Amnesia

di Shainareth
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo primo ***
Capitolo 2: *** Capitolo secondo ***
Capitolo 3: *** Capitolo terzo ***
Capitolo 4: *** Capitolo quarto ***



Capitolo 1
*** Capitolo primo ***





CAPITOLO PRIMO




«Tu… chi sei?»
   Tre semplici sillabe. Tre semplici sillabe pronunciate con voce flebile e spaesata. Eppure ebbero il potere di abbatterlo, come se qualcuno gli avesse sparato una cannonata in pieno stomaco. O forse dritta al cuore.
   Sebbene lo avessero preparato, avvertì un tremito in tutto il corpo e non fu più certo di essere padrone di se stesso. Ma quegli occhi attendevano una risposta. Quegli occhi scuri, arrossati, lucidi, che lo fissavano con aria smarrita, innocenti e timidi.
   Strinse le labbra, cercando di recuperare il respiro che gli era venuto meno a causa di quella domanda. Infine, le schiuse e, con voce rauca, una voce estranea persino a se stesso, rispose. «Io sono Garu.»
   Rimasero nuovamente in silenzio, benché il rumore dei macchinari a cui era collegata la ragazza, e che erano riusciti a tenerla in vita per tutto quel tempo, continuassero ad emettere un sottofondo poco gradevole.
   Poi, lei corrucciò appena la fronte, come se stesse cercando di metterlo meglio a fuoco. Il giovane per un attimo osò sperare che si stesse ricordando di lui; ma si sbagliava. L’unico motivo per cui quella sciocchina si era incantata a fissarlo fu presto spiegato da lei stessa, nonostante l’affanno nella voce. «Sei davvero un bel ragazzo», ci tenne anzitutto a precisare, inducendolo ad inarcare entrambe le sopracciglia con fare attonito. Quindi, la fanciulla passò alla questione successiva. «Ti va di essere il mio fidanzato?»
   Nonostante tutto quello che era accaduto, alcune cose non sarebbero mai cambiate e questo era rassicurante. Garu quasi rise e non fece nulla per nasconderlo, né per evitare che i suoi occhi si riempissero di lacrime. Ma non pianse. Si limitò ad ingoiare ogni emozione e a tirare su col naso, che aveva iniziato improvvisamente a pizzicargli.
   «Non posso», le spiegò in tono desolato, allungando una mano per carezzare il dorso di quella di lei con le nocche delle dita. «Temo di esserlo già.»
   Quella rivelazione le fece sgranare le orbite per la sorpresa e Garu scoppiò a ridere per davvero, questa volta, sia pure brevemente. «Ho… Ho un fidanzato così… così… così!» risolse di concludere la ragazza, sconvolta, non riuscendo a trovare parole appropriate per definire il fascino che lui esercitava sul suo povero cuore. E probabilmente anche sui suoi ormoni, sebbene non se ne rendesse del tutto conto. «E non me lo ricordo!» sbraitò con un certo, ammirevole impeto, impensabile per le sue condizioni. «È un’ingiustizia!»
   Per Garu l’ingiustizia maggiore era ben altra, ma decise di non farglielo pesare, non in quel momento. «Dovresti riposare», le disse allora.
   «Mi sono svegliata da poco», protestò lei, non capacitandosi di aver dimenticato tante, troppe cose mentre aveva dormito. Nello stato confusionale in cui si trovava, non era ancora riuscita a realizzare che il suo era stato molto più di un lungo sonno; era caduta in coma. Per sei anni. Quasi non speravano più che si salvasse, e invece, ancora una volta, la piccola Pucca aveva stupito tutti con la sua voglia di vivere. E, a quanto pareva, con il suo congenito amore per Garu. Tuttavia, vi erano stati degli inaspettati risvolti, in quel miracolo: se da un lato il terribile incidente che le era capitato le aveva restituito la parola al suo risveglio, dall’altro le aveva devastato la memoria, cancellando ogni ricordo personale e preservando soltanto quello della lingua madre e poche altre cose basilari. Se adesso sapeva come si chiamava e quanti anni aveva lo doveva unicamente ai medici e poi a quei tre signori che erano accorsi al suo capezzale quando era stato dato loro il permesso di entrare nella sua stanza. Le avevano detto di essere i suoi zii, eppure i loro volti le erano totalmente estranei.
   «Non muovo le gambe», mormorò d’un tratto, puntando gli occhi a mandorla sulla punta dei piedi che creavano due buffe protuberanze sotto al lenzuolo bianco del letto d’ospedale. «Mi hanno detto che camminerò di nuovo, però», aggiunse, come a voler rassicurare anzitutto se stessa.
   «Dovrai fare un po’ di riabilitazione», le spiegò Garu, prendendole affettuosamente la mano nella propria e richiamando così la sua attenzione, in modo che lei non si focalizzasse su tutti i problemi del suo stato di salute. In verità, le ferite riportate a causa dell’incidente erano ormai sanate da un pezzo e non rimanevano che poche cicatrici. In più, non vi era alcun serio problema di carattere fisico, tant’è che con il dovuto esercizio, Pucca sarebbe nuovamente riuscita a mettersi in piedi da sola e a correre, se solo lo avesse voluto. E, col tempo, avrebbe imparato anche a nutrirsi di cibo solido, senza l’ausilio di nessuna, maledetta flebo che le somministrasse il necessario per vivere. L’unica vera preoccupazione, insomma, era costituita dal suo stato psicologico: cos’avrebbe fatto quando avrebbe realizzato per davvero che non aveva perso soltanto la memoria, ma addirittura sei anni di vita? Si era addormentata che era una bambina e si era svegliata già donna.
   «Riesci a sentire la mia mano?»
   «Sì», rispose con voce flebile, muovendo appena le dita contro quelle del giovane. «È calda.»
   Se avesse potuto, Garu non si sarebbe limitato a stringerle una mano. Avvertiva il desiderio di cingere quel suo esile corpo fra le braccia, di proteggerla da tutto e da tutti. Ma non poteva farlo, perciò si limitò a sorriderle e a scostarle una ciocca di capelli neri dalla fronte. Per igiene e praticità, avevano dovuto recidergliela, quella sua lunghissima chioma. Adesso Pucca sfoggiava una zazzera spettinata, a metà strada fra un taglio corto ed un caschetto. Le conferiva un’aria sbarazzina, ma non le stava affatto male.
   La porta si aprì in un lieve cigolio e un’infermiera fece capolino nella stanza, facendoli voltare verso l’ingresso. «Temo che sia ora che io vada», disse Garu, comprendendo quale fosse la ragione dell’arrivo della donna. Dopotutto, gli era stato raccomandato di non trattenersi troppo, affinché la paziente non si stancasse eccessivamente né nel parlare né nello sforzo di ricordare. «Tornerò il prima possibile», le promise, quando vide l’espressione smarrita della ragazza.
   «Okay…» biascicò lei, rassegnata. Ma, prima che lui le lasciasse andare la mano, volle sapere con una certa eccitazione: «Posso avere un bacio, prima?»
   Di nuovo, Garu inarcò le sopracciglia scure e per poco non scoppiò a ridere. Quindi, pur arrossendo, si chinò per sfiorarle una tempia con le labbra. La vide sorridere soddisfatta e tanto bastò.

Non appena si chiuse la porta della stanza alle spalle, scorse i tre cuochi precipitarsi nella sua direzione con evidente ansia sui visi preoccupati e segnati dal pianto, ed una chiara domanda sulla punta della lingua, che però rimase inespressa: Pucca si ricordava almeno di lui?
   Garu sospirò, desolato. «No», disse, senza curarsi troppo del lieve sussulto che ebbero i tre nel sentirlo parlare per la prima volta dopo anni. Lo stesso ragazzo avvertiva una strana sensazione nel lasciare che le parole ora uscissero liberamente dalla sua bocca. «Ma sembra essere almeno di buon umore», spiegò con sincerità, anche per rincuorarli. Sarebbe bastato per consolare tutti loro dell’enorme perdita subita? Probabilmente no, ma bisognava almeno cercare il lato positivo di tutta quella maledetta faccenda: Pucca stava bene, si sarebbe ripresa alla grande e sarebbe tornata a vivere con tutti loro giù al villaggio, e non più a vegetare in un dannato letto d’ospedale. Con un po’ di fortuna, avrebbe anche recuperato i propri ricordi d’infanzia; almeno stando a quanto avevano detto i medici, che però volevano fare ulteriori accertamenti al riguardo. Tuttavia, i pensieri di Garu continuavano ad affastellarsi tutti attorno ad un’altra questione non di secondaria importanza: nessuno avrebbe mai restituito a Pucca i sei anni di vita che aveva perso.
   Quando gli zii della ragazza gli posero altre domande, questa volta ben udibili, si limitò a poche, concise risposte. Anche se adesso poteva farlo, non aveva voglia di parlare. Avvertiva un enorme nodo in gola che cercava di impedirglielo. Voleva soltanto rimanere solo con se stesso per riordinare le idee. Avrebbe dovuto essere forte, come anche tutti gli altri, del resto. Fu su questo che si concentrò nel momento in cui vide arrivare anche Abyo e Ching, entrambi visibilmente ansiosi di saperne di più sullo stato di salute della piccola Pucca. Era così che la chiamavano fra loro, perché, sebbene gli anni fossero passati per tutti e anche lei fosse fisicamente cresciuta senza rendersene conto, gli ultimi ricordi che avevano della loro amica erano quelli di quando era ancora una bambina. Di quando era ancora la loro piccola Pucca.
   «Che ti ha detto?» volle sapere Ching, una volta che aveva realizzato che la ragazza stava bene, nonostante avesse perso la memoria, e che aveva riacquistato la parola. E Ching non sapeva davvero stabilire se quest’ultima cosa fosse più o meno sconvolgente del sentire Garu parlare.
   Lui si strinse nelle spalle, le mani nelle tasche dei pantaloni. «Mi ha… chiesto di essere il suo fidanzato», ammise, pur con un lieve imbarazzo.
   Gli altri si lasciarono andare ad una sommessa risata liberatoria: certe cose non sarebbero mai cambiate, dunque? Meglio così.
   «E che le hai risposto?» s’incuriosì Abyo, divertito.
   Di nuovo, Garu fece spallucce. «Che lo sono già.»
   «Garu», prese parola a quel punto Linguini, seriamente preoccupato per lui, oltre che per la nipote. «Non devi sentirti obbligato.» Era quello il timore di tutti, dal momento che il giovane non aveva fatto altro, in quei sei anni, che rimanere accanto alla piccola Pucca. Sapevano che le aveva sempre voluto bene, a dispetto di ogni apparenza, ma si rendevano anche conto che, dopo tanto tempo, molte cose potevano essere cambiate, e che l’affetto di un bambino di dodici anni non poteva essere paragonabile a quello di un ragazzo ormai alle soglie dell’età adulta.
   «Chi ha detto che mi sento obbligato?» ribatté lui, lievemente infastidito da quell’osservazione. Forse non era innamorato di Pucca, ma quello che provava per lei era comunque forte e profondo al punto che non gli pesava per nulla essere il suo fidanzato – ammesso che così potesse davvero definirsi, vista la situazione in cui si trovavano. «Va bene così, davvero.» Altrimenti non avrebbe avuto alcun senso, per lui, dedicarle ogni pensiero e ogni preghiera in tutto quel tempo.
   Nessuno mise in dubbio le sue parole, ma tutti non poterono fare a meno di chiedersi dove finisse il suo affetto per la ragazza e dove iniziassero, invece, i sensi di colpa: se Pucca aveva rischiato di morire, era stato per difendere lui. E questo non poteva aver lasciato indifferente il giovane, tutt’altro. Adesso aveva persino rotto il voto del silenzio fatto anni prima per poter comunicare con lei.
   Gli sguardi che lo stavano fissando gli fecero provare una sensazione simile a quella di soffocamento e Garu avvertì sempre più impellente il bisogno di rimanere da solo. E poiché nessun altro parlò né gli pose ulteriori domande, ne approfittò per scusarsi con tutti e accomiatarsi.

«Ora riesco a muovere tutte e dieci le dita dei piedi», affermò soddisfatta, scoprendo gli arti inferiori per mostrarli a quella che, a quanto pareva, era stata la sua migliore amica durante gli anni dell’infanzia.
   «Stai facendo dei grandi progressi», fu il sincero incoraggiamento che le diede Ching, impegnata a spazzolarle i capelli. Adesso Pucca riusciva a stare seduta con una pila di cuscini dietro la schiena e aveva anche ripreso a mangiare da sola, sia pure cibo liquido in quantità ridotta. Le avevano anche staccato definitivamente i macchinari che erano serviti per la respirazione e per monitorare il suo stato di salute durante il lungo coma. «Vedrai che presto riuscirai a fare molte altre cose.»
   La ragazza annuì, convinta delle proprie capacità. «Appena riuscirò ad alzarmi, mi darò da fare per essere la migliore fidanzata del mondo.»
   «Non ne dubito», le diede corda l’altra, chiedendosi se Garu sarebbe tornato ad essere l’oggetto principale dei suoi pensieri anche adesso, nonostante quello che era accaduto e il tempo trascorso. «Quando sarai fuori di qui, ti porterò in giro per negozi e compreremo tanti bei vestiti.» Non sarebbe stato soltanto un modo per distrarla, quello, ma anche e soprattutto una necessità: adesso che Pucca andava per i diciassette anni, non avrebbe certo potuto indossare nulla di quello che ancora si trovava nell’armadio della sua camera, rimasta esattamente com’era quando era entrata in ospedale. Nessuno dei suoi zii aveva avuto cuore di mettere via niente o di rimpiazzare questo o quell’oggetto con qualcos’altro.
   «Lo facevamo spesso?» domandò dopo qualche attimo di esitazione la fanciulla, non riuscendo proprio a ricordare né dei bei momenti passati con Ching, né della loro amicizia. Ogni volta che realizzava cose del genere, Pucca avvertiva un vuoto allo stomaco molto simile a quello della sua memoria, che le portava anche un senso di vertigine. I medici le avevano detto che non doveva sforzarsi nel tentativo di riportare a galla il passato, perché avrebbe potuto farle più male che bene, e lei cercava di seguire il loro consiglio, ma non era per nulla semplice. Aveva la sensazione di essere un pesce fuor d’acqua, calata dall’oggi al domani in una realtà sconosciuta. Era un po’ come se fosse venuta al mondo soltanto adesso, all’età di sedici anni ma con la mente libera come quella di un neonato. Forse, da che si era svegliata dal coma, era questa la ragione per cui le riusciva di memorizzare facilmente ogni singolo accadimento e ogni singolo volto che entrava in quella stanza per una visita di cortesia.
   Ching mise via la spazzola e tornò a guardarla negli occhi scuri. Le sorrise con tenerezza. «Sì», rispose. «Ma ciò non significa che non possiamo ricominciare a farlo.»
   Anche le labbra di Pucca si inarcarono verso l’alto e lei agitò le dita dei piedi come se fossero stati la coda di un cane impegnato a scodinzolare. «Che altro facevamo?» domandò allora. Se non doveva sforzarsi di ricordare, che almeno l’aiutassero gli altri a farla sentire meno vuota.
   «Giocavamo e passavamo moltissimo tempo con Abyo e Garu», le raccontò volentieri Ching, coprendole le gambe per evitare di farle prendere freddo. Dopotutto, per quanto il suo corpo rispondesse bene alle cure e alla riabilitazione, Pucca era ancora debilitata e aveva bisogno di tempo per riprendersi e tornare ad essere forte com’era stata da bambina. «Noi quattro eravamo inseparabili.»
   «Tu e Abyo state insieme?» volle sapere, abbassando il tono della voce per pudore nei confronti dell’amica.
   Quest’ultima sorrise più di prima. «Da un po’ di tempo», le confessò. Sarebbe stato sciocco nasconderle qualcosa di tanto ovvio. «Non è sempre tutto rose e fiori, ma i momenti di serenità sono di gran lunga più lunghi di quelli di screzio.» Subito dopo aver pronunciato queste parole, Ching si rese conto di quanto avesse avuto nostalgia della sua amica del cuore. Non che non ne avesse altre, di confidenti, ma nessuna era mai riuscita a prendere il posto di Pucca. Avvertì gli occhi farsi lucidi, ma si impose di resistere; se avesse pianto per ogni pensiero malinconico o spiacevole, non avrebbe neanche dovuto mettere piede nella camera d’ospedale della ragazza.
   Vide Pucca mordicchiarsi il labbro inferiore con una certa impazienza, come volesse chiederle qualcos’altro. E difatti così fece, poco dopo. «E io e Garu?» pigolò, guardandola da sotto in su. «Come sono andate le cose, fra me e lui?»
   Questa era una domanda scomoda. Ching non aveva pensato di parlarne prima con Garu, per cui non sapeva assolutamente cosa risponderle. Avrebbe dovuto raccontarle la verità o dirle soltanto che loro due erano stati fidanzati, sia pure per gioco, quand’erano bambini?
   «Non lo hai chiesto a Garu?» risolse di chiedere, cercando di trovare una soluzione a quel dubbio.
   «No», borbottò Pucca, crucciandosi ed intrecciando le braccia al petto. «Ogni volta che lo faccio, lui balbetta qualcosa, mi distrae con un’altra domanda e cambia discorso.»
   Oh, pensò Ching, concludendo che, dunque, il suo amico non avesse ancora deciso come comportarsi al riguardo. Ma non era neanche corretto lasciare Pucca in sospeso, per cui si ripromise di parlare al giovane non appena le sarebbe stato possibile.
   «Ma appena riuscirò a farlo», stava continuando frattanto la sua amica, testarda come sempre, «lo metterò alle strette e mi farò raccontare tutto.»
   Ching preferì non indagare riguardo ai metodi di persuasione che lei avrebbe adoperato per raggiungere il suo scopo, ora che era cresciuta; anche perché, a ben guardare, non erano davvero affari suoi. Era piuttosto colpa di Garu che, incautamente ma comprensibilmente, si era presentato alla fanciulla come il suo innamorato.

«Non avresti dovuto farlo», fu difatti ciò che gli disse quando, dopo aver lasciato l’ospedale, si recò a casa sua, nel fitto della foresta di bambù.
   Seduto sui gradini d’ingresso, Garu parve ascoltarla distrattamente, preso com’era dal lucidare la sua fedele katana. Anche se i suoi pensieri, negli ultimi sei anni erano stati rivolti perennemente alla piccola Pucca, il giovane non aveva mai smesso di dedicarsi anima e corpo ai suoi allenamenti e alle pratiche ninja; erano stati, al contrario, un ottimo modo per sfogare la rabbia e la frustrazione che molto spesso gli avevano tolto il sonno.
   «Garu…» ricominciò Ching, abbandonando il tono di tenue rimprovero in favore di uno molto più morbido e affettuoso. «Lo so cosa significa per te.» Non era vero, pensò lui con una certa irritazione: nessuno poteva sapere cosa rappresentasse Pucca per lui. «Però avresti dovuto essere più cauto nel parlarle.»
   «E non ti viene in mente che forse io le abbia detto esattamente quello che volevo dirle?» ribatté a quel punto, cercando di non lasciare che il nervosismo lo deconcentrasse ulteriormente dal proprio operato. Voleva bene a Ching come ad una sorella, ma riteneva che non avrebbe dovuto ficcare il naso in certe questioni. Lei non c’entrava nulla, né poteva rendersi realmente conto di quello che gli pesava nell’animo e, purtroppo, anche sulla coscienza.
   La ragazza tornò ad assumere nuovamente uno sguardo severo e strinse i denti nel tentativo di dominarsi. Ma non le riuscì tuttavia di porgli una domanda di basilare importanza. «Allora, dimmi, hai intenzione di illuderla per sempre?»
   Perché tutti si erano convinti di questo? Garu davvero non riusciva a capacitarsene. Nessuno gliene aveva ancora parlato, a dire il vero, ma era palese che non fosse soltanto Ching a pensarla in quel modo, e cioè che lui avesse assicurato a Pucca di essere il suo fidanzato per tirarla su di morale e, magari, compensare i propri sensi di colpa. Beh, non era così. Non lo era per nulla. Certo non poteva negare di sentirsi grandemente responsabile per quello che le era accaduto, ma Garu voleva davvero bene a Pucca. Era sempre stato così e così sarebbe sempre stato. Non poteva dire di amarla come Abyo amava Ching, era fuori discussione, foss’anche solo per il semplice fatto che, pur conoscendosi da una vita, adesso lui e Pucca erano quasi degli estranei l’uno per l’altra: lei non ricordava nulla di lui, e lui ricordava soltanto la bambina che era stata. Non c’era nulla di carnale fra loro; soltanto un immenso, profondo amore platonico. Forse non sarebbe bastato, in futuro, ma nel frattempo andava bene così e, con tutta probabilità, le cose sarebbero cambiate nel momento in cui, a Dio piacendo, Pucca avrebbe riacquistato i propri ricordi. E se non avesse mai potuto farlo, le sarebbe rimasto accanto comunque, se lei glielo avesse concesso, perché non aveva altra ragione di vita se non quella: era stato, dopo la rottura del voto del silenzio, il suo nuovo giuramento. E, come il primo, non lo avrebbe mai considerato un peso. Perché, in effetti, non lo sentiva affatto come tale.
   Abituato com’era a non parlare, e quindi a non condividere i propri pensieri con nessuno al di fuori di lui stesso, Garu si levò in piedi e, senza rispondere alla domanda dell’amica, rientrò in casa chiudendosi seccamente la porta alle spalle. Ching non provò neanche a richiamarlo indietro, ma non poté fare a meno di sentirsi peggio di prima perché, onestamente, non avrebbe saputo dire chi fra lui e Pucca fosse la persona più testarda che avesse mai conosciuto in vita sua.
   Sospirando, prese il posto di Garu sui gradini d’ingresso dell’abitazione e rimase a fissare il vuoto per alcuni istanti, senza riuscire a pensare a nulla. Si riscosse solo quando uno dei figli di Mio e Yani venne ad acciambellarsi sulle sue gambe. Quando Pucca aveva avuto quell’incidente ed era caduta in coma, Garu aveva deciso di prendersi cura della sua gatta; aveva già Mio a cui badare, dopotutto, perciò non gli sarebbe costato molto prendere con sé anche Yani, visto che, oltretutto, i due andavano molto d’accordo. Questione di tempo e, chiaramente, si era ritrovato la casa piena di cuccioli, anche se adesso erano cresciuti e, a loro volta, ne avevano messi al mondo altri. Pucca si era persa anche questo. Chissà, si erano chiesti i suoi amici, quanto sarebbe stata felice di sapere che la sua piccola Yani e il piccolo Mio avevano procreato… Ma Pucca non si ricordava neanche di loro. Era orribile, pensò Ching, sentendo gli occhi riempirsi di lacrime. E, questa volta, non le trattenne, preferendo sfogare tutta la propria tristezza adesso che poteva farlo.
   Garu la sentì singhiozzare attraverso la porta di carta di riso, ma rimase fermo dov’era. Non sarebbe servito a nulla andare a confortare qualcuno se lui per primo non sapeva come poter confortare se stesso. Ma, sul serio, quale consolazione poteva esserci dopo quanto era accaduto alla loro piccola Pucca?
   Seduto sul tatami con le ginocchia tirate al petto e gli avambracci poggiati su di esse, si domandò se sarebbe mai stato in grado di fare quello che stava facendo Ching adesso: piangere. Avrebbe tanto voluto, ne sentiva la necessità, feroce al punto da serrargli la gola e la bocca dello stomaco. Eppure, per quanto si sforzasse, non gli riusciva di versare una sola lacrima. Yani strusciò il musetto contro la sua gamba e Garu si volse a fissarla con sguardo spento: l’aveva voluta con sé perché era un modo come un altro per avere qualcosa di Pucca in giro per casa. Da quando era rimasta immobilizzata a letto, la sua vita era diventata spaventosamente triste. E vuota. Troppo calma, troppo grigia. Preso com’era sempre stato dai propri esercizi ninja, il giovane non avrebbe mai creduto di poterlo ammettere con quella sicurezza sconvolgente; eppure, senza di lei, che per tanto tempo gli aveva ronzato attorno spensieratamente e fin troppo affettuosamente, la sua vita aveva perso tutto il suo significato. Forse era vero che un bambino di dodici anni non sapeva amare come un adulto, ma questo non implicava necessariamente che la quantità dei due diversi sentimenti fosse altrettanto differente.












Giuro che stavolta non è stato facile star dietro a questa storia. Mi sono impelagata in un argomento parecchio delicato e ovviamente temo anche di aver combinato un bel patatrac, soprattutto riguardo a tutta la parte medica. Se c'è qualche esperto che possa bacchettarmi per la mia incompetenza in proposito, non esiti a farsi avanti! :'D
A parte ciò, annuncio subito che la fanfiction conta di quattro capitoli: ho passato gli ultimi cinque giorni a scriverla nella sua interezza, ecco perché nel frattempo non ho postato nulla. Per esperienza, preferisco finire una long prima di postarla sul sito, ché ho sempre paura che mi passi l'ispirazione a metà strada e lasci i lettori con un palmo di naso (mi è successo troppe volte in passato, quindi sarei una demente a ripetere l'errore in continuazione).
Detto questo, non so quanto siano IC i personaggi (considerando ciò che è capitato e il fatto che siano passati diversi anni), ma in caso voi crediate ce ne sia bisogno, aggiungerò più che volentieri l'avviso di OOC. Sappiatemi dire.
Al prossimo capitolo!
Shainareth





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Capitolo 2
*** Capitolo secondo ***





CAPITOLO SECONDO




Quando fu loro consentito di entrare, rimasero entrambi impalati sulla soglia d’ingresso della stanza, gli occhi sgranati e le bocche socchiuse per lo stupore. «Per la miseria!» fu l’esclamazione che si lasciò sfuggire Abyo, facendole ridere. «Ma quanto sei alta?»
   Pucca non avrebbe saputo rispondere a quella domanda perché, in effetti, non ne aveva idea. Si rendeva però conto che Ching era più bassa di lei e che, a questo punto, si poteva anche supporre, forse erroneamente, che tutto il tempo che aveva dovuto passare a letto le avesse in qualche modo consentito di crescere in statura più del normale. Si strinse perciò nelle spalle e domandò: «Ti secca ch’io sia alta quasi quanto te?»
   Sentendo gli altri ridere, Abyo corrucciò lo sguardo con aria seccata. «Sono ancora in fase di sviluppo», le assicurò, incrociando le braccia al petto.
   «Alla tua età?» lo prese in giro anche Garu, dandogli una leggera spallata. Benché fosse assai improbabile, non era da escludere che il loro amico potesse guadagnare ancora uno o due centimetri, ma comunque non sarebbe mai stato un gigante.
   «Invece di blaterare», li interruppe Ching, sostenendo l’altra fanciulla per un braccio, «che ne dite? Non è carina da morire?» Adesso che Pucca era in grado di alzarsi da sola, la sua amica non aveva perso tempo e si era data da fare per togliere di mezzo quelle maledette tenute ospedaliere e, almeno durante l’orario delle visite, farle indossare degli abiti adatti ad una qualunque ragazza della sua età. E, a onor del vero, le stavano anche bene.
   «Altroché», concordò Abyo, squadrando Pucca da capo a piedi. «Certo è lievitata quasi soltanto in altezza, ma è comunque una gran bella pupattola», affermò compiaciuto, facendola accigliare e mortificare per la mancanza di un seno prosperoso come quello di Ching.
   «Potevi limitarti a dire di sì», lo redarguì quest’ultima, mentre Garu lanciava uno sguardo tutt’altro che amorevole al suo amico di una vita. Chi se ne importava se Pucca non portava una quarta, una terza o quel che era? In effetti, Garu non era molto pratico di quel genere di misure come poteva esserlo Abyo… Ad ogni modo, a lui interessava soltanto che la sua piccola Pucca continuasse a fare progressi e che potesse uscire il prima possibile da quel dannato ospedale.
   Quando riportò la propria attenzione su di lei, notò che lo stava fissando con occhi lucenti di gioia e… Cos’era quella?, si domandò il giovane ninja con un vago senso di disagio. Speranza? Si rese improvvisamente conto di non aver ancora detto mezza parola di apprezzamento riguardo all’aspetto della sua fidanzata e perciò, pur sentendosi in imbarazzo anche per via della presenza di altra gente, benché si trattassero soltanto di Abyo e Ching, si schiarì la gola e mormorò: «Stai molto bene.» Era il massimo che poteva fare, purtroppo per lui. Dopotutto, cos’avrebbe dovuto dirle? Qualcosa di poco delicato come aveva già fatto Abyo? Oppure, e sarebbe stato di gran lunga più sincero, farle i complimenti per l’essere cresciuta davvero bene? Eh, sì, non lo si poteva negare. Nessuno di loro, forse, se n’era accorto se non nel momento in cui Pucca era stata in grado di riprendere colore in volto, di mettere su qualche chilo, di alzarsi in piedi e di indossare nuovamente qualcosa che la facesse apparire un’adolescente come tante altre. Beh, magari non proprio come le altre, perché era sempre stata graziosa fin da bambina e, con gli anni, lo era diventata ancora di più. O forse, si chiese Garu, la bellezza che lui scorgeva nei suoi lineamenti era solamente il frutto del grande affetto che provava nei suoi confronti? Chi se ne frega, concluse con se stesso, scrollando mentalmente le spalle e allargando le labbra in un sorriso, che Pucca ricambiò all’istante, grata per le sue parole.
   L’opinione di Garu, per lei, era la più importante. Certo, anche se lui le aveva assicurato di essere il suo fidanzato, la fanciulla non poteva dire di conoscerlo davvero bene, perché non ricordava nulla riguardo al rapporto che li aveva uniti prima che cadesse in coma. Stava legando con tutti loro come se fosse stata la prima volta ed era lieta di trovarsi bene in loro compagnia, al punto che ormai, a distanza di tutte quelle settimane, poteva considerarli davvero degli amici. E, forse, Garu era davvero soltanto tale, dal momento che non era capitato niente che fosse degno di nota fra loro due; ma a Pucca andava bene così. Una volta uscita dall’ospedale, avrebbe avuto tutto il tempo che voleva per imparare a conoscerlo per bene ed eventualmente a poter giurare di essere davvero innamorata di lui proprio come credeva che fosse. Si sentiva un po’ sciocca, in realtà, a considerare la faccenda unicamente da un punto di vista fisico – Garu era obiettivamente un bel ragazzo e nessuno avrebbe potuto negarlo – e a basarsi solo sulle sensazioni fisiche che lui le comunicava involontariamente, ma Pucca non poteva farci niente. E poi, a voler essere sincera, era già rimasta incantata da alcune abitudini del giovane, come ad esempio il suo modo di parlare o anche solo quello di muovere le mani. Per non parlare per le espressioni del suo volto. Inoltre, in qualche modo la sua vicinanza aveva lo straordinario potere di rassicurarla, e questa era una sensazione che con l’attrazione fisica non aveva nulla a che vedere.
   «Ho voglia di andare fuori», fu il desiderio che espresse d’improvviso. Sapeva di non poter ancora compiere molti passi, soprattutto senza un fermo sostegno, ma anche i medici le avevano consigliato di prendere aria non appena si fosse sentita fisicamente meglio e fosse stata dell’umore per farlo. In verità, nessuno si era sorpreso che il morale di Pucca fosse sempre alto e che lei continuasse a fare progetti per il futuro: anche in questo non era cambiata di una virgola.
   Dopo essersi scambiati un veloce sguardo d’apprensione, gli altri convennero che forse quella della loro amica non era una cattiva idea. «Vado a chiedere se ci lasciano usare una sedia a rotelle», si offrì allora Abyo, uscendo subito dalla stanza.
   «Peccato», sospirò Pucca, appoggiandosi con la mano libera alla struttura del letto, sul quale si sedette lentamente in attesa di poter finalmente mettere piede fuori da lì. Non era tipo pigro, e anche se questo non poteva ricordarlo, sentiva dentro di sé che così doveva essere sempre stato. «Speravo che fossi tu a portarmi fuori, sollevandomi fra le braccia o magari reggendomi sulle spalle», affermò sfacciatamente, occhieggiando con fare civettuolo verso Garu.
   Questi corrucciò la fronte, sconcertato: per essere affetta da amnesia ed aver passato a piè pari la fase della pubertà, ritrovandosi dall’oggi al domani in piena adolescenza, Pucca sapeva fin troppo bene come attirare l’attenzione di un uomo. Ching ridacchiò divertita, facendogli finalmente comprendere che si trattava soltanto di uno scherzo. Tanto che Pucca lo fissò con tenerezza e, con suo grande scorno, domandò all’amica: «È sempre così adorabilmente ingenuo?»
   «Strano, per uno grande e grosso come lui, eh?» le diede man forte l’altra, facendo stizzire Garu più di prima. E notando la sua espressione, Ching volle rassicurarlo. «Tranquillo, per ora la finiamo qui.» Il giovane sbuffò, spostando il peso del corpo da un piede all’altro, prima di decidere che, dopotutto, era meglio aspettare Abyo in corridoio.
   Quando però quest’ultimo fu di ritorno con la sedia a rotelle, gli lanciò uno sguardo spazientito che Garu comprese solo quando lo sentì parlare sottovoce. «Stai molto bene», gli fece il verso Abyo, quasi sbuffando. «Cerca di essere un po’ più esplicito nei tuoi complimenti», gli consigliò, fermandosi a pochi passi dall’uscio della camera. Il ninja corrucciò la fronte, domandandosi cosa intendesse dire il suo amico. «Noi due dovremo fare una bella chiacchierata», lo avvisò quello, scuotendo il capo con fare sconfortato e spingendo la sedia per raggiungere le ragazze. «Una chiacchierata da uomo a uomo», aggiunse, prima di sparire nella stanza e di lasciarlo ritto e solo nel corridoio come un palo solitario in mezzo alla strada.

Non se n’era mai reso conto, ma gli piaceva l’odore della sua pelle. Aveva potuto sentirlo solo quel pomeriggio quando aveva sollevato Pucca fra le braccia per davvero e l’aveva adagiata sul letto, stanca del giro fatto nel giardino dell’ospedale. Era stato un contatto davvero breve, ma tanto era bastato. Garu si domandò se non fosse il profumo di un qualche sapone particolare che le aveva portato Ching, quel giorno. O forse era una crema per il corpo? In ogni caso, era un odore gradevolissimo. Al punto che, se avesse potuto, sarebbe rimasto vicino a Pucca molto più a lungo.
   «Ching», chiamò allora, decidendo che non ci sarebbe stato nulla di male a chiederlo direttamente a lei. I suoi amici, che lo precedevano lungo la strada che li avrebbe condotti verso il Goh-Rong, dove avrebbero portato notizie di Pucca ai suoi zii, si volsero entrambi nella sua direzione e questo, in qualche modo, inibì il ninja che si fece cogliere dalla sua solita timidezza in fatto di donne – e di Pucca in particolar modo.
   «Che c’è?» lo spronò Ching, vedendolo incerto. «Qualcosa non va?»
   No, affatto. Solo che, improvvisamente, era stato colto dal dubbio che, forse, la domanda che stava per porle poteva essere fraintesa. Quelli che aveva davanti, però, erano i suoi migliori amici, quindi sicuramente avrebbero capito e non avrebbero affatto interpretato male la sua curiosità. Decise di parlare, sia pure con un certo imbarazzo.
   «Hai… fatto usare a Pucca qualche sapone particolare? O una crema o…»
   «No», rispose la ragazza, interrompendolo perché consapevole dello sforzo che stava facendo il giovane. Sebbene fossero ormai passate diverse settimane da quando aveva rotto il voto del silenzio, Garu non era ancora del tutto avvezzo a parlare, soprattutto riguardo a certe faccende. «Io mi sono limitata a portarle quei vestiti. Alla sua igiene personale pensano ancora le infermiere», spiegò.
   Il ninja assunse un’aria pensierosa. Dunque a cosa era dovuto quel piacevole odore che aveva potuto sentire sulla pelle della fanciulla?
   «Perché me lo hai chiesto?»
   Si strinse nelle spalle con fare impacciato, non sapendo dove posare gli occhi, come se avvertisse inconsciamente che ci fosse qualcosa di sbagliato in tutto quello. «È che mi pareva che usasse qualche profumo particolare…»
   «Io non ho sentito niente.»
   «Neanch’io», confermò Abyo con noncuranza. Ma poi un lampo lo colse e comprese cosa stesse accadendo. Perciò, ridendo sommessamente, decise di chiarirgli ogni cosa. «Pare che la piccola Pucca non sia più così tanto piccola, eh?», cominciò, attirando la sua attenzione. «Sai, esistono delle cose chiamate feromoni», gli rivelò in tono paziente, convinto che Garu non ne avesse mai captati in vita sua. Così era, in effetti, ma probabilmente non era delicato farglielo notare davanti a Ching.
   La quale emise un flebile Oh! e abbassò e distolse lo sguardo, arrossendo lievemente e sorridendo intenerita. Quanto a Garu, invece, rimase senza parole. Non che fosse una novità, per lui, a ben guardare. Tuttavia, sul serio, non aveva minimamente pensato che potesse trattarsi di una cosa del genere. Davvero quello che aveva sentito era soltanto l’odore della pelle di Pucca? Davvero era capace di deliziarlo fino a quel punto? Il solo pensiero lo fece avvampare e lui si pentì enormemente di aver aperto bocca al riguardo.
   Abyo rise più forte, tanto per sottolineare la propria mancanza di sensibilità riguardo a certi argomenti. «Non fare quella faccia da ragazzino», lo riprese con affetto, arrestando il passo e facendo fermare di conseguenza anche gli altri. «Ora vieni qui e annusa Ching.»
   «Che?!» annasparono loro due, allibiti.
   «È solo un esperimento scientifico», spiegò lui, certo di quel che diceva. «Per me Ching ha un odore che…» La fanciulla gli schiaffeggiò il braccio, indignata. «Va bene, va bene, sto zitto», si arrese Abyo, ruotando gli occhi al cielo. «Però, sul serio, lascia che Garu ti annusi. Sarà una sorta di prova del nove.»
   «Non sono un cane che va in giro ad annusare la gente», protestò il ninja, cacciandosi le mani in tasca con fare seccato. E poi lo imbarazzava fare una cosa del genere a qualcuno. Con Pucca era capitato, non lo aveva fatto di proposito.
   «Se non dovessi sentire nulla di particolare», stava continuando intanto Abyo, ignorando la sua disapprovazione, «vuol dire che è Pucca a… beh, a farti quel particolare effetto.» Garu avvampò più di prima, ma non rispose a quella provocazione. «Altrimenti…» E qui Abyo fece un vago gesto con la mano, lasciando la frase a metà e stuzzicando una morbosa fantasia nella propria ragazza.
   «Cosa?» volle sapere difatti lei.
   Il giovane si volse nella sua direzione e, fingendo di nascondere la bocca dietro alle dita, rispose: «Altrimenti vuol dire che ha solo bisogno di sfogarsi, non importa con chi.»
   Ching sospirò profondamente, provando pena per il povero Garu che, difatti, avvertì l’insana voglia di picchiare il suo migliore amico. «Non annuserò proprio nessuno!» sbottò allora, in tono irremovibile, stringendo i pugni nelle tasche per evitare di cedere a qualsivoglia tentazione.
   Abyo scosse le spalle. «Okay», si limitò ad assecondarlo, benché fosse convinto che le cose stessero proprio così come aveva spiegato. Anzi, era persino convinto che non ci fosse neanche bisogno di quello che lui aveva definito esperimento scientifico, perché se era stata Pucca a scatenare quel genere di curiosità in un tipo apparentemente frigido come Garu, qualcosa voleva pur dire. In fin dei conti, era impossibile anche che al ninja non fosse mai arrivato l’odore della pelle di Ching, sia pure accidentalmente, durante tutti quegli anni di amicizia: oltre a trascorrere molto tempo insieme, si allenavano anche nella medesima palestra, eppure Garu non aveva mai fatto cenno alla questione.
   «Abbiamo un ninja innamorato», non si risparmiò comunque dal confidare Abyo a Ching a mezza voce, mentre si voltava per riprendere il cammino.
   «Smettila di prenderlo in giro», lo rimbrottò affettuosamente lei, sebbene cominciasse a pensarla allo stesso modo. Se pure all’inizio aveva dubitato della faccenda, arrivando anche a lamentarsene con il diretto interessato, adesso iniziava davvero a credere che Garu non stesse affatto illudendo Pucca, perché, a quanto pareva, si stava seriamente interessando a lei anche in quel senso. Forse era stato un po’ avventato, questo era innegabile, ma il tempo gli stava dando ragione.
   L’unico a non condividere tale opinione, chiaramente, era proprio Garu, che rimase fermo ad osservare le loro schiene che si allontanavano senza vederle realmente. Possibile che l’amore platonico che era stato convinto di provare fino a quel momento per Pucca si stesse sul serio tramutando in qualcosa di diverso? Un crampo allo stomaco gli fece comprendere che l’idea di provare quel genere di attrazione per lei non gli piaceva affatto. Non per partito preso, quanto semplicemente perché lo faceva sentire sporco: lei era sempre stata la sua piccola Pucca. Detestava pensare a lei come a qualcosa capace di risvegliare i suoi istinti primordiali, anche se questi ultimi erano legittimi, soprattutto per un ragazzo della sua età. Aveva lavorato così tanto su se stesso per mettere a tacere gli ormoni, in tutti quegli anni, e adesso ci stava cascando con tutti e due i piedi, come un qualsiasi altro uomo?
   Merda, imprecò fra sé, riprendendo a seguire i suoi amici, lo sguardo basso e pensieroso. Se le cose stavano davvero come aveva detto Abyo, come avrebbe dovuto comportarsi? Avrebbe dovuto lasciare che facessero il loro corso o forzarsi a rimanere come sempre impassibile al fascino femminile? A quest’ultima cosa, dopotutto, ci era abituato e non gli sarebbe neanche costato molto. In cuor suo, tuttavia, sentiva che qualcosa stava sensibilmente cambiando e che forse, davvero, egli non sarebbe stato in grado di fare nuovamente violenza su se stesso. Non se si trattava di Pucca. Perché lei era stata l’unica, fino a quel momento, a risvegliare la sua coscienza e, a quanto pareva, persino quello che lui aveva sempre ritenuto il lato meno nobile del proprio animo. E Garu, per quanto si fosse sempre arrogantemente definito un uomo incorruttibile, ora non poteva più negare, almeno a se stesso, che un’unica donna fosse maledettamente capace di stravolgere ogni cosa soltanto con il naturale odore della propria pelle. E con gli occhi a mandorla. E il sorriso. E la sua semplice esistenza.
   Il giovane si lasciò scappare una sorta di rauco, rabbioso ruggito che richiamò nuovamente l’attenzione di Abyo e Ching. Questi ultimi si accorsero subito del suo turbamento interiore, ma questa volta preferirono tacere. Era una guerra che Garu doveva affrontare da solo. Anche se, lo sapevano tutti e tre, avrebbe finito irrimediabilmente per perderla.

E la perse davvero nel giro di una manciata di settimane, allorché si rese conto di non riuscire a pensare più a Pucca come la bambina che si era addormentata quasi sette anni prima. Quando andava a trovarla in ospedale, la sua sola vista lo mandava in confusione e lo riempiva al contempo di una sensazione di piacevole compiacimento, soprattutto quando incrociava il suo sguardo – e questo accadeva spesso, dal momento che la ragazza non aveva occhi che per lui. Se entravano in contatto, poi, era anche peggio. O forse meglio, a seconda dei punti di vista. Ogni volta che le si avvicinava, l’invitante profumo della sua pelle lo travolgeva con tenera prepotenza e lui se ne riempiva le narici e i polmoni, così da portarlo via con sé anche quando era costretto a far ritorno a casa. E quel ricordo, insieme a quello dei suoi sorrisi e della sua voce, lo cullava durante le ore di solitudine, rendendogli dolci persino le ore notturne. L’insonnia quasi scomparve e lui ricominciò a sperare in un futuro migliore di quello a cui si era rassegnato negli ultimi anni. Magari proprio insieme a Pucca.

«È nata proprio poco fa», stava dicendo Ching quando lui e Abyo tornarono da loro con delle bibite calde. Anche se era ormai autunno e iniziava a tirare aria fresca, Pucca non voleva saperne più di rimanere in camera anche durante l’orario delle visite, e quindi pretendeva che i suoi amici o i suoi zii l’accompagnassero fuori, specialmente adesso che aveva ricominciato a camminare, sia pure lentamente e per brevissimi tratti. «L’abbiamo vista uscire dalla sala parto con la madre ed era bellissima», continuava Ching, prendendo il proprio tè fra le mani e ringraziando i ragazzi con un sorriso.
   «Mi sarebbe piaciuto vederla», commentò Pucca, affascinata dal racconto dell’amica che, insieme ai due giovani, si era trovata a passare per i corridoi dell’ospedale proprio nel momento in cui stavano riportando in camera una mamma stremata per il parto e con la propria creatura fra le braccia. «Magari più tardi passerò dalla maternità e lo farò davvero», ponderò Pucca, mentre Garu si accomodava al suo fianco e le porgeva la sua tisana. Il calore di quest’ultima sulle mani era senz’altro piacevole, ma nulla se confrontato alla vicinanza del giovane, che le riscaldava sia il corpo che il cuore con la propria presenza. «Che nome le hanno dato?»
   «Non l’ho chiesto», rispose Ching, sorseggiando il tè. «Ma mi è parso di capire che abbiano deciso di chiamarla Heidi.» Garu inarcò un sopracciglio, avvertendo un brivido sinistro lungo la schiena.
   Pucca fece una faccia disgustata. «È orrendo», gracchiò con poca delicatezza.
   «Solo perché è un nome straniero non significa che sia necessariamente brutto», replicò l’altra, non condividendo il suo parere.
   «Non è questo il punto», la contraddisse lei. «È quel nome che proprio non mi piace.»
   «Perché?»
   «Non lo so», borbottò confusamente. «So solo che lo trovo… fastidioso
   Questa volta Garu non poté fare a meno di inarcare anche l’altro sopracciglio, domandandosi se davvero quel nome non incontrasse i gusti di Pucca o se, piuttosto, ci fosse dell’altro sotto. Heidi, difatti, era il nome di quella ragazzona svizzera che, anni prima, aveva giurato di essersi innamorata di lui e che voleva costringerlo a sposarla. La faccenda, com’è logico supporre, non era andata minimamente giù alla sua fidanzatina, che non aveva esitato a prendere letteralmente a pugni quella stangona bionda per riprendersi il proprio adorato ninja. Forse il fastidio provato adesso da Pucca era solo una mera coincidenza, eppure Garu non riuscì a non aggrapparsi alla remota speranza che fosse l’ombra di un ricordo che si affacciava alla sua memoria danneggiata dal trauma cranico riportato durante il terribile incidente che ella aveva subito.
   Una folata di vento fece rabbrividire tutti e quattro, costringendoli a farsi più vicini gli uni con gli altri. Ma poi la malizia femminile ebbe la meglio su Pucca che, sorridendo vezzosamente, si rannicchiò contro la spalla del ninja, facendolo irrigidire all’istante. E mentre lei si crogiolava nel tepore del suo corpo, lui avvampava e lanciava uno sguardo allarmato ai suoi amici: cos’avrebbe dovuto fare? Per amor di pace, Ching ingoiò una risata e tornò a sorseggiare la propria bibita, decidendo che quel genere di suggerimenti dovevano venirgli da un altro uomo, anche se poco romantico come Abyo. Quest’ultimo, difatti, per quanto ottuso potesse essere nelle proprie relazioni personali, era invece assai sveglio riguardo alle faccende altrui; e pertanto accorse ben volentieri in aiuto dell’amico, facendogli cenno di passare un braccio attorno al corpo di Pucca. Garu lo guardò inorridito: non avrebbe mai potuto farlo, per la miseria! Sarebbe stato come approfittarsi della situazione! Scosse il capo, deciso a non accettare quel consiglio così sfacciato. Fu Abyo, a quel punto, a inorridire: quanto era imbecille, il suo amico?! Era palese che Pucca non aspettasse altro che un abbraccio. Ed era altrettanto palese che lo volesse da Garu.
   Quello scambio di sguardi, comunque, non durò a lungo. Ci pensò la stessa Pucca a interromperlo, perché, spazientita dall’indecisione dell’amato, gli prese forzatamente il braccio e se lo passò da sola attorno alle spalle, costringendolo ad un contatto più intimo di prima. Stavolta Ching non trattenne un sorriso divertito e Abyo ruotò gli occhi al cielo, rassegnato all’idea che sarebbe stata sempre Pucca a portare i pantaloni nella vita di coppia. Quella chiacchierata fra uomini che si era ripromesso di fare a Garu non poteva essere più rimandata.
   Quanto al ninja, rimase spiazzato: l’audacia di Pucca lo aveva colto di sorpresa, certo, eppure egli avvertì una sorta di nostalgia per gli anni dell’infanzia che lo portò immancabilmente ad un senso di quieta agitazione. Era un sentimento paradossale che non avrebbe saputo davvero definire a parole, ma che aveva già avvertito in passato sempre a causa di Pucca e che lui aveva sempre bollato come uno stato di rassegnata ansia che lo portava ad assecondare i suoi capricci per non avere fastidi peggiori. Adesso, però, qualcosa era cambiato e forse c’entrava davvero il fatto che fossero entrambi cresciuti.
   Abbozzando un sorriso imbarazzato, Garu si arrese a se stesso e rese più saldo l’abbraccio in cui era stato costretto. Se a Pucca andava bene, allora andava bene anche a lui. Almeno fintanto che si fosse trattato di qualcosa di così innocente. A tutto il resto… beh, ci avrebbe pensato con calma, quando sarebbe arrivato il momento. E, senza dubbio, avrebbe ignorato tutti i commenti di Abyo in proposito; erano troppo diversi per vederla allo stesso modo riguardo a certe faccende. Garu aveva bisogno dei suoi tempi, per quanto secolari potessero apparire agli occhi degli altri, e sicuramente, vista la delicata situazione in cui si trovava, Pucca necessitava di sicurezze prima di lanciarsi a capofitto in una qualsivoglia avventura amorosa – ammesso che così fosse lecito chiamare l’attrazione che continuava a crescere fra loro. La salute della ragazza aveva la priorità su ogni altra cosa.












E siamo giunti a metà.
Se devo essere onesta, non mi aspettavo così tanto entusiasmo da parte vostra per questa storia; mi avete piacevolmente stupita e, di conseguenza, resa tanto, tanto felice! ♥
Ringrazio perciò di tutto cuore chi ha inserito la presente fanfiction fra le storie seguite/preferite e Hisoka chan, SoGi92 e keisisinani per le loro recensioni - ma anche tutti gli altri silenziosi lettori.
Credo che posterò il prossimo capitolo non prima di giovedì. Intanto, però, penso che posterò un'altra shot (probabilmente domani), anche se è ancora in fase di stesura.
Un abbraccio a tutti e a presto!
Shainareth





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Capitolo 3
*** Capitolo terzo ***





CAPITOLO TERZO




Fu molto più che emozionante quando, mettendo per la prima volta piede all’interno del Goh-Rong, il ristorante dei suoi zii nonché casa sua, trovò tutti gli abitanti del villaggio insieme ad aspettarla e ad accoglierla nuovamente fra loro. La sala, addobbata a festa per quel benvenuto, era gremita di gente che si era recata lì con l’unico proposito di congratularsi con lei per il traguardo raggiunto: era stata in grado di rimettersi completamente in salute, almeno da un punto di vista fisico, e aveva potuto lasciare l’ospedale con l’impegno di tornarci per visite di routine. Ma, soprattutto, dopo ben sette anni poteva di nuovo vivere come tutti gli altri.
   Molti dei volti che le sorridevano e la guardavano commossi le erano estranei, ad esclusione di quelli di chi era andato più volte a trovarla durante i lunghi mesi di riabilitazione e dei quali ella si ricordava piuttosto bene. Primi fra tutti i genitori di Ching e Abyo, ma anche Dada, il cameriere del Goh-Rong, Ssoso e Ring Ring. Quest’ultima, in particolare, si era presentata a lei con quello che le era parso un vago imbarazzo e soltanto in seguito la stessa Ching le aveva spiegato che Ring Ring, oltre ad essere sua cugina, era anche un tipo particolare e che, in passato, si era scontrata più volte con lei a seguito di sciocche dispute fra ragazzine. Probabilmente, dunque, era stato per questo che a Pucca era parsa a disagio durante le sue sparute visite in ospedale. Tuttavia, poiché lei non ricordava affatto di quei litigi e per di più ormai fosse passato tanto tempo, riteneva assurdo che Ring Ring continuasse a rimuginarci sopra, temendo di non esserle gradita. Ammesso che fosse realmente questa la ragione del suo imbarazzo nei suoi riguardi, si intende.
   Per quanto si sentisse lusingata per tutta quell’affettuosa accoglienza, la moltitudine di gente riunita lì, e alla quale non era più abituata, cominciò a disorientare Pucca. Non ebbe cuore di farlo notare a qualcuno, comunque, perché ognuna di quelle persone era lì apposta per lei e perciò andava bene così. Avrebbe riposato più tardi, con calma, quando le sarebbe finalmente stato possibile ritirarsi in camera sua per concedersi una bella dormita che l’avrebbe rimessa in sesto dopo l’affaticamento che l’aveva immancabilmente colta lungo il tragitto dall’ospedale. Era stato Bruce, il padre di Abyo, a darle volentieri un passaggio fino a casa sulla propria volante della polizia, e lei e i suoi amici avevano scherzato e riso non poco riguardo alla fantasia che finalmente l’avrebbero portata al fresco dopo tutte le pazzie commesse in passato.
   «Oh, andiamo!» aveva esclamato Pucca, sgranando gli occhi con fare incredulo. «Quali follie avrei commesso?» L’elenco era stato abbastanza prolisso da coprire gran parte della durata del viaggio fino a casa. «Beh, se quell’esaltato avesse subito acconsentito a firmarti la copia del libro», aveva poi detto a Garu, riguardo ad uno dei tanti episodi che le erano stati raccontati, mostrandosi stizzita come se fosse appena successo, «non si sarebbe ritrovato svergognato in quel modo davanti a tutti.»
   «Alla fine dell’esibizione, dovette correre in ospedale», le aveva fatto notare lui, ridendo, benché avesse collaborato involontariamente nella demolizione della reputazione del vecchio maestro Hiel Kikyu.
   «Beh, se lo era meritato», aveva esclamato la fanciulla, convinta di quanto stesse dicendo nonostante l’ilarità che aveva scatenato quella sua reazione genuina.
   Il lato veramente triste di quella chiacchierata, tuttavia, era stato che, nonostante il divertimento, lei era l’unica a non ricordare nulla di tutto quello. Aveva ascoltato ogni racconto come se fosse accaduto a qualcun altro e la sensazione che aveva provato non era stata affatto piacevole. Malgrado ciò, Pucca non avrebbe scoraggiato nessuno dal rievocare il passato che la riguardava, perché riteneva che solo in questo modo avrebbe potuto non soltanto scoprire qualcosa di più su ciò che la legava a questa o a quella persona, ma anche capire maggiormente se stessa. E poi magari, a furia di stuzzicare la memoria in quel modo, i ricordi sarebbero potuti tornare a galla ad uno ad uno. In ultimo, era innegabile che vi fosse di mezzo anche una mera curiosità da parte sua riguardo agli anni vissuti prima del coma. Come poterle dare torto?
   Sapendo di questa sua necessità, gli abitanti del villaggio avevano voluto omaggiarla di un regalo che avevano realizzato tutti insieme: ognuno di loro aveva donato a Pucca delle foto che le avevano scattato prima dell’incidente, testimonianza oculare della sua vita passata, e Ching le aveva raccolte in un enorme album, annotando sotto ad esse poche ma esaustive informazioni circa i vari avvenimenti lì immortalati. Fu un dono prezioso che Pucca accettò e apprezzò al punto da scoppiare in lacrime, perché quella era la prova tangibile che tutto quello che le avevano raccontato fino a quel momento rispondeva alla pura verità: lei e Garu avevano vinto il torneo di ping pong, i suoi zii avevano realizzato lo spaghetto più lungo del mondo, Garu era stato da lei costretto a vestirsi da fiore durante una festa in maschera, lei stessa era stata protagonista di un film locale intitolato I ninja e l’amore – e la locandina di tale discutibile capolavoro era ancora appesa in bella mostra proprio lì nella sala principale del ristorante.
   «E sono pure stata eletta Piccola Miss Sooga!» esclamò stupefatta, coprendo una risata dietro al palmo della mano, gli occhi ancora velati di lacrime. Accidenti, a Sooga doveva essere quasi considerata una celebrità!
   «Oh, per quello devi ringraziare quello sciocco di Garu», borbottò Ring Ring, che era stata sua rivale durante il concorso di bellezza.
   Pucca lanciò uno sguardo al giovane che si stava stropicciando un occhio, cercando forse di sfuggire all’imbarazzo. «Hai sempre avuto buon gusto», gli assicurò invece la fanciulla, deliziata dall’essere sempre riuscita, in qualche contorto modo, ad attirare l’attenzione dell’amato. Inutile dire che quell’affermazione, sia pure detta in tono confidenziale, causò nuove risate e uno sbuffo di protesta da parte di Ring Ring, che ruotò gli occhi al soffitto, senza riuscire comunque a trattenere un sorriso divertito.
   Il tempo in compagnia trascorse in fretta e la serata si concluse con dei sinceri ringraziamenti da parte della festeggiata a tutta la popolazione di Sooga. Sebbene non ricordasse un accidenti del passato, Pucca era certa di non aver mai ricevuto tanto affetto da parte di nessuno, né tanto meno un regalo prezioso quanto quello che adesso stringeva gelosamente al petto. Lo avrebbe sfogliato e risfogliato, letta e imparata a memoria ogni singola didascalia presente sotto a questa e quella fotografia e, ovviamente, custodito quell’album con estrema cura e tanto amore.
   Quando la sala si svuotò quasi del tutto, era ancora piuttosto presto; nessuno voleva che Pucca si stancasse troppo sin dal primo giorno fuori dall’ospedale, perciò furono tutti concordi a lasciarle gran parte della serata libera, in modo che lei avrebbe potuto disporre del proprio tempo come meglio avrebbe creduto, concedendosi una lunga chiacchierata con la propria famiglia e gli amici più cari oppure un bagno caldo e rilassante, seguito da una bella dormita da fare finalmente nel proprio letto, come quand’era bambina.
   In realtà, Pucca volle saltare a piè pari sia le chiacchiere che il bagno: era troppo stanca per rimanere ancora in piedi. Nessuno ebbe nulla da ridire in proposito e, anzi, fu esortata a fare tutto ciò che le pareva perché, adesso che era di nuovo a casa con loro, i suoi zii avevano giurato solennemente di viziarla come mai prima di allora.
   «Vuoi che ti accompagni di sopra?» le domandò Ching, preoccupata che, dopo essere stata alzata per tanto tempo, le gambe della sua amica non riuscissero a percorrere tutta la scalinata che portava al primo piano dell’edificio.
   «Hai già fatto tanto, per me», declinò gentilmente l’invito Pucca, poiché non voleva davvero più pesare su nessuno di loro. «E poi dovrò abituarmi a farlo da sola, quindi tanto vale cominciare subito.»
   La forza di volontà era uno dei migliori pregi della loro nipotina, e il solo sentirla parlare in quel modo, ridusse Zio Raviolo in lacrime. «Troverai la tua camera così come l’hai lasciata», le fece sapere, in preda all’emozione più totale.
   Quella notizia stuzzicò la fantasia della ragazza: curiosando fra la propria roba, avrebbe senza dubbio scoperto moltissime cose su se stessa e su quella che era stata. Dando perciò la buonanotte a tutti, si avventurò su per i gradini che portavano di sopra, sia pure lentamente e con fatica. Arrivata a circa metà della scalinata, però, fu costretta a sedersi per riposare un attimo e questo allarmò gli altri, che subito si mossero per raggiungerla e aiutarla.
   «Fermi dove siete, sto bene», vociò lei, sentendoli muoversi nella sua direzione. Tra le tante sfaccettature del proprio carattere che aveva imparato a conoscere negli ultimi mesi, e cioè da quando era uscita dal coma, la testardaggine spiccava prepotentemente sulle altre. Anche se, forse, ne sottovalutava un’altra di non secondaria importanza: la sfacciataggine. «A meno che il mio fidanzato non voglia portarmi fra le braccia, così da fare insieme le prove generali per il matrimonio», cinguettò scherzosamente, mandando in fiamme il giovane per l’imbarazzo che gli causarono sia quell’affermazione, sia le risate dei presenti.
   «Valla ad aiutare, per favore», lo pregò Linguini, sfregando una mano sulla sua spalla per fargli coraggio. «A te non dirà certo di no.»
   Sospirando quasi con la medesima rassegnazione di quand’era ragazzino, Garu accettò di farsi carico del peso della fanciulla, che si aggrappò al suo collo ancor prima che lui riuscisse a passarle un braccio dietro la schiena e l’altro sotto le ginocchia. Non era certo un sacrificio, anzi; poterle stare così vicino gli dava l’opportunità di toccarla, nel senso più puro del termine, e di potersi inebriare del suo meraviglioso odore, che ormai amava sopra ogni altro.
   «Potremmo andare in Groenlandia», esordì Pucca, mentre lui riprendeva a salire le scale.
   «Perché proprio lì?» s’incuriosì giustamente il ninja, non riuscendo a seguire il filo dei suoi pensieri.
   «Trovo romantico pensare di passare il viaggio di nozze in un igloo insieme agli Inuit», spiegò allora, ricordando quanto letto nei mesi di degenza sui vari libri che le avevano prestato i suoi amici. «E la notte sarà molto piacevole riscaldarsi.»
   Quest’ultima frase quasi la sussurrò, ma tanto bastò per mandare Garu in totale confusione, tanto che per poco non mancò un gradino e dovette far ricorso alla propria agilità di guerriero per non capitombolare giù dalla scalinata insieme a lei. Pucca rise, aggrappandosi maggiormente a lui, che preferì non commentare, limitandosi piuttosto a bofonchiare qualcosa che la fanciulla non riuscì a decifrare.
   Quando giunsero a destinazione, trovarono l’interruttore della luce a fatica, ma riuscirono anche in quell’impresa. «Ce la fai a reggerti in piedi?»
   «Sì…» rispose distrattamente la ragazza, guardandosi attorno con evidente smarrimento nell’espressione del volto. Garu seguì il suo sguardo e fu soltanto allora che ricordò che le pareti della camera di Pucca erano coperte di foto e gigantografie che lo ritraevano, sia pure all’età di circa dodici anni. Esitò un attimo prima di lasciarla andare e i piedi di lei furono nuovamente a contatto con il pavimento. Il giovane si accorse che aveva ricominciato a stringere al petto l’album che aveva portato con sé, ma questa volta ebbe come la sensazione che lo facesse in modo quasi spasmodico.
   «Tutto bene?» si azzardò a chiederle, pur con voce incerta, una mano ancora dietro la sua schiena per paura di vederla crollare a terra. O forse non aveva il coraggio di interrompere quel contatto? Probabilmente l’una e l’altra cosa.
   Pucca si mordicchiò il labbro inferiore, mostrando tutto il proprio nervosismo e, inconsciamente, comunicandolo anche al ninja. Infine, abbassò il capo. «Garu?»
   «Cosa?»
   Si volse a guardarlo e, con gli occhi lucidi, parlò.

Fu con aria sconvolta e incredula che, bianco in volto, il ragazzo tornò di sotto, attirando immediatamente l’attenzione degli altri che, invece, sulle prime avrebbero soltanto voluto chiedergli se Pucca gli fosse sembrata troppo stanca e si fosse perciò già messa a letto. Finirono piuttosto per domandargli cosa mai potesse essere accaduto per ridurlo in quello stato quasi catatonico.
   Garu alzò su di loro due occhi vitrei e, non riuscendo ad avvertire un’emozione ben precisa, rispose a fatica: «Mi ha… scaricato.» Seguì un lungo attimo di silenzio, durante il quale il giovane si lasciò cadere su uno degli sgabelli del ristorante, incapace di realizzare realmente cosa fosse appena successo. Aveva perfettamente inteso il discorso che Pucca gli aveva fatto, anche perché era molto più che sensato; lui stesso non poteva fare a meno di trovarlo giusto. Però… Però.
   «Stai… scherzando?» volle sapere Abyo, il primo a ritrovare la parola.
   Lo vide scuotere il capo, lo sguardo perso nel vuoto. «Mi ha davvero scaricato», ripeté più a se stesso che agli altri.
   «Perché? Che le hai fatto?» domandò Linguini, non riuscendo a credere a quelle parole.
   «Nulla!» esclamò il povero Garu, scattando sulla difensiva. Oltretutto non gli pareva il caso di riportare a terzi quel che Pucca gli aveva detto, poiché apparteneva a loro due soltanto; perciò preferì limitarsi a balbettare: «Credo… Credo che abbia solo bisogno di riordinare le idee.» Non era una bugia, anche perché, in fin dei conti, era stato quello il succo del discorso.
   «È naturale», fu il comprensivo commento che gli arrivò da Zio Raviolo, che gli batté un’affettuosa pacca sulla schiena. «Adesso che è tornata alla realtà di tutti i giorni, senza ricordare nulla, si sentirà più confusa di prima.»
   Garu affondò il viso nei palmi delle mani e Ho si offrì di preparargli una tisana calda, ritenendo che sarebbe stata l’ideale per farlo rilassare. I suoi fratelli lo seguirono in cucina, certi che il giovane ninja avesse bisogno di far ordine nei propri pensieri esattamente come Pucca; in effetti, insieme a loro, Garu era stato colui che aveva sofferto maggiormente per quella lunga disgrazia.
   Ching gli si sedette accanto e gli passò un braccio attorno alle spalle. «Come ti senti?»
   Quella domanda lo infastidì, eppure l’apprezzò lo stesso. «Non lo so», ammise, sia pure di malavoglia. La decisione di Pucca l’aveva tremendamente spiazzato e questo era facile da immaginare. Anche perché, ad essere onesto, mai si sarebbe aspettato qualcosa del genere, non dopo che lei, anche a distanza di tanti anni, gli avesse chiesto esplicitamente di diventare il suo ragazzo. Tuttavia, ripensando a quanto gli aveva appena detto, Garu non poteva muovere alcuna protesta al riguardo perché condivideva ogni singola parola pronunciata da quella bocca che adesso aveva imparato ad amare in ogni senso possibile.

Di sopra, frattanto, Pucca si era seduta a gambe incrociate sul letto e aveva aperto nuovamente l’album di fotografie per sfogliarlo con calma e attenzione, stringendo in grembo una bambolina di pezza che aveva le fattezze di quello che era stato Garu da ragazzino e che le aveva fatto sorgere il dubbio di essere stata forse seriamente ossessionata da lui, in passato. Ma non era stato propriamente questo a sconvolgerla e a farle prendere la decisione che aveva comunicato al giovane.
   Tirando su col naso e passandosi il dorso di una mano sul viso per evitare che le lacrime che le grondavano prepotentemente giù dagli occhi finissero con l’inzuppare l’album, fissò lo sguardo su molte delle foto in cui compariva insieme a quello che era stato il suo fidanzato fino a pochi minuti prima: quegli scatti potevano anche sembrare buffi e suscitare il riso, a primo acchito, ma Garu non sorrideva in nessuno di quelli in cui lei lo abbracciava o gli scoccava un bacio sul volto. Era stata la prima cosa che l’aveva colpita sin da quando aveva sfogliato l’album per la prima volta. E le aveva fatto male al cuore. Non perché ritenesse Garu un maledetto idiota, incapace di accettare il suo affetto, quanto perché probabilmente era stata lei a dargli il tormento per tanto tempo. E anche se quel genere di dissapori, dopo tanti anni, potevano essere dimenticati com’era stato per Ring Ring, Pucca non poteva ignorare un’altra cosa di fondamentale importanza: lei non sapeva nulla del ragazzino che la scrutava con fare accigliato dalle foto appese alle pareti della stanza; peggio ancora, non sapeva nulla nemmeno di se stessa. Gli altri le avevano raccontato tantissime cose al riguardo, certo, ma rimaneva il fatto che ricordare di aver vissuto era ben altra cosa. E poi, cos’era accaduto a tutti gli altri mentre lei era rimasta a giacere immobile e incosciente in un letto d’ospedale? Loro vivevano e lei vegetava. Aveva perso sei anni della propria vita e nessuno mai glieli avrebbe restituiti.
   Pianse più forte quando alla mente le sovvenne l’espressione affranta con cui Garu aveva ascoltato, compreso e accettato la sua decisione di rompere il loro fidanzamento. In verità, entrambi sapevano che si trattava di un legame fittizio, perché mai nulla di realmente romantico era capitato fra loro. Ciò nonostante, si erano accorti che sarebbe bastato ben poco per renderlo autentico, perché era chiaro che si volessero bene sul serio e che fossero attratti l’uno dall’altra sotto ogni punto di vista. Pucca poteva essere smemorata, ma non certo stupida. Era per questa ragione che, pur sentendo una voragine nel petto, aveva preferito riportare il loro rapporto sul piano dell’amicizia, sia pure soltanto a parole. Non si illudeva certo di poter davvero recuperare i propri ricordi, né voleva aspettare che ciò accadesse prima di ripartire alla carica nel tentativo di costruire qualcosa insieme a Garu; semplicemente, voleva che tutto avvenisse nei tempi giusti, fra di loro, e non in conseguenza ad una proposta che lei gli aveva fatto con leggerezza non appena se l’era ritrovato davanti, una volta uscita dal coma. Inoltre, e questo Pucca non poteva negarlo a se stessa, per quanto credesse nella buona fede e nei sentimenti del giovane, rimaneva forte il timore che lui l’assecondasse inconsciamente a causa dei sensi di colpa scaturiti dall’incidente che l’aveva ridotta in fin di vita, dando inizio a tutta quella maledetta situazione.












Spero di non aver creato confusione con l'introspezione di Pucca, in questo capitolo. Insomma, che lei sia confusa penso sia normale; tuttavia, gradirei che almeno chi legge questa storia abbia chiaro quello che scrivo, ecco. XD
A parte ciò, ho ritenuto che questa rottura fra Garu e Pucca fosse necessaria per tutti i motivi spiegati in questo capitolo: hanno entrambi bisogno di rifiatare e riordinare le idee senza essere legati da un vincolo "ufficiale" (che poi non era proprio tale, ma va beh), che sicuramente influisce da un punto di vista psicologico. È vero che Pucca ha bisogno di certezze e quindi Garu, come fidanzato, sarebbe stato un'ottima àncora a cui aggrapparsi, ma è pur vero che è principalmente il loro rapporto quello che crea confusione nella testa e nel cuore della povera Pucca. Spero che anche a voi sia parsa una scelta sensata, una logica conseguenza, insomma. Se la pensate diversamente, non esitate a darmi la vostra opinione, chiaramente!
Concludo ringraziando di tutto cuore tutti i lettori della presente long, ma anche quelli delle mie shot. Inoltre mando un abbraccio particolare a Hisoka chan, SoGi92 e keisisinani per aver recensito anche lo scorso capitolo. :*
A domenica, con l'ultimo atto di Amnesia! ♥
Shainareth





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Capitolo 4
*** Capitolo quarto ***





CAPITOLO QUARTO




Come c’era da aspettarsi, non era riuscito a chiudere occhio. Bentornata, insonnia.
   Si rotolò dentro il futon per qualche altro minuto, nella speranza che il gallo non cantasse troppo presto. E invece fu altro a costringerlo ad alzarsi: qualcuno bussò alla sua porta. Mugugnando qualche imprecazione, si trascinò fuori dal letto e, barcollando, strisciò i piedi fino all’ingresso, chiedendosi chi diamine potesse essere a quell’ora del mattino. Quando infine se la ritrovò davanti, avvertì un non indifferente tuffo al cuore e dovette strizzare le palpebre per un paio di volte, convinto di stare sognando o, cosa più probabile, di avere le allucinazioni dovute alla notte insonne.
   «Awww, quanto sei carino appena sveglio!» fu il cinguettio allegro che quasi gli perforò i timpani.
   «Cos…?» balbettò instupidito, cercando di capire se la ragazza che si trovava davanti a lui fosse reale o meno. «Che ci fai qui?!» riuscì infine ad articolare con voce roca.
   Pucca si ricompose. Per lo meno, ci provò. Fallì e continuò a sorridergli come una sciocchina, trovando il giovane sempre, immancabilmente bellissimo, nonostante fosse in pigiama, spettinato, con gli occhi cisposi e le occhiaie. «Credo che il mio amore per te sia una cosa innata», rispose, senza però spiegare un bel nulla. «Devo averlo nei geni, altrimenti come avrei fatto a trovare la strada giusta per arrivare fin qui?»
   Garu la guardò stralunato. «Sei venuta da sola?!» Lei annuì, dondolandosi sui talloni. «Perché non ti sei fatta accompagnare da qualcuno?!»
   «Oh, sai», prese a spiegargli, arricciando il naso. «Non credo che sarebbe stato carino svegliare gli zii alle quattro del mattino.»
   L’espressione del ninja divenne ancora più allibita. «Alle quattro?!» ripeté, sperando di non aver capito bene. «Sei in giro dalle quattro?! Da sola?!»
   Udendo quel tono di rimprovero, Pucca si strinse nelle spalle con fare contrito. «È che non riesco ancora a camminare con passo veloce e non sapevo esattamente dove andare e…»
   «Sarai stanca morta!» esclamò l’altro, sempre più incredulo.
   «Solo un pochino», cercò di tranquillizzarlo lei, abbozzando nuovamente un sorriso. «Di tanto in tanto però mi sono fermata per riposare, davvero. E comunque dovresti essere orgoglioso di me: ho trovato casa tua affidandomi interamente all’istinto. Se non è destino questo!» affermò tutta contenta, accennando un saltello che però le fece perdere l’equilibrio a causa della spossatezza dovuta al lungo tragitto percorso.
   Quella donna l’avrebbe mandato al manicomio. Fu questo che pensò Garu quando l’afferrò per evitarle una caduta. La sentì ridere allegramente, mentre si aggrappava alla maglia del suo pigiama. «Ho bisogno di un caffè. Molto forte», sbuffò fra sé, trascinandola dentro e richiudendo la porta d’ingresso. «Siediti dove vuoi», le disse, quando si fu assicurato che fosse nuovamente in grado di reggersi in piedi da sola e di togliersi le scarpe senza bisogno di aiuto. «Hai già fatto colazione? Vuoi qualcosa?» domandò, avviandosi verso la cucina mentre la fanciulla apriva la zip del giubbino che aveva indossato per proteggersi dal freddo del mattino.
   «Una tazza di tè?» chiese, osservandosi attorno con fare meravigliato. «Hai una casa in perfetto stile giapponese, è bellissima!» si complimentò con sincerità. E quando vide sbucare i primi gatti che avevano ormai invaso quell’abitazione, si lasciò andare ad un’esclamazione di tenerezza. «Quanti musetti pelosi!» Le avevano già raccontato che Garu si era preso cura di Yani durante gli anni in cui era stata coma, per cui non si stupì troppo della presenza di tanti animali.
   «Non sono tutti», si sentì spiegare dalla voce del giovane che proveniva dalla cucina. «Alcuni saranno sul retro o sul tetto.»
   «Anche Mio e Yani?» domandò, curiosa di vedere i due capostipiti di quella numerosa dinastia felina, anche se li aveva già scorti in alcune delle foto che si trovavano nell’album.
   «Loro sono in camera da letto. Dormono sempre con me.»
   Quella notizia la lasciò senza parole, ma la indusse anche a sorridere con maggiore tenerezza. Forse non ricordava davvero nulla del Garu che aveva conosciuto da ragazzina, e anche se aveva capito che doveva esser sfuggito spesso alle sue dimostrazioni d’affetto, in realtà probabilmente doveva averle comunque voluto un gran bene. Altrimenti non si sarebbe precipitato al suo capezzale quando si era svegliata dal coma, né si sarebbe fatto carico della sua gattina.
   «Posso vederli?» osò chiedere, gli occhi che scrutavano le porte in carta di riso che si potevano scorgere dal punto in cui si trovava. L’istinto e la logica la convinsero che la camera di Garu dovesse essere quella con il pannello aperto a metà. Tanto che, prima ancora di ottenere risposta, si mosse in quella direzione, sfilandosi il giubbino e lasciandolo cadere in terra. Sbirciò nella semioscurità della stanza e intravide due piccole sagome pelose abbracciate e appallottolate sopra un futon.
   Erano quelli, Mio e Yani? Sorridendo e pensando fra sé che fossero assolutamente adorabili, Pucca varcò la soglia della camera e andò a inginocchiarsi accanto al letto per osservarli più da vicino. Le avevano detto che i due parevano avere una sorta di adorazione l’uno per l’altra, quasi come se fossero stati due innamorati, e la cosa era a dir poco sorprendente. Aveva letto lei stessa, durante la degenza, che esistevano diversi animali monogami in natura, primi fra tutti i lupi; ma per i gatti quella costituiva una vera e propria eccezione. Che fosse anche quello un segno del destino? Chissà se anche lei e Garu, come i loro rispettivi gatti, avrebbero passato la vita insieme…
   Fu pensando a questo che si rese finalmente conto che quello in cui si trovava era il posto in cui il giovane dormiva. Si guardò attorno, per nulla intimidita o semplicemente mortificata per aver invaso la sua privacy. Anzi, un’idea birichina le solleticò la fantasia e lei non ci pensò due volte a metterla in atto.
   Dove diavolo s’è cacciata?, si domandò Garu, tornando dalla cucina con una tazza di caffè per sé e una di tè per la ragazza. Poi però vide il suo giubbino lasciato negligentemente sul pavimento, proprio davanti alla camera da letto. Esitò. Infine, ritenendo che, in effetti, Pucca rimaneva pur sempre Pucca, anche se con sette anni di più e senza memoria, si affrettò a fare irruzione nella stanza in cui Mio e Yani continuavano a sonnecchiare placidamente, accoccolati l’uno sull’altra.
   «Ehi, chi ti ha…» La sua accusa rimase a metà, perché quello che gli si presentò alla vista lo fece ammutolire: Pucca si era intrufolata nel suo futon e si era avvolta e rannicchiata nella trapunta. Sospirando pesantemente, si inginocchiò accanto a lei e posò il vassoio con le tazze sul tatami. «Esci immediatamente fuori da lì», le ordinò in tono perentorio e un po’ infastidito. Non era mai stato un tipo molto propenso a lasciare che gli altri si intromettessero nella sua intimità.
   Sentì la fanciulla mugugnare qualcosa di insensato. «Si sentono ancora il tuo calore e il tuo odore», mormorò poi lei, facendolo arrossire fino alla punta delle orecchie. «È come se tu mi abbracciassi.»
   «Pucca!» sbottò il giovane quando riuscì a ritrovare la voce. «Via da lì, ho detto!» Lei fece capolino da sotto la coperta, sbirciando nella sua direzione e mostrando a malapena la fronte e gli occhi a mandorla con fare innocente. Garu si rese conto che quella sfacciatella stava assumendo quell’espressione che, in gergo, viene chiamata puppy eyes. Si passò stancamente una mano sul viso. «Che sei venuta a fare?» si arrese a domandarle, lasciandola là dove s’era cacciata. Se aveva voluto rompere il loro fidanzamento, perché mai si era presa il disturbo di uscire alle quattro del mattino, con il buio e il freddo di metà novembre, per attraversare la foresta di bambù alla cieca pur di trovare casa sua? Continuava persino a dirsi innamorata di lui. Non che Garu ne avesse mai dubitato, e non certo per arroganza, però lei avrebbe anche potuto evitare di lasciarsi andare a certe dichiarazioni spontanee se voleva del tempo per riflettere con calma sulla propria situazione.
   Pucca si mosse lentamente sotto la trapunta, si mise a pancia in giù e puntellò i gomiti contro il materasso sottile. «Nell’album che mi avete regalato ieri ci sono alcune foto dei tuoi compleanni passati», iniziò a spiegargli, agguantando il suo cuscino fra le mani per stringerlo al petto.
   Garu si scoprì improvvisamente capace di provare un’insana invidia nei confronti di un semplice oggetto. «E… quindi?» chiese, cercando di far finta di niente.
   «Sotto ognuna di esse c’era scritto che era il 2 di dicembre. Sei nato in quel giorno, giusto?»
   «Così pare», fu la laconica risposta che diede alla ragazza, che ora lo fissava con aria mortificata. «Ma che c’entra con la tua visita? A quest’ora, poi?»
   «Non sono riuscita a dormire», gli confidò Pucca, serrando le labbra e non potendo immaginare che anche l’altro avesse passato la notte in bianco. «E avevo fretta di chiederti scusa.»
   Il ninja aggrottò la fronte. «Per cosa? Ieri sei stata più che chiara», ribatté, cercando di non lasciar trapelare le proprie emozioni nel tono della voce. «E ti ho anche detto che va bene così, no? Quindi non hai motivo di…»
   «Lo so!» lo interruppe la fanciulla, seriamente addolorata. «Ma potevo evitare di lasciarti proprio poche settimane prima del tuo compleanno!»
   Garu rimase a fissarla a bocca aperta. Era davvero soltanto quello, il motivo per cui si era precipitata da lui? Perché avrebbe voluto evitargli quel dispiacere poco prima del suo compleanno? Onestamente, non capiva se lei lo stesse prendendo in giro o se quella faccenda le stesse sul serio a cuore fino a quel punto.
   «Quindi devo assolutamente farmi perdonare», stava continuando a dire Pucca, risoluta. «Organizzeremo una festa al Goh-Rong e inviteremo tutto il villaggio.»
   «Non è necessario», provò a farla ragionare il ninja, avvertendo un senso di fastidio. Era permaloso a pensare che lei volesse organizzargli una festa solo per mettere a tacere i sensi di colpa?
   «Lo è, invece!» lo contraddisse la ragazza, allungando una mano per prendere la sua. «Ho trascorso il mio ultimo compleanno in ospedale… Anzi», fu costretta a correggersi, «ne ho passati fin troppi, lì dentro. Non mi va che anche il tuo passi inosservato allo stesso modo. Non adesso che posso fare qualcosa di concreto per te.»
   Ogni sentimento negativo svanì dall’animo del giovane e lui sorrise, stringendo quella piccola mano fredda e sottile nella propria. Se qualcuno avesse dovuto sentirsi in colpa, fra loro, di certo non avrebbe dovuto essere Pucca. «Sta bene», acconsentì allora, porgendole la tazza di tè. «Bevi, prima che si raffreddi del tutto», le suggerì. Ma poi riprese a parlare. «Eri piuttosto brava a cucinare», le rivelò, portandosi alle labbra il proprio caffè.
   «Sul serio?» s’incuriosì la ragazza, accettando di buon grado la tisana.
   Lui annuì. «Mi preparavi un sacco di dolci», raccontò con espressione soddisfatta. «Credo che fossero quelle, le uniche volte in cui non scappavo dai tuoi tentativi di stalking
   «Che disgraziato!» inveì Pucca, ridendo e dandogli uno schiaffetto sul ginocchio. «Va bene. Ti preparerò una torta, allora», stabilì, avendo recepito il messaggio.
   «A patto che la cosa non ti affatichi troppo», ci tenne a farle sapere l’altro. Anche se non erano più fidanzati, andava bene lo stesso, almeno fintanto che nessuno avesse preso il suo posto nel cuore della ragazza per cui spasimava.
   Il gallo finalmente cantò, intromettendosi in quella conversazione, resa intima anche dalla scarsa luce che penetrava all’interno della camera. «È ora di tornare a casa. Non vedendoti a letto, i tuoi zii si preoccuperanno», fece notare Garu, raccattando le tazze vuote sul vassoio.
   «Di già?» fu la lamentosa protesta della fanciulla.
   «Fuori da lì, forza.»
   «Non ci penso nemmeno. Piuttosto mi ci trasferisco, nel tuo letto.» Resasi conto di ciò che aveva appena detto, Pucca rise. Anche perché l’espressione del giovane parlava chiaro. «Giuro che non intendevo niente di equivoco, stavolta. Ma non uscirò di qui nemmeno se tu minacciassi di sculacciarmi.» Garu si schiarì la gola e distolse lo sguardo, imbarazzato. «Oh», comprese lei. «Anche questo è fraintendibile?»
   «Esci da lì», ripeté per l’ennesima volta il poveretto, alzandosi in piedi per uscire dalla stanza.
   «Dove vai?»
   «A portare queste in cucina e a farmi una doccia.»
   «Hai bisogno di una mano?» Garu preferì non chiederle in che senso, tanto più che la stessa Pucca tornò a ridere con fare divertito. «No, sul serio… Per le tazze, dico», si premurò allora di specificare.
   Lui sospirò pazientemente. «Fa’ come ti pare, mi basta che tu rimanga in silenzio. O che conti fino a dieci prima di aprire bocca.»
   «Credo di essere un tipo impulsivo», ragionò a quel punto la ragazza, uscendo finalmente dal letto per raggiungerlo e togliergli il vassoio dalle mani. «Lo ero anche da piccola?» Garu incrociò le braccia al petto e inarcò un sopracciglio con fare eloquente. Lei strinse le labbra con fare colpevole.
   «Dammi dieci minuti per la doccia e ti riaccompagno a casa», si sentì dire dopo un attimo, mentre il ninja si allontanava.
   «Hai un’auto tutta tua?» si meravigliò, seguendolo verso la cucina.
   «Macché, ti ci porto in spalla.»
   «Posso mangiucchiarti le orecchie durante il tragitto?» cinguettò allegra a quella notizia, infischiandosene di seguire il suo consiglio – beh, ordine – di contare fino a dieci prima di esprimere un pensiero a voce alta.
   Garu fu costretto a volgerle definitivamente le spalle e a reggersi alla parete, contro la quale batté piano un pugno, nel tentativo di non assecondare le fantasie che quella scriteriata continuava, questa volta consapevolmente, a suggerirgli. Alla fine, la chiacchierata fra uomini con Abyo aveva avuto luogo sul serio e, come c’era da aspettarsi, aveva risvegliato la coscienza di Garu, facendogli conoscere una solenne verità: era un essere umano anche lui e, come tale, avvertiva certe necessità che non potevano essere perennemente ignorate. Soprattutto se c’era una fanciulla tanto graziosa e disponibile nei paraggi, come poteva esserlo Pucca; alla quale, per di più, il ninja era legato da un affetto sincero e profondo.
   Tuttavia, Garu non poteva non tener conto della delicata condizione psicologica in cui si trovava la ragazza, e quanto era accaduto appena la sera precedente era stata un’ulteriore dimostrazione che i suoi scrupoli nei riguardi di Pucca erano più che legittimi. Sì, anche se quella svergognata continuava a provocarlo in quel modo crudele. Ma quale uomo d’onore si sarebbe approfittato di quella situazione?

Quando bussò alla porta sul retro del ristorante, circa due settimane più tardi, fu assalito furiosamente da una siringa per dolci che gli schizzò un baffo di panna in un occhio. Garu imprecò a gran voce e tentò di individuare il suo potenziale assassino con l’ausilio dell’unico occhio che era rimasto illeso. «Che diavolo ho fatto, ora?!» pretese di sapere, notando l’aria tutt’altro che amorevole di Pucca.
   «Hai sposato Ring Ring!» lo accusò lei, minacciando di spruzzargli la panna in chissà quale altro pertugio.
   «Che cavolo vai blaterando?!» trasecolò il giovane, indietreggiando e trattenendola per i polsi per precauzione.
   «Tu, mascalzone!» tornò alla carica Pucca, indignatissima. «Stavi per sposarla!»
   «Abbi pazienza, Garu», fu il magnanimo intervento di Zio Raviolo, che si premurò di raggiungerli sulla soglia d’ingresso. «Pare che oggi non sia giornata», gli spiegò.
   «Ma da dove salta fuori questa storia?» domandò lui, evitando a fatica i calci che la sua innamorata cercava di assestargli sugli stinchi.
   «Ricordi quando Ring Ring mise in scena quella cerimonia di nozze per far dispetto a Pucca?» Argh. Certo che se lo ricordava! Ma chi era stato il folle che gliene aveva parlato?! «Beh», continuò Zio Raviolo, sorridendo con commozione. «Pucca l’ha sognata stanotte.»
   La sorpresa che gli provocò quella notizia lo distrasse e Garu dovette trattenere un’altra imprecazione a causa del livido che sicuramente si sarebbe ritrovato sulla gamba di lì a poche ore. «Vuoi stare un po’ ferma?!»
   «L’hai sposata!» lo accusò ancora la fanciulla, rabbiosa.
   «Semmai quasi!» ci tenne a sottolineare lui. «E comunque c’era Dada sull’altare, mica io!» aggiunse in fretta, temendo di buscarsi un altro calcio. «Figurati se andavo a farmi mettere il cappio al collo proprio da Ring Ring o da una qualsiasi altra donna», fu la stoccata finale che diede e che, come previsto, placò ogni istinto omicida nei suoi confronti da parte della ragazza. In ogni caso, se non avesse funzionato, si sarebbe anche premurato di farle sapere che, quando la questione del falso matrimonio era stata risolta, lui aveva regalato dei fiori a Pucca – il bouquet della sposa, per l’esattezza – non soltanto per tirarla su di morale, ma anche per farle capire che, nonostante tutto, già all’epoca probabilmente ricambiava in qualche contorto modo i suoi sentimenti.
   Ma poiché questa precisazione non fu necessaria, Garu decise di tenerla come asso nella manica per il futuro. Riuscì finalmente a tirare il fiato e si permise di rivolgere nuovamente lo sguardo a Zio Raviolo. «Sul serio l’ha ricordato da sola?» chiese con una certa esitazione, temendo che si trattasse solo di una flebile illusione.
   «Ha stupito anche noi, quando ci ha raccontato il sogno, stamattina», rispose Ho, avvicinandosi a loro. «Lì per lì abbiamo creduto che qualcuno gliene avesse parlato, e invece…»
   Era possibile rammentare il passato attraverso i sogni? Forse sì. In ogni caso, Garu era ormai certo che Pucca in realtà conservasse ogni singolo ricordo dell’infanzia in qualche punto imprecisato del cervello, che però era stato momentaneamente messo sotto sigillo, e che fosse proprio da lì che di tanto in tanto, per fortuna, iniziava a sfuggire qualcosa. Qualcosa che, a quanto pareva, aveva sempre a che fare con lui.
   «Ha anche trovato casa mia da sola», fece notare ai cuochi, sorridendo e fomentando davvero la speranza di tutti. «E nutre una tremenda avversione per il nome di Heidi.»
   «E questo che ha a che fare con il passato?» s’incuriosì la fanciulla, increspando le sopracciglia sottili quando i suoi zii si lasciarono andare ad una lieve esclamazione di meraviglia. «Chi è Heidi?»
   Toccava a Garu parlare, perciò si schiarì la voce, sentendosi tremendamente a disagio. Prima di farlo, comunque, le tolse di mano la siringa per dolci e la consegnò a Zio Raviolo. «Una stangona svizzera che voleva costringermi a sposarla», rivelò infine, sia pure con voce imbarazzata e, soprattutto, intimorita.
   Pucca vide nero. Pestò un piede in terra e si lasciò scappare di bocca una parola assai poco fine che fece strabuzzare gli occhi ai presenti e indusse Garu a tuffare la faccia in una mano. «Quante fidanzate hai avuto?!»
   «Tu bastavi e avanzavi, credimi», le assicurò il giovane, leccandosi poi la panna che gli era rimasta sulle dita. «Piuttosto, dovresti essere contenta di questi progressi, no?»
   «Certo che sì», annuì lei, cercando di riacquistare la calma. Anche perché persino i suoi zii le avevano assicurato che non solo Garu non aveva mai avuto intenzione di sposare un’altra, ma anche che durante il periodo in cui era stata in coma lui non aveva fatto altro che gironzolare nei pressi dell’ospedale ogni qual volta aveva avuto un momento libero. E non certo per correre dietro alle infermiere.
   «Non sarebbe il caso di consultare subito il medico?»
   «Sì, ma prima devo finire di preparare la torta per stasera. Mancano solo le guarnizioni.» Da quel pensiero ne scaturì immediatamente un altro. «A proposito, buon compleanno!» esclamò gioiosa Pucca, gettandogli le braccia al collo e ridendo per esserselo dimenticato a causa di tutto quel trambusto.
   «Gran brutta cosa la gelosia, eh?» commentò Ho, mentre Garu, rassegnato, ringraziava la ragazza con una goffa carezza sulla schiena e anche gli altri gli porgevano i loro auguri.
   Ma poi un suono assai imbarazzante li fece arrossire tutti: il suono di un succhiotto che la fanciulla più sfacciata del villaggio Sooga stava imprimendo sul collo del povero giovane. Seppur rimasto più indietro rispetto ai suoi fratelli, Linguini si schiarì la gola, come a voler ricordare loro di essere in pubblico, e Garu fu costretto a scollarsi Pucca di dosso, coprendosi immediatamente il lato del collo con una mano e cercando di non morire per la vergogna di aver subito un succhiotto a tradimento. Davanti agli zii di lei, quel che è peggio.
   «Ma sei impazzita?!» le sbraitò contro dopo averla presa in disparte con una certa, comprensibile agitazione.
   «Consideralo un anticipo sul regalo di compleanno», ribatté invece Pucca, ammirando con orgoglio il proprio operato, e cioè una piccola macchia violacea ben visibile anche a distanza.
   Un brivido caldo investì in pieno il povero ninja a causa di quella frase sibillina. Era di nuovo lei a parlare in modo equivoco di proposito oppure era la sua fantasia a viaggiare troppo? Di una cosa era sicuro, però: gli sarebbero venuti i capelli bianchi prima dei vent’anni.
   «E poi così ho marcato il territorio», aggiunse la fanciulla, ormai certa che Garu fosse troppo bello e che questo potesse rivelarsi un problema a causa di tutte le sgualdrinelle che avrebbero potuto mettergli gli occhi addosso.
   L’altro ruotò le pupille al cielo. «Non farlo più», la redarguì in ogni caso, cercando di ficcarle in quella testaccia dura che certi atteggiamenti non avrebbero dovuto essere presenti nel loro rapporto di amici-ex-fidanzati-ma-ancora-tanto-innamorati. Solo il pensiero di doversi definire così, gettava il giovane nello sconforto. Anche perché, se qualcuno gli avesse chiesto in che rapporti era con Pucca, non avrebbe certo osato riportare quella definizione. «E mi basterà la torta che stai preparando, come regalo», preferì aggiungere, a scanso di equivoci.
   Lei parve rimanerci male. «Ma è troppo poco!» protestò difatti. «Meriti molto, molto di più!»
   Sapendo che sarebbe stata una battaglia persa in partenza, Garu decise di assecondarla, ma solo fino a un certo punto. «D’accordo, ma, ti scongiuro, niente che possa generare imbarazzo.»
   «Oh», balbettò la ragazza, mordicchiandosi il labbro inferiore e mettendolo in allarme. «E se invece generasse qualche altro tipo di sensazione? Come, che so, eccitazione?» Vide il ninja sbiancare e non si trattenne dallo scoppiare a ridergli in faccia. «Sei meravigliosamente credulone», si divertì quindi a prenderlo in giro, mentre lui incrociava le braccia al petto e inalberava un’espressione a dir poco stizzita. «Non sarà né imbarazzante né eccitante», gli giurò solennemente per rabbonirlo, portandosi persino una mano sul cuore.

Pucca era stata di parola. E si era anche raccolta i capelli, ormai lunghi fino alle spalle, in due odango proprio com’era solita fare da bambina; sarebbe stato un modo come un altro per tornare davvero alla vita di tutti i giorni, nonostante tutto.
   Prima della festa, però, insieme ai suoi zii, Garu l’aveva accompagnata in ospedale per ascoltare il parere del medico riguardo ai lievi progressi mnemonici che pareva fare, ed egli non aveva potuto fare a meno di condividere il loro ottimismo, specificando comunque che il cervello era una macchina assai complessa e che la maggior parte dei suoi funzionamenti erano del tutto oscuri persino alla scienza. Aveva consigliato a Pucca delle sedute da uno specialista, proprio come quelle che aveva effettuate durante i mesi della riabilitazione in ospedale. In realtà, essendo la sua un’amnesia retrograda e non traumatica, non era certo che uno psicologo potesse aiutarla a ricordare il passato, ma provarci sarebbe sempre stato meglio che arrendersi in partenza. Inoltre, se già qualcosa affiorava da sé nella mente della ragazza, probabilmente avrebbe continuato a farlo, sia pure in tempi e in modi che nessuno avrebbe potuto prevedere. Ciò che contava, comunque, era non perdere mai le speranze.
   Era perciò stato con animo assai più leggero che avevano potuto dedicarsi ai festeggiamenti previsti per quella sera. E, al momento dei regali, Pucca aveva consegnato a Garu una copia dell’ultimo libro del maestro Hiel Kikyu con un sorriso sornione sulle labbra e la seguente frase: «Per l’autografo non preoccuparti: non appena mi sarò rimessa del tutto in forze, scoverò quel vecchiaccio e lo costringerò a farti una dedica. Se quello che mi avete raccontato qualche settimana fa è vero, sono certa che non saprà negarmi un favore.»
   E ora, nel bel mezzo della festa, i due giovani se ne stavano a guardare gli invitati dall’alto del primo piano del ristorante, seduti sul pavimento a sfogliare il libro insieme. Pucca aveva anche preteso parecchie foto della serata perché voleva collezionare nuovi ricordi da raccogliere in un nuovo album, nel quale avrebbe annotato non soltanto gli eventi di proprio pugno, ma anche e soprattutto le proprie emozioni e i propri pensieri al riguardo.
   «Vivere senza conoscere nulla del passato è una sensazione straniante», spiegò a Garu, rigirandosi fra le dita una delle foto istantanee di gruppo di cui si era già impossessata. Era, quella, la prima volta che tornava a parlare spontaneamente della propria condizione psicologica dopo la sera del suo rientro a casa. Ma, a differenza di due settimane prima, adesso un sorriso aleggiava sul suo volto, conferendole un’espressione di assoluta serenità. «Ma ho deciso che non vale la pena di struggersi al riguardo.»
   Garu la guardò con tenerezza e non poté fare a meno di essere orgoglioso di lei. «È per via di ciò che ha detto oggi il medico?»
   «Non solo», fu l’onesta risposta della ragazza. «Stamattina, prima che tu arrivassi al ristorante, è successa un’altra cosa, ma non l’ho ancora detta a nessuno.» Quella confidenza stupì il giovane che increspò leggermente la fronte e fu sul punto di chiederle ulteriori spiegazioni. Se non lo fece, fu solo perché Pucca lo anticipò; non avrebbe avuto senso, altrimenti, iniziare quel discorso. «Quando mi sono svegliata, mi sono affacciata alla finestra della mia camera e ho visto una persona sul tetto di uno degli edifici vicini. Non ho potuto vedere il suo volto perché era coperto da un cappuccio scuro, ma credo si trattasse di un ninja. Stava guardando nella mia direzione e, dopo alcuni istanti, mi ha fatto un cenno con il capo, come se mi avesse salutato.»
   «E poi?» domandò Garu, il cui istinto gli aveva già suggerito il nome di quel ninja.
   Pucca si strinse nelle spalle. «È andato via e non l’ho più visto. Non so chi fosse, ma di certo non era uno degli abitanti del villaggio.»
   «Ne sei certa?»
   «Sì, non era alla mia festa. E poi, anche se a quella distanza non potevo vederlo bene, sul suo viso spiccava una grossa cicatrice.»
   Tobe. Era dunque tornato a Sooga dopo un esilio volontario durato anni. Probabilmente aveva saputo che Pucca era ormai fuori pericolo ed aveva voluto accertarsene di persona. Garu abbozzò un sorriso sghembo, che tuttavia non esprimeva alcun sentimento realmente positivo. Non odiava Tobe, non più. Anche perché l’incidente capitato a Pucca non era stata davvero colpa di nessuno di loro due; si era trattata soltanto di una tragica fatalità a cui una bambina di dieci anni, pur in gamba quanto lei, non era riuscita a sfuggire.
   «Pucca», cominciò allora a dire il giovane, convinto che fosse giusto che lei sapesse che quella terribile caduta che l’aveva costretta in un letto d’ospedale per tutti quegli anni era stata causata anche dall’avventatezza di tutti e tre loro. «Riguardo al tuo incidente…»
   «Non ha importanza», lo interruppe gentilmente la fanciulla, convinta di quel che diceva. Ignorava l’identità del ninja che aveva visto quella stessa mattina, ma ancora una volta l’istinto le aveva suggerito che fosse in qualche modo coinvolto in quello che le era capitato: una caduta nel vuoto più assoluto da un’altezza che avrebbe dovuto ammazzarla. «Te l’ho detto, ho deciso di lasciar perdere. È già stato un miracolo che io sia sopravvissuta e che non sia rimasta paraplegica.» Su questo non v’era alcun dubbio. Ciò non toglieva che per troppo tempo aveva dovuto vegetare in stato di totale incoscienza. «Se i ricordi vorranno tornare a galla, saranno i benvenuti», continuò in tono sereno, a dimostrazione che aveva ritrovato la pace interiore. «Nel frattempo, andrò avanti per la mia strada, godendomi la vita giorno per giorno e costruendomi tanti nuovi ricordi, non soltanto con le persone che ho amato in passato, ma anche e soprattutto con quelle che amo adesso.» Alzò gli occhi a mandorla sul giovane che le stava accanto. «E tu, chiaramente, sei il primo della lista.»
   Garu non poté evitare che accadesse. Mosse una mano nella sua direzione per carezzarle il viso e si chinò su di lei, baciandola con tenerezza. Com’era diverso dai baci che si erano scambiati da bambini…
   «Scusa», le disse poi, con voce sommessa e mortificata per la vergogna di aver ceduto all’istinto e il timore di averle mancato di rispetto, benché Pucca non avesse fatto nulla per respingerlo.
   La sentì ridere divertita. «Avresti dovuto dirmelo cinque minuti fa, dopo il primo bacio.»
   «Giusto», fu costretto ad ammettere lui, stringendo le labbra con fare colpevole. «Ho capito perfettamente quello che mi hai detto un paio di settimane fa. Però…» Si bloccò. Non era mai stato bravo a parole, anche perché era rimasto in silenzio per troppi anni. Si umettò le labbra e riprovò. «Ho pensato che se davvero adesso sei intenzionata a vivere senza più crucciarti per il passato…»
   «Garu», intervenne Pucca, mettendogli una mano sulla bocca per farlo tacere e facilitargli così le cose. «Poco fa ti ho detto quelle cose non soltanto perché ti considero il mio migliore amico», e il solo sentirglielo dire lo inorgoglì ulteriormente, «ma anche e soprattutto perché volevo proprio che accadesse quello che è appena accaduto.»
   Le donne sanno essere davvero tremende. Fu questo che pensò Garu liberandosi dalla sua mano per tornare a baciarla con maggior trasporto e con animo decisamente più leggero. Dovette tuttavia, sia pure a malincuore, interrompere quello che sembrava essere il miglior regalo della serata, perché un secco colpo di tosse, seguito da una risatina divertita, lo indusse a spostare altrove la propria attenzione.
   Fermi accanto alla scalinata che portava alla sala del ristorante, Abyo e Ching li stavano fissando. «Perdonate il disturbo», iniziò il primo, regalando a Garu uno sguardo orgoglioso che lo fece arrossire violentemente: finalmente si era deciso, quel fesso di un ninja, a chiarire le cose con Pucca. «Ma il festeggiato è richiesto al piano di sotto. C’è una torta che aspetta solo lui per essere mangiata.»
   «E ci sono anche un mucchio di candeline da spegnere», aggiunse Ching, sorridendo gioiosa al pensiero che i suoi migliori amici fossero riusciti a ritrovare la serenità e un modo assai piacevole per discuterne.
   «Oh!» esclamò Pucca, balzando in piedi senza perdere quell’equilibrio che, fino ad una manciata di giorni prima, le era mancato ogni volta che aveva provato a fare qualche movimento azzardato. «Potremo esprimere un bel desiderio!»
   «E tu che c’entri?» volle sapere Abyo, scrutandola con sospetto e prendendola palesemente in giro.
   Lei rise, divertita per la propria gaffe. «Hai ragione. Spetta solo a Garu.»
   Alzandosi anche lui in piedi, il ninja le passò un braccio attorno al collo per avvicinarla a sé e trascinarla via al fine di raggiungere tutti gli altri al piano di sotto. «Non importa, tanto esprimerò sicuramente lo stesso desiderio che hai in mente anche tu», le fece sapere, decidendo di provare a mettere da parte la timidezza almeno davanti agli amici più cari, benché sicuramente gli ci sarebbe voluto del tempo per abituarsi alla cosa. Ma andava bene così. Poco alla volta, guardando al presente, forse sarebbero riusciti davvero a costruire un futuro insieme.


















E qui si conclude Amnesia. Per lo meno, la long. E chiedo scusa per aver aggiornato con un giorno d'anticipo rispetto a quanto detto in calce allo scorso capitolo. :P
Mi sono divertita molto a scrivere questa fanfiction, ma ammetto che ci sono stati anche dei passaggi un po' complicati, che mi hanno costretta a rallentare il ritmo della narrazione. Nell'insieme, comunque, sono abbastanza soddisfatta di ciò che ne è venuto fuori, anche se forse avrei potuto essere più precisa riguardo a determinati punti. Come ad esempio l'incidente di Pucca.
A tal proposito, confesso che sulle prime sono rimasta molto sul vago per una ragione ben precisa: io stessa non avevo chiare le dinamiche della tragedia, per cui non potevo scrivere di qualcosa che non conoscevo bene. Poi, seppur lentamente, tutto è diventato più chiaro; al punto che, come ho già detto a qualcuno, ho deciso di scrivere una shot, ambientata dopo questa fanfiction, in cui racconto nel dettaglio quello che è accaduto a Pucca e perché lei ha perso la memoria. La shot è pronta, devo solo rileggerla e correggere ciò che non mi convince. Penso perciò che la vedrete presto online, probabilmente già a partire da lunedì.
Prima di passare ai saluti e ai ringraziamenti, vorrei chiedervi ancora una volta un parere riguardo all'introspezione e alla caratterizzazione dei personaggi di questa fanfiction: li trovate OOC? Se sì, non fatevi scrupoli a farmelo notare, perché almeno potrò aggiungere l'avviso di OOC nelle caratteristiche della storia.
Detto questo, ringrazio di cuore tutti coloro che hanno deciso di intrattenersi a leggere Amnesia, ma soprattutto chi ha inserito questa fanfiction tra le storie preferite/ricordate/seguite, e cioé (in ordine alfabetico): edvige forever, Hisoka chan, Kira7, Mini_Witch, Nives97, SoGi92 e Traffy11. Un grazie in particolare va soprattutto a Hisoka chan, keisisinani e SoGi92, che con le loro recensioni e le loro parole mi hanno aiutata molto.
Se possibile, e mi scuso per questa richiesta sfacciata, vorrei ancora una volta esortarvi a lasciarmi un parere sincero riguardo a questa storia, soprattutto adesso che è giunta al termine. Sarà un ottimo modo per comprendere i miei errori e per evitare di ripeterli nei miei prossimi scritti.
Un abbraccio a tutti voi,
Shainareth




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