Come avere la testa affondata in un cuscino. – Chi è stato?
Dovevo fallire? Era… Gesù Cristo, Achille era fuori di testa. L’unico motivo per cui tutti loro erano ancora vivi ero io. Se fossi morto Reginald non si sarebbe fatto alcuno scrupolo ad attaccare quel bastardo e fottergli la Mela. E per quanto riguardava Thomas… Fedele quanto voleva, ma avevo l’impressione che il suo Ordine in solitaria non avrebbe riscosso molto successo. E che se ne sarebbe accorto ancor prima di fondarlo. – Chi è stato? – ripetei, il tono minaccioso nonostante non riuscissi nemmeno a controllarlo.
Achille sogghignò. Una lacrima luminosa rotolò giù per la sua guancia avvizzita, perdendosi nelle pieghe della coperta. – Coloro Che Vennero Prima – mi disse. Le gambe presero a formicolare, i piedi molli sul pavimento.
Oddio. – Loro avevano… Avevamo stretto un giuramento! Mi avrebbero aiutato a liberarmi di te! A purificare il sangue del ragazzo! – Si parò la bocca con una mano e, all’improvviso, tutti i suoni tornarono al loro posto, più vividi e precisi che mai.
I was a-walking down by there one day, what should I spy but one of my comrades, all wrapped up in flannel though warm was the day?  – Thomas Hickey che cantava una delle sue stupide canzoncine, al piano di sotto.
– Uff. – I respiri faticosi e pesanti di Achille, che piangeva, lasciava correre le lacrime e le asciugava con i bordi sudici di quella pezza schifosa.
Il battito del mio cuore, il sangue che rombava nelle vene. Tutto si era acuito, come se i miei sensi fossero triplicati. Era solo un’impressione o il tempo si era rarefatto insieme all’aria e ogni cosa brillava, immobile, proprio lì dove quei bastardi che mi abitavano in testa e nel sangue volevano fosse?
Gesù Cristo. Le mani mi tremavano come foglie. Mi sembrava di non essere più in grado di parlare, la lingua impastata in una massa informe di carne. – Purificare? – Fu più un sussurro, ma il vecchio capì comunque.
– Gli Assassini… Dobbiamo essere forti – disse tra i denti. – Andare avanti. La vostra supremazia avrebbe avuto vita breve… Bastava solo che ti salvassimo la vita da quell’imbecille di Birch.
Nonostante dare a Reginald dell’imbecille fosse una prova sufficiente per affidare a qualcuno tutta la mia stima, davanti ad Achille quasi ignorai quel dettaglio. Erano tutte le parole dette prima a sconvolgermi.
Achille mi aveva salvato perché… Perché gliel’avevano ordinato quei tre? Giunone, Minerva e Giove volevano salva la mia vita?
Che diavolo c’era in ballo? Che cosa c’era davvero? Mi portai una mano alla fronte, riflettendo per qualche secondo su ciò che Achille buttava fuori dalla bocca. Il nostro dominio sarebbe durato poco, ma dovevo rimanere in vita. Per il Tempio, giusto? La Prima Civilizzazione viveva nella mia testa, non mi ci era voluto molto per capire che cosa volessero. Non ne conoscevo il motivo, né tantomeno mi interessava. Se per loro dovevo rimanere in vita, Cristo, qualsiasi proposta era ben accetta. Qualsiasi possibilità. – Li ho pregati, Haytham. Non sai quanto… Quanto sia stato doloroso. Ho parlato con loro. Mi sono piegato al loro volere, ho infranto ogni regola per trarti in salvo. – Achille succhiò un po’ d’aria e si umettò le labbra, lasciando sgonfiare mollemente il petto. – Volevano te, non è così? Tutti gli altri erano inutili. Chi aveva bisogno di Johnson, di Lee, Hickey, Church, Pitcairn? Non aveva senso che vivessero. – Singhiozzò ancora, gli occhi arrossati e lucidi di lacrime. – Li ho dovuti pregare, Kenway. Avrei dato la vita pur di ricevere un loro aiuto.
Mi ritrovai a battere le palpebre, sconvolto. Achille si era messo d’accordo con Coloro Che Vennero Prima per ammazzare tutti i Templari tranne me?
Non che fosse poco credibile, eh. E quei tre… Maledizione, con la loro supponenza era palese che avessero fatto il doppiogioco. Il vecchio aveva ragione, no? Per il Grande Tempio non serviva nessuno di loro. Soltanto io, il sangue dell’Aquila e il pensiero della Croce. Gesù Cristo, è pazzo. – Cosa… – Feci girare la lingua per la bocca, cercando di accumulare quanta più saliva possibile. – Che cosa ti hanno risposto?
Il Mentore provò a sorridere, ma il suo corpo fu come attraversato da un milione di crampi nello stesso momento. Lo vidi accovacciarsi su se stesso come un neonato indifeso, le ginocchia ossute che facevano capolino sotto il suo mento. – Giove ha… – sibilò con la voce che si faceva sempre più debole. – Ci avrebbe pensato, mi ha detto. Lui è potente, Haytham. Tu non sai quanto sia… – Achille singhiozzò, le dita scheletriche strette sulla bocca. Non riusciva ad andare avanti. E io stavo lì, a guardarlo, paralizzato dalla paura perché solo a menzionare Giove mi tornava in mente Alice, e l’Apocalisse e tutte le cose orribili che quei tre erano in grado di fare.
Achille aveva ragione. Era… Non era solo potente, lui era il più potente. Il padre. Colui che avrebbe riportato la Prima Civilizzazione allo splendore. E per farlo, aveva bisogno del Tempio. Aveva bisogno di me. – L’ho implorato di aiutarmi. E sai che cosa ha fatto? – La sua voce roca somigliava al sibilo di una serpe, velenosa e subdola. – Ti ha fatto uccidere quel bastardo di Johnson.
I legamenti della mascella cedettero. Mi stupii di non sentirli spezzarsi, snap!, come cime legate all’albero maestro di una nave. Il mio cuore rallentò, e il tempo parve fermarsi intorno a me, intorno a noi.
William Johnson… Io lo avevo ammazzato. Era stata colpa mia, sì, ma anche sua. Non potevo sopportare che qualcuno mi remasse contro. – Avrebbe dovuto scegliere con più cura da che parte stare – sussurrai, gli occhi piantanti sulle mie ginocchia. Sembrava tremassero. Sembrava che tutto il mondo tremasse con loro.
– Scegliere? – Achille scoppiò a ridere, per quanto gli fosse possibile con i deboli polmoni che si ritrovava. – Quell’uomo non ha mai avuto una scelta. Neanche una. Come puoi essere così stupido, Haytham?
Fu in quel momento che tutto quanto, ogni cosa, mi crollò addosso. Avevo capito. Avevo capito tutto. William Johnson non era mai stato davvero contro di me. Forse pensava quelle cose, ma io lo conoscevo. Era un diplomatico. Aveva sempre cercato di sistemare tutto con le parole, prima di passare alle armi. Anche con i nativi. Sapeva tutto sulla politica, sul modo più giusto di gestire gli affari. Abile stratega, Johnson.
Come poteva un uomo del suo calibro, con le sue capacità, essersi fatto ammazzare in quel modo? Insomma, chiunque altro avrebbe mentito. L’avrei fatto io stesso, al suo posto. Certo, capo, certo che credo in te. A-ah, ma certo, Reginald non può niente davanti alla tua potenza. Adesso slegami, così magari posso pugnalarti alla gola.
Il vecchio William… No. Non avrebbe mai fatto un errore del genere. – Sono stati loro – sussurrò Achille, lo sguardo perso nel soffitto. Non riuscivo a staccare gli occhi dai suoi. Pazzesco. Lui e mio figlio erano così… così stupiti quando avevano trovato Johnson morto nella cantina.
Quando invece il vecchio bastardo sapeva tutto. Cose che noialtri non riuscivamo neppure a immaginare. – Sono stati loro – sussurrai. – Giove lo ha…
Achille tossì. – La sua vera natura è venuta a galla, Haytham.
– La sua vera natura? – gli ringhiai contro di rimando, i pugni serrati. – Balle. Lo sappiamo entrambi. Hai ragione, può anche darsi che quella fosse la sua opinione. Ma perché? Perché rischiare di dire qualcosa che mi avrebbe indotto a ucciderlo?
Oh, se avevo capito dove voleva arrivare Giove. Lurido bastardo. – Lo sai? – sibilò Achille. – Sei il Gran Maestro più stupido che l’Ordine abbia mai avuto.
Scattai in piedi.
No. No, basta. Perché? La Prima Civilizzazione mi aveva fatto uccidere uno dei miei uomini soltanto per aiutare Achille? Certo, lui li aveva portati a me. Ovvio. A Pitcairn aveva pensato Connor, e a Church di nuovo io. Avevamo liberato gli Assassini da metà dei Templari. Come poteva Achille dirmi quelle cose?
Ammetterlo non mi piaceva per niente, eppure aveva ragione. Ero il più grosso idiota che fosse mai stato a capo dell’Ordine.
Ma c’era ancora tempo per rimediare, giusto?
Scattai in piedi, le unghie affondate forte nel palmo. – Non hai fatto altro che usarmi – sussurrai con un groppo in gola che mi impediva di respirare. Mi era impossibile credere a quella storia. Lui mi voleva morto, ma alla Prima Civilizzazione servivo intero. Voleva un compromesso, il bastardo. E se dovevo rimanere vivo, al tempo stesso quantomeno dovevo essere solo, colmo di rimpianti e con una percentuale di uomini dalla mia parte che rasentava il ridicolo.
Avrei venduto la mia anima al demonio pur di non fargli portare a termine quel piano. Gli avrei fatto vedere chi era l’idiota. – Mi hai fatto allontanare dall’Ordine. Tu… Tu sapevi tutto. – Osservai i suoi occhi scuri e cerchiati di viola, le guance scavate, i capelli sporchi e la fronte sudata.
All’improvviso non mi faceva più pena. La sua figura gonfiava d’ira il mio petto. Era sempre stato in contatto con Coloro Che Vennero Prima, e non solo non ne aveva fatto parola con nessuno, nemmeno con Connor, ma aveva anche finto, per tutto quel tempo, di non sapere nulla. Come se quelle cose non fossero importanti.
Mi grattai il capo con un grugnito. Collegare i pezzi di quel rompicapo mi stava aiutando a capire che razza di uomo fosse.
Non aveva aiutato nessuno: non la sua adorata Confraternita, non Connor, nemmeno se stesso. Il suo unico scopo era distruggermi. Distruggere me e l’Ordine, perché non sopportava che il ragazzo, l’unico strumento di diffusione del messaggio degli Assassini nel mondo, avesse come unico esempio un figlio di puttana della fazione opposta, che scopava, ammazzava e beveva senza alcun criterio o rimpianto. Non sopportava che io fossi lì, ancora in forze e pronto per affermare la mia posizione, mentre lui appassiva lentamente, lasciandomi fin troppo spazio. – Quindi… – Mi battei l’indice sulla tempia, le labbra ritratte sui denti. – Sai anche di loro, giusto? Queste voci che intervengono in tutto ciò che faccio e penso, spiriti della Prima Civilizzazione. Sai di quello che mi hanno fatto vedere. Il mio passato.  – Il vecchio annuì piano. Sentivo il sangue correre alle mani, facendole formicolare. Avevo voglia di affondare i pugni nella sua faccia come in quella di Benjamin Church. Perché? Era un Assassino, giusto? Avevano la mente aperta, erano liberali, e secondo loro tutti si sarebbero dovuti inchinare a una serie democratica di leggi stabilite dal popolo stesso. Una valanga di puttanate, e non solo per quanto riguardava l’ideologia politica. Achille non era proprio niente di tutto quello.
Non credeva che avrei potuto portare la pace. Forse sperava che morissi nella mia impresa, o che Connor decidesse di uccidermi davanti alle piccole cosette cattive che avevo combinato, oh, mio Dio, che pessimo esempio, qualcuno mi tiri uno scapaccione, forza.
Idioti. Idioti bastardi e senza spina dorsale, tutti quanti. – E sei stato tu anche con Benjamin?
Achille schiuse appena la bocca, succhiando altra aria. Come se gli costasse una fatica incommensurabile. – Un uomo vivo e un uomo morto, questi erano i patti secondo loro. Non mi avrebbero dato più di una mano. Mai.
Suonerà strano, ma la cosa mi rendeva decisamente più tranquillo. Benjamin non era un bugiardo deviato dalla Prima Civilizzazione. Era solo un traditore. Quelli ero in grado di gestirli, davvero. Ma che cosa potevo contro degli spiriti millenari, tre uomini potentissimi, ai loro tempi, dotati di abilità sovrumane che, almeno in parte, erano sopravvissute nel tempo? Non avevo nessun’arma contro di loro.
Mentre Achille era un uomo. Debole e corruttibile.
Avevo ammazzato uomini per tutta la vita. Che fossero come lui o valenti e coraggiosi non aveva alcuna importanza ma, diavolo, se c’era qualcosa che ero in grado di fare, e fare bene, era uccidere. Strinsi i denti, respirandoci attraverso. – Immagino che però ti abbiano detto della profezia.
Il vecchio chiuse piano gli occhi, respirando con un raschiare sommesso. Volevo parlasse. Volevo soffrisse fino in fondo, il bastardo. Si era messo d’accordo con la Prima Civilizzazione per trarmi in salvo, sperando in qualche mio passo falso. Falso al punto da farmi ammazzare.
Avrebbe pagato. Per avermi sottovalutato, per essersi messo con quelli, per… Per tutto. Non c’era nessuno che meritasse quel dolore più di Achille. Solo Reginald. Pensavo che se qualcuno avesse potuto allearsi con Coloro Che Vennero Prima, be’, quello era lui. Li ammirava così tanto.
Ma cos’è che mi avevano detto tanto tempo prima? Serviva il sangue giusto.
Il mio, no? Quello di mio padre, di Connor e di quei tre maledetti figli di puttana.
…oh. Achille… Non riuscii a trattenere una smorfia disgustata.
Tornava tutto. Evidente. – Il sangue dell’Aquila e il pensiero della Croce, pensiero e sangue per lo stesso scopo, la Chiave. La Chiave porta al Tempio, Fonte del Potere cui il sangue sarà l’unica conseguenza. Il sangue aprirà la via per il futuro, l’Aquila vi porrà la chiusura. – Tossì pronunciando le ultime parole della profezia, le stesse che avevo sentito sussurrate tra le labbra di Charles in una delle mie visioni, mentre Reginald stringeva la mano intorno alla sua spalla e sogghignava. – Sai cosa implica, vero?
Scossi la testa. Non mi ero mai sentito così calmo. – No, Achille. – E, a essere sincero, non me ne importava niente. Quelle parole avevano causato solo guai. Ne avrebbero fatti altri, probabilmente, ma senza… Mi sarei risparmiato un sacco di grane. Potevo non essere io quello incaricato di aprire la porta. Potevo anche morire in quel vicolo, spinto giù da uno sgabello come un povero idiota. A nessuno sarebbe importato, giusto? – Perché l’hai fatto? Davvero l’unica cosa che vuoi è… vedermi morto? – La voce mi uscì dalla bocca carica di ira e odio. Non potevo credere che lui, Mentore degli Assassini, avesse uno scopo bieco come quello. La mia morte. Come se non ci fosse niente di più importante al mondo.
– Voglio il mondo libero dai bastardi come te – sussurrò. – Hai visto come ci hai ridotto? La Confraternita non esiste nemmeno più, ed è soltanto colpa tua. Guardaci. Io sono… – Scossi il capo in un cenno gentile. Non era necessario che lo dicesse. Tra poco lo sarebbe stato, poco ma sicuro. – E Connor? Sta usando il Frutto dell’Eden, il tesoro del suo popolo, per aiutare te.
Per aiutare la Prima Civilizzazione, forse. Non me. D’accordo, il Tempio mi incuriosiva. Che cosa si nascondeva lì dentro, così importante da attrarre Assassini e Templari? Chiunque avrebbe voluto saperlo. Come mezzo Assassino mi sembrava lecito, lo ammetto, ma le mie priorità erano cambiate. Tempio o meno, Reginald doveva morire. Tempio o meno, io dovevo essere a capo dell’Ordine.
Doveva esserci la pace. E quell’idiota era troppo impegnato ad addossarmi un desiderio di potere che non avevo mai provato per rendersene conto. – Non siamo fatti per essere uniti, Kenway. Lo capisci? – Tossì, e quando riaprì la bocca i suoi denti erano macchiati di rosso. – Senza la sfida, senza il conflitto, la causa non ha modo di esistere. Che cos’è una causa? E che scopo ha quando è già realizzata? – Nessuno. Lo sapevo anche io.
Mi chiedeva che cosa fosse una causa. Oh, avevo compreso anche quello. Un po’ troppo tardi, forse, ma l’avevo capito. E se fosse stato più concentrato su se stesso, senza pensare soltanto a come farmi uccidere, probabilmente l’avrebbe capito anche lui.
Una causa è solo qualcosa per cui si muore. Niente di nobile, niente di più. Soltanto quello. Ma che possa crepare in questo momento se te lo dico. – La pace distruggerebbe ciò per cui gli Assassini lottano, ho capito bene?
Il vecchio tossicchiò, portandosi una di quelle mani artritiche sul petto, contorta come un artiglio. Prese un respiro debole, cercando di incanalare tutta l’aria della stanza nei suoi polmoni. – Smetteremmo di uccidervi, no? E non c’è niente – niente, Templare – che mi abbia fatto più piacere che vedervi morire sotto le nostre lame, uno dopo l’altro, a mugugnare parole e idee che non sarebbero mai diventate realtà. Vedervi accettare la morte per finta, così come fate ogni cosa, guardarvi mentre fingete di accoglierla. Consapevolezza? No. Volete vivere, come chiunque altro. Sai come ci si sente, non è così? – Le sue labbra si piegarono in un sorriso. – Avere la vita di qualcuno in pugno. Sapere che quello non muoverà più un solo passo, che non respirerà né aprirà più la bocca, e solo grazie a te. Non è meraviglioso, Haytham? Uccidere qualcuno che odi? E tu… Tu vorresti privarmi di questo piacere? Chi sei per deciderlo? – Alzò la voce, per quanto poco, e caracollai all’indietro, le mani strette sulle falde della redingote. La schiena mi faceva male, percorsa da un centinaio di brividi e scosse gelide. Mi sembrava di non riuscire più a vedere bene. Tutto era offuscato, luminoso. Assurdo. – Chi sei tu, quando ho la Prima Civilizzazione dalla mia parte? Gli dèi! – Achille ansimò. Troppa fatica in un solo discorso. – Gli dèi. – Quelle parole uscirono dalla sua bocca in un sussurro a malapena percettibile, il movimento delle labbra accentuato dai singhiozzi che gli scuotevano il petto come una scatola vuota.
I brividi si fermarono, lasciando spazio a un devastante lampo di lucidità. Aveva ragione. Conoscevo esattamente la sensazione di cui parlava.
Illuso del cazzo. Non aveva idea di come fossero realmente Coloro Che Vennero Prima. Non erano dalla sua parte. Non erano dalla parte di nessuno.
Per usare le sue parole, volevano solo vivere. Come chiunque altro. – Achille, noi…
– Voi? – sibilò. – Voi cosa, di grazia? L’unica cosa che vi siete assicurati di fare è stata distruggerci, pezzo dopo pezzo, uomo dopo uomo! – Un rivolo di bava gli colò lungo il collo, scomparendo tra la pelle avvizzita e le coperte. In un altro momento mi sarei anche avvicinato per dargli una pulita, ma avevo paura che mi staccasse le dita con un morso. E nove mi sembravano già poche.
Uno zimbello con otto dita sarebbe rimasto nella memoria dell’Ordine per sempre. Per non parlare di uno zimbello con otto dita violentato dal proprio Gran Maestro. Una specie di leggenda vivente.
O qualcosa di molto più ridicolo. Che diavolo stai pensando? Era come se qualcuno mi stesse schiaffeggiando dall’interno. Scrollai il capo nel tentativo di allontanarmi da tutte quelle puttanate. Davanti a me c’era Achille. Achille, un altro bastardo schifoso che mi voleva morto semplicemente perché quello era l’ordine delle cose.
Toh, e lui che si preoccupava della figura di riferimento che sarei potuto essere per Connor. Il ragazzo aveva imparato tutto da lui. Come essere un Assassino vero, sì, insomma, uno di quelli che segue il Credo punto per punto. Fatemi il piacere. Secondo lui, secondo loro, essere parte di una fazione significava soltanto combattere attivamente contro un’altra. Importava a qualcuno che gli scopi potessero coincidere? Perché mai? Il sangue era molto più gradevole. Attraente. Creava dipendenza.
Dannato bastardo. – Ho promesso che non farò niente con la Mela, mi hai sentito? – Il suo petto si sollevò di nuovo in una risata isterica. Carino. – Niente. Una volta che Reginald sarà morto e quel… coso aperto, sparirò. Io e i Templari ce ne andremo. Non sentirete mai più parlare di noi.
Achille roteò lentamente lo sguardo nella mia direzione. – Fin quando non leggeremo il necrologio di Washington, ho ragione?
Mi ritrovai a stringere i denti senza nulla con cui replicare alle sue accuse. Un povero stronzo disarmato, ecco come mi aveva ridotto. – Io… – Che cosa potevo fare, eh? Dargliela vinta? Ammettere che forse aveva ragione lui, che ero quanto di peggio potesse capitare a Connor? No. Nemmeno morto. Non ero un idiota con il solo scopo di controllare il mondo. Io volevo la pace, giusto? Lo avevo detto a Tom, lo stavo ribadendo davanti a lui. Che cos’altro avrei dovuto dire? Giurare solennemente che non avrei più fatto niente di male, che mi sarei pentito per la caccia, per tutti quegli Assassini morti, magari ammazzandomi con le mie stesse mani?
No. Preferivo morire che concedergli un simile privilegio. Achille non voleva i Templari morti. Voleva me morto. Che smettessi di predicare la pace e l’unità, lasciando Thomas, Reginald, Charles e Connor ad ammazzarsi l’un l’altro.
Così vanno avanti le cause. La vita. I principi. Così era andata avanti la Prima Civilizzazione. Con scontri all’ultimo sangue tra fratello e fratello. Circoli viziosi da cui non si poteva più venir fuori. Era tutto talmente assurdo… – Come ci riesci? – Strinsi i pugni. Solo pensare allo scopo che Achille aveva davvero avuto per tutto quel tempo mi faceva accapponare la pelle e ribollire il sangue nelle vene. Non mi aveva salvato in quanto padre di Connor. Non l’aveva fatto per quei tre maledetti spiriti e i loro piani. Aveva un suo schema, un sistema personale con cui avrebbe risolto le cose. Pregando. Attraverso quel patetico attentato alla nostra vita. Ogni sua azione era mirata a vedermi soccombere di fronte a Reginald. E voi lo tollerate?, chiesi alla Prima Civilizzazione. Voi…
Poi mi resi conto che, in fondo, doveva esserci un motivo se Achille era rannicchiato su se stesso in quel letto, senza più fiato, il corpo ridotto a un sacco di organi sgonfi e mal funzionanti, pochi denti, le palpebre pesanti. Era un uomo sull’orlo del baratro, un piede già affondato nell’oscuro nulla dall’altra parte.
C’era un motivo. Era palese.
O lo fermavano loro – lo fermavo io – o Achille Davenport mi avrebbe ucciso.
Merda. – Come riesci… – Deglutii, cercando di recuperare un tono di voce nella norma, come se non avessi capito niente. Ero un idiota, no? Il capo più stupido che i Templari avessero mai avuto. Un inutile figlio di puttana che meritava di morire perché voleva esattamente ciò che, in teoria, avrebbe dovuto desiderare anche lui.
Un rifiuto. – …sì, insomma, a parlare con loro.   
Achille sollevò faticosamente le palpebre, come se avesse a che fare con un vero caso disperato. – È un dono, servo della Croce – sussurrò umettandosi le labbra. Lo sospettavo da quando aveva tirato fuori quella storia di Coloro Che Vennero Prima. Cos’è che diceva sempre Giunone? Il sangue è un legame potente, o qualcosa del genere.
Buon Dio, ne avevano lasciati di discendenti, quei tre. Annuii alle parole di Achille, cercando di capire che cosa fare. – Qualcosa con cui si nasce. Non esiste solo l’Occhio dell’Aquila.
Finsi di trasalire. – Sei come me. – No! Davvero? Tsk, sempre pronti a dispensare profezie e visioni terrificanti, e neanche un aggiornamento sul mio albero genealogico. Che crudeltà. Strofinai le mani sui calzoni, come se le stessi asciugando da un patina di sudore. Una doccia fredda mi colava lungo il collo a partire dall’attaccatura dei capelli. Non sapevo se mi toccasse prendere tempo o se ne stessi semplicemente perdendo altro. Non avevo sentito la porta aprirsi. Forse Connor era ancora fuori.
Bene. – In un certo senso, siamo parenti – sussurrai con le labbra strette. Oh, Achille, e chi se lo aspettava? Voglio dire, un uomo valoroso come lui. Scampato alla grande caccia e pienamente consapevole di quanto sarebbe stato difficile farci fuori, al punto da chiedere aiuto ai Precursori. A volte mi sembrava impossibile pensare che io, lui e Connor condividessimo quel ramo. Non c’erano mai state tre persone più diverse all’interno di una stessa famiglia.
Proprio come loro. Giunone, Minerva, Giove. Sapevo bene quanto fossero differenti l’uno dall’altra. – Un frutto della Prima Civilizzazione – proseguii, cercando di camuffare al meglio il mio timore con quell’aria da bifolco stupefatto. Diavolo, come poteva un povero scemo come me arrivarci? Ahi. L’Ordine ha proprio toccato il fondo con me, eh? – Destinato a grandi cose, non è così? – Perché era sempre stato quello il loro unico compito. Controllarci. Usare gli esseri umani come marionette. Almeno, così mi aveva detto Reginald. Non esisteva al mondo un uomo altrettanto esperto per quanto riguardava Coloro Che Vennero Prima. – Il controllo, il potere. – Storsi la bocca, come se ci fossi arrivato solo in quel momento. – Non esattamente idee da Assassino, caro il mio Mentore.
Il vecchio tossì, il corpo scosso dalla fine imminente. Il suo ruolo di burattino della Prima Civilizzazione stava per giungere al termine. Sarebbe stato rimpiazzato, ben presto.
Oh, non ci provate, mi ritrovai a pensare tra i denti serrai. Prendete il ragazzo. È lui quello vicino a Washington, no? È lui quello che può aiutarvi. I miei compiti finivano con l’ingresso nel Tempio. Non sarei stato utile a nessun altro, per nessuna ragione. Men che meno a quei tre bastardi.
Mio padre era morto per colpa loro.
Alice era morta per colpa loro.
E Achille, di lì a poco, avrebbe fatto la stessa fine. Per una volta, non potevo dire mi dispiacesse. Vecchio bastardo del cazzo. Mi aveva salvato la vita, mi aveva accolto in casa sua, tutto per un secondo fine. Farmi fuori. Vedermi fallire.
Godere di quel fallimento. Era davvero quello ciò per cui lottavano gli Assassini? Ciò per cui mio padre era morto?
Da bravo idiota, rifiutavo di credervi. Edward Kenway era pieno di virtù, coraggioso e gentile. Altruista come pochi altri uomini. E se davvero sapeva che Reginald era un Templare, non avrebbe mai goduto nel vederlo morire. Mai. Rispetta il nemico, Haytham. Non pensare mai di essere migliore, più intelligente, più astuto. Così mi diceva sempre, sapete? Quando sei in grado di fingere hai il mondo in mano. Fa’ credere al tuo avversario di essere un idiota, lascialo gonfiare del proprio orgoglio, e cadrà morto ai tuoi piedi prima che se ne accorga. Il mio vecchio aveva ragione.
Per tutta la vita, Achille non aveva fatto altro che fingere. Il Mentore. L’Assassino per eccellenza. Stronzate, una dopo l’altra. Però, ehi, mi stava sottovalutando. Dovevo solo lasciargli credere di avere ragione. Certo. Assolutamente. La Prima Civilizzazione lo stava uccidendo per me, mentre il veleno delle sue parole mi consumava come un tarlo. Dall’interno. Dalle mie stesse vene.
Come poteva Connor avere fiducia in quel pagliaccio?
Maledizione, ve l’avevo riposta anche io. Finché non aveva cercato di ammazzare me e Tom, naturalmente. Da quel momento in poi, le cose erano cambiate. Per tutti quanti. Persino Giunone si era resa conto di quanto quel bastardo fosse pericoloso. Lui o io. Un vecchio con la testa piena di furia omicida e sete di conflitti, oppure la chiave del Grande Tempio.
Sempre sottoposti a scelte complicate, voi, eh? Scrollai dolcemente il capo, cercando di scacciare quel pensiero. Eravamo solo io e il Mentore con i denti serrati, un po’ di tempo solo per noi e la sua vita che mi scorreva lenta davanti al viso. La sua strategia. Il ritratto di un uomo ebbro di sé e del proprio potere sui confratelli. E, l’avevo capito anche io, niente Templari, niente Assassini.
Siamo nati per avere una nemesi. Tutti quanti. E io gliela stavo portando via. Quella nemesi si era incarnata in me, il padre cattivo che avrebbe messo fine – o, almeno, ci avrebbe provato – a quel conflitto che imperversava tra noi da secoli.
Come un nuovo peccato originale. La pace era la mia Mela.
Belle analogie del cazzo, ringhiai alla mia testa. Simpaticone. Achille tossì più forte dell’ultima volta, richiamando la mia attenzione. Coglione a rapporto, signore. – Ti credi più furbo di chiunque altro, vero? – sussurrò, gli occhi puntati più o meno nella mia direzione. Non risposi. Non meritava una simile considerazione. –  Sono io il vero erede dei Precursori! Il loro sangue nelle mie vene… Lo senti, Kenway? Senti il suo valore? – Solo una gran puzza di chiuso, amico. –  Oh, se supera il tuo. Sono nato per guidare il mondo sotto il vessillo degli Assassini. Io. E nessun altro. Sei uno sciocco, Haytham. – Ah, anche. Certo. La testa stava per scoppiarmi. Che cosa voleva, di preciso, quel maledetto vecchiaccio da me? Voleva il potere su Connor, sulla Confraternita? Che se lo prendesse! Non lo volevo. A malapena lo volevo sui miei stessi uomini. Un responsabilità così pesante che il solo pensiero faceva aumentare la velocità del mio cuore.
E poi, andiamo, un conto era essere a capo dei Templari, indipendenti e dotati di coscienza. Gli Assassini erano solo marionette nelle mani di un loro simile. Imbecilli. – La Prima Civilizzazione non ti lascerà vivere. – Non riuscii a trattenere un sorriso mentre il suo sibilo calava ancora un po’ di tono. Almeno ero ancora in grado di respirare senza strozzarmi con la mia saliva, io. – Questa situazione – tossì – è temporanea. Mi salveranno. Sono dentro di me. Mi tengono vivo. Li sento, Kenway.
Io no. Ed ero contento così. – Posso chiederti una cosa? – domandai, il sorriso ancora percettibile sulle mie labbra. Il suo dolce sapore. – Sai che cosa si prova ad averli davvero dentro di te? La paura. Il dolore. Quell’assurda sensazione, come se… – Scrollai il capo. – Come se qualcuno ci stesse controllando dall’interno. Hai idea di quanto faccia male? – ringhiai. – Pensi di poter fare tutto ciò che vuoi, di essere al centro del mondo, più potente di un re, e loro sono lì, pronti a tirarti giù dal tuo piedistallo con un ricordo, una profezia, una rivelazione. – Charles. Poi io. Infine Alice. Sempre peggio. Sempre… – Non vogliono tenerti coi piedi per terra, Achille, lo capisci? Non è quello il loro obiettivo. Cercano di farti affondare. Smontano le tue convinzioni pezzo dopo pezzo, le demoliscono, tirano giù le macerie e il loro odio, il rancore di millenni nell’ombra si nutre della nostra rovina. Quando non ti è rimasto più niente e sei così giù che accetteresti anche di morire, qualsiasi cosa, basta che non sia necessario continuare avanti con questa pagliacciata, ecco che loro sono lì. A sostenerti, pensi. No. Ti indirizzano. Non c’è più nessuno. Nessuno a te caro, nessuna convinzione salda su cui poggiarsi. Soltanto loro. – Mi umettai le labbra, gli occhi persi tra le pieghe di quella coperta ruvida e sporca. – E allora che fai? Non c’è nessuno cui chiedere aiuto. Proprio nessuno. Ti pieghi al loro volere. Diventi un assiduo servitore della loro causa. E l’unica forza che ti spinge, a quel punto, è la disperazione. L’idea che forse ti aiuteranno e finalmente farai qualcosa di buono. La conosci, Achille? Ti è anche solo lontanamente familiare? – Riesci a concepire come ci trattino, vecchio? Che cosa siano disposti a fare pur di avere un rappresentante nel nostro mondo, qualcuno che combatta la loro battaglia?
Un po’ come faceva George Washington, no? Solo che lui correva dei rischi. Era una persona vera, con qualcosa da perdere. Chi non ha nulla può giocare sporco e vincere sempre.
Achille mostrò un sorriso, le labbra tirate sui denti rossi di sangue. – Non esiste al mondo sensazione che mi faccia sentire più vivo, Kenway. – Il suo sussurro mi gelò il sangue nelle vene. – Servire a qualcuno.
– Pensavo che uno dei vostri cardini fosse la libertà – riuscii a ringhiare senza scoppiare in un accesso di rabbia. Che senso aveva? Ci avrebbero pensato i minuti. Oh, sì, la fine della sua vita era vicina. Proprio lì, nell’aria. La sentivo.
Il vecchio respirò debolmente. – L’unica libertà che l’uomo cerca, da sempre, è quella di scegliere. Chi avere al governo, cosa fare della propria vita. Chi servire. – Nascose entrambe le mani sotto la coperta, il capo volto verso di me. – Io ho scelto.
Contento tu, contenti tutti. Dovetti trattenermi per non sibilarglielo sulla faccia con tutto il mio disprezzo. – Credi che Connor seguirà la tue orme?
– È abbastanza grande da capire cosa sia giusto e cosa no. Loro hanno la saggezza. Sanno. Noi no. Non potremmo mai sapere. Ci è stato negato prima della fine. La nostra unica possibilità è fidarci della loro saggezza. Fila tutto, no? – Sembrava facesse un’enorme fatica solo per tenere la testa in quella posizione, gli occhi sporgenti tesi verso di me. – Perché metterci al servizio di un altro uomo, un essere così imperfetto, quando possiamo servire Coloro Che Vennero Prima?
– Anche se vogliono il male? – Non riuscii a trattenermi. – Anche se vogliono impedire la pace?
– Se tale è la loro volontà – sussurrò Achille, – sono lieto di combattere per essa. Hanno le loro ragioni. Io… mi fido. – Inspirò dal naso, le narici allargate come quelle di un cavallo. – Vuoi sapere cosa mi hanno detto, Haytham?
Sollevai lo sguardo e rimasi incatenato nel suo. Così debole. Gli occhi scuri e lucidi come pozzi pieni d’acqua, le labbra screpolate e tremanti, la voce che faticava a uscire dal petto. E l’interno. Chissà come doveva essere. Ossa marce e organi mezzi sciolti. Niente di intero. Solo il decadimento. I suoi fili erano consumati. Occorreva cambiarlo. Un altro burattino.
Non c’era niente che potesse farmi più comodo. Sentire la loro lezione, capire se erano così bastardi solo con me o anche con lui. Se Achille sapesse di più sul Tempio. Dovevano avergli detto qualcosa, giusto? La mia curiosità ebbe la meglio su tutto il resto. Non c’era più niente. Solo io e il Mentore. E la Prima Civilizzazione. I nostri accordi. Il nostro passato, presente e futuro. – Vieni – sussurrò Achille, sfiorando con il dorso della mano il punto in cui ero seduto fino a pochi minuti prima. – Avvicinati… Ti prego.
Presi fiato, strofinando i palmi delle mani l’uno contro l’altro. – D’accordo. – Cercai di suonare meno curioso di quanto fossi, come se lo stessi facendo solo per esaudire il suo ultimo desiderio. Mi lasciai cadere sul materasso sottile, il corpo di Achille scosso dal mio peso. Era il ritratto della miseria, della rovina. Il suo tempo era finito, giusto? Che sprecasse i suoi ultimi minuti in modo costruttivo, per quanto i suoi sproloqui sulla Prima Civilizzazione potessero esserlo. – Allora, cos’è che ti hanno detto?
Il vecchio serrò i denti in un ringhio sottile, simile al verso di un animale in punto di morte. Una mano sbucò dalle coperte e si strinse intorno al mio ginocchio, le dita sottili e scheletriche strette sulla carne. – Tante cose – sussurrò. – Davvero… tante.
Una sferzata d’aria mi colpì il viso e sentii il fruscio della vecchia coperta caduta a terra. Un accecante lampo argenteo mi fece serrare gli occhi. Non ci fu nessun’altra reazione nel mio corpo. Nessun riflesso scattante. Come se l’addestramento fosse stato cancellato dalla mia testa. Rimasi lì, e l’unico pensiero che concepii in quel breve istante fu che la presa di Achille sulla rotula era straordinariamente ferrea. Non immaginavo che un vecchio in punto di morte potesse avere così tanta forza.
A meno che non fosse guidato dalla più selvaggia disperazione.
Ah, Cristo!, esclamò una vocetta esasperata nella mia testa. Aveva ragione. Sei veramente il Gran Maestro più stupido che l’Ordine abbia mai…
– Cazzo!
Il dolore alla gamba era così forte che mi sembrava stesse scoppiando, vena dopo vena, fino alle ossa, come se anche quelle potessero saltare in aria e affondarmi le loro piccole schegge letali nella carne. Ecco, i miei riflessi scelsero quell’istante per tornare in azione, e se la gamba sinistra era tutta un fuoco, un bastardo ceppo di carne macellata e inutile, la destra era più sveglia che mai, e fece leva con tutta la sua forza per tirarmi in piedi, allontanandomi da quel folle stronzo di un Mentore. – Porca puttana! – strillai come una ragazzina, cercando a tentoni una sedia, la porta, qualsiasi cosa, bastava mi ci potessi appoggiare.
Achille rideva, il capo reclinato, per quanto possibile, e le dita tozze sporche di sangue. Il mio.
– It's all on account of some handsome young woman, ‘tis she that has caused me to weep and lament. And had she but told me before she disordered me, had she but told me of it in time… – continuava a cantare Thomas dal piano di sotto. Vaffanculo a lui e a quella canzone del cazzo, al suo stupido tempismo.
E le gocce del mio sangue. Tic, tic, tic, crollavano a terra come ciottoli scagliati in un lago, lasciando orme rosse sul pavimento della stanza. Schianti forti come colpi di cannone.
L’impugnatura di un coltello mi sbucava dalla coscia, appena sopra il ginocchio. Cristo. La lama faceva capolino dall’altra parte. Non riuscivo nemmeno a credere alla mia fortuna. Quel maledetto affare si era conficcato un po’ più a destra del mio ginocchio. In un lampo di razionalità pensai che Achille non poteva avere la forza necessaria a spezzarmi la rotula con una coltellata. E, se anche ci fosse riuscito, il colpo sarebbe stato molto più doloroso.
Vecchio bastardo del cazzo. – Perché? – Oh, quanto dovevo suonare patetico. Non m’importava. Avevo smesso di farci caso. – Perché? – gli soffiai contro, i denti stretti per il dolore. Ringraziando il cielo non aveva reciso nessun’arteria, non aveva sfiorato le ossa. Altrimenti sarei già stato agonizzante sul pavimento, rotolandomi nel mio stesso sangue, nella saliva, nelle lacrime.
La mia mano prese a tremare sul pomello della porta. – Rispondi! – ruggii con tutta la rabbia che avevo in corpo. Achille continuava a ridere, la mani giunte sul petto che sussultava. – So che mi vuoi morto, d’accordo? Lo so! Dimmi soltanto perché… Perché pensi che la mia morte possa farti comodo?
Il vecchio Mentore portò gli occhi al soffitto in un’espressione estatica, le labbra ritratte sui denti incrostati di sangue. – Che cosa sai, di preciso? – replicò in un sussurro. Strinsi le dita sull’impugnatura del coltello, pronto a tirarlo via dalla carne. Non m’importava più niente delle sue stronzate, a essere onesto. Pensavo che mi avrebbe dato delle informazioni, che fosse troppo debole per fare qualsiasi cosa. Dio, che razza di coglione. – Non c’è più niente che possa farmi comodo, Templare. – Girò il viso verso di me, sogghignando. – Voglio solo impedire che qualcosa possa farne a te.
Strappai il coltello dalla carne con i denti sbarrati e la stessa forza che avrei voluto usare per affondargli quella lama nel petto. Gesù Cristo, come potevo essere stato così cieco? Aveva detto di volermi morto, e io davvero pensavo che costringerlo a letto gli avrebbe impedito di farmi secco? Che idiota. Che cazzo di idiota. Proprio io, che dicevo di conoscere l’essere umano e le sue debolezze, come potevo non riconoscere la forza dell’orgoglio, della perseveranza?
Ero stato un maledetto stupido, e ora ne pagavo le conseguenze. Una per una. – Non… Non… – Che cosa? Che cosa volevo tirare fuori da quella bocca? L’ennesima scusa, forse? Avevo la lingua secca come un ciocco di legno in bocca e gli occhi brucianti di lacrime iraconde. Non ce l’avevo con Achille, ma con me stesso. Il dolore alla gamba non era niente rispetto a quello che rischiava di aprirmi il petto in due e far schizzare via il cuore come un proiettile.
Un fottuto fallimento. Ecco cos’ero diventato. Cos’ero sempre stato. Forse aveva ragione Reginald ed ero buono soltanto per far godere gli altri con le mie scelte sbagliate, con la mia ingenuità.
No, no, no. La Prima Civilizzazione non era di quell’opinione, giusto? Mi aveva salvato. E stava uccidendo Achille per…
Un cazzo. Achille era vivo e vegeto. Due colpi di tosse non avrebbero proprio ucciso nessuno. Su una cosa erano senza dubbio nel giusto. Non appoggiavano nessuno dei due. Per niente. Chiunque fosse uscito vivo da quella stanza sarebbe andato bene, per loro.
Dimostra chi sei, ringhiò una vocetta nella mia testa. Dimostralo.
Fantastico. E chi diavolo ero?
Ammetto che fosse una domanda difficile con un ginocchio sanguinante e la paura di essere ammazzato che mi riempiva il petto a ogni respiro. Presi fiato tra i denti stretti, cercando di trovare una maledetta risposta.
Tirai un lento sospiro e tentai di rilassarmi.
Un Kenway.
Oh, Gesù, basta. Niente più orgoglio di famiglia, niente più fiducia nel sangue, niente di niente. Chi ero, voleva sapere quella voce. Chi fossi davvero.
Non lo sapevo. Però sapevo benissimo che cosa non volevo essere: la marionetta della Prima Civilizzazione.
Se pensavano che avrei fatto il loro gioco lasciando che Achille spirasse da sé, mi spiaceva deluderli, ma non era così che sarebbero andate le cose. Potevo lasciare che il Mentore mi uccidesse, ma non avrebbe avuto alcun significato. La mia vita che finiva su quelle grezze assi di legno.
C’era un solo uomo in quella stanza che non si fidava completamente dei Precursori. Un solo uomo che aveva cercato di combatterli, di non fargli prendere il sopravvento, per quanto assetati di potere fossero.
Io. Haytham Kenway e nessun altro. E se qualcuno doveva avere a che fare con la Prima Civilizzazione, se quei tre si fossero dimostrati un problema, era molto meglio che fossi io, piuttosto che quel vecchio. Achille avrebbe consegnato loro anche la sua stessa vita, bastava morissi. L’aveva già messo sul tavolo da un po’, e io avevo preferito ignorarlo. Che stupido.
Volevo rimediare.
Volevo vivere. E poi, com’è che diceva mio padre? “Rispetta il nemico. Non pensare mai di essere migliore, più intelligente, più astuto.”
Mi diedi una botta in testa con il palmo della mano. No, non intendevo quello. Era qualcos’altro. Quel punto lo avevo bellamente ignorato, era più che evidente. Andiamo. Cos’è che era solito dirmi quand’ero piccolo?
Strizzai le palpebre, cercando di riportare alla mente il suo viso. I capelli biondi, gli occhi color del mare. Quella scintilla che vi si rifletteva quando impugnava una spada. La stessa che doveva aver visto anche nei miei, fin da bambino.
  “Quando non hai più niente per cui lottare…”
Sgranai gli occhi di scatto. Oh, Dio, quella non era una delle mie solite vocine. Voglio dire, la conoscevo. Il tono caldo e paterno di Giove, a riempirmi la testa come un campanello d’allarme.
Come a dire che ero il predestinato, io quello destinato a sopravvivere.
Certo. Achille non poteva aprire il Grande Tempio.
Per un istintivo riflesso aprii la mano, e il coltellaccio usato da Achille crollò ai miei piedi con il clangore caratteristico del metallo. Oh, merda. Volevano che io restassi in vita. E io, al tempo stesso, non volevo obbedire. Per principio. Per non seguire le loro regole.
Che andassero avanti. Cosa diceva mio padre? “Quando non hai più niente per cui lottare…”
…niente cui prestare lealtà, nessun giuramento da seguire, quando pensi che tutto ti abbia deluso e niente abbia più importanza, combatti per te stesso. Per la tua vita, l’unica che ti è concessa, Haytham. Difendi i tuoi interessi, i soli che nessuno può intaccare. Fu come sentire di nuovo la sua mano sul petto, mentre mi colpiva lo sterno con uno scatto dell’indice e una risatina. Non… i giocattoli e quelle cose. Be’, sì, ora anche quelli, ma parlo degli interessi veri. L’indipendenza, la libertà. La pace. Qualsiasi cosa in cui tu, e tu soltanto creda.
Quando pensi che non ci sia più niente per chi vivere, ragazzo, vivi per te. Vivi e basta, sono stato chiaro? Sorrisi appena, i denti stretti per il dolore alla gamba. A quel punto, di solito mi scompigliava i capelli. Vivi come non hai mai avuto la possibilità di vivere prima.
Oh, Dio.
Vivere come non avevo mai avuto la possibilità.
Vivere e basta.
C’era un solo modo per uscire da quella situazione. Per seguire alla lettera il codice di mio padre.
Mi dispiace, pensai, forse più per riflesso. Mi chinai a raccogliere il coltello con uno sforzo disumano, la schiena che cigolava e bruciava, torta come il tronco di un vecchio albero troppo grosso per piegarsi. Quando strinsi le dita sul legno, il sangue che continuava a colarmi appiccicoso giù per il polpaccio, capii che cosa dovevo fare. Non era poi così difficile.
Con due gambe, quantomeno. – Ah, Cristo – dissi tra me, stringendo l’impugnatura tra i molari. Zoppicai fino al suo letto con i muscoli che imploravano pietà, la schiena a pezzi, la mani strette sul legno pieno di schegge del suo comodino. Che cos’hai da lamentarti?, volevo urlare al mio corpo. Preferiresti essere senza vita? Preferiresti essere al suo posto?
La risposta era facile: no. Non avrei mai voluto essere al posto di Achille. Afferrai la coperta appallottolata ai piedi del letto con il mio movimento più teatrale, dunque ne strappai una larga striscia, come fosse stato uno straccio, e la strinsi intorno al ginocchio per tamponare il taglio. Una ferita da niente, per quanto profonda. Probabilmente sarei anche riuscito a cavalcare, dopo un paio di punti.
Il Mentore emise un rantolo scocciato quando gli tolsi la sua unica copertura, cercandola con gli occhi serrati. Artigli che scavavano nel vuoto di una carcassa già ripulita. La mia, nella fattispecie. Preferivo quasi consegnarla alla Prima Civilizzazione che non a lui, ai suoi piani di conquista e alla sua bizzarra visione di Assassini e Templari.
Strinsi il coltello in mano, bilanciandolo. La lama aveva la stessa larghezza del mio pollice, sembrava uno di quegli attrezzi usati per intagliare il legno. Non che mi importasse, chiaro, cercavo solo di capire quale arma fosse più appropriata per tagliargli la gola. Una morte veloce.
Perché, mi spiaceva ammetterlo, ma Achille aveva in parte ragione. Io ero un Templare. Lui era un Assassino. Eravamo noti per la nostra sete di sangue, per quanto fosse nella nostra natura cacciarli e ucciderli come parassiti che devastano i campi e rovinano tutto ciò che abbiamo costruiti. Per cui, al diavolo le puttanate sulla filosofia e i nostri ideali. Per cosa nascono due fazioni, due fazioni qualsiasi, se non per ammazzarsi a vicenda?
Strinsi i denti, guardandolo dall’alto in basso mentre la coperta mi appesantiva la gamba come un terzo arto. Era lì, davanti a me, rannicchiato su se stesso come un neonato, con un sorriso di sfida dipinto in viso. – Fallo – sussurrò. – Non riuscirai a fermarli. Sei esattamente come tuo padre. Credi di avere tutto sotto controllo, di poter vincere su tutti i fronti. Come puoi non capirlo, Kenway? – sibilò, il volto sollevato appena nella mia direzione. – Hai già perso. Solo un servo fedele può portare a termine l’opera.
– Non mi importa niente di portare a termine l’opera – ringhiai mentre mi lasciavo cadere sul letto, incurante di quanto dolore potesse tratte il suo corpo da quegli scossoni. – Voglio solo impedire che possa portarla a termine tu. – Gli feci il verso con un gran sorriso e il palmo della mano premuto sul suo piccolo petto scarno, come quello dei bambini denutriti che si vedevano girare in città, mani tese e occhi affamati. – Io volevo la pace, Achille.
Il vecchio trasse un respiro. – Voi volete il potere – replicò. – Cercavo solo di assicurarmi che cadesse nelle mani giuste.
– Bel tentativo. – Era strano come, per una volta, davvero non traessi alcuna gioia all’idea di ucciderlo. Nonostante tutto ciò che aveva fatto a me, a Thomas, persino a Connor, non lo stavo ammazzando in quanto Mentore degli Assassini.
Era solo istinto di sopravvivenza. Lui o io. Ed ero sufficientemente curioso, stanco e attaccato alla vita da conoscere senza alcuna esitazione la mia scelta. – Mi dispiace – ripetei. Lo pensavo davvero, ma Achille era stato un cane disobbediente fin dall’inizio. Un ribelle. Avrei dovuto ucciderlo al tempo della caccia. Si era nascosto così bene, il vigliacco. E forse… L’idea che gliel’avessero suggerito i Precursori, di nascondersi, di restare in vita fino al fatidico giorno in cui avrebbe dovuto catturarmi mi faceva gelare il sangue nelle vene.
Era plausibile. Fin troppo. E Achille credeva in loro. Confidava nel loro potere al punto da volermi uccidere, convinto che il Tempio non avesse alcuno scopo. La Prima Civilizzazione aveva lui, aveva Connor, con quello stesso sangue. Ne scorreva a fiumi, nei loro corpi. Una così ampia parte di loro. Disponibile, a portata di mano.
Non potevo essere l’unica alternativa, giusto? Non potevo.
E poi… Giunone aveva detto a Connor che il Tempio doveva rimanere lontano dalle mani dei Templari. Non servivo. Non era poi così necessario che quel… coso venisse aperto.
Lo voleva Reginald. Lo volevo io. E in cuor suo lo voleva anche Connor. Immagino fossero motivazioni sufficienti.
I miei interessi, come avrebbe detto Edward Kenway.
Presi fiato. Mi sarebbe piaciuto avere un glorioso addio per lui, qualcosa di significativo da dirgli mentre spirava. Non avete idea di quanto avrei voluto dargli una fine teatrale, ma avevo una vecchia coperta sudicia avvolta attorno alla gamba, i denti stretti per il dolore e la rabbia. Avevo smesso di cercare la dignità. C’eravamo solo io e lui. Non meritava di morire nella gloria, ricordato da tutti per le sue parole o le sue coraggiose opere.
– Ti ucciderà – sibilò il vecchio. Mi scrutò mentre pulivo lentamente la lama del coltello sulla coperta. La sua mano arrivò a sfiorare la mia, cercando di scostarsela dal petto. – Connor non te lo perdonerà mai. Lo capisci?
Feci spallucce. Se avessi dovuto orientare le mie azioni secondo l’assurdo codice morale di mio figlio sarei stato morto da un pezzo. – A quanto pare si sbagliava su di te – gli dissi, più serio che mai. Ci eravamo sbagliati entrambi.
Sollevai il coltello, le dita strette sull’impugnatura. La paura scorreva nelle mie vene insieme al sangue, una miscela in ebollizione che non sarei mai riuscito a calmare. Avevo le viscere aggrovigliate su loro stesse nell’agghiacciante terrore che la Prima Civilizzazione si facesse sentire, fermando la mia mano proprio sul più bello. Giunone mi avrebbe fatto crollare a terra, incapace di muovermi. Minerva mi avrebbe intontito con i suoi discorsi sul mio ruolo, su quando la morte di Achille avrebbe potuto danneggiarmi e bla, bla, bla. Non parliamo di Giove, poi. Chi avrebbe dovuto scegliere? Me o Achille? Chi aveva più importanza in quella maledetta guerra?
Presi fiato tra i denti stretti mentre il Mentore si lasciava lentamente andare. La sua presa sulla mia mano si allentò. Chiuse gli occhi, e tutti i suoi muscoli si rilassarono. Non fremeva più. I suoi timori erano spariti per mettere radice dentro di me, soffocando il mio corpo, le mie volontà, come rampicanti. – Fa’ in fretta, Templare – sibilò.
Sospirai. Non l’avrei certo fatto per lui. Volevo soltanto che quella storia finisse velocemente. Non avevo il coraggio di restare lì a guardarlo riversare le viscere sul pavimento, sul materasso sottile del letto. Non ero preparato a quell’enorme macchia di un rosso così scuro da sembrare nero.
Ucciderlo era l’unico modo che avevo per vivere.
Ehi, piantatela di guardarmi in quel modo. Non avevo accantonato l’idea di una tregua tra Assassini e Templari. Nemmeno per un istante. Solo che Achille non avrebbe mai potuto farne parte. Non era la persona giusta. Era così cocciuto, fiero delle proprie convinzioni. La Confraternita doveva rimanere pura in se stessa, appoggiata solo da Coloro Che Vennero Prima. L’unità ferma la guerra, e senza la guerra si sarebbe fermata anche la vita.
Un concetto semplice. – Non volevo finisse così – sussurrai.
– La tua sincerità mi commuove.
Non riuscii a trattenere un sorriso triste prima di poggiare il palmo sinistro sulla sua bocca. – Addio.
Gli affondai il suo stesso coltello nella gola, un taglio netto lungo il collo. Sentii le labbra tendersi in una linea seria, dura, la mascella contratta così forte da far male mentre il sangue di Achille imbrattava la pelle rattrappita e solcata di rughe del collo, scorreva come un torrente sulla camicia, su quella giacca marrone che indossava da tutta la vita. La vita di Achille Davenport penetrò nei tessuti, nell’imbottitura del materasso, nelle fibre grezze della coperta che assorbiva tutto come fosse paglia. Rabbrividii sentendo il contatto della stoffa spessa e umida contro i calzoni insanguinati.
Il contenuto delle sue vene si riversava nelle mie, caldo e ancora pulsante di vita. Un altro discendente della Prima Civilizzazione che trapassava, oh, peccato. Iniziavo a pensare che fossimo solo in grado di attirare guai. O di causarli in prima persona.
Un groppo di bile e vomito acquoso mi sgorgò in bocca, come una fontana. Strinti forse i denti e mandai giù, e la bocca mi si aprì in un respiro che somigliava fin troppo a un singhiozzo. Calcai la mano sulle labbra schiuse di Achille, un po’ per riflesso, un po’ perché sapevo come andavano le cose. Il sangue zampillò dalla gola contro il mio palmo, rovente sulla pelle. Per poco, grazie al cielo.
Il corpo del vecchio fu scosso da qualche colpo di tosse, ma non mi preoccupai di rivoltarlo. Che soffocasse. Qualunque mio tentativo di assicurargli una morte peggiore, più dolorosa o violenta, mi avrebbe trattenuto più a lungo in quella stanza. E io volevo solo andarmene.
Correre. Sollevare le braccia al cielo e gridare con tutto il fiato che avevo in corpo, ecco cosa volevo. Perdermi nella Frontiera, tra gli alberi, i ricordi, gli animali, e dimenticare che avevo ucciso un Assassino, e che pochi mesi prima avevo ammazzato un uomo a lungo trattato come un fratello. Dimenticare che gli uomini continuavano a morirmi intorno solo per portarmi verso la vendetta. Ne sarebbe valsa la pena? Volevo dimenticare la possibilità che non fosse così, che uccidere Reginald portasse Charles a schierarsi contro di me. E se si fosse affezionato al Gran Maestro, nel frattempo? E se avesse deciso che farsi fottere non era poi questa gran tragedia?
Buon Dio, che cosa… Che cosa avrei fatto, eh?
Per questo volevo andarmene. Prendere un cavallo e partire, solo io, Thomas e Connor.
– Uugh… – Achille emise un rantolo strozzato dal suo stesso sangue. Oh, Cristo santo, Connor. Non l’avevo tenuto in conto, giusto. Il Mentore diceva che mi avrebbe ucciso, che non sarebbe mai riuscito a perdonarmelo, ma io non volevo il suo perdono. Volevo un letto caldo, una donna da stringere, la Mela dell’Eden al sicuro nella mia tasca. Volevo svegliarmi con il sorriso di Charles Lee davanti agli occhi, con Thomas sbronzo e Connor chiuso nella sua stanza a piangersi addosso, ma avrei dato qualsiasi cosa perché la colpa non ricadesse su di me.
Perché non sarebbe successo, giusto? Le palpebre di Achille si sollevarono a fatica, mostrando le pupille ostinatamente puntate verso il soffitto, le mani rese lente dall’età e dall’emorragia che lottavano per raggiungere la ferita al collo. Non l’avevo ucciso perché la morte mi divertisse, o perché fossi nato per farlo.
Da quando ero soltanto un bambino, ammazzare era la sola via per porre fine a una disputa che mi avessero mai insegnato. Che bisogno c’era delle parole quando avevamo le lame, il veleno, i mercenari? Nessuno. E che bisogno c’era di un governo vuoto, imperfetto e scelto da quella massa di inetti senza esperienza che componeva il popolo, quando avremmo potuto avere la Mela dell’Eden e il suo smisurato potere?
A che serviva la pietà quando potevamo dispensare morte? E ancora, a che cosa serve cercare di far ragionare un uomo che vuole soltanto ucciderti? Più di qualsiasi altra cosa, perché avrei dovuto mettere a rischio la mia sopravvivenza quando potevo sollevare un coltello e stroncare alla radice il pericolo? Soltanto perché Connor pensava fosse la cosa giusta da fare?
La sua opinione buonista era priva di fondamenti, basata sull’affetto che lo legava a Washington e ai coglioni che gli giravano attorno come api voraci. – Ah. – L’ultimo gemito di Achille, soffocato dalla mia mano, mi riportò alla realtà. Serrò la presa di quelle piccole dita ritorte sul mio polso, o almeno ci provò. L’appendice si bloccò a mezz’aria e i muscoli smisero definitivamente di obbedire. Il sangue collassò sul fondo del suo corpo, schiena, glutei, scapole, talloni e gomiti. Mi parve quasi di sentirne lo scroscio.
– Get six young soldiers to carry my coffin, six young girls to sing me a song, and each of them carry a bunch of green laurel… – Thomas Hickey. Pensavo non potesse scegliere un momento peggiore per intonare ancora quella stupida canzone. – …so they don’t smell as they bear me along… Ehi!
Sospirai, guardando il corpo di Achille finalmente esanime davanti a me. A Coloro Che Vennero Prima restavano sempre meno speranze, anzi, una sola. Per quanto Connor potesse essere un mollaccione, be’, nemmeno la Prima Civilizzazione poteva prendere il posto di George Washington. Avrebbe preferito lasciare l’umanità nelle mani di quel poppante piuttosto che consegnarla al sangue del suo sangue. –  Dov’è Haytham? –  Mi mollai una botta sulla tempia con il palmo. Dannazione, adesso sentivo pure la sua voce. Forse ammazzare mi stava davvero facendo uscire un po’ fuori di…
Il pomello metallico della porta batté contro la parete con il fracasso di una pentola buttata a terra. Gesù Cristo, no. – Come sta? – Oh, no. No, no, no. Perché? La voce di mio figlio dietro le spalle mi gelò il sangue nelle vene.
Tom avrebbe dovuto fermarlo. Avrebbe dovuto impedirgli di salire su, di osservare tutta la scena. Pensa. Pensa! Non restare zitto. Affondai gli incisivi nel labbro inferiore, costringendo la mia testa a lavorare più in fretta, più in fretta. Se non avessi detto nulla Connor avrebbe fatto un passo verso di me, quindi tanto valeva tranquillizzarlo, quantomeno per prendere tempo e pensare al modo giusto di dirglielo. –  Oh, tutto bene. –  “Sai, l’ho fatto fuori perché altrimenti sarebbe toccato a me. Hai presente i Precursori? Ecco, pensava di star lavorando per loro. Doveva essere diventato tocco, di recente.” Che schifo. La vergogna mi pulsava nel petto come un tamburo. Oppure? “Eh, è morto da solo. L’ho trovato con un coltello affondato nella gola, voleva farla finita.” Strinsi più forte i denti. –  Si è addormentato. – Ah, bella questa, certo, la migliore che potesse mai venirti in testa! “Sì, sta solo dormendo, ma dagli una scrollata, cuci con due punti quel graffietto sul collo e pompagli un filo d’aria nel petto che torna come nuovo.”
Non riuscivo neanche a spiegarmelo, ma era come se… Dio, come se avessi paura di Connor. Della sua reazione. D’altro canto, ne avevo tutte le ragioni. Poteva essere la scusa buona per non prestarci il Frutto dell’Eden e impedire per sempre la mia vendetta. Non che non ci avessi pensato, davvero. Solo, da vivo avevo ancora qualche possibilità di sconfiggerlo. Se Achille mi avesse ucciso, altro che addio alla vendetta. Addio alla terra, alla vita, alle puttane e all’alcool, e benvenuto, mondo di fuoco governato dal demonio.
Resta una guida più saggia di George Washington. Non riuscii a trattenere un risolino nervoso davanti alla mia assurda idiozia. Il vecchio aveva proprio ragione. Il Gran Maestro più stupido che l’Ordine avesse mai avuto. Stupido, forse, ma vivo.
A me bastava. – Dorme? – La voce di Connor era piacevolmente sorpresa. Che razza di idiota. Naturale, Achille si era mostrato così attivo negli ultimi giorni che, assolutamente, era assurdo stesse ancora dormendo. Chinai il capo sul sangue che continuava a ruscellare placido dal suo collo. Oh, sì. Le gocce che si appendevano alla struttura di legno del letto e restavano lì, immobili per un secondo nel nulla più perfetto, prima di crollare sul pavimento accanto al mio stivale, dove si stava allargando una macchia larga su per giù quanto il mio pollice. – Perché sei qui, allora?
Feci spallucce. – Volevo salutarlo. – I miei occhi corsero dietro a una piccola goccia scura che aveva appena lasciato il materasso per strisciare sul legno chiaro. Codarda.
– Salutarlo?
Guarda come corre. – Be’, sì. Ho intenzione di partire questa sera stessa. Domani mattina, al massimo. – Inclinai il capo per seguire la mia goccia nella sua corsa suicida verso il pavimento. Seguiva le venature, passava dall’una all’altra come il cavallo più scattante di sempre, hop, hop, mi sembrava strano non averla già persa da un pezzo. Eccola. Sempre lei.
– Non possiamo lasciare Achille da solo.
Dovetti usare tutto il mio autocontrollo per non scoppiare a ridere. O in lacrime, sia chiaro. Il petto mi bruciava come se qualcuno mi avesse costretto a ingoiare un fiammifero acceso. – Quanto pensi che staremo via? – Ecco qui. Il momento più eccitante di tutti. Quando è mezza attaccata e mezza no, e sai che sta per prendere il volo e non puoi fermarla. Riesci solo a guardare quella caduta armoniosa, la perfezione con cui incontra il legno. Riesci solo a pensare che non sarai mai, mai in grado di fare qualcosa di altrettanto bello. Strinsi le mani sulla coperta che mi avvolgeva il ginocchio. Gocce di sangue imbrattarono ulteriormente la stoffa già zuppa. Però senza di te non esisterebbero nemmeno. Tu che hai aperto la ferita e le hai rese libere, sì, tu. Proprio tu.
– Non ne ho la minima idea, ma… Haytham, l’hai visto. – La sua voce aveva assunto una strana piega, sembrava tesa, sul punto di spezzarsi. Eccola. Sta volando, la segui? L’ennesima goccia di sangue si era finalmente staccata ed eccola lì, in volo. – Non lascerò che qualcun altro muoia quando posso fare qualcosa.
Lo schianto del liquido sul pavimento è come l’esplosione di dieci barili di polvere da sparo nello stesso momento, il petto aperto il due e il cuore che pompa e spruzza ancora legato alle vene, continua a mandare tutto quel sangue alle mani, ai piedi, alle dita e alla testa e tutto è confuso e ti viene da ridere ma non puoi, capisci? Non puoi. Resisti. Resta qui. Non lasciare che questo… Che quest’errore ti porti via. Rimani con lui. Fagli capire perché è andata così, va bene? Prova solo a spiegarti, a essere gentile, e le cose si aggiustano da sole.
Volevo soltanto ridergli in faccia. Non avrebbe potuto fare niente per questo vecchio malato. O lui o noi, ecco la sua scelta su un piatto d’argento. Connor non poteva salvare tutti. Era una guerra. In guerra la gente muore, la terra salta per aria, le vedove piangono e i figli diventano orfani, è un dato di fatto. Ci sono sempre vittime e carnefici. Salvare Washington non era abbastanza?
– Haytham? – Il ragazzo si affacciò sopra la mia spalla e lo sentii trasalire come una scolaretta impaurita. – Che cosa…? – Come se quella vecchia reliquia potesse servirgli a qualcosa. Stava combattendo per la Confraternita, giusto? Sarebbe stato come usare un cannone obsoleto o mal funzionante solo perché ci si era affezionati. Il Continentale l’avrebbe fatto? No. Specie sapendo che quel cannone sarebbe potuto saltare in aria, ammazzandoli tutti.
Non l’avevo ucciso. Avevo salvato me stesso, lui, Thomas e il nostro futuro. – Connor, io... – Non avevo intenzione di dargli una spiegazione degna di questo nome. Solo, non volevo pensasse fossi un assassino fuori di testa che ammazzava la figura più simile a un padre che gli fosse mai stata accanto solo per gelosia o perché apparteneva a un’altra fazione. – Era necessario – riuscii soltanto a dire.
Il suo urlo fu così forte che trasalii, facendo sobbalzare anche il corpo ancora caldo, molle e privo di vita di Achille Davenport. Carcassa buona solo per i vermi, per la libertà di quelle goccioline e i loro schianti, la loro bellezza. Cibo per mosche. Per i parassiti come me. –  Che cosa hai fatto? –  gridò con tutto il fiato che aveva in corpo. Mi alzai in piedi prima che decidesse di buttarmi a terra con uno spintone e gli lasciai lo spazio accanto al cadavere. Qualcuno deve pur liberare il mondo dalle scorie, giusto? So che è un mestiere gretto, oscuro e indegno, ma noi… Noi siamo il futuro. Ecco che cosa mi girava in testa mentre Connor si lasciava cadere ai piedi del letto, al capezzale del suo maestro morto, una mano sulla sua – priva di vita, il palmo e l’interno del braccio già un po’ più scuri per tutto il sangue che vi era affluito –, l’altra poggiata sotto la testa che sussultava per i singhiozzi. Lo so, ragazzo. Lo so. Non era per te, d’accordo? Non era nemmeno per me. Era per il futuro.
– Connor, tu…
– Va’ via! – Il volto di Connor era già solcato dalle lacrime, la voce distorta per tutto quel dolore. Tutto insieme. Oh, Cristo. – Perché l’hai fatto, Haytham? Perché?
Rimasi lì a guardarlo con la bocca mezza aperta e la lingua a torturare l’interno della guancia. Potevo dirgli così tante cose. Che Achille non era affatto come pensava lui, non lo conosceva, e fino a mezz’ora prima non lo conoscevo nemmeno io. Come potevo sapere che dietro tutto quello ci fosse la Prima Civilizzazione? Dunque non era una fissazione esclusiva di Reginald Birch. Pensavo… Quello che avevo in testa cominciò a fondersi, una massa informe e senza pace di materia oscura. Chissà come doveva esserci rimasto, il vecchio, quando la sua ricerca di quei tre bastardi era stata brutalmente fermata dalla nostra caccia. Chissà quanti altri Assassini stavano lavorando alla ricerca del modo per farli tornare indietro.
Che non fosse davvero quello, alla fine, lo scopo degli Assassini? Mettere al potere Coloro Che Vennero Prima, lasciare che fossero loro a governarci e porre fine a tutti i problemi? D’altronde, erano pur sempre esseri sopravvissuti alla fine del mondo, seppur in forma di… spiriti, sì. Non mi stupivo più all’idea di pensare quella parola. Non erano nemmeno la cosa più strana che avessi mai visto, forse. La Prima Civilizzazione doveva aver imparato qualcosa dai propri errori, non è così? Qualsiasi cosa. C’era un modo per evitare che accadesse di nuovo, come Giove aveva predetto nel mio sogno. Con i pugni serrati e le orecchie, la testa, il corpo colmati da un fischio che mi intorpidiva le membra e mi impediva di vedere oltre mio figlio, oltre le sue mani enormi su quelle piccole e rinsecchite di Achille, oltre l’urlo di disperazione che gli riempiva la bocca, il petto che sussultava per i singhiozzi, e poi… e poi ancora oltre gli occhi bagnati e le guance sporche, con quella visione davanti agli occhi e quel caos dentro la testa, l’idea dell’Apocalisse mi fece correre un violento brivido lungo la schiena, un acuto nel fischio che m’impediva di sentire Connor piangere e Thomas cantare.
E se Achille avesse avuto ragione? Forse stavo sbagliando tutto, ammazzandolo. La sua morte poteva essere il primo passo verso la fine – quello, come qualunque altro. Achille… chi lo sa? Forse conosceva un modo, un qualsiasi modo, per cambiare le cose. Il futuro. Un modo che la Prima Civilizzazione non poteva dirmi.
Potevo aver distrutto l’unica possibilità del mondo di trarsi in salvo.
– Che cosa hai fatto? – L’urlo di Connor mi riscosse dal torpore, facendomi tentennare sulle gambe molli.
Che cosa ho fatto?
– Lui… – Lui cosa, di preciso? Mi umettai le labbra. Non avevo alcuna scusante, e come sempre me ne rendevo conto troppo tardi. Be’, a dire il vero una scusante c’era, eccome se c’era. – Mi avrebbe ucciso. – Ed era la verità.
Allora perché mi sentivo così di merda mentre gliela sbattevo in faccia?
– Va’ via – ripeté prima di affondare il petto nel giaciglio zuppo di sangue. – Per piacere.
– Lasciami almeno spiegare… – Non finii la frase semplicemente perché non c’era nulla da spiegare. Connor non avrebbe mai capito perché fossi stato così egoista, e nemmeno le migliori intenzioni potevano riportare indietro il suo Mentore.
Lasciai cadere le spalle in un cenno sconsolato. Sapeva che razza di persona fossi. Tanto valeva sfruttarlo fino in fondo.
Portai una mano alla nuca, con il collo che bruciava di vergogna, umiliazione e paura. – Non è… Non è cambiato niente, giusto?
Si voltò, scoccandomi un’occhiata carica di pietà, ira e… qualcos’altro. Una scintilla della fierezza di sua madre, quell’orgoglio con cui mi disprezzava così tanto. In quell’istante – con quell’occhiata – capii perché poco prima mi ero sentito così di merda.
– No – rispose Connor. – Voglio solo che questa storia finisca.
Perché ero una merda. Non c’erano altre definizioni. E sapevo anche che cosa intendesse Connor con quelle parole. Feci un sorrisetto tirato alle sue enormi spalle. – Cambio di programma? – Era la cosa più sicura da fare per lui e la Confraternita. Lasciare che uccidessi Reginald e pugnalarmi alla schiena.
Il poppante non aveva la minima idea di chi avesse davanti. – Siete prevedibili, sai?
Si voltò a guardarmi, sconvolto, due strisce appiccicose e lucide lasciate sulle guance, là dove le lacrime avevano fatto il loro percorso. – Cosa? – sussurrò tra i denti. Certo. Che facesse anche finta di non sentire, di non sapere, di non averci quantomeno pensato.
– Guarda che io ti ho capito. – Gli feci un sorrisetto, tutto il peso caricato sulla gamba sana e le mani chiuse a pugno nelle tasche. – Tu e la tua piccola testa da Assassino, piena di illusioni, libertà e bei pensieri appiccicati sulle persone sbagliate. – Sentii le labbra tirare più forte sul viso, tese in un sorriso così largo da far male. Avevo un piano. – Ancora non ti è chiaro che cosa sono in grado di fare. – Uno scatto del polso sinistro e la lama celata sarebbe stata lì, al mio servizio, brillante come sempre, pronta per affondare nel suo occhio. O nel suo stomaco. O nel suo petto, tra le gambe, nella schiena, o in tutti questi posti. Bastava che morisse.
Non mi ero nemmeno accorto di aver coperto la distanza tra noi con due passi zoppicanti. Potevo sentire l’odore del sangue di Achille, e vedere le gocce che continuavano ad allargare la grossa macchia appiccicosa sul pavimento. – Ho ammazzato William Johnson. E Benjamin Church. – Deglutì, il grosso pomo d’Adamo che saliva e scendeva lungo il suo spesso collo cercando di ricacciare nel ventre le lacrime e la paura. Così si fa, eh, Connor? Provava a rimettere in piedi la sua facciata spavalda senza nemmeno pensare a quanto si fosse sfaldata col tempo e le morti. E poi sono io il codardo. – Ho ammazzato Achille, e tutto soltanto per arrivare sul trono, al punto più alto in cui l’Ordine potrà mai portarmi. Non capisci? Non c’è più niente che possa fermarmi. Niente. Né tu, né i tuoi compaesani del cazzo, né tantomeno l’Esercito Continentale. Sei rimasto solo, Assassino. Non hai più possibilità. Con me o contro di me. E credi che se anche te ne andassi con la Mela io non verrei a cercarti? – Scrollai il capo in una risata, la voce ridotta a un sibilo terrificante. Almeno, per lui. – Ucciderò Reginald anche senza il tuo aiuto. Ti darò la caccia, dovessi arrivare in capo al mondo. E non ci sarà nessuno a proteggerti. – Avevo il viso così vicino al suo da vederne i pori, la sfumatura inquieta nello sguardo, il sudore che gli impregnava la fronte. Lo avevo in pugno. – Non importa più a nessuno della tua patetica vita.  
Connor si fece più piccolo, strisciando verso i piedi del letto. Oh, così sì che mi piaceva. In ginocchio. A implorare pietà. Così dovevano essere tutti, davanti a me. Davanti all’Ordine. – Fa’ ciò che vuoi – dissi, mellifluo. – Non rispettare i patti. Corri a nasconderti sotto la sottana di Washington. Sappi che ne pagherai le conseguenze. – Bastardo sentimentale del cazzo. Come poteva non capire che Achille aveva rovinato anche la sua vita? Lo aveva allontanato da me. Era stato lui a ficcargli in testa la malsana convinzione che noi fossimo il male. Non aveva altri esempi, altri modelli da seguire. Soltanto un vecchio visionario assetato di potere e di Prima Civilizzazione.
Potevo non essere il migliore dei padri, ma non lo avrei mai mandato su quella strada, se avessi potuto evitarlo. Mai. – Non voglio ucciderti, Haytham – mi ringhiò contro, cercando di recuperare il coraggio in fondo alle viscere. Che razza di idiota. Era pur sempre un ragazzino. Non aveva l’esperienza né l’intelletto necessario per farmi secco. Tutta la forza bruta del mondo, certo, ma io… Io sapevo che cosa significasse trovarsi nelle sue condizioni.
Ricordavo fin troppo bene che cosa si provasse con un padre morto ai propri piedi e un altro dietro le spalle, pronto a prendere il suo posto. Ci si fida. Vero, papà? Ci si fida e basta.
Feci spallucce. – Solo per metterti in guardia, ragazzo. – Lasciai casualmente cadere la mano sull’elsa della spada. Gli zigomi mi facevano male per aver sorriso così a lungo. – Vorresti farmi credere che l’idea di ritirare la tua promessa non ti ha sfiorato nemmeno per un secondo? – Bugiardo. Bugiardo coi fiocchi.
– Quando stringo un patto, lo rispetto. – Onorevole, da parte sua. Parecchio, ma non potevo esserne sicuro. Da quante bocche avevo sentito quelle stesse parole, e poi mi ero ritrovato le loro lame puntate alla gola?
– Perdona la mia diffidenza. – Feci un paio di faticosi passi indietro, strofinando i palmi sudati sulla coperta sozza di sangue. – Ti aspetto per domattina all’alba.
Connor chinò il capo sul cadavere di Achille. Quando lo rialzò, nei suoi occhi brillava una scintilla più dura dell’acciaio. – Permettimi di dargli una degna sepoltura – sussurrò tra i denti, le mani torte l’una nell’altra. Quel bastardo non meritava una fossa. Meritava di essere appeso nudo dal balcone, ecco. Un monito per chiunque avesse provato a sfidarmi. Per chiunque si fosse fidato tanto dei Precursori da anteporli alla propria causa, alla propria vita.
Al diavolo. Non era un mio affare. Ucciderlo era una soddisfazione sufficiente, sì. Appena sufficiente, ma già qualcosa. – Come vuoi. Non me ne frega niente – risposi duro, dandogli la schiena. Dovevo farmi cucire, prima di tutto. E poi darmi una lavata, prepararmi al meglio per la partenza. Scegliere i cavalli, dare due tiri di spada con Thomas.
Avevo imparato la lezione con quel vecchio bastardo di Achille Davenport. Non sottovalutare mai il nemico. Non pensare di essere più forte. Quello puoi permettertelo solo con quell’imbecille di tuo figlio, quello che rispetta i patti e non ha mai fatto male a una mosca in vita sua.
Sì, voglio dire, né i Templari né le giubbe rosse sono mosche. Almeno credo.
Imbecille di merda. – Haytham. – Toh, bastava anche solo pensare a lui perché riprendesse a rovinarmi la giornata con le sue stronzate. Dimmi pure, ragazzo. Mi voltai su me stesso con una mezza giravolta teatrale, per quanto possibile con una gamba immobilizzata. – Davvero lo hai ucciso per quello? Intendo… Davvero lui voleva ucciderti?
Mi strinsi nelle spalle con un sorriso triste. Oh, lui e la sua incondizionata fiducia nell’umanità. Lo avrebbe portato alla rovina, così come quella del suo Mentore nella Prima Civilizzazione. – Ti sembro uno che assassina la gente per nulla?
Abbassò la testa, la voce ridotta a un sussurro. – William Johnson.
Non lo sopportavo.
Si attaccava a quelle vecchie storie come un bambino, ma quando toccava a me snocciolare tutte le grane in cui mi avevano spinto gli Assassini, ecco che diventavo un gran bastardo. Questo sì che è essere equi, diavolo. – Non l’ho fatto perché mi girava così, ragazzo. Sono stati Coloro Che Vennero Prima. Me l’hanno messo contro. Non avevo altra scelta. – E poi, chi lo sai, magari si sarebbe davvero schierato dalla parte di Reginald, o peggio!, si sarebbe potuto unire a Benjamin Church e alla sua stupida missione da reietto. Ecco cosa odiavo e al tempo stesso amavo del mio Ordine: non c’era uno solo di quegli uomini che mi avrebbe obbedito senza sapere esattamente a cosa stavamo andando incontro.
Eccetto Thomas, forse. Si accontentava dell’azione, del denaro, del sesso. Quanto mi sarebbe piaciuto essere come lui. Avrei avuto molti meno problemi. – Se non lo avessi fermato, Achille avrebbe fatto la stessa cosa con me. – Non sarebbe mai stato in grado di contrastare Reginald da solo, e Thomas non lo avrebbe aiutato, poco ma sicuro.
Ero la sua unica speranza, la peggiore che il destino potesse mai affidargli.
Sollevai i palmi in segno di resa e uscii faticosamente dalla stanza, trascinandomi dietro la gamba malmessa. Per quanto diversi fossero i nostri modi di pensare, sapevo bene che non avrebbe mai perso la vita per salvarmi, in caso la situazione si fosse capovolta. Tutti gli uomini hanno un limite, e sono pochissime le cose per cui siamo disposti a morire.
Achille e la Prima Civilizzazione non facevano parte di queste. Non per me. 

 
Note dell'autrice:
Eeeeehi, people! Come va?
Okay. Diciamo che il mio intervento qui sotto è pressoché inutile e anche piuttosto fastidioso, oserei dire, lol, ma volevo augurarvi buon Natale, eddai.
Perché, come insegna questo capitolo, a Natale sono tuuuutti più buoni. Tutti-tutti, eh.
Vabbé, considerate questo capitolo come un regalo di Natale da parte mia, toh.
Spero di scrivere abbastanza da pubblicare anche la prossima settima, o.o
Pure a Capodanno (o quasi), sì. Vi perseguito. LOL.
Comunque, se non aggiorno vi avviserò. In qualche modo. Aiuto.
Vi lascio ai cenoni o allo spumante o al panettone, e scusate il ritardo clamoroso, lol, ma ho passato il pomeriggio a cucinare dolci orribili.
Ah, la magia del Natale.
D'accordo, boh, me ne vado perché, davvero, sono inutile.
Ah, la canzone che canta Tom è vera, si chiama "The Unfortunate Rake". In caso vi freghi. LOL.
Me ne vado sul serio, eheh.
Alla prossima!


 

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Capitolo 61
*** Faccia da poker. ***


– Gesù Cristo, il vecchio picchia ancora duro, eh? – Tom stappò una bottiglia di brandy coi denti, sputandosi il tappo in una mano. – Bel taglio del cazzo.
– Sta’ zitto e versa quella roba – gli ringhiai, le mani tremanti strette sulla cintura che mi aveva sistemato appena sopra la ferita. Qualcosa per fermare il sangue di cui mi aveva parlato Ben un secolo prima. Allora hai detto anche qualche parolina utile, eh, vecchio mio?
– Versare? Ma sei scemo? – Tracannò qualche sorso di liquore con gli occhi chiusi e il capo reclinato, come in estasi, mentre con l’altra mano cercava a tentoni l’ago e il filo sul tavolo. Buffone. – Questo è per me.
– E ti pareva – dissi roteando gli occhi. – Almeno fa’ in fretta. – Non che mi fidassi molto di Thomas, eh, ma che altro avrei potuto fare? Morire dissanguato davanti alla porta della camera di Achille mentre imploravo mio figlio di perdonarmi?
Nemmeno fossi pentito. Era stata una necessità. D’accordo, da una parte era anche un fatto personale, lo ammetto. L’idea che avesse pianificato tutto con la Prima Civilizzazione, dal mio salvataggio alla mia casuale dipartita per mano sua, mi mandava in bestia. Il mio corpo bruciava, organi e carni agitati dall’odio verso di lui, verso quei tre bastardi, verso chiunque. Che cosa voleva la Prima Civilizzazione da me? Perché mi aveva fatto uccidere William? C’era un’idea, dentro la mia testa, l’idea letale e perversa che non lo avessero permesso solo per accontentare Achille, ma che ci fosse dietro qualcosa di molto più specifico, diretto a me, calibrato per farmi del male.
Mirato a lasciarmi solo come un cane. Era comunque doloroso, una spina nel fianco che non potevo estirpare, se non ammazzandomi.
Andiamo. D’accordo, cercavo di essere coerente con il messaggio templare e con ciò che volevo mettere in piedi, ma ammazzarmi solo per impedire alla Prima Civilizzazione di realizzare il suo piano – qualunque esso fosse – era un rischio troppo grande. Che cosa sarebbe stato per loro cambiare corpo, passare a Connor? Erano sopravvissuti per tutti quegli anni, non sarebbe cambiato molto da un uomo all’altro, specie quando la parentela era così stretta.
E poi, che cosa potevo saperne io del loro piano? Forse sarebbe stato mille volte più utile di ciò che avevo in mente io. Potevano avere ragione. Achille… Achille no. Lui voleva uccidermi e lasciare il controllo a quei tre. Ero a pochi passi dal dominio dell’Ordine, delle Colonie, non me lo sarei lasciato sfuggire per il suo inspiegabile desiderio di vendetta.
Avevi solo da non salvarmi, pezzo di merda. – Pronto? – Tom brandì l’ago come fosse un pugnale, sventolandolo davanti alla mia faccia.
Strinsi i denti, sviato improvvisamente da tutti i miei pensieri. L’unica cosa importante era restare in vita. Sangue nelle vene, non fuori. Sangue freddo nelle vene, mente lucida. Ecco di cosa avevo bisogno. Non era il momento di perdersi in sproloqui fini a se stessi. – Per così dire – ringhiai, le mani strette più forte su quella vecchia cintura. – Sei sicuro che quel coso si tenga così?
– Totalmente – grugnì, lanciandomi un’occhiata divertita. – Non vorrai dirmi che hai paura.
Feci spallucce, per quanto possibile con le dita bloccate sulla coscia. – Non è paura – replicai. – In quanto Templare, è normale che non abbia molta fiducia nel prossimo.
– Nemmeno in un fratello? – fece, il labbro inferiore sporto e l’aria offesa. – Sei così crudele.
– Vuoi darti una mossa? – Più restava lì, con l’ago di metallo tra le dita e l’espressione di chi aveva usato quell’affare solo per torturare qualche Assassino ai tempi della caccia, e più l’ansia nel mio petto cresceva. Rilassati.
Sì, certo. Rilassarmi. Già mi immaginavo a puntare la spada contro Reginald con una gamba in meno. Un fottuto scherzo della natura. – Va bene, va bene. E se non ci riesco?
Strinsi i denti. – Thomas Hickey. È un ordine. – L’aveva detto lui, no? Le mie scelte erano solo mie. Volevo mi ricucisse. Lui doveva ricucirmi. E se ti devono tranciare il polpaccio? Mia ogni responsabilità, no? Avevo un groppo in gola al solo pensiero, ma era quello il rischio da correre. Un po’ come vivere con la Prima Civilizzazione in testa. Avrebbero potuto fare qualsiasi cosa con me, farmi uccidere Thomas, Reginald, lo stesso Charles, se solo fosse stato nei loro piani.
Dovevo soltanto sperare che così non fosse. – D’accordo. – Tom scrollò il capo, noncurante, e affondò l’acciaio nella mia carne.
– Cazzo – sibilai tra i denti, cercando di mantenere un contegno mentre quell’ubriacone scoppiava a ridere e tirava fuori l’ago dall’altra parte della ferita. A essere onesto pensavo facesse più male. – Non sei così… pessimo. – L’ultima parola mi venne fuori di bocca in un gemito, l’altra gamba tesa e indurita come il legno per compensare il dolore.
Thomas fischiò, sollevando l’angolo della bocca in una smorfia impertinente. – E non è nemmeno ciò che so fare meglio. – C’era una scintilla divertita nei suoi occhi mentre spingeva la lingua contro la guancia, un sopracciglio inarcato e la mano sinistra poggiata sul ginocchio insensibile.
Coglione. – Pensa a finire il lavoro – ringhiai prima di reclinare il capo, lo sguardo perso nel soffitto. Che tristezza. – A volte mi chiedo se tu abbia mai avuto un po’ di pudore.
Da una parte era meglio così. Che lo lasciasse pure a mio figlio. Il pudore, l’assoluto rispetto delle autorità, quelle stronzate lì. Non è nella natura di un Templare accettare passivamente gli ordini. – Stavo solo pensando che, già che ci siamo… – Tom mi aprì di più le gambe con una spintarella e le richiuse, facendomi cozzare le ginocchia. Un brivido doloroso corse dalla gambe sinistra fino alla mia testa, scuotendomi completamente. – Ma se tu vuoi fare la piccola vedova casta, va bene così.
– Se va bene a te, va bene anche a me – lo provocai. Non che volessi ficcargli il cazzo in bocca, ma era sempre divertente.
Chinò il capo. – Sono nato per servire.
Sentii le labbra tirare in un sorriso forzato. – Meglio che continui a farlo – sussurrai, la mano sinistra stretta sul bracciolo della sedia. Odiavo il fatto di dover contare su qualcuno, ma d’altro canto era quello il fine di un Ordine, di uno qualsiasi. Affrontare i grandi problemi insieme, come una sola persona.
Peccato che non fossimo davvero una sola persona. Io detestavo Reginald e lui disprezzava con tutto sé stesso Charles, lo leggevo nei suoi maledetti occhi da pervertito. I suoi motivi non mi interessavano: bastava solo che non anteponesse il suo odio alla causa.
Il mio… Il mio sì che poteva venire prima.
Egoista figlio di puttana. Thomas fece passare di nuovo ago e filo attraverso i lembi slabbrati di pelle, ancora e ancora, sigillando lo squarcio con un altro paio di punti. Non avevo letteralmente idea di che cosa stesse facendo. Mi bastava facesse in fretta. Che non facesse troppo male. – Diavolo – esclamò schiaffeggiandomi un ginocchio, –  allora un po’ di paura ce l’hai per davvero.
Emisi un sospiro stanco. Oh, cielo, Hickey, perché? – Cioè, non hai paura di me o di quest’ago del cazzo. Non sono così stupido da crederlo. – Be’, non era nemmeno così intelligente da afferrare il punto della situazione. A me lui faceva paura eccome. Certe volte mi venivano i brividi solo a guardarlo negli occhi. Come quando ripensavo al drastico stratagemma che aveva architettato sul ponte della Welcome, lasciandomi alle mie decisioni e alle loro conseguenze. – Credi che ti abbia messo Charles contro, non è vero?
– Ti farei un applauso se non fossi impegnato a tenere questa maledetta cintura al suo posto. – I miei complimenti, Tom. Battei le palpebre e incrociai il suo sguardo. Non sembrava affatto stupito. Oh, andiamo, un esempio di ferrea moralità come me, un capo sempre così sicuro e affidabile! Era impossibile credere che potessi dubitare dei miei stessi uomini! Thomas doveva avere proprio un talento naturale per scoprire questi piccoli trascorsi.
Sollevai l’angolo della bocca in un mezzo sorriso. – Cosa vuoi che ti dica? Che non mi fa paura? – Anche la destra lasciò cautamente andare la cinghia di cuoio e si strinse in un pugno, le nocche bianche sulla redingote. – Dopo tutto quello che mi ha fatto. Certo che ne ho.
– Mica te ne devi vergognare.
Aggrottai la fronte. – Non me ne vergogno.
– Allora perché non me l’hai detto subito?
Oddio. Se avessi dovuto confidare a Tom tutte le mie paranoie sul futuro, probabilmente sarebbe morto prima che finissi. – Certe cose un uomo deve tenerle per sé. Non pensavo te ne importasse. – Non credevo capisse davvero il valore della fiducia, per un essere umano. Che cos’è la fiducia, se non un patto che chiunque può infrangere? Il vincolo più stupido che l’essere umano adotti, ecco cos’è la fiducia. – Quando sono nella tua testa le cose sembrano meno reali.
Thomas fece un ghigno malvagio. – Però puoi combatterle solo quando lo sono.
Non riuscii a trattenere un sorriso mentre pensavo alla Prima Civilizzazione, a quei tre piccoli e ignobili bastardi nella mia testa. – Non sempre è vero. – Minerva, Giunone e Giove erano senza dubbio reali, ma come potevo combatterli? Come sconfiggi qualcuno che non ti sta davanti, che ti controlla e non puoi raggiungere in nessun modo?
Non sapevo quanto potesse servire continuare a lottare. – Già. – Tom fece spallucce, poggiò l’ago sul ripiano del tavolo e si attaccò nuovamente alla bottiglia di brandy. – Quindi… direi che nonostante tutto l’hai presa piuttosto bene.
Mi ritrovai a guardarlo in faccia senza capire bene che cosa volesse dire, sbracato mollemente sulla sedia. – Sì, a meno che tu non abbia ucciso il vecchio perché eri incazzato con Charles. Insomma, avresti comunque avuto la mia stima, e io non voglio difenderlo, capo, mai nella vita, ma… mica c’ha tutto ‘sto senso. – Thomas Hickey si grattò il mento, un po’ confuso. Il brandy cominciava a scintillargli negli occhi. – Per la storia della tua donna, sai, no?
Sentii la mascella contrarsi. Oh, certo, la mia donna, me n’ero quasi dimenticato. Imbecille. – Mi dispiace. – Sbuffai. Cristo santo, continuava a ripetere di essere dispiaciuto, che non avrebbe dovuto farlo, che aveva perso la lucidità e stronzate simili. Riusciva solo ad irritarmi di più. Che fosse sbronzo o lucido, armato, vestito, nudo, se l'avesse picchiata o meno, non mi interessava.
Mi ostinavo a pensare che la colpa fosse di Reginald. Dovevo mollare quel carico sulla schiena di qualcuno che con me non aveva niente a che fare, qualcuno che già odiavo. Nutrirmi di quel pretesto per alimentare la mia rabbia, ecco qual era il mio scopo. Aveva lasciato che Thomas e Charles facessero del male a Tiio, sperando che sarei stato tanto stupido da vendicarmi su di loro. No. Pensava davvero che avrei dimenticato le sue malefatte, i crimini che aveva commesso in nome del suo ideale, per riportare alla luce un amore morto e sepolto? Credeva che l'idea di Thomas Hickey sdraiato sopra Tiio urlante potesse farmi dimenticare i suoi luridi giochetti con me, le sue mani nei miei calzoni, gli insegnamenti che mi aveva fornito in quel campo, i suoi uomini che affondavano la spada nel petto di mio padre, la baionetta responsabile della morte di Jenny... solo per le gesta di quei due?
Che avevano poi fatto di così sbagliato? Era una vendetta nei miei confronti, perché Reginald aveva inculcato nelle loro teste l'idea che li avessi abbandonati per gli Assassini. Forse l'avrei fatto anche io, al loro posto.  Reginald. Sempre Reginald. Non era colpa di Charles, né di Thomas. L’unico responsabile di tutto quanto era lui, ecco cosa cercavo di mettermi in testa. Doveva pagare per tutto ciò che avevo subito, da cima a fondo. Mi serviva un capro espiatorio. Era mio compito attuare una selezione, volta prima di tutto a salvarmi la vita. Un individuo così pericoloso – come Benjamin, come William – non poteva rimanere vivo al mio fianco, pronto a dispensare consigli e gettare merda su chiunque non gli andasse a genio. Charles non avrebbe mai osato darmi degli ordini, e Tom doveva soltanto provarci. Dopo tanti anni, avevo imparato come tenerlo al suo posto.
Insomma, Reginald Birch era riuscito ad ingannarmi per vent'anni su chi avesse davvero ucciso mio padre. La sua capacità di persuasione andava davvero oltre qualsiasi limite. Per quale altro motivo avrebbe dovuto rapire Tiio e farla stuprare e uccidere da quei due, se non per mettermi contro di loro?
Per un attimo sospirai. Non sarei mai potuto diventare un Assassino. Io, a confidare nella libertà dopo anni e anni sotto un dannato giogo psicologico? Che idea idiota. Semplicemente impossibile. Ero la prova vivente che quei giochini funzionavano. Sarebbe stato davvero ipocrita, da parte mia. Tolto il fatto che mi veniva da ridere soltanto a pensarlo. Haytham Kenway in tunica bianca col cappuccio, a pronunciare un giuramento contraddittorio che veniva infilato in bocca agli Adepti come una verità rivelata, quando presentava più problemi che altro. No. Non ero fatto per quello. Mi spiace, papà.
– Haytham? Mi stai ascoltando?
Mi riscossi dai miei pensieri, cominciando a giocare con la bottiglia di brandy quasi vuota. Avevo una gran voglia di bere. Thomas si passò una mano tra i capelli, sbuffando, e puntò l’indice sulla superficie liscia e macchiata del tavolo. – Se potessi tornare indietro, sapendo tutto quello che ha fatto e che farà con l'Ordine, lo ucciderei io stesso – ringhiò, il collo teso verso di me. Tutti quei tendini sporgenti sotto la pelle.  
Sollevai gli occhi al soffitto. Ne avevo abbastanza di quelle discussioni. Non servivano a niente. Reginald era vivo e l’Ordine disastrato. L’unico modo per cambiare le cose era agire, non pensare a ciò che avremmo potuto fare in passato. – Prima ti prenderesti la parcella per i tuoi umili servigi, suppongo – dissi con un sospiro.  
– Mi conosci bene, capo – replicò. Il suo viso sembrava appena più rilassato. – Però prima parlavo sul serio. Pensavo saresti esploso per la sete di vendetta, che mi avresti tagliato la gola o cose del genere. Invece… – Arricciò le labbra, come se mi disprezzasse. Che diamine, era ancora vivo, no? – Sei calmo.
Chiusi gli occhi, evitando il suo sguardo.
E poi lo dissi.
Se devo essere onesto, le parole uscirono senza che ne fossi consapevole fino in fondo. Solo, non riuscivo più a tenerlo per me. Odiavo il tono con cui mi definiva, come fossi un coglione che non riusciva a mantenere il controllo. Uno che agiva soltanto in base ai suoi sentimenti, senza considerare nient’altro. Quella… Quella era l’idea di me che Reginald aveva piantato nelle loro teste. Haytham Kenway, l’imbecille sentimentale che aveva abbandonato l’Ordine per sua sorella, poi per la sua donna, dunque meritava di morire. Chi avrebbe voluto un capo del genere, uno che magari posticipava un omicidio per fare la serenata alla mogliettina?
Bastardo. Non ne potevo più di essere considerato un inetto, un essere spregevole. Reginald aveva rovinato la mia vita, e Thomas… Tom non poteva capire quanto fosse pericoloso. Non l’aveva provato sulla sua pelle. Mi ero ritrovato a fare ciò che avevo fatto solo per prendere il posto di Gran Maestro. Un posto che sarebbe stato mio di diritto se Birch non avesse deciso di mandarmi via con un gran calcio giù da uno sgabello.
Avrei fatto qualsiasi sacrificio pur di ucciderlo. Mi aveva preso per un idiota, e aveva decisamente scelto l’idiota sbagliato con cui giocare. Si sarebbe pentito. Avrebbe implorato pietà davanti a me.
Non era più di lui che avrebbero dovuto avere paura e rispetto, ma di me. Dovevano tremare al suono del mio nome. Dunque, perché restare zitto? Ero pericoloso. Ero un bastardo con i controcazzi. Nessuno poteva fermarmi. E anche uno di cui mi fidavo, come Thomas Hickey, doveva mettersi in quell’ottica.
Se i tuoi sottoposti sono tuoi amici non hai un esercito, ma un gruppo di uomini che può manipolarti come vuole. Disciplina, prima di qualsiasi altra cosa.
A volte l’Esercito Britannico metteva in piedi dei ragionamenti niente male, lo ammetto. – Nemmeno io sono un santo, Thomas. – La voce mi tremava d’eccitazione mentre glielo rivelavo. Oh, guarda. Sento le tue ginocchia tremare da qui. Non trattarmi come fossi una povera vittima, Tom. Non guardarmi così. Non sottovalutarmi, cazzo. – Ho anch’io le mie colpe. – Tu non sai cos’ho fatto. Parlavo con calma, come se quelle parole non mi appartenessero. Tu non sai cosa sono in grado di fare.  – Sono stato io.
Mi sforzai di guardarlo negli occhi. Era perplesso. Dovetti lottare per non sorridere, davvero. Il suo stupore mi mandava su di giri. Non se l’aspettava, dunque. Mi credeva davvero un agnellino, uno di quelli che ha paura di fare la cosa giusta.
Pensavo che dopo Benjamin avesse capito. – A fare cosa? – mugugnò, le palpebre strette sugli occhi.
– A uccidere William Johnson. – Un brivido di piacere lungo la spina dorsale, dal culo al cervello, potente come una frustata. – Sono stato io. L'ho ucciso io. – Era fuori discussione che staccassi lo sguardo dal suo. Tutto il mio potere era lì, nelle palle degli occhi puntate sulle sue. Oh, sì, il confratello William Johnson, quello di cui eri il protetto, già. Ammazzato come un cane in quella stanzetta di merda. Non c’era niente che, ai suoi occhi, potesse rendermi più pericoloso. Lo sapevo. Insomma, avevo un motivo ben chiaro per uccidere Reginald. Ne avevo avuto uno per uccidere Benjamin. Che cosa poteva avermi spinto a uccidere uno come Johnson, un diplomatico coi fiocchi, capace di dire la cosa giusta al momento giusto?
Solo un uomo pericoloso, uno che sa uccidere e non ha paura di farlo, poteva aver compiuto un atto del genere. Uno scellerato. E d’altra parte, non volevo che Thomas mi vedesse in quel modo. Ero pericoloso? Senza ombra di dubbio. Non un folle. I folli non sono in grado di tenere il potere. Dovevo anche dargli il mio motivo. Niente Prima Civilizzazione, niente Achille. A quanto pareva, Il vecchio Johnson aveva solo detto ciò che pensava di me. E le regole in guerra erano ben chiare, scritte col sangue da tempo immemore.
Con me o contro di me.
Me lo sarei fatto incidere sulla tomba.
Con me o contro di me, Thomas. Sorrisi appena, guardandolo come un gatto che fissa il topo. Sei in trappola, amico. E se vuoi uscirne, ormai conosci i rischi. Lo conoscevo, Tom Hickey. Non avrebbe mai rinunciato alla sua vita per difendere l’onore di William. Che cos’è l’onore, poi? Non ha valore quando sei vivo, figuriamoci da morto.
Conta solo il potere.
Hickey era come paralizzato sulla sedia. Spaventato. Improvvisamente, un lampo galoppò negli occhi scuri di Tom, la mano destra stretta a pugno per non correre ad afferrare l'elsa della spada. – Ho dovuto, Thomas. Credimi, non volevo ucciderlo. Non ne avevo la minima intenzione. – Vero. Assolutamente vero, nessuna contestazione. Io non volevo uccidere William Johnson. E all’epoca non l’avevo nemmeno fatto apposta. Ma non era ciò che contava. Non era ciò che Thomas doveva sapere di me. – Reginald doveva averlo influenzato, in qualche modo. L’abbiamo catturato e messo a sedere. Volevo proporgli di lasciar perdere quello stupido villaggio e unirsi a me contro Birch. – Godevo per ogni attimo che passava, con quel suo sguardo preoccupato puntato addosso. Sì. L’ho fatto davvero. Impara dagli errori degli altri, Thomas Hickey. Impara a rispettarmi. Feci spallucce, affondando le mani in tasca con aria noncurante. – Ha giocato col fuoco. Non aveva molte possibilità, a dire il vero. Non voleva combattere per la mia causa, e piuttosto che abbandonare le fila di Reginald, o quantomeno fingere per un po’, solo il tempo necessario a salvarsi la vita, a continuato a essere fedele a ciò in cui credeva. E c'è rimasto secco. – Gli feci un sorrisetto dispiaciuto. – Non è mai stato il tipo d’uomo che si piega alle circostanze. – Gesù Cristo, eccome se lo era. William era quello più ragionevole, tra noi. Non c’era problema per cui non avesse una soluzione. Era intelligente, pragmatico, con una buona parlantina e tantissimi altri pregi.
Peccato che la Prima Civilizzazione e quello stronzo di Achille avessero deciso di mettersi in mezzo. – Uccidere un fratello… Non è mai facile. – Bugia. Bugia grossa come la mia testa. Era la cosa più facile del mondo, specie se ti mandava così fuori dai gangheri. – Grazie a Dio, non me ne sono nemmeno accorto. Avrebbe fatto… molto più male. – Sapevo che non ci credeva. Lo sapevo perfettamente. Mi nutrivo di quella consapevolezza, del dubbio che instillava in Thomas Hickey. Stavo dicendo la verità? Oppure ero solo una macchina da morte, un folle assetato di sangue che cercava una vana giustificazione alle sue mosse azzardate?
Deglutì rumorosamente, battendo il palmo aperto sul tavolo a un ritmo regolare e irritante. – Perché l’hai ucciso?
Feci spallucce. Preparati, Tom. – Ha scelto di mettersi contro di me. Come possiamo portare l’Ordine nel mondo se non siamo nemmeno uniti tra noi, Hickey? – Si umettò le labbra e sollevai una mano nella sua direzione, troncando la sua obiezione sul nascere. Non lasciare che parlino. Era come se tutti gli appunti mentali presi osservando Reginald mi stessero tornando in mente, una lunga lista, punto per punto, di come dovesse comportarsi un uomo con i suoi sottoposti. Sei tu a scegliere i loro dubbi, le loro certezze, decretare vita e morte. Be’, non volevo arrivare a tanto.
Coglione. L’avevo già fatto. Mi passai la lingua sulle labbra, colto da un momento d’incertezza. No. Era la verità. Certo che l’avevo fatto. Benjamin Church ne era un esempio lampante. Sei il padrone. Quello che comanda. Non sono loro a decidere. Se devono morire tu li ammazzi, punto e basta, giusto? Da sempre, non sapevo far altro che uccidere. Era il solo modo che conoscessi per risolvere le cose. Impara e applica. Semplice e funzionale. Dalla teoria alla pratica, senza nemmeno pensare a una soluzione alternativa. In guerra non c’è niente d’alternativo. Morto o vivo. La libertà non conta nulla. Conta solo avere un cuore che batte nel petto e sangue negli arti, nelle mani che tremano, fiato che ti esce dalla bocca, tiepido e umido. Piscio caldo pronto a schizzarti fuori dall’uccello. In una cella o all’aria aperta, se sei vivo hai una speranza in più. Qualcosa su cui contare. Io gliel’avevo solo strappato via, pensando che non lo meritassero. Non avevano il diritto di rovinare i miei piani. Difendi le tue linee e ferma la penetrazione nemica prima ancora che avvenga. Estirpa il danno. Ecco cos’erano diventati Johnson e Church. Monconi sanguinanti che non avrebbero mai potuto infangare l’Ordine.
Il mio Ordine. Non di Reginald, né di nessun altro. Mio.
Penserà che sei un idiota. Di’ qualcosa, cazzo. Battei le palpebre, cercando di recuperare il filo del mio vecchio discorso con Thomas. Oh, sì, i motivi per cui avevo fatto fuori William. Bene. – So che cosa stai per dire. Potevano esserci altri modi per risolvere la cosa? Sicuramente. Sarebbero stati efficaci sul lungo periodo? No. Non posso permettermi errori, capisci? Tu… Tu ricordi l’esercito. Si tratta di obbedire o essere impiccati. Sto solo applicando lo stesso principio alla nostra guerra. – Un’altra guerra. Aveva già fatto troppe vittime per i miei gusti. – Proprio come tu hai pensato di violentare Tiio per vendicarti di me. Non c’è altro modo per colpire Reginald se non attraverso gli uomini che lo appoggiano. – Unii le mani al ventre, torcendole l’una nell’altra. – Riesci a cogliere il disegno?
Vidi Tom abbassare lo sguardo e annuire. Perfetto. Abbassare la testa, obbedire anche quando non ti va. Questo è essere un gruppo. Fiducia nel capo. Specie in un momento come quello. Avevo soltanto bisogno del suo appoggio. Con Connor era un’altra storia. Non avevo bisogno delle sue idee, solo della sua lama. E della Mela, naturalmente. – Capito – grugnì Hickey. – Non è che ti devi giustificare con me – mugugnò poco convinto. – Abbiamo sbagliato entrambi.
Aggrottai la fronte. Eh, no. Io non ho sbagliato. Perché pensava che la quantità fosse più importante della qualità? Avrei dovuto tenere in vita due uomini che non sarebbero stati d’accordo con me solo perché eravamo stati vecchi amici?
Certo. Pensavano davvero fossi un cazzone sentimentale, eh? Che razza di stronzate. E poi, William era stato una pedina tanto quanto me. Non sarebbe stato utile a nessuno, in quelle condizioni.
Perché, replicò una vocetta impertinente nella mia testa, credi davvero che Tiio ti avrebbe accolto a braccia aperte se fossi riuscito a salvarla? Sospirai. Come se non la conoscessi. Mi aveva cacciato dalla sua tenda una prima volta a causa di Edward Braddock e del mio essere Templare, non si sarebbe fatta scrupoli a rifarlo. Nella sua testa ero e sarei sempre rimasto uno sciocco opportunista, dal primo momento all’ultimo.
Io l’amavo. L’amavo così tanto.
Come poteva mio padre parlare di libertà, d’amore e d’affetto in quei termini? Qualcosa che ti salva e ti tiene ancorato alla vita quando credi che tutto sia perduto, così la vedeva lui. Erano soltanto balle. Quando tieni a qualcuno sei disposto ad affondare nella merda fino al collo. Sei disposto a morire.
Nessuna persona poteva valere quel sacrificio.
Mio padre non era schiattato per salvare me e Jennifer e mia madre. Non era servito a nulla.
Imbecille.  Dovevo essere ferreo, razionale. C’era qualcuno per cui mi sarei fatto uccidere, al mondo? No. Qualcosa? Certo. Senza ombra di dubbio. Le persone non valgono nulla. Sono destinate a crepare insieme a te, prima o poi, una dopo l’altra, a raggiungerti e salutarti con una mano dall’aldilà. Gli ideali sono quelli che contano.
Gli ideali restano. Bastava solo pensare agli Assassini e ai Templari, che erano andati avanti attraverso i secoli. A fatica, certo, e non senza spargere sangue, ma l’idea del controllo sul mondo e quella della libertà continuavano a scorrere parallele, una contro l’altra, pronte ad azzannarsi e scappare con la coda tra le gambe come vecchi cani, troppo stanchi per un combattimento in piena regola.
Forse era per quello che preferivamo combattere tra noi.
A ogni modo, le idee permangono nonostante tutto. Quello sì che era qualcosa per cui morire.
Un Templare, sì, ma con il cervello di un Assassino. Le parole di Reginald risuonarono nella mia mente, affilate come lame.
Aveva proprio ragione. – Be’ – grugnii, lo sguardo abbassato sul bordo pieno di tacche del tavolo, – per quanto riguarda le nostre confidenze, ti sarei grato se non ne facessi parola con Connor. Soprattutto per quel che riguarda sua madre. – Sollevai un sopracciglio. La porta della camera di Achille, da qualche parte sopra la mia testa, si chiuse con uno schianto sonoro. Oh, ecco che arriva con la cintura in mano per impartirmi una lezione! Che paura! – Ti odia già abbastanza.
Tom schioccò la lingua. – Concordo – replicò prima di stringere la bottiglia di brandy e calarsi gli ultimi sorsi giù per la gola. – Immagino che tu sia pronto, allora. Tutta questa… retorica da campo di battaglia e cazzate varie mi piace parecchio, capo. – Sollevò il liquore in un muto brindisi alla mia salute. Che persona a modo. – Fossi in Charlie, io starei bene attento a quello che dico. O a quello che prendo in bocca.
Sollevai lo sguardo al soffitto. – Non è una sua scelta.
– Oh, e che ne sai? – Lasciò dondolare la bottiglia sul tavolo, ormai vuota. – Magari questa grande avventura ha cambiato i suoi gusti.
– Sarebbe comunque irrilevante.
– E se fosse d’accordo con Reginald? Che cosa faresti? – Strinse i denti, il corpo nuovamente teso verso di me.
Cosa? Battevo le palpebre come un idiota, perché mi aspettavo qualsiasi cosa, da Tom, tranne quella domanda. No. Non poteva essere vero. – Pensaci. Saresti così carino e gentile con lui se sapessi che vuole farti fuori? Oh, non dico che lui lo voglia. Parlo per ipotesi. Lo ammazzeresti? Oppure no? Dopotutto… – Abbassò gli occhi sul ripiano del tavolo e, un’altra volta, spinse la lingua contro l’interno della guancia. Le sue labbra si piegarono in un sorriso crudele. – Si sa che è sempre stato il tuo preferito.
Schifoso figlio di puttana. – Che cosa stai insinuando, Tom?
– Niente. – Sollevò i palmi aperti. – Ti sto chiedendo delle spiegazioni, cazzo. Lo uccideresti?
Chinai il capo. Non sapevo che cosa fare. – Te lo dico io: no. Lo lasceresti vivere. Tu daresti qualsiasi cosa perché resti vivo. Ti conosco. – Si espose di nuovo in quel sorriso da predatore che sa di avere intrappolato il suo prossimo pranzo. La stessa smorfia con cui lo fissavo pochi minuti prima. Oh, Dio. – Non mentire, Haytham, Non mentire. Abbiamo tutti i nostri punti deboli. E tu saresti disposto a tutto per il piccolo Lee. Se lui volesse ammazzarti, tu glielo lasceresti fare. Anche a costo di distruggere tutto ciò che hai creato.
– No – ringhiai, le unghie affondate nei palmi. – No. Mai.
– Davvero? Dimostralo, allora.
– Non lo conosci come lo conosco io.
Sogghignò. – Non ci tengo a entrare nei dettagli di questa cosa. Dimmi soltanto perché dovrebbe valere più di Benjamin e William.
Mi umettai le labbra. Cristo, con Thomas Hickey bisognava sempre dosare le parole, calibrarle alla perfezione. Stupido bastardo. – Credi di poter guidare l’Ordine quando io morirò?
– Hai pensato che potresti non avere altra scelta, Haytham?
Merda.
Mi aveva bloccato, ponendomi faccia a faccia con il problema. Una situazione che avevo sempre odiato. – Pensi che sia più responsabile di me? Ti capisco. Ci sta da Dio, cazzo. Ma sei stato tu a dirmi che Reginald è un persuasivo figlio di puttana, quindi… Potrebbe aver fatto credere a Charles qualsiasi cosa, anche che tu sia Gesù Cristo in persona. Continuerai a fidarti di lui?
Mi mordicchiai le labbra. Maledizione. – Non ha ceduto. Lo so.
Thomas ridacchiò, volgendo lo sguardo verso le scale. Dunque tornò a guardarmi con quel sorriso malvagio impresso in viso. – Facciamo una piccola scommessa, ti va? Se hai ragione tu e Charlie-boy sta solo aspettando il tuo ritorno per giurarti eterno amore, hai vinto. Lee resta vivo. – Digrignai i denti. Avrei dovuto urlare che non scendevo a patti con un bastardo come lui, che erano soltanto stronzate. Forse avrei dovuto. Ma così sarei stato al suo gioco.
Credevo in Charles e nella sua fedeltà quasi più di quanto credessi in quella di Tom, e se nel mio giudizio c’era una piccola scintilla di dubbio, era stato lo stesso Hickey a instillarla. Gli riservai il mio sguardo più truce. Sapevo benissimo quale fosse l’altro ramo del suo giochetto. – Oppure, se ho ragione io e Charlie vuole soltanto vederti morto, mi prenderò l’onore e l’onere di farlo fuori. – Sogghignò, i denti giallastri in bella vista. – Affare fatto? – disse, tendendo la mano verso di me.
Che avrei potuto rispondere, eh? – Vaffanculo – replicai tra i denti.
Strinsi quelle callose dita da lavoratore con tanta forza da poterle spezzare. 

Note dell'autrice:
Perché insisto con il voler chiamare questo spazio "note"? Non sono note.
Più che altro è un ibrido malato di fangirling e stronzate varie. Va be'. Non importa.
Allora, non mi perdo tanto a fangirlare, sottolineo soltato la grandiosa figaggine che alberga nel corpo di Thomas Hickey come nemmeno Babbo Natale al Polo Nord (?). Chi non l'avrebbe voluto trovare sotto l'albero? Eh? Lo adoro.
E avevo detto che non avrei perso tanto tempo a fangirlare, vero? LOL
D'accooordo, arrivando a un momento più da persona normale, vi faccio gli auguri! Buon 2015, allora, e siate tutti felici, contenti e con il letto scaldato da un sexy Templare.
O una sexy Templare, perché c'è anche Elise SBAV de la Serre.

Ehm. Oookay.
Dimenticavo, avrei voluto chiamare il capitolo 'Poker face', all'inglese (?), ma mi sono ricordata di aver sentito "faccia da poker" in Duplex - Un appartamento per tre, un film che amo, quindi l'ho lascianto anche se non suona questo granché.
Se non l'avete visto, guardatelo. Sì, ogni tanto do anche consigli dittatoriali su quali film vedere, LOL.
A parte tutte queste cazzatine, volevo dire che vi voglio bene. Davvero, siete meravigliosi. Tuuuutti quanti. Per esserci, per sclerare insieme a me, per aver accompagnato questa ff/delirio attraverso un secondo Capodanno, tutto. Vi sono grata.
Oddio, quanto faccio schifo a scrivere ringraziamenti. Lascio perdere, avete capito che vi amo, no? Ecco.
Ci vediamo nel duemilaquindici, gente, alla prossima!



 

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Capitolo 62
*** Avanscoperta. ***


Thomas uscì baldanzoso dalla cucina, un gran sorriso stampato sul volto, annunciando che sarebbe andato a riposarsi prima della partenza, e appena le code della sua giacca sparirono oltre la porta sentii le gambe cedere, come se qualcuno mi avesse tirato un grosso pugno sulla tempia. Ero stato un idiota. Un maledetto idiota. Mi ero messo a giocare con Hickey come fossimo due ragazzini che parlano di ammazzare scoiattoli.
Come avevo potuto fare una cosa del genere? Nemmeno… Nemmeno per un secondo avevo dubitato di Charles, della sua fedeltà a me nonostante tutto. E nemmeno per un secondo avevo dubitato di Tom Hickey, l’uomo che si era prostrato ai miei piedi giurando di non voler più uccidere e che si stava rimangiando tutto senza una sola reazione da parte mia. Lo stavo assecondando, conferendogli potere. Ero il Gran Maestro dell’Ordine, eppure accettavo di giocarmi con lui la vita di Charles, come se non fosse stata altro che un patetico premio da accaparrarsi. Oh, Dio. Avrei dovuto scambiare due parole con lui, sicuramente.
Misi un dannato bollitore a scaldare sul fuoco e mi lasciai cadere su una sedia, la testa stretta tra le mani e il ginocchio ancora dolorante per i punti e tutto quel sangue perso. Maledizione. Il fatto era che più ripensavo alle parole di Tom e più trovavo argomentazioni ragionevoli nascoste sotto la sua follia. Non avrei dovuto permettergli di elevarsi a boia nel mio Ordine, in quella che era la mia giurisdizione, ma era pur vero che, per quanto volessi negarlo, non avrei mai avuto il coraggio di fare del male a Charles.
Nemmeno di lasciarlo fare a lui, se era per questo. Dio. Ecco dove stata il mio problema. Thomas mi aveva visto crollare e rialzarmi, e sapevo che in quanto autorità non avrei dovuto lasciare che un simile comportamento prendesse piede, ma chi volevo prendere in giro? Tutti sottostiamo a qualcuno. Il mondo andava così. Non potevo farci niente.
Stropicciai gli occhi sotto le mani ruvide e stanche, aspettando silenziosamente che il bollitore cominciasse a fischiare sul fuoco. Un tè. Il solo antidoto a qualsiasi male che un inglese abbia mai conosciuto. Peccato che non funzionasse per le pugnalate alle gambe, per resuscitare i morti o tornare indietro nel tempo. Per darmi coraggio. Per essere diverso.
Spettava a me uccidere Charles, se fosse stato necessario. Era un mio compito in quanto Gran Maestro. Ma, a pensarci, che cosa aveva fatto Reginald? Non era certo venuto ad ammazzarmi di persona, da uomo a uomo, pistola in una mano e spada nell’altra. Aveva preparato una patetica trappola per topi in cui mi ero avventurato senza nemmeno riflettere. Mi aveva fatto issare su uno sgabello da altri uomini, un cappio al collo e nessuna possibilità di fuga.
E poi aveva spinto. Ecco tutto quello che aveva fatto attivamente per l’Ordine. Non aveva nemmeno avuto il coraggio di ammazzare mio padre. Di far fuori mia sorella, fin dall’inizio.
Forse ero il Gran Maestro più stupido che i Templari avessero mai avuto, ma senza dubbio non ero il più codardo. Avevo avuto un predecessore di tutto rispetto, in quel campo.
Avrei dovuto ordinare a Thomas di uccidere Charles. Non giocarmela, scommettere sulla vita di un uomo come se non valesse niente. Sentivo le dita tremare, fremere come mosche in un barattolo. Ero talmente abituato a vedere le persone morire, quasi ad aspettarmi che morissero, da considerare tutta quella faccenda come una gigantesca farsa.  
Se c’era qualcuno che Tom avrebbe dovuto ammazzare, quello ero io. Perché sapeva benissimo che avrei dovuto impormi, ma sapeva anche – quel figlio di puttana – che non ce la facevo. Non ne ero in grado.
Strinsi forte le dita alla base del naso. Avrei dovuto fare una chiacchierata con lui e rimangiarmi tutto. Fargli capire chi era il Gran Maestro, tra i due. No. Dovevo ficcare nella sua testa che poteva scherzare su qualsiasi cosa, su chiunque, ma non aveva il diritto di giocare con la mia autorità. Con le mie scelte in quanto capo dell’Ordine. Sì. Gliel’avrei detto, poco ma sicuro.
Appena Connor mi avesse staccato gli occhi di dosso, s’intende. Sentivo il suo sguardo puntato in mezzo alle scapole da un po’, affilato come un coltello da caccia. Buttai fuori il fiato in un sospiro e mi tirai faticosamente in piedi, buttando una manciata di foglie di tè dentro quel dannato bollitore. Una cosa per volta, ragazzo. Sapevo che voleva delle spiegazioni. Delle scuse, sicuramente. Come avevo potuto ammazzare Achille, il suo Mentore? Ero un mostro! Oh, per l’amor del cielo, ne avevo abbastanza delle sue lagne da adolescente. E non sarei rimasto zitto ad aspettare che parlasse per primo, vomitandomi addosso tutte le sue accuse. – Vuoi del tè? – Mi voltai appena verso di lui e cercai di rivolgergli il mio sorriso più cordiale. Avrei preferito che Thomas fosse ancora lì, così sarei stato io a incolpare qualcuno. Stare dall’altra parte non era poi così divertente, specie quando a impugnare la metaforica pistola era mio figlio. Con gli occhi di sua madre incastonati in faccia e quel dannatissimo sguardo di rimprovero.   
Non stavo più nella pelle. – Dov’è Hickey? – rispose, le braccia incrociate saldamente sul petto.
Gli indicai il piano di sopra con una mano. Da quando in qua la presenza di Tom contava qualcosa per lui? – Mi ha dato una ricucita ed è andato a dormire. – Non lo sopportavo. Perché dovevamo essere così vaghi, girando intorno al punto dolente come infermiere premurose? Diavolo, eravamo uomini. E, per quanto mi riguarda, il tatto non era mai stato uno dei miei punti forti. – Come stai? – domandai mentre scavavo nella credenza alla ricerca di una tazza che non fosse sudicia o coperta da due dita di polvere. Domanda stupida, senza dubbio, ma almeno avrebbe portato allo scoperto il discorso. Dovevamo parlarne, chiarire. Non sopportavo tutti quei dubbi, quel maledetto silenzio. Se non ti fidi di me, dillo e basta. Per favore. Strinsi i denti. Non piantarmi solo una lama nella schiena. Non sarebbe… corretto, non credi?
Mi affiancò e si sollevò sulle punte dei piedi, rovistando sul ripiano più alto fino a tirarne giù una tazza intonsa, linda ma dall’aspetto incredibilmente antico, neanche fosse appartenuta al padre del padre di Achille. Se la rigirò tra le mani come fosse un vecchio ninnolo, qualcosa cui teneva particolarmente. Un bambino con il suo giocattolo preferito. – Come credi che stia, Haytham? – sussurrò, porgendomi la tazza senza neanche guardarmi negli occhi. Non c’era rabbia nella sua voce, non più.
E mi spaventava terribilmente. – Immagino che dopo tutto questo il tuo disprezzo nei miei confronti sia cresciuto – dissi con la testa bassa. Non riuscivo a credere di aver ucciso uomini grandi e grossi, con una carica e una posizione sociale indubbiamente più alte di quelle di Achille, senza riuscire a essere veramente libero da vincoli. La mia salvezza dipendeva da quel ragazzo con il muso lungo e gli occhi spenti. Mi teneva per le palle come la migliore delle prostitute.
Con molto meno fascino, se posso permettermi. – Non è disprezzo – sibilò tra i denti, poggiando la schiena al ripiano. Davvero? Oh, scusa, forse mi sono sbagliato, emani così tanto affetto da avermi confuso, ragazzo. Non riuscii a trattenere una smorfia scettica. – Solo, non riesco a comprendere le tue ragioni.
Eccolo lì, finalmente, il nocciolo del discorso. Riuscivo quasi a capire come mai Thomas avesse infranto quel suo giuramento da monaco. Come puoi promettere di non uccidere, in un mondo in cui l’omicidio sembra la via più facile per risolvere così tanti problemi? Feci spallucce, colmando la tazza di tè fumante. – Tu perché mi volevi morto?
Connor lasciò cadere mollemente le braccia lungo i fianchi. – Chi ti dice che lo volessi?
– Be’, sei un Assassino. Prima di salvarmi, Achille deve averti riempito la testa di stupidaggini su quanto uccidere i Templari sia giusto e renda il mondo un posto migliore. – Chinai il capo da una parte, ripensando alle ultime parole del vecchio. – E anche dopo. Con John Pitcairn. Quali erano le tue, di ragioni?
– Seguivo i principi della Confraternita. La libertà. – Fece un sospiro, e mi chiesi se, in fondo, ci credesse ancora. Dopo tutto quello che aveva visto, dopo tutto quello che gli avevo detto. La morte di quel suo amico e le scuse campate per aria di George Washington dovevano essere state una bella batosta per il ragazzo.
Vedermi quasi ammazzare il suo Mentore non doveva essere stato proprio un toccasana. Buttai fuori il fiato in uno sbuffo. Mi sembrava di non riuscire a far altro che sbagli. – Una causa più grande.
Annuii, poco convinto. Certo. Conoscevo fin troppo bene le “cause più grandi” di Connor. Verità rivelate dall’unico vertice degli Assassini, Achille. Avrebbe potuto dirgli che New York è in Inghilterra, e lui c’avrebbe creduto senza fare una piega. Era il suo faro. – Però ho cambiato idea.
Un faro può anche mandarti a sbattere contro gli scogli, se è per questo. – Posso chiederti perché? – Mandai giù un paio di sorsi. Il tè rovente mi ustionò la gola e la lingua, ma andava benissimo. Avrei dato anche le palle degli occhi per non dovergli rispondere. Ascoltare le sue inutili lagne da bambino con tutta la mia passività, assimilando che razza di genitore orrendo fossi. Oh, Dio, quanto mi sento in colpa. Già. Mi dispiace così tanto.
Non aveva capito, e non avrebbe mai capito niente.
Niente di niente. – Abbiamo fatto un patto e hai detto di volere una tregua – sussurrò. – Mi sembra abbastanza.
Non riuscii a trattenermi. – Come fai? – gli dissi in uno sbuffo. La sua occhiata perplessa mi fece venire i nervi a fior di pelle, spronandomi a continuare. – Metti gli Assassini prima di tutto il resto, prima della tua stessa vita. Non ti rendi conto di quanto sia ridicolo? – Balle. Sei tu a invidiarlo, bastardo del cazzo. Strinsi i pugni d’istinto, cercando di reprimere quell’assurda vocina. Io non invidiavo proprio nessuno, men che meno lui.
O forse sì?
Ero un realista che badava soltanto al proprio fondoschiena. La sua missione poteva essere più onorevole, ma nella vita dell’onore non ce ne facciamo niente. È solo un modo per far sembrare le scelte patetiche un po’ più intelligenti.
Così dicono i disonorevoli. ‘Affanculo. – Ti ho visto mettere a rischio la tua vita e il tuo villaggio per la democrazia. – Strinsi una mano sul suo braccio, le dita dell’altra premute sulla dannata tazza bollente. – Per un ideale hai ucciso il tuo migliore amico, Connor. Tutto quello che io ho fatto, ogni singola cosa, l’ho fatto per me, prima che per l’Ordine. – Oddio. Non pensavo che sarei mai riuscito a dirlo veramente a qualcuno. Forse pensavo che Connor non avrebbe davvero capito cosa intendevo, o che avesse bisogno di un esempio pratico. E quale esempio migliore di suo padre, eh? Altro che Achille.
Deglutii, cercando di ritrovare il filo del discorso. Non mi andava che continuasse a pensare in quel modo. A volte l’unica cosa importante, più degli ideali e più delle bandiere, è restare in vita. Eliminare tutte le fonti di pericolo e godersi la pace, per quanto effimera possa essere. La sicurezza di poter dormire senza avere paura di essere accoltellati alla gola da un proprio sottoposto. – Perché a guidare i Templari ci fossi io e nessun altro – proseguii. – So quanto possa sembrare stupido ed egoista, d’accordo? Lo so. Però lo ammetto. Invece tu continui a coprire le tue azioni con questa maschera della Confraternita. E non comprendi le mie ragioni? Davvero, Connor? – Presi fiato tra i denti serrati e lo lasciai andare, gli occhi di nuovo fissi sul tè e il cuore che batteva all’impazzata nel petto. Non riuscivo a credere a ciò che gli avevo detto. – Sei strano.
Il ragazzo rimase a fissarmi con gli occhi grandi come piatti, ma non sarei stato io a riprendere quella chiacchierata. Ne avevo abbastanza. Pensavo avesse imparato a conoscermi, dopo tanti anni di convivenza. Non aveva affatto cambiato idea su di me. Le convinzioni che Achille gli aveva infilato in testa erano ancora lì, radicate come alberi millenari, e se le mie motivazioni non erano riuscite a smuoverle, be’, era destino che non accadesse mai. Semplice. Lui sarebbe rimasto un povero sciocco illuso, io il bastardo che muoveva le pedine nei propri interessi.
Anche quando muovere le pedine significa scommettere sulla vita di un altro uomo?
Un brivido mi corse lungo la schiena e feci del mio meglio per scacciarlo, per cogliere il lato positivo. Avrei pensato a tutto, una cosa per volta. Gli affari non erano andati poi tanto male con quello schema, no? – Allora? L’hai già seppellito? – chiesi a mezza voce.
– Non voglio farlo con voi qui – ringhiò in risposta. Oh, Dio. E poi ero io quello immaturo. Chissà che cosa avrebbe detto il suo caro e vecchio Mentore davanti a un atteggiamento tanto puerile. – Partite senza di me. Vi raggiungerò domattina. Tu sai dov’è, giusto?
Parlava del Grande Tempio. Un timido sorriso fece capolino sul mio volto al ricordo della prima e ultima volta in cui vi avevo messo piede, trent’anni prima o giù di lì. – A grandi linee – mentii, gli occhi lucidi. Cristo, ci mancava solo che mi commuovessi davanti a lui. Dopo tutto ciò che Thomas mi aveva detto su Tiio, sulla fine che le avevano fatto fare…
La mia Tiio. – E se volessi assistere alla cerimonia? – grugnii nel tentativo di tornare su un terreno sicuro. Achille. Perfetto. – Non hai nemmeno pensato di coinvolgerci.
– Non ci sarà nessuna cerimonia – replicò brusco.
– Davvero? Niente discorso su quale grande Mentore sia stato per la Confraternita? Su quanto fosse divertente, allegro, ottimista e con la testa sul collo? – Mi fulminò con un’occhiataccia degna di sua madre. – Peccato. Mi sarebbe piaciuto.
Connor prese fiato, la mascella contratta. Sentivo che di lì a poco si sarebbe allungato per mollarmi un sano pugno in faccia. Tutto quel tè sprecato… Merda. – Pensavo che per te i morti fossero soltanto carne in un fosso.
– Dipende da chi è a tirare le cuoia. – Gli feci un sorrisetto. – Immagino già che cosa dirai al mio funerale. Parole gentili sulle mie qualità di genitore. Al pensiero mi viene da piangere. – Mi strinsi nelle spalle con aria civettuola e portai la tazza alla bocca senza smettere di fissarlo. Il solito pezzo di ghiaccio privo d’espressione. Ah, il mio ragazzo. Sembrava incredibilmente facile prenderlo in giro, concentrarmi su cose così… Non futili, ma impossibili da cambiare. Il danno era fatto, quindi tanto valeva provare a farlo sorridere.
Non sapevo cosa mi fosse più difficile, se quello o strappare la vita dalla carne di Charles con un cenno del capo e un colpo di lama celata. – Gli volevi bene, suppongo. – Come a me non ne vorrai mai, ma sono dettagli superficiali.
Connor arricciò le labbra in una strana smorfia. – Certo che sì. Mi ha cresciuto. È stato un padre per me. – Non si preoccupò minimamente del fatto di avere il suo vero padre lì accanto. Non che questo mi sorprendesse, chiaro. Sorrisi. Si comportava come se non avesse niente a che fare con me, ma quando parlava così, senza la minima cura dei sentimenti altrui, non potevo fare a meno di pensare che fosse indubbiamente mio figlio. Quale orgoglio. – So che voleva ucciderti, ma non posso tollerare che tu sia qui a dirgli addio. Come… – Tirò su col naso, gli occhi lucidi perduti in un punto fisso sul soffitto. Il sorriso sfumò rapidamente sulla mia faccia, facendomi sbiancare. Maledizione. – Come fossi sempre stato dalla sua parte. Come se non gli avessi fatto niente di male.
Abbassai gli occhi sulla mia tazza. – Mio padre credeva bisognasse sempre rispettare i propri avversari – grugnii con scarsa convinzione. Che cosa se ne sarebbe fatto Achille del mio rispetto, sepolto malamente sotto due metri di terra?
Niente di niente. Gli Assassini tengono troppo a queste maledette cose. – Non ha più importanza. Ho… Ho bisogno di restare un po’ da solo. Capisci?
– Hai cambiato idea? – Percepivo l’ansia nelle mie stesse parole, il panico che cresceva nel mio petto. Basta guai, per favore.
– Non è quello che ho detto. – Il cuore sbatteva nelle orecchie, dietro gli occhi, nelle mani tremanti.
– Per favore, Connor – bofonchiai, sollevando lo sguardo al soffitto con la bocca aperta in un vano tentativo di calmare il respiro. – Dimmi la verità adesso, piuttosto che lasciarmi per giorni ad aspettarti davanti al Tempio.
– Io non ho cambiato idea. Voglio aiutarti. Voglio aprirlo.
Cercai di inspirare ed espirare lentamente. Smetti di agitarti, cazzo. Ascoltalo. Non ci riuscivo. Che senso aveva avuto ammazzare due uomini per purificare l’Ordine se quando si trattava di riprenderne il controllo mi cagavo addosso come un poppante, i calzoni bagnati all’idea di avere le spalle scoperte?
Codardo. – Anche se non è quello che la Prima Civilizzazione vuole?
Connor sbuffò. – Mi hanno fatto credere che Charles Lee si trovasse in città. – Ricordavo bene. L’unica volta in cui non ero stato io a passare per pazzo. Doveva essere stata una prova per i Precursori, o qualcosa del genere. A pensarci, a ogni salto generazionale il loro sangue nelle nostre vene si diluiva di più. Era come se comunicare con me fosse in qualche modo più semplice.
O forse neanche loro riuscivano a sopportare una conversazione con Connor per più di dieci minuti. Una gran fatica, davvero. – Avrei potuto uccidere delle persone innocenti, e tutto per colpa loro. – Fece spallucce. – Non credo meritino tutta questa fiducia.
Dillo ad Achille. – D’accordo – sussurrai. Sta’ calmo, va bene? Caaaalmo. Mi umettai le labbra, la lingua secca come un panno lasciato al sole. – Allora, ci vediamo là. – La mia voce non era mai suonata meno convinta. Perché verrai, vero? Pensavo che il tradimento non fosse nella natura di Connor. Lo reputavo una di quelle persone che rischia il tutto per tutto piuttosto che ammazzarti con una coltellata nella schiena. Lui non era fatto così. Un ragazzo onesto, schietto, per quanto brusco e senza senso dell’umorismo. Non avrebbe ammazzato il suo vecchio in maniera tanto vile.  
Mi porse la mano, proprio come aveva fatto Thomas poco prima. – Ci vediamo là – replicò, cercando di essere gentile. Mi prendeva in giro? Coglievo la tensione nei suoi muscoli, nelle pupille che scattavano veloci da una parte all’altra e mi evitavano. Era soltanto un ragazzo, trascinato in qualcosa molto più grande di lui.
Non ci avevo pensato, davvero, ma l’omicidio del suo amico nativo poteva essere stata solo una sua reazione al pericolo. Si era sentito minacciato, e in quel caso che cosa fa un qualunque uomo armato? Uccide. Come in un sacco di altre situazioni. Beccato, Tom. Forse era quello a spaventarlo. L’aver agito come avrebbe fatto chiunque. Non un Assassino, non un Templare, ma un uomo. E, inconsciamente, anche lui si poneva in una posizione superiore a quella della gente comune. E con lui gli Assassini, i difensori del popolo. Gli eroi. Gli eroi non hanno paura di niente, giusto?
Avrei dovuto chiederglielo, invece di comportarmi da stronzo come al mio solito. “Perché hai ucciso quel ragazzo, Connor?”, e magari avrebbe anche risposto sinceramente.
Al diavolo, eravamo troppo simili, troppo orgogliosi per quel tipo di chiacchiere. Non sarebbe mai stato sincero con me. Mostrarsi deboli davanti al proprio peggior nemico è fuori discussione, checché ne dicesse mio padre.
Ma io non sono un nemico, Connor. Non sono…
Balle. Il fatto che volessi una tregua non giustificava proprio niente. Se per lui ero sempre stato un bastardo che a malapena conosceva, ora ero il bastardo semi-sconosciuto che aveva ammazzato il suo Mentore. Gesù. Non avrei potuto fare una scelta peggiore, ma qual era l’alternativa? Morire? Per far scoprire al ragazzo di volermi bene quando il mio corpo fosse stato mezzo divorato dai lupi della Frontiera? Cristo, siamo realisti.
Presi fiato e gli feci un sorrisetto, cercando di mostrarmi sicuro di me. – Farai meglio a presentarti. – Gli diedi una pacca sulla spalla e ignorai del tutto la sua mano tesa, tanto per buttarla sul ridere. Conoscendo il senso dell’umorismo di Connor, poteva benissimo aver frainteso, anzi, era molto probabile. Però non era ciò che contava.
Bastava fosse sicuro di quello che voleva, che venisse in mio aiuto nell’unico momento in cui ne avevo bisogno, quando non ero sicuro di potercela fare solo con le mie forze. Lui, i suoi stupidi funerali da femminuccia, il rispetto per i defunti e tutte quelle patetiche idiozie erano su un piano diverso, che non mi riguardava affatto. A me interessava soltanto porre fine alla nostra guerra. Avrei pensato dopo, con calma, a quello che avrei fatto con la gerarchia dell’Ordine e la Rivoluzione in corso. Un problema per volta, per quanto non fosse la migliore soluzione del mondo. Così continuavo a ripetermi. Un problema per volta. Avevo già fin troppe grane per la testa, e mi sarebbe piaciuto dire che m’importava di prevalere su Reginald, sul serio, ma non era la verità. Lo volevo morto, certo, e volevo riunire l’Ordine. Una famiglia decente. Queste erano le mie priorità. La pace, almeno nel mio piccolo. Tra fratello e fratello.
Volevo soltanto un po’ di quiete. Ogni cosa che si tuffava sotto la superficie di un mare calmo e scuro e placido e spariva senza tornare mai più su, isolandosi da tutto il caos che regnava nel mondo di sopra. C’era così tanto sangue. Rumore. Morti. Una pausa da quel mattatoio oltre la Frontiera, nelle città, che non dipendeva da me ma volevo cessasse.
Una pausa. Un po’ di silenzio. Un pisolino alla Thomas Hickey.
Come morire. Solo, più breve.
Più facile.
E non c’era niente che volessi di più. Rendere le cose facili, una volta per tutte.
 
– Capo…
Gesù Cristo, chi me l’aveva fatto fare? Perché diavolo non avevo aspettato il mattino, facendomi una sana dormita prima della partenza? Che cosa mi era saltato in mente? Mettere qualche vestito in una sacca, legarla alla sella e partire con Thomas Hickey attraverso la Frontiera, quell’orrenda landa desolata piena di fango, o zanzare, o entrambe, quando andava male. Certo. L’idea del secolo, cazzo.
La Frontiera ti assorbe. Ti divora. È come una malattia. Silenzio. Pioggia. Il clicchettio degli zoccoli sulla terra secca o lo sciaguattare sulla fanghiglia umida, i rami che scricchiolano, uccelli di merda che cantano e beccano da tutte le parti possono essere sopportabili per il primo quarto d’ora. Poi si condensano in un unico rumore, il trambusto della natura, quello che, secondo Connor, io e i miei amichetti Templari volevamo radere al suolo.
Nei miei piani non c’era niente del genere, ma, cazzo, un’altra ora a vagare in quel merdaio e ci sarebbe stato. Ci sarebbe stato eccome. Una bella pianura, niente alberi e niente cespugli. La selvaggina ridotta a tocchi di carne per il mercato e pellicce per le signore. Uccelli impagliati come soprammobili. Opere di bonifica in tutta la zona e strade lastricate, come le vie principali delle grandi città, così da rendere tutta quella schifosa zona boschiva molto più facile da attraversare.
Oh, e più piacevole. Senza alcun dubbio. L’istinto di estrarre la pistola e sparare ai cardellini, alle aquile e agli altri animali che scorrazzavano nella foresta – solo quelli rumorosi, per carità, i lupi, gli orsi e i cervi non mi davano nessun fastidio – mi aveva travolto più di una volta. Trattenersi era dura, ma ogni volta che la mano correva al calcio la mia testa si riempiva di pensieri su Connor. Avevo già ucciso Achille. Lo ammetto, mi sentivo un po’ in colpa all’idea di ammazzare quelli che avrebbe potuto considerare i suoi… animaletti domestici, sì.
– Chiudi il becco – ringhiai, i talloni premuti contro i fianchi del cavallo nel vano tentativo di far girare quella cocciuta bestia su se stessa. Non ero mai andato molto d’accordo con i cavalli, a parte Graffio, un vecchio compagno d’avventure. Dopotutto, non erano che un mezzo. Un mezzo con un cuore che batteva, uno stomaco, un uccello e tutto il resto, proprio come me, ma pur sempre un banale modo per spostarsi da un punto a un altro. E, lasciatemelo dire, quello stupido ronzino non mi stava dando nessuna soddisfazione. Chissà, forse sentivano ancora la puzza del sangue del loro vecchio padrone sulla mia pelle.
Più forte. Strofinare vino a lavarne via ogni traccia. Più forte. Fino a sanguinare ancora, se necessario. Con qualsiasi cosa. Non lo volevo. Non volevo niente di quel bastardo sul mio corpo. L’avevo ucciso, e allora? Non ero uno stupido. Sapevo benissimo che non ne valeva la pena. Potevo soltanto allontanarlo da me, scacciare il ricordo della sua espressione. Il dolore alla gamba quando mi aveva accoltellato. Ciò che era dentro di lui unito a ciò che era dentro di me. Un pensiero rivoltante che ancora non sembrava intenzionato a lasciare la mia testa. Per niente.
La verità è che volevo andarmene da casa Davenport il più in fretta possibile. Lasciarmi alle spalle quel postaccio una volta per tutte, al fine di non tornarci mai più. Appena le cose si fossero messe a posto avrei avuto una mia sede, con il mio Ordine e i miei seguaci. Connor poteva restare nascosto nell’entroterra quanto voleva, io sarei stato in mezzo alla gente, dove la sete di potere e di sangue si faceva sentire maggiormente, pulsante nel mio petto: in città. Di nuovo Boston, o magari New York, Philadelphia, o la Florida. Da come ne parlava quell’idiota di Hopkins, doveva essere proprio un bel posto. Sollevai lo sguardo al cielo con aria sognante: nuvole scure e dense stavano roteando sopra le nostre teste. Incombevano su di noi come un cattivo presagio, un monito. Forse volevano cacciarmi da quella terra. Forse lo spirito di Tiio era penetrato nel fango, nei fiori, e man mano che mi avvicinavo al Tempio, all’unico posto che era stato davvero nostro, più di qualsiasi tenda e più di qualsiasi taverna, la sua stessa anima si stava adoperando per cacciarmi. Piena di vigore com’era stata da viva.
Maledizione. – Sicuro di non esserti perso?
Oppure, aveva semplicemente ragione Thomas. Giammai, cazzo. – Sai – ridacchiò – forse avremmo dovuto portarci dietro tuo figlio. Scommetto che il bastardo segue le tracce meglio di un fottuto cane da funghi.
Roteai gli occhi. Cercavo di raccapezzarmi in quel labirinto di alberi, radici intricate e rami contorti sopra la testa, come un mantello troppo pesante o un cuscino pronto a calare sulla tua testa e soffocarti.
L’ultima cosa di cui avevo bisogno. – Da quando in qua t’intendi di funghi?
Thomas fece spallucce, una mano intenta a grattarsi i giochi. – Storia vecchia. C’era questa pupa che andava fuori di testa per i boschi e i cani e l’armonia con la natura… Enormi cazzate. Però me la sono scopata inventando una gran bella storia su… – Si passò la mano dietro la testa, come se cercasse di riportare qualcosa di lontano, fuori fuoco, alla sua mente annebbiata dall’alcool e dalle altre decine di storie simili che doveva aver vissuto. Gli scoccai un’occhiata a metà tra il curioso lo schifato. Chissà, forse distrarmi per cinque secondi mi avrebbe aiutato a ricordare… qualcosa. Qualsiasi cosa su quel dannato posto. – Sì, mi pareva fosse un fungo. A questa qui ho detto che avevo mangiato un fungo strano, non mi sentivo bene. Un paio di palle e la stronza ha pensato che stessi morendo. – Scoppiò a ridere, passandosi le mani sulle guance ispide. – Dieci secondi dopo stavamo scopando come conigli.
– Gran bell’immagine – grugnii in risposta. Cazzo, distrarsi non serviva proprio a niente. Ero stato al Tempio per l’ultima volta nove mesi prima della nascita di Connor. Come avrei potuto ricordare un tragitto che avevo percorso soltanto una volta, e nemmeno partendo da casa Davenport?
Mi ero sopravvalutato. Ah, merda. – Ehi, hai chiesto tu di raccontarla. – Uff. L’umidità che saliva dal sottobosco e mi si appiccicava al corpo aiutava solo a rendermi più irritabile. I punti dalle parti del ginocchio tiravano dolorosamente, come dovessero staccarsi da un momento all’altro. Ero stato io a insistere per partire, e non avrei potuto essere più pentito.
Non era la prima volta, da quando avevamo lasciato la Tenuta. Di quando in quando mi capitava di rivalutare tutto ciò che avevo fatto fino a quel momento, etichettandolo come un mastodontico errore. Veniva quasi naturale. Specie quando mi ritrovavo smarrito nella foresta, solo io e Thomas Hickey. Rispettavo quell’uomo nonostante la sua schiettezza e tutto il veleno che sputava senza alcun filtro contro chiunque non gli andasse a genio, specie Charles – lui e la sua innata passione per il gioco d’azzardo, oh, Dio –, ma il suo senso dell’orientamento era pari a quello di un vecchio che ha passato tutta la vita senza muoversi di casa sua e, all’improvviso, a sessant’anni compiuti, viene scaraventato nel bel mezzo della città. Solo, con meno panico.
Io ne provavo abbastanza per tutti e due. – Diavolo. – Strofinai il dorso della mano sul ginocchio dolorante e feci scrocchiare la schiena, sperando in un’illuminazione di qualche tipo. – Peccato che tu non fossi con me in quella spedizione. – Cercavo comprensione nei suoi occhi, uno sguardo che mi dicesse “tranquillo, capo, succede a tutti di perdersi nella foresta”. Conforto. Una di quelle cose che, tra i Templari, soltanto Charles sembrava in grado di dispensare.
Era uno dei motivi per cui mi mancava così tanto. Così forte da far male. – Quando uccidemmo Braddock – proseguii, ingoiando il groppo che mi era formato in gola.
Mi scoccò un’occhiata maliziosa. – Perché, c’era anche Charles con te nel Tempio? Stai dicendo che ti saresti portato dietro pure me?
– No – replicai in un sibilo. Cazzo. L’aveva tirato in ballo. Perché aveva tirato in ballo Charles? Maledizione. – Voglio dire, Charles non c’era.
– Credi sia già lì? – Fece un vago cenno alla boscaglia che si espandeva davanti a noi. – Qualcuno gli avrà pur detto dove si trova quel posto.
Affondai gli incisivi nel labbro, cercando di calmare il battito del cuore. – Sono… sono stato io. – Che gran coglione. Se avessi saputo…
– Ah, bell’amico. L’hai detto solo a lui? – Incrociò le braccia dietro la nuca con un sogghigno. – Non è che volevi farmi una sorpresa, eh, capo? Una festicciola, solo il vecchio gruppo e un paio di ragazze. – I suoi occhi brillavano sognanti. Immagino non desiderasse altro in quel momento, mentre io ero così confuso da riuscire a malapena a respirare, e ci provavo, giuro, provavo con tutto me stesso a ricordare perché gliene avessi parlato, cercando di trovare un mio errore, un qualsiasi mio errore, ma non ce n’erano. Né da parte mia, né da parte di Lee.
Ricordavo benissimo perché gliel’avessi rivelato. Perché era un mio sottoposto. Era stato al mio fianco durante l’omicidio di Braddock. Mi aveva protetto. E con tutti questi, più di tutti questi, perché non aveva mai parlato male di Tiio. C’era del sospetto nei suoi occhi, senza dubbio, ma aveva quell’espressione di ferrea sottomissione, come a dire che se mi rendeva felice stava bene anche a lui. Non aveva lo sguardo lascivo di Hickey o quello indifferente degli altri. Sembrava solo… preoccuparsi che quella fosse la cosa giusta per me. E quando Tiio se n’era andata, gli avevo detto dov’era il Tempio. Pensavo lo meritasse.
Non era una bugia.
Tutti gli errori avevano una fonte. Tutto il male del mondo doveva pur provenire da qualche parte, no? Nella mia vita, quella fonte era Reginald Birch. Ero io, con la mia stupida fiducia in lui, e mio padre, che se ne era fidato prima di me. Il male erano le circostanze e i sensi di colpa che non smettevano mai di martellarmi la testa come fottuti chiodi. – Sarebbe stato di sicuro più divertente che starsene qui, non credi? – Sollevai il capo nella sua direzione e grugnii. Certo. Qualsiasi cosa sarebbe stata più divertente. Diedi uno strattone alle redini del cavallo e lo feci girare su se stesso, trovandomi davanti a un’altra zona della foresta esattamente identica a quella cui avevo appena dato le spalle.
Il suo amore ci dà la forza.
Basta. Basta, per favore. Non volevo più sentirla, né ricordare il modo in cui era morta. Tra le braccia di Charles, ma per colpa mia. Soltanto per colpa mia.
Tiio si sbagliava. Lei e quelle sue leggende. L’amore non dà la forza. L’amore ti rende debole e vulnerabile, e per amore faresti qualsiasi cosa. Gli affetti ti danneggiano. Perché dobbiamo tenere alla persone? Ci affezioniamo senza riuscire a evitarlo, è una risposta spontanea del nostro corpo a… cosa, di preciso? Perché un organismo così raffinato decide di rischiare esponendosi a un tale pericolo? Cosa ci guadagniamo, poi? Una scopata decente e duratura, due, una vita intera di scopate? E allora? Ne vale la pena? Vale la pena, quando sappiamo che tutto ciò cui teniamo può essere usato contro di noi, per farci del male? No. Non ne vale affatto la pena. È molto meglio fare da sé, a questo punto, così nessuno può ferirti, e non amare mai.
Fosse così facile, cazzo. Fosse stato così facile guardarla andare via con gli occhi lucidi e i pugni stretti, mentre riprendeva le sue cose e si copriva e mi dava la schiena. Ogni secondo, ogni istante lontano dai suoi occhi era come una pugnalata in pieno petto. L’amavo e non potevo farci nulla, anche se mi feriva. Anche se mi avrebbe ferito, in futuro.
L’amore non dà la forza. L’amore è una bestia rabbiosa e assetata di sangue che ti strappa tutto ciò che hai di più caro e annulla la tua volontà. Ti fa sputare bile e rivoltare lo stomaco e desiderare di non essere mai nato.
Certo che l’amore è meraviglioso. Finché non è fuso per forgiare la lama che ti taglierà la gola.
Stronzate. – Di qua – replicai, mordicchiandomi furioso l’interno della guancia. Avrei trovato il Grande Tempio. Dovevo.
A costo d’impiegarci altri cinquant’anni. Lo dovevo a Tiio, e lo dovevo all’Haytham Kenway di trent’anni prima, un ragazzino illuso con la testa piena di ideali, che credeva nella vita e in ciò che ti offre. Credevo nell’amore nonostante avessi assistito e preso parte alla barbarie della guerra, alle stragi di Braddock. Era un periodo d’oro per me, per l’Ordine, e avevo cominciato a dimenticare Jenny. Il suo viso… solo una macchia sfuocata nella mia testa, circondata dai capelli biondi di nostro padre. Oh, che importanza aveva? Tanto era morta. Sicuramente morta. In quei giorni, in quei mesi avevo cominciato a pensare che tutto potesse andar bene. Di poter vivere accanto a Tiio e ai Templari, senza far del male a nessuno.
Che razza di idiota. Ero lì, dopo trent’anni – anni di sangue, di morti e di disperazione – per far vedere al vecchio me che tutto ciò in cui credeva era una favola. Nient’altro che un’illusione. La vita non era quella. Può esserlo per un periodo, ma viene a chiederti il riscatto quando meno te l’aspetti. E, Cristo, non si fa nessun problema a portarti via molto più di quello che hai ottenuto, a strappartelo con le unghie mentre apre la pelle e fa la carne a brandelli.
Mi mordicchiai l’interno della guancia a sputai a terra con un sibilo, battendo i talloni sui fianchi del cavallo. So che sei qui. Strinsi forte i denti e presi un respiro profondo. Serrai le palpebre alla luce del sole, filtrata attraverso le foglie. La boscaglia non era mai parsa più insignificante e anonima, tutta identica in se stessa.  
So che sei qui. Da qualche parte devi pur essere, giusto? Schioccai la lingua. Avevo cacciato Assassini e Templari, nemici e fratelli per tutta la mia vita. Non mi sarei fatto fottere da una maledettissima grotta dei Precursori.
Pazienza. La prima dote del cacciatore.

Note dell'autrice:
Ehilà!
D'accordo, d'accordo, stavolta sarò veloce, lo prometto.
Volevo soltanto dirvi che la prossima settimana mi tocca balzare con la pubblicazione perché sarò in gita.
Tutto qui. Okay. Perché se inizio ad ampliare il discorso con le mie solite idiozie non la finisco più, LOL.
Grazie, sempre e comunque, per le visite, le recensioni, il supporto e le chiacchierate.
E gli spunti per il gay porn.
Vi adoro. Davvero, vorrei riuscire a essere meno banale, ma questa è la verità.
Siete fantastici. Sempre.
Basta zuccherosità (?), ragazzi, LOL.
Ci si vede tra due settimane! :3
 

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Capitolo 63
*** Istinto. ***


Mi chiamo Haytham E. Kenway, sono nato a Londra un numero di anni fa che preferisco di non ricordare e odio con tutto il mio cuore la Frontiera. 
Maledissi me stesso un centinaio di volte. Non so che cosa mi avesse spinto a scappare dalla tenuta così di fretta, ma avrei rimpianto per tutta la mia vita di non aver portato una mappa. Erano passate da poco le undici di sera quando Tom smontò da cavallo con una bestemmia, i palmi sollevati in segno di resa. – Io ci rinuncio – disse incassando la testa tra le spalle. 
– È qui. – Stronzate. Non sapevo nemmeno più se parlavo a lui o a me stesso. – È qui da qualche parte, ne sono sicuro. Ancora un po'. 
Tom sbuffò, il mento poggiato sulla sella e le braccia che accarezzavano mollemente i fianchi del cavallo. – Sì, così se ci va bene incontriamo i patrioti e se va male un orso ci mangia vivi. Non c'ho un cazzo voglia di rischiare, capo. – Storse la bocca. – Spiacente. Io mi fermo qua. 
– Andiamo, cazzo, non puoi... – Un groppo acido mi risalì in gola e riempì le guance brucianti. Servì tutta la mia forza di volontà per buttarlo giù, ma per niente al mondo avrei permesso al mio stomaco di rovinare quel momento. Dovevo arrivare al Grande Tempio. Una bella chiazza di vomito sulla camicia sarebbe di certo stato il massimo per mostrarmi eroico, fiero e invincibile davanti a Reginald. Scrollai il capo e mi passai una mano sulla fronte sudata nonostante la fredda umidità che saliva dal sottobosco. – Non mi mollerai così. – La mia voce era roca per il vomito, e pregai che non se ne accorgesse. Era lui il mio bastone della vecchiaia. Più di Connor, senza dubbio. E Charles... Vivevo nel terrore. Non lasciarmi, pensai con i denti stretti gli uni contro gli altri. Non lasciarmi anche tu, Tom. – Andiamo, non manca molto, si tratta solo... 
– Col cazzo, d'accordo? – Trascinò il cavallo per le redini, schioccando la lingua contro il palato. Bastardo. Usare un tono del genere con me. Ero il suo Gran Maestro. Farmi rispettare era mio dovere. Mi sembrava incredibile aver fatto tanta strada e scavalcato tanti cadaveri in nome del potere quando non riuscivo a imporlo su un irlandese ubriacone e dipendente dal sesso.
La verità è che non ne avevo la forza. Oppure speravo che non fosse necessario, ignorando il fatto che Thomas Hickey non agiva in nome della sua simpatia nei miei confronti, ma solo dei bisogni che, al momento, gli rombavano più forti nel petto. E io potevo solo stringere i pugni e guardarlo negli occhi, sperando di infondervi abbastanza pietà da fargli credere in me. Era dalla mia parte, giusto? Doveva esserlo davvero. Non vedi quanta disperazione?, pensavo guardandolo. Nemmeno con un paio di tette grosse quanto la mia testa avrei potuto attirare la sua attenzione. Avevamo passato troppo tempo insieme per fargli paura. Era a conoscenza di segreti che nascondevo anche a Connor, e non c'era nessuno che mi leggesse più facilmente, al mondo. Quando hai tutta questa confidenza con una persona è difficile averne timore. Facevo leva su quello che speravo fosse diventato. Una brava persona. Una persona migliore, con qualche malmesso brandello di coscienza cucito insieme sotto le costole. 
Sospirai, lanciandogli un'occhiata da cane bastonato. Perché non poteva essere un sanguinario dotato, al tempo stesso, di un briciolo di pietà? Era tanto difficile? O tutto o niente, così era Tom. Prometteva di non ammazzare nessuno, oppure uccideva uomini più o meno innocenti a decine, come fossero maiali da macellare. Per quanto cercasse di mascherarsi con degli ideali, restava un bastardo con un sacco di armi addosso.
Avevo degli uomini, e dovevo farmeli bastare in quanto tali. Non per la loro coscienza o le loro idee politiche. Chiunque avesse scelto di appoggiarmi, persino l’ultimo degli idioti, mi sarebbe dovuto andar bene. Forse è questo che fa un capo nei momenti di crisi. Sì. Trae il meglio da ciò che ha. E io avevo decisamente poco. – Ascolta, sono sicuro che ci siamo. Davvero, io...
– Lo dici da ore, Kenway. – Si scavò nelle tasche della giacca, la schiena poggiata all'albero cui aveva legato il cavallo con una smorfia noncurante in viso. – Senza rancore, eh. Ho solo voglia di farmi una dormita – esclamò mentre sfregava la capocchia di un fiammifero contro la corteccia e si accendeva un sigaro. Serrai dolorosamente la presa sulle redini, guardandolo mentre aspirava il fumo del tabacco a grandi boccate. Come fosse il solo a voler dormire. Secondo lui mi divertivo a girare in tondo per la Frontiera senza sapere dove diavolo stavo andando, senza avere più la minima idea di cosa cercare davvero? Avevo ammazzato William, Benjamin e Achille, avevo rischiato la mia vita innumerevoli volte, soltanto per questo? 
No. Assolutamente no. Perché non glielo dici, allora? 
Deglutii rumorosamente. Non volevo altro rancore. A dire il vero quei pensieri mi sembravano tanto quelli di una donnetta isterica. Diritto di vita e di morte. Il potere stretto nelle mie mani, nonostante la Mela l'avesse Connor. Pieno controllo del mio Ordine, delle Colonie, del mondo intero. E una donnetta isterica non aveva mai avuto il controllo di un cazzo. 
Un uomo con le palle. Ecco che cosa dovevo essere. – Tom, monta a cavallo. È un ordine. 
Roteò gli occhi. – Eddai, capo. – Mi fece un sorrisino, di quelli che probabilmente facevano cadere ai suoi piedi tutte le puttane di New York. 
Non ero la sua puttana, e avevo giurato a me stesso che non sarei più stato la puttana di nessuno. Insomma, arrendersi a lui non avrebbe giovato alla causa. Coraggio. Non riesci a importi su questo coglione e vorresti ammazzare Reginald Birch? Bella prospettiva. 
Scrollai il capo, costringendomi a scacciare quei pensieri. Dio! Non erano poi tanto campati per aria, perché l’atteggiamento migliore sarebbe stato quello opposto. Ferreo. Irremovibile. Giovane aquila. Un brivido mi corse lungo la schiena. Sì. Un rapace in grado di serrare i topolini ribelli tra gli artigli e stritolarli, ucciderli, eliminare i loro patetici cadaveri. Giù per la gola in un sol boccone.
Eccolo lì, il piano. Nell’atteggiamento. – Monta sul dannato cavallo, Hickey. – Al diavolo le strategie, le mappe e le scelte razionali. Mi avevano insegnato come si risolvono le questioni tra uomini. Con le parole, se il soggetto è abbastanza suggestionabile. Altrimenti, be', si fa alla vecchia maniera. La mia preferita. 
Estrassi la pistola e un proiettile dalla tasca della redingote, caricando l’arma alla fioca luce che la luna mandava nella boscaglia. – Oppure? – sghignazzò Tom, il capo reclinato contro il tronco pulsante dell'albero. Era ubriaco? Pregai per lui che fosse così, cazzo, o niente avrebbe potuto trattenermi dallo sparargli per davvero. 
– Oppure i tuoi testicoli diventeranno cibo per gli orsi – ringhiai mentre sollevavo il cane. – Scegli tu. 
Lo vidi sbiancare alla prospettiva di vedere la sua futura progenie spiaccicata sulle rocce coperte di muschio, una melma rossa e viscosa che qualche animale affamato si sarebbe affrettato a leccare via mentre Thomas strillava come un soprano, le mani al pube per fermare l’emorragia – inutile, inutile –, il suo corpo raggomitolato per terra, travolto dalla disperazione. 
Una visione che mi scaldava il cuore, in quel momento. Non deludermi anche tu, pensai mentre cercavo di tenere a bada il cavallo con i soli talloni, come faceva lui. 
Non gli ero inferiore. Non ero inferiore proprio a nessuno. 
Però non deludermi. Ti prego. 
– Allora? Hai intenzione di mettere alla prova la mia pazienza? – gli abbaiai contro. Speravo, se non di spaventarlo, quantomeno di metterlo un po' in crisi. Avevo ammazzato il Mentore degli Assassini, Ben, persino l'imperturbabile e sempre diplomatico William Johnson. Eliminare un cazzone come lui sarebbe stato un giochetto, non fossimo stati così tanto amici.
Giusto? – Monta a cavallo. Adesso. 
Schiacciò il mozzicone che gli illuminava la faccia con un alone spettrale contro la corteccia dell'albero, scintille incandescenti a piovere sulle sue spalle. – Va bene – sibilò brusco. – Ma lo faccio solo per le mie palle. Cazzo, capo, penso che tu stia prendendo quest'affare un po' troppo sul serio, sai? 
Feci spallucce. Gesù Cristo. – Hai ragione. Che vuoi che sia? – Riposi la pistola con un gesto secco, lanciandogli uno sguardo velenoso con la coda dell'occhio. – Soltanto la vendetta sull'uomo che ha ucciso mio padre, mi ha trasformato in una macchina da morte e come se non bastasse ha abusato di me. – Mi schiaffeggiai la coscia con tutta la teatralità che riuscii a sfoderare. – Mio Dio, quanto sono drammatico! 
Gli scoccai un’occhiata scettica, ravviandomi i capelli con le dita. Avrebbe potuto parlare con quei toni di qualsiasi cosa, davvero, di chiunque, ma non di Reginald. Non della mia vendetta. Non di Charles. Non me ne fregava più niente di quanto potessimo avere legato in quel poco tempo, maledizione, volevo soltanto che la smettesse di sfidarmi e stesse zitto. Al mio comando. – Non credo che tu possa dirmi quando esagero e quando no. Sbaglio o sei lo stesso uomo che s’è quasi messo a piangere sulla mia spalla strillando che non voleva più ammazzare nessuno?
Mi guardò negli occhi. Mi guardò davvero. Sollevai un sopracciglio, e ci vidi tutto quello che avevo sempre voluto vedere. L’inquietudine. La paura che, per una volta, potessi davvero fargli del male, a lui come a chiunque altro.
Non credo che Thomas Hickey abbia mai avuto paura di qualcuno, ma lì, nel disperato vuoto della Frontiera, lo vidi tentennare e fare mezzo passo indietro. M’accorsi di sguainato l’arma peggiore di tutte. Un discorso cui non era mai stato davvero fedele e che sperava mi fossi dimenticato e avessi lasciato seppellito sotto tutti i cadaveri che avevamo incontrato sulla nostra strada, proprio come aveva fatto lui.
Peccato fossimo diversi. – Sei solo un vigliacco – mi ringhiò contro. La sua figura fremeva appena, come se gli si muovesse il terreno sotto i piedi. M’aspettavo una reazione del genere. Avrei dovuto aprire bocca prima, sicuramente, dirglielo alla tenuta, appena mi aveva proposto quella patetica scommessa per la vita di Charles. Forse le mie parole non avrebbero più avuto lo stesso effetto. Meglio. Lo avrei colto di sorpresa, quando pensava che fossi solo un vecchio idiota facile da calpestare. Oh, già, Tom. I suoi insulti non mi toccavano neanche un po’. Era soltanto la patetica difesa di chi sa di essere in torto. E anche se non lo fosse stato, be’, erano affari suoi. Aveva compiuto il suo primo errore mettendosi contro di me, cercando di prendere decisioni al mio posto. – So che stai facendo questa sceneggiata per Charles, ma non cambia proprio un cazzo. – Sollevai l’angolo della bocca in un sorriso, guardandolo avanzare con le braccia aperte e il mozzicone stretto tra indice e medio. Che paura. Giuro, stavo tremando. Tra me e me mi domandai se fosse stato l’alcool a consumargli il fegato o se, semplicemente, non ne avesse mai avuto. – Resta un traditore. Lo sai.
Mi resi conto che non aveva nemmeno usato il condizionale. Dava per scontato che Charles mi avesse abbandonato per accoccolarsi tra le gambe di Reginald. Schioccai la lingua contro il palato. Era un ubriacone, uno di quelli che, se fossi stato cresciuto da mio padre, mi avrebbero insegnato a etichettare come feccia della società. Esseri inutili, parassiti che vivono sulle spalle dei bravi cittadini. I ricchi. Come eravamo anche noi. Poteva anche saperne più di me sui traditori – lo stesso Esercito Britannico gli aveva affidato il compito di ammazzare George Washington, dopotutto –, ma questo non gli dava alcun diritto di giudicare.
Specie quando aveva fatto quel che aveva fatto.
A guardarlo in quel momento pareva che, al contrario di me, Thomas Hickey non si fosse mai pentito di un’azione in vita sua. – E gli altri? – chiesi, le braccia incrociate sul petto. Per una volta non volevo sembrare sicuro di me. Lo ero e basta.
Non gli avrei mai permesso di prendere decisioni al mio posto. Emise uno sbuffo, scrollando le braccia come un bambino scocciato. – Nessuno è davvero innocente, Haytham.
– Parli come se questo ti desse il diritto di decidere sulla vita degli altri. – Feci un passo verso di lui. Tenni gli occhi affondati nei suoi come pugnali, senza dargli un attimo di tregua, la mascella contratta e le mani che prudevano dalla voglia di stringersi intorno alla sua gola. – Nessuno è innocente? Davvero? Nemmeno i bambini?
Roteò gli occhi. “Non capisci proprio nulla”, sembrava dire quel suo sguardo. Si sbagliava. Uno come lui riuscivo a capirlo benissimo, purtroppo. Emise uno sbuffo e allargò le braccia, come se la verità, quella che secondo lui continuavo a non cogliere, si nascondesse lì, nella Frontiera, nella realtà stessa. – A volte la tua colpa è semplicemente quella di essere nel posto sbagliato al momento sbagliato – esclamò. Non c’era l’ombra del dubbio nei suoi occhi. Quell’osservazione che pareva averlo scosso così tanto quando aveva deciso di diventare un novello santo adesso era soltanto una constatazione. Sapevo come andavano le cose. Ci si abitua a tutto, anche a ciò che ti devasta. Non che questo gli permettesse di fare lo stronzo.  
Presi fiato, i pugni stretti lungo i fianchi, come se stessi cercando di strangolare qualcuno. – Ma non hai fatto niente per averla – buttai fuori in un sibilo.  
– E allora? – Tom lasciò cadere gli arti con un sorriso. Sembrava stesse parlando a un bambino cocciuto. Ripensando ai commenti di Achille su quanto fossi infantile, forse non aveva tutti i torti, ma non era ciò che contava in quel momento. Thomas. Thomas Hickey stava ribattendo alle mie osservazioni con la logica dei Templari. Distolsi lo sguardo, lasciando che vagasse tra quei dannati alberi senza fine. – Il mondo funziona così. Ci sono i giudici e i condannati, e se sono facili da trovare è soltanto peggio per loro. – Certo. Annuii tra me e mi strinsi nelle spalle per sfotterlo. Che figlio di puttana.  
– Sei un ignobile stronzo. – Lanciai uno sputo a terra, e mi chiesi se fosse davvero possibile cambiarlo. Se fosse mai cambiato. Forse era soltanto un gigantesco mucchio di bugie. E sembrava fosse più forte di noi. Mentire. Nascondere ciò che veramente eravamo per occupare un posto migliore nel mondo.
Ma lui era un assassino. Lo era sempre stato. Decidere di smetterla con gli omicidi non l’avrebbe reso migliore ai miei occhi. Poteva esserci stata davvero l’idea di cambiare, nella sua stupida mente. Aveva pensato di poterla mettere in pratica. Di poter cambiare radicalmente, da così a così.
E poi se n’era reso conto. Nessun precettore forma un assassino, e soffocarlo è come stritolare un dannato fiume. Non ne tiri fuori niente, né tantomeno lo fermi. È solo uno spreco. Così Tom Hickey aveva buttato via il suo tempo facendomi credere di poter essere un brav’uomo, ciò che avevo sempre desiderato di essere, e poi si rimangiava la parola con queste idiozie.
Era molto più di un ignobile stronzo. Era un approfittatore buono soltanto a seminare odio. Ovunque andasse. – Sì – mugugnò facendo schioccare la lingua sul palato, le mani di nuovo che si muovevano nell’aria in quei gesti esagerati. Che bisogno aveva di comportarsi così? – Sì, hai ragione. Sono un ignobile stronzo, ma un ignobile stronzo con una pistola da usare al tuo servizio, e non mi sembri nella condizione di permetterti di meglio. – Non riuscii a trattenere un sorrisetto. Aveva paura. Quelle mosse da criminale da due soldi, dettate soltanto dall’ansia, la sua difesa campata per aria, erano balle. Nient’altro che uno scudo tirato su per proteggersi.
Mi conosceva meglio di chiunque altro. Proprio per questo io accettavo i suoi stupidi giochetti provocatori e lui, in cuor suo, mi temeva. Oppure era straordinariamente bravo a fingere, ma non avrei permesso a una dannata supposizione di intimidirmi, per niente al mondo. – Tutto sarebbe meglio di te – replicai con una smorfia e le mani affondate in tasca, le dita rilassate e immobili.
– Davvero, capo? – Davvero, Tom. Quel sorrisetto non voleva saperne di sparire dalla mia faccia, ed ero convinto fosse un bene. Mi voltai a guardarlo, il viso paonazzo e gli occhi grandi come piatti mentre continuava a gesticolare. Sembrava avesse bevuto troppo tè. Non fossi stato in viaggio verso la mia possibile morte, be’, sarebbe stato quasi divertente. – Bene! Allora ammazza Reginald da solo e poi vieni a trovarmi!
Sbuffai, ignorando le sue sceneggiate da primadonna. – Dove andresti nel frattempo? – chiesi con tutta la calma del mondo. Non avevo niente da dimostrargli. Sentii i proiettili tintinnare contro le unghie, sotto la pelle ruvida dei polpastrelli. Persino la Frontiera sembrava piacevole, una volta che si raggiungeva un equilibrio. La pace. – Sei un ricattatore figlio di puttana. – Però mi aveva ingannato. ‘Fanculo la pace. – Hai detto che l'Ordine era il tuo unico scopo! Che ti faceva sentire vivo! Che...
Stavo urlando, le mani tremanti nelle tasche e il sudore che cominciava a grondare lungo il mio collo. No. No. Ricordati dell’equilibrio. Se t’incazzi diventa solo più forte. Giusto. La mia dannata testa per una volta aveva ragione. Dovevo solo replicare. Mostrarmi forte. No. Diventare forte. – Questo non è l'Ordine! – abbaiò Tom, puntandomi una mano accusatoria contro. – Questo sei tu, che cerchi di aggiustare le cose perché vadano come piace a te! Ho ammazzato delle persone anche se avevo giurato di non farlo più? Sì. Ma non l'ho fatto per me. 
Roteai gli occhi e scrollai il capo in un risolino. Come se non gli fosse piaciuto, a quel dannato bastardo. Continuai ad ascoltarlo, curioso di capire dove volesse andare a parare. – L'ho fatto perché era necessario, Haytham. – Qualcosa mi scaldava il fianco destro, sotto la redingote, come stesse andando a fuoco. – Se io non avessi ucciso quei mercenari tuo figlio sarebbe morto, e se disgraziatamente Charles decidesse di non volerti più tanto bene saresti tu a lasciarci la pelle! – La pistola, ecco cos’era, bloccata nella fondina e bollente come se l’avessi tenuta al sole. Le parole di Tom sembravano lontane, ovattate. Cos’è che stava dicendo? Sarei morto? – Lo capisci? Ti entra in quella maledetta testa? – Sì, ma non era suo dovere preoccuparsene. Sorrisi, scostando la falda della redingote quel tanto che bastava a mostrare l’arma da fuoco. Peccato che fosse così infervorato nel suo discorso da non notarlo. – No! Perché tu vedi soltanto il tuo bene e la famiglia che non hai mai avuto! I Templari non sono una famigliola amorevole! Siamo uomini armati che ammazzano altri, anche se tu fai di tutto per ignorarlo!
Calò un silenzio inquietante, interrotto soltanto dal suo ansimare convulso e dal frinire degli ultimi grilli della Frontiera. L’eco della mia risata era sparito, e la pistola rilasciava un calore quasi confortante nel mio ventre. – Finito? – chiesi aggrottando la fronte.
Scrollò il capo e si passò le dita sul mento, scompigliandosi un principio di barba. – Ti stai ficcando nella merda con le tue mani, Haytham – annunciò con una scintilla combattiva negli occhi. Gli feci spallucce. – Non t’interessa? Non ti preoccupa?
– No. – Storsi la bocca, gli occhi bloccati nei suoi. Stupore. Quelli due sassi colmi di cattiveria e istinti omicidi si abbassarono lentamente, fino alla vecchia pistola che mi pendeva dal fianco. Finalmente. Sfiorai il cane con la punta dell’indice e lasciai uscire il fiato dal petto in un sospiro. – Non alzerai un solo dannatissimo dito su Charles.
Fu lui a sollevare gli occhi al cielo, stavolta. – Oh, allora è per questo, giusto? – Si passò una mano sulla guancia con una mezza risata.
Forse sì, ma non gliel’avrei lasciata passare. Per quale motivo lo stessimo facendo non erano affari suoi. Mi era fedele. L’aveva giurato. Che lo fosse allora, nel bene e nel male. – Non è solo per questo, Tom. – Il mio pollice scorreva lentamente sul calcio di legno. Al tatto sembrava freddo. – È per tutte le tue stronzate, per le bugie, per il sangue che continui a versare nonostante le tue promesse del cazzo. Per questo. – Schioccai la lingua, come a fargli vedere che avevo mostrato le mie ragioni. Ed erano più che sufficienti. – Ecco per che cos'é!
– Ma non è per l'Ordine. – La voce di Thomas tremava d’ira e timore. 
Sorrisi di nuovo. Se credeva di fregarmi con l’Ordine che io avevo rimesso in piedi e portato nelle Colonie, Dio, si sbagliava di grosso. – Per carità, non te n'è mai fregato niente dell'Ordine, dico bene? È soltanto quello che ti serve. – Un gruppo di persone a proteggerlo, qualcuno che lo pagasse, una fornitura perenne di armi e vitto e alloggio in una taverna, con la garanzia che qualche membro dell’Ordine lo proteggesse dai casini più grande di lui in cui inevitabilmente si ficcava. Chi avrebbe rifiutato una proposta simile? In tempi di guerra, poi! La moralità passava in secondo piano, e se era necessario uccidere un paio di persone, be’, l’alternativa era il campo di battaglia. E lì non solo si ammazzava sul serio, ma il cibo non era il massimo e i letti… Suppongo non sia nemmeno corretto definirli tali.
Thomas sbuffò. – E va bene, forse l'ho fatto per me, ma vuoi dire che non era necessario? O che non fosse ciò che volevi anche tu?
Serrai due dita sulla cima del naso, le palpebre pesanti e la gola arsa. Sembrava che il calore della pistola si fosse attenuato. – Io non ti capisco, Haytham! Dici di essere interessato alla sopravvivenza dell’Ordine, ma allora… – Continuava e continuava a parlare, senza sosta, non un minuto di pausa, accampava una scusa dietro l’altra per far crollare le mie difese, ma io non lo ascoltavo più. Aveva giocato con il fuoco.
Io ero il fuoco. Se aveva intenzione di avvicinarsi e farmi crollare, be’, si sarebbe dovuto scottare un po’. – …e per questo, insomma, allora dovremmo morire tutti, e che cazzo, io…
– Basta!
Lo fissai negli occhi, i pugni stretti lungo i fianchi e il fiato grosso, come se avessi appena corso per miglia e miglia. Thomas voleva sfiancarmi, ma quei tempi erano finiti. Non avevo più paura di lui.
Rimasi a guardarlo senza dire una parola, lo sguardo sulla sua mascella contratta e le labbra strette in una smorfia di silenziosa sfida. Non era stato lui a mettermi paura, ma il fatto che sapesse così tanto di me. Che mi conoscesse così bene da spezzarmi.
Non più. Presi fiato, azzardando un passo verso di lui. – Mettiti un'altra volta contro la mia autorità con uno dei tuoi stupidi giochetti e io ti ammazzo. – Le parole sembravano uscirmi di bocca senza controllo, il tono duro e disinvolto al tempo stesso, come avevo sempre voluto essere. – D'accordo? Ti ammazzo. 
Ucciderlo. Un pensiero che non aveva mai preso piede nella mia testa, ma non era necessario che Thomas lo sapesse. Quelli come lui hanno paura soltanto della morte. Di qualcuno che possa affrontarli davvero.
Non sapevo se ne fossi in grado. Ostentarlo era più che sufficiente. – Va bene – sibilò Tom tra i denti sbarrati, sollevando le mani aperte in segno di resa. – Va bene. – Lo vidi muovere un passo indietro, verso gli alberi, e un sogghigno fece capolino sul suo viso. – Fa' una sega a Charles anche da parte mia, quando lo salveremo. 
Le orecchie mi fischiavano quando vidi Thomas gettarsi a terra con le mani sopra la testa, fare una mezza giravolta e battere la schiena contro il tronco di un vecchio albero. Un fischio acuto e persistente, di quelli che precedono uno svenimento. Mi ricordavano qualcosa.
Tom mosse la bocca. Non riuscii a capire che cosa diavolo stesse dicendo. Quel dannato fischio era sempre più forte. A malapena riuscivo a sentire quel che pensavo.
Abbassai gli occhi, la mano sinistra alla fronte. Non avevo mai visto un’espressione simile sul volto di Tom, gli occhi sgranati e i palmi premuti contro il petto, come se il cuore fosse sul punto di schizzarne fuori. Le sue labbra si muovevano troppo lentamente. Lanciando un’occhiata veloce al suo labiale, mi parve di leggervi un “figlio di puttana”, ma con quel maledetto casino in testa era impossibile esserne certo.
Il mio sguardo continuò a calare, fino a cadere sul filo di fumo bianco che spuntava dalla mia mano.
No. Non dalla mia mano. Dalla pistola a pietra focaia che impugnavo.
Tornai a fissare Thomas. Il fischio era svanito nel nulla, proprio com’era apparso. Le sue ginocchia tremavano, strette contro il petto, e i suoi occhi scuri, improvvisamente enormi, fissavano un punto impreciso alla sua destra. Il punto verso cui dovevo aver sparato.
Il mio istinto aveva avuto la meglio. E non poteva trovare un momento migliore. Fui io a sorridere, in quel momento, guardandolo rialzarsi sulle gambe instabili e aggrapparsi ai rami più bassi dell’albero con le poche forze che lo spavento non gli aveva strappato. – Ma sei impazzito? – gridò. I suoi piedi si allungarono lentamente verso il folto della foresta, quatti come quelli di un cacciatore esperto.
No, non lo ero affatto. Avevo soltanto capito cosa fare.
Si sfilò il cappello, passandosi le dita nella folta chioma nera. – Cristo, capo, che cazzo…
Annullai la distanza che correva tra noi con due falcate, afferrandolo per il collo della giacca con la mano libera mentre i suoi piedi si agitavano convulsamente sul terreno umido della notte. Non avrebbe mosso un solo passo, non finché ancora ero vivo. – Dove stai andando? – gli abbaiai in faccia, la pistola premuta contro il suo mento tremante. – Eh, dove cazzo stai andando? – Non era più solo il mio istinto. Era ciò di cui aveva bisogno.
Una lezione. Una che non avrebbe dimenticato. – A… pisciare – sussurrò, la mano che strisciava sul mio polso nel tentativo di liberarsi.
Non poteva mentire. Poteva farlo con la voce, con i gesti, ma i suoi occhi tradivano la paura crescente sotto le costole. Aveva paura che lo uccidessi davvero. A pensarci non avrei potuto sparargli, ma sarebbe stato semplice spingerlo contro la dura corteccia dell’albero e colpire la sua fronte col calcio della pistola, fino a spappolargli completamente il cranio.
Il solo pensiero mi diede un brivido lungo la schiena. – Vaffanculo! – Lo spinsi a terra, asciugandomi le labbra umide con la manica della redingote. Thomas cadde carponi, i palmi e le ginocchia affondati nel terriccio. – Hai capito bene?
Annuì con un cenno del capo e me lo feci bastare, voltandogli le spalle per ricaricare la pistola mentre si tirava in piedi su quelle gambette scosse dal terrore. – Non… Scusa – ringhiò tra i denti sbarrati, portandosi al mio fianco con un paio di passi inquieti. – Non avrei dovuto dire quelle cose.
Schioccai la lingua. Però, un vero genio. – Chiudi la bocca – replicai. – Hai già dato abbastanza aria a quella dannata fogna, per oggi.
Rimisi la pistola nella fondina, pronto a sollevare il cane per sparargli – sul serio, stavolta – nel caso fosse stato necessario. – D’accordo, d’accordo, ma per tornare al discorso di prima…
Thomas rispose alla mia occhiataccia con un timido sorriso, come se avesse paura di parlare ma non potesse farne a meno. Che diavolo avrei dovuto fare per farlo stare zitto una decina di minuti? Non chiedevo poi molto, giusto? – Non dovevi andare a pisciare, tu? – gli dissi brusco.
Roteò gli occhi – vi scorsi ancora una lucida scintilla di paura – e si calò il tricorno in testa. – Saresti stato comunque una macchina da morte – sputò con un brontolio sommesso. – Anche senza Reginald. Sai, penso che ci si nasce con una... Propensione del genere – disse indicando prima se stesso, poi me, e uscendone con una scrollata di spalle. – E, per quanto mi riguarda, abuso mi è sempre sembrato un termine esagerato. Alla fine ti è servito a qualcosa, giusto? È un'esperienza. Non c'è nessun abuso, perché mica sei un oggetto. È solo... Una passione un po' rara. Tutto qui.
Ridacchiai. Nemmeno la minaccia di una pistola carica poteva fermarlo dal dire tutte quelle cazzate. – Ah, quindi tu la chiami così? Una passione un po' rara? – Scrollai il capo perché sparargli mi sembrava sconveniente, per quanto mi sarebbe piaciuto. Mi facevano male le chiappe solo a sentirlo, e non soltanto per tutte quelle ore in sella, suppongo. – Monta sul cavallo, Tom.
– Andiamo, stavo soltanto…
Lo zittii con un cenno della mano. – Monta sul dannato cavallo. E zitto, per cortesia.
Thomas Hickey s’issò sulla cavalcatura sbadigliando, le braccia tese indietro mentre si stiracchiava come un bambino. Non che mi facesse pena, specie dopo tutte le stronzate che avevo dovuto sentire. Anch’io ero esausto. Da ore attraversavamo quell'ammasso di terra, erba e fango in tutte le direzioni, guadavamo fiumiciattoli e controllavamo – Gesù, forse è meglio dire che controllavo – il terreno in cerca di indizi, tutto senza un minimo risultato. Era strano come urlargli addosso e riprendere in mano la situazione non mi avesse dato alcun sollievo, nessuna soddisfazione. Mi ero tirato fuori da quel pozzo di disperazione, ma non per questo ero più felice.
Non sarei mai riuscito ad affrontare Reginald senza pensieri, totalmente sicuro di me. Mi grattai la pelle lercia delle tempie, sentendola squamarsi sotto le unghie. Che diavolo ci facevo lì in mezzo? Avevo la mia età, maledizione, non ero più un ragazzino. Come potevo pensare di poter attraversare la Frontiera in lungo e in largo senza un po' di fatica e senza una mappa? Basandomi su cosa? E, buon Dio, perché ero stato così stupido?
Tom lasciò cadere mollemente un braccio lungo il fianco del cavallo, il busto premuto sul collo della bestia, fingendo di essere addormentato. – Coglione – dissi tra i denti mentre gli mollavo uno scappellotto. – Vedi di restare all'erta. – Come se io non avessi sonno. Ma avevamo una missione, giusto? Non avevo mai rinunciato a buttare giù la casa di un Assassino perché avevo fame, sete o bisogno di una dormita. Eravamo i Templari. La Confraternita doveva avere paura di noi.
Sì, di noi. Un vecchio perso nella foresta e uno svogliato amante dell’alcool senza la minima intenzione di aiutarmi concretamente.
A meno che non gli avessi puntato contro un’arma, ovvio. – Merda – ringhiai, guardando al fioco bagliore della luna l'ennesima macchia di alberi. Nel quieto silenzio della Frontiera potevo udire lo scorrere impetuoso di un torrente, più a valle. Quella terra sembrava sfidare ogni luogo comune sull’estate, trasformandola in una sequela di giorni di pioggia che parevano durare per sempre. L'idea che ci fosse qualche lupo ad abbeverarsi laggiù, o peggio, un orso, mi mandò un brivido lungo la schiena. Che cosa stavo facendo? Avrei dovuto aspettare Connor. Connor e la sua capacità di seguire le tracce, come diceva Tom, la sua conoscenza della zona e quell'aria supponente di chi pareva dirmi: "l'unico posto in cui sapresti orientarti è la strada che porta al liscio deretano di Sua Maestà Giorgio III". Con termini più gentili, forse. Non era il tipo da parlarmi in quel modo.
Mio Dio. Dovevo riprendermi. C’era qualcosa che non andava in me, da quando avevo lasciato la tenuta. Mi stavo... Maledizione. Non solo mi stavo arrendendo alla prospettiva di restare lì finché Connor non fosse disceso dal Paradiso come un angelo per darmi una mano, ma gli avevo appena... Fatto un complimento? Oh. No. No, questa storia doveva finire. Basta. Ero un uomo indipendente e sicuro di me. Con le palle, sì. Di certo non avevo bisogno del ragazzo per uscire da un pasticcio simile.
Il problema era che non mi veniva in mente nessun altro modo per farlo. – Andiamo – sussurrai con un colpetto dell'indice in fronte. – Coraggio, amico, datti una mossa. – Lì per lì ricordai quel che qualcuno, non ricordo di preciso chi, mi aveva detto molto tempo prima: quando cerchi un'idea, questa si nasconde. Quando pensi di non averne bisogno, si manifesta.
Ecco, ero esattamente in quella situazione, soltanto senza il tempo di aspettare che un'idea si facesse magicamente strada nella mia testa. Dovevo fare qualcosa. In fretta. Ormai Reginald aveva sicuramente saputo di Connor, di Kanen:tò'kon, del fatto che gli indiani, nonostante Charles, erano stati messi sulla buona strada da un certo mezzosangue a me noto.
Charles. Era in suo nome che mi ero ridotto così. Per lui. Perché? Cercavo una scusante? Era un modo per rendere le mie azioni più nobili? Avevo ucciso un sacco di persone, tentato di ammazzare Washington. Achille, William, Ben. Tutte persone che avrei potuto portare dalla mia parte, ma che avevo eliminato perché non ci ero riuscito. Ma, ehi, lo stavo facendo per Charles. Per l'Ordine.
Per me. 
Che mucchio di fesserie. Certo che lo stavo facendo per me. C'erano senza dubbio altri in ballo, ma tutto quello, ogni singolo atto, era per me. Per tornare a splendere. 
...splendere? 
Mi sbattei il palmo sulla fronte, ritrovandomi a ridacchiare come un idiota. Certo. Era ovvio. Perché non ci avevo pensato prima? Le mie spalle presero a sobbalzare nella risatina isterica che seguì, ma cercai di rimanere eretto, con un'aria più o meno seria, mentre mi davo dei colpetti sulle tempie con i polsi e il sorriso idiota sul mio volto non voleva saperne di sparire. 
Come avevo potuto dimenticarmi di loro? 
Sbattei le palpebre un paio di volte, cercando di concentrarmi sul movimento della notte, sulle singole foglie, sulla vita di cui ogni angolo della Frontiera doveva essere saturo. Sui rumori. Su quel che agitava il vento. – Andiamo. – Non so dire cosa facesse Tom nel frattempo. Forse si era appisolato sul cavallo, o forse mi guardava facendo finta di niente. Gentile, da parte sua. Oppure era solo l'ennesimo sfottò. – Forza. Dai. Che diavolo ti ci vuole per...
Sobbalzai così forte sulla sella che persino il ronzino mezzo addormentato che montavo nitrì indispettito. Con un risucchio, come se stessi mandando giù gli ultimi residui di una scodella di pudding, qualcosa si era capovolto nella mia testa, e la Frontiera aveva assunto quel color grigio-bluastro tipico dell'occhio dell'Aquila, mentre, da qualche parte alle mie spalle, Thomas stava brillando nel suo sfavillante alone blu, vivace come le divise dei patrioti. 
Ironico, a pensarci. Non è il momento per le battutine. – Allora, dov’è finita tutta la tua fretta? – grugnì Tom. Mi voltai a guardarlo e, come mi aspettavo, al suo posto c’era soltanto una scintillante chiazza blu, completamente sbracata in sella al cavallo. Per un attimo mi aveva travolto la paura di vederlo brillare nel rosso brillante dei nemici, o nell’oro dei bersagli. Persone da uccidere. Non c’era niente che potesse rassicurarmi più di quel blu. A parte un certo manufatto della Prima Civilizzazione tra le mani e la completa invulnerabilità.
– Credo di aver trovato una strada – dissi senza riuscire a trattenere un sorriso sollevato. Pensavo che se fossi riuscito a superare quell’ultimo ostacolo il Grande Tempio sarebbe stato proprio lì, davanti a me, a un tiro di schioppo. E a quel punto colpire sarebbe stato semplice come bere un bicchiere d’acqua. – Seguimi, e cerca di non svegliare tutta la foresta.
Thomas portò una mano alla fronte nel saluto militare e si issò sulle staffe per guardare oltre quella porzione di Frontiera. – C’è un fiume – grugnì sconsolato. – Lo si passa?
– Dammi un momento – sussurrai tra me e me, fingendo di pensarci. – Scendiamo. – Come se avessi la più pallida idea di cosa fare.  

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Capitolo 64
*** Potrebbe persino funzionare. ***


Non sapevo bene come l’occhio dell’Aquila potesse aiutarmi in quella situazione. Forse avrebbe risvegliato Giunone e Minerva, costringendole in qualche modo a darmi una mano. Non c’era un altro luogo in tutte le Colonie in cui la Prima Civilizzazione si respirasse così bene. Era lì, ovunque. E io avevo quell’abilità per un motivo. Perché mi era dato sapere.
Che sapessi qualcosa di utile, dunque. – Sicuro che si vada di qua, capo?
Non gli risposi, gli occhi persi nel cielo, alla sfumatura grigiastra che l’occhio dell’Aquila conferiva persino alla luna. Una mano, pensai con i denti stretti così forte da far male. Non vi ho mai chiesto niente. Io non sono Achille. So che avete bisogno di me. Non era esattamente il discorso più convincente che avessi mai fatto alla Prima Civilizzazione, ma era la verità. Non c’era nessun altro che potesse aiutarli a fare… Sì, qualunque cosa volessero fare. Avrei anche baciato i piedi millenari di Giunone se fosse servito a liberarmi da quella serpe in seno che era stato Reginald Birch.
Per favore. Potrebbe persino funzionare.
Una risata cristallina echeggiò per quegli infiniti corridoi di foglie, rami appuntiti e cespugli pieni di rovi, e poco ci mancò che cadessi da cavallo per lo spavento. – Cazzo! – Il grigiore dell’occhio dell’Aquila si dissolse mentre mi aggrappavo con tutte le mie forze alle redini. – L’hai sentita? – sussurrai a Thomas da sopra la spalla.
– ‘Entito ‘osa? – mugugnò con due dita in bocca, scavando tra i denti alla ricerca di Dio solo sapeva cosa. Forse l’avevo spaventato al punto da fargli ingoiare un canino. – Io non ho sentito niente – brontolò mentre si asciugava la mano sulla giacca.
– E che m’aspettavo? – gli sibilai contro di rimando. Mi costrinsi a ignorare lui e tutte le sue stronzate, la costante paura di non farcela e l’ansia nel mio petto, crescente man mano che la notte calava su di noi, per riuscire a far scattare di nuovo quell’abilità che il sangue della Prima Civilizzazione aveva infuso dentro di me. Non avevo ancora capito che razza di utilità avesse, ma, diavolo, avrebbero anche potuto renderla un po’ più semplice da usare. – Cristo.
Lanciai una lunga occhiata all’orizzonte, lì dove le acque agitate del fiume incontravano la terra brulla e smossa dalle radici sporgenti. – Andiamo… – Doveva esserci qualcosa. Avevo sentito quella risata, diavolo, non era solo un’invenzione della mia mente suggestionabile. Era vera. Viva. Mi toccava solo scoprire dove si fosse nascosta. Seguendo l’esempio di Thomas, mi misi in piedi sulle staffe per dare un’occhiata più in là. Lì, in mezzo alle erbacce, ai cespugli e agli escrementi di animali, nel terriccio, c’era…
Oh, Dio. – Trovata – sbottai appena sceso dal cavallo. Mi era impossibile trattenere l’entusiasmo con quell’immagine negli occhi. Una traccia scintillante nel terreno, come se qualcuno avesse trascinato un’enorme pietra preziosa nel mezzo della Frontiera e si fosse lasciato dietro delle briciole. Una striscia luminosa, argentea, lì, sotto i piedi, viva soltanto per i miei occhi. – Che io sia dannato…
– Che c'è? – Il muso del cavallo di Tom sbatté contro la mia schiena e mi fece sobbalzare, ma niente avrebbe potuto scuotermi più dell'immagine che luccicava davanti ai miei occhi. 
L'aria era accesa di mille piccole scintille, come se ogni particella stesse prendendo fuoco, minuscole esplosioni nel vuoto della foresta. La circondavano. Il suo candore e la sua luce erano scombussolati da quelle piccole fiamme saltellanti. La rendevano ancora più bella. 
Non era... Non era mai stata più bella. Sorrisi. Non mi era nemmeno passato per la mente di chiedere a Thomas se la vedesse, forse perché non lo volevo. Forse perché le aveva già fatto del male una volta e non potevo sopportare che la vedesse così felice e piena di vita. Non mi sembrava giusto, e la mia vita era già stata abbastanza ingiusta e crudele per farmi anche uno scherzo del genere.
Passeggiava allegramente nel mezzo della Frontiera, girando intorno a un albero o all'altro con la sua andatura leggiadra, il viso rivolto verso di me.
Tiio. La mia Tiio. Era come fatta di madreperla, iridescente alla luce della luna. No. Era lei. Era la luna stessa. Faceva scintillare le foglie, illuminava i fiori, l’acqua e tutto ciò che aveva intorno soltanto con il suo sorriso.
Un brivido mi solcò la spina dorsale quando mi resi conto del fatto che non le avevo mai visto sulle labbra un sorriso che non fosse sarcastico – almeno in parte. Non ce n’era mai stato uno del genere, come quello che aveva ora, così puro, con gli occhi che scintillavano e la pelle arricciata in minuscole rughette vicino alle ciglia. Mi veniva voglia di baciarla, proprio lì, su quelle microscopiche pieghe della pelle. Sulle labbra, le stesse di sempre, ma senza la piega amara dell'ultima volta. Forse era quella la vera Tiio, ed erano state le mie stupide spedizioni a renderla così cupa. Oltre a tutte quelle dannate bugie. 
Si fermò lì, circondando il tronco di un albero con il braccio. Brillava argentea, il corpo fatto di luce e nuvole e aria, pura aria scintillante, come una fata. Sembrava così solida. Come se avessi potuto piazzarmi di fronte a lei e prendere il suo viso tra le mani. La sensazione della pelle liscia sotto le dita, calda, e i suoi occhi tristi quando capivano che dovevo tornare indietro, che Charles e gli altri mi aspettavano. Soltanto un mostro poteva uccidere una creatura così bella. Così indifesa. Poteva essere capace a combattere, ma non era come me. Immagino che Connor avesse preso da lei. Erano entrambi così riluttanti all'idea di tirare davvero fuori una lama e tagliare qualche gola. Combattere non era soltanto torcere il braccio a un paio di soldati troppo pieni di sé, era sopravvivere. Se avesse convinto gli altri a puntare le armi verso chiunque fosse entrato in quel villaggio Mohawk per appiccarvi il fuoco, forse sarebbe stata ancora viva. E Connor non sarebbe mai diventato un Assassino. 
Mi avrebbe odiato comunque. Se non di più.      
Mi resi conto di aver fatto qualche debole passo verso di lei soltanto quando la vidi sollevare il viso, puntando lo sguardo dritto nel mio. 
Quel sorriso. 
Non mi sentivo più le gambe. Era la sensazione più strana che avessi mai provato, con lo stomaco in subbuglio, i piedi che formicolavano e il cuore come un martello nel petto, le mani sudate e la lingua secca contro il palato. E nella mia testa... Gesù Cristo. Pensavo solo che non era mai stata più bella, più felice. Che se c'era una cosa per cui combattere, per cui vivere e morire, era quel sorriso. Che mi avrebbe amato di nuovo. Non c'era spazio per i miei peccati in quella luce. Li avrebbe dissolti tutti, fatti cenere come le fiamme dell'inferno, e saremmo stati felici insieme. Per davvero, questa volta. 
– Capo? 
Qualcuno mi chiama. Una voce da dietro le spalle, oltre il rombo del sangue nelle orecchie e il cuore che pompa con tutta la sua forza. 
Qualcuno mi chiama, e io tendo la mano. E questo... Questo era un singhiozzo? Forse sì. Di sollievo. È qui. Come potrò mai essere più felice di così? Come ho potuto avere altri pensieri fuori di lei? 
Scrollai il capo in sottile istante di lucidità, le dita tremanti tese verso di lei. La risposta... La risposta è semplice. Perché prima non era così. Con me non era così. 
Nessuno può essere felice vicino a me.
Però Tiio era lì. E sorrideva. Pensavo che se c'era un'occasione per trovare la via, quella giusta, che ti porta esattamente dove vuoi, era quella, perché lei era la risposta. In quel momento, lei era la via. 
– Dove vai? Haytham?
Ancora questa voce.
E può andare al diavolo se non è lei.
Lei che è qui, bellissima, e brilla come un dipinto appena finito, come a guardarla con l'occhio dell'Aquila e a vederne solo la vera essenza, la più pura, quella che mai può tradirti. 
E penso che dovrebbero inventare un colore soltanto per lei, per quanto è bella, di quella bellezza che ti fa star bene senza vergogna. Non ti senti inferiore a lei. Mai. Sai che è più intelligente, più decisa, più sicura, ma non ti importa niente. Sei solo pace, davanti a lei. Solo un uomo senza nessun altro desiderio. 
Vuoi amarla. Amarla in tutti i modi possibile. Dimentica che l'amore è una fregatura. Non che sia una bugia. Anzi, forse... Forse è la verità. Quasi sicuramente è la verità, ma è la verità degli uomini soli.
– Tiio… – Mi resi conto di essermi buttato ai suoi piedi, abbracciando letteralmente le sue ginocchia, soltanto quando il freddo della terra m’inzuppò i calzoni, mentre le mani e la faccia erano affondate nel calore che emanava. Non so che cosa stessi stringendo di preciso, gli occhi serrati come un bambino impaurito, ma tra le mie dita, contro il mio viso, qualcosa bruciava. E non poteva che essere lei. Viva e tiepida, com’era stata quando ancora tutto andava bene e io non avevo una sola preoccupazione al mondo.
O così credevo che fosse. – Mi dispiace – sussurrai. Qualcosa scostò il tricorno, le sue mani calde mi scompigliavano i capelli. Non lasciarmi, riuscivo solo a pensare. Non lasciarmi mai. – Mi dispiace, Tiio, non avrei…. Non avrei mai dovuto farlo, ma non è stata colpa mia. Te lo giuro, non…
– Ssh. – Mi costrinse a guardarla negli occhi, ad aprirli. Dio, quanto avevo paura, perché finché sentivo quel calore, quella voce, ne ero sicuro. Ero sicuro di non essere pazzo, di averla ancora lì. Per me. Per rimediare a tutto quanto.
Sentivo le lacrime bruciare lungo le guance, ma non importava. Non c’era più niente che avesse importanza. Soltanto lei. E io. Quello che avremmo potuto essere e che non c’era più modo di mettere a posto, ma che, lo sapevo, avrebbe potuto funzionare.
Se solo fossimo stati diversi. Se solo tutto fosse stato diverso. – Perdonami – avrei voluto dirle. Non ci riuscii. Volevo soltanto bearmi. Guardarla e convincermi che tutto il resto non fosse mai successo. Non avevamo mai litigato. Non mi aveva mai costretto a raccattare le mie cose e scappare a Boston, minacciandomi di strappare il cuore dal mio petto. Charles non era mai venuto a rovinare tutto.
E non l’aveva mai uccisa. – Non hai niente da farti perdonare, Haytham. Sono errori. Tutti ne compiono. – Sorrideva, e sentii le mie guance arricciarsi nello stesso sorriso, ma chi volevo prendere in giro? I miei non erano errori. E, certamente, tutti fanno degli sbagli, ma i miei avevano portato alla morte persone innocenti, a cui volevo bene. Quand’è che l’errore diventa una colpa, se non quando uccide qualcuno che ami? – D’accordo? Tirati su.
No, no, no, per favore, lasciami qui, abbracciami, dammi un bacio. Dimmi che non è un’illusione. Dimmi che lo è tutto il resto. Muto e sbalordito, così mi lasciava. A urlare ferocemente nella mia testa, mentre guardandola negli occhi non potevo che dire sì. Era l’unica risposta a qualunque cosa dicesse. Sì. Perché col sì non sbagli mai, è la strada più sicura. Lei voleva un sì. Quindi glielo avrei detto. E le avrei detto tutto quello che desiderava pur di non lasciarla andare mai più. – Sai perché sei qui? – La fissai negli occhi, pozzi scuri come quelli di suo figlio, ma molto meno incattiviti. Pieni d’amore, come quelli di Connor non sarebbero stati mai.
Ecco in cosa aveva preso da me. – Sì. – Mi uscì di bocca poco convinto, a metà tra un grugnito e un singhiozzo. Parlarle di nuovo, amarla di nuovo. Ecco perché ero lì. – Per… – Passai la lingua sulle labbra screpolate dal freddo e dall’ansia, la carne ruvida e mordicchiata dai denti sotto quel mucchio di paglia che avevo al posto della lingua. Come mai non riuscivo mai a parlare davanti a lei, parlare davvero? Mi faceva paura?
Deglutii, cercando di tenere gli occhi nei suoi. Assolutamente. Altroché se mi faceva paura.
Le avevo fatto troppo male per deluderla ancora. E potevo non essere stato proprio io, poteva averla ammazzata Charles, Thomas, Reginald o Dio in persona, ma se non mi avesse incontrato, se non l’avessi salvata dal dannato forte di Braddock, probabilmente sarebbe stata ancora viva. Un altro marito. Un altro figlio.
Niente Assassini, nel migliore dei casi.
I Templari ci sarebbero stati comunque. Chi volevo prendere in giro? Avremmo trovato quel Tempio. Avremmo strappato lo stesso la loro terra. Forse un anno prima, o dopo. Con altri mezzi. Chiedendo ad altre persone. Ammazzando sconosciuti diversi. Noi… Non eravamo come gli Assassini. La nostra missione era la stessa dovunque andassimo. C’era sempre qualcosa da sistemare, un manufatto da trovare, un potere da deporre, troni da usurpare, che fossero veri o ideali, come quelli della democrazia. Non c’era luogo da cui un Templare non potesse trarre profitto, di qualsiasi tipo si trattasse. Gli Assassini si nascondevano nell’ombra come cani, ma noi piombavamo su di loro e lottavamo per la preda sapendo di esserne i possessori per diritto. Più grossi. Più forti. Più furbi e violenti. Non c’era niente che potesse fermarci. Nemmeno il loro stupido branco.
Allora perché tentennavo? Sarei stato comunque nella sua vita, no? E mi avrebbe odiato lo stesso.
Non così, semplicemente. Mi avrebbe odiato perché odiava quelli come me. I bianchi bastardi che si appropriano di fazzoletti di terra per il loro solo profitto.
Tiio, la mia Tiio, quella che amavo nonostante tutto il male, che si stagliava lì, davanti ai miei occhi, e che mi aveva fatto dimenticare quel dolore con un battito di ciglia e qualche parola gentile, Tiio, la madre di mio figlio, mi odiava per ciò che io, Haytham Kenway, ero. Per essere lo stronzo che l’aveva abbandonata alla mercé dei Templari e di Washington.
Avevo compiuto troppi errori. Per questo avevo paura di parlare. Non volevo farne altri. – Sono qui per noi – sussurrai, una mano tesa verso la sua, iridescente e senza spessore.
Un fantasma, come quelli delle fiabe. Scrollò il capo con decisione, un sorriso dolce dipinto sulle guance bianche. – Prova di nuovo – sussurrò. Non mi pareva di aver mai sentito quel tono uscire dalla sua bocca.
O forse… Forse sì.
Le sue mani che scorrono sul tuo petto. Le dita intrecciate alle tue.
“Prova di nuovo”, e ti sfiora il naso con la punta del suo.

Ti tocca la faccia. Allaccia i polpastrelli al tuo orecchio e sorride.
Solo tu e lei e la Frontiera e la pace e il buio, gli occhi che guardano le palpebre abbassate e lei che si muove sopra di te e i colori esplodono sulla pelle, dentro le vene, il cuore ti batte ma non è nel petto, è sotto i denti, batte lì, freme alla base della lingua e tu devi pompare sangue, pompare sangue per rimanere vivo, allora la baci.
Si stacca, lei. Le sue labbra schioccano in un’armonia perfetta con l’agitarsi del cuore nei tuoi denti. E scoppia a ridere, ti dice qualcosa. “Non era questa la risposta che volevo.”
Fai spallucce, gli occhi mezzi aperti. I suoi colori e quelli dello spettacolo luminescente contro le tue palpebre sono gli stessi, è un tutt’uno, bella come dopo una bottiglia di grog, ma vera, immobile, viva. Carne e sangue e gioia nelle tue mani.
Così dolce. “Immagino andasse bene comunque.”
E riprendete a baciarvi.
Scrollai il capo. No. Mi era impossibile ricordare quei momenti senza un vortice di dolore nel petto al pensiero di dove saremmo potuti essere, e cosa avremmo potuto fare, e quanto potevamo essere felici.
Era andato tutto storto. Non sapevo nemmeno chi incolpare, così puntavo il dito contro me stesso. L’unico responsabile che fosse ancora vivo. Era una questione tra me e lei, la nostra storia. E io ero un enorme idiota, perché sapevo benissimo che parlare così era semplicistico. Non c’entravamo solo io e Tiio. Washington, Braddock, Thomas e Charles, c’erano stati troppi giocatori. Troppe pedine che si agitavano sulla scacchiera, pronti a deporre il re con una sola mossa. – Riprova – sussurrò, i polpastrelli sulle mie labbra. – Perché sei qui?
Per baciare la sua pelle e sentirla di nuovo mia.
Ma non era la risposta giusta. Lei era morta e io ero un bastardo. Nessuna relazione può fondarsi su simili presupposti.
Poggiai una mano sulla sua, sentendola come vapore nelle mie mani. Vapore caldo, condensa, di una sostanza appena più spessa dell’aria estiva. Quasi acqua.
Quasi sangue. – Ti serve qualcosa – sussurrò.
Mi servivano tantissime cose. Un bacio. Il calore di qualcuno che mi aveva amato davvero. Delle parole confortanti.
Tutte risposte sbagliate, immaginai guardando i tizzoni che aveva al posto degli occhi. Bruciavano anche quando il suo corpo era spento. – Una guida – riuscii a mormorare contro le sue dita, nel palmo effimero della mano di Tiio. – Devo arrivare al Tempio. Io non… Non ricordo più. – Perché tutto quel che ricordavo di quei luoghi, di quell’insulsa boscaglia, erano le notti passate a scaldare la stessa tenda. Le notti in cui mi trascinava fuori a guardare le stelle e mi addormentavo con la testa sulla sua spalla come un bambino, le mani intrecciate alle sue e il volto abbandonato nell’incavo del suo collo. A respirarla finché non mi svegliavo e c’era soltanto più l’odore del fuoco.
Non glielo dissi. Non le dissi niente per paura che mi lasciasse di nuovo, che la disgustassi.
Ero patetico. – Ti amo – sussurrai. – Io... – Non ho mai smesso. Accennò un sorriso, come se lo avesse sentito risuonare nella mia testa. – Per favore. Io devo farlo. Non dipende da me.
Sapevo che riusciva a sentirmi nonostante la mia voce fosse soltanto un debole soffio contro la sua mano. Era lì per un motivo, e non sapevo quale fosse, né chi me l’avesse inviata, ma andava bene lo stesso.
Solo quando era apparsa avevo capito che bastasse fosse lì. Anche solo fingendo di essere viva, di essere vera. – Vieni con me. – Le sue mani afferrarono forte la mia, trascinandomi a piccoli passi nel folto della Frontiera. La scia argenta sotto il miei piedi sembrava sparire appena la sfioravo. Non era quella a guidarmi, ma lei. Mi teneva solo più con una mano, avanzando leggiadra ed eterea sull’erba fredda. Sembrava camminasse su una nuvola, tanto era silenziosa. Mi piaceva. Era come rivederla mentre andava a caccia. Amavo guardarla mente lo faceva, perché pareva non facesse il minimo sforzo a camminare in quel modo, l’arco teso e i piedi che si poggiavano sul terreno senza un solo rumore. Poi intercettavo il suo sguardo, il suo viso, duro e serio come quello di una bambinaia, e tutta la sua concentrazione, tutta la sua fatica mi faceva fremere la spina dorsale, da cima a fondo.
Si comportava sempre come se non avesse bisogno di nessuno. Anche quando era esausta e mancava la preda, non voleva il mio aiuto. Voleva solo che fossi lì.
Proprio come me in quell’istante. – Lo senti? – sussurrò mentre mi trascinava verso l’entroterra, le dita ben strette sul mio palmo. – Chiudi gli occhi, Haytham. – Sorrise, allungando l’altra mano per sfiorarmi la guancia. Calda e immateriale, come l’aria appiccicosa che si respira vicino al mare. La stessa che aveva reso felice mio padre. – Riesci a sentirlo?
Avevo paura di battere le palpebre. E se fosse sparita? Che cos’avrei fatto? Potevo, che so?, chiedere informazioni a un orso. O a un cervo. No. Non le avrei permesso di abbandonarmi. Non dopo essere riapparsa in quel modo.
E che importanza aveva chi l’avesse uccisa o in quanti avessero violato il suo stramaledetto corpo se era comunque con me? Con Tiio lì, al mio fianco, non avevo bisogno di nient’altro. Nessun colpevole, nessuna pena. A parte lasciarmi di nuovo solo. – Sono qui – sussurrò. Mi sembrava di sentire il suo fiato caldo contro il viso, i palmi sudati l’uno nell’altro. Ma non era vero. Non poteva essere vero.
Perché lei era morta. Ed era necessario che lo ricordassi, perché senza la sua morte niente avrebbe avuto senso.
Scusami. Oh, Dio, scusami.
– Fidati di me. – I suoi occhi si arricciarono in un sorriso gentile. Sembrava che non avessi mai fatto niente di sbagliato.
Non mentire, Tiio. Non funziona niente. – Lo senti?
Le obbedii. Abbassai cautamente le palpebre sui bulbi oculari, senza muovere un muscolo per la paura. E se serrando la presa sulle sue mani l’avessi polverizzata? Se il mio respiro contro il suo corpo luminescente fosse stato in grado di distruggerla, di portarmela via per sempre? Non potevo concedermi certi privilegi.
Ero immobile, avvolto dal buio, e pregavo che la sua mano non s’allontanasse mai. Resta qui. Per favore. Resta.
Poi lo sentii. – Ecco. – Uno squillo distante, ma incredibilmente chiaro, cristallino. Era un suono familiare, qualcosa che avevo già sentito. Mi ricordava qualcosa. I ricordi oltre la mia fronte lottavano tra loro per prendere il sopravvento, per trovare un’immagine da collegare a quel trillo. Potevo sentirli agitarsi come spiritelli maligni, sbranarsi a vicenda nella loro follia.
Probabilmente perché nella mia dannata testa non c’era un bel niente.
Tin! Uno squillo.
Tin! Tin!
Era una condanna. Costretto a sentire senza poter ricordare. Ad avere l’amore della mia vita lì, a portata di mano, senza poterla toccare. Senza… nulla.
Chi poteva aver inventato una cosa del genere? Non conoscevo nessuno di così crudele da…
No. No, per favore, no.
Lasciatemi in pace. Andate… Non…
Il calore di Tiio svanì dalla mia guancia. Aprii gli occhi di scatto, come se mi avessero appena strappato via il cuore dal petto.
– Hai sentito, Haytham?
Magari avessi potuto dire qualcosa.
Sentii soltanto la mascella crollare e le mani correre sulle labbra nel vano tentativo di rimetterle insieme. E non sapevo se battere o meno le palpebre. Poteva sparire, esattamente come aveva fatto Tiio. Poteva essere l’ultima volta che la rivedevo. Lei. Morta sola nella nostra casa, mentre io ero in giro per il mondo insieme a Reginald. A sterminare gli Assassini di mezza Europa. – Madre?
Tessa Stephenson-Oakley, la semplice Tessa Stephenson-Oakley era proprio lì, davanti a me, le mani intrecciate sul ventre e un sorriso triste sul volto, un po’ melanconico, lo stesso che le sollevava le guance ogni volta che mio padre impugnava una spada. Come se fosse preoccupata, ma al tempo stesso non l’avesse mai visto più felice. Faceva venire voglia di sorridere anche a me.
Non a Jenny, di certo. Lei non sorrideva mai.
Tranne quando Reginald apriva bocca, ovviamente. Il suo futuro sposo. Che vergogna. – Perché quella faccia, tesoro? – Si chinò su di me, come quando ero piccolo, e portò una ciocca di capelli scuri dietro l’orecchio. Brillava della stessa luce argentea di Tiio, ma io… Io la ricordavo bene. La folta chioma bruna sollevata per mettere in mostra il collo in una di quelle stupide acconciature che andavano tanto di moda all’epoca. Jenny passava delle ore davanti allo specchio a cimentarsi in quelle… cose prima che Reginald venisse a bussare alla nostra porta per portarla a fare una passeggiata, o anche soltanto per sedersi sul divano insieme a mio padre e chiacchierare di lavoro.
Ah, il lavoro. Mi chiedo come potessi essere stato così stupido. – Oh, non dirmelo. – Mia madre portò una mano sul fianco, l’altra poggiata sulla fronte in uno sbuffo melodrammatico. Il senso dell’umorismo e la dolcezza che mia sorella non aveva mai avuto.
– Sei proprio come tuo padre – esclamò, roteando gli occhi verso gli alberi. Come se mio padre fosse nascosto dietro uno di quei tronchi mezzi spogli e lei volesse farsi sentire. Uno stupido gioco da innamorati.
No. Basta, per favore.
Quei pensieri non erano sinceri. Affondai gli incisivi nel labbro fino a sentire il sapore del sangue. Solo allora presi la consapevolezza di ciò che davvero provavo. Volevo gettarmi ai suoi piedi e abbracciarla, stringerla a me e gridare che non avrei mai dovuto lasciarla a Londra da sola. Non sarei mai dovuto partire con Reginald.
Ero stato un maledetto idiota. Avevo scritto e firmato la mia condanna a morte.
Pensare che era stata lei a indirizzarmi verso quella strada. Avrei dovuto essere più responsabile. Dire di no dal principio. Avevo ceduto. La vita con Reginald era la libertà, l’avventura. Diventare uomo.
Con mia madre... Pensavo che al limite avrei imparato a preparare un buon arrosto.
Patetico, giusto? Patetico.
Dio, quanto mi dispiace. – Proprio come tuo padre. – Il sorriso sul suo volto. Avrei potuto tenere il conto degli anni che erano passati da quando l’avevo vista sorridere in quel modo, ma avrebbe fatto ancora più male. Non credo avrei sopportato.
Ed era troppo felice per distrarmi in alcun modo. – Te lo sei dimenticato, vero?
Tin! Tin! Scrollò il capo. Tin! Debole e costante, quello stupido tintinnio persisteva. E io non avevo idea di che cosa rappresentasse.
Meglio così. Niente distrazioni. Niente…
– Te lo sei dimenticato, vero?
In un battito di ciglia, mia madre era tornata Tiio. Con le trecce, il vestito Mohawk e quella curva gentile a incrinare la sua solita aria austera. Scrollò il capo, come se da me non si aspettasse nient’altro. Nonostante non fosse più mia madre, c’era qualcosa di lei nei suoi occhi. Quell’espressione comprensiva. Ero come un bambino, di fronte a lei. Era normale che non sapessi arrampicarmi sugli alberi, che non capissi la sua lingua e che non ricordassi dove accidenti si trovasse il Tempio. Ero un uomo bianco senza speranza, e quello era tutto ciò che poteva pretendere.
Allungò il palmo verso di me, invitandomi a seguirla con un cenno mentre le sue parole, quel “Te lo sei dimenticato, vero?”, risuonavano nella mia testa insieme a quell’irritante scampanellio, la presa ferrea come quella di una tenaglia.
Non volevano lasciarmi andare. Non dovevano lasciarmi andare.
Il Grande Tempio, quella era la meta, e non si sarebbero fermati fino a che non sarei stato lì.
Ma c’era Tiio ad accompagnarmi. Qualsiasi destinazione mi sarebbe stata più che bene. Intercettai per un attimo il suo sguardo, quegli occhi scuri e luminosi come il metallo dritti nei miei, e fu come sentirglielo dire un’altra volta, più forte, dentro la testa come le deflagrazioni delle pistole. “Te lo sei dimenticato, vero?”
Perché? Perché ogni sua parola, anche la più gentile, risuonava in tono d'accusa nella mia testa, dolorosa come una pugnalata nello stomaco? "Come hai potuto?", mi sembrava dicesse. "Ti sei davvero scordato di me? Mi hai abbandonata, non è così?" No, Tiio. Non potrei mai. Mai. 
Ricordo i momenti. Le sensazioni. I sorrisi. A volte anche le parole. Ma non ricordo questi luoghi, la terra che ci ha separati e che ti ha sepolta. Ecco che cos'è. Soltanto terra. Erba e acqua e fango. E che ce ne importava quando eravamo noi? Quando eravamo felici e insieme? 
Non ho dimenticato. Mi sarebbe impossibile. Farebbe più male del ricordo, forse. Non rammento il terriccio solcato dai carri degli eserciti. Ricordo la nostra tenda. Quella in cui eravamo io e te, niente guerra, niente fazioni, e stavo bene. Bene davvero.
Ora è tutto diverso. Io sono solo, tanto per cominciare. E poi lei non c’era. Voglio dire, era lì, certo, ma non era lei. Il fatto che avesse la stessa espressione di mia madre, che mi sorridesse in quel modo, come se capisse che razza di idiota ero stato e mi stesse perdonando… Erano balle. Gigantesche balle messe in piedi dalla mia fragile mente. Perché l’uomo non perdona. Nessuno sarebbe stato capace di perdonarmi dopo una cosa del genere. La seguivo, affondavo i piedi nel fango umido per tirarne via gli stivali con dei risucchi disgustosi là dove lei avanzava leggiadra come una foglia, senza peso, ma sapevo che Tiio, la vera Tiio, quella che mi aveva cacciato dalla nostra tenda per un errore stupido, non mi avrebbe riaccolto così dopo tutto quello che era successo. E mia madre, allora? Serpeggiavo tra gli alberi dietro la donna che avrei dovuto tenere stretta in gioventù, ma non era l’unica cui dovessi qualcosa.
C’era anche lei, Tessa Stephenson-Oakley. Avrebbe avuto ragione a dire che l’avevo abbandonata. Ero un bambino. Troppo stupido. Troppo egoista per capire che stavo sbagliando. Avevo già affrontato la morte, ma cosa ne sapevo di come funzionasse? Non immaginavo che si potesse lasciare questo mondo anche per il dolore. Non immaginavo che il cuore c’entrasse qualcosa, che le persone c’entrassero qualcosa.
La morte, per me, era essere trapassati da un pezzo di metallo e versare sangue finché non sei completamente svuotato. Nel suo modo più macabro e carnale, quello anche più semplice da capire. Immagino che agli occhi di un bambino fosse molto più affascinante, la fine, se la si guardava in quel modo. Qualcosa che ha a che fare con la carne e le ferite e tutte quelle cose che alle femmine fanno schifo e ti fanno sentire così uomo.
Cazzate. Perché non me l’ha mai detto nessuno, quand’ero ragazzo?
Perché non me l’avete mai detto, eh? Papà? Madre? Non era saltato in testa a nessuno dei due che potessi diventare un assassino. Io, figlio di un noto mercante e della sua semplice moglie, che mestiere avrei mai potuto intraprendere? Di certo non si aspettavano che fossi così bravo con la spada. Che fossi in grado di uccidere le persone d’istinto, solo perché ce l’avevo praticamente nel sangue.
Il mio era quello che si dice un talento naturale. Peccato che mi avesse portato lì, a ruzzolare dietro un fantasma con le mani e le ginocchia nel fango. Stringevo i denti e mi rimettevo in piedi per lei, per Tiio. E per mia madre. Continuavo a camminare senza una meta, come se fossi io lo spettro. Non aveva nessuna importanza dove stessi andando o da quanto fossimo in viaggio. Tutto ciò che le stava intorno era una massa sfuocata. Le trecce che danzavano sulla sua schiena. Le frange dell’abito a dondolarle sui fianchi. I suoi passi leggeri e i miei, stanchi, rumorosi, ancorati alla terra, questo riuscivo a riconoscere. Nient’altro.
I miei sbagli. Oh, quelli sì che riuscivo a scorgerli. Tutti, dal primo all’ultimo. Non erano mai stati così vividi.
E i loro volti.
– Ecco, adesso l’hai sentito?
Lo squillo si fece più intenso. Sembrava provenire da dietro uno di quei tronchi grigiastri. Risuonava perfettamente nella Frontiera, come la voce di un tenore tra i posti di un teatro. Sollevai gli occhi di scatto, trovandomi di nuovo di fronte a mia madre.
Sentii il cuore bloccarsi nel petto, lo stomaco aggrovigliarsi in una morsa disgustosa. – Quando senti questa campanella è perché sta arrivando il signor Fayling. È un uomo molto intelligente, Haytham. – Teneva le mani giunte in grembo e pareva spostarsi anche senza camminare. Volava sopra quella massa di acqua e fango, incurante della mia miseria. O forse lo faceva di proposito, come a evidenziarla. Non importava. Ero solo così felice e tormentato nell’averla accanto da non sapere cosa fare. La vedevo sorridere. Sentivo quello stupido campanello squillare vorace nelle mie orecchie. Altre voci. Una, tra tutte, ridicola, acuta e infantile. Eccitata.
La mia. – Più di papà? – Non ero lì. Non ero da nessuna parte. Era soltanto un ricordo. Qualcosa che la Frontiera e mia madre mi stavano strappando dalla mente. Ombre approssimative del passato, che non sarebbero mai più potute essere.
– Certo che no, Haytham! – La sua voce. Mio padre nel solo modo in cui l’avessi conosciuto davvero, niente sogni, niente ebbrezza. Il signor Kenway, un mercante rispettabile e gentile come pochi altri.
Davvero l’istinto di imbrogliare e derubare, proprio come ai vecchi tempi, non si era mai fatto sentire nel suo nuovo giro d’affari? Avrei voluto avere la sua costanza. Peccato che fossi molto più legato alla vecchia parte di lui di quanto gli sarebbe piaciuto ammettere da vivo.
Mia madre si voltò verso di lui, dovunque fosse, e piegò le labbra in un sorrisetto nemmeno troppo divertito. Il suo lato infantile, quello che Connor mi andava rimproverando. Ce l’avevo nel sangue. Non era colpa mia. – Edward! – esclamò con un’imbeccata che non si addiceva affatto a quell’espressione. – Non dire così.
Chiusi appena gli occhi, le dita strette sulla corteccia di un albero, e presi fiato. Stava diventando faticoso. Reggersi in piedi, respirare, sopportare quei dannati ricordi. Era come se, all’improvviso, tutto fosse diventato più difficile. Oltretutto Edward Kenway emise un grugnito. Riuscivo quasi a immaginarmelo, il petto gonfio solo per farmi ridere e le mani sui fianchi come un condottiero. –Non c’è nessuno di più intelligente del tuo papà, figliolo.
Lei rise. Piano, con cortesia, come dovevano averle insegnato a fare i suoi genitori. Jenny non rideva quasi mai così. Quando mi prendeva in giro reclinava il capo e latrava come un cane, abbandonando tutti i modi signorili che mia madre si era appurata di insegnarle. Li teneva lì, a portata di mano, pronti per essere sbandierati davanti a Reginald. – Sì, certo – replicò gentilmente, – però questo non dirlo al signor Fayling, d’accordo? Jenny! Vieni, è arrivato.
Poggiai il viso contro quella stessa corteccia, pregando che quello strano fantasma non prendesse anche le sembianze di Jenny, o di mio padre. Non avrei sopportato. Li vedevo già abbastanza nei miei incubi. Erano vivi, loro, nascosti dentro di me a divorare, brandello per brandello, la mia coscienza. Ne avrebbero lasciato solo un mucchio di schifoso rimorso.
Tin! Aprii gli occhi, e davanti a me c’era lui. Fayling.
Oh, Cristo, no.
Non era nemmeno nel fiore dei suoi anni. Lo avevo visto bazzicare per casa mia da quando ero solo un bambino, ma quando aveva cominciato a farmi veramente da precettore aveva già perso gran parte dei capelli, almeno nella parte anteriore della testa. Non ero mai riuscito a capire quanti anni avesse, ma avevo iniziato a credere che quei pochi capelli grigi che gli restavano sarebbero caduti nel giro di poco e le sue foltissime sopracciglia si sarebbero sviluppate in verticale per rimediare a quel danno.
Non era mai successo, ma le sopracciglia del signor Fayling non avevano smesso di far ridere. Gesù Cristo, saranno state spesse quanto il mio pollice. I suoi occhietti acquosi sembravano sempre persi nel nulla, e non avevo mai visto le sue labbra con una piega che non si potesse definire depressa. Secondo me era tutto merito dell’influenza di Jenny, ma non lo dissi mai. A nessuno dei due.
Era una delle poche cose verso cui non avevo alcun rimpianto. – Bene, signorino Haytham – lagnò con quella sua voce atona, – vogliamo cominciare?
Si era inventato un giochetto, per le nostre lezioni. Un giochetto che Jenny odiava.
Tin! Si portava dietro una campanella, suppongo per richiamarci all’attenzione. A volte la faceva squillare senza un motivo preciso, poi diceva qualcosa. Di solito erano termini riferiti al commercio, al mondo in cui mio padre lavorava. Quello in cui avrei dovuto prendere il suo posto. Era mio compito ricordare e spiegargli che cosa volesse dire, dare quella che lui chiamava “una definizione esauriente”.
Che per me significava semplicemente evitare un paio di bacchettate sulle dita e la risata equina di Jenny. – Libro mastro.
Certe cose non si dimenticano mai.
– Un libro mastro è un registro sul quale si annotano le entrate e le uscite di un’attività commerciale. La somma algebrica tra queste due componenti è detta saldo. O guadagno. – Sentivo la mia stessa, piccola voce risuonarmi in testa. E Fayling che, di fronte a me, annuiva, tutto soddisfatto, prima di infilarsi lentamente un dito nel naso.
– Esatto, signorino Haytham.
– Non è mai stato il tuo destino, dico bene?
In un battito di ciglia il mio precettore non era più lì, davanti a me, intento a rivangare il passato. Al suo posto c’era Reginald. Il vecchio Reginald, quello di quasi trent’anni prima, quando mi aveva chiesto di rubare la Chiave del Grande Tempio dal collo di un certo Assassino di mia conoscenza. Era così impassibile, all’epoca. Non pensavo fosse in grado di fare degli errori. Freddo. Calcolatore. E aveva fiducia in me nonostante i rischi che avevo corso. Mi ero fatto dare una pugnalata al fianco da un ragazzino italiano. Pensavo che soltanto un padre potesse perdonare errori del genere.
Non avrei potuto sbagliarmi di più. – Birch? – esclamai, colto di sorpresa. Non poteva essere lui, giusto? Come non lo erano Tiio, né mia madre. Era un’illusione. Un modo come un altro di spedirmi dritto verso il Tempio.
Ma perché questo, tra tutti?
Avrei venduto l’anima per ottenere una risposta e non vederlo mai più. – Strano. Quando ero io a insegnarti sembravi anche più sveglio. Devo supporre sia l’età ad averti rallentato. – Giocherellava con il vaporoso colletto della camicia, le sopracciglia contratte in un’espressione indispettita. Come se trovarsi in quella situazione lo irritasse tanto quanto me. – Peccato.
– Che cosa vuoi? – La lingua sbatté secca contro il palato, le parole uscivano dalle labbra come costrette, ingarbugliate, senz’anima. Parlargli, comunicare da uomo invece che sbranarlo come un animale, gettarmi sul suo corpo e ridurlo a un trito di carne buono solo per nutrire i maiali, era una costrizione che mi rendeva inquieto. Non ero mai stato così poco Templare.
Volevo soltanto ucciderlo e mandare a fottersi qualsiasi ideologia. – Niente. Due chiacchiere. Una passeggiata. – Fece spallucce. – Tu invece che cosa vuoi, Haytham?
– Smettila. – Mi chiedevo se fosse reale. Se sarebbero state davvero quelle le parole che mi avrebbe rivolto nel Grande Tempio, con quel tono e quell’atteggiamento. – Perché non arrivi semplicemente al punto?
– Dovresti lasciarmelo fare. – Giunse le mani dietro la schiena. Proprio come mia madre, era immobile, ma io continuavo a camminare, intrecciando i piedi nelle radici sporgenti, cadendo e rialzandomi con tutta la dignità che riuscivo a trovare.
Non che avesse importanza. Reginald Birch mi aveva sottoposto a umiliazioni ben peggiori di una caduta ginocchioni nel fango. Agitai una mano nella sua direzione, come a invitarlo a proseguire. Benissimo. Acconsentì con un cenno della testa. – Mi fa piacere aver accolto il tuo permesso, Haytham. – Camuffava il sarcasmo con quei modi raffinati e irritanti. Era un dannato bastardo, ma il dannato bastardo che mi aveva cresciuto e, in fondo, reso quello che ero.
Maledizione. – Dicevo, non è mai stato il tuo destino. Essere come tuo padre, intendo. Un mercante. Avevi altro nel sangue. Una testa diversa.
Aggrottai la fronte. Mi resi conto solo in quel momento di avere la fronte madida di sudore, i palmi grondanti e la camicia appiccicata alla schiena. Forse era quella la sostanziale differenza tra chi odi e chi ami. La fatica che ti crolla sulle spalle mentre ci parli. – Mi pareva di averti sentito dire che ho il cervello di un Assassino.
Schioccò la lingua contro il palato in quello che sembrava essere un mezzo complimento. – Non tutti gli Assassini erano come Edward. E non credo sia questo il momento di discuterne, sai? – Mi strinsi nelle spalle, cercando di apparire noncurante, agile, come se facessi ogni giorno quelle scampagnate in mezzo alla Frontiera. Pensavo che fargli una bella impressione mi rendesse più temibile.
Conosceva i miei punti deboli. Lo sapevo. Ma preferivo ignorarlo. Che noia. – Il tuo futuro era nell’Ordine. – O al capezzale di mia madre. Sapevo anche quello. Il rimorso mi aveva divorato a sufficienza da farmelo entrare bene in testa. – Inutile che lo neghi. Sei qui per la tua rivalsa, e non riesci nemmeno ad arrivare a me. – Arricciò le labbra in un sorriso maligno. – Questo non è un corso accelerato alla vendetta, Haytham. Non è una prova. Non c’è nessuno mostro finale da sconfiggere. Niente drago. Niente demoni. Soltanto te stesso.
– Niente demoni, dici? – sibilai tra gli ansiti. – Coraggioso da parte tua, sapendo con chi stai parlando.
Il suo petto si gonfiò in uno sbuffo irritato. Al suo spettro potevo rispondere per le rime, giusto? Almeno finché fosse rimasto tale. – Siamo uno dei mostri più variegati. Tutti questi peccati, come macchie sulla nostra pelle, possibilità infinite di errore e una sola via per la redenzione. – Era evidente che parlasse della morte. Iniziavo a pensare che, a forza di avere a che fare con il Tristo Mietitore, fosse inevitabile usarlo come termine di paragone per qualsiasi cosa. Era un punto di fuga. La fine di tutto. L’unica cosa cui nessuno poteva sfuggire. – È affascinante, sai? – proseguì. –  Non puoi scappare da ciò che sei. Io ti conosco, Haytham. Per certe cose sei fatto esattamente come tuo padre. – Sospirò, come fosse stato il suo più grande rammarico. – Il sangue non mente, suppongo. Dovete toccare il punto più basso per renderti conto di dove siete. La tua superbia ti avrebbe fatto arrivare a grandi cose. Ma non è il tuo ruolo. Qualcuno ti ricorderà da dove vieni. Dall'infimo. Dalla feccia. Ti schiaccerà la faccia nel fango da cui sei nato finché non avrai capito. – Aveva ritratto le labbra e mostrato i denti. Era un cane pronto a mordere, ma senza la possibilità di farlo. Certo, se non fosse stato un... fantasma ne avrei approfittato per ucciderlo, per uno scontro, quantomeno, ma era vero anche l’esatto contrario. C’era qualcosa, in quel riflesso della sua anima, che fremeva al pensiero di tagliarmi la gola.
E io non potevo biasimarlo. – Non c'è futuro per uno come te – ringhiò. – Questa non è la catabasi.
Tin!
Oh, no, non un’altra volta.
– Catabasi.
Fayling era di nuovo di fronte a me, la campanella in una mano e l’altra a lisciarsi il colletto della giacca. Sufficientemente vicina al naso.
Non avevo una risposta, quella volta. Non riuscivo ad aprire bocca. Nessuna voce venne in mio soccorso dal passato. Solo un doloroso silenzio, come un mattone bloccato in fondo alla gola. Una nebbia densa e infinita che soltanto il mio vecchio precettore poteva spazzare via. Uno che sapeva il fatto suo, insomma. Mio padre si era sempre battuto per la nostra istruzione, non poteva essere un imbecille. Immagino che vedermi in difficoltà colmasse il suo ego affamato molto più della mia preparazione. – Catabasi – ripeté con enfasi. Mi aveva sempre stupito il modo in cui quell’uomo ricordasse tantissime parole che all’epoca mi sembravano complicate. Pensavo fosse difficile, che bisognasse essere davvero intelligenti per riuscire a parlare in quel modo.
O molto stupidi, dato che capivo la metà di ciò che usciva dalle sue labbra. – Per i Greci, la catabasi era la discesa agli Inferi, di solito utile al conseguimento di un qualche nobile scopo. – Si portò una mano al naso e prese a scavare in una narice con una certa classe, prima di tirarne fuori l’indice e studiarlo con curiosità. – Avete capito, signorino Haytham? – Abbozzò un sorriso, il signor Fayling, stringendosi il mento tra pollice e medio. – Ca-ta-ba-si – sillabò musicale. Poi si infilò l’indice in bocca, succhiandolo soddisfatto, come non avesse mai assaggiato nulla di più gustoso. – Un concetto deliziosamente poetico, non trovate? – Arricciò le labbra in una smorfia da ragazzina eccitata, strofinandosi le dita sui calzoni.
Pietà.
Stavo impazzendo. Era evidente. Mi stropicciai gli occhi con i pugni, pregando tra me e me che Fayling sparisse, lasciando il posto a Tiio. Avrei preferito rivedere lei, con tutti i rimpianti e il dolore che risvegliava dentro di me, più che altro perché sembrava… normale. Più vera, ecco. Quel vecchio dalle bizzarre abitudini alimentari e le sopracciglia simili a siepi non era semplicemente frutto della mia immaginazione. Suonava più come una presa per il culo, e per quanto fossi disperato non pensavo di poter arrivare a un punto del genere. – Questa non è la catabasi. – Sollevai gli occhi, quasi sollevato di risentire la voce di Reginald. C’era una scintilla misericordiosa nei suoi occhi che mi faceva sentire ancora più impotente, le viscere aggrovigliate e la lingua secca appiccicata in cima al palato. – È una condanna. Non avresti dovuto svegliarli. Ammetto che probabilmente non è stato qualcosa di controllabile, ma non puoi sempre usare questa scusa. È patetico, non credi? – Il mio Gran Maestro sbuffò, le mani giunte dietro la schiena. – Dare sempre la colpa agli altri. Ecco, effettivamente una catabasi ti servirebbe. Niente di meglio di una bella discesa tra i morti, tra quelli che abbiamo amato e punzecchiano i nostri rimpianti, per sedare un animo orgoglioso come il tuo.
– Vattene – riuscii a ringhiare, la voce roca e impastata fuori dalle labbra. Non sapevo nemmeno da dove fosse venuto fuori quel pensiero. Davvero volevo una cosa del genere? Continuare quel viaggio senza una guida?
Potevo essere orgoglioso, ma avevo anche una gran paura.
Di tutto. Delle possibilità. Della vita stessa. – Devo… Devo arrivare alla fine. – Persino io riuscivo a cogliere la ridicola sfumatura dubbiosa nella mia voce. Non sapevo per quale motivo fossi esattamente lì. Per guardare Fayling mangiare il proprio moccio? Per disperarmi davanti a Tiio e implorare il suo perdono perché ero un gigantesco idiota e oh, Dio!, quanto mi dispiaceva. Per quello? Per rendermi ridicolo?
Speravo che sopportare fosse utile a qualcosa. Che seguire quei dannati fantasmi mi portasse da qualche parte.
Qualsiasi pare. – Per piacere. Non fai altro da tutta la vita, sai, Haytham? – Sogghignava come un cane affamato, pronto a balzarmi contro e strappare la carne dai miei polpacci appena mi fossi accasciato a terra, sfinito. Forse era questo il loro obiettivo. Sfinirmi. Vedere se ero abbastanza forte da andare fino in fondo. Reginald sbuffò e incrociò le braccia sul petto. – Cerchi di costruirti uno scopo, qualcosa che non ti lasci mai fermo in un punto ad affrontare le tue responsabilità. Vuoi qualcosa da fare, ma questa volta…
Digrignai i denti e accelerai il passo, intenzionato a superarlo nonostante la terra bagnata e i rovi che si incastravano nei miei calzoni. – Haytham – mi canzonò – pensi davvero che sia così facile? – Sinceramente? No. Ma speravo che bastasse. Il fantasma di Birch prese velocità con me, mantenendo le distanze. Gli scoccai uno sguardo rabbioso. Nemmeno quello poteva essere Reginald. Sorrideva troppo. Il Gran Maestro dell’Ordine Templare non era mai stato un tipo dalla battuta pronta.
Era un sollievo, da una parte. Una specie di addestramento, una preparazione a quello che sarebbe successo nel Grande Tempio. Emisi un grugnito, le mascelle doloranti per la forza con cui erano serrate. Reginald, quello vero, sarebbe stato molto più impietoso. Eppure non avevo altre possibilità. Andare avanti e ignorarlo, anche se era soltanto la patetica imitazione di uno scopo messa in piedi dalla mia mente fragile. – Non c’è nessuna fine, ragazzo. Puoi soltanto arrenderti. – Il suo viso si corrugò in una smorfia acida, come se avesse appena assaggiato un limone. Ecco, quello sì che era Reginald Birch. – Pensi ancora che ci sia una via. Tuo padre aveva ragione quando ti definiva “un bambino divertente”.
Aggrottai la fronte. Se c’era qualcuno che non volevo mi considerasse divertente era proprio lui. Il fatto è che sembrava così innocente, in quel momento. Qualunque cosa fosse, quel Reginald non era l’assassino di mio padre. Nemmeno il mio. Non era il grande oratore che aveva rivoltato tutto l’Ordine verso di me. Mi ricordava di più l’idilliaca e intoccabile figura paterna che giocava con me tra le mura di quell’arroccato castello francese. Il sostituto di mio padre.
Sollevò gli occhi al cielo. – Quanto ti ci vuole a farlo? Lascia perdere.
Con i pugni stretti nelle tasche, presi un respiro. – Perché me lo chiedi? – sussurrai, rallentando fin quasi a fermarmi. Tanto sarebbe stato sempre lì ad aspettarmi, brillante e sicuro di sé almeno quanto il vero Birch. – Vorresti salvarmi? Da quando in qua? – Non riuscii a trattenere un sorrisetto sarcastico.
Non poteva essere l’uomo che aveva chiesto a Charles e agli altri di impiccarmi. Per niente. – Chi ha detto che sia un salvataggio? – mi soffiò contro come un vecchio gatto. – Bah. Credi che non sia da me, giusto? Be’, questo non sono io, caro signorino Haytham. – Oh, no, certo che non era lui. Quel temperamento. No. Sembrava uno strano ibrido tra il Reginald che ricordavo da bambino e mio padre.
Pareva quasi un peccato capitale fondere quelle due figure, i pilastri della mia crescita. Come se potessi farci qualcosa. – Non è la tua donna e non è nemmeno tua madre. Sei sempre tu. Nel tuo distorto modo di vedere le cose. Niente di quello che avviene qui è reale. 
Un brivido galoppò lungo la mia schiena, spingendomi a camminare di nuovo o finire con la faccia nel fango. Andare avanti.
Tutto è lecito.
– Però io sto camminando davvero, giusto? – Andiamo, è troppo faticoso per essere un sogno. Non sarebbe stata una così grande sorpresa, a essere onesti, ma se Morfeo o chiunque mi stesse facendo vedere quelle cose era convinto che da sveglio avrei ricordato qualcosa, oltre alla rabbia, al disprezzo verso me stesso e ai rimpianti si sbagliava di grosso. – Sono vivo.
Fece spallucce. – Non sembri convinto.
Era sempre stato un uomo rassicurante, il vecchio Reginald Birch. – È un po’ come il richiamo del Caos. La Vampa. È lì, e ogni uomo ha un suo modo per arrivarci, ma ci finiamo tutti. – Si grattò la testa con una strana smorfia in viso. – Somiglia anche alla morte, se ci pensi.
Sollevai un sopracciglio. – Mi stai dicendo che tutti presto o tardi finiscono al Grande Tempio?
– Non tutti i contenitori lasciano scorgere cosa c’è al loro interno.
– Cristo santo, piantala di parlare così.
Reginald sporse il labbro inferiore in una smorfia offesa. – Passerò sopra la tua insolenza. Che non si ripeta. – Certo. Era quella l’unica differenza tra il Birch coltivato dalla mia immaginazione e quello vero. Metteva molta meno paura.
Sentii il cuore pompare ansia dentro le vene, facendomi fremere anche la punta delle dita. Era preoccupante, altroché. Reginald emise uno sbuffo, ignorando bellamente ogni mia preoccupazione. – Dicevo, la Vampa. Il punto più basso che puoi raggiungere, quello in cui convergono tutti i tuoi sforzi. – Sollevò l’angolo delle labbra in un sorriso scaltro. – Non sempre come ti aspetti, ovviamente. Devi prendere il controllo, Haytham. Fermare te stesso prima di distruggerti. Questa – disse con enfasi, un dito puntato contro il petto, – è la tua mente. Non sono gli Inferi. Siamo o non siamo sempre stati i peggiori nemici di noi stessi?
Presi un respiro tra i denti sbarrati, la fredda e appiccicaticcia aria notturna a riempirmi la bocca. Perché non se ne andava? Avrei dato qualsiasi cosa per vederlo sparire in una nuvola di fumo. Preferivo quasi perdermi nella Frontiera, giorni e giorni a girare in tondo, ma combattere con me stesso… Non ne avevo la forza.
Maledizione. – Non… Non ci capisco più niente, Reginald. – Era strano non avere alcun timore nel dirglielo. Dava una specie di assuefazione. Effettivamente, sarebbe stato bello non avere paura di lui. Potergli parlare da uomo a uomo, come avrei potuto fare con mio padre se non fosse caduto prematuramente.
Immagino non fossero quelli i piani di Reginald. Mi passai le mani sugli occhi con un sospiro esausto. – Credi che…
– Dammi un bacio, Haytham. – Feci un balzo indietro dallo spavento. Il viso di Tiio aveva preso il posto di quello del mio Gran Maestro, e al tempo stesso la carne stava come… ribollendo davanti ai miei occhi, i lineamenti fusi e plasmati di nuovo, gli occhi rimodellati, le iridi che cambiavano colore contro natura.
Come se ci fosse mai stato qualcosa di naturale in quegli spiriti, in quella foresta, in quello stramaledetto viaggio.
Volevo tornare a casa. Affondai i denti nel labbro inferiore, cercando un motivo qualsiasi per restare lì e affrontare i miei stessi fantasmi, ma la verità è che non riuscivo a coglierne. Per quale motivo un uomo dovrebbe sacrificare anche la propria salute mentale, i pochi punti fermi che gli sono rimasti? Specie se ha già perso tutto.
Sputai nei ciuffi d’erba che costellavano la terra umida della Frontiera e sollevai lo sguardo controvoglia. Volevo soltanto tornare a casa.
Le nere trecce di Tiio si sciolsero, danzando nell'aria sbrilluccicante che circondava quegli spiriti come i tentacoli del kraken di cui parlava Faulkner. Sembrava una vita fa, e un brivido mi scosse dalla testa ai piedi al pensiero che anche il vecchio capitano, volendo, avrebbe potuto far capolino nella Frontiera, l'indice accusatorio puntato contro di me e la bocca sdentata storta in una smorfia di rimprovero, come a dire che ero stato io la sola causa della sua morte, che avrei dovuto prendermi le mie responsabilità e bla, bla, bla.
Affondai la punta dello stivale nel fango, tentando di scacciare quei pensieri. Certo. Ai tuoi ordini, mio vecchio amico. Come se non bastassero le parole di Achille, immensi macigni sulle mie spalle, un marchio a fuoco ancora bruciante nella mia testa.
Lasciarmi in vita. Non c'era peso più difficile da portare per un Assassino che vedermi trionfare.
Fosse facile, vecchio mio.
Quando riportai gli occhi su di lei, a guardarmi c'era di nuovo mia madre, lo stesso sorriso dolce di Tiio sulle labbra, ma gli occhi più chiari e le mani giunte sul ventre come una brava signorina londinese. Diavolo, se era bella. Adesso capivo perché piacesse tanto a mio padre. Per lo stesso motivo per cui avevo posato gli occhi su quell'indiana, a Boston. Era diversa da qualunque donna avessimo mai visto prima. Lui veniva da Nassau, da un mondo in cui le femmine, quando ci sono, fanno le piratesse, le puttane, le locandiere, se proprio vogliono una professione onesta, mentre Tessa Stephenson-Oakley era la figura più gentile che conoscessi, materna in ogni suo movimento. Lo stesso valeva per me e Tiio. Il passo felpato, i ninnoli al collo, l'espressione dura e il senso di indipendenza che emanava, l'essere così diversa da me pur essendo soltanto un'altra donna. Era questo ad affascinarmi. Scoprire che non esistevano soltanto esseri come me, al mondo. Non riuscivo a guardare mia madre senza un groppo alla gola, senza il devastante desiderio di buttarle le braccia al collo e piangere sulla sua spalla, colmo fino alla punta dei capelli di rimpianti e disperazione. – Sei proprio come Edward. – Sembrava quasi commossa nel dire quelle parole.
Battei le palpebre per tentare di scacciare le lacrime, e nel tempo che impiegai a riaprire gli occhi era già sparita. Al suo posto, di nuovo Tiio.
C'è una cosa che ho imparato sul destino, nella mia vita. È un gigantesco figlio di puttana. Quando credi che tutti i tuoi errori siano stati dimenticati, sepolti dalle novità e dall'uomo che sei diventato, ti passa accanto e te li risputa in faccia con lo stesso sorriso maligno di un buon giocatore davanti al tuo ultimo pessimo giro di dadi.
Il mio destino era un ottimo giocatore. E non credo esistessero dadi peggiori dei miei. – Baciami – ripeté. Il sangue mi si era ghiacciato nelle vene solo guardandola. Perché? Avrei potuto sopportare la sua vista, o quella di mia madre. A Reginald ero quasi preparato, ma tutti e tre insieme... Solo un bastardo con un sadico senso dell'umorismo poteva trovare divertente quella situazione. Sfregai i polsi contro le tempie nel disperato tentativo di non chiudere gli occhi. Vivevo nel terrore di vedere il suo volto mutare. Diventare quello di mio padre, Faulkner, Jenny, Achille. Era troppo. – Liberati di tutto questo male. Non lasciare che ti uccida, Haytham.
Erano loro a uccidermi. Tutti quei fantasmi. Mi tenevano in vita i passi piccoli e strascicati nel fango, più mi avvicinavo al Tempio e più sarei stato vicino alla fine di quella maledetta storia. Potevo anche essere fatto interamente di male, dell'oscurità più pura, si sarebbe aggiustato tutto. Mi bastava il pensiero di stringere Charles a me. Di uccidere Reginald e lasciare il suo cadavere in quella schifosa caverna dipinta. Il male non era nulla davanti alla prospettiva di qualcosa di meglio. A cosa poteva servire liberarmene? Bisogna essere nobili di spirito per uccidere un mostro? O basta solo essere più forti del nemico?
Non lo sapevo, non sapevo niente...
Sentii le palpebre calare rigide sui bulbi oculari, secchi come pugni di sabbia. – È un maschio. – Di nuovo mia madre. Grazie a Dio. Oppure... Oppure no. – Erediterà tutto. Ogni dono, ogni maledizione. – E non c'era maledizione più grande di quell'oscura propensione alle armi, al Credo sanguinario che le aveva strappato suo marito e i suoi figli.
Il solo figlio maschio. Avrei avuto tutto quanto. L'erede in prima linea dell'ascesa e caduta dei Kenway.
– Il suo amore ci da la forza. – Tiio.
Il suo amore non aveva fatto altro che risucchiarmi e rendermi debole e farmi impiccare. – Aiutatemi – sussurrai con le mani premute sulle labbra, ma nessuno venne in mio soccorso. A nessuno importava.
– Ti perdono. – L'unico amore della mia vita – dopo le armi, il sangue, la vendetta e la violenza fine a se stessa – mi sorrideva gentile, le mani tese verso di me.
– Ho fatto del male a troppe persone. – Non sapevo nemmeno se fosse vero, ma mi sembrava ciò che Tiio volesse sentirsi dire. Che non ero un brav’uomo e pentirmi era la sola via per uscire da quel macello. Cos’è che mi aveva detto Reginald?
– Non avrai assoluzione, qui.
No, no, no, maledizione, no! Non ancora la sua voce. Perché? Perché tra tutte le persone che potevano farmi visita dall’interno della mia dannata testa era stato scelto proprio lui, proprio Reginald Birch, il mio salvatore e boia al tempo stesso?
Non sapevo spiegarmelo. Quindi deliravo, sperando che bastasse per ingannare il tempo. Doveva bastare. Andare avanti. Cercare un falso obiettivo, qualcosa da conseguire. Tutto ciò che volevo era non dover pensare alle loro imbeccate, ai contraddittori ordini che mi scagliavano addosso come pietre.
– Allora cosa fate? – ringhiai, la voce ridotta a un graffiante sibilo in fondo alla gola. – Quale diavolo è il vostro ruolo, si può sapere?
Chiunque avesse fatto spuntare quegli strani fantasmi nella mia testa – o fuori, dovunque essi fossero – me l'avrebbe pagata cara. Oh, sì. Già solo per tutta l'ansia, la paura e il tremore nelle ginocchia che avevano preso possesso del mio corpo. Avrei meritato molto più che delle stupide indicazioni per il Grande Tempio. Denaro. Alcool. Un po' di pace. A discrezione dei miei aguzzini.
Non mi sembrava chissà quale richiesta, sinceramente. – Apriamo gli occhi – spiegò Reginald con un ampio cenno del palmo. – Non c'è nessun destino per te se ti affidi al fato. Devi agire. Questa vita ti distruggerà. – Sospirò, poi unì le dita in una specie di preghiera, come se persino lui avesse pietà di me. Gran Maestro, certo. Un fottuto zimbello. – Lo ha già fatto. Non c'è modo di cambiare le cose. Il Tempio è il caos. Sta' attento a non perderti.
Aggrottai la fronte. Non sapevo in che modo la mia vita avesse potuto distruggermi, a parte portandomi fin lì e lasciando che l'Ordine si riducesse praticamente a un terzo dei suoi uomini, ma se lo diceva Reginald doveva essere vero, giusto? O plausibile, almeno.
– Ti amo. – Strofinai i polpastrelli sugli occhi e mi morsi la lingua con un gemito. Spingevo un piede dietro l'altro nel fango, il cuore che mi scuoteva le costole come una scatola vuota e le vene del collo che fremevano dentro la testa, gonfie e incontrollate, serpenti con la testa mozzata.
Dovevo andare avanti. Sopportare. Correre il rischio di far saltare anche la mia testa come una santa barbara piena di polvere da sparo. Se solo fosse stato facile. – Figlio mio. – Tornatene nell'aldilà a far compagnia a papà, a Jenny, ti prego, mamma, ti prego. Almeno tu. Trassi un respiro tra i denti, e quello subito si trasformò in un singhiozzo. Le ginocchia tremavano sotto il peso del mio corpo.
Non avevo la minima idea di dove stessi andando. – Un bravo ragazzo, sì. – Reginald. È una prova, non è così? Se supero questo posso anche ucciderti. Passai la lingua sulle labbra ruvide come carta vetrata, un pezzo di spugna secco e gonfio che sapevo non mi avrebbe dato alcun sollievo, ma si sa, vale sempre la pena di provare, giusto? – La tua anima ti soffocherà. Devi svegliarla. – Allora avevo ragione. La Prima Civilizzazione, quei bastardi. Volevano vedere se fossi sufficientemente in gamba, dotato di senno, diciamo, quanto bastava per ammazzarlo e aprire il Tempio.
Non ero nemmeno più sicuro di volerlo fare se il prezzo da pagare per entrarci era quello. Che cosa avrei dovuto fare per uscirne?
Non pensare.
Un'impresa. – Una catabasi – sillabò Fayling, la voce limpida e l'accento così britannico che anche in quei fantasmi mi faceva una certa impressione.
Come se non avessi sopportato a sufficienza quell'uomo da vivo.
– Il Tempio ti chiama. – Non sapevo più chi stesse parlando, e non aveva importanza.
– Te stesso. Sei tu il problema. – Gli stivali nella terra umida, tenere un'andatura costante, non sbattere contro gli alberi, quelle erano le cose che contavano davvero. Non la voce di Reginald. – Devi tenere la situazione in pugno.
– Dove mi state portando? – Toh, quindi riuscivo anche a parlare. Che progressi.
– Il Caos.
– Rispondete... Per favore. – Quella di Birch non era una vera risposta. Niente di quanto uscisse dalle bocche di quei fantasmi lo era. E se si trattava solo una riproduzione della realtà data dalla mia testa, be', si capiva tutto.
C'era dell'altro. In quegli spettri alloggiava la Prima Civilizzazione. E loro sapevano. Dicevano sempre così. Avevano una chiara idea della verità, i Precursori, non come noi cretini che inventiamo uno scopo per non affondare ginocchioni nel fango e soffocare mentre urliamo, la bocca piena di terra e le mani strette sui fili d'erba. – Dove andiamo? – ripetei, la voce venata di panico.
– Alla fine. O all'inizio. – Mia madre ebbe un sussulto, come quando cercava di cucinare un pasto senza l'aiuto dei domestici e lo scordava sul fuoco. – Non lo so più.
– Dammi un bacio.
– Per favore – sibilai. Forse a Tiio, forse a tutti loro. Non avevano questo gran compito. Aiutarmi in concreto o sparire.
E sparite, allora.
– Smetti di ignorare ciò che sei. Il tuo passato è parte di te. – Non lo stavo ignorando, Reginald. Cercavo solo di ricacciarlo da dovunque fosse venuto e proseguire quel dannato viaggio in pace, almeno fino al Tempio.
Non era già una sofferenza, una prova sufficiente, dover entrare lì dentro e ucciderlo davanti a Charles, con il rischio che anche lui fosse dalla sua parte? Non era abbastanza?
– Nessuna redenzione. – Sai, Reginald, se anche ci fosse non credo sarebbe per me. – Hai perso, Haytham.
– Sta' in guardia. – Ricordavo quelle parole. Mia madre. Quando mi aveva salutato prima di lasciarmi partire con Birch.
Fottuta Francia.
– Pioverà sangue su ciò che resta. – Ci ero abituato. Il sangue è un fedele compagno di viaggio per quelli come me.
Erano tutte quelle voci, quella folle discesa negli Inferi, che non riuscivo più a sopportare. – Basta. Vi prego. Vi prego... – Dicevano che non era la mia catabasi.
Allora era una tortura. Una tortura bella e buona.
– Baciami, Haytham.
No. Per quanto la amassi, per quanto mi sarebbe piaciuto – in un altro momento, per favore, in un qualsiasi altro momento – sapevo che c’era qualcosa di sbagliato in ciò che dicevano, nella loro stessa presenza. Era una specie di presentimento. Una sorta di campanello d’allarme echeggiava nella mia testa, come quello che Fayling usava nel suo stupido giochetto delle definizioni. Non sapevo se fosse vero o no, ma immaginavo che se mi fossi avvicinato per poggiare le labbra su quelle del pallido fantasma di Tiio, lei si sarebbe tramutata all’improvviso in mia madre, in Fayling, e poi in Reginald, sì, il mio generoso tutore mi avrebbe cinto la vita con un braccio spettrale, l’altra mano a tastarmi i gioielli, e m’avrebbe infilato la lingua in bocca.
Nemmeno dopo una vita d’astinenza avrei accettato di ridurmi così. Non di nuovo, per pietà. – Tiio, vattene – sussurrai con le mani affondate nelle tasche e lo sguardo fisso sulle sue ginocchia nude nonostante quella gelida umidità. – Andate via, vi scongiuro, andatevene.
Affondai i denti nel labbro inferiore e mi chiesi perché stesse accadendo a me. Forse… Forse lo meritavo, in fondo. Non ero stato esattamente la migliore persona del mondo. Però stavo cercando di rialzarmi, di recuperare. Era quella la mia ricompensa per tutti gli sforzi compiuti? Un dannato viaggio nello stesso passato da cui volevo disperatamente andare via?
Sputai nella terra umida e scoccai un’occhiata rabbiosa al fantasma di fronte a me. Riconobbi gli stivali di pelle di Reginald. Rigorosamente cuciti in Inghilterra. Fatti con pelle inglese. Prima qualità.
– Non puoi scappare – bofonchiò, una mano infilata sotto la camicia. La prima volta che ero scappato da qualcosa avevo dieci anni. Avevo abbandonato mia madre per diventare un’omicida, un uomo che toglie la vita ad altri uomini pensando di essere nel giusto.
Perché è così che il mondo va a rotoli. Si crede di essere dalla parte giusta. La seconda e ultima volta avevo abbandonato la madre di mio figlio e i miei fratelli per cercare di rimettere insieme la mia famiglia. Ne avevo ricavato solo una sorella crivellata dai proiettili e dalle baionette e un amico a penzolare dalle corde del bucato.
Che c’era di diverso, stavolta? Perché mai sarebbe dovuta andare bene? – Ed è piuttosto scortese, da parte tua – disse Reginald in uno sbuffo.
– Basta.
Sì. Basta. Non mi serviva nient'altro. Che tutto quel casino si fermasse, che mi lasciassero in pace per cinque minuti. Peccato che quella non fosse stata la mia voce. Non ero nemmeno sicuro che dalla mia bocca sarebbe uscito qualcosa di diverso da un singhiozzo. A parlare, con il tono ferreo che era stato veramente suo – la ricordavo ancora, ben impressa nella mia memoria, quando mi aveva sputato addosso tutto l'odio che aveva in corpo, sibilando che se non me ne fossi andato mi avrebbe strappato il cuore dal petto con le sue stesse mani – era stata Tiio. Ed era... Dio, era quasi impressionante sentirla usare quelle parole in mia difesa. Sentir parlare la vera Tiio a mio favore. Cioè, non che fosse veramente lei, ovvio. Il suo corpo era senz'altro lì da qualche parte, deturpato dall'Ordine e sepolto in una buca scavata alla bell'e meglio nella Frontiera. Sapevo che era morta, non avevo dubbi al riguardo, ma sentire la sua voce fredda, che non ammetteva repliche, quel tono autoritario che certamente doveva aver usato anche con nostro figlio, mi fece uno strano effetto.
Sollevai lo sguardo su di lei, le gambe improvvisamente incapaci di reggermi, e sentii la mascella cedere. Volevo urlare? Piangere? Entrambe le cose? Non lo sapevo. E non feci niente. Semplicemente caracollai verso di lei in un paio di passi molli e disperati, e mentre lei apriva le braccia pregavo che non scomparisse.
Non disse nulla. Nemmeno si mosse o abbozzò un sorriso nella mia direzione. Non c'era alcuna influenza da parte mia in quella Tiio. Agiva esattamente come avrebbe fatto lei. Le crollai addosso come un lebbroso in punto di morte, e sentii le sue braccia infilarsi sotto le mie ascelle e tenermi in piedi, salde come rocce.
Non c'era un altro posto in cui sarei voluto andare. Le braccia di una donna morta, di quella donna morta valevano almeno cento vendette e diecimila Grandi Tempi. – Tiio... – sussurrai, il volto affondato in quello che doveva essere il suo collo. La sua pelle aveva lo stesso profumo della foresta, del fuoco. Quella era casa mia. Eppure non esisteva, era andata in fumo proprio come la bella villetta in piazza della Regina Anna. – Devo morire? – mormorai, la voce tremula e sottile come un bambino. Era già tanto che avessi la forza di pronunciare quelle parole. – Ha detto... – Tirai su con il naso, ispirando a bocca aperta contro la sua pelle. – Ha detto che non c'è redenzione. È per questo? Io...
Tiio ridacchiò, e quando sollevai il capo per incontrare i suoi occhi, lei era sparita. Al suo posto c'era solo il tronco di un grosso albero, due rami sottili infilati proprio sotto le mie braccia. Oh, Dio. Quel profumo...
Un'altra illusione. Mi avrebbero fatto impazzire, di quel passo. Perché, constatai con un grugnito carico di fastidio e ira, la Tiio che avevo conosciuto non avrebbe mai riso. Non dopo tutto quello che le avevo fatto. Un bastardo come me non lo meritava. Il disprezzo con cui mi aveva ferito al primo incontro avuto dopo il mio ritorno, quando mi aveva detto che non sarei mai riuscito a pronunciare il nome di nostro figlio, che avevo sbagliato a tornare e che quella sceneggiata alla ricerca del perdono non solo era stupida, ma anche controproducente.
L'avevo fatta ammazzare.
Crollai con le ginocchia nel fango e la testa tra le mani. Sentivo la colpa e il rimorso bruciare in due fiammate roventi dietro gli occhi, scioglievano il mio cervello e annientavano ogni mia volontà.
L'avevo fatta ammazzare. Era per colpa mia che Reginald e Charles e Thomas le avevano fatto quelle cose prima di ucciderla. Non potevo più puntare il dito contro Washington, Jenny e le circostanze, perché se io non avessi deciso di tornare alla sua ricerca con Charles, quell'inverno di quasi trent'anni prima, se non l'avessi messa prima della mia missione di Templare, se non mi fossi mai innamorato di lei (se non l'avessi mai riempita con il mio dannatissimo uccello, a dire la verità), sarebbe stata ancora viva. Con un altro figlio, un'altra famiglia e un'altra esistenza, ma ancora su quella terra.
Non me lo sarei mai potuto perdonare. Nessuna delle scuse che la mia mente costruiva di solito avrebbe funzionato. Se avessi chiesto del Grande Tempio a qualsiasi altro indiano, alla stessa Grande Madre, a chiunque, tranne che a Tiio, sarebbero morte molte meno persone.
Anche fosse, non le avrei sentite pesare sulla coscienza in quel modo.
Ci sono dolori che un uomo non può sopportare senza ricavarne qualche danno.
Dico bene, papà?
Me lo ricordavo, nel mio sogno. Tutti quei defunti che contava spensierato sulle dita di una mano...
Non era davvero così. Per niente.
Singhiozzai, le lacrime che bruciavano lungo le mie guance prima di precipitare nella terra fredda e umida. – No – mi consolò Tiio, ma come avrei potuto crederle? Quella non era davvero lei. – Cosa ti viene in mente? No. – Sentì le sue mani calde nei capelli, le ginocchia luminose e spettrali mi danzavano davanti agli occhi, appena sotto l'orlo sfrangiato del suo abito nativo. – Porta a termine ciò che hai iniziato e ricomincia da capo. Questo è il tuo compito.
Il mio compito. Non mi pareva di aver firmato alcun certificato, né tantomeno di aver stretto un giuramento. L'unica cosa cui dovevo essere fedele era l'Ordine, ed era anche l'unica cosa che non avrei abbandonato per niente al mondo. Ero destinato a quello, dunque? Alla guerra? A essere un umile servo della Prima Civilizzazione, in cerca di una ribellione vera soltanto nella mia testa?
Stronzate. Erano tutte stronzate. – Nulla può cambiarlo.
Sollevai gli occhi verso di lei, brucianti di pianto e frustrazione. Perché non mi uccidevano? E se dovevo restare vivo, maledizione, allora perché non parlavano chiaro? Che bisogno c'era di coinvolgere i morti?
Non lo sapevo. Non c'era più niente che fossi davvero in grado di sapere. Volevo soltanto fosse di nuovo viva, di nuovo al mio fianco, con il suo odore, con la sua voce, non la patetica imitazione che la mia mente ricordava. Con la sua pelle e i suoi colori.
Di nuovo mia. Ed era impossibile, proprio per questo faceva male come alcool su una ferita aperta, ma non disinfettava. Era un cancro, un mostro che mi cresceva dentro e divorava tutto ciò che incontrava sul suo cammino. Il fatto che si riflettesse fuori dal mio corpo, in quella dannata foresta, non significava proprio niente.
Mi mise in ginocchio come un cavaliere di fronte al drago. – Mi dispiace, Tiio. – Ma di solito gli eroi si rialzano, si fanno forza e combattono. Vincono.
Non era il mio caso. Non sarebbe mai stato il mio caso. – Mi dispiace così tanto.
Sollevò l'angolo della bocca in un sorriso, lo sguardo che vagava lontano. Perché lo faceva? Non doveva sorridermi. Lei non sorrideva. Fossi stato più forte mi sarei alzata e avrei soffocato quel dannato spettro fino a farlo sparire, ma ero soltanto un vigliacco, ed ero stato io a creare il fantasma che non le assomigliava nemmeno un po'. Distruggerlo significava distruggere il mio ricordo di lei.
E forse sarebbe stato meglio per tutti. – Non devi dispiacerti – disse, gli occhi ancora persi in un imprecisato punto alle mie spalle. – Combatti. – Le mie ginocchia fremettero nonostante fossero piantate a terra. Mosche luminose danzavano nel mio campo visivo. – Questo viaggio era necessario. Presto dovrò andarmene di nuovo.
– No... – Sì. – No. – Perché? Perché parlavo in quel modo? Non avevo nemmeno più la forza di mettere in fila quattro parole di senso compiuto? Che andassero via, tutti quanti.
Reginald – o la mia proiezione di lui – aveva ragione. Siamo sempre stati i peggiori nemici di noi stessi. – Per favore. Resta. – Deboli. Corruttibili. L'Ordine avrebbe dovuto salvarmi da un destino come questo, ma che cosa possono i Templari contro un uomo con la testa sbagliata, con la testa di un Assassino? – Resta ancora un po', solo un po', soltanto...
Tiio schioccò seccamente la lingua contro il palato. Non volevo che restasse. Avrei dovuto capire molto tempo prima che, come davanti a William Johnson, non sempre ero io a decidere. – Non cadere nel Caos, Haytham. – Mi venne quasi da ridere. Il caos era tutto intorno a me, dentro, fuori, non faceva altro che attendermi, in agguato nell'ombra. Avrei dovuto essere quello che l'avrebbe sconfitto. – E non dimenticare chi sei – disse Tiio, come se mi avesse letto nel pensiero.
Ah. Già. – Io non so chi sono – mormorai tra i denti stretti, e grazie al cielo era esattamente ciò che volevo dire. – Non l'ho mai saputo.
Sollevò le spalle, un altro cenno tipicamente da Tiio. Certe cose erano vere. Altre si piegavano all'utile. – Allora forse è il momento di scoprirlo, no? – Fosse stata viva, l'avrebbe detto in un tono molto più acido. Come se fosse una missione da svolgere in quel preciso istante, una questione di vita o di morte. Invece era gentile, calma, propositiva.
Oh, Tiio. – Scoprire di che pasta sei veramente fatto. Quella, Haytham, quella è la tua catabasi. – Mi fece un sorriso senza abbassare lo sguardo. Forse stava ridendo di me, e non aveva tutti i torti. In un altro momento, l'avrei fatto anche io. – I veri Inferi devono ancora arrivare. – Allungò lentamente una mano seguendo la linea del suo sguardo, gli occhi stretti per la concentrazione.
Con la lingua secca in bocca mi voltai a lanciare un'occhiata in quel punto da sopra la spalla.
Lì per lì non vidi nulla.
Il gelido vento che precedeva l'alba mi scrollò la redingote sulle spalle. Battei le palpebre un paio di volte, tutti quei puntini luminosi e iridescenti che brillavano davanti ai miei occhi.
La Frontiera era avvolta nel bizzarro bagliore bluastro che ben conoscevo, rami e chiome brillanti e definiti in tutti i loro dettagli. C'era una macchia dorata nel fogliame, proprio là, di fronte a me. Un semplice buco, ma un buco dannatamente familiare. Sentii un respiro spezzarsi nel mio petto, perché quel maledetto viaggio tra i morti mi aveva portato a pensare di tutto, davvero, ma mai avevo creduto di poterlo raggiungere davvero.
Pensavo fosse una trappola, un altro scherzetto della Prima Civilizzazione. Il castigo che meritavo per aver buttato giù la loro sventurata pedina.
Invece no. Era lì. Bastava solo arrivarci. – Ci siamo – mormorai, dando voce all'ultimo dei miei pensieri.
Poi, senza più un filo di fiato in corpo, sentii qualcosa vorticare nella mia testa. I muscoli delle cosce smisero all'istante di funzionare. Un fischio mi riempì le orecchie, camuffando ogni suono della Frontiera. L'ultima cosa che vidi fu la foresta tornare ai suoi soliti colori, il verde scuro, il grigio e il marrone rischiarati dall'alba, poi precipitai in terra privo di sensi come un ubriaco.
Il buio e il fango non mi erano mai parsi così accoglienti.
 

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Capitolo 65
*** Wildlife. ***


Me lo ricordavo bene, il momento in cui Tiio era sparita dalla mia esistenza. Non che fosse particolarmente piacevole, anzi, ma lo avevo sempre considerato il punto di chiusura della nostra storia. Non potevo più cambiare le cose, e nemmeno implorare pietà dopo anni passati lontani, solo... Chiedere notizie di mio figlio, magari, sapere se stava bene, ma dubitavo che avrebbe funzionato. Avevo provato comunque. E i risultati li conoscevo meglio di chiunque altro.
Il problema? Non era stato il nostro ultimo incontro.
Ne avevamo avuto un altro. Lì, tra la morte di Braddock e l'arrivo di quella maledetta lettera da Holden. Mi piaceva pensare che se non l'avesse aperta non saremmo mai partiti alla volta di Damasco e lui non sarebbe morto.
Holden, il caro e vecchio Jim Holden. Così efficiente. Così inglese.
No, no, non ho intenzione di farlo entrare nel discorso. Momento sbagliato. Discorso? Oh, be'. Ero tornato da Tiio con il cuore in mano e le ginocchia tremanti, appostato come un cacciatore infaticabile nel luogo in cui avevamo piantato la nostra ultima tenda. Non lo ricordavo, a dire il vero. Aveva dovuto indicarmelo Charles. Non aveva alcuna remora ad aiutarmi, a quei tempi. Non ero ancora scappato in Europa.
Perché avevo fatto visita a Tiio? Semplice. Non volevo arrendermi così facilmente. Non era da me. Stare lontani avrebbe soltanto peggiorato le cose, così rimasi là, le braccia incrociate e l'aria imperscrutabile mentre avanzava, silenziosa e letale come sempre.
Il suo sguardo era diverso. Venato d'ira e preoccupazione, come se soltanto vedermi lì fosse una minaccia alla sua incolumità.
L'inverno stava arrivando e io speravo di avere un'ultima possibilità. Non potevo gettare al vento la cosa più bella della mia vita per un solo dannatissimo errore.
Se solo gliel'avessi detto così. Forse avrebbe cambiato idea per davvero.
Eppure, c'era un presentimento gelido come un pugnale a scavare nella mia nuca. Ero un illuso, così suggerivano le vocette nella mia testa, ma volevo provarci lo stesso.
Allora non potevo saperlo, ma avrei soltanto peggiorato le cose.
«Un figlio?» La mia voce raschiava in gola e mi sembrava di avere del fuoco al posto del sangue, tutto il corpo che bruciava, come se con quelle tre paroline Tiio mi avesse spedito direttamente all’Inferno con un gran calcio nelle chiappe.
‘Sono incinta, Haytham.’
Una pugnalata al petto, lo sterno spaccato in un milione di schegge letali. «Un… figlio?» ripetei davanti alla sua espressione scocciata, gli occhi mezzi levati al cielo e il piede che batteva nervoso sulla terra. Non voleva essere lì. Non avrebbe neppure voluto dirmelo.
Però c’era.
Forse mi amava.
Sicuramente mi aveva amato. O così mi piaceva pensare. «Volevo solo che lo sapessi» grugnì prima di sollevare i palmi. «Tutto qui.» Mi scoccò un’occhiata affilata come una baionetta, poi si voltò.
Sarebbe sparita tra gli alberi, diretta al suo villaggio per restarci e crescere laggiù un bambino che era anche mio, ma senza di me.
Fu in quel momento che capii di essere sempre rimasto un orfano. Mi preoccupavo per una creatura che nemmeno esisteva, un affarino che cresceva dentro il suo ventre. Magari sarebbe somigliato a me. Però doveva avere gli occhi di Tiio. Sì. E il nome di mio padre. Avremmo festeggiato il Natale insieme, giù, per le strade di Boston a sentire i cori cantare e le campane suonare a festa.
Non solo mi avevano strappato i genitori, ma anche la dannatissima possibilità di essere padre. Non ero in grado di sopportarlo senza parlare. Senza ribellarmi. «Aspetta, aspetta, che significa?»
Tornò a guardarmi con quell’aria esasperata, stufa di me, dei miei errori, di tutto quello che avevamo sbagliato. Che avevo sbagliato. Era troppo difficile rimettere insieme i pezzi, ma non volevo crederci. Lo stava facendo davvero? Mi aveva detto di aspettare un bambino da me e mi aveva voltato le spalle? Come se non contassi niente, come se non avessi nessun ruolo in quella storia?
E si aspettava che non dicessi nulla. Oh, Dio. «Che torno al villaggio. Non lo farò crescere accanto a un uomo come te.» Mi era mancata. Non era passato molto tempo dal nostro ultimo incontro, quando mi aveva cacciato dalla tenda soltanto perché Braddock non era morto. Avevo deciso di avere fede e riprovarci. Che idiota.
Era solo una dannatissima causa persa. Non l’avrebbe fatto crescere accanto a un uomo come me, così diceva.
Cosa diavolo avevo di sbagliato? Che cosa? Non avevo il coraggio di rivolgerle quella domanda. Ne temevo la risposta, a essere sincero. Quindi evitavo persino di pormerla. «Uno che non mantiene le promesse e vede solo se stesso.»
Battei le palpebre come un idiota. Mi sentivo come se mi avessero appena sparato al petto. Squassato. Distrutto. Respinto da una forza più grande di me.
La verità. Non avevo bisogno di un esame di coscienza che me ne desse la conferma. Ai suoi occhi dovevo essere quello. Un dannato bastardo che l’aveva usata per trovare il Tempio – un’inutile, stramaledetta grotta dipinta – e non era riuscito nel suo unico compito, ammazzare un uomo.
I suoi occhi mentivano. Io non ero quel tipo d’uomo, e avrei fatto qualsiasi cosa per dimostrarglielo. «No» sussurrai, la voce che a malapena usciva dal petto. Avevo il presentimento – come un blocco di ghiaccio all’altezza dello stomaco – che avrei potuto fare di tutto e tirare fuori il miglior discorso in mia difesa, ma la sua idea non sarebbe cambiata. Se ne sarebbe andata per sempre, portando con sé il nostro bambino.
E i miei presentimenti, al contrario dei suoi, solitamente erano giusti. «Tiio… ti prego, cerchiamo di parlarne. Non è andata così.» Lei sollevò un sopracciglio, gli occhi carichi di disprezzo per il mio tono patetico. Non m’interessava di suonare sicuro o intelligente. Tutto ciò che volevo era discolparmi. Potevo essere un bastardo, un omicida, un invasore, ma non avevo lasciato vivere Braddock di proposito. Io odiavo quell’uomo almeno quanto lei! «Credevo... Credevo fosse morto. Lo giuro.»
Non le importava. Aveva sempre fatto tutto di testa sua, Tiio. «Mi hai usata per ammazzarlo. Per renderti la vita facile e privarti di due nemici in un colpo solo.» Mi puntò l’indice contro, pur tenendosi a debita distanza, e vedere quell’espressione accusatoria sul suo volto faceva più male di qualsiasi pugnalata.
Braddock, vecchio bastardo. Sembrava quasi che l’avesse fatto apposta. Vinceva sempre lui, alla fine. Con i suoi sanguinari metodi l’Inghilterra aveva vinto la guerra, e se c’era una battaglia che il Bulldog non aveva intenzione di perdere era quella contro un ragazzino indisponente che era passato a tanto così dalla condanna per insubordinazione. Avrei dovuto aspettarmelo. «Non è andata così.» E poi perché diavolo avrei voluto tenere in vita il generale Braddock? Non aveva senso.
Ma non gliel’avrei mai detto. Ero troppo impegnato a ripeterle che no, no, non era colpa mia, maledizione, ascoltami, Tiio. A volte penso che sarebbe stato più utile zittirla con un bacio. Se solo fossi stato un uomo diverso, più sicuro di me. Non riuscivo a tollerare che mi venisse strappata via così, e seguire il filo tra quello che pensavo e quello che dicevo era sempre più difficile.
Come un duello con il miglior spadaccino del mondo.
«Smetti di giustificarti.» Stoccate veloci, continue, a cui puoi reagire solo d’istinto.
«Tu non sai com'è andata!» Parare fino a stancarlo, fino ad aprire una falla nella sua guardia. «Non sai quello che ho fatto e non hai idea di quanto sia realmente successo! Non puoi venire qui e dirmi che avremo un bambino per poi scappare nella foresta!» I grandi fendenti non servono a niente e tutta la furia che ribolle nel tuo sangue è sprecata. Solo, non te ne rendi conto.
L’unica cosa che potrebbe salvarti è la lucidità. E l’avevo persa nell’esatto istante in cui l’avevo vista venire verso di me, il passo sicuro e l’aria austera. Quindi attaccavo di potenza, o ci provavo, senza capire che avrei soltanto peggiorato le cose.
Forse fingevo di non capirlo. «Io avrò un bambino» replicò Tiio gelida. Giusto. Era il suo ventre. Le sue gambe. Il suo travaglio. «Tu non avrai niente.»
«Parliamone, per favore.» La mia voce era ridotta a un pietoso sussurro, il petto tremante per i singhiozzi che sicuramente mi sarebbero usciti di bocca. «È anche mio figlio.» Era solo questione di secondi. L’aria era spessa come fumo, impossibile da mandar giù. «È anche...»
«Non avrà nulla di tuo, Haytham.» Tutto in lei sembrava fatto per fermare i miei stupidi tentativi. La sua voce affilata e schietta, quella di sempre, le parole così dure, i suoi occhi neri affondati nei miei. Nessuna pistola poteva far tanto male, nessun proiettile, nemmeno gli interminabili anni d’addestramento con Reginald. E il modo in cui pronunciava il mio nome. Irremovibile e senza pietà.
Se l’avessi vista in quel modo allora, se non mi fossi fatto sopraffare dal panico di perderla per sempre e mi fossi reso conto di tutte le cose che me la facevano amare così tanto anche lì, in mezzo al nulla, mentre mi mandava al diavolo, forse le cose sarebbero andate diversamente.
Peccato che avessi paura, una paura fottuta. Non avevo il tempo e il sangue freddo per pensare a questo. Volevo solo trattenerla, restare al suo fianco il più a lungo possibile. «Allora perché sei venuta fin qui? Per farmi del male?» Anche se mi disprezzava. Anche se volevo farla sentire in colpa e sembrare il povero Cristo che non ero mai stato.
Prese un respiro che parve durare un’eternità, i pugni stretti lungo i fianchi e una vena di nervosismo a solcare il suo volto. «Perché hai fatto una promessa che non sei riuscito a mantenere.»
«Dunque è per ripicca!» sbottai, sollevando i palmi in un gesto teatrale.
Perché non lasciavo perdere, eh? Perché non mi ero fermato un attimo a pensare che poteva non essere l’atteggiamento giusto, che quella non era la risposta e non l’avrei mai convinta a restare con me? Continuavo a ignorare il semplice fatto che quella donna mi avesse capito, capito davvero. Sapeva come ero fatto, e io non volevo accettarlo. Speravo di poter cambiare.
Lo speravo ancora. Gran brutto guaio. «Non sei adatto a questa vita» brontolò, lo sguardo perso tra i rami della Frontiera, intrecciati sopra le nostre teste.
«Che ne sai?» replicai. Insomma, ne parlava come se fosse una cosa scontata. Pareva dire che non sarei mai stato adatto a quella vita. «Come fai a saperlo se non mi dai nemmeno la possibilità di dimostrarlo? Come puoi dire così, che cosa...»
«Tu sei un assassino!»
Ci fu una pausa. Una delle più intense e pesanti della mia esistenza.
Il sangue mi si gelò nelle vene, la lingua completamente asciutta e il petto che sembrava incapace di rialzarsi da sé. Trattenevo il fiato. Non c’era uno solo dei miei muscoli che riuscisse a muoversi. Ero in grado soltanto di guardarla, di ascoltare l’eco di quella sola parola nelle mie orecchie, assassino, con tutto ciò che essa comportava.
Quindi era quello il modo in cui mi vedeva. «Non permetterò alle tue battaglie di distruggere la nostra vita» sibilò, la voce piena di rimpianti. Aveva… aveva detto davvero così? La nostra vita? Di chi diavolo parlava? Di me e lei? O lei e il bambino? Meglio, di tutti e tre! Sì. Sicuramente.
Io non volevo rovinare la vita di nessuno, men che meno dell’esserino che stava crescendo dentro di lei, e avrei dato qualunque cosa per dimostrarlo, per non restare escluso da qualcosa di così bello e che non ero riuscito a godermi quando ne avevo avuta l’occasione.  
Così lo dissi. «Posso rinunciare.» Mossi il primo passo verso il tradimento che avrebbe istigato Reginald a impiccarmi. «Posso lasciar perdere i Templari, vivere con te e il bambino. Avere una vita normale.»
Che brav’uomo, eh? Con propositi così nobili, così coraggiosi. Chi avrebbe preferito vivere da sola? «Non puoi scappare da un Ordine come quello» ammise, schietta come sempre. Sembrava lo sapesse già. Aveva intuito che avrebbero usato lei, il mio sogno di una vita normale, per fottermi. E diceva la verità. Non puoi scappare dai Templari.
Nemmeno dagli Assassini, ma non era nelle sue intenzioni farlo. Facile, così. Rimasi a guardarla con la bocca mezza aperta, senza riuscire a credere a ciò che diceva. Cosa ne sapeva, lei? Non era una di noi, e non era me. Non sapeva a cosa avrei rinunciato pur di restare insieme.
Non riuscivo a spiccicare parola. Non ne ero più capace. Sospirò. «Ti sto salvando la vita, Haytham.»
Non le credevo. Non vedevo una logica nel suo discorso, ma un modo per tenermi lontano. Una scusa come tante altre. «Se volevi salvarmi la vita» ringhiai «non dovevi venire qui. Bastava restassi nell'ombra, come hai fatto in tutto questo tempo.» Avrei voluto non essere arrabbiato con lei e cogliere ciò che davvero voleva dirmi, il pericolo da cui aveva sempre cercato di tenermi lontano, ma io non ero come Tiio. Non lo sono mai stato. La verità è che non riuscivo a vedere più in là del mio naso, e c’era… C’era come una parte di me che la pensava in modo diverso, che aveva capito.
Non doveva trovarsi lì. Sicuramente non c’era la prima volta, quando era successo davvero. Era… una sensazione, ecco. Come una corda che cercasse di arrotolarsi intorno ai miei polmoni e fermare le parole iraconde che mi sgorgavano dalla bocca come un fiume in piena.
Era la ragione di un vecchio. Costellata di rimpianti e priva di quell’amore. «Non vuoi salvarmi la vita.» Vidi me stesso mentre glielo dicevo, la voce così colma di rabbia da incrinarsi. «Vuoi soltanto farmela pagare per Braddock.»
Schioccò la lingua. La sua reazione a qualsiasi cosa, su per giù. La stessa che aveva ereditato suo figlio. Nostro figlio. L’ammasso di carne che le occupava il petto e di lì a qualche mese sarebbe stato stretto nelle sue braccia, senza di me. «E poi dici che sono io a non sapere niente» replicò senza nemmeno guardarmi in faccia. Non c’era paura nei suoi occhi. Evitava di puntarmeli addosso perché sapeva esattamente che cosa colmasse il mio sguardo. L’ira. La paura di perderla, di perdere la mezza famiglia che ero riuscito a mettere in piedi. Aveva già colto tutte quelle cose, così come aveva già deciso di ignorarle.
Aveva scelto. E la sua scelta non ero io. «Non sono così meschina, Haytham. Credevo fosse giusto dirtelo.»  
«Dirmelo» brontolai con la testa incassata tra le spalle. Pensavo che dirmelo non significasse un bel niente. Sembrava un pettegolezzo, una di quelle notizie date tanto per parlare di qualcosa. “Pessimo raccolto questa primavera, eh? A proposito, sono incinta e ho intenzione di crescere nostro figlio senza di te. Cos’è che stavi dicendo del tuo pollaio?”.
Non sopportavo che lo desse così per scontato. Dovevo aspettarmi che avremmo avuto un figlio, e che l’avrebbe voluto tenere lontano da me. Però non ce la facevo. «Dammi almeno una possibilità» mormorai, cercando di non suonare troppo patetico. Avrei dato qualsiasi cosa per restare con lei e nostro figlio e avere una vita decente. Avrei dato la mia anima. Non mi era mai passato per la testa che ai suoi occhi non dovevo nemmeno possederne una. Un approfittatore come me. Uno che usa le povere donne native per ingannarle e farsi portare nei luoghi sacri della sua tribù.
Era sbagliato. Era tutto sbagliato, e io volevo uscirne. Peccato che non potessi.
Tiio scosse la testa piano. «Una possibilità? La vita non è fatta di allenamenti.» Aveva piantato gli occhi nei miei, finalmente, e il suo sguardo non mi era mai sembrato più ferreo. «Quando una cosa è rotta lo è per sempre.»
Odiavo quel modo di ragionare. Tipico di chi non ha mai fatto un errore nella sua vita. E Dio solo sa quanto sia facile parlare in quelle situazioni. Quando ancora non hai perso nulla e credi di avere il mondo in mano. «Puoi provare a ripararla» le dissi in un ringhio, ma suonava più come una supplica.
«Già» sospirò. «Ma non sarà mai come prima. Tu non sei fatto per riparare le cose. Sei bravo solamente a distruggerle.»
Una pugnalata.
Come un fuoco ad avvolgere le viscere, fiamme e vecchi chiodi, il dolore più grande che un uomo possa provare lì, incastrato nel petto, tra il cuore e lo stomaco. E all’inizio preghi che resti lì perché hai paura, paura che possa fare ancora più male e ucciderti. Non vuoi che si muova. Temi che si propaghi e ti ammazzi, ma arrivi a un punto in cui il dolore è troppo, non ce la fai più, e devi smetterla di contrarre i muscoli per tentare di arginarlo. Lo lasci scorrere. Su per la spina dorsale e giù, giù lungo le gambe. Ti si annida nelle ginocchia e dietro gli occhi e poi esplode, insieme e tutto in una volta, come una polveriera.
La mia testa saltò in aria. Non ne rimase che un ammasso dolorante di carne e ossa affondato nelle mani, gli occhi sgranati e secchi. Sembrava che quelle dannate fiamme avessero prosciugato tutto ciò che c’era dentro di me.
Le gambe cedettero nello stesso istante, ancorate nel terriccio come quelle di un mendicante che implora la pietà altrui. Non andartene, avrei voluto dirle, ma non riuscivo a spiccicare parola.
Faceva troppo male. Allungai le mani nella terra umida della Frontiera, fresca e fertile, buona per piantare le tende ed essere felici. Le lacrime non volevano saperne di sgorgare, i miei singhiozzi bloccati in fondo al petto, come sassi gettati in fondo al mare.
La parte di me che sapeva sarebbe successo non aveva niente da dire. Non mi avrebbe compatito. Non avrebbe fatto niente. Che cosa puoi fare in situazioni del genere, se non aspettare che passi?
Aspettare… che passi. Sì.
Udii la sua voce un’ultima volta, fredda e calma e venata appena di dispiacere, ma non era sufficiente. Non bastava a salvarmi, a salvare noi. «Addio, Haytham» disse soltanto.
Si allontanò. Io abbassai le palpebre su quei grossi sassi sbeccati che mi sembrava di avere al posto delle palle degli occhi. Non riuscii a piangere, nonostante tutto.
Solo a urlare.
La rividi anni dopo, prima della mia esecuzione. Avrei preferito fosse stato davvero quello il nostro ultimo incontro. Avrebbe fatto meno male, forse.
Non lo so. Non sapevo più niente. Potevo soltanto gridare e gridare e continuare a chiamare il suo nome più forte che potevo, fino a strapparmi la gola, fino a morire soffocato per quel continuo trattenere il respiro.
Urlare.

 
Aprii gli occhi con la trachea arsa da una manciata di chiodi incandescenti, l’aria incagliata tra uno e l’altro, incapace di scendere nei polmoni, e la spina dorsale fatta a pezzi. Nel mio petto c’era soltanto la rombante sensazione di star urlando, il fiato a graffiarmi il palato come artigli di una bestia feroce.
Niente demoni.
Non importava quali suoni uscissero dalla mia bocca, nemmeno li sentivo. Non riuscivo a fermarli. Era quello a colmarmi lo spazio tra una costola e l’altra, il panico, la gelida paura di continuare così per sempre, con gli occhi sgranati fissi sulla grande chiazza bianca che era il mondo intorno a me.
Ero morto. Senza alcun dubbio. Cosa poteva essere quella, se non la mia discesa agli Inferi? La luce candida, il corpo circondato dalle fiamme, fatto di fiamme. Urla disperate agganciate ai polmoni, o a ciò che ne restava.
Catabasi.
Oh, no, pietà.
Che cosa avevo fatto di male per meritare quella morte?
Domanda sbagliata, suppongo.
– E che cazzo, piantala!
Uno strillo acuto. In tutta onestà, non sembrava nemmeno la mia voce.
Il sipario bianco che avevo davanti agli occhi fu squarciato da una scomposta chiazza nera. Un proiettile in mezzo agli occhi.
Dovevo essere morto davvero. Non potevo vivere un’altra volta quel particolare momento della mia vita – sentire di nuovo la voce di Tiio, ascoltare le sue accuse velenose e accettare il fatto che mi avesse lasciato per sempre, nostro figlio nel grembo e il cuore traboccante astio – e sopravvivere.
Caddi all’indietro, la schiena poggiata su qualcosa di duro e freddo mentre, davanti ai miei occhi, qualcosa cominciava a diventare più chiaro. I rami degli alberi, lunghi e ritorti attraverso il cielo della Frontiera, appena illuminato dal chiarore che seguiva l’alba. Una ciocca di capelli appiccicosi dondolava sulla mia palpebra sinistra mentre l’aria tornava lentamente a strisciare nei polmoni, giù per la gola ancora bruciante.
Emisi uno sbuffo, ricacciando i capelli indietro sulla fronte. Ero vivo. Maledizione. Lo ammetto, una parte di me non poté fare a meno di pensare per quale diavolo di motivo fossi ancora lì. Perché? Dopo tutto ciò che l’Occhio dell’Aquila mi aveva fatto vedere, la notte passata a correre dietro i fantasmi del mio passato… e quelle voci, poi, che continuavano a ripetermi le stesse cose. Non era una prova. La parte difficile sarebbe arrivata dopo.
Forse era per quello che speravo di essere morto. Mi avevano detto che la vita era una scala continua, a volte in salita e a volte in discesa. Non per me. La mia discesa sembrava non arrivare mai, e sentivo che se avessi affrontato un altro maledetto gradino verso l’alto le mie gambe avrebbero ceduto come quelle di un vecchio infermo. Non era proprio il momento che aspettavo da tutta la vita. – Ah – gemetti, stupito di riuscire a spiccicare parola. – Cristo.
– C-capo?
Sollevai appena la testa, il collo teso come un ramo secco. Thomas Hickey se ne stava schiacciato contro il tronco di un albero, piegato su se stesso come un ragazzetto impaurito. Sollevai un sopracciglio quando mi caddero gli occhi sul suo piede sinistro, fasciato solo da un vecchio calzino bucato. – Il tuo stivale? – Dio, la mia voce somigliava terribilmente al gracchiare di una cornacchia. Lasciai ricadere il capo sulla terra, respirando con la bocca aperta e le dita che sfioravano appena il suolo.
– Il mio stivale, dici? – Non avevo mai sentito Tom parlare così piano. Con così tanta paura nella voce. Arricciai l’angolo delle labbra in un sorriso al ricordo della pistola che gli avevo puntato contro solo poche ore prima. – Non ti ricordi proprio un cazzo, vero?
Non so se dalla sua posizione riuscì a coglierlo, ma feci spallucce. Ricordavo Reginald, e il signor Fayling, e Tiio che mi dava dell’assassino prima di sparire nella Frontiera e lasciarmi solo come un cane in mezzo al niente, strillando il suo nome come un pazzo.
Nient’altro. – Sii più chiaro, ti spiace? – Intrecciai le mani sul petto in attesa di una risposta. Non avevo nessuna fretta. Il gelo della terra sulla schiena e l’aria che scorreva dentro e fuori dai polmoni non mi erano mai sembrati tanto piacevoli. Avrei fatto qualsiasi cosa pur di rimandare l’inevitabile.
Perché era lì. Lo sentivo nell’odore dell’aria e del fango in cui affondavo i talloni, nei versi degli uccelli, anch’essi intrisi di timore reverenziale. Li percepivo, come una raffica di vento dritta in faccia. Quella zona della Frontiera era intrisa del potere dei Precursori, un dettaglio che avevo ignorato la prima volta che vi avevo messo piede.
C’era un altro tipo di potere, quella volta.
Le dita di Tiio strette nel mio palmo.
Il cuore in pace. – Più chiaro – brontolò Thomas, la voce distante alle mie orecchie. – Come vuoi. Ti sei messo a parlare da solo per tutta la Frontiera. – Buttai fuori il fiato attraverso il naso. Mai che la Prima Civilizzazione mi facesse sembrare una persona normale, eh? – È abbastanza chiaro per te?
– Cristallino. – Mi tornò alla mente un altro paio di cose. Ricordavo di aver abbracciato un albero, o di esserci andato a sbattere, convinto che fosse lei. Oh, chissà quante risate si stavano facendo quei tre, dovunque essi fossero. – E la scarpa? L’hai venduta a un commesso viaggiatore per un servizietto?
– A-ah, quanto sei divertente. – Thomas zampettò verso di me, le labbra contratte in una smorfia schifata ogni volta che il suo piede sinistro affondava per metà nella terra morbida, e si chinò a raccogliere qualcosa accanto al mio corpo.
Pregai fosse il sasso con cui mi avrebbe sfondato il cranio.
– Dio – sibilò tra i denti, in precario equilibrio sulla gamba destra. – Eccolo qua. – Gli lanciai un’occhiata mentre sventolava verso di me il vecchio stivale con un buco nella suola. Oh. Peccato. – Vuoi sapere che c’ho fatto, capo? – ringhiò con una strana ombra negli occhi, come uno spavento dal quale non si fosse ancora ripreso del tutto. – Ho dovuto tirartelo addosso.
Lo calzò con noncuranza. Sembrava rinato all’idea di avere di nuovo tutt’e due i piedi al sicuro dentro le scarpe, ma forse non avevo capito bene quello che mi aveva detto. Inarcai un sopracciglio. – Mi hai tirato uno… – Sbuffai. La strana chiazza nera che mi ero visto danzare davanti agli occhi, ecco cos’era. Come lo strillo da ragazzina che avevo sentito prima ancora. Mi era parso strano venisse da me. – Ah.
– Ah? – Si passò le mani tra i capelli, reclinando il capo in una di quelle sue risate roche e isteriche. – Tutto qui? È tutto quello che sai dire?
– Se hai tu qualcosa da dire dillo e basta, Tom – replicai con calma, troncando sul nascere ogni sua voglia di sputare stronzate da quella bocca.
Si piegò sulle ginocchia, i palmi poggiati sulle cosce e il capo inclinato da una parte. – Vuoi sentirlo mentre sei sdraiato lì o devo aspettare che tu segua l’esempio di Nostro Signore e risorga?
Roteai gli occhi. Non credevo che sarei riuscito a sopportare le sue battutine ancora a lungo. La verità è che non avevo voglia di alzarmi in piedi. Sentivo le ginocchia deboli come quelle di un poppante e la schiena ancora dolorante, come se qualcuno si fosse divertito a smontarla pezzo per pezzo e rimetterla insieme in un ordine diverso, seguendo il criterio artistico di un folle. – Quando vorrò cambiare posizione sarai il primo a saperlo.
Thomas si rimise in piedi, ridendo così forte da suonare fuori luogo. Mi mordicchiai le labbra pensando che in fondo lui era sempre fuori luogo, qualunque cosa dicesse. Non si trattava certo di una novità. – Porca puttana, capo, pensavo avessi perso solo la testa, mica pure il senso dell’umorismo. Siamo messi male, qui.
Avrei voluto vedere lui. Provaci, Tom. Prova a vivere quello che ho vissuto io, vediamo se trovi qualcosa da ridere in tutto questo schifo. Ancora non riuscivo a credere che Minerva e Giunone l’avessero fatto davvero. Una specie di viaggio spirituale nel mio passato. Una vera commedia. Così gli lanciai un’occhiataccia e sperai che capisse. – Ti ho trovato svenuto, o addormentato, non lo so. – Hickey prese a camminarmi attorno come il dannato avvoltoio che era, passandosi un proiettile da una mano all’altra come fosse un giocattolo. – Mi sa che stavi dormendo, perché parlavi. Cioè, cazzo, urlavi. Mi hai messo addosso una paura fottuta.
– Urlavo, dici? – Storsi la bocca in un sorriso triste. Niente di strano, ripensando a quello che mi aveva detto Tiio.
– Oh, altroché se urlavi. – Anche Tom sorrise, ma il suo sembrava più un sogghigno da predatore. Il solito. – Come se c’avessi il diavolo in corpo. Non facevi altro che ripetere il suo nome.
Feci finta di nulla, non so esattamente perché. Non volevo sentire ancora il suono di quell’unica sillaba, forse, o non mi andava che capisse quanto tenessi a lei nonostante fosse sepolta in chissà quale buco della Frontiera. – Sai, no, dell’indiana.
– Però – esclamai puntellandomi sui gomiti così da poterlo guardare in faccia senza problemi. Sporsi il labbro inferiore in una smorfia stupefatta e lo fissai con il capo inclinato da una parte. – Le hai persino chiesto come si chiamasse, prima di fotterla. I miei complimenti.
Ridacchiò, il figlio di puttana, guardandomi mentre mi tiravo su con un balzo scomposto, ben lontano da quelli di una volta. Le cose cambiano. Mi bastava ripensare alla cavalcata verso Fort Duquesne, quella in cui il vecchio Braddock era quasi morto – quasi, Tiio, quasi, maledizione – e noi eravamo così ben organizzati, tutti e sei uniti per un solo obiettivo, ammazzare quel traditore. Tutti e sei in quelle stesse terre, quando ancora ci fidavamo l’uno dell’altro e pensavamo di essere immortali, di poter imporre il nostro controllo sulle Colonie senza alcuna resistenza.
Se solo Tiio avesse ucciso Washington. Se avessi ucciso Braddock.
Sarebbe stato tutto completamente diverso.
Eppure io avevo continuato a sbagliare, e niente era cambiato. Costanti e variabili. Altro che scale, la vita era fatta di quello. Costanti e variabili.
Lanciai un'occhiata di sottecchi a Thomas, tutto intento a passarsi il palmo della mano sulla guancia, come nel tentativo di cacciare una vecchia macchia difficile. Che si fosse pentito o meno di quel che le aveva fatto non m'importava. Mi era bastato rivederla in quel sogno e in quelle strane allucinazioni nel mezzo della Frontiera, insieme a Reginald, Fayling e mia madre. Non giudicarmi male. Per favore. Credevo che sentire ancora parlare di lei mi avrebbe fatto solo sentire peggio, e non avevo bisogno di un'infermiera incapace che riaprisse le mie ferite al momento sbagliato. Il passato era passato, e i morti erano morti. Costante. Non esiste un modo per variarle, le costanti. – Devi continuare a guardarmi così ancora per molto? – brontolò Thomas tra i denti sbarrati. Teneva la mascella contratta e il corpo teso, pronto a scattare in qualsiasi momento. Forse temeva che lo picchiassi. 
Non distolsi lo sguardo, in attesa che smuovesse la situazione con una di quelle sue battute stupide, qualcosa del genere "Che c'è, mi trovi carino?" o "Se vuoi una sega sono tre scellini, per un lavoro di bocca saliamo a dieci", invece niente. Per qualche attimo nessuno dei due mosse un muscolo né spiccicò parola, e furono alcuni degli istanti più sereni della mia vita da Dio solo sapeva quanto tempo. Non sapevo se Tom avesse effettivamente paura di me, non rientrava nelle mie priorità, ma i suoi occhi scorrevano lenti dalla mia testa all'altezza della cintura, scavavano tra i vestiti pregando silenziosamente di scorgere la canna della pistola al sicuro nella sua fondina.
Sogghignai. L'avrebbe capito persino un idiota. Era ancora – Dio, probabilmente lo era sempre stato – terrorizzato all'idea di morire. E a essere sincero, be', vorrei dire che la sua era idiozia o... Chiusura mentale o qualche stupida cosa di questo genere, ma la paura è l'unica cosa che salva un uomo nei momenti veramente difficili. Ti dice quando scappare, dove scappare, ti aiuta a restare zitto e mantiene le gambe agili, i pensieri veloci, animali. 
Non puoi avere paura di lui, sussurrò una vocetta nella mia testa. Non puoi entrare lì dentro avendo ancora paura di lui. Buttai fuori tutta l'aria dal petto in un sospiro. Non avevo avuto paura del suo fantasma, ma quello non era Reginald. Era il mio modo di vedere Reginald. Una storia leggermente diversa, no? Eppure la mia testa aveva ragione. Non potevo lasciare che la paura mi guidasse. 
Spostai gli occhi da Thomas, e mi parve quasi di sentirlo finalmente prendere fiato. – Grazie – bofonchiò mentre si scostava il colletto della camicia dalla pelle bianca e solcata di vasi, come fiumi e strade sulla mappa che non avevo minimamente pensato di portare. – Allora? – proseguì a mezza voce. – Hai idea di dove sia questo Tempio, adesso? 
Incrociai le braccia sul petto, il peso che passava lentamente da un piede all'altro. – Mi hanno lasciato qui. Dev'essere vicino. – Studiai il paesaggio come un cacciatore – un predatore –, come mi aveva insegnato Birch quando ero ancora un ragazzino. Il terreno piatto della Frontiera s’inclinava in un piccolo crinale pieno zeppo di cespugli. L'unico sentiero percorribile girava intorno a tutte quelle erbacce e scendeva, proseguendo verso ovest. A nord, invece, proprio lì, oltre l'ansa del sentiero e i cespugli intricati, c'era qualcosa di terribilmente simile a un gigantesco mucchio di rocce, come la cima di una montagna fatta crollare giù dal cielo nel posto sbagliato. 
– Quindi è stato qualcuno a portarti qui. – Thomas schioccò la lingua contro il palato. Quando mi voltai a guardarlo si stava sturando un orecchio per poi osservare con straordinaria attenzione il suo contenuto. – Pensavo fossi semplicemente pazzo. 
Gli feci un sorrisetto di circostanza e mi portai una mano alla tempia, a schermo degli occhi. – Che razza di luce – sibilai tra i denti mentre pregavo che l'Occhio dell'Aquila tornasse per un secondo, un secondo soltanto, il tempo necessario a scorgere l'ingresso del Tempio. – Andiamo – li implorai, – forza. 
– Cerchi di cagare? 
Lo colpii con una sberla dietro le orecchie senza nemmeno il bisogno di guardarlo. Presi a battere le palpebre più velocemente, le labbra che si muovevano rapide in una muta preghiera alla Prima Civilizzazione. È qui, chiedevo, so che è qui. Per favore. Datemi solo modo di capire dove. Lo ripetevo a quei tre con la paura nel cuore, le ginocchia che per miracolo ancora reggevano il peso del corpo. Dovermi rivolgere ai Precursori con quei toni supplichevoli era come gridare a un chirurgo di tagliarti via una gamba solo perché ferita. Sul momento ti sembra un atto di carità perché vuoi solo stare meglio, non sei preoccupato di quanto male farà segarla e vivere senza. Non ti importa. Urli e preghi e implori senza più dignità di agire, agire adesso, per favore. 
Io non sapevo se e quanto le azioni di quei tre bastardi avrebbero effettivamente giovato alla mia condizione, ma pregavo. Pregavo lo stesso. 
Fu come una saetta. Apparve per un brevissimo, singolo istante, proprio lì, tra un masso e l'altro, un piccolo alone dorato in mezzo a un mondo blu-grigiastro. L'ingresso del Tempio. Un buco. Nient'altro che la solita, stupida grotta dipinta. 
– Lì – sussurrai, stranito dall'intonazione eccitata nella mia voce. – È là in mezzo. 
– Come indicare un ago in un mucchio di aghi, capo. Inutile. 
– Oh, zitto. – Era proprio laggiù, a nord, dritto davanti a me. Doveva essere quello il luogo in cui Reginald si sarebbe infiltrato insieme a Charles, convinto di tendermi un'imboscata da manuale. – Seguimi – ringhiai tra i denti. Cercavo di formulare un piano, magari uno che funzionasse. Se avessi sbagliato qualcosa non avrei più avuto altre possibilità. 
Una possibilità? La vita non è fatta di allenamenti!
Oh, Tiio, per piacere, che qualcuno la facesse stare in silenzio cinque minuti, cinque contati. Provavo a ignorare l'eco della sua voce, ma proprio lì stava il problema. Non era l'imitazione storpia creata dalla mia mente – oh, quella mi chiedeva di baciarla –, ma lei, la vera lei, con le sue esatte e reali parole. 
Scrollai il capo mentre camminavo nella maniera più silenziosa possibile tra gli arbusti. Forse la Prima Civilizzazione, con la sua presenza così forte nell'aria, mi avrebbe dato una mano a mettere in piedi un piano. Dovevo rifletterci. Il mio solo desidero era aprire quel dannato Tempio, vendicarmi di Reginald, salvare Charles e vivere in maniera decorosa quel po' di vita che mi restava, ma senza il Frutto dell'Eden era tutto inutile. Il primo punto della lista era già bellamente superato con un balzo a piè pari. Odiavo me stesso per quel che provavo, ma volevo davvero entrare in quella caverna. Dovevo sapere perché ci attirasse così tanto, noi come gli Assassini, che cos'avesse di tanto speciale. 
Non volevo che la vendetta fosse il solo scopo della mia vita. Prima che Birch rovinasse tutto io avevo un sogno. La tregua. E i Precursori mi avevano detto che si nascondeva lì dentro, che avrei avuto una risposta. 
Sbuffai indispettito mentre mi ravviavo i capelli con le mani. Non potevo mettere piede lì dentro. Senza nemmeno la Chiave, poi. Bastava mancassero quegli stupidi manufatti perché il Grande Tempio non fosse altro che un'inutile grotta con le pareti pitturate. 
Lanciai uno sputo oltre la spalla e ripresi a scendere il fianco della conca, la redingote che si impigliava ogni due passi in un qualche cespuglio. – Scendiamo? E dove? – biascicò Thomas. C'era una nota scettica nel suo tono. 
– Giù – replicai in maniera più che esauriente. – Verso il Tempio. 
Hickey mi affiancò di corsa, una strana scintilla a brillargli negli occhi scuri. – Sul serio? – sbottò, felice come un bambino in vista del Santo Natale. – E che si fa? Si entra?
Scrollai il capo in una risatina. – Magari. – Gli feci cenno di stare giù e proseguimmo a camminare piegati in due come degli idioti – o dei cacciatori, predatori –, le mie ginocchia e la schiena che ancora opponevano una certa dolorosa resistenza, ma almeno eravamo certi di essere totalmente nascosti dalla macchia. – Adesso si aspetta, Thomas – sussurrai mollandogli una pacca sua schiena. – Adesso si aspetta.
Così aspettammo. – E quale sarebbe questo Grande Tempio? – chiese Tom pochi minuti dopo che il sole aveva cominciato a illuminare, anche se parzialmente, la ripida parete di roccia. Se ne stava lì, in piedi con un ramoscello in bocca, a scrutare i sassi come se non ne avesse mai visto uno.
Aspettammo molto. – Quella specie di bocca laggiù, sotto quel grosso ramo ancorato nella terra. L'hai visto? – Avevo studiato e tenuto d'occhio il buco per tutto il giorno, in attesa di vedere Reginald e Charles entrare lì dentro. O uscirne. Bastava si facessero vivi. 
– Ah. Ah, sì, credo di sì. – Tom si sedette di nuovo a terra, le gambe incrociate e le spalle incurvate verso le ginocchia. – Credi che siano lì dentro? 
No. Non lo credevo, ne ero quasi certo. Eppure gli risposi facendo spallucce. Non mi andava di dar voce alle mie peggiori paure e insicurezze proprio davanti a lui. – Allora perché ce ne stiamo qui? Non potremmo ucciderlo e basta?
Roteai gli occhi con una smorfia scocciata appiccicata sul viso. – Non credo che Connor sarebbe d'accordo – sibilai tra me e me. – La Mela ce l'ha lui. Se vuole ancora aiutarmi devo... Sono quasi in debito con lui. Sarebbe scorretto. E poi non sappiamo quanta gente ci sia effettivamente in quella grotta. – Avevo pensato anche a quello, l'evenienza che Reginald si fosse portato dietro un esercito, ma non era un'ipotesi cui davo molto credito. La sua strategia era sempre stata quella del "pochi, ma buoni". Il rito coloniale aveva contato al massimo sette, otto membri, e gli Assassini eravamo riusciti ad ammazzarli lo stesso. 
Una delle soddisfazioni della vita, eh? – Uhm. – Thomas si sbracò con i talloni e i gomiti affondati nel fango, neanche fosse lì ad aspettare da tutta la vita. – Questo è vero, ma aprire il Tempio dopo che sarà crepato dovrebbe essere più facile, no? Perché aspettare? 
Sbuffai ancora. – Perché voglio entrarci davvero, Thomas, e se per puro caso Reginald avesse nascosto la Chiave in qualche buco sconosciuto potrei perdere per sempre anche l'unica possibilità che ho. – Abbassai lo sguardo sulle mie ginocchia. Non avevo voglia di parlargli di quelle cose. Pensavo non avrebbe capito. – Dobbiamo farla insieme. Questa cosa, intendo. Altrimenti...
– Ah – m'interruppe Tom, – sei ancora convinto che noi e quei ragazzini incappucciati possiamo collaborare, giusto?
Gli scoccai uno sguardo indispettito. – Non si tratta di esserne convinto – replicai. – È il mio scopo. Il mio piano. 
Le sue labbra si arricciarono in un ghigno. – Ma pensi davvero che possa funzionare? 
Sì? No? Dio mi fulmini. Non riuscivo a trovare una risposta. – La pace è ciò che entrambi vogliamo. Devo essere onesto, Tom? Al diavolo il controllo sulle Colonie e su questa gente, che se lo tenga Washington. Io sono vecchio. Sono uno stupido vecchio che ha sprecato la propria vita ad ammazzare convinto che ci fosse una qualche utilità, un fine. Apri bene le orecchie, ragazzo, perché non è così. Niente di ciò che abbiamo fatto servirà mai a soggiogare dei contadini che vogliono farsi una nuova vita da questa parte del mare. Sono già controllabili. Lo siamo tutti, lo siamo da sempre. Con noi al potere le cose andrebbero meglio? Non lo so. Non riesco nemmeno a pensarci. Tutto quello che so è che la disputa tra noi e gli Assassini è inutile. Basta che uno apra bocca per farsi puntare una pistola alla testa dall'altro. Invece di esaminare le nostre ragioni e ciò che potremmo trovarvi di buono ci spariamo addosso in base alle nostre armi o agli anelli che indossiamo. Ci stiamo fregando con le nostre mani, Tom. E io non lo tollero.
Chinai il capo, la fronte soppesata nel palmo della mano, e rimasi a guardare la terra tra le mie gambe con una smorfia. Ecco. Gliel'avevo detto. Pensavo che l'Ordine avesse uno scopo, e non era proprio una bugia. Aiutava a capire meglio gli uomini, come ragionano, cosa vogliono. Era diventata una guerra priva di senso, la nostra. Presto sarebbe arrivata un'altra generazione di Templari, e magari loro sarebbero riusciti a portate l'ordine nel mondo e far inchinare tutti alla Croce, ma non era quello che volevo, e non era nemmeno quel che voleva Reginald. 
Il vecchio bastardo voleva me. Voleva Thomas e voleva Charles, dei burattini da mandare in giro per il Nuovo Mondo a spargere sangue e propaganda. Chi pensavamo di controllare se eravamo i primi a obbedire a degli ordini solo in quanto tali? 
Ucciderlo. Pensare a una tregua. E se ci fossero stati problemi avremmo trovato una soluzione. Insieme. 
Una scintilla d'orgoglio s'accese nel mio petto. Una tregua. Non c'era mai riuscito nessuno, e mi sentivo così vicino a quel risultato da esserne quasi commosso. – Altre domande?  
Quando sollevai lo sguardo su di lui vidi che aveva tirato fuori dalla testa una vecchia fiaschetta di latta. Gesù Cristo, pareva non riuscisse a muovere un passo senza la sua dose quotidiana di alcolici. – Una ce l’avrei – sussurrò con un ghigno. – Sicuro che te lo possa chiedere? – Allargai le braccia, come a dire che provare era sempre lecito. Al limite gli sarebbe arrivato un pugno in faccia o, perché no, una pallottola tra gli occhi. Per davvero, questa volta. Rimasi lì a guardarlo, in attesa di ascoltare il suo misterioso interrogativo. Thomas aveva gli occhi accesi, vivi, le labbra poggiate alla fiaschetta e l'espressione scaltra che gli campeggiava in viso sempre più di frequente da quando ci eravamo piazzati davanti al Grande Tempio. Dovranno uscire di lì, prima o poi, pensavo di tanto in tanto, osservando la bocca della caverna circondata dalle fronde cadenti come i capelli unticci di una vecchia zingara. Dovranno pur farsi vedere. E ogni secondo che passava ero più frustrato, irritabile e stufo. Non ce la facevo più, maledizione. – Di' pure – grugnii stropicciandomi gli occhi con le mani.  
Tom si sistemò più comodo, un braccio intorno alle ginocchia. La vista di quel suo sorrisetto furbo fece venire voglia di bere anche a me, così gli intimai di passarmi la fiaschetta agitando una mano. Prendila così. Se Reginald decidesse di giocare con te saresti già più che rilassato, no?
Strinsi forte i denti, sperando che il dolore bastasse a scacciare i pensieri, e Thomas mi allungò il contenitore metallico con una smorfia soddisfatta. – Che farai quando esaurirai il tuo repertorio di bestemmie e loro saranno ancora lì dentro? 
Levai gli occhi al cielo della Valle Mohawk, i raggi del sole che facevano capolino dalle macchie di alberi alle nostre spalle. Speravo che la tranquillità di quell’ambiente e l’alcool mi aiutassero a mantenere la calma fino all’arrivo di Connor. Fino alla resa dei conti. – Ne inventerò di nuove, suppongo. – Inclinai la fiaschetta sulle labbra e mandai giù un lungo sorso di liquore, asciutto e bruciante lungo la gola. Gin. Era incredibile pensare quanto quella roba sapesse di casa. – Birch e Lee hanno già un vantaggio fin troppo grande, fidati. – Mi sarebbe piaciuto avere l’effetto sorpresa dalla mia parte, ma ero giunto alla conclusione che più tempo passavamo lì in attesa di Connor e più Reginald si sarebbe insospettito, strappandomi dalle dita anche l’unica arma che mi era rimasta.
Gli cedetti la fiaschetta con un brivido che galoppava rapido su per la spina dorsale. Volevo essere il più lucido possibile, quando avrei messo piedi nel Tempio. – Fantastico! – Tom se la riprese e schioccò la lingua, soddisfatto. – E per quanto riguarda il bastardo e il suo ritorno a casa? – Tentennò, pronunciando le parole seguenti con più cautela. – Voglio dire... Se ci avesse mollati qui alla faccia della sua incrollabile moralità? 
Oh, Gesù, perché non smetteva di essere così pessimista? – Be' – replicai incrociando il suo sguardo. Un sorriso mi si stava formando sul volto, un po' come quando in gioventù ammazzavo un bersaglio che avevo cercato con tutta la fatica e la passione dell’allievo ansioso di mettere in pratica le proprie competenze. – Potremmo sempre andarlo a cercare e farlo al forno con la Mela dell'Eden in bocca. Oppure, mah, potresti chiudere quella cazzo di bocca e pensare a un piano.  
Si strinse nelle spalle e levò i palmi al cielo. – Ehi, ehi, io te l'ho proposta un'idea. 
– Piazzarmi con i calzoni abbassati davanti all'ingresso non è un'idea, Tom. – Strinsi la base del naso tra due dita e reclinai la schiena contro il cespuglio dietro il quale ci eravamo appostati, i rami appuntiti che mi pugnalavano alla schiena come bastardi traditori. – È solo un'altra delle tue stronzate. 
Scoppiò a ridere. – Io dico che funzionerebbe. – Lo fulminai con un’occhiata e cambiò rapidamente discorso. Saggia decisione, amico mio. – D’accordo. D’accordo. Piuttosto, che ne dici una sega? 
– Tom. 
– E dai, Haytham, che cazzo vuoi ora? Siamo soli in mezzo al niente, senza nulla da fare e nulla da perdere. – Sollevò la fiaschetta al nulla e si grattò una crosta sul collo, in corrispondenza della vecchia ferita di Achille. Quando ancora pensavo di non essere l’unico idiota a volere la pace tra le nostre due fazioni. Ah, i bei tempi andati. – Io dico sega.
Che il diavolo se lo portasse. – Scordatelo, Tom – bofonchiai scuotendo la testa. 
– Allora, allora, allora... Facciamo così. – Mi mostrò i denti, sfilando un vecchio coltellaccio male affilato dallo stivale. – Io ti faccio un'altra domanda e tu mi rispondi sinceramente. Dai un'ultima occhiata alla bocca dell'inferno o quel che cazzo è e poi ci facciamo una sega. Una piccola. – Socchiuse gli occhi e ritrasse le labbra, facendo schioccare la lingua in una smorfia preoccupata. – Su, capo, non dire che non ne hai bisogno. 
Sbuffai. – Le tue idee non hanno senso. Non ne hanno mai. – Ma d'altronde non mi resta niente di meglio, no? Sollevai gli occhi e le mani al cielo, cercando di raccattare tutta la mia pazienza e usarla come uno scudo dalle sue idiozie. – E sia. – Come se, in fondo, non avesse ragione lui. Una mano sull'uccello mi avrebbe calmato, forse. 
– No, no, ehi, attento. Prima la domanda. 
– È una domanda seria, Tom? 
Si premette il palmo sul cuore, come quando aveva giurato fedeltà al Re. Prima di partire per le Colonie, unirsi ai Templari e attentare un paio di volte alla vita di George Washington. – La più seria che mi uscirà mai di bocca. 
Allora è tutto dire. Gli feci cenno di proseguire, e quello si poggiò il mento sulle mani come una comare di paese ansiosa di sapere le ultime nuove sulla moglie di questo o quel tale. – Tu non ci hai mai portati qui – esclamò con un cipiglio indagatorio in viso. – Non hai mai fatto vedere a nessuno di noi il maestoso sito dei Precursori. Ora. – Drizzò la schiena e unì le punte delle dita in un gesto teatrale. – Avevi paura che beccassimo le macchie di sperma? 
Si prese uno scappellotto senza nemmeno essene avvisato, ma non riuscii a trattenere una risata convulsa e silenziosa. Solo un uomo con il suo stupido senso dell’umorismo sarebbe riuscito a dire una cosa del genere in quel momento, con il rischio di morire rintanato in una caverna a un centinaio di passi da dove ci trovavamo. – Cosa ti fa pensare che io scopassi lì dentro? – E con chi, poi?
Si strinse nelle spalle, già pronto a sfibbiarsi i calzoni. – Boh. Sai, come idea aveva una certa atmosfera. – Si prese l’uccello in mano con un gesto fulmineo e stese le gambe, il retro dei calzoni che ormai doveva essere completamente imbrattato di fango e altre schifezze. – Su. Avevi promesso, capo.
Roteai gli occhi e mi voltai, dando le spalle al Grande Tempio mentre cercavo con gli occhi un punto in cui la terra non grondasse acqua stagnante. Dio, nonostante fossimo appena alla fine dell’estate c’era talmente tanta umidità nell’aria da farmi rimpiangere gli inverni passati nella Frontiera e le meravigliose traversate sull’Aquila in compagnia del costante mal di mare di Tom.
Anche quand’ero stato lì per la prima volta era estate, ora che ci pensavo. Luglio. – Capo? Si comincia? – Tom mi diede di gomito, ma lo ignorai apertamente. Lo vidi con la coda dell’occhio fare spallucce, sputarsi su una mano e cominciare a muoverla, il bicipite contratto e i piedi che sciaguattavano nel fango.
Stavo pensando a Tiio, il cuore bloccato nella trachea e incapace di schiodarsi di lì. Erano passati ventitrè anni. Ventitrè maledettissimi anni, e c’erano cose di lei che non riuscivo più a ricordare. Piccoli dettagli. Non importava in quanti sogni o visioni potessi ammirarla, ero convinto che qualcosa di lei in quei ricordi non fosse vero. C’erano macchie sulla sua pelle, nei e lentiggini di cui mi ero dimenticato? E le sue mani? Il suo collo? L’idea di portare nel cuore un’immagine di lei sfuocata e distora mi scombussolava. C’era qualcosa di sbagliato in me, nel mio assurdo modo di amarla. Tiio non era la donna giusta da immaginare con una mano dentro i calzoni. Il nostro non era quel tipo d’amore. Per quanto cercassi di ricordare le nostre conversazioni e i momenti in cui eravamo felici, quelli sembravano sfuggirmi dalla testa o sostituiti da pallide e banali imitazioni degne di un romanzetto da due soldi, e i nostri ultimi momenti, quando il suo astio mi aveva colpito doloroso come una mazzata nelle reni, erano più vivi che mai. Potevo ignorarli, fingere che niente di tutto ciò fosse mai accaduto, ma sapevo benissimo che non era la verità, così come lo sapeva la Prima Civilizzazione. E potevo scommettere tutti i miei miseri averi che avrebbero usato quella parte del mio passato contro di me. Sarebbero stati stupidi a non farlo, mi ripetevo, così come io ero stato un idiota a nasconderli come macchie su una camicia.
– Tom.
– Uh. – Schiuse un occhio, l’altro prepotentemente serrato mentre la mano destra continuava a salire e scendere imperterrita. – Che c’è? – sussurrò, la voce strozzata.
– A che stai pensando? – Era una domanda imbarazzante, diavolo, ma se non a lui a chi potevo rivolgerla? Connor? Washington? Un sasso? Piuttosto mi sarei tagliato la mano.
Strizzò di nuovo le palpebre e sussultò. – Un paio di tette e una che si versa una birra addosso prima di farsele succhiare. – Mi scrutò come prima, solo da una parte, e scoppiò a ridere davanti alla mia espressione stranita. – Che c’è? Ognuno ha la sua fissa, no? – Si diede una strizzata all’uccello, come se solo parlandomi l’erezione rischiasse di sfuggirgli di mano. – Di certo Reginald non ti accoglierà a braccia aperte quando saremo lì dentro. Non fare lo schizzinoso, cazzo, potrebbe essere l’ultima occasione della tua vita.   
Confortante, cazzo. – E va bene – esclamai esasperato, gli occhi agli alberi intrecciati sopra di noi. Era una questione di fantasia, giusto? Fantasia. Non mi veniva in mente nulla di eccitante. Ero sempre stato un realista, l’immaginazione non era esattamente il mio forte, nemmeno in momenti come quelli.
Lanciai un’occhiata in direzione del Grande Tempio. Soprattutto in momenti come quelli, forse. Da un altro punto di vista, Thomas aveva ragione. L’eventualità di morire in quella caverna mi alitava sul collo come un cane da caccia, e continuare a pensarci non mi avrebbe aiutato in nessun modo. Quindi, be’, tanto valeva provarci. Sfibbiai i calzoni con le dita intorpidite, quel tanto che bastava per infilare una mano nelle mutande. Poi chiusi gli occhi e mi umettai le labbra, cercando di pensare a qualcosa che non riguardasse…
…due gambette striminzite e l’enorme sagoma di Reginald alle mie spalle, le mani serrate intorno al mio bacino e la bocca schiusa nell’espressione del piacere più assoluto…
…il terrore che colma il mio petto mentre mi passo le mani sulla faccia e mormoro che non succederà più, non succederà mai più, e nello stesso momento lui torna, s’inginocchia accanto a me e mi poggia una mano sul ginocchio, come avessi ancora dieci anni. La fa scorrere lungo la gamba e sussurra che andrà tutto bene. “Sei stato bravo”, sibila con quella maledetta voce viscida che odio, ma di cui non posso fare a meno perché è l’unica cosa che mi resta. E il palmo scorre verso il cavallo dei miei calzoni, impiega una frazione di secondo a infilare la mano sotto la stoffa e stringere, facendomi irrigidire fino alla punta dei capelli. “Meriti una ricompensa”, ma questa non è una ricompensa, è una punizione, è paralizzante. Muove quella maledetta mano su e giù mentre mi mordicchio le labbra con le lacrime agli occhi e tiro su col naso, preda dei sensi di colpa. Perché è una cosa terribile, diavolo, ma fa sentire caldo. Quel tipo di calore piacevole che non posso ignorare. “Datti una rinfrescata.” Il tipo di calore che mi fa correre nella toeletta con una mano sulla bocca appena la porta della mia stanza si chiude di nuovo e affondare la faccia nel catino pieno, aspettando che le bolle smettano di turbinarmi attorno e l’intero mondo, quell’orrore là fuori che continua a ferirmi come se non ne avessi già passate abbastanza, svanisca.
Quando tiro la testa fuori dall’acqua i polmoni hanno troppo bisogno d’ossigeno per sprecarlo in singhiozzi e lacrime o in qualsivoglia pensiero. Scivolo a terra e cerco un punto fisso nel muro di fronte a me, qualcosa da fissare che non faccia male, che non abbia alcun contatto con la mia vita e possa aiutarmi a resistere un altro giorno, perché posso avere sedici anni, ma non sono un idiota.
Se metto piede fuori sono morto. Mi daranno la caccia e mi riporteranno qui dicendo quanto sia stato un cattivo ragazzo e un pessimo allievo. E se le ricompense di Reginald mi fanno questo non posso pensare alle punizioni.

Resistere un altro giorno. Solo uno, con la sua voce che continua a tormentarmi.
“Datti una rinfrescata”, mi risuona in testa.
Mi alzo in piedi a fatica, le gambe che mi reggono per miracolo.

Solo un altro giorno…
…la vecchia vita, insomma.
Tom venne nello stesso istante in cui mi alzai in piedi, piegato in due come un giocattolo rotto. – Oh, sì. – Oh, Dio, no. Sentivo il fiato scorrere denso e a fatica nella trachea, neanche stessi cercando di buttare giù della lana. Nel frattempo Thomas tirò un paio di respiri cauti, come fosse stata la migliore scopata immaginaria della sua vita.
Oh, Dio. Non avevo mai avuto un ricordo simile prima di allora. Strofinai le mani sulla bocca con un singhiozzo, incanalando tutta l’aria che i polmoni riuscivano a contenere. Il ventre mi bruciava, infiammato dal dolore di quelle immagini, i muscoli come contratti tutti insieme a una velocità paranormale. Le gambe sembravano volersi torcere su loro stesse e farmi crollare di nuovo a terra, nel fango da cui ero venuto, e tutto il mio corpo si consumava nelle fiamme dell’orrore che avevo vissuto. Strizzai le palpebre sugli occhi infiammati e asciutti e afferrai due ciocche di capelli sulle tempie, rischiando di strapparle via, per impedire a quello schifoso ammasso di ossa, muscoli, tendini, cervello e memorie di saltare in aria, esplodere e spargersi sull’erba fangosa, sulle foglie ancora verdi, tingendole di rosso e bianco e nero.
Che altro colore potrebbe avere quella vita?
– Capo… – No, no, zitto, Tom, zitto, per carità di Dio, lasciami in pace. Non mi vedi? Non vedi che sto impazzendo? – Tutto bene? – Non vedi tutto il male che ho fatto? Serrai le palpebre, ma le lacrime non volevano saperne di uscire. Come allora, avevo bisogno di un punto nel vuoto in cui guardare, qualcosa che mi aiutasse a tirare avanti un altro po’. Il necessario e niente di più. Diavolo, Tom, non vedi tutto il male che ho dovuto sopportare?
– Lasciami… solo – riuscii a sussurrare. – Tu e le tue idee del cazzo. – Non mi venne nient’altro da dire e rimasi bloccato in quella posizione, facendo scendere lentamente le mani verso le tasche, le palpebre che si aprivano lentamente. C’era un sassolino con la forma precisa della Scozia lì, incastonato nel fango accanto ai miei piedi.  
Tirare avanti un altro po’. Non era questa grande pretesa, in fondo.
Mi lasciai cadere all’indietro, piano, le braccia strette intorno alle ginocchia. Lanciai uno sguardo all’ingresso del Tempio, sopra la spalla e oltre i cespugli, i pugni serrati e traboccanti odio.
Era lì dentro. Doveva essere lì dentro, perché se fosse stato in mezzo alla Frontiera, come noi, con il cannocchiale puntato su di me e sulla mia patetica disperazione per trarne… cosa, di preciso? Gioia? Soddisfazione? Piacere? Non importava. Il semplice fatto che mi osservasse in attesa di vedermi crollare era sufficiente ad aizzare la rabbia che covavo nel petto. Reginald Birch non era un brav’uomo, anzi, era probabilmente uno dei più crudeli che avessi mai conosciuto, e nessun’azione avrebbe mai potuto renderlo peggiore. Aveva già toccato il fondo, e io ero lì per rispedirlo al Creatore.
Chi avrebbe mai potuto creare spontaneamente una persona così? Un Dio che manda sulla terra uomini con una mente del genere meritava di essere considerato tale? Se fosse esistito, be’, se lo sarebbe dovuto riprendere proprio come lo aveva plasmato, perché l’avrei ucciso.
Non c’era nessun altro pensiero che potesse farmi sentire vivo. Nessuna maledetta sega, nessun alcolico o interrogativo esistenziale.
Solo quella che era sempre stata la base della mia routine quotidiana. L’omicidio.

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Capitolo 66
*** Come muoiono i cani. ***


Note dell'autrice:
Due parole di numero, ve lo prometto.
So, ho pubblicato oggi perché, per qualche strano motivo, ieri EFP ha dato i numeri e non ci sono riuscita, sorry, D:
Vabbè, a dire il vero è perché ho tipo appena finito di scrivere il capitolo, ma sono dettagli, LOL.
Ah, e il titolo del capitolo non è frutto di una mia invenzione, ma ho citato/copiato il titolo di un capitolo di "Il richiamo delle spade", Joe Abercrombie. I diritti dell'opera appartengono a lui e bla, bla, bla, lo sapete tutti.

Va beeene, direi che chiudo qui e vi lascio al capitolo, scusate ancora, alla prossima! :3

Passarono tre giorni prima che Connor facesse finalmente la sua comparsa dalla Frontiera, tre giorni in cui Tom non aveva fatto alcuna domanda riguardo ciò che mi era accaduto, pensando solo a menarsi l’uccello per i fatti suoi e recuperare il sonno perduto durante la ricerca della strada per il Tempio. Si affacciò nel nostro rifugio tra i cespugli, ormai più simile a una cloaca sudicia, torreggiando come una montagna. giusto in tempo per vedere Thomas venire e farsi arrivare uno schizzo sulla punta degli stivali. Non riuscii a trattenere un sorrisino mentre facevo scattare la lama celata e la lucidavo per l’ennesima volta. Le armi erano state un mio pensiero fisso, in quanto indispensabili per uccidere. Tanto valeva preoccuparsi di quelle piuttosto che lasciarsi trascinare di nuovo all’inferno, così come valeva la pena di sdrammatizzare, quand’era possibile.  
Non su quello, uno dei tabù che la mia mente si era imposta insieme con il possibile tradimento di Charles e il mio ultimo incontro con Tiio. O la sua morte. O qualunque cosa la riguardasse. Il mio passato era un argomento da lasciare fuori da qualsiasi discussione. Non riuscivo a pensarci, figuriamo farci una battuta sopra. – Bentornato – brontolai con un sorriso tirato. – Allora, c’è ancora la guerra o il tuo eroico comandante generale è riuscito a sistemare tutto quanto?
Si strinse nelle spalle e scoccò un’occhiata bieca a Thomas. Lui e le sue pippe portavano un po’ sfortuna, a quanto pareva. – Lee è stato sospeso dal suo incarico e…
– Ci credo, è lì dentro. – Tom si alzò in piedi spolverandosi i calzoni e sputò a terra. Dopo tre giorni di attesa in cui la Frontiera era stata più silenziosa di un cimitero, quella era stata la sola spiegazione plausibile cui eravamo giunti. Ci stavano aspettando all’interno, perché senza di me e senza la Mela Reginald non sarebbe andato da nessuna parte. – Sei ancora convinto che Sua Santità Georgie meriti la tua comprensione? – Era una domanda che avrei voluto porgli anche io, ma non avevo nessuna voglia di ascoltare la risposta. C’era Hickey, no? Lui era ancora abbastanza sano di mente da sopportarlo, da potersi concentrare su qualcosa che non fosse impedire alle proprie cervella di schizzare via dal capo.
– Ha fatto ciò che serviva per la guerra – grugnì il ragazzo, – ma non ha più importanza. Il villaggio è salvo. – Abbassò lo sguardo, la voce ridotta a un sussurro. – Haytham.
Oh, Dio, e adesso che diavolo voleva? – Che c’è, io sono a un livello troppo basso per te e i tuoi modi aristocratici? – Thomas incrociò le braccia e ruttò, guardandomi con interesse e sfida. Come potesse ruttare ingollando soltanto carne secca e sorsi di gin era un mistero impossibile da risolvere. – Ecco, sentiamo un po’ cos’ha da dirti il bastardo.
Roteai gli occhi. – Volevo solo rispettare i patti – mugugnò a capo chino, scavando nella sacca che teneva sulla schiena. – L'ho portata.
Era una strana situazione, perché non mi sarei mai aspettato accadesse così in fretta, anzi, a essere onesto non pensavo neanche più potesse accadere, ma era lì. Davanti a me. Mio figlio era vivo, reale, tangibile, e stringeva tra le mani una palla di vetro simile a una perla, ma grossa come la testa di un bambino. – Al mio villaggio l’hanno chiamata Sfera di Cristallo, ma hanno garantito che è… – Deglutì a vuoto, forse ricordando che quel meraviglioso manufatto gli aveva fatto parlare per la prima volta con Giunone. Lo aveva fatto diventare un Assassino, indirizzandolo a piantare la bandiera dall’altra parte del fronte rispetto a me. Razza di stronza, pensai, ma al contrario di quanto mi aspettavo non ci fu alcuna reazione, niente scariche elettriche né fiotti di dolore dentro la testa.
La bocca mi si allargò in un’espressione stupefatta senza che potessi controllarla quando Connor tese lentamente la Mela verso di me. – Funzionerà esattamente come una Frutto dell’Eden. – Ovvero? Manderà in frantumi la mente di chiunque non sia abbastanza forte d’animo da controllarla?  
Dovetti trattenermi dallo squittire come un bambino eccitato e battere le mani mentre quella sfera di limpido cristallo, completamente diversa da come me l’ero immaginata, dall’interno perlaceo e corposo, come fosse piena di fumo, si avvicinava a me. Sentivo uno strano calore nel petto solo a guardarla, come se il sangue stesse ribollendo nelle mie vene. – La meriti davvero?
Mi resi conto di non respirare e, quando sollevai lo sguardo su di lui, per poco non gli risposi con un grugnito interrogativo. – Per Achille. – Fortunatamente ci era arrivato da solo. Non avrei sopportato di sentirlo mettere in dubbio le mie credenziali come Templare e come Gran Maestro. Non anche da lui, per favore.
Allungai cauto le dita verso la superficie di cristallo. – È per entrambi. Anche tu vuoi… – Non mi lasciò neanche finire, come se tutta quella storia fosse diventata troppo pesante anche per lui e volesse solo farla finita. Mi mise la Sfera in mano e fece un passo indietro, lo sguardo basso e triste mentre io non riuscivo a credere ai miei occhi.
Dio, quando vi strinsi le dita attorno sentii un brivido correre lungo tutta la mia schiena, gli occhi colmi di gioia. Era lì. Era tra le mie mani. Potevo governare il mondo. – Mi è costata molto, Haytham. – Dimentica i tuoi sogni di gloria. Sollevai un sopracciglio, osservando i suoi occhi fissi sugli stivali. Aveva le palpebre mezze abbassate su quello sguardo scuro e deciso. Mi aveva appena portato la Mela dell’Eden, sfotterlo sarebbe stato troppo persino per me. – Il villaggio mi ha bandito. Riporterò loro la Mela e non vi metterò mai più piede. Come se non fosse mai esistito. – Strinse i pugni fino a farsi diventare le nocche bianche mentre assaporavo dolcemente la sensazione del potere che mi scorreva sotto le dita. Era il Paradiso, se esisteva davvero.
Qualcosa che, sicuramente, la morte non mia avrebbe mai concesso. Che l’assaggiassi in vita, dunque. – Mi dispiace – sussurrai. Cos’altro avrei potuto dirgli? Non sarebbe cambiato niente. Aveva comunque ammazzato il suo migliore amico, così come mi aveva aiutato nonostante sapessero che ero un Templare, amicone di quell’altro che aveva cercato di comprare la loro terra, oltre che di Charles Lee in persona. Se quella era la punizione che il suo villaggio voleva infliggergli per aver scelto un’altra strada, quella degli Assassini e dei patrioti, io ero l’ultima persona in grado di cambiare le cose.
Connor si si strinse nelle spalle con un sospiro, tenendo gli occhi fissi su quel manufatto. Sembrava guardasse un vecchio ricordo di famiglia che gli stavo rovinando. – Quindi Lee ha abbandonato il campo di battaglia per tornare da Birch – brontolò mentre s’inginocchiava nella terra insieme a noi. Gli scoccai un'occhiata triste e affilata come la punta di una freccia. Si stava indurendo, quel povero sciocco. Cambiava discorso per pensare a ciò che andava fatto, piuttosto che rimpiangere gli errori cui non poteva più porre rimedio. Una mossa da vigliacchi, da Kenway. 
Da Templari. – Pare di sì – replicai lasciando cadere la Mela nella tasca della redingote. Sembrava irradiare uno strano calore, quasi magnetico, che si batteva furioso contro il vento freddo di quella strana estate e mi scaldava la coscia come una mano amica. Come la pistola qualche giorno prima, quando avevo rischiato di ammazzare Thomas. Rabbrividii, facendo del mio meglio per non darlo a vedere. Almeno, speravo fosse così. – È lì dentro. Con Reginald. – Arrotolai la lingua in bocca e sputai a terra, cercando di liberarmi dello schifoso sapore acido che sentivo intorno ai denti e all'interno delle guance. Non era facile come mi sarei aspettato: appostato lì come il peggiore dei cagasotto, sentivo un peso costante sulla vescica all'idea di abbandonare il mio rifugio sicuro tra le fronde per andare incontro alla morte, in caso le cose fossero andate male. Da entrambe le parti dovevamo essere pronti allo scontro, e avevo passato gli ultimi tre giorni ad arrotare ossessivamente le armi fino a rendere letale anche solo sfiorarle. Ecco quanto avevo dalla mia per combattere la paura, quel terrore di morire che mi cresceva freddo e irrazionale dentro il petto: una cote, armi ben affilate e tutto il fegato che sarei riuscito a mettere insieme.
Dite ciò che volete, io sono un uomo schietto. Reginald poteva avere chissà quale arma segreta dalla sua, e farmi uccidere da Charles avrebbe portato a termine il più eccitante scontro tra rottinculo – resi tali da lui, per di più – di tutto il secolo. E quello che fosse rimasto in vita avrebbe vinto una scopata. Oh, buon Dio. 
La colpa non era tutta mia, eh. Non guardatemi in quel modo. Forse era Tom. Doveva essere infettivo, con i suoi pensieri sessualmente maniacali verso qualsiasi cosa. 
Il fatto era che avevo paura. Più di quanto volessi ammettere a me stesso, molta di più. – Quindi? – Perdio, ragazzo, lascia che me la faccia addosso in santa pace ancora cinque minuti. Con la Mela in mano, con Connor finalmente insieme a noi, non avevo più scuse per ritardare la maledetta resa dei conti.
Il ragazzo portò la mano al tomahawk. – Ho un conto in sospeso con Charles Lee. – Feci schioccare la lingua, pensando che era vero, alla fine, ma non potevo permetterglielo. Non l’avrei permesso a Thomas e alle sue patetiche scommesse, di certo non avrei lasciato che un ragazzino assetato di vendetta sfogasse la propria rabbia sul figlio che mi era sempre mancato. Charles Lee era stato la costante della mia vita prima che spuntasse Connor e persino dopo, in un certo qual modo. Era l’unica persona rimasta che valesse la pena salvare. 
Lo volevo vivo, ecco. Non mi andava di credere che fosse davvero dalla parte di Reginald. Non poteva esserlo, non dopo tutto quello che gli aveva fatto. Sarebbe stato... Dio. Sarebbe stato immorale. Peggio, la morale non c’entrava più niente. Sarebbe stato un errore, semplicemente, perché non era nato per essere il suo schiavo. Charles era un ragazzo indipendente, curioso, fiero di sé. Avrebbe dovuto ribellarsi in nome di questo. In nome di se stesso, diavolo.  
E tu sei l'esperto, eh? Mi passai un dito sul sopracciglio, frustrato, e sputai a terra. Nessuno avrebbe mai dovuto appoggiare un uomo come Reginald. 
Ma, ehi, io ero quello cui sarebbe piaciuto vederlo lavorare con me e Tom, come un nostalgico che agisce in memoria dei vecchi tempi, e nonostante tutto avevo lasciato che Thomas giocasse con lui e gli infilasse una mano nel culo. Chi volevo prendere in giro? Non ero poi migliore di Reginald solo perché la mano non era mia o avevo scacciato Tom quando aveva iniziato a farlo. Ero... 
– Capo, gli anni passano quaggiù. – Ah, e come avrei potuto disfarmi di Tom? Mi teneva con i piedi per terra, mi ricordava che il mondo è soltanto una schifosa cloaca e gli uomini sono ratti da fogna, esseri immondi e meschini, senza alcun reale interessamento l'uno per l'altro. Ci nutriamo di carcasse e le dividiamo, ma siamo sempre pronti a pugnalarci alle spalle per un pezzo più grosso di cui qualcuno vuole privarci. 
Tom mi ricordava ciò per cui mi stavo battendo, e sapevo che, in cuor suo, anche lui teneva ai nostri fini. Me l'aveva giurato, per quanto potessero valere i suoi giuramenti. Era un Templare, no? Era... era uno di noi. Era lì per se stesso? Sicuramente, ma una parte di me era ancora convinta che credesse nell’Ordine.
Che credesse in me. Probabilmente mi avrebbe seguito in capo al mondo se dopo gli avessi offerto un giro a puttane o una birra. Mi piaceva pensare che uno scopo gli servisse davvero. Nessun uomo va avanti solo a bere e a scopare troppo a lungo, non senza crepare nella disperazione, la faccia affondata in una pozza di vomito in un sudicio vicolo di New York. – Avete ragione – sibilai strofinandomi le dita alla base del naso. – Dobbiamo farlo. – Prima che tutta quest'ansia mi faccia impazzire. Battei le mani e mi voltai verso di loro, indicando con il pollice la bocca del tempio circondata da qualche rada fronda – l'ultimo residuo di cui quell’estate vestita da autunno ci aveva beati, prima che arrivasse il gelo a fare solo una trappola mortale di rami appuntiti.
– Connor, tu sarai il primo. – Il ragazzo mi scoccò un'occhiata di sbieco. Non è che volessi sacrificarlo. Roteai gli occhi in un impeto di stizza. – Mi serve qualcuno che lo distragga.
Thomas fece schioccare forte la lingua contro il palato. – Capo, a costo di sembrarti indiscreto, ma... perché non usi la Mela e fai fuori Reginald?
Già, perché? Oh, chi lo sa, Tom, forse perché ho sentito storie di uomini impazziti per quella roba e il suo potere e, Dio m'è testimone, l'ultima cosa che voglio è crepare a questo punto della commedia solo perché sono troppo stupido per elaborare un piano più sicuro. – Semplice – bofonchiai con una scollata di spalle. Ero stanco. Spaventato. Ma la fine era lì. Dovevo solo raggiungerla. – Se per sbaglio quell’affare facesse esplodere qualcosa e ti andassero a fuoco i peli del culo mi spiacerebbe di dover stare a sentire le tue lamentele, almeno quanto a te spiacerebbe avere l’odore di peli bruciati proprio sotto il naso. Meglio organizzarsi per bene, non ti pare? 
Storse la bocca in una smorfia e poi fece spallucce. Fortunatamente qualcuno coglieva ancora il sarcasmo, in quella stupida foresta. – Come preferisci, capo. – Si tirò in piedi, i calzoni affibbiati alla bell’e meglio, e stese le braccia in un fragoroso sbadiglio, il tricorno che sbucava sopra i cespugli. Connor lo trascinò brutalmente giù per una manica mentre Tom metteva in mostra i denti come un vecchio mastino. – Ehi, che cazzo vuoi, bastardo? Stai alla larga. – Altrimenti abbaia. Scappa. 
– Mi dareste retta per cinque secondi, voi due? – Perché non potevo prendere un ramo, infilarmelo in un occhio e lasciarmi morire? Sarebbe stato più facile. – Connor, tu sarai la nostra avanguardia. – Gli si disegnò un'espressione perplessa sul viso, che si dispiegò appena il suo cervelletto ricordò di aver già inserito quella parola parola nella categoria "ambito militare". Perdio. Era stato sempre attaccato al didietro di Washington negli ultimi tempi, doveva pur aver imparato qualcosa. – Smetti di pensare alla vendetta su Charles. – I vecchi rancori possono essere dimenticati per qualcosa di più grande, non eri tu a dirlo? Eh? – Devi entrare nel Tempio e prenderlo senza ammazzarlo. 
Mi scoccò un'occhiata piatta e inespressiva, il che mi fece pensare che forse non aveva capito bene. – Connor? – C'è qualcuno lì dentro o siete tutti a pisciare? – Ti è chiaro quello che ho detto?
Tom sgattaiolò verso di lui, accovacciato a terra, e gli tirò uno schiaffo sulla chiappa con uno schiocco tale da farmi trasalire. Dio, ci mancava solo che facesse una cosa del genere anche a me. Forse gli avrei sparato per davvero, allora. – Piano geniale, capo. Ehi, mister sangue freddo! – Si sollevò a sufficienza da arrivare al suo orecchio. Connor aveva la stessa espressione di un uomo tormentato da un tafano, indispettito, ma non a un punto tale da reagire. Era solo un insetto e se ne sarebbe andato, giusto? – Hai sentito? – Oh, non aveva idea di quanto fastidiosi potessero essere gli insetti come Tom Hickey. – Ti tocca il pezzo grosso dell'Esercito Continentale e manco puoi ammazzarlo! – Thomas si leccò le labbra e si chinò ancora di più sul ragazzo. L’unica reazione che manifestava era una piega amara all’angolo della bocca, come se Tom gli stesse ricordando che, diavolo!, i patti non erano questi. Le cose non dovevano andare così. – Charles Lee! – gli soffiò in un orecchio. – Il fottutissimo generale Charles Lee!
Centro perfetto, Tom. 
Connor gli scoccò un’occhiataccia e lo allontanò da sé con una spinta che lo mandò a gambe all’aria nel fango. Hickey scoppiò a ridere come un bambino, le ginocchia piegate sul petto, e forse avrei riso anch’io se Connor non si fosse voltato a guardarmi con quell’aria incattivita, puntandomi un dito contro. – Se davvero vuoi che mi occupi di lui – sibilò con la voce tesa dalla rabbia, – devi giurarmi che una volta finita questa storia se ne andrà dal Continentale e lascerà in pace Washington. – Strinse gli occhi, la mascella contratta. – Me lo prometti?
Non fu difficile come potreste pensare. Mi strinsi nelle spalle e annuii. Se devo essere onesto, non avevo alcuna voglia di discutere con lui. Avrei pensato dopo a Washington, a come fermarlo evitando comunque una guerra tra Templari e Assassini. Il mio fine primario era la pace, certo, ma in quel momento avevo altro da fare. Altri piani per me e Thomas, mentre Connor si occupava di Charles. Sarebbe giunto il momento di occuparsi del comandante, e allora il mio giuramento non sarebbe stata altro che una sequela di parole vuote e inutili, come sempre sono le promesse. – Coraggio. – Trattenni il cappello sulla testa con un cenno teatrale. – Mettiamo fine a questo maledetto macello.
– E noi due, capo? – sibilò Thomas, la voce ancora scombussolata dalle risa. Avrei dovuto imparare qualcosa di più da lui, come quell’assurda capacità di ridere nei momenti peggiori.Riuscivo soltanto ad avere paura, invece. – Oh, non ti preoccupare – replicai con un sorrisetto, cercando di sembrare sicuro di me. – Ho un piano. 
 
Le mie ginocchia tremavano come quelle di un bambino spaventato. Me ne stavo appoggiato a una nicchia della parete di roccia interna mentre Connor, di fronte a me, aspettava solo un segnale. Riuscivo a scorgere due figure in fondo alla caverna, entrambe intente a studiare con aria interessata la parete coperta di antiche incisioni Mohawk, ma sentivo la lingua secca e mi sembrava sempre il momento sbagliato per dare il via a tutto ciò che sarebbe potuto succedere dopo. Immaginavo il sangue su quelle stesse pietre, a inzuppare la terra e a grondarmi negli occhi. 
Lì dentro non c'era un momento migliore dell'altro, perché sapevano che saremmo arrivati in qualsiasi caso, ma tanto valeva non lasciare nulla tra le mani della sorte e scegliere anche quello. Appena la vescica avesse accennato a smettere di stare per esplodere, s'intende. 
Presi un gran respiro e li guardai un'ultima volta, evitando di farmi il segno della croce o imbattermi in qualche altro rito scaramantico. Strinsi le mani l'una nell'altra ed espirai piano, con calma. Poi sgusciammo fuori dal nostro nascondiglio, io e Tom camminando come non avessimo niente da perdere – la vera ragione, almeno per me, era che se avessi iniziato a correre me la sarei fatta addosso, poco ma sicuro – mentre Connor scivolava leggero e silenzioso verso Charles. Erano lì, maledizione. La sola vista della schiena di Reginald, più ampia di quanto riuscissi a ricordare, con le mani giunte a gongolarsi per la sua fortuna, perché se non avessi detto a Charles dove trovare il Tempio avrebbe avuto molta più difficoltà di quanta ne avevo incontrata io, mi procurò un violento brivido lungo la schiena. E Charles. Da quel che riuscivo a vedere, la redingote marrone gli cascava addosso come un vecchio sasso.
Era strano vederli, vederli davvero. Una parte di me non li voleva lì, a grattare con le unghie il luogo in cui avevo pensato per la prima volta di amare Tiio. Di amare qualcuno. Reginald lo deturpando, inquinando, era come pisciarmi nel vino. E d’altronde, avevo paura che Charles si voltasse. Temevo ciò che avrei visto nei suoi occhi. Ira? Senza dubbio. La stessa che gli aveva fatto uccidere la mia Tiio. Pregavo che ci fosse anche del sollievo, perché ero lì, ed ero lì per lui. Per sottrarlo al destino bastardo che Birch avrebbe continuato a infliggergli.
La bocca mi si contrasse in uno spasmo d'ira, così Thomas lo prese come un segnale. Scagliò un sasso a terra con un baccano che avrebbe potuto risvegliare i morti e Reginald si voltò di scatto. Mi parve quasi di vedere un attimo di smarrimento sul suo volto, ma fu immediatamente sostituito da un sorrisetto… perverso, immagino non ci fosse termine migliore. in volto. Il tempo parve rallentare, denso come melassa. Charles non si era voltato, ma le sue spalle erano crollate, come se si aspettasse una pallottola tra le scapole da un momento all’altro. Reginald lo afferrò per la manica della giacca e lo costrinse a voltarsi verso Connor, che ora correva nella loro direzione alla maniera degli Assassini, le gambe piegate come se dovesse oltrepassarli entrambi con un balzo.
Scorsi un lampo di paura nello sguardo di Lee. Terrore, quello vero, intendo. Ebbi un sussulto soltanto a guardarlo, cercavo il braccio di Tom a tentoni da un lato e la parete del Tempio dall’altra, qualunque cosa potesse reggermi in piedi sarebbe andata più che bene. Lo vidi sguainare la spada e strizzare la palpebre sugli occhi mentre il mio vecchio Gran Maestro gli mollava una spinta che sottintendeva un ordine ben preciso.
Uccidi.
E Charles corse verso mio figlio, quello biologico, in nome di quell’ordine. Per uccidere.
I due impattarono in un groviglio di braccia e gambe. Connor lo colpì con una spallata, quel tanto che bastò a fargli perdere l’equilibrio e la presa sulla sciabola inglese. Non l’avevo mai visto così magro, così debole, il viso smunto e i baffi che ricadevano sulle guance incavate come rami di una pianta morente. Non avevo più paura per me. Temevo che Connor sarebbe venuto meno alla sua promessa, proprio come avevo intenzione di fare io, e che lo avrebbe ucciso comunque, la sua stessa lama ad aprirgli il ventre e vuotarlo di tutto il sangue. Tremavo di paura per lui, per il ragazzo che aveva provato a uccidermi un paio di volte negli ultimi anni.
Come potevo scegliere uno soltanto di loro due? Come? In un minuscolo istante di lucidità pensai che una tregua tra Assassini e Templari avrebbe risolto tutto quanto. Saremmo stati una specie di famiglia, no? E tutto sarebbe andato bene. Provavo a pensarla così.
Poi riportavo gli occhi su Connor e Charles, su quel che stava davvero succedendo nel Tempio, e ogni mia speranza evaporava come acqua nel deserlo. Connor l’afferrò prese per la camicia sgualcita e gli sbatté il pomolo della spada in faccia. Il suo naso si aprì in una fontana di sangue mentre il ragazzo, in preda all'ira, gettava a terra la spada e assicurava Charles a sé, un grosso braccio serrato intorno al suo collo e la gola strizzata nell’incavo del gomito.  
Nonostante ci fosse Reginald lì, davanti a me, a fissarci senza nemmeno sguainare la spada, un sorriso divertito impresso sul viso, mi era impossibile distogliere la sguardo dal mio vecchio pupillo. E quel vecchio non era solo un riferimento a tutti gli anni che avevamo passato l’uno lontano dall’altro. Sembrava davvero che il tempo su di lui avesse avuto uno strano effetto, come quello di una pialla sul legno. L’aveva letteralmente consumato, al punto da non farlo sembrare nemmeno più lui. Eppure a guardarlo non pareva così diverso. Era a malapena cambiato da quando lo avevamo visto a Fort Lee, con gli stessi capelli lunghi e unti aggrovigliati in una matassa disordinata e i baffi scuri che creavano un accostamento strano con i suoi occhi azzurri, gelidi e quasi spietati. Ecco, bastava fissarlo negli occhi e dimenticarsi del resto per rendersi conto di quanto tutta quella faccenda lo avesse cambiato. Erano offuscati da una patina di disperazione e dolore che faceva molta più impressione della camicia cascante sul suo petto scarno e di quei calzoni ormai larghi sulle cosce. In un altro istantaneo lampo di lucidità pensai che probabilmente a Reginald non fregava niente del suo aspetto se accettava comunque di succhiarglielo. 
Serrai i pugni, guardando Charles esibire in un ringhio quei denti giallastri che sembravano strappati dalla bocca di un altro. Quello era il mio ragazzo, eppure mi guardava in cagnesco, rabbioso e senza nessuna speranza. Non era così che avevo immaginato quel momento. Eppure avrei dovuto sapere che le cose non andavano quasi mai come avevo pianificato. Charles mi fissava con le dita strette sul bicipite di Connor e i piedi sollevati a terra, scalciando contro i suoi stinchi.  
Pregavo che tutta quell’ira fosse solo una maschera per celare una gran paura di morire soffocato nella presa del braccio di mio figlio. Paura di crepare. Strano come sia in grado di paralizzarci appena la scorgiamo in lontananza ma ce ne dimentichiamo fin quando non ci precipitiamo dentro fino alla cintola.  
Quello era il mio ragazzo, e io mi ancoravo a quel pensiero. Che nonostante tutto non si fosse dimenticato di me, non si fosse dimenticato del nostro rapporto, dell’Ordine e di ciò che aveva rappresentato per entrambi, e al diavolo Connor e le sue brusche maniere per tenerlo al sicuro. Aveva capito, no? Si dimenava come un bambino capriccioso perché era stretto tra le braccia dell’Assassino, il nostro nemico per eccellenza, ma nei miei occhi doveva aver scorto il sollievo nel vederlo vivo, un sollievo paterno, o così speravo che apparisse.
Sperare?, sibilò una crudele vocetta nella mia testa. Chi vuoi prendere in giro, eh? Pensai che se fossi stato realista avrei dato credito a quella stupida voce. Perché Charles era il mio ragazzo, ma aveva ammazzato sua madre. La donna che credevo di amare più della vita stessa, finché quella non me l’aveva strappata via dalle mani.  
– Gran Maestro! – Ancora una volta dovetti ringraziare Thomas, lui e la sua lingua. Era sempre stato più deciso di me nelle situazioni critiche, forse anche più stupido, più imprudente, ma in quel momento riuscii soltanto a maledire me stesso per non aver aperto bocca prima che lo facesse lui, con la stessa vivace nota d’ilarità che stava usando Tom, quella che avevo ormai imparato a riconoscere.
Mi pareva avesse sempre quel tono quando parlava con le labbra aperte in un ghigno. – È un onore infinito – esclamò, e non ebbi bisogno di guardarlo per capire che aveva sguainato la spada. Gli unici con le armi ancora al loro posto eravamo io, Reginald e Connor, ma il ragazzo non mi preoccupava. Sapevo che Birch non aveva alcun interesse nei suoi confronti. Era un Assassino, il nemico, certo, ma non in quel momento. Prima di pensare agli altri doveva risolvere le scaramucce interne all’Ordine, no?
Un brivido corse lungo la mia schiena mentre continuavo a fissare Charles, gli occhi nei suoi, così freddi e privi di lucidità, arrossati come se stessero per schizzare fuori dalle orbite. Se avessimo ammazzato gli Assassini, tutti gli Assassini, Achille Davenport compreso, io sarei morto in quel vicolo di Boston, e non saremmo mai giunti a quella situazione. Quindi, be’, se c’era qualcuno cui dare veramente la colpa, era proprio la Confraternita. Oppure lui, lui stesso, perché non aveva mai dato l’ordine di sterminarli. Non era mai stato nei suoi piani, per Reginald Birch gli Assassini non rappresentavano nemmeno una minaccia.
Sentii il gomito di Thomas scontrarsi con le mie costole e sussultai, costretto a spostare lo sguardo. Giusto. Reginald. Charles sarebbe stato al sicuro lì, nel ferreo abbraccio spaccaossa di Connor. Dovevo smettere di avere paura e fidarmi, per una volta. Quel ragazzo si era fatto bandire dal suo villaggio, da casa sua, pur di portarmi la Mela e mettere fine a quella storia. Non mi aveva mai dato ragioni per dubitare.
Abbassai gli occhi, le dita che avanzavano lente verso l’elsa della spada corta. Mai un’arma m’era sembrata meno adeguata. Il Tempio sembrava molto più grande di quel che ricordassi. Forse perché in quel momento eravamo io e lei, Tiio, noi due e basta, e la delusione che quella grotta mi aveva versato nel petto era tale da farmi dimenticare dove ci trovassimo. Avrei dovuto avere una sciabola inglese, come quella di Charles, oppure una picca. Sì. Caricare e sfondare lo sterno di Reginald con l’affilata punta d’acciaio.    
– Ci siamo – grugnì Thomas, – è il tuo momento, capo. – Scossi la testa per cacciare quei pensieri e provai a mettere a fuoco il volto di Birch. Il suo corpo, per quanto mi disgustasse. Mi aveva addestrato a cogliere i segni di uno scontro nei movimenti dell’avversario, la tensione nei suoi muscoli, nella punta delle dita, persino in come puntava i piedi, ma erano suoi insegnamenti, cose che ricordava, che poteva evitare come scogli in mezzo al mare. Non c’era nessuno che fosse più bravo di lui a raggirarmi.
L’unico su cui potevo contare era Tom, l’uomo che mi dava di gomito e mugugnava che era il mio momento, come se dovessi presentare una lamentela a Sua Maestà in persona e stessi buttando via la mia unica occasione. Il mio momento. Certo. Dovevo ucciderlo, e non poteva esserci scelta migliore per uno come me.
Caricai il peso sulla gamba sinistra, puntata dietro, con tutta l’intenzione di correre verso di lui, buttarlo a terra con la furia di una belva feroce e sgozzarlo con un solo, rapido colpo. Non avrebbe nemmeno avuto il tempo di prendere la pistola e trasformarmi in un cadavere sulla pietra. Ero più giovane di lui, più allenato, più arrabbiato. Che cos’avrebbe mai potuto fare contro l’inarrestabile forza della vendetta, eh?
– Guarda un po’ qui! – esclamò con le braccia aperte il suo miglior tono carico di finto stupore. – Le due pecorelle smarrite sono tornate all’ovile.
Parlare. Ecco cosa poteva fare.
Quell’espressione mi bloccò lì, immobile, il peso mal bilanciato sulle gambe e la mascella contratta, piena di rabbia. Per un attimo temetti che avrebbe estretto la pistola a pietra focaia per spararmi in mezzo agli occhi, ma non lo fece. Non so dire perché. So soltanto che ebbi il tempo di sollevare la gamba destra e riprendere una posizione stabile. Sollevai i palmi in uno sfottò e mi umettai le labbra alla ricerca di qualcosa da dire.
Non gli avrei permesso di battermi anche con le parole. Era un pensiero stupido e infantile, ma dovevo rispondergli. Per Charles. Per fargli vedere che non tutto era perduto. Non era costretto a obbedirgli, non lo sarebbe stato mai più. Aveva solo bisogno di una spintarella.
Schioccai la lingua contro il palato. – Immagino che, sulla base di questo, tu debba essere Gesù Cristo. – Roteai la spada in un giochetto noncurante, come se non avessi paura di lui, come se non ne avessi avuta fino a cinque minuti prima, quando me ne stavo schiacciato contro la parete del Tempio con il sudore ghiacciato ad appiccicarmi la camicia alla schiena. Così, Charles. Vedi? Volevo mostrargli una via d’uscita, perché c’era, ne ero sicuro, doveva esserci. Solo che non l’avevo ancora trovata.
Pregavo fosse lì. Forse lo sarebbe stata davvero, sepolta sotto il cadavere di Reginald Birch. – Strano – proseguii, un ghigno sulle labbra che mi faceva sentire molto più simile a Thomas di quanto avrei voluto. – Me l’ero sempre immaginato con un’espressione meno pervertita. Più benevola. – Il sorrisetto che gli attraversava il volto fu come un esplicito invito ad andare avanti. – Con tutto il rispetto – conclusi, il palmo sul petto con un fedele rispettoso.
Reginald continuò a sorridere, mostrando i suoi piccoli denti corti con una calma spaventosa negli occhi. Non aveva paura di me, e non sarebbe bastata qualche battutina a fargli cambiare idea, ma non m’importava. Birch non era invincibile, e noi non eravamo più bambini. Sapevamo uccidere. Avevamo strappato la vita di uomini nel fiore degli anni senza battere ciglio, padri di famiglia, novelli sposi, non uno scrupolo aveva fatto capolino nelle nostre sbrindellate coscienze, e poi bastava uno come Reginald a metterci letteralmente in ginocchio.
Volevo solo che la vita di Charles tornasse al legittimo proprietario. Che capisse di potersela riprendere. – Spiacente di aver deluso le tue aspettative – disse Birch trionfale. Parlava come chi sa di avere la vittoria in pugno, e mi andava bene. Poteva uccidermi e gettare il mio cadavere in pasto ai maiali, ma Charles doveva andarsene di lì. Vivo. Come, quando o con chi non era un affare di mia competenza. Vivo e libero. Non m’interessava nient’altro.
Deglutii, e mi sembrò di mandare giù un pugno. Tenevo gli occhi fissi su di lui, sulle sue mani, sulla postura delle spalle, ma non sembrava affatto intenzionato a colpirmi, o a fare un passo in più. Nel Grande Tempio, quella caverna dipinta senza niente di speciale, calò un silenzio da scuotermi tutte le ossa. Strinsi più forte la presa sull’elsa della spada. – Ti spiace? – sussurrai tra i denti stretti. – Non so che farmene del tuo dispiacere, Reginald.
Fece spallucce e tese una mano verso di me. Il perfetto ritratto del Buon Pastore, certo, gli mancava solo l’agnello in spalla. Digrignai i denti e tesi di nuovo il corpo, pronto a scattare su di lui come un avvoltoio che tiene d’occhio una carcassa. Inclinò il capo da una parte. C’era una strana luce nei suoi occhi. Lì per lì pensai fosse scherno.
Poi il suo pollice sfiorò il medio e schioccò contro il palmo in un suono secco e potente come la deflagrazione di una pistola. Il resto accadde troppo velocemente perché potessi più far caso a dettagli stupidi come gli occhi di Reginald Birch.
La prima cosa che sentii fu il dolore. Una fitta all’altezza delle reni, come se Lucio, quel dannato ragazzino italiano, mi avesse pugnalato di nuovo. Sentii il peso sbilanciarsi di nuovo sulle gambe instabili, i miei piedi spostarsi secondo l’istinto, senza una logica, senza una strategia.
Avere sempre un piano, questa è la prima regola, pensai in un istante di lucido terrore. Poi qualcosa si serrò attorno alla mia caviglia e non feci nemmeno in tempo a cacciare un urlo che ero già a terra, la mandibola sbattuta come un uovo sulla roccia fredda e i denti a tremare nelle gengive. Bestemmiai tra me e me, scoprendo due cose. La prima, ero ancora in grado di parlare. Fantastico. Secondo, durante la caduta avevo aperto le mani nel banalissimo tentativo di minimizzare i danni, e la mia spada era slittata sulla pietra, scivolando con un grattare sommesso verso gli eleganti stivali di Reginald.
– Figlio di… – La mia voce si spense con un gemito quando qualcuno di afferrò bruscamente per i capelli.
– Buono. – Un sibilo nelle orecchie. Dall’alto. Il dolore era tale da farmi lacrimare gli occhi, e come se non bastasse continuavo a sentire un peso sulle reni, come un sasso, e a ogni respiro sollevare il petto si faceva più difficile e doloroso. Non un sasso, mugugnò l’ultima parte rimasta lucida del mio cervello. Insomma, non avevo sentito nessun crollo. Me ne sarei dovuto accorgere, giusto? – Non sei più nella condizione di fare lo sbruffone, eh, capo?
Capo. Fu quell’ultima parola a farmi crollare il mondo addosso, e con esso tutte le mie certezze, tutto il coraggio che credevo di aver raccolto rispondendo un paio di volte al mio vecchio Gran Maestro. Oh, che bambino cattivo. Era evidente quanto la mia parlantina lo avesse spaventato. Certo. A morte, era evidente.
Come avevo potuto pensare che non avesse mai dubitato di Charles, che non avesse un piano di riserva? E, buon Dio, per quale assurda ragione ero arrivato a fidarmi di Thomas Hickey? I rimpianti cozzavano nella mia testa come proiettili, senza fermarsi mai, con la polvere a riempirmi la bocca e il corpo compresso dal peso di Tom. Non era possibile. Non era…
Scrollai il capo, per quanto mi riuscì, buttando fuori l’aria dalle guance gonfie. Era evidente quando fosse possibile, no? Altrimenti io non sarei stato lì e Reginald non avrebbe riso della mia ingenuità. L’unico sorriso che gli avrebbe ornato il volto sarebbe stato quello sulla sua gola, un ghigno nero di sangue, da orecchio a orecchio.
La parte peggiore era il senso di… sollievo, quasi, che mi colmava il petto all’idea di non avere più una scelta. Non si trattava più di ucciderlo, ma di morire. Velocemente, magari, ma non avrei comunque avuto alcuna voce in capitolo al riguardo.
Forse se gli succhi bene l’uccello.
Thomas mi torse il braccio sinistro dietro la schiena, facendomi gemere come una ragazzina mentre ogni sua parola mi risuonava dentro la testa, tutte le sue bugie e i giuramenti che non avevano mai avuto significato, le parole vuote, i singhiozzi. Non voleva uccidere più, mi aveva detto. Sembrava facesse sempre la mossa sbagliata, perché in quel momento ero vivo, sentivo il cuore sbattere contro le costole, ma mai come allora avrei voluto che sollevasse la spada e mi strappasse la vita dal corpo una volta per tutte.
Non si trattava più di vivere o morire, ma di vincere o perdere. Nella morte stessa. E sapevo che se gli avesse permesso di fare di me ciò che voleva avremmo perso. Io avrei perso. Non potevo tollerare di morire come un pupazzo nelle sue mani, com’era successo a mio padre. Era ovvio che mi volesse morto, lecito, quasi, ma alle sue condizioni. Era quella ragione a farmi salire la bile alla testa in grossi nuclei che pulsavano dietro i bulbi oculari. “Uccidimi”, avrei voluto sussurrargli all’orecchio, “se anche per un solo istante hai davvero creduto in me, uccidimi. Per favore. Nient’altro.” Ed era la verità. Non avrei mai chiesto nient’altro, solo una buona morte, una che valesse la pena di vivere. Per favore?, disse un’altra parte di me, soffiando come un vecchio gatto. Ti ha fottuto più di quanto abbia fatto Reginald e tu ancora vorresti pregarlo?
Oh, Cristo, anche quello era vero. Il mio piano, il mio piano studiato in ogni dettaglio e sussurrato tra i denti come un segreto all’uomo sbagliato. Come avevo potuto essere così stupido? Mi aveva dato un milione di ragioni per dubitare di lui, eppure avevo continuato a fidarmi. Non avevo nessuna scusante. Semplicemente, avevo sbagliato tutto fin dall’inizio. Avrei dovuto lasciarlo morire appeso alla forca, oppure tra le braccia di Achille, oppure avrei dovuto tagliargli la gola quando mi aveva detto di Tiio e di Charles, ma non pensavo a niente di tutto questo.
– In piedi, su – disse con la voce venata di divertimento. Immagino che tutta questa faccenda fosse un vero spasso per lui. Sì, insomma, trascinarmi per un braccio verso di sé come un vecchio infermo, mandando per aria tutti i miei discorsi sull’essere un Gran Maestro e distruggendo con ogni parola tutte le mie intenzioni, ogni punto della nostra pianificazione. Perché non ero ancora scoppiato a ridere, di grazia? Ah, non riesco proprio a spiegarmelo.
Mentre facevo leva sul ginocchio e mi rimettevo lentamente eretto, una mano di Hickey tra i capelli e l’altra a serrare la presa sulla polsiera della lama celata, pensai che in fin dei conti non era stato altro che un numero. Più di tutte le sue frottole sulla fedeltà, i patti di sangue e le chiacchierate fraterne, era stata l’idea di presentarmi da Reginald con un altro membro dell’Ordine a farmi gonfiare il petto d’orgoglio. Non eravamo solo io e l’Assassino, ma io, lui e Thomas Hickey, perché Reginald poteva avere i soldi, il carisma e un piano per il futuro del mondo, ma ero io quello cui aveva scelto di essere fedele l’unico di noi ancora vivo e libero di camminare su quella terra. O forse è una bugia che vuoi raccontarti per non essere stato in grado di accorgertene prima.
Roteai gli occhi, come se con quel solo movimento potessi intimare alla vocetta nella mia testa di stare zitta per un po’. – Pensavo fossi meglio di così, Tom – sibilai tra i denti, la voce che suonava meno iraconda di quanto avrei voluto e il viso mezzo rivolto nella sua direzione.
– Pensavi male. – Con un altro strattone mi fece girare la testa, così che fossi costretto a guardare Reginald, e infilò un piede tra i miei polpacci per farmi aprire le gambe, un’immagine che con il mio vecchio tutore, Gran Maestro e, mio malgrado, figura paterna, lì, a un passo da me, mi fece venire i brividi. – Eddai, non fare il difficile – sussurrò nel mio orecchio, il fiato caldo e alcolico dritto sul collo.
Quello, e poi il volto di Reginald. Tesi la schiena verso Thomas d’istinto, come un animale, con i talloni che grattavano sul pavimento per allontanarmi da lui e al tempo stesso tentavano di restare vicini, stretti l’uno contro l’altro.
Avrei fatto di tutto per tenerlo lontano. Ero disposto a morire, no? Ero disposto a lottare nonostante fossi immobilizzato, disarmato e in evidente inferiorità numerica. Sentivo il mio stesso respiro raschiare nei polmoni e scivolare via tra i denti serrati, il cuore che batteva nel petto come un tamburo di guerra mentre tentavo disperatamente di allontanarmi da Reginald e liberarmi di Tom. – È proprio vero che can che abbaia non morde – disse il Gran Maestro in quel suo stupido accento britannico, così marcato, ostentato, ecco, una mano nella tasca e l’altra ciondolante lungo il fianco, come se non avesse alcuna preoccupazione al mondo. A pensarci, era così. L’unica persona di cui avrebbe dovuto avere paura – certo, nella mia immaginazione – ero io, e mi aveva già in pugno. Non c’era davvero niente che potesse…
Sussultai, sforzandomi di tenere le gambe rigide nonostante la sorpresa, e voltai il capo dall’altra parte, verso l’angoletto in cui Connor si era rifugiato l’ultima volta che lo avevo visto, un braccio serrato attorno alla gola di Charles e l’altra mano a tenere il gomito vicino a sé per limitare i suoi movimenti. Era ancora lì, il ragazzo, gli occhi sgranati e la bocca mollemente aperta in una smorfia più stupefatta della mia. Almeno io me l’ero tolta dalla faccia abbastanza in fretta, tutto sommato. – Che aspetti? – gli ringhiai contro, la voce strozzata dalla rabbia, dalla delusione. Da come tutto era andato a finire. – Spara! Prendi la pistola, maledizione, fa’… – Ci pensò Thomas Hickey a zittirmi con uno strattone che mi portò la testa quasi sulla sua spalla. Un altro po’ e avrebbe potuto spezzarmi il collo. Immagino sapesse anche come fare, ma non fosse nei suoi piani.
In fondo aveva giurato di non voler più uccidere nessuno, giusto?
Il dolore fu tale da farmi serrare gli occhi e mordere la lingua, la carne strizzata tra i denti come se qualcuno me la stesse staccando con una tenaglia. Le mie gambe cedettero, incapaci di fare qualcosa che non fosse dondolare mollemente dal bacino, fingendo di avere ancora un’utilità. – Di certo il fegato non l’ha preso da te, eh, capo? – sussurrò mellifluo nel mio orecchio mentre piazzava un ginocchio in mezzo alle mie gambe, sollevando appena un lembo della redingote, il sinistro, quello che fino a cinque minuti prima pulsava e mi scaldava tutta la gamba, come un falò in una notte invernale.
Non riuscii nemmeno a ribellarmi. Avrei voluto insultarlo, rispondere a tono o tirargli un calcio, ma non ne avevo la forza. Feci per voltare la testa di scatto e mordergli la faccia, ma con un altro strattone mi aveva riportato esattamente dove voleva, a fissare il viso invecchiato di Reginald, sempre più vicino al mio. – Ti piacerebbe se ti uccidessi, non è vero? – Tom azzardò un passo verso Birch, portandomi con sé come un infermo. I miei complimenti. Vuoi anche una ricompensa?
– Non lo faresti mai – sussurrai muovendo appena le labbra, l’interno della bocca impregnato di sangue e bile. – Sei un uomo fedele ai suoi giuramenti, tu.
Scoppiò a ridere come l’animale che era. Thomas. Più ci pensavo, più avrei voluto sbattere la testa contro le pareti del Tempio fino a spappolarla completamente, i lineamenti distorti e i denti che saltavano in tutte le direzioni. – Ben detto, capo. Ben detto.
– Non è il momento di giocare. – Sussultai più forte delle altre volte quando sentii una mano serrarsi intorno al mio viso, fredda e liscia come quella di chi non ha mai lavorato davvero in tutta la sua vita. Provai il feroce istinto di ritrarmi senza sapere dove andare e con un paio di gambe che non avevano nessuna intenzione di funzionare. Mentre scavava nella redingote con il volto corrucciato in un’espressione concentrata – perché doveva essere impresa ardua trovare una palla di cristallo grossa come un pugno in quel vastissimo ambiente che era la mia tasca – i suoi occhi erano puntati nei miei e guizzavano su e giù per il mio volto, ancora svegli e veloci come quelli di un ragazzino, senza l’ombra di una cataratta o qualche altra malattia da anziano. – L’età ti ha giovato parecchio, Haytham. Ti trovo bene.
Provai a sostenere il suo sguardo, freddo e impietoso, e pregai che la mia voce non suonasse troppo impaurita. Potevo essere in grado di parlare con il suo fantasma, certo, con la proiezione che la mia mente aveva di lui, ma sentire quelle mani di nuovo addosso, una in faccia e l’altra nella tasca, fin troppo vicina all’inguine, aveva risvegliato nelle mie vene l’istinto di scappare, darsela a gambe levate e vivere allo stato brado in mezzo alla foresta finché non fosse sopraggiunta la morte, e al diavolo Charles, al diavolo Connor, al diavolo il Tempio e al diavolo i Precursori. A volte bisogna cavarsela da sé. – Privilegi che non sono concessi a tutti – imbeccai. Dovevo almeno provare a difendermi in qualche modo, no?
Reginald mi fece un sorrisetto. Pensavo che il passo successivo sarebbe stato un ceffone dritto sulla mia guancia, invece si limitò a estrarre la sfera dalla mia tasca, passandomela davanti al viso con enfasi, come un bambino cui si sta sottraendo il giocattolo prediletto per punizione. Oh, no, quanto sei cattivo! Avevo desiderato quel manufatto per anni, è vero, ma in quel momento non me ne importava più niente. Non ero più combattuto tra l’idea di ucciderlo e quella di tornare a essere una sua pedina. Avevo due nuove alternative: fuggire alla massima velocità consentitami da quei due tronchi di carne che avevo per gambe o pregare che almeno ci riuscissero Connor e Charles.
Lo ammetto, morire tra le braccia di Birch non era certo una delle mie priorità, ma l’avrei accettato quasi pacificamente se avessi saputo che sarebbe servito a qualcosa. Qualsiasi cosa. Una piccola tregua, un piccolo passo avanti nella nostra lotta. Mi bastava anche solo che capissero quale fosse veramente la lotta.
Scossi piano la testa, abbassando il capo mentre Reginald indietreggiava con una smorfia vittoriosa sulle labbra. Volevo che quei due collaborassero, eppure eccoli lì, l’uno con le braccia serrate attorno al collo dell’altro. Per mio ordine. E non sapevo nemmeno quali fossero le vere intenzioni di Charles. Forse stava sul serio dalla parte di Birch.
Oppure no. Insomma, aveva cercato l’aiuto di Thomas e si era accordato con lui per pugnalarmi alle spalle quando meno me lo sarei aspettato. Perché non farlo fare direttamente da Lee, se fosse stato d’accordo?
Quel pensiero risvegliò per un attimo la speranza dentro il mio petto. Poteva non essere tutto perduto. I Templari avevano ancora una possibilità, io avevo ancora una possibilità, nonostante tutti gli errori che avevo fatto e che nessuno sembrava disposto a perdonarmi. Sì. Non m’importava nemmeno più di vedere Reginald morto. Non mi sarei messo nei guai per conseguire la mia patetica vendetta, no. Basta. Quella parte di Haytham Kenway era morta quando Tom mi aveva buttato a terra e torto un braccio dietro la schiena.
La giustizia privata non avrebbe riportato in vita mio padre, né Tiio, Jenny o mia madre. Era un istinto animale, qualcosa da reprimere prima che diventasse più grande di me. Farsi trascinare dalle passioni era un errore che non avrei più commesso. Avevo visto cosa succedeva facendo il passo più lungo della gamba: finivo quasi sempre per perdere qualcuno. Mentre Thomas mi sghignazzava nelle orecchie pensai che, diavolo!, non ne valeva la pena. Avevo già perso troppo, no? E la mia vita – la mia patetica esistenza basata sulla morte e sulla fiducia riposta negli uomini sbagliati – contava forse più di quella di Charles Lee e Connor? Loro avrebbero potuto rimediare, ricostruire tutto ciò che noialtri avevamo fatto crollare. Almeno, così speravo. Nessuno meglio di me sapeva quanto effimere fossero idiozie come gli ideali, la pace…
…i simboli.
Non avevo nemmeno sentito Thomas Hickey sguainare la spada, tanto ero perso nei miei pensieri, ma il clangore della lama celata che si schiantava sul pavimento risuonò per il Grande Tempio come la deflagrazione di uno sparo. Sentii un groppo grosso quanto un pugno bloccarsi nella mia gola mentre le cinghie della polsiera frustavano l’aria come serpenti con la testa mozzata.
Ah, Cristo. Disarmato. Inerme come un bambino.
Non riuscii a pensare niente di più intelligente. Continuavo a udire la risata di Tom risuonarmi nelle orecchie, e quando mi lasciò andare e caddi a terra carponi l’unica cosa che fui in grado di fare fu guardarlo. Osservare le sue dita tozze arraffare la più preziosa delle mie armi e mettersela in tasca come una reliquia da vendere al miglior offerente, un gran sorriso aperto in faccia. Ecco tutto quello che riuscii a fare. Che Dio mi fulminasse. – Bene – sibilò, il capo inclinato da una parte e le mani sui fianchi, i pollici infilati nelle fondine. – Tirati su, dai, non abbiamo tutto il giorno.
Gli scoccai un’occhiata di fuoco. Avrei potuto ucciderlo a mani nude. Ne ero perfettamente in grado, ed era stato proprio Reginald a insegnarmelo. C’è sempre almeno un modo per far fuori un uomo, anche quando quando sei disarmato o legato a una parete. Solo che è molto più facile cogliere queste opportunità quando quelli che devi uccidere sono estranei, bersagli, persone a cui non sei legato e di cui non t’importa niente. Ci voleva un sacco di fegato in più per ammazzare qualcuno che fino a mezz’ora prima avevi chiamato amico e trattato come un fratello, mentre ora puntava una pistola carica contro di te e l’altra dritta verso le uniche persone in cui ancora potevi riporre delle speranze.
Era tutto un altro paio di maniche. E quando c’era di mezzo Reginald Birch non potevo certo considerarmi l’uomo più coraggioso del mondo. – Hop – m’intimò Tom facendo schioccare la lingua sul palato, come se stesse parlando a un cavallo.
E, mio malgrado, mi alzai, puntando le mani a terra e succhiando aria tra i denti sbarrati. Le ginocchia di Thomas ondeggiavano, sembrava fosse ubriaco o avesse un impellente bisogno di urinare. Aveva sfilato la pistola dalla mia tasca e ora le teneva entrambe spiegate, una puntata su Connor, l’altra su Charles, con quel fare minaccioso e divertito al tempo stesso. Dio, quant’era simpatico. Mi stavo proprio spanciando.
Stupido bastardo. Spolverai la redingote con le mani aperte e riservai un’occhiata astiosa a Thomas prima di dargli le spalle per tenere d’occhio Reginald. Se ne stava lì, davanti alla parete di fondo del Tempio, quella con l’avvallamento per la Mela e le iscrizioni Mohawk. Sul momento pensai che avesse una lucerna in mano, ma nessuna fiamma al mondo poteva emettere quell’ipnotica luce dorata. Niente era in grado di scintillare come la Chiave del Grande Tempio, quella stupida medaglietta rubata a un uomo morto che camminava, e una Sfera dell’Eden poste a così stretto contatto.
Quella stupida grotta era satura di potere, e uno strano presentimento dentro il mio petto sussurrava che se in quel momento fosse entrato qualcun altro, chiunque altro, Sua Maestà in persona o l’ultimo dei mendicanti di New York, sarebbe morto all’istante, folgorato come se l’avesse attraversato un fulmine. Non avevo mai provato niente di simile prima. Che cosa ci fosse di diverso in noi? Non lo sapevo. Mi bastava continuare a respirare, sentire il petto che si alzava e si abbassava spinto dall’aria umida della Frontiera.
Connor, accanto a me, emise uno sbuffo scocciato. Mi voltai a guardarlo con la testa incassata tra le spalle. Non avevano nemmeno cercato di legarmi. Non ero più una minaccia per loro, e non avevano tutti i torti a pensarlo: le mie uniche armi erano i proiettili di piombo accumulati sul fondo delle tasche e un sacchetto di polvere da sparo. Vi conviene starmi lontani, o potrei anche lanciarveli addosso. Sorrisi tristemente alla vista di Charles che, nonostante tutto, continuava a divincolarsi nella presa di mio figlio. Gli occhi di Connor guizzavano rapidi da una parte all’altra, invasi di preoccupazione mentre cercavano di cogliere che cosa diavolo stesse facendo Thomas alle sue spalle. Azzardai un passo nella sua direzione e sollevai il palmo aperto, come a dirgli di non preoccuparsi, ché sarebbe andato tutto bene. Sicuro? Quando mi poggiò gli occhi addosso nemmeno Connor ne sembrava molto convinto, a essere onesto.
Eppure non poteva essere tutto lì. La Prima Civilizzazione non mi aveva tenuto in vita soltanto per arrivare fin lì, salutare Reginald e morire tra le sue braccia. Doveva esserci qualcos’altro, qualcosa di più, ma non era detto che comprendesse anche Connor e Charles.
Era così complicato, diavolo. – Che cosa fai? – sibilò il ragazzo tra i denti. Continuava a lanciare occhiate ansiose a Tom, come se potesse sparargli da un momento all’altro. Era una mia impressione o la sua voce era appesantita dalla collera? Oh, be’. Dettaglio insignificante quando hai una pistola puntata alla testa. – Vuoi farci ammazzare? – Giuro che se non fosse uscita dalla bocca di Connor l’avrei presa per una battuta.
Peccato che avessi cose più importanti di cui parlargli. Mi avvicinai ancora un po’, con la vista annebbiata neanche fossi nel pieno dei postumi di una sbornia. – Non provarci nemmeno – sussurrai al fianco di Connor, le labbra che appena si muovevano. – Mi stai ascoltando? – sentivo le gambe tremare come rami agitati dal vento, ma non era niente in confronto alla velocità con cui il cuore mi pulsava nel petto mentre gli occhi di Charles guizzavano su di me, inquieti e spaventati. O forse era rabbia? Dio, odiavo dover correre quel rischio, ma per nulla al mondo avrei permesso a Connor di metterlo in pericolo con qualche stupido atto eroico.
Non sapevo se mio figlio mi stesse davvero ascoltando – voglio dire, era un Assassino, oltre che un Kenway, e anche sua madre aveva avuto una gran bella testa dura – ma pregavo che lo facesse. Perdio, aveva una pistola puntata alla testa. Un solo passo falso e sarebbe diventato nient’altro che un corpo morto in una caverna sperduta in mezzo alla Frontiera. Non ne vale la pena, giusto? – Devi portarlo via di qui – mormorai tra i denti stretti. – Diavolo, hai la possibilità di uscirne vivo. Evita di buttarla via come un idiota.   
Lo sentii grugnire, strizzando la gola di Charles nell’incavo del suo gomito. – Pensi che ce lo permetteranno? – Non avevo mai sentito tanto astio nella sua voce, e non potevo nemmeno dargli torto. Era colpa mia. L’avevo convinto io ad aiutarmi in quella folle impresa, a fidarsi di Thomas, a darmi la Mela. Anch’io provavo quello spietato disprezzo verso me stesso, lo sentivo ristagnare sotto la lingua come una pessima medicina. – Se non facciamo qualcosa…
– Tu non farai un bel niente. – La verità è che non volevo rischiasse la vita per me. Non dopo tutto quello che aveva passato, tutto quel che gli avevo fatto. Una cosa di certo l’aveva presa da sua madre: erano entrambi straordinariamente bravi nel farmi sentire in colpa. Con quei loro occhi così scuri, accusatori, come fossero sul punto di scoppiare in lacrime ma non lo facessero, perché loro erano forti, perdio, molto più forti di te. E di solito bastava questo a farmi sentire peggio, in modo in cui sapevano guardarmi. Sembrava fossero lì, sul tuo cammino, solo per tentare di porre rimedio al male che avevi fatto. E se non ci riuscivano, be’, colpa tua per averlo causato. – Vattene che ancora respiri, d’accordo? Come favore personale.
Connor sospirò, scoccando uno sguardo infuocato all’ombra scura di Thomas, dietro di sé. – Hai qualche idea?
Non potei fare a meno di ridacchiare, un gemito isterico che mi cresceva nel petto Certo, perché le mie idee avevano sempre funzionato alla perfezione, giusto? – Diciamo di sì. – Resistere conta? Stava tutto lì, in fondo. Nell’attesa del momento giusto. Dovevo considerare ogni variabile, niente più errori e nessun’altra possibilità. C’erano soltanto incognite. Ad esempio, Birch era armato? Mi avrebbe ucciso lì, in quella fossa? Aveva idea di ciò cui stava andando incontro? I Precursori… Dio, il pensiero che stesse facendo tutto per loro, per dei fantasmi di chissà quanti millenni prima, mi metteva i brividi. Potevano non essere altro che leggende, voci folli messe in piedi dalla mia mente suggestionata. Insomma, a forza di sentirne parlare in continuazione era probabile. E Achille? Ah, era soltanto un vecchio pazzo. Allora come la metti con Connor?
Gli lanciai un’occhiata di sbieco. Non era strano pensare che volesse uccidere Charles. Sapevo che la vendetta ribolliva nel suo sangue almeno quanto avrebbe dovuto fare nel mio. Quanto tempo sarebbe passato prima che il vecchio astio si risvegliasse?
Non volevo pensarci. E sembra pazzesco, ma al tempo stesso non riuscivo a fare altro. Meglio preoccuparsi per i vivi che perdere tempo con le viscere in subbuglio al pensiero della propria morte. – Sicuro? – sibilò Connor, gli occhi colmi di fredda preoccupazione.
Eccola lì. La piccola e flebile luce che mi puntava il dito contro. Colpevole. – Haytham?
– Poche chiacchiere, femminucce – abbaiò Thomas, la canna della pistola premuta contro la nuca di Connor, a contatto con il cappuccio da Assassino.
Roteai gli occhi con uno sbuffo. – Se volessi ucciderli l’avresti già fatto. – Non che ci credessi particolarmente – conoscevo troppo Tom per cadere di nuovo in questo errore – ma per niente al mondo avrei permesso a quei bastardi di vedermi impaurito.
Sputò a terra, le palpebre strette sugli occhi con aria di sfida. – Sei davvero così sicuro che non ti accadrà niente, capo? – Gli uscì di bocca una risata che somigliava parecchio al latrato di un cane. – Chissà – disse a voce più bassa, e potevo sentire il suo fiato sbattermi sul collo con un brivido. – Potrei prendere in prestito il tuo Charlie e… divertirmi un po’, se capisci cosa intendo.
Dovetti stringere i denti con tutta la forza che avevo per impedirmi di saltargli addosso e rischiare di prendermi un proiettile nel petto, ma vederlo lì, accanto a Charles, con le dita sudicie strette sulla guancia in un buffetto tutt’altro che amichevole e quelle parole che gli sgorgavano come piscio fuori dalla bocca mi rendeva impossibile mantenere la calma. Mi sentivo sul punto di esplodere. – Sarai morto prima ancora di riuscire a pensare una cosa del genere – gli soffiai contro, – e con te il tuo dannatissimo Gran Maestro. 
Lo vidi sogghignare, una lampo di sfida negli occhi. – Sei disposto a scommettere? – Avvicinò la pistola alla tempia di Charles, il volto tremante e sudato contro l’acciaio. Aveva gli occhi così sgranati che sembrava gli sarebbero caduti sul petto da un momento all’altro. – Eh, capo? Vuoi scommettere con me?! – berciò, ma a malapena lo sentivo, gli occhi piantati in quelli pieni di paura di Charles, sulla canna che gli sbatteva contro la fronte e le sue mani strette sul braccio di Connor non più per liberarsi, ma in una muta e disperata richiesta di aiuto. Stava implorando per avere proprio quel che anch’io volevo da lui. Non ucciderlo. L’unica cosa che contava davvero. Non lasciare che lo uccida. – Andiamo, scommetti! Che c’è, sei troppo codardo per giocare?
– Hickey… – Ero stato io a parlare? Oppure Reginald, con il tono autoritario e sarcastico che continuavo ad associare alla mia infanzia?
Avevo paura. Non sapevo nient’altro. – Allora? – Prima che potessi solo spostare gli occhi su di lui, Thomas mi aveva afferrato per il bavero della giacca, la seconda pistola riposta chissà dove. Mi sentii sollevare da terra, con i piedi che dondolavano nel vuoto come quelli di un impiccato mentre gli occhi scruti del più noto truffatore dell’Esercito Britannico non mi erano mai parsi più crudeli. Mi fissavano come se fossi già mordo, e forse non era poi così lontano dalla verità. – Che dici, giochiamo? Ti va? – esclamò rabbioso, il volto schiumante attaccato al mio.
Giochiamo? La nostra simpatica stretta di mano per stabilire chi si sarebbe dovuto prendere la vita di Charles. Quanto ero stato stupido. Giochiamo? Non aveva fatti altro da quando lo avevo conosciuto, e saltava di continuo sul carro del vincitore con l’abilità di un giullare. Avevo provato a impedirgli di barare, davvero, lo giuro, avevamo stretto giuramenti e patti di sangue, eravamo diventati come fratelli, ma niente l’aveva mai potuto allontanare da quella sua perversa propensione al male.
Aveva sempre giocato sporco.
Giochiamo?, mi chiedeva. Tutto quello che vuoi, Tom.
Affondai un ginocchio tra le sue gambe con tutta la forza che avevo, e mi piace pensare di averlo davvero colto di sorpresa. Si piegò in due con un gemito, la pistola stretta in una mano e l’altra, quella che fino a un attimo prima era serrata sulla mia redingote, a tastare l’uccello con il volto contratto in una smorfia di dolore. Caddi a terra di schiena, la testa che rimbalzava sul pavimento di pietra, eppure non ero mai stato felice come in quel momento. – Dannato… bastardo! – sghignazzò Thomas. Dalle sua labbra grondava qualcosa a metà tra una risata isterica e un pianto. – Oh, Cristo, sei proprio un bastardello, eh? – Sollevò la sua arma, guardandola come fosse un’amica fedele, la sola in grado di capirlo. Me la puntò contro i gli mostrai i palmi aperti con un sogghigno a far capolino sul mio volto. Mi hai beccato, Tom. – Un piccolo bastardo del cazzo. – La canna della pistola mi squadrava, immobile nonostante l’ira dell’uomo che la impugnava. Aveva un certo fascino, se posso permettermi. Magnetico, quasi.  
– Calmo, Thomas. – Oh, no, dai, proprio adesso che ci stavamo divertendo? La sagoma di Reginald sbucò oltre Tom, una mano serrata sulla sua spalla. Vecchi ricordi. Mi sembrava di essere tornato ragazzino, Hickey come un riflesso della mia giovinezza. Anch’io ero stato in quelle condizioni. Avevo guardato Reginald Birch con gli occhi brillanti di stima e timore reverenziale, ero stato fiero dei sorrisi che gli spuntavano in volto quando mi vedeva puntare impietoso la pistola contro qualche povero vecchio disperato. Piuttosto squallido, no? E per quanto divertente fosse pensare che adesso ero io a quello a terra, con una risata nervosa o una supplica che minacciavano di uscirmi dalla bocca di lì a poco, non bastava a migliorare la situazione. A farmi dimenticare che stavo rischiando la vita. – Tieni sotto tiro quei due. Non vogliamo che gli vengano in mente strane ideem giusto? – Tom rispose con un grugnito, e un attimo dopo mi sentii sollevare per un braccio, i piedi puntati a terra nel maldestro tentativo di rimettermi eretto.
Ironico, eh? Lo stesso uomo che aveva tentato di uccidermi e aveva posto fine alla mia infanzia insegnandomi ad ammazzare adesso era lì a risollevarmi dopo un caduta in una rissa tra ragazzini, come avrebbe potuto fare un genitore amorevole. – Pensavo che fossi cresciuto, Haytham – sibilò nel mio orecchio, la voce fredda e piatta di chi non ha nessuna preoccupazione al mondo. Mi costrinsi a deglutire, la gola che bruciava insieme agli occhi, e tesi le gambe per rialzarmi, ma sembrava che quelle stupide appendici non avessero nessuna intenzione di funzionare. – Non serve che ti alzi – aggiunse, e suonava tutt’altro che rassicurante.
Strinsi le dita intorno al suo braccio, quello che mi avvolgeva il torso e mi stava trascinando lentamente verso la parete di fondo del Tempio. Tentai di scosarlo dalla mia pelle e liberarmi, ma sembrava che tutti quegli anni non avessero minimamente intaccato la forza e l’energia che aveva da giovane. Era completamente disarmato, proprio come me, ma era come se qualcosa nella sua stessa persona inibisse ogni mia reazione. La vendetta non era niente in confronto alla paura di morire e la sensazione di essere braccato come un animale. Non sembrava nemmeno avere più un senso. – Smetti di ribellarti – mi ammonì quasi con gentilezza. Aveva ragione, ovviamente, ma ero pur sempre figlio di mio padre. Il rifiuto degli ordini e dell’autorità era parte di me, vivo nel mio sangue almeno quanto la Prima Civilizzazione.
Reginald infilò una gamba tra le mie, sollevandomi fino ad avere le labbra premute contro il mio orecchio. – Rilassati. – Il tocco tiepido delle sue dita mi fece trasalire, e dalla bocca mi uscì un suono simile a quello di un pollo che viene stretto per la gola. Riuscivo a percepire il calore della Mela pulsarmi contro la schiena, direttamente dalla sua tasca. – Non ho certo intenzione di mangiarti. – Mi venne da ridere, come quasi sempre succede nelle situazioni inopportune. Non era esattamente quello a preoccuparmi. Temevo che m’infilasse la lingua nell’orecchio o… che cominciasse a baciarmi, ecco, oppure mi tastasse il basso ventre e facesse scivolare una mano sotto la cintura, dentro i calzoni. Essere mangiato era forse la cosa migliore che potesse succedermi. – Dammi retta, da bravo.
Un lampo dorato quasi m’accecò quando strinse il Frutto dell’Eden in mano e me lo piazzò davanti al volto, come a mostrarmi le meravigliose tentazioni che celava. Era la chiave a tutte le possibilità, a tutti gli scopi. Avrei dovuto desiderarla con tutto me stesso, giusto? Il suo potere stava proprio lì. In quella sfera era racchiuso tutto il potere dei Precursori, ancor più che nel Tempio stesso. – Prendila. L’hai portata fin qui, no? Te lo meriti.
– Non farlo – sbottò Connor, e un attimo dopo, quando mi voltai a guardarlo, Thomas gli aveva messo un braccio intorno al collo, formando una bizzarra catena umana, e teneva una delle pistole premuta contro la sua gola con un sorrisetto poco rassicurante. – Non lo fare, Haytham! Non…
Fu come se tutto il sangue nelle mie vene si congelasse nello stesso istante e collassasse nelle gambe. Era morto, oddio, era certamente morto, Thomas non avrebbe sprecato un altro secondo, gli avrebbe sparato e basta, e io l’avrei visto crollare a terra con Charles ancora sopra di sé, i capelli impastati dal sudore e dal sangue che gli sarebbe uscito da quel dannato ammasso di carne e ossa e cervella che avrebbe avuto al posto della testa.
Perché parlava? Perché diavolo non stava zitto e basta?
Per aprirlo servi tu, idiota.
L’unica voce ragionevole che sembrava essere rimasta dentro la mia mente mi riscosse al momento giusto, esattamente quando Reginald aveva approfittato della mia distrazione per afferrarmi la mano e avvicinarla alla Mela. E per farlo aveva dovuto slegare il braccio che mi teneva stretto il torace come quello di un’amante premurosa.
Mentirei se dicessi di averci pensato. L’istinto agì per me, e prima che potessi rendermene conto mi ritrovai a procedere carponi verso la bocca della caverna, le ginocchia che sbattevano forte sul pavimento di pietra nel tentativo di andare il più velocemente possibile. Non so se Reginald disse qualcosa. Tutto ciò che riuscivo a sentire era il battito del mio cuore, un tamburo di guerra implacabile dentro le orecchie, insieme una minaccia e un invito ad andarmene, a scappare di lì il più velocemente possibile. Mi rimisi in piedi con le gambe che tremavano e il fiato grosso, lanciando un’occhiata agli altri da sopra la spalla. Thomas si era voltato, le labbra aperte in una risata di scherno, e Birch scrollava la testa, come avrebbe fatto un precettore davanti a un allievo senza speranza. Eppure non aveva alcuna intenzione di abbandonarmi su quella che per lui era la cattiva strada. Anche da quella distanza riuscivo a leggerlo nei suoi occhi, nella sua persona. Non mi avrebbe mai lasciato andare.
Che diavolo fai?, tornò a chiedermi quella stupida vocetta. Me ne stavo lì, impalato come uno stoccafisso al mercato del pesce di New York, mentre Reginald s’avvicinava lentamente a me e l’uscita del Tempio era lì, alle mie spalle. Potevo scappare e non tornare mai più. Potevo mandare al diavolo i Precursori e il futuro dell’Ordine e vivere nella Frontiera. Fuggire verso ovest, nelle terre selvagge e ancora inesplorate, lontano da Washington, lontano da tutto, ma non era quel che volevo.
Non era quello che volevo per me, per i Templari, per Charles e Connor. Pensai che non lo meritavano. E non meritavano che fossi io a decidere delle loro vite. Se me ne fossi andato li avrebbero uccisi e io avrei avuto per sempre i loro cadaveri sulla coscenza, entrambi morti per colpa mia.
Potevo andarmene, certo, ma non volevo andasse così, e datemi pure dell’idiota per questo, ma lì per lì non seppi che altro fare. Rimasi immobile, gli occhi fissi davanti a me pur senza guardare in nessun punto preciso. Con la coda dell’occhio vidi Thomas lanciare una delle pistole contro Reginald e avanzare verso di me a grandi falcate. Non avevo paura di lui. Mentre aspettavo che venisse a prendermi per riportarmi di fronte a Birch – magari in ginocchio come un traditore – pensai che quello era forse il sentimento più vicino al vero affetto che avessi mai provato. Mettere gli altri prima di se stessi. Non me ne importava più niente di morire. Per niente al mondo avrei lasciato Charles e Connor nelle mani di quei bastardi. – Volevi fare il furbo, eh? – La voce di Tom sembrava così distante, come un’eco attraverso una vallata deserta. Era così vicino a me che potevo contare i pori sulla pelle delle sue guance, ma mi girò attorno senza darmi il tempo di provarci. Con uno strattone sollevò la redingote e mi sfilò la camicia dai calzoni, premendo la canna della pistola contro la pelle nuda, all’altezza dei reni. – Non stuzzicare il cane che dorme, Kenway, capito? Non…
Sentii solo il gomito impattare contro la sua mascella con uno scricchiolio sinistro e il braccio agitarsi come un serpente per il contraccolpo. Mi sembrava che ogni movimento fosse infinito, rallentato fino all’inverosimile. Afferrare Tom per il bavero della giacca e voltarmi di nuovo per spingerlo a terra fu una fatica inenarrabile, come trascinare un bue cocciuto verso il macello. I miei denti cozzavano gli uni contro gli altri in una stretta dolorosa, così ferrea da annebbiarmi la vista. Sul volto di Thomas danzavano strane macchie nere di cui non conoscevo la provenienza – pareva quasi che avesse il vaiolo –, e cadde a terra così lentamente… Come se lo stessi facendo annegare in un enorme barattolo di miele, ecco.
Poi batté il costato contro la roccia e tutto parve riprendere la propria reale velocità. Il fiato gli scappò dai polmoni con uno sbuffo sonoro, l’espressione disperata di un ubriacone davanti a un otre bucato impressa sul volto. A quel punto fu terribilmente facile allungarmi verso le sue dita deboli e sfilarne la pistola. – Fine dei giochi – sussurrai spianando l’arma contro di lui, la canna che tremava così forte da puntare un attimo sul suo occhio sinistro e quello successivo sul destro. Il cuore batteva nel mio petto come quello di un topo, veloce, velocissimo. Adesso esplode, pensai, adesso salta in aria e finisce tutto e mi sveglio accanto a Tiio, nella nostra tenda. Niente di tutto questo è reale.
Tutto è lecito, replicò di nuovo il piccolo angolo ragionevole della mia mente. Tentai di prendere fiato, ma tutto quello che mi uscì di bocca fu un sospiro sommesso. – Posso dire – mormorai tra i denti sbarrati, le parole intervallate da quei respiri troppo veloci, – che non mi mancherai affatto, Tom Hickey. – E abbassai il cane.
Il bastardo, dal canto suo, se la rideva tranquillamente sotto l’occhio freddo e implacabile della pistola. – Lo sai? – sibilò, il capo che ondeggiava nell’impeto della risata. Dannato psicopatico. Sentii il sangue ribollire più forte che mai dentro le vene, da qualche parte nel petto e nelle mani. Nei polsi, dove tutti quei vasi correvano gli uni accanto agli altri come file di alberi in una foresta. – Io ne ho vista di gente facile da fottere, capo, ma come te mai.
Sgranai gli occhi. Oddio. Tom allungò una mano verso il mio volto e mi prese una guancia tra le dita, strizzandola in un buffetto. – È la tua occasione! – ghignò, la voce acuita dall’eccitazione. – Tu hai una pistola. Lui ha una pistola. – Unì i palmi dietro la nuca con un sospiro mentre un sorriso rasserenato si apriva sul suo viso. – Cos’è che stai aspettando, di preciso?
Oddio. Non riuscivo a pensare nient’altro. La mano che non stringeva la pistola corse tra i capelli, tirandoli indietro in un istintivo moto di confusione.
Mi avevano fottuto entrambi. E io ero stato così stupido da cascarci. Dio mi fulmini, a volte penso davvero che Achille avesse ragione a darmi dello stupido. – Pensavi davvero che fossi dalla parte di quel tirchio di merda? – Thomas sporse il labbro inferiore in una smorfia da ragazzina offesa. – Mi ferisci, capo.
Mi sollevai dal suo corpo come fosse quello di un appestato, ma non prima di guardarlo negli occhi. Erano i soliti pozzi neri e senza fondo tipici del suo volto, stretti in quella smorfia sarcastica e scaltra che gli apparteneva come nessun’altra. Quello era Thomas Hickey, ma lo era anche il folle bastardo che aveva minacciato Charles e Connor, che aveva violentato Tiio e aveva fatto un sacco di cose orribili.
Eppure, proprio come era successo con Lee, non ebbi nessun dubbio. Mentre se ne stava lì, le mani unite dietro la testa e un ginocchio piegato, il petto che ancora sussultava in una risatina, capii che era sempre stato dalla mia parte. Poteva dubitare di Charles, certo, ma nemmeno lui era un grande ammiratore di Reginald Birch. Scostai le gambe dal suo corpo in un passo indeciso, puntando la pistola di fronte a me, verso il mio caro e vecchio Gran Maestro intento a tendere la medesima arma contro la schiena di mio figlio.
A differenza del sottoscritto, Tom aveva imparato a giocare. A barare. A vincere sempre. Ma non era altro che un aiutante, una spalla.
Toccava a me portarli tutti e tre verso la gloria dei vincitori. E in quel caso, vincere significava rimanere vivi. Ucciderlo. Fare ciò che sapevo fare meglio. Sentii la rabbia bruciare nel petto come le fiamme dell’Inferno, come il villaggio di Tiio dopo che Washington o chi per lui vi aveva appiccato quel dannatissimo incendio, come la mia casa in piazza della regina Anna quando il vigliacco che per anni avevo trattato come un padre aveva deciso di sterminare la mia famiglia, o il suo ramo difettoso, per così dire.
Era lì per me. Per morire. Per nulla al mondo gli avrei permesso di andarsene senza essere accontentato. – Hickey! – esclamò. Non riuscii a trattenere un sorriso. – Che cosa diavolo state facendo? Fermatelo!
L’unica risposta di Tom fu una lunga e lugubre risata, completamente degna di lui. – È finita. – Non so se riuscii a sentirmi. Il pallore cadaverico sul suo viso bastò a darmi un violento fremito lungo la spina dorsale. – Immagino che solo uno di noi uscirà vivo di qui.
Spostò di scatto la pistola, la canna puntata dritta verso il mio petto. – Ignobile bastardo! – gridò Reginald. – Traditore! Siete entrambi dei traditori! Siete…
– Metti giù quella pistola – replicai, i piedi che si muovevano l’uno dietro l’altro spontaneamente. – Risolviamola da uomini, Reginald.
– …cosa? Tu… – Serrò la mascella, la labbra strette tra loro fino a sparire. – Sei la copia sputata di tuo padre, Kenway.
Feci spallucce. Avevo sentito insulti peggiori, onestamente. – L’hai ammazzato senza nemmeno guardarlo in faccia – gli rammentai freddamente, la mani che cominciavano a pulsare di coraggio. Ci avevano pesso un po’, eh? Meglio tardi che mai. – Vuoi fare lo stesso con me?
– Tu non morirai! – berciò. – Tu mi servi, Haytham. Sei lo strumento della Loro volontà! Non ti permetterò di…
Il fiato gli si ghiacciò nel petto quando s’accorse di quel che avevo fatto. Ero lì, immobile, a non più di venti passi da lui, con la pistola carica puntata dritta sotto il mento. – Metti giù quella dannata pistola e prova a uccidermi – sibilai. La paura aveva reso i suoi occhi più opachi, e per la prima volta parve dimostrare davvero la sua età. – Provaci! O provvederò io stesso.
– Haytham…
Il mio indice si mosse impercettibilmente sul grilletto, quanto bastava a farlo sussultare come una vecchia madre apprensiva davanti alla bara aperta di suo figlio. – No! – sussurrò, le braccia tese verso di me. – No! Aspetta. Aspetta, io…
Pensai che avrei potuto ucciderlo allora. Puntargli la pistola contro, approfittando del suo terrore, e sparare un solo colpo dritto in mezzo ai suoi occhi. Ne sarei stato perfettamente in grado.
Peccato che io non fossi lui. Non volevo ridurre l’Ordine Templare al mattatoio che era diventato con Reginald Birch. Combattevo per la pace. Per la rinascita. E perché qualcosa rinasca c’è bisogno che muoia, prima di tutto.
Immagino che quel compito mi spettasse di diritto. – Mettila a terra – sibilai ferreo. – Fallo tu e lo faccio anche io.
Rimase un attimo lì, immobile, tentennando. – Che tu sia dannato – mormorò, la sua voce come un coltello mal affilato sfregato sulla pietra. Poi si chinò lentamente e poggiò la pistola sul pavimento di pietra nuda, dando una spintarella al calcio con la punta del piede.
Pregai che Connor non lasciasse andare Charles per prenderla. Grazie a Dio non mosse un solo passo. A dire la verità sembrava che non stesse nemmeno respirando. – E adesso, Kenway? Che cos’hai intenzione di fare? – Sorrise, i palmi affondati nelle tasche come un bambino dispettoso. – Morire da eroe?
Fu allora che ricordai un dettaglio che forse persino lui aveva dimenticato. Il Frutto dell’Eden era ritornato a occupare una delle tasche. Eccolo lì, un rigonfiamento luminescente all’altezza della coscia. – La Mela – scandii lentamente. – Mettila nella tasca del ragazzo. Il nativo.
Scosse il capo in una risatina. – Lo ucciderà – disse tra i denti. – Perché credi che non l’abbia ancora usata per farti inginocchiare ai miei piedi, eh?
Perché in questo momento non ti va di fartelo succhiare? Mi ritrovai a ridacchiare al solo pensiero, e le dita della mano destra strinsero il calcio della pistola con più forza. – Non ha nessuna intenzione di usarla – replicai, – ma non voglio che vada perduta. Fallo e basta. – Riportai l’arma sotto il capo a mo’ di avvertimento e gli feci cenno di avvicinarsi a Connor. Incredibilmente, obbedì senza farselo ripetere due volte.
– Ora tocca a te. – La sua voce era venata di un inquietante tono di sfida. – O hai paura di un povero vecchio disarmato?
Spinsi la pistola verso Charles, lasciando che il cane grattasse sulla roccia. Per pochi secondi nel Grande Tempio si udì solo quel rumore, unito al respiro di Reginald e all’eco delle risatine di Tom. Poi tornai a guardarlo e spalancai le braccia in un muto invito.
Accomodati.
 
Un attimo dopo vedevo soltanto bianco, come se mi avessero avvolto in un candido telo funebre, la mente ovattata dall’impatto che il carnoso pugno di Reginald aveva appena avuto con la mia faccia, dritto sul naso. Il sonoro crack che riecheggiò in mezzo ai miei occhi, dentro la testa, mi fece perdere tutte le speranze. Pensai che mi avesse sparato e che le caduta verso il pavimento di pietra sarebbe stata probabilmente l’ultima di cui avrei avuto memoria.  
Fammi indovinare, pensò la parte della mia testa che non era accecata dal dolore, ti aspettavi uno scontro leale? Perché se è così…
Emisi un grugnito scocciato, cercando di zittire quella stupida vocina supponente. Ah. Quindi riuscivo ancora a parlare. Non ero ancora morto, che gioia. Puntellai un gomito sulla roccia per tirare su il torso mentre le dita dell’altra mano tastavano il naso alla ricerca di sangue. Sentivo il cranio fischiare come una sedia che striscia sul pavimento e la risata di Birch riempirmi le orecchie, bassa e gutturale. – Cazzo – sussurrai tra i denti sbarrati. Davanti ai miei occhi il mondo cominciava a rimettersi a fuoco. Charles e Connor erano due ombre da qualche parte alla mia destra, mentre la figura eretta che si massaggiava le nocche doveva essere Reginald. Quella risata mi stava dando i brividi: era il verso del predatore soddisfatto, quello che non ha bisogno di orpelli come le armi per ucciderti. Ha più cervello, e se non te ne sei accorto sono soltanto affari tuoi. Specie quando decidi di sfidarne uno a duello, uno di quei duelli in cui se vinci vivi e se perdi muori. I più popolari tra gentiluomini britannici, eh?
– Rimettiti in piedi – ordinò mentre avanzava lentamente verso di me. Con quel cazzotto mi aveva fatto fare un volo di almeno quattro passi. – Non mi hai sentito?
– Dammi un minuto. – La voce mi uscì di bocca in un sibilo flebile, le labbra che appena si muovevano mentre lasciavo ricadere la testa sulla pietra fredda. A malapena ricordavo di essere stato io a volere quello scontro, ma cos'altro avrei potuto fare? Arrendermi al suo modo di guidare l'Ordine? Diventare un succube e poi tradirlo, come aveva fatto Tom? E a che scopo? Io non ero come Hickey, e sapevo benissimo che non lo era nemmeno Reginald. Lui e la sua assoluta attenzione alle formalità, a come una cosa veniva fatta. Così quando il solito commento del Chi te l’ha fatto fare? fece capolino nella mia mente pensai che quello era soltanto l'unico modo di risolvere la cosa, uno scontro ad armi pari, io contro di lui e le nostre mani e i cuori che rombavano nel petto, affaticati dall'età. Presi fiato tra i denti sbarrati, la mente che lavorava alla ricerca di un modo per ucciderlo, ucciderlo davvero. Mi conosceva meglio di chiunque altro? Forse sì, quindi doveva essere vero anche il contrario. Il periodo di tempo che Charles aveva trascorso con lui non era nulla in confronto a quello che avevo passato io. Reginald non aveva sterminato la sua famiglia, non gliel'aveva tenuto nascosto per vent'anni. Lo aveva fatto dubitare di me, trascinandolo dentro il suo modo di vivere l'Ordine. Quell'ossessione per i Precursori, la stessa per cui aveva fatto fuori mio padre, era in sé una follia. Erano spiriti, maledizione! Spiriti! Non poteva nemmeno essere sicuro che esistessero, ma voleva il Tempio. Voleva la loro conoscenza. Ero stupito dal fatto che non mi avesse ancora catturato, appeso al soffitto e tagliato la gola per bearsi del sangue della Prima Civilizzazione che scorreva nelle mie vene. Forse dopo aver aperto quell'affare. Oh, probabile, senza dubbio.
– Haytham. – Il tono musicale di Reginald mi riscosse dal filo dei miei pensieri, e agitai d'istinto i talloni a terra, come quando ci si risveglia da quei sogni in cui si cade in un baratro senza fine, cadi, cadi, continui a cadere e nessuno può sentirti o porgerti una mano. La voce di Birch mi fece lo stesso effetto. Proprio come prima, spinsi la nuda roccia con i talloni per allontanarmi da lui, ma il movimento era troppo debole, e Reginald troppo vicino. – Haytham? – Ripeté, torreggiante su di me come un dio punitore. Teneva una mano sotto la giacca, nel panciotto, da bravo imprenditore, l'altra affondata nella tasca dei calzoni. Poteva sembrare tutto, tranne un uomo venuto lì per uccidermi. Solo uno che lo conosceva avrebbe saputo interpretare la fredda calma tipicamente inglese con cui Reginald affrontava qualsiasi cosa, da un giretto al mercato alla programmazione dell'omicidio del suo migliore amico – o qualcosa del genere. Il mio vecchio si fidava di lui, avevano lavorato insieme per anni. Come puoi ammazzare a sangue freddo un uomo che era per te come un fratello? Avrebbe dovuto sposare sua figlia, era spesso a pranzo insieme a noi, accompagnava Jennifer a teatro e a volte mi portava un nuovo soldatino di piombo. Era uno di famiglia, ormai. Lo guardai negli occhi, così tranquilli e sereni e noncuranti, e mi chiesi se avesse chiamato dei mercenari, quella notte, non tanto per non essere scoperto o per vigliaccheria, ma perché non aveva la forza di uccidere un uomo con cui aveva stretto un simile legame di amicizia. Eppure non aveva pensato due volte a dare l'ordine. Quanto potevano contare i morti, la paura, la casa andata a pezzi e una famiglia distrutta, se di mezzo c'erano i Precursori?
Non sapevo più che cosa pensare. Reginald puntò uno stivale sul mio petto per tenermi giù, ma senza premere tanto da spezzarmi una costola. Era solo una mera dimostrazione d'autorità. – Guardami, ragazzo – disse gentilmente. Avevo una gran paura di fissare quei suoi intelligenti occhi chiari perché non sapevo cosa vi avrei scorto. La smania di uccidermi o quella di calarmi le braghe? I miei pugni si serrarono, l'ira che iniziava a gonfiarmi il petto, eppure sollevai lo sguardo e lo puntai nel suo. Avevo bisogno di un piano. – Non è uno scontro ad armi pari se ti arrendi. Pensi che tuo padre sarebbe stato fiero di vederti così? – Era incredibile con quanta facilità la sua voce passasse dalla compassione all'infinito sdegno, così come lo era il fatto che continuasse a tirare in ballo mio padre. Che cosa voleva ancora? Non gli era bastato ammazzarlo come un cane davanti a sua moglie e i suoi figli? – Sei debole, ragazzo, e lo sei sempre stato. Gli uomini non sono come tu credi che siano. E per quanto abbia provato a insegnarti tu hai continuato a pensare con la tua testa, proprio come quell'idiota di Edward. – Non c'era astio nella sua voce, ma rammarico. Sarei dovuto essere il suo giocattolo per sempre, senza ribellarmi mai, senza chiedermi perché andassi a uccidere altri esseri umani. Avrei dovuto pensare che finché me lo chiedeva Reginald Birch io dovevo farlo, fine del discorso. Non ero mai stato un Templare come voleva lui. – Per questo adesso sei lì, nel fango. Tu non puoi uccidermi, Haytham. Non ne hai il fegato.
Proprio come lui non l'aveva avuto quando si era trattato di uccidere mio padre.
Mio... Com'è che aveva detto mio padre?
Un'idea fulminò la mia mente come un colpo di pistola, facendomi crollare la mascella sul petto e sgranare gli occhi mentre dentro la testa correvano sempre più dettagli, come un fiume in piena, e il volto di Reginald continuava a muoversi, ma io non sentivo nulla. Mi sforzai almeno di serrare le labbra e annuire di tanto in tanto al suo discorso, ma non aveva più importanza, perché io avevo intravisto una via di fuga, una falla nella sua armatura dorata. E non avevo intenzione di lasciarmi sfuggire un’occasione come quella. – Dammi la mano. Coraggio. – Reginald mi allungò un palmo e finalmente tornai a sentire. La sua voce ferma e pacata, il respiro affannoso di Charles, ma soprattutto il rombo del mio cuore nel petto. Era lui a ricordarmi freddamente che quella era la mia ultima possibilità, perciò dovevo sfruttarla al meglio.
Annuii debolmente e tesi la mano verso la sua, stringendo le dita sui calli causati dall'addestramento alle armi. Ricordavo bene la sensazione familiare della sua pelle sopra la mia, graffiante lungo la schiena e il collo. Fremetti al solo pensarci, i denti stretti sotto le labbra che tremavano. Affidai tutto il mio peso a Reginald, così che mi tirasse in piedi, mentre io ero aggrappato al suo avambraccio come una ragazza di buona famiglia al suo ballo di debutto nell'alta società. – Così – sussurrò Birch, annuendo appena. Le mie ginocchia cedettero e gli caddi addosso, la guancia poggiata sulla stoffa lavorata del suo cappotto. Reginald abbassò gli occhi sulle mie rotule, guardandole agitarsi impotenti, e mi prese per le spalle, facendomi indietreggiare un po'. Cos'è, adesso non gli piaceva più l'idea di avermi vicino? – Haytham – disse piano. – Haytham, guardami –, ma io non lo feci, le palle degli occhi puntate da qualche parte tra il suo mento e la fine del collo. – Devi essere forte, adesso, d'accordo? Apriremo quel Tempio e l'Ordine tornerà al suo antico splendore. – Mi prese il viso tra le mani, e tanto bastò a gelarmi il sangue nelle vene. Il mio volto stretto tra le sue mani, le dita più lunghe affondate nei capelli e i pollici che mi scorrevano lenti sugli zigomi. – Fidati di me – sussurrò, proprio quando credevo che mi avrebbe baciato. Ecco, fu allora che accadde qualcosa di davvero strano, persino ripetto a tutto ciò che avevo vissuto fino a quel momento.   
I palmi di Reginald si strinsero sul mio viso con più forza, gli occhi negli occhi, ma i pensieri che vagavano altrove per entrambi. La sua mente non era lì. Mi guardava dritto in faccia perché cercava la lucidità. Cercava un piano, un atto di ribellione ben studiato e privo di intoppi. E lo trovò, certo che lo trovò, glielo leggevo negli occhi. Per questo aveva stretto così forte le dita sul mio collo, proprio a quell'altezza. Perché mi conosceva e dubitava della mia fedeltà, di quel placido atteggiamento di sottomissione.
Non aveva affatto torto. Il modo in cui teneva le mani lì, i tendini pronti a scattare sotto la pelle assottigliata dall’età, insieme a tutto quello stupido discorso da genitore affettuoso, era un segno. Aveva capito il mio gioco e stava rispondendo con la stessa moneta. Ma avrebbe dovuto fare in fretta, maledizione, approfittarne, essere il più scaltro e fare la mossa giusta al momento giusto.
Cogliere l'occasione e spezzarmi il collo con un solo, secco movimento, crack. E se non proprio rompermi il collo, almeno farmi svenire con un colpo ben assestato, così da potermi trascinare per il Tempio come un sacco di patate.
Sgranai gli occhi, consapevole e sorpreso al tempo stesso, e prima che potessi rendermene conto avevo tirato indietro il capo per caricare un colpo. Un attimo dopo sentii la fronte impattare forte contro il suo naso, il rumore della cartilagine deformata che mi rimbombava dentro la testa mentre il suo sangue caldo m'imbrattava la faccia e colava tra le labbra, aperte sui denti in un ringhio animale. Reginald strinse le dita sul mio collo, sulle vene che cercavano di spingere il sangue al cervello, alle mani, dovunque potesse essere utile. Dalla sua bocca venne fuori un grugnito frustrato, ma non me ne curai, le mani ora tese verso la sua faccia in cerca di pelle da squarciare, occhi da cavare, sangue. Tra le palpebre strizzate riuscivo solo a scorgere il volto di Birch, la bocca torta in una smorfia di dolore, rabbia e disappunto per la mia indisponenza. Quell’espressione enfatizzava ogni piccola ruga sul suo volto, l’accartocciava su se stessa e insieme alle altre come vecchie carte abbandonate in un angolo. Mentre mi sbatacchiava da una parte all’altra con i piedi sollevati da terra, quasi fossi ancora un bambino e non un uomo con quaranta e più anni di addestramento alle spalle, le mie mani erano ritorte come artigli, non le controllavo nemmeno più, mi bastava agitarle con gli occhi stretti e le unghie all’infuori come un vecchio gatto, sperando, prima o poi, di fargli del male. Mi ero persino dimenticato della sua presa intorno al collo. In un lampo di lucidità notai che mi pareva si fosse fatta meno ferrea: il suo scopo non era quello di ammazzarmi, strangolarmi come un pollo prima di metterlo sul ceppo e tagliargli via la testa, ma tenermi il più lontano possibile da sé, dal suo volto e dalla gelatina tremolante dei suoi occhi. Non si trattava più di uccidere, ma di sopravvivere. Qualcosa mi diceva che, per entrambi, non avrebbe contato più di tanto la morte dell’altro, quanto il pensiero di essere ancora vivi, poter continuare a respirare per un altro giorno, un altro anno, anche di più. In cuor mio pensavo che se non fosse riuscito ad ammazzarmi lui non sarei morto mai più.   
Che delusione dovevo essere per lui. Mi aveva cresciuto come un figlio per più di dieci anni e ora mi ribellavo alla sua autorità, alle decisioni che aveva in serbo per me e per il mondo, cercando addirittura di farlo secco. Achille aveva detto che il suo più grande rimpianto sarebbe stato quello di vedermi sopravvivere al fianco di Connor, influenzandolo con le idee bislacche che avevo in testa, e per Reginald doveva essere su per giù la stessa cosa. Mi trovavo in una zona grigia tra i Templari e gli Assassini, e i vertici di tutt’e due le fazioni mi volevano morto. Che cosa potevo fare, se non rispondere, difendermi? Era ciò che avrebbe fatto chiunque, no? Lottare per rimanere vivo. Non m’interessava più nient’altro. Vivere, sì, ma soprattutto ucciderlo. Nessuno avrebbe più dovuto sopportare ciò attraverso cui eravamo passati io e Charles, mai…
– Agh. – Reginald approfittò di quell’equilibrio precario per spingermi a terra e sbattere la mia testa contro la roccia, le dita di nuovo serrate sulla mia gola per impedire l’entrata dell’aria nei polmoni. Quando sollevai le palpebre, pesanti come macigni, tante piccole lucciole nere danzavano davanti ai miei occhi, impresse sul volto del Gran Maestro come chiazze date dalla vecchiaia. Chiazze… cosa? Che diavolo stavo pensando? Ti sembra il momento? La mia mente aveva ragione. Più passava il tempo e più sentivo la testa ovattata e i dettagli del suo viso si facevano più nitidi, come la saliva schiumosa che gli riempiva la bocca e minacciava di colarmi addosso da un momento all’altro, o i tendini che sporgevano come funi tese sul suo collo.
Provai a trarre un filo di fiato in mezzo ai denti sbarrati, la gola arsa e gli occhi sempre più difficili da tenere aperti. Era finita, lo sapevo. Non si trattava più di furbizia o di astuzia. Mi aveva preso per il collo ed era riuscito a buttarmi giù. Aveva vinto. Se ne stava lì, carponi sopra il mio corpo, con gli occhi che scintillavano d’odio e smania. Non aveva nessun desiderio, tolto vedermi morto. Era una questione di orgoglio che aveva avuto inizio con mio padre, troppi anni fa, e doveva essere portata a termine. Non c’erano vie di mezzo con i Kenway. Tutti morti, oppure nessuno. E tre quarti del lavoro erano già belli che fatti, no?
No, pensai mentre tentavo di scostarmi le sue mani dalla gola. No.
Reginald scoppiò a ridere e un rivoletto di saliva calda colò sulla mia redingote. – Cosa cerchi di fare, eh? – La sua voce suonava così lontana, come se stesse parlando dall’oltretomba. Dove avrei dovuto spedirlo, se solo ne avessi avuta la forza. All’inferno, nel posto che gli spettava di diritto. – Dovresti essermi grato, Haytham. Sai che cosa faresti, se potessi parlare? Imploreresti pietà e piangeresti, proprio come quel bastardo di tuo padre. Creperesti con l’ultimo ricordo della tua patetica voce mentre mi chiedevi di lasciarti andare e farti vivere ancora un po’. Il mio è un atto di compassione. Un atto di…
Non so se fui io a rivoltare gli occhi all’interno del corpo o se smisero di funzionare, senza più sangue ne ossigeno, ma in quel momento non vidi più nulla. No, mi ritovai di nuovo a pensare quando la voce di Birch s’affievolì ancora nelle mie orecchie, ormai più simile a un sussurro. Non è così che doveva andare. Reagisci. Puoi ancora fare qualcosa, no? Non lo sapevo, onestamente. Non ero nemmeno più in grado di battere le palpebre, figurati fargli del male. C’è sempre speranza. Erano gli Assassini a pensarla così. Non io. Non noi. E la zona grigia? Non sei morto, non sei ancora morto, non sei…
– Addio, Haytham.
Che?
Strinsi i pugni in una morsa e affondai le unghie nei palmi, sperando di sentire ancora dolore, qualcosa. Feci del mio meglio per aprire gli occhi di un poco, soltanto un poco. Eccolo lì, di fronte a me, sopra di me, con quell’espressione furiosa e folle, piena di entusiasmo, quella di una massaia soddisfatta davanti alla morte dell’ultimo parassita della sua cucina. Strinsi i denti così forte da sentirli cigolare gli uni sugli altri: sapevo di non avere la forza necessaria a tirargli un pugno – a meno che non avessi intenzione di fargli il solletico –, motivo per cui dovevo trovare un altro modo. Un qualsiasi altro modo.
La vista mi sparì di nuovo, rivoltandosi in quell’antro scuro e pieno di rimpianti che era il mio corpo, quindi agii d’istinto, con quei pochi brandelli d’ossigeno e lucidità che ancora sentivo pulsare nel mio sangue, e sollevai il ginocchio, lo stesso che era uscito sciancato, ma ancora funzionante, da uno scontro fin ravvicinato con Achille, schiantandolo con tutta la disperata forza che mi restava nel ventre di quel bastardo, no, non sui giochi, più in alto, così che tutta l’aria schizzasse fuori dal suo petto in uno sbuffo.
Il corpo di Reginald si afflosciò sul mio petto, la presa delle dita finalmente allentata, e a quel punto feci la sola cosa che mi venne naturale: lo spinsi via con una gomitata e strisciai appena più in là, la bocca spalancata in uno, due, tre respiri profondi. L’aria mi bruciava in gola come alcool e raggiungeva i polmoni con lo stesso incredibile senso di sollievo. Mi sentivo come se non avessi respirato per una vita intera e dovessi recuperare anni di lavoro arretrato. – Tu, lurido… – Birch serrò una mano sul mio braccio, e mi voltai a guardarlo sorpreso. Se ne stava lì, raggomitolato su un fianco come un bambino, con una mano sul petto e gli occhi che tremolavano sotto le palpebre.
Non ci pensai due volte: assestai un pugno sulla sua gola, come quelli che avevo visto sferrare solo nelle taverne, durante le simpatiche risse tra soldati sbronzi cui non partecipavo mai, o quasi. Avevo imparato che bastava un colpo come quello per stendere qualunque idiota volesse fare troppo il furbo, e immagino che Reginald non rientrasse esattamente in quella categoria, ma non me ne fregava niente. Si ripiegò su se stesso col fiato mozzo, una mano serrata sul collo rugoso e l’altra ancora stretta attorno al mio bicipite, e mi trascinò con sé sul pavimento del Tempio. Finimmo per rotolare uno sull’altro come amanti – ironico, non trovate? –, entrambi che lottavamo per sferrare il pugno più forte o il morso più veloce e profondo. Le mie mani correvano dovunque le portasse l’istinto, sentivo il grattare degli stivali sulla roccia come un lontano rumore di sottofondo, ma la vera musica stava nei nostri grugniti, nei suoni gutturali e soffocati che emetteva ogni volta che riuscivo a colpirlo. Lo stesso dovette essere per lui quando mi assestò un pugno sullo zigomo così forte da farmi tremare le cervella dentro la testa. Sentivo il cranio fischiare, la vista tornò di nuovo a colmarsi di macchie nere e il battito del mio cuore rallentò per un attimo, il tempo necessario a farlo sorridere come un ragazzino. Uh, mi aveva dato un pugno! Che carino.
Non mi presi nemmeno il tempo necessario a tornare lucido, affondai le unghie nella carne delle sue guance finché non fu obbligato a tendere il collo innaturalmente indietro, gli occhi colmi di panico e minuscoli, contorti vasi sanguigni. Diedi un colpo di reni e mi portai sopra di lui proprio mentre mi mollava un altro cazzotto, questa volta alla bocca dello stomaco, e dovetti puntare i piedi a terra per non collassargli addosso. Non gli avrei mai lasciato una simile soddisfazione, nemmeno se mi avesse pagato. Tesi il braccio all’indietro e il pugno lo prese sul naso, torcendolo ancora di più: un fiotto di sangue zampillò fuori da quella specie di patata di cartilagine, finendo per imbrattargli il collo candido della camicia e la giacca di raffinata fattura. Riuscivo solo a pensare a quanto lo odiassi, quanto odiassi lui e i suoi modi da ricca borghesia, il fatto che guardasse tutti dall’alto in basso, come se nessuno meritasse veramente la sua attenzione – tolti gli eminentissimi Precursori, sempre siano lodati, ovviamente –, odiavo il modo in cui aveva distrutto la mia famiglia e odiavo come, per tutta la vita, aveva cercato di distruggere me. Diceva che ero come mio padre, ed era proprio quello ciò che voleva estirpare. La mia personalità, la capacità di pensare con la mia testa. Quelli come me avrebbero mandato i Templari alla rovina.
Forse aveva ragione, ma almeno avevo cercato di tenere in vita un paio di membri, e non solo per usarli come giocattoli per scaldarmi il letto. Non mi ero nemmeno accorto di come il mio pugno aveva continuato a colpirlo in faccia, sotto l’occhio, sul mento, sul collo, ancora, ovunque capitasse, non aveva alcuna importanza. Le mie nocche si erano aperte come frutti maturi, e la carne livida e tesa del suo viso continuava a imbrattarsi del sangue che mi colava dalle mani mentre lui chiudeva gli occhi, si lasciava andare, la bocca mezza aperta e le mani abbandonate mollemente lungo i fianchi, oh, ma io avevo smesso di fidarmi di lui, dannazione, non avrei dovuto mai farlo. Strinsi il collo del suo lungo cappotto, umido per il sangue e il tempo trascorso nella Frontiera, e scrollai il suo capo come fosse una sacca, lasciando che sbattesse un paio di volte sulla roccia. – Credi di prendermi in giro? – abbaiai contro la sua faccia, il volto che pulsava per i pugni, per quel continuo intrecciarsi l’uno con l’altro e per la rabbia che mi bruciava dietro gli occhi. – Eh? So che sei lì, Reginald! – La mia voce suonava così folle, tesa e colma d’ira, non riuscivo nemmeno a controllare il ridicolo tono acuto che avevo assunto. Gli sollevai le palpebre con una mano, non tanto per osservare se le sue pupille mostrassero una qualche reazione quanto per dargli fastidio, prenderlo in giro e fargli capire chi era a comandare all’interno dell’Ordine.
Che cosa aveva fatto per i Templari, a parte metterci uno contro l’altro? La Mela l’avevo procurata io, così come io avevo trovato il Grande Tempio e avevo provato a risolvere la situazione con George Washington mentre lui se ne stava tranquillamente imboscato chissà dove a farsi maneggiare l’uccello da Charles. Come potevo non odiarlo? Com’era possibile anche solo pensare che quel posto gli spettasse di diritto? L’Ordine era la mia famglia. Non gli avrei permesso di distruggerla, non un’altra volta. – Vuoi sapere una cosa? – sussurrai, il volto ad appena una spanna dal suo, paonazzo e livido. Gli strinsi le mani intorno al collo, proprio come aveva fatto lui, e strinsi così forte che fu costretto a sollevare le palpebre, gli occhi strabuzzati e la bocca aperta nel tentativo di boccheggiare. Un brivido piacevole corse lungo la mia schiena, rizzandomi i peli sulla nuca.
I suoi occhi chiari incrociarono i miei in un moto di profonda rabbia, velati da una strana luce. Paura, molto probabilmente. La netta sensazione di essere arrivato alla fine. – Ho aspettato questo momento per… Dio, non so nemmeno esattamente quanto sia passato. – Scrollai il capo e serrai le cosce attorno al suo corpo, così che non potesse muoversi. Non avrei mai lasciato che una casuale, minuscola distrazione mandasse tutto quanto a monte. – Ora sei nelle mie mani, come lo sono stati Benjamin Church e William Johnson prima di te. Ho ucciso due membri dell’Ordine, del tuo Ordine, quella che doveva essere la tua sola ragione di vita. Avevi stretto un giuramento! – Sentii la voce spezzarsi nella mia gola e gli occhi bruciare nelle lacrime. Dio, no, non potevo crollare in modo così stupido. Tirai su con il naso, tentando di resistere. – Che cosa ne hai fatto, eh? Hai buttato al vento secoli di lavoro per dei fantasmi! Per... usarmi come Chiave! Perché, Reginald? Perché? Hai iniziato a demolire la mia famiglia fin da quando ero solo un bambino, e tutto per cosa, di grazia? Perché mi odi? – Sentivo la rabbia bruciare in piccole gocce rotonde agli angoli dei miei occhi, ma per nulla al mondo avrei permesso loro di scivolare lungo le guance. – Che cos’hai contro di me? Che cosa ti ho fatto? – gli gridai in faccia, i polmoni come avvolti in uno strato di fiamme. Probabilmente sembravo infantile, oltre che fuori di testa, ma era una cosa che mi premeva di sapere. Perché ce l’aveva così tanto con la mia famiglia? Solo a causa della sua smania per i Precursori? Era davvero così folle?
Allentai appena la presa sul suo collo, quel tanto che bastava a fargli passare un filo d’aria nei polmoni, e Reginald ridacchiò nella mia stretta. In quel momento, pensai che sarebbe stato meglio per tutti se la sua fosse stata follia. Meglio per me, sicuramente. L’idea che avesse un motivo serio e razionale per odiarci tutti e per odiarci così tanto mi metteva i brividi. Lo guardai sfogarsi in una risata lunga e lugubre come il lamento di un cane morente e deglutii un groppo grande come un pugno, insieme ad almeno un paio di singhiozzi.
Poteva aver ucciso mio padre, mia madre e Jenny – più o meno direttamente, s’intende –, ma non ero arrivato a quel punto solo per scoppiare a piangere di fronte a lui. Lo odiavo con ogni cellula del mio corpo, e proprio per quello non volevo avesse una morte dignitosa. Io non sono un Assassino. Di queste cazzate non me ne importa niente, e sapevo che, con o senza dignità, la morte è sempre la stessa cosa, ma dargli la soddisfazione di vedermi in lacrime, per quanto rabbiose e violente, dopo tutto ciò che mi aveva fatto pareva un po’ esagerato, non credete?
Inspirò, le narici dilatate nel tentativo di mandare più aria possibile nei polmoni. Gli lanciai un’occhiata sdegnosa, e qualcosa nel sorrisetto all’angolo della sua bocca mi disse che sapeva che non l’avrei strozzato. Non ancora, quantomeno. Volevo parlasse un po’. Volevo una risposta. – Niente – fece con quel mezzo ghigno stampato in faccia. Notai con un brivido che la sua espressione somigliava terribilmente al sorriso lascivo che faceva capolino sempre più spesso sul volto di Thomas. – Tutto ciò che ho fatto… – La risata gli morì sulle labbra e tossì, schizzando di saliva e sangue il mento e il collo della camicia. – Tutto ciò che ho fatto era per l’Ordine.
Chiusi d’istinto le mani sulla sua gola, guardandolo mentre strizzava gli occhi come un bambino spaventato. Sentivo il suo pomo d’Adamo agitarsi sotto le mie dita, e la scomparsa del sorriso dalla sua bocca mi fece già sentire un po’ più sicuro di me. – L’Ordine? – sibilai, il petto gonfio d’ira. Non c’era niente che mi disgustasse più della sua patetica ipocrisia. I Precursori non erano l’Ordine, lui non era l’Ordine. – Questa è bella, Reginald, è davvero bella – aggiunsi con un sorrisino, come avesse appena fatto una battuta particolarmente spassosa. – Forse all’inizio, quando hai organizzato la mia esecuzione, in quel momento potevi aver agito per l’Ordine. Non te ne sei nemmeno accorto, eppure  hai avuto sotto gli occhi il nostro punto di forza, la collaborazione. Erano tutti sotto il tuo controllo e sei riuscito a convincerli ad impiccarmi. Impiccare me, il loro Gran Maestro! Insomma, non certo il primo sconosciuto che passa per la strada, dico bene? – Inclinai il capo da una parte e lo fissai negli occhi, quasi in attesa di una risposta. Ottenni soltanto un minimo movimento dei suoi occhi nella mia direzione, le pupille dilatate dal panico, dunque continuai il mio discorso. – E poi li hai lasciati andare. Non sei mai stato un idiota, per quanto mi dispiaccia ammetterlo. – Certo che non era un idiota, cazzo, ma non era detto che sarebbe morto prima, se anche lo fosse stato. Ho visto idioti smidollati come Achille vivere per molti più decenni di quelli che avrebbero meritato, ma, si sa, la vita non è mai stata giusta. Avrei scommesso la mia anima che se anche Reginald fosse stato un povero stupido saremmo arrivati a questo punto, ma forse ucciderlo sarebbe stato più facile. Chissà, magari non avrebbe cercato di spezzarmi il collo. Vuoi continuare o preferisci che si addormenti? Scrollai il capo, cercando di riprendere il filo. Ah, sì, giusto. Il fatto che non fosse un idiota. –  Non so perché tu l’abbia fatto, onestamente. Forse pensavi che uomini così pragmatici, dediti alla vera causa dell’Ordine, uomini che io avevo addestrato e sapevano perfettamente che l’unico modo per raggiungere la pace era non spargere troppo sangue, mantenere tutti calmi e dalla nostra parte. Immagino che non ti importasse. – Feci spallucce, per quanto fosse possibile con le mani fisse sulla gola di un uomo. – Ognuno fa le sue scelte, giusto? E che importa se hai un Ordine da portare avanti, sono uomini adulti, grandi e grossi, possono cavarsela da soli. – Sbuffai. Non aveva mai capito che il senso dei Templari non era quello. – Hai guardato soltanto ai tuoi interessi.
Reginald scosse appena il capo, come se si trattasse di un dettaglio margnale. – I Precursori sono nostri alleati. Senza il loro aiuto non ci sarà più niente da salvare. Il mondo…
Sollevai la sua testa dal pavimento e la feci sbattere contro la pietra con stizza, solo per farlo stare zitto. – Sei pazzo se credi davvero a una fesseria del genere – sibilai, il volto così vicino al suo che avrebbe potuto baciarmi se solo non avesse avuto gli occhi mezzi chiusi e la testa rintronata nel dolore della botta. – Tu ti sei concentrato su quello tra noi che ti sembrava più promettente, proprio come avevi fatto con me. – Feci un sorriso triste, lanciando un’occhiata di striscio verso il punto in cui dovevano trovarsi Charles e Connor, chissà, magari ancora allacciati l’uno all’altro in attesa della morte di uno di noi. – Dovrei dire indifeso, forse. – Annuii tra me. Non c’era un termine più adatto a definire Charles, ed era evidente per chiunque lo conoscesse davvero. – Giovane, intelligente, desideroso di una guida. – Oltre a covare un sacco di rancore nei miei confronti, qualifica che lo rendeva magnificamente adatto ai propositi di Reginald. Mi sforzavo di pensare che non fosse soltanto colpa mia, dopotutto era stato lui a mandare Jenny a Damasco, ma era così difficile. Non potevo scrollare semplicemente le spalle davanti a Charles e dirgli: “Senti, davvero, mi dispiace tanto, ma ero riuscito ad avere notizie della sorella che non vedevo da anni e con cui avevo un rapporto terribile, mi capirai, giusto?”. Patetico. – Così – continuai dopo essermi schiarito la voce, – hai preferito... – No, m'implorò una voce nella mia testa, una supplica che non potevo ignorare, non puoi fargli una cosa del genere. Abbassai appena gli occhi, e pensai che quella vocetta doveva avere ragione. Stavo per mettere finalmente le carte in tavola, sbandierando che sapevo perfettamente cos'aveva fatto a Charles, proprio come avevo ormai scoperto cos’avesse fatto a me, ma cosa gliene poteva importare? Non si sarebbe certo vergognato di noi, e non credo tenesse minimamente in considerazione il giudizio di Connor: se avessi aperto bocca, gli unici a patirne saremmo stati noi, e francamente non credevo ne avessimo bisogno. – Hai preferito pensare a questa stupida grotta e a un mucchio di fantasmi di cui hai soltanto sentito parlare. Hai rovinato il nostro rapporto e sfaldato l'Ordine senza nessun motivo! – berciai, un braccio teso verso Charles e la gola che bruciava per tutte le lacrime che avevo ingoiato. – Tu non li conosci, Reginald! – sentivo la voce tendersi nel petto, sottile, sul punto di spezzarsi. Solo avendoli tutti e tre dentro la testa era possibile capire quanto assurde potessero essere le loro richieste, i loro desideri, e quanto diavolo fossero potenti. Avevano controllato Achille, mi avevano fatto ammazzare William Johnson, e lui persisteva nell'idea di dar loro altro potere. – Non sai quello che sono in grado di fare. Pensi davvero che possano ridare forma all'Ordine, renderlo migliore? A loro non importa niente di noi, e io... Io credo che tu lo sappia. Lo sai benissimo che non servirà a niente, Reginald. Volevi... Volevi divertirti, o forse distruggermi, ma ora non conta. Tu non aprirai quella porta – ringhiai tra i denti, il pollice puntato contro la parete di fondo del Tempio, – né vedrai Coloro che Vennero Prima all'opera, se mai succederà. Puoi credere quello che vuoi, non uscirai vivo da questo posto.
Abbassai gli occhi sul suo ventre che si alzava e si abbassava lentamente. Succhiava l'aria tra i denti sbarrati, ma non aveva il coraggio di replicare. Forse non l'aveva mai avuto. – Hai fatto il tuo tempo. Te la sei spassata con me, con Charles, hai avuto le tue occasioni, ma ora sei qui per loro, non è così? Per entrare davvero in questo maledetto Tempio e obbedire a una profezia ambigua e che magari non significa nulla! – Piegai le labbra in una risatina forzata e per un attimo il mio sguardo incrociò il suo, pieno d'ira e di sdegno. Come potevo parlare in quel modo dei suoi amati Precursori? Mio padre era morto per quei tre, perché io e Reginald ne sapessimo di più e potessimo fare che cosa, eh? Non c'era più un senso, era soltanto fanatismo, patetico, disgustoso fanatismo, quello che cercavamo a tutti i costi di scacciare dal mondo in nome dell'ordine. – Il Sangue dell’Aquila e il Pensiero della Croce, giusto? – Gli sorrisi, liberando appena la sua gola dalle mie dita contratte e ritorte come quelle di un vecchio. Era impossibile pensare che ci credesse davvero.
– E chi altri, se non tu? – sussurrò Reginald con un lieve colpo di tosse, i denti in mostra in un mezzo sorriso sporco di sangue.
Emisi uno sbuffo. Doveva essere proprio un genio per averlo capito. Mi balenò per un attimo in mente l'idea che lo sapesse già, anzi, che lo avesse sempre saputo, fin dal libro che aveva rubato a mio padre, e proprio per quello poteva aver deciso di portarmi con sé, ma non lo sapevo, e non avevo intenzione di chiedere alcuna conferma. Che importanza aveva? Avrebbe cambiato qualcosa? No. Non serviva a nulla. – Complimenti – commentai gelido. – Sei stato tu il primo a dirlo. Un Templare con il cervello di un Assassino. Ricordi? – Presi fiato tra i denti, pensando che nonostante avesse cercato di impiccarmi e avesse usato Tiio come esca per condannarmi come traditore, non provavo verso di lui nemmeno la metà dell'odio che provavo in quel momento. – Ci tengono in pugno. Lo fanno con tutti, è ciò che sanno fare meglio. Non vogliono aiutarci, siamo noi a dover aiutare loro con questo stupido posto. C'è un disegno dietro. Qualcosa che non è per nessuno di noi. – Affondai i denti nel labbro inferiore, tentando di calmare il battito del cuore sotto le costole. – L'Ordine non era nato per questo. Se c'è qualcuno che doveva essere condannato per tradimento eri tu, maledizione. Ne ho abbastanza di te. Hai completamente rovinato la mia vita, e Dio mi fulmini se esiste un modo per riaverla indietro. Lo so che ucciderti non servirà a niente, Reginald. – Le cosce dolevano per il continuo stringersi attorno al suo corpo, ma non potevo più permettermi di cascare in qualche stupido trucco. – Io lo so. In concreto probabilmente non cambierà niente. Qualunque cosa porti la tua morte, gioia, dolore, non posso saperlo, io lo accetterò. A volte gli uomini hanno soltanto bisogno di una ricompensa, e se fossi stato un Templare migliore lo sapresti. Conosceresti gli uomini per quello che sono. Il problema è che tu non sei nemmeno un uomo. Sei solo un pazzo con delle armi a disposizione. – Sentii i denti cozzare tra loro in un ringhio doloroso a causa di tutti i lividi che mi ero procurato in quella lotta disperata. Era la verità. Reginald era molto meno di un essere umano, era un mostro con la mente annebbiata dalla follia e dall'idea che spiriti millenari potessero cambiare il nostro mondo. Forse aveva anche ragione, ma, sul mio cadavere, avrei fatto tutto il possibile per non permetterglielo. Il pensiero che, alla fin fine, fosse tutta colpa sua sprofondava nel mio petto come il dolore di un lutto. D’altronde, che cos’aveva detto mio padre in quel maledetto e bellissimo sogno di una vita fa?
“Sai com’è che muoiono i cani?”
Un cane. Ecco cos’era stato Reginald per tutti quegli anni. Inizialmente fedele, gentile, vicino – troppo dannatamente vicino a me –, ma a un tratto era come se avesse contratto la rabbia. Ed era diventato pericoloso, assetato di sangue e di potere. No, no, le cose stavano diversamente: non era mai diventato pericoloso. Lo era sempre stato, ma mi ero fidato di lui perché non avevo altro. Come mio padre.
“Quando sono troppo violenti, quando abbaiano forte e spaventano il bestiame?” Era stato violento. Abbaiava sempre forte e chiaro, sapeva convincerti di quanto fosse corretto quel che ti aveva appena ordinato di fare. Non potevi rifiutarti: era perfettamente in grado di spaventare il suo bestiame, la sua carne da macello, ciò che ero stato durante tutta la vita. Mi aveva spaventato, usando metodi tutt'altro che delicati con me, ma, come una pecora, mi ero abituato a vedere il buono in chi mi aveva protetto e cresciuto per tutti quegli anni. Quant’ero stato cieco.
“…quando bisogna abbatterli?”
Sorrisi tristemente guardando Reginald sotto di me, le mie mani strette sulla sua gola da così tanto tempo che ormai lì sotto doveva esserci un segno violaceo grosso come quello di una catena. Non aveva nemmeno tentato di discolparsi, di farmi cambiare idea. Tese le labbra in un sogghigno, il mento che tremava mollemente sopra le mie mani. La sola vista del suo volto così pieno di meschino entusiasmo bastò a convincermi che non avevo più ragioni per rimandare. Volevo soltanto che sparisse. Emisi un gran sospiro e abbassai gli occhi sulle mie cosce, cercando di calmare il respiro. Il mio cranio pulsava di rabbia, come se stesse per esplodere da un momento all'altro.
Non avevo una pietra, ma sarebbe andato bene anche il contrario, no?
– Addio, Reginald.
Sollevai il suo torace lentamente, di poco, prima di fargli sbattere con violenza la testa sul pavimento di roccia del Grande Tempio. Inizialmente l’istinto di sopravvivenza ebbe la meglio e irrigidì il collo per evitare di subire un impatto troppo forte, ma la velocità e la potenza con cui lo sollevavo per poi schiantarlo giù crebbero man mano che la rabbia scemava. Era soltanto un lavoro, ed era mio dovere portarlo a termine. Più in fretta, con più forza, la sua testa che ciondolava avanti e indietro mentre l’osso della scatola cranica scricchiolava, si rompeva in migliaia di piccoli frammenti letali. Il sangue stava inzaccherando il pavimento, le mie mani, i vestiti e la mia faccia. Proprio come avevo desiderato per così tanto tempo. Un rivolo rosso scuro gli colava dal naso e l’ematoma attorno a un occhio gli stava impedendo di guardarmi per bene mentre moriva. E io volevo vederlo spirare, quel cane. L’avrei abbattuto di persona.
Sollevai il suo sopracciglio con le dita, così che tenesse gli occhi aperti su di me. Non c’entrava nulla l’orgoglio. Volevo che capisse. Era stato lui a farmi diventare così, a insegnarmi tutto. Non conoscevo niente di più sconvolgente per un uomo di vedere la propria creatura rivoltarglisi contro. Mi bastava pensare a Thomas, quell’altro bastardo. – Non dormire, Reginald – dissi, ma non riuscii a tendere le labbra in un sogghigno. Quella che mi usciva di bocca non sembrava nemmeno la mia voce, tanto era piena di astio, ma non voglio essere un ipocrita. Lo odiavo, com'era lecito, e anche se la vendetta non mi stava portando da nessuna parte era comunque una piccola, gelida soddisfazione vederlo in quelle condizioni. – Non abbiamo ancora finito. – Gli tirai un altro cazzotto sul naso, giusto per sfogarmi e dargli una svegliata. Al diavolo la correttezza, una morte dolce e veloce anche per il nostro nemico, il porgere l'altra guancia e idiozie del genere. Non è così che vanno le cose, alla fine. Puoi voltare il viso e concedere al nemico un altro colpo per l'eternità, all'infinito, ma io non ero quel tipo d'uomo, e avrei sfidato chiunque a diventarlo dopo aver vissuto una vita come la mia.
Il dolore del pugno lo fece trasalire, e altro sangue riprese a scorrere lungo il suo volto. – Ugh – biascicò provando a poggiare la guancia contro la roccia. Forse ancora non aveva capito di essere nelle mie mani, a mia esclusiva e completa disposizione. – Sei un gran… bastardo – sussurrò mentre lo sollevavo ancora.
– E tu sei un cane, Reginald – risposi. Avrei venduto la mia anima per sentire un sorrisetto folle e insanguinato allargarsi sulla mia faccia, una qualsiasi traccia di soddisfazione a scaldarmi il petto, ma non c’era niente. Soltanto odio. – Un cane.
Un altro colpo, il sangue schizzò con più violenza e il Gran Maestro gemette. Un altro, Birch sgranò gli occhi iniettati di sangue, il viso ridotto ad una maschera vermiglia. Di nuovo,  lo sentii mordersi la lingua in un urlo soffocato, e un attimo dopo mi sputò un grumo caldo di saliva, catarro e sangue dritto in faccia.
Fosse bastato per fermarmi.
Mi passò per la testa l’idea di tagliargli le palle e fargliele ingoiare, ma pensai che con il suo membro volevo avere meno a che fare possibile. Era passato troppo tempo, dannazione, c’era stato troppo dolore. E io non ero come lui. Non sarei mai sceso al suo livello in quel modo.
Un colpo ancora, i suoi occhi si rivoltarono e mi sentii ridacchiare. Sollevai la sua testa, solo la testa. Il volto era un’inquietante maschera rossa e deturpata, la nuca soltanto una massa di materia grigia, grumi, ossa frammentate e sangue, tanto di quel sangue che avrei potuto berlo.
Un brivido mi solcò la schiena con violenza quando mi resi conto che ce n’era dappertutto, di sangue, ricopriva il pavimento di pietra del Tempio come un tappeto pregiato. Con un respiro, mi sforza di rivolgergli un mezzo sorriso maligno – sentivo tirare le labbra sporche della materia uscita dalla sua testa, dal naso, dalla bocca – e inflissi l’ultimo colpo.
Schiantai la sua testa sul pavimento con quanta più forza possibile, e quando la sollevai per il contraccolpo strinsi i palmi sulle sue tempie e girai di scatto.
Un caldo fiotto di sangue gli uscì dal naso per via delle ossa rotte e dei nervi troncati bruscamente, inzuppandomi la camicia e i calzoni. Zampillava come una fontana, denso e nero, sangue, grumi, pezzettini di cervello, ossa e cartilagine spappolata, sembrava che tutto il suo corpo dovesse svuotarsi addosso a me. Poggiai piano il suo capo a terra mentre il suo naso continuava a gocciolare copioso. Altro sangue veniva fuori dalla bocca, ruscellava tra le labbra spaccate e colava lentamente giù per il suo volto. Sembrava così innocuo, pensai mentre mi tiravo in piedi. Aveva ancora gli occhi sgranati, scuri e colmi di disapprovazione, vitrei come fondi di bottiglia sotto le palpebre immobili. Mi sarebbe piaciuto essere contento mentre lo guardavo morire accanto ai miei stivali, davvero, ma non ci riuscivo. C’era soltanto un gran vuoto, e la voce di mio padre che continuava a riempirmi la testa.
“Una bella pietra sulla testa finché non sono stecchiti.”
Constatai la morte di Reginald Birch aprendo lentamente le mani, gli arti che finalmente si rilassavano, molli lungo i fianchi. Alla fine avevo avuto quel che andavo cercando da tanto tempo, giusto? La mia vendetta.
Solo in quel momento i miei pensieri, tutti in una volta, andarono per davvero a mio padre, Holden, Jenny, mia madre. A Tiio. Tutti coloro che Reginald mi aveva portato via. Avevo fatto la cosa giusta. Non m’importava quanto male gli avessi fatto, lui ne aveva sempre fatto di più a me, e avrebbe continuato. Quello non era il tipo di dolore che si dimentica con una sbronza e una sana dormita.
Poteva anche non essere una gara, non ufficialmente, ma pensai che se si fossero invertiti i ruoli lui le palle me le avrebbe fatte ingoiare eccome. Non avrebbe avuto misericordia di me se avessi ucciso la sua famiglia e fatto stuprare sua moglie, anzi, credo che avrebbe voluto ammazzarmi nel modo più doloroso possibile, e io non ero lì per compiere atti di bontà. Non lo avevo strangolato, in fondo, soltanto perché non mi era passato per la testa. Forse sarebbe stata una morte più lenta e dolorosa, ma non avrebbe certo reso più piacevole la visione del Grande Tempio imbrattato in quel modo. Il luogo in cui avevo baciato Tiio per la prima volta, zuppo del sangue dell’uomo che aveva ordinato di ucciderla, uh, magari sarei dovuto essere più sensibile e ucciderlo da un'altra parte, ma non avrebbe cambiato nulla. Tiio sarebbe stata lo stesso sottoterra, proprio come lui.  
Morto. Non sapevo se mi sarei mai abituato a immaginarlo davvero in quel modo. D'istinto strinsi le labbra in una smorfia. – Cane bastardo – ringhiai, ancora torreggiante sul suo cadavere con le braccia molli lungo i fianchi, libere dalla stretta delle mie cosce cosce. Sentii un singhiozzo esplodermi finalmente nel petto, isterico e liquido, e poggiai le mani sopra la bocca mentre ne usciva un altro, un altro ancora, e le lacrime erano impossibili da fermare, colavano calde e senza fine sulle braccia. Avrei voluto sollevare un piede e allontanarmi dal suo corpo, ma non avrei interrotto quel meraviglioso pianto liberatorio solo per, che so?, assicurarmi che il cranio di Reginald stesse continuando a sanguinare. Certo che continuava a sanguinare, e la macchia di allargava sulla pietra come un arazzo lavorato a mano. Con le dita serrate sulle labbra e il petto che sussultava gettai una gamba tremante oltre il suo corpo, lentamente, le ginocchia che si agitavano – sul serio, questa volta – dentro i calzoni.
Tentai di asciugare le lacrime, passando i pollici sotto gli occhi, ma quando mi voltai non ero assolutamente pronto per ciò che vidi. Il fatto di averlo aspettato per mesi, per anni, non rendeva quella scena meno significativa. La mia bocca sporca di sangue si tese in un sorriso, uno vero, alla vista di Connor che lasciava cadere Charles a terra, carponi sul pavimento come un bambino. Di lì a poco il sangue l'avrebbe raggiunto, ma non se ne curava. Era soltanto impegnato a respirare, la bocca aperta per inalare quanta più aria possibile senza star male.
Connor, alle sue spalle, si piegò sulle ginocchia e fece scrocchiare le braccia intorpidite con una strana espressione in volto. Paura, sicuramente, ma anche sollievo e disgusto per tutte le schifezze vermiglie che scorrevano sul pavimento, tra sangue nero, grumi di cervello e pezzetti d'osso candidi come la neve. – È finita – dichiarò in un grugnito.
Sì, direi che aveva colto bene l’essenza di ciò che era successo. Un po' riduttivo, forse, ma efficace.
– Che il diavolo mi porti. – Sussultai nel sentire la presa di Tom Hickey stretta sul mio braccio. Era silenzioso come un gatto anche quando si trattava di sciaguattare nel sangue fresco di un uomo. – Che il diavolo mi porti, capo, ce l'hai fatta. L’hai ammazzato. – Mi voltai a guardarlo con gli occhi ancora umidi, e si grattò il mento, studiando la situazione del Tempio intorno a sé. – Un bel po' di sangue, eh? – decretò con la sua solita noncuranza. Fu quando i miei occhi caddero nei suoi, in quei maledetti pozzi scuri, che mi sentii di nuovo come se stessi per crollare. Strinsi la mano sul suo altro braccio, i denti serrati dolorosamente, e tentennai.
– Sei... – Non sapevo nemmeno bene che cosa dirgli, come dirglielo. Avrei voluto fargli un qualche commento significativo, ma non avevo nulla in mente. Sentivo solo il rimbombo del mio cuore nel petto, come un tamburo di guerra. Non ci pensai due volte: gli gettai le braccia intorno al petto in un abbraccio, gli occhi serrati per non far sgorgare altre lacrime. Avevo bisogno che fosse lui a sorreggermi, così che io potessi fare lo stesso con Charles.
– Dai, capo – brontolò Thomas dopo quelli che a me sembrarono pochi secondi. Avrei potuto stringerlo per ore e non me ne sarei nemmeno accorto. – Non vorrai mica che mi diventi duro, vero?
Scoppiai in una risatina isterica, il volto affondato nella sua spalla e i pugni stretti sulla giacca, come se volessi strapparla. Dovetti premere una mano contro il suo sterno per riuscire ad allontanarmi senza crollare in ginocchio, e nonostante tutto tenni gli occhi nei suoi, in cerca soltanto della certezza che potessi farcela. Tom emise un grugnito e fece spallucce, come a dire che se anche non ci fossi riuscito non sarebbero stati affari suoi.
Mi aveva tradito per salvarmi la vita. Aveva messo in piedi un piano tutto suo, senza tenere conto dei giuramenti che aveva stretto o di ciò che un’imprudenza come questa avrebbe potuto portarci. Lo aveva fatto e basta, e per questo gli ero grato molto più che per tutto il resto. – Dai – brontolò tra i denti serrati. – Non vedi quant’è disperato?
Gli voltai le spalle con un groppo in gola. Non c’era certo bisogno che lo dicesse lui, l’avrebbe capito anche uno stupido. Persino Connor, alle sue spalle, lo fissava come se non avesse mai visto niente di più patetico. Mi aspettavo quasi che s’inginocchiasse al suo fianco e gli chiedesse scusa con una fraterna pacca sulla spalla.
Sorrisi mentre mi avvicinavo lentamente a lui, i tacchi che rumoreggiavano sulla roccia insanguinata, e lo guardai respirare per un po’, il capo chino contro il petto e i palmi aperti premuti a terra, le vene che pulsavano a intermittenza sui dorsi pallidi.
Quando s’accorse della mia presenza – probabilmente perché vide i miei stivali a un paio di spanne dalle sue ginocchia – sollevò gli occhi su di me, come grandi piatti azzurri e pieni di paura puntati nei miei. La punta della sua lingua torturava un angolo delle labbra, come alla ricerca di una ferita aperte da stuzzicare, e fece leva sulle mani per rimettersi in piedi, in un atteggiamento un po’ più dignitoso.
Chissà cosa pensava. Forse credeva che l’avrei ucciso già soltanto per non aver cercato di scappare da Reginald, per essere stato d’accordo con lui e avermi spinto giù da quello sgabello, e si era alzato per guardare la morte in faccia. Oppure, al contrario, aveva sempre avuto ragione Thomas, e di lì a poco avrebbe sollevato la pistola per spararmi.
Al diavolo. Non era mai stato bravo a mentire come Tom. Lo conoscevo troppo perché mi nascondesse una cosa del genere. Con un sorriso gentile in volto chinai il capo da una parte, squadrandolo come un padre che vede per la prima volta il figlio di ritorno da una campagna militare. A guardarlo, sembrava fosse passato molto più di un singolo decennio: il suo petto scarno faceva sembrare la camicia ingiallita un sacco vuoto, e i calzoni gli cascavano molli intorno alle gambe sottili, mentre la giacca lo faceva somigliare alla versione grottesca di un barbone londinese. Aveva cominciato a stempiarsi, i capelli scuri come impastati nella pece e i baffi molto più lunghi e disordinati dell’ultima volta, per non parlare delle profonde borse sotto gli occhi azzurri, gli stessi che una volta erano stati curiosi e allegri, sempre pronti a obbedire a qualsiasi mio ordine.
Era tutto diverso, ora. Si portò la mano sinistra al petto e fece per inchinarsi, un’espressione di profondo dolore sul viso. Sono qui, se vuoi uccidermi, sembrava dire.
Ma non era quello che avevo intenzione di fare. – Gran… – Lo fermai con un cenno della mano prima che potesse mandare avanti quella patetica farsa dei convenevoli, dei saluti e del rispetto nei miei confronti. Annullai la distanza tra noi con un passo e, semplicemente, lo strinsi a me, il suo viso affondato nel petto e le dita serrate sui suoi capelli. Lì per lì sentii il corpo tendersi contro il mio, come se stessi cercando di soffocarlo, ma non lo lasciai andare. Non l’avrei fatto mai più, lo avevo giurato. Premetti le labbra sulla sua testa, le braccia strette intorno al suo petto, e un attimo dopo cominciò a singhiozzare, il volto che sussultava in quell’abbraccio, uno di quelli che a Connor – e me ne rendevo conto solo in quel momento – non avevo mai dato.
– Mi… – provò a sussurrare contro il collo insanguinato della mia camicia, – mi…
– Ssh. – Le mie dita scivolarono tra i suoi capelli in una carezza. – Non dire niente – mormorai. – Non dire niente. 
 

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Capitolo 67
*** Agonia. ***


Lasciai andare lentamente Charles, le dita che faticarono a sfilarsi dai suoi capelli. Non riuscivo a credere di averlo ritrovato, lì, in carne e ossa davanti a me, con gli occhi spaventati un vitello e le labbra contratte in una smorfia ancora intrisa di malcelata disperazione. Gli sorrisi appena, stringendo le mani sulle sue spalle come fosse una recluta che indossa per la prima volta l'uniforme nuova. Non avevo parole per lui, semplicemente perché non ne avevamo bisogno. Io sapevo quel che Reginald gli aveva fatto, lo sapevo fin troppo bene, e non mi andava più di parlarne. Quell'uomo era un capitolo chiuso, nient'altro che un cadavere insanguinato alle mie spalle. Gli lanciai un'occhiata carica di sdegno, ma dentro il mio petto non c'era che il vuoto. Proprio come pensavo. Non avevo tratto alcun sollievo dalla sua morte, ma poteva anche non essere un male. L'omicidio non era certo una delle virtù cardinali, ma il profondo affetto che mi legava a Charles forse sì. Sono solo le cattive persone a trarre piacere dall'uccidere. Potevo cambiare, giusto? Potevo essere una brava persona.
Certo, grugnì una vocetta cinica nella mia testa, quando l'Inferno gelerà. Che incoraggiamento. Ne avevo davvero fatte così tante da non poter tornare più indietro? Affondai le mani nelle tasche della redingote macchiata di sangue e incassai la testa tra le spalle; guardavo Charles come se fosse un animale mai visto prima, meravigliato, mi era impossibile staccargli gli occhi di dosso. Non avrei mai potuto rimuovere la paura dai suoi grandi occhi azzurri, ma avrei fatto del mio meglio affinché se la lasciasse alle spalle come quel dannatissimo corpo morto. Forse era tutto lì. Non si trattava di tornare indietro, ma andare avanti nel cammino, decidere delle proprie svolte da un momento all'altro e seguirle. Volenti o nolenti, quel che Birch ci aveva fatto era parte di noi. Si trattava di accettare e dimenticare, come avremmo dimenticato il suo volto negli anni a venire, le rughe sotto i suoi occhi e la pelle raggrinzita sui dorsi delle mani. Niente di tutto quello, tra un ventennio, sarebbe stato così chiaro dentro la mia testa, o almeno mi sforzavo di pensarlo, ma pregavo che per Charles fosse davvero così. Non avrei sopportato di vedere ancora quell'espressione sofferente sul suo volto. Mai più.
Scrollai il capo e mi passai una mano sugli occhi, i polpastrelli ancora appiccicosi di sangue. Andare avanti, ripetei a me stesso. – Charles – provai a dire, ma la voce mi s'incrinò mentre parlavo e assunse un patetico tono un po' più acuto del solito. Pazienza. Non potevo vivere per sempre nel timore di invadere i suoi spazi e il suo passato. A volte bisognava anche adattarsi, giusto? – Sai dove tenga la Chiave? – domandai indicando il corpo ancora caldo di Reginald con un cenno della testa.
– Nelle mutande – grugnì Thomas mentre si grattava una guancia. Aveva ignorato completamente la situazione, senza intervenire né porgermi la mano in un muto cenno di aiuto, e ora faceva capolino con commenti del genere. Charles sollevò gli occhi su di lui con un certo sdegno e sbuffò, facendo sbatacchiare le falde della giacca contro il suo petto smunto.
Hickey lo raggiunse con due passi e si piazzò accanto a me, guardandolo con il capo chinato da una parte, come se non avesse mai visto nulla di più curioso. – Mi sei mancato, Charlie. – Allungò le dita verso il suo viso, ma immediatamente Lee azzardò un piccolo passo indietro, quel poco che bastava per evitare la presa della sua mano.
Sogghignai. Non diceva così quando pensava che mi avrebbe tradito, quando avevamo scommesso per la sua vita, ma non mi andava di seminare altra zizzania con dei litigi immotivati. Quei due erano il mio Ordine. Non avrei fatto nulla che potesse rendere la loro convivenza più complicata. – Poche storie – grugnii poggiando una mano sul petto di Thomas per tenerlo lontano da Charles. – È una domanda semplice, suppongo. La Chiave? – chiesi con un sopracciglio sollevato e il fiato incastrato nel petto. Non poteva essersene disfatto, vero? Quell'affare serviva. Era l'unica altra cosa che avesse importanza, oltre alla Mela e Charles e i nostri cuori ancora a battere al sicuro dentro il petto, irrorati di sangue.
Il ragazzo che avevo sempre considerato mio figlio s'infilò le mani nelle tasche e prese fiato. Sentirlo parlare di cose più o meno normali, nessuno di noi che avesse intenzione di uccidere l'altro, niente chiacchiere su Reginald o sulla fine che ognuno di noi avrebbe dovuto fare per rispondere ai propri peccati... Pensavo sarebbe stato strano, dopo tutto quel tempo. Mi ricordava il nostro periodo migliore, quello al Green Dragon, quando l'unica preoccupazione di tutti loro era seguire i miei ordini. Quante cose erano cambiate. – Ce l'ha al collo – sussurrò col capo chino. Quasi come se Reginald, oltre a parlargliene come un prete col suo crocifisso, l'avesse anche usata per qualche simpatico gioco tra le lenzuola che non gli avrebbe mai fatto dimenticare quella dannata medaglietta verde.
Annuii e gli voltai le spalle per tornare al cadavere circondato da un'aureola di sangue. Non volevo forzare la mano con Charles, a essere sincero. Parlare troppo, chiedergli che cosa avesse passato di preciso quando la ferita era ancora così fresca non mi sembrava affatto la cosa migliore. Ci sarebbe stato tempo. Ci sarebbe stato tempo per tutto.
– Lo vuoi aprire lo stesso, quindi?
La voce di Connor mi fece quasi trasalire. Rimasto in un angolo alle spalle di Charles per tutto il tempo, balzò verso di me con due giganteschi passi, i pugni stretti lungo il corpo e la mascella contratta nel guardarmi con quei pozzi neri pieni di astio incastonati in faccia. È perché non ho abbracciato anche te? Oh, piccolo, vieni qui. Un sottile sorriso s'aprì sul mio volto. – Sarebbe uno spreco della tua fatica, non credi? – ironizzai.
– Perché? – I suoi toni erano tesi come le corde di un violino. – Hai ucciso Birch. Hai avuto quello che volevi. Perché continuare? Nemmeno sai quello che c'è là dentro.
Mi strinsi nelle spalle, cercando con lo sguardo la lama celata che Thomas aveva brutalmente tranciato e reso inutilizzabile. Un buon sarto e sarebbe stata più efficiente di prima. Un calzolaio sarebbe andato comunque bene, sì. La vidi a pochi passi dal piccolo pendio di roccia e terra che portava fuori dal Tempio, una delle cinghie già inzuppata di sangue. – Non credi che ce lo meritiamo, Connor?
– Credo che non abbia più importanza – sibilò, la voce venata d'ira, mentre mi precipitavo a raccogliere la pistola e la spada, ugualmente disseminate in gjro per la caverna.
– Non ha più importanza, dici? – brontolai affondando la spada nel fodero che portavo alla cintura, sotto la redingote. – Io credo che ne abbia eccome. Là fuori c'è ancora la guerra e gli uomini continuano ad ammazzarsi, e ho ragione di credere che lì dentro possa esserci qualcosa di utile.
– E se così non fosse? – Aveva i pugni stretti così forte che le sua nocche erano esangui, macchie chiare sulla sua pelle. – Non puoi fidarti di loro, Haytham. I Precursori non...
Scrollai il capo e gli diedi le spalle per avvicinarmi di nuovo – sul serio, questa volta – al cadavere di Reginald. Pensava davvero che non sapessi quel che potevano fare? Maledizione, quei tre soggiornavano a tempo pieno dentro la mia testa. Mi avevano fatto rivelazioni sconcertanti e avevano accecato la mia mente per farmi uccidere un uomo che una volta era come un fratello. Io sapevo meglio di chiunque altro cosa potessero o non potessero fare. – Non lo senti? – mormorai con un sorrisetto triste. – Tutto il potere che c'è qui dentro. Sono loro, Connor. – Sul suo viso non apparve nemmeno la minima traccia di una reazione, così mi chinai sul corpo di Birch e sguainai la spada, scavando sotto la pelle flaccida del suo vecchio collo spezzato alla ricerca del cordino cui la Chiave era attaccata in origine. Pregai che Thomas stesse scherzando e non ce l'avesse davvero nella biancheria, perché per nulla al mondo avrei abbassato i calzoni a quel bastardo. Non più. Un brivido galoppò lungo la mia schiena.
Sentii la corda consumata sotto le dita, grazie al cielo, e diedi uno strattone per tirarla via, proprio come avevo fatto dal corpo di quell'Assassino troppo tempo fa. La medaglietta, grossa come una moneta, non aveva niente di particolare. Brillava della sua solita iridescenza verdognola, e se la si osservava alla luce si poteva scorgere una piccola incisione: un uroboro, un serpente che si morde la coda. – Abbiamo fatto un patto – ringhiai mentre studiavo quell'affarino tra pollice e indice. – Lo apriamo, vediamo che c'è dentro e tu riporti la Mela al villaggio! Così dannatamente semplice!
– Perché lo vuoi? Eh? – Connor fece un passo verso di me, piantandosi nel sangue appiccicoso che inondava il pavimento con un risucchio disgustoso. – Hai tutto quello che desideravi. L'hai ucciso! Perché...
– Perché lo volete anche voi! Speravate di trovarlo prima, no?
– Io nemmeno sapevo che esistesse finché non sei arrivato tu! Non complicare le cose! Seppelliamo il corpo e torniamo a casa. – Si era piegato un po' sulle ginocchia, come se volesse inchinarsi. – Per piacere, Haytham. Che cos'hai da perdere?
– Più di quanto credi! – sbottai, ma senza sapere esattamente che cosa dirgli. Parlavo senza pensare, soltanto perché la rabbia mi stava lentamente colmando le vene e diluendo il sangue come alcool. Mi chiedeva perché volessi aprire il Tempio, eppure mi sentivo come se fossi io a dovergli chiedere perché non volesse farlo. Era lui quello senza niente da perdere a parte noi. E se anche fossimo morti, be’, meglio per lui! Eravamo Templari. Ucciderci era il suo lavoro, e se una stupida grotta ci pensava al suo posto era solo una scocciatura in meno per tutti quanti.
Oh, Dio. Forse non voleva che io morissi. I miei occhi sfarfallarono e la mascella mi cedette, improvvisamente incapace di formulare qualsiasi parola. Rimase lì, bloccata in una o stupefatta mentre il mio sguardo restava fisso su Connor, sul suo volto contratto nell’ira e in qualcosa di molto simile al dolore.
Merda. No. Non era possibile, no. Per anni aveva creduto che io fossi stato il mandante dell’omicidio di sua madre e ora era lì, percepiva nell’aria il potere di Coloro che Vennero Prima e cercava di tenermici lontano, come se, insieme a quella straordinaria energia, sentisse anche il pericolo. Il rischio che qualcosa lì dentro non andasse bene. – Connor – sussurrai quasi senza rendermene conto, il pollice sinistro infilato nel cinturone e il palmo dell’altra mano sollevato verso di lui in un cenno pacifico, – loro non vogliono uccidermi.
Una lugubre risata riecheggiò nella mia testa. Davvero? Ne ero poi così convinto? Avevano detto che io ero il solo in grado di aprire quello stupido affare, ma aprirlo non implicava anche il chiuderlo. No. No, non mi avrebbero ucciso. Dopo tutto quello che avevo fatto per loro mi sembrava un po’ improbabile, giusto?
D’altra parte, però, non c’era nessun vincolo che m’imponesse di aprire il Grande Tempio. Soltanto una profezia che mi dipingeva come l’unico al mondo in grado di farlo.
Una mossa perfetta per stuzzicare la curiosità di un uomo. Voglio dire, essere i protagonisti di una profezia non era una cosa da poco. Pensavo che idiozie di quel genere esistessero soltanto nelle favole, proprio come i fantasmi di millenni passati e le voci dentro la testa – nelle favole e nei manicomi. Eppure altre cose che scavalcavano la mia ragione con balzi a piedi uniti, come la Mela dell’Eden o Sfera di Cristallo che fosse, esistevano eccome. Era impossibile negarlo. Quindi perché non i Precursori, perché non le profezie?
– Non mi sento al sicuro – piagnucolò Connor con una mano sulla nuca, il bicipite gonfio nella manica della giubba da Assassino. – Non sai nemmeno che cosa ci sia là dietro – ripeté, e giuro che sembrava davvero sull’orlo del pianto.
Presi lentamente fiato, le labbra premute tra loro fin quasi a far male. Non riuscivo a credere che tenesse davvero a me. Pensavo non fosse più possibile dopo così tanto tempo. Oh, be’, c’è sempre un momento buono per iniziare a fare a qualcosa. – Connor – sussurrai a mia volta, teso verso di lui nel tentativo di avere un’aria rassicurante. Merda, era una mia impressione o gli luccicavano davvero gli occhi? – Qui non si tratta di me o di te. È una profezia. S’avvererà, che noi lo vogliamo oppure no. Funzionano così. – Abbassò di colpo il capo, come se non volesse farsi vedere ridotto in quello stato. – Ora dammi la Mela.
– No.
Sgranai gli occhi. Per carità del cielo, quanti anni aveva, dieci? Maledissi me stesso per aver ordinato a Reginald di mettere quella stupida cosa proprio nella sua tasca. O lui o Charles, non era una scelta difficile, e io avevo optato per l’alternativa sbagliata. Quella che presentava più probabilità di ribellarsi a me. – Non fare il bambino – gemetti con un sogghigno, ma dentro di me il cuore mi scuoteva le costole come un terremoto. – Avanti, dammela.
– No. – La sua mano affondò nella tasca della giubba, stringendosi intorno alla Mela, e i miei denti si serrarono tra loro così forte da fremere come grilli rinchiusi in un barattolo.
Negli occhi di mio figlio brillava una strana espressione, un terrificante intruglio di paura, ira e decisione. – Non ti permetterò di rovinare tutto. – Sguainò la Sfera come fosse un’arma, lentamente, gli occhi fissi nei miei.
– Connor – sussurrai tra i denti. Ora tenevo tutte e due le mani tese verso di lui nel tentativo di fermare i suoi folli propositi. Lui non aveva ricevuto decine di lezioni sui Precursori, non sapeva niente di Altaïr Ibn-La’Ahad e di quanto fosse pericoloso usare la Mela, e se anche l’avesse saputo non ne aveva mai reso atto. Non aveva idea di che cosa fosse in grado di fare quella stupida palla di vetro. – Connor, adesso ascoltami, ti prego...
– No! – replicò in un urlo, la voce incrinata dal terrore. Stretta nel suo enorme pugno carnoso, la Mela lanciò un gigantesco lampo di luce dorata, così potente da far tremare le pareti del Tempio.
Charles gridò, e nonostante la vista offuscata dalla luce troppo forte lo vidi chiaramente crollare a terra, le mani premute sulle orecchie e il volto distorto in un’espressione di devastante dolore. Mi sentii come se qualcuno mi avesse sparato al petto, tutte le costole rotte e affondate nella carne in un singolo istante.
Al diavolo tutto. Forse lui non voleva che morissi, ma non per questo gli avrei permesso di far del male a qualcun altro. Superai Connor con una spallata, correndo nonostante la resistenza del sangue che m’incollava i piedi alla pietra, e mi parai davanti a Charles con il cuore che batteva come quello di un topo. Non riuscivo a sopportare di vederlo così, i palmi alle tempie e le palpebre serrate. – Ehi! – Gli afferrai il volto, le mani serrate sulle sue. Le lacrime scendevano dagli occhi chiusi, passavano tra le ciglia e scavavano due solchi chiari sulle sue guance sudice. – Non è niente – gridai nonostante non ci fosse nessun rumore. Non significava nulla. Mi bastava guardarlo per capire che qualcosa nella sua testa stava implorando pietà, distrutta da una forza che non sfiorava né me né Connor. – Hai capito? Non è niente! – Mi chinai finché i nostri visi non furono alla stessa altezza, così vicini che avrei potuto baciarlo, se solo non avesse avuto le labbra contratte nella più scioccante smorfia di dolore che avessi mai avuto occasione di vedere. – Andrà tutto bene – sussurrai, più a me stesso che non a lui. – Andrà tutto bene, d’accordo?
Un singhiozzo ruppe la mia voce poco prima che finissi la frase. Non potevo tollerare di perderlo un'altra volta. Non potevo. Staccai le mani dal suo viso trascinandole in una specie di carezza impaurita e mi volsi verso Connor. Thomas si trovava più o meno nelle stesse condizioni di Charles, ma era abbandonato su un fianco, rannicchiato in posizione fetale, e dalla bocca gli usciva quella sua solita risata isterica, intervallata da inquietanti singhiozzi provenienti dal fondo della gola. Non vedevo il suo volto. Non era la stessa cosa. – Smettila! – lo supplicai, la voce acuita dalla paura. – Smettila! Li stai ammazzando, cazzo! – Avrei fatto qualunque cosa perché lasciasse andare la Sfera. – Non ucciderli – gridai, e prima che potessi rendermene conto ero crollato a terra anch’io, sulle ginocchia come uno schiavo, gli occhi fissi sulle sottili volute di fumo che s’innalzavano dal pugno di Connor. – Se li ammazzi rovinerai tutto! Se li ammazzi…
Chi volevo prendere in giro? Quell’affare non avrebbe ucciso soltanto loro. Non si trattava soltanto di Thomas e Charles e delle loro menti deboli. La Mela stessa lo stava demolendo, ogni cellula del suo cervello distrutta, ridotta in cenere come ciocchi di legno in un caminetto. E io che cosa potevo fare? Sparargli? Con il rischio di ucciderlo a mia volta?
Era un suicidio. Uno stramaledetto suicidio. Mi alzai lentamente in piedi, le gambe che sembravano a malapena reggere il mio peso, e strisciai verso Connor alla massima velocità che quei pezzi di carne malandata mi consentivano, un braccio serrato attorno al busto, come per trattenere il dolore. Arrivai tanto vicino a lui da sentire la Mela pulsare nella sua mano, come il cuore di un bue. – Connor – sussurrai un’ultima volta, ma i suoi grossi occhi neri non mi stavano nemmeno fissando. Aveva lo sguardo cieco di una belva furiosa. Non si trattava più di una scelta tra la sua vita e quella di Charles e Tom. Non potevo permettermi di scegliere. Ero quasi morto Dio solo sapeva quante volte per riunirli tutti e tre, tutti vivi. Non avrei lasciato che una stupidaggine del genere mandasse a monte i miei piani.
Stupidaggine. Si trattava della Mela dell’Eden, maledizione. La dannatissima Mela dell’Eden.
E allora?
Strinsi entrambe le mani sull’enorme pugno di Connor e lottai con tutte le mie forze, i denti stretti così forte da scricchiolarmi nelle mascelle e le dita che s’insinuavano sotto le sue per far leva affinché mollasse quella palla di vetro. Riuscii a staccare il suo pollice dalla superficie liscia della Sfera e presi a tirarla da sotto, cercando di ogni modo di allontanarla dal palmo fumante di mio figlio. Il ragazzo spalancò la bocca in una smorfia di dolore mentre tiravo la sua mano verso l’alto con un paio di strattoni al mignolo, l’unico altro dito che fossi riuscito a liberare. – Aaah… – gridò, la voce debole di un vecchio che non ha più nemmeno la forza di lamentarsi. L’odore dolciastro della carne bruciata s’insinuò nelle mie narici e lo stomaco mi si rivoltò come un calzino. Gli aveva fuso la carne. Quella dannata cosa gli aveva bruciato la pelle fino a squagliarla e appiccicare la carne viva direttamente alla superficie cristallina della Mela.
Non avevo più tempo da perdere. Strinsi i denti e diedi un ultimo strattone alla Sfera, tirando con violenza verso il basso. Forse fu solo la mia immaginazione, ma mi parve di sentire la pelle di Connor opporre resistenza e lacerarsi in lunghi filamenti di pelle morta e carbonizzata mentre il manufatto si staccava finalmente dalla sua mano e io caracollavo indietro, schiantandomi di schiena sulla pietra gelida, e tutto, all’improvviso, smetteva di far male.
Solo i nostri respiri circondati dal più assoluto silenzio, la Mela dell’Eden premuta contro il mio petto come un bambino piccolo. Sollevai lentamente il capo per scoccarvi un’occhiata. Era fredda e intonsa, l’interno pieno di fumo, come la prima volta che l’avevo vista, e la superficie priva di lembi di pelle bruciata. Eppure io lo sentivo, Cristo santo, l’odore della carne cotta. Così maledettamente invitante dopo i giorni passati nella Frontiera a nutrirsi di poco o niente, e il solo pensiero mi diede il voltastomaco. Lasciai cadere la testa contro la roccia e Sfera scivolò giù dal mio petto, incassandosi nel vuoto tra il busto e il braccio. Dovevo respirare. Sì, prendere fiato e calmarmi, riempire i polmoni di aria pulita, o che almeno non mi facesse brontolare lo stomaco in preda ai morsi della fame. Non vomitare, intimai a me stesso con uno sbuffo. Per favore.
Deglutii un paio di volte, giusto per assicurarmi che tutto funzionasse ancora bene dentro il mio corpo. Non riuscivo a immaginare che cosa sarebbe successo se, una volta in piedi, li avessi trovati tutti e tre morti, stramazzati a terra con gli occhi vitrei e il cuore fermo dentro il petto. No. Non poteva essere andata così. Mi sarei sparato in testa piuttosto che assistere a uno spettacolo del genere.
Non erano morti. Non erano morti.
Allora che cosa diavolo era tutto quel silenzio, eh?
Puntellai i gomiti e sollevai il busto, il fiato grosso per la smania di scoprire se fossero ancora vivi o meno. Connor lo era, senza ombra di dubbio, perché stava proprio lì, di fronte a me, gli occhi sgranati in una smorfia di terrore mentre si guardava le mani. Il suo labbro inferiore tremava come quello di un poppante che si è appena reso conto di aver ammazzato un canarino. Ma io volevo solo tenerlo in mano, papà! Esatto, proprio quella.
– Che ho fatto? – gridò all’improvviso, le parole strascicate in un pianto disperato, a malapena riconoscibili. – Che cosa ho fatto? – I suoi occhi cercarono i miei un attimo prima che le sue gambe cedessero, facendolo schiantare con le ginocchia a terra in preda ai singhiozzi. Era esattamente questo il motivo per cui Reginald non aveva usato la Mela per uccidermi. La sua maledetta imprevedibilità. Il pericolo costante di essere ammazzati se la si usava senza il sangue giusto dentro le vene.
E lui lo sapeva. Oh, se lo sapeva. – Connor… – Provai a stabilire un contatto, la voce a malapena percettibile sopra i suoi singhiozzi lamentosi. Teneva gli occhi sui propri palmi tremanti, uno solcato dai calli dell’addestramento alle armi, l’altro come sventrato, fili di pelle arricciata su se stessa e appiccicati alla carne rossa e viva. – Connor, è finita, era solo…
– Mi dispiace – proseguì per la sua strada, ignorandomi completamente. – Mi dispiace, mi dispiace, io… Non volevo! Non sapevo che cosa…
– Dio mi fulmini, bastardo, chiudi quella cazzo di bocca!
Risentire la voce di Thomas mi fece uno strano effetto, come se il mio cuore si fosse fermato ma al tempo stesso non potessi essere più vivo di così. Girai la testa verso il suo corpo rannicchiato con una smorfia speranzosa sulle labbra. Era ancora lì, a terra, proprio come qualche istante prima, ma invece di ridere stava scavando in una tasca interna della giacca. – Porca puttana, fallo stare zitto – m’intimò con una smorfia scocciata, e un attimo dopo mi lanciò la fiaschetta di gin che gli aveva tenuto compagnia durante il nostro simpatico soggiorno nella Frontiera. Mi misi a sedere con un colpo di reni e la presi al volo, una parte di me che non poteva evitare di chiedersi come mai quel dannato liquore non fosse ancora finito. Chissà, forse c’era una fonte di gin tra gli alberi, e una volta usciti di lì Tom l’avrebbe acquistata per diventare il più ricco imbottigliatore di tutte le Colonie.
Ti rendi conto delle cazzate che stai dicendo?, brontolò di rimando la zona del mio cervello rimasta lucida. Certo che me ne rendevo conto. Si trattava di uno di quei momenti in cui non puoi fare a meno di pensare certe idiozie, una dopo l’altra, come dardi sparati da una cerbottana. Ti fanno sentire un po’ più lontano dalla morte, ecco. – Versagliene un po’ su quella cazzo di mano e fallo star zitto. Per favore. – Tom si lasciò ricadere sulla roccia, le dita tozze a massaggiarsi le tempie. – Ah, Cristo santo, che male. – Schioccò la lingua come a voler richiamare la mia attenzione, peccato che non riuscissi a staccargli gli occhi di dosso, la mente intasata da un milione di pensieri diversi, soprattutto legati a Charles. Se Hickey era vivo… Allora c’era una possibilità anche per lui. Doveva esserci, giusto? E quando se ne sarebbe andato quel maledetto profumo di carne alla griglia? Quando mi sarei messo a mangiare mio figlio? Cazzo, concentrati. – Posso sapere cos’è successo alla mia fottutissima testa, di grazia?             
Buttai l’aria fuori dal petto in un lento sospiro e mi rialzai in piedi, non esattamente entusiasta all’idea di versare mezzo bicchiere o poco più di gin sulla mano ustionata di Connor. Avrebbe urlato, Gesù, se avrebbe urlato. Urlano tutti, di solito. Per di più era ancora scioccato da ciò che avrebbe potuto fare se non gli avessi tolto la Mela dalle mani. Per una volta, davvero, dovetti ringraziare Reginald e le sue lezioni. Nonostante fosse abbandonata alle mie spalle, sulla pietra, in attesa di essere raggiunta dalla macchia di sangue che si stava lentamente seccando intorno a Birch, riuscivo a percepire il potere che quella maledetta sfera di vetro irradiava su di me, dentro di me. La tentazione, il peccato originale in tutta la sua mostruosa bellezza.
E io dovevo starne il più lontano possibile. Avevo già commesso troppi sbagli. – Connor? – gli intimai, ma i miei occhi cercavano Charles. Era esattamente dove si trovava prima, in ginocchio, ma si era come afflosciato su se stesso, le mani premute sul volto per soffocare il pianto. Vedevo le sue spalle sussultare con violenza, come una vedova al funerale del marito. – Dammi la mano – mi costrinsi a sussurrare, voltandomi con urgenza verso di lui. Il ragazzo scrollò il capo, i denti affondati nel labbro inferiore così forte da farlo sbiancare. Temevo che da un momento all’altro un rivoletto vermiglio gli sarebbe colato giù per il mento, proprio come a Reginald. – Non è il momento di fare il bambino, Connor. – Stappai la fiaschetta con i denti, come probabilmente avrebbe fatto mio padre troppi anni prima, e gli tirai bruscamente il polso verso di me, il palmo della mano rivolto verso l’alto. – Merda.
– Oh, certo! – sbottò Thomas, ma la sua voce era solo una lontana cantilena nella mia testa. – Pensiamo all’imbecille con la mano alla brace! T’ho fatto una domanda, capo, e voglio sapere perché cazzo fa così male!
Mi sarebbe davvero piaciuto rispondergli e spiegargli che era tutta colpa dei Precursori, che era quello il potere da cui dovevamo stare lontani, noi come chiunque altro, e che probabilmente l’effetto era stato peggiore su lui e Charles perché non erano discendenti di Coloro che Vennero Prima, ma non riuscivo a staccare gli occhi dalla mano di Connor. La fiaschetta mi tremava tra le dita e stringevo il tappo tra i denti con così tanta forza che avrei potuto spezzarlo, eppure a malapena me ne rendevo conto.
Certo che sei un padre rassicurante, eh? – Che cosa ho fatto? – lagnò di nuovo Connor, tirando forte su con il naso. – Che cosa ho fatto?
La pelle ancora sana era annerita come quella di un uomo rimasto per troppo tempo al freddo, un gigantesco livido scuro che gli arrivava fino alla punta delle dita, tranne per il mignolo e il pollice, anneriti fino a metà solo grazie al mio intervento. Sembrava che tenere in mano quell’affare avesse consumato la sua carne, raggiungendo temperature così elevate da sciogliere i muscoli sotto la pelle, ma era il centro del palmo quello messo peggio, esattamente come immaginavo.
Fasci di muscoli in vista, irrorati di sangue rosso vivo, muscoli e carne ancora fumante, circondata da lembi di pelle a metà tra i due stadi: se ne stava lì, sporca di polvere, arricciata su se stessa ai bordi delle ferite aperte, di uno strano colore giallastro e infetto. Mi mordicchiai il labbro per scacciare l’istinto di stringere uno di quei filamenti tra le dita e tirarlo verso di me, per vederlo districarsi e tornare alla sua forma originaria come una molla, e sollevai gli occhi su di lui. Lo sguardo di Connor sembrava quello di un bambino che aspetta soltanto di ricevere uno sculaccione. – Mi dispiace – disse, la voce così sottile che a malapena la udii. – Mi dispiace, Haytham.
Chinai il capo da una parte e lo sguardo mi cadde sulla fiaschetta che stringevo in mano. Passai lentamente la lingua sulle labbra, cercando di calmare entrambi nello stesso momento. – Non volevo – mugugnò. – Non pensavo che… Che fosse…
Al diavolo. Con uno scatto del polso rovesciai l’intero contenuto della fiaschetta sul suo palmo, poi la lasciai cadere a terra, tintinnante accanto ai miei stivali, e afferrai la punta delle sue dita gonfie per impedirgli di serrare il pugno. Gridava come un maiale sgozzato, l’altra mano tesa nella mia direzione nel tentativo di spingermi il più lontano possibile da lui, ma strinsi i denti e resistetti. Le sue urla sembravano squarciare l’aria, erano i lamenti di un uomo torturato dalla vita stessa, e io non potevo fare assolutamente nulla per alleviare il suo dolore. Non che mi facesse piacere vederlo in quello stato, ma Connor aveva le sue responsabilità in quell’idiozia. – Ragazzo. – Strizzai le sue dita fino a sentire le nocche scricchiolare sotto la mia presa, e gli presi il volto con l’altra mano. – Dammi retta solo per un secondo, d’accordo? Devi resistere. Lo so che adesso fa male, ma se ti calmi e prendi uno stramaledetto respiro tutto questo finirà. Ci sei? Respira! Respira, dannazione! – Eppure continuava, le urla tramutate in lunghi e lamentosi gemiti colmi di dolore. – Connor! – Non volevo essere costretto a mollargli un ceffone, ma sant'Iddio!, era completamente pazzo se pensava di continuare in quel modo. – Connor, piantala, perdio!
Crack. Le articolazioni delle dita scricchiolarono più forte nella mia stretta, come se le ossa stessero per spezzarsi. Sgranò gli occhi, la bocca mezza aperta in qualcosa a metà tra lo stupore e una supplica. Almeno aveva smesso di urlare. Solo quando cercai di parlare mi resi conto di avere il fiatone. – Ti sei ripreso? – sussurrai, respirando forte tra una parola e l’altra.
– Lasciami – sibilò, ma nei suoi occhi non c’era nessuna autorità.
Non l’avevo rispettato quando era in grado di intendere e di volere, figuriamoci se l’avrei fatto in un momento come questo. – Prima rispondi – replicai gelido. – Ti sei ripreso? Basta solo che fai sì con la testa. – Il suo mento si mosse lentamente su e giù, come quello di un povero vecchio in lacrime. Più che annuire sembrava tremasse, ma era ora di arrangiarsi con ciò che avevamo. – Molto bene. Allora ascoltami ancora cinque minuti, ti va?
– Avevi detto che…
– So esattamente quello che avevo detto, ma ora ti ho detto di ascoltarmi altri cinque minuti, quindi tu mi ascolterai, oppure ti spezzo tutte e quattro le dita di questa dannata mano, uno per uno. Sono stato abbastanza chiaro? – Non mi andava di essere così duro con lui, ma dopo aver visto le stronzate che era in grado di fare – per amore di cosa, poi? – mi sembrava più adeguato considerare delle misure ferree. Connor annuì di nuovo, la fronte aggrottata in una smorfia diffidente. – D’accordo. Stammi bene a sentire. Adesso io prenderò la Mela, apriremo quella parete e tu verrai con noi, che lo voglia oppure no. E non perché io mi diverta a farlo, ma semplicemente perché è ciò per cui siamo qui. Sai da quanti anni cerchiamo questo posto? Reginald Birch era senza dubbio un uomo malvagio, ma l’intero Ordine, all’epoca, era d’accordo sull’importanza del Grande Tempio. – Avvicinai il volto al suo, i denti scoperti come quelli di un predatore e l’ansia del momento a parlare per me. – E io non ho intenzione di lasciarmi sfuggire un’occasione come questa solo perché tu hai deciso di fare la brava bambina. Oh, e non pensare di metterti contro di me con una delle tue mosse eroiche. – Indicai Thomas e Charles con un cenno della testa e tornai a guardarlo, la voce carica di sarcasmo. – Non sei portato per quel genere di cose.
Lo lasciai andare, le ossa che finalmente tornavano a una posizione normale dentro le dita gonfie e livide, e mi ravviai i capelli con le mani. Avevo perso il tricorno durante la lotta con Reginald, ma non era certo il mio principale problema. Non in quel momento, almeno. – Bene! – sbottò Thomas mentre mi stropicciavo gli occhi. Per carità di Dio, no. Datemi almeno due minuti per respirare. – Dopo aver visto questa fantastica dimostrazione d’affetto tra te e il tuo bastardo potresti spiegarmi che cosa diavolo sia successo? O devo chiedere informazioni alla palla magica di ‘sto cazzo?
Connor arretrò di un paio di passi, studiandosi il palmo lacerato con la mascella contratta, e gli lanciò uno sguardo che si portava dietro almeno venti casse da tè piene di sdegno. Sollevai un sopracciglio, pensando che poteva anche mostrare un filo di gratitudine in più, almeno per tutto il gin che avevamo sprecato sulla sua stupida mano, poi sbuffai: si trattava sempre di mio figlio, no? – Se qualcuno di voi osa ancora toccare quella cosa, giuro sulla mia vita che farà una brutta fine. – Voltai il capo per sputare verso il cadavere di Reginald, il bisogno impellente di liberarmi in qualsiasi modo di ciò che era appena successo. – Il genio qui ha pensato bene di usare il Frutto dell’Eden per impedirmi di aprire il Tempio.
Tom emise un lungo fischio d’ammirazione, seduto con le gambe incrociate e le spalle alla parete laterale della caverna. – È evidente che qualcuno vuole che tu lo faccia. – I miei occhi corsero di nuovo a Charles, immobile nella stessa posizione di prima, solo che ora anche le sue spalle erano ferme. Sembrava una statua di sale. – Accettalo, bastardo. Non puoi farci niente. – Come una frustata, mi tornò alla mente una frase che aveva detto Reginald mentre tentava di uccidermi. Tu mi servi, Haytham!, così aveva detto forte tra i denti sbarrati. Sei lo strumento della Loro volontà! La volontà dei Precursori, era questo ciò a cui si stava riferendo. La profezia l’avevano scritta loro, a pensarci bene, e nonostante fino a pochi minuti prima fossi fermamente convinto che avremmo aperto in qualsiasi caso il Tempio, Prima Civilizzazione nella mia testa o meno, adesso non mi sembrava più così vero. La mossa di Connor assumeva persino un senso.
Perché obbedire a quei bastardi? Perché seguire ciò che loro avevano prefissato per me?
E abbandonare il Grande Tempio ai futuri possessori della Mela – magari una stupida famigliola di coloni – non era forse peggio? Poteva contenere qualsiasi cosa, e preferivo pagare dopo averlo scoperto che peccare d’orgoglio buttando al vento l’ultimo scopo che aveva visto i Templari – almeno, i pezzi grossi che vivevano a Londra – davvero uniti.
Connor non rispose, limitandosi a grugnire e infossare la testa nelle spalle. Scrollai il capo per liberarmi di quei pensieri e raccolsi cautamente la Mela dal pavimento, la superficie di vetro tiepida contro le mie dita. Non mi fermai nemmeno a guardarla, la lasciai soltanto cadere nella tasca della redingote, limitando il più possibile il contatto, e m’avvicinai di nuovo a Charles, il passo molto meno ansioso dell’ultima volta che l’avevo fatto. – Tutto bene? – Mi accovacciai a terra e poggiai appena le dita sul suo ginoccho, sperando che non saltasse indietro terrorizzato o, peggio ancora, che non fosse morto. – Riesci a sentirmi?
– Sì – sussurrò strofinandosi i pugni sugli occhi. Aprii le mani e se le portò davanti al volto, gli occhi fissi sulle dita tremanti come se non gli appartenessero.
– E stai bene? – Dio, volevo soltanto che smettesse di tremare, di mentire, perché sapevo che la sua risposta serebbe stata un sì. Volevo prendergli le mani tra le mie e ripetergli ancora una volta che era tutto finito, che saremmo usciti di lì e avremmo trovato un posto in cui dormire, come ai vecchi tempi, e non avrebbe più dovuto aver paura di nulla.
Ma non potevo. Aveva bisogno di risollevarsi sulle sue gambe, proprio come me. Tutto quello che mi era permesso di fare era tenere la mano lì, immobile sulla sua gamba, e aspettare. Annuì lentamente, gli occhi che cercavano i miei. C’era così tanta paura, lì dentro, molta più di quanta ne avessi vista in quelli di Connor. – Sono dietro di voi, signore. – Oh, maledizione, perché non chiudeva quella dannata bocca? Ostentava sicurezza, faceva finta di essere d’accordo con me, ma avrei preferito mille volte che scoppiasse a piangere contro il mio petto, implorandomi di tornare a casa. Lui non voleva seguirmi. Era distrutto. – Mi dispiace per quello che è successo. – I miei occhi incrociarono i suoi in quell’esatto istante, e non li avevo mai visti così lucidi e pieni di paura. Non era il terrore istintivo e animale che aveva provato a Fort Lee, quando Tom si era divertito un po’ con lui. Era la paura che continui a provare dopo mesi, anni di prigionia, quando finalmente torni libero. Ecco a cosa l’avevo abbandonato.
E dispiaceva a lui.
Maledizione. – Charles. – Serrai più forte la presa sul suo ginocchio, proprio come avevo fatto poco prima con le dita di Connor. – Non dire un’altra parola. – I suoi occhi azzurri sfarfallarono per cacciare le lacrime, le labbra premute tra loro fino a sparire nel viso. Dovevo muovermi. Sapevo che se avesse cominciato a piangere non sarei riuscito a trattenermi. Avrei dovuto asciugare quelle dannate gocce rotonde con le dita e dirgli che sarebbe andato tutto bene, tutto bene. – Ti prego. – Così mi tirai in piedi, spingendo negli stivali con tutta la forza che avevo, e strofinai i palmi sudati sulle falde della redingote. Meno l’avrei guardato in faccia, più sarebbe stato facile. Per entrambi, suppongo.
Non gli chiesi nemmeno se volesse una mano, lo sguardo perso nel vuoto. Pensavo a ciò che gli avevo appena detto, di non parlare più. Non era completamente vero. Cioè, volevo che stesse zitto, sì, che la smettesse di dare aria alla bocca soltanto perché credeva mi facesse piacere, ma se avesse capito di volersene andare perché era troppo, tutto quello era troppo, non ce la faceva più e sentiva che il cuore gli sarebbe esploso se non avesse dormito per qualche ora e finto che certe cose non fossero mai accadute, Dio, allora sarebbe stato suo dovere dirmelo.
Non avrei mai più messo me stesso davanti a lui. Mai più. Pero no, forse non avrebbe dovuto parlare nemmeno allora. Poteva anche solo, non lo so, dare una stretta al mio braccio o… o qualcosa del genere, sì. L’avrei fatto addormentare con la testa sulle mie gambe, ad accarezzargli i capelli finché non fosse crollato come un bambino. E allora sarei rimasto sveglio, immobile per non disturbare il suo sonno, incantato dal ritmo del suo respiro. Immagino che mio padre dovesse sentirsi così, durante i miei primi dieci anni di vita. Non esisti più tu come persona. Vivi per la tua creatura, perché è l’unica che se lo merita.
Mi voltai a lanciargli un’occhiata, solo per assicurarmi che fosse in grado di rialzarsi senza aiuto da parte mia. Puntò le mani a terra, come un bambino, e lentamente si tirò in piedi, le braccia aperte nel terrore di ricadere in ginocchio, travolto da qualunque cosa la Mela avesse insinuato nella sua testa. Anni prima sarei stato curioso di sapere come ci si sentisse. Ora ne avevo abbastanza. Ero stanco di tutto, della vita stessa. Forse per questo riponevo così tante speranze in Charles. Lui era il futuro. La dottrina dei Templari poteva avere ancora una sua utilità. Toccava a lui, a loro, diffonderla e farne ciò che volevano.
Io avevo chiuso. – Be’ –  dissi, la voce gracchiante per tutto quel tempo passato senza dire una parola, solo a ricacciare le lacrime dietro gli occhi, – direi che possiamo andare.
Thomas si alzò con un colpo di reni, come se non fosse mai stato meglio, e capitombolò addosso a Charles senza nessuna dignità, le mani serrate sul bavero della sua giacca e la bocca aperta in una grassa risata. Mi ritrovai a guardarli con un sorriso triste. Era mancato anche a lui. Era evidente. Forse anche Tom, mentre mi rivolgeva quella stupida scommessa, aveva pregato di sbagliarsi. Pregato che il ragazzino dalla costante aria di superiorità che lo correggeva in continuazione fosse ancora dalla nostra parte.
Mi faceva sentire un po’ meno solo. A casa. Scrollai il capo e annullai la distanza tra me e la parete dipinta di quella grotta, la stessa davanti alla quale avevo baciato Tiio, ormai secoli prima, con un paio di ampi passi. La roccia era sempre la stessa, così come le immagini dipinte. Mi chiesi che diavolo ci fosse nella tintura per farla durare così a lungo.
Forse è sangue.
Pietà, no, basta. Non volevo più sentirne parlare. Guardai la punta dei miei piedi per controllare dove fosse arrivata quella dannata macchia scura, e proprio lì, di fronte a quella che doveva essere la porta del Grande Tempio, vidi il mio tricorno. Perfettamente intonso. Lo calai in testa con un sospiro, lasciando che gli occhi vagassero su e giù, attraverso le immagini. C’erano uomini stilizzati e animali, bestie simili a dei cavalli. Cervi, forse. La fauna che abitava quella dannatissima foresta. Figure umani grandi e piccole, e al di sotto, come venature nel legno, solchi geometrici, scintillanti di una strana iridescenza verdognola. Come quelli sulla Mela. Si avviluppavano in spirali geometriche e arrivavano fino a soffitto della caverna. Presi un gran respiro, il cuore che sbatacchiava contro le costole. I Mohawk ci avevano dipinto sopra, come se non contassero niente.
O per il motivo opposto, chissà. Feci un paio di passi verso destra, seguendo la parete, fino a trovare esattamente quello che cercavo. L’avvallamento emisferico, più o meno all’altezza della mia spalla, cui tutte quelle scanalature sembravano correre. Come vasi sanguigni verso il cuore.
Deglutii a fatica, facendo del mio meglio per evitare di pensare a lei. Tiio mi aveva detto che c’entrava una dea. C’era una storia dietro quegli omini che si spostavano su e giù per la roccia senza un’apparente logica. – Iottsitíson. – Sussultai quando mi accorsi di avere Connor in piedi al mio fianco, una mano sotto il naso e l’altra stretta in un pugno. Perché doveva essere sempre così silenzioso? – I suoi occhi vegliano su di noi – sussurrò, le labbra che si muovevano appena. Per favore, no. – Le sue orecchie ci ascoltano. Le sue mani ci guidano. – Mi accorsi di sillabare quelle parole insieme a lui, allo stesso ritmo, senza emettere un suono. Doveva aver raccontato quella storia anche a lui, e, come me, non era riuscito a dimenticare la sua intonazione, le parole che usava. – Il suo amore…
– …ci da la forza – completai per lui, i palmi affondati nelle tasche. – Ormai lo so a memoria – grugnii. Speravo di risultare più brusco, ma il danno era già bello che fatto.
E poi, al diavolo!, che senso aveva mentire? Non avrei mai potuto scordare sua madre. Non quando lui le era così dannatamente simile. – Andiamo – aggiunsi soltanto, chiudendo la mano intorno alla Mela dell’Eden. – Non vorrete mica marcire qui, giusto? – Gettai uno sguardo a Tom e Charles da sopra la spalla, e pensai che se avevano qualcosa da dire, se non volevano andare avanti, Dio, che lo dicessero allora.
Potevano ancora scegliere. Restare. Meglio, tornare in città e aspettarmi in una taverna.
Sorrisi tra me. Non l’avrebbero mai fatto, non in quella vita. – D’accordo.
Sfilai la Mela di tasca e l’incastrai perfettamente in quella piccola conca. Appena le due superfici furono a contatto si scaturì un’altra di quelle onde di energia dorata. La vidi scorrere nei solchi sulla parete, illuminare a giorno l’intera caverna. Proprio come sangue, o come l’acqua dopo aver rotto una diga. E, cosa migliore, non faceva male. Nonostante il sussulto spaventato di Connor e la bestemmia lanciata da Tom sapevo che quel lampo non era doloroso. Era un segnale, non una difesa.
Guardai Connor, d’istinto, un piccolo sorriso a piegarmi le labbra, come a dire che se ero io a tenere in mano la situazione tutto si risolveva per il meglio. Sempre.
Peccato che la roccia prese a tremare, facendoci indietreggiare tutti di un paio di passi, con il terrore negli occhi. Almeno, io lo sentivo bruciare nei miei molto più della rabbia e della vendetta. – Fischia – fece Thomas, la voce appena venata di sorpresa. Come se vedesse sfere luminose e aprisse caverne ogni santo giorno. – Fischia. – Non potei fare a meno di essere d’accordo con lui quando vidi la parete e le sue venature innalzarsi come una saracinesca e sparire… da qualche parte, dentro il soffitto a malapena visibile sopra le nostre teste. – Porca puttana. – Bisogna ammettere che le imprecazioni di Tom rendevano il tutto molto più affascinante, non c’era dubbio.
Restammo a guardare, incapaci di spiccicare parola. La Mela continuava a irradiare luce, ma io a malapena me ne rendevo conto, incantato com’ero da quello spettacolo così dannatamente strano. Non era possibile. Insomma, la pietra… la pietra non affonda nella pietra. I Precursori potevano avere tutti i poteri del mondo, ma arrivare a questo… No. No, semplicemente. Quella maledetta parete di roccia doveva andare a finire da qualche parte. Doveva. Forse c’era una zona cava o friabile nella terra. Oppure…
– Haytham. – La stretta di Connor sulla mia spalla mi riscosse da quei pensieri. Mi accorsi di aver seguito la corsa di quella stupida parete fin quando non era sparita quasi completamente nella roccia sopra le nostre teste, ignorando il corridoio dalle pareti lisce e ortogonali che si era aperto subito dietro. – Andiamo. – Pronunciò quella parola con una strana intonazione, più come fosse una domanda. Andiamo? Annuii tra me, la mascella contratta nel tentativo di restare concentrato su quel che avevo davanti agli occhi.
Il potere della Prima Civilizzazione mi aveva investito come uno sparo in pieno petto, molto più forte ora che finalmente quell’affare era aperto. Mi annebbiava la vista – o forse la acuiva? –, ogni cosa che luccicava e sfumava nel giro di un secondo, senza avere il tempo di mettere davvero a fuoco. Tesi la Mela davanti a me come una lucerna e mossi lentamente un passo, i piedi che sembravano pesare una tonnellata. Perché avevo ordinato a Charles di non parlare? Non avrei mai dovuto farlo. Dovevo lasciargli la libertà di dire ciò che voleva, idolatrarmi, come una decina di anni prima. Buttai l’aria fuori dal petto in uno sbuffo mentre sollevavo anche il secondo piede. A che scopo? In fondo, Charles non era Connor. Non avrebbe mai messo se stesso e il suo dolore davanti allo scopo dell’Ordine.
Eppure, per una volta, non volevo che facesse altro. Illuso. Come al solito. – Andiamo – intimai al resto del gruppo, cercando di usare un tono autoritario. Che non tremasse dalla paura, almeno.
M’inoltrai nel corridoio, i tacchi degli stivali che rumoreggiavano sul pavimento, ma in modo diverso. Sembrava quasi fatto di metallo, la luce della Mela che si rifletteva appena sulle pareti attraversate orizzontalmente dall’ennesimo solco, come fosse fatto di due blocchi di pietra separati l’uno dall’altro da qualche strano meccanismo avanzato di Coloro Che Vennero Prima.
Un brivido mi corse lungo la schiena. Non mi andava più di guidarli in quell’impresa, eppure qualcosa costringeva le mie gambe a percorrere il corridoio in avanti, senza nessuna esitazione, nemmeno ci fosse in gioco la mia vita. – Gran Maestro?
Mi voltai di scatto, il cuore che batteva come un pazzo nel petto. L’aria lì dentro sembrava più sottile, rarefatta, arrivava dritta al cervello, lo faceva lavorare più in fretta. Il sangue dei Precursori ribolliva nelle mie vene e io non potevo farci nulla. Solo assecondarlo, continuare a camminare nella speranza di arrivare da qualche parte. Non poteva essere tutto così vago, così… inutile, giusto? Non avevamo cercato quel posto solo per camminare verso il nulla come degli idioti. C’era di più. Doveva esserci di più. Eppure non riuscivo a vedere altro che la luce della Sfera e ciò che sfiorava. Il nulla. Lo stramaledetto nulla. – Gran Maestro? – Battei le palpebre un paio di volte. Mi avevano chiamato, credo. Sì, per quello mi ero voltato, solo che non riuscivo a vederlo. Cercavo altri segni sulle pareti, qualcosa che mi facesse capire quando quelle mura si sarebbero aperte, o avrebbero anche solo preso una svolta.
Mi passai la manica della redingote sulla fronte sudaticcia e misi finalmente a fuoco il volto di Charles, sempre pallido e smunto, ma un po’ più rilassato. Almeno finché i suoi occhi non si posavano sulla Mela dell’Eden, ricordando il dolore che doveva aver provato quando l’aveva tenuta in mano Connor.
Il Sangue dell’Aquila e il Pensiero della Croce. Non gli avrebbe mai fatto del male, finché l’avessi avuta io. – S-sì? – mugugnai, le parole che faticavano a uscirmi di bocca, come dopo un boccale di birra di troppo. Sapevo di avergli detto… qualcosa sul non parlare più, ma ero così confuso, e i miei piedi continuavano a muoversi in avanti, non sentivo più le mani, avvolte nel calore benefico della Mela, e i miei occhi scattavano continuamente dal suo viso alla parete dietro di lui. – Cristo – ringhiai, cercando di concentrarmi sulla dannata faccia di Charles. Non mi sentivo più in controllo di nulla.
– Tutto bene?
Perché me lo chiedeva? Era lui quello che ne aveva passate troppe, di recente. Oh, al diavolo, no che non andava bene. Quei bastardi mi stavano facendo qualcosa, e nemmeno io ero in grado di dire cosa. Strizzai gli occhi e strofinai il polso contro la tempia. Piantatela, intimai a Minerva, Giunone e chiunque altro ci fosse nella mia testa. – Sì. Certo – biascicai, gli occhi strizzati tra le palpebre, e finalmente riuscii a guardarlo negli occhi, vedendolo per davvero. Sembrava quasi più tranquillo. Poi si notavano le mani torte come artigli, pronte a scattare, e le iridi azzurre che schizzavano da una parte all’altra dal corridoio, della mia stessa persona, e finivo per giungere alla solita conclusione. Stava fingendo. E fingeva per me. – Tu?
Fece spallucce, evitando di guardarmi in viso. – Non c’è male. – Non c’è male. Ridicolo. Probabilmente stava morendo di paura. – Volevo solo dirvi... So che mi avete detto di non parlare, ma io… Credo sia mio dovere, in fondo. – Annuii senza ascoltarlo davvero. Stavo cercando i suoi occhi, a essere onesto. Quelle dannate macchioline ghiacciate sul suo viso sconvolto. – Io…
– Lascia perdere – grugnii, la testa incassata tra le spalle. – Non è necessario che tu lo dica. – Mi sforzai di abbozzargli un sorriso, ma era così difficile, la mente confusa da tutto quel potere e i piedi che continuavano a premere sul terreno per gli affari loro, senza preoccuparsi della mia volontà. – Davvero. Non ti preoccupare. – L’idea che dopo tutto quel che aveva passato si sentisse addirittura in dovere di dirmi qualcosa premeva nel mio petto dolorosa come un macigno.
Non c’erano molte possibilità. Poteva serrare le mani intorno alla mia gola e dire che ero un bastardo, un enorme bastardo, per averlo lasciato in balia di Reginald per così tanti anni e stringere, stringere fino a spezzare le vertebre e farmi uscire gli occhi fuori dalle orbite. Senza dubbio l’avrei preferito alla seconda possibilità, ovvero che mi ringraziasse per averlo ucciso.
Non me lo meritavo. Non mi meritavo delle scuse, e molto probabilmente non meritavo nemmeno di averlo al mio fianco. Sollevai lo sguardo su di lui e lo trovai a mordicchiarsi il labbro inferiore con insistenza, come se avesse sbagliato qualcosa. Benedetto ragazzo. – Io… – Tenace come poche altre persone al mondo, molto più di me, perché lo era solo quando contava. Sembrava ancora un bambino inglese, educato dai migliori precettori, che deve obbedire a quello che mamma e papà gli hanno insegnato, dire sempre “per favore”, “prego” e “grazie”, in qualunque situazione e anche davanti a Satana in persona. – Vi devo la vita – disse, più serio di come l’avessi mai visto in tutta la mia vita. Il che non era poco, senza dubbio. 
Mentre lo fissavo negli occhi e ripensavo al nostro primo incontro, su un pontile di Boston, quando portava i baffi più corti e ordinati e ogni giorno usciva dalla sua stanza pettinato come neanche Re Giorgio in persona, mi resi conto che, diavolo!, quanto si sbagliava. Ero io a dovergli la vita. Se fosse morto non avrei avuto alcun motivo per cercare la pace, nessuno scopo come Gran Maestro dei Templari. Senza di lui probabilmente io e Connor ci saremmo uccisi molto tempo prima e avrei finito per dimenticare Reginald, perché tanto non avrebbe avuto niente con cui tenermi in pugno. L’Ordine sarebbe rimasto nelle mani di Birch, almeno fino alla sua morte. Poi saremmo semplicemente spariti nel nulla, come una macchia su una camicia. Eppure gli feci sì con la testa, gli occhi piantati nei suoi. Mi sembrava non avesse bisogno di nient’altro. – Mi dispiace – aggiunse, come se quella risposta non fosse stata soddisfacente. Mi stava rendendo le cose difficili, Charles. Gli dispiaceva, aveva detto. Per cosa, di preciso. Per Tiio? Per com’erano andate le cose? Per ciò che Reginald mi aveva fatto da ragazzo?
Pazienza. Certe ferite non cicatrizzano mai, suppongo. – Non credevo… Non… – Oh, Cristo, c’erano così tante cose che poteva non credere. Che sarei andato a salvarlo, che quella tortura fosse finalmente finita, anche soltanto che fossi vivo e m’importasse ancora qualcosa di lui.
L’avevo praticamente cresciuto. Dio, come poteva non importarmi più? – Charles?
– Sì? – Chinò il capo da una parte, come se non aspettasse altro che un mio intervento. Sembrava una suora che sente finalmente parlare la statua del tale santo dopo aver passato l’intera notte a pregare.
Mi sforzai di fargli un sorriso che sembrasse tranquillizzante. – Perché ti dispiace? – Avevo intenzione di zittirlo, a dire il vero, di chiudergli di nuovo la bocca e impedire che si scusasse ancora per qualcosa che non aveva fatto, ma ero curioso. Si sentiva in colpa? O era semplicemente una patetica frase di circostanza che voleva buttare tra noi per riallacciare i rapporti?
Non ce n’era bisogno. Non ce n’era mai stato bisogno. – Ho cercato di uccidervi – sussurrò tra i denti, i pugni stretti così forte da farsi sbiancare le nocche. – Non volevo farlo davvero. Avevo perso la speranza. Pensavo… – Chinò lo sguardo sul mio petto, la voce che tremava nell’uscire dalle sue labbra. – Pensavo fosse l’unico modo per porre fine a tutto. Soddisfarlo. Obbedirgli.
Deglutii faticosamente, come se avessi dovuto inghiottire un groppo grosso quanto il mio pugno, e improvvisamente i miei piedi si piantarono nel pavimento, immobili. Pregavo solo che mi guardasse negli occhi e dicesse che aveva cambiato idea, che aveva capito quanto subdoli fossero i giochetti di Reginald e quell’idea era stata soltanto una scelta sbagliata dettata dalle circostanze. – È normale – riuscii appena a sussurrare, la voce piatta. – Ci sono cascato anche io.
Annuì. Oh, misericordia. – Temevo che vi uccidesse – mormorò. – Avrei voluto fare di più. Aiutarvi a…
Sorrisi tristemente. Ad ammazzare Reginald, intendeva. Non ne sarebbe stato capace. Era già stato abbastanza difficile per me, figurarsi. – Non importa – risposi facendo spallucce. – E non deve dispiacerti. Non è colpa tua.
– Non è l’unica cosa brutta che abbia fatto – aggiunse in un grugnito. Mi lasciò basito, lì, a guardarlo con gli occhi che sfarfallavano e la bocca mezza aperta. Parlava di cose brutte, lui, proprio come Thomas parlava di passioni rare. Aveva sgozzato Tiio. L’aveva violentata.
Cose brutte. Al pensiero mi venne quasi da ridere. – Lo so. – Che cosa avrei dovuto fare? Mettere una mano sulla sua spalla e fare il buon pastore della situazione? Ti sono assolti tutti i peccati, Charles Lee, ora va’ in pace. No. Non ne ero in grado, nemmeno con lui. Certo che aveva fatto degli sbagli, come tutti ne fanno nella vita, ma riportarli in superficie non avrebbe certo fatto di lui un agnello sacrificale. – Non… –  Mi strinsi nelle spalle senza sapere bene che cosa dirgli, quindi buttai fuori il fiato in un sospiro. –  Ti fidi di me, Charles?
Lo vidi aprire la bocca in una smorfia perplessa. Oppure oh, Dio, forse voleva cominciare uno di quei discorsi contorti su ciò che aveva fatto a me e ciò che io avevo fatto a lui. Non ero pronto per una cosa del genere. Lo fermai con un cenno della mano, scoccando un’occhiata alla figura di Thomas che mi aveva superato con due ampie falcate, la luce della Mela a bagnargli la schiena. –  Rispondi e basta. Qui, adesso, ti fidi di me?
– Io… – Lo fulminai con lo sguardo. –  Sì. –  Grazie a Dio.
– Bene – gli grugnii in risposta, – allora dammi retta e dimentica tutto questo. Non parlarne. L’importante… – Premetti le labbra tra loro con un fremito. Non sapevo se fosse giusto dirglielo o meno, con Connor a portata d’orecchio e la Mela dell’Eden stretta in mano. Al diavolo. Gli avevo appena salvato la vita. O il fondoschiena, quantomeno. Se non allora, quando? –  L’importante è che tu sia salvo.
E per una volta nella vita mi sentii bene, davvero bene, come se mi fosse stato tolto un immenso peso dalle spalle. Gli avevo detto la verità, finalmente. Niente avrebbe avuto senso se lui fosse morto, giusto? Niente più Templari, niente di niente. Io e Thomas non potevamo essere un Ordine. Eravamo più un disperato e un ubriacone che filosofeggiano pensando di cambiare il mondo mentre tracannano alcool in onore dei vecchi tempi.
Charles era diverso. – Per favore – dissi, una mano tesa nella sua direzione, – per favore, non dire niente. Non adesso.
– Io… – si mordicchiò l’interno della guancia in un gesto a metà tra uno scatto nervoso e un modo per frenarsi dal parlare. Forse i suoi occhi erano caduti nei miei, o più semplicemente aveva colto la sincerità nelle mie parole. – D’accordo – disse soltanto. Credo di non avergli mai voluto bene come in quel momento, quando incurvò le labbra nel sorriso triste di un amico dopo un litigio, nell’attimo in cui tutto è tornato come prima e si finge che non sia successo nulla.
– Ehi! – La voce di Thomas fu come un brusco risveglio da un bel sogno. Cristo santo. – Quando voi due avete finite di scambiarvi gli anelli venite a dare un’occhiata qua!
Scrollai il capo e mi voltai verso la fine del corridoio, ma non potei fingere di non notare il rossore che aveva invaso il volto di Charles. Gli feci un sorriso di rimando e battei la mano sulla sua spalla in una pacca amichevole, dandogli le spalle per raggiungere Tom. Poteva essere sconveniente lasciare di nuovo lui e Connor da soli, ma nessuno dei due mi sembrava mentalmente pronto a uccidere ancora.
Non sarebbe stata una cosa da tutti, era evidente. Persino nel fodero appeso al mio fianco la spada corta sembrava pesare una tonnellata. – Trovato qualcosa? – esclamai, la voce che a malapena superava l’eco dei miei tacchi. Bastò qualche passo avanti perché il corridoio si spalancasse in un altro ambiente costituito della stessa misteriosa roccia scura.
La luce della Mela s’affievolì di colpo, come quella di una candela troppo consumata, e solo allora notai la parete dritta, come uno strapiombo, che delimitava la camera pochi metri più in là. C’era un silenzio inquietante, lì, e non si muoveva nemmeno un filo d’aria, ma mi sentivo come se qualcuno ci stesse osservando. Oltre la parete c’era… qualcosa. Non finiva nel soffitto, anzi, sembrava più un balcone. Un’antichissima ed enorme terrazza con vista sul niente. – Quaggiù, capo!
Abbassai lo sguardo: il pavimento subiva una brusca pendenza, fino a scomporsi in una piccola rampa di scale, non più di sei o sette gradini. Tom se ne stava lì, un piede puntato sull’ultimo gradino e il volto teso in una smorfia affaticata, le dita infilate in una fessura trasversale della roccia.
– Un’altra porta? – Hickey si voltò a guardarmi, improvvisamente divertito. Aveva colto la sfumatura disperata nella mia voce, e nonostante tutto immagino non potesse darmi torto. No. Un’altra porta poteva voler dire un’altra chiave, una chiave che potevamo anche non avere, e non avevo attraversato la Frontiera, sopportato i fantasmi del mio passato e quelli dei Precursori soltanto per arrivare lì, vedere mio figlio impazzire grazie a quella stupida palla di vetro e scoprire che era tutto inutile.
Non l’avrei accettato. – Eh, già – esclamò con un sorrisetto, passandosi la manica della giacca sulla fronte imperlata di sudore. – Io c’ho provato, ma niente. Non si muove d’un cazzo.
Mi sforzai di sollevare un sopracciglio in un’occhiata scettica. Pensava davvero che la Prima Civilizzazione avrebbe permesso a un uomo così… comune – senza offesa, Tom – di proseguire in quel viaggio? Aprendo una porta a mani nude, magari? – Hai provato a spingere invece di tirare?
– A-ah, questa è bella, mi starei pisciando addosso se non avessi buttato tutto quel che avevo da bere per la mano del tuo bastardo. – Sollevò i palmi in segno di resa e si appiattì contro la parete che scendeva verso la porta, un sorriso di sfida aperto sul volto. – Fa’ tu, predestinato di…
Non ebbe nemmeno il tempo di finire la frase. La Mela s’illuminò tra le mie mani, tiepida come se fosse viva, e la porta rifletté quella stessa, potente luce dorata. Le due parti della porta si separarono, scivolando nella roccia come su dei binari invisibili. – …’sto cazzo.
– Puoi dirlo forte. – Non riuscii a trattenermi dal rivolgergli un sogghigno. – Stammi dietro.
Tom scoppiò a ridere, sbattendosi le mani sulle cosce in un gesto teatrale. – E magari vuoi anche che ti baci il culo, giusto? – esclamò con quel tono strafottente che era così suo, anche nelle peggiori situazioni. – Ti ho salvato la vita, nel caso te ne fossi dimenticato. Potresti anche evitare di trattarmi come l’ultima delle merde!
Scrollai il capo, pensando che poteva anche avermi salvato, ma, Dio, quanto l’avevo odiato in quei pochi, devastanti minuti in cui si era schierato in modo così subdolo dalla parte di Reginald. – Dimmi una cosa. – Feci un mezzo giro su me stesso per parlare guardandolo negli occhi. – Quando ti ho salvato da Bridewell… Avevi già in mente di fare quella simpatica sceneggiata? – gli chiesi, indicando con un cenno della testa il corridoio da cui eravamo appena sbucati.
– In teoria. – Tom fece spallucce, una mano a grattarsi i folti capelli scuri dietro le orecchie. – Pensavo che saremmo morti entrambi molto prima di arrivare a questo, se devo essere sincero.
– E perché hai cambiato idea?
Puntò un gomito contro la parete e roteò gli occhi, prima di allungare una mano e strizzarmi la guancia in un buffetto. – Per il tuo bel faccino, è ovvio. – Gli strinsi il polso così forte che avrei potuto spezzarglielo, allontanandolo da me con un grugnito di stizza e la bocca storta in una smorfia disgustata. – Lo sai, il perché. Non gli interessava l’Ordine. Gli interessava questo coso. E so che interessa anche a te, ma la sua era più… una curiosità morbosa, ecco. Malata.
– E tu quando si tratta di morbosità sei sempre un esperto – grugnii muovendo appena le labbra.
– Uff, quanto sei pesante, capo. – Si voltò per lanciare uno sputo oltre la spalla proprio nel momento in cui Charles poggiò gli stivali sul primo gradino, le guance scavate rese più evidenti dalla luce della Mela. – Tu vuoi entrare perché credi ne valga la pena. Non sei qui per seguire dei fantasmi come fossero farfalle.
Sogghignai. – Non è esattamente il genere di cose per cui sei portato, giusto?
Tom si strinse nelle spalle e puntò i palmi davanti a sé, come in un trucco di magia. – Io? Nah. A me interessa solo avere una birra in una mano e una tetta nell’altra. – Le sue dita fremettero, come se solo il pensiero di stringervi un seno lo facesse impazzire. – Oh, e l’Ordine – aggiunse con un sorriso, picchiandosi il pugno chiuso sul cuore. – Sempre.
– Sempre – gli feci il verso. – Certo.
– Sul mio onore!
Mi voltai con una risatina. Non sapevo esattamente quanto valesse il suo onore, ma non mi sembrava certo una somma su cui valesse la pena di investire. – T’ho detto che ci credo, che altro… – Avanzai di un passo nell’oscurità oltre la porta – razza di idiota, non mi ero reso conto del fatto che nonostante la luce della Sfera non si vedeva a un palmo dal naso – e i miei piedi sprofondarono nel nulla.
Sentii solo la bocca aprirsi, le guance piene d’aria e la Mela stretta al petto, come se valesse più della mia stessa vita, ma nient’altro. Nessun urlo, niente di niente. Battei la schiena contro qualcosa, terra, probabilmente, terra, sassi e radici sporgenti, e il mio cranio emise un inquietante scricchiolio quando impattò sulla pietra, come una noce spaccata nel pugno di un uomo straordinariamente forzuto.
Poi chiusi gli occhi, o forse la Mela smese di emanare quella calda luce dorata, e per un po’ ci fu solo il buio.
Grazie a Dio.

– Porca puttana, capo, come hai fatto a non vederlo? E-eh. – Thomas stava evidentemente sghignazzando, oltre a schiaffeggiarmi una guancia con delle pacche più o meno gentili. – Non ci credo che non l’ha visto. Non ci credo proprio.
– È caduto – puntualizzò Connor con un tono da studente modello che mi aspettavo più di sentire dalle labbra di Charles. – Credo sia evidente che non l’ha visto.
– Senti, bastardo, se sei così intelligente sveglialo. Uhm?
– Sono… – Più che una parola sembrava l’insignificante mugolio di un animale sofferente, ma non aveva importanza. Battei un paio di volte le palpebre, cercando di mettere a fuoco il mondo intorno a me, ancora avvolto nell’oscurità.
Il mio palmo si colmò di nuovo del calore della Mela, e per la prima volta fui felice di sentirlo, di sapere che era ancora lì e non rotta in mille pezzi contro qualche stupido sasso. Sempre che fosse possibile, ovvio. – Visto? – La prima cosa che vidi fu Tom che scattava in piedi, le braccia aperte e lo sguardo rivolto verso Connor. – E tu che non ti fidavi. – Storsi le labbra in una smorfia di dolore mentre tentavo lentamente di mettermi almeno seduto. Effettivamente il suo non mi sembrava proprio il più scientifico e affidabile dei metodi, ma almeno ero ancora vivo. D’istinto calai la mano nella tasca dei calzoni, terrorizzato dall’idea di non trovarci più la stupida medaglietta iridescente che mi era costata così tanto. Trassi un lento respiro alla sensazione del metallo – o qualunque materiale fosse – contro i polpastrelli, e quasi smisi di sentire il dolore alla schiena.
O forse era merito delle mani di Charles, serrate sotto le mie ascelle per aiutarmi a sollevare il busto. – Mollami – ringhiai d’istinto, scrollando il braccio che non reggeva la Mela per allontanarlo da me. Magari fosse bastato così poco. Non riuscivo a credere che si sentisse davvero in debito con me, ma dal suo punto di vista era logico. Per quanto cercassi di dimenticarlo, quel ragazzo aveva ucciso la madre di mio figlio. Stava solo facendo del suo meglio per rimediare, e non si sarebbe arreso solo perché io gli dicevo di lasciarmi in pace. Lo sentii schioccare la lingua contro il palato, come a dire che dovevo stare zitto e non ribattere. Scrollai in capo in un sospiro, ma accettai volentieri la mano che mi tese per aiutarmi a rimettermi in piedi. – Diavolo, Charles – mormorai tra i denti. Sul suo volto era appena abbozzato un sorriso gentile, di quelli cui era impossibile rispondere male. A meno che non si avesse la schiena dolorante e tesa come una corda di violino e un incontrollabile senso dell’orgoglio, naturalmente. – Non prenderla come un’offesa, ma non è necessario che tu sia così… – La parola che avevo in mente era servile, ma non la pronunciai mai. Temevo potesse ferirlo, ecco. Accennai alla sua persona con la mano, e l’unica risposta che mi diede fu una stretta di spalle, come un bambino.
Al diavolo. Gli rivolsi un sorrisetto complice prima di voltarmi verso Thomas e Connor, intenti a parlottare come massaie pettegole del mio stato di salute. O meglio, Tom era intento a parlottare del mio stato di salute, perché Connor ascoltava e basta, il pugno sano stretto e lo sguardo perso nel vuoto. – Te l’avevo detto che stava bene. Insomma, gli avrà fatto un po’ male alle anche, ma quella è la vecchiaia, giusto? È normale.
– Ti conviene chiudere il becco, Tom – esclamai con il mio migliore tono autoritario, mollandogli uno scappellotto nel superarlo. – Le mie anche saranno quelle che sono, ma ci sento ancora piuttosto bene. – Anche troppo, considerando la notevole quantità di voci che popolavano la mia testa. – Stavi dicendo qualcosa sul modo in cui sono caduto, giusto?
Si massaggiò la nuca con le nocche, il labbro inferiore sporto in una smorfia offesa. – Caduto a dir poco, capo. Cascato come un sacco di patate, questo ti si addice di più. – Lo colpii un’altra volta, le dita a frustrare il suo collo.
– Un altro commento del genere e ridò quest’affare a Connor – gli sibilai nell’orecchio, passando lentamente il pollice sulla liscia superficie della Mela.
– D’accordo, d’accordo, direi che sei un tipo convincente. – Sogghignò, scoccandomi una delle sue solite occhiate da mentecatto. – Per farla breve, non hai visto quella discesina là. – Indicò un punto alle mie spalle con un cenno della testa, e quando mi voltai non potei fare a meno di sentirmi un po’ stupido. Qualche metro più su era ancora ben visibile la porta che avevo aperto con la Mela, ma subito dopo il terreno spariva, crollando in un declivio così ripido da sembrare verticale, pieno di radici, sassi e terra dura. – Quindi sei caduto, hai battuto la testa e io ti ho riportato indietro dal mondo dei morti.
– A ognuno i suoi meriti.
– Fai lo spiritoso, bastardo? – Tom tirò un colpo sull’ampio petto di Connor, proprio come gli schiaffi che aveva tirato a me per riportarmi indietro dal mondo dei morti.
Sollevai una mano in segno di resa. – Finiamola qui, vi va? – E feci un passo avanti. Dovevo continuare, raggiungere qualunque cosa ci fosse alla fine di quel percorso. Lo dovevo a me stesso, a mio padre, che era morto per quello stupido libro sulla Prima Civilizzazione che Reginald voleva così tanto, e lo dovevo all’Ordine. Più che a chiunque altro.
La pietra grigia dalla strana consistenza, quasi metallica, che ci aveva accompagnato nel corridoio precedente continuava a ricoprire il pavimento, aprendosi in sporadici varchi da cui faceva capolino uno strano minerale, simile al diamante, ma nero come la pece; le pareti, invece, somigliavano sempre più a quelle di una vera grotta, una naturale.
Il bello… Il bello è che nemmeno per un secondo mi chiesi che cosa stessi facendo lì. Non dubitai mai. Avrei dovuto avere la modestia necessaria per capire di essermi spinto troppo oltre. Basta. Reginald era l’unica minaccia che incombeva sull’Ordine, e con la sua morte vi avevamo posto fine. Perché proseguire? A quale scopo? Perché aprirlo, addirittura? Avrei potuto semplicemente girare sui tacchi e andarmene invece di preoccuparmi per qualunque cosa si nascondesse dietro quella parete di nuda roccia.
Diavolo, quant’è facile parlare con il senno di poi.
Forse mi dispiaceva per Connor. Aveva smosso mari e monti per procurarsi la Mela, lo avevano addirittura bandito dal villaggio. Sarebbe stato uno spreco non utilizzarla. E a quel punto che cosa ne avremmo fatto? L’avrei abbandonata nella Frontiera, col rischio di farla cadere nelle mani di qualche stupido patriota? Nel migliore dei casi sarebbe rimasto folgorato sul colpo, nel peggiore l’avrebbe venduta a qualcuno, il quale l’avrebbe poi regalata a qualcun altro, e quest’ultimo l’avrebbe poi usata come dote di nozze della figlia, e prima o poi sarebbe arrivata alla persona sbagliata. Un Assassino, per esempio. O Washington.
Quello che dicevo a me stesso era di essere curioso di sapere che cosa nascondesse quella grotta e perché Reginald ci tenesse tanto, perché entrambe le fazioni ci tenessero così tanto. Da sempre l’uomo lotta per cose futili, giusto? Un pezzo di terra, diritti sottoscritti su carte che chiunque può stracciare, ideali stupidi e campati per aria come la libertà, e questi erano solo alcuni esempi. Ciò che il Tempio nascondeva aveva un’attrattiva mille volte maggiore, ed era mio dovere in quanto nuovo Gran Maestro – faceva ancora impressione pensarlo – preoccuparmi di cosa celasse davvero.
Ultimamente sono arrivato a pensare che se anche mi fossi rifiutato di stringere la Mela tra le mani e incastrarla in quell’avvallamento della parete ci avrebbe pensato la Prima Civilizzazione a convincermi, con i suoi consigli suadenti e le sue maniere gentili. Non me ne sarei mai andato di lì senza aver risolto quel mistero.
Pensate ancora che ci si possa ribellare? Cristo santo. Quando una cosa deve accadere, accade e basta. I Precursori – Dio, il Fato, il caso, la Sorte, chiamatelo come vi pare, sapete cosa intendo – se ne fregano della vostra volontà. Pregate solo di non essere mai parte dei loro giochi. Pregate per un’esistenza ordinaria, per una vita semplice che non incroci né Templari né Assassini, non direttamente, almeno. Siate grati per quello che avete, maledizione. Forse vi alletta l’idea di poter riconoscere un nemico da un alleato semplicemente sbattendo un po’ gli occhi e concentrandosi, ma credetemi, non ne vale la pena.
Avrei dato tutto il sangue della Prima Civilizzazione che avevo nelle vene per la banalissima possibilità di scegliere. Decidere se andarsene o continuare il cammino, se diventare davvero Gran Maestro o mollare tutto, se lottare contro gli Assassini o insieme a loro per la tregua che aspettavo da una vita.
Come avevo detto a Reginald, certi privilegi non sono concessi a tutti. – Ehi! – Sussultai così forte che per poco non feci un salto quando Thomas serrò di nuovo la presa sulla mia spalla, la stessa gentilezza di un soldato di guardia al carcere. – Stavo pensando una cosa, capo.
Cristo santo, dovevano sempre stare a pensare? Non potevano semplicemente camminare e guardarsi la punta degli stivali?
Oh, be’. A seconda delle circostanze, era uno dei principali pregi o difetti nel guidare proprio i Templari, e non gli Assassini. – Basta che tu faccia in fretta – dissi tra i denti, la Mela sollevata come una lanterna davanti a me.
– Tranquillo, è solo una domanda. – Strofinai i polpastrelli sulle palpebre, pregando che non fosse un’altra idiozia sulle macchie di sperma che avevo lasciato nel Grande Tempio. – Abbiamo…
Andò a sbattere contro la mia schiena, ma a malapena me ne accorsi. La lunga grotta era finita all’improvviso, e davanti a noi si era aperta l’ennesima stanza dall’aspetto… assurdo. Non esisteva un aggettivo migliore, perché tutto lì dentro era così strano da far male agli occhi. Era una piattaforma. Una maledettissima piattaforma, circondata dal nulla più assoluto e lunga abbastanza da non poterne vedere la fine, sgombra e sviluppata su più livelli, come un palazzo. Non c’era una vera e propria fonte di luce, solo i soliti, stramaledetti solchi nella roccia delle… balconate, sì, potevano essere definite così, delle balconate superiori, colmi di energia azzurra e vibrante.
Mi sentii mancare, il potere di Coloro che Vennero Prima ad allagare la mia mente come l’alta marea. C’eravamo. Eravamo arrivati. – È… – Non sapevo nemmeno che cosa dire. I miei occhi correvano da una parte all’altra come quelli di un bambino, senza sapere su cosa soffermarsi. Non c’era niente che arredasse quella stanza, non nel senso proprio del termine, solo sporadici blocchi di roccia, uno dei quali a formare una specie di scrivania.
– È questo – terminò Connor per me, la voce venata di panico. – Ci siamo.
– Questo? Abbiamo smosso mari e monti per… questo? – Tom fece un passo avanti, grattandosi la testa con aria perplessa. – Non ci capisco più niente, capo.
Strinsi i denti e lo ignorai, cercando di arginare la forza della Prima Civilizzazione. Mi sentivo come se la testa stesse per esplodermi, le pareti del cranio pronte a spaccarsi perfettamente a metà e schizzare verso il nulla in cui galleggiava il corridoio. – Non lo senti? – sibilò Connor, addirittura più acido del solito. – Maledizione, come fai a non sentirlo?
Avrei voluto dare uno scappellotto anche a lui. Non aveva ancora capito? Thomas non era come lui. Non era come me. Non gli scorreva qualche maledetta goccia di sangue risalente a migliaia di anni prima dentro le vene. – Qui non c’è proprio niente da sentire, bastardo – sibilò di rimando. – Solo una gran puzza di fregatura.
Strinsi le labbra in una smorfia scettica. Cristo, non avessi sentito quel dannato pulsare dentro la testa gli avrei dato ragione, perché il Grande Tempio, quello vero, il suo nucleo, non sembrava proprio niente di che. – Tom – sussurrai invece, muovendo un primo, debole passo in avanti. Una sessantina di metri più avanti s’innalzava una scalinata di gradini grigio-azzurri, proprio come la luce che scorreva nelle pareti, o… O il colore con cui gli alleati si illuminavano quando usavo l’Occhio dell’Aquila. – La domanda che volevi farmi. – Strinsi i denti fino a sentirli fremere gli uni contro gli altri. Non importava quanto male facesse, cazzo, il dolore era l’unico mezzo che avevo per tenere il controllo della situazione, per assicurarmi di essere ancora in me. – Falla.
Rimase zitto per un secondo, interdetto, come se non avesse capito bene. – Eh? – sbottò. – Sicuro?
– Assolutamente sì. – Dovevo distrarmi, smettere di pensare ai Precursori, farli allontanare dalla mia mente.
Si comportavano come se potessero possedermi, cambiare i miei pensieri e le mie convinzioni come avevano fatto con quelle di William. E io non volevo. Non gliel’avrei permesso per niente al mondo. – Muoviti – ringhiai. – Non abbiamo tutto il giorno.
– Va… Va bene – brontolò con una stretta di spalle. – Il cadavere. È ancora di sopra, giusto? Non abbiamo minimente pensato di spostarlo o… bruciarlo, o portarlo con noi.
– Ce ne preoccuperemo dopo – replicai tra i denti sbarrati. Gesù, e io che pensavo fosse qualcosa d’importante.
– D’accordo, ma… Per quanto riguarda gli orsi? O i lupi?
– Orsi?
Tom schioccò forte la lingua contro il palato. – Be’, sì. Nel migliore dei casi quando torneremo di sopra la sua carcassa sarà mezza divorata da qualche belva famelica, se non trascinata nel folto di quella foresta di merda. Nel peggiore saremo faccia a faccia con un orso che banchetta della morbida carne delle sue guance.
Charles deglutì così forte che lo sentimmo tutti, gli occhi grandi come piatti sul viso sbiancato. – Non guardarmi così – replicò Tom, – sono solo realista. Come possiamo non averci pensato, eh?
– Come se a qualcuno fregasse qualcosa del suo corpo – sussurrai, i passi che si facevano più pesanti man mano che ci avvicinavamo a quella stupida scala. Sentivo le viscere aggrovigliarsi su se stesse, il cuore che pulsava sotto la lingua.
Non c’era niente di normale in quella grotta. Proprio niente. – L’importante è liberarsene. In qualsiasi modo. E se anche ci fosse un maledettissimo orso, abbiamo quante?, quattro pistole? Non siete capaci di sparare un colpo ciascuno a una gigantesca bestia intenta a banchettare? – Diavolo, mi rendevo conto di quanto suonassi scontroso in quel momento, ma non potevo farci nulla. La paura mi scorreva nelle vene così come l’alcool faceva in quelle di Tom.
– Datti una calmata – grugnì Thomas, le mani sollevate in segno di resa. – Era solo un…
– Haytham. – La mano di Connor calò sulla mia spalla come una benedizione, e quando mi voltai per guardarlo c’era qualcosa di rassicurante nei suoi occhi. Lo stesso terrore che sentivo bruciare nei miei. Non so perché, ma mi diede sicurezza. Era confortante sapere che qualcun altro avesse colto il punto della situazione e non fossero… Sì, tutti intenti a pensare a dei dannati orsi. – È...
Annuii senza nemmeno il bisogno di guardarlo in faccia. La sua voce tesa dal dolore, dalla paura, era più che sufficiente. – Al diavolo – sussurrai con i denti stretti così forte da fare male. – Scusa. È questo posto. È tutta colpa di questo dannatissimo posto.
Tom affondò le mani in tasca e mi superò di un paio di passi, lo sguardo che vagava pigramente lungo le pareti. – Chi l’ha messo in piedi, secondo te? Cioè… Dev’essere roba vecchia, giusto? – Succhiò l’aria tra i denti e lanciò uno sputo nel vuoto oltre la piattaforma, sogghignando nel vederlo sparire nel nulla. – Qualcuno deve aver costruito quest’affare.
– Chiediti piuttosto come hanno fatto. – Connor emise uno sbuffo scocciato, come se non riuscisse a tollerare che qualcuno non credesse nei Precursori.
– Scusa tanto se metto in dubbio qualcosa che non posso nemmeno vedere.
– Questo non ti basta?
– State zitti!
Ebbi la tentazione di scagliare la Mela a terra e guardarla spaccarsi in un milione di pezzi, o meglio ancora, di lanciarla verso una parete e studiare la parabola perfetta che avrebbe delineato fino a precipitare nel nulla, ma non ci riuscii. Non ne valeva la pena. O forse sì. Come avevo potuto davvero credere a quell’idiozia della tregua? Era evidente che non sarebbero mai riusciti ad andare d’accordo. Charles dipendeva in tutto e per tutto da me, Connor e Thomas non facevano altro che stuzzicarsi come cani randagi. Non potevamo funzionare. Ero troppo vecchio per addossarmi la responsabilità di tenerli costantemente sotto controllo, manco fossero…
…i miei figli. Oh, Cristo. – Finalmente! – sbottai davanti alle loro espressioni basite, il volto imperlato di sudore. – Andiamo.
– Dove? – La voce di Thomas era venata di ironia. – Qui non c’è niente, Haytham. – Fu il modo in cui nessuno gli rispose, più che le sue parole, a farmi capire che non era l’unico a pensarlo. Non avevano tutti i torti, maledizione. Che cosa mi aspettavo? Cosa pensavo di trovarci? Un cannone con otto bocche che si riducesse alle dimensioni di un orologio da taschino? Il Manuale del perfetto Gran Maestro?
Mi ritrovai a darmi dell’idiota per la seconda volta in pochi minuti. – Io… – Lanciai uno sguardo disperato alla scalinata che si stagliava proprio lì, davanti a noi, e affondai gli incisivi nel labbro. – Non lo so – ammisi. – Non so cosa dovrebbe esserci qui. Davvero, io… – Mi ritrovai a guardare Connor con una piega patetica nella voce. – Non può essere soltanto questo! – sussurrai. Mi sentivo come se stessi per scoppiare a piangere. Oppure a urlare, urlare come un pazzo contro il dolore nella mia testa e tutto quello che la Prima Civilizzazione mi aveva fatto passare per una maledetta grotta vuota. – Deve esserci qualcos’altro – mormorai, ma dentro di me non c’era più nulla. Avevo perso ogni speranza e strizzavo la Mela in mano come se potessi spezzarla, lame d’energia dorata che filtravano attraverso le dita. – Abbiamo… Abbiamo questa! Se c’è un modo giusto per capire come usarla, è qui dentro. Non può essere tutto qui.
Connor fece spallucce, fissandomi con quegli inespressivi occhi neri. Stanco. Sembrava volesse soltanto uscire di lì, accasciarsi sull’erba della Frontiera e fare una dormita. Non potevo biasimarlo, così come non riuscivo ad arrendermi all’evidenza. Probabilmente era esattamente tutto lì, e se l’avessi creduto… Se mi fossi fidato di quella prima impressione e non avessi continuato per la mia strada sarebbe andato tutto diversamente.
Non potevo. Non ne ero capace. Ero furioso. Con me stesso, perché avevo fatto cacciare Connor dal suo villaggio, l’unico legame che avesse ancora con Tiio, per una stupida caverna. E poi con i Precursosi, quei bastardi dei Precursori che mi avevano riempito la testa di stupidaggini solo per aprire quell’affare. Erano dei sadici? Erano… Non sapevo più cosa pensare. Stringevo la testa tra le mani, continuavo a ripetere che non avrebbero invaso la mia mente se non avessero avuto un vero obiettivo.
Me ne sarei inventato uno, piuttosto che arrendermi in quel modo. – Forse è un catalizzatore. – Mi voltai di scatto verso Connor, gli occhi sgranati sul mio volto. Un… cosa? – Un catalizzatore – ripeté tra sé, come se mi avesse sentito. – Concentra le energie. – Abbassò gli occhi sulla punta dei suoi stivali, il pugno sano affondato in tasca. – Il Nexus – sussurrò.
Non sapevo che cosa stesse dicendo, a essere franchi non me ne importava nemmeno. Ero rimasto fermo alla prima parte. Un catalizzatore. Concentrava le energie, giusto?
Potere. Quell’affare vomitava potere allo stato puro, ne colmava il mio sangue come l’alta marea. – Tu vuoi la pace, giusto? – Si strinse di nuovo nelle spalle, la testa che sembrava voler sparire nel suo torace. – Forse dovresti soltanto… chiedere, ecco.
Chiedere.
Idiota. Ed eravamo a tre.    
Strinsi entrambe le mani attorno alla Mela, il cuore che batteva come un tamburo nel petto. Dal nucleo della Sfera partì un altro potente raggio di luce dorata, filtrando in modo piuttosto macabro sopra il moncherino dell’anulare sinistro. Ci era arrivato prima di me. Sapeva perché eravamo lì, lui, e non capivo perché per tutto quel tempo avessi dubitato di lui. Era un discendente di Coloro che Vennero Prima. Sentiva la loro energia almeno quanto me, quella brusca pressione sotto le pareti della testa, e il fatto che Giunone e Minerva non parlassero direttamente con lui così tanto spesso non significava proprio niente. – Vieni qui– sussurrai. Non so perché glielo dissi. Forse non era nemmeno un mio desiderio, ma qualcosa di diverso, di più primordiale. C’era qualcosa di indistinto dentro di me, forse un avanzo di coscienza – mia, di Giunone, Minerva, Giove, che importava? –, che mi stava suggerendo di coinvolgerlo. Come se non fosse già sempre in mezzo ai miei affari. – Non è un’idea mia – grugnii davanti alla sua espressione stupita. Non era esattamente la verità, ma non potevo perdere altro tempo a spiegargli, non quando la curiosità ribolliva nelle mie vene insieme al sangue. – Credo che c’entrino… – Mi puntai l’indice verso la testa, sperando che capisse quel che volevo dire. I Precursori.
– Allora Minerva aveva ragione – Giunone si risvegliò nella mia mente e levai gli occhi al cielo. Sempre al momento sbagliato, quelli lì. – È proprio intelligente. – Non fossi stato così ansioso mi sarei messo a ridere. Insomma, avevo buttato quasi mezz’ora chiedendomi a cosa diavolo servisse quel posto senza ottenere nemmeno le briciole di una risposta, e ora una di loro si rifaceva viva per dirmi che ero intelligente. Con quel tono da stronza sarcastica, per di più.
Piegai il collo di lato finché non scrocchiò, i denti stretti per impedire a me stesso di cominciare a urlare contro la mia stupida testa, quindi allungai le mani verso di lui. – Toccala. – Mi si chiusero gli occhi, quasi contro la mia volontà. – Immagino sia la cosa giusta da fare – grugnii indispettito, e al diavolo quei tre. Che mi sentissero. Che facessero ciò che volevano. Ero lì perché volevo una risposta da loro, e non avrebbero potuto dire di no. Non quella volta.
Sentii le dita calde e callose dell’indiano accostarsi alle mie, poi la Mela esplose in un lampo dorato così potente che la luce filtrò anche sotto le mie palpebre, annebbiandomi il cervello e facendomi perdere coscienza di me stesso.
Simpatici i colloqui con la Prima Civilizzazione, eh?  
 
La prima cosa che vidi fu il cielo nero, come una grande lastra fatta nella stessa roccia del Grande Tempio. Raggi di luce si unirono nel vuoto per formare una griglia dorata, come una cupola, ogni cella grossa come una finestra della Old State House. – Benvenuti. – La voce di una donna, lì, in mezzo al nulla, per quanto conosciuta, mi fece sobbalzare. Minerva. Che piacere. Ci fu un’altra piccola esplosione e una figura femminile prese forma davanti ai miei occhi, a partire da quella stessa luce: alta, il capo coperto da una specie di… elmo, sì, e i lineamenti duri, da guerriera. Aveva l’espressione fiera di Tiio impressi sulla pelle diafana e  avanzava eterea in un lungo vestito da cerimonia, apparentemente più adatto per un banchetto che per una schermaglia. Ciononostante, sembrava perfettamente in grado di sedersi ad un tavolo con George Washington per discutere di strategie di guerra, e senza dubbio sarebbe anche riuscita a dargli qualche consiglio decente.
Be’, non che ci volesse molto. Probabilmente sarebbe stata impresa facile anche per un oste. – Non capita spesso che la vostra specie entri in contatto con la nostr. Sono eventi rari. Eventi legati al sangue. Al cervello.
Un’altra macchia di luce, un’altra donna si formò qualche passo dietro di lei. Giunone, l’aria più dolce, gli occhi grandi, da madre preoccupata, e i capelli scuri acconciati in due grosse trecce, coperti da una sorta di velo nuziale. Potevo chiaramente immaginarla con un dito sul fianco e l’indice puntato contro di me mentre diceva: “Non si fa, signorino Haytham!”.
Girai la lingua in bocca nel tentativo di raccattare un po’ di saliva, ma qualcosa mi diceva che quello non fosse esattamente il luogo giusto per mettersi a sputare come un bifolco. Oh, al diavolo. Non era certo colpa mia se il passato non mostrava l’intenzione di smettere di tormentarmi. – Sangue. Sacrificio. Abbiamo perso tempo. Non possiamo permettere che accada di nuovo. – Perché parlava in quel modo? Era sempre stata enigmatica, anche nella mia testa, ma mai come in quel momento sembrava lo facesse di proposito, per confondermi le idee. – Avete poco tempo. Il seguace dell’Aquila sa cos’è importante, ma può essere fatto solo da un servo della Croce.
Imprecai a mezza voce, rendendomi conto di poter parlare. Fantastico! – Spiegati – sibilai acido, la voce tremante oltre le mie labbra. Sacrificio? Idea simpatica, senza dubbio, ma no, grazie. – Non mi sono fatto mozzare un dito solo per venire qui e sentirvi parlar figurato. – Come se il dito fosse stata la cosa principale. Avevo ammazzato un sacco di persone per raggiungere quel luogo, avevo praticamente rovinato la vita di mio figlio, e quelle due non facevano altro che blaterare stupidaggini. Avevo tutto il diritto di essere nervoso, giusto?
Una risata risuonò sotto la cupola, maschile, questa volta. Una terza e – speravo – ultima chiazza luminosa prese forma mentre quella risata, cupa e calda al tempo stesso, sfumava lentamente, così com’era iniziata. – Oh, il servo della Croce ha ragione! – Non dovetti faticare più di tanto per riconoscerlo. Ce l’avevo ancora impresso a fuoco nella testa, lui, la sua immagine, la sua stramaledetta voce. E quello che aveva fatto ad Alice. – Potreste anche essere franche con lui. D’altronde, dovrà farlo.
Giove. Il bastardo che mancava al trio, quello che aveva mandato a monte tutti i miei piani, ogni possibilità di essere felice con un’altra donna. Alice era morta tra le fiamme di quel dannato incendio solo per colpa sua. Strillando il mio nome. Era letteralmente impazzita, e tutto perché il più potente di loro tre si era voluto infilare nella testa di una donna… comune, per quanto il termine fosse terribilmente fuori luogo. Lei non era comune, non lo era affatto. Si era insinuato come un serpente nella sua salute mentale. Non avrebbe dovuto sapere niente di tutta quella storia. Non aveva il sangue giusto. L’aveva uccisa, e questo mi bastava per odiarlo nonostante le sue parole fossero a mio favore.
Digrignai i denti, buttando fuori il fiato con i pugni stretti. La situazione cominciava a farmi sentire frustrato, il sangue che rombava nelle vene come dopo uno scontro all’arma bianca. – Fare cosa, per la miseria? – esclamai. – Un po’ di chiarezza non ci farebbe male.
– Aspettate – Minerva si fece avanti sollevando le mani.Lui non è qui per parlare del Sacrificio. Ha delle domande. – I suoi occhi parvero scintillare, come se fosse fiera di me. – Dunque parla.
Giunone le si parò davanti. – Dobbiamo dirglielo. Tutto sarà più chiaro. Questo non è solo un messaggio – aggiunse lanciandomi un’occhiata furtiva.
– Lasciagli porre la sua domanda replicò Minerva con un’occhiataccia che al momento non compresi. Forse ero troppo spaventato, forse semplicemente volevo ignorare la verità. Ero arrivato dove volevo. Potevo chiedere. Potevo sapere. Ed ero troppo stupido per restare cinico anche in una situazione come quella. 
Li vidi voltarsi tutti verso di me, come studenti con le orecchie ritte davanti al precettore. Era il mio momento, giusto? Strinsi le mani l’una nell’altra, presi fiato e cominciai a parlare. – Ho passato una vita intera indeciso tra Ordine e Confraternita. Mi hanno detto di essere un Templare con il cervello di un Assassino, definizione che credo contenga un fondo di verità, e non sono in grado di dire quante volte quell’atteggiamento abbia danneggiato i miei scopi. Ferito coloro che amo. – Sospirai. – Ho passato anni a contatto con entrambe le fazioni, per cui suppongo sia… lecito che io me lo chieda. Sono qui perché voglio una risposta. Perché so che voi l’avete. – Strinsi i pugni, lasciandoli crollare lungo i fianchi. Non ero pronto, il fiato che bruciava come fuoco nel petto. – È possibile unire Templari e Assassini?
Giunone e Giove si voltarono verso Minerva annuendo, come se l’avessero sottovalutata, e lei rispose con un sorriso sornione. – Servo della Croce, è esattamente quello il motivo per cui sei qui. – Avanzò verso di me con i palmi al cielo. – Sai della profezia, scritta molto tempo fa proprio da uno di noi. Un uomo di nome Aita. Morto, come tutti gli altri. I suoi occhi non si mossero, puntati fieramente da qualche parte oltre me, ma mi parve di leggervi un lampo di nostalgia. Ciò che chiedi succederà, servo della Croce. Manca solo un passo.
Deglutii d’istinto, i palmi caldi per quanto li avevo stretti. Ero lì per quello, quello e nient’altro. Volevo sapere cosa mancava, cos’avevamo sempre sbagliato. Qual era la chiave? Dove stava l’errore?
Giunone si schiarì la voce, le labbra strette sotto quegli occhi sgranati da madre apprensiva. Se non ci fossi stato io di fronte a lei avrei quasi detto che fosse preoccupata. – Un sacrificio.
La mia stessa saliva mi s’incagliò in gola, quasi soffocandomi, e Connor – sì, poteva essere soltanto Connor – dovette darmi una manata sulla schiena perché riprendessi a respirare autonomamente. – Cosa? – sussurrai con il palmo premuto sul petto. Non avevo sentito bene. Era… Era impossibile che avessi sentito bene, giusto? – Un sacrificio? – Sentivo la voce roca dentro la gola, come il miagolio disperato di un gatto randagio. – Intendi dire che devo prendere un agnello, sgozzarlo e infilzare la sua testa su una picca davanti all’entrata di questo dannato posto?
Nessuno di quei tre sorrise davanti al mio patetico tentativo di smorzare la tensione. Connor, be’, non me lo chiesi nemmeno. – Niente di tutto ciò. – Come se non ci fossi già arrivato da solo. Poteva darsi che nemmeno io fossi il massimo come interlocutore, ma quei tre riuscivano a risultare tutto, meno che rassicuranti.
Forse perché non era nelle loro intenzioni. – Per permettere ciò che chiedi, è necessario che tu muoia.
Non riuscii a dire nulla. Davvero, era come se mi fosse morta la voce lì, tra le clavicole, in fondo alla gola. La mia unica preoccupazione era guardarla in faccia, notare quanto sembrasse proprio sull’orlo delle lacrime. Oh, non avrei dovuto fidarmi di quel presentimento. Peggio, non avrei mai dovuto fidarmi di loro. Di Connor, del suo stupidissimo catalizzatore. Sarei dovuto scappare quando ne avevo occasione e non venire mai a conoscenza di quella verità. Sempre che lo fosse. Tentai di respirare, la bocca che si apriva e si chiudeva fuori controllo, senza emettere un suono. Non era vero. Non poteva essere vero. Eppure non riuscivo a replicare – Due azioni – proseguì Giunone con quei grossi occhi lacrimosi puntati su di me. – Due facce della stessa medaglia. Un Templare e un Assassino a morire per un’unione. Nella morte e nella vita.
– No – sentii Connor grugnire accanto a me. Ero così sbigottito da riuscire solo a battere le palpebre, i miei occhi che sfarfallavano come quelli di un bambino troppo stupido. – No. Non lo farà. – Si fece avanti allargando le braccia. Voleva proteggermi? Sul serio? Se non avessi avuto un blocco nel petto – la gelida sensazione di aver appena firmato la mia condanna a morte – sarei davvero scoppiato a ridere. – Morirò io. La profezia chiede un Templare e un Assassino, giusto? Li avrà.
Giunone gli lanciò una strana occhiata, quasi affettuosa. – No. Non ci serve un semplice Assassino, né tantomeno un comune Templare. Ci serve. Avrei dovuto capirlo. Quant’ero stato stupido. Il cammino, tutti quei morti, le voci e l’omicidio di Reginald… Se fosse rimasto vivo non mi avrebbe mai permesso di fare una cosa simile. Ce ne saremmo andati senza nemmeno provarci. Riuscivo quasi a immaginare la scena, il cadavere di Connor abbandonato nella Frontiera e il nuovo Ordine pronto a tornare a Boston per festeggiare. Alla maniera di Reginald, s’intende. – Il sangue dell’Aquila e il pensiero della Croce. I rimpianti degli Assassini. Ecco cosa serve per arrivare alla pace e all’armonia cui tutti noi aspiriamo.
Giove prese la parola per la seconda volta. – Esattamente. Templari, Assassini, comuni mortali e noi, nessuno possiede altro desiderio. I suoi occhi dorati si fissarono su di me, caldi e gentili ma opprimenti come quelli di un maestro troppo severo. Un brivido mi salì lungo la schiena solo pensando quella parola. Riportava alla mente brutte esperienze. Da una parte Birch, dall’altra Fayling, e l’ultima volta che l’avevo visto. Insieme a mia madre. Insieme a Tiio. – La tua morte sarà già un primo passo. Templari e Assassini saranno uniti. Con Desmond il processo sarà completato. Devi fare la tua parte.
– Noi ti abbiamo permesso di vivere. Di uccidere. Minerva mi guardò con solennità. – Abbiamo aiutato te e tuo figlio. Giove ha ragione. Devi fare la tua parte.
– Devi fare la tua parte – fece loro eco Giunone. Mi sentivo come se la testa stesse per scoppiarmi, gli occhi brucianti dentro le orbite, e al tempo stesso ero così pieno di rabbia da sentire il sangue battere contro le tempie con la violenza di un tamburo di guerra.
Portai le mani alla testa trattenendo un singhiozzo. Dovevo morire. Dovevo morire. E non riuscivo a farmene una ragione. Sapevo che sarei dovuto andare all’altro mondo comunque, prima o poi, ma non in quel modo. Non per quel motivo. – Una causa più grande aggiunse Minerva.
– Non è un bel modo di morire? – cinguettò Giunone.
Oh, quanti bei modi di morire avevo in mente per loro tre, ma il cuore sembrava scoppiarmi nel petto, saturo di rabbia, sapendo che non avrei potuto attuarne nemmeno uno. Presi fiato piano, i pugni stretti così forte da far male. – Avete detto di avermi permesso di vivere – sussurrai a testa bassa. Se la mia morte non fosse stata alle porte forse avrei ridacchiato, ma quello che mi uscii dalla bocca fu il ruggito stanco di una bestia morente.
Patetico. – Permesso? Voi non mi avete permesso un bel niente! – Stavo alzando la voce, così colmo d’ira che credevo di esplodere da un momento all’altro. – Io non vi devo nulla! – Era impossibile. Non poteva essere vero. Non ero arrivato fin lì solo per quello, coraggio. Non era pensabile.
Forse era vero proprio per quello. – Perché devo essere io a morire? Sono parole scritte chissà quanti anni fa!
– Avremmo potuto ucciderti in qualsiasi momento. Bruciare la tua essenza vitale dall’interno. La smorfia lacrimosa di Giunone era stata sostituita da un sorriso quasi più maligno di quello di Minerva. Avrei voluto trapassarle entrambe con la spada, se solo ne fossi stato in grado. Qualcosa mi diceva che nemmeno la Mela dell’Eden avrebbe potuto molto contro delle stupide chiazze di luce tremolante. – Ti abbiamo lasciato attuare la tua inutile, misera vendetta.
Giove sorrise. – Sarebbe scortese non ricambiare, ragazzo.
Ne avevo abbastanza di quelle idiozie. – Sciocchezze! – tuonai con i palmi stretti. – Che cosa avete fatto realmente? Mi avete permesso di uccidere Reginald perché se avesse avuto lui Tempio, anche solo la Chiave, non avrei potuto affrontare questa dannata follia! Ecco perché quella stupida cosa doveva essere nelle mani degli Assassini, vero? – Ricordavo l’assiduità con cui la conservavano, con cui l’avevano cercata dopo che l’avevo brutalmente strappata dal sotto il loro naso. Senza successo. – Per il mio… successore, chiamiamolo così. – Digrignai i denti come un vecchio cane, eppure lo sapevo. Sapevo di non fare più paura a nessuno, non a loro, almeno. – Non avete mai fatto nulla per me. Non potete costringermi.
Minerva rise, cristallina. – Ah, ma certo che possiamo. Le tue dita e quelle di tuo figlio sono poggiate sulla Sfera. L’energia si diffonde facilmente per contatto. – Per contatto. Mi tornò in mente l’immagine del palmo di Connor, mezzo scuoiato, del volto di Charles contratto in una smorfia di dolore. Avevo afferrato il concetto. – Nonostante le nostre differenze ,abbiamo comunque conservato la medesima… – la sua immagine tremolò. – …fragilità.
Aggrottai la fronte senza capire le sue parole. Qualunque cosa stesse dicendo, non mi piaceva. Mi resi conto solo allora di come non mi fosse mai davvero piaciuto ascoltarli. C’era un intento oscuro dietro ogni loro parola. Ma ero stato cieco. Un maledetto imbecille. Per cui, eccomi lì. – Non puoi uccidermi. Io vi servo. Quindi lasciatemi andare e…
– Hai ragione – intervenne Giunone. – Eppure, per quanto mi dispiaccia, possiamo uccidere tuo figlio. – Gli si avvicinò con un sorrisetto malizioso. – Morirebbe tra atroci sofferenze.
Una parte di me avrebbe risposto “Bene, fa pure”, ma non a quel punto. Non potevo più permettermelo. Il ragazzo si era offerto per sacrificarsi al mio posto, anche dopo che gli avevo rovinato la vita. Mi sentivo terribilmente in debito. Dopotutto, era colpa mia se sentiva quelle voci, se la Sfera gli aveva messo a soqquadro il cervello. Colpa del sangue che dalle mie vene era passato alle sue, della mia dannatissima eredità. – Lui non c’entra nulla.
– E con ciò? – Giunone sfiorò il suo petto con le dita bianche. – Questo non è un ostacolo. Obbedire alle nostre condizioni ti risparmierebbe questo dolore. Succederà in fretta. – Sorrise appena, prima di tornare a guardarmi con quegli occhi lacrimosi. – Rifletti, servo della Croce. Che cosa ti resta? Non hai più nulla.
Mi sentii infiammare dall’interno, tutta la furia vendicativa che non avevo sfogato su Reginald come risorta dentro di me. Come potevano parlare così? Dopo tutte le persone che mi avevano fatto uccidere, tutti gli uomini caduti come vecchi alberi per il loro scopo. Erano solo degli ipocriti, i peggiori che avessi mai visto. – Cosa mi resta? – sibilai acido. – Cosa mi resta, chiedi? Restano due uomini devastati e un ragazzo praticamente solo al mondo, ecco cosa mi resta. Io avevo dei piani, delle cose da fare. – La mia voce non era mai suonata più patetica. Nemmeno davanti a Reginald. – Pensavo voleste aiutarmi, ora capisco. Volete solo usarmi.
Minerva sorrise. – Aiutarti? E per quale motivo? Sopportare e contribuire ai tuoi stupidi piani senza ricavarne niente? Tu sei un predestinato. Otterrai molto di più morendo che non proseguendo in quest’impresa. Se non lo farai, non avrai mai ciò che vuoi. Non ci sarà mai un’alleanza, mai la pace. E morirai come ogni altro uomo del mondo, insoddisfatto nonostante tutti i tuoi sforzi.
– Andate al diavolo – grugnii sputando a terra. – Un predestinato? – Mi ravviai i capelli con le mani senza sapere che cosa pensare, che cosa fare. – Merda, che siate maledetti.
– Morirai per una buona causa, no? – fece Giove. – Un bene più grande. Nel futuro.
Scrollai le spalle. – ‘Fanculo. – Ero sempre un subordinato, anche quando pensavo di vincere. Ero riuscito a liberarmi di Reginald, Cristo santo, e ora dovevo sottostare alle folli volontà di quei tre. – Fatemi almeno dir loro due parole. – Nemmeno per un secondo pensai alla concreta possibilità di ribellarmi alla loro volontà. Mi tenevano per le palle come la migliore delle prostitute, e forse non avrei dovuto fidarmi di loro, ma avevo visto Tom, Connor e Charles insieme. Non sapevo quanto sarebbero riusciti a fare in concreto. Forse… Inspirai piano. Forse tutto quello che serviva loro era un intervento divino, o qualcosa del genere.
Poteva non essere la scelta sbagliata. Ma come con tutte le scelte, non si può sapere finché non la si compie.
Mi sembrava di non riuscire più neanche a respirare.  
Giunone si scostò da Connor, un sorrisetto di nuovo aperto sul viso. – Ti è concesso, servo della Croce. Quando il momento arriverà, però, non potrai più tirarti indietro.
Ridacchiai. Solo un folle poteva ridere in un momento del genere, e non mi ero mai sentito meno sano di mente. No. No, non ero pazzo. Disperato. Quello sì. Colmo fino alla punta dei capelli di dannata disperazione. – Ho mai avuto scelta?
L’ultima cosa che vidi prima che la grata si dissolvesse fu un sorriso sul volto di Minerva, luminoso nonostante non mostrasse i denti. Come la scia di una cometa, ecco.
Bastardi.
 
Thomas Hickey e la sua mano tesa verso di me non furono questo granché come prima visione dopo l’annuncio della mia morte. – Ben svegliato, capo – esclamò, aiutandomi a tirarmi su. – Come è andata? Hai avuto le risposte che cercavi? Posso andare a farmi una birra?
Charles Lee, un pallido spettro accanto a lui, gli riservò uno sguardo di disapprovazione. Quei due non erano mai andati d’accordo, ma erano forse gli uomini dell’Ordine più leali a me, oltre ad essere gli unici rimasti in vita. – Magari dopo, Thomas. – Non potevo lasciarli così, senza nessuna spiegazione. La meritavano. Cristo, meritavano mille volte di più, altroché. – Devo fare una cosa.
Vidi Charles sbiancare ancora di più, se mai fosse stato possibile, la mascella contratta in una smorfia di terrore. – Una cosa? – chiese Thomas. – Che significa, Haytham?
Grugnii mentre mi sfilavo la redingote appesantita dalla Sfera di Cristallo, trasferitasi nella mia tasca per chissà quale motivo, e la lasciavo scivolare a terra, arrotolando rapidamente le maniche della camicia. Su quelle braccia c’era tutta la mia vita. Ferite, lividi, il buchetto cicatrizzato del patto di sangue che avevo stretto con Thomas Hickey in nome della sua fedeltà, i segni più chiari sull’avambraccio fasciato costantemente dalla lama celata.
Tutti quei ricordi.
Avevo bisogno di pensare. Respirare. – Cosa volete fare? – Charles sembrava spaventato, e non faticavo a comprenderlo. L’uomo che aveva rovinato la vita ad entrambi giaceva morto da qualche parte sopra le nostre teste, probabilmente mezzo divorato da un lupo. Ammazzato con le mie stesse mani, la testa sbattuta a terra finché l’osso non si era frammentato, formando una morbida ed appiccicosa concavità, il suo sangue che imbrattava copioso il pavimento del Grande Tempio.
Connor, pallido, scosso e steso accanto a me, si alzò di scatto per avvicinarsi a loro. Erano tutti e tre spaventati – terrorizzati, oserei dire –, e avrei dato tutto l’oro del mondo perché i loro sentimenti potessero salvarmi, ma era imposibbile. Avevo un compito, un compito che, purtroppo, soltanto uno di loro poteva capire. – Portate via il corpo, quando tornerete su – sbuffai, giocherellando con la Chiave infilata nella tasca dei calzoni. – E allontanatevi un po’.
– Mastro Kenway, cosa volete fare? – ripeté Charles, la pelle bianca e sottile come pergamena, tesa sul suo viso smunto. Il mio ragazzo ridotto ad uno straccio, mentalmente distrutto. Almeno avevo salvato una buona parte della sua vita. Mi sforzavo di convincermi che fosse così, di aver fatto almeno qualcosa di buono per qualcuno che non fossi io. 
– Kenway, non fare l’eroe – sibilò Thomas contrariato, probabilmente leggendo tra le righe del mio sguardo. Lo ignorai, lanciando uno sguardo d’intenti a Connor. Lui aveva sentito le parole di Minerva, Giove e Giunone, poco prima.
Sospirai. Mi capiva e, cosa più importante, non credevo fosse poi così affezionato a me. Proprio ciò che serviva per lasciarmi agire. – Connor, giurami che spiegherai loro la situazione, d’accordo? Adesso andatevene – sussurrai, le labbra strette in una smorfia addolorata. – Per favore.
Charles mi afferrò per un braccio. – Che cosa sta succedendo, Haytham? – chiese con tanto d’occhi. – Mi avete salvato la vita, ho il diritto di saperlo. – Ancora con quella stupida storia. Al diavolo. Forse io gli avevo salvato la vita, ma come poteva non rendersene conto? Soltanto lui poteva dare un senso alla mia morte.
Scrollai l’arto per levarmelo di dosso, il cuore che sembrava esplodermi nel petto.
Non pensavo potesse fare così male. Avevo visto un sacco di cose, credevo di aver sofferto in tutti i modi in cui un uomo poteva soffrire. Invece no. C’era qualcosa di peggio. C’è sempre qualcosa di peggio. Come guardare nei suoi occhi e vederli così spaventati, gonfi e lucidi per le lacrime, e non poter fare niente per consolarlo. – Thomas, Charles, ho bisogno che mi facciate un favore. – Deglutii, cercando la forza necessaria per dirglielo. Non ero pronto. Molto probabilmente non lo sarei stato mai. – Io sto per morire. – Uno strano senso d’inadeguatezza mi trapassò il petto come una pugnalata. Mi sembrava di averlo detto con lo stesso tono con cui avrei potuto annunciare che uscivo per fare una passeggiata. Io sto per morire. Chi viene con me?
Volsi lo sguardo dall’altra parte della piattaforma di roccia, quella oltre le scale, apparentemente senza fine, nel patetico tentativo di controllarmi. – Sarete voi tre soli, ora. – Ecco, le cose serie. Quello era ciò che contava davvero. La tregua. Ciò per cui avevo lottato fino ad allora. – Voglio che lavoriate insieme. – Guardai Charles e Tom con le lacrime che bruciavano contro i dotti. Non ce la facevo più. – Cercate almeno di non ammazzare il ragazzo un secondo sì e l’altro pure, d’accordo? – Mi sforzai di abbozzare un sorriso, ma nessuno di loro mi assecondò. – Può essere complicato, ve lo garantisco.
Persino Thomas Hickey sbuffò, l’aria sciupata, e incrociò le braccia sul petto, le mani strette sotto le ascelle. – Haytham, io non me ne vado finché non dici chiaro e tondo cosa ti è successo quando avete toccato quella roba. – M’indicò con aria accusatoria, il capo bruscamente reclinato. – Tu… Cazzo, tu non puoi morire! Siamo arrivati fin qui, io non posso accettare che tu lo faccia. 
Lo guardai negli occhi, più serio di quanto fossi mai stato in tutta la mia vita. – Connor sa tutto. Fattelo spiegare da lui. Credimi, Thomas, quando dico che resterei anche altri mille anni qui a raccontarti questa storia – Qualunque cosa, pensai, qualunque cosa pur di rimanere in vita, – ma non posso. Non ora.
Sostenne il mio sguardo con uno strano cipiglio, quasi serio. Aveva capito? Riusciva a comprendere sebbene non gli avessi spiegato nulla? Non avevo tempo, non avevo tempo per niente. La verità è che non volevo fossero lì. Non volevo mi vedessero morire. Dovevano essere via, lontani, faccia a faccia con la loro nuova vita.   
– Haytham! – gemette ancora Charles, alle spalle di Thomas. Aveva gli occhi colmi di lacrime e una smorfia da bambino disperato impressa in volto. Dio, perché? Perché quel ragazzo doveva rendere le cose ancora più complicate? – Io…
Scrollai le spalle e abbozzai un sorriso triste, passandomi una mano tra i capelli. Non c’era bisogno che dicesse altro. Sentire la sua voce, o peggio, le sue scuse, avrebbe solo reso tutto mille volte più difficile. La mia non era un’impresa facile, e nonostante tutto non volevo che i Precursori l’avessero vinta su ogni fronte. Non l’avrei sopportato. Non potevo lasciare a Minerva, Giove e Giunone il controllo su tutta la mia vita, su ciò che avevo faticosamente seminato in più di quarant’anni.
In fondo, il fatto che non ci fosse mai stata un’alleanza vera tra Assassini e Templari non significava che il tempo passato con Connor fosse stato sprecato. Niente escludeva il fatto che loro tre dovessero quantomeno provarci. Se non per loro stessi, almeno per me. In nome del sacrificio che stavo per compiere, sant’Iddio.
Dovevo pur sempre arrivare al mio scopo. Del futuro non m’importava niente, diavolo, era lì, era quello il momento più importante. I giorni, i mesi a seguire. Non potevo arrendermi senza ordinare loro di provarci. Era l’unica maniera possibile per raggiungere ciò che volevo davvero, ciò per cui la Prima Civilizzazione mi stava uccidendo e usando.
Per nulla al mondo quei tre avrebbero dovuto toccare Connor. Non doveva succedere, o i miei non avrebbero avuto nessuno con cui stringere alleanza. Strizzai gli occhi, deglutendo a vuoto. – Credo sia meglio salutarci – sussurrai, cercando i loro occhi con il terrore che rombava nel mio petto. Dio, non volevo accadesse, non in questo modo. Non avevo altra scelta, e tutto perché loro non avevano voluto darmela.
Connor aveva gli occhi lucidi, e avendo sentito ogni parola detta da quei tre, be’, immagino fosse più pronto degli altri due ad accettare la realtà. Non avevano praticamente più parlato, dopo quella rivelazione. Sto per morire. – Haytham – sussurrò mio figlio, il corpo teso verso di me. – Papà…
Mi raggiunse e mi cinse con quelle braccia enormi, le mani grandi come pale sulla mia schiena, la sua testa sulla spalla. Mio figlio mi stava abbracciando. Mi aveva appena chiamato papà. Solo quand’ero in punto di morte, notai con un sorrisetto. Non avrei mai avuto la possibilità di fare lo stesso con lui, di vederlo padre, di vederlo su un letto a tossire e trarre i suoi ultimi respiri. Sollevando le braccia per stringerlo, fui travolto dal rammarico. Il figlio che avevo sempre maltrattato e si era offerto inutilmente per me adesso era lì. Mi abbracciava. Mi voleva vivo. Forse aveva finalmente accettato la verità, che non avevo ucciso sua madre – non direttamente né in modo intenzionale –, forse mi aveva perdonato. Forse…
Ah, quando sei in punto di morte hai pensieri confusi. Bontà, cattiveria, passato e futuro girano in tondo senza un senso logico, si è così colmi di paura e… e consapevolezza, in un certo qual modo.
In quel momento desiderai follemente credere in Dio, tanta era la paura che vibrava dentro di me. Una fede positiva e un po’ di ingenuità, a tanto così dalla morte, per quanto le disprezzassi, potevano anche essermi utili.
Quella notizia e l’idea di doverli salutare per sempre mi avevano scombussolato al punto che d’istinto avvolsi le braccia intorno al suo corpo per stringerlo a me, come non avevo mai fatto in tutta la vita. – Mi dispiace – singhiozzò il ragazzo. Stava piangendo. Sorrisi tristemente. La solita femminuccia. – Pensavo che potessimo andare d’accordo, dopo tutto questo. Io… – S’interruppe, la voce spezzata. – Non volevo finisse così. Non volevo. – Affondò la testa nel mio petto, quel bestione di ragazzo. Dio. – Mi dispiace, Haytham. Mi dispiace così tanto.
Sorrisi. – Sai che non ho ucciso tua madre, vero? – Non il massimo, in confronto a quanto aveva appena detto lui, ma non sono mai stato un uomo facile agli addii. Ridacchiò tra le lacrime, stretto alla mia camicia sporca di sangue. – Solo per puntualizzarlo.
Non avevo ucciso lui, nonostante ne fossi stato tentato. Come avrei mai potuto uccidere la donna che amavo, che l’aveva messo al mondo? – Io non voglio più combattere, Haytham. Se le loro voci… Se tornassero? – Era terrorizzato, la voce sottile come quella di un bambino. – Non voglio più.
Sospirai. – Per questo serve che collaboriate. Dovete farlo. Un’alleanza. – Perché Haytham Edward Kenway deve sempre dimostrare di avere ragione, o almeno provarci. Anche quando sull’altro piatto della bilancia di sono tre spiriti millenari e quasi onnipotenti, a quanto dicevano. – Promettimi che ci proverete – sussurrai nel suo orecchio. – Anche se so che le tue promesse valgono come quelle di un marinaio sbronzo, tu promettilo.
Annuì, e per il momento mi bastò. Lo lasciai andare piano, battendogli una mano sulla schiena. – Non il massimo come ultime parole, ma non dimenticare di riferirle agli Assassini. So quanto alla tua piccola Confraternita piaccia questo genere di cose. – Sapevo che era un addio penoso, anche di più, e sentii un peso sprofondarmi nel petto al pensiero di ciò che avevo appena detto. Gli Assassini. Non sapevo se avessero altri adepti in giro per le Colonie, ma uno degli ultimi Assassini che conoscevo era morto nel suo letto dopo che lo avevo pugnalato a morte. Che razza di stupido. – Oh, e tieni questa. – Sfilai la Chiave del Grande Tempio, quella schifosa medaglietta verde che ci aveva procurato solo guai, e gliela spinsi in mano. – Era ciò che volevi, no? – sussurrai con un sorriso. Aveva gli occhi lucidi. Oh, maledizione, per una volta che non volevo farlo piangere. – Su – mormorai. – Tranquillo.
Feci un paio di passi indietro con un sospiro. – Charles, Thomas, un secondo. – Buon Dio, ora arrivava la parte difficile.
Il mio socio e il ragazzo che per me era come un figlio si avvicinarono, ognuno con il proprio modo di approcciarsi alla mia morte, Thomas ringhiante, Charles con gli occhi colmi di lacrime. – Siete stati la mia famiglia – dissi sentendo un groppo formarsi nella mia gola. – Senza di voi non so dove sarei. Tom, sei sempre stato disponibile quando avevo bisogno. Quando non c’era nessun altro. – Be’, anche quando si era trattato di scoparsi la mia donna, scommettere sulla vita del ragazzo con cui lo stavo abbandonando e allagare la Frontiera a forza di tenere la mano nei calzoni, ma decisi di omettere quella parte. – Non hai avuto paura di metterti contro Reginald. E te ne sono grato. – Il sogghigno che per un attimo incurvò l’angolo della sua bocca fu abbastanza per farmi capire che sapeva esattamente quanto mi avesse fatto cagare addosso con quella mossa. Glielo si doveva riconoscere, aveva ragione. – Charles, tu sei stato mio figlio per tutti questi anni. Io… – Scrollai il capo senza sapere bene come andare avanti. Non volevo suonare patetico o… sdolcinato, ecco. Volevo soltanto che capisse quanto tenevo a lui. Quanto gli avevo voluto bene. Gliene avrei voluto per sempre, era una certezza. Strinsi la mano bianchiccia di Charles Lee tra le mie, sentendolo sussultare. – Vi auguro il meglio. Seguite i miei ordini e non dimenticate mai per cosa si battono i Templari. Per cosa ci battiamo davvero. – Senza rifletterci troppo, allungai le braccia verso Charles e lo cinsi in un abbraccio. L’abbraccio che avrei voluto ricevere da mio padre prima di vederlo impalato nella stanza dei giochi, lungo, intenso, il suo fiato disperato contro il mio collo.
Non era poi tanto giusto trattarlo così davanti a Connor. Lo so. Che avrei dovuto fare? Pretendere delle scuse per aver dato della puttana a Tiio? Per averla ammazzata, per non essersi ribellato a Reginald fin dall’inizio? Perché? Perché rovinare quel momento con patetici convenevoli che non servivano a nessuno, di grazia? 
Volevo solo stringerlo a me, sentire che non aveva più paura e che il suo culo era al sicuro. Almeno finché Tom non avrebbe avuto di nuovo voglia di sfogarsi su di lui, ovvio. 
Quanto avrei voluto non lasciarlo andare, stringerlo fino a dimenticare la fame e la sete. Dimenticare persino di essere vivo, e solo per evitare la morte. 
Che razza di egoista, eh? Potevo sentire il respiro di Charles affannato dai singhiozzi, le lacrime bagnarmi la camicia e scivolarmi sulla pelle come un regalo d’addio. Allontanarmi da lui fece molto più male, come se mi avessero staccato una gamba. L’avevo appena ritrovato. Non avevo nemmeno avuto il tempo di chiedergli cosa avesse passato. Come poteva la Prima Civilizzazione essere così cattiva? Non aveva pietà di me? Pietà di noi?
Charles non si arrese. Forse non l’avrebbe mai fatto. Sentii le sue mani stringersi sulla mia camicia, quasi rabbiose. – Lo farai davvero? – sussurrò. Sembrava davvero un orfanello abbandonato a se stesso.
E, di nuovo, io non sapevo che rispondere. – Ricordate ciò che vi ho insegnato – ripetei in un sussurro, ignorando la sua domanda. Mi sentivo un grandissimo bastardo. Non riuscivo neanche a salutarli con un minimo di dignità in più. – Mi siete rimasti fedeli e… vi ringrazio.
Thomas Hickey, un angolo delle labbra piegato all’ingiù in una smorfia e gli occhi piantati nei miei, poggiò una mano sul petto di Charles, spingendolo via senza troppa gentilezza. Non aveva intenzione di essere un succube, lui. Fortunatamente non ero riuscito a passargli anche quello. – Perché lo stai facendo, Haytham? – chiese, quasi intimorito dalle mie parole. Come se avesse visto fin troppe persone andarsene in quel modo.
Poggiai la mano sulla sua spalla, e per un secondo pensai che se la sarebbe tolta di dosso con una scrollata, ma non lo fece. Non abbassò nemmeno lo sguardo. Thomas. – Devo farlo. Non dipende da me, Tom. È la mia… – Sorrisi appena nel dirlo. – È quanto ho ottenuto per aver ucciso Reginald. Come se fosse stata una gentile concessione.
Scosse la testa. – Da parte di chi? Stai dicendo che tutte le dannate storielle di Reginald sui Precursori…
Non riuscii a trattenere il ghigno davanti alla sua espressione divertita. – Più vere di quanto lui stesso potesse immaginare.
Aggrottò la fronte senza sapere esattamente che cosa intendessi, ma non gli lasciai il tempo di porre altre domande. Non avevo più la forza di rispondere. Gettai le braccia intorno al suo corpo e strinsi anche Tom, quell’uomo con più alcool che anima in corpo, dalla facciata arrogante, e nonostante ciò una delle migliori persone che avessi mai conosciuto. Sorrisi d’istinto, sciogliendo l’abbraccio per un secondo. – Pensavi davvero tutto quello che hai detto a Reginald? – sussurrai, le mani sporche di sangue strette sulle sue. – O questa è solo l'ennesima balla per impedire che ti ammazzi? 
Prese un sospiro. Aveva gli occhi lucidi, quel ragazzone perverso. – Gesù Cristo, Haytham, pensavo di avere questa conversazione davanti a una cazzo di birra, non... – Scosse il capo. – Non in questo modo.
Non sapendo che stai per tirare le cuoia, ecco cosa intendeva. – È andata così, Tom, quindi parla. – Non volevo sentire altro che la verità. 
Inspirò. – La storia del non uccidere era una cazzata. – Annuii. E io sono stato uno stupido a non averlo capito. Certo. Thomas Hickey smetteva di fare il tagliagole, Connor era bianco e la luna era fatta di formaggio. – Ma tutto il resto no. Credimi. Non vedevo l'ora che quel bastardo morisse. Voi... – scrollò le spalle, – siete un po' come tutto quello che ho. 
Mi faceva piacere sentirlo, ma in quel momento non provavo niente. Desideravo solo che tutto finisse. – E non  voglio che tu muoia, Kenway. Rinuncia a questa stronzata. – Scossi il capo senza una parola. Avesse saputo che non potevo… – Tu... Tu non puoi lasciarci così. 
Non era una scelta, Thomas. – Insomma, io... dovrei badare a Charlie e al ragazzo? È...
Sorrisi, le mani strette sempre più forte sulle sue. Ero lì e volevo sentire di esserci davvero, di essere vivo, e che era vivo anche lui. Almeno per quei pochi minuti, volevo godermi la sensazione delle sue mani sporche di sangue, di quel fiato di birra che non avrei mai più sentito, dell’ansia e preoccupazione nei suoi occhi. E, al tempo stesso, non era così che volevo ricordarlo.
Malgrado tutto ciò che possiate pensare, Thomas Hickey era uno psicopatico figlio di puttana, schietto, folle, il peggior bastardo che abbia mai conosciuto. Ed era quello il Tom che avrei portato nella tomba. Il cane che beveva, scopava e tirava fuori nei momenti meno opportuni alcune delle battute più divertenti che abbia mai sentito. – Andiamo, Tom – sussurrai inclinando il capo da una parte, – gli hai già messo una mano tra le chiappe, avete raggiunto la confidenza necessaria. 
Tom sbatté forte le palpebre e tirò su col naso mentre lo stringevo a me come fosse un figlio e lui serrava la presa sulle mie scapole, per non lasciarmi andare. Era stato il ramo traditore, pervertito, stronzo e furbo della nostra malsana famiglia di Templari, e gli avevo voluto bene. Non piangeva nemmeno. Era fatto così, e Dio solo sa quanto l'apprezzassi per questo. – Mi dispiace, capo – sussurrò. – E scusami. Mi dispiace tanto. 
Che si fottessero le scuse. Non me ne fregava più niente. Annuii con violenza e gli diedi una pacca sulla schiena mentre mi staccavo da lui. Con chi sarebbe andato a puttane, ora? Chi avrebbe bevuto il grog con lui? Avrebbe dovuto umiliare Connor da solo.
Era il fratello che mi era sempre mancato, e lasciarlo andare faceva male. Un cazzo di male al petto che sembrava invadermi come una marea. Forse mi verrà un infarto prima di portare a termine questa follia.
Mi sarebbe piaciuto far loro un paio di raccomandazioni, dire che sarebbe andato tutto bene, ma in quell’istante la Sfera di Cristallo rotolò fuori dalla tasca della redingote abbandonata a terra lanciando lampi d’abbagliante luce dorata. Con le mani davanti agli occhi, finalmente riuscii a deglutire – mandando indietro anche un bel po’ di lacrime che spingevano con tutta la loro forza per sgorgare – e mi chinai per afferrare la Mela tra le mani. – Mi dispiace, Thomas – dissi mostrandogli la cicatrice del nostro patto di sangue. – Non c’è più tempo. Proverai a portare avanti ciò che ho iniziato?
La Sfera nella mia mano sinistra continuò a lampeggiare come una miriade di fuochi d’artificio. Oltre Thomas giunse alle mie orecchie il primo urlo di Charles Lee. – Haytham!
Abbassai il capo. Era giunto il momento, quindi. E che potevo farci? – Portate via il corpo – ripetei indicando il soffitto con un cenno della testa. – Non restate qui. Per favore. Andate via.
Lo sguardo di Thomas si colmò di terrore, le labbra aperte in un perfetto cerchio traboccante stupore. Salii le scale alle mie spalle, due gradini per volta, cercando di allontanarmi il più possibile da loro. Quando mi voltai, sulla sommità, intimai loro di andare via, ancora una volta, la mia testa che si muoveva appena mentre i lampi si facevano sempre più forti.
Indietreggiarono senza mai voltarmi le spalle. Sembrava mi giurassero fedeltà anche nella morte.
Ripensai tristemente alla mia vita. Nel momento peggiore, probabilmente.
Ero soddisfatto di quanto ottenuto?
A voi posso dirlo. Mentirei se rispondessi di sì. Ero spaventato, arrabbiato, deluso. Mi avevano spezzato. La Prima Civilizzazione aveva completato l’opera di Reginald sottomettendomi completamente. Non mi avevano dato nessuna scelta, ero stato ingannato per una vita intera, usato come un mulo fino a diventare troppo vecchio o a raggiungere il momento perfetto per uno scopo migliore.
Dannazione, ero riuscito a far faticosamente collaborare due Templari e un Assassino, o almeno ci speravo, ma per quanto sarebbe andata avanti? Per quanto? E Coloro che Vennero Prima avevano ragione? Se quel sacrificio avesse davvero permesso un’alleanza duratura, per chissà quale grazia di Dio?
Con un mezzo ghigno pensai che non sarei stato lì per vederlo, in qualsiasi caso. Quindi qual era il senso di quell’azione? Osservai Thomas Hickey trascinare Charles e Connor verso il corridoio da cui eravamo venuti, lo sguardo gettato oltre la spalla, per tenermi d’occhio.  
Tom. Il lavoro sporco alla fine toccava sempre a quelli come noi.
Cercavo di riflettere, di dare un senso ai miei ultimi minuti di vita, ma stava accadendo tutto così in fretta, cazzo. E come se non bastasse, Minerva, Giunone e Giove sentenziarono direttamente dai meandri della mia mente, fermando quell’ondata di luce e parlando con voce solenne, che stava per finire tutto – o cominciare? Boh. A ‘fanculo la filosofia spicciola. Non anche mentre muori, per carità di Dio.
Lanciai un’occhiata ai tre uomini che mi avevano accompagnato fino alla fine di quell’impresa, e mentre li guardavo con le macchie nere lasciate dai lampi di luce che danzavano davanti ai miei occhi qualcosa si fece strada dentro di me. La consapevolezza mista a paura di cui parlavo prima, ricordate? Stai per morire, mugugnò dall’interno. Stai per morire.
Non volevo esserne sicuro. Non volevo accettarlo in quel modo, senza combattere. Mi stavo sforzando di restare calmo e mantenere un atteggiamento imperturbabile, ma per quanto i miei occhi fossero quasi fuori uso le orecchie funzionavano benissimo, esattamente come la mia testa. Che non aveva intenzione di lasciarmi in pace, nemmeno in quegli ultimi istanti.
Tiio, tua madre, Alice, tuo padre, Holden, Jenny, tutti quanti. Li rivedrai tutti.
Mi venne quasi da ridere. Non era quello il mio piano. Non era mai stato quello. Non volevo morire a cinquant’anni solo per qualcosa che si sarebbe verificato in futuro, ma che potevo farci, a quel punto?
Non credevo alla frottola che morire per qualcosa da giovane fosse meglio che morire senza ideali nella vecchiaia, ma non potevo comunque porvi rimedio. Il calore di quei lampi luminosi aveva in qualche modo fatto aderire la Mela alle dita della mia mano sinistra, come vi fosse incollata. Non potevo nemmeno buttarla a terra, provare a distruggerla in un ultimo, disperato tentativo di salvarmi la vita per scappare da quei tre bastardi. – Stai tentennando – sibilarono quelle serpi nella mia testa.
Lanciai un ultimo sguardo preoccupato a Thomas Hickey e Connor. Stavano trattenendo Charles per braccia, insieme, un Templare e un Assassino. Dio, quella scena poteva anche apparire divertente, ma Charles si era voltato verso di me e stava urlando con gli occhi pieni di lacrime, lo sentivo, lo coglievo nel suo sguardo e nella sua espressione disperata. E sapevo perfettamente che anche gli altri due erano tentati di comportarsi allo stesso modo.
Non potevano impazzire. Dovevano mantenere la calma. E dovevo farlo anche io, per poter compiere quel passo. Non avrei avuto il cuore leggero affrontando la tempesta che stava per abbattersi su di me, ma potevo fingere di averlo. Creare una facciata sperando che fosse qualcosa di veloce.
Abbassai gli occhi e mi sforzai di assumere un’aria pronta. Li salutai tutti e tre un’ultima volta, con un timido cenno della testa, e vidi Charles liberarsi furiosamente dalla presa degli altri due, spingerli indietro e correre verso di me con una lentezza innaturale, scavalcare i gradini delle scale come se l’aria fosse fatta di melassa.
Sorrisi tristemente. Charles. Alla fine non ero stato stupido a fidarmi di lui, perché era solo un ragazzo succube tenuto stretto per i mutandoni dal proprio Gran Maestro, così come lo ero stato io. Gli avevo salvato la vita, impedendogli di fare la mia stessa fine, e stavo morendo.
Come mio padre era morto davanti a me.
La Mela non mi lasciò vivere per bene neanche quel momento. Vibrò tra le mie dita e riprese a brillare, l’intervallo di tempo tra i lampi sempre più ridotto. Vidi con i miei occhi una lastra di vetro chiaro formarsi tra noi, Charles che sbatteva la mano sopra quell’affare, e il viso, senza più voce, la fronte poggiata al vetro creato lì come per magia e i capelli che gli ricadevano flosci ai lati del volto, la bocca piegata nell’espressione più dolorosa che avessi mai visto. Urlava, le lacrime a scorrere come fiumi lungo il suo volto. Thomas berciò qualcosa a Connor e  insieme riuscirono a staccarlo di lì mentre la Sfera nella mia mano emanava lampi gialli come il sole. Si voltarono a guardarmi un'ultima volta. Come avrei voluto che non fossero mai venuti con me, che non avessero dovuto assistere a una scena del genere. Non volevo lasciarli. Non in quel modo. 
Quando sparirono oltre la prima curva del corridoio, solo allora la Mela decise di spegnersi. La strinsi più forte sotto le dita, sentendola fredda come il ghiaccio. Ero rimasto solo. C'eravamo io, la Sfera e i Precursori, lì da qualche parte. 
Presi fiato. Mi sarebbe piaciuto oltraggiare quel luogo e perdere tempo pisciando contro la parete di vetro, ma non avevo lo stimolo. Maledizione. Non c'era più nulla che potessi fare per evitarlo, quindi... be', che accadesse. 
Mi sforzai di respirare, pensando di essere pronto. Facendo del mio meglio per sembrarlo, nonostante non ci fosse più nessuno per cui mantenere la dignità.
A parte me. Quei tre bastardi avevano giocato con la mia vita e morte come e quanto volevano, non avrei permesso loro di prendermi per il culo anche mentre spiravo. Drizzai la schiena. Sarei morto da idiota, ma almeno facendo la mia figura. Senza crollare. Nutrivo fiducia solo in quel pensiero, mi ci affidavo completamente, cercando di nutrirmene per sedare la fossa gorgogliante piena d’ira che s’ingrandiva nel mio corpo.
Espirai. Ero sicuro che sarebbe andato tutto bene, che non mi avrebbero spezzato. Non gliel’avrei mai permesso.
Ammetto che rimasi di quell’idea. Per circa cinque secondi.
Finché la Sfera non liberò un’altra esplosione di luce accecante e dorata, quella definitiva.
Finché non arrivò, insieme a un calore così ustionante da far scoppiare la mia pelle in innumerevoli bollicine e la luce in grado di bruciarmi la cornea, il dolore.
Devastante come un maremoto, peggio di diecimila dita mozzate da una pietra affilata nello stesso momento. Un incendio divampante all’interno del corpo, ogni cellula come sciolta nel più potente acido del mondo. E niente grog che potesse darmi sollievo, soprattutto.
 Avrei voluto urlare fino a strapparmi le corde vocali, piangere tutte le lacrime disponibili, strapparmi ogni ciuffo di capelli e cavarmi gli occhi a mani nude perché tutto finisse, ma non potevo, paralizzato com’ero in un terrificante gorgo di dolore.
No, non semplice dolore. Era quanto di più terribile avessi mai provato.
Agonia.

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Capitolo 68
*** Damnatio memoriae. ***


Respirava a fatica, la schiena premuta contro una delle colonne di legno che adornavano la taverna e le mani premute sulla faccia sudata. Idiota. Era stato un dannatissimo idiota a pensare che quella storia potesse portare a qualcosa di buono, e Haytham con lui. Avrebbe voluto averlo di nuovo davanti a sé, in carne, ossa e cappello, soltanto per afferrarlo per le spalle, scuoterlo e gridargli addosso che era un folle. Non poteva funzionare. Non avrebbe mai funzionato, mai. Sudava come se lo avessero messo ad arrostire su uno spiedo, le ginocchia che gli tremavano nei pantaloni e grosse gocce di sudore a solcargli la fronte e quella specie di tronco che aveva al posto del collo. – Tutto bene, signore? – Connor sussultò quando una delle cameriere gli piazzò una mano sul braccio, spalancando la bocca in una smorfia stupefatta. – È tutto a posto? Vi serve un tavolo? – Le sue ciglia sfarfallavano senza vederla davvero, il pomo d'Adamo che rifiutava di scendere in gola e fargli deglutire tutta la saliva e la paura che gli impregnavano la lingua come veleno. Un tavolo, gli chiedeva, con gli occhi sgranati sul volto e un sorriso cortese, di circostanza, tipico di quelle persone cui non importa nulla di come ti senti davvero, ma si limitano a fare il loro mestiere come meglio possono.
– No, grazie – mormorò il ragazzo, il cuore che rombava dentro il suo petto. C'era già un tavolo cui lo stavano aspettando, e in quel momento gli sembrava già uno di troppo. Non avrebbe mai dovuto dare retta a Haytham e al suo modo di pensare. Sembrava tutto così realizzabile quando era ancora in vita.
Ora sentiva soltanto un terribile presentimento gelarlo fin dentro le ossa, come ogni volta che passava davanti a una forca o prendeva in mano la Chiave del Tempio, quel piccolo ciondolo tiepido stretto contro il palmo della sua mano. Non poteva andare bene. Niente era mai andato bene nella sua vita, nemmeno quando si trattava di cose semplici, figuriamoci per qualcosa di tanto grandioso. Era un'idea ridicola. Così dannatamente degna di suo padre.
L'occhiata della cameriera si fece affilata come un coccio di vetro, improvvisamente sospettosa. – Avete intenzione di ordinare? – gli soffiò contro.
Connor sollevò un sopracciglio, interdetto. Il suo primo pensiero fu quello di risponderle con un secco "A dire il vero occupo una delle camere", ma non era nei suoi scopi causare problemi, se poteva evitarlo. – Io... Sì – mormorò, lanciando una scrupolosa occhiata al bancone. Nient'altro che una tavola sudicia e piena di schegge e macchie, ma occupava con un quadrato perfetto il centro della sala. Era un buon posto per pensare senza essere notato. – Dell'acqua – le disse senza pensarci troppo, un dito già puntato verso la sua futura postazione. – La prendo...
– Non posso servirgliene. Una birra? – Rieccolo, il sorriso della ragazza, aperto e ostentato come un regalo. Le persone erano davvero tutte così, nel mondo? Non riuscivano per una volta a essere sincere?
Gli sembrava di risentire Haytham. – Vada per la birra, grazie.
– Di nulla. – E sparì, così come gli era apparsa davanti, indicandogli con un cenno il bancone circondato da marinai, contadini e abitanti della città.
Era uno spettacolo strano. Si discuteva di guerra e rivoluzione, di schiavi e tasse, di donne e carte, eppure nessuno sembrava davvero prendere sul serio il proprio argomento. Tutti i loro sguardi finivano per vagare nel vuoto, forse a causa dell'alcool, oppure per quella strana inerzia che inibiva tutti quanti, come circondati da un'armatura di melassa. Non si sapeva più niente della guerra, niente dell'Inghilterra e meno di niente sulla sorte degli indiani. Era come se da un po' di giorni il tempo avesse smesso di scorrere, ma non si trattava una tregua. La brutta sensazione di Connor era la stessa che spingeva i loro occhi verso il nulla. La terrificante quiete prima della tempesta.
– La vostra birra.
Gli piazzarono davanti un boccale di quella roba strana e giallina che tutti gli uomini bevevano e sembravano gradire molto, ma a Connor non diceva proprio nulla. Eppure preferiva quello a un tè – troppo inglese, troppo presto – o a un silenzioso pasto in solitaria alla Tenuta. Non era ancora riuscito a tornarci, non dopo quella notte. Rivedere la buca in cui aveva seppellito Achille, accanto a sua moglie e suo figlio, l'aquila impagliata sul cassettone della sua stanza e i registri compilati con la sua pessima scrittura lo avrebbe distrutto, quasi quanto scendere nella stanza segreta degli Assassini ed essere costretto a fissare gli occhi vitrei del ritratto di Haytham.
Cercò di dimenticare quei pensieri seppellendoli con un sorso di birra amara, e lasciò che i suoi occhi scandagliassero per bene la taverna. Ogni tavolo, ogni commensale, in tutte le direzioni. Avrebbe potuto usare l'occhio dell'Aquila, ma l'idea non lo allettava. Non dopo quello che i Precursori avevano fatto a Haytham. Voleva averci il meno a che fare possibile, a costo di diventare cieco nello scrutare persino gli avventori più lontani. Quella roba scivolò giù per la sua gola come lungo un pendio scosceso e pieno di sassi, gli sembrava di ingoiare olio di pietra.
Non ce la faceva. Non poteva farcela, e maledetto lui per aver dato quell'idea. No. No, no, non era pronto, non poteva sopportare una cosa del genere, non così presto. Sfilò una sterlina dalla scarsella, le dita tremanti, e sollevò un dito in direzione della cameriera, il volto che bruciava e la camicia appiccicata alla schiena madida. – Signorina? – tentò di esclamare con un briciolo di entusiasmo, la voce flebile come quella di un vecchio in punto di morte. – Quanto...
– Ehi! Guarda guarda, chi non muore si rivede. – Una mano era calata sulla sua spalla come un artiglio, le unghie conficcate nella carne e nei tendini sotto la giubba da Assassino, e quella voce... Dio, quella voce, così ebbra, viscida e impastata come ne aveva sentite uscire solo dalle bocche dei disperati che dormivano per strada. Non aveva mai pensato che risentirla sarebbe stato così terribile, invece bastò quel poco a fargli lanciare un sospiro rassegnato, le labbra aperte in una smorfia che tradiva la fuga istantanea delle sue speranze. – Come andiamo, dolcezza? Giocavi a nascondino?
Connor strinse i denti e strizzò la moneta nel pugno, lo sguardo chino sui propri calzoni. Iniziava a pensare che la sfortuna lo stesse perseguitando. – Hickey – sibilò. – Rivederti è sempre una gioia.
– Pure per me, bastardo – gli sussurrò nell'orecchio con quella voce liquida, come se stesse per schioccargli un bacio sulla pelle sudaticcia del collo. – Pure per me. Andiamo, che stai aspettando? Prendi quel piscio, dai, non abbiamo tempo da perdere. – Il Templare puntò gli occhi scuri e lucidi come pozzi dentro i suoi, un sorriso sghembo a incurvargli l'angolo della bocca mentre gli tirava un colpetto sullo sterno con l'indice. – Io e Charlie ti stiamo aspettando da un pezzo. – Detto questo agganciò il dito alla sua cintura e lo tirò verso di sé con una smorfia, le gambe appena schiuse e il bacino pericolosamente inarcato verso di lui. – Forza, muoviti.
Tom schioccò forte la lingua contro il palato, manco stesse richiamando un cavallo, e Connor roteò gli occhi. Oh, il cuore stava per esplodergli dalla gioia, come avrebbe detto suo padre.

– Ehi? Charles? – Connor affondò il pugno in tasca, lo sguardo ostinatamente fisso sulle ginocchia. Avrebbe venduto la propria anima per non avere la vista periferica, ma i suoi occhi continuavano a cadere su quella triste scenetta. Tom stringeva le dita sulle spalle di Lee, le labbra quasi poggiate sul suo orecchio, mentre il più giovane dei Templari nonché prediletto di suo padre fissava il vuoto con le labbra strette in una smorfia disperata, le palle degli occhi così lucide e piene di lacrime da potercisi specchiare. – Charlie? Ehi, hai visto chi c'è? Dai, non farti pregare, guardalo. – Hickey gli strinse la mascella in mano, girando bruscamente il suo viso verso Connor. – Il bastardo! Che sorpresa, eh? Non sei contento di vederlo?
Le palpebre di Charles si mossero velocemente, battendo sugli occhi come in preda a un tic nervoso mentre il boccale nelle sue mani rischiava di traboccare da un momento all'altro, scosso dai tremori delle sue dita. L'indiano gli rivolse un muto cenno del capo, ma non poté fare a meno di abbassare gli occhi sulle sue mani, su quelle nocche bianche a forza di stringere il metallo. Il pensiero che qualcosa del suo viso, qualunque cosa, potesse riportare l'immagine di Haytham nella sua mente gli colmava il cuore di una sorta di dispiacere. Pietà, più probabilmente, pietà per il suo nemico, quell'uomo che lo aveva quasi strozzato quando era soltanto un bambino e gli era parso così spavaldo e pieno di sé che il solo pensiero del suo volto lo faceva fremere di rabbia, mentre ora non riusciva nemmeno a guardarlo in faccia. Pensava al suo naso, lo stesso che aveva occupato il volto di Haytham, e alla forma dei loro occhi, gli occhi dei Kenway, e sapeva che nonostante gli anni, nonostante la prigionia presso l'altro Gran Maestro, Reginald Birch, Charles non aveva dimenticato quei dettagli. C'era persino la possibilità che non ci riuscisse mai. Aprì la bocca in un sospiro, la lingua improvvisamente secca come un pugno di sabbia. Haytham aveva sempre guardato a lui come a un figlio, ma era senz'altro più evidente la considerazione che Charles ancora provava nei suoi confronti.
Era lui quello che era scoppiato a piangere quando Haytham aveva stretto la Mela nel pugno e si era allontanato su per le scale. Lui aveva sbattuto la faccia contro quella parete di vetro venuta fuori dal nulla, la bocca aperta in un raglio disperato mentre Haytham sorrideva, e sorrideva per Lee, Connor lo sapeva. Poteva non essere stato il miglior figlio del mondo, ma conosceva suo padre. Sapeva che non avrebbe mai fatto niente che potesse ferire Charles in alcun modo, specie in quel momento. Aveva preferito fingere di averlo sempre saputo e mostrarsi rilassato, sereno, così che facesse meno male a tutti.
Connor sbuffò e afferrò una sedia dal tavolo vicino, trascinandola accanto a quella di Lee. Forse lo sapeva anche lui, per questo era così disperato. Perché qualcosa gli diceva che non sarebbe stato piacevole come Haytham voleva far credere. Perché l'aveva salvato, e nessuno di loro aveva fatto niente per ringraziarlo. Gli aveva detto di dir loro la verità, di raccontare com'erano andate le cose quando avevano toccato la Mela e parlato con gli spiriti della Prima Civilizzazione, ma come poteva farlo? Insomma, lui si era offerto per morire al posto di Haytham, Tom gli aveva salvato la vita con quel suo folle piano da doppiogiochista, ma Lee? Cosa aveva fatto Charles, a parte blaterare scuse, guardarlo con gli occhi sognanti e piangere? Non voleva che stesse peggio, ma i fatti parlavano chiaro.
Che assurdità, eh? Lo aveva odiato con ogni fibra del suo corpo, e ora viveva con la paura di distruggere la sua salute mentale.
Si lasciò cadere sulla sedia al contrario, un avambraccio poggiato sullo schienale, e pensò che la vita a volte era proprio strana. – Riesce a parlare? – chiese a Hickey, la voce sottile e roca fuori dalle sue labbra. Impaurita. Mandò giù un lungo sorso di birra, sperando che gli sciogliesse quella dannata lingua, come un blocco di metallo in bocca, altro che Lee.
Thomas fece spallucce, sollevando il suo bicchiere. Conoscendolo, doveva essere scotch, o gin, o rum, o qualcosa di forte di quel genere. I dettagli, sì, era quello l'importante. Focalizzarsi sui dettagli. – Uhm, sì. Eh, Charlie? Ci siamo fatti delle belle chiacchierate, non è vero? – Fece strisciare la sedia verso Charles, punzecchiandogli con un dito il lobo dell'orecchio. – Sul vecchio Reginald, per esempio. Aveva un buon ritmo? Com'era messo a resistenza? E vuoi non parlare di misure? Eh, Charlie-boy? Vuoi non parlare di misure? – Hickey scoppiò in una lugubre risata, come il latrato di un cane difficile, la fronte premuta contro l'orecchio di Lee e una mano serrata sul suo collo per tenerlo vicino a sé. Connor aggrottò un sopracciglio, cercando di non chiedersi a cosa potessero alludere quei discorsi. Non voleva sapere. – Bravo ragazzo – sussurrò, la voce venata di qualcosa che somigliava terribilmente al rammarico. – Sei davvero un bravo ragazzo. Non è vero, bastardo? Guardalo! – esclamò, la mano libera che ora dava piccole pacche sulla sua guancia. – Guarda che faccino.
Deglutì forte, il sapore della birra a infiammargli l'esofago. A lui sembrava più il volto di un orfano devastato dal dolore, la pelle trasparente tesa sugli zigomi e sulla fronte, in netto contrasto con la barba e i baffi così scuri. Persino l'azzurro dei suoi occhi era spento, l'ardore di quel giorno di vent'anni prima nella Frontiera completamente risucchiato dalla disperazione. – Hickey – sibilò tra i denti, cercando di metterci un po' di autorità. – Lascialo in pace.
Chissà cos'avrebbe detto Haytham davanti a una scena del genere. Forse avrebbe riso per i loro ridicoli tentativi di andare d’accordo, ma era quel che voleva, no? Che almeno provassero a essere uniti. – Sei ubriaco?
Thomas sollevò un sopracciglio, l'angolo della bocca inarcato in un sogghigno. – Domanda idiota, bastardo. – E chinò il capo sul bicchiere, il volto ancora torto in quell'espressione famelica. Per un attimo Connor fu tentato di seguirlo, mandando giù sorsi di birra fino a vederci doppio. Tutto era meglio di intraprendere quel discorso, ma qualcuno... Qualcuno doveva pur farlo, no? Per Haytham, per il resto del mondo. Per tutti loro.
– Giunone mi ha parlato – sibilò tra i denti, la mano destra stretta sull'impugnatura del boccale. – Di nuovo.
Charles gli scoccò uno sguardo interdetto, le ciglia che continuavano a sfarfallare sopra le palle lucide dei suoi occhi. – Una donna ti ha rivolto la parola? Per più di una volta? – Tom emise un lungo fischio divertito, completamente sbracato sulla sedia. – Cazzo, uno di quei momenti che segnano la tua esistenza.
– Giunone – ripeté Connor, stupendosi di cercare con gli occhi Lee. Forse avrebbe capito un filo di più. – Uno degli spettri della Prima Civilizzazione. Mi ha parlato – sottolineò. Fece del suo meglio per mantenere il contatto visivo con Lee, ora imbambolato a strizzare gli occhi come se non volesse sentirne parlare nemmeno sotto tortura. Ma dovevano. Dovevano, maledizione, almeno per ciò che aveva fatto suo padre. – Lo fa spesso, ecco. Ma ora è più insistente che mai.
– Che cosa vuole? – La voce strisciò timida attraverso le labbra di Charles. Finalmente. Non avrebbe sopportato un'altra delle battutine lascive di Hickey, o quel suo modo di toccarlo come fosse un dannato quarto di bue.
Connor si allungò verso di loro, la schiena tesa e i gomiti poggiati sul piano pieno di macchie e tacche del vecchio tavolo rotondo. – La Chiave – sussurrò. – Vuole che la abbiano gli Assassini, ma quelli... Del futuro, ecco. Per chissà quante generazioni a venire.
– E allora? – Tom inclinò il bicchiere sulle labbra e lo ingollò tutto in un sorso, sbattendolo giù con fin troppa enfasi. – Voi simpaticoni incappucciati avete tenuto la Mela nascosta per secoli, con quello lì... Come si chiamava, eh?
– Altaïr – puntualizzò Charles a mezza voce. – L'Assassino di Masyaf.
– Quello, bravo. Siete riusciti a nascondere la Mela in un posto sperduto in mezzo alle montagne della cazzo di Europa e buttare via tutte le chiavi. E già prima che la trovasse quell'altro era rimasta lassù quattrocento anni. – Thomas gli sventolò quattro dita davanti alla faccia, come se fosse troppo tardo per capire. – Quattrocento!
– Come fai a conoscere quella storia? – brontolò Connor. Lo scioccava molto di più scoprire che Hickey conosceva Altaïr Ibn-La'Ahad che non sentirsi sbattere in faccia la propria inettitudine come Assassino. Di quello poteva quasi dirsi consapevole, bastava pensasse alla Tenuta, la meravigliosa villa in cui era cresciuto e dove ora aveva paura di tornare.
L'irlandese gli rivolse un'altro di quei sorrisi sghembi prima di far cadere gli occhi dentro il bicchiere vuoto. – Birch. Haytham. Sapevano un sacco di allegre storielle sul vostro mucchio di fanatici. Su quando ancora contava qualcosa, intendo. – Sollevò entrambe le mani in segno di resa e fece schioccare forte la lingua contro il palato, pronto a cambiare discorso. – Tralasciando questo, che problema vuoi che ci sia nel passarvi una collanina di cui non frega niente a nessuno? Voglio dire, adesso siamo nella stessa barca, uh? Non cercherai di ammazzarci con del vino avvelenato, spero.
Connor infossò la testa nelle spalle e prese un gran respiro. Non era pronto, forse non lo sarebbe stato mai, ma quando se non allora, con la birra in circolo nel sangue e il brusio della taverna a ronzargli dentro le orecchie? Doveva rischiare. Cosa avrebbero potuto fargli, tanto? Tirargli uno sculaccione?
Il pensiero di Thomas Hickey intento a colpire il suo fondoschiena con il palmo aperto gli fece risalire un brivido inorridito lungo la schiena. – Il problema – mormorò sovrappensiero, gli occhi puntati sulla bocca storta di Tom. – Un problema c'è eccome, ed è più grosso di quanto sembri. – Eccolo lì. Il punto dolente, il nocciolo della questione, quello che gli divorava il petto come un tarlo da quando Haytham era morto, fin dalla sua prima solitaria notte in quella taverna. Doveva dirglielo. Lo meritava. E loro meritavano di sapere, in fondo, perché erano lì nonostante tutto. Era lui il codardo, quello rimasto appiattito contro una colonna con il fiato grosso per la paura di guardarli negli occhi. Meritava il loro disgusto e la loro indignazione, pietà, compassione, qualunque cosa volessero offrirgli, ed era suo dovere accettarlo come un dono.
– Voglio uscirne – mormorò. – Lascio la Confraternita.
Onestamente Connor si aspettava tutto, tranne quel devastante silenzio. No. Non avevano sentito. Insomma, era una notizia sconvolgente. Aveva stentato a credere a se stesso quando la sua coscienza gli aveva suggerito quell'idea, il male minore per tutti, come potevano quei due reagire così? Doveva aver sbagliato qualcosa. – Lascio la Confraternita – ripeté, la voce più alta di mezzo tono. Solo dirlo gli provocava uno strano dolore al petto, come se qualcuno lo avesse punzecchiato con un coltello da burro, eppure c'era una nota di isteria nelle sue parole, una risatina in fondo alla gola pronta a incrinare tutto il suo discorso. – Io...
– Abbiamo capito – replicò Tom secco, lo sguardo appena sollevato dal fondo del bicchiere. – Non devi cercare di metterti al centro dell'attenzione a ogni costo, lo sai?
Connor deglutì forte, la lingua improvvisamente spessa come un ciocco di legno in bocca. – Tutto qui? – gemette. Dio, sembrava che stesse per scoppiare a piangere, con le labbra che tremavano e i pugni stretti in due morse che avrebbero potuto spezzare a metà il tavolo. Non che volesse dargli ragione, ma era assurdo che non avessero niente da dire. – Sapevate che sarebbe successo? – La curiosità e l’ira gli bruciavano nel petto insieme all’alcool, un miscuglio che minacciava di farlo saltare in aria come una santabarbara.
– Nah. – Thomas gli sorrise, facendo rotolare rumorosamente il bicchiere contro le assi sconnesse. – Però non mi stupisce, visto come siete ridotti. – Gli parve quasi di sentirlo aggiungere due parole in un colpo di tosse, qualcosa che suonava un po’ come inutili perdenti.
Serrò la mascella. “Come voi ci avete ridotto” avrebbe risposto in qualunque altro momento, magari davanti a Haytham o ad Achille. Lì non c’era più nessuno. Soltanto loro, una squallida taverna alla periferia della città e un piano da mettere in piedi. Affondò le unghie nel palmo della mano libera, così teso verso di lui che i muscoli della schiena gli bruciavano come vecchie corde usurate. – Spero tu abbia capito che tutto questo non significa nulla – riuscì a sibilare, gli occhi fissi in quelli di Hickey. Odiava il modo in cui sembrava impossibile fargli paura. Guardava tutti allo stesso modo, con quella strana miscela di divertimento e svogliato disinteresse, come se niente al mondo fosse importante, tolto il liquore nel suo bicchiere. – L’alleanza ci sarà. – Si assicurò di spostare lo sguardo dall’uno all’altro, puntandolo anche negli occhi vitrei di Charles Lee, il volto mezzo affondato nel suo boccale. Era lui quello più sensibile alle parole di Haytham, lui quello su cui far leva. Forse Achille non aveva aiutato la Confraternita a espandersi, ma almeno gli aveva insegnato qualcosa sugli affari. O quella era stata la vita alla Tenuta?
Non importava. – Si tratta solo di deciderne i termini. Per questo siamo qui. – Ritornò ad appoggiare il fondoschiena sulla sedia, i muscoli del dorso improvvisamente rilassati. Sembrava che già solo dicendo di voler mollare gli Assassini gran parte del peso che gli premeva addosso fosse sparito. – Carta e penna?
– Buono, bastardo, rallenta un minuto. – Hickey strinse il bordo del bicchiere tra pollice e indice, sollevandolo con la stessa cura che avrebbe riservato un banchiere a una pila di sterline. – Perché tagli la corda? – sogghignò. Non gli era mai sembrato particolarmente intelligente, eppure aveva quello sguardo, come se potesse cogliere i suoi pensieri più vili solo guardandolo, che gli metteva addosso una gran paura. – Se non sono indiscreto, ovviamente.
Lo era eccome, ma non gliel’avrebbe data vinta per niente al mondo. Con tutto il rispetto per suo padre, dovevano formare un’alleanza, non un circolo di pettegolezzi. Non era necessario andare d’accordo, la fiducia reciproca doveva essere più che sufficiente. E, a malincuore, Connor concluse che quello era un buon punto da cui cominciare. – Non mi sento in grado di portare avanti gli Assassini. Ci sono persone che meritano questo compito più di me, uomini con un altro senso del dovere. Con uno sguardo diverso sul mondo. – Strinse la labbra tra loro, e d’istinto si nascose la bocca con il boccale. Maledizione. – Dopo tutto il tempo passato insieme a voi due è come se il mio ottimismo fosse svanito. – Ottimismo o ingenuità, come volesse chiamarlo. Connor strinse i denti. Non riusciva a fingere di non vedere il sorrisetto che aveva appena fatto capolino sulle labbra di Thomas, ma che altro poteva fare?
Sopportare. Si trattava di sopportare e parlare, mettere le carte in tavola. Doveva fidarsi di loro. Stava tutto lì, no? Fidarsi. Sembrava così semplice a pensarlo. Il vero problema era metterlo in pratica, con soggetti del genere. – Guarda questo posto – sibilò, la voce fuori controllo e trasudante ira. – Guardali. Dovrebbero essere lì fuori a combattere. Nessuno gli dice niente, eppure non si ribellano. La guerra c’è ancora, e un sacco di soldati continuano a morire, ma si rifugiano in questa pace apparente come fosse un giaciglio sicuro.
– Allora perché non glielo dici tu?
Connor sbuffò. Hickey poteva fare il furbo quanto voleva, ma a questa domanda era preparato. Lo sapeva. Aveva capito. – Per lo stesso motivo per cui non merito il posto di Mentore. Perché non ce la faccio. – Fece strisciare il boccale verso il centro del tavolo con un grattare sinistro e sollevò le mani in segno di resa, sentendo il sangue bruciare in piccole mezzelune sul palmo. – Contento?
Il Templare fece spallucce e accavallò le gambe sotto il tavolo. – Diciamo di sì. – Si voltò verso Charles, come a cercare il suo appoggio, ma Lee continuava a tenere gli occhi su di lui, le palpebre che sembravano rifiutarsi di muoversi. – Però fammi capire se ho colto il concetto. Io e Charlie qui ci mettiamo d’accordo con te sui termini di questa cosa, giusto? Poi? Tu diffondi la buona novella tra gli Assassini e passiamo il resto delle nostre vite a pregare e bere come fossimo sempre stati dei bravi compagni di giochi?
Deglutì forte. Su per giù, il suo piano consisteva più o meno in quello. – Farò del mio meglio per convincerli di quanto tutto questo sia vantaggioso. Ve lo posso…
Lee emise uno sbuffo, come se fosse tornato dall’aldilà. – Non hai idea di come siano fatti gli uomini – gli soffiò contro, lo sguardo perso in un imprecisato punto alle sue spalle. O forse gli stava fissando il naso, chissà. – Solo perché tu non vuoi combattere non significa che tutti gli altri accetteranno.
– Sono stanchi – replicò Connor cercando di restare calmo. Mantenere il contatto visivo. Respirare. Piccole cose che rendono più facile il dialogo e più difficile l’essere uccisi. O almeno, così sperava. – E lo sono almeno quanto me. Questa guerra ci sta portando alla rovina. Sarà una situazione di prova, mettiamola così. Se va tutto bene, la tregua permarrà. Altrimenti…
– Questo fino a quando? – Era così strano. Pensava che sarebbe stato proprio Lee quello più facile da convincere. Era stato il prediletto di suo padre, il suo pupillo, non sarebbe stato da lui opporre resistenza al suo ultimo desiderio, giusto?
Peccato che quei gelidi occhi azzurri dicessero l’esatto contrario. – Fino alla fine della guerra, conflitti interni successivi compresi. – Sentì un groppo amaro scendergli giù per la gola. Qualche anno prima non avrebbe mai neppure pensato che una guerra potesse durare così tanto, ora prendeva in considerazione persino le piccole scaramucce che quelle catastrofi si lasciavano alle spalle. E Charles Lee osava dirgli che non conosceva gli uomini. – Avete idea di quanti inglesi ci siano ancora nelle Colonie? Di cosa potrebbe succedere loro quando i patrioti vinceranno? – Pensò a Lee con un moto di tristezza nel petto. La sua carriera militare poteva anche essere andata in fumo per tutta una serie di battaglie perse e pessime scelte in campo diplomatico, ma nessuno poteva negare che il fatto di essere inglese avesse inciso sulla sua considerazione nell’esercito. Ma lui era ricco, o lo era stato, e sapeva difendersi. Che cosa sarebbe successo a tutte le madri e i bambini inglesi, vedove e orfani di uomini che li avevano abbandonati in un paese straniero e in cui tutti li additavano come appestati?
Case in fiamme, gente impiccata, la feroce applicazione della giustizia personale. Un brivido gli solcò la schiena come un cavallo imbizzarrito. Non potevano permettere una cosa del genere. Non era giusto. – Solo fino ad allora. – Solo. Si diede mentalmente dell’idiota, il cuore stretto in una massa acida e pulsante in cima alla gola.
– Se non vi uccidiamo tutti prima – replicò Hickey gelido, le labbra piegate in un cinico sorrisetto. Gli venne istintivo scuotere la testa, come davanti a un bambino turbolento e disobbediente. – Che c’è?
C’erano un sacco di cose, in teoria, ma non poteva seminare zizzania. Suo padre. Lo doveva a suo padre, maledizione. – Haytham… – Si poggiò una mano sul petto, per un attimo incapace di respirare. La rabbia lo stava colmando come un vecchio otre. Doveva calmarsi, o rischiava di esplodere. – Haytham non avrebbe mai permesso che ce ne restassimo qui con le mani in mano.
Thomas inclinò il capo da una parte, gli occhi stretti in una smorfia che sembrava solo ribadire quanto fosse ingenuo. – Tu non lo conosci, bastardo. – Forse, ma conosceva se stesso. Hickey doveva togliersi quella smorfia dal volto, oppure gliel’avrebbe levata lui con un pugno.
No. No. Respirare. Contatto visivo. Perché era così difficile, maledizione? Si costrinse a deglutire, annuendo anche se non c’era niente cui farlo. – Ho passato settimane con lui in quella vostra bettola di Boston, e forse non le avrò trascorse con le mani in mano, ma con l'uccello in una e una bottiglia nell'altra sicuramente sì. – Il suo sguardo vagò da Connor a Charles, scrutandoli come alla ricerca di una loro reazione. Ma nessuno parlava. Nemmeno Lee. Forse perché non lo trovavano così poco credibile, pensò Connor, il cuore pesante. – Haytham parlava. Il fatto che desiderasse una tregua non l’ha mai resa possibile.
– Sei un ingrato.
Connor sussultò, a metà tra il sollievo e la sorpresa. Sembrava che il secondo in comando dei Templari si fosse finalmente risvegliato da quella sua apatia e si stesse finalmente facendo avanti per difendere suo padre. E se una parte di lui era rimasta scossa nel sentire quelle parole uscire dalla bocca di Thomas, accendendogli nel petto la voglia di replicare in favore di Haytham, un’altra sapeva che era meglio lasciare quell’onore a Charles. Se lo meritava. E lo desiderava più di qualunque altra cosa al mondo. – Che? – Abbozzò un sorriso davanti all’espressione disgustata di Thomas. Aveva conosciuto un sacco di soldati come lui, come Israel Putnam, tanto in gamba quando si trattava di diplomazia quanto bruschi e scortesi con i propri sottoposti. Un atteggiamento tipico.
Solo che Charles non sembrava in vena di tollerarlo. – Ho detto che sei un maledetto ingrato – ripeté, gli occhi improvvisamente accesi di furia puntati in quelli di Tom. Pregava soltanto che non si iniziassero a prendersi a pugni. Non lo avrebbe sopportato. Dopotutto, Lee aveva ragione. Suo padre era morto, maledizione, e Hickey si comportava come se non avesse fatto nulla di speciale. Ma la colpa era anche sua, rifletté mentre sentiva il sudore colargli in gelidi rivoletti lungo il collo. Sua, perché non gli aveva parlato di quella strada cupola di raggi di luce, della richiesta della Prima Civilizzazione, e probabilmente non l’avrebbe fatto mai. Non aveva nessuna voglia di ripensarci. E poi, coraggio, chi avrebbe creduto a una cosa simile? – Ci ha salvato la vita. – Fortunatamente la voce di Lee lo riscosse da quei pensieri, riportandolo nella quiete apparente della taverna. – A tutti e tre.
Non pensava di essersi mai trovato più d’accordo con Charles, in fondo, e si stupì del fatto che Thomas non stesse roteando gli occhi e sbuffando come al suo solito. Chissà, magari era anche arrivato a riconoscere il fondo di verità nelle parole di Lee. Si schiarì la voce, sentendo il bisogno di intervenire prima che la situazione degenerasse. – Ha ragione. – Due paia d’occhi si spostarono su di lui, intenti a fissarlo come se non l’avessero mai visto davvero. – Se credevate davvero in lui e credete in quello che fate dovreste cercare una mediazione con gli Assassini. Cercarla sul serio, non soltanto perché è ciò che vi ha ordinato. Non credete che tutto questo sia sprecato? Voi cercate la democrazia, noi anche. Dite di sapere come siano fatti gli uomini, giusto? Lasciate che siano loro a scegliere, dunque. – Si fermò a riprendere fiato. Non era stato un discorso lunghissimo, ma gli sembrava di avere i polmoni ridotti a due prugne secche. – Gli Assassini possono ancora fare qualcosa. Io... Io non ho mai pensato davvero a quel che diceva il Credo. – Sentì il sangue pompare più forte, il rombo delle vene dentro le orecchie. Non lo stava dicendo ad alta voce, giusto? Non era vero. Non… – Mi hanno dato una casa, delle armi, degli ideali, ma nessun modo giusto per sfruttarli. Io non so quale sia, il modo giusto. Non l'ho mai saputo. – Maledizione. Maledizione a lui e alla sua boccaccia e agli occhi di Charles Lee, che non la smettevano di puntarlo come delle lucerne. Doveva restarsene dietro quella colonna, ecco la verità, con le mani sulla faccia e il sudore a inzuppargli il viso, e mandare al diavolo la cameriera e chiunque volesse impicciarsi degli affari suoi per tornare in camera, il volto affondato nei cuscini e la mente travolta da un sonno agitato.
Odiava se stesso per continuare a parlare. – Non sono adatto a un compito come questo. – Odiava se stesso per non riuscire a cambiare le cose.
– Quindi che farai? – chiese Thomas, il solito tono noncurante. Non riusciva a crederci, dannazione.
– Metterò una buona parola per voi – gli uscì stancamente di bocca. – È tutto quello che...
Il Templare scoppiò a ridere, e questa volta fu lui a tendere il busto verso Connor, quel sorrisetto malizioso perennemente stampato in faccia. – No, bastardo, intendo che farai adesso.
Grazie al cielo aveva una risposta anche per quello. Era stata forse la parte più semplice dell’intera situazioni. – Aiuterò… i patrioti. – A dire il vero la sua prima idea era stata quella di aiutare Washington, ma non poteva dimenticare quel che aveva fatto al suo villaggio, quel che avrebbe potuto fare se non fosse intervenuto in tempo. Perdendo per sempre il suo migliore amico. – Lotterò perché questo finisca. Per un governo che sia giusto. Il popolo merita di scegliere.
Thomas Hickey puntò un gomito sul tavolo, il volto premuto contro il pugno chiuso come una ragazzina petulante. Connor non aveva idea di come stesse seduta una ragazza, a dire il vero, ma se la immaginava esattamente così. Con quel sorriso e le ciglia a sbattere con aria scaltra sugli occhi scuri. – Ti svelerò un segreto, bastardo. – Magari con la stessa nota da bambino combinaguai nella voce. Solo, senza dargli del bastardo. – Il popolo non merita niente. Li hai visti, no? – Roteò gli occhi verso gli altri clienti della taverna e lanciò uno sbuffo, l’indice puntato sotto la mascella a sollevargli il volto. Come un pezzo raro di qualche macabra collezione. – Gli dai un briciolo di potere e subito ci si crogiolano come dei maiali nella merda. Con questi coglioni è come bere del buon vino, un bicchiere tira l'altro e prima che te ne renda conto sono sbronzi fino al buco del culo.
Solo quando Hickey lo lasciò andare con una risatina Connor si rese conto di aver smesso di respirare, come se in fondo credesse a quel che Thomas gli aveva detto. No. Era un Assassino. Cioè, no, non più, d’accordo, però… Diavolo, non aveva sempre pensato che gli uomini potessero migliorare la propria condizione, se solo l’avessero voluto? Era il fondamento della democrazia, no? L’idea di prendere in mano il proprio destino e farsi strada nel mondo, tutti insieme. – Hai mai… – Tom Hickey sollevò le spalle e prese fiato, storcendo la bocca in una smorfia scettica. – Lo sai. Pensare che forse ti impegni tanto per niente. Tu per dire chiunque. Ti riempi di merda fino ai gomiti per gli altri, eppure nessuno nota i tuoi sforzi. Mai successo?
Connor deglutì forte, la saliva come acciaio fuso lungo l’esofago. Certo che sì. Gli era successo in quella taverna, e prima, quando Achille era morto, quando Molineux era morto, o quando London era morto, o alla sua esecuzione, quando tutti continuavano a fissarlo con disprezzo e lanciargli sassi senza sapere che si trattava dello stesso ragazzo che aveva ucciso John Pitcairn e aiutato George Washington ad acquisire potere. Gli era successo davanti a Kanen’tò:kon, prima di guardarlo negli occhi e affondare la lama celata nella sua carne, lo scricchiolio delle costole che ancora gli rimbombava nelle orecchie. Quando immaginava il cuore esplodergli nel petto, impalato sulla lama mentre le vene e le arterie si agitavano come serpenti dalla testa mozzata.
Eccome, se gli era successo. Un sacco di volte. – Perché lo tratti come se fosse lui la vittima di tutto questo? – La voce di Charles Lee era accesa di così tanto astio da farlo sobbalzare, perdendo il filo dei suoi pensieri. Meglio. Qualunque cosa per non essere torturato ancora da quei ricordi. E se il prezzo da pagare era stare a sentire Lee, con quella nota incrinata nelle voce e gli occhi lucidi, be’, sarebbe stato al gioco. Era così che si andava avanti, giusto? – Haytham è… – Il Templare abbassò gli occhi sul proprio petto e si tappò la bocca con la mano, tentando di soffocare un singhiozzo. Tutto inutile. Un attimo dopo grosse gocce rotonde sgorgavano dai suoi occhi chiusi e rotolavano sulle guance, sulla giacca consunta che gli fasciava il costato scosso dal pianto. D’istinto Connor fece arretrare un po’ la sedia, la testa ancora più incassata nelle spalle. Non riusciva più a guardarlo in faccia. D'istinto i suoi occhi precipitarono sulle nocche dell’altra mano, bianche e strette sul bordo del tavolo. Succhiò una boccata d’aria tra i denti, a malapena in grado di respirare, e cercò lo sguardo di Hickey con uno spietato connubio di paura e disagio a comprimergli i polmoni. Che cosa avrebbe dovuto fare in un momento del genere? Allungarsi verso di lui e… abbracciarlo? Dirgli che sarebbe andato tutto bene? Tutto cosa, poi? Era stata la morte di Haytham a devastarlo in quel modo. Era una sua reazione alla cosa, proprio come Connor aveva preferito rifugiarsi in una taverna e andare avanti e indietro per la città a rimuginare, ignorando le proprie responsabilità.
Nuovo Mentore. Suonava così strano. Così inappropriato.
No, no, no. Lee. Lee in lacrime. Non doveva lasciare che i suoi problemi prendessero il sopravvento su tutto il resto. I Templari erano suoi alleati. Doveva fare qualcosa, in teoria. Ma abbracciare Charles non avrebbe cambiato il fatto che Haytham era morto e senza una fossa, abbandonato in una caverna non più raggiungibile in balia di chissà quali parassiti. Un brivido gli fece torcere la schiena dal ribrezzo. Ricordava fin troppo bene lo schianto della roccia contro la roccia, quando finalmente erano riusciti ad andarsene e Lee era crollato sulle gambe, quasi trascinandolo a terra con sé, il volto distrutto e il corpo scosso da un pianto silenzioso, ma non per questo meno disperato.
Non aveva fatto nulla. Proprio come ora. Thomas se ne stava lì, un sorrisetto in viso e il capo poggiato su entrambi i pugni, come si trovasse davanti a una visione di particolare tenerezza. Senza dire una parola. Tese solo una mano verso Charles, facendo scorrere piano il pollice sulla sua pelle umida.
– Non mi toccare! – sbottò Lee facendo un salto indietro con tutta la sedia. Connor non aveva mai visto i suoi occhi farsi così grandi e pieni di paura. – Non mi toccare – ripeté, il volto stropicciato dalle lunghe dita.
Al contrario, il sorriso di Hickey si era fatto ancora più grande e cattivo. – Continua – lo supplicò Connor in un brontolare sommesso, pregando che Tom non avesse niente da aggiungere. Non sapeva se Lee avrebbe retto ancora per molto.
Prese un respiro e tentò di sollevare lo sguardo dalle mani di Charles. Non sapeva nemmeno se lui avrebbe retto ancora per molto. Doveva farsi forza, così gli avrebbero detto Achille, suo padre, i saggi del villaggio. Loro tre avevano un compito. Continuare. Il folle motivo per cui si trovavano lì. Andare avanti, per quanto costasse caro. Solo… darsi una mossa e far sì che le cose funzionassero bene e il più a lungo possibile.
Semplice, eh? – Tutto quello che è successo – sussurrò Lee, e immediatamente Connor trovò la scusa per distrarsi da quei pensieri troppo pessimisti. Troppo da Templari. A rifletterci, era partito tutto dalla bislacca idea di Achille di andare a salvare Haytham da quell’impiccagione. Se non l’avesse fatto… No. Sarebbe morto lo stesso. E il suo villaggio avrebbe avuto gli stessi problemi, così come i patrioti. Anche di più, forse. Lee avrebbe avuto praticamente campo libero nell’esercito. In un certo senso, era meglio che fosse morto nel Tempio.
Un brivido gli fece contorcere la schiena in preda agli spasmi. Come poteva averlo pensato davvero? E davanti a Lee, poi! Si sforzò di deglutire, di non sembrare turbato, ma la parte più ripugnante di quel pensiero, quella che gli girava in bocca come il sapore di un cibo guasto, era che nemmeno per un istante gli era saltato in mente che Haytham potesse sopravvivere.
Non aveva mai provato un tale disgusto per se stesso, maledizione. – Tutto quello che ha fatto – enfatizzò Lee, la voce appena più alta per attirare la loro attenzione, – è stato per noi. E tu credi di essere nel giusto? Credi che io abbia pietà di te solo perché hai aperto gli occhi? – Le parole di Charles erano solo rabbiosi ringhi tra i denti, un fiume di ira che scorreva contro... Oh, diavolo!, stava parlando con lui. Disse a se stesso di sollevare lo sguardo, ma sapeva di non essere pronto. Non era preparato a guardare quell'uomo negli occhi. Poteva accusarlo anche del crimine più deplorevole del mondo, ma niente lo faceva sentire in colpa come quei disperati occhi azzurri.
C'era così tanto dolore che era impossibile ignorarlo, era come avere un chiodo nel petto, a trapassargli le carni da parte a parte, e non potersene liberare mai più. – Tu non sei un Assassino – sibilò, le nocche bianche contro il bordo del tavolo. – Non capisco perché sto ancora perdendo tempo a parlare con te.
– Lee... – Tom scoppiò a ridere, quel latrato basso e isterico che da sempre lo caratterizzava e gli faceva venire i brividi ogni volta, e in quell'istante Connor sentì bruciare nelle vene la tentazione di prenderlo a pugni. Quello sì che era un incoraggiamento. Hickey lasciò cadere gli occhi sul boccale, la bocca spalancata in un ampio sospiro carico di quella che sembrava pietà. Accipicchia. Non credeva che Tom potesse provarne. – Ti prego. Non è così che risolveremo...
– Sei più idiota di quello che sembri, eh? – Charles puntò i pugni sul tavolo, lo sguardo lacrimoso riversato nel suo. Gli sembrava di poterci leggere dentro, e più lo guardava, più l'ancestrale desiderio di alzare i tacchi e rifugiarsi nella sua camera si faceva forte, rombava nel suo petto come un'onda. – Come fai? – Si sentì di nuovo catapultato al loro primo incontro, quando aveva solo quattro anni e il suo piccolo corpo era premuto contro la corteccia di un albero dalle mani del Templare, serrate sul suo collo a impedirgli di respirare. Avrebbe dato qualunque cosa perché smettesse di guardarlo così. Si sarebbe persino inginocchiato a terra, le mani giunte nell'implorare pietà, gli bastava solo che spostasse gli occhi. Che se li asciugasse, almeno. Se Haytham stesso fosse tornato dal mondo dei morti a dargli del pessimo figlio avrebbe fatto meno male.
Trasalì, quasi saltando sulla sedia quando Charles lo afferrò per il bavero della giubba. – Non mi è mai mancato così tanto qualcuno – sussurrò, il volto così vicino al suo da poterlo baciare. – Mai. Fa sempre male, ogni secondo di più. Io... – Si affondò i denti nel labbro inferiore, come un bambino sul punto di piangere. No, no, per favore, non di nuovo. – Quanto puoi tirare avanti con un dolore del genere? Dimmelo. Quanto puoi continuare?
Scrollò piano il capo, gli occhi colmi di terrore in quelli di Charles. Non lo sapeva. Era così facile andare avanti quando avevi ancora qualcosa per cui combattere, una causa qualsiasi, anche la più fittizia e ignobile. Una guerra. Il guaio arrivava in quel disperato periodo subito dopo la morte di qualcuno in cui tutto ti sembra vano e vorresti soltanto morire anche tu.
Come quando sua madre se n’era andata. Pochi giorni dopo si era avvicinato al fuoco sacro con tutta l'intenzione di buttarcisi dentro e raggiungerla. Avevano dovuto trascinarlo via in due, talmente scalciava. Ma allora era un bambino. Solo uno stupido bambino.
Forse... Forse persino quell'infantile stupidità era meglio del ghiacciato vuoto che c'era ora. – Manca anche a me – replicò Connor in un sussurro, ma non sapeva quanto fosse vero. Avrebbe voluto Haytham al suo fianco? Certo. Aveva voglia di piangere e disperarsi per non avergli voluto abbastanza bene? Nemmeno più. I fatti erano quelli. Non sarebbe cambiato molto versando due lacrime.
Solo che non se la sentiva di dirglielo. Era quella la politica, no? Illudere i tuoi rivali di essere dalla stessa parte.
Oh, no, era il metodo sbagliato. Non doveva illuderlo. Si trattava di convincerli, lavorare di diplomazia. Tutte quelle menzogne non lo avrebbero portato da nessuna parte.
Vide Thomas puntare una mano sulla spalla di Lee, spingendolo di nuovo a sedere. Doveva dirgli la verità, o non avrebbe mai funzionato. – So che non sembra... Charles. – Il Templare si stava stropicciando la bocca con una mano, come torturato da un pessimo sapore sulla lingua. – Gli ho voluto bene. Io... – Il suo istinto era di dirgli che non era giusto. Che crucciarsi in quel modo non era giusto, che Haytham sarebbe rimasto morto nonostante le sue sofferenze, che nulla di tutto ciò avrebbe reso le cose più semplici, ma non ci riusciva. Aveva voglia di aprire le braccia e dirgli di piangere tutte le sue lacrime, fino a sentirsi così vuoto da poter morire.
Non poteva. Non era la cosa giusta da fare, e di errori nella sua vita ce n'erano già stati troppi. – Io...
– E che cazzo, smettila di piagnucolare. – Tom roteò gli occhi, sbattendo forte il bicchiere sul tavolo per attirare l'attenzione di qualche cameriera. Inutile. Sembrava che il resto del mondo non li vedesse nemmeno. Oppure le ragazze avevano paura che allungasse le mani, e non sarebbe stato un timore ingiustificato. – Sto parlando anche con te, Charlie-boy. – Gli mollò un colpo con l'indice sull'orecchio prima di scompigliargli i capelli come a un cane fedele e buttare un braccio intorno al suo collo per stringergli la testa al petto, con un sogghigno in viso che gli aveva visto fin troppo spesso. Non prometteva nulla di buono, dannazione. – Cazzo, perché complicarci la vita andando a trattare con un altro di quegli stronzetti incappucciati?
– Lasciami – ringhiò Lee, le mani premute contro di lui per liberarsi della sua stretta, delle sue labbra premute tra i capelli. – Maledizione, lasciami.
– Eddai, 'sta zitto. – Gli fece schioccare la bocca sulla testa con un sogghigno prima di proseguire nel suo discorso con quel viscido tono complice. – Almeno il bastardo, qui, lo conosco. Eh? Che dici?
– Che devi lasciarmi in pace. – Eppure sembravano così amici, maledizione. Si appartenevano l'un l'altro senza riuscire a capire quanto fossero fortunati.
Lui non aveva più nessuno. Non aveva nemmeno Washington. Soltanto la guerra, i fucili, il sangue. E il popolo. Quel mucchio di uomini che sembrava diventare sempre più apatico e indifferente a tutto il resto, proprio lì, sotto i suoi occhi, era la sola cosa importante. L'unica che contasse qualcosa per lui, per la sua causa. La sua nuova causa. – Ssh – sussurrò Tom, il suo collo ancora stretto nell'incavo del gomito. – Dicevo, potremmo restare per ore a blaterare di come andrebbero fatte le cose e con chi sarebbe meglio parlare e tutte queste cazzate. – Sollevò l'angolo delle labbra in un sorrisetto scaltro prima di scompigliargli di nuovo i capelli con le mani. – Ma sappiamo tutti e tre qual è il vero problema qui, giusto?
Connor sbuffò, le mani mollemente abbandonate lungo i fianchi. Non ebbe bisogno che Hickey lo illuminasse anche su questo. – Washington.
– Oh! Cazzo! – Vide Charles liberarsi della stretta di Tom con una gomitata nelle costole che gli mozzò il fiato, lasciandolo sgonfio sulla sedia come un otre bucato. – Piccolo... stronzo. – Eppure Hickey continuava a sorridere, come fosse tutto soltanto un maledetto gioco. – Washington – confermò puntando l'indice contro di lui, l’altra mano premuta sullo stomaco dolorante. – Centro, bastardo.
A malincuore, lo sguardo di Connor si posò su Charles Lee, intento a ravviarsi i capelli con le mani mentre scoccava occhiate velenose a Tom. – Oh, Dio, e adesso che cosa vuoi? – ribatté Lee acido, manco lo stesse punzecchiando con un ramo.
Diede una stretta di spalle prima di incrociare di nuovo le braccia sullo schienale della sedia. Doveva rilassarsi e dire le cose come stavano, solo così avrebbe funzionato. Respirare. Essere onesti. – Eri un suo diretto sottoposto. Sei...
– Mi hanno cacciato – replicò seccamente. – Mi pare fossi tu quello che gli girava attorno come un tafano, di recente. – Lee abbassò lo sguardo sul boccale mezzo vuoto, e Connor non poté che lanciargli un silenzioso ringraziamento. – È per caso successo qualcosa?
La verità? Non lo sapeva nemmeno lui. Forse era tutto dovuto alla lettera che gli aveva mostrato Haytham, o all'attacco che voleva muovere verso il suo villaggio, ma gli sembrava di non conoscere più quell'uomo come una volta. – Non ne sono sicuro – rispose con una smorfia. – È un presentimento. Non voglio che perda il posto, ma una volta sconfitti i lealisti è necessario che sia il popolo a scegliere.
Charles annuì piano, lo sguardo puntato da qualche parte tra lui e Thomas, oltre. – Sei già convinto che i patrioti vinceranno? – lo stuzzicò. Connor non aveva alcuna intenzione di rispondere, né tantomeno di pensarci. L'ultima cosa di cui aveva bisogno erano altri dubbi. – Temi che il potere possa dargli alla testa.
– Come a chiunque altro. – Nonostante il suo fosse solo un brontolio polemico, Thomas Hickey non aveva poi così torto. – Succede a tutti.
– È per questo che dobbiamo allearci. – Gli ingranaggi del cervello di Connor presero a lavorare più in fretta, come cardini oliati di fresco. – Immaginate di rimettere tutto in piedi. Due eserciti con membri di tutte le estrazioni sociali, in grado di distruggere l'immagine di un uomo nel giro di pochi giorni. E quando un capo non riesce più a mantenere la pace nel popolo se ne sceglie un altro. – Aprì i palmi sul tavolo, guardandoli in un misto di imbarazzo e timidezza che non provava da quando era un ragazzino e la Grande Madre gli faceva un qualche complimento davanti all'intera Kanatahséton. – Sarebbe tutto così facile.
– Hai detto bene – borbottò Tom. – Immaginare. Guardaci. Non siamo mai stati ridotti peggio.
– Io sono d'accordo con lui. – Charles strizzò gli occhi sotto le palpebre, come se gli fosse impossibile credere di averlo detto davvero. – È quello che dobbiamo fare. È...  È quello che avrebbe voluto Haytham. – Lo disse di corsa, tutto in un fiato e con gli occhi chiusi, prima di lanciare un gran sospiro di sollievo.
Non riuscì a evitare di sorridere, perché se suo padre fosse lì avrebbe fatto esattamente lo stesso. – Non ci piove – replicò Hickey, – ma quindi? Cosa facciamo? Ci hai pensato, bastardo? O credi di andare a braccio finché la guerra non finirà?
Connor si strinse nelle spalle. – Non serve una strategia – borbottò con gli occhi fissi sul piano del tavolo, prima di afferrare il bicchiere di Tom e capovolgerlo per calmarsi le dita tremanti. – I patrioti devono vincere. Solo così potremmo avere una possibilità. Se lasciamo che Re Giorgio metta le mani sulle Colonie abbiamo già perso. Qui si tratta solo di sostenere l’esercito. A qualsiasi costo.
Thomas inclinò il capo in una risatina, le dita strette sulle sue per riprendersi il bicchiere. – Fammi capire, vuoi barare? Tipo, rubare rifornimenti all’Esercito Britannico? Infiltrare un gruppo di Assassini nelle loro fila e lasciare che la strage si compia? Tu? – Gli strappò finalmente il bicchiere di mano e si lasciò cadere sulla sedia, facendolo roteare sulla punta dell’indice. – Fammi il favore.
– Non voglio barare, ma investire. Comprare all’esercito fucili migliori, assumere medici più in gamba. Lasciare che vincano con le loro forze.
Il Templare sbuffò. – Ma ci pensi? Hai idea di quanti soldi spenderesti? E quei poveracci dei sudditi di Sua Maestà morirebbero comunque, decimati dai tuoi stupidi fucili migliori.
– E una soluzione diplomatica? – La voce di Lee era tesa e sottile come la corda di un violino. – Mettersi d’accordo con gli ufficiali e…
– Non risolveremo niente sul campo di battaglia. – Tom fece schioccare la lingua sul palato in segno di secca disapprovazione. – La chiave è nelle città. Fa’ rivoltare questi straccioni. Caccia gli inglesi dalle città con il fuoco e i forconi e le maledette macchine per stampare, e vedrai se avranno ancora il coraggio di mettere piede qui.
Connor aggrottò la fronte, umettandosi le labbra con la punta della lingua. Suo malgrado, non sembrava nemmeno un’idea malvagia. – Tu non eri quello che non aveva fiducia nel popolo? – buttò lì a mezza voce. Ci mancava soltanto che qualche inglese ubriaco li sentisse e decidesse di spaccare i loro crani in nome di Re Giorgio.
– Be’, sì. Infatti quella è la parte che dovresti sbrigare tu – replicò, un sorrisetto sottile a sollevargli un angolo della bocca. – Io sarei quello che si occupa di bruciare le riserve di polvere e guidare la plebaglia alla conquista dei forti. – Indicò la gente intorno a sé con un ampio cenno della mano e lasciò cadere il bicchiere con una strizzatina d’occhio. Non aveva mai conosciuto un vero uomo d’affari, ma Connor immaginava che dovessero essere più o meno così.
Scambiò un’occhiata con Charles Lee, cercando di cogliere qualunque presentimento si nascondesse in quei grandi occhi azzurri. – Hai avuto idee peggiori, da che ti conosco – brontolò grattandosi la testa.
– Grazie, Charlie. – Hickey si allungò di nuovo a scompigliargli i capelli e Lee gli rispose con un’altra delle sue famose occhiatacce. In un altro momento un immagine del genere lo avrebbe risollevato, ma ora nella sua testa c’era soltanto una gran confusione. Doveva esserci qualcosa di sbagliato in quel piano. L’aveva architettato Thomas, insomma, non poteva essere l’idea migliore a loro disposizione.
Forse semplicemente non ce n’era nessun’altra. E spesso un uomo deve arrangiarsi con ciò che ha, per andare avanti. – Ma… – Dannazione, le parole gli uscirono di bocca con una brutta nota acuta, da bambino capriccioso. – E tutti quei soldati?
– Preferisci che si scannino in una guerra di chissà quanti anni ancora? – Tom incrociò le mani sulla nuca e poggiò i piedi sul tavolo, come se stessero chiacchierando amichevolmente del più e del meno. – Io no. Che ne pensi?
Pensava che fosse semplicistico, terribilmente semplicistico, e che qualcuno si sarebbe fatto male. Non si può architettare un piano con un uomo del genere e sperare di uscirne tutti sani e felici. – Devo pensarci. Devo…
– Hai avuto un sacco di tempo per pensarci, bastardo. – In un attimo Hickey era di nuovo teso sul tavolo, i piedi ben saldi a terra e l’indice puntato sul tavolo per ribadire le proprie ragioni. – Adesso devi scegliere.
– Tom. – Charles gli poggiò una mano sul petto, spingendolo appena indietro. – Lascia parlare me. E bevi qualcosa.
– Offri tu?
Charles aggrottò la fronte, come se non avesse mai sentito una domanda più stupida. – No. Anzi, lascia perdere, resta qui, solo… – Si mordicchiò le labbra con fare nervoso. – Non t’intromettere. Non troppo.
Thomas Hickey sbuffò, sbattendosi le mani sulle cosce in un gesto drammatico. – Tutto quello che vuoi, dolcezza. – E si sbracò sulla sedia, gli occhi fissi su Charles e pieni d’aspettativa. Pareva un padre affettuoso davanti al figlio. O un fratello maggiore che avrebbe goduto nel vederlo fallire.
Fortunatamente a Lee sembrava non importare. – Se vogliamo fare questa cosa dobbiamo essere dalla stessa parte, va bene? – Connor annuì appena, il cuore che gli batteva nel petto come un tamburo. – Ti garantiamo la più totale sincerità, ragazzo, ma dev’essere una cosa reciproca. Tutte le decisioni saranno prese a tavolino. Insieme. Non si fa niente se non siamo tutti d’accordo, almeno in minima parte. – Si portò il palmo davanti alla faccia e ci sputò sopra. Era un gesto che Connor aveva già visto fare altre centinaia di volte da decine di uomini, ma non riuscì a trattenere una smorfia disgustata. Sembrava tutto così vero quando si doveva giurare materialmente, così pesante e pericoloso, come una spada di... Damocle, no?, sospesa dritta sopra la sua testa. – Ci stai?
– Garantisci che non vi alleerete contro di me?
Lee scrollò il capo, scoccandogli l’occhiata stanca di un vecchio che ha visto troppo. Troppo dolore, troppe paure, troppe perdite. Gli si strinse un nodo alla bocca dello stomaco, qualcosa di orribilmente simile al compatimento. – Garantirei tutto quello che vuoi, basta che la finiamo qui.
– Tutto quello che vuole? – Thomas si fece di nuovo avanti, ridacchiando. – Anche se si trattasse di succhiare il suo cazzetto da mezzosangue?
Connor si sentì avvampare fino alla punta delle orecchie, ma fu grato a Lee per il suo silenzio. Nascose il viso rosso e imbarazzato per seguire l’esempio del Templare e sputarsi sulla mano. Un grumo bianchiccio e viscido lì, immobile sul suo palmo consumato dalle armi. Come poteva un affare del genere assicurare una promessa di simili dimensioni?
Inspirò forte, i polmoni così pieni d’aria da poter scoppiare, e serrò le dita sul dorso della mano di Charles in una stretta fin troppo forte, piena di sicurezza ostentata. La sentiva invadergli lo stomaco come un acido. – Ci sto – sussurrò con molta meno convinzione di quanto avrebbe voluto. Un attimo dopo anche Hickey si stava sputando rumorosamente sulla mano, mezzo girato verso gli altri tavoli.
– Fallo di nuovo – sibilò Lee. – Forse a Philadelphia ancora non ti hanno sentito.
– Fottiti. – Thomas tese il palmo verso di lui con un inquietante sorriso in volto, e Connor non poté sentirsi più vicino di così a Charles Lee. Voleva soltanto che se ne andassero, tornare nella sua stanza, al caldo, e dormire. Tutto il resto sarebbe venuto dopo.
Non ce la faceva più. Non riusciva nemmeno a sembrare soddisfatto, dannazione. – Bene! – esclamò Tom, scattando vigorosamente in piedi. Era davvero questo che voleva suo padre, quel che sarebbe stato meglio per tutti? E se non avesse portato altro che ulteriore caos? Aveva giurato, doveva esserne sicuro, maledizione!
Invece era a malapena in grado di respirare. – Facciamo un brindisi?
– No. – Lee gli premette una mano sulla spalla, le labbra compresse in una piega severa. Non lo avesse odiato così a lungo, Connor si sarebbe gettato ai suoi piedi e lo avrebbe ringraziato di cuore, con le mani gettate intorno alle sue ginocchia e tutti i convenevoli del caso. Voleva restare solo. Isolato da tutti i problemi, da tutto ciò che voleva dimenticare. – Dobbiamo andare a Valley Forge. Tenere d’occhio Washington. Farai lo stesso, giusto?
Connor annuì. Certo che l’avrebbe fatto. Solo, quando il suo cuore fosse stato un po’ più calmo, Lee e Hickey ben lontani dalla sua vista. – Grazie. Andiamo.
– Guastafeste di merda.
Con suo gran sollievo, le sedie strisciarono sul legno.
L’incontro, quello per cui suo padre era andato incontro alla morte, era finito. Li vide pagare e uscire dalla taverna, entrambi calmi e cordiali come se non fosse successo nulla.
Hai fatto la cosa giusta, Assassino. – Una voce femminile dentro la testa, delicata e melliflua al punto da mettere i brividi. – Ora non ti resta che nasconderla, seguace dell'Aquila. Fare la tua parte.
Solo quando le falde della giacca di Thomas Hickey scomparvero oltre la porta, finalmente solo e avvolto dal silenzio, si sentì libero di prendere fiato, chinare il volto nelle mani e scoppiare in un'acuta risatina isterica, le spalle che sussultavano come in un pianto e flebili ragli che gli venivano fuori dalla bocca mentre il suo petto continuava a sobbalzare senza riuscire a fermarsi.


Chapman,
perdonami se questa lettera ti suonerà ambigua o confusa, folle, addirittura, ma ancora non riesco a credere a quello che ho visto e a quello che so, per cui ti chiedo di avere pazienza. Siamo ufficialmente alleati dei Templari. Dobbiamo accettarlo. Era l'unica via a nostra disposizione, per cui ritengo sia lecito sfruttarla. Il nostro scopo è cambiato. Non siamo più al mondo per ucciderli, ma per raggiungere la pace insieme a loro, a qualsiasi costo. So di non avervi minimamente coinvolti in questa decisione, ma mi sembrava il solo modo per dare una vera svolta alle cose. Perciò vi chiedo di starli a sentire, di tanto in tanto. Di stare a sentire anche me, per quanto sia fastioso. Io voglio che il popolo possa scegliere, Chapman. Scegliere di seguire Washington, scegliere il proprio destino e scegliere che mondo lasciare ai propri discendenti. Scrivo queste parole di getto, perché temo che il rimpianto mi porti a cancellare tutto e riscrivere, senza dubbi e senza follie, ma ho una domanda, ed è una di quelle che mi sono sempre posto e non posso fare a meno di porre anche a te. E se volessero i Templari? Pensaci. Forse il popolo vuole essere controllato, e tutte le nostre lotte sono inutili. Vogliamo convincerli del potere della libertà. Non possiamo immaginare che la disprezzino. Forse i fanatici, quelli sbagliati, siamo noi. So che il libero arbitrio è quello che meritano, ciò che renderebbe questo mondo migliore, più equo, ma è senza dubbio più complicato, non credi? Perché convincerli del fascino di qualcosa che non vogliono? Solo perché è la cosa giusta da fare? 
Questo è ciò che non mi ha mai convinto della nostra Confraternita. Voglio soltanto un parere. Sapere se le mie sono speranze che credevo essere vere e ideali che stanno collassando su loro stessi o soltanto gli stupidi sproloqui di un folle. Non so quale delle due sia la migliore, a essere onesto. Lo lascio decidere a te.
In origine questa missiva non doveva contenere così tante parole, ma credo sia come con un buon vino, un bicchiere tira l’altro e prima che te ne renda conto sei già ubriaco. Ero qui per dirti che la pace non è il nostro solo scopo. Abbiamo la Chiave. Sono tornato qui solo per nasconderla. Forse mi giudicherai male, ma ritornare in questo posto e vederlo così vuoto, privo di vita, ormai nient'altro che una tenuta diroccata in mezzo al niente, un rifugio per qualche pioniere colto da una tempesta di neve o da un’alluvione, provoca uno strano dolore sordo, proprio qui, nel petto. È il simbolo del mio fallimento, e non ti chiedo di avere pietà di me, perché non la merito, ma solo di comprendermi. Da amico e fratello, Chapman. Avrei dovuto fare di più per gli Assassini, ma mi sono reso conto che oltre qui non so andare. Riesco soltanto a nascondere reliquie come un cane e scappare, fuggire verso un altro luogo e meno responsabilità. O forse solo diverse responsabilità, non lo so. Riesco soltanto a scriverti quanto mi dispiaccia. Per tutto, ecco.
La Chiave, dicevo. Non deve cadere nelle mani dei Templari, d'accordo? Mai. Non ha niente a che vedere con quest'alleanza. È una cosa della mia famiglia, e vi chiedo di rispettarla in nome della Confraternita. I Precursori possono essere molto pericolosi, quindi ti prego di darmi ascolto. Se dovessi avere dei figli e dovessi morire senza riuscire a dirglielo, fatelo voi per me. Dite loro che la Chiave è morta con Achille Davenport, che è fondamentale che la famiglia lo sappia. In tutti i secoli a venire. Finché sarà necessario.  
Non voglio più far parte di questo, amico mio. Considerala la mia ultima lettera come membro della Confraternita. Lascerò questa casa troppo vuota e mi stabilirò in città, a tenere un occhio su Washington e occuparmi della guerra. Di porvi fine il più in fretta possibile e con il minimo numero di vittime. Non possiamo combattere tutte le battaglie che la vita ci pone davanti. Dobbiamo scegliere. E inizio a dubitare che la risposta ai problemi del nostro mondo sia nel Credo. Nessuno degli uomini che vogliamo salvare segue quel Credo, molto probabilmente non lo fa nemmeno uno di noi, e mentirei se ti scrivessi di aver capito cosa significhi. Nulla è reale? Cosa vuol dire? Che il mondo come lo vediamo non è importante? Che gli uomini e le donne che muoiono in mezzo alle strade e sui campi di battaglia non sono veri, non pesano sulle nostre coscienze? Oppure di non fidarsi delle figure che si pongono ai vertici della società, in quanto semplici uomini con uno stupido titolo? E la seconda parte, quel 'Tutto è lecito'? Forse parla di ciò che dobbiamo fare in nome della libertà, degli ideali in generale. Oppure è una spinta al fanatismo, tutto è lecito se può difendere la Confraternita. Ci sono così tante interpretazioni a esso, e mi sento come se la testa fosse sul punto di saltarmi in aria. Voglio fermarmi. Forse voi saprete fare un lavoro migliore con gli Assassini, ma ho vissuto troppo a lungo insieme  a un Templare per avere ancora fiducia in questi convenevoli. Ordine, Confraternita, non mi importa più nulla. Sarò con il popolo. Sempre a disposizione se vi servirà aiuto, naturalmente, e immagino che continuerò a indossare una giubba che non merito, portatrice di ideali di cui non mi fido, di cui forse non mi sono mai fidato, ma gli Assassini sono stati la mia casa per tutta la vita. Tengo molto a tutto questo, eppure temo che riuscirei soltanto a distruggere quel poco che è rimasto.
Sento di non avere più nulla da fare tra queste mura, a parte piangere. Spero che tu, o uno qualunque degli altri ragazzi, possa trovare questa missiva, leggerla, capire quello che provo, perché non è una scelta che faccio a cuor leggero, anzi, e so che non possiamo fuggire dal nostro passato, ma io non voglio scappare. Non è questo quello che sto facendo, o così provo a dire a me stesso. Sto cercando un'altra strada per sfruttare quello che ho imparato, e prego che mi porti da qualche parte, qualsiasi parte, e zittisca queste voci che urlano nella mia testa. E porti la Chiave a Desmond, ovunque si trovi. Il messaggio, Chapman. Ricorda il messaggio. 
Lo vedi? Mi distruggeranno. Per questo ho bisogno di te, di voi. Che mi promettiate di mandare avanti questa tradizione, in un certo senso.
Perdonami. 
Connor 


 
Note dell'autrice:
Giuro che ci metto poco, eh.
Scusatemi per aver pubblicato di nuovo di giovedì, LOL, e per non aver ancor risposto alle recensioni. Lo faccio, giurin-giurello.
Niente di tutto questo è colpa mia, LOL. *addita la scuola con fare accusatorio*
Vabbè, se non sparo la boiata del giorno non sto bene, eh?
Sempre graaazie, folks. Vi adoro, sappiatelo.
Alla prossima! :3

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Capitolo 69
*** Scheletri. ***


Era il loro momento. Il momento che aspettavano da tutta la vita.
Non credeva che espressioni come quella si potessero sentire anche fuori da Dirty Dancing, eppure non c’era niente di più adatto. Dio, Dirty Dancing. Una volta Spence lo aveva costretto a guardarlo, e avevano fumato così tante canne da riuscire solo a ridere e a pensare al culo di Baby. Spence e le sue stupide canne. Desmond si ricordava fin troppo bene il giorno in cui il suo coinquilino era entrato al bar completamente fatto e aveva stampato un bacio sulle labbra del suo capo. Con tanto di slinguazzamento. «Perché perdi tanto tempo dietro al culo di Des quando puoi avere il mio?» aveva urlato nel bel mezzo del locale. Qualcuno lassù gli voleva davvero bene se quella volta non era stato licenziato in tronco, restando definitivamente con le chiappe per terra.
Perché diavolo stava pensando a Spence in un momento come quello? E a Dirty Dancing. Dirty Dancing, per l’amor di Dio. Sbuffò l'aria stantia del tempo fuori dalle guance e sollevò l'amuleto, evanescente di luce verdastra tra le sue dita. – Ci siamo. L'ora della verità. – Davvero non riusciva a cavarsi di bocca niente di meno stupido? Razza di idiota. Gli Assassini avevano lavorato anni per giungere al Tempio e lui banalizzava il momento con due frasette. 
Shaun si mise una mano sul cuore. – Che la forza sia con te, allora.
– Shaun! – Rebecca. Istintivamente gli si aprì un sorriso sul volto. Aveva sempre cercato di difenderlo dalle battutine di Shaun, soprattutto da quando Lucy era… Cristo non riusciva nemmeno a pensarci. Prese un respiro profondo, tentando di spostare l’attenzione su qualcos’altro. C'era da dire che, per quanto Rebecca non fosse esattamente il suo tipo, aveva anche un didietro niente male. Specie dopo tutto quel tempo lontano dalla civiltà. Isolati come topi sotto miglia di roccia. Soli al mondo.
Argh, perché cazzo nessuno gli mollava una bella botta in testa? Non poteva andare avanti così. Più serie si facevano le cose e più i suoi pensieri diventavano degni di un bambino di cinque anni. Manco lo facesse di proposito. Desmond era sicuro che se fossero riusciti a leggergli nella mente anche solo per cinque secondi lo avrebbero preso a schiaffi. Davvero era lui quello che la Confraternita aveva aspettato per secoli? Un barista del Sud Dakota impiantato a New York?
Basse aspettative, le loro. Il cuore gli batteva nel petto come un martello pneumatico, più dei colpi di grancassa nella sala discoteca sotto il bar. Il Bad Weather. Certe volte gli mancava da morire. Le ragazze fasciate nelle gonne corte. Coetanei zuppi d’alcool fin nel midollo. Quarantenni in cerca di avventure. Era assurdo che un locale come quello potesse raccogliere un campione simile di persone. Ed erano felici. Un aspetto che lo aveva sempre sconvolto: potevano aver avuto la peggior giornata della loro vita, ma buttavano giù shot e bicchieri di Shirley Templar con le bocche aperte in ampi sorrisi e nessuna preoccupazione al mondo.
Shirley Templar. Ridicolo. Lanciò un’occhiata a Shaun, Rebecca e suo padre, sentendo il loro fiato caldo e ansioso sul collo, e avvicinò la Chiave al piccolo oblò luminescente sulla lastra di vetro. C’era qualcosa di strano in quel posto. Come se avventurarsi oltre quella porta fosse sbagliato. Il sudore che colava in grosse gocce fredde sulla sua nuca, i brividi lungo la schiena. E la Mela nel suo zaino, che pareva pesare una tonnellata.
Quella che aveva creduto essere eccitazione si stava solidificando nelle sue vene. Lo ghiacciava fino alle punte dei piedi. Paura. Terrore, forse. Guardò la Chiave affondare nel vetro come fosse stato acqua e sparire da qualche parte là dietro. Come nel quinto film di Harry Potter, quando il padrino di Harry…
Spence. Perché si era fatto convincere a guardarlo? Scosse piano la testa. Il passato era rimasto fuori di lì. Lontano. Duecentodiciassette miglia. Che cos’era fuori da quella grotta? Era ancora qualcuno senza gli Assassini? Senza il Tempio?
Forse al Bad Wheather non mancava a nessuno. Potevano non essersi nemmeno accorti della sua assenza. No, no. Dirty Dancing. A questo punto, era meglio persino Dirty Dancing. Inclinò il capo da una pare e il muro si dissolse a partire da quel cerchio luminescente, come quando si getta un sasso in acqua.
Il vetro. Non c’era più… il vetro. Il vetro non scompare, giusto?
E una sfera di metallo non può costringere uomini dotati di facoltà fisiche e mentali a uccidersi. In teoria.
Sentì la mano di Bill serrargli la spalla in una morsa e il suo fiato dritto nell'orecchio. – Sono qui, Des – sussurrò, le dita affondate nella sua carne.
Annuì tra sé, scrollando appena le spalle. Wow. Confortante, suo padre. Si ravviò i capelli con una mano. Per una volta era bello sentire il calore di qualcun altro addosso. Solo le vibrazioni della pelle contro la felpa, senza rabbia, senza rancore. Forse si era arreso, rinunciando per sempre all’idea di un figlio che non fosse una completa delusione.
Desmond si costrinse a sorridere oltre la spalla. Ormai ci aveva fatto l’abitudine. Non sarebbe mai stato come Bill Miles voleva, ma in cuor suo pensava che ci fosse qualcosa in quella grotta. In quell’impresa. Qualcosa che potesse cambiare tutto.
 La mano di suo padre restò lì a scaldargli le scapole in una pacca… affettuosa? Non aveva mai imparato a riconoscerle. Da che ricordava, le sole volte in cui suo padre lo aveva toccato servivano a spingerlo in avanti durante gli allenamenti di scherma e fargli perdere l'equilibrio. La pazienza. Ringhiargli contro che i suoi avversari sarebbero stati sleali, che doveva aspettarselo. Quali avversari, papà? Però non glielo diceva. Non credeva sarebbe mai uscito dalla Fattoria.
Sollevò l’angolo delle labbra in un sorrisetto. Invece. Ce l’aveva fatta, giusto? La Grande Mela. La terra delle opportunità. Ci era arrivato e si era rifatto una vita con quell’idiota di Spence, probabilmente il miglior coinquilino che avrebbe potuto mai trovare. Erano stati nove anni di pace. Di normalità, ecco. Non c’era niente di più bello della normalità, quella vera, fatta di bollette, film da guardare sul divano e bestemmie alla metropolitana.
I nove anni più belli della sua vita.
Poi l'Abstergo lo aveva trovato. Come precipitare nel vuoto. All’inferno. Lucy era stata la sua unica salvezza. Ed era stato capace di distruggere tutto. Cacchio… Meglio che smettesse di pensarci. Qualunque altra cosa, ma non quello.
Strano. Gli mancava un sacco la vita fuori di lì, eppure non riusciva più a vedersi come una persona normale. Un Assassino. Un neo sulla sua pelle, rannicchiato in un posto così stupido da non essersi reso conto della sua presenza per venticinque anni. Un’inutile macchietta che poteva essere innocua o diventare un cancro.
Cazzo. Basta. Sollevò lo sguardo. La vita era anche quello, no? Cercare qualcosa che ti distraesse dallo schifo in cui eri affogato. Qualsiasi cosa. Musica. Cocktail. Arte. Bastava ti ricordasse che non eri soltanto un inutile pezzo di carne. Si umettò le labbra, godendosi il silenzio che regnava nel Tempio, nella parte che fino ad allora era rimasta inaccessibile a tutti loro, chiusi in un muto stupore davanti alla grandezza e maestosità di quella passatoia. Che poi a Desmond non pareva niente di speciale, a essere onesto.
Allora perché il cuore gli batteva così forte nel petto, l’aria difficile da mandare giù? Mentre divorava con gli occhi quell’ambiente da film di fantascienza gli parve di sentire un’altra volta la voce di suo padre, un sussurro gelido contro il collo.
Sono qui.
Sbuffò. Ed era lì, Bill. Lo era sul serio. Allora perché non glielo diceva in faccia, eh? Perché non lo abbracciava, invece di dargli quelle patetiche e forzate pacche sulla schiena? Più cercava di parlargli e più lui si allontanava. Gli diceva di essere lì. Come se significasse qualcosa. William Miles non aveva mai avuto un dialogo con lui. Roba da strizzacervelli, non da bifolchi hippie del Sud Dakota. Lo aveva spronato colpendolo più forte con la sciabola per infliggergli la batosta finale quando contrattaccava con tutta la sua rabbia. "Di pancia!", ringhiava disgustato. Il peggior errore del mondo. Solo perché si rifiutava di obbedire, solo perché odiava quel maledetto posto. "Devi usare la testa quando tiri di spada, Desmond. La testa!"
La testa. Non la sentiva nemmeno sulle spalle, in quel momento. – Diavolo – grugnì Bill. Il suo vecchio si portò in testa al gruppo e mosse i primi passi oltre il vecchio portale. Forse avrebbe voluto fermarlo e riservarsi quell'onore, ma non gli fregava nulla di quelle piccolezze. Ce l'aveva fatta. Ce l'aveva quasi fatta. Avrebbero fermato la tempesta solare e sarebbero tornati a casa. Avevano la Mela. Vidic era morto. Che altro poteva succedere? Desmond sarebbe tornato a servire Shirley Templar, ricevere avance dal suo capo e lasciarsi stordire alle feste dopo l'orario di lavoro. Non si era mai reso conto di quanto belle fossero tutte quelle cose. Era un fortunato figlio di puttana. Un fortunato figlio di puttana.
– Ma tu guarda che posto... – Rebecca. La voce squillante suonava più acuta del solito. Se ne stava lì, al suo fianco, lo sguardo da bambinetta curiosa che correva in tutte le direzioni. – È fantastico.
– Oh, certo. – Shaun fece schioccare la lingua, le braccia strette attorno al corpo in una specie di abbraccio. – Dovresti farti vedere da un medico, Rebecca. O da un buon insegnante d'inglese. La parola giusta è inquietante.
Ostentò un altro sorriso davanti all'occhiataccia che Rebecca riservò a Shaun, dunque prese tutto il proprio coraggio e mosse un passo avanti. Era stato per giorni nell'Animus rischiando la vita solo per arrivare lì, non poteva chiudere gli occhi. Sarebbe stato come ordinare a un bambino di tapparsi il naso davanti a dei biscotti al cioccolato appena sfornati. – Bene! Bene! Meraviglioso! – grugnì Shaun, esausto. – Adoro i posti bui e senza fine su cui affacciarsi allegramente nel giorno della fine del mondo.
Bill si voltò di scatto e li fulminò tutti e tre con un'occhiata di rimprovero, Desmond compreso. Strinse i pugni. Non gli importava del fatto che lo avesse difeso da Vidic, che avesse ucciso il Gran Maestro Templare e usato la Mela su decine di impiegati armati. Non gli importava che l'avesse salvato perché era suo padre. Voleva solo che quel compito venisse portato a termine, e in fretta. Era sempre stato così Assassino, lui. Con quel senso della responsabilità e del dovere. Cose che lui riusciva a malapena a immaginare. La sua unica responsabilità era assicurarsi di non versare il liquore sbagliato nello shaker o… non farsi superare alla cassa del supermercato, ecco. – La Mela – chiese Bill, una mano allungata nella sua direzione.
Desmond tirò quell’affare fuori dallo zaino. Una palla calda nel palmo della sua mano. Così potente. Faceva impressione. Aggrottò la fronte, sollevando lo sguardo su suo padre; gli sarebbe davvero piaciuto non fare lo sbruffone, ma la tentazione era troppo forte. Come dire di no? – Te la saresti dovuta procurare – sibilò mentre faceva la sfera di metallo sulla punta del dito come fosse una palla da basket. – Non puoi imporre il diritto di proprietà su tutto ciò che...
– La Mela – ripeté. Era ancora un tipo autoritario, il vecchio. E gliel’avrebbe data, lo sapeva, ma questo non toglieva il fatto che potesse giocare un po’ con lui. Dimenticava un po’ troppo spesso che il mondo era una bomba ad orologeria sotto i suoi piedi. Tic tic tic. Come nei film di spionaggio. C’era sempre una bomba nei film di spionaggio. O in Fight Club. Già.
Strinse il Frutto dell'Eden in mano e fece spallucce, come un bambino indisponente. Poteva scappare di nuovo, come quando aveva sedici anni. No. Non era più un poppante viziato. Quel tempo era finito. Qui si giocava il futuro nell'intero pianeta, e se c'era qualcosa che, per una volta, Desmond Miles non voleva essere era un egoista. – Pensi che serva a qualcosa? – disse dopo aver ricacciato la bile in fondo all'esofago. – L'abbiamo già usata per aprire la porta.
Rebecca scoppiò in un gridolino di giubilo, forse un banale tentativo di spezzare la tensione. – Questi Precursori non finiranno mai di stupirmi – esclamò con un gran sorriso. – Tutto il posto è stato costruito con una tecnologia avanzata persino per noi! Persino per l'Abstergo! È...
– Sì, Rebecca, quando hai finito con l'ufficio informazioni mi piacerebbe capire che stiamo cercando qui. – Shaun arricciò le labbra, apparentemente a disagio. A Desmond venne quasi da ridere: era lui, di solito, quello fuori posto quando lo storico apriva bocca. – Insomma, non abbiamo attraversato mezzo mondo su un furgone scassato per arrivare in quest'attraente androne vuoto... o sì?
– Sembra quasi che tu abbia paura, Shaun. – Desmond sorrise e la Mela s'illuminò, stretta tra le sue dita. Un fascio di luce dorata spazzò il pavimento di pietra. Non c'erano tracce di polvere, neanche un granello, e ripensò al casino che regnava sovrano nel suo appartamento di New York. E lui aveva il coraggio di dare del fifone a Shaun? Lui, che se n'era rimasto in cima alle scale per un buon quarto d'ora prima di prendere il coraggio di avanzare? Che era scappato dalla Fattoria? Che aveva gettato nei recessi della sua mente la vera causa della morte di Lucy? Quello sì che era fegato.
Strinse le rabbia in una smorfia confusa, terribilmente confusa. S'incamminò lungo la piattaforma avanti e indietro, i suoi passi tesi in quel silenzio spettrale, e afferrò il cellulare. Non segnava neanche una tacca. Solo chiamate di emergenza. – Affanc... – Si fermò a metà dell’imprecazione, il piede destro improvvisamente bloccato da... qualcosa, ecco. Fece per avanzare di un passo e il piede non si mosse, come fosse incastrato in un cespuglio di rovi. Cadde malamente in avanti e il suo mento impattò a terra con una forza tale che, per un attimo, pensò gli fosse saltato via qualche dente. – Merda! – biascicò con una mano alle labbra. Sputò, un fiotto di saliva rossa a sporcargli le nocche.
– Cazzo!
Non si era nemmeno accorto che, nel frattempo, la Mela gli era sfuggita di mano, rotolando inesorabilmente verso il bordo della piattaforma rocciosa. Continuava a lanciare lampi dorati, illuminando i loro visi sconvolti a intervalli regolari, come la palla stroboscopica di una discoteca. Vide suo padre lanciarsi all’inseguimento di quella dannata sfera come un bambino che corre dietro a uno scoiattolo. Gettarsi a terra per afferrarla, le dita tese fino allo spasmo proprio mentre precipitava nel buio e infinito nulla, solo una scia luminosa, come una stella cadente. Bill Miles restò con la bocca mezza aperta, il labbro inferiore che tremava furiosamente e una mano allungata verso quella scintilla, prima di esplodere in un singhiozzo e un’imprecazione disperata. – Maledizione!
Non avessero appena perso un Frutto dell’Eden, il più importante manufatto della Prima Civilizzazione mai ritrovato ai giorni nostri, Desmond sarebbe scoppiato a ridere. – Merda! – ringhiò William, alzandosi a fatica e strofinandosi le mani in faccia come un bambino viziato. – Merda!
– È… andata? – Shaun si avvicinò al limitare della roccia, titubante, e lanciò un’occhiata giù. – È veramente… Cazzo!
Fece un balzo indietro come un canguro e sbiancò. Persino Desmond sussultò, agitando furiosamente i piedi per cercare di liberarsi e alzarsi. Fece per seguire l’esempio di Shaun e allungarsi a sbirciare giù, ma un’enorme ondata di luce lo investì, facendolo voltare. Tra le palpebre mezze chiuse intravide ciò in cui si erano incastrate le sue sneakers. Poteva sembrare solo una massa di rami vecchi, chiari e piatti. Un grido gli si bloccò in gola. Aveva visto abbastanza film dell’orrore di bassa categoria nei pomeriggi di noia insieme a Spence per capire di avere il piede incastrato in una cassa toracica. E, a giudicare dal tenebroso teschio che lo squadrava con un ghigno da brividi, non gli ci volle molto a riconoscere che si trattava di uno scheletro umano.
Eh?
Umano?
Non pisciarsi sotto, quello richiese uno sforzo mille volte maggiore. Non si era mai sentito tanto stupido in vita sua, tranne forse quando suo padre lo metteva al tappeto durante gli allenamenti di scherma. Non era solo fortunato a essere vivo, era fortunato ad avere le viscere al loro posto e la merda a non appesantirgli il fondo dei jeans. Scrollò il piede con il fiato grosso e riuscì a liberarsi di quel mucchio d’ossa. Strisciare lentamente indietro, il respiro affannoso e le mani sopra la testa. Come un serpente. Forse la tempesta solare era arrivata in anticipo e quelli erano gli ultimi minuti di conoscenza che gli restavano prima della morte. Fantastico. Gran bella figura da idiota, come al solito. Inciampare in uno scheletro.
Un singhiozzo gli scappò di bocca. Solo pensare quella parola gli aveva fatto venire i brividi. – Pensavo che voi Assassini aveste più a cuore questo stupido pezzo di metallo.
La luce si spense all’improvviso, e Desmond sentì la minuscola lampada attaccata al passante dei pantaloni scaldargli la coscia. La strinse a mo’ di spada e si puntellò sui gomiti per fissare chiunque avesse appena parlato. La sua voce suonava così familiare, ma dove diavolo l’aveva sentita?
La Mela dell’Eden, niente più che una sfera bronzea solcata da linee luminose, rotolò nella sua direzione. La strinse in mano come se non avesse fatto altro per tutta la vita. Si sentiva così quasi sempre, da quando aveva vissuto le memorie di Altaïr. Gli si formò un groppo in gola. All’Abstergo aveva conosciuto Lucy. In quelle stanze Clay era uscito di testa. E adesso… Era solo questione di tempo prima che crollasse anche lui. La Mela era caduta, l’aveva vista con i suoi occhi. E allora che ci faceva lì, stretta nella sua mano?
– Oddio. – Vide Shaun sbirciare tra le dita, messe davanti al viso per coprirsi gli occhi. – Sei… È…
Se persino la parlantina dello storico era messa alla prova, Desmond non aveva la minima idea di cos’aspettarsi. – Oh, buon Dio. – Scattò in avanti, questa volta, perché la voce proveniva dalle sue spalle. Rotolò istintivamente sulla schiena, strusciando indietro con i gomiti, i denti stretti e i talloni che spingevano sul pavimento per farlo allontanare dallo scheletro e dall’uomo.
L’uomo?
C’era qualcuno accanto alla composizione di ossa umane. Più che un uomo, però, sembrava un ologramma, come i membri della Prima Civilizzazione. Strisce luminose che svanivano e tentennavano seguendo i movimenti del loro proprietario. Come succedeva con quei televisori vecchi, quelli col tubo catodico. Questo qui sembrava appena uscito da una puntata di Zorro. Che diavolo aveva addosso? Un vecchio cappello, calzoni, stivali e un cappotto lungo quasi fino al ginocchio. Brillava di una strana luce dorata che impediva di percepire i colori, ma la sua posizione parlava chiaro. Con le mani dietro la schiena e il labbro inferiore sporto, il fantasma – o quello che diavolo era, Desmond non era poi tanto sicuro di volerlo sapere – sembrava colmo di disapprovazione. Sarcastica disapprovazione. Un’espressione caratteristica solo di due persone che avesse conosciuto nella sua vita, una delle quali stava dietro di lui, le mani sulla faccia e le maniche della camicia arrotolate fino ai gomiti, incapace di spiccicare il benché minimo commento cinico e arrogante. Quindi gli restava solo…
– Haytham. – Quant’era strano pronunciare il suo nome. Si tirò in piedi a fatica e lo scrutò. Voleva mantenere una certa distanza tra sé e quell’uomo. Lo aveva visto morire, aveva vissuto la sua vita, ma non pensava… Non avrebbe mai immaginato di trovarselo davanti.
– No, sono il suo gemello idiota. Quello che si è fatto fregare come un giocatore di carte pieno di rum fino alle orecchie, hai presente? – La voce del Templare era così chiara, viva e iraconda da farlo tremare. Haytham chinò lo sguardo sul proprio scheletro e tirò un calcetto al teschio, illuminando le orbite vuote di luce dorata.
Desmond inclinò il capo da una parte. Non era certo di aver capito bene. Ebbe l’istinto di alzare la mano, come a scuola, e chiedere se poteva svuotarsi la vescica un minuto, perché era completamente andato. Era impazzito, sicuro. Oppure fatto. C’era qualcosa nel caffè che Rebecca gli aveva offerto quel mattino. Non poteva essere. – Quindi... – Il Templare lo squadrò con la testa inclinata e un mezzo sorriso ironico. – Sei tu l'altro. E mi conosci. Sarà... più facile, suppongo. – Emise uno sbuffo, guardandoli come se non fosse pienamente soddisfatto di ciò che aveva davanti a sé. – Non dovrei rivolgermi a voi, soprattutto visto il poco rispetto mostrato per la mia carcassa. – Indicò le costole ammucchiate a terra con un cenno scocciato della mano, la bocca storta in una smorfia a metà tra il disgusto e la pietà. Era… lui? Quello scheletro era lì da quasi... quanto? Due secoli e mezzo? Due secoli e mezzo? Non era possibile, non era… Desmond si passò il dorso della mano sulle labbra, certo di star per vomitare anche l’anima. 
– La più antica zucca di Halloween del mondo – brontolò Shaun con un sorrisetto. Dove cazzo trovava la forza di far battute? Maledetto bastardo, quanto lo invidiava.
– Prego? – Desmond trasalì, trovando il suo modo di dire quell'unica parola incredibilmente simile a quello di Ezio Auditore. Sempre parenti erano, giusto? Eppure, per quanto suonasse buffo non riusciva a trovarci nulla di davvero divertente. Stava parlando con un morto. Un morto! Chissà se Spence aveva mai vissuto qualcosa del genere nei suoi trip.
Doveva pensare alle persone vere, quelle vive, che conosceva, perché aveva attraversato mari e monti e vissuto esperienze che oltrepassavano beatamente il confine della normalità, ma parlare con Haytham era… troppo. Troppo e basta.
Shaun sollevò le mani in cenno di scusa. – Niente. Roba recente. Da Assassini.
Haytham ridacchiò cogliendo il sarcasmo nelle parole dello storico. A quanto pareva l'unica persona in grado di ridere in un momento come quello era un fantasma. – Dicevo, non ho aspettato tutto questo tempo solo per fare l'orgoglioso. Anche se dovreste chiedere scusa alle mie povere e magnificentissime ossa, ma sarò clemente. – Si girò a guardare Desmond e fece spallucce. – Sai, mi hanno detto due parole su di te, quando... – Si diede un colpetto alla tempia. Davanti all'espressione basita di Desmond, Haytham scoppiò in una risata rauca. – Oh, Gesù, non dirmi che sono io l'unico imbecille che ha dovuto parlare con quelle due! Cristo santo, sei stato così fortunato? ? Si schiaffeggiò la coscia e gli rivolse un sorrisetto incredulo. 'Fortunato figlio di puttana.' Lo era sempre stato.
Le dita di Desmond allentarono la presa sulla Mela. Giunone e Minerva? Era di loro che parlava Haytham? Le aveva conosciute? Ma quando? L'Animus non mostrava niente del genere. Se lo sarebbe ricordato, no?
Era spaesato come un pesce fuori dall'acqua, che agita la coda e le branchie cercando di respirare e non ce la fa, nonostante tutti i suoi patetici sforzi. Riprenditi, pensò con i denti serrati. Riusciva a malapena a respirare. Riprenditi e di’ qualcosa. – No, hanno parlato anche con me, ma non... – gli fece il verso picchettandosi la tempia con il dito e il vecchio Templare sbuffò indispettito.
– Ah, fantastico! Sai, è una cosa strana, ragazzo, perché hanno torturato la mia vita con le loro stupide voci e indovina? Cos'ho ottenuto come ricompensa? – Tirò un calcio al nulla, sollevando una nube di pulviscolo dorato. – Niente. Niente, niente Paradiso, Inferno o buio assoluto per l'eternità, nemmeno una Cristo di fossa! Solo questo posto, ad aspettare te. Lussuosa come tomba, per carità, niente da dire. È quasi più grande di casa mia. Dio!
Shaun, Desmond, William e Rebecca si scambiarono un'occhiata preoccupata. – Tutto bene? – chiese suo padre. Lo stesso tono scettico che usava con lui, come se sapesse solo raccontare balle.
– Magnificamente. – A Desmond non sembrava poi tanto convinto. Forse anche nel caffè di Haytham era stato aggiunto qualcosa, o magari duecento e fischia anni chiuso lì dentro gli avevano dato di volta al cervello.
Grugnì, passandosi la manica della felpa contro la tempia. Doveva piantarla di dar conto alla propria testa e a tutto ciò che ci passava attraverso. Però, diavolo, nell'Animus aveva visto Haytham riempire di pugni un suo vecchio amico fin quasi a farlo fuori. Ben... Church. E poi era un Templare. Non esattamente l'uomo con cui si sarebbe sentito più sicuro al mondo. Si voltò a guardarlo, gli occhi truci sotto le falde del cappello. – Immagino che nessuno di voi santarellini abbia qualcosa da fumare, giusto? – Desmond si strinse nelle spalle. A quanto pareva non era l'unico a sentire l'impellente bisogno di una delle canne di Spence. O una birra. Qualunque cose potesse sciogliergli la lingua. – Ah. Grandioso – biascicò sarcastico prima di spolverarsi il cappotto con un gesto distratto. – Vuoi sapere una cosa, tu? – chiese sogghignando. Sembrava quasi che gli dicesse "Be', sei qui, quindi ti tocca, no? Oppure assaggerai la mia ira!". Una roba del genere. – Anni fa – disse il Templare, lo sguardo puntato oltre Desmond, oltre le pareti di roccia del Tempio. Anni? La sua cognizione nel tempo doveva aver iniziato a dare i numeri. Un limbo oscuro. Una vita di giorni l'uno uguale all'altro. Il suo sogno. – ...due membri della Prima Civilizzazione mi dissero che il sangue forniva legami potenti. Che lo usavano per comunicare con i discendenti, ragazzo, quelli come me e te. – Si strofinò le dita sul polso destro, tastando le vene sporgenti con una certa nostalgia. – Mi confessarono che anche la Mela poteva essere usata allo stesso modo, essendo un loro strumento. Comunicazione. C’era una sola persona con cui avrei voluto parlare – un’altra sola persona con il nostro stesso sangue –, e ci riuscii anche senza quella maledetta Sfera. – Prese fiato, e Desmond vide gli occhi del fantasma luminoso spostarsi, puntando dritti verso Bill Miles. – Mio padre. Lo so che non t'importa niente. Non importa nemmeno più a me. Però era bello avere qualcosa per usarla che non fosse ammazzare, o accumulare potere. Però dimenticai facilmente quell’idea. Mi dedicai alla mia vendetta. Vendetta contro Reginald, contro Church, contro i traditori e i bastardi che avevano rovinato la mia vita. Lasciai vivere gli unici uomini a cui tenevo, quelli che credevo avrebbero agito nel modo migliore. E mi sono sbagliato, ma non è questo ciò che conta. Volevo dire che c’è un motivo per cui ora sei qui a parlarmi, e non so dirti se sia a causa della Mela, della tua volontà o delle due adorabili damigelle che ti stanno fregando. Non mi guardare in quel modo, Assassino – gli puntò un dito contro, la mascella contratta. La testa di Desmond cominciava a pulsare. – Sai benissimo che è così.
– Fregando? – Era come se gli mancassero dei pezzi per capire quel rompicapo. Un puzzle incompleto perché un bambino dispettoso aveva nascosto la scatola. – Non so proprio di cosa tu stia parlando, amico.
– Mi spiace per te – replicò Haytham. – Non so di preciso perché io sia rimasto bloccato qui. Probabilmente perché volevo metterti in guardia, ma, porco demonio!, avessi saputo che sarebbero stati anni d'attesa... – Storse le labbra e schioccò la lingua. ? Be', ci avrei pensato due volte prima di decidere di aiutarti.
– Aiutarmi? – Si sentiva un completo idiota. Quel fantasma... perché Haytham, se davvero era lui e non una stupida invenzione della sua testa, pretendeva di sapere cosa dovesse o non dovesse fare? Perché tutti – tutti quanti, da suo padre a quel suo antenato ultracentenario – non facevano che trattarlo come se non avesse voce in capitolo, come se ogni cosa fosse già stata stabilita nel suo passato e nel suo futuro? Una pedina. Totale passività a qualsiasi evento, solo uno strumento per qualcosa più grande. – Senti, non ho idea di cosa tu voglia, ma io non sono qui per ciò che pensi. – Qualunque cosa sia. Non aveva mai sentito nel petto così tanta voglia di scappare a casa a vedere un film. Uno qualsiasi. – Io…
Il vecchio Templare scoppiò a ridere, reclinando il capo e incrociando le braccia sul petto. Tra loro quattro si fece strada un’occhiata interrogativa, venata di paura. – Oh, buon Dio, per quale diavolo di motivo credi di essere arrivato fin qui, si può sapere? – chiese Haytham, scosso dalle risate. – Un'avanscoperta? Una passeggiata tra le rovine Mohawk? Un’allegra scampagnata con tanto di albero genealogico sotto il braccio?
Haytham lanciò uno sputo nel vuoto senza fine oltre la balaustra in pietra. Brillava. Come guardare le insegne di Times Square in forma umana. – Questo posto è dannatamente pieno di potere, ragazzo. Non lo senti? – Tirò su col naso, inspirando come un cane da caccia. Desmond si ritrovò d’istinto a fare lo stesso. Incredibilmente, la prima volta che avevano aperto il Grande Tempio era stato investito solo da una brezza leggera, come se l'aria avesse continuato a circolare lì dentro attraverso i secoli. Forse c'era un portellone di emergenza incassato nella roccia, o dei lucernari invisibili, qualcosa del genere. La Prima Civilizzazione aveva fatto tante di quelle cose inutili e pericolose, di certo dovevano aver inventato qualcosa che permettesse ai loro santuari di non puzzare.
Scrollò il capo, passandosi una mano sulla fronte. – Che intendi dire? – chiese, concentrandosi sui luminosi lineamenti del suo antenato. Esattamente come l'aveva visto – impersonato, vissuto – nell'Animus.
– Sono rimasto qui per duecento anni, senza potermene andare, senza la pace eterna che i preti ti mettono in testa da quando nasci. Per te. Solo per te. Ora, chi è che l'ha desiderato? Io, certamente, perché volevo metterti in guardia. Ma se mi hanno portato qui c'è un motivo, ragazzo. Qualcosa in cui c'entri anche tu. Sappiamo entrambi – portò le mani dietro la schiena, camminando ora sul vuoto, ora sul metallo, come se niente fosse – che tu sei come me. C'è il loro sangue nelle tue vene. Dipende solo da te. – Le sue labbra s'incresparono in un sorrisetto e un brivido gli corse lungo la schiena. - Cristo, fa' in modo che tutti i miei anni passati qui non siano stati una perdita di tempo. – A Desmond pareva proprio che quello sapesse cosa gli passasse nella testa, e anche ciò che avrebbe dovuto fare, ma volesse sentirlo dire da lui e tenerlo sulle spine.
Sospirò, inclinando il capo all'indietro. Non ce la faceva più, a essere onesto. – Voglio sapere perché sono qui. Che cosa vogliono da me. – Strinse i pugni. Sentiva gli occhi di suo padre, di Shaun e di Rebecca affondati dentro la schiena, ma nessuno sguardo lo riempiva di rabbia, disprezzo e rigido disagio come quello del Gran Maestro templare. – Io... – Desmond sollevò le mani e se le sbatté contro le cosce in un gesto di stizza. – Io non ci capisco più niente. Perché sei qui?
Il Templare aggrottò un sopracciglio. – Tu sei morto a Fort George – sibilò Desmond. Si sentiva sempre più stupido, come fosse uscito di testa. – Cavolo, io... Io t'ho visto!
L'altro arricciò le labbra in una smorfia divertita. Sapeva, quindi. Sapeva qualcosa, almeno. – Interessante – ribatté Haytham, poi sollevò gli occhi all'invisibile soffitto della caverna, continuando a ghignare. – Bella idea, lo ammetto! – gridò, e una morsa serrò le viscere di Desmond. Non stava più parlando con lui. Come aveva detto? Comunicazione. – Farglielo spiegare da me. Assolutamente geniale. – Scosse la testa in una debole risata e tornò a scrutarlo. Il giovane Assassino sentì un brivido gelargli la nuca. Stava parlando con un morto, cazzo! Un morto di secoli prima! La famiglia Addams era rassicurante, in confronto. – Ci conoscono meglio di quanto pensiamo. L'hanno fatto anche con me, sai? Non in questo modo, ovviamente. – Si grattò la testa. – E chi se lo aspettava? Bella fregatura. – Abbassò lo sguardo e si strinse nelle spalle, scoccando un'occhiata sprezzante a Shaun, Rebecca e suo padre. – Potrei sapere chi diavolo siete voi tre? No, solo per... d'accordo, non importa. Dobbiamo parlare di te, giusto, ragazzo? Com'è che ti chiami?
Si sentiva la bocca secca come un ciocco di legno. L'espressione di Haytham gli ricordava quella dei ragazzi più grandi, alla Fattoria, quando sfidavano il coprifuoco per raccontarsi storie di fantasmi. Quasi sempre Assassini e Templari morti. Ne stava vivendo una. Oh, Cristo. – Miles – riuscì a grugnire. – Desmond Miles.
Haytham annuì. – D'accordo. Desmond. Giusto. – Sembrava non avesse mai sentito un nome più brutto. Almeno riusciva a pronunciarlo senza problemi. – Dunque, tu stai dicendo che mi hai visto morire a Fort George. Un destino misero, cazzo. Ma come hai fatto a... – Sbuffò. – Voglio dire, mi capisci, no? Io posso essere qui, guardarti negli occhi e contarti i peli del naso, ma io... figliolo, io sono morto. Come hai fatto a vedere la mia vita e allo stesso tempo a essere ancora qui per raccontarlo? Perché mi conosci?
Il ragazzo si umettò le labbra. Dio, era una storia così lunga e complicata che non voleva affatto raccontarla. – Una macchina. – Grazie al cielo Rebecca gli corse incontro. Si appuntò mentalmente di ringraziarla, dopo. Per tutto. – Abbiamo inventato una macchina capace di scovare i ricordi nella memoria del nostro... Oh, ma tu non sai cos'è il DNA! – Accanto a lei, Shaun roteò gli occhi, esasperato. Lo capiva. Quasi gli venne da ridere. E lo sguardo di Haytham era mille volte meglio. Scrutava Rebecca con un labbro sporgente, come se gli dispiacesse da morire non sapere tutte quelle robe sulla moderna tecnologia. Probabilmente anche lui voleva solo tornare a casa e rilassarsi. Con un porno settecentesco, magari.
Che qualcuno lo menasse, per piacere. Era esausto. – Cioè, dentro di noi, in qualche modo, ci sono anche i ricordi dei nostri antenati. Questa macchina li trova e li analizza in formato video. Immagini che si muovono, ecco. – Rebecca fece un gran sorriso, fiera della propria capacità di espressione.
– Un po' semplicistico – puntualizzò Shaun. – A mio parere anche tutte le bestemmie che hai lanciato mentre cercavi di farlo funzionare erano degne di nota.
– Oh, chiudi il becco! – replicò la ragazza. – Comunque...
– In italiano, per di più. Roba bella colorita. – Shaun ripeté una bestemmia a mezza voce, qualcosa che c’entrava con Dio e con i maiali, se aveva capito bene.
– ...la macchina si chiama Animus – sibilò con un'occhiata velenosa in direzione dello storico.
Haytham sogghignò, lo sguardo divertito che passava da Rebecca a Shaun e viceversa. Desmond non riusciva a crederci. Non che gli piacesse stare al centro dell'attenzione, ma pensava che gli fosse quasi dovuto, quella volta. Non si era mai sentito tanto frustrato. Inutile. Non solo una pedina, ma di quelle bloccate in un angolino da tutti i lati. In trappola. Il Templare lo stava letteralmente mandando fuori di testa con le sue strane affermazioni, le domande e le risate sarcastiche di chi sa ciò che accadrà ma rimane zitto solo per il proprio sadico piacere. – Dicevi, Kenway? – brontolò con le braccia incrociate sul petto e gli occhi al soffitto.
...ci fosse stato, un maledetto soffitto. Quel postaccio non faceva altro che confonderlo. – Oh, sì. – Haytham si voltò verso di lui con un sorrisetto. – Mi spiace sconvolgerti, ragazzina, ma la tua macchina dice un sacco di balle.
Rebecca spalancò la bocca. Non riusciva bene a capire se era stupita per essere stata chiamata ragazzina o perché un morto aveva osato dubitare dell'Animus. – Scusa? – ringhiò contro Haytham, le labbra ritratte sui denti. – L'Animus... dice balle?
L'altro rispose con una stretta di spalle. – O quella o il predestinato qui – brontolò. Lo stava indicando con il pollice e tutta l'aria di chi voleva solo prenderlo per il culo. – Due facce della stessa medaglia – bofonchiò.
– Ehi! – Cominciava a essere stufo di quell'uomo. Dal vivo era molto più irritante di quanto sembrasse nell'Animus. Ma, a quanto diceva lui, quella macchina non era altro che una poltrona allucinogena, quindi poteva benissimo essere così. – Io non sto raccontando...
– Scherzavo, permaloso che non sei altro. – Haytham lo squadrò con una strana smorfia in viso. – Chissà, magari sono stati loro.
Gesù, ci capiva sempre meno. – Loro... i Precursori? – Adesso riuscivano anche a modificare i suoi ricordi?
Fece spallucce. – Oh, Dio solo sa di cosa sono capace quelle due. E anche l'altro non scherza. – Sputò oltre il bordo della piattaforma. – Schifosi figli di puttana. È stata Giunone a farmi sapere la verità su Reginald. Lo conosci, vero? Reginald Birch! – Manco gli stesse parlando di un suo vecchio amico del liceo. Annuì comunque, strofinandosi i polpastrelli sugli occhi. Aveva bisogno di uno Shirley Templar, ma anche un goccetto di whisky sarebbe andato bene. – Chissà come lo conosci tu... Va bene, non importa. Sappi solo che io non sono mai morto a Fort George.
Desmond aggrottò la fronte. C'erano troppe domande in cerca di risposte. – Quindi sei riuscito a sconfiggere Connor? Hai ucciso tuo figlio?
Haytham lo guardò con tanto d'occhi e scoppiò di nuovo a ridere con una mano sulla bocca, caracollando verso Bill e affondando la mano nel suo braccio per tenersi in piedi. Sbavava come un cane, singultava e ansimava cercando di riprendere fiato, senza riuscirci. La luminosa mano di Haytham lo attraversò come fosse fatto d'acqua. Il volto di suo padre sbiancò e, per un attimo, Desmond sorrise soddisfatto. Un po' per uno, no? – Oh, Dio – mugolò Haytham da dietro la mano e, quando si voltò di nuovo a guardarlo, Desmond si accorse che gli mancava un dito.
L'anulare sinistro. – Porca puttana! – sbottò, trattenendosi l'uccello con una mano. Stava per pisciarsi addosso, tanto rideva. – Che diavolo ti ha fatto vedere quella macchina, eh? Io ci volevo collaborare, con quel deficiente. È lui che ha fatto l'idiota. Ora non date la colpa a me. – Storse la bocca e scrollò la mano che teneva sotto la palle. Desmond sperava vivamente che non se li fosse bagnati sul serio, i pantaloni. – Gli volevo bene, eh. Non gliel'ho mai detto, d'accordo, ma in fondo gliene volevo. Non l'ho ucciso, perdio, non l'avrei mai fatto! – Si grattò i favoriti, pensieroso. D'istinto Desmond lanciò uno sguardo al padre, gli occhi grigi e freddi come il ghiaccio puntati di fronte a sé. Non ci poteva proprio sperare. Maledizione. – Be', tranne quando mi mandava fuori di testa con quei patetici discorsi da Assassino, però... Oh, andiamo, quindi è stato lui a farmi fuori? – Si voltò a guardare il soffitto invisibile, qualcosa sopra la loro testa. – Dio mio! Che razza di bastardi, mi avete sentito? È umiliante! – Scrutò Desmond con gli occhi sgranati, come a dire "Accidenti, ragazzo, con questi Precursori ci vogliono proprio le maniere forti!". – Diavolo – sibilò. – Quel vostro aggeggio fa proprio schifo. Non poteva mostrarvi qualcosa di meno patetico? Vuoi sapere la verità, Miles? Mio figlio è morto solo tre mesi dopo di me. Tre mesi! – Sventolò le tre dita della mano sinistra davanti al volto di Desmond, l'inquietante vuoto tra il medio e il mignolo ben in evidenza. – Insomma, hanno provato a fare le cose per bene, e per un po' hanno anche funziomato. Poi ha avuto la gran bella idea di mettersi tra Washington e il piombo di Thomas Hickey. Me l'hanno detto loro, direi che almeno su questo mi fido. – Scrollò le spalle e si passò un dito lungo il naso. – Be', grandioso. Mi sa che ti toccherà sorbirti la storia per quello che è veramente, Desmond.
Storse la bocca. Per quanto tempo, da quando Vidic l'aveva rapito, aveva sentito dire che la Storia era scritta dai vincitori, che solo l'Animus poteva mostrare la verità e bla, bla, bla? Cazzate! Enormi e magistrali cazzate. Non c'entravano un fico secco i vincitori e i vinti se poi bastavano tre spiriti di merda per scombussolare completamente la sua memoria. – Spara – grugnì. Tutta l'eccitazione provata al suo ingresso nel tempio era sparita. Voleva solo sloggiare.
Haytham sollevò un sopracciglio. – Come direbbe il vecchio Hickey, cazzo hai detto? – Sorrise, scaldandosi le spalle come prima di un combattimento. – Immagino che oggi voi parliate così, non dovrei stupirmi, già ringrazio di riuscire a scambiare due chiacchiere senza chiedere ogni secondo che diavolo ti sia appena uscito di bocca. Comunque... Uh.
Un altro lampo, più forte dei precedenti, fu sprigionato dalla Mela stretta tra le mani di Desmond. Si costrinse a chiudere gli occhi, serrandoli fin quando i femminili e lamentosi sospiri che non sentiva da qualche ora, da quando lei gli aveva spiegato gli ultimi metodi della Prima Civilizzazione per salvare il mondo – spettacolari e tutto il resto, eh, ma, ops!, nessuno di quelli era andato a buon fine. Alla faccia dell'incoraggiamento – non tornarono a torturargli le orecchie. Gli ricordavano da morire Flipper. Ah, Spence e la sua passione per il buon cinema. – Sì... Vieni... Infine... Sei qui. Conosci la storia. Sai dei tentativi. Dei fallimenti.
Attraverso gli occhi socchiusi scorse Haytham levare gli occhi al cielo e stringersi due dita sul naso. – Per piacere! Non sa niente di niente! – Incrociò le mani sulla nuca, sbuffando frustrato. – Che il diavolo mi porti, siate onesti! Almeno con lui, no? È un Assassino. – Desmond ridacchiò, sentendosi maledettamente fuori posto, ma Haytham sembrava una brutta parodia di Heidi mentre diceva quell'ultima frase. – Lui non sa... Ragazzo... – Si allungò verso di lui, fermando le dita titubanti a un pollice o due dalla sua felpa. – Davvero, io... tu non hai idea di ciò che ti costringeranno a fare. Mi avevano promesso...
– Silenzio! – La voce di Giunone risuonò più forte nel Grande Tempio, la disperata eco di una madre che pensa solo a lamentarsi. Haytham scoccò uno sguardo furioso alle sue spalle, senza guardare davvero verso la... Nemmeno Desmond sapeva bene come definirla. Uno spirito, a farla breve. Lì. Dietro di loro. Apparsa dal nulla. Cristo.
– Oh, puoi provare a zittirmi quanto ti pare – ringhiò Haytham. – Devi sapere, Miles. Mi avevano promesso la pace! Mi avevano promesso la collaborazione, tutto ciò che volevo!
– Le nostre speranze svanite. – La voce di Giunone e quella di Haytham si sovrapponevano nelle sue orecchie, lo stavano facendo diventare più matto di quanto già fosse. Non sarebbe dovuto essere traumatizzato, ripeteva a se stesso. Aveva già parlato con Clay, ed era morto anche lui, no?
Sì, ma allora era in coma. Pensava di morire, era... quasi normale. Ora no. Era vivo, e tutti quei fantasmi dorati e luminescenti gli stavano annebbiando la vista. – Salvo una.
– Non ascoltarla! – Con l'ennesimo ringhio, Haytham fece per afferrarlo per la felpa. Non strinse altro che l'aria. – Merda! – Si sbatté le mani sui calzoni, sibilando una bestemmia che Desmond non colse per bene. – Lasciala perdere, mi hai sentito? Ascoltami! – Poteva anche dire a suo padre di mollargli un altro pugno in faccia, ma non passò per la mente di Haytham. E lui non avrebbe certo insistito.
Distolse lo sguardo dal Templare e lo posò su Giunone. Colei che gli aveva raccontato tutto, che lo aveva informato sulla tecnologia della Prima Civilizzazione e tutti i loro tentativi di salvarsi dalla prima Apocalisse. Lo sguardo disperato e dolce sembrava quasi quello di sua madre. Chissà che fine aveva fatto.
Passava le mani su una grossa sfera bianca e luminosa, simile a un mappamondo o a un astro caduto dal cielo. Non c'era prima. Ne era sicuro. Si sarebbe accorto di un affare del genere, no? – Toccalo, su – disse Giunone dolcemente. – La scintilla. La scintilla salverà il mondo.
– Non ascoltarla! – Haytham sembrava più matto di lui. – Guardami! Guardami, cazzo! Hai visto che fine ho fatto per dar loro retta? Sono rimasto bloccato qui! Niente pace e nessuna tregua! Io... – Desmond chinò il capo da una parte. Sbagliava o Haytham gli pareva sull'orlo delle lacrime? – Mi avevano detto che tu eri la chiave per la pace, sai? È questo che mi hanno detto, ma ho smesso di crederci da un pezzo. Non c'è niente che tu possa fare per l'umanità! Hai tutta la vita davanti, maledizione, non ascoltarla! Non toccare quel... coso! – Era come in stato di shock, e i lineamenti distorti dalla rabbia di Haytham erano l'unica cosa che vedeva. Oltre alla luce del mappamondo o quel che era. Le voci gli bucavano le orecchie e non arrivavano al cervello, s'ammucchiavano l'una sull'altra come neve in una slavina.
– Il servo della Croce ha ragione. – Un'altra voce. Oh, Dio, era troppo. Stava diventando davvero troppo, ci mancavano solo Clay e... e Lucy, e perché no, Ezio, Connor, Altaïr, Michael Jackson, Tupac, Lincoln, Hitler. Almeno ci sarebbe stata un po' di musica. Oppure tutte quelle voci sarebbero state zittite da una bella doccia di gas.
Che cazzo stava pensando? – Non toccare il piedistallo! – esclamò l'altro spirito, una donna con uno strano elmo in testa, i lineamenti affilati e gli occhi brillanti d'intelletto. Tutto il contrario dei suoi in quel momento.
– Minerva...? – Non riuscì a spiccicare nient'altro, neanche il suo unico pensiero, un memorabile: "Piedistallo? Ma io pensavo fosse un mappamondo."
– Tu? Ma come... Come hai potuto? – Giunone era sconvolta. – Hai distrutto il dispositivo.
Le labbra di Minerva si piegarono in un sorriso malvagio. – Credevi ce ne fosse uno solo?
– Che diavolo succede qui? – berciò Bill nel fare un passo avanti. Oh, Desmond non ne sapeva niente. Aveva rinunciato a capirci qualcosa da un bel po'.
Haytham si passò le mani in faccia. – Ah, tranquillo, niente di che! – sibilò. – Lo stanno solo intontendo con le loro idiozie! Lasciatelo in pace, maledizione! – Il Templare avanzò, piazzandosi tra il figlio e i due spiriti. – Dovrete passare sul mio... fantasma se volete prendervi anche lui. – Sputò ai loro piedi, sdegnato.
Desmond batté le palpebre, accecato dalla luce di Haytham così tanto vicina a lui. Un Templare. Un Gran Maestro lo stava difendendo. Oh, Dio, probabilmente da qualche parte là fuori i taxi avevano anche messo le ali.
Sorrisero entrambe, per un attimo d'accordo. – Non metterti in ridicolo, servo della Croce – sussurrò Minerva con un sorriso malizioso. – E lasciaci parlare con lui. Avrai la tua pace, no?
– Non avrò niente! Non sono così stupido da cascarci un'altra volta! – Sembrava di nuovo sul punto di scoppiare in lacrime.
Giunone schiuse le labbra, malinconica. – Fatti da parte, ora che puoi.
Gli lanciò un'occhiata e fece un grosso sospiro. – Ragazzo? Ehi, ragazzo, mi senti? – Si affondò le mani nelle tasche e abbassò gli occhi, sconfitto. – Ascoltami bene. – Desmond non voleva ascoltare più nessuno, maledizione. – Non cercare di fare l'eroe. Non ne vale la pena. – Incassò la testa tra le spalle e fece un cenno con la testa agli spiriti dei Precursori. – Prego! Stupide... bastarde. – E si allontanò, lo sguardo colmo d'ira e disprezzo, lasciandosi cadere seduto accanto a Shaun.
Minerva gli scoccò un’occhiata severa, dunque si voltò verso di lui, un pugno stretto sul petto. – Non devi liberarla – esclamò indicando Giunone, un passo dietro di lei.
– Liberarla? – Avrebbe quasi preferito la tempesta solare. Qualunque cosa purché smettessero con tutto... quello, ecco. Stava diventando pazzo.
– Smetti di fare il pappagallo. – Haytham incrociò le braccia sul petto, le gambe tese di fronte a sé. – Non perdere tempo ad ascoltarle e vattene. Ti parleranno della fine del mondo, dei loro patetici litigi da comari e di un sacco di altre cose che non interessano a nessuno.
Desmond chinò il capo. Probabilmente era uno dei vantaggi di essere un morto, poter dare aria alla bocca senza che nessuno, neanche i Precursori, potessero dirti alcunché. Lui, invece, si sentiva più inetto che mai. Aveva ragione ad avere paura di ciò che avrebbe trovato all’interno di quel tempio, maledizione. Era un inganno, quindi, a sentire Haytham. Tutto un terribile inganno. – Deve sapere, servo della Croce. Giunone attendeva qui dentro di essere liberata. – Minerva scosse il capo, come se stesse per rivelare un terribile errore. Si voltò un attimo a guardare Haytham, giusto in tempo per vederlo sillabare muto “Bastarda melodrammatica”. – Ora ti spiego.
Ancora? Ancora volevano spiegargli cose, e… e intontirlo con quelle vecchie storie? Non aveva sopportato abbastanza a lungo quando era un ragazzino? Ci era già dentro fino al collo, non potevano risparmiargli le prediche? Venticinque anni, e ancora non riusciva a impedire agli altri di rigirarlo come un calzino alla propria maniera. Si sentiva strattonato tra Haytham e gli spiriti mentre Shaun, Bill e Rebecca lo guardavano preoccupati e increduli. Chi cazzo gliel’aveva fatto fare, eh? Perché Dio, o chi per lui, non l’aveva fatto nascere in un’altra famiglia, con altro sangue? Niente morti che gli parlavano, niente coma, niente ragazze pugnalate e niente rapimenti. Canne con qualcuno che non sarebbe stato Spence, ma almeno si sarebbe evitato tutti quei fastidi. Addio Templari, addio Assassini, che si salvassero il culo da soli, senza tirarlo in causa. Che aveva fatto di buono, poi? Per quattro mesi non era stato altro che una patetica palla al piede. – …Non puoi più fermare la fine ora, Desmond. Solo sopravvivere a essa. – Oh, no, si era perso lo spiegone.
E va be’. Come se cambiasse qualcosa, in fin dei conti. – Lei mente! – strillò Giunone. Perché non la smetteva? Doveva solo stare zitta. Come tutti gli altri. Era così bello, il vuoto. Il silenzio. – Tocca quel piedistallo e il mondo si salverà.
Haytham emise una sonora pernacchia. – Oh, certo, gli Assassini e i Templari cammineranno per New York a braccetto e dal letame fioriranno gemme. – Roteò gli occhi, circondandosi le ginocchia con le braccia. – E voi pensate pure che il vostro stupido predestinato vi stia ascoltando. – Desmond non si era neanche conto del fatto che Haytham fosse scattato in piedi, ma una frazione di secondo dopo era lì, al suo fianco, a sibilargli contro l’orecchio. – Perché ti conoscono, non è vero? Sanno che farai quello che dicono, una delle due, e non gliene frega niente di chi ci finirà in mezzo. Sanno come sei fatto, così come lo sapevano con me. Bravo. Fregatene e getta alle ortiche la tua vita per loro! – Desmond fece un balzo indietro, le braccia sopra la testa come quando suo padre lo sfidava a schivare le bastonate, alla Fattoria. Non era cambiato nulla. E ci mancavano solo gli incoraggiamenti di Haytham in quella giornata di merda.
Minerva gli si avvicinò, poggiando una mano sul petto del fantasma. – E levami le mani di dosso! – strepitò Haytham, stizzito. – Perdio! – Si allontanò e prese a girargli intorno come un cane rabbioso, brontolando tra sé e sé. Una teiera. Sembrava davvero una teiera.
– Meglio che il mondo bruci, Desmond, piuttosto che lei si liberi. – Scosse la testa, sconsolata. Perché sembrava così sincera? Maledizione.
Vide Haytham farle il verso a mezza voce mentre anche Giunone prendeva posto accanto a lui, dall’altra parte. – È veramente così? – Sospirò. – Mostragli, su.
– Ma lui non capirà. – Oh, no, non era quello il punto. Lui non voleva vedere. Non voleva vedere più niente. Correre lì fuori e morire per le radiazioni della tempesta solare non sembrava più tanto male, a pensarci. – È complicato… È…
– Oh, per piacere, non importa niente a nessuno di questa stupida fine del mondo! – Haytham puntò un dito al soffitto e si morse un labbro mentre Shaun lo fissava con la fronte aggrottata. – Maledizione, non è quello che intendevo. Volevo dire… Niente di ciò che ti diranno condizionerà il futuro. È un loro piano. Magari non sono nemmeno davvero l’una contro l’altra, sai? Devi solo… – Sentiva la testa pesante. Non sapeva dove guardare. Il Grande Tempio stava cominciando a girargli intorno come una trottola.
– Fa’ vedere – sussurrò. Qualsiasi cosa pur di non svenire come un idiota e allontanarsi, anche solo per cinque minuti, da quello schifoso posto di pietra.
Strizzò gli occhi con tutta la forza che aveva, e il mondo sparì.
 
La terra bruciava. I vulcani emergevano da sotto i grattacieli e gettavano fiamme, la gente scappava, i bambini tenuti in braccio alla bell’e meglio, le espressioni di terrore pitturate sui volti. Correvano, ma dove? Verso cosa? C’era fuoco dappertutto. Crepacci ovunque si poggiassero i piedi. Il ponte di Brooklyn che si spezzava a metà, i treni della linea che da Triangle Plaza lo portava al bar crollavano sulla strada, schiacciavano le auto e sfrigolavano in una pioggia di scintille rossastre. Giusto per attizzare il fuoco. Altro che carbonella.
E di nuovo, la voce lamentosa di Giunone. – Se obbedirai a Minerva, il sole farà il suo corso. La Terra si spaccherà e sputerà fuoco nel cielo. Tutto il mondo brucerà. – Dio santo, avrebbe dato un rene per farla smettere. Anche un polmone. Il cuore. O il cervello. Tanto non gli funzionava più. – Ma non sarà la fine del mondo, sarà soltanto l’inizio. Verrà l’oscurità. – E come un ordine dato dalla regia, tutto si fece buio. – Poi risorgerete… – La roccia lavica, il sole che lo accecava mentre strisciava come un verme fuori dal Tempio, con Rebecca, suo padre e Shaun a guardargli le spalle. Come quando scendeva dai treni, solo che allora era solo. Solo in mezzo alla folla che si agita e ti frusta come un fottuto bosco di alghe, alghe vive e pronte a soffocarti. – Deciderete di fare in modo che una tragedia simile non accada mai più. – Lui, con la barba più lunga, un libro in mano e una piccola folla intorno, sparpagliata su un prato, per spiegare… cosa, di grazia? Non era manco in grado di dare le indicazioni ai passanti, che diavolo poteva insegnare a dei sopravvissuti? Come andare avanti a pane e cocktail? – Diventerai un simbolo per i sopravvissuti. Speranza. Sapere. Determinazione. Li spingerai a ricominciare. A rifiorire ancora. – L’immagine cambiò di nuovo. Una stanza buia, uomini e donne in ginocchio intorno a un tavolo, candele tra le mani e visi affondati nelle spalle, a piangere. C'era un uomo steso sulla tavola, coperto da un lenzuolo e petali di rosa. Oddio.  – Il mondo guarirà, come la vostra razza… – No. Su, non poteva… Mica poteva essere lui! Sembrava Gesù Cristo coi capelli corti, porca miseria, non…
Niente bara di mogano nella tomba di famiglia su alla Fattoria, dunque. Razza di idiota. – Ma non sei che un uomo. Debole e mortale. Quando morirai, di te resterà solo il ricordo. Una… stipe. – Una frase incisa sopra la sua testa, oltre il suo corpo e le persone piangenti. A piangere per lui. Fino a quattro mesi prima pensava che, se fosse morto, era già tanto se avesse pianto Spence, al suo funerale. Era roba da profezia. OBBEDISCI A QUESTE PAROLE E SARAI SALVATO. Le lettere ruotavano e cambiavano. Mutevoli come il vento. – All’inizio verrai ricordato come un eroe. Poi come un mito. E infine… come un dio. – Le lettere smisero di vorticare, incise nella sua mente come un marchio a fuoco. OBBEDISCI A QUESTE PAROLE O MUORI DA ERETICO. A pensarci si sentiva anche più scemo del solito, ma che avrebbero fatto? Non potevano mica ricreare la Santa Inquisizione per lui, no? Per Desmond Miles? Gli veniva da ridere al solo pensiero. – Che destino crudele. – Quelle stesse parole scolpite su una lastra di pietra sollevata da un uomo misterioso, un muro di fiamme alle sue spalle e la folla che lo acclamava. E chi era questo, la Deluxe Edition di Mosè? – Lasciare tracce per il loro bene e vedere che le utilizzano in modo abietto. Ciò che doveva favorire la vita, usato per giustificare la morte. – Sopravvissuto, certo, ma ricordato come un mostro. Un groppo gli si bloccò in gola, e si rese conto che non voleva. Diamine, già non era stato un buon figlio, né un grande Assassino, che non gli spalassero altra merda addosso. Non più di quanto meritasse. – E ora capisci che ciò che era sarà ancora. Allora dimmi: che cosa è meglio?
Il nulla, pensò Desmond. E gli si manifestò davanti agli occhi, una tenda nera vuota e senza fine.
 
La prima cosa che sentì fu la voce di Haytham. – Che mucchio di stronzate – sibilò il Templare mentre osservava Minerva e Giunone con gli occhi socchiusi, truci. – Non capisci, Desmond? – Magari ci sarebbe anche riuscito, se lo avessero lasciato respirare per trenta secondi. – La vita è un cerchio. Sei davvero così orgoglioso da obbedire per evitare di infangare il tuo nome?
– Lei sacrificherebbe te e il mondo intero, Desmond. – Giunone coprì l’uomo con i suoi lamenti. – Solamente per negarmi la vendetta.
– Diventerete i loro schiavi. Non è per questo che lotti? Non è per questo che sei qui? – La libertà. Giusto. Quello che predicavano gli Assassini. Però… Però non gli piaceva. Che senso aveva, se tanto poi sarebbe stato lui, il predicatore stesso, a diventare un nemico? – Per dare alla tua gente non solo un futuro, ma la libertà?
– Quale futuro? Quale libertà? – Giusto. Di nuovo. Dov’era la sua, di libertà? Era costretto lì con un pezzo di metallo tra le dita, a fronteggiarsi con due scelte quando avrebbe preferito gettarsi nel nulla e diventare una macchia di sporco sulle pareti del Tempio. Insomma, non era così che voleva finisse il mondo, la sua vita o quel che cavolo c’era in ballo. Manco se lo ricordava più. – Migliaia di morti e l’intero ciclo ricomincerà. Questo mondo non è stato altro che miseria e orrore dacché siamo partiti.
Haytham poggiò una mano sul suo braccio, senza passargli attraverso, invitandolo a indietreggiare. Che cosa voleva? – Lasciami in pace – grugnì, lo sguardo fisso nel vuoto.
L’altro roteò gli occhi, sbuffando. – Guarda che io ti capisco. Io sì che sono stato infangato. Ammazzato da mio figlio. – Arricciò le labbra e fece spallucce, quindi affondò le mani nelle tasche. – Si può sapere perché ci tieni tanto? Non farlo. Alla fine sarai solo carne morta, ma almeno potrai vivere felicemente altri venti, trenta o quarant’anni. Lo dico per te. Crepare giovane per la Prima Civilizzazione… Tanto vale buttarsi nel fuoco. – Boh. Sapeva che però buttarsi nel fuoco faceva male, mentre il mappamondo aveva un che di rassicurante. – Te l’ho detto, no? Mi avevano promesso una collaborazione se fossi morto anche tu. In confidenza, eh. Due sacrifici e ci sarà la pace, o qualcosa del genere. Mi volevano solo fuori dai coglioni, altrimenti… – Sorrise nostalgico, inclinando il capo da una parte mentre Minerva e Giunone, davanti ai suoi occhi, continuavano a litigare. Che fine aveva fatto suo padre? E Rebecca, e Shaun? Forse erano lì dietro, troppo scioccati per spiccicare parola. – Qualcosa mi dice che se fossi rimasto vivo una tregua ci sarebbe stata eccome. Forse Washington sarebbe morto e tu non saresti qui, ma, ehi, è un piccolo prezzo da pagare. È per questo che mi hanno ammazzato. Me ne sono convinto, ormai. È l’esperienza a dirmi di avvisarti. Non fidarti di loro, hai capito, Desmond?
Vivere da mostro o morire da eroe.
Un mappamondo o le fiamme lì fuori. La paura. Il panico. La gente che urla e schiaccia i più deboli in una lotta primordiale. La civiltà mandata a ‘fanculo. E lui rintanato lì come un vigliacco, solo per uscire da quello schifo di grotta e istruirli su cosa fare, cosa credere e come andare avanti.
Storse la bocca. Suonava patetico persino dentro la sua testa.
– Basta! – esclamò. Si rese a malapena conto di ciò che aveva appena fatto, ma due degli ultimi membri della Prima Civilizzazione lo fissavano contrariati e incuriositi. Volevano solo sentire le sue parole.
Parole da eroe.
O da codardo, a lui la scelta.
Prese fiato. – Se lo farò – sussurrò con le labbra appena schiuse – mi garantisci che ci sarà la pace? – Fissava Giunone con tutta la sicurezza che riusciva a ostentare, ma non era certo di riuscire poi tanto bene nel suo intento. Prima di fare qualunque cosa avrebbe pisciato, poco ma sicuro. – Cioè… – Scrollò le spalle. – Qualunque cosa sia il piano di Giunone…
– Non ha capito un cazzo di niente – borbottò Haytham con il naso stretto tra due dita. – Ma se nemmeno l’hai ascoltato, il suo piano! – Emise un grugnito rabbioso che gli ricordava terribilmente le sue conversazioni con Shaun.
Proseguì comunque. I discorsi eroici non s’interrompono mica per il primo guastafeste che si mette in mezzo, giusto? – …per quanto orribile ci sembri, riusciremo a fermarlo. Ma l’alternativa, ciò che vuoi tu… – Si girò verso Minerva, le labbra contratte. – Sarebbe ancora peggio. ? Peggio per lui, forse. E per coloro che sarebbero stati condannati come eretici per aver ignorato le parole di un barista visionario, il leggendario inventore dello Shirley Templar! Che vergogna!
Strinse i denti. Stupidi pensieri. Di fronte a lui, Minerva sembrava contrariata. – Se la liberi, lei vi distruggerà.
– Pazzo. – Oh, Haytham. Che stesse zitto, cacchio. – Non ti rendi conto che è una fregatura in ogni caso?
– Certo, Desmond. – Eccola. Giunone in versione madre amorevole gli faceva quasi apparire il compito più facile. Si trattava solo di toccare un mappamondo, no? – Succederà in un istante. Niente dolore.
– Non devi! – replicò Minerva. Ne aveva abbastanza di chi cercava di dirgli cosa fare.
– È fatta. – Lo stava dicendo a Minerva, a Haytham, a suo padre, a tutti quelli che aspettavano solo la sua scelta. – Ho deciso, ormai.
Minerva fece spallucce, i denti serrati. – Allora dovrai convivere e morire con le conseguenze del tuo errore. – Convivere? Per poco non scoppiò a riderle in faccia. Convivere per, quanto, cinque minuti? Sopportabile. Sopportabilissimo, cazzo.
Fu lui a stringersi nelle spalle e a voltarsi verso Shaun, Rebecca e Bill. Suo padre. Il padre che gli era stato accanto in quegli ultimi due mesi, da dopo il coma, ma che gli era mancato più di quanto volesse dare a vedere.
– Desmond – disse soltanto. Forse persino Haytham sarebbe stato più affettuoso, ma era rintanato per i fatti suoi, accomodato sul bordo della piattaforma a fissare il nulla sottostante. Non voleva rovinagli il momento, forse.
– Ne sei proprio sicuro? – Shaun si stava grattando la nuca con l'altra mano poggiata sul fianco. – Intendo... Io ero dell'idea di prendere la crema solare e filarcela. Vuoi davvero...
Rebecca gli poggiò una mano sul braccio, gli occhi fissi in quelli di Desmond. Non poteva che esserle grato per avergli impedito di dire altre stronzate. L'unica ragazza rimasta nel gruppo gli gettò le braccia al collo, stringendolo in un abbraccio soffocante. Le mani si posarono goffe sui suoi fianchi e appoggiò il capo sulla spalla di Rebecca. Strinse le palpebre, assaporando un'ultima volta il calore del corpo di una ragazza tra le sue braccia. Si sentiva un po' ipocrita, ma a occhi chiusi immaginò fosse Lucy. Quanto gli mancava.
I rumori però non sparivano. C'erano i sussurri di Giunone e Minerva e, più vicini, quelli dei suoi stessi amici.
– Perché non lo fermi, Will? – O-oh, Shaun! Allora sotto quella montagna di sarcasmo e cinico umorismo inglese batteva un piccolo cuore, eh? Istintivamente si ritrovò a sorridere.
– La scelta è sua – replicò Bill gelido.
– Sì, ma l'amico che se ne va all'altro mondo è anche mio. – Così come si erano piegate, le labbra gli si tesero di nuovo mentre Rebecca Crane gli batteva una mano sulla schiena.
Non disse niente. Il suo sguardo gli bastava. – Mi mancherai, Becks – sussurrò sfiorandole le dita. Lei non rispose. Fece solo un passo indietro e annuì. Anche a lui dispiaceva. Dispiaceva da morire. Spostò lo sguardo su Shaun, guardandolo con un sopracciglio sollevato e le braccia mezze aperte.
Lo storico roteò gli occhi. – Al diavolo – sussurrò porgendogli la mano mentre con l'altro braccio gli circondava il busto. – Sei stato l'Assassino più facile da sfottere con cui abbia mai lavorato – disse con un sorriso.
Desmond gli fissò la mano con un attimo di riluttanza, dunque gliela strinse e rispose al suo mezzo abbraccio con una smorfia triste. – Ti auguro il meglio, Shaun. Grazie.
L'altro fece spallucce. – Di niente. In fondo, dove saresti senza di me?
Alzò le mani aperte. – Sotto un ponte a scavare nei cassonetti di un McDonald's, immagino. – Schioccò la lingua. – Sei stato l'unico a non trattarmi come fossi da sempre destinato a... questo.
Shaun strofinò la mano sulla sua felpa. – Per me resterai sempre l'unico soggetto maschio incinto che l'Animus abbia mai ospitato – replicò con un sorrisetto. – Be'... Ci vediamo, immagino. Prima o poi. – Si piantò la mano alla testa nel saluto militare e gli diede le spalle, così come l'aveva sempre visto. Scapigliato, gli occhiali spessi sul naso, le maniche della camicia arrotolate e quei pantaloni adatti a tutto, tranne che per una bella discesa in una caverna.
E poi, be', mancava lui. Suo padre, che continuava a guardarlo freddamente, un braccio gettato sulle spalle di Rebecca. Gli toccava, no? Poteva non essere stato il miglior figlio del mondo ma, cazzo, stava per morire. Era il minimo.
Lasciò andare Rebecca e gli si avvicinò. Lo abbracciò così forte che temette di soffocare mentre lui sbatteva le mani sul suo zaino, abbandonato sulla schiena. – Sedici anni – sussurrò Desmond. – E in quei sedici anni non ho mai smesso di pensare d'essere nato e cresciuto all'inferno.
– Non posso darti tutti i torti. – Il suo solito sussurro senza un tono particolare, che voleva intendere tutto e niente. – Non era esattamente il posto migliore in cui vivere. Ma forse ci saresti dovuto rimanere, no?
– Può darsi – ringhiò in risposta. Non voleva litigare. – Ma è andata come è andata. – Non era questo che voleva. Mi vuoi bene? Dio, se si sentiva patetico. Io sì. E se davvero lo aveva cercato in tutti quegli anni perché adesso lo trattava come un appestato? Gli aveva salvato la vita. Era una delle poche persone che gli fossero rimaste. Doveva essere sincero con lui, ma non riuscì  a spiccicare nessuna di quelle parole. Semplicemente lo sentì sospirare sul suo collo e se lo staccò di dosso. Come una vecchia crosta. – Dovete andare – mormorò, la schiena ritta e tutta la volontà di assumere un'aria sicura. – Tutti voi. Ora. Scappate il più lontano possibile.
William lo fissò, occhi negli occhi. Allungò una mano verso di lui, senza sfiorarlo. – Vieni con noi. Troveremo un modo.
– Non c'è tempo! – E d'altronde la scelta era sua, no? Era stato lui a dirlo.
– Figlio... – Chiamarlo bastardo lo avrebbe fatto incazzare meno, in quel momento. Voleva solo che gli si levasse da davanti agli occhi e lo facesse crepare in pace, ma un'altra parte di lui sapeva che era solo un pensiero infantile. Era suo padre. Gli sarebbe mancato più di chiunque altro.
– Sai che è giusto. – Per gli Assassini. Sapeva fin troppo bene cosa fosse meglio per loro, mai cosa lo era per lui e se stesso e sua madre. Per la sua famiglia. – È già iniziata. Devo farlo ora. – E lui doveva andarsene. Era sempre sembrato tutto così facile per lui. – Andate. Andate!
Indietreggiarono oltre il punto in cui poco tempo prima sorgeva quella lastra di vetro, giù per le scale, e lui voltò loro le spalle prima che oltrepassassero la bocca del Tempio. Minerva e Giunone non c'erano più. Solo lui, Haytham, che si era appena rialzato e si spolverava il cappotto con noncuranza, e il mappamondo. Stupido mappamondo.
Haytham si strofinò le palpebre con i polpastrelli, come frustrato dall'intera situazione. – Allora? – chiese, la schiena poggiata contro un pilastro di pietra nera, messo lì a reggere il nulla più assoluto, e le gambe accavallate. – Cos'hai deciso?
Desmond sbuffò. – Avevo già scelto prima che se ne andassero. – Abbassò il capo, fissando le venature della Mela per non essere costretto a guardarlo negli occhi. – Non fare il finto tonto. – Non voleva piangere, nemmeno davanti a Haytham. Sentiva le gambe molli, e nonostante sapesse cosa dovesse fare non riusciva a staccare i piedi da terra. Ricacciò i singhiozzi in fondo alla gola, ricordando l'addestramento di suo padre. Non era mai stato clemente con lui, e quando piangeva lo colpiva forte in faccia con il dorso della mano. Il dolore cresceva, si tramutava in rabbia, e lui tornava a combattere.
Qui non c'era il vecchio, ma Haytham sembrava comunque perfettamente in grado di mollargli un manrovescio. Per fortuna si limitò a sollevare le sopracciglia. – Be', speravo solo che il tuo grande genio ti avesse suggerito di cambiare idea e scappare a gambe levate. – Sbuffò rumorosamente, facendo uscire l'aria dalle narici come un vecchio drago spazientito, e posò lo sguardo sulle sue mani. – Ragazzo, hai la Mela. Potresti fare qualsiasi cosa, tutto ciò che vuoi. Non... – Il Templare si chinò in avanti, schioccando la lingua e strofinandosi la bocca con le mani, cercando le parole giuste. Sembrava un politico che organizza la miglior propaganda possibile. – Desmond, non sei obbligato a fare ciò che dicono – sussurrò teso verso di lui, le mani sulle ginocchia. – Sono...
– Li ho mandati via. – La sua voce era quasi un ringhio. – Se non faccio quello che vogliono, moriranno tutti quanti. Mio padre, e... Io... – Serrò i pugni, stringendo i denti così forte da sentirli vibrare, quindi affondò le mani nelle tasche e reclinò il capo. Era una marionetta. Lo era sempre stato. – Senti, non sei mai stato esattamente un grand'esempio di moralità. Quindi...
– Moralità? – Haytham ridacchiò, chinandosi ancora di più e indicandolo con aria accusatoria. – Tu, ragazzo mio, sei più egoista di quanto pensassi. Non vuoi salvare il mondo. Vuoi salvare la tua reputazione. Quindi non parlarmi di moralità, per l'amor di Dio. – L'indice di Haytham fremeva per la rabbia a pochi millimetri dal viso di Desmond che, immobile, faceva scattare lo sguardo tra la Mela dell'Eden e la grossa sfera luminosa, una tremula aureola che circondava anche il piedistallo e si rifletteva sul pavimento lustro. – Lo farai davvero? – chiese, la voce colma di rabbia.
Desmond fece spallucce. Non aveva la forza di allargare le braccia in un gesto di strafottenza. – Sì – sussurrò senza sicurezza alcuna. Che altra scelta aveva? – Sì.
Haytham gonfiò le guance. – Be', complimenti – sibilò grondando sarcasmo. – Sei un maledetto eroe. Figlio di puttana... – Scosse la testa, impotente. – Ti stanno fottendo. Credimi. Io...
– Hai avuto la tua possibilità – sussurrò Desmond. Non voleva più sentire parlare nessuno. Voleva solo farlo, mettere fine a tutto... quello. Tutto quanto. – Smetti di dirmi quello che devo fare, okay? Hai sbagliato secoli fa, e non ho chiesto io il tuo parere!
Haytham sgranò gli occhi. – Idiota! – berciò sbattendosi un dito sul petto. – Io le conosco meglio di te! Le ho avute entrambe dentro la testa! So di cosa sono capaci, e lo sai anche tu! Perché...
– Chiudi quella cazzo di bocca! – Desmond indietreggiò. La voce gli si era fatta acuta, tesa, come quella di un bambino. Portò le mani tremanti alla testa, stringendo forte le palpebre, poi sgranò gli occhi con la voce rotta. – Sto per morire. Sto per morire, maledizione! Lasciamelo fare in pace!
Chinò il capo, sentendo le lacrime spingere per scorrergli sulle guance. Tremava come una foglia dalla testa ai piedi, e Haytham sollevò le mani. Si era arreso. Finalmente. – Al diavolo – sussurrò acido. – Al diavolo, va bene? Fa' pure ciò che vuoi. Io sono rimasto qui per quasi tre secoli, ragazzo. Sto cercando di sfruttare la situazione al meglio, ti voglio aiutare. Non posso più fare nulla per me stesso, diamine! – Si lasciò andare a una risatina, stretto nelle spalle. – Vuoi fare qualcosa di buono, ragazzo? Vuoi morire per qualcosa? Avresti dovuto prendere la Mela e far saltare in aria questo posto. Bum! Ciao, Minerva, ciao, Giunone, e benvenuto Paradiso! Urrà! – Roteò gli occhi e si grattò un sopracciglio con le dita, lanciando uno sputo luminoso sul pavimento del Tempio. – Ti credevo più furbo di così.
Desmond abbassò il capo, lasciandolo cadere mollemente sullo sterno. – Se non lo faccio la tempesta solare distruggerà tutto il mondo. Loro...
Haytham lo squadrò e, di nuovo, non riuscì a trattenersi. Si piegò in due, i palmi premuti sul ventre mentre rideva come un bambino. Desmond tese la mascella, irritato. Cosa cazzo aveva da ridere, eh? Gli avrebbe tirato un pugno, ma sapeva che l'avrebbe parato con la stessa facilità di Tyson. Anzi, gli sarebbe passato attraverso. Gran figura di merda. – E tu ancora credi a quelle due? Dio! – Stava addirittura piangendo, lacrime come lampadine di Natale agli angoli degli occhi. – Sono fantasmi! Non hanno più potere di me e di te, cazzo! Ti ho detto cosa m'avevano promesso, e ti sembra che abbiano mantenuto? No!
– Loro... – Desmond strinse i pugni. Anche solo ricordare quell'evento di pochi mesi prima, prima del coma, subito prima del coma, era come riviverlo. Il dolore e... e l'impotenza come aghi roventi in tutto il corpo. – Mi ha fatto uccidere una persona. Giunone.
Haytham incrociò le braccia sul petto che ancora sussultava per le risate. – È una strana cosetta legata al sangue. Hanno un'influenza del diavolo su me, te, tutti i discendenti della Prima Civilizzazione. – Tirò su l'angolo della bocca in una smorfia scettica. – Fuori dai nostri corpi possono a malapena costringere un uomo a pisciare. Oh, Dio, sono un po' più in gamba di me, ma sono morte. Deboli. Non è comunque abbastanza per fermare una maledetta... Com'è che si chiama? Be', è una cosa grossa, a quanto ho capito. Dammi retta, lascia perdere, e se proprio vuoi morire crepa in modo che nessuno possa darti dell'idiota.
– Lasciami in pace. – Non voleva sentirlo parlare ancora, e ancora. Non ne poteva più. – Voglio farlo.
– Non è vero – cantilenò il Templare, – proprio no.
– Oh, sta' zitto!
– Va bene, va bene, d'accordo! – Giunse le mani, come in una preghiera, e fece una mezza riverenza. – Sei un eroe – ripeté. – Un fottuto, stramaledetto eroe.
Desmond chinò il capo da una parte, sussurrando un'imprecazione. – Lo dici come fosse una cosa sbagliata.
– Gli eroi. Patetici. – Scrollò il capo e fece spallucce. – Non sono altro che stupidi, vittime delle circostanze che hanno commesso errori e preso posizioni che nessun altro avrebbe considerato. Sono morti per il loro orgoglio. Gli eroi non esistono, a volte sono fighette più grosse degli altri. – Sollevò lo sguardo all’indistinto soffitto, lassù da qualche parte, un occhio mezzo chiuso. – Non sono forse un eroe, Desmond? Non mi sono lasciato far fuori in nome di un'alleanza tra Templari e Assassini, l'alto ideale che entrambi conseguiamo? Sono morto per mio figlio. È la verità. – Arricciò le labbra con scherno. – Vedi un po' che fine fanno gli eroi, Desmond Miles.
L'altro sbuffò. – Tu non sei un eroe.
– Lo dici perché sai che ho fatto cose terribili, prima. Insomma, gli uomini non sono senza macchia. Non è mai stato così. Adesso rispondimi sinceramente, Desmond. – Haytham si mise una mano sul cuore, in una sorta di giuramento solenne. Una solenne presa per il culo. – Sei davvero pronto a morire per questo? Per una manciata di fumo? Hai bisogno di espiare qualche colpa o sei solamente un vittimista senza uno scopo migliore?
Desmond lo guardò negli occhi, le mani strette sulle cinghie dello zaino. – È la cosa giusta da fare.
– Sei ridicolo. Te ne pentirai.
– Oh, e a te che importa? – Si tolse la borsa dalle spalle, aprendola e infilando la Mela in una delle tasche interne. Frugò ancora nello zaino, tirando fuori il cellulare da una piccola tasca sul davanti. – Avrai tutto il tempo del mondo per insultarmi. Forse hai ragione, me ne pentirò. – Armeggiò con le dita sullo schermo per qualche attimo, dunque si sedette a terra e scrollò le spalle, rivolgendo al fantasma un sorrisetto di scherno. – Ma allora sarò solo carne morta, no?

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Capitolo 70
*** Soggetto 17 - memo 5 ***


Registrazione rinvenuta nella memoria del cellulare appartenente al Soggetto 17, Desmond Miles, nato il 13 marzo 1987 nei pressi di Rapid City, Sud Dakota, Stati Uniti d’America.
[Nota del trascrittore: la registrazione presenta, oltre alla voce del Soggetto 17, interventi in sottofondo da parte di una voce maschile in secondo piano  – abbreviazione: SMV. Era inoltre protetta con un codice d’accesso – unico caso sulle cinque registrazioni totali rinvenute nell’apparecchio in questione – che ci siamo accurati di registrare: uno-due-zero-quattro-uno-sette-due-cinque.]

Okay. Ci siamo. A quanto pare, questa è l’ultima registrazione. Quindi io… be’, mi sono preso un momento. So di avere davvero poco tempo prima che la tempesta solare abbia inizio. Haytham sta facendo il possibile per convincere la Prima Civilizzazione a ritardare tutto quanto. Devo fare in fretta.
Io… non sono mai stato un figlio modello. Né un Assassino modello. Però credo… posso dire di aver fatto del mio meglio. Di essermi sforzato, per quel che vale. Ho cercato di ottenere il massimo con ciò che avevo.
È buffo. Se mio padre fosse qui direbbe che non è affatto vero, e probabilmente avrebbe ragione. Non ho fatto il massimo, anzi, forse ho fatto solo l’indispensabile. Però sono… fiero di quest’operato. Warren Vidic è morto, per quanto abbia perso persone care come Clay e Lucy, lungo la strada. Sto per perdere anche me. Me stesso. Lo so. Ho preso la mia decisione, nonostante Haytham sia contrario. Mi ha detto di non fidarmi, che contribuirò alla rovina del mondo.
La verità è che non ci voglio pensare. Gli Assassini sono ancora vivi, e io devo fare ciò che è giusto. [SMV: ‘Sei veramente un idiota, ragazzo. Hai visto cos’è successo a me, no? Eppure vuoi prendere parte a questa pagliacciata da buoni samaritani. Terribilmente stupido, da parte tua.’]
Haytham è sempre il solito mago degli incoraggiamenti, ma so quello che devo fare. È giusto così. Il mondo… Devo salvare le loro vite. Non c’è un fine, no. Se vivessi i Templari trionferebbero e gli Assassini sarebbero costretti a darsi alla macchia. Invece… Loro devono salvarsi. E se io devo morire, tanto meglio. Ho dato troppi problemi. Anche se fosse tutta una bugia, mi fa sentire bene sapere che le mie parole non verranno fraintese, stravolte o plasmate, semplicemente perché nessuno mi ricorderà mai. Sarò… carne. Solo carne. Un corpo morto mangiato dai vermi. Almeno questo è un posto migliore di altri, per morire. [risatina] Ho sempre pensato che sarei morto di qualcosa al fegato. Tipo… l’epatite. Stramazzato dietro il bancone del bar mentre i clienti andavano a festeggiare pensando che fossi svenuto dopo l’ennesimo drink di troppo. Abbandonato lì finché non avessi cominciato a puzzare.  
[sospiro] Tu non hai mai fatto qualcosa solo per le persone che ami, Haytham?
[SMV: ‘Assolutamente no (sospiro). Mi hanno costretto a morire. Sapevano quale nervo toccare, esattamente come stanno facendo con te. Illuso.’]
Quindi, ecco, non so nemmeno perché stia facendo questa registrazione. Forse è solo per salutare tutte le cose belle che mi ha dato la vita. Il sole. La terra dura delle colline. Una casa felice. Delle… persone su cui contare. Una famiglia, per quanto la mia abbia funzionato male. E poi le piccole cose. Le feste, la musica. Il bar. Le sensazioni. Quel sentire la libertà dentro le vene quando corri.
[SMV: ‘Potresti gentilmente smettere di cazzeggiare?’]
[sospiro, debole risata] Sono i miei ultimi minuti, lasciali gestire a me. Dicevo, aggiungiamoci anche i prati. L’aria aperta. Le nottate nella metropolitana con una bottiglia di birra in mano, a vedere la vita che continua a strisciare nel buio. Persone pallide con la testa altrove. I botti di Capodanno. Il mare.
[SMV: ‘Perché non ci metti anche le donne? L’amore? Quelle cose lì. (sussurrando:) Imbecille.]
L’amore, dici? Ho pugnalato l’unica ragazza che mi fosse mai davvero piaciuta. Le donne… ci possono stare [risata sommessa]. La speranza. L’alcool. Più di tutto, però, forse dovrei ringraziare gli scopi. Gli obiettivi. Possono portare uomini che nemmeno si conoscono ad essere fratelli. L’ho constatato sulla mia pelle. Attraverso i secoli. Se gli Assassini non avessero avuto bisogno di me, se mio padre mi avesse abbandonato, come probabilmente avrebbe fatto qualunque uomo ragionevole davanti a un figlio come me, be’, sarei morto appena uscito dall’Animus. Appena localizzati i Frutti. O forse, forse addirittura lì dentro. Come Clay. [sospiro] Cristo, non ha mai smesso di fare male. Pensarci, intendo.
Ora non ho più tempo. Se avessi del whisky, immagino che questo sarebbe il momento giusto per mandare giù l’ultima goccia della bottiglia. Un gesto di quelli d’effetto, teatrali. [singhiozzo] Ma non ce l’ho.
Ciao, papà. Salutami la mamma, e gli altri su alla Fattoria. Shaun, Rebecca, vi voglio bene. Non lasciate che questo fermi gli Assassini.
[SMV: ‘E io chi sono, lo scemo del villaggio? Non merito nemmeno un saluto? Un commento sincero, una considerazione?’]
Mi sa che avremo più tempo del previsto per parlare, Haytham.
Di nuovo, ciao. Ora… devo farlo. Non si può più rimandare.
Vi voglio bene. Devo anche… ringraziarvi, ragazzi. Per tutto ciò in cui mi avete aiutato. Tutti i guai che vi ho fatto passare, tra l’Abstergo, il coma e quest’ultima pazzia. Grazie. Davvero, so che può sembrare così falso detto in questa situazione, ma io… io… [tira su col naso] Grazie. Vi voglio davvero bene.
E… bevete uno Shirley Templar al mio funerale, d’accordo? Gli ingredienti… Credo che papà li conosca. Shirley Temple e gin. Per… farmi pubblicità. Ve lo concedo io.
[SMV: (risata sommessa) ‘Fate questo in memoria di me.’]
Già. [singhiozzo] Fate questo in memoria di me.
[clic]


 

***
Note dell'autrice:
So. Eccomi con l'ultimo capitolo più corto della Storia.
Tecnicamente dovrei scrivere qualcosa di poetico.
Però non ne sono capace. Sappiatelo.
Dico solo che mentre scrivo questa... roba ho in continua riproduzione "Never Let You Down" di Woodkid e Lykke Li (che è tipo l'orgasmo multiplo e le lacrime incondizionate, quindi CORRETE AD ASCOLTARLA AAAAWW) e vabbé, quindi non stupitevi se sarò diabetica. Cercherò di trattenermi, giuro.
Tutto questo non sarebbe così maledettamente bello senza di voi. Non sarebbe la stessa cosa. E il fatto che ci sia stato qualcuno disposto a leggere questa storia, a commentarla, a sclerarci sopra con me, a recensire, ecco, ha reso tutto un milione di volte più bello.
Cristoddio, rischio di fare ringraziamenti più lunghi del capitolo.
Va bene. Tutto il casino qui sopra è per dirvi che vi adoro. Davvero. Grazie per esserci stati, per aver trasformato uno stupido file Word in qualcosa di più, per i complimenti (infinite volte, non ve lo dirò mai abbastanza), grazie per tutto, ecco. Tutto quanto.
E non temete, non sparirò. Credo, lol.
Nei meandri del mio computer/cellulare c'è sempre spazio per qualche one shot gay porn su AC. O su fandom che nessuno conosce.
E non pensate neanche per un attimo di salvarvi, LOL.

<3

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