Il lupo

di lalla
(/viewuser.php?uid=1177)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prima parte ***
Capitolo 2: *** Seconda parte ***
Capitolo 3: *** Terza parte ***
Capitolo 4: *** Quarta parte ***
Capitolo 5: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Prima parte ***


IL LUPO

 

 

…Se viene la sera

Compagno non avrai

Da solo farai la tua strada

Sarà solo allora che da te verrà il lupo

Verrà per portarti paura.

Se non lo fuggirai

Fratello ti sarà…

(Angelo Branduardi)

 

1

 

Gli occhi che lo guardavano non senza fierezza  erano asciutti semplicemente perché le sue lacrime doveva averle piante tutte, fino all’ultima goccia. Lui era ancora in grado di distinguere un tessuto di qualità e una veste ben tagliate e cucita, malgrado i pochi anni trascorsi tra la vecchia vita e la nuova sembrassero ormai secoli, e gli abiti di monna Caterina degli Ubaldeschi spiegavano quanto le parole della donna non avrebbero voluto od osato rivelare. Per superbia,  orgoglio, vanagloria. Il taglio era  elegante ma sorpassato, le gale e gli ornamenti avevano conosciuto giorni migliori, e la tonalità di verde, che doveva essere stato squillante chissà quanto tempo prima, non si addiceva al lutto recente e terribile che l’aveva appena colpita. Ma evidentemente il denaro che le sarebbero costate le gramaglie  andava speso per necessità improcrastinabili. Piccola aristocrazia di sangue e di spada, non molto meno poveri dei loro bifolchi: non contavano più nulla. Vanitas vanitatum et omnia vanitas.

 

Il Matto. Era così che lo chiamavano, dentro e fuori i contrafforti della città natale. Aveva gettato al vento una vita di agi per rincorrere un sogno che poteva portarlo dritto allo Spedale dei Pazzi, dove avrebbe finito i suoi giorni incatenato come una bestia, o addirittura tra le fiamme del rogo, al pari degli eretici in terra di Provenza. Eppure  il soffio della follia non pareva aver spento il lume della ragione  in fondo agli occhi dell’uomo, che avevano il colore delle foglie morte, ed erano dolci, e parlavano di speranza. Nonostante tutto.  Iddio è misericordioso, e la Morte corporale è nostra sorella. La misericordia di Dio è infinita, e Duccio riposa in pace, nel seno di Abramo. Monna Caterina avrebbe voluto urlare, come quando Federigo Spadalonga, signore della città, le aveva detto che non avrebbe mandato gli armigeri nel bosco a stanare e a uccidere la belva. Era stato il figlio di Messer Pietro, il mercante di stoffe, a chiedergli di non farlo. E lui aveva dato ascolto allo straccione che perfino suo padre aveva rinnegato  e che la gente chiamava il Matto. Dentro e fuori i contrafforti della sua città natale, in ogni contrada dell’Umbria, fosse pure la più sperduta. Francesco, di Pietro da Bernardone. Che tu possa essere per sempre maledetto, frate.

 

Non erano passati molti anni da quando, incontrandola, l’avrebbe guardata con occhi diversi. Era ancora in grado di riconoscere la bellezza di una donna, e bella lo era, Monna Caterina: esile e alta, il viso bianco tra i capelli neri screziati d’argento, gli occhi scuri e inquieti, fieri e disperati. Bella non lo sarebbe stata più, tra non molto, consumata  da anni di vita difficile accanto all’ uomo brutale e prepotente a cui i suoi genitori l’avevano concessa in sposa tanto, troppo tempo prima. Il tempo di mettere al mondo quattro figlie femmine che Brando Ubaldeschi aveva accolto senza degnarsi di dissimulare tutto il suo disprezzo. Poi, a quattordici anni dall’ultima nata, era venuto al mondo l’erede. Duccio Ubaldeschi. Colui che sarebbe stato barone e cavaliere, avrebbe riscattato l’onore del suo blasone combattendo contro gli Infedeli in terra d’Oriente  per liberare il Sepolcro di Cristo…E che un taglialegna aveva trovato morto nei boschi della Pietralunga,  a dodici anni appena fatti.

 

2

 

Nella verità che al nobile Federigo Spadalonga era stata raccontata  di vero doveva esserci ben poco. Quando la tramontana spazzava i campi con le sue folate gelide, dicevano quelli del contado tremando per la paura,  la bestia usciva dal bosco, e raspava le porte dei tuguri sperando, nella sua intelligenza animale e diabolica, che qualcuno alzasse il catenaccio  per entrare, strangolare e divorare tutti quanti, come aveva fatto con il giovane Ubaldeschi. Non era nemmeno necessario essere cacciatori e conoscere le bestie del bosco come le conosceva  lui, per distinguere il vero dalle fole, anche se la paura, la superstizione e l’ignoranza spesso ottenebrano la mente delle persone, facendoti credere verità ciò che verità non può essere, vagliandola al lume della logica che  è virtù sublime e mai sbaglia, come insegnano i saggi.  E di certo solo gli stolti potevano provare i brividi della febbre, mentre ascoltava Cecco di mastro Giovanni della Pietralunga sciorinare la storia per l’ennesima volta. Il ragazzo giaceva ai piedi della Quercia Vecchia in una pozza di sangue e la bestia gli stava sopra. Era come se sapesse che sovente Duccio Ubaldeschi si recava da quelle parti  per esercitarsi con la sua piccola balestra e addestrare il falcone. Giovane com’era, godeva già fama d’abile cacciatore, e suo padre andava fiero di lui. Il mio cucciolo di lince, lo chiamava così. Era come se sapesse, la bestia, e lo aveva aspettato al varco. Dopo averlo ucciso, l’avrebbe divorato e sua madre non avrebbe avuto una tomba su cui piangerlo e pregare. Non fosse stato per lui.  Gli ho lanciato contro  la roncola e quello è scappato a nascondersi nel folto, gridando come un diavolo dell’inferno. Devo averlo preso, zoppicava il maledetto…

Favole  da vecchie balie, buone alla peggio per spaventare un bambino capriccioso. O buone per quell’idiota di Cecco il legnaiolo che, facendo scappare la maledetta bestiaccia, era riuscito a racimolare qualche scudo di rame con cui riempire la pancia alla moglie e ai figlioli un paio di giorni e a guadagnarsi presso i suoi consimili  la fama immeritata dell’eroe. Quante volte l’aveva detta e ridetta, quella sua storia assurda, alla bettola dello Zoppo, dinanzi a quattro idioti e una caraffa di vino rancido?

 

In realtà, era qualcun altro a raccontare storie da brividi veri  alla bettola dello Zoppo e questo il Signore della città ben lo sapeva.  Era entrato  sulle sue gambe, e ne era uscito sorretto dai suoi scherani, ubriaco fradicio, il figliolo di ser Jacopo Buonfante. Il vino, buono o cattivo, ti fa dire anche quello che non vorresti, si sa. A diciannove anni, Lupo Buonfante si portava appresso un personale allampanato, una faccia di gesso macchiata dalle lentiggini, una  capigliatura color paglierino e un’indole rissosa che rendeva onore al nome impostogli dalla bonanima di suo padre. Quel padre che, alcuni anni prima, Brando Ubaldeschi aveva ammazzato in duello. Non era mai corso buon sangue, tra i Buonfante e gli Ubaldeschi, nobili spiantati, ricchi soltanto  della loro boria. Vanitas vanitatum et omnia vanitas.

 

Il Matto continuava a guardarlo con i suoi occhi color delle foglie morte. Indossava un vecchio saio scolorito, stretto ai fianchi da una corda logora, aveva la barba incolta come un accattone e la testa rasata come un penitente. Era di complessione gracile e bassa statura. Giovane. Brutto, con quella faccia scavata, imbrattata di pelo e fuliggine. Eppure, in quella brutta faccia scintillavano due occhi dolci, che non avrebbero sfigurato sul volto dipinto di un Cristo. Il Matto. E già. Chi, se non un folle, getterebbe al vento una vita di agi e di ricchezza per campare come un mendicante? 

 

Federigo Spadalonga si accarezzò pensieroso il mento barbuto. Lupo Buonfante. Lo avevano sentito sproloquiare in parecchi, ubriaco fino alle ossa, la sera che il cadavere insanguinato del giovane Ubaldeschi era stato riportato dal bosco al fatiscente palazzo di famiglia. “Soffrirà, il maledetto. Soffrirà più di quanto  abbia sofferto io,  perché un figlio si rassegna alla morte del padre, ma un padre a quella del figlio non si rassegnerà mai… E poi quella vecchia strega  non ha più l’età per partorirgli un altro maschio e lui… Lui sarà costretto a coprirsi di ridicolo e di vergogna  lasciando il nome e il titolo in eredità a qualcuno dei suoi bastardi…”  Erano stati gli stessi suoi scherani a trascinarlo via, spaventati dal peso che quelle parole potevano gettare sulla bilancia della giustizia o, più probabilmente, inorriditi essi stessi dal suo cinismo e dalle sue risate stridule e ubriache. E adesso  era come se la sentisse anche lui, l’eco di quella risata capace di mettere i brividi addosso ben più dei terrificanti e inverosimili misfatti che  i boscaioli attribuivano  alla Bestia della Pietralunga.

 

“Non permettete che lo uccidano, messere Federigo. Il lupo è innocente delle colpe che gli vengono attribuite.”

“ Probabilmente vedere la spoglia della Bestia di Pietralunga potrebbe servire a calmare qualche animo esagitato. La gente mormora, dopo l’infelice sortita di messer Buonfante alla bettola dello Zoppo, e da quella scintilla potrebbe scaturire un incendio. Non ho mai creduto neppure per un istante che possa essere stato il  lupo ad uccidere il giovane Ubaldeschi, ma… La gente chiede la testa del mostro e quello, colpevole o no che sia, è solo un animale, frate Francesco. Meglio un animale morto  senza colpa che un’interminabile catena di vendette.”

“Con la sua venuta e il suo sacrificio, Cristo  ha  bandito l’usanza degli olocausti di sangue innocente, fosse d’uomo o fosse di bestia. L’Altissimo ama tutte le sue creature, e il lupo lo è, creatura di Dio , come me. E come voi. Mi piacerebbe incontrarlo” .

 

Voleva incontrarlo. Per parlargli? Eccola, la prova tangibile della sua follia.  Non sono forse i pazzi a parlare con gli animali, con gli alberi, perfino con le cose, restando invano in attesa di una risposta? Qualcuno asseriva d’averlo sentito parlare della bontà di Dio agli uccelli del cielo e ai pesci del torrente. E adesso voleva parlare alla Bestia della Pietralunga, e non metteva in conto di poter essere  aggredito o morso  o addirittura ucciso. Portate con voi almeno un coltello, gli aveva detto; mi sentirei più tranquillo; gli uomini di Dio non possiedono armi, ma il coltello per tagliare il cibo, almeno quello, frate Francesco…Fatelo per me che vi voglio bene.

Lui gli aveva sorriso, come faceva spesso. Non mangio niente che non possa essere spezzato con le sole mani, era stata la sua risposta.

“Quando il Signore mi mostrò la Via, abbracciai senza timore un povero lebbroso. Senza timore affrontai l’ingiuria e lo scherno, quando abbandonai i miei ricchi panni cambiandoli con questi stracci. E senza timore affronto  le  brame e le lusinghe con cui il Nemico, giorno per giorno, mi tenta. Come potrei aver paura di un  vecchio lupo, se l’Altissimo mi dà il coraggio di non temere la malattia, la morte, il disprezzo, il Tentatore?”

 

Gli parlerete, come agli uccelli del cielo  e ai pesci del torrente, Francesco di Messer Pietro, voi che avete abbandonato agi e ricchezze per abbracciare la povertà assoluta, voi che, in ogni contrada dell’Umbria, la gente segna a dito dicendovi matto?  Al Signore della Città sovvenne di un suo vecchio precettore che, quando era bambino, gli raccontava le molte storie che conosceva. Una parlava di Salomone, il più saggio di tutti i sovrani. Possedeva, il grande re, un anello magico che gli consentiva di comprendere il linguaggio degli animali. Ma sulle  dita scarne  di Francesco, il Matto di Dio, non scintillavano gemme né oro.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Seconda parte ***


3

 

 

Il mio sguardo incontrerà il tuo e allora ti guarderò nel cuore e capirò quello che dici. E altrettanto sarà di te con me, anche se non pronuncio parole, ma suoni inarticolati che chi non mi conosce teme, quando alzo il muso alla luna e piango.

 

Il lupo si guardò intorno circospetto, fiutando nell’aria, misto a quello della terra, dell’acqua e delle foglie morte, l’odore dell’Uomo. Non era più giovane, ma i suoi sensi erano ancora acuti, probabilmente  sarebbero  rimasti tali per poco, ma non se ne rammaricò. E’ il ciclo della vita, si ritrovò a pensare, ed è giusto che sia così.

 

L’odore dell’Uomo andava facendosi più vicino. Non sapeva, che strano, di ferro e di sangue, ma era un misto di terra bagnata, fieno e vecchia lana sporca, non troppo dissimile da quello delle pecore. Non sapeva di ferro e di sangue, come gli Altri. Era diverso. Era colui  che stava aspettando da prima che il sole sorgesse sul mondo anche per lui.

 

4

 

“Salute a te, fratello lupo.”

 

La Bestia della Pietralunga aveva costole sporgenti e un lungo muso affilato spruzzato di peli bianchi  semiaperto sui denti consunti. Doveva essere vecchio, pensò frate Francesco. Vecchio, affamato e impaurito. Neppure così grosso  come aveva sentito favoleggiare. Non quanto i veltri e i mastini che, nell’altra vita, aveva veduto accucciati ai piedi dei suoi nobili amici.

 

“ Da me non hai niente da temere, fratello lupo, creatura di Dio.”

 

Non c’era alcunché di feroce in quello sguardo limpido d’ambra trasparente, nulla di mostruoso in  quella sagoma snella e macilenta, coperta di pelo arruffato. Fratello lupo, creatura di Dio. Non esiste nulla e nessuno che non lo sia, nei cieli, sulla terra e perfino nei baratri infernali che si aprono sotto di essa, uomini e animali, angeli e demoni.

 

“I tuoi simili sono soliti chiamarmi figlio del Diavolo”

 

Il brontolare rauco della Bestia si era fatto parola che Francesco riusciva a comprendere. Tutto è possibile a Dio. Lui lo sapeva.

 

“I tuoi simili hanno paura di me e mi chiamano assassino.”

 

“Ecco, è proprio un assassino colui che vado cercando, non per consegnarlo nelle mani del boia ma perché si penta dei suoi peccati e non lasci perire l’anima sua tra le fiamme dell’Inferno. E quell’assassino non sei tu, fratello lupo, creatura di Dio.”

 

“Sei l’unico a crederlo, uomo di pace che non stringi armi nelle mani e riesci a leggere nel cuore di ogni creatura anche le parole non dette. Non  come gli altri,  quei tanti che  ti  scherniscono dicendoti Matto, anche se, in verità, ai miei occhi sei e resterai il più saggio dei saggi. Vogliono togliermi dal mondo, e sono convinti di essere nel giusto. Ho sentito il frusciare  dei loro stivali sulle foglie cadute, l’urto  del metallo contro il metallo, il bisbiglio di voci che chiamano sangue. Credono davvero che il mondo sarebbe un posto migliore, senza il vecchio lupo cacciato dal branco, abituato a  placare la sua fame con qualche carcassa di gallina raccattata negli immondezzai e a cantare alla luna la sua solitudine?”

 

Era tristezza senza fine, quella che l'Uomo riusciva a leggere in fondo agli occhi ambrati della Bestia? Francesco allungò una mano, come avrebbe fatto con un cane in attesa di raccattare le briciole sotto la mensa del banchetto. Ma la risposta del lupo fu un sordo ringhiare minaccioso.

 

“Non toccarmi. Non contaminare la tua santità . Io sono il male.”

 

Il male, di cui gli uomini ne avevano fatto immagine e metafora: cieca cupidigia, sfrenata lussuria, ottusa ferocia.

 

“Sono loro, quelli così, non certo tu, povero, vecchio lupo abbandonato dai tuoi simili e perseguitato senza colpa dai miei.”

 

“Umhf. Sia maledetto il vostro fottuto simbolismo che ha fatto di noi animali l’immagine dei vizi degli umani. No, non è  per te che provo risentimento, perché  te l’ho detto, tu non sei come gli altri e questo lo so da sempre. Credimi, da una vita aspettavo d’incontrarti. E perdona la crudezza del mio dire : non sono forse un vecchio brigante scacciato anche dai suoi simili?”

 

“La tua solitudine mi stringe il cuore, fratello lupo…”

 

“E la tua ingenuità mi fa tenerezza, Uomo. La Natura è una madre saggia: lo sarebbe, forse, se permettesse a una vecchia bestia dalle zampe doloranti e la vista offuscata di  continuare a guidare il branco nella caccia, o nella fuga, quando da cacciatori diventiamo prede? E adesso stendi la tua mano e accarezzami la testa, se ti fa piacere. Un gesto di affetto non mi farà più male dell’odio dei tuoi congeneri. Ho sentito i passi dei loro stivali, il cozzare delle loro armi. So che mi cercano. E non per stendere la mano sulla mia vecchia testa rognosa, questo è sicuro.”

 

“E’ stato il peccato che macchia dall’alba dei tempi il cuore dell’uomo a porre inimicizia tra lui e le altre creature del buon Dio. Quel peccato che  gli è costato morte, dolore, dannazione. Ma io so che torneranno i  giorni in cui  il lupo e l’agnello  giaceranno insieme sull’erba e il fanciullo si assopirà  posando il capo sopra un leone addormentato, come disse il Profeta assai prima che il Figlio di Dio vedesse la luce.”

 

Il lupo abbassò  le palpebre a celare il luccichio dello sguardo. Era scritto nelle stelle da prima che nascesse, di quell’ incontro con  un uomo che non aveva ragione di temerlo perché il suo animo era mondo dal male, dall’acredine  e dal desiderio di cose terrene. Le stelle. Quanto le amava, gli sospirò sbuffando, quando alzava il muso e le vedeva punteggiare come tanti occhi  il cielo nero della notte.  E il sole, allora?  E l’acqua che placava la sete, il verde dell’erba tenera sotto il velluto delle sue zampe, lo zeffiro che profumava  di fiori e la tramontana che  gridava con la sua stessa voce?  Amava perfino  il fuoco che si alzava in lingue crepitanti, il fuoco che avrebbe dovuto temere  perché segnava il confine tra il mondo dei lupi e quello degli umani. E la luna mutevole, graffio d’artiglio gigante che squarciava  bianco il buio, disco d’argento velato da una bava di caligine rossastra?  La luna dei lupi, madre e signora delle creature della notte…

 

Il sole, la luna, le stelle, il verde  dell’erba, lo zeffiro e la tramontana, l’acqua e il fuoco, le rose e le spine. Ti sia resa lode, Signore, per tutte le tue creature. Per fratello  lupo, che ha gli occhi come lacrime d’ambra e parla con sagge parole. Per fratello lupo, che non uccide i suoi simili e, quando la giovinezza e l’energia vengono meno, senza recriminare si allontana dal branco  e sceglie di campare  da mendicante solitario. Per fratello lupo, calunniato e odiato  fin dall’alba dei tempi. Per fratello lupo, che potrebbe insegnare all’uomo ad accettare il proprio destino.

 

“Se il dolore e la morte ci fanno paura? E’ questo che vuoi chiedermi, Uomo? Ebbene, la risposta è sì. Ma così è, dacché il mondo esiste e nessuno, uomo o bestia che sia, può cambiare ciò che è stato deciso da chi è infinitamente più forte e saggio di noi tutti. Sai, Uomo, anche i lupi pregano. Chiedono che il cibo sia abbondante, il tempo clemente, che i nostri piccoli crescano in forza e salute, lontani dai pericoli. E che…in verità ho un po’ di vergogna a dirtelo, non vorrei che ci tacciassi di vigliaccheria e superbia, ma…Noi lupi vorremmo che il destino ci risparmiasse la morte per rabbia, l’orrore che ci causa sofferenze inenarrabili e ottenebra la mente e il cuore, spingendoci a nuocere ai nostri stessi simili; e la morte per mano degli uomini. Vedi, anche noi cacciamo gli animali di cui ci nutriamo. Non recrimineremmo, qualora venissimo uccisi per placare la vostra fame. Ma l’uomo non mangia il lupo, e ci uccide solo per soddisfare la sua vanità, dar sfogo al suo malanimo…E tutto questo ferisce il nostro amor proprio.”

 

Ti sia resa lode, Signore, per il dolore che ci tempra e per sorella Morte, che ci scardina le porte del Paradiso. Chi non ha l’anima macchiata dal fango del peccato non ha ragione di temere  l’unica certezza del suo esistere, anche se dovesse irrompere  nella sua vita all’improvviso, come un ladro nella notte.

 

“Fratello lupo, creatura di Dio…”

 

Il lupo sapeva da sempre che avrebbe incontrato qualcuno in grado di sancire la riconciliazione tra l’uomo e gli altri viventi: lui, il frate curvo e macilento, che non puzzava di ferro e di sangue.  Come un cucciolo giocoso, stese la zampa, che Francesco prese tra le sue mani. Era incrostata di sangue vecchio, dove Cecco il legnaiolo l’aveva colpita con la sua roncola.

 

“Fratello lupo, creatura di Dio…L’anima di un uomo che porta il tuo stesso nome, per superbia, vanagloria e sete di vendetta rischia l’eterna dannazione. Perciò ti chiedo, nel nome del Signore, udendo il quale ogni ginocchio si piega, in Cielo, in terra e sotto terra…”

 

Non farla tanto lunga, Uomo. E non scomodare Dio per così poco. Era una vita che aspettavo d’incontrarti: vuoi che non sia disposto a ricambiare con  un piccolo favore?”

 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Terza parte ***


5

 

Bambini e matti, si sa, da che il mondo è mondo con le bestie ci si pigliano. Appresso a quello, quante volte ci stava il codazzo dei cani senza padrone, bestie rognose con le costole di fuori, rifinite dalla fame, e lui ci divideva il pane ricevuto in elemosina, con loro, e ci faceva discorsi complicati, manco si trattasse di cristiani. Il solito buon uomo raccontò alle comari del mercato d’averlo visto abbracciare il cane di Serafino il pecoraio, quello bianco, col collare irto di punte e la criniera da leone, che al gregge non lasciava avvicinare bestie né uomini. Il Matto lo abbracciava e ci parlava, e  lui gli frugava dentro gli occhi, ascoltando a orecchie tese i suoi sproloqui. Fosse l’uomo fedele alla volontà di Dio come tu lo sei al tuo padrone, fratello canePrendesse l’umanità esempio da te… Al buon uomo per poco non era sceso un accidente, sentendogli proferire  il nome dell’Altissimo sul sudicio muso di un cane, ma quello era tocco, lo sapevano tutti, e il Signore ha  misericordia di quelli dolci di sale, altrimenti l’inferno sarebbe pieno come un uovo di gallina. Il Signore sì, ma non certo qualche anima timorata che, prima o poi, gli avrebbe fatto assaggiare il gusto delle legnate sul groppone e allora l’avrebbe capita, finalmente, che era peccato nominare il nome di Dio sul ceffo  lercio di un cagnaccio immondo.

 

Quello che lo seguiva trotterellando era l’ennesimo della serie, sfamato per modo di dire  dal tozzo di pan secco che il Matto aveva avuto in elemosina e diviso con lui, una briciola a me, una a te. Un vecchio randagio pulcioso, le orecchie dritte, il muso imbiancato dagli anni, il segno delle costole ben evidente sotto la pelliccia arruffata. In città si mormorava  che  il Matto intendesse incontrarsi faccia a faccia con la Bestia della Pietralunga. E farsi ammazzare come una  capra, borbottò segnandosi una vecchia: “Pater noster…Libera nos a malo…”  Teneteli per qualcun altro, i vostri pateravegloria, nonna. Scommetterei una caraffa di quello buono che il Matto è tale solo per non pagar dazio, e sarebbe capace di gabellar per lupo il cagnaccio che gli è andato appresso strada facendo. E noialtri a crederci e a scomodare il Padreterno dietro le stramberie di quel pitocco. Ma se non oggi sarà domani o magari domani l’altro, incontrerà davvero qualcuno che gli spaccherà il groppone a legnate e se la ricorderà per un pezzo, la lezione, datemi retta…”

 

Beata ignoranza. Sarebbe scoppiato in una sonora risata sui grugni scrofolosi di quella bassa gente gonfia di presunzione e d’insipienza. Avrebbe spiegato loro tutto quello che sapeva, non senza togliersi il gusto di umiliarli come meritavano.  Non avesse avuto il freddo della febbre addosso e una disperata voglia di scaldarsi l’anima e le budella col vino dello Zoppo, che tanfava d’uva marcia ma l’ansia sapeva bene come ammazzarla. Suo padre, prima che il maledetto Ubaldeschi lo togliesse dal mondo, era stato un valente cacciatore. Un valente cacciatore che non avrebbe avuto motivo di vergognarsi di lui, mira eccellente e coraggio temerario, talis pater talis filius. Cervi. Daini. Cinghiali. Orsi. Mai però dardo della sua balestra avrebbe colpito l’animale di cui portava il nome: il lupo,  del quale conosceva bene lo sguardo d’ambra, il muso aguzzo, il passo leggero, la musica inquietante della voce. Attaccato all’ombra del Matto, non c’è un vile cane di strada, gentaglia. Guardatelo attentamente, o voi che non ne avete mai veduto uno e immaginate un mostro grosso quanto un cavallo, capace di pietrificare con lo sguardo e d’appestare col fiato prima di uccidervi e divorarvi. Attaccato all’ombra del Matto c’è un lupo. C’è la Bestia della Pietralunga, proprio lei. Guardate come trascina la zampa: all’osteria dello Zoppo, ho sentito Cecco il legnaiolo vantarsi d’avergli scagliato contro la sua roncola e d’averlo colpito…

 

Lo osservò attentamente attraversare la piazza: piccoli passi veloci, capo chino , spalle curve che contraddicevano i suoi venticinque anni conferendogli, alla distanza, qualcosa del vecchio. E la bestia continuava a seguirlo, contraddicendo anch’essa la propria natura diffidente ed elusiva, attaccata alla sua ombra come un cane stupido e fedele. Di solito si collocava nel bel mezzo della piazza e, senza mutare l’attitudine curva della sua gracile schiena, cominciava a sproloquiare. La gente gli si faceva intorno e lo ascoltava. Probabilmente erano pochi coloro che credevano davvero in quel che  il Matto pontificava con una voce flebile che gli somigliava; i più  stavano ad ascoltarlo solo per dileggio. Anche se c’era ben poco da dileggiare in un accattone vestito di stracci capace di convincere un lupo a seguirlo fin dentro le mura di una città.

 

Lupo Buonfante decise che ne aveva avuto abbastanza, eppure non riusciva  a scollarsi da quel recesso semibuio dal quale poteva guardare senza essere visto. E più nolente che volente, finì con l’apprestarsi  ad ascoltare le parole dello straccione ai cui piedi, come un vecchio cane stanco, la belva si era assopita, dopo aver mosso piano la punta della coda. Il carisma e le qualità oratorie non dovevano mancargli se, con gran scorno del parentado, alcuni giovani di ottima famiglia avevano abbandonato panno e broccato per infilarsi in un sacco di bigello e  andargli appresso lodando Dio e rinunciando gioiosamente al potere, all’amore e alle ricchezze.

 

Buon popolo di questa città… Guardate, accucciato ai miei piedi come un docile cane,  fratello Lupo creatura di Dio che tanto temete! Uomini formati a immagine dell’Altissimo, che non esitate a profanare voi stessi con la superbia, l’invidia, la calunnia, l’odio, la violenza, l’impurità e le fornicazioni, dovreste temere non il lupo, bensì  il peccato e l’inferno! Ma sappiate, buona gente, che la misericordia del Signore è infinita e se, con cuore sincero, vi pentirete del male fatto, ogni colpa vi sarà rimessa e nulla potrete temere, men che meno la morte corporale, che  anzi vi  scardinerà le porte del Paradiso…

 

Sì, ne aveva avuto abbastanza, dell’accattone con le sue chiacchiere farneticanti e del vecchio lupo pulcioso. Il vino rancido dello Zoppo era lì a pochi passi, pronto ad annegare nell’ottundimento tutta l’inquietudine che lo divorava.  Si calò il cappuccio sulla fronte, mosse alcuni passi. Il cielo grigio minacciava pioggia, in lontananza addirittura tuonava, se non si fosse affrettato  a raggiungere la bettola non si sarebbe risparmiato una passata d’acqua gelida, foriera magari di qualche  bella infreddatura. Che peraltro  il Matto, gracile e grosso la metà di lui, sembrava non temere, intento a baloccarsi con la Bestia della Pietralunga che lo assecondava  come un cucciolo giocoso.

 

Basta adesso. Ma basta per davvero. E invece niente, come se una forza misteriosa tenesse i suoi piedi ancorati al suolo, nonostante avesse iniziato a piovere e i lampi si rincorressero tra le nuvole. Poi tuonò. Forte. Il lupo alzò il muso al cielo, ululò. In fondo, non era molto diverso dai cani, che spesso dei tuoni hanno il terrore.

 

Ogni vita ha un senso.

 

Forse sono impazzito, o forse no, la voce che ho sentito è solo il vento, un tuono, un maledetto scherzo della mia immaginazione…

 

Ogni vita ha un senso, lo hai insegnato ai tuoi simili e la forza del tuo dire resterà nei tempi che verranno, quando io e te non saremo più nemmeno ossa…

 

Un brivido. E un altro. No, non poteva essere vero. Era la voce del vento, quella, il rombare minaccioso del tuono, forse solo l’ululato di quella bestiaccia.  L’ululato, eh già, se non quello che cosa?

 

Ogni… vita… ha un senso.

 

Gli sembrò addirittura di vederlo abbassare la testa al cospetto del Matto, come per salutarlo, prima di decidere che era tempo di tornare a casa, tra le forre della Pietralunga. Lo vide quindi spiccare un balzo e, in pochi passi appena, scomparire nell’orizzonte grigio di nuvole. Lupo Buonfante rabbrividì  dentro il mantello foderato di logora pelliccia.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Quarta parte ***


6

 

Avresti potuto vivere come un principe e hai rinunciato a tutto. Hanno ragione a darti del matto, piccolo, insignificante uomo  vestito di sacco come un lebbroso, i piedi scalzi imbrattati della polvere di infinite strade. Matto.

 

“Ehi...

 

Lasciò che gli passasse vicino, gli sfiorò la manica del saio e quello si voltò. Gli sorrise. Stavate per chiamarmi Matto, messere? Non temete, certo non sarà la verità a offendermi.

Era brutto e macilento, eppure Lupo Buonfante rimase colpito da un sorriso e uno sguardo carichi di calore. Da quel povero diavolo, si ritrovò a pensare quasi suo malgrado,  emanava il carisma di un condottiero o forse…forse addirittura di un santo.

 

Pensieri e parole gli tenzonarono balbettanti dentro la testa. Come avete fatto…ad ammansire il lupo? E perché…perché invece che tuoni e ululati, poco fa le mie orecchie hanno udito parole profetiche pronunciate da una voce che forse…forse solo io ho sentito? O magari  anche…anche  voi…

 

“Vorrei parlarvi. Ma non qui.”

 

“Anch’io lo vorrei. Da diversi giorni aspettavo d’incontrarvi, messere.”

 

Per guardarlo tremare come una foglia trafitto da quei suoi occhi acuti e miti, lui, cavaliere cinto di spada al cospetto  d'uno straccione del quale in ogni contrada dell'Umbria si rideva? Di quello stesso straccione che aveva   ammansito il lupo e, era follia persino pensarlo, gli aveva fatto pronunciare parole con voce d'uomo e non di bestia?

 

“Ero...ero presente poco fa, quando...quando  avete operato il... miracolo...”

 

“Quelli li fa il Signore onnipotente. Io non sono che uno strumento nelle Sue mani.”

 

“Allora...è inutile che resti, perché...”

 

“Perché  un peso grande come il mondo vi opprime il cuore, messere? Un peso dal quale solo un miracolo potrebbe liberarvi e che forse ha a che vedere con la triste sorte toccata al giovane Ubaldeschi?”

 

“Non è stato il lupo.”

 

“Questo lo so. “

 

Il Matto gli sorrise, prendendogli le mani tra le sue.

 

“Non so perché ci sono andato, alla Piertalunga,  proprio quel maledetto giorno. Erano passati sette anni esatti dacché Brando Ubaldeschi aveva ucciso mio padre in duello. Non  siete di qui, voi, ma certamente non ignorate che non è ma corso buon sangue, tra noi e loro. Ero pieno di tristezza, di rabbia, di livore...non mi trovavo proprio nello stato d'animo adatto a incontrarmi faccia a faccia con Duccio Ubaldeschi, che aveva solo dodici anni ma era già una vipera piena di veleno, come tutti quelli della sua genia. Dodici anni...L'età che avevo io quando mio padre mi morì fra le braccia, trafitto dalla spada del suo...Avevo bevuto, per ammazzare la tristezza e il ricordo di quel giorno, di quel sangue...Lui mi è venuto sotto minacciandomi con il suo stocco e vomitando improperi. Era forte per la sua età, alto quasi come me. Sarebbe venuto su prepotente come suo padre, mi ritrovai a pensare. Ma giuro che non l’avrei toccato, quel piccolo tafano molesto, se non fossi stato ubriaco. E se non avesse proferito parole innominabili all’indirizzo di mia madre. Gli abbrancai il braccio e glielo torsi, facendogli cadere di mano la ridicola arma che impugnava. Lui strabuzzò gli occhi per il dolore e non ricordo…non ricordo se lo colpii con un pugno o se, rinculando, inciampò in un sasso o in una radice e cadde battendo la testa…”

 

E allora siete fuggito, messere, per non guardare i suoi occhi spalancati e fissi e tutto il sangue che fluiva dalla ferita, imbrattandogli i capelli e imbevendo la terra su cui giaceva. Siete fuggito senza domandarvi se fosse ancora vivo, sopraffatto dalla paura che la giustizia degli uomini incute e dall’orrore per ciò che avevate fatto. Forse avete visto il lupo avvicinarsi quatto, e la roncola del legnaiolo colpire la sua zampa facendolo scappare via spaventato. Magari avete pensato che quella creatura selvaggia si sarebbe potuta addossare le vostre colpe e che nessuno avrebbe mai saputo la verità. Nessuno se non voi, messere. L’odio genera odio. La vendetta è l’anticamera dell’inferno. E l’ebbrezza del vino non può spegnere  il fuoco del rimorso.

 

“Il Signore ha grandi braccia e parole di misericordia per colui che, sinceramente, si pente del male fatto. Non sono stato consacrato con il crisma da un vescovo, per cui non posso, nel nome di Dio, cancellare i vostri peccati. Cercate un prete, messere, confessate le vostre colpe  e riconciliatevi con Lui. Andate adesso. Pace e bene a voi…fratello Lupo.”

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Epilogo ***


EPILOGO

 

“Vorrei parlarvi. Ho fatto un lungo viaggio per incontrare qualcuno  che l’avesse  conosciuto…fratello.”

 

Lo straniero aveva capelli lunghi come quelli di una donna, un liuto ad armacollo e parlava con un accento forestiero che lui credeva di non  aver  mai udito. Veniva, gli disse, dalla terra di Provenza. Che cosa cercava, da un vecchio  straccione, lui,  un poeta, un uomo abituato a cantare l’amor cortese del cavaliere per la sua dama? Ispirazione dalle storie che, da tanto tempo, il frate raccontava alle donne, ai viandanti, ai bambini che lo ascoltavano rapiti? Lasciate che i fanciulli vengano a me

 

“Anche lui ha cantato l’amore. Per i fratelli, per la Madre Terra e tutte le creature viventi. Per la morte corporale che spezza le catene dell’anima e la innalza al Paradiso. L’amore per il Signore Nostro Gesù Cristo il quale, all’eremo della Verna, pochi anni prima che lasciasse questo mondo, gli concesse il dono grande e terribile delle stimmate. Laudato sie mi Signore cum tucte le tue creature. Indegno parlare  il vernacolo dei mercanti e dei contadini, per rivolgersi all’Onnipotente. Perché quello, invece che il latino dei padri, dei savi e della Chiesa? Non tutti sono santi e sapienti, ma Dio ha braccia capaci di accogliere ognuno di noi. Di perdonarci e di salvarci. Disse così, ricordo. Mi guardò, con quegli occhi offuscati che si stavano spegnendo, e mi sorrise. Ero un peccatore, e Dio mi aveva salvato per suo tramite. Chi poteva saperlo meglio di lui?”

 

“Raccontatemi…del lupo. Della belva assassina che ha ammansito. E’ una bella storia.”

 

“Una bella storia in cui di vero c’è ben poco, messere. La Bestia della Pietralunga non era un mostro e non s’è mai nutrito di carne e di sangue umani. Era un povero, vecchio lupo respinto dai suoi simili, su cui  a qualcuno ha fatto comodo riversare le conseguenze della sua malvagità, come accade dall’alba dei secoli. Francesco questo lo aveva compreso. Sia maledetto il vostro dannato simbolismo, che ha fatto di noi animali l’immagine dei vizi degli umani.”

 

“E il lupo del male è stato fatto simbolo. Anche nella terra lontana da cui provengo. L’ora del lupo, per esempio, da noi è quando l’alba non ha ancora sconfitto la notte, quella in cui molte persone muoiono . E’ l’ora in cui il sonno si fa più profondo e gli incubi diventano reali. E’ l’ora in cui la paura  tormenta gli insonni e spettri e demoni si fanno più potenti.  Ma l’ ora del lupo è anche quella in cui molti bambini nascono.”

 

Il vecchio monaco chiuse gli occhi un istante, accennò lentamente in assenso. Francesco, di cui il mondo aveva riconosciuto la santità, non era vissuto a lungo, consumato dalle privazioni e dalle penitenze per i peccati che non aveva mai commesso. Quando sentì avvicinarsi il passo danzante di Sorella Morte, chiese di essere trasportato nel luogo dove il Signore gli aveva indicato la via e adagiato in grembo alla Madre Terra.

 

“Non rese l’anima nell’ora più cupa della notte a cui accennavate poc’anzi, messere. Eppure…”

 

“Eppure? ”

 

“Quando l’anima di un santo ascende al Paradiso, anche ai viventi è dato di sentir cantare le voci sublimi degli angeli. Ma, nel momento in cui Francesco esalò il suo ultimo respiro, fu l’ululato dei lupi, il canto arcano e potente della Terra ad accompagnare il suo spirito alla casa del Padre. A salutare il fratello che non odorava di ferro e di sangue, ma di paglia, terra bagnata e lana sporca.”

 

Tacque, il poeta. Anni doveva averne parecchi, il vecchio frate suo interlocutore, ma il suo personale segaligno era dritto come un fuso. Era chiaro d’occhi e di carnagione: doveva essere stato biondo, un mare di tempo prima.

 

“Ditemi il vostro nome, fratello.”

 

“Lupo. Frate Lupo da Gubbio.”

 

Fine

10-10-13

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=1770401