The Ties That Bind

di BlackEyedSheeps
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** New York City, USA ***
Capitolo 2: *** Dubai, Emirati Arabi ***
Capitolo 3: *** Dublino, Irlanda ***
Capitolo 4: *** Pyongyang, Corea del Nord ***
Capitolo 5: *** Budapest, Ungheria ***
Capitolo 6: *** Dharavi, India ***
Capitolo 7: *** Monaco, Principato di Monaco ***
Capitolo 8: *** Abidjan, Costa D'Avorio ***
Capitolo 9: *** San Francisco, USA ***



Capitolo 1
*** New York City, USA ***


Disclaimer: Occhio di Falco, La Vedova Nera e tutti gli altri personaggi non ci appartengono, ma sono proprietà Disney e Marvel.
Questa storia non è stata scritta a scopo di lucro.


*

Buonasera! Come (minacciato) promesso, siamo tornate.

Di nuovo con una storia che vede come protagonisti i nostri due agenti dello SHIELD preferiti.

Come da riassunto, stavolta si tratta di una serie di One-shot… tutte legate fra loro, in ordine cronologico. Le frasi che concludono il capitolo, saranno l’introduzione a quello successivo, diversi scenari, diversi punti di vista.

Da quello che dovrebbe essere solo l’inizio della loro collaborazione, fino ad arrivare alle porte di quella che sarà la loro avventura con gli Avengers.

La storia parte da un episodio accennato nell’ultimo capitolo della prima fanfiction che abbiamo scritto. La naturale prosecuzione di “A Plague I Call a Heartbeat”. Non è necessario averla letta per capirci qualcosa, comunque.

Inutile dare ulteriori spiegazioni… allonz-y!
 

 

 

CAPITOLO 1

New York City

 

 

New York è una città che non dorme mai, dicono.

Eppure la mattina è un’amante assonnata che raccatta i vestiti della sera precedente, si trascina per le strade, vittima di postumi segreti.

Clint amava il risveglio cittadino. Non che fosse un soggetto particolarmente mattiniero – spesso il sole era già alto nel cielo quando si decideva a scalciare via le lenzuola - ma sovente gli capitava di veder spuntare l’alba, accoglierla rinfrancato, lontano da quelle notti insonni dove lo sguardo si perdeva fra le tenebre. Cercava, fra le luci artificiali, quel bagliore che ritrovava solo molte ore dopo. Tornava a vederci chiaro.

Per le strade si aggiravano fantasmi affrettati, avventurosi sportivi e traffico pigro di taxi disoccupati. Clint però conosceva la sua meta come delineata su un percorso prestabilito.

Sapeva dove trovare la fauna locale, sapeva dove si nascondeva, sapeva come stanarla.

Varcava la soglia di una tavola calda, mentre profumo di caffè e zuccherose ciambelle lo investiva benevolo. Si metteva a sedere in un angolo, a scrutare porzioni di mondo dalla vetrata, sorseggiava il suo caffè con doppia – a volte tripla – dose di panna e si concedeva l’attimo di beatitudine che una città può celebrare solo a quell’ora.

Qualcosa però lo aveva portato a cambiare piani, per quella mattina. Era entrato sì nel locale, aveva chiesto il solito caffè (Da portar via, per favore), ci aveva aggiunto un sacchetto di ciambelle e quello che - si vergognò a ordinare - per lui non era altro che acqua calda aromatizzata (Comunemente detta: tè).

Era uscito così come era entrato, abbandonando il calore rassicurante del locale, le sommesse chiacchiere mattutine, il rumore della macchinetta del caffè e la musica di una stazione radio che mandava brani di vecchie glorie, ed era tornato per le strade, a confondersi con il popolo di fantasmi affrettati che iniziavano la loro giornata.

Pochi minuti dopo era di fronte al portone di un vecchio palazzo a chiedersi se fosse stata una buona idea. Interrogandosi più o meno coscientemente se premere o meno il tasto di quel citofono.

 

Non era nemmeno certo di sapere per quale motivo avesse pensato a lei. Perché si fosse trascinato fuori dal suo appartamento con la strampalata idea di farle visita, senza un solo ripensamento. Forse perché le ultime settimane erano state significative per delineare una sottospecie di rapporto che, sebbene prettamente lavorativo, aveva lanciato le basi per qualcosa che sembrava funzionare. E funzionare bene.

Nemmeno le più rosee aspettative di Fury avrebbero potuto ipotizzare la sorprendente riuscita dell’ultima missione. La prima vera missione che si fossero trovati a condividere dopo il reintegro della Vedova Nera fra le file dello SHIELD.

Clint aveva trovato in Natasha una partner abile e intuitiva. Poche parole per delineare un piano d’attacco, rapidità e empatia immediata. Eppure a guardarli così sembravano vivere su due livelli differenti: l’uno con le sue ossessioni sulla distanza e la pazienza, l’altra sull’immediatezza e il contatto.

L’equilibrio sembrava stare alla base.

Natasha sembrava tollerarlo più di quanto si fosse aspettato. Sembrava tanto colpita dalla sua competenza e abilità sul campo, quanto non dalle sue carenti battute di spirito che, puntualmente, venivano sedate da sguardi affilati.

Lui, di contro, ne apprezzava la schiettezza, lo spirito d’iniziativa ma nondimeno la capacità di accettare consigli - e di raddrizzarne il tiro, ove necessario - nonostante lo spirito indipendente.

Funzionavano. Ed era tutto ciò che veniva richiesto.

Eppure adesso era lì, fuori da qualsiasi schema, a domandarsi se fosse corretto o appropriato cercare un contatto al di fuori delle solide mura dello SHIELD. In quell’universo dove non c’erano agenti o trame segrete a muoverli.

 

La mano però trovò il citofono. Spinto da quell’istinto inappropriato che proprio non voleva saperne di essere messo a tacere.

A rispondergli, l’istante successivo, una voce ovattata da metri di cavi, vagamente esitante, vulnerabile come non si sarebbe atteso.

“Ahm… Romanoff? Sono Clint. Clint Barton.”

Un unico fastidioso ronzio fu tutto ciò che seguì per un’interminabile manciata di secondi.

“Lo so. Ti ho visto arrivare.” La sentì infine ribattere, non meno perplessa, non meno sospetta.

Clint non riuscì ad impedirsi di alzare la testa alle finestre dei piani superiori, vagando dietro ogni tenda, cercandola stupidamente con lo sguardo.

Tentò di recuperare l’attimo di incerto stupore, prima di tornare a fronteggiare la sua invisibile interlocutrice.

“Che ci fai qui?” si sentì domandare freddamente.

Non uno degli approcci migliori della giornata.

Lanciò uno sguardo ai bicchieri e la busta colma di ciambelle e improvvisamente trovò l’espediente veramente stupido. Cercò però di non perdersi d’animo.

“La lavatrice.” Fu la prima cosa che gli venne in mente. Ma non si sentì, stavolta, di complimentarsi per la trovata.

“Scusa?”

“La lavatrice. Mi avevi chiesto consulenza. Ebbene eccomi qui.”

Di nuovo silenzio a sottolineare la singolarità della situazione.

“Sono le sette del mattino.”

E Natasha ci mise il carico da cento.

“Già… ma tu sei sveglia. Ed io, caso vuole, fossi di strada.”

“Caso vuole…” la sentì ripetere “Credevo fossi di Brooklyn.”

“Già…”, temporeggiò “mi piace cambiare tavola calda, di tanto in tanto. Una variazione sul tema, sai.”

Di nuovo solo quel ronzio fastidioso, esitante.

“Ti ho portato la colazione. Ciambelle e .” L’ultima parola pronunciata con vaga avversione. “Non vorrai farmi sprecare il cibo. Cibo che ho pagato, pagato di tasca mia. Pagato di buon cuore, per…”

“Hai intenzione di continuare per molto?” la porta scattò “Sali. Terzo piano, appartamento 7C.”

E Clint si trovò a percorrere un lungo corridoio, senza avere la minima idea di quello che sarebbe successo dopo. Senza avere la minima idea sul perché avesse deciso di avventurarsi in quell’universo sconosciuto, inesplorato fatto di… scale scrostate e odore di muffa?

Che diavolo di posto era mai quello? Si sentì quasi protettivo nei confronti del proprio stabile, del proprio appartamento. A confronto casa sua era ospitale quanto una reggia.

L’ascensore nemmeno sembrava incline a lasciarlo passare. Malevolo come le tristi pareti giallognole e i pavimenti rovinati da troppe scarpe. Decise di optare per le scale.

 

Natasha aprì la porta nell’istante in cui metteva piede sull’improvvisato zerbino.
Si chiese se non avesse occhi ovunque.

“Ehi!” si trovò impacciato, impreparato a risponderle, e lei ricambiò con un cenno del capo.

La donna indossava un paio di shorts che mettevano in mostra le gambe - snelle e muscolose - e una canotta sformata, bianca, anonima. Doveva essersi appena alzata a giudicare dalla piega che avevano assunto i suoi capelli. Sul suo viso, però, nemmeno un segno di stanchezza. Questo poteva significare uno spirito mattiniero o una notte insonne. Era comunque ancora troppo giovane per sfoggiare occhiaie troppo evidenti. E l’impressione generica che ne risultò fu proprio quella di avere di fronte una ragazzina, una giovane donna dall’aria ostile e forse un po’ impacciata, in un ambiente che non le era congeniale.

Si scostò per lasciarlo passare, senza levargli un istante gli occhi di dosso, come ad accettare l’intrusione sì, ma con circospezione.

Clint si sorprese di trovare un netto, mostruoso contrasto con l’anticamera disastrata al di fuori di quel posto. L’appartamento era essenziale ma pulito, imbiancato di fresco. Un indistinto profumo d’agrumi a rinfrescare l’aria. Ebbe l’impressione di trovarsi in uno spazio utile e lineare. Nessun guizzo d’inventiva nell’arredamento. Solo lo stretto necessario.

Un divano. Una piccola televisione. Un lampadario. Nessun quadro alle pareti. Delle tende bianche, a velare la luce del giorno. Solo su una parete trovò qualcosa che potesse dare un accenno di personalità all’insieme: una libreria dagli scaffali essenziali, stracolma di libri.

Libri che, anche ad un’occhiata distratta, risultavano parecchio vissuti.

Non ci aveva messo che pochi secondi ad inquadrare i dintorni. Forse per istinto, forse difetto professionale. La cosa però non sfuggì a Natasha.

“Non deve essere confortevole. Solo pratico.” Disse, come a giustificare l’assenza di tutti quei gingilli che sicuro sapeva dimorare nelle case di giovani donne della sua età. O almeno pretendendo di saperlo.

Clint scrollò le spalle, mitigando lo stupore per la sua uscita.

“Devi ancora finire di sistemarti, dopotutto.”

“Non c’è altro, veramente.”

Ci fu un momento di confuso imbarazzo che zittì entrambi.

“Bè… sicuro così è più pratico del mio appartamento.” Alluse lui, forzando divertimento, rammentandosi piuttosto chiaramente lo stato in cui vertevano le condizioni del suo salotto, camera e cucina. Lo stato di abbandono e disordine era quasi fastidioso a confronto di quell’ambiente sterile.

Tornò a guardarla e si chiese perché fosse così difficile stabilire un contatto al di fuori di quelle che erano le loro mansioni lavorative. Si scoprì a trovarsi tutt’altro che a suo agio e forse comprese di esserlo nel momento in cui aveva intuito che non lo era lei per prima. Fuori da un contesto al quale di solito sapevano come reagire. Carente dal punto di vista sociale.

“Sei venuto qui solo per parlare del mio appartamento o vuoi davvero aiutarmi con quella lavatrice?”

Clint le scoccò uno sguardo perplesso. La nervosa aggressività di chi sente minacciata la propria privacy. Capì che se qualcuno doveva rompere quel muro di imbarazzo, quella persona doveva essere lui. Non perché particolarmente portato per i rapporti sociali, ma di sicuro più incline alla socializzazione. E più vecchio per poter assorbire qualsiasi stoccata.

“Sei una che va dritta al punto tu.” Sospirò forzando sconforto “Vuoi far freddare la tua colazione?” sollevò le mani come a sottolineare la portata dell’evento.

Natasha non nascose il suo disappunto, intrecciando le braccia al petto, perfettamente consapevole di aver in qualche modo sgarrato sulle regole dell’ospitalità. Non che Clint si aspettasse che gliene importasse davvero.

Però ricordava esattamente cosa volesse dire voler dimostrare a chiunque di essere cambiato e cercare di correggere un errore di facciata. E forse Natasha stava solo assimilando, imparando. Infastidita, ma attenta.

“Ciambelle”, le illustrò allora, raggiungendo il tavolo accanto al cucinino. “Ce ne sono di tutti i tipi. Cioccolato, vaniglia, crema. Ce n’è un paio semplici ma francamente non te le consiglierei. Il peccato deve essere consumato a piene mani…”

Si servì da solo, avvicinando un piatto sul lavabo per rovesciarci dentro i dolci dall’aria colorata e invitante.

Le scoccò un’occhiata d’incoraggiamento e, solo dopo un’attenta valutazione, Natasha sembrò scegliere quella al cioccolato.

“Ah, un classico.” Concordò con lei. “Compensa la tua riluttanza per il caffè.”

“Cosa ti fa pensare di essere nel giusto riguardo al caffè?” la guardò sedersi sul bordo del tavolo, rigirandosi la ciambella fra le mani.

“Bè, non è ovvio?”

“No, non lo è. Prova a chiederlo a un inglese.”

“Tu non sei inglese.”

“No, però non ho la presunzione di credermi nel giusto.”

Stoccata finale, il dibattito si era concluso e la vincitrice era Natasha. Di nuovo.

“Prima o poi riuscirò a vincerne uno…”

“Di cosa?”

“Niente, lascia perdere ragazzina.”

Le gambe di Natasha di mossero nervose.

“Non sono una ragazzina. E la prossima volta che te lo sentirò dire ti troverai con un paio di ciambelle in meno…” l’allusione, sebbene piuttosto fantasiosa, risultò chiara e minacciosa.

“Con te non si può mai scherzare, sei terribile.” Dichiarò con un’alzata di mani.

“Magari sono le tue battute ad essere pessime.”

“In giro mi trovano un tipo divertente.”

“In giro dove? Fra i ghiacci dell’Artico?”

Clint le rifilò in mano il bicchiere con il thè bollente.

“Forse avremmo dovuto cominciare davvero con la lavatrice.”

Natasha si strinse nelle spalle con aria semi-innocente.

 

***

 

Non era proprio sicuro di come fosse potuto succedere, ma un’ora dopo, al momento della centrifuga, la lavatrice di Natasha, nel bagno sterile di Natasha, nell’appartamento asettico di Natasha, aveva preso a vomitare schiuma come se non ci fosse un domani.

A nulla erano valsi i tentativi di bloccare quell’ammasso non richiesto di allegre, candide bolle. Fra le quattro pareti rivestite di piastrelle color ghiaccio, regnava il caos.

“Avevi detto di saperla usare!” strillò la ragazza, a coprire il rumore innaturale dell’elettrodomestico, schiuma fra le dita dei piedi, sulle gambe, i gomiti, in viso, fra i capelli.

Clint, a quattro zampe, stava cercando a tentoni la presa della corrente per staccare almeno la spina.

“Non mi avevi detto di avere fra le mani un oggetto d’antiquariato!” protestò palesemente insterichito dalla situazione.

Si illuminò solamente quando individuò un cavo. Prese coraggio e fiato e tirò con tutta la forza che aveva. La lavatrice esalò un ultimo, strozzato grido d’aiuto e si spense con un sussulto.

La stanza tornò silenziosa, solo gli scoppiettii della schiuma a scandire l’assurdo.

Natasha si accasciò sul bordo della vasca da bagno, Clint in ginocchio, stringeva ancora in mano il suo stendardo di vittoria.

“Bè, adesso non puoi dire di non avere un bagno con della personalità.” Dichiarò guardandosi attorno ingobbito, mentre una bava di schiuma gli pendeva dal mento come una barba posticcia. Più che un solenne arciere high-tech dello SHIELD assomigliava a una rivisitazione invecchiata di Robin Hood.

Lui non sembrò accorgersene ma quando tornò a guardare Natasha si sorprese di vederla scossa da sussulti che non riusciva a frenare.

Per un attimo ebbe paura di aver fatto qualcosa di assurdamente sbagliato, poi, il pizzicore al viso, gli suggerì di essere visivamente diventato qualcosa di ridicolo.

Sentì qualcosa di indefinito aggrovigliargli lo stomaco, quando si rese conto di quello che stava accadendo. Qualcosa che, lo sapeva, aveva distrutto, abbattuto, bombardato a gran forza e in un istante quel muro che separava così nettamente la loro comunicazione sul piano personale.

Nient’altro avrebbe potuto migliorare ulteriormente quella giornata.

 

Natasha stava ridendo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 2
*** Dubai, Emirati Arabi ***


CAPITOLO 2

Dubai

 

Natasha stava ridendo.

 

Un impercettibile, metallico gracchiare l'avvertì per l'ennesima volta che la ricetrasmittente, nascosta all'interno dell'orecchio, stava funzionando a meraviglia.

Si appoggiò leggermente al carrello che aveva bloccato a metà corridoio, ferma davanti all'entrata della lussuosa suite presidenziale, situata all'ultimo piano di un imponente albergo di Dubai.

I capelli, raccolti in una crocchia bassa, nascondevano le orecchie da sguardi indiscreti, mentre una castigata divisa da cameriera le fasciava il corpo. Non uno dei suoi travestimenti preferiti, ma sicuramente – come aveva avuto modo di constatare sul campo – uno di quelli che riscuoteva maggior successo.

L'uomo alto, massiccio ed elegante continuava a snocciolare battute deprimenti, alle quali Natasha non mancava di dimostrare il proprio apprezzamento in modo incredibilmente naturale e spontaneo... all'esterno. Se avesse potuto dar sfogo al suo reale stato d'animo, avrebbe afferrato il vassoio d'argento poggiato sul carrello, e gliel'avrebbe stampato in faccia con l'augurio di poter fare il maggior danno possibile.

Dall'altro capo della trasmittente, riusciva a sentire il respiro appena udibile dell'agente Barton. Non l'avrebbe mai ammesso ad alta voce, a malapena riusciva a confessarlo a se stessa, ma la costante presenza dell'uomo – sebbene a distanza – la rendeva più sicura di sé, impedendole di sentirsi abbandonata a se stessa, con tutto il peso del mondo sulle proprie spalle.

Abituarsi a quella presenza, il più delle volte impalpabile – Clint, infatti, manteneva di solito una certa distanza – non era stato semplice. Non avrebbe saputo dire se era arrivata al punto di fidarsi di lui, ma il non dover prendere necessariamente ogni decisione per portare a termine le missioni, aveva fatto miracoli per la salute dei suoi nervi. E di questo gli era grata, sebbene ad insaputa di lui.

Piegò il capo di lato, scoprendo la linea morbida del collo. Un gesto apparentemente del tutto casuale, un amo a cui il gorilla appostato di guardia alla suite non mancò di abboccare.

Arrivata a quel punto, non doveva far altro che attirare a sé la lenza.

 

***

 

Gli immobilizzò polsi e caviglie con due fascette stringicavo che aveva nascosto nel grembiule. L'uomo grugnì ma non riprese i sensi, restando accasciato sul ridotto pavimento dello sgabuzzino degli inservienti, nel quale si erano appartati. Natasha sperò che la botta in testa che gli aveva dato fosse sufficiente a fargli dimenticare la sua faccia... anche se era piuttosto sicura che si fosse concentrato su tutt'altro durante la loro breve, ma folgorante (per lui) conversazione.

“Spero che tu sia consapevole di aver irrimediabilmente compromesso la sua fiducia nel gentil sesso”, commentò Clint dall'altro capo del segnale che li teneva in contatto.

“Esiste un gentil sesso?” gli chiese nel suo solito tono asciutto.

“Non dovresti abbonarmela per non aver detto sesso debole?” ribatté, col chiaro intento di punzecchiarla.

“Spera che io faccia tardi al punto di ritrovo, o ti farò vedere esattamente quanto sono debole.”

Clint si mise a ridere. Lei si pentì di avergli dato corda. Sapeva che lo faceva apposta, eppure non riusciva a non replicare in qualche modo... o almeno, una volta le riusciva, adesso, trattenersi, era diventato sempre più complicato. Quasi ci fosse una sorta di tacito accordo per cui lo scambio dovesse andare avanti ad ogni costo. Il più delle volte, era così che interagivano.

“Datti una mossa”, l'avvertì. “Se non saranno questi bambocci armeni ad uccidere il dottor Takomoto, ci penserà un infarto.”

“Ricevuto”, gli fece eco, controllando di avere con sé tutto il necessario prima di uscire dal ripostiglio. Con naturalezza recuperò il carrello, spostando dei grossi vassoi coperti dal ripiano inferiore – nascosto da una lunga tovaglia bordeaux – a quello superiore.

I propri passi, soffocati dalla moquette, la condussero di nuovo alla doppia porta della suite presidenziale. Adesso, liberatisi del palo che le aveva impedito di farlo la prima volta, alzò una mano e bussò con discrezione, annunciando di avere con sé la cena.

Un viso scuro e ingrugnito dalla stanchezza fece capolino tra le due ante della porta, squadrandola dalla testa ai piedi.

“Dove diavolo è andato a cacciarsi?” chiese a nessuno in particolare, evidentemente sorpreso per l'assenza del cane da guardia.

Natasha si limitò a stringersi nelle spalle, sfoggiando la migliore delle sue espressioni confuse e innocenti al tempo stesso. L'uomo le lanciò un'occhiata poco convinta, voltandosi verso qualcuno all'interno della suite e abbaiando un paio di frasi in armeno (C'è una di quelle puttane dell'albergo, che faccio?) che Natasha non mancò di registrare, pur mantenendo una facciata di beata ignoranza.

“Uh-oh”, il sussurro di Clint la raggiunse, consapevole del guaio in cui lo sconosciuto si era appena andato a cacciare, a sua totale insaputa.

L'uomo tornò su di lei dopo una breve conversazione col compare riguardo l'attraenza della cameriera in questione, dopodiché – assicuratosi dell'appetibilità di Natasha, più che della cena – deliberarono di lasciarla entrare.

Si curò di sorridergli docilmente, ricevendo in cambio un'occhiata famelica. Aspettò che le aprisse la porta e la invitasse all'interno della suite, facendosi da parte per lasciarla passare, preceduta dal carrello. L'appartamento era enorme, arioso, rivestito di marmi e pannelli di vetro, con una straordinaria vista sul Golfo Persico. Individuò il secondo uomo presente nel salotto – a cui si rivolse con un saluto educato -, facendo vagare casualmente lo sguardo alla porta chiusa della camera da letto: se non altro, avrebbe avuto un minimo di privacy prima di dover affrontare il terzo livello di gioco.

L'uomo che le aveva aperto incombeva alle sue spalle, mentre Clint – nel suo orecchio – tratteneva inconsapevolmente il respiro.

Fu un attimo: si chinò per raccogliere qualcosa dal ripiano inferiore del carrello, distraendo i due con un movimento calibrato. Mentre prestavano attenzione al suo didietro, Natasha impugnò le automatiche provviste di silenziatore poggiate su un vassoio nascosto dal telo scarlatto. Si rimise in piedi, le braccia a centottanta gradi e fece fuoco, il rumore degli spari riecheggiò – strozzato – nell'aria. I corpi esanimi si accasciarono sul pavimento. Su ciascuna fronte, un foro rosso.

“Pensavo che l'avresti rimproverato su quel puttana”, commentò Clint, vagamente deluso. “Uno sta uscendo dalla camera da letto, gli altri due rimangono col dottore”, aggiunse in tutt'altro tono.

Natasha aveva appena avuto il tempo di nascondersi dietro lo schienale di un grosso divano di pelle nera, che la porta della stanza si aprì. Aspettò una manciata di secondi, quel tanto che le bastava per localizzarlo alla perfezione... ma il rumore del vetro infranto, il tonfo di un peso morto, la presero in contropiede.

Riemerse tentativamente dal suo nascondiglio, alzando gli occhi al soffitto con aria esasperata: l'uomo era stato colpito da una freccia-taser proprio all'altezza del petto.

“Prego”, la precedette Clint.

“Non ce n'era alcun bisogno”, bisbigliò lei, lanciando solo una rapida occhiata all'uomo che tremava grottescamente in preda alle scosse elettriche, prima di attraversare la stanza e schiacciarsi contro la parete opposta, proprio accanto allo stipite della porta della camera da letto.

“Lo prenderò come un ringraziamento”, la informò.

Avrebbe voluto biascicare un non lo era, ma optò per un'occhiata glaciale in direzione della finestra rotta, oltre la quale riusciva a scorgere l'alta torre – una banca – dalla quale Clint la stava osservando.

“Ne sta arrivando un altro. Tutto tuo.”

Si concentrò sul rumore dei passi e delle voci concitate che sentiva nella stanza subito adiacente.

Puntò l'arma alla sua destra e fece fuoco.

 

***

 

“Gli ho somministrato un leggero sedativo”, le annunciò, chiudendosi la porta alle spalle.

La casa sicura non poteva di certo competere con lusso sfrenato dell'albergo che avevano lasciato circa un paio d'ore prima, ma non era fatiscente come si era aspettata.

Clint la raggiunse al tavolo della cucina-soggiorno, sul quale Natasha aveva disposto le sue armi, intenzionata a trascorrere il tempo che li divideva dal recupero pulendole accuratamente.

“Non puoi aspettare di arrivare a New York per quello?” le chiese dopo una manciata di secondi in cui – Natasha lo intuì – aveva dibattuto con se stesso se parlare o meno.

“Abbiamo altro da fare?” gli ritorse, alludendo alla stanza semi-deserta con un cenno del capo. Di certo non c'era niente che avesse l'aria di un passatempo.

“Dormire? Rilassarci?”

“Se vuoi dormire, fa' pure... il divano è tutto tuo.”

“Nah... fa troppo caldo, e quel coso sembra contenere almeno tre generazioni di parassiti.”

Lo maledì mentalmente per aver menzionato l'afa che opprimeva la stanza: aveva cercato di relegare la consapevolezza in un remoto angolo della propria mente, ma il meccanismo si era appena inceppato. Si sentì soffocare.

“Vedrai, solo un paio d'ore e verranno a prenderci”, le disse, forse per consolarla, forse per convincere se stesso. “E' la terza volta che finiamo una missione con tutto quest'anticipo”, fece notare con una punta di malcelato orgoglio.

Natasha annuì, usando uno straccio per ripulire la canna di una delle sue armi.

Restarono in silenzio ancora per un po', prima che Clint si arrendesse al suo mutismo e annunciasse di aver bisogno di una doccia. Avrebbe voluto metterlo in guardia sulle pessime condizioni del bagno, ma finì per tacere.

Scrutò i suoi movimenti con la coda dell'occhio finché non lo vide sparire. Rimasta sola, rilassò di colpo le spalle, ammosciandosi sulla sedia.

Il senso di colpa arrivò, puntualmente, a farle compagnia.

 

***

 

“Cosa fai... p-per rilassarti?” Inorridì al modo in cui la voce risuonò alle sue stesse orecchie, tanto che per un istante si era quasi convinta della presenza di una quarta persona – oltre a loro due e al dottore – che sicuramente doveva aver pronunciato quella frase.

Ma no, era stata lei.

Clint rialzò lo sguardo dal depliant di un ristorante srilankese che – chissà come – aveva ripescato da una tasca dei pantaloni di ricambio che aveva portato con sé. Non aveva trovato asciugamani e aveva l'aria di essersi rivestito senza asciugarsi. Il tessuto della t-shirt nera gli si appiccicava alla pelle umida, lasciandone intravedere le linee in più punti. Cosa che, in tutta sincerità, la infastidiva.

Sembrava altrettanto sorpreso, e – proprio come lei – accennò a guardarsi attorno, giusto per accertarsi che fosse stata davvero lei a parlare. Dovette aggiungerci anche il carico da cento, indicandosi con aria volutamente confusa, rivolgendole un tacito Stai parlando con me?

Prontamente, Natasha si pentì d'aver parlato. Alzò gli occhi al soffitto e fece per dirgli di lasciar perdere, ma Clint fu più rapido di lei.

“Tiro con l'arco, guardo la tv...” rispose, facendo una breve pausa. “Osservo la città dall'alto... cose così.”

Se lo figurò seduto sul ciglio di un qualsiasi edificio di Brooklyn, con la stessa nonchalance con cui chiunque altro si sarebbe seduto su un muretto alto un metro.

Finì per annuire, come per prenderne atto, chiedendosi se avrebbe dovuto dire qualcos'altro, alimentare la conversazione o lasciarla morire lì. Una parte di lei avrebbe sostenuto che era stata lei a cominciarla e che sarebbe quindi stato compito di lui mandarla avanti; un'altra si sentiva ancora in colpa per tutte le conversazioni che lui aveva cominciato e che lei aveva lasciato sistematicamente morire.

“Tu cosa fai per rilassarti?” Clint la tolse dall'imbarazzo di dover decidere se star zitta o parlare. Poi assunse un cipiglio stranito. “Ammesso che tu sappia cosa voglia dire... rilassarsi.”

“Molto divertente, Barton, davvero.”

“E' un dubbio più che ragionevole”, ribatté lui, un principio di risata sulle labbra.

“Come qualunque altro essere umano, sì, mi rilasso.” dichiarò seccamente a sua volta.

Registrò le sue stesse parole con qualche secondo di ritardo. Davvero si era appena considerata come un qualunque altro essere umano? Valutò quasi ossessivamente la cosa, tanto che – dopo qualche attimo – le parve incredibilmente stupida.

“Allora... cos'è che fai per rilassarti?” Clint interruppe le sue divagazioni mentali, riportandola coi piedi per terra.

“Leggo. Cammino. Prendo la metropolitana.”

“Prendi la metropolitana per rilassarti?”

Natasha annuì, chiedendosi se non avrebbe fatto meglio a starsene zitta. Le piaceva davvero, però, scendere sottoterra, prendere un treno a caso, restarsene seduta per quantità di tempo indefinite, osservare la gente che arrivava e veniva, ognuno occupato con la propria vita e i propri impegni. Era anche un ottimo allenamento per ampliare il proprio repertorio di personaggi, gesti, atteggiamenti...

“Osservo la città, ma da vicino”, gli ritorse, come per mettere in chiaro che se la sua idea era stupida, allora doveva esserlo anche quella di lui.

Clint sorrise e alzò le mani a mo' di resa. La maglia nera sembrava stargli troppo piccola, e il movimento delle braccia fece arricciare il tessuto attorno alle ascelle, rendendo ancora più evidente la linea dei pettorali.

Natasha trattenne inspiegabilmente il respiro e guardò altrove, verso le sue armi diligentemente sistemate sul tavolo, ormai pulite e di nuovo pronte all'uso.

“Non esci mai?”

Rialzò lo sguardo su di lui, metabolizzando la domanda con un po' di ritardo.

“Certo che esco di casa”, rispose, sicura di essersi persa qualcosa di essenziale.

“No, intendo... non esci mai la sera? Per divertirti?”

Natasha si strinse nelle spalle. Uscire per far cosa, esattamente? Andare a ballare, bere, cenare... e con chi? Non si era fatta nessun amico a New York, e le sue conoscenze si limitavano a lui, al direttore Fury e all'agente Coulson. S'immaginò in discoteca in compagnia dei tre, senza riuscire a nascondere il sorriso che le affiorò sulle labbra.

“No...” finì col dire, mascherando in qualche modo il divertimento, anche se sapeva che – con ogni probabilità – Clint se ne doveva essere accorto. Gli rigirò la domanda con un leggero cenno del capo, al quale rispose scuotendo la testa. Movimento che interruppe un attimo dopo.

“Voglio dire... sì, esco, qualche volta... quando capita.”

Qualcosa le disse che non molte di quelle serate dovevano essersi rivelate un successo.

“Magari puoi consigliarmi qualche posto”, propose, cogliendo nuovamente impreparata persino se stessa. “Sei tu l'esperto”, aggiunse, come per mitigare la straordinarietà del momento.

“Sono io”, confermò lui, mostrando il buonsenso di non conferire troppa importanza all'evento.

Poi le sue sopracciglia si aggrottarono e la sua espressione cambiò, perplessa.

 

Ce li hai ventun anni?”

 

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N.d.A: Buongiorno di nuovo! La fanfiction prosegue e ci sembrava doveroso fare (gatto permettendo - provate a scrivere sulla tastiera, con artigli felini che spuntano direttamente da dietro lo schermo del pc, pronti a staccarvi le dita) , in separata sede, i dovuti ringraziamenti, a chi ci sta leggendo per la prima volta e chi sta continuando a farlo e ai commenti carini ed entusiastici con cui avete accolto anche questa nuova storia.

Insomma, grazie, ecco. E arrivederci al prossimo capitolo :)

Frr, frr. Miau.

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Capitolo 3
*** Dublino, Irlanda ***


CAPITOLO 3

Dublino

 

Ce li hai ventun anni?”

 

L’alito di quell’uomo era mefitico quanto il puzzo del club privato. C’era da chiedersi quanti ispettori sanitari avessero corrotto per riuscire a tenerlo aperto fino a quel giorno.

Clint si limitò a rispondere con una scrollata di spalle. Fingere di essere un silenzioso professionista della sicurezza, era una delle coperture che meno gli si addiceva.

“E allora bevi, amico mio, bevi!” il grassone (conosciuto come Big Paul) gli piazzò una manata sulla schiena, proprio al centro delle scapole, che quasi lo fece andare a sbattere contro il tavolo. Essì che Clint non si era mai considerato fragile.

“Non bevo mai quando sto lavorando”, si limitò a rispondere asciutto, il cipiglio ostile. Gli bastò ricordare come lo guardava Natasha, di tanto in tanto, per riuscire a comportarsi di conseguenza.

Solo ieri discutevano su come dividersi i compiti e la sera successiva si trovava a prendere accordi con uno dei contatti di una delle organizzazioni criminali del luogo.

Doveva solo farlo cantare. Un paio di nomi erano tutto quello che gli serviva.

Contrabbando, droga, prostituzione, l’organizzazione di cui Big Paul faceva da tramite aveva un gran bel curriculum sul groppone. A quanto pareva, adesso sembrava aver garantito protezione a un soggetto decisamente fuori dalla loro portata. Qualcuno che persino lo SHIELD stava cercando. Uno scambio di favori che però collimava con interessi di sicurezza nazionale.

Clint sapeva che la missione aveva a che fare con qualcuno di quei folli che se ne andavano in giro in costume, uomini che la gente amava chiamare supereroi.

Qualcuno come quello Stark, che dominava la città di New York dalla sua torre, che aveva fatto furore con le sue dichiarazioni solo qualche mese prima, o come quel tizio che aveva riacceso l'orgoglio nazionale durante la seconda guerra mondiale e di cui Coulson era un fan sfegatato.

“Ma non stai lavorando adesso”, la voce dello sgradevole individuo a distrarlo dalle sue elucubrazioni “è una chiacchierata, amico mio, un’amichevole chiacchierata.” La risata grassa, catarrosa, filtrata dall’odore del suo alito dall’alto tasso etilico gli procurò un moto di nausea, riportando alla memoria spiacevoli ricordi.

Non poteva almeno smetterla di chiamarlo amico?

“Io sto sempre… lavorando”, dichiarò intransigente. Da dove gli fosse uscita non ne era certo, ma si complimentò con se stesso e le sue serate solitarie a guardare filmetti da quattro soldi con Bruce Willis o qualsiasi altro mascellone Hollywoodiano.

L’omone lo guardò perplesso per un istante e poi giù di nuovo a sperperar risate non richieste.

Era l’alcool a renderlo così allegro o era stupido di natura? Propendeva per una soluzione di mezzo.

“Vorrà dire che berrò per tutti e due, allora.”

Lo vide far cenno alla cameriera che, capendo al volo, portò due grossi boccali, traboccanti di birra.

Clint represse un moto di fastidio.

“Torniamo a noi, bel fusto”, lo apostrofò l’uomo, senza perder tempo a tracannare almeno un terzo del bicchiere, mentre la birra gli rotolava fra i peli della barba rosso acceso e poi giù dal mento adiposo, lasciando, tra i baffi, una bava di schiuma. “Parliamo di affari”.

Finalmente.

Clint non chiedeva altro che di arrivare al punto.

Avrebbe solo dovuto prendere accordi su una serata al club che avrebbe visto partecipi un presunto politico e il suo staff, accertarsi che fosse mantenuto il massimo riserbo e avere le dritte necessarie per garantire massima sicurezza al luogo, in quanto responsabile del gruppo di bodyguards che li avrebbero accompagnati.

Con la scusa di prendere visione del locale, avrebbe agganciato una conversazione, attirato l'uomo nella trappola e ottenuto le sue informazioni, con le buone o con le cattive.

Natasha lo aspettava fuori.

Tutto quello che doveva fare era risultare credibile; non gli era sembrato un compito troppo difficile, all’inizio.

Non prima di aver capito con che razza di individuo avrebbe dovuto avere a che fare. Non prima di rendersi conto che quel locale gli ricordava qualcosa di già visto e vissuto. Di riportare alla mente incubi ricorrenti, amplificati dalla musica ritmata a tutto spiano, che rimbalzava fra quelle pareti di un rosso cupo.

La birra di fronte al suo bicchiere oscillava ad ogni sussulto dell'uomo, la schiuma si scioglieva lentamente nel boccale, lasciava gocce di condensa sulla superficie trasparente. L’insieme gli procurò, inizialmente, un vago malessere.

Cominciò ad avere difficoltà a focalizzare.

La conversazione, già ampiamente avviata e arrivata a un punto di svolta, si fece confusa, un sottile strato di sudore gli velava la fronte; il sentore di una tachicardia incipiente, il respiro affettato, la salivazione azzerata. Improvvisamente gli fu chiaro quello che stava accadendo, e per la prima volta, dopo anni, ebbe paura.

Socchiuse gli occhi, inspirò a fondo, il caldo soffocante del locale non lo stava aiutando per niente, l'adrenalina non faceva che triplicare le sensazioni, opprimendolo.

“Ehi, amico ti senti bene?”

L'uomo lo aveva avvicinato quel tanto che bastava per fargli avvertire di nuovo quell'odore nauseabondo di carne rancida e alcool.

L'effetto fu devastante. Si alzò in piedi come colpito da una scossa.

Vide lo stupore di Big Paul tramutarsi in sospetto, un paio di buttafuori avanzare cauti verso il loro tavolo.

“Perdonami, amico, credo che quel maledetto sushi del locale qui all’angolo, stia facendo effetto” smozzicò Clint. Non gli ci vollero grandi doti interpretative per recitare la parte di chi è affetto da dolori lancinanti. Stava male davvero. “Il diavolo mi prenda se mangerò più qualcosa da quei musi gialli.” E nel dichiarare ciò si portò saldamente le mani al ventre, come scosso da contrazioni intestinali.

Big Paul gli scoccò un’ultima occhiata sospetta, ma aveva già alzato la mano per sedare gli animi dei gorilla in allerta: il pericolo sembrava scampato. Per il momento.

“I bagni sono in fondo a destra”, lo sentì dire, mentre si passava le mani grassocce sui pantaloni eleganti di un completo di dubbio gusto.

Clint annuì come a prenderne atto (I bagni sono sempre in fondo a destra) e si trascinò rapidamente lungo il corridoio, fuori dalla portata del suo uomo. E dai buttafuori che, era certo, lo avrebbero seguito di lì a poco.

Individuò i bagni degli uomini, spinse la porta con forza, trovandosi solo, in un locale che odorava di piscio e detersivo. Un aroma che di certo non faceva alcun favore al suo disturbo.

Individuò la finestra che dava sul retro del locale (un po’ stretta ma avrebbe potuto passarci agilmente, trattenendo il fiato) e dopo qualche istante era di nuovo fuori, a respirare.

 

Natasha comparve come un'ombra fra la seconda e la terza boccata d'aria fresca.

“Che è successo?” la sentì domandare, una malcelata preoccupazione nella voce.

Si rimise in sesto il più rapidamente che poté.

“Ho dei nomi, p-possiamo andare.”

La donna non fece altre domande. Clint non seppe dire in che modo aveva accolto l'episodio ma cercò di dare priorità alla missione. Prima avrebbero concluso quella faccenda, più tardi il ciccione sospettoso avrebbe potuto dare l'allarme. Sperò solo che l'uomo fosse convinto di aver avuto a che fare con un ispettore sanitario sotto copertura.

 

***

 

Big Paul si era rivelato per l'imbecille che era, non sembrava aver capito un bel niente, e probabilmente si sarebbe limitato a tenere un basso profilo per i giorni a venire.

Clint aveva lasciato a Natasha il compito di svolgere le ultime ricerche e contattare lo SHIELD per dare le comunicazioni riguardo le ultime svolte della loro missione.

Aveva preso un'aspirina e si era chiuso in un innaturale, ostinato silenzio. Raggiunto il tetto dell'edificio che li avrebbe ospitati per le prossime ore, osservava la città di Dublino, godendosi il vento freddo di ottobre.

Cercava di schiarirsi le idee ma, per quanto ci provasse, i suoi pensieri continuavano a tornare lì dove non avrebbe dovuto, a racimolare informazioni sulle cause di quello che era appena successo. A non trovarne il senso, dopo tutti quegli anni.

“Dicevi davvero dei tetti.”

Natasha, silenziosa e inattesa come al solito. Lui si limitò a scoccarle un'occhiata da sopra le spalle.

“Potresti almeno fare un po' di rumore per annunciarti”, fu la stanca risposta.

La donna esitò solo un istante, forse sorpresa dalla totale mancanza di ironia nel suo tono. Decisamente qualcosa a cui non era abituata.

Non si lasciò intimorire però, e Clint lo capì, per questo lasciò che fosse di nuovo lei a parlare.

“Devi dirmi che cosa è andato storto stasera.”

Lui aggrottò la fronte.

“Non mi pare che niente sia andato storto. Abbiamo i nomi. Fat Pauly ha creduto fossi solo un tizio che voleva fargli chiudere il locale.”

“Non era questo che dovevi fargli credere.”

“Dobbiamo proprio stare a sindacare sui miei metodi?” la protesta era arrivata più aggressiva di quanto si aspettasse.

Natasha non si mosse, continuava a fissarlo.

Si sentì addosso il suo giudizio o la silente aspettativa di chi continua ad attendere risposte.

Socchiuse gli occhi, un po' per placare il nervosismo, un po' per valutare se fosse il caso di darle corda, il respiro che si condensava di fronte alle sue labbra.

“Credo di aver avuto un attacco di panico”, lo aveva pronunciato con rapidità e noncuranza, come se fosse una cosa di poco conto.

Natasha ora gli sedeva di fianco.

“Scatenato da cosa?”

“Non lo so...”

“Lo sai.”

Clint si volse indispettito, scontrandosi con l'implacabilità della donna.

La scrutò per un solo istante, sicuro di poterla affrontare con la stessa determinazione. Sostenne il suo sguardo per quella che gli parve un'eternità... ma no, lui non era quel tipo di persona e il senso di colpa per come stava affrontando la conversazione si fece rapidamente sentire. Si vide costretto a scappare in ritirata, abbassare gli occhi, mostrare il suo lato più remissivo.

“Non funziona se non mi dici che succede”, riprese lei.

“E' una cosa che riguarda solo me”, ribatté, lasciando trapelare solo un'accennata protesta.

“Non se mette in pericolo entrambi.”

Rialzò gli occhi per scrutarla. Sapeva che aveva ragione, ma non era sicuro che il loro rapporto lavorativo avesse bisogno di quel tipo di svolta.

Quelle confessioni che arrivano a ciel sereno e sconvolgono l'armonia professionale.

Però continuava ad avere ragione. Se solo Big Paul si fosse scoperto più furbo, probabilmente non si sarebbero ritrovati sul tetto di quel palazzo, in quel momento, ma in fuga dall'ira di un'organizzazione criminale di tutto rispetto.

Inspirò a fondo, trovando rinfrancante l'aria gelida. Schiariva le idee, ritemprava.

Il resto venne da sé.

“Quando ti dicevo che ero parecchio incasinato, prima di essere reclutato dallo SHIELD, non scherzavo.”

Si fermò solo un istante per raccogliere le idee.

Natasha restava in silenzio a scrutarlo, forse, per una volta tanto, incuriosita.

“Ero appena stato congedato dall'esercito, di ritorno dall'Iraq, troppo giovane per affrontarne da solo le conseguenze, troppo stanco anche solo per sfiorare l'idea di cercare una nuova occupazione.”

Sbuffò una risata tutt'altro che divertita.

“Una persona assennata avrebbe affrontato la cosa accettando di avere un problema. Chiedendo aiuto. Un ragazzo stupido cerca solo di dimenticarlo e reprimerlo con qualcos'altro.”

Lo sguardo vagava adesso sui tetti delle case e dei palazzi, oltre le luci che si specchiavano nel Liffey, infrangendo l'armonia delle sue acque scure, oleose.

“L'alcool è un potente lenitivo. Annebbia la mente, rallenta i sensi. Sembrava una grande idea, all'inizio. Non c'era sera che non mi sfondassi lo stomaco con quella robaccia. Il giorno mi trascinavo abbastanza nauseato dall'universo per restare chiuso in casa a dormire, guardare la tv e deprimermi sull'inutilità della mia esistenza.”

Non era sicuro di volerla guardare adesso. Aveva paura di trovare del giudizio, nel suo sguardo. O peggio, divertita compassione. Natasha doveva aver attraversato sentieri ben più tortuosi dei suoi, ben poca cosa la sua fragilità giovanile, a confronto.

Non si fermò.

“Non sono mai arrivato ad essere un vero e proprio alcolizzato, troppo breve la mia dipendenza, poco sottile e continuativa. Ne sono uscito perché qualcuno ha avvertito il mio muto grido d'aiuto”, chiarì. “Ma ci sono incubi che ti si agganciano addosso e non se ne vanno. Momenti in cui tornano a farti visita, quando meno te lo aspetti... scatenano reazioni che non potevi prevedere.” Sorrise. “Il cervello umano è misterioso. Non mi capitava da anni.”

“E perché credi sia successo proprio stasera?”

La voce di Natasha lo costrinse a guardarla. Si stupì nel non trovare nessun accenno di turbamento nella sua espressione.

Scosse la testa.

“L'atmosfera del locale, la puzza di alcool, la musica... vallo a sapere. Ho passato troppo tempo in bettole come quelle per averne buoni ricordi.”

Non era sicuro di sapere perché, ma si sentì liberato da un peso, che tempo prima aveva imparato a gestire solo con l'aiuto dell'unica persona che era riuscita a vedere il peggio di lui. L'unica persona ad avergli sventolato in faccia il problema, ad averlo costretto ad affrontare la realtà. Uno sconosciuto che si era preso a cuore la sua causa, restituendogli la dignità.

“E la mancanza di sonno?” Clint la guardò perplesso. “La mancanza di sonno può provocare disturbi di percezione e allucinazioni. Sono tre giorni che praticamente non dormi.”

Natasha parlava come qualcuno che conosceva alla perfezione l'argomento.

“Forse...” ora si sentiva stupido. Le aveva fatto quella confessione, toppando clamorosamente la diagnosi dei suoi cinque minuti di paura?

Lei però continuava a esaminarlo con quel modo tutto suo di dimostrarsi interessata. I grandi occhi verdi a scrutarlo, come se gli potesse guardare attraverso, attenta a seguire ogni dettaglio, pronta a carpirgli ogni più intimo segreto.

“E' stato Coulson, vero?” la domanda arrivò inaspettata.

“A... fare cosa?” le domandò, cercando di capire dove volesse andare a parare.

“A darti una mano. A riportarti sulla retta via. Ad indirizzarti allo SHIELD.”

Clint continuava a non capire il senso della domanda ma annuì.

E lo stesso fece lei, come a prenderne atto.

Improvvisamente gli fu chiaro che Natasha si era scoperta solo curiosa. Curiosa di conoscerlo? Conoscere i suoi trascorsi. Da che ricordava, non avevano mai affrontato argomenti troppo intimi. La loro conoscenza si misurava in episodi, piccoli dettagli, niente di troppo specifico.

La porzione d'esistenza che Clint le aveva appena mostrato, confessato, doveva aver scatenato la sua curiosità. Aperto un mondo a cui forse credeva di non avere accesso.

Clint quasi sperò che continuasse a fargli domande.

Occhio di Falco te lo ha affibbiato lui?” Natasha non lo deluse.

Non riuscì a impedirsi di sorridere. Non si era affatto sbagliato.

“No, quello l'ho ereditato al circo dove lavoravo.”

L'espressione di Natasha, per qualche frazione di secondo, fu impagabile.

“Il Carson Carnival of Traveling Wonders”, citò, “cerca informazioni. Sono sicuro esistano ancora articoli di giornali da qualche parte.”

La sua penetrante curiosità adesso si era trasformata in dissimulata meraviglia. Natasha gli ricordò una ragazzina a cui veniva raccontata una storia della quale non vedeva l'ora di ascoltare la fine.

La Vedova Nera non doveva aver mai avuto la sua favola della buona notte. E probabilmente nessuno che decidesse spontaneamente di raccontarle qualcosa di sé, senza dover essere circuito da un bel paio di labbra e la promesse di dolci oblii.

Si scoprì intenzionato a non deluderla, né perdersi il momento.

Prese un profondo respiro e in quella fresca notte di ottobre cominciò a raccontare.

L'avventura di due fratelli, dello spadaccino che li aveva raccolti dalla strada, del malvagio Trick Shot e di quel ragazzino che imparava a diventare un uomo, catturando foglie al volo, con la frustata di una freccia argentata.

 

Sentire su di sé la profondità di quegli occhi non era mai stato tanto confortante.

 

 
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N.d.A.: grazie ancora a chi continua a leggerci & recensirci! Al prossimo capitolo :)

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Capitolo 4
*** Pyongyang, Corea del Nord ***


CAPITOLO 4

Pyongyang

 

Sentire su di sé la profondità di quegli occhi non era mai stato tanto confortante.

 

Il volto della donna era illuminato da un leggero bagliore che le faceva risplendere la pelle di una luce pallida e tenue. Qualcuno avrebbe trovato la visione spettrale, ma a Natasha ricordava il viso della luna, una di quelle lune amichevoli con occhi, naso e bocca, che popolavano le fiabe che non le avevano mai raccontato.

 

I lunghi capelli rossi le incorniciavano le fronte, le labbra – un fiore scarlatto in mezzo all'ovale del viso – facevano loro da contrappunto, gli occhi grandi e rassicuranti. Sembravano richiamarla a sé con voce familiare, confortante.

 

Le sorrise, non il frutto di una complicata finzione, come era solita, ma un sorriso sincero. La sconosciuta ricambiò rapidamente, come se avesse intuito i suoi pensieri e avesse fatto altrettanto. I suoi denti scintillarono come perle nel buio. Per un attimo, Natasha ebbe la sensazione di aver ritrovato un'amica, una confidente sepolta e dimenticata per anni e improvvisamente tornata a farle visita.

 

Allungò una mano, voleva toccarla, sfiorarle il viso. Seguì il movimento delle proprie dita tese fino alla sua guancia. La donna davanti a lei imitò il suo gesto. Trattenne il respiro aspettando di sentire la consistenza del suo viso sotto le dita. La donna fu più veloce di lei. Sussultò, confusa: il suo tocco era gelido. Rialzò lo sguardo e, invece che rincontrare i suoi occhi – i suoi stessi occhi verdi – si ritrovò a guardare nell'abisso di due orbite vuote, la pelle avvizzita, macchiata, di una consistenza tutta sbagliata a far loro da contorno.

 

Natasha ebbe paura. Voleva gridare, strepitare... ma, per quanto si sforzasse, dalle sue labbra dischiuse non uscì alcun suono. Voleva fuggire, ma i piedi le si erano fatti improvvisamente pesanti, impossibili da sollevare.

 

Il panico la riempì mentre osservava con muto orrore la donna marcire e accartocciarsi su se stessa, come un sogno improvvisamente appassito.

 

Finché un leggero calore non le riscaldò le mani. Fu un inaspettato conforto nel freddo tombale che respirava attorno a sé. Ma durò solo un istante: le bastò un'occhiata alle proprie mani per accorgersi di essere ricoperta di sangue. Sangue fresco, di un rosso brillante e impietoso che quasi l'accecò, annegando la luce lunare che la circondava solo un attimo prima.

 

Tutt'intorno, le orbite oscure di mille cadaveri in putrefazione la osservavano, la accusavano... e allora comprese.

 

Sono miei... sono tutti miei.

 

Qualcosa l'afferrò da dietro, impedendole di sollevare le braccia, inspiegabilmente inchiodate ai lati del suo corpo. Si dimenò forsennatamente, nel disperato tentativo di scrollarsi di dosso quella morsa invisibile, il cuore prese a batterle furiosamente nel petto in preda al panico...

 

***

 

… urlò con tutto il fiato che aveva in corpo. Una parte di lei fu sollevata dal riuscire a sentire la propria voce, l'altra era troppo impegnata a respingere il suo assalitore per preoccuparsene.

Gli affondò le unghie nella carne e lo respinse, buttando entrambi a terra. Il dolore le riverberò nella schiena come un colpo di frusta, mentre un odore familiare le raggiungeva le narici. Non lo registrò, non se ne concesse il tempo, riprendendo a combattere e a resistere con cieco furore.

“Natasha! Natasha! Sono io! Son – CAZZO!”

Una gomitata nello sterno e la voce – maschile, realizzò in un lampo di lucidità – si smorzò, in difficoltà. Un'assurda soddisfazione la rianimò, sedando per un misero attimo il terrore che ancora le attanagliava lo stomaco e le contorceva le budella, impedendole di respirare e ragionare e...

 

… la terra le mancò improvvisamente da sotto i piedi. Le parve di cadere nel niente. Gridò di nuovo, finché non si sentì schiacciare contro qualcosa di morbido e traballante. Tentò di muovere i polsi, ma qualcosa li teneva immobili a mezz'aria. Le gambe pesanti, come attirate da una forza di gravità centuplicata.

“N-Natasha! Guardami!”

Lo scrollone che ricevette le provocò una fitta di dolore all'avambraccio destro.

“Natasha!”

Il secondo le fece riaprire gli occhi, improvvisamente consapevole di averli tenuti chiusi fino a quell'istante. Il volto di Clint prese lentamente forma davanti a lei, linee confuse che si fecero sempre più definite. Natasha inspirò quasi violentemente, un sordo dolore a riempirle il petto. Rimase immobile, come sospesa per quella che le parve un'eternità, il cuore impazzito, i muscoli dolorosamente contratti, i nervi tesi fino all'inverosimile...

Inorridì non appena si rese conto che Clint la stava tenendo immobilizzata al materasso con il peso del proprio corpo, la sua espressione un misto indecifrabile di sorpresa e preoccupazione. Quattro solchi rossi gli attraversavano un lato del collo, fino a sparire nello scollo della maglia che indossava... qualcosa le disse che era stata lei a tracciarli.

Non riuscì ad emettere alcun suono, ma ebbe il buonsenso di rilassarsi completamente – operazione che richiese tutta la sua concentrazione – sciogliendosi contro il letto, braccia e gambe improvvisamente molli. Clint non si trattenne un secondo di più: sentendo mancare ogni tipo di resistenza la lasciò andare, scivolando via dal letto.

Il materasso tremò non appena si fu liberato del suo peso.

“Ti senti bene?” Gli sentì chiedere in un tono che non gli aveva mai sentito usare. “Ti s-sei... ti sei improvvisamente messa ad urlare.”

Davvero l'aveva fatto?

Fece uno sforzo immane per rimettersi seduta. La testa le girava mentre, con una mano, cancellava la patina di sudore freddo che le ricopriva la fronte.

 

***

 

Chiusasi nel piccolo, disgustoso bagno della stanza, Natasha si appoggiò al lavandino con entrambe le mani. Si sostenne come meglio riuscì, sentendo le braccia pesanti e anchilosate.

Gli eventi della giornata precedente si fecero avanti uno ad uno nella sua testa.

Pyongyang, la corsa sui tetti ricoperti di cemento scadente e lamiere di metallo arrugginite, il Soggetto Zero, il presunto super soldato che lo SHIELD li aveva mandati ad intercettare per comprenderne la natura.

Stroncare sul nascere il folle progetto di un manipolo di scienziati privi di scrupoli, finanziati da chissà che sezione fantasma del governo nordcoreano, era questo che avrebbero dovuto fare. Investigare, intercettare, colpire. Le informazioni che avevano ricevuto, però, erano talmente frammentarie e generiche da essere inutilizzabili. Lo SHIELD aveva chiesto loro di fare l'impossibile e avevano fallito.

Erano riusciti a trovare rifugio nella stanzetta minuscola e claustrofobica di un albergo a ore. Tutto, dall'arredamento fuori moda, alle tre diverse carte da parati che ne ricoprivano i muri, appariva come il recesso di un'epoca trascorsa da venti, trenta, quarant'anni. Varcarne la soglia era stato come uscire da una macchina del tempo. Il letto aveva bisogno di un nuovo materasso, di una nuova struttura... aveva bisogno di essere un letto nuovo, così come il resto della stanza avrebbe beneficiato di un rinnovo.

Il Soggetto Zero era riuscito a fuggire al termine di un inseguimento che li aveva tenuti occupati la maggior parte della giornata. Era stata Natasha ad individuarlo per prima, l'aveva affrontato, finendo per pagare il prezzo più alto di quel fallimento. Per questo Clint si era offerto di occuparsi del turno di guardia, per permetterle di dormire e riacquistare le energie.

Natasha non aveva neppure provato ad accennare una protesta: aveva accettato di buon grado la proposta, ed era sprofondata in un sonno tanto rapido quanto tormentato.

La paura, il disappunto per la missione fallita, la vergogna di essere stata messa al tappeto, il cieco terrore che la solita vecchia storia dei super soldati le instillava, si erano rivelati essere un cocktail letale per la sua psiche. C'era stato un periodo in cui, svegliarsi durante la notte con le lenzuola appiccicate alla pelle sudata, le proprie grida a rimbalzare tra le pareti, era praticamente la regola. Ma erano passati mesi, forse anni dall'ultimo episodio. La consapevolezza che, in fondo, quei tempi non se n'erano mai andati, la fece infuriare.

Inspirò a fondo, provocandosi una fitta di dolore al petto. Si costrinse ad espirare, rialzando lo sguardo sul piccolo specchio dall'aria instabile appeso con un chiodo al di sopra del lavandino. La luce traballante e verdognola dell'unica lampadina della stanza, conferì un'aria malsana al suo riflesso. Un brivido le scivolò giù per la schiena, riportandola per un istante all'ambientazione infernale del suo incubo. Guardò altrove in fretta e furia, sciacquandosi il viso con entrambe le mani. Si asciugò con un lembo della maglietta che indossava, evitando accuratamente di incrociare di nuovo il proprio sguardo riflesso.

Clint, riusciva a sentirlo, era appostato fuori dalla porta del bagno. L'aveva guardata scendere dal letto e si era sforzato di non fare domande. Eppure, Natasha sapeva di non potersi sottrarre ai suoi occhi, non per sempre. Erano una squadra, non era questo l'argomento che aveva usato con lui sul tetto di quell'edificio di Dublino solo qualche settimana prima? Il ragionamento non le lasciava scampo.

Tentando di non apparire come la condannata al patibolo che si sentiva d'essere, Natasha raccolse il poco coraggio e la scarsa lucidità di cui disponeva e uscì dal bagno.

 

***

 

Strappò l'involucro di una salvietta disinfettante e gliela passò sul collo ferito con un gesto brusco. Sentì i muscoli delle sue spalle tendersi in segno di protesta sotto le proprie dita. Le rimostranze di Clint si limitarono a quell'impercettibile, involontaria reazione. Non aveva fatto domande quando l'aveva costretto a sedersi sul letto per permetterle di andare a recuperare il kit di pronto soccorso dalla loro attrezzatura abbandonata tra il letto e il comodino. Non le aveva chiesto se fosse tutto a posto, non aveva preteso spiegazioni e di questo gliene era grata. Focalizzò sul battito cardiaco che le rimbombava nelle orecchie a cadenza sempre più regolare, lasciando ticchettare via il tempo.

“Ci pensi mai”, riprese dopo qualche minuto, spezzando il silenzio che faceva loro compagnia, “a chi saresti se non fossi... q-quello che sei?”

Si maledisse per quella stupida incertezza, quel tentennamento che sentì trasparire dalla propria voce. Si concentrò sulla ferita di Clint e scacciò via il senso di disagio. Gli occhi di lui sembravano lasciare un'impronta bollente sul suo viso, proprio lì nel punto in cui si erano posati. Evitò di guardarlo, ma riuscì a percepire la sua attenzione, il rumore dei suoi pensieri mentre rifletteva sulla risposta da darle.

“Faccio quello che faccio perché sono quello che sono”, dichiarò dopo essersi umettato le labbra. “Suona un po' stupido,” confessò poi, a mo' di scusa, “ma per fare cose diverse, sarei dovuto essere una persona diversa. E io... io sono solo Clint, suppongo”. Si strinse nelle spalle, evidentemente poco convinto della formulazione.

“Non suona stupido”, dichiarò seccamente Natasha, pentendosi del tono asciutto e sferzante che aveva usato. Si morse l'interno delle guance fino a farsi male. “E se...” lasciò la frase in sospeso, serrò le labbra, concentrandosi sul sapore del sangue che le aveva riempito la bocca, familiare e confortante. Rimase in silenzio a lungo, recuperando una benda adesiva della giusta misura dal kit. L'applicò con mani straordinariamente ferme sul collo di Clint, facendone aderire i bordi alla pelle. Fu soddisfatta solo quando ebbe finito.

Un giramento di testa improvviso la costrinse a mettersi seduta al suo fianco, le unghie arpionate al copriletto antidiluviano – di un'orribile fantasia beige e marrone - come per paura di capitombolare a terra.

“Che succede se ti hanno... s-se ti hanno privato così tante volte d-di te stesso da non saper più cosa s-sei tu e cosa... c-cosa non sei”, mormorò in un soffio, appena udibile, tanto che non fu sicura di aver parlato finché non sentì Clint irrigidirsi accanto a lei. “Che succede quando non distingui tra cosa sei tu e cosa... cosa t-ti hanno fatto diventare gli altri?”

Si voltò impercettibilmente verso di lui, rivolgendogli uno sguardo carico d'aspettativa, come nella speranza di vedersi rivelate le verità dell'universo, dal niente, in una squallida stanzetta d'albergo, nel bel mezzo di una notte asiatica umida e afosa.

“Non lo so”, ammise Clint a voce altrettanto bassa, un'aria triste e desolata insieme sul volto, come per chiederle perdono di non avere proprio nessun asso nella manica per farla sentire meglio. “Non conta quello che sei... conta quello che decidi di essere”, finì per dire, una nota di vaga soddisfazione nella voce.

Le sue parole rimasero sospese nell'aria. Natasha, inspiegabilmente, si mise a ridere.

“In che film l'hai sentita questa?” Domandò a metà tra il perplesso e il divertito, ignorando il dolore alle costole che i sussulti improvvisi le provocarono.

“Forse era uno dei Karate Kid”, bofonchiò lui, oscillando tra indignazione e ilarità, fino ad optare definitivamente per la seconda.

“Metti la cera, togli la cera?” Azzardò lei, ripescando il riferimento da chissà dove, chissà quando. Clint le rivolse un'occhiata esageratamente impressionata. “Non sei divertente”, lo ammonì prima che potesse fare un qualche commento ridicolo a riguardo, stroncando il suo shock sul nascere.

I silenzi, tra loro, avevano smesso di essere scomodi da qualche tempo. Natasha non si era accorta di quando fosse successo... era capitato e basta. Per questo non sentì il bisogno di parlare quando i secondi cominciarono a dispiegarsi gli uni dopo gli altri, senza che nessuno dei due dicesse proprio niente. Finché Clint non dette un colpo di tosse, come per schiarirsi la voce.

“Non puoi cambiare quello che ti è successo”, dichiarò con una certa sicurezza. Era, dopotutto, un dato di fatto. “Quello che puoi fare è... cambiare te stessa, il tuo presente”, lanciò un'occhiata alla parete ricoperta di fiori tropicali scoloriti che avevano davanti, “sempre che tu ne senta il bisogno”. Arricciò le labbra e valutò per un istante il da farsi. Sorrise, forse ad un pensiero che gli passò inaspettatamente per la testa, dopodiché si voltò verso di lei.

“Fossi in te non cambierei niente”, sentenziò solennemente, prima che la sua espressione non si facesse inaspettatamente corrucciata. “Bè, fossi in te sarei un po' più gentile nei riguardi del sottos – ouch!”

Natasha ritirò la mano con cui l'aveva appena colpito alla spalla.

“Sono dolce, simpatico ed educato. Un vero gentiluomo! Non mi merito tutto questo!”

“Continua e deciderò io cos'è che ti meriti esattamente.”

“E scommetto che, di quelle cose, non me ne piacerà neppure una.”

“Probabilmente.”

“Una vedova nera non dovrebbe almeno irretirmi prima di colpire?”

“Ho deciso di passare direttamente alla fase successiva. Per non perdere tempo.”

“Sei una donna deliziosa.”

“Che tu ci creda o no, non sei il primo a dirmelo”, specificò, ostentando un'aria artificiosamente infastidita.

“Non stento a crederlo”, la occhieggiò con l'aria di chi sta dando ragione ad una matta pur di farla stare zitta. Natasha ricambiò il suo sguardo per quello che le parve un secondo di troppo. Nonostante la penombra della stanza, Clint le appariva come l'uomo solido e resistente che le era sempre sembrato. Avrebbe messo la propria vita nelle sue mani, realizzò, come folgorata, mentre fissava la propria attenzione sulla lampada priva di spina che faceva capolino da dietro l'unica anta dell'armadio di legno laccato che si teneva miracolosamente in piedi vicino alla porta d'ingresso.

“Ti hanno cambiata, ma non ti hanno potuto impedire di ribellarti”, Clint aveva ripreso a parlare. “Quella sei stata tu.” Si strinse nelle spalle, indeciso. “Ha importanza, comunque?”

Ce l'aveva? Aveva importanza che la sua immagine, la donna che sarebbe potuta essere se non fosse diventata la Vedova Nera, le facesse visita nei propri incubi? E la consapevolezza di averla uccisa, quella possibile donna, non doveva forse avere una qualche rilevanza?

Non ne era più tanto sicura. Di una cosa però era certa: non poteva cambiare niente di tutto ciò. Quella persona se n'era andata, non esisteva e non sarebbe mai esistita. Ci si poteva sentire a lutto per la perdita di una persona immaginaria?

Lanciò un'occhiata di sottecchi a Clint, apparentemente molto interessato al palmo della mano con cui era solito scoccare le sue frecce.

La Natasha che ti conosce mi piace di più di quella che non ti conosceva, pensò, senza trovare però il coraggio di dirlo ad alta voce.

Inspirò a fondo, sul punto, forse, di aggiungere qualcosa quando un bip non li colse entrambi impreparati.

Natasha si alzò dal letto, correndo a recuperare il dispositivo GPS dalla sua attrezzatura. Lo schermo aveva improvvisamente preso vita, segnalando la posizione del Soggetto Zero, un pallino rosso in movimento su una ragnatela di strade verdi. Aveva cercato di mettergli il rilevatore addosso durante il loro faccia a faccia, ma era convinta di aver fallito.

Almeno fino a quel momento.

Clint l'aveva raggiunta, studiando la piccola mappa al di sopra della sua spalla. Incontrò il suo sguardo, adesso determinato.

 

Andiamo a prendere questo gran figlio di puttana.”

 

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N.d.A.: stiamo per avvicinarci al "giro di boa". Qualche scommessa per la prossima città? ;) Grazie a chi è arrivato fin qui. Alla prossima!

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Capitolo 5
*** Budapest, Ungheria ***


CAPITOLO 5

Budapest

 

Andiamo a prendere questo gran figlio di puttana.”

 

Con quella frase, Coulson aveva decretato la fine della conversazione e messo a tacere il trasmettitore.

Il suo distintivo aplomb minato da una vena ansiosa nella voce. Vederlo nervoso faceva sempre un certo effetto, Clint non era nemmeno sicuro di averlo mai visto arrabbiato.
Com’era il detto? Le acque chete rovinano i ponti. Ecco, se gli avessero chiesto un proverbio calzante per il collega, quello sarebbe stato il più appropriato.

Lo seguì con lo sguardo: aggrappato a una delle transenne che sovrastavano la grande sala conferenze, Clint osservava dall’alto. Arco alla mano e una buona dose di frecce pronte all’uso.

 

L’ampio locale era presidiato da un sostanzioso gruppo di politici, giornalisti ed esponenti delle forze dell’ordine.

Lo SHIELD aveva raggruppato informazioni strettamente connesse alla stirpe di super soldati con cui avevano avuto a che fare solo qualche mese prima. Decriptato coordinate che il Soggetto Zero portava con sé, prima che decidesse di mettere fine alla propria vita, senza che Clint o Natasha avessero potuto impedirlo.

Da quello che avevano potuto capire, il soldato avrebbe dovuto portare a termine una missione che l'avrebbe visto infiltrato fra le file di alcuni diplomatici, in attesa del giorno che avrebbe visto riuniti personaggi di spicco della politica mondiale a quella stessa conferenza.

Le ipotesi portavano a credere che avrebbero mandato un sostituto per portare a termine il compito.

 

Sembrava che persino i servizi segreti fossero interessati all’operazione, convinti si trattasse di una questione di sicurezza che interessava esclusivamente la loro organizzazione. Presuntuosi e supponenti riguardo i metodi e le manovre messe in atto dal direttore Fury.

Non era la prima volta che capitava. Clint si vedeva costretto a tenere sott’occhio anche loro.

“Coulson mi sembra nervoso”, la voce di Natasha dall'altra parte della trasmittente. Il filo conduttore che li teneva legati.

“Già. Ho sentito”, le rispose, individuando la donna a pochi passi di distanza dal palco allestito per l'evento. “Tu invece mi sembri a tuo agio.”

Poche parole, per farle capire che non l’aveva persa di vista. Che non lo avrebbe fatto in ogni caso.

“Politici e poliziotti? Ho visto di peggio.”

“Peggio di un politico?”

“Fidati.”

Clint sorrise impercettibilmente. Stavolta non l’avrebbe lasciata vincere.

“Ti dona quel vestito”, il silenzio dall'altra parte del ricevitore fu abbastanza eloquente. Pregustava già la vittoria, quando arrivò la risposta inattesa.

“Donerebbe anche a te, con qualche chilo in meno.”

A Clint sfuggì una risata.

“Ehi, io sono perfettamente in forma.”

“Opinabile.”

“Wow, oggi sei particolarmente pungente.”

“Non amo risparmiarmi.”

Il rituale si ripeteva ogni volta che dovevano affrontare una missione particolarmente tensiva: un paio di battute per sciogliere il ghiaccio. Che fossero riprodotte da una ricetrasmittente o lanciate fra un cambio di travestimento e l'altro, in qualsiasi bettola fossero costretti a rifugiarsi, sembrava ormai accettabile farne uso. Distensivo e rassicurante, prima che tutto diventasse oscuro e orribile, prima che fossero costretti a servire l'atroce istinto che li definiva.

“Comunque non scherzavo. Ti dona davvero quel vestito”, il tono di voce non tradiva nessun accenno di ironia. Natasha lo capì e restò in silenzio. La vide rivolgere uno sguardo verso l'alto, individuandolo, nonostante l'abile nascondiglio.

Era l'unica a sapere sempre dove trovarlo.

All'inizio la faccenda lo rendeva inquieto, ma adesso era diventato un altro aspetto di lei di cui non poteva fare a meno. La lista si stava, suo malgrado, allungando a dismisura.

“Occhi al palco, Barton”, lo riportò alla ragione.

Lui non ebbe bisogno di farselo ripetere.

 

***

 

La freccia aveva raggiunto l'obiettivo, ancora prima che l'arco avesse smesso di vibrare per il colpo.

Un uomo in terza fila si accasciò a terra, vittima di una serie di spaventose convulsioni.

Clint aveva appena fatto in tempo a individuare uno strano movimento nelle retrovie, il passaggio di un oggetto non meglio definito da una mano all'altra, prima di rendersi conto che qualcosa di mostruoso si stava per abbattere sull'intera sala. Il sospetto venne rapidamente circondato mentre flash di intrepidi giornalisti illuminavano la scena a lampi epilettici.

Si erano sbagliati, l’infiltrato non era un diplomatico. La soffiata si era rivelata errata. Difficile dire quali sarebbero stati gli sviluppi della faccenda.

“Natasha, dobbiamo far evacuare l'edificio!”

La donna non riuscì a rispondere all'appello che un boato seguì a un'esplosione che scosse l'intero edificio.

Il panico dilagò rapido come lo straripamento di una diga.

Clint, combattuto se raggiungere i colleghi al piano terra o restare in alto a monitorare la situazione, emerse dal suo nascondiglio privilegiato, cercando fra la folla ormai impazzita stralci della donna. O di Coulson.

Una frazione di secondo, una distrazione e li aveva persi.

Picchiettò sull'apparecchio che aveva all'orecchio senza ricevere alcun tipo di segnale.

“Merda.”

Recuperò la faretra e si lasciò letteralmente scivolare giù da un paio di colonne di ferro, stando ben attento a raggiungere la passatoia del primo livello.

Sirene e allarmi suonavano all'unisono. Una nuvola di fumo anneriva le finestre, rendendo impossibile la visione di quello che stava accadendo all'esterno.

Decise che non sarebbe servito a molto rimanere lì sopra, si armò di tutta la sua agilità e scese rampe di scale e tralicci finché non fu in mezzo al caos.

La porta era stata sfondata e le persone stavano sciamando all'esterno scompostamente.

“Natasha! Nat, mi senti?” di nuovo un sibilo scomposto a rispondergli.

Dovevano essere saltate le linee di comunicazione.

Si armò di pazienza e cercò di dirigere la gente al punto di ritrovo. Non era chiaro che situazione ci fosse fuori, sulle strade. Era in pericolo l'edificio? O stavano solo cercando di stanare qualcuno in fuga, all'esterno? Gli fu impossibile stabilirlo.

Individuò Coulson un attimo prima divenir investito da un gruppo di fotografi: se non altro lui sembrava stare bene.

 

Si maledisse: si era ripromesso di non perderla di vista ed ora che faceva? Si dimenava fra la folla senza avere la più pallida idea di dove si fosse andata a cacciare.

Distanza, Clint. Ricorda la distanza.

Si arrampicò, non senza fatica (che Natasha avesse ragione? Appuntò mentalmente di eliminare la pizza dalla sua dieta. Non la panna, comunque) su una delle colonne accanto all'ingresso.

Fece vagare lo sguardo sulla folla, cercando una testa rossa. Non gli ci volle molto per ritrovarla: ligia al suo dovere, non si era sganciata dall'obiettivo che Clint aveva atterrato, sapeva che doveva interrogarlo finché era in grado di parlare, superando per tenacia persino la squadra di poliziotti che si erano presi in carico il sospetto.

La vide che cercava qualcosa con lo sguardo. Recuperò una freccia e, con precisione millimetrica, la scoccò a pochi centimetri di distanza sulla parete, alle spalle della donna. Un segnale luminoso ad un'estremità.

Natasha lo trovò in un istante. La sentì urlare qualcosa, qualcosa che non riusciva a capire. Si concentrò sul movimento delle sue labbra, ma per quanto acuta fosse la sua vista, gli risultò impossibile decifrarlo.

L'unico modo era avvicinarla.

Si rituffò nel caos, la maggior parte della gente si era ormai dispersa e non gli fu difficile trovare una scorciatoia.

Natasha continuava a urlare e, solo quando le fu a pochi passi di distanza, intuì le sue parole: "Ce n'è un'altra!"

Un'altra di cosa? Fu tutto ciò che riuscì a pensare, prima di avvertire una seconda, smisurata deflagrazione.

Vide la scena come al rallentatore. Il suono dei propri passi che si isolavano da qualsiasi altro rumore. Le sue mani che si allungavano a raggiungere quelle di Natasha, l'onda d'urto che li investiva, il corpo della donna contro il proprio, lo schianto sul pavimento, il rombo che preannunciava il crollo di un muro... fumo, calcinacci, una serie macerie che si ammassavano una sull'altra.

Abbassò lo sguardo ritrovando quello di lei.

Un attimo sospeso, in bilico fra salvezza e catastrofe.

“Non avrei dovuto perderti di vista”, una tacita scusa, in quelle parole. La mano ancora stretta saldamente nella sua.

Si rese conto un secondo di troppo del liquido vischioso che gli scivolava lungo la linea del collo, sulla fronte, a velargli la vista di rosso.

 

Il colore del sangue. Il colore dei capelli di lei.

 

***

 

Un lungo, prolungato fischio le riempiva le orecchie mentre si sforzava di comprendere cosa Clint stesse cercando di dirle. Fece appello ad ogni briciolo di concentrazione di cui disponeva per imporre al proprio cuore di rallentare i suoi folli battiti. Le sembrava ancora di riuscire a sentire le vibrazioni dell'esplosione riverberarsi fino alle sue braccia, alle sue gambe, al suo stomaco sottosopra.

“Barton!” Se lo tolse di dosso, guardandosi febbrilmente attorno nella vana speranza di poter scorgere qualcosa tra la nuvola di detriti sollevati dalla deflagrazione.

Nonostante le difficoltà si accorse immediatamente della ferita alla testa, un attimo prima che il sangue cominciasse a scendergli copiosamente lungo il viso.

“Razza di idiota”, imprecò, decidendo rapidamente sul da farsi.

Afferrò Clint per una mano: rimetterlo in piedi fu più difficoltoso del previsto. Lo costrinse a poggiarle un braccio sulle spalle, mentre con la mano libera gli cingeva la vita per sostenerlo come meglio poteva.

Non si soffermò a chiedergli se fosse in grado di camminare: doveva farlo, non c'era nessuna alternativa.

Prese a trascinarlo in direzione dell'uscita, aiutata dalla sala conferenze ormai deserta, fatta eccezione per i resti del sospetto e dei poliziotti che lo stavano tenendo sott'occhio su un lato della stanza solo un attimo prima.

 

Si era fatto saltare in aria. Quando l'aveva interrogato – ignorando le rimostranze dei poliziotti che l'avevano temporaneamente preso in custodia - era talmente presa dal detonatore che teneva stretto in una mano, da non accorgersi di quello che aveva ancora in tasca. Gli aveva letto la follia negli occhi e si era accorta dell'accennato rigonfiamento sotto la camicia e solo allora aveva compreso: c'era un'altra bomba e ce l'aveva addosso e sarebbe esplosa da un momento all'altro. Eppure, perché introdursi nella sala conferenze per detonare un ordigno posto al suo esterno? Perché assicurarsi che la folla sciamasse in strada prima di porre fine alla propria esistenza in modo tanto teatrale?

 

Le tempie le pulsavano fastidiosamente quando l'aria polverosa della sera li investì. Si affrettò a cercare Coulson con lo sguardo, ma tutto quello che riuscì a scorgere erano facce terrorizzate, distese a perdita d'occhio. Che aspettano ad evacuare la strada? Invece di dirigersi verso la zona non intaccata dall'esplosione, Natasha optò per quella opposta, sperando di evitare la folla, fare mente locale, contattare Coulson e chiamare i soccorsi. Si ripeté la lista di cose da fare all'infinito, nella speranza di distrarsi dal peso di Clint che cominciava a metterla in seria difficoltà.

 

“N-Non... n-no...” lo sentì biascicare qualcosa di non meglio definito, il che le permise di accorgersi che – almeno in parte – il suo udito stava tornando a funzionare.

“Sta' zitto, non cercare di parlare. Rimani sveglio”, gli tirò un leggero schiaffetto sul viso per sottolineare l'ordine.

“No... T-Tasha... l-lui... n-non era s... olo.”

Non era solo? L'infiltrato che si era sacrificato? Non comprese immediatamente, né ne ebbe il tempo perché notò del movimento all'entrata di una stretta traversa della strada che ospitava il Palazzo Conferenze: un uomo di grossa corporatura in completo elegante, veniva sospinto nel retro di un furgone nero. Cinque guardie armate lo circondavano. Riconobbe l'ostaggio come un politico russo che avrebbe dovuto presenziare alla conferenza e tenere un discorso su certi progetti in favore delle energie rinnovabili. Una strana sensazione le aveva preso lo stomaco quando era incappata nella sua foto nel dossier delle personalità più importanti presenti all'evento che lo SHIELD aveva loro procurato in vista della missione.

 

Il suo corpo agì prima che il suo cervello potesse formulare un piano. Continuò a procedere lungo la strada, assicurandosi che la lunga fila di auto abbandonate in mezzo alla strada – alcune ancora in moto – li coprisse da eventuali occhi indiscreti. Le prime della fila – quelle più vicine all'esplosione – avevano riportato danni piuttosto ingenti, rendendole di fatto inutilizzabili. Era andata meglio a quelle più lontane dal punto di deflagrazione. Si fermò solo quando ebbero raggiunto una berlina nera con le quattro frecce innescate, due portiere aperte e nessun proprietario in vista.

 

Costrinse Clint a salire sul sedile posteriore, prestando contemporaneamente attenzione alle guardie armate che presidiavano un lato dell'incrocio poco più avanti. Ne erano rimaste solo due, mentre le altre – ipotizzò Natasha – dovevano essere occupate ad assicurarsi che tutto fosse pronto per l'imminente partenza. Una delle due indossava un completo elegante, l'altra abiti meno appariscenti e un pass appeso al collo: l'assistente di un diplomatico e un giornalista. Entrambi sotto copertura.

 

Natasha richiuse la portiera posteriore e salì in auto dalla parte del passeggero, scivolando verso il posto di guida, mentre i due si allontanavano dalla loro postazione. Mise in moto la berlina – le chiavi erano ancora inserite – proprio quando le luci del furgone si accesero. Uscì dalla colonna d'auto e si lanciò all'inseguimento.

 

***

 

Di un po' di cose era ormai piuttosto certa: uno, il politico in questione, Ivan Larionov, aveva avuto un passato nei servizi segreti russi; due, come Clint le aveva suggerito e come aveva potuto constatare lei stessa dai travestimenti delle guardie, l'attentatore suicida non era solo all'interno della sala conferenze; tre, la prima esplosione era stata solo un diversivo per costringere i presenti ad evacuare all'esterno dove le misure di sicurezza messe in atto per garantire l'incolumità dei diplomatici si sarebbero sfaldate come neve al sole; quattro, la seconda esplosione avrebbe rinnovato il terrore, creato ulteriore scompiglio e impedito alle forze dell'ordine di mettere le mani sull'attentatore, compromettendo enormemente l'indagine sugli eventi che sarebbe seguita. Tutto quel caos non era nient'altro che un diversivo per prelevare con discrezione Larionov e portarlo chissà dove.

 

Accelerò per restare nella scia del furgone: dovevano aver studiato un itinerario ben preciso perché stavano evitando tutte le strade più trafficate, quelle che i soccorsi avrebbero preso per raggiungere il Palazzo Conferenze.

 

Lanciò un'occhiata alle proprie spalle, a Clint disteso sul sedile posteriore, occhi aperti, ma lo sguardo perso.

“Resta sveglio”, gli ordinò per l'ennesima volta.

“S-Sono... s-sveglio. Ho s-solo un gran... m-mal di testa”, riuscì a blaterare in risposta.

“Sei un idiota”, insistette di nuovo. “Come diavolo ti è saltato in mente di farmi scudo in quel modo?” Domandò, tradendo rabbia e nervosismo.

“P-Prego... c-comunque.”

“Barton, non sto scherzando. So cavarmela da sola, non ho bisogno che tu mi protegga.” Solo in quell'istante realizzò di essere davvero arrabbiata.

Clint mugugnò qualcosa in segno di protesta, un braccio appoggiato alla fronte per schermarsi dalle luci dei lampioni che sfrecciavano ai lati dei marciapiedi ricoperti di neve sporca.

“N-Non ho a-avuto il tempo di... p-pensare.”

Natasha serrò con forza la presa sul volante, le nocche bianchissime per lo sforzo di trattenere la rabbia. Chi diavolo si credeva di essere? Correrle incontro, scendere dalla sua postazione, proteggerla? In altre circostanze, la parte più razionale di lei avrebbe protestato a quella sommaria ricostruzione, ma in quel momento era occupata con tutt'altro, lasciando che fosse quella irrazionale a gestire Clint.

“Sei un idiota”, ribadì con tono definitivo, portandosi un dito all'orecchio per controllare che la trasmittente fosse ancora al suo posto. Trattenne a stento un sospiro frustrato quando si accorse che non c'era.

Si voltò di nuovo verso di lui, inorridendo nel vederlo ad occhi chiusi.

“BARTON!” Urlò, riportandolo bruscamente alla realtà. “Devi restare sveglio. Hai battuto la testa, ti sei ferito... potresti avere ancora qualcosa in tes – NO!” Si contorse per riabbassargli la mano che aveva alzato per sfiorarsi la testa, inconsciamente, come a metà tra sonno e veglia. “Che cazzo ti salta in mente?” Inspirò ed espirò meccanicamente, sforzandosi di mantenere la calma. Non sarebbe riuscita a tenerlo sveglio a lungo e non aveva modo di contattare lo SHIELD. Comprese, troppo tardi, che Clint avrebbe avuto maggiori possibilità se l'avesse lasciato con i soccorsi appena fuori dal Palazzo Conferenze; sicuramente Coulson l'avrebbe individuato prima o poi. A meno che...

Con un occhio continuò a tenere sotto controllo il furgone che li precedeva, con l'altro ispezionò Clint, accorgendosi che la sua, di trasmittente, era ancora lì.

“Passami il tuo apparecchio”, lo istruì, sperando che tenerlo occupato l'avrebbe aiutato a rimanere sveglio. Recuperò il minuscolo aggeggio dalla sua mano, infilandolo rapidamente nell'orecchio. L'attivò e aspettò che si sintonizzasse sulla frequenza giusta. Sempre che funzioni, pensò lugubremente.

“Hanno preso Larionov,” decretò a voce fin troppo alta. “Le bombe erano un diversivo. Ha avuto un passato nei servizi segreti, magari sa qualcosa che a loro serve”, ipotizzò. “O forse hanno bisogno di una fonte di energia specifica per qualsiasi cosa stiano combinando nella Corea del Nord.”

Controllò il riflesso di Clint nello specchietto retrovisore. Sbatteva le palpebre ma non le dette alcun segno di aver sentito quello che aveva detto o di esserne interessato. Merda, merda, merda.

“Se hanno l'interesse per i super soldati in comune, magari Larionov si occupava di qualcosa di simile in Russia”, dichiarò prima ancora di poter comprendere la portata dell'affermazione. Quando lo realizzò, un vago sentore di nausea si impossessò di lei. Scacciò per un attimo l'angoscia per focalizzarsi sul furgone.

“So che il progetto della Red Room non era l'unico”, riprese quando fu sicura di essere perfettamente in grado di gestire tutto quello stress. “Alla Red Room c'erano solo ragazze. Orfane. Io ero una di loro. Te l'ho mai detto?” Sapeva fin troppo bene di non avergli nemmeno mai accennato niente del genere, ma si sforzò comunque di fargli continue domande per incentivarlo a restare lucido.

“I miei genitori sono morti quand'ero piccola. Non so com'è successo, anche se nel mio fascicolo alla Red Room si parlava di un incendio”, pronunciava a voce alta a chiara, proprio mentre il furgone svoltava sulla destra. Lo imitò.

“Te li ricordi i tuoi genitori? Io no... solo che mio padre aveva la barba folta e che mia madre era bionda. Ma non sono sicura sia vero”, si sentì il suo sguardo addosso provando una fitta di sollievo, “in realtà non credo a niente di quello che mi hanno detto là dentro. Non so neanche se Natalia è il mio vero nome.”

Era sempre più pallido, le labbra violacee e immobili: si trattenne a malapena dal fare un'inversione ad U e dirigersi a tutta velocità all'ospedale più vicino. Al suo posto, si disse, vorrei si convincesse che ce la posso fare.

Accantonata quell'ipotesi, riprese a parlare. Dei primi anni alla Red Room, degli allenamenti, delle lezioni di danza, della zuppa alle cipolle che davano loro per pranzo almeno tre volte la settimana e che lei detestava, della prima volta che aveva tenuto una pistola in mano, di quando le avevano insegnato a camminare sui tacchi alti, degli sfiancanti test fisici, dei continui check-up medici cui si sottoponeva in una stanza stretta e bianca che sapeva di disinfettante, delle ragazzine più deboli che sparivano misteriosamente senza far mai ritorno, dei suoi insegnanti, delle punizioni che ricevevano quando si comportavano male o fallivano una missione, delle visite dei loro superiori nel bel mezzo della notte, delle grida, del dolore, della paura...

Finché la voce di Coulson non le risuonò nell'orecchio.

 

***

 

Fermò l'auto dopo una sterzata improvvisa, il piede premuto sul freno. Chiunque fosse alla guida del furgone, ne aveva perso il controllo dopo che Natasha era riuscita ad atterrarne le gomme posteriori. Avevano raggiunto un'area periferica della città, una in cui lo SHIELD avrebbe potuto intervenire senza problemi: la cavalleria sarebbe arrivata di lì a poco, così come Coulson le aveva ripetutamente assicurato.

“Rimani giù”, ordinò a Clint, semi-disteso e sempre meno sveglio. Per un attimo valutò se aggiungere altro, ma alcune delle guardie – dall'aria praticamente illesa – erano uscite dal furgone e non avevano esitato a far fuoco.

Natasha recuperò le pistole assicurate alle cosce: decisamente non le armi che avrebbe voluto con sé in un momento del genere, ma avrebbe dovuto accontentarsi. Restò bassa, aprì il finestrino sul suo lato e scivolò giù dall'auto, sul terreno ricoperto di neve. Il freddo la riportò all'attenzione. Usò la portiera a mo' di scudo, alzandosi e riabbassandosi a ripetizione per far fuoco e cercare copertura in rapida sequenza.

Quando ne ebbe atterrate tre, uscì allo scoperto, i passi che sprofondavano nel terreno malmesso, il rumore metallico e le grida dei – secondo i suoi calcoli - due uomini ancora in vita che si agitavano nel furgone. Il portellone posteriore si aprì e Larionov caracollò a terra, le mani legate dietro la schiena, il viso paonazzo e il respiro affannoso. Natasha si trattenne a malapena dal far fuoco, conservando i proiettili per le guardie che uscirono subito dopo di lui, una armata di M16, l'altra di una semplice automatica. Atterrò la prima e colpì la seconda ad una gamba. Premette il grilletto di entrambe le pistole un'altra volta e da entrambe ricevette un clic a vuoto. Aveva finito le munizioni e non aveva portato caricatori con sé: il vestito che indossava non lo permetteva. Maledisse la moda e i travestimenti, cercando copertura dietro una cabina telefonica al lato della strada.

Si sfilò le scarpe e aspettò che l'uomo finisse i proiettili e si fermasse per ricaricare, prima di uscire dal suo nascondiglio e correre rapidamente nella sua direzione, attaccandolo corpo a corpo. Lo gettò a terra, deviando la canna della pistola un attimo prima che facesse fuoco. Il rimbombare dello sparo le riempì le orecchie già abbondantemente provate, distraendola per un misero istante che però fu abbastanza perché la guardia la sopraffacesse, invertendo le loro posizioni. La neve le bagnò la schiena, passando senza difficoltà attraverso il tessuto dell'abito. Tentò di respingerlo, concentrando la sua attenzione sulla mano ancora armata, facendo di tutto purché non puntasse verso di lei.

Un sibilo improvviso sfrecciò loro di lato: Natasha lo riconobbe, ma non il suo avversario, tanto che se ne fece distrarre. Gli era bastato sollevare lo sguardo sulla freccia luminosa conficcata a meno di mezzo metro di distanza da loro per perdere la concentrazione e dare modo a Natasha di disarmarlo e ribaltarlo al suolo. Si toccò l'acconciatura, estrasse uno degli spilloni che la tenevano insieme e l'affondò nel collo dell'uomo, a ripetizione, finché non fu sicura di averlo rispedito al Creatore.

Si rimise in piedi e si voltò verso Clint, appoggiato alla portiera aperta dell'auto con un sorriso stanchissimo e un pollice alto, rivolto nella sua direzione. Natasha ebbe appena il tempo di guardarlo malissimo che dei rumori in lontananza annunciarono l'arrivo imminente di altri cinque furgoni. Corse a recuperare l'M16 e le armi delle altre guardie atterrate. Larionov giaceva a terra, a faccia in giù nella neve macchiata di sangue: un colpo accidentale aveva trovato la sua nuca. Natasha lo ignorò e corse alla berlina nera, raccogliendo le armi sul sedile anteriore. Si sfilò la trasmittente e la ripassò a Clint che, nonostante le pessime condizioni in cui si trovava, l'afferrò al volo e se la mise nell'orecchio.

“Di' a Coulson di darsi una mossa. Abbiamo compagnia”, disse semplicemente, scoccandogli un'occhiata valutativa. “Rimani là dietro, posso cavarmela da sola.” Clint fece per ribattere, ma Natasha lo incenerì con lo sguardo: “Se ti fossi preoccupato di salvarti il culo invece di salvarlo a me, a quest'ora non saresti in queste condizioni”, lo redarguì duramente. “Me ne occupo io”, dichiarò senza possibilità d'appello, tanto che Occhio di Falco – pur tenendo l'arco pronto all'uso - si mise seduto sul sedile posteriore, facendo fatica a tener nascosta l'espressione dolorante che premeva per disegnarglisi sul volto.

Le cinque vetture provenienti dalla direzione opposta alla loro li raggiunse in pochi attimi. Appena il tempo di frenare e uomini in tenute blu scuro sciamarono fuori dai portelloni aperti. La strada prese improvvisamente le sembianze di un enorme formicaio. Natasha imbracciò l'M16 e cominciò a far fuoco, protetta dalla carcassa di lamiera nera della berlina. Clint, in barba alle istruzioni, aveva ripreso a scoccare frecce, che però mancavano della loro consueta precisione. Non era neppure sicura che stesse prendendo la mira, o che si stesse accorgendo di ciò che stava facendo. Per quanto volesse obbligarlo a starsene al sicuro, non poteva non ammettere a se stessa di aver bisogno di tutto l'aiuto disponibile per far fronte all'attacco.

Smise di prestare attenzione a Clint e riprese a sparare ovunque, in ogni direzione. Dopo quella che le parve un'eternità, si fu convinta di star combattendo contro un'idra del nuovo millennio: per una sorta di strano sortilegio, per ogni guardia che atterrava, due uscivano allo scoperto e ne prendevano il posto. Venne colpita di striscio ad un braccio mentre cercava di scambiare l'M16 ormai scarico con un paio di automatiche. Solo in quell'istante un'ombra nera arrivò ad oscurare le luci artificiali che illuminavano quella sera ungherese.

Il fuoco amico si aprì sullo squadrone in blu: lo SHIELD era arrivato.

Si voltò nel punto in cui sapeva trovarsi Clint e inorridì nel non vederlo più in piedi. Circumnavigò l'auto sul retro, raggiungendolo, disteso a terra, il volto imbrattato di sangue, le palpebre a mezz'asta, lo sguardo perso e un vago tremore sparso in tutto il corpo.

“Ti avevo detto di restare dentro!” Non riuscì a non rimproverarlo, nascondendo la paura, che prese a serpeggiarle in petto, come meglio poté.

“L-Lo sai che n-non... n-non r-rispondo bene agli o-ordini”, mormorò appena udibile tra le grida degli agenti SHIELD e delle guardie in blu.

“Sei un dannato idiota”, ribadì quasi senza fiato.

 

La sua voce si disperse nel caos.

 

 

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N.d.A.: E di nuovo buonasera! Come al solito ringraziamenti a profusione e gatti che artigliano le dita. Speriamo di non aver deluso nessuno con la nostra versione del: “Tu ed io la ricordiamo -  Budapest - in modo molto diverso!”
Non è che vogliamo sempre far del male a Clint, è che ci viene naturale. Alla prossima lo mandiamo alle terme (no, okay, non è vero, a fine storia, lo mandiamo in ferie).
Grazie ancora a chi ci legge e recensisce, in particolar modo alle nostre due affezionatissime ;)
Alla prossima!

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Capitolo 6
*** Dharavi, India ***


CAPITOLO 6

Dharavi

 

La sua voce si disperse nel caos.

 

“Ti richiamo dopo, Coulson”.

La strada era talmente affollata da non riuscire quasi a immaginarne fine.

La grande baraccopoli indiana di Dahravi, una combinazione di suoni, voci e colori che potevano disorientare.

Aveva agganciato il soggetto poco fuori le porte di Mumbai, un inseguimento che si portava avanti da giorni. L'unico vantaggio: si muoveva a piedi.

Non era difficile mimetizzarsi in quel dedalo di strade: la moltitudine di persone affaccendate per le vie gli davano una copertura sufficiente per passare inosservato. I turisti accompagnati dalle loro brave guide, attraverso la povertà del luogo, giustificavano la presenza di un occidentale solitario.

 

Erano passati mesi dagli eventi di Budapest. La guerriglia urbana scatenata dagli attentatori era stata sedata non senza conseguenze.

Super soldati, organizzazioni con aspirazioni d'onnipotenza, terroristi.

Governo e servizi segreti d'accordo col mascherare le reali intenzioni dell'episodio, accampando spiegazioni credibili per sedare la preoccupazione nella popolazione mondiale.

Clint aveva seguito ben poco le conseguenze della faccenda. Non per mancanza d'interesse, ma per assenza giustificata.

Il colpo che aveva preso alla testa, aggravato dalla sua imprudenza, lo aveva costretto all'ospedale per ben più di qualche ora. In prognosi riservata per giorni, gran quantità di sangue perso e un trauma cranico di tutto rispetto.

Se fosse andato avanti in quel modo, prima o poi si sarebbe trovato sprovvisto di neuroni. Se non altro, mani e vista continuavano a restare buoni.

Natasha era venuta a trovarlo quasi tutti i giorni della sua degenza, i suoi sguardi eloquenti a disapprovare le sue decisioni. Ormai ci aveva fatto l'abitudine.

Lui, di contro, non riusciva a dimenticare le confessioni della donna. Al come si fosse esposta solo per permettergli di focalizzare su altro, senza perdere coscienza.

Dopotutto gliela doveva quella copertura che lo aveva infine steso. Sebbene ricordasse ben poco dei propri gesti o del gran casino per le strade. L'istinto, ancora una volta, lo aveva guidato; fino a quando il suo fisico aveva deciso di dare forfait.

 

Il giorno in cui avevano deciso di affidare loro missioni differenti lo prese come una punizione non intenzionale.

Sebbene sapesse perfettamente che c'erano questioni che lo SHIELD preferiva affrontare con un agente per volta.

 

A questo giro gli era toccata l'India.

Nondimeno la sorveglianza di un soggetto poco incoraggiante.

Il Dottor Bruce Banner.

Conosciuto fra le file dello SHIELD per la sua straordinaria capacità di trasformarsi in un gigante dalla pelle verde e il temperamento tutt'altro che affabile.

Un esperimento mal riuscito che doveva essere tenuto sotto controllo, che interessava l'organizzazione e in particolare il direttore Fury, che sembrava avere intenzione di portare avanti la folle idea di mettere insieme un team di supereroi.

Clint aveva visionato alcuni filmati che lo vedevano coinvolto. Non era sicuro che un iracondo mostro tutto ruggiti e distruzione facesse esattamente al caso loro.

Ma non era suo compito quello di giudicare. In questo caso doveva solo tenerlo sott'occhio e dare allo SHIELD coordinate e dati in merito. Da mesi avevano perso le sue tracce e, solo di recente, un rapido avvistamento aveva permesso loro di localizzarlo nuovamente.

Sembrava un tipo a posto: anonimo e ansioso, pareva essersi preso a cuore la comunità indiana. Da quello che aveva potuto constatare, era apparentemente padrone di una natura docile e gentile, dell'aspetto trasandato di chi ha ben altro a cui pensare.

Non aveva dato segni di alterazione in quelle due brevi settimane. Forse un periodo troppo breve per decidere se avesse rimediato a quel suo problema di controllo, ma abbastanza per permettere a Clint di fare il primo, sommario, rapporto.

Lo vide sparire in una delle baracche al lato della strada. La sua abitazione. O una delle tante. Sembrava non avere intenzione di restare mai troppo tempo nello stesso posto.

Per quel giorno Clint si disse soddisfatto.

Avrebbe dovuto trovare una collocazione tranquilla e richiamare Coulson.

 

Si era sistemato in una stanza tutt'altro che accogliente. Quattro mura tutte crepe, a pochi passi di distanza dagli “appartamenti” del dottor Banner.

Non aveva bisogno di molto, dopotutto. Sistemato la sua attrezzatura sulla branda sgangherata che gli faceva da letto, sedette al tavolo – se tale si poteva definire – e attese che l'acqua messa a scaldare in un pentolino bollisse.

Accese il laptop e aggiornò i dati della sua missione, godendosi i rumori cittadini, e l'odore del cibo speziato che risaliva dalle case circostanti.

Il cielo arrossato dal tramonto, l'umidità che andava a lenirsi gli ricordarono che aveva fame.

Aveva racimolato la cena da una delle miriade di bancarelle che offrivano cibo, bevande e prodotti locali. Una collettività viva e produttiva come non se ne vedevano in giro.

Dispose il tutto sul tavolo accanto al pc e fece partire la chiamata.

 

“Agente Barton a rapporto”, si mise in piedi cercando qualcosa per pulirsi le mani.

“Buongiorno, Barton...”

La voce di Coulson. Una voce amica, a fine giornata, poteva giungere come un toccasana.

“Buonasera, vorrai dire.”

“Questione di punti di vista.”

Sorrise.

“Ero pronto a inviare il rapporto della missione settimanale. Tutto come da protocollo.”

“Dopo dieci anni hai imparato a fare i compiti, me ne compiaccio.”

L'acqua stava bollendo.

“La noia fa fare cose inaspettate.” si rese conto di non avere un filtro. Sbuffò.

“Niente da segnalare, da quello che posso dedurre.”

“Niente da segnalare”, confermò. “Il timido dottore sembra piuttosto preso dal suo lavoro qui. Non credo deciderà di spostarsi tanto facilmente.”

“Ottima notizia.”

“Già... la gente del luogo pare conoscerlo piuttosto bene. Da quello che sono riuscito a scoprire deve essere rimasto qui più a lungo di quanto ci era stato riferito. E straordinariamente la comunità non sembra essere stata turbata da nessuno strano episodio. Il mostro dorme da mesi.”

“E' quello che ci auguravamo.”

E' quello che chiunque con un po' di buon senso si augurerebbe, si trovò a pensare.

“Coulson, ascolta...” la voce incerta, un po' in difficoltà.

“Dimmi Barton”

“Non è che per caso... sai come improvvisare un filtro per il tè?”

“Come?”

“Un filtro. Per il tè.” inevitabilmente il pensiero andò a Natasha. Non fece un bel niente per frenarlo.

“Da quando in qua bevi tè?”

“Da... oggi? Ho comprato del Chai da una signora qui sotto. Tutte le buone intenzioni per spiegarmi come diavolo farlo e niente filtro.”

“Prova con un calzino.”

“Scusa?”

“Un. Calzino. Usalo come filtro. Magari pulito, se non vuoi provare sgradevoli aromi.”

“Geniale.” si allontanò per cercare dei calzini nel suo essenziale bagaglio. Doveva decidersi a fare almeno una lavatrice, “Trovati. Grazie Coulson, te ne devo una.”

“Solo una?” il tono, però, era divertito.

“Un paio di figurine di Capitan America sono sufficienti?” cominciò a riempire il filtro improvvisato e a versarci dentro l'acqua bollente.

“Che cosa?”

Un buon profumo di tè svolazzò per la stanza, mentre riempiva una tazza sbeccata.

“Quelle ridicole figurine che cercavi. Smerciavano un sacco di robaccia al mercato ieri pomeriggio. Magari le hai già, se non ti interessano...”

“Sì!” un po' troppo entusiasmo per un paio di cartine colorate. Clint non aveva mai capito l'ossessione per la sua collezione. “Insomma... tu portamele, le saprò... valutare.”

“Ricevuto, agente Coulson.”

“Allora, se non c'è altro...”

“Wow, cos'è tutta questa fretta?”, lo schernì. “Non avrai un appuntamento?”

“In realtà... sì”, la risposta sorprese Clint.

“A-ah... Fury o la Hill?”

“Né l'uno, né l'altro. Sono a pranzo con un'amica.”

Doppia sorpresa, Clint si riportò al tavolo, e si sedette sulla sedia che gli rimandò uno scricchiolio inquietante.

“Un'amica, mh? Adesso si chiamano così”

“Barton, la smania da pettegolezzo, non ti si addice.”

“Si addice a un uomo solo che si vede costretto a consumare tè e una cena frugale.” e nel dire questo recuperò un pezzo di Roti, lanciandoselo letteralmente in bocca.

“La conosci. E' la violoncellista di cui ti parlavo settimane fa.” Clint si rese conto di non ricordare nessuna violoncellista.

Decisamente i colpi in testa cominciavano a dare i suoi tristi frutti.

“Un'artista. Bel colpo.”

Se cercava di rammentare quando fosse stata l'ultima volta che era uscito con una ragazza doveva fare uno sforzo piuttosto consistente. Con l'ultima, ne era era sicuro, non ci era propriamente uscito. Semmai era lui ad essere sgattaiolato fuori dal suo appartamento, prima che si svegliasse. Una mossa non proprio galante. Non che lei sembrasse intenzionata ad andare oltre quell'unica, confusa nottataccia.

Nessun rancore. Le persone della loro categoria difficilmente riuscivano a conciliare vita privata e lavoro in maniera soddisfacente.

Coulson però sembrava quel tipo di individuo che poteva farcela. E si scoprì compiaciuto dalla confessione.

“Non ti trattengo oltre”, decise allora di tagliare corto. “Leggerai i dettagli sul rapporto che ti sto inviando. Attendo ordini di rientro quando lo riterrete opportuno.”

Coulson tacque per un istante.

“Perfetto. Allora buona serata, agente Barton.”

“Buongiorno a te, agente Coulson.”

Staccò il ricevitore e lo sganciò dall'orecchio, lanciandolo da qualche parte, sul tavolo, accanto al laptop.

Provò un vago sentimento di straniamento. Di nuovo solo, a respirare quei profumi esotici, quei rumori affatto cittadini.

Raccolse la sua tazza di tè profumato e si portò di fronte alla finestra.

Il cielo ora era di un color rosso fuoco. Quasi finto sul brutale sfondo della baraccopoli e dei palazzi dall'aria tutt'altro che lussuosa.

Pensò alla solitudine volontaria in cui si era rifugiato il dottor Banner e per un istante ne fu mosso a compassione. Due sole settimane per lui sembravano l'eternità.

Eppure era da sempre stato abituato a lavorare solo.

Cos'era cambiato negli ultimi anni?

La risposta era pressoché scontata.

Natasha avrebbe sicuramente riso di lui per la considerazione.

Bevve un sorso di tè e si sorprese.

 

Non era poi tanto male.


 

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N.d.A.: ancora grazie se siete arrivati fin qui :D i vostri commenti ci fanno sempre un gran piacere. Grazie e alla prossima! :)

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Capitolo 7
*** Monaco, Principato di Monaco ***


CAPITOLO 7

Monaco

 

Non era poi tanto male.

 

Certo, le toccava fingere che la pazienza fosse il suo forte, che assecondare i capricci di un miliardario fosse la sua massima aspirazione, che ogni mattina si svegliasse con l'unico scopo di sorridere educatamente e sfarfallare le ciglia in direzione di maître, camerieri, giornalisti, diplomatici e quant'altro per convincerli a concedere questa o quell'assurda cosa ad un uomo che poteva avere tutto e a cui non piaceva tenere praticamente niente, non troppo a lungo, comunque.

 

Di una cosa era già piuttosto convinta: Tony Stark era un narcisista da manuale. Un miliardario annoiato, vagamente tendente alla depressione e – dopo gli avvenimenti del pomeriggio le era apparso fin troppo chiaramente – all'autodistruzione. La TV della lussuosa camera dell'Hotel de Paris in cui avrebbe alloggiato anche per quella notte, continuava a trasmettere immagini del terribile incidente che aveva visto coinvolto Mr. Stark e una specie di terrorista dell'est Europa dall'identità non meglio identificata. Aveva ricevuto ordini dal direttore Fury di attenersi alle linee guida della missione, di intervenire solo se ce ne fosse stata l'assoluta necessità. E nonostante tutti i suoi difetti, Stark se la sapeva cavare.

 

Natasha – Natalie, per il momento – non era ancora del tutto sicura di provare più ammirazione o compassione per Pepper Potts, il nuovo CEO delle Stark Industries, amica e babysitter a tempo pieno di un bambinone con un conto in banca da capogiro. C'era dell'altro tra i due: la gelosia di Miss Potts sarebbe passata inosservata agli occhi di chiunque, ma non ai suoi. D'altra parte, aveva compreso fin da subito che, se avesse voluto restare nelle buone grazie di Stark, non avrebbe dovuto sfidare o mettere apertamente in discussione la posizione di Pepper Potts. Era per questo che il direttore Fury le aveva assegnato un compito che, si fosse trattato di un soggetto di minore spicco, sarebbe ricaduto su qualcun altro. I suoi punti forti, Natasha lo sapeva, erano tutt'altri: eppure era stata scelta per osservare e dare il suo parere su Tony Stark in merito ad un programma che avrebbe riunito persone dalle straordinarie capacità: supereroi. La parola le faceva storcere il naso ogni volta. Conquistarsi un posto nel suo entourage non era stato affatto difficile: Tony Stark amava le cose nuove e luccicanti e lei sapeva esattamente come stuzzicare il suo interesse.

 

La parte complicata era venuta dopo, quando si era trovata a gestire una quantità improbabile di situazioni a dir poco assurde, a sostenere ed ignorare l'evidente e sorpreso disappunto di Miss Potts, che – le risultò più che evidente - aveva scoperto della sua assunzione solo a cose fatte, a tenere a bada i giornalisti che insistevano per sapere cosa fosse successo sulla pista di Monaco solo qualche ora prima. La tempie le pulsavano fastidiosamente ad ogni riverbero luminoso della TV. Ombre informi si proiettavano sul soffitto della stanza.

Natasha socchiuse gli occhi. Il direttore Fury le aveva ordinato di mantenere la copertura, di assecondare le decisioni di Stark (o meglio, di Miss Potts), le quali prevedevano il rientro negli Stati Uniti all'indomani e l'obbligo di far fronte alla crisi mediatica che stava già facendo calare a picco le quotazioni borsistiche della Stark Industries. In un qualche momento, avrebbe pure dovuto mettere nero su bianco le sue considerazioni sulla personalità di Stark, ed era tornata in camera proprio con quell'intenzione prima che il mal di testa finisse per avere la meglio.

 

Erano passati anni dall'ultima volta che aveva sofferto di mal di testa. Era annoiata, aveva bisogno di sciogliere i muscoli, di scaricare la tensione... aveva bisogno di prendere a pugni qualcosa o qualcuno. Sbuffò, coprendosi il viso con entrambe le mani. Aveva persino preso in considerazione la possibilità di intrattenersi con qualcuno al bar dell'albergo ma, dopo aver dato una rapida occhiata alla fauna presente (troppi giornalisti e troppi ficcanaso) e dopo aver deciso che era meglio non compromettere il suo status di giochino nuovo di zecca di cui godeva agli occhi di Stark, aveva optato per andare a letto presto. Magari svuotare il minibar a spese del suo attuale datore di lavoro. A dirla tutta le sarebbe bastato avere qualcuno con cui parlare in veste di Natasha Romanoff e non di Natalie Rushman. Non era certamente nuova ad inganni del genere, ma questo non solo si prospettava più lungo del solito, ma la costringeva di fatto a prendersi una pausa dalla sua vita reale.

 

Vita reale, pensò con un certo sarcasmo. Clint. Le mancava Clint. Le mancava condividere con lui le missioni, le mancava confrontarcisi per decidere un piano d'attacco, le mancava sentire la sua voce nell'orecchio quando la teneva sott’occhio a distanza, le mancava vederlo trascinarsi in giro nelle case sicure mentre attendevano di essere estratti e riportati a casa, le mancava prenderlo in giro e guardarlo male, le mancava coglierlo di sorpresa, le mancava persino sforzarsi di non sorridere o ridere troppo apertamente. Sembrava passata un'eternità dall'ultima missione che avevano portato a termine insieme a Budapest. Clint era rimasto bloccato in infermeria per un bel po' di tempo e lo SHIELD aveva bisogno di insistere sulla questione dei super soldati. Dopo aver scoperto il collegamento tra le attività in Corea del Nord e il progetto Red Room, la naturale conseguenza era stata coinvolgere Natasha, anche se quello aveva significato dividerla da Clint, mandarla in missione da sola per la prima volta dacché era arrivata allo SHIELD.

 

Si accoccolò su un fianco, osservando la vista mozzafiato di cui si godeva attraverso le grandi vetrate della stanza. La vita di Natalie Rushman – una vita pressoché normale (per quanto potesse essere normale una vita al servizio di Tony Stark) – non faceva proprio al caso suo. Nascose la faccia sotto al cuscino quando partì l'ennesimo servizio dedicato agli eventi del pomeriggio, soffocando un grido esasperato. In un primo momento la voce francese che si diffondeva dalla TV, coprì il bip del suo laptop. Se ne accorse alla seconda, forse terza ripetizione.

Emerse in tutta fretta dalla sua coltre di coperte e cuscini di seta, recuperando l'apparecchio da sotto al letto. Lo aprì rapidamente, sperando con tutta stessa che fosse il direttore Fury che la informava di aver ricevuto abbastanza informazioni riguardo Stark e che aveva bisogno di lei per un'altra missione, una che includeva un sacco di azione e – preferibilmente – anche la presenza di Clint.

Rimase delusa solo in parte: una schermata piuttosto scarna l'avvertiva che qualcuno – un certo HotShot – stava cercando di contattarla su una linea sicura. Aveva un'idea piuttosto precisa di chi si nascondesse dietro quel nickname, ma esitò. Stark era un mostro dei computer: avrebbe trovato il modo di hackerare un sistema di sicurezza utilizzando una gomma da masticare e una chiave inglese se ce ne fosse stato bisogno, il che rendeva un qualsiasi tipo di comunicazione virtuale decisamente sconsigliato. D'altro canto, Stark era impegnato a far visita all'individuo che l'aveva attaccato durante la corsa, nell'ala di massima sicurezza della prigione monegasca. Era sicura – o almeno tentò di convincersene – che avesse tutt'altro a cui pensare.

 

Concesse l'autorizzazione e lasciò che HotShot la contattasse per via testuale, trattenendo inconsciamente il respiro.

 

“Ehi, Malefica!”

 

Alzò gli occhi al soffitto all'appellativo, scoccando uno sguardo di rimprovero allo schermo. Un gesto tanto familiare da farla sentire immediatamente – anche se marginalmente – meglio.

 

“Scusa, pensavo fossi un altro”, digitò rapidamente.

“Un altro? Un altro cosa?”

“Un'altra... persona?”

“No, cara mia, c'è un solo vero HotShot in circolazione e quello sono io.”

 

Natasha sorrise.

 

“Sono anche conosciuto come HotGuy.”

HotGuy... nel senso che hai la febbre? O magari stai andando letteralmente a fuoco?”

Ah-ah. Molto divertente, Malefica.”

“Malefica?”

“Non potresti capire.”

“Ne sono sollevata.”

 

Breve pausa, mentre scorreva rapidamente la conversazione per decidere cosa aggiungere subito dopo. Clint fu più veloce di lei.

 

“Coulson mi ha fatto vedere le foto.”

“Quali foto?”

“Le foto.”

 

Il pensiero andò immediatamente alle foto che aveva scattato come parte della copertura: Natalie Rushman aveva lavorato come modella a Tokyo. Se qualcuno gliel'avesse chiesto, un modo come un altro per mantenersi agli studi.

 

“Le foto che sarebbero dovute rimanere confidenziali...”

“Sono un pezzo grosso, mia cara, credi seriamente che avresti potuto tenermele nascoste?”

“Sì.”

“Che ti serva di lezione.”

 

Natasha non aveva il benché minimo problema con la propria nudità, né si sarebbe potuta dire una sfegatata protettrice del pudore: un corpo era un corpo, il che non le causava nessuno scompenso, né aveva intenzione di preoccuparsi se qualcuno l'avesse vista nuda. Eppure, partecipare ad un servizio fotografico per una fittizia maison di biancheria intima, per poi vedere le foto sparse per tutto lo SHIELD Center, non la rendeva esattamente felice.

 

“Ti avverto: se trovo anche una sola di quelle mie foto in lingerie sparse per l'ufficio...”

 

Una minaccia appena accennata, ma sperò che Clint cogliesse al volo. E probabilmente non avrebbe avuto problemi a decifrare il tono del messaggio, se non si fosse distratto con tutt'altro.

 

“No, aspetta, di che razza di foto in lingerie stai parlando?”

“Le foto... del servizio fotografico.”

“Hai fatto un servizio fotografico in lingerie? Perché non sono stato invitato?” Pausa. “Il mio culo ha un aspetto straordinario in un perizoma.”

“Sei stato tu a tirare in ballo le foto!”

“Coulson mi ha detto di chiederti delle foto e io l'ho fatto.”

“Coulson... ti ha detto di chiedermi delle foto?” Le pareva piuttosto difficile da credere.

“Coulson”, confermò. “E' innamorato, non ci sta più con la testa.”

 

Natasha inarcò un sopracciglio, perplessa.

 

“Di me. Se te lo stessi chiedendo (e so che lo stai facendo). Siamo una coppia, adesso.”

“Immagino me lo sarei dovuto aspettare dopo Budapest...”

“Hai perso un'occasione, tesoro. Non sono un'ultima spiaggia, avresti dovuto rispettarmi quando ne avevi la possibilità.”

“Me ne sto già pentendo. Amaramente.”

“Fai bene, Malefica.”

 

Sorrise tra sé, stiracchiando le braccia al di sopra della testa.

 

“Che tu ci creda o no, ho bevuto del tè.”

“Hai bevuto acqua sporca con una busta piena di erbette maleodoranti che ci sguazza dentro?” Ricordava il definitivo parere di Clint riguardo la sua bevanda preferita in modo straordinariamente preciso.

“Quello. Solo che ci ho messo un calzino dentro.”

“Un calzino... nel tè.”

“Un calzino nel tè”, confermò. “Sono un uomo dalle mille risorse.”

“Ho paura di scoprire cosa succederà tra sei mesi. Comincerai a bere caffè senza panna?”

“Giammai.”

 

Il telefono cellulare, abbandonato sul copriletto, prese a vibrare. Sul display il nome di Pepper Potts. Doveva aver ricevuto una email. L'ennesima.

 

“Devo andare”, annunciò, chiedendosi perché diavolo stesse chattando nel bel mezzo di una missione. Sperò con tutto il cuore che il direttore Fury non venisse mai a saperlo.

 

“Ehi, non è che hai una di quelle foto da inviarmi, vero?”

“Ovviamente no, HotGuy.”

“Peccato. Erano settimane che avevo intenzione di comprarmi un bel reggicalze. Suppongo di dover attendere il tuo ritorno per il catalogo completo.”

“Ti porterò un reggicalze a mio gusto, che ne dici?”

“Sarebbe fantastico, Malefica.”

“Smettila di chiamarmi Malefica.”

“Ma è il tuo nickname, non vedi?”

 

Natasha controllò e, in effetti, Malefica stava avendo un'intensa conversazione con HotShot. Alzò gli occhi al soffitto, comprendendo al volo.

 

“Ricordami di non prestarti mai più il mio computer per nessun motivo al mondo.”

“Sarà fatto, mademoiselle.”

“Ci risentiamo appena torno”, digitò, anche se sapeva fin troppo bene di non poterlo contattare finché la missione non si sarebbe conclusa.

“Datti una mossa, mi raccomando. Non vedo l'ora.”

“I lavori in solitaria ti rendono fastidiosamente sentimentale.”

“Perché? Non vedo l'ora di avere il mio reggicalze e con questo?”

 

Rise, dimenticandosi per un istante di quanto dovesse sembrare stupida, vista da fuori, a ridersela con uno schermo. Per una volta tanto, però, non provò a trattenersi in nome di una reputazione da mantenere e di un ego (quello di Clint) da non alimentare.

 

“E' perfettamente comprensibile.”

“A presto, Malefica.”

“A presto.”

 

Richiuse la conversazione con un clic e un leggero sospiro. Non esitò ad afferrare il telefono e aprire l'email che aveva ricevuto da Miss Potts. Natalie Rushman era richiesta all'aeroporto di Monaco al più presto.

 

Scese dal letto e si preparò a ripartire.

 

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N.d.A: Grazie a tutti, come sempre! Ci stiamo avvicinando alla fine, gente. Meno due città!

Alla prossima ;)

 

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Capitolo 8
*** Abidjan, Costa D'Avorio ***


CAPITOLO 8

 

Abidjan

 

 

Scese dal letto e si preparò a ripartire.

 

Non era un mistero che fosse un completo disastro con le cravatte. Non erano richieste nel suo lavoro, non erano utili. Avrebbe potuto preparare un cappio ad occhi chiusi, ma qualcosa gli suggerì che non erano proprio quelle le mosse da fare per procurarsi un nodo come si deve. Eppure non dovevano essere due cose così diverse, no? Soffocavano, in entrambi i casi.

Si innervosì nel dover cercare uno specchio per agevolarsi quantomeno il compito.

La suite in cui soggiornavano, questa volta, era qualcosa che andava ben oltre ogni più rosea aspettativa.

 

Quando avevano comunicato loro che avrebbero dovuto presenziare a un evento mondano di proporzioni sfacciatamente lussuose, certo non si era aspettato niente del genere.

Una suite da capogiro, grande il doppio del suo appartamento. Vasca da bagno idromassaggio, mini bar e letto orgiastico che avrebbe potuto far accomodare l’intero reparto di forze speciali dello SHIELD. Quello con gli omaccioni che sembravano usciti da un film sul pugilato e donne che al posto delle braccia avevano due macigni letali.

Era solo grato del fatto che avessero riunito il duo.

Natasha era di nuovo al suo fianco. Poteva sopportare un po' di disagio se non era solo a doverlo affrontare.

 

Lei era già sul pezzo, impeccabile nel suo elegante vestito color porpora. Cercava di sistemarsi i capelli in un’acconciatura che si adattasse al suo nuovo taglio di capelli.

 

“Ehi, ci siamo rifatte il look.”

 

“Ho solo tagliato i capelli, Barton, non facciamone una questione di stato.”

 

“Voleva essere un complimento.”

 

 

Le donava. Così come quel vestito metteva in evidenza le sue generose forme. Non era del tutto certo che fosse consigliato partorire apprezzamenti del genere su una collega.

 

Ma tant’è. Non era ancora diventato un vecchio e sazio pezzo di ghiaccio.

 

Cercò di concentrarsi una volta ancora su quel maledetto nodo. Una copertura che crollava inesorabilmente per una sciatta cravatta non era esattamente qualcosa che voleva far comparire sul curriculum.

 

“Sei pronto?” la voce di Natasha alle sue spalle.

 

“In un attimo.” Slegò di nuovo i due maledetti pezzi di stoffa colorata, pronto a ricominciare.

 

Sbuffò nervoso, prima di sentire i fianchi di lei che lo spintonavano di lato.

 

Lascia…” gli ordinò, piazzandoglisi di fronte, e prendendo in mano le redini della faccenda.

 

Clint la osservò per qualche istante, prima di rivolgere lo sguardo al soffitto.

 

“Potevi dirmelo prima che eri in grado di farlo.”

 

“Me lo hai chiesto?”

 

Clint stronfiò qualcosa ma non ebbe il tempo di concretizzare una rispostaccia che Natasha aveva concluso.

 

“Fatto. Muoviamoci”, in un attimo era uscita dal suo campo visivo. Solo il suo profumo a testimoniarne la presenza. Non era sicuro di avergliene mai sentito addosso.

 

Si trovò ad osservare nello specchio l’immagine riflessa di un ricco elegantone.

 

“Nella prossima vita voglio rinascere farfalla.”

 

 

***

 

 

Il salone straripava di gente bene: false risate, visi al botulino, e sofisticati drink dai nomi esotici. Tutti offerti dall’associazione che aveva sponsorizzato l’evento.

Clint e Natasha avevano ottenuto un invito sotto il falso nome di Mr. e Mrs Todd. Due ricchi imprenditori.

 

Il soggetto che avrebbero dovuto agganciare, tale Esteban Gomez, li avrebbe condotti dritti dritti all'obiettivo. Traffico d'armi dalla provenienza sospetta, un carico previsto per quella sera stessa, ora e luogo ancora tutto da verificare. Quello che avevano potuto ottenere, studiando i file che riguardavano la vita personale del soggetto erano i suoi gusti nella sfera privata. La tendenza al gioco e alla predisposizione ad interessarsi di donne sposate in grado di alimentare il suo triste ego di tombeur e rovina famiglie.

 

Per questo Natasha aveva preparato con cura la confezione che gli avrebbero offerto. Clint doveva limitarsi a fare la parte dell'allocco. Natasha lo aveva rassicurato, poche ore prima, che non avrebbe fatto fatica ad immedesimarcisi. Clint aveva accusato l'offesa con qualche minuto di ritardo.

 

“Sono sicuro di avere appena visto Steve Tyler al tavolo degli alcolici”, si chinò su Natasha con aria confidenziale.

 

“Non so chi sia, ma immagino nemmeno dovrei chiedertelo per non ricevere risposte che non mi interessano.”

 

“Dai, quello della colonna sonora di Armageddon.”

 

Natasha gli rivolse uno sguardo piuttosto esplicito.

 

“Lascia perdere…” sbuffò qualcosa, lasciandosi, di tanto in tanto sfuggire sorrisi affabili e marcata affezione per la sua splendida compagna.

 

“Avrei preferito vestirmi da cameriere”, sussurrò, per nulla convinto della copertura, stando bene attento a stringere la donna quel tanto che bastava per rendersi credibile, ma non eccessivamente per evitare di prendersi un tacco sul piede.

 

“Smettila, stai andando bene”

 

“Era forse un complimento?”

 

“No.”

 

Un allocco da manuale.

 

Non ci volle molto per attirare l'attenzione del ricco magnate sudamericano. Natasha spiccava in quel mortorio di carne rifatta, vecchiume e abbronzatura artificiale.

 

Una rapida presentazione, un paio di buone parole e l'aggancio era riuscito perfettamente.

 

Clint era stato isolato dalla conversazione in un nanosecondo.

 

Era forse la prima volta che osservava Natasha in azione da così breve distanza. Non era sicuro che lo spettacolo fosse di suo gradimento. Tutti quei sorrisi, quelle risposte scontate, il flirt spontaneo che trasudava da ogni espressione, ogni piccolo gesto. Non glieli riconosceva.

Sebbene, doveva ammettere, a un occhio inesperto dovevano risultare piuttosto credibili.

 

Come un amante geloso, strinse la mano al suo fianco, rivendicando la proprietà di quella moglie fittizia; mossa che irrigidì Natasha ma che fece colpo sul buon Esteban.

 

Rivolgeva ai due uno sguardo strano, predatorio, l'inganno aveva dato i suoi frutti.

 

Cliff, ho sete.” Natasha gli si era rivolta con uno sguardo supplice, che lasciava intendere tutt'altro.

 

Lui si accertò con uno sguardo che fosse davvero pronta per la mossa successiva e la lasciò andare.

 

“Torno subito”, le rispose, avvicinandola quel tanto che bastava per lanciare uno sguardo sospetto all'uomo e un bacio sulla guancia di lei. “Dieci minuti.” sussurrò al suo orecchio, concordando i tempi della fase due. Lei emise una risatina svenevole e gli accarezzò il braccio con aria lasciva.

 

In un attimo si allontanò. Si diede solo un rapido sguardo alle spalle, per vedere Esteban Gomez agganciare il braccio della compagna, e accompagnarla lungo il salone: non aveva certo perso tempo.

 

Guardò l'orologio: le 20 e 35.

 

Una scopata per l'ora di cena, era questo che si aspettava?

 

Andò a recuperare un bicchiere d'acqua, giusto per schiarirsi le idee: l'idea di Natasha in una stanza appartata con un porco dall'aria viscida, per la prima volta, lo rese estremamente nervoso.

 

 

***

 

 

Natasha aveva già tessuto la sua tela e iniettato il suo veleno. Esteban giaceva steso al suolo di quel lussuoso bagno dai pomelli d'oro, mani e piedi legati, brache calate e l'espressione di chi non ci aveva capito proprio un nulla di quanto appena successo. Un occhio nero e sangue sulle labbra a testimoniare che il lavoro era già stato portato a termine.

 

“Mi ha morso! Quella puttana mi ha morso!”

 

Clint aveva accuratamente richiuso la porta alle sue spalle. L'uomo, chissà come, sembrava assurdamente convinto che, in virtù di una non ben chiara fratellanza maschile, dovesse essere solidale con lui.

 

“Amico, sei legato mani e piedi e ti preoccupi di un morso? Hai appena cercato di scoparti mia moglie, che diavolo ti aspettavi?” trotterellò a mo' di scherno al centro dei bagni, mentre Natasha si stava lavando il viso con aria spiccia e casuale. “Ha cantato?”

 

L'uomo li guardava con occhi pieni di terrore.

 

“Non ce n'è stato bisogno. Ho il suo BlackBerry. Ci sono tutti i dettagli”, e nel dirlo gli lanciò il cellulare che Clint afferrò prontamente, facendo scorrere in rapide mosse mail e sms già abilmente decriptati che riguardavano la faccenda.

 

“Non mi sembri un tipo molto astuto.”

 

“Chi cazzo siete? Cosa credete di fare?!”

 

Clint gli si inginocchiò di fianco, lanciandogli uno sguardo valutativo.

 

“Evirarti e spedire i tuoi genitali per posta a tutti i mariti che hai reso cornuti.”

Lo sguardo di terrore dell'uomo gli permise di capire rapidamente che razza di individuo fosse.

“A questo importa più del suo pene che del suo culo di quando finirà in galera per traffico d'armi.”

 

“C-Che cosa? Non riuscirete a scamparla, non avete idea di con chi avrete a che fare!”

 

Clint era già stufo delle sue chiacchiere. Gli dette un botta in testa e l'uomo cadde a terra, privo di sensi.

 

Natasha si era rassettata alla bell'e meglio. I segni rossi che aveva sul collo e la capigliatura scomposta, gli diedero una chiara idea di quello che era accaduto. Suo malgrado senti lo stomaco aggrovigliarsi disubbidiente.

 

“Ti ha strappato il vestito”, fu tutto quello che disse, riavvicinandola. Allungò una mano per sistemare il danno, proprio vicino alla spallina. Di nuovo quel profumo sconosciuto a stuzzicarlo, il calore della sua pelle. Agganciò lo sguardo di lei allo specchio, e fu certo che ci fosse qualcosa di profondamente sbagliato nel modo in cui si stavano guardando. Un'aspettativa a cui non sapeva dare un nome.

 

Ma fu solo un attimo. Natasha era di nuovo padrona della situazione.

 

“Non è niente di grave. Tanto ora ce ne andiamo di qui.” La vide scostarsi. Persino il rossetto sbavato ai lati delle labbra gli diede fastidio. Non era chiaro se lei se ne fosse accorta, ma aveva già preso a levarselo con l'aiuto di un asciugamano umido.

 

Clint le diede un ultimo sguardo e si premurò di andare a nascondere il corpo dell'uomo. Qualcuno sarebbe andato a prelevarlo per loro, di lì a poco.

 

“Quando sei pronta”, le porse il braccio. Natasha non si fece attendere.

 

Erano pronti per la fase tre.

 

 

***

 

 

Una guerriglia urbana, di nuovo.

 

Chiunque gli avesse detto che sarebbe stata una missione tranquilla, in quell'istante avrebbe visto la punta di una delle sue frecce direttamente nel bulbo oculare.

 

I muscoli a pezzi, l'attenzione che cominciava a diventare un serio problema, la mancanza di sonno, cibo, acqua, l'alba che si affacciava timida dopo ore di lotta tenace.

 

L'arrivo dei rinforzi dello SHIELD era stata un'inattesa benedizione, non avrebbero potuto reggere ancora per molto.

 

La zona doveva essere evacuata per permettere la liquidazione totale.

 

“Dobbiamo andarcene da qui!” Natasha aveva un aspetto stravolto. Niente a che fare con la donna affascinante con cui aveva avuto a che fare solo qualche ora prima. Di fatto la preferiva in quelle vesti. Anche se era certo che non gli sarebbe piaciuto vederla perdere i sensi per mancanza di riposo.

 

La vide annuire impercettibilmente e la folle corsa che ne seguì, fra una scoccata di frecce e scariche di pistola, si concluse con l'individuazione di un elicottero che era arrivato apposta per loro.

 

“Non può avvicinarsi!” gridò Natasha. Aveva ragione. Il lancio ripetuto di granate a pochi metri di distanza mettevano in pericolo loro e il pilota.

 

L'unica opzione era quella di trovare un luogo sicuro e attendere che tutto fosse finito.

 

Già, più facile a dirsi che a farsi.

 

Fu Natasha a trovare la soluzione, già tacitamente d'accordo con lui su quale fosse la loro prossima mossa.

 

Lo sospinse concentrando la sua forza in quell'ultima impresa. Individuò un ammasso di detriti accanto a un camion ribaltato. Si lanciò in quella direzione, prima che gli aerei dello SHIELD decidessero di scaricare una serie di mitragliate risolutive.

 

C'era l'eco sotto quelle lamiere, puzza di calce e polvere in quelle macerie.

 

L'uno vicino all'altro a trattenere il respiro, mentre fuori si scatenava l'inferno.

 

Natasha teneva un polso in maniera innaturale. Doveva esserselo slogato. Sangue e ferite a profusione le incorniciavano il viso.

 

“Hanno cercato di indorarci la pillola con tutto quel lusso”, biascicò lui a fatica, i muscoli a pezzi, l'esausta gratitudine di chi ha un breve, seppur obbligato, attimo di riposo.

 

“Preferisco questo”, la risposta scontata e un po' preoccupante di Natasha.

 

“Chissà come, me l'immaginavo.”

 

“No... preferisco questo”, riprese lei, la frase ad intendere evidentemente tutt'altro. Lo stava guardando. “Questo s-siamo noi. Nessuna copertura, nessun... inganno.”

 

Non gli era chiaro quello che stava cercando di dirgli, ma non si perse una sola sfumatura.

 

Si ritrovò ad annuire, senza quasi registrarlo. Non piaceva nemmeno a lui fingere, spacciarsi per qualcun altro. Né vederlo fare a lei. Era forse questo che Natasha stava cercando di dirgli? Un sottile rimprovero per la sua infondata gelosia? L'assurda rassicurazione che non c'era niente di vero in quello che era costretta a fare per lavoro, se non quando poteva essere semplicemente se stessa, al suo fianco?

 

Si maledisse per il pensiero totalmente fuori luogo.

 

Un'esplosione e le lamiere si incrinarono. Sentì Natasha stringerglisi addosso.

 

“Fury ci dovrà spedire in vacanza per un po', d-dopo questa.”

 

Il silenzio che ne seguì fu inquietante e rassicurante al tempo stesso.

 

 

La guerriglia sembrava sedata.

 

Le pale di un elicottero sopra le loro teste, Clint sventolava le braccia per farsi riconoscere.

Sopravvissuti. Ancora una volta. Ancora insieme.

 

Quando si volse per condividere quell'attimo di rinnovata conquista, Natasha gli sorrise.

 

Un sorriso limpido, sincero. Totalmente suo.

 

 

___________

 

 

N.d.A: Eh già, ancora un capitolo e dovremo dire addio anche a questa storia. Una sola città per cementare definitivamente il rapporto dei nostri due agenti operativi… o per distruggerlo? Catastrofismi dietro l’angolo? No, volevamo solo mettere un po’ di pepe all’attesa (ci riesce malissimo). Insomma: ringraziamenti e genuflessioni per chi è arrivano fin qui e ci seguirà fino alla fine. E un grazzzzzie con diverse zeta, perché: melius abundare quam deficere, anche a chi ci ha recensito. Dopo questa botta di cultura non richiesta, non ci resta che darvi appuntamento alla prossima per un arrivederci come si deve! Bye.

 

 

 

 

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Capitolo 9
*** San Francisco, USA ***


CAPITOLO 9

San Francisco

 
 
Un sorriso limpido, sincero. Totalmente suo.
 
Distolse rapidamente lo sguardo dalla conversazione che stava avendo luogo a pochi passi di distanza dall'angolo di palestra che aveva reclamato come suo. Atterrò con estrema facilità il giovanotto con cui si stava allenando. Stava lavorando da più di un'ora, giostrandosi tra i vari attrezzi e i soliti esercizi, quando il tipetto l'aveva avvicinata con aria incerta, chiedendole se avesse potuto insegnargli qualche trucco del mestiere. Aveva l'aria di essere una recluta e di aver riflettuto a lungo, prima di racimolare il coraggio per fronteggiarla e porle la fatidica domanda. Natasha non era riuscita a dirgli di no.
 
“Passi troppo tempo a pensare alle mosse e troppo poco a metterle in atto. Ti si leggono su tutta la faccia”, lo istruì col suo solito tono monocorde. Si distrasse per lanciare l'ennesima occhiata alla coppietta di agenti che – approfittando dell'area allenamenti semideserta - stava effettuando dei piegamenti piuttosto allusivi, sorridendo e scambiandosi continui sguardi complici. Senza capire perché le interessasse, studiò i loro movimenti, i piccoli gesti, la posizione dei loro corpi. Era così che succedeva nella vita di tutti i giorni? A ragazza piace ragazzo, a ragazzo piace ragazza. Agiscono di conseguenza. Quella danza che a loro veniva tanto naturale, si scompose nella sua testa come una catena complicatissima di azioni e rispettive reazioni, macchinose, artificiose, impossibili da armonizzare le une alle altre.
 
Afferrò il pugno che la recluta tentò di sferrarle contro, piegandogli il braccio di lato prima di falciargli le gambe e spedirlo al tappeto per l'ennesima volta.
“Non puoi perdere il controllo di metà del tuo corpo perché ti stai concentrando sull'altra”, formulò sovrappensiero, sforzandosi di lasciar perdere la coppietta – che in tutta sincerità cominciava ad innervosirla – per guardarlo in viso. Avrà a malapena vent'anni, constatò. Gli tese una mano e l'aiutò a rimettersi in piedi.
 
Lo invitò ad attaccarla di nuovo.
 
***
 
Finì di raccogliere le sue cose ed uscì dalla palestra. Era indolenzita e accaldata, ma non era riuscita a rilassarsi come avrebbe voluto. Seguì le frecce che indicavano la direzione giusta per raggiungere la caffetteria. La sede dello SHIELD a San Francisco aveva dimensioni piuttosto ridotte in confronto al mastodontico centro di New York. Fosse stata una persona con abilità sociali meno limitate, sicuramente avrebbe apprezzato la familiarità che un luogo più piccolo consentiva di prendere sia con gli ambienti che con le persone.
 
Aveva appena fatto ritorno dall'Australia, dove aveva portato a termine una missione solitaria relativamente semplice: aveva fatto tappa sulla West Coast per qualche giorno, avrebbe partecipato ad una riunione con il direttore Fury – che stava trascorrendo la maggior parte del suo tempo da quelle parti – quella sera stessa e poi sarebbe ripartita per New York, in attesa di nuove istruzioni.
 
Abbandonò la sacca accanto ad un tavolo libero, avvicinandosi al bancone del piccolo refettorio. La sala era semideserta: a meno che non si fossero collettivamente dimenticati che era ora di cena, Natasha immaginò che avessero valide alternative al di fuori della sede dello SHIELD. Un paio di donne in divisa stavano discutendo animatamente in fondo alla stanza; un uomo sedeva solitario al suo tavolo, un libro sollevato al di sopra del vassoio che conteneva il suo pasto; un trio di giovani reclute – due ragazzi e una ragazza – troppo impegnati coi loro smartphone per alzare gli occhi l'uno sull'altro, figurarsi metter qualcosa sotto i denti.
 
Si appoggiò al ripiano di metallo, sporgendosi oltre per richiamare l'attenzione di un inserviente. Prima che potesse controllare sia a destra che a sinistra, una figura riemerse proprio davanti a lei, filtri per il caffè in una mano, una tazza pulita nell'altra.
L'agente Clint Barton sembrava reduce da un'accurata spedizione tra le provviste della mensa. Era abbronzato, i capelli più corti e chiari di quanto ricordasse. Rimase immobile, per un attimo convinta si trattasse di un brutto scherzo della sua immaginazione, convincendosi del contrario solo quando lui si accorse della sua presenza, un'espressione di analogo stupore sul viso.
 
“Natasha?” Domandò perplesso, lanciando un'occhiata confusa ai reperti che ancora teneva tra le mani. “E pensare che stavo solo cercando il caffè...”
“Sei arrivato fin qui dal New Mexico alla ricerca di caffè?”
“Per chi mi hai preso, Romanoff? A quel punto sarei andato dritto in Brasile, già che c'ero.”
“Non hai tutti i torti”, dovette ammettere lei.
“Non ne ho neppure uno, in effetti.”
“Da quel che posso notare il deserto non ti ha fatto rinsavire.”
“Rinsavire?” Sbuffò qualcosa, come se Natasha avesse appena detto la boiata del secolo. “Ci sei mai stata, nel deserto?”
“Non posso dire di esserci mai rimasta troppo a lungo”, fece una pausa, valutandolo attentamente con lo sguardo. “Se non altro la tua pelle sembra essersi adattata alla grande.”
Clint lanciò uno sguardo alle braccia muscolose lasciate scoperte dalla sua t-shirt, evidentemente con l'intenzione di controllare di non aver niente fuori posto. Solo dopo una manciata di secondi si concesse di considerare le parole di lei come uno pseudo-complimento.
“Sto una favola. Coulson dice che sembro uscito da Baywatch.”
 
Natasha si strinse nelle spalle: i riferimenti alla cosiddetta cultura pop dell'epoca non erano esattamente il suo forte.
 
“Lascia perdere, Romanoff”, decise. “Cosa posso prepararti in questa gloriosa serata californiana?”
“Ti hanno nominato cuoco?”
“No, mi sono auto-nominato tale”, indicò una targhetta inesistente appuntata sul petto. “Fury sarà qui da un momento all'altro e io ho una gran fame. Se uscissi a procacciarmi del cibo qua fuori, rischierei di rientrare tardi, e lo sai come reagisce Fury ai ritardi.”
“Non mi sembra ci voglia tutto questo tempo per uscire a prendere da mangiare”, obiettò lei.
“Hai provato ad uscire di casa con quest'abbronzatura? Sono come il miele con le api: le ragazze mi sciamano attorno e mi bloccano il passaggio e mi distraggono... è una vita dura, la mia.”
 
Natasha intrecciò le braccia al petto, un sopracciglio sollevato e l'aria interrogativa.
 
“Posso solo immaginarmelo”, si limitò a commentare, il pensiero di Clint novello adone da spiaggia a pungolarle fastidiosamente il cervello.
“Dai, vieni da quest'altra parte, ti preparo qualcosa”, la invitò. Natasha fece il giro lungo e lo raggiunse là dietro, senza prendere la poco igienica decisione di scavalcare il bancone. Clint, dal canto suo, parve contrariato.
“Sai cucinare?” Gli chiese, seguendolo nella cucina retrostante.
“Chi ha parlato di saper cucinare?”
“Hai ragione. L'ho semplicemente dato per scontato”, si guardò attorno: c'erano ripiani, mobili e fornelli d'acciaio ovunque posasse lo sguardo. “Dove sono andati a finire tutti?”
“Diarrea”, rispose laconico, affaccendandosi attorno ad uno dei tre grossi frigoriferi che occupavano un lato della sala.
“Tutti?”
“Tutti. Qualcuno ha riportato della carne da una missione in Argentina... un vero genio, se me lo chiedi.”
 
Lo guardò recuperare diversi ingredienti – riconobbe pomodori, maionese, degli... asparagi? - e appoggiarli su una zona libera, proprio accanto ai fornelli. Aveva tutta l'aria di non avere la più pallida idea di cosa stesse facendo.
 
“Devi annoiarti davvero molto in New Mexico”, commentò spassionatamente, adducendo il tedio a spiegazione di tutto quello zelo improvviso.
“Non dirmelo”, sospirò, concentrato sul da farsi. “Credevo fossi in Asia.”
“Australia”, lo corresse. “Appena tornata.”
“Che tipo di lavoro?”
“Oh, il solito. Seduci e colpisci.”
Clint mugugnò qualcosa in segno d'assenso, cominciando a spentolare senza il benché minimo criterio. Natasha sperava che le uova che aveva scovato in uno dei ripiani laterali del frigorifero di mezzo, fossero ancora commestibili.
 
“Posso chiederti una cosa?” Aveva parlato di nuovo, senza però sollevare lo sguardo dalla sua area d'azione. Se consciamente o inconsciamente, Natasha non seppe dirlo.
“Puoi chiedermi quello che ti pare”, lo informò. “Non è che detto che ti risponda.”
“Va bene... correrò il rischio”, annunciò, spaccando le uova in una ciotola. Gli ci volle un minuto buono per tirar fuori i pezzi di guscio che ci erano finiti dentro.
“I lavori seduci e colpisci...” riprese dopo qualche istante, “non ti danno fastidio?”
 
Natasha si adombrò.
 
“Perché dovrebbero?”
Clint si strinse nelle spalle. “Non lo so... perché hai a che fare con uomini disgustosi?”
“Abbiamo sempre a che fare con uomini disgustosi”, replicò.
“Lo so, ma almeno non me li devo...” si interruppe, decidendosi a rialzare lo sguardo su di lei.
“Ti dà fastidio sfruttare la tua mira?”
“No... no che non mi dà fastidio.”
“Anche se hai a che fare con uomini disgustosi?”
“Sì, cazzo... usare la mia mira su uomini disgustosi è la cosa più divertente”, dichiarò con una certa irruenza. Gli ci vollero una manciata di secondi per capire dove Natasha volesse andare a parare. “Okay. Okay, credo d'aver capito.”
Gli si avvicinò, appoggiando le mani al ripiano della cucina per recuperare un pomodoro troppo maturo.
“Apprezzo l'interessamento, ma non sono affari tuoi”, stabilì, il tono deciso, ma non ostico. “Ho smesso di fare cose che non voglio fare un sacco di tempo fa. Ricordi?”
Clint le lanciò un'occhiata che aveva del colpevole e annuì, prima di tornare alla preparazione della cena con rinnovato entusiasmo.
 
***
 
Osservò il piatto che le mise davanti e la prima cosa che le venne in mente fu quella volta, durante una missione in Alaska, in cui aveva scovato la carcassa di un opossum abbandonata nella neve. Ebbe il buonsenso di non rendere Clint partecipe dell'aneddoto.
Si armò, tentativamente, di forchetta e coltello, mentre lui – dalla parte opposta del tavolo – faceva altrettanto, un sorriso baldanzoso sulle labbra.
Natasha tagliò un pezzettino dal blocco monocromatico che giaceva tristemente davanti a lei.
“Ha un'aria disgustosa”, commentò spassionatamente, scatenando il puntiglio di lui.
“Non si giudica un libro dalla copertina, Natasha.”
“Questo non è un libro.”
“Assaggialo”, le ordinò, infilzando a sua volta un boccone. “Al tre. Tre, due, un -”
Si zittirono entrambi, masticando cautamente quella specialità dalla dubbia – nel migliore dei casi – consistenza.
I secondi passarono senza che nessuno dicesse niente. Tornarono a guardarsi solo quando i rispettivi glomp riempirono l'aria. Natasha inspirò a fondo mentre Clint riappoggiava le posate nel piatto.
“Stasera ho voglia di pizza”, dichiarò lui, come riprendendo una vecchia conversazione da dove l'avevano lasciata.
“Ottima idea. Offro io.”
 
***
 
Uscì per ultima dalla sala riunioni. Il direttore Fury l'aveva messa al corrente degli ultimi sviluppi del progetto Avengers, e informata della sua missione successiva che, tuttavia, con quel particolare affare non avrebbe avuto niente a che vedere. La sua meta, subito dopo la sosta a New York, sarebbe stata la Russia. Stava tentando di capire se si sentisse di star, in qualche modo, tornando a casa, ma non seppe decidersi a riguardo.
Si richiuse la porta alle spalle, lasciando il direttore Fury nel bel mezzo di un'accesa discussione in teleconferenza con una donna dalla pelle scura che Natasha non aveva mai visto.
Clint era seduto per terra, intento a leggere l'opuscolo – sembrava sempre averne uno a portata di mano - di un negozio d'arredamenti dal nome impronunciabile, ripescato da chissà dove.
 
“Credevo fossi ripartito”, disse semplicemente, attirando la sua attenzione. Lo vide cacciarsi il volantino in tasca e rimettersi in piedi per fronteggiarla.
“Stavo soffocando nella mozzarella quando Fury è venuto a cercarmi.”
“Un saluto originale, se non altro.”
“Hanno avuto qualche problema col nostro quinjet”, controllò l'orologio, “circa un'ora fa.”
“Quanto ci metteranno?”
“Non ne ho idea. In ogni caso, sarò di nuovo nel mio nido in New Mexico prima che possa dire 'Robin Hood'.”
 
Natasha gli sorrise senza stare troppo a pensarci. Clint sorrise a sua volta, sgonfiandosi per un attimo di tutto l'entusiasmo e il finto machismo, rilassando le spalle con un sospiro. Per qualche motivo, le tornò in mente la coppia di agenti che aveva osservato in palestra solo un paio d'ore prima.
 
“Potremmo... fare qualcosa”, propose vagamente, impedendosi di riflettere troppo sui perché, i percome e i perquando.
“Qualcosa?”
“Qualcosa...” biascicò con una punta di stizza, come se fosse stato dovere di Clint sapere esattamente cosa “qualcosa” fosse.
Nessuno dei due disse niente, ognuno occupato a soppesare le varie ipotesi.
“Sai giocare a bowling?” Le chiese infine.
“Sì, faceva parte del mio allenamento”, rispose lei, con tanta impassibilità e tanta naturalezza da fargli credere davvero – anche se solo per un misero istante – che la Vedova Nera si tenesse in allenamento atterrando birilli con una pesante palla a tre buchi.
Sorrise della sorpresa di lui, sinceramente divertita dalla confusione che gli lesse nello sguardo.
“Imparo in fretta”, puntualizzò, giusto per non demolire del tutto l'offerta.
“Dio, quanto sei pretenziosa quando ti ci metti.”
“Non sono pretenziosa se è vero.”
“Questo è tutto da vedere. Conosco un posto qua vicino, possiamo prendere un ta -” Il vibrare del suo telefono li distrasse entrambi. Il display baluginava debolmente attraverso la stoffa della tasca dei suoi jeans. Le rivolse un rapido cenno e rispose alla chiamata. Durò solo pochi secondi, ma, quando riattaccò, aveva già un'espressione scocciata e desolata insieme sul volto.
 
“Il quinjet è pronto”, annunciò.
“Il New Mexico ti attende.”
“Come una madre soffocante”, sospirò e rimise il cellulare al suo posto.
 
Natasha indietreggiò di un passo, già pronta alla fuga.
 
“Ci vediamo in giro, Barton.”
“Ehi, buona fortuna in... ovunque tu stia andando.”
“La fortuna non esiste.”
“E' un modo di dire, Romanoff.”
“Il che non lo rende meno sbagliato.”
 
Clint sbuffò e scosse il capo, una luce divertita negli occhi. Una forza invisibile sembrava tenerli inchiodati in quel corridoio, l'uno di fronte all'altra, nonostante non avessero niente da dirsi. O niente che avessero il coraggio di dirsi.
 
“Buona fortuna in New Mexico”, gli restituì, come per assolverlo dal peccato della formula comune, macchiandosi della stessa identica colpa.
“Cercherò di non mancarti troppo”, commentò lui, il telefono che aveva ripreso a vibrare.
“Non sarà troppo difficile. E' la tua cucina, quella che già mi manca”, Natasha cominciò ad indietreggiare nella direzione opposta a quella in cui sarebbe dovuto andare Clint.
“Oh, ti ho conquistata, baby.”
“Sì, bè, se mai dovessi dimagrire... ti farò un fischio.”
“Sei crudele.”
“Prego.”
 
Erano ormai distanti, Natasha pronta a girare l'angolo.
 
“Non metterti nei guai!”
“Non metterti tu nei guai!”
 
Fu l'ultimo avvertimento che gli lanciò dietro, la sua voce ad inseguirlo in fondo al corridoio, prima che sparisse dal suo campo visivo. Lo estromise immediatamente da propri pensieri, concentrandosi sul volo di mezzanotte che l'avrebbe riportata nella Grande Mela.
Stilò una lista mentale di ciò che andava fatto: recuperare le sue cose, salire sul quinjet, comprare qualcosa da mangiare per l'indomani, acquistare qualche libro da leggere nei tempi morti, rifornire la sua scorta di sonniferi, controllare la posta, rescindere l'abbonamento ad una rivista di punto croce a cui aveva inavvertitamente acconsentito mentre navigava su Internet qualche settimana prima, rilassarsi, non pensare a Clint, eccetera. Se le ultime faccende le avessero creato qualche problema, tentò di consolarsi: le prime sarebbero state sufficientemente semplici.
 
New York è una città che non dorme mai, dicono.
 
______
 
N.d.A: È arrivato, anche questa volta, il momento dei saluti! La storia si conclude qui.
Sono d’obbligo i ringraziamenti a chi ci ha seguito, e a chi ci ha recensito e spronato a continuare con pareri e buoni consigli.
Questo, con la speranza di risentirci presto, anche perché, come direbbe Occhio di Falco, abbiamo ancora qualche freccia al nostro arco.
Pensavate davvero ce la sentissimo di lasciarli così, abbandonati a loro stessi? Alle porte dell’universo cinematografico Marvel a noi noto?
Noi ci andiamo a rivedere The Avengers e a complottare su quello che succederà dopo, a voi lanciamo (con un calcio rotante) il nostro più caloroso arrivederci.
C ya.
 
Sere & Eli.

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