Maria

di Sleepingalone
(/viewuser.php?uid=278653)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 - Trenta giorni, trenta sogni ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 - Così, per ricominciare da capo la vita ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 - Dieci secondi e cento decimi ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4 - E il naufragar m'è dolce in questo mare ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5 - Red Velvet ***
Capitolo 7: *** Capitolo 6 - Ricordi di comete ***
Capitolo 8: *** Capitolo 7 - Sogna un piccolo sogno ***
Capitolo 9: *** Capitolo 8 - Tutto molto bene ***
Capitolo 10: *** Capitolo 9 - Aurora Boreale ***
Capitolo 11: *** Capitolo 10 - Tanto non me ne vado ***
Capitolo 12: *** Capitolo 11 - Bolle di sapone ***
Capitolo 13: *** Capitolo 12 - Qualcosa di bello ***
Capitolo 14: *** Capitolo 13 - Passerotto rosso ***



Capitolo 1
*** Prologo ***



 

Prologo
 

29  Ottobre 2004
 
‹‹Maria, Maria!››.
Era nei paraggi, proprio dietro di lei.
‹‹Harry, non riuscirai a prendermi››.
Sempre più vicino.
‹‹Non scapperai così facilmente ››.
La bloccò per il polso, vincente. 
‹‹Ho dieci anni e sono un maschio: ho la forza nelle vene››, replicò, arrampicandosi su una roccia. ‹‹Tu ne hai solo sette, e sei una femmina: sei fragile››.
Maria pensò per un attimo di odiare l'amichetto, perché stufa di perdere ogni singolo gioco con lui. Dunque, incrociò le braccia al petto e mise il broncio. 
‹‹Sono offesa››, mormorò lei, avanzando.
‹‹Dai, Maria, non puoi essere sempre così permalosa››, sogghignò lui ancora in piedi sul masso, mentre l'altra era portava le dita alle orecchie, con l'intenzione di intonare una cantilena infantile, al fine di coprire il timbro fastidioso dell'amico.  
La bambina aveva coperto talmente tanto forte le orecchie, che sentì appena l'urlo soffocato di Harry che precipitò immediatamente giù dalla roccia. ‹‹Maria, attenta!››.


 

 
29 ottobre 2013
 
Apro gli occhi al terribile frastuono che la sveglia emette; dunque mi alzo dal letto e, coprendomi con una vecchia giacca di lana, mi reco in cucina, cercando di essere cauta nei movimenti al fine di non svegliare mia madre e i miei fratelli, i quali stanno ancora dormendo. 
Riscaldo del latte in un pentolino d’acciaio, quindi lo verso in una tazza già bagnata dal caffé - perché io il latte bianco non lo bevo - e, infine, lo assaporo a piccoli sorsi. 
Torno in camera e, emettendo un tonfo sordo, mi siedo sul letto.
Lo specchio riflette il mio corpo in lontananza, ed io mi ritrovo ad osservarlo con poca caparbietà, perché in fondo io non mi sono mai piaciuta e, in fondo, non sono mai piaciuta alle persone.  
Comunque, mi dirigo verso il comò in legno chiaro ove scelgo gli indumenti da mettere e, dopo essermi vestita, torno a sedermi sul letto con lo scopo di calzare le Converse bianche consumate, che si trovano sotto le reti del mio materasso, tra la polvere e la peluria nera che Jack, il mio cane, perde durante il periodo della muta. 
Spazzolo i boccoli color cioccolato che mi ricadono vaporosi e pavoneggianti fin sotto le spalle e metto gli occhiali da vista.
Infine, mantenendo un passo fermo e silenzioso, mi chiudo il portone di ingresso alle spalle e mi avvio come ogni giorno verso la fermata d’autobus.
Ad ogni passo, mentre osservo la spiaggia ed il mare che bagnano il litorale sul quale cammino da sinistra, un brivido si distende lungo la mia schiena e mi fermo per un attimo a pensare a quanto sia bella Wells-next-the-Sea - la città dove abito - in autunno.  Arrivo in anticipo a destinazione e, pertanto, decido di prendere posto su una panchina in ferro vecchio.
Appena seduta, innalzo lo sguardo e lo affino sulla celestiale manta turchina che, tappezzata da soffici nuvole bianche, volteggia pigmentata lungo tutta l'estensione del firmamento. 
Respiro poi ad ampi polmoni. L’aria è frizzante e leggera, tuttavia per niente fredda: merito del sole che riscalda l’atmosfera. Esso è infatti tiepido e sorprendentemente piacevole.
Appoggio dentro le orecchie gli auricolari bianchi, piego il capo all'indietro e lascio che la soave melodia mi trasporti in un universo dissimile da quello in cui vivo. Ma il mio sguardo viene catturato.
Dio, non è possibile.
Lui è lì, puntuale come ogni giorno. Con la sua tracolla nera, i suoi riccioli spettinati e le sue camicie in diverse fantasie geometriche. E mi osserva, come se mi volesse studiare.
Non capisco il motivo dei suoi sguardi così opprimenti: è lì da settembre e non mi ha mai rivolto la parola.
Chi è? Qual è il suo nome? Da dove viene? Cosa vuole da me?

Non riesco a staccargli gli occhi da dosso e, sinceramente, non riesco a comprendere se sia lui a guardare me, o se sia l’esatto contrario.
Chi guarda chi?
 
 

 


Angolo autrice
 
Salve ragazze, non mi era mai capitato di pubblicare una storia di notte, ma c'è sempre una prima volta.
E poi voglio che 'Maria' sia innovativa in tutto e per tutto.
Spero che il prologo vi abbia incuriosito, tengo tanto a questa storia e farò di tutto per renderla accettabile. Baci, Sleep. xx
 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Capitolo 1 - Trenta giorni, trenta sogni ***



 

Capitolo 1 - Trenta giorni, trenta sogni
 

‹‹Fermata numero tredici››, urla un autista di media statura, aprendo gli sportelli dell’autobus e facendo segno di avvicinarci. Io lancio un’ultima occhiata al ragazzo situato a pochi metri da me, poi mi dirigo in direzione dell’autoveicolo e, indietreggiando lo strano tipo, estraggo dalla tasca anteriore dei jeans un biglietto a dir poco stropicciato e sbiadito, che mostro al conducente del mezzo.
Inciampo erroneamente, facendo così precipitare per terra i miei auricolari bianchi; pertanto, mi piego al fine di raccoglierli, mi rialzo e strofino le nocche delle mani sui jeans. In seguito, strabuzzo gli occhi e, voltandomi a destra e a manca, scorgo nessun sedile libero, se non uno impolverato e malconcio situato alla fine dell'autobus. Quindi, aggrappandomi allo zaino e barcollando, arrivo a destinazione, ma mi maledico immediatamente, poiché adagiato accanto al finestrino, mediante uno sguardo cupo e quasi assente, risiede il ragazzo dai ricci imbruniti. 
‹‹Posso sedermi?››, gli chiedo imbarazzata, indicando il sedile accanto al suo.
Lui, dal canto suo, alza lo sguardo evidentemente sorpreso dalla mia presenza. 
E penso che mi sarei evitata tutto questo, se solo avessi aspettato l'autobus delle sette e trenta. 
Comunque, il tipo socchiude le labbra carnose e annuisce senza dire una parola. Perciò io mi lascio cadere al suo fianco e appoggio lo zaino sulle cosce, al contempo, sento partire alla radio ‘Are you lonesome tonight?’ di Elvis Presley, e sorrido tra me e me perché ogni cosa, in questo momento, ha il sapore dei nostalgici anni '50. 
Riprendo coscienza inesorabilmente quando il ragazzo accanto a me tossisce, muovendosi. Egli, dopo aver assunto un’espressione tranquilla - pressappoco indifferente -, batte le palpebre con l'intenzione di osservare le colline ingiallite di una Wells autunnale mostrarsi, attraverso il vetro di un finestrino insudiciato da graffiti a pennarello nero, con la stessa intensità mediante la quale lui studiava me prima. Gli aceri, che contornano i viali, esalano via frammenti di foglie gialle e, anche se non riesco a vederlo, so per certo che la rugiada scivola via da esse, battendo sui prati d’infinita bellezza.
Tuttavia, d’improvviso, la mia attenzione viene richiamata dai tratti predominanti del ragazzo, che al mio sguardo sorge in modo parecchio attraente: il suo volto è ovale, leggermente pronunciato e pulito tanto da farlo sembrare quasi un bravo ragazzo. Esso è, inoltre, decorato da due meravigliosi occhi fastosi dalle iridi verdi acquose che a tratti sembrano riportarmi a Parigi. 
Anche il naso è abbastanza prominente e diritto, mentre le labbra hanno sposato un colorito rosastro, sono a forma di cuore - proprio come le mie - e sembrano talmente morbide che mi adagerei sulla superficie platinata senza alcun tipo di problema.
Sposto poi lo sguardo verso il basso e, come ammaliata dalla circostanza, vengo distratta dallo spazio che la sua mano sinistra occupa; la nocca è secca e ossuta e le dita sono affusolate e tanto lunghe da far sembrare le mie esageratamente piccine.
Alzo gli occhi ancora una volta e, sbadatamente, dalla camicia - aperta sul petto -, intravedo qualche tatuaggio che non faccio in tempo a decifrare, poiché il tipo becca in flagrante i miei sguardi curiosi e adesso mi osserva con fare divertito e noncurante.
Io, cercando di ricompormi fingendo nonchalance, faccio scivolare le dita della mano destra sullo schermo del cellulare, alla ricerca di una qualsiasi canzone che possa distogliermi dalla situazione imbarazzante venutasi a creare. Pigio, perciò, su un brano scelto a caso: ‘Remind Me’ di Carrie Underwood e Brad Paisley, quando, tutto ad un tratto, vedo le labbra del ragazzo muoversi verso la mia direzione. Tolgo un auricolare e corruccio lo sguardo in un cipiglio confuso, ma agitato.
‹‹Scusami?››, sussurro appena, togliendo un auricolare dall'orecchio destro e provocando una risata al volto del ragazzo, che è adornato da un paio di deliziose fossette profonde, molto simili alle mie.
‹‹Dicevo››, replica, passandosi una mano tra i capelli. «Ti piace la musica country?». 
Deglutisco a causa dell'effetto che il tono della sua voce, calda e roca, mi ha provocato. «Sì. E a te piace spiare le persone?», domando a mia volta, insinuando curiosità. 
«Perdonami, prima mi è caduto l'occhio sul tuo cellulare», si giustifica, continuando. «Ma, a quanto pare, a te gli occhi erano caduti sul mio petto e sulle mie mani».
Avvampo in volto come non mi era mai capitato, dunque mi rimetto gli auricolari, cercando di evitare pesanti commenti. ‹‹Anche a me piace tanto››, dice ancora, sfilandomi la cuffia di destra e causandomi, al contempo, una strana sensazione al ventre e alla pelle. «La musica country, per intenderci». 
Mordo spontaneamente il labbro inferiore, in cerca d’aiuto, ma peggiorando la situazione, dacché lui sembra irrigidirsi.
«Sei un ragazzo scortese a cui piace della buona musica, complimenti», aggiungo sfacciatamente. «E, no! Se te lo chiedi, non mi sono offesa per prima». 
Lui sorride e si sofferma al fine di sfiorare il labbro inferiore con il pollice,  mentre io vengo sedotta dalla sua azione. «Okay, se non vuoi, non me lo chiederò», continua, boccheggiando. «Hai mai ascoltato ‘Resolution’ di Matt Corby?››.
Da parte mia scuoto la testa perché non conosco quel cantante né tantomeno quella canzone. Perciò il tipo si spoglia delle sue cuffie, le appoggia alle mie orecchie con delicatezza e mi scosta i capelli dietro. 
Percepisco una melodia nuova e tranquilla, tuttavia, essendo parecchio nervosa, tolgo quasi subito gli arnesi da dosso. «No, sono sicura di non averla mai ascoltata››, osservo pragmaticamente, mentre lui continua a scrutarmi e io gli restituisco gli auricolari. ‹‹È una bella canzone››, commento, per poi intravedere il mio liceo - che si trova a Cromer, una città costiera che affianca Wells -  attraverso il finestrino. 
L’autobus arresta il passo di colpo, e io - finalmente - mi alzo dal sedile; dunque, metto lo zaino sulle spalle, mi volto all'indietro e scuoto la mano in segno di saluto verso il ragazzo dagli occhi verde Parigi. Sgranchisco poi le gambe e scendo giù dal veicolo, che riparte prontamente con quello strano tipo all'interno.

‹‹Nell'epoca che possiamo chiamare prescientifica, gli uomini non avevano difficoltà nel trovare una spiegazione ai sogni. Quando al risveglio ricordavano un sogno, lo consideravano una manifestazione favorevole ed ostile di potenze superiori, demoniache e divine. Allorché cominciarono a diffondersi le dottrine naturalistiche, tutta questa ingegnosa mitologia si mutò in psicologia, ed oggi solo un'esigua minoranza delle persone istruite dubita che i sogni siano un prodotto della mente del sognatore…››.
La mia professoressa di scienze umane spiega il concetto di ‘sogni’ nell’epoca prescientifica, simultaneamente io scarabocchio qualche frase di ‘Chasing Cars’ sul quaderno, ma vengo scossa da Birdy, la mia migliore amica nonché compagna di banco. ‹‹Sogni come potenze divine, superiori››, continua lei sussurrando a voce bassa. ‹‹Potrebbe essere una potenza divina, il tuo cervello vuol dirti qualcosa!››.
Roteo gli occhi all'insù, poi scuoto il capo . ‹‹Non voglio parlarne, B!››, dico, guardandola bene.
Birdy non potrebbe essere più carina di come già è; se incrocio il suo sguardo, trovo due grandi occhi color cioccolato, un paio di guance gonfie e prorompenti, e delle labbra piene. I capelli castani le arrivano appena sulle spalle e le donano un tocco alquanto delizioso, che la rende speciale.
‹‹Devi parlarne, Maria››, mi intima lei, interrompendo i miei pensieri.
‹‹Non oggi, B. Non voglio rovinarmi la giornata››, mordo il labbro con disinvoltura ed improvvisamente la mia professoressa mi rimprovera, richiamandomi. ‹‹Scusi››, mi limito a dire tornando sul mio quaderno, mentre la campanella suona e segna la ricreazione delle undici.
Mi alzo dalla sedia per recarmi al bagno, quando vengo bloccata per il polso sinistro da Birdy. ‹‹No, signorina, tu non vai da nessuna parte!››, replica, incurvando le labbra. ‹‹Non prima di avermi raccontato tutto››.
Impreco mentalmente e, cercando di mordermi la lingua per impedirmi di parlare, bisbiglio qualcosa a denti serrati. ‹‹E va bene, se vuoi proprio saperlo... è capitato ancora››.
B indietreggia, spalancando gli occhi già grandi. ‹‹Maria, devi parlarne con qualcuno. Un sogno ripetuto per trenta giorni di fila non è più normale››, mi urla, attirando l’attenzione di Cher, la nostra compagna di banco.
‹‹Birdy ha ragione. Parlane con tua madre almeno, potrebbe aiutarti››, dice l’altra spalleggiandola.
Io mi allontano dalle mie amiche, voltandomi verso l'unica finestra presente in classe. ‹‹Ragazze, ora basta! Mi state mandando in tilt››, riprendo, mettendo il broncio. ‹‹Non avrei dovuto parlarvene››.

Abbastanza intontita, dopo aver preso l'autobus di ritorno, ridispongo i piegi sul suolo levigato di Wells e, incamminandomi nella strada verso casa, osservo il litorale principale in tutte le sue imperfezioni: esso è spoglio come un albero privo di foglie, ed è bagnato a destra dalla spiaggia dorata. 
L’autunno qua è come un vortice di emozioni, sapori e profumi intrecciati in un incastro perfettamente combinato. Dai comignoli delle panetterie fuoriesce una deliziosa fragranza di pane appena sfornato che, tuttavia, viene coperta dall’odore massiccio della pioggia in arrivo.
Stamani il sole splendeva alto nella volta celeste che ora è ricoperta da nuvoloni opprimenti, quindi accelero il passo e arrivo a casa esattamente qualche minuto prima della pioggia che adesso bagna le strade della città.
In ogni caso, mi spoglio della giacca che ho indossato per tutto il giorno. Dunque, evito il pranzo, e mi reco in camera da letto, ove sfilo le scarpe e i jeans.
Infine mi riverso sul letto, esausta e, percependo le palpebre cedere, mi addormento con il pensiero di quello strano ragazzo che stamani mi ha rivolto la parola per la prima volta, dopo trenta giorni di sguardi rubati.

‹‹Maria, Maria››.
Un paio d’occhi verdi e penetranti mi fissano nel buio della notte. ‹‹Maria, vai via da lì!››.
Delle mani affusolate pendono verso me. ‹‹Maria››.
Mi risveglio di colpo, rendendomi conto d'aver fatto lo stesso sogno, ancora.
Mi sento soffocare, invoco Dio.
 

 


Angolo autrice
Salve, care lettrici! Come va? Spero bene.
Allora, questo è il primo vero capitolo della mia storia, e spero vi abbia incuriosito e/o fatto capire qualcosa.
Grazie dell'attenzione, un bacio, Sleepingalone.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Capitolo 2 - Così, per ricominciare da capo la vita ***



 

Capitolo 2 - Così, per ricominciare da capo la vita
 

Quando ero molto piccola mi chiedevo per quale motivo le gocce della pioggia somigliassero alle lacrime e, dacché nessuno si era preso la briga di spiegarmelo, avevo ideato la mia teoria in proposito. Ossia, ogni piovasco corrispondeva ai pianti che Dio versava per noi poveri esseri umani.
E - tutt’ora - quando la città viene ricoperta dai nubifragi, ripropongo a mente questa mia alquanto bizzarra teoria.
 
Avviluppo la sciarpa di cotone arancione attorno alla nuca,  rigirandola per ben tre volte come mi ha insegnato mia madre; afferro lo zaino abbandonato accanto ai miei piedi e mi chiudo il portone d’ingresso alle spalle, cercando d’esser più cauta possibile al fine di non svegliare la mia famiglia dal sonno.
Volgo poi lo sguardo al cielo, intenta ad osservare il modo con cui la pioggia viene rilasciata dalle nubi appesantite dapprima, e come esplode a causa dell’impatto con il terreno in un secondo momento.
Aspiro la brezza fresca di Wells, pertanto apro l’ombrello rosso - che porto sempre con me - e m’incammino verso la fermata d’autobus, tendendo la mano destra in avanti come fossi una bambina maliziosa alla quale piace giocare con le pozzanghere sporche. Dell’acqua batte scrosciante e fluida sulla mia nocca liscia, mentre dell’altra scivola giù dai marciapiedi, emanando un odore piuttosto pungente.
Volteggio, beandomi della pace che conferisce il fragore della pioggia e, osservando petali strappati ai fiori planare lungo le grondaie, mi accorgo d’essere arrivata a destinazione e mi ricompongo, raddrizzandomi.
Prendo dunque  posto sotto un’acacia; abbasso lo sguardo al fine di sistemarmi i pantaloni della tuta nera e, al momento di rialzarlo, lo concentro involontariamente su una figura alta, imponente e con una sorta di nota familiare in volto: un ragazzo privo di ombrello, caratterizzato da occhi fermi e ricci flosci ricaduti sulla fronte.
Indugio d’istinto qualche passo verso lui che, al mio avvicinarsi, sembra rendermi ancor più piccola e banale di come già sono. Comunque, tossisco deliberatamente al fine di attirare la sua attenzione rivolta a chissà quale pensiero o persona, e mi accosto a lui utilizzando un passo prudente.
‹‹Se decidessi di accoglierti sotto l’ombrello, accetteresti?››, gli domando, comprimendo le labbra e sperando di non risultare opprimente.
‹‹Dipende››, replica con astuzia, voltandosi nella mia direzione ‹‹Non c’era bisogno che ti disturbassi››.
Increspo le labbra e consegno, mediante il manico, l’arnese rosso al tipo, affinché lo innalzi al fine di coprire entrambi dall’acqua che ricade inesorabilmente dal cielo. ‹‹Nessun disturbo››, confermo, stringendo me stessa in un abbraccio.
‹‹Grazie, sconosciuta››, riecheggia, sorridendo in modo beffardo e capriccioso. ‹‹Nel caso lo volessi sapere, mi chiamo Harry. Harry Styles››, dice con fare da “James Bond” che lo rende inappropriato, ma divertente.
‹‹Maria Morales››, sussurro, vedendolo annuire tra sé e sé. ‹‹Perché annuisci?››, gli domando quindi.
‹‹Niente››, borbotta, abbassandosi alla mia altezza così tanto da far incrociare il suo sguardo verde Parigi al mio, e da farmi inalare l’aroma alla menta che esala la gomma da masticare con cui gioca maldestramente. ‹‹Pensavo e basta››.
Io rido e abbasso gli occhi, scuotendo il capo.
‹‹E tu perché ridi di me?››, mi chiede, rimettendosi dritto con la schiena.
‹‹Perché sembri un tipo alquanto bizzarro, caro Harry››, rispondo vincente, aggrappandomi all'ombrello e toccando sbadatamente la sua cute, che ai miei occhi appare raffinata come fosse di porcellana.
‹‹Tu non sei da meno››, bofonchia, avvicinandosi e permettendomi, dunque, di poterlo analizzare da vicino: le sue labbra sono incise da quasi invisibili screpolature bronze, e la mandibola è ricoperta da una rada barba bionda.
Anche lui, dal canto suo, non perde occasione per studiarmi. Perciò mi allontano, grattandomi il capo in segno di imbarazzo.
‹‹Fermata numero tredici!››, urla il solito autista grassoccio, attirando l’attenzione di entrambi e svegliandoci da quella specie di ipnosi venutasi a creare.
Lascio fuoriuscire un respiro di afflizione e, accompagnata da Harry che tiene il mio ombrello, mi dirigo in direzione dell’autoveicolo.
Rovisto poi all’interno delle tasche del mio cappotto blu cobalto, con l’intento di trovare il biglietto da viaggio da mostrare all’autista, ma senza trovarlo.
‹‹Cosa aspetti ad entrare?››, mi chiede Harry, chiudendo il paracqua e porgendomelo.
‹‹Ho dimenticato il biglietto a casa, e non ho soldi per comprarne un altro››, ammetto esitante, allontanandomi dalla portiera al fine di far passare altri passeggeri.
‹‹Aspetta››, continua lui, spingendosi tra la folla. ‹‹Due biglietti per Cromer, andata e ritorno!››, urla, rivolgendosi al conducente del mezzo.
‹‹No! Non ce n’è bisogno››, sobbalzo, sorpresa, ma senza risultato, perché Harry ha già pagato e, anzi, mi fa cenno di seguirlo all’interno dell’autobus.
‹‹Non ce n’era bisogno››, ripeto a viso basso, prendendo posto accanto a lui.
‹‹È tutto okay. Consideralo come un pegno››, sussurra, incurvando le labbra carnose.
‹‹Un pegno che ti è costato ben cinque sterline! Spese tra l’altro per una persona che neanche conosci!››, riprendo, cercando di fare mente locale. ‹‹Domani ti riporterò i soldi››.
‹‹Non devi pensarci neanche››, esclama, voltandosi con fare protettivo. ‹‹Un favore per un favore. Mi hai accolto sotto l’ombrello prima, quando avresti potuto evitarmi››.
Sorrido delicatamente. ‹‹Lo avrei fatto comunque››.
Harry mi alza il mento con le dita, facendo sì che il mio sguardo incroci il suo, verde e acquoso. ‹‹Sei molto pallida. Sicura di stare bene?››, cambia argomento.
Deglutisco e distolgo l’attenzione dagli occhi di Harry, al suo polso sinistro, ove è tatuata una scritta che dice: “I can’t change”, io non posso cambiare.
Per quale motivo dovrebbe cambiare?
E perché il suo sguardo mi è familiare?
Il tipo copre repentinamente il polso con la manica del giaccone verde petrolio, e abbassa lo sguardo come se avesse qualcosa da nascondere. Tale gesto mi si incastra in mente talmente tanto da farmi collegare l'avvenimento appena accaduto all'incubo che mi tormenta da trenta giorni, ma scaccio via quel pensiero immediatamente. Harry non può essere l’interrogativo che si pone la mia mente ogni volta, perché la prima cosa a cui penso quando mi sveglio è un una cosa brutta, e lui non può che essere una cosa bella.
Mi sento esausta. Priva di forze fisiche e mentali.
Mi sento debole. Troppo poco sonno sovrapposto a pensieri sbagliati.
Mi sento strana. I miei occhi fissano il vuoto, pericoloso come gli abissi più profondi degli oceani e, improvvisamente, mi ritrovo sommersa d’acqua, conscia solo e soltanto di incertezze.
‹‹Sto bene››, fingo per rassicurarlo, prendendo un breve respiro. ‹‹Io sono pallida da sempre. È il mio colorito naturale››.
Harry fissa le mie labbra con fare coscienzioso, poi aggiunge qualcosa, riferendosi al discorso che avevamo intrapreso prima. ‹‹Comunque, Maria… non sei un’estranea››, si corregge, attirando meglio la mia attenzione. ‹‹Non lo sei da ieri››.
Io, dal canto mio, sono sempre stata una ragazza riflessiva e attenta ai particolari, anche a quelli più insignificanti. Perciò suppongo che il tipo nasconda qualcosa nei miei confronti.
Con il trascorrere del tempo ho imparato che fidarsi è bene, e che non fidarsi è meglio. Pertanto se Harry pensa che, dopo trenta giorni di accurata meditazione, io non sospetti nulla, si sbaglia.
É uno sconosciuto e, per quanto mi riguarda, potrebbe essere qualunque cosa.
In ogni caso, mi accorgo di esser arrivata a destinazione e mi rimetto prontamente in piedi, ma vengo bloccata tramite il polso destro, dunque mi volto e rivolgo il mio sguardo al ragazzo dagli occhi verdi.
‹‹Mi sarei ricordato di te, se ti avessi incontrata prima››, sibila, scrutandomi da cima a fondo.
Avverto i battiti del mio cuore accelerare, e il colorito delle mie goti avvampare. Non capisco il significato di quelle parole, tuttavia sorrido comunque e procedo verso l’uscita, ancora titubante.  
 
Percepisco le gocce d'acqua calda scivolare fluide sulla pelle morbida, simultaneamente tento di insaponare i capelli con un insolito shampoo al miele, che mia madre ha trovato in offerta da Keisy's Boutique diversi giorni or sono. Intreccio le dita ai i fili di capelli secchi e bagnati, a cui sono aggrovigliate note di musicalità spente.
Durante questi ultimi giorni mi rivedo nel ruolo della protagonista di un Balletto classico, nel quale interpreto il cigno che muore, o la Bella Addormentata che non si risveglia. Perché è come se fossi in coma, come se fossi assorta da una realtà che, fondamentalmente, non mi appartiene.
Vorrei poter dimenticare tutto e affidarmi a delle amnesie temporanee. Così, per ricominciare da capo la vita.
Qualche soffio di schiuma cade sui miei occhi che, esausti, lacrimano e lavano via il dolore provocatomi dallo shampoo. Risciacquo i capelli, lasciando che l’acqua slitti lungo ogni centimetro del  mio corpo basso e minuto, poi avvolgo me stessa tra le setole morbide di un accappatoio avorio e mi dirigo in direzione della mia stanza, le cui pareti sono abbellite da vecchi poster e fotografie.
Inciampo maldestramente sulle Converse bianche lasciate alla rinfusa da mio fratello e mi maledico per non averle messe a posto prima che andassi a fare la doccia.
Comunque, scuoto i capelli, li lego mediante una molletta presa in prestito dal portagioie di mia madre e mi avvicino al comò basso che risiede sotto l'unico specchio presente in camera mia; scoperchio il barattolo della crema idratante al mango - che applico quando ho la cute umida -, e impreco mentalmente perché sta quasi per terminare e mi toccherà ricomprarla.
Sfilo l’accappatoio e sfioro i seni e i glutei con il composto appiccicaticcio che mi ritrovo avvolto tra le dita. Infine, concludo con l’indossare il pigiama in flanella leggero che nonna mi ha regalato durante lo scorso Natale.
Mi accosto al tavolino sul quale oggi pomeriggio avevo posato il libri di testo, e afferro quello di filosofia allo scopo di prepararmi per l’interrogazione che il mio strambo professore terrà domani.
I filosofi, a mio modesto parere, non erano altro che pensatori di astrattezza infondata, i quali cercavano di concretizzare le più grandi utopie della vita.
La filosofia è in grado di arrivare dove la scienza non può, eppure ha un non so che di intangibile.
Parmenide, per esempio, affermava che solo l’essere realmente esistente può essere pensato.
‹‹È necessario il dire e il pensare che l’essere sia: infatti l’essere è; il nulla non è››.
Ma come si fa a stabilire quello che esiste e quello che non esiste? Voglio dire, io sono una persona in carne ed ossa, che necessita di soddisfare i bisogni fisiologici proprio come ogni essere umano. Eppure  internamente sento di essere il residuo del niente.
Sono registrata all’anagrafe, e quindi esisto per lo stato. Tuttavia, non vengo considerata dalla gente: nessuno chiede mai la mia opinione e nessuno si informa mai del mio stato salutare.
Quindi, chi può dire con certezza che io esista o meno? Se per gli altri sono solo il riflesso di una pagina bianca.
Evidenzio qualche frase in giallo fluorescente, cercando di metabolizzare i concetti in fretta e furia, ma inutilmente, poiché non riesco a smettere di pensare a quel ragazzo dagli occhi verde Parigi che si cimenta da ore nella mia mente e mi accompagna in ogni dove: a scuola, sotto la doccia, a letto, a tavola.
Piego la testa all’indietro e, boccheggiando, poggio il libro di testo accanto a me. 
Slego i capelli ancora madidi e scuoto i miei pensieri, che vagano per aria come eccedenza di polline durante tiepide giornate di primavera. Successivamente, mi cimento nel fissare il soffitto della mia stanza, distendendomi sul letto ricoperto da soavi lenzuola aromatizzate alla lavanda, che assumono sembianze parecchio umane; come gli abbracci di una nonna, e le carezze di un amante.
Lancio un ultimo sguardo al cellulare poggiato sul comodino e, affilando la vista, noto la presenza di una nuova notifica o, per meglio dire, di un nuovo messaggio.
 
Da: Birdy
“Domani è Halloween e mi hanno invitata a partecipare ad una festa a tema.
E tu devi venire con me, perché da sola non posso andare”.


Mi rigiro su me stessa, divertita.
B erra se pensa che l’accompagnerò domani sera, e mi sorprende il fatto che mi abbia proposto di partecipare a una festa, dacché sa quanto possa odiare gli eventi mondani.
Comunque, chiudo gli occhi e, senza soffermarmi a pensare, cado in dormiveglia.
 
‹‹Maria, Maria››.
Un paio d’occhi verde Parigi bruciano sui miei, ebano.
‹‹Maria, vai via da lì!››.
Delle mani affusolate pendono verso di me.
Una scritta:‘I can’t change’.
‹‹Maria››, sento riecheggiare una voce roca.
Il buio.

 
 

 


Angolo autrice
Salve ragazze, come state? Spero bene :)
Per prima cosa, non smetterò mai di ringraziare abbastanza tutte le ragazze che hanno recensito il vecchio capitolo.
Scusate se non ho risposto ad alcune di voi, ma non ne ho avuto il tempo. Lo farò subito.
Seconda cosa, perdonate l'attesa.. so di averci messo tanto a pubblicare, ma vi spiego; ho attraversato o forse è meglio dire 'sto attraversando' il cosiddetto 'blocco dello scrittore' ed è come se avessi la mente congelata. Per questo mi rendo conto di aver pubblicato un capitolo DISGUSTOSO. Già, a me non piace per niente. Ma ormai è online, mi rifarò la prossima volta.
Punto sulle recensioni, mi auguro di leggerne il più possibile.
Alla prossima, Sleep.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Capitolo 3 - Dieci secondi e cento decimi ***



 

Capitolo 3 - Dieci secondi e cento decimi
 

Immergo la testa all’interno del lavabo in marmo che si trova nel mio bagno, di conseguenza resto in apnea per una decina di secondi.
Dieci secondi e cento decimi per pensare alla alla svolta che la mia vita ha deciso di intraprendere nell'ultimo periodo. Era tanto facile fino a qualche settimana fa, e adesso sembra esser diventata maledettamente complicata, e non so il perché.
Risalgo dall’acqua d’improvviso, facendo pertanto insudiciare il bagno da piccole gocce deformi, e trovo la mia immagine riflessa allo specchio: piena di imperfezioni e segni scavati sulla pelle, sotto gli occhi, sul mento. Come se ogni giorno vivessi aspettando di appassire.
Mia nonna dice sempre che guardarsi allo specchio invecchia e, da qualche settimana a questa parte, penso proprio che abbia ragione.
‹‹Sbrigati o perderai l’autobus!››, replica mia madre subentrando in bagno, senza preoccuparsi di bussare alla porta. ‹‹Cosa stavi facendo?››, mi domanda, avanzando qualche passo nella mia direzione, mentre il mio sguardo quasi assente la fissa con discrezione.
‹‹Stavo solo sciacquando la faccia, mamma››, aggiungo, prendendo una pausa per respirare. ‹‹Posso restare a casa oggi? Piove e non ho voglia di andare a scuola››.
Sussulto nell'osservare piccoli spruzzi d’acqua scivolare giù dal mio volto, e posarsi sul pavimento con una rapidità inconcepibile, che mi ricorda tanto quella della pioggia.
‹‹Okay››, sussurra lei, sbadigliando a labbra dischiuse. ‹‹Fai pure come ti pare››.
L’osservo andar via e, con calma, comincio a tamponare l’umido sul mio volto mediante l’utilizzo di un asciugamano bianco. Quindi, decido di tornare in camera, con l’intenzione di tornare a dormire, al fine di scaldarmi a dispetto della temperatura fredda e angusta. 
Mi precipito sul letto disfatto e accovaccio le gambe alle estremità del petto che, esitante, oscilla al passo dei battiti cardiaci. Cerco perciò di chiudere gli occhi e, indirizzando una lode a Dio, prego affinché Egli possa farmi riposare a sonno tranquillo. Ma, ciononostante, mi ritrovo a ponderare su idee astratte, che avverto dissolversi alla stessa maniera di piccoli arcobaleni liquefatti ogni volta che una tempesta torna a rapire il sole e concede alle nubi un colorito grigiastro. 
Inaspettatamente, senza neanche avere il tempo di chiudere occhio, sento una vibrazione arrivare dalla parte inferiore degli addominali; probabilmente si tratta del telefonino che avevo scordato all’interno della tasca del pigiama.
Un altro messaggio.

Da: Birdy
“Perché non sei venuta a scuola? Stai bene? Mi auguro di sì.

Comunque, so che in cuor tuo non hai intenzione di venire alla festa. Nemmeno a me quest’idea ispira più di tanto. Ma per una volta voglio smetterla di restare all’interno del mio buco”.

Inumidisco le labbra secche con la lingua altrettanto disidratata.
Sono ancora assopita, ma l’eccezionalità dell’evento mi sbalordisce comunque. Poiché so che B, essendo una ragazza schiva e timida, non mi avrebbe mai chiesto di partecipare ad un evento mondano, se non ci fosse stato un motivo ben preciso.
Pertanto rispondo, senza pensarci più del dovuto, roteando gli occhi all'insù. 

Da: Maria
A: Birdy

“Non mi andava di venire oggi, e non mi ispira il fatto di doverti accompagnarti stasera… ma farò un sacrificio”.

 
***

‹‹Stai ferma, B!››, bofonchio rivolgendomi alla mia migliore amica e, simultaneamente, intrecciando una ciocca dei suoi capelli ramati al ferro per i boccoli, mentre l’orologio segna le ventuno esatte.
‹‹Scusami, Maria››, sibila lei con voce agitata, giocando con le punte delle dita. ‹‹Posso dirti una cosa?››.
Non rispondo, perché preferisco darle libero arbitrio.
‹‹Ho un cattivo presentimento riguardo questa sera››, balbetta, quasi terrorizzata. Al contempo io 
sciolgo un ricciolo e punto gli occhi neri sui suoi, che danno l’impressione d’essere colmi d’ansia.
‹‹Non lo so, io e te non siamo fatte per cose del genere››, replica ancora, infastidendomi. 
‹‹Tu cosa ne dici?››
Scuoto la testa furibonda, poi ammanto un altro ciuffo e, fingendo indifferenza, lascio cadere di colpo il ferro per i boccoli a terra, arrabbiata. 
‹‹Ora basta!››, urlo, mettendo le mani sui fianchi, mentre lei raccoglie l’aggeggio da terra e me lo resistuisce, sbuffando. 
‹‹Conosco la ragione per cui vuoi partecipare alla festa, e il motivo per cui sei così agitata››, dico, riprendendo il lavoro lasciato a metà. ‹‹Niall Horan››.
Birdy sottecchi e scuote il capo, rovinando pertanto un boccolo. ‹‹Niall? Ragionamo, su. Come ti viene in mente? È solo un fattone egocentrico e pieno di sé››.
«Fattone egocentrico pieno di se? - sottolineo quelle parole usando un tocco di avidità - Non lo conosci nemmeno», sospiro, amareggiata. 
«So che è così è basta», risponde sgarbatamente lei e, quindi, facendomi quasi pentire di esserle amica. Poiché si ostina a inondare i pensieri di bugie a me e a sé stessa.
Simulo approvazione, poi continuo ad acconciarle i capelli, accelerando l’andamento.
D’improvviso sorprendo le mie riflessioni posarsi sugli occhi verde Parigi di Harry Styles, che spero di non incontrare - o forse sì - questa sera alla festa.  
Sorrido teneramente e scuoto la testa nel tentativo di scacciare via quella fantasia dalle mie immaginazioni. 
‹‹Stai bene, Maria?››, mi chiede Birdy, indicando l'infossatura presente sulla mia guancia sinistra. ‹‹Quella fossetta non ha l’aria di esser poi tanto innocente››.
‹‹Niente››, balbetto nervosa, snodando l’ultima ciocca di capelli. ‹‹Ho finito, vai pure a vestirti in bagno!››.
Scaccio fuori dalla mia camera Birdy che, divertita, mi schiocca un occhiolino; perciò vado a chiudere la porta della stanza, sulla quale appoggio la schiena, sognante.
Comunque, mi precipito in direzione del letto, sul quale prima avevo riposto dei jeans attillati e una stretta blusa rossa. Pertanto, dopo essermi vestita, spazzolo la chioma nerastra e vaporosa che mi ricade sulle spalle. 
Birdy, contemporaneamente, torna in camera e, inchinandosi sinuosamente, attira la mia attenzione.
Indossa anche lei un paio di jeans che, a differenza mia, le slanciano le caviglie.
Io, dal canto mio, ho sempre odiato il mio corpo, e specificatamente le mie gambe; anche se in passato ho perso peso, e ora riconosco di star bene, non riesco a riflettere la mia immagine allo specchio senza vedermi inappropriata e poco avvenente.
‹‹Sei perfetta, Maria››, dice B, anticipandomi.
Esplodo in una risata falsa. ‹‹Non dire assurdità. Tu, piuttosto, sei davvero splendida››, replico, scattandole una foto d'improvviso. 
‹‹Ti prenderei a calci nel sedere se potessi››, strepita lei, avvicinandosi.
‹‹Vai a sistemarti i capelli invece, che è pure tardi››, le sussurro affettuosamente. 
 
Arrivate dinnanzi al locale in cui si tiene la famigerata festa, mia madre raccomanda me e Birdy di fare attenzione e soprattutto di non bere alcolici. Problema che non avrebbe dovuto neanche porsi, dacché sono sempre stata contro il fumo e l'alcool e non vedo per quale motivo debba usufruirne questa sera. 
Scendendo dall’automobile dei miei genitori, lancio un’ultima occhiata a mia madre, la quale mi osserva con uno sguardo preoccupato e facilmente biasimabile. 
Il cielo è piatto e ricoperto da nubi pesanti che non permettono ai raggi della luna di filtrare nella notte come è solita fare. Al contempo, la temperatura sembra esser diventata ancor più gelida di stamani, tanto da far condensare ogni mio respiro in piccole nuvole bianche. 
Non faccio in tempo a sistemare la sciarpa di lana, ricaduta lungo la mia schiena, che Louis, il migliore amico di Birdy, ci raggiunge. ‹‹Salve, ragazze››, saluta lui, atteggiandosi da vero galantuomo com’è suo solito fare.
Per quanto mi riguarda penso che Louis Tomlinson sia un affascinante quasi ventiduenne dagli occhi color oceano, che a tratti mi riporta 
a immaginare modelli illuminati da vecchie scenografie anni ’60.
Volgo lo sguardo verso il basso, 
abbastanza imbarazzata dalla situazione.
‹‹Maria, sei bellissima››, contempla lui, baciandomi flebilmente la guancia. 
Arrossisco e, prendendo coraggio, decido di rispondergli. ‹‹Tu non sei da meno››.
Il ragazzo, coinvolto dalla situazione, spinge me e Birdy all’ingresso del locale, da cui provengono strepiti assordanti e nel quale, grazie al cielo, non sono ammesse persone mascherate appositamente per Halloween.
Un uomo alto e dai capelli brunastri impedisce l’accesso a noi altre.
‹‹Frank, le ragazze sono con me››, dice Louis, spalleggiandoci.
‹‹Sono maggiorenni?››. 
Il ragazzo annuisce. 
‹‹Potete entrare››, ci urla contro quello, permettendoci l’ingresso.

Mi accorgo di quanto affollata sia la sala e, nello stesso tempo, percepisco lo sguardo divenire appannato a causa del tanfo di alcol, sudore e tabacco che sommerge l'uso del mio olfatto. 
‹‹Venite con me››, replica Louis, invogliandoci a seguire i suoi passi, che cerco di tracciare sperando di non infierire troppo nelle danze altrui.
Comunque, il ragazzo ci porta all’interno di una stanza un po’ meno stipata, nella quale risiedono due divanetti rossi e un tavolino bianco, su cui sono poggiati diversi drink violacei.
‹‹Eccole››, strepita, con fare poco conforme, un ragazzo dai capelli biondo grano. 
I miei occhi lucidi individuano le figure di due ragazzi seduti sui divanetti; lancio un’occhiata veloce a B che, confusa quanto me, sembra sommersa dall'ansia. 
‹‹Ehi, ragazze››, dice Niall Horan, venendoci in contro con fare superbo, mentre qualcuno mi picchietta sulla spalla destra. 
‹‹Sono Liam Payne››, sussulta il ragazzo dai capelli biondo grado, porgendomi la mano. 
Sorrido gentilmente e, ricambiando il gesto, mi presento a mia volta.
Evito spudoratamente il saluto di Horan, che non mi garba più di tanto. In seguito, voltandomi, vengo accalappiata dallo sguardo di un ragazzo dai capelli ebano che, senza essersi preoccupato di venirci a salutare, boccheggia erba seduto sul divanetto. Al contempo, i suoi occhi  bruciano sui miei, come la Lucky Strike che consuma alle estremità delle labbra.
‹‹Maria, puoi venire con me in bagno?››, mi chiede Birdy, trascinandomi via dalla sala, con poca calma in corpo.
‹‹Io non ci torno lì dentro!››, brontola lei, chiudendosi la porta della toilette alle spalle. ‹‹Mi ha dato un bacio sulla guancia e mi ha sussurrato qualcosa tipo… ‘sei calda’ all’orecchio››.
Sobbalzo, esterrefatta  e divertita da quelle parole. ‹‹Starai scherzando?››.
Mi trattengo dal ridere, anche se non farlo risulta praticamente impossibile, data la circostanza.
‹‹Mi sono accaldata entrando in sala, ed ero praticamente tutta rossa quando mi ha salutata››, replica, abbassando lo sguardo. ‹‹Non riesco a tollerarlo, è così convinto››.
Le batto una pacca sulla spalla, ridendo con le lacrime agli occhi. ‹‹Egocentrico, convinto, presuntuoso››, riprendo, imitando le smorfie che è solita fare. ‹‹E intanto ha rubato il tuo cuore di soppiatto, con qualche parola sussurrata››.
‹‹Piantala, Maria››, mi urla contro lei, mentre io la tiro fuori dal bagno e, senza neanche avere il tempo di chiudermi la porta alle spalle, mi ritrovo Louis davanti. Perciò, impersono un’espressione alquanto interrogativa, poi qualcuno s’imbatte in me.
‹‹Ehi, Mary››, esclama Niall, alzandosi dal divanetto e avvicinandosi a me con fare cauto. ‹‹Prima non abbiamo avuto modo di salutarci››.
Adirata, sorrido e mi volto verso Birdy che, ancora imbarazzata, fissa le punte delle sue scarpette grigie.
‹‹Zayn, non fare il maleducato››, replica tutto ad un tratto Niall, rivolgendosi al ragazzo dai capelli neri. ‹‹Vieni a conoscere Maria e Birdy››.
Il mio sguardo disorientato si restringe in un cipiglio confuso e, non sapendo che azione intraprendere, mi mordo il labbro.
‹‹Ciao››, sussurra il ragazzo dalla pelle olivastra, avvicinandosi a me e permettendo ai suoi occhi - che denotano uno strano color castagna, baciato da un tocco d'oro - di perdersi, nuovamente nei miei. 
‹‹Ragazzi, cosa ci facciamo ancora qui? Andiamo a fuori a scatenarci››, urla mediante un tono stridulo Louis, riconducendoci nella sala da ballo, ove la musica risulta persino più assordante di prima e le persone danzano in modo alquanto pacchiano.
‹‹Come ha fatto Louis a prenotare quella saletta tranquilla?››, domando a B, stretta accanto a me.
‹‹Non lo so, avrà pagato qualcosa in più. Ce ne sono diverse qui››, mi spiega lei, un attimo prima di essere attirata per i fianchi da Niall.
Mi rimbocco le maniche e decido di incamminarmi da sola verso il bar, ma mi pento immediatamente di essermi discostata dal gruppo.
‹‹Maria, è tutto okay?››, mi chiede Zayn, preoccupato, intrecciando le sue mani sudate con le mie.
Io sussulto e percepisco i battiti del cuore aumentare. Comunque, annuisco con fare timido, poi gli rivolgo un’occhiata d’aiuto.
‹‹Odio questo tipo di feste››, replica urlando, ‹‹Se tornassimo in saletta, ti dispiacerebbe?››.
‹‹Per niente››, rispondo, stringendomi a quel contatto e seguendo Zayn che, indeciso, s'incammina in direzione di una delle tante salette private. 
‹‹Qualcosa non va?››, gli chiedo, urlandogli all’orecchio.
‹‹Ho praticamente dimenticato il numero che distingue la nostra sala››, continua, voltandosi verso una sala qualunque . ‹‹Proviamo con questa che abbiamo davanti››.
Il ragazzo dagli occhi neri spinge contro la superficie di una porta bianca. Pertanto io lo seguo e, senza neanche accorgermi di essere entrata nel posto sbagliato, mi ritrovo faccia a faccia con Harry Styles che non è solo, bensì in compagnia di una ragazza dai capelli ramati.
‹‹Maria?››, deglutisce lui, divaricando gli occhi verde Parigi. ‹‹Che cosa ci fai qui?››.
 

 


Angolo autrice
Salve ragazze, come state? Spero bene :)
beh, riguardo questo capitolo ci sarebbe parecchio da dire.
Anzitutto... Zayn. Parliamone.
Mi son sempre piaciuti gli intrecci che hanno Zayn e Harry come protagonisti, non so esattamente il perché, ma ci vado matta proprio.
Comunque, ammetto di aver scritto una stupidaggine anche questa volta, perdonatemi ahahah
Come avrete sicuramente notato, ho cambiato la struttura della pagina e il banner, che spero vi piaccia c:
Ora la smetto di scocciarvi e vi lascio andare, buon weekend, Sleep. 

ps: scrivetemi le vostre opinioni a riguardo, perciò RECENSITE più che potete.


 

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Capitolo 4 - E il naufragar m'è dolce in questo mare ***


 

 

Capitolo 4 - E il naufragar m'è dolce in questo mare
 

Le labbra di Harry sono dischiuse e affievolite da un leggero tremolio; al contempo i suoi occhi sfavillano, illuminati dal bagliore che proviene dal soffitto della stanza.
‹‹Harry, ti aspetto in macchina››, dice la bellissima ragazza dai capelli color ruggine, proseguendo verso l’uscita.
Lui annuisce in risposta, senza staccare lo sguardo da me e Zayn, il quale mi cinge per i fianchi come se volesse "proteggermi" da quei grandi occhi che mi scrutano da capo a piedi. 
‹‹Qualche problema?››, irrompe Zayn, rivolgendosi a Harry, che imita una smorfia di disapprovazione. 
‹‹Nessun problema››, rispondo io, voltandomi.
‹‹Andiamo, gli altri ci staranno sicuramente aspettando››, dico, invogliando Zayn a uscire dalla sala.   
‹‹Ci si vede in giro››, mormoro a un Harry pensieroso e riluttante, seguendo il ragazzo dai capelli ebano che mi aspetta fuori e lanciando un'ultima occhiata al ragazzo dagli occhi verde Parigi, che mi guarda imperterrito come se avesse qualcosa da biasimare. 
Attorno a me la folla si stringe talmente tanto da catturare il mio respiro, mentre le mani di Zayn mi cingono dalla vita e l’immagine di Harry sbiadisce in lontananza.
I miei occhi pertanto si velano, a causa della foschia venutasi a creare all'interno del pub. 
 
‹‹Grazie, per avermi accompagnata a casa››, sussurro a Zayn che, seduto alla mia destra, con una mano stringe il volante dell’automobile di Louis, e con l’altra picchietta in modo nervoso le dita sul ginocchio.
‹‹Di niente››, replica, per poi inumidire il labbro superiore con la lingua. ‹‹Niall mi ha costretto a… venire questa sera. Se non fosse stato per lui, sarei già a letto››.
Sorrido a quell’affermazione. ‹‹Non dirlo a me, ti prego››.
‹‹Però una cosa positiva c’è stata››, continua, penetrandomi con lo sguardo. ‹‹Ho conosciuto te››.
Il colorito del mio volto abbraccia una sfumatura porpora, dunque abbasso gli occhi, imbarazzata e presa d'ansia, e lui sospira.
‹‹È stato bello conoscerti››, balbetto appena, scostando una ciocca di capelli dal viso e mettendomeli dietro l'orecchio sinistro. ‹‹Buonanotte››.
Scendo dall’automobile - totalmente impacciata -, mi reco verso casa e, chiudendomi il portone d’ingresso alle spalle, procedo in direzione della cucina. Quindi spalanco l’anta del frigorifero con l’intenzione di bere dell’acqua; tuttavia, scorgo in lontananza del vecchio Baileys’s - che mia madre tiene in serbo come asso nella manica in occasione di cene importanti -, del formaggio incartato e del pane in conserva. 
M'imbottisco un panino senza pensarci due volte, e mi dirigo in soggiorno ove, attraverso gli infissi delle finestre, trapela il bagliore soffuso provocato dalle stelle candide che, prededentemente, hanno spazzato via le nubi grigie. 
 
Trascorso un mese, la mia quotidianità sembra essersi rimessa in sesto per quanto riguarda lo studio e i miei sogni che non hanno più contestato mani affusolate e strane voci.
Ho evitato di mettere piede fuori casa - se non per recarmi a scuola -  e non ho più visto né Zayn, né Harry.
Avvolgo una sciarpa verde al collo e mi reco, come tutti i giorni, alla fermata d’autobus, luogo in cui prendo posto sulla solita panchina di ferro arrugginito. 
Mi perdo nell’osservare il sole sorgere da un tratto d’oceano non specificato, il quale colore, che oscilla tra l’indaco e l’arancione, si riflette sui miei occhi.
L’atmosfera è idilliaca e tersa.
‹‹Così tra questa immensità s'annega il pensier mio››, sussurro a bassa voce citando Giacomo Leopardi, uno dei più ambiti poeti italiani dell’Ottocento che con ‘L’infinito’ voleva esprimere benevolenza nei confronti di ogni piccolo dettaglio capace di rendere speciale il posto in cui abitava: le siepi, il mare, l’orizzonte. Elementi che altresì l’incitavano a fuggire via, poiché, sapeva la realtà avrebbe volentieri fatto a meno di lui, e non gli avrebbe mai permesso di provare la straordinaria follia attribuita dai giovani alla felicità.
‹‹E il naufragar m'è dolce in questo mare››, sibila qualcuno alla mia destra mediante una voce alquanto familiare.
So esattamente chi si trova alle mie spalle, e mi sorprende il fatto che un inglese conosca Giacomo Leopardi e sappia, per giunta, i versi di una sua poesia. 
‹‹Chi non muore si rivede››, replico con gentilezza, voltandomi. ‹‹Ciao, Harry››.
Questi mi rivolge un sorriso obliquo. Io, al contempo, sposto gli occhi sulla sciarpa di lana bianca che gli avvolge la nuca teneramente, poi ricambio il sorriso, cercando di scaturire altrettanto dolce. 
‹‹Dove sei stato in tutti questi giorni?››, gli domando, con tono per niente accusatorio, mentre lui si lascia abbandonare sulla panchina accanto a me. ‹‹Sono stato impegnato con il college. Giurisprudenza ››, continua, piegandosi in avanti.
Sorrido, inarcando un sopracciglio. ‹‹Ambizioso››.
Lui diffida, sbuffando. ‹‹Diciamo che i miei genitori sono ambiziosi anche da parte mia››, replica, voltandosi verso di me. ‹‹Non che la giurisprudenza mi dispiaccia... ma ti è mai capitato di scoprire qualcosa dentro te, che ti porta a riflettere tanto da far cambiare le tue convinzioni?››.
Annuisco timidamente.
‹‹Qualche giorno fa, mentre stavo tornando a casa, ho incontrato un vecchio amico di famiglia. Lui era ricco e benestante, era un medico stimato e non poteva fare altro che ritenersi fiero della sua vita. Eppure ha lasciato tutto per andare in guerra a medicare i soldati feriti››, bisbiglia, quasi come se volesse nascondersi dietro quelle parole.
‹‹Vorresti diventare medico, Harry?››, gli domando, poggiandogli una mano sul ginocchio.
‹‹La vista del sangue mi fa venir voglia di rimettere››, scherza lui, mordendosi il labbro.
‹‹Bene… e allora vorresti arruolarti?››.
Il ragazzo dagli occhi Parigi mi scruta dall’interno. ‹‹Non ti nascondo che mi piacerebbe››, riprende, abbassando lo sguardo tristemente cupo. ‹‹Ma sarei troppo codardo per farlo››.
‹‹Non si è mai troppo codardi per salvare delle vite, Harry. Tu sei il soldato di te stesso, salvi la tua vita ogni giorno e non te ne accorgi››, replico, spostando l’attenzione sugli stivaletti di cuoio bordeaux del ragazzo. ‹‹Nessuno se ne accorge, mai. Ci nascondiamo abbastanza, non credi? ››.
Harry si avvicina e con premura mi porta una ciocca dietro l’orecchio destro e, per un attimo, mi sembra di annegare all’interno delle sue iridi esangui e acerbe.
Trattengo il respiro a causa dell'ansia e lo trattiene anche lui, poi recupero una frase mancante al mio discorso. 
‹‹Qualunque cosa tu voglia fare renderà i tuoi genitori e te fieri››.
Sorrido, felice di vedere una luce buona negli occhi di Harry.
 ‹‹Fermata numero dodici!››, bofonchia quasi annoiato un autista dai capelli biondi, che interrompe i miei pensieri.
‹‹Devo andare, ci si vede in giro››, dico al ragazzo, alzandomi.
‹‹Ma non è la numero tredici la tua fermata?››, mi chiede, seguendo la mia azione con lo sguardo.
‹‹Oggi ho una verifica, vado con quest’autobus per arrivare prima e ripassare››, spiego, comprimendo le labbra.

Lui annuisce e, sorridendo, mi lancia uno sguardo di ringraziamento. ‹‹Allora vai››.
Corro in direzione dell’autoveicolo e, prima di entrarvi, mi volto; Harry sventola la mano verso e io ricambio. Pertanto, prendo posto su un sedile centrale e osservo, attraverso il finestrino, il ragazzo dagli occhi verde Parigi che, impacciato, si sistema la sciarpa che poco prima gli era scivolata da un lato.
 
Arrivo a scuola, mi fermo a prendere un tè caldo dai distributori automatici e mi reco in classe dove non c’è ancora nessuno.
Mi siedo al mio posto e, sorseggiando la bevanda appena comperata, mi dedico al famigerato ripasso di storia.
‹‹Maria?››, domanda qualcuno entrando in classe.
‹‹Ciao, Cher››, dico, distogliendo l’attenzione dal libro, alla mia amica dagli occhi turchini.
‹‹Come mai sei qui a quest’ora?››, chiede ancora, sedendosi.
‹‹Ho preso il primo autobus per ripassare››.
‹‹E Birdy?››.
‹‹Lei prenderà il terzo, come è suo solito fare››, rispondo con nonchalance.
‹‹Pronta per l’interrogazione?››.
Sorrido in modo alquanto forzato. ‹‹Lo ero fino a mezz’ora fa, ora i miei pensieri sono rimasti su una panchina di ferro, accanto a un ragazzo dagli occhi verde Parigi››.
Cher sorride, scuotendo i capelli, e mi dà una gomitata. ‹‹Occhi verde Parigi? Cioè?››.
Sogghigno, poggiando la matita sul banco. ‹‹Sono verdi come grandi arbusti che si riflettono sulle acque della Senna, dando vita così a un color turchese schiumoso. Gli occhi di quel ragazzo mi ricordando Parigi in tutto il suo incanto e la sua grazia››, farfuglio, sognante.
‹‹Hai mai pensato di scrivere un libro?››, sibila con tono farsesco lei.
‹‹Non ne sarei capace››, replico, cercando di smorzare il discorso venutosi a creare. ‹‹Ripassiamo, dai››.
 
Tornata a casa, dopo aver consumato la minestra di ceci che mia madre aveva preparato prima di recarsi a lavoro, sfilo le scarpe dai piedi e mi intrufolo sotto il piumone del mio letto, nel tentativo di scaldarmi. Improvvisamente mi assopisco.  

Un paio d’occhi verdi bruciano sui miei, un sorriso.
 
‹‹Sono tornata››, annuncia mia madre da fuori la stanza, facendomi svegliare di colpo.
Da parte mia, impreco mentalmente e mi alzo afflitta dal letto. Dunque, attraversando la mia camera e il corridoio, arrivo in cucina, ove si trova mia madre.
‹‹Mamma››, sussurro appena.
‹‹Ciao››, replica lei sedendosi su una sedia, distratta. ‹‹Interrogata oggi?››.
Annuisco sorridente. ‹‹Tutto bene, tutto bene››.
‹‹I tuoi fratelli non sono ancora tornati da scuola, vado a prenderli in macchina. Vieni?››, mi domanda, afferrando le chiavi della vettura.
‹‹No, passo››, rispondo in un sussurro. ‹‹Mamma, posso chiederti una cosa?››.
‹‹Sì››.
‹‹Ti voglio bene››, mormoro, pensando che questa giornata non avrebbe potuto prendere una piega migliore. 
Lei mi osserva quasi imperterrita, dacché non esprimo mai liberamente il bene che voglio alle persone e, in particolare, ai miei genitori. ‹‹Te ne voglio tanto anche io››.



 
 

 


Angolo autrice
Salve care lettrici, come state? 
Io sono stanca e stressata in questi giorni, però - data l'ispirazione - sono riuscita a scrivere il nuovo capitolo.
Come l'avete trovato? Io francamente ho un rapporto alla odi et amo con esso. Al solito, neh?
Tuttavia, bando alle ciance, ormai è su EFP e mi piacerebbe davvero tanto leggere vostre recensioni.
Ringrazio la mia beta seth <3 scusa se non lo faccio sempre, ma questa volta sei stata davvero preziosa. Vi lascio, spero di tornare presto con il nuovo capitolo.
Baci, Sleep.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Capitolo 5 - Red Velvet ***



 

Capitolo 5 - Red Velvet
 

Il silenzio è un suono.
Può innervosire, può calmare.
Lo si ama o lo si odia; non c'è una via di mezzo, non esiste.
Mamma mi ha raccontato che tanto tempo fa sobbalzava al sentirmi cantare 'Il mio amore un di’ verrà’ del celebre cartone animato “Biancaneve e i sette nani”, nel cuore della notte.
Mio padre doveva svegliarsi molto presto per recarsi a lavoro e, abitando in un appartamento piuttosto piccolo, era facile che la mia vocina stridula si diffondesse dappertutto.
Anche la nonna mi racconta spesso di quanto fossi pavida e paurosa da bambina «sento fischiare nel silenzio», le ripetevo ogni qualvolta che andavo a dormire insieme a lei e a nonno.
E poi... poi ho sempre avuto paura della solitudine.
Stare da sola m’incombeva terrore e, paradossalmente, più necessitavo il bisogno di avere persone attorno a me, più esse si allontanavano - salve la mia famiglia che è rimasta al mio fianco nelle gioie e nei dolori della mia vita -.
Ho sempre amato trascorrere le diverse festività assieme agli affetti miei più cari anche se, tuttavia, potrei fare benissimo a meno di socializzare con il mondo che risiede fuori le mura di casa, perché vecchie ricorrenze passate hanno creato una me ‘schiva’ e troppo personale.
E, a un certo punto della mia vita, ho addirittura pensato che il problema fossi io o la mia stramba personalità. ‹‹Sei troppo in aria! Torna sulla terra, Maria››, dicevano sempre quelle arpie che per un periodo di tempo ritenevo amiche. ‹‹È orripilante, fuori posto. Non merita di vivere››, aggiungevano dei ragazzi insolenti.
Ho sofferto tanto e, con il passare del tempo, ho consolidato la mia difesa al punto di esternarmi dalla folla e dalle ingiurie.
Adesso, infatti, silenzio e solitudine sono diventati i miei migliori amici, i miei migliori consiglieri ed i miei migliori confidenti e, per quanto possa essere snaturato, sempre più sovente sento il dovere di restare sola e in silenzio, per trovare quella pace che anni fa ho perduto.
 
Mentre le lancette dell’orologio da parete appeso in cucina segnano le sei di pomeriggio, io mordicchio uno spicchio d’arancia rossa, aspettando che Birdy venga a prendermi per portarmi in libreria.
Domani sarà la Vigilia di Natale, e oggi ho voglia di uscire, prendere una boccata d’aria e regalarmi dei libri che possano tenermi compagnia durante le brevi, ma adempienti, vacanze della stagione natalizia.
Mi alzo dalla sedia della cucina e indosso il cappotto grigio che avevo poggiato accuratamente sullo schienale, poi mi posiziono all’ingresso di casa mia, ove osservo le automobili di diverse targhe passare veloci, come frecce dirette verso bersagli.
Scruto in vicinanza una bambina che stringe la mano del nonno, il quale le racconta di Babbo Natale e del lungo viaggio che egli si troverà a compiere domani.
Volgo lo sguardo al cielo blu cobalto, annaspato da nubi cupe che fortunatamente stanno diradandosi. Tuttavia non noto la presenza di stelle, né quella della luna: peccato.
Gli alberi dinnanzi casa oscillano tanto rapidamente, a causa del vento,  lasciar volteggiare le ultime foglie attaccate ai rami poco aitanti sino al suolo.
Che io ricordi, qui a Wells non ha mai nevicato e, contrariamente a ciò, ogni Natale ha sempre piovuto.
Non faccio in tempo a sedermi sullo scalino d’ingresso, che riconosco un’automobile nera in lontananza: è senza dubbio quella della madre di Birdy. Perciò mi chiudo il portone alle spalle e accorro verso la vettura.
Birdy è sorprendentemente al volante e io rimango stupefatta dall’eccezionalità.
‹‹Tu che guidi?››, le chiedo, poggiando le mani al petto ed entrando all'interno del veicolo.
Lei ride di soppiatto, ‹‹Suvvia, abbiamo quasi diciassette anni. Posso guidare ormai››.
‹‹Hai rubato l’auto dei tuoi››, constato, scuotendo la testa. ‹‹Tu? La figlia perfetta? Mi rifiuto di crederci››.
‹‹Mia madre è a letto con la febbre e mio padre è paralizzato sul divano con la gamba rotta››, continua, mettendo in moto. ‹‹Mio fratello Josh è fuori città››.
‹‹Sei tremenda››, le urlo, battendole una pacca dietro la testa per poi osservare la sua validità nel far roteare perfettamente il volante. 
 
Arrivate in libreria, Birdy si reca subito in direzione del ripiano sul quale sono posati tutti i romanzi di Carlos Ruiz Zafòn, celebre scrittore spagnolo.
Io resto immobile sotto la balaustra della porta d’ingresso, intenta ad osservare l’ambiente ove mi trovo. Dunque, annaspando a fragranza delle pagine, del legno e del cuoio, mi perdo tra varie opere letterarie che potrei acquistare, sebbene con me abbia solamente qualche sterlina.
Ogni volta che entro in libreria vado nel panico e mi confondo; per questo motivo decido di andare sul sicuro e rivolgere le mie attenzioni ai libri del mio scrittore preferito: Nicholas Sparks.
Comincio a sfiorare con le punte delle dita le diverse copertine colorate, che al tocco risultano lisce e armoniose. Chiudo gli occhi, nel tentativo di lasciarmi trasportare dal silenzio che vige in stanza. Afferro il libro ‘Le pagine della nostra vita’ e ne ammiro il titolo dorato e sopraelevato, tutto ad un tratto un suono flebile mi distrae: il fruscio di una matita che scivola su un foglio di carta.
Mi volto, pertanto a destra e a manca e, con gran sorpresa, intravedo una figura curva che dapprima non riconosco, ma che in un secondo momento mi ricorda tanto qualcuno di mia conoscenza.

‹‹Harry››, bisbiglio tra me e me, spalancando gli occhi.
Il ragazzo sottolinea qualcosa con una lapis giallo ocra tra le dita della mano destra, e con la sinistra massaggia le tempie, simultaneamente i suoi occhi sono semiaperti e concentrati.
Per un attimo mi ritrovo a fissarlo in tutte le sfumature più speciali che, a mio parere,  giovano a renderlo incantevole e misterioso. 
Egli è
 assorto nei suoi pensieri, perciò m’inoltro tra gli Horror di King, con l’intenzione di non essere vista, al fine di non disturbarlo. 
Avanzo di qualche passo, ancora distratta, e m'imbatto contro una pila di nuovi libri che immediatamente precipitano a terra: il tonfo riecheggia per tutta la stanza, e mi maledico per essere così goffa e imbranata. Dunque, mi piego nel tentativo di raccogliere più volumi possibili, pregando che nessuno si sia accorto della mia cantonata.
‹‹Maria?››, mi chiede qualcuno di troppo familiare alle spalle.
Chiudo gli occhi, sospirando e annunciandomi al peggio. ‹‹Sì?››, mi volto, completamente rossa in viso, fingendomi sorpresa. ‹‹Harry!››.
‹‹Cosa ci fai qui?››, mi domanda lui, abbassandosi nel tentativo di raccogliere la roba caduta al posto mio.
Sibilo qualcosa, comprimendo le labbra.
‹‹Quanto sono scemo! È ovvio che sei qua per comperare, o leggere, dei libri››, prende atto, corrucciando lo sguardo in un cipiglio confuso.
‹‹Già››, sussurro divertita, per poi toccare in modo alquanto erroneo l'ossuta nocca sinistra del ragazzo. Mi retraggo immediatamente a quel contatto e lui, al contempo, alza lo sguardo verso la mia direzione, forse compiaciuto, forse sorpreso.
‹‹Sono un disastro!››, sbuffo, alzandomi.
Harry segue la mia azione e posa i libri su un ripiano.
‹‹Io a dir la verità stavo studiando››, replica, scuotendo il capo. ‹‹O almeno ci provavo››.
‹‹Perdonami, non era mia intenzione disturbarti››, mormoro, mortificata.
‹‹Figurati, avevo quasi finito››, riprende, schioccandomi un occhiolino. ‹‹E poi tu non disturbi mai››.
Alzo lo sguardo, imbarazzata fino al midollo, e lo punto sulle labbra del ragazzo che incalzano un soave movimento a ogni parola pronunciata. 
‹‹Ti vedo sempre più di rado alla fermata››, constato, gesticolando in modo disordinato. 
‹‹Mi piace sparire di tanto in tanto››, scherza, comprimendo la bocca. ‹‹L'università mi occupa sempre troppo tempo. Lo studio è intenso e non sono mai pienamente soddisfatto delle mie prestazioni››.
‹‹Vedrai che tutto andrà bene e, quando un giorno finirò in prigione per aver fatto cadere infinite pile di libri, ti assicuro che sarai il mio avvocato››, scherzo, confortandolo. ‹‹Anche se ho ben capito che tu non c’entri nulla con la giurisprudenza, vero?››.
Harry s'incupisce, evidentemente sorpreso e sconcertato dalle mie parole veritiere, che non so neanche da dove le abbia tirate fuori. 
‹‹Maria, ho finito››, urla Birdy, comparendo alle mie spalle improvvisamente.
‹‹Sei stata molto veloce››, attesto a lei, fingendo indifferenza.
‹‹Sì››, sibila lei, avvampando in volto a causa della presenza di Harry.
‹‹Lui è Harry››, replico, rivolgendomi verso entrambi. ‹‹Harry, lei è Birdy, la mia migliore amica››.
Quest’ultima porge la mano al ragazzo, che ricambia all'istante. 
‹‹Ti aspetto alla cassa››, dice lei, voltandosi.
‹‹In verità volevo invitare Maria a fare due passi con me. Ti piacerebbe venire?››, irrompe il ragazzo dagli occhi Parigi, di punto in bianco, facendo crollare ogni mia difesa.
‹‹Oh sì, non c’è nessun problema››, replica B, rispondendo per me. ‹‹Chiamami stasera››.
conclude, lanciandomi uno sguardo malizioso e repentino.
Io stringo i denti a labbra chiuse ed esamino per bene Harry, il quale indossa dei jeans neri strappati alle ginocchia, un cappotto di velluto beige che gli arriva appena sotto il bacino e un paio di stivaletti in cuoio dello stesso colore.
‹‹Non mi hai ancora dato una risposta››, denota lui, leccandosi il labbro superiore.
Annuisco semplicemente con il capo, ‹‹Posso scegliere comunque qualcosa da comperare?››, gli domando sorridendo, maledicendomi per le parole che ho appena pronunciato.
‹‹Sei qui per questo, no?››, denota lui, approvando la mia richiesta.
Abbasso lo sguardo e noncurante scruto l’ultimo libro caduto che né Harry né io avevamo riposto: ‘La verità sul caso Harry Quebert’.
Mi piego verso il basso per raccoglierlo.
‹‹Credo proprio che prenderò questo››, dico, passando una mano sulla copertina liscia.
‹‹Ma non hai nemmeno letto la trama››.
‹‹Voglio comprarlo perché mi piace il titolo, Harry››.
Il ragazzo sorride, sfoderando due morbide fossette alle estremità delle goti, che mi riportano a quelle di un bambino paffuto.
‹‹Sei incredibile››.
 
Usciti dalla libreria, una folata di vento freddo ci smuove i capelli. Harry stringe il beanie che gli cinge il capo ed io avvolgo a me il cappotto.
Davanti a noi, una folla di persone cammina verso i vari negozietti del posto, e le automobili procedono lente, nel tentativo di trovare parcheggi vicini.
L’aria a Wells è parecchio frizzante e odora di pioggia e fumo.
Un vecchietto, sull'orlo del marciapiede che conclude il litorale dei negozi dimoranti in città, cuoce e vende delle caldarroste. Io lo fisso, un po' per curiosità, un po' per evitare lo sguardo di Harry che mi scruta attentamente. 

Harry mi prende per la mano destra e raggiunge il vecchio venditore.
‹‹Può darmi un sacchettino di castagne?››, domanda il ragazzo all’uomo, che sorridente toglie i frutti dalla piccola griglia, li insaporisce spruzzando una manciata di sale sulla superficie e li incarta.
Io, cautamente e in silenzio, osservo la città che appare deliziosa grazie alle decorazioni di Natale che illuminano le strade con luci pigmentate e alberi abbelliti da piccole stelline dorate. Anche gli altoparlanti grigi, che di solito trasmettono gli annunci del posto, suonano a tema natalizio.
Sposto l’attenzione nuovamente su Harry che, ad ogni respiro che esala, forma delle piccole nuvole condensate di fiato e freddo. Questi, con un’espressione prettamente serena, porge cinque sterline all’anziano rivenditore.
‹‹Grazie, ragazzo, grazie davvero››, dice il vecchio con le lacrime agli occhi che, malandato e infreddolito, non indossa neanche un cappotto per coprirsi.
‹‹Questi soldi sono i primi che ricevo oggi e sicuramente anche gli ultimi, che Dio vi benedica››, replica, porgendomi le castagne roventi. ‹‹Amatevi, perché di questi tempi l’amore è vano››.
Il ragazzo si volta verso me e dolcemente socchiude le labbra, ‹‹Senz’altro››, bisbiglia con fare austero e provocante ed io, dal canto mio, non faccio in tempo a pronunciare parola che vengo aspirata dalle sue iridi verde Parigi.
‹‹Buon Natale››, dice ancora il vecchio, congedandoci.
Harry alza il viso in segno di saluto, rivolgendosi al vecchio; poi mi prende la mano e lentamente mi conduce via da lì.
Io, ancora assorta dalla situazione, mi tengo aggrappata alla sua mano, che non ha lasciato andare la mia neanche per un minuto. ‹‹Vuoi far credere all’uomo che noi-››, sussurro.
‹‹È bello regalare un sorriso alla gente››, mi interrompe, voltandosi verso l’anziano. ‹‹Ci sta osservando ancora e credo che sia dispiaciuto perché non stiamo mangiando le sue castagne››.
Io sorrido, mordicchiandomi il labbro, ‹‹Potrei mangiarle tutte quante››.
‹‹Ma io le ho comprate per te, a me non piacciono››, replica, volgendo lo sguardo al cielo. ‹‹In verità non le ho mai assaggiate››.
Metto il broncio, ‹‹Allora non c'era il bisogno di comprarle, davvero››.
Harry mi punzecchia la fronte con le dita ed io rispondo mostrando la lingua. Successivamente lui prende posto su una panca, che sbocca direttamente sul mare, nel quale l’ombra della mezzaluna si riflette e illumina, pertanto, lo squarcio buio.
Io imito la sua azione e, sedendomi al suo fianco, apro il sacco colmo di castagne arrostite: ne prendo una mediande il pollice e l'indice, e finisco con lo scottarmi le dita.

Il ragazzo seduto accanto a me esplode in una risata euforica e innalza lo sguardo al cielo. ‹‹Si, sei un disastro››, sussurra sensualmente, per poi prendermi le dita bruciacchiate con le sue e soffiarci sopra, al fine di raffreddarle.  
Io resto ammaliata, con la bocca grottescamente spalancata. ‹‹Grazie››, sibilo in risposta.
Lui sorride; dunque prende una castagna e con cura comincia a sbucciarla, sporcandosi le dita di carbonella. ‹‹Tieni, peste››, dice stuzzicandomi.
Dal momento che io non rispondo, poiché ancora confusa e assorta, vengo imboccata proprio da lui che, dolcemente, mormora qualcosa priva di significato. 

Vengo sedotta ancora una volta, ma scuoto il capo, imbarazzata. 
‹‹Potevo imboccarmi anche da sola››, mormoro a bocca piena.
‹‹Non ti avrei lasciato combinare un altro guaio››, dice in tono farsesco, sfiorando la punta del mio naso con l’indice destro.
‹‹No, non puoi averlo fatto››, bisbiglio, arricciando il muso. ‹‹Avevi le dita sporche di carbone!››.
Harry scoppia a ridere, battendo le mani come un pagliaccio, data l’esilarante circostanza venutasi a creare.
Io sospiro, poi guardo l’orologio del mio cellulare. ‹‹Sarà meglio che vada››.
Lui incupisce la sua espressione, come se fosse dispiaciuto dalle mie ultime parole. ‹‹Ti accompagno a casa››.
‹‹No, tranquillo, Harry››.
‹‹Ti porto io, davvero››, insiste, inducendomi alla resa. ‹‹Il fidanzato di mia madre ha dovuto prendere in prestito la mia auto, ma grazie al cielo ho ancora la mia piccola Vespa rossa con me››, continua lui noncurante, afferrando un mazzo di chiavi dalla tasca anteriore del suo cappotto beige.
‹‹Ma se hai un auto, perché prendi l’autobus la mattina?››, chiedo, abbastanza disorientata.
Harry sussulta per qualche secondo, quindi sorride in modo nervoso. ‹‹Perché a volte serve a mia sorella Gemma, tu l’hai anche conosciuta››.
Cerco di fare mente locale. ‹‹No, non credo››.
‹‹Ti dico di sì, alla festa di Halloween››, spiega lui, muovendosi a gesti.
Io annuisco e sorrido, come se qualcosa dentro me stesse placandosi.
‹‹C’era anche il tuo ragazzo, ricordi?››, mi domanda ancora, in modo malizioso.
‹‹Zayn? Ma quello non è il mio ragazzo… è solo un conoscente››, rispondo, facendo spallucce.
Harry divarica lo sguardo, sorpreso, poi si blocca d'istante. ‹‹Ti presento Red Velvet››, aggiunge, mostrandomi la piccola Vespa rossa di sua proprietà che sosta dinnanzi a noi. ‹‹E questo è il casco che indosserai››.
Sorrido, imbarazzata. ‹‹Hai messo il nome di una torta alla tua Vespa, e per giunta una delle mie preferite››, bisbiglio appena, corrucciando lo sguardo. 
Harry si avvicina a me e, con completa nonchalance, poggia le labbra sulla mia guancia destra, che è pallida e intorpidita per via del freddo.
Ciononostante, io non mi retraggo e, affettuosamente, lascio fare.

 
 

 


Angolo autrice
Ciao cari lettori e lettrici, come state?
Anzitutto BUON NATALE, perdonate il ritardo, ma ci tenevo a farvi personalmente i miei auguri.
Allora, cosa dire di questo lungo capitolo (scusate, ma avevo tanto da scrivere)? Penso che sia uno dei miei preferiti e, anche se non lo reputo eccellente, mi piace.
Mi piace che Harry sia realmente così dolce e raffinato, e che Maria vi stia così a cuore.
Vi ringrazio per le vostre recensioni meravigliose e spero di poterne leggere tante altre, davvero ci conto! Mi spronano a scrivere meglio, perché amo leggere quello che pensate della storia. E anche se brevi e piccoline, vi prego, lasciatemi delle recensioni.
Ora vado, ci si sente al prossimo capitolo :* buone vacanze e buone feste, che la felicità sia con voi.
Un bacio, Sleep.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Capitolo 6 - Ricordi di comete ***



 

Capitolo 5 - Ricordi di comete
 

Quando le giornate sono fredde ci si copre dalle intemperie e dalle folate di vento gelato, ci si riscalda attraverso le piume di spesse coperte e ci si scambiano gli auguri di buone feste, come è tradizione fare. D’altra parte, rievocare determinati riti ogni anno è piuttosto snervante per quelle persone che sono restie ai convenevoli e che, purtroppo o per fortuna, somigliano a mio padre. Egli, infatti, ha da sempre odiato la stagione pungente che porta con sé malanni e tempeste: secondo lui la vita si blocca per un po’ a causa del freddo, gli animali ed i barboni muoiono per le strade delle grandi città e il sole sorge a malapena dietro squarci di nuvole, che non sono poi particolarmente chiare e bianche.
‹‹A cosa porta questa stagione?››, domanda sarcasticamente lui, ogni volta in cui il freddo gli intorpidisce le labbra e le mani. Kahlil Gibran ipotizzava che, se l’inverno dicesse di avere la primavera nel cuore, nessuno gli crederebbe. Ed io penso proprio che, con la sua stramba teoria, questi avesse ragione. La gente quando mi passa accanto finge di non accorgersi della mia presenza, ed io sorrido, lo faccio comunque. Mia madre mi ha sempre indotto a farlo, anche quando le persone si dimostrano cattive e maldisposte. ‹‹Sorridi, perché tutti devono vedere quanto sei bella quando lo fai››, mi ripete lei ogni volta che il mondo sembra tanto crudele ed io, al contrario, piccola e insignificante.
La vita talvolta maltratta e ferisce, di conseguenza rinchiudersi in una bolla d’inverno perenne è l’unica cosa che resta da fare quando la neve brucia sulla pelle nuda e il gelo ostruisce le ossa. Tuttavia io sono diversa dagli altri, e so di esserlo.
Ho steli di margherite in fioritura dentro le vene, il sole giallo limone al posto del cuore e dei petali di ciliegio tra i capelli.
Eppure, se dicessi di avere tanto calore dentro me, mi prenderebbero proprio per matta: quindi rinuncio e in silenzio mi rivesto d’inverno.

Rido di sottecchi, al contempo rifletto il mio volto sull’infuso di camomilla che bevo ogni sera prima di andare a letto a casa dei miei nonni, i quali spesso e volentieri trascorrono le serate in compagnia mia e di film toccanti.
Osservo le fiamme del camino affievolirsi e spegnersi, e poi saluto mia nonna, lasciandole un flebile bacio sulla guancia destra.
Torno al piano di sotto, ove si trova l’appartamento dei miei; dunque mi distendo sul materasso soffice e cedevole. Per niente stanca mi perdo nel rivedere il resoconto della giornata e, simultaneamente, prego Dio affinché i miei domani possano essere migliori degli oggi. Ma questa notte è diversa, perché i miei pensieri arieggiano come aquiloni trascinati dal tiepido venticello estivo e mi sento avvampare improvvisamente in viso al pensiero di quel ragazzo strampalato, eppure tanto caro, che ha cambiato i miei giorni, ed in particolar modo quest’ultimo.
Harry. La mia mente lo dipinge come se fosse un antico ritratto di valore, con qualche foglia secca e brunastra tra i capelli e delle rose in alternativa alle labbra, le quali, anche se screpolate, sono candide e rosee. E mi sembra un sogno se penso che oggi quelle sponde di straordinaria morbidezza si sono posate dolcemente sul mio volto impuro e semplice.
Sorrido, perché Harry è stato talmente garbato da avermi accompagnata a casa nel pomeriggio senza dire una parola e, quando mi sono diretta verso il portone d’ingresso, lui ha persino aspettato che io entrassi, seduto sulla sella consumata della sua piccola Red Velvet. Ripenso alle sue pupille ammiccanti, colorate da quel verde fatato che si cela a Parigi, e che nessuno troverà oltre il suo sguardo.
Se chiudo gli occhi, posso ancora ascoltare il tono delicato che la sua voce emette alla pronuncia del mio nome, il quale dalle sue labbra risuona raffinato ed elegante.
Scuoto il capo e chiudo gli occhi, poi inspiro profondamente.
 
Tra le varie moine e i pranzi in generale, il giorno di Natale e quelli a seguire sono arrivati e se ne sono andati via sin troppo in fretta.
Sul calendario ormai stropicciato è segnato il trentuno dicembre, l’ultimo giorno dell’anno; il freddo fuori è davvero lancinante, tuttavia ieri ha smesso di piovere ed il cielo ha assorbito una variazione plumbea e decisamente variegata.
Rovistando tra vari regali che ho ricevuto giorni fa ritrovo due libri, una sciarpa di lana verde, un berretto rosa e poi, poggiato sul comodino, ‘La verità sul caso Harry Quebert’.
Dunque mi siedo sul letto delicatamente e prendo il romanzo tra le mani, ne sfioro la copertina lucida con i polpastrelli e, infine, ne annuso la fragranza di sfumature fiabesche che lo scorrere dei fogli sprigiona.
In modo alquanto sbadato, il susseguirsi dei capitoli mi porta a pagina novantanove. Pertanto, segno l’indice con il pollice e lascio cadere l’occhio su un aforisma.
 
                       
“Mi ero detto che una stella cadente era una stella che poteva essere bella,
ma per paura di brillare scappava il più lontano possibile. Un po’ come me”.
 
Un po’ come me, un po’ come me. 
Ripeto quelle parole a mente, come se quel libro che non ho ancora cominciato mi abbia già impartito una lezione di vita.
Quando ero molto piccola mi piaceva sedermi sulla sdraio di plastica - che mia nonna teneva in terrazza durante le notti estive - e guardare le stelle. Alzavo lo sguardo e pregavo affinché Dio mi concedesse la visione di una ‘cometa danzante’, poiché convinta che, se avessi visto un corpo celeste cadere, tutti i desideri a cui da sempre aspiravo si sarebbero realizzati.
Ma con il passare degli anni, proprio come quando l’esistenza di Babbo Natale viene messa a repentaglio da mante di bambini che variano dai nove agli undici anni d’età, sono stata pervenuta da perplessi che man mano mi hanno portata a non credere più al miracolo delle stelle che, imparando a volare, realizzano i sogni.
All’inizio pensavo che fosse proprio la durata del tempo a manomettere la mia piccola grande ambizione. ‹‹I miei desideri non si avverano perché ci metto troppo a sceglierli››, dicevo sempre a mia madre che, baciandomi lievemente la nuca, mi sussurrava ‹‹Scrivi una lista dei sogni, così non ci metterai tanto poi ad esprimerli››.
Appoggio il libro sul letto e prendo tra le mani una scatoletta in legno decorata che apparteneva in passato a mia madre e che adesso conservo gelosamente sul ripiano inferiore del mio comodino. Rovisto tra le vecchie fotografie e i piccoli arnesi che avevo riposto tempo fa in essa, poi scorgo finalmente lo scontrino della pasticceria Pat & Sam, dalla quale mia madre comperava spesso i dolcetti al burro e le praline al cioccolato. Dunque ribalto il piccolo foglietto di carta ormai stropicciato e sbiadito su cui avevo maldestramente appuntato i miei cinque desideri:
 
  1. Prendere un voto più alto di Rebecca in arte e immagine.
  2. Diventare famosa
  3. Togliere gli occhiali
  4. Trovare un cucciolo di cane
  5. Tornare a ricordare
 
Tornare a ricordare? Cerco di fare mente locale. Dovevo ricordare qualcosa?

‹‹Maria, che ne dici di scrivere "Tornare a ricordare" nel quinto punto?››, mi aveva chiesto mia madre, mentre in braccio a lei segnavo il quarto desiderio mediante una calligrafia tonda e disordinata.
‹‹Perché?››, le avevo domandato a mia volta.

Ora ricordo! Ricordo quel giorno in maniera nitida, come se lo stessi vivendo.

Mamma aveva sospirato prima e sorriso con nonchalance dopo. ‹‹Così, per ricordare quanto di bello ti accadrà in futuro››.
Affascinata dall’idea, avevo scritto proprio quell’ultima aspirazione senza crearmi problemi di alcun genere.
La notte successiva, alla vista delle comete danzanti, avevo espresso tutti e cinque i desideri appuntati, ed ero andata a dormire felice e completamente soddisfatta.
Il giorno seguente avevo mostrato la lista a mio padre che, scosso, mi aveva congedata in camera mia. Egli aveva chiesto spiegazioni a mia madre e furibondo si era arrabbiato con lei. ‹‹Tornare a ricordare? Ellen, ma sei pazza? Eravamo stati chiari, Maria non deve essere traumatizzata ancora››.
Ero una bambina piuttosto furba, pertanto avevo finto di non ascoltare, lasciando che quelle parole sorgessero e tramontassero in cucina.

Scuoto il capo, cercando di scacciare via il ricordo legato a quella lista che ripongo all’interno del contenitore in legno.
Dicker ha proprio ragione nel dire che somigliamo alle stelle cadenti: per paura di sapere, scappo via da quella che potrebbe essere la domanda che mi pongo da una vita.
Distrattamente soffermo lo sguardo sul cellulare, il quale indica le sette e trenta di sera, perciò mi dirigo verso il comò della mia stanza, estraggo un paio di jeans attillati, e un maglione di lana bianco, che indosso prontamente.
Spazzolo i boccoli morbidi e fragranti ed infine m’infilo ai piedi le Hogan bordeaux, che in passato appartenevano a mia madre.
 
Ingurgito frettolosamente un piatto di spaghetti al pomodoro e una fetta di pandoro imbiancato da zucchero soffice, a casa di mia zia Louise, mentre le urla dei cugini fastidiosi e quelle dei vari parenti m’intorpidiscono le orecchie. Saluto tutti, e chiedo a mamma di accompagnarmi nell’albergo del padre di Birdy, dove da qualche anno a questa parte noi trascorriamo la prima notte di gennaio, in solitudine e senza nemmeno una coppa di champagne tra le mani. Ma a noi va bene in questo modo, e facciamo di tutto per non lamentarci.
‹‹Maria, non ti piacerebbe magari festeggiare in modo diverso?››, mi chiede mia madre parcheggiando, evidentemente amareggiata dal pensiero che io non abbia amici, a parte B.
‹‹No, mamma. Sto bene così. Tu, invece, divertiti››, replico, scendendo dall’auto grigia. ‹‹Ti chiamo poi per farti gli auguri, ciao››.
Sorrido tra me e me, pensando che anche mia madre gode di una vita sociale maggiormente allettante della mia, dato che questa notte parteciperà ad un festino privato insieme a mio padre e alle sue amiche tutte ‘charm & chic’.
Scuoto il capo e arrivo all’ingresso del grande palazzo che mi si trova dinnanzi; il portiere mi conduce gentilmente all’entrata, io lo ringrazio e senza troppi convenevoli rimango ammaliata per qualche secondo dal grande albero di Natale allestito nell’atrio principale.
Birdy mi richiama da dietro, corre ad abbracciarmi e mi indica il percorso attraverso il quale possiamo raggiungere la nostra camera, che sbocca direttamente a Inland Wells, il viale più arieggiato e frequentato della città.
‹‹Maria, Louis mi ha mandato un messaggio. Dice di essere in strada. Puoi aprire la portafinestra?››, mi domanda lei, fissando il cellulare.
Io apro le persiane, mi affaccio dal terrazzino e mi accorgo del nostro amico dagli occhi celesti in piedi dinnanzi l’albergo.
‹‹Louis, ciao, ti serve qualcosa?››, gli chiedo imitando una smorfia confusa, simultaneamente Birdy mi raggiunge.
‹‹Ragazze, questo sarà l’ultimo anno da liceali per voi. Poi andrete via, conoscerete nuovi posti e nuove persone››, continua il ragazzo, urlando e muovendosi a gesti. ‹‹E io voglio che vi ricordiate di me e di Wells››.
‹‹Parla chiaro, Louis››, strillo a mia volta.
‹‹In piazza c’è una festa, e voglio che voi veniate a festeggiare con me››.
Io scuoto il capo e Birdy mi anticipa con le parole. ‹‹Ma, Lou, anche se volessimo venire, non potremmo: siamo vestite in modo inappropriato e-››.
Louis la interrompe. ‹‹Guardami! È una festa in piazza, non c’è nessuno di elegante. Vi prego, venite con me››.
Rifletto e titubante picchio le dita delle mani sul marmo freddo del balcone.
‹‹Aspettaci sotto››, dico infine, sorprendendo me e Birdy che, restia, mormora qualcosa e mi guarda in modo alquanto perplesso.
Louis ci sorride e annuisce, mentre noi rientriamo in camera al fine di prepararci.
‹‹Dico, sei diventata matta?››, mi domanda la mia amica irritata. ‹‹Siamo già poco apprezzate qui a Wells e non voglio che le persone mi vedano in queste condizioni››.
Io fingo di non ascoltarla e prendo, dalla mia tracolla in pelle rossa, la modesta trousse che porto con me per qualsiasi tipo di evenienza.
‹‹Devo comprare un mascara nuovo, questo è praticamente finito››, ironizzo, sorridendo.
B si arrende e segue la mia azione, imprecando di tanto in tanto. Io, dal canto mio, l’osservo furtivamente: indossa un paio di jeans neri attillati, un maglioncino bianco a righe blu e un parka verde militare.
Ci guardiamo allo specchio un’ultima volta, infine spegniamo e le luci della stanza e raggiungiamo Louis, che ci aspetta seduto sulle scale dell’atrio.
‹‹Siete bellissime››, dice lui, venendoci in contro.
‹‹Bugiardo››, balbetto, mentre al mio fianco Birdy si atteggia con fare spazientito.
Il ragazzo dagli occhi celesti ci abbraccia e ci conduce in strada, come se noi non la conoscessimo già.
La piazza della città è collegata a Inland Wells, ed è facile raggiungerla a piedi, perciò in pochissimo tempo io, Louis e Birdy arriviamo a destinazione piuttosto intontiti poiché un frastuono rimbomba in maniera assordante contro le nostre orecchie, e riesco ad intravedere l’immensa folla di persone che hanno deciso di trascorrere un capodanno alternativo in questo posto colmo di mantidi impermeabili sudati.
La gente ci spinge, io mi aggrappo a Louis da destra, abbastanza spaesata dalla circostanza.
Attorno a noi, la notte sfavilla di magia e negli occhi dei passanti si cela un velo di ingenuità. In fin dei conti, siamo tutti inconsci del futuro che verrà e di quello che la vita ha intenzione di riservarci.
Al centro della piazza è stato allestito un palco di media grandezza, sul quale quattro ragazzi sono occupati a strimpellare note stravaganti al fine di intrattenere la serata.
Niall Horan è impegnato a pizzicare languide note mediante una chitarra elettrica nera, Liam Payne è concentrato sulla tastiera e infine Zayn Malik è intento a modulare la voce al microfono.
Zayn, il ragazzo timido e misterioso dai capelli neri e gli occhi profondi, intona una canzone con tono fiabesco e sognante. Sciolgo con nonchalance la stretta venutasi a creare con Louis, cerco di farmi spazio tra la gente e mi soffermo proprio sotto l’impalcatura, assorta dal quel tipo affascinante che, leggermente sudato, mi lancia un sorriso timido e veloce.
Piego il capo di lato, al contempo Birdy mi affianca, ammaliata da qualcun altro.
‹‹Ci prendiamo una pausa, a sostituirci i Winter Fire››, dice Zayn con accento impastato.
Louis ci racconta di questi ultimi: cinque ventenni che cercano disperatamente fortuna nei locali del posto, modernizzando qualche brano di vecchio stampo. Io annuisco, gaia di sapere che di questa gioventù andata un po’ nel pallone, qualcuno si preoccupa di alimentare sogni per l’avvenire, seppur esso non accerti proprio nulla.
Birdy viene richiamata improvvisamente da qualcuno, ed io mi volto insieme a lei. 
Niall ci saluta divaricando le braccia; dietro di lui Liam, sempre sorridente ed educato, scambia qualche parola con Zayn, il quale non sembra ascoltarlo nemmeno.
Questi si avvicina a me e gentilmente mi abbraccia, ma io slego immediatamente il contatto e con un’espressione divertita squadro il ragazzo da capo a piedi. ‹‹Prenderai un malanno, lo sai?››.
Zayn indossa a malapena una maglia grigia, talmente sottile da delineargli i pettorali smagriti e le braccia poco possenti, contemporaneamente, qualche goccia di sudore gli scivola lungo fronte con lentezza.
‹‹Metti questo››, replica Liam, porgendo con affetto al moro un cappotto di panno. ‹‹Te lo impongo››.
Zayn volge lo sguardo al cielo, sospira e con riluttanza indossa il capo offertogli da Liam che, evidentemente, si preoccupa di tenere in salute gli amici, neanche fosse un loro genitore.
‹‹Ragazzi, spostiamoci da qui››, ci invita ancora il ragazzo dai capelli biondo grano, sviandoci un sentiero che porta al pub momentaneamente allestito per questa notte in piazza. 
‹‹Non mi aspettavo di vederti››, ripete Zayn, circondandomi con il braccio sinistro.
Io faccio spallucce e sorrido.
‹‹Vuoi qualcosa da bere?››, mi domanda lui, addolcendo la sua espressione.
‹‹No, non bevo, ma grazie comunque››, rispondo poi, comprimendo le labbra e voltandomi verso Niall che cerca di infastidire B, la quale, compiaciuta dalla circostanza, finge disinteresse. Pertanto rido spontaneamente, e indico a Zayn i nostri due amici che si rincorrono, si cercano e non riescono, tuttavia, mai a trovarsi.
‹‹Niall è una frana con le ragazze, e Birdy è troppo scaltra per lui››, mi dice, porgendo una banconota da cinque a un barista dai capelli rossi, che gli stappa una birra tiepida.
‹‹Ma B non è quella ragazza seria che lascia a vedere! È completamente diversa e credo che con Niall starebbe più che bene››.
Zayn beve un sorso della sua bibita spumosa, al contempo Louis ci raggiunge e si accende una Lucky Strike mediante un accendino violaceo e prettamente femminile.
‹‹Dovremmo sapere qualcosa sulla tua personalità?››, ammicco, schioccandogli un occhiolino.
Louis mi mostra il dito medio e successivamente spiega a me e Zayn che quel piccolo arnese di plastica appartiene a una ragazza. ‹‹Vi presento Gemma››, dice poi, presentandoci una tizia alta, dallo sguardo impavido e dai capelli color ruggine.
Io mi soffermo a guardarla, faccio mente locale e rammento improvvisamente della festa di Halloween, dunque boccheggio e mi distraggo per qualche secondo.
‹‹Ciao, Red Velvet››, mi sussurra qualcuno dal timbro roco alle orecchie, dopo avermi accuratamente scostato i capelli dietro le spalle.
Un brivido scivola lungo tutta la mia schiena.
Sorrido tra me e me, appagata da quel tono flautato che conosco tanto bene, dunque mi volto dirimpetto e non mi sorprendo per niente nel ritrovarmi lo sguardo malizioso di Harry puntato addosso.
‹‹Spero che tu non mi abbia scambiato per la tua vespa››, sibilo, mentre lui mordicchia il suo labbro inferiore con forza e io mi specchio dinnanzi quegli occhi verdi e sinceri, che sto imparando a voler bene.
Comunque, gli avvolgo le mani al collo e questi mi solleva da terra attraverso una stretta soffice e affettuosa. Vengo travolta da una raffica del suo profumo all’arancio delicato, poi affondo il mio volto sulla sua t-shirt di cotone bianca che esala una folata di conforto al mio cuore e, allo stesso tempo, lascio che il giubbotto di pelle nero che indossa stringa il mio girovita, sino al punto di  farmi sentire protetta e sicura.
‹‹Maria?››, mi chiede Zayn da dietro, tirandomi via per le spalle.
Io scuoto il capo, e stacco gli occhi da Harry che mi si avvicina in modo impressionante.
‹‹Zayn, lui è Harry››, dico alquanto scossa; simultaneamente i due ragazzi si stringono le mani ossute con espressioni infastidite.
«Ci siamo già incontrati, se non mi pare», osserva Harry, rivolgendosi a Zayn.
‹‹Gemma è… una mia amica››, replica Louis, inoltrandosi nel discorso imbarazzante venutosi a creare. ‹‹E Harry è suo fratello››.
‹‹Lo conosciamo già Harry››, sentenzia Zayn, irritato. ‹‹Ragazzi, noi dovremmo tornare sul palco››.
Niall bacia lievemente la guancia di Birdy che, ormai rassegnata, lascia fare. Poi questi segue Liam e uno Zayn apparentemente serio che non ci saluta nemmeno.
I tre ragazzi raggiungono il loro batterista prima, e l’impalcatura dopo.
‹‹Manca mezz’ora alla mezzanotte. Cittadini di Wells-next-the-Sea, se siete da soli perché la vostra amata è altrove, cercatela! Cingetele la vita e sussurratele il vostro amore. E se lei non ricambia, trovatevene un’altra››, continua Zayn, posandomi lo sguardo addosso. ‹‹Perché qualcuno d’amare lo meritate tutti. One, two… one, two, three››.
Niall e Liam cominciano a strimpellare qualche nota, ma Harry mi distrae e non presto più attenzione al brano musicale.
‹‹Se ti chiedessi di venire con me in un posto, tu accetteresti?››, aggiunge lui,  grattandosi i ricci in modo impacciato. ‹‹Cioè, ti creerebbe problemi?››.
Corruccio lo sguardo in un cipiglio divertito e, incurante di tutto e tutti, scuoto il capo.
‹‹Tu non potresti mai crearmi problemi, Harry››.
 

 


Angolo autrice
Salve lettrici care, come state? Spero bene, lo spero davvero :)
anzitutto, perdonate il mio ritardo nell'aggiornare la storia, ma dal ritorno delle vacanze natalizie lo studio si è accumulato e non ho avuto neanche il tempo di  accendere il pc.
Comunque, niente da dire riguardo questo capitolo... Non è come vorrei - come sempre insomma -, ma mi piace perché fa trapelare qualcosa in più sull'infanzia di Maria e, francamente, non vedo l'ora di dirvi di più.
Un bacio, la vostra Sleepingalone.

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Capitolo 7 - Sogna un piccolo sogno ***



 

Capitolo 6 - Sogna un piccolo sogno
 

Harry mi stringe con forza la mano e, facendosi spazio tra la folla, riesce a portarmi via dalla cappa d’alcool, eccitazione e fumo che è venuta a crearsi in piazza. Dunque gli rivolgo un sorriso memore e mi lascio scompigliare i capelli.
‹‹Mi piacerebbe farti vedere un posto››, replica, indicandomi la via da percorrere per raggiungere la sua vespa rossa. ‹‹Ma è un posto che può essere apprezzato solo in primavera. Magari ti ci porterò in futuro››.
Sbuffo sonoramente, poi corruccio lo sguardo in un cipiglio divertito. ‹‹La primavera è tanto lontana, Harry››.
Lui scuote il capo e, chiudendo gli occhi, inspira profondamente.
‹‹Cosa fai?››, gli domando, esplodendo in una risata lieta, ma sostenuta.
E rido solo perché a volte - o forse sarebbe meglio dire sempre - gli atteggiamenti di Harry sono alquanto insoliti, e sono sicura che lui, come anche me, vive in un mondo dislocato, differente e migliore.
‹‹É la mia stagione preferita: non troppo calda, né troppo fredda. E poi mi piacciono tanto i colori, e la primavera ne è piena. Se chiudi gli occhi e tiri su con il naso, riuscirai a percepirla››.
Imito la sua azione e lascio che l’aria gelida mi trafori i polmoni, al contempo lui intreccia entrambe le sue mani alle mie ed esala un tiepido refolo. Io, dal canto mio, increspo il naso e soffio a mia volta sul suo viso.
‹‹L’hai sentita?››, mi chiede, fissandosi le punte consumate delle scarpe in cuoio bordeaux.
‹‹Ho sentito te››, rispondo, mordendomi il labbro secco e screpolato. «E un mucchio di freddo».
Harry accenna un sorriso imbarazzato e, balbettando vocaboli che insieme non dispongono di un senso compiuto, mi passa il casco che tiene in riserva e mette in moto la vespa. Pertanto io indosso l’aggeggio, salgo in sella, congiungo le mie mani ai suoi fianchi e innalzo spontaneamente lo sguardo, mentre il vento si adopera a scompigliarmi i boccoli cioccolato e la pressione m’illumina gli occhi di lucidità.
Al di sopra di ogni cosa, le stelle appaiono coperte da un candido velo di nubi aranciate a causa della foschia e dei lampioni, e la luminosità della notte rosa neve sembra riflettersi sull’oceano con maestosa eleganza e raffinatezza. Chiudo gli occhi e ripongo le mani intorpidite dal freddo all’interno delle tasche del giubbotto di Harry che, brioso, retrae gli addominali.
Quindi, lascio che il mio sguardo si espanda lungo la superficie di vetro dello specchietto retrovisore, affinché incontri quello del ragazzo dai ricci bronzo miele. Ma Harry guarda impercettibilmente ciò che ha davanti, senza lasciare scaglie di verde per strada. È serio e concentrato sul percorso da seguire e, per chissà quale altra ragione, magari è pensieroso.
Accosto le alla sua schiena, come a volerlo consolare nel caso in cui lui stesse poco bene.
‹‹Se sei stanca ti riporto indietro››, esala lui con tono fioco e comprensivo, tutto ad un tratto.
Io scuoto il capo e gli accarezzo i fianchi, poiché so in fondo di essere troppo giovane per non vivere la vita e starmene a casa senza far nulla dei miei quasi diciassette anni.
Ho voglia di giocare con il fuoco, sebbene sappia che, tra qualche tempo, i problemi di adolescente quale sono mi si ritorceranno contro, e allora sarà il fuoco a giocare con me.
‹‹Siamo quasi arrivati››, enuncia lui elettrizzato, attenuando il passo del veicolo.
Io annuisco e sposto lo sguardo alle estremità del lungo viale in cui ci troviamo: svariati cipressi contornano i marciapiedi ambidestri e delle pozzanghere lerce macchiano l’asfalto.
Harry frena e accosta Red Velvet repentinamente in un viottolo che risiede su una collina, pertanto metto i piedi in terra per prima e slego il casco che lui ripone all’interno della sella, restando seduto di fronte a me, con le gambe poggiate a lato della vespa.
‹‹Volevi farmi vedere qualcosa in particolare?››, gli domando a gesti nervosi.
Lui alza il capo con completa nonchalance, permettendo al mio sguardo, intrecciatosi al suo, di sporcarsi di verde.
Io, qui e ora, credo di essere effettivamente attonita da un fascino contemplativo, il quale racchiude una foresta che oscura mi circonda, e uno sguardo illuso e dispersivo che imbraccia Champ De Mars, a Parigi. E riconosco di essere sotto l’effetto di un qualcosa di magico, alquanto sottovalutato. Proprio come Dante Alighieri che, si pensa, quando scrisse la Divina Commedia - ed in particolar modo il Paradiso -, fosse stato soggetto di un incantesimo mistico rinvenuto completamente da Dio. Le fonti sono ancora oggi attendibili, quindi non si può affermare con certezza che il celebre poeta fiorentino abbia effettivamente perso lucidità, o meno. Ma quello che so, è che sto vivendo il mio Paradiso e sono sotto l’effetto di una crisi mistica, provocatami da un angelo dallo sguardo vivido, verde e sognante.
‹‹Mi piacciono i tuoi occhi››, confesso con sincerità, avvampando in volto.
 Harry gioca con le punte delle sue dita, perché forse più impacciato di me.
‹‹A loro piace guardare te››, replica lui di getto, solleticandomi la guancia destra con l’indice della mano. ‹‹Ma… voglio che tu, adesso, li chiuda››.
Le parole che pronuncia appaiono come sinfonie alle mie orecchie, talmente soffuse che potrei ascoltarle per tutto il resto della mia vita. Perciò, senza esitare, strizzo gli occhi, e lascio che lui e il suo respiro svigorito mi conducano la via da percorrere.
‹‹Ci siamo››, annuncia, stringendomi la mano. ‹‹Puoi aprirli, Maria››.
Sollevo divertita la palpebra dell’occhio sinistro, poi le socchiudo entrambe e istintivamente rivolgo lo sguardo verso Harry.
‹‹Non è me che devi guardare!››, dice lui, toccandosi appena il labbro inferiore con le dita e indicandomi Wells che, vista da lontano, assume le predisposizioni di un presepe luminoso, adornato da piccole lucine colorate.
Ebbene, innalzo lo sguardo, rivolgendolo al cielo, e lo ripongo verso una trapunta blu cobalto, sulla quale innumerevoli stelle translucide fanno l’amore con destrezza: si spingono e combattono per cucirsi un posto nell’idilliaco cielo d’inverno.  
‹‹Ti ho portata quassù perché la nebbia che c’è a Wells nasconde le stelle››, replica lui, attirando a sé la mia attenzione. ‹‹Spero non ti dispiaccia iniziare il nuovo anno con me››.
Corruccio lo sguardo, poi sbuffo, dischiudendo appena le labbra e spintonandolo con le mani. ‹‹È la cosa più bella che abbia mai visto. E sono sincera… lo sono davvero››.
Harry mi si avvicina più di quanto già fosse e, delicatamente, mi cinge mediante una stretta melodica e fatata, e io lascio che i nostri occhi si incontrino ancora una volta: il verde Parigi dei suoi riflette il buio della notte, e il nero corvino dei miei si disperde tra le lucciole e le piccole falene bazzicanti. Dunque, per un momento, riesco a percepire i battiti del suo cuore marciare all’unisono con i miei. Ma l’espressione che ha assorbito il suo volto è riflessiva e confusa, e mi viene da pensare che forse sto vivendo sotto un’ampolla di vetro, nella quale la mia immaginazione corre troppo, e in modo esageratamente spensierato.
‹‹Maria››, mi sussurra a fior di labbra, prendendomi il viso tra le mani.
Nel suo sguardo è racchiusa una comprensione che prima d’ora non avevo conosciuto, e avverto che tra qualche istante la mia anima verrà richiamata dai corpi celesti, che danzano un dolce valzer in cielo, mentre, al contempo, la brezza notturna sembra mormorare un ‘ti amo’ e gli uccelli della notte cantano in cima ai rami degli alberi.
Perciò, tienimi stretta al tuo petto, Harry. Fallo e non lasciarmi mai più andare, perché la vita mi ha sempre negato l’amore e io, nonostante tutto, non mi sono mai arresa a cercarlo. Dunque, facendo in questo modo, credo di averlo trovato in te. E forse la mia mente sta giocando con i sentimenti che balzano dal mio cuore come impazziti, ma ho bisogno del tuo affetto in questi attimi di infinita misticità, e forse ti necessito, come tu mi necessiti: lo vedo dal riflesso dei tuoi occhi che, illuminati dal candore della luna, si perdono nei miei.
Un balenio colorato ci abbaglia improvvisamente e mi volto con spontaneità.
‹‹I fuochi d’artificio››, esordisco, quasi seccata, sciogliendo quella specie di stretta più che amichevole.
‹‹Li ho sempre odiati››, confessa lui, esalando un respiro spezzato.
‹‹Anche io››, replico, coprendomi le orecchie con le mani. ‹‹Mi infastidisce il loro rumore››.
Harry esplode in una risata festosa, nella quale due fossette coronano lo splendido sorriso che ha già normalmente. E batte le mani, come le batto io ogni volta che scoppio a ridere.
‹‹Buon anno, Maria››, dice poi, dandomi una pacca sulla spalla e costringendomi a guardarlo, ancora una volta.
Prendo un attimo per respirare, e per capire. ‹‹Potresti abbracciarmi di nuovo?››.
Harry mima una smorfia con le labbra, in seguito mostra l’infossatura profonda della sua gota sinistra per via di un ghigno a metà e, senza farsi scrupoli, mi solleva da terra. Io, da parte mia, gli avvolgo il collo con le braccia e gli sussurro un ‹‹Buon anno anche a te››, all’estremità dell’orecchio, tra i ricci e i brividi. 
E non provo niente, se non che mi sento amata.
Ma il cellulare squilla d’improvviso perché Birdy è preoccupata e si chiede dove sia finita.
‹‹Dovremmo andare››, gli dico, anche se contrariata.
Harry rotea gli occhi al cielo e, comprimendo le labbra in segno di resa, annuisce.
‹‹Maria››, replica lui, mettendo le mani nelle tasche e incamminandosi per primo verso la vespa. ‹‹Hai capito dove ci troviamo esattamente?››.
Io mordo il labbro inferiore e ingenuamente scuoto il capo in segno di negazione.
‹‹Davvero? Passi di qui tutti i giorni per andare a scuola!››.
‹‹Non ho un gran senso dell’orientamento e, tanto per informazione - dico facendo spallucce -, di notte non vado mica in giro per la periferia di Wells››.
‹‹Questa sera lo hai fatto››, risponde con tono farsesco, imitando il mio gesto in modo strampalato.
‹‹Non vale››, mormoro io, mordendomi il labbro.
‹‹E per quale motivo non vale?››.
Esito prima di rispondere. ‹‹Perché insieme a te mi sento a casa››.
Harry si ferma per guardarmi, ma io avvampo in volto e devio il discorso, dunque lui torna a camminare - imitando una smorfia con le labbra di tanto in tanto - e insieme raggiungiamo Red Velvet.
Messa in moto la vespa rossa, lui prende a canticchiare strofe di canzoni che, alle mie orecchie, risultano incomprensibili. Al contempo il vento mi scompiglia i capelli, facendoli librare in aria come polvere o piume, e la mente comincia a viaggiare come quella di Audrey Hepburn in ‘Vacanze Romane’ o magari come quella di Jane Russel e Marilyn Monroe in ‘Gli Uomini Preferiscono Le Bionde’.
I fuochi d’artificio continuano a sfavillare sui tetti delle case e, per un momento, sento l’aria mancare, perché i grandi botti enfatizzano il dolore che, sin da piccola, mi tormenta la testa.
‹‹Harry, sto poco bene. Mi porti in hotel?››, gli dico all’orecchio, mormorando.
‹‹In hotel?››, mi chiede lui, cercando di non deconcentrarsi.
‹‹L’hotel Sunrise, si trova a Inland Wells. È di Birdy, e mi ha invitata a passare la notte lì››, spiego.
‹‹Lo conosco, ti ci porto subito››.
Cercando di essere più fermo e delicato possibile, Harry accosta Red Velvet nei parcheggi frontali dell’albergo. Pertanto, scendiamo dalla sella entrambi e, con solito gesto, io tolgo il copricapo.
‹‹Quindi››, mormora lui, grattandosi il capo.
Indugio qualche parola, poi annuisco tra me e me, e decido di dar voce ai miei voleri. ‹‹Quindi, ti andrebbe di accompagnarmi in camera?››.
Stropiccio il giaccone con le mani, nel tentativo di scivolare via da quella pessima figura.
‹‹Ma non c’è la tua amica?››.
‹‹Oh no, lei è sicuramente con il suo…  ragazzo, o qualsiasi cosa sia per lei››, rispondo con cautela.
Harry acconsente con una strana luce negli occhi e, di soppiatto, entra con me in albergo.
‹‹È Niall Horan il ragazzo di Birdy?››.
‹‹Lo conosci?››.
Annuisce, quindi inciampa per le scale, ed io non riesco a trattenere una risata sincera. Ma lui mette il broncio per finta, e rialzandosi mi insegue: proprio quando riesco ad aprire la porta della stanza con la chiave elettronica, lui mi agguanta per i fianchi, facendo riversare entrambi sul parquet freddo.
‹‹Harry!››, sobbalzo. ‹‹Quanto sei buffo››, sussurro, standogli sopra a cavalcioni.
Allungo un braccio, nel tentativo di accendere la luce, ma lui inarca, improvvisamente, il bacino. Pertanto bacia l’incavo del mio collo nudo e mi sussurra un ‹‹Grazie, per tutto quello che sei››.
I miei occhi si riempiono di lacrime.
 
E mentre le stelle in cielo svaniscono, Harry mi rimbocca le coperte - io sono ancora vestita, e non ho per niente la voglia di mettere il pigiama - si siede ai piedi del letto e strofina la mano destra sulle mie gambe.
‹‹Mi canteresti qualcosa?››, gli domando, masticando l’aspirina per il mal di testa.
‹‹Cosa vuoi che ti canti?››.
‹‹Qualsiasi cosa tu voglia››, rispondo, chiudendo appena gli occhi.
Harry sospira, e appoggia la testa sulle mio bacino. ‹‹Allora rilassati. Ti canterò un brano che mia madre mi cantava quando, da piccolo, il temporale mi faceva paura››, comincia, accarezzandomi la guancia. ‹‹Sweet dreams till sunbeams find you, sweet dreams that leave all worries far behind you. But in your dreams, wherever they be, dream a little dream of me››.
 

 


Angolo autrice
Salve, bella gente, come va? Spero bene :)
Ho tante cose da dire riguardo il capitolo, e vorrei cominciare con delle scuse.
Scusatemi se ho aggiornato dopo quasi un mese dal precedente, ma è stato inevitabile. Troppi impegni, troppo studio, troppo stress.
Spero riusciate a perdonarmi.
Seconda cosa, so bene che il capitolo è corto e che gli avvenimenti che ho narrato sono alquanto inverosimili, c'è tanta dolcezza e tanta spensieratezza, pertanto spero di avervi fatto sognare almeno un po' e di avervi fatto cancellare per qualche minuto i cattivi pensieri.
Ultima cosa, perdonate se non ho risposto a tutte le recensioni del capitolo precedente, appena pubblico vi rispondo. Sappiate che ringrazio tutte per ogni singolo commento, perché voi siete ciò che mi rende felice, ciò che mi sprona a scrivere quando l'ispirazione non arriva. 
Un grazie sincero.
Sempre vostra, Sleepingalone.
 

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Capitolo 8 - Tutto molto bene ***



 

Capitolo 8 - Tutto molto bene
 

Beatrice Evani è nata il ventuno Marzo 1996 a Cromer, dalla maestra elementare Tish Borrows e dall’albergatore italiano Michele Evani.
Questi ultimi si erano conosciuti in Italia, a Firenze, e non si erano mai più lasciati andare; dalla loro unione, quindici anni addietro alla nascita di Beatrice, era venuto al mondo anche Josh.
La coppia aveva affrontato parecchie sofferenze, pertanto, alla venuta della loro secondogenita - che nacque all’alba del primo giorno appartenente alla stagione dei fiori -, Michele si confidò con la sua metà, affinché potesse nominare quella pargoletta dai grandi occhi velati e dalle goti rosate, con un nome che esprimesse beatitudine e che trapelasse felicità, ossia  Beatrice.
Quest’ultima è, in realtà, la cara Birdy: appellativo che il nonno materno le ideò quando lei aveva solo quattro anni e che tutt’ora le appartiene.
 
Dopo che questa notte Harry mi ha accompagnata in camera, mi sono addormentata; lui è andato via e B è rincasata solo dopo.
Esalo uno sbadiglio aperto e osservo la mia migliore amica ancora assopita, la quale respira in modo lento e soffuso.
Mi spoglio dal piumone color olivo e, attraversando la stanza a piedi nudi, soffermo lo sguardo a ridosso della finestra che spalleggia il letto, ove per qualche ora ho riposato idillicamente. Poggio le dita della mano destra sul vetro terso e, con mia enorme sorpresa, spalanco bene lo sguardo: candidi fiocchi di neve bianca scivolano giù dal cielo come piccole fatine bazzicanti, dunque strofino gli occhi per lo stupore.
Qui a Wells la neve non ha mai imbiancato il paesaggio, poiché la città si trova a contatto con il mare e, di conseguenza, il clima non arriva mai a temperature tanto basse da permettere una nevicata. Penso che quello di oggi sia un miracolo, e sono entusiasta.
‹‹Birdy!››, strepito, saltando sul letto a cavalcioni. ‹‹Nevica, nevica!››.
‹‹Lasciami dormire››, mormora lei, evidentemente inconscia.
‹‹Ma, B!››, la richiamo, scoprendola. ‹‹Sta nevicando. È straordinario››.
Birdy balbetta qualcosa, poi sobbalza dal letto assopita, con gli occhi gonfi, il trucco colato e i capelli arruffati. ‹‹Non ci credo, è praticamente impossibile››, replica, sistemandosi il ciuffo. ‹‹Questo è il giorno più bello della mia vita››.
Socchiudo le labbra, confusa. ‹‹Capisco che vedere la neve a Wells ti susciti stupore, ma così tanto da rendere questo il più bello della tua vita mi sembra un tantino esagerato, no?››.
Lei scuote il capo nervosa, e si volta nella direzione opposta alla mia. ‹‹È possibile che non ti abbia raccontato tutto››.
 
Pov Birdy
 
Tutto attorno a me appare distorto e sono completamente disorientata.
Appena catapultata in una sorta di mondo parallelo, nel quale mi sento per la prima vera volta l’unica e sola protagonista. E penso che, dopotutto, fosse anche ora, dacché mi sono stancata di vivere la mia stessa vita in terza persona.
Avevo già da tempo l’intenzione di travolgere la fragilità, l’incomprensione, l’essere indesiderata e esonerata da ogni sentimento, la tristezza, le pacche sulle spalle. Ma qualcuno di speciale, alla visione della splendida aurora di stamani - che non aveva ancora assorbito tracce di nubi o neve -, si è adoperato per rendere speciale anche me.
Ricordo tutto molto bene.
 
La mezzanotte sta rintoccando e Maria si è volatilizzata insieme a quel meraviglioso ragazzo dai riccioli folti e ramati. 
L’ho lasciata andare con lui affinché lei si perdesse nei meandri della vita astratta per la prima volta: non si è mai innamorata di nessuno, e nessuno si è mai innamorato di lei. Non ha mai dato un bacio, poiché troppo timida e restia per affidare le sue labbra a quelle di qualcun altro. 
Ma forse è meglio così.
A Maria spetta qualcuno di intelligente e affascinante, e qui a Wells è complicato trovare un ragazzo che rispetti tali descrizioni. Tutti hanno paura di lei, perché lei è troppo per tutti. 
È una ragazza anomala e splendida a modo suo; non ha bisogno di dimostrare il suo valore, in quanto ciò che ha nel cuore glielo si scruta attraverso le cellule della sua carnagione candida e bianca, attraverso i lunghi capelli castani che porta sin da bambina e attraverso le labbra piene e a forma di cuore che le impreziosiscono il volto di rosa.
So che lei desidera trovare il vero amore perché, in qualche modo, io riesco a leggerlo all’interno dei suoi grandi occhi neri. Gli stessi che, ultimamente, anelano delle strane sfumature di melodica pace interiore, quella che Maria non ha mai avuto.
Comunque, sono rimasta sotto l’impalcatura allestita in piazza, completamente spaesata e agitata dalla circostanza. Di solito sono una ragazza tranquilla, a cui persino l’ansia vuol stare lontana, ma, senza la mia migliore amica, ogni cosa attorno a me ha le sembianze della grandezza, e sono troppo piccola per affrontare il mondo da sola.
Pertanto, osservo la gente vivere e, al contempo, trattengo il respiro poiché, paradossalmente a qualsiasi legge umana, restando in apnea riesco o a combattere l’angoscia. È sempre tutto meno complicato ogni volta che trattengo il respiro, perché l’unico bisogno che il corpo e i pensieri conferiscono è quello di esalare aria. Lo faccio spesso, restare in apnea: mi esenta la mente dalle cattive riflessioni e mi porta a una tregua interiore. 
Avvolgo il bacino tra le setole calde del cappotto e poso casualmente gli occhi su Niall Horan che, con sguardo apparentemente concentrato ma in realtà assente, strimpella qualche nota mediante la sua chitarra nera e bianca.
Comprime le labbra e, al contempo, lascia trapelare una quasi invisibile infossatura sulla gota sinistra. E, ahimè, seppur mi secchi parecchio ammetterlo, la sua bellezza semplice, ma maledettamente particolare, ha le sembianze di quella di un angelo che ha perduto le ali. 
Questa sera è davvero bellissimo, forse a causa delle luci in penombra, forse a causa del candore della notte. Con i suoi occhi celesti come il mare d’estate, e i capelli che riflettono il biondo che il sole regala attraverso i suoi sottili raggi. Se non fosse per il suo caratteraccio burbero, sarebbe davvero un’opera d’arte. Ed io non è che me ne intenda egregiamente d’arte e dipinti, ma penso che per contemplarla non ci voglia poi grazia o maestria: l’arte è per tutti quelli che portano i sogni nel cuore e, modestamente, mi riesce davvero bene rimirare quel ragazzo dal ciuffo ingiallito che gli ricade sulla fronte con nonchalance, rendendolo un cliché tanto speciale. 
Mordo il labbro inferiore con disinvoltura e decido di sedermi su una panchina, ai laterali della piazza. Ma, al fine di raggiungerla, mi sento improvvisamente cingere per i fianchi. Abbasso lo sguardo e noto poggiate sulle estremità del mio bacino, due mani bianche e portentose che mi ricordano tanto quelle di una persona in particolare. 
Mi volto e scuoto il capo, divertita.
Niall, al contempo, sorride con un ghigno a metà che gli allarga la narice destra, poi sussurra un ‹‹Grazie, per avermi aspettato››.
Io mi retraggo dalla sua stretta, imbarazzata. 
I ragazzi mi hanno sempre resa cagionevole, ma Niall proprio riesce a distruggermi. ‹‹Devo confessarti una cosa››, gli dico, cercando di espiare i convenevoli. ‹‹Sei davvero bravo con quelle dita e con quella chitarra che hai addosso››.
Infatti la sua chitarra è appesa alle sue spalle mediante una fibbia color avorio. 
‹‹E, comunque, sono rimasta qui per sentire voi tutti››.
Lui ride in risposta, ed io sono costretta a tornare in apnea, perché la sua risata - colorata da un timbro farsesco che, se potessi, ascolterei in ripetizione -,  mi rende tanto felice, quanto nervosa. Tuttavia, nonostante l’ansia, è solo in questi casi che mi viene da vivere.
Lui sbuffa e mette le mani in tasca.
‹‹Dove sono Liam e Zayn?››, gli chiedo, incrociando le braccia al petto.
‹‹Da qualche parte a bere o a fumare. Zayn è parecchio infastidito, anche se non so il perché, e Liam è a fargli compagnia, dato che lui farebbe qualsiasi cosa pur di aiutare un amico in difficoltà››, risponde, accendendosi una sigaretta. 
‹‹È molto nobile da parte sua››, replico, prendendo la cicca fumeggiante di Niall tra le dita e gettandola per terra. ‹‹E tu perché non sei con lui?››.
Lui corruccia lo sguardo in un cipiglio confuso, e i suoi occhi acquamarina si dissolvono. ‹‹Non ti piace avermi tra i piedi?››.
Dal canto mio mormoro qualcosa.
‹‹Mi spieghi per quale motivo ti ostini a comportarti così male con me?››, mi domanda ancora, aumentando il tono di voce.
Io non apro bocca, lui intreccia la mia mano con la sua e mi trascina il più lontano possibile da quel frastuono, esattamente vicino alla fontana ‘Fabliau’ - dedicata ai brevi racconti in versi che vigevano nel medioevo in Francia -, la quale da cinquant’anni risiede a ridosso della piazza. È sempre stato un luogo tranquillo, frequentato dai vecchietti in passeggiata la mattina, dalle famigliole il pomeriggio e dai giovani amanti la sera. 
Piccole lucine illuminano il monumento dall’interno della vasca, e una giovane coppia di marmo innalza una brocca dalla quale fuoriesce acqua a getti ripetuti.
‹‹Birdy, ho bisogno di una tua risposta, ora!››, lo sguardo di Niall è cupo e rossastro, le sue mani sono strette in pugni contratti e le sue labbra affusolate e delicate tremano. ‹‹Abbiamo giocato per troppo tempo, non credi?››.
Fisso le punte delle sue Vans colorate, impassibile. 
‹‹Dannazione, rispondi!››, si arrabbia lui, facendo oscillare la chitarra sulle sue spalle, e scompigliandosi i capelli con le mani. 
Io resto ancora immobile. 
‹‹Perdonami, B››, dice mentre il suo sguardo assume un leggero colore rosso, e una lacrima scivola sul suo volto, che io asciugo con la punta delle dita.
‹‹Piangi per me?››, gli domando, accarezzandogli il braccio e sorridendo nello stesso tempo.
‹‹Non ho pianto, è solo l’asma››.
Io annuisco e fingo approvazione. ‹‹Vedi, Niall, se mi piace scherzare con te, è perché amo il modo in cui sorridi e fai sembrare tutto così semplice e giocoso. Sai, la mia vita non è semplice e la mia personalità ne risente, per questo allontano le persone. Non voglio che soffrano con me››.
Lui alza lo sguardo e tira su con il naso. ‹‹Penso che tu sia troppo importante per lasciarti andare››.
Cerco all’interno della mia mente le parole da poter usare in risposta, ma Niall previene ogni mia mossa avvicinandosi e baciandomi dirimpetto, senza dare spiegazioni superflue, perché i vocaboli perdono di significato, come anche i minuti che portano al nuovo anno. 
Resto basita, con gli occhi spalancati e bazzicanti di lacrime, e le braccia flosce poggiate al bacino. Lui, al contempo, preme ancor più le sue labbra contro le mie, ma io mi retraggo, piegando le mani sul suo petto. Dunque sorrido e lo abbraccio, permettendo alla sua imponenza di fare da scudo alla mia piccola figura. 
‹‹Con tutto questo volevo solo dirti che credo di tenere a te, e non so se questo sia amore, ma… mi fa uscire fuori di testa ogni giorno sempre di più››.
E percependo il calore delle sue braccia erculee che mi stringono con lieve forza, chiudo gli occhi e lascio che lui mi tenga stretta al suo petto ancora per un po’.
I miei pensieri, al contempo, si perdono nelle memorie dell’anno in cui ho conosciuto Niall a un concerto jazz di mio fratello Josh, che lui idolatra almeno quanto una divinità. Io ero seduta al piano bar, in attesa che mio padre si liberasse dall’esibizione del tanto amato figlio, per accompagnarmi al cinema. 
Sorseggiavo un bicchiere d’acqua frizzante con monotonia, contemporaneamente, qualcuno aveva preso posto accanto a me. Pertanto io mi ero voltata, ed avevo incontrato due profondi occhi astrali che guardavano verso l’alto.
‹‹Josh Evani diventerà qualcuno››, sussurrò un ragazzo dallo sguardo fatato, applaudendo in segno di approvazione, e socchiudendo appena le labbra che lasciavano intravedere l’apparecchio ai denti.
‹‹Lo dice spesso anche mio padre››, commentai, sarcastica.
‹‹Anche a tuo padre piace la musica di Evani?››, mi chiese, aumentando la velocità con cui pronunciava le parole.
Io scoppiai a ridere, e lo fissai stranita. ‹‹Certo che sì. É suo figlio››.
I suoi occhi si ingrandirono. ‹‹Sei la sorella di Josh Evani›?›.
Annuii, perdutamente divertita - e compiaciuta - da quel ragazzo impacciato che si nascondeva dentro un maglione largo e rosso, e dei calzoni verdi che insieme proprio stonavano. Era talmente magro e basso da decomporsi con un solo soffio, e aveva dei pettorali inesistenti. Ma poco importava! Perché avevo imparato ad amare presto quello sguardo sincero e quello strambo accento che tanto d’inglese non mi sapeva. Tutto il resto era insignificante. 
E nonostante ogni parametro, dopo quella volta al piano bar, diventammo amici. 
Custodisco i pomeriggi che abbiamo trascorso insieme nel cuore, molto gelosamente. 
Lui mi accompagnava a casa dopo scuola, io lo tiravo spesso fuori dai guai e gli davo ripetizioni - seppur fosse di un anno più grande di me - di letteratura e francese. 
Veniva da Mullingar, uno strano posto interrato in Irlanda, del quale conosco tanti aneddoti perché a Niall piaceva proprio tanto lodare la sua amata patria natale, che era stato costretto a lasciare. Lui parlava e parlava in continuazione, e io lo lasciavo fare, dacché amavo ascoltare il modo in cui gestiva le parole distrattamente.
A volte passavamo le giornate distesi sul prato di casa sua ad ascoltare musica: i Linkin Park erano - e forse sono, non lo so con certezza - il suo gruppo preferito, anche se io, al contrario, non riuscivo proprio a sopportarli.
Ma, nonostante tutto, accettavo qualsiasi tipo di musica, cosa o racconto quando ci stavo insieme, perché, più passava il tempo, e più lui si stringeva a me attraverso un affetto che a parole è impossibile spiegare. Era diventato il mio migliore amico, il ragazzo con il quale condividere la vita si dimostrava un azzardo e una gioia, ogni giorno sempre di più.
Purtroppo o per fortuna, a lungo andare, Niall acquistò fiducia in sé stesso.
Cominciò a recarsi in palestra molto di sovente, tolse l’apparecchio ai denti, aggiustò il taglio dei capelli e comperò abiti leggermente più sofisticati di quelli che portava in precedenza.
Era diventato bellissimo, ma il suo carattere aveva perso originalità e si era dimostrato uguale a quello di tutti gli altri. 
Io non potevo continuare a frequentarlo perché lui non voleva più stare con me.
Quindi, con il passare del tempo, la nostra amicizia si affievolì talmente tanto da lasciar trapelare solo qualche ‹‹Ciao›› consumato in giro per strada.
Avevo dei bei ricordi che mi riportavano a lui, e fino a poco fa credevo che niente potesse avvicinarci ancora, inoltre, mi ero ripromessa di dimenticarlo e di non cadere mai più ai suoi piedi.
Ma questa sera, a prescindere da tutto e tutti, ha pianto per me e questo mi permette di mandare al diavolo tutti i patti che avevo celato con me stessa. Ora, come per magia, sto soffocando nel suo abbraccio e lui mi ha appena confessato il suo amore.
‹‹E non pensare di fumare in mia presenza. Che poi non dovresti farlo per niente, dato che sei asmatico››, sbuffo, mettendo il broncio e sciogliendo la stretta, infine replico. ‹‹Ti ho aspettato tanto, Niall››.

 
Pov Maria
 
‹‹Niente di più, niente di meno››, sussurra Birdy, completamente rossa in volto.
Porto le mani sulle guance, completamente frastornata, ma felice. ‹‹Oddio, non riesco a crederci››.
B fa spallucce, e sospira sognante.
‹‹Lo meritavi tanto, amica mia››.
Al contempo, la neve si è già sciolta.
 


Angolo autrice
Saaaaaaaaaaaaalve care lettrici, quanto vi voglio bene! 
Come state? Spero bene.
Oggi si è verificato un fatto un po' anomalo, perché ho pubblicato questo capitolo a distanza di pochissimi giorni, ma, come avrete sicuramente notato, è di bassa qualità e molto molto scadente.
L'ho scritto in pochissimo tempo, senza l'impiego di attenzione - non almeno l'attenzione che ho messo negli altri - ma, sono stata troppo stanca e stressata, spero riusciate a capire.
E ora arriviamo alla punta di diamante.
Non è un capitolo di sequenza, ovvero, non narra di Maria e Harry o dell'evolversi della storia, bensì è una specie di spin-off su birdy e niall (dico la verità, è dedicato principalmente alla mia migliore amica Alba, ma anche a tutte le niaaaaall's girls).
Spero vi sia piaciuto e spero di leggere taaaaaaaaante recensioni, anche perché nell'ultimo capitolo ne ho lette davvero poche, rispetto agli altri. E sono solo i vostri commenti che mi spingono a scrivere capitoli 'decenti'.
Grazie per tutto,
Sleepingalone.

ps: Questa è la bellissima fanfiction di _Sunrise, ovvero l'amica a cui ho dedicato il capitolo. 
Andate a leggerla e non ve ne pentirete minimamente. 

 
Image and video hosting by TinyPic
 

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** Capitolo 9 - Aurora Boreale ***



 

Capitolo 9 - Aurora boreale
 

Le gambe flesse al petto e il capo piegato all’indietro.
Sono accovacciata sul davanzale che nonno ha assemblato a ridosso della finestra più ampia di camera mia. Al contempo, il barlume stellare mi rischiara i boccoli ebano e il candore della notte mi incupisce i lineamenti semplici.
Tra le mani ho un quadernetto arancione sul quale tempo fa ero solita annotare qualunque riflessione, idea e percezione. Mi capitava spesso di sentirmi incompresa, di non poter raccontare i miei pensieri neanche alle persone più fidate perché eccessivamente personali. Desideravo aprirmi senza interruzioni, senza qualcuno che dicesse ‹‹capisco come ci si sente›› e senza falsi abbracci o pacche sulle spalle.
Dunque, scrivevo in un diario apparentemente efficace per la mia stabilità mentale, imbrattando pagine bianche e righe violacee mediante vocaboli sproporzionati e disordinati, quelli che a una ragazza si addicono poco. Dipingevo il mio mondo attraverso una biro blu e, infine, decoravo la vita adoperandomi di vaghi aforismi.
E, concentrandomi al massimo sui libri e gli abbozzi privati, mi dilaniavo disperata come Giacomo Leopardi e lasciavo andare ai quattro venti ogni spiraglio di felicità e spensieratezza.
Era il 13 Settembre dell’anno scorso quando scrissi “Il mio cuore è atrofizzato”.
Non sapevo cosa fosse l’amore e avevo abbandonato da tempo l’idea di conoscerlo e, di conseguenza, avevo cercato di descriverlo a mio piacimento, al fine di sentirmi meno sola.
Poi ho conosciuto qualcuno di speciale e non ho scritto più una riga.
 
Passeggio lungo il litorale principale di Wells, accostato alla spiaggia da destra, diretta verso la fermata d’autobus, come accade ogni volta che devo recarmi a scuola. Perciò, procedo a passi cauti, con lo scopo di godermi quanto di spettacolare ha da offrirmi durante le prime ore di chiarore la mia città: il sole che volteggia lungo il firmamento celeste e la freschezza di un nuovo giorno che libra tenace in aria. Lancio un calcio floscio al terreno, prendo posto sulla solita panca di ferro che, delineata dalla spiaggia scabra e dorata, occupo quando arrivo in anticipo e, per concludere, scaravento lo zaino al mio fianco.
Dacché stamani ho dimenticato di riporre gli auricolari in tasca, lascio che il fragore delle onde tumultuose si incastri ai filamenti dei miei capelli.
Il meteo in tv ieri sera diceva che la temperatura sarebbe stata bassa oggi, ma che, tuttavia, la luce avrebbe riscaldato con il suo tepore le città a est del Norfolk.
Un passerotto grigio danza giocosamente in cielo, ciò nonostante mi trovo obbligata a chiudere gli occhi a causa dei raggi esageratamente luminosi del sole, i quali mi rischiarano la pelle tersa.
Ed è proprio in momenti come questi che ritrovo me stessa.
Ogni volta che mi perdo, ogni volta che le vie da percorrere appaiono sbiadite ai miei occhi e ogni volta che in testa ho una gran confusione: mi siedo e osservo il mare in tutta la sua elasticità, ispezionando il modo furibondo con cui batte sulla sabbia.
Sobbalzo al trambusto provocato da un clacson, dunque mi volto in direzione della matrice del rumore e scorgo un autobus malconcio che irradia smog grigio.
‹‹Fermata numero tredici››, annuncia un autista dai capelli rossi.
Qualche studente si imbarca all’interno del mezzo, simultaneamente io fingo indifferenza, trattenendo il fiato e rimanendo seduta composta. All’improvviso, gli sportelli si chiudono e l’autobus procede in direzione di Cromer senza me.
‹‹Aspetti!››, urla qualcuno alla mia sinistra. ‹‹Aspetti, la prego!››.
Strabuzzo gli occhi. ‹‹Harry››, mormoro tra me e me.
‹‹Non vada via, la prego››, replica il ragazzo, appoggiando entrambe le mani sulle ginocchia, stremato.
Io mi alzo e lo raggiungo, alquanto preoccupata. ‹‹Tutto bene?››.
Il suo respiro è pesante e affannato, contemporaneamente il suo sguardo è rivolto al terreno.
‹‹Ho perso l’autobus››.
‹‹Dici?››, continuo, alzandogli il mento con le dita e permettendo ai miei occhi neri di incrociare i suoi, verde Parigi. ‹‹Non l’avevo mica capito››.
Lui sorride e, senza dare alcun tipo di spiegazione, mi abbraccia. Io, dal canto mio, accosto il capo al suo petto, percependo dunque il battito del suo cuore che palpita come impazzito. Poi sciolgo il contatto e lo invito a sedersi sulla panchina insieme a me.
‹‹Perché non hai preso l’autobus?››, mi chiede, passandosi una mano sulla fronte.
‹‹Non mi andava››, rispondo semplicemente. ‹‹E tu? Hai un esame oggi?››.
Lui scuote il capo e lo posa sulla mia spalla sinistra. ‹‹Dovevo fare domanda per rinuncia agli studi››.
‹‹Davvero?››, sobbalzo, scostandomi.
‹‹Ho riflettuto a lungo, Maria››.
‹‹E cosa hai in mente di fare?››
Harry sospira, poi mi rivolge un sorriso amaro. ‹‹Lascia stare››.
Capisco immediatamente di aver toccato una nota dolente, pertanto annuisco e mi metto a tacere.
‹‹Richiederò la domanda per lasciare l’università domani››, spezza il silenzio venutosi a creare.
‹‹Come credi meglio››, prendo un attimo per respirare, poi replico. ‹‹Penso che farò quattro passi››,
‹‹Posso fare quattro passi con te?››, mi domanda, tentennando.
Io afferro lo zaino e, alzandomi, gli tendo una mano in segno di assentimento.
‹‹Per quale motivo non sei andata scuola?››, chiede lui di punto in bianco, circondandomi per il fianco destro con il braccio.
‹‹Così, per cambiare la mia attitudine››.
Harry arresta il passo e io gli rivolgo uno sguardo confuso.
‹‹Il tuo zaino è troppo pesante, e tu sei troppo magra per portarlo››.
Inarco un sopracciglio e faccio spallucce. ‹‹Ci sono abituata››, non termino la frase, che lui solleva l’arnese e se lo mette sulle spalle.
‹‹Ma, Harry!››, mormoro, imbarazzata, fissando l’azzurro dei miei jeans stretti.  
‹‹Dato che non passeranno altri autobus per Cromer… ti andrebbe di fare un giro in vespa con me? L’ho parcheggiata a qualche metro da qui››, cambia argomentazione lui.
Io annuisco, arrendendomi e sorridendo con fare alquanto malizioso. ‹‹Dove hai intenzione di portarmi, questa volta?››, gli domando con tono farsesco.
‹‹Ancora non lo so. Qualche preferenza?››.
Il ragazzo si avvicina deliberatamente a me e, al contempo, estrae dalla tasca anteriore dei suoi pantaloni neri un fascio di chiavi argentate. Io intravedo Red Velvet in vicinanza, quindi accelero il passo nel tentativo di raggiungerla.
‹‹Ho libero arbitrio?››, mi domanda lui, bloccandomi da dietro. ‹‹Posso portarti dove voglio?››.
Annuisco sorridente e quasi speranzosa.
‹‹Okay››, bisbiglia, per poi aprire il cofanetto della sua vespa. ‹‹Cavolo!››.
‹‹Cosa c’è?››.
‹‹Ho solo un casco qui con me››.
‹‹Può capitare, lo indosserai tu››.
‹‹Non se ne parla››.
‹‹E perché?››.
‹‹Perché voglio che sia tu a metterlo››.
‹‹Fandonie, hai la precedenza, dal momento che sei tu alla guida-››.
‹‹Ma tu sei sotto la mia responsabilità››.
‹‹Non sono una bambina››.
‹‹Maria, smettila di fare storie e metti il casco››.
Sospiro e, mostrando la lingua, prendo il copricapo tra le mani. Lui sorride e mi passa l’indice sulla gota destra, dunque salta in sella alla vespa e mi invita a seguirlo. Dopo di che incrementa, avanzando verso una destinazione a me ancora ignota.
L’oceano al nostro fianco riflette la luminosità del sole mattiniero e l’aria frizzante scompiglia i capelli ramati di Harry che, inconsapevolmente, mi solleticano le ciglia. Allo stesso tempo il cielo è decorato da svariati passeri che, inebriandosi in danze maestrali, spazzano via tracce di nuvole e di cattivo tempo.
Io, da parte mia, mi abbandono alla brezza della città, pensando a quanto debba alla vita, e a questo 7 Gennaio di novità. Harry, intanto, procede in direzione della periferia di Wells e accosta dinnanzi un’ingente grata in ferro argentato.
‹‹Siamo arrivati?››, domando, stringendo le mani ai fianchi del ragazzo.
‹‹Sì››, risponde lui, tirando su con il naso, pigiando il campanello d’entrata e cercando, al contempo, di tenere in equilibrio il piccolo veicolo rosso.
‹‹Chi è?››, chiede qualcuno dall’altra parte dell’interfono.
‹‹Harry››.
L’imponente cancello oscilla e si schiude man mano, permettendo a Red Velvet di avanzare lentamente. Io slego il casco e lo tolgo, cercando di essere più cauta possibile al fine di non destare preoccupazione a Harry. Per concludere, mi volto a destra e a manca, meravigliata dall’incantevole grazia esalata dai ciliegi rosa confetto, i quali si estendono lungo tutta la proprietà con armonia e volteggiano allo scorrere pacato della vespa.
‹‹Questa è casa mia››, annuncia lui, frenando.
Un edificio color avorio erge mediante tutta la sua magnificenza davanti ai miei occhi che, ancor più esterrefatti di prima, brillano di stupefazione.
Socchiudo le labbra, e poggio i piedi per terra.
‹‹Casa tua?››, replico con tono sommosso. ‹‹È casa tua?››.
Rimango accecata e un ammasso di idee confusionali si infrangono nella mia mente, e per un momento mi sembra di scorgere qualcosa che ho già conosciuto in passato. Ma scuoto il capo in segno di negazione, poiché esageratamente stranita e accigliata.
‹‹Tutto bene?››, mi chiede Harry, agitandosi come suo solito.
Io annuisco, seppur confusa.
‹‹Ti piace qui?››, domanda ancora, scendendo dalla vespa proprio come me.
‹‹Se mi piace?››, continuo, espiando ogni tipo di preoccupazione. ‹‹È uno dei posti più belli che abbia mai visto››.
Harry mi scompiglia i capelli e, intrecciando la sua mano destra alla mia, mi conduce verso l’entrata.
‹‹Sei sicuro?››, chiedo, titubante, fermandomi d'impatto.
‹‹Sicuro di cosa?››.
‹‹Che sia opportuno farmi entrare, insomma mi… mi vergogno un po’››, dico con tono poco fermo, irrigidendomi.
A quelle parole lui sorride e comincia a strofinare le sue nocche sulle mie braccia, infondendomi il calore perduto. ‹‹Non devi avere vergogna di nulla, Maria. E non devi temere nulla, perché sei una ragazza forte e coraggiosa, e perché un giorno, magari in futuro, affermerai il tuo nome››, bisbiglia affettuosamente, lasciandomi un soave bacio sul capo, che io contraccambio con un sottile abbraccio di gratitudine e affetto e sicurezza e amicizia e amore.
E sono sicura che quelle parole - in contesti come questi - non c'entrano proprio nulla, ma a volte è bello sentirsi dire cose del genere.

Quello che ho imparato, dalle poche volte in cui il meraviglioso ragazzo dagli occhi verde Parigi mi è stato accanto, è che nel corso della vita ci si impegna al fine di raggiungere degli obiettivi che, nella maggior parte dei casi, vengono spazzati via a causa dell’incontro con una persona speciale.
Il mondo a cui mi sentivo d’appartenere è andato in frantumi e tutto quello che pensavo di sapere riguardo l’amore è sparito. Ho scoperto che la mia esistenza, gironzolando da sola, è sempre andata contro la direzione sbagliata e, in un banalissimo attimo di svista, è stata condotta verso quella di Harry, il quale ha fatto sì che le mie cicatrici si spiritualizzassero e che il mio cuore librasse in aria leggero.
E, forse, mi sono innamorata.
‹‹Gemma, sei a casa?››, urla poi lui, spalancando il portone d’ingresso e interrompendo le mie riflessioni.
‹‹Sto andando via››, bercia lei in risposta, catapultandosi in fronte a noi altri. ‹‹Tu devi essere Maria. Non dovresti essere a scuola? Comunque, piacere, Gemma. Ci siamo imbattute qualche volta in giro, sei molto carina. E, tu, fratello mio, non fare il cane e tratta bene la ragazza››.
Rido di petto a causa della velocità con cui la ragazza intreccia ogni parola, Harry comprime gli occhi, in segno di imbarazzo, e scaccia via la sorella.
‹‹Perdonala, lei è… insolita. E ringrazia il cielo che mia madre è fuori con Robin: il mio patrigno››, replica, chiudendosi la porta alle spalle. ‹‹Loro sono anche peggio››.
Scaglio un pugno falso sul braccio destro di Harry, ottenendo in risposta quella solita smorfia nasale che lui impersona quando è stupito, poi sorrido.
‹‹È infinitamente bella casa tua››, contemplo, ampliando lo sguardo.
Il soggiorno del fabbricato è colorato di bordeaux, ed è molto luminoso grazie ai grandi finestroni in legno massiccio e ai mobili invecchiati al punto giusto.
Su tutte le pareti sono appese gran vastità di ritratti e fotografie, che rappresentano luoghi e soggetti di straordinaria bellezza.
‹‹Questi ritratti sono, come dire, bellissimi››, bisbiglio, toccando con la punta delle dita le lastre di vetro che li proteggono.
‹‹Sono miei e di mio padre Des››, dice Harry, avvicinandosi a me.
‹‹Tuoi, nel senso che sei stato tu a farli?››, domando, spalancando gli occhi.
Lui annuisce e, come se avesse qualcosa da ridire, esita a guardarmi in volto. Intuisco che la nota dolente di cui Harry non voleva precedentemente parlare era proprio quella.
‹‹Il ‘lascia stare’ di prima è in qualche modo legato a queste fotografie?››, chiedo ancora, portandomi una mano al petto, mentre gli occhi del ragazzo si incupiscono e capisco di essermi spinta troppo oltre con le parole.
‹‹Mio padre era fotoreporter. È morto durante un servizio di guerra, nello stesso anno in cui mi sono diplomato››, replica, continuando a fissare il parquet. ‹‹La passione per le fotografie che aveva sin da bambino è diventata la sua croce, e io non voglio che diventi anche la mia››.
Le frasi di Harry risuonano all’interno della mia mente.
‹‹Il mio desiderio più grande è sempre stato quello di fare il fotografo: girare per il mondo e immortalare la bellezza››, deglutisce, quasi come se fosse spaventato dalle sue stesse parole. ‹‹Dopo la morte di mio padre, mia madre mi ha convinto a lasciare stare e-››.
‹‹Ho capito››, sussurro, mettendo due dita sulle labbra rosee di Harry. ‹‹Non devi darmi alcuna spiegazione, non se questa ti ferisce››.
‹‹Maria-››.
‹‹Troverai la tua strada, e farai grandi cose››, lo interrompo ancora, prendendogli le mani nelle mie, mentre il suo sguardo lucido mi ringrazia, e io mi mordo il labbro di proposito.
‹‹Voglio mostrarti una cosa››, replica, tirando su con il naso e recandosi in direzione di una vetriera dalla quale estrae un libro dalla copertina gialla pallida, che inizio a sfogliare con delicatezza. ‹‹Una raccolta fotografica di Eugene Atget che ho comprato in una bancarella a Cromer, insieme a mio padre, quando ero piccolo››.
Meravigliosi scatti in bianco e nero e seppia scivolano sotto lo sguardo vigile dei miei occhi che, incantati, riconoscono le immagini di semplici vetrine, viali e volti di persone comuni.
‹‹Mio padre mi ha raccontato che Atget era perdutamente innamorato di una donna, una certa Valentine, della quale non si conosce neanche il viso. Era bellissima e lui la sposò, e quando lei morì, lui la seguì. Si amarono in modo talmente vigoroso, che neanche la morte riuscì a separarli››, sussurra lui, scostandomi i capelli dietro le spalle e lasciando, dunque, al mio cuore lo spazio di barcollare a causa della forte agitazione. ‹‹Mi piacerebbe fotografare l’aurora boreale, Maria››.
Cerco di riprendere il controllo di me stessa, infine depongo il mio sguardo sugli occhi rossastri di Harry e, perdendo qualsiasi atto di normalità, mormoro un ‹‹Lo farai, e io ti accompagnerò››.
 

 


Angolo autrice
Salve, care lettrici, come va? Spero bene.
A me va alla grande :D - anche se ancora per poco - dacché sono stata in Toscana fino a mercoledi, e se ripenso alle meraviglie che ho visto, tutti i fastidi spariscono. 
Comunque, è ovvio che non vi interessano le mie novità personali ahahah però insomma, il capitolo era pronto per essere pubblicato già una settimana fa, poi ho pensato: "vedrò uno dei posti più belli d'Italia, magari potrei essere ispirata e regalare qualcosa di maggiormente buono alle mie lettrici". Ecco, lo scopo era quello, ma l'ispirazione toscana la riservo per un capitolo bellino che presto leggerete :3 e quindi vi è toccato sorbirvi questa confusione di parole. Inoltre vi prego di perdonarmi per la lunghezza eccessivamente corta (?) di questo nono scritto, ma ho passato un periodo così ed ero in preda al panico.Dovete sapere che Maria rispecchia un po' la mia personalità, e non potevo scrivere di una me serena, quando ero a pezzi. Capite?
Spero di leggere un po' più di recensioni, perché insomma io scrivo e pubblico, ma almeno un commentino di riconoscenza (o rimprovero) mi piacerebbe leggerlo :( spero sia chiaro il messaggio. 
Bando alle ciance, vi lascio :3
buon weekend, Sleepingalone.
 
Un ringraziamento speciale a tutte le persone che hanno recensito:

thenine___, Fede230710, Coloryourlife, jessicaxoxo1d, Cocaine_,
_Lylian, perversjon, sleepinginthegarden, no_light_, questions,
oxyjgen, Atarassia_, Harryette, incase, Lilim Sophie, loveloveme,
sunshine_S, El_ly, Eleanor_Rigby, Debora14, SplashedLily_,
Pleasebemywill, shyale, _ehyliam, skaterbiebs, nialljameshoranslaugh,
Youhavesavedme_, ehjhazza, StellaSorbet, xwilliamseyes,
djmaliklove, xlovethem, jaiaoverboard, MaryScrive, lilac_, 
sheisonfire, athazagorafobja, Rism, lenzuolo_, Out_Ofocus, sonostupeeta,
fenomeniall, Lud0vica98, amorofobia, rauhlscake, jemma_,
MartyJus e  Up_me_memories. 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** Capitolo 10 - Tanto non me ne vado ***



 

Capitolo 10 - Tanto non me ne vado
 

‹‹Concedimi qualche minuto per tenere lontano il mondo››.
Sussurra Harry, mentre il suo palmo destro scivola sul dorso dei miei capelli ebano e lo sguardo color verde Parigi accultura le imperfezioni che macchiano il mio volto ovale. Io abbasso il capo e mi retraggo a quell’attiguità dolce, fingendo insofferenza e mostrando imbarazzo.
‹‹Con te il mondo è sempre lontano››, biascico, quasi come se volessi scomparire, fissandomi le punte delle converse bianche che, consumate, sfociano sul grigio.
Harry schiude le labbra eleganti e carnose, quindi sorride con enfasi e, prendendomi per la mano sinistra, mi conduce in una stanza ovattata, le cui pareti, che imbracciano diverse gradazioni di blu, sono adornate da quadri d’epoca e scaffali in legno chiaro, a loro volta straboccanti di romanzi e volumi enciclopedici.
Un pianoforte bianco indietreggia svariate poltrone di seta del medesimo colore che fronteggiano un ingente camino innalzato sino al soffitto, e forse anche oltre.
Sfioro con i polpastrelli delle dita la superficie levigata e lucida dello strumento musicale, perciò mi volto in direzione di Harry, che fruga all’interno di una cassettiera riposta a ridosso della parete laterale della stanza. ‹‹Trovato!››, esclama, sogghignando ed estraendo un insieme di fogli ingialliti. ‹‹Voglio farti ascoltare una cosa, Maria››.
Possedere il nome della Vergine Madre è per me fonte di vanto e grazia, e non mi garba che qualcuno lo abbrevi in “Mary, Mar, Marie”, poiché è uno splendido nominativo e voglio che lo si articoli dalla prima consonante all’ultima vocale. Quindi, ogni volta che Harry lo pronuncia per intero attraverso il suo timbro graffiato e portentoso - che lo faccia distrattamente o, al contrario, deliberatamente -, mi accorgo di amare il mio nome un po’ di più.
‹‹Da piccola volevo imparare a suonare il piano, ma poi ho abbandonato l’idea››, dico, portandomi una ciocca di capelli dietro l’orecchio destro. ‹‹Tu ci riesci?››.
Lo sguardo di Harry all’improvviso s’incupisce e le sue goti, al contrario, s’impallidiscono. ‹‹Poco, ma so arrangiare qualcosa - le parole si versano dalle sue labbra con una certa difficoltà - e, in particolare, un brano che ha composto mia madre››.
Annuisco, cercando di sottrarre la mia mente da quelle avvisaglie che Harry le invia inconsapevolmente, dunque mordo l’interno della guancia destra e spero, al contempo, che i miei pensieri non si riversino in parole.
‹‹Te lo faccio ascoltare subito››, replica lui, prendendo posto sul panchetto in pelle dirimpetto al pianoforte, sollevando il cilindro che protegge i tasti lucidi e, simultaneamente, esalando un respiro soffice.
Io, dal canto mio, gli poggio una mano sulla spalla, e lui inarca quelle dita affusolate e ceree che vagano peccaminose nei meandri delle mie riflessioni.
 
Era il sette Gennaio duemilaquattro, Maria era appena tornata da scuola e Harry l’aspettava a casa, come era solito fare ogni pomeriggio, al fine di giocare con lei: la sua unica amica.
Ellen aveva ricordato alla figlia di restare coperta, e di non togliere per nessun motivo al mondo la sciarpa e il berretto in lana giallo, ossia il colore che la piccola preferiva tra tutti. Ciononostante, Maria non ascoltava mai i consigli che la madre le proponeva, ed era rimasta con il solo maglione al freddo invernale di Wells-Next-The-Sea.
Harry, in cuor suo, sapeva di dover essere responsabile nei riguardi dell’amica e, anche lui, contribuiva a ricordare quanto importante fosse indossare indumenti caldi in giornate pesanti.
‹‹Se rimetti la sciarpa, ti faccio vedere un posto bellissimo››.
E, come per magia, Maria era avvolta da lana e calore.
Pertanto, in quel giorno di inizio Gennaio, Harry mantenne la promessa e portò l’amica in un’ala di casa sua ove non era permesso entrare: l’angolo blu.
Una stanza dalle pareti turchine, abbellite da quadri antichi e, al centro, da un melodico pianoforte bianco, il quale aveva illuminato lo sguardo corvino della bambina, le cui goti erano carnicine alla stessa maniera della bocca sottile che dava l’impressione d’esser fatta da piccoli petali di rosa rossa.
‹‹Da quando i miei genitori hanno divorziato non posso entrarci neanche io qui dentro, perché mamma non vuole››, replicò il bambino dai corti capelli castani e gli occhi verdi e sfarzosi come i diamanti incastonati. ‹‹Ma Gemma mi ha rivelato dove era nascosta la chiave e io l’ho presa di nascosto. Però in cambio ho dovuto darle tutti i risparmi che avevo››.
Maria incurvò le piccole labbra inumidite dalla saliva come in segno di dispiacere, poi domandò. ‹‹Lo hai fatto per me?››.
Essendo una bambina buona, desiderava che nessuno soffrisse o che ci rimettesse al posto suo.
Forse era curiosa e con la testa tra le nuvole un po’ troppo spesso, ma, d’altro canto, anche Harry era fatto in quel modo. Perciò i due erano diventati migliori amici: perché tra bislacchi ci si capisce e ci si comprende e, a volte, ci si ama persino.
Erano stati entrambi emarginati alle elementari, dacché a lui non piaceva il calcio e a lei non piacevano le gonne. Di conseguenza, avevano imparato a volersi bene a dispetto di ogni difetto.
‹‹No. L’ho fatto perché volevo tornare a giocare qui››, mentì il bambino gonfiando d’aria le goti paffute, dal momento in cui era proprio per lei che aveva riversato tutti i risparmi alla sorella maggiore. Era per ricompensarla dell’amicizia preziosa che gli riempiva anche le giornate più grigie.
Maria, sollevata da quella risposta, sorrise mostrando ingenuamente il vuoto che aveva al posto dei due denti frontali; per cui Harry le scompigliò i capelli con la mano destra e, in seguito, invitò l’amica a sedersi insieme sul panchetto che sostava dinnanzi al distinto pianoforte bianco.
Le gambe di lui arrivavano appena ai pedali, ma quelle di lei erano troppo corte e balzavano avanti e indietro come se fossero adagiate dal passo che un’altalena conduce.
‹‹Mio padre, prima di andarsene da casa, mi ha insegnato a suonarlo, Marie››, il bambino si prese gioco di lei, intrappolandole il nasino con le dita.
‹‹Ti ho già detto che devi chiamarmi Maria, e non Marie!››, bofonchiò lei, attraverso una sottile voce nasale e una falsa incavolatura nello sguardo, che fece scoppiare a ridere un Harry dispettoso, il quale amava il nome che Maria portava, poiché estraneo ai termini inglesi.
‹‹Va bene, va bene››, prese una pausa per rassettarsi, poi indicò il pianoforte. ‹‹Sai che mio padre mi ha insegnato a suonarlo?››.
La bambina spalancò gli occhi e mormorò qualcosa tra sé e sé, meravigliata. ‹‹Voglio provarci anch’io, m’insegni?››, domandò, corrucciando la fronte in un cipiglio di speranza e sincerità. ‹‹Certo!››, annuì velocemente lui. ‹E, quando imparerai anche tu a suonarlo, inventeremo la nostra canzone. Ti va?››.
Maria sorrise inesorabilmente. ‹‹Ci sto! Perché tanto non me ne vado››.
 
Il volto di Harry arieggia con veemenza in qualche posto, o ricordo, o riflessione lontana. E non riesco a comprendere cos’è che gli sia preso.
A volte mi rassegno e lascio correre – perché lui  si comporta molto di sovente in questo modo -, ma oggi mi piacerebbe poter dare voce ai miei dubbi.
‹‹Va tutto bene?››, gli chiedo, accomodandomi al suo fianco mediante fare materno e aggraziato, mentre il suo pomo d’Adamo oscilla e la sua mascella si inumidisce di sudore.
‹‹Non proprio, Maria››, continua, deglutendo appena. ‹‹Ci sono tante cose che vorrei… tante cose che vorrei-››.
‹‹Arriverà il momento in cui potrai raccontarmi tutto, perché tanto non me ne vado››, gli sussurro, alzando gli occhi in direzione dei suoi che, arrossati, s’illuminano di chiarore.
‹‹Perdonami. Ho solo tanta confusione in testa››, tira su con il naso e mi lascia un soffice bacio sulla fronte. ‹‹Riprendiamo››.
‹‹Sei sicuro?››, mi accerto, facendo sì che le mie dita si intreccino ai suoi ricci.
‹‹Certo››, tituba, mordendosi il labbro inferiore con disinvoltura e appoggiando gli spartiti dinnanzi a noi. La carta invecchiata lascia librare in aria delle quasi invisibili fibrille di polvere che, schiarite dai raggi del sole, appaiono come minuscole stelline bazzicanti e io starnutisco sbadatamente.
Il suo sguardo m’implora, per non so quale motivo, ed io finisco con il perdermi in quell’immensa distesa di verde che mi ricorda la manta acquamarina versata all’interno della Senna o, semplicemente, gli alberi che si riflettono in essa.
‹‹Un giorno non troppo lontano canterai questo brano per me, d’accordo?››.
Le parole di Harry mi scuotono e io annuisco, come a volergli concedere un attimo di serenità. ‹‹Ma per questa volta lo canto io. Ti va?››, aggiunge, sorridendo in modo malizioso.
‹‹Certo che sì››, affermo, poggiando con lentezza il capo sulla sua prominente spalla destra e chiudendo gli occhi con l’intento di immaginare il mare e la spiaggia e un pianoforte bianco al centro del mondo e un Harry vestito di candido azzurro e degli occhi verdi e dei tasti bianconeri e un sorriso felice e un abbraccio.
Il ragazzo dagli occhi verde Parigi si accinge a pigiare la tastiera avorio e, contemporaneamente, muove le dita con delicatezza sulla superficie levigata di ogni tasto. Concedo alla mia mente un pensiero che si spinge oltre qualsiasi possibilità e, in modo incauto, percepisco i polpastrelli teneri di Harry sperimentare ogni centimetro della mia pelle nuda, e sussulto in silenzio affinché i miei sentimenti non trapelino in modo avventato. Tuttavia, credo che sia impossibile non fantasticare su delle mani così pittoresche, quando si ha una vera e propria fissa per esse.
‹‹Sono innamorata delle tue mani e delle tue dita››, bisbiglio appena, al fine di non far scorgere le mie parole a Harry che, fortunatamente, prosegue nel suo intento e fa si che il pianoforte spanda soavi melodie all’interno e al di là della stanza.
Note che mi scalfiscono d’amore l’udito e il cuore.
Note che mi irraggiano lo sguardo coperto dalle palpebre.
Note che penetrano i pori della mia pelle sino a toccare le ossa.
Note che intona d’improvviso lui, con l’utilizzo di un dolce e doloroso timbro vocale capace di rivestirgli l’abituale voce roca.  
E mi sembra quasi di perdermi e di collassare, perché penso che nulla possa essere detto o pensato in momenti che rendono la musica miracolosa.
Stringo la manica della felpa verde di Harry in un pugno ferreo, come se volessi aggrapparmi a lui per tutta la vita; apro gli occhi umidi e cerco di cogliere il significato delle parole scritte sul foglio davanti a me, ma ho la vista annebbiata e non riesco a staccarmi dal contatto che ho instaurato con lui, il quale arresta il ritmo incalzante delle dita in movimento e mi abbraccia, portando il mio capo a sé.
‹‹Riesco a percepire i tuoi battiti››, sussurro, strofinando il naso sul suo petto. ‹‹Sono tanto veloci››.
Ero una ragazza sola e, seppur di riflesso, adesso non lo sono più. Ho la certezza di  aver trovato un amico che mai e poi mai perderò, e questo mi rende felice come non sono mai stata.
‹‹Ti voglio bene››, mormoro pianissimo, cercando di non far destare le mie parole.
Harry fortifica la sua presa alla mia, e mi lascia un bacio sulla nuca. ‹‹Ti voglio troppo bene, per essere un semplice bene, Marie››, replica poi, accarezzandomi le goti con quelle dita che desidero mie e sottolineando il modo con cui pronuncia la i alla fine del mio nome ritoccato.
‹‹Che cosa strana!››, sussurro, disegnando cerchi invisibili sul tessuto della sua felpa, ancora appoggiata al suo petto. ‹‹Non mi piace esser chiamata Marie, e credevo di avertelo detto… ma mi sbagliavo perché non te l’ho mai detto››, sorrido, aspettando una risposta che non arriva.
 
Maria non aveva mai imparato a suonare il pianoforte, e non per colpa di Harry.
Lui era stato un maestro fin troppo nitido per l’amica. Tanto paziente da rispiegarle ogni singolo passo da fare, quando lei non capiva immediatamente.
Ma, in seguito, Maria lasciò stare.
‹‹Harry, non voglio che tu mi insegni ancora››, aggiunse, alzandosi dal panchetto con le mani ai fianchi. ‹‹Non mi piace stare ferma! Io voglio cantare e ballare e muovermi››.
In fondo le era sempre piaciuto cantare, sin da quando era piccolissima.
Le piaceva così tanto che le sue prime parole erano state: “Isn’t she lovely, isn’t she wonderful”- dal celebre brano di Stevie Wonder -, pronunciate al solo settimo mese di vita in modo disordinato e babelico. Parole che avevano reso Maria una bambina speciale.
Ed era stato un caso talmente particolare, che Ellen lo aveva raccontato in ogni dove e ad ogni persona: persino a Harry.  
Comunque, entrambi i bambini erano eccessivamente piccoli per ideare una loro canzone e, perciò, durante i pomeriggi di fine estate del 2004, Anne non solo permise ai piccoli l’accesso all’interno della stanza ovattata, ma si dedicò inoltre alla stesura di un dolce testo che Harry avrebbe potuto suonare, e Maria avrebbe potuto cantare. Ed il titolo era proprio ‘Angolo Blu’.
 
‹‹Mi è venuta una fame…››, prosegue Harry, conducendomi verso una cucina in stile classico. ‹‹E tu?››.
‹‹Da morire››, confesso, portando la mano destra sul ventre, come per indicare l’appetito che sento.
‹‹Anne prima di partire ha fatto la spesa. Perciò può richiedere qualsiasi cosa voglia, signorina››, scherza, facendomi accomodare.
‹‹Non so, faccia lei››, prendo qualche secondo per pensare, incurvando le labbra. ‹‹Mi stupisca!››.
Harry mi lancia un sorriso beffardo. ‹‹A dir la verità, riesco a malapena a farcire i tramezzini››.
Scuoto il capo, falsamente contrariata, ma maledettamente divertita. ‹‹Sta parlando con una persona che non è capace di friggere un uovo››, dico da sconfitta, guardandomi a destra e a manca.
‹‹Siamo messi piuttosto bene››.
‹‹Due frane, ecco quello che siamo!››.
‹‹Tu lo sei più di me››.
‹‹Non replico, penso che tu abbia ragione››.
‹‹Dovevi controbattere, così non è divertente››.
Scoppio in una risata spontanea, e Harry segue la mia azione imitando strane smorfie con le narici del naso, gli occhi e la fronte.
‹‹Hai del gelato?››, gli domando, comprimendo lo sguardo in due fessure.
‹‹Dovevo immaginarlo››, sentenzia lui ancora divertito, per poi tornare immediatamente serio.
‹‹E perché dovevi immaginarlo?››, mi faccio spazio tra i suoi pensieri, stuzzicandolo.
‹‹Beh››, risponde titubante, giocando con le dita delle mani, quasi come se fosse nervoso. ‹‹Diciamo che è una fissa di tutte le ragazze. Mia sorella mangia gelato in qualsiasi periodo dell’anno››, si giustifica, voltandosi in direzione del freezer al fine di frugarci dentro.
‹‹Tua sorella è una tipa per bene››, riprendo, fissando le finestre che rimandano al giardino, meravigliata. ‹‹Ti sei mai chiesto perché degli splendidi fiori come quelli di ciliegio scelgano di sbocciare in inverno?››.
Harry mi rivolge il suo sguardo curioso, pertanto chiude il freezer e mi si avvicina. ‹‹Ma non lo scelgono mica loro il tempo in cui sbocciare!››, bisbiglia. ‹‹Tu hai scelto la tua data di nascita? Il colore dei tuoi occhi? La forma delle tue labbra?››.
Io mi impongo di non farmi prendere d’ansia e, prendendo sicurezza, ribecco. ‹‹E quale sarebbe la forma delle mie labbra?››.
‹‹Una bella forma››, continua, sfiorando con il pollice la superficie piena della mia bocca. ‹‹La forma dei petali dei fiori di ciliegio››.
Io, dal canto mio, arrossisco e mi retraggo a quel contatto. ‹‹Sono i miei fiori preferiti quelli, sai?››, proseguo, giocherellando con le punte dei miei capelli. ‹‹Anzitutto perché i boccioli crescono sugli alberi, e non è cosa da poco. E poi perché penso che, attraverso la loro bellezza, ripudino l’inverno nonostante esso sia opprimente. Portano la primavera dove non c’è, e questo li rende nobili. Non trovi?››.
Harry studia il suono delle mie parole come se fosse ipnotizzato, e io me ne accorgo talmente in fretta da cambiare argomento in un batter d’occhio. ‹‹Comunque, in che posto sono andati i tuoi genitori?››.
‹‹A Parigi››, risponde lui scuotendo il capo e, al contempo, porgendomi una vaschetta di gelato al cioccolato.
Spalanco lo sguardo, poi sorrido tra me e me.
‹‹Perché ridi?››, mi domanda, corrucciando la fronte in un cipiglio poco nitido.
‹‹Te lo dirò quando sarà il momento adatto››, bisbiglio appena, ricordandomi delle assonanze parigine che lego alla sua espressione vetrata.
‹‹E se io lo volessi sapere ora?››, mi provoca, pizzicandomi i fianchi.
‹‹E se io non volessi mai fartelo sapere?››, quasi urlo a causa del solletico, ridendo con le lacrime agli occhi e cercando di allontanarmi, anche se invano. Poiché lui mi cinge ancora una volta, acciuffandomi da dietro e permettendo alla mia schiena di addossarsi al suo petto, il cui cuore volteggia in modo flautato.
‹‹Mangiamo il gelato, dai››, consiglio, mentre Harry mi bacia la cervice da sinistra e mi attira su una sedia insieme a lui. ‹‹Vuoi che ti imbocchi?››.
‹‹O vuoi che sia il contrario?››, mi provoca lui, pungendomi il naso con le dita.
 
A Maria piaceva particolarmente mangiare il gelato in inverno, nonostante fosse una bambina a cui il freddo dolesse in modo parecchio accentuato. E Harry, allo scopo di renderla felice sempre un po’ più della volta precedente, derubava la sorella maggiore di quello al gusto di cioccolato, al fine di condividerlo proprio con lei, all’ombra dei ciliegi secolari - piantati da un nonno di lontana discendenza -, mediante solo l’uso delle dita.
Maria finiva continuamente con lo sporcarsi e Harry l’aiutava a ripulirsi.
Funzionava in questo modo tra loro: se una cadeva, l’altro l’aiutava a risollevarsi, e viceversa. Anche se era per la maggior parte delle volte Maria quella ad aver bisogno d’aiuto.
‹‹Sai com’è che si chiama il ciliegio in latino?››, domandò la bambina all’altro.
‹‹Cos’è il latino?››.
‹‹Non lo so. Forse una lingua che parlano gli indiani››, continuò lei, imitando il fare di una so-tutto-io. ‹‹Comunque, in latino si chiama Prunus Avium››.
Harry emulò strane facce e divaricò le narici. ‹‹Come hai detto, scusa?››.
‹‹Prunus Avium››.
‹‹Sembra la formula di un incantesimo di Harry Potter››.
‹‹Me l’ha detto mio nonno quando avevo solo sei anni››, sentenziò una Maria di sette anni, credendo d’esser talmente grande e matura da poter capire quanto di bizzarro la vita celasse.
‹‹Se lo dici tu››, rispose un poco convinto Harry, insudiciandosi il piccolo indice della mano destra di gelato e portandoselo alla lingua.
‹‹Secondo me è una stupidaggine››, espose lei, ripetendo l’azione che l’amico aveva compiuto.
‹‹Cosa?››.
‹‹Che le lingue nel mondo siano tutte diverse››.
‹‹Può darsi››.
‹‹Un giorno ti canterò una canzone in francese››.
‹‹E perché proprio in francese?››.
‹‹Perché Parigi è una città bellissima. L’ho vista da alcune cartoline che conserva la mia mamma nella credenza del salotto››.
‹‹Un giorno allora ci andrò, scatterò delle foto con la macchina fotografica di mio padre e ti spedirò delle cartoline ancora più belle››.
 

 
 

 


Angolo autrice
Salve ragazze, come state? Spero bene :)
Ho finalmente aggiornato! Mi spiace per tutta l'attesa che vi conferisco, ma sono sempre troppo incasinata per aggiornare e/o scrivere.
Comunque, questo capitolo è uno dei miei preferiti ed è anche uno dei più dolci che fa quasi vomitare, ma non è come lo volevo... e avrei potuto fare di meglio. Mi spiace :/ 
Avrete sicuramente notato i flashback che - attenzione - non ha Maria.
La mia parte preferita è quella del pianoforte, non so perché ma boh mi intenerisce :3 
detto questo - scusate la mia sbadataggine - mi dileguo e vi lascio in pace. Ah.. ho cercato di revisionare i primi cinque capitoli della storia, senza cambiare gli avvenimenti, ma giusto qualche piccolo dettaglio. Se avete tempo magari andate a rileggerli, sennò fa nulla :) e poi, inoltre, ho adattato la visione della storia anche per Iphone. Perché prima era un po' complicatuccio leggere attraverso utensili apple.
E, ultima cosa, ringrazio la beta più paziente, disponibile e brava del mondo: Seth <3 
Vi voglio tanto tanto bene, un bacio
Sleep <3

ps: mi piacerebbe leggere qualche vostra recensione! Perché siete davvero in tantissime che seguite la storia, e in poche che recensite. 
Non vi chiedo lunghi poemi, ma magari qualche opinione in proposito. Giusto per rendervi partecipi di ogni capitolo. 
Ora vado davvero, che ho rotto le balle abbastanza lol ahahahah
ciaaaaaaaaaaao xx
 
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** Capitolo 11 - Bolle di sapone ***



 

Capitolo 11 - Bolle di sapone
 

Una bolla di sapone è un sottile strato composto d’acqua e sapone che forma una sfera opalescente, ossia multicolore. È capace di arieggiare come una foglia calcata dalla fresca brezza autunnale, e rimane in formazione sferica solo per qualche secondo: poi scoppia da sé, oppure si infrange contro altri oggetti in grado di assorbire il liquido che la circonda.
Harry respira piano al fine di non far rumore, mediante la delicatezza con la quale si esala una bolla di sapone lineare e io, al contempo, lo osservo pragmaticamente per tentare di focalizzare meglio ogni suo particolare più astratto.
L’alito che effonde è flautato, e le labbra increspate che gli adornano il volto morbido sfociano sul carnicino.
Siamo entrambi seduti su una panchina in legno scuro riposta sotto le vesti di un ciliegio appena in fiore e, in silenzio, percepiamo ciò che ci dona l’atmosfera invernale.
Gli occhi verdi e vetrati del ragazzo sono congiunti, e l’espressione che gli marca il viso è tersa e tranquilla; un po’ come se volesse trapelare un “mi piacerebbe poter far durare questo momento per sempre”.
E, dal canto mio, sarei davvero entusiasta al pensiero di rimirare Harry fino alla fine dei miei giorni. Ma l’utopia di entrambi viene spazzata via sin troppo presto, per via della vibrazione del cellulare che proviene dalla tasca anteriore dei miei jeans.
Io sussulto e Harry apre gli occhi lentamente, cercando di impressionare una smorfia tranquilla, ma che, tuttavia, porta il sapore del dispiacere.
Prendo l’arnese bianco con la mano destra e, noncurante di osservare lo schermo, lo porto all’orecchio.  ‹‹B, sei tu?››.
‹‹No››, risponde qualcun altro mediante una voce sottile e maschile, facendo crollare ogni mia percezione di ovvietà. ‹‹Sono Zayn››.
Mi raddrizzo sulla panca, confusa.
‹‹Sei proprio tu?››, domando ancora, suscitando l’attenzione del ragazzo cauto accanto a me. ‹‹Come hai avuto il mio numero, Zayn?››.
Evidenzio la pronuncia del nome del tipo, cercando maliziosamente di scuotere Harry che sussurra appena un ‹‹Cosa vuole, questo?››.
Scuoto il capo in segno di ignoranza a riguardo, poi vengo distratta ancora.
‹‹Non è importante. Ti prego, fammi parlare››, replica Zayn con tono impastato, ma deciso. ‹‹Maria, questa sera io e i ragazzi festeggiamo la ricorrenza d’inverno al Buenos Aires - unico pub degno di questo nome a Wells-Next-The-Sea -, e mi piacerebbe invitarti››.
In un primo momento spalanco gli occhi come meravigliata, dunque sospiro una risata di afflizione. ‹‹Ho da fare, mi dispiace››, rispondo volitiva e ferma.
‹‹No. So che non hai da fare e che non vuoi venire perché non ti piacciono le feste. Ricordi Halloween? Abbiamo parlato proprio di questo››.
Schiudo le labbra raffinate: non credevo che Zayn ricordasse le parole scambiate quella sera nell’auto di Louis.
‹‹Ci penserò su, va bene?››.
‹‹È un “no”, vero?››.
‹‹Ho detto che ci penserò su. Ora devo andare, ti faccio sapere››.
Attacco improvvisamente, e volgo lo sguardo al terreno umido che mi sostiene i piedi.
‹‹Che voleva?››, mi domanda Harry, come se le parole emanate da Zayn dovessero riguardargli minimamente.
‹‹Scusami?››, corruccio la fronte in un cipiglio altalenante.
‹‹Impicciarmi non era mia intenzione, ma credevo ti stesse importunando››.
Esalo un sussulto di comprensione e - di sottecchi - mi compiaccio, dacché le parole di Harry mi dimostrano che per lui forse conto qualcosa.
‹‹Zayn mi ha invitata ad una festa che si terrà stasera al Buenos Aires››, spiego, abbassando la nuca ancora una volta. ‹‹Ma andarci sarebbe un eufemismo, per una persona come me››.
‹‹Ma, se non sbaglio, gli hai detto che ci penserai su››, sussurra lui, inarcando il bacino verso la mia direzione. ‹‹Hai quasi diciassette anni e dovresti andare a divertirti››, aggiunge con un tono di diffidenza, a cui non avevo mai fatto caso.
Mi sento spiazzata dalle parole del ragazzo dagli occhi verde Parigi: evidentemente mi considera solo come una buona amica, niente più. E io che, invece, ho frainteso ogni gesto, parola, movenza e sguardo rubato!
‹‹Credo tu abbia ragione››, riprendo, toccandomi il labbro inferiore con l’indice destro. ‹‹Niente mi trattiene››.
Lui sorride amareggiato, e io poso lo sguardo sul firmamento celeste che, attraverso i carismatici rami del ciliegio in fiore sovrapposto a noi altri, trapela luminosità e attrattiva.
‹‹Si è fatto tardi››, mi alzo dal panchetto in legno e sposto una ciocca d’ebano freddo dietro l’orecchio sinistro, poi continuo. ‹‹Puoi accompagnarmi a casa?››.
Harry esita e annuisce con fare distaccato, dunque incrocia le dita alle chiavi della sua vespa e, senza emanare vocabolo, mi conduce in direzione di essa.
 
Varco l’ingresso di casa, delusa e intontita per via dell’atteggiamento che il ragazzo dagli occhi Parigi ha intrapreso nei miei confronti prima; pertanto poggio lo zaino in soggiorno e mi riverso sul letto ancora scomposto di camera mia.
Fisso il cellulare stretto nelle mie mani, quindi scruto l’arrivo di un paio di messaggi.
 
Da: Zayn
Inviato alle: 14, 13
“È per quel tizio di nome Harry che hai deciso di declinare l’invito?”
 
Dischiudo le labbra in segno di stupore, poi pigio sull’altro testo arrivatomi.
 
Da: Harry
Inviato alle: 14, 13
“Penso che tu abbia frainteso il mio atteggiamento, Maria.”
 
Batto le palpebre, sconcertata. Era proprio quello che pensavo!
 
Da: Maria
A: Harry
Inviato alle: 14, 15
“Penso che tu abbia frainteso il mio, Harry.”
 
Da: Maria
A: Zayn
Inviato alle: 14, 17
“Lui non c’entra nulla. Comunque, accetto l’invito.”.
 
Harry non risponde, mentre Zayn sì.
 
Da: Zayn
Inviato alle: 14, 19
“Grande! Passo a prenderti verso le nove.”.
 
***
 
Indosso un tubino nero lucido - che ricopro mediante un parka rosso di velluto - e delle decolleté non troppo alte.
I boccoli vaporosi mi ricadono fin sotto le spalle, ed io mi rifletto un’ultima volta allo specchio, cercando di apprezzarmi così come sono fatta.
Dunque, attraversando la sala da pranzo, saluto la mia famiglia e mi chiudo il portone d’ingresso alle spalle.
Zayn mi aspetta poggiato allo sportello destro di una Porche bianca, mentre consuma una sigaretta che, non appena mi intravede, getta in terra e calpesta con un piede.
Sorride, quasi come fosse compiaciuto, e si avvicina lentamente a me.
‹‹Ciao››, mormora a stento, abbassando lo sguardo e posandolo sui suoi mocassini lucidi.
‹‹Ciao››, imito a mia volta, ancor più piano.
Lo osservo scrupolosamente, deliziandomi della magnificenza che ogni sua peculiarità emana: i capelli di un nero marcato ben sistemati con il gel, le labbra peccaminose e gli spigoli del viso disegnati a matita.
‹‹Tutto bene?››, gli chiedo, preoccupandomi assai poco.
Lui annuisce e innalza finalmente lo sguardo variegato di infinite tonalità castane, perciò mi prende per la mano destra e mi lascia accomodare in macchina al suo fianco.
Io gioco con le punte delle dita, parecchio nervosa. Ciononostante, il pensiero di Harry non accenna a svanire nella mia mente contorta e pensierosa.
‹‹Tu?››, domanda Zayn, rompendo il silenzio venutosi a creare e mettendo in moto. ‹‹Tu, come stai?››.
Sospiro e infagotto entrambe le mani all’interno delle tasche del parka rosso, pertanto scuoto la nuca. ‹‹Potrebbe andare meglio››.
In fondo, pensandoci bene, non c’è niente ultimamente che nella mia vita vada male. Ma sapermi in tensione con il mio amico Harry mi fa completamente perdere la ragione.
‹‹Qualcosa di grave?››, persiste lui, distogliendo per qualche secondo lo sguardo dal sentiero buio di Wells e portandolo a me.
‹‹No, assolutamente››, replico, voltandomi verso la sua direzione. ‹‹Solo che tornare a scuola mi distrugge››, sorrido mentendo, poiché oggi non sono andata a Cromer, bensì a casa di Harry.
E la mia mente lo ridipinge ancora: con i nervi delle mani imponenti, che si modellano al pigiare dei tasti avorio, con i ricci brunastri che gli ricadono sulla fronte e con le labbra sempre schiuse che imitano la più incantevole epopea.
‹‹Quando stamattina ti ho chiamata eri a scuola? Scusami, io non vado mai il sette gennaio e avevo dimenticato che le vacanze per te fossero finite››, si giustifica Zayn a gesti, e quindi muovendo le mani, le quali sono grezze e assottigliate e scabre.
Sorrido, poiché Dio deve aver speso molto più tempo nella creazione di Harry, e gli sono infinitamente grata per l’opera d’arte che ha regalato a questo mondo spoglio, ove vivono gli esseri umani.
‹‹Tranquillo, ero in pausa››, mento, cercando di non apparire palese.
Zayn accosta l’andamento e parcheggia dinnanzi l’entrata del pub. Quindi scende dall’auto ed io lo seguo.
‹‹In effetti potevamo andare persino a piedi, dato che abiti a due passi dal Buenos Aires››, scherza lui, provocandomi un sorriso gentile e spontaneo.
‹‹Lo penso anch’io››, annuisco, aggrappandomi al suo braccio sinistro.
‹‹Sai cosa?››, sussurra lui, avvicinando il suo volto al mio e permettendo, dunque, di riversarmi contro il suo respiro maleodorante di fumo e birra.
‹‹Cosa?››.
‹‹Odio il fatto che questa discoteca si trovi sulla spiaggia››.
‹‹E perché?››.
‹‹Finirò per sporcarmi››.
‹‹Ma sentitelo!››, lo imito, prendendolo in giro e avanzando qualche passo lungo la pedana in legno d’ingresso che ci conduce dritti all’entrata, dove un tipo alto e muscoloso erge.
Zayn, senza aprire bocca, mostra due biglietti a questi e mi attira all’interno del locale, cingendomi per i fianchi.
Una manta di persone danza e ondeggia al ritmo frastornante di un brano scontato, e io mi retraggo alla stretta del ragazzo dai capelli color ebano.
‹‹Birdy mi ha detto che sarebbe venuta››, spiego urlando, a causa del rumore.
‹‹Lo so. È con Niall››, mi conferma lui, spaziando tra la folla.
‹‹E ora dove stiamo andando?››, chiedo, alzando di un tono la voce.
‹‹Da Liam, Niall e Louis››, risponde, stringendomi per la vita in maniera decisamente più possente. ‹‹Devo dire loro un paio di cose, poi andremo a ballare››.
Ascolto le parole spezzate di Zayn con difficoltà, dunque alzo lo sguardo e scorgo Niall e Birdy proprio dinnanzi a me.
‹‹Ho visto Niall››.
‹‹Anch’io››.
Ci accostiamo ai nostri amici - ancora ignari della nostra presenza -, i quali hanno disegnata in volto un’espressione poco cauta. 
‹‹Lo sbaglio sei tu, B››, urla il biondo, battendo il pugno destro sul piano bar, mentre io e Zayn ci nascondiamo ai loro lati, al fine di non essere visti. ‹‹Smettila di rievocare il passato. Io non sono più il cretino che hai conosciuto tempo fa››.
‹‹Niall, sei una persona buona e non capisco perché ti ostini a negarlo!››, risponde B, con le lacrime agli occhi che le eclissano la vista umida. ‹‹Hai detto d’amarmi e-››.
‹‹Dico tante cose, io››, la interrompe l’altro, respingendola via e sorseggiando qualcosa di eccessivamente brullo da un boccale di vetro.
Birdy alza lo sguardo perso e ritrova il mio tra la folla, pertanto scuote il capo e si allontana con lentezza.
‹‹Cosa le hai detto?››, urlo furiosa, catapultandomi sulle spalle di Niall che, sorpreso, si volta verso di me. ‹‹Sei uno stronzo!››.
Percuoto dei pugni sul suo petto indurito, coperto appena da una leggera maglia bianca in tinta unita, mentre Zayn cerca di placarmi da dietro.
‹‹Rispondi!››, bercio ancora, guardandolo negli occhi di ghiaccio e polvere, e continuando a martoriarlo mediante fare rabbioso.
‹‹Maria, Maria!››, mi contiene Zayn, abbracciandomi al fine di calmarmi. ‹‹Vai a cercare Birdy e a lui ci penso io››.
‹‹Dovresti solo vergognarti!››, strillo infine nei confronti di un Niall con il volto arrossato e l’alito da ubriaco.
Mi allontano dai ragazzi e chiamo invano il nome della mia migliore amica, sconvolta e spaventata da dove possa essersi cacciata. Divarico le gomitate, e mi spingo tra la gente che appare felice e noncurante, dunque ritrovo il volto spaurito di Birdy puntato verso l’uscita.
Corro lungo la sua direzione e la raggiungo proprio in spiaggia: lei è seduta per terra e singhiozza, contemporaneamente il frastuono bazzicante della musica appare come un rumore lontano e le folate di vento le smuovono l’abitino celeste leggero. Non si è neanche ricordata di coprirsi e prenderà di sicuro un malanno.
Prendo posto al suo fianco e imito il suono del silenzio, per lasciarle lo spazio di attenuarsi. Quindi attiro la sua nuca al mio petto e la stringo, lasciando alle onde nerastre, che si infrangono sulla riva, il compito di spargere pace e fragore al suo piccolo cuore straziato.
‹‹Io ci speravo››, mormora lei, esalando un suono quasi assente. ‹‹E ci credevo. Sono una stupida››.
Intensifico la presa delle mie braccia, le cui mani scivolano a ridosso dei capelli ramati della mia migliore amica. ‹‹Ti ha confessato i suoi sentimenti con le lacrime agli occhi: gli avrei creduto anch’io››.
Lei scuote il capo e lo allontana da me, dunque sposta gli occhi color cioccolato sui miei, completamente neri e vacanti.
‹‹Non è più il ragazzo per cui ho perso la testa tempo fa. È cambiato e nella sua vita non c’è posto per una come me››, sputa lei alzandosi, voltandosi verso destra e indicando qualcuno. ‹‹Ma quello non è… Harry?››.
Inarco un sopracciglio, perché scombussolata dall’evento. Richiamo il ragazzo a voce piena e mi alzo da terra. ‹‹Cosa ci fai qua?››, gli chiedo, portandomi le braccia al petto.
‹‹Volevo scusarmi per oggi: così sono venuto qui per cercarti, ma poi ti ho vista correre via e ti ho… seguita››, mormora piano, calpestando la sabbia con gli scarponcini in velluto chiaro e avvicinandosi. Io mi abbandono in un suo abbraccio tiepido, mentre lui leviga le mie goti con la superficie liscia dei pollici.
‹‹Vuoi che ti accompagni a casa?››, aggiunge, interrompendo il contatto avuto con me e rivolgendosi a una Birdy frantumata.
‹‹No. Non vorrei disturbare››, sussurra lei, asciugandosi le lacrime con le dita.
‹‹Nessun disturbo. Oggi il mio patrigno mi ha tornato l’auto››, riprende, emanando il timbro vocale più dolce che serba in gola. ‹‹Quindi dopo potrei riaccompagnare anche Maria››. 
Birdy annuisce senza aggiungere parola, dunque io mi avvicino a lei, le prendo la mano; al contempo, sei piedi scavano sulla sabbia dorata e lasciano le impronte della tristezza, della consolazione e della pace.
 
B si dissolve dietro la porta d’ingresso del suo appartamento, e Harry rimette in moto l’auto nera.
‹‹Portami a casa tua››, bisbiglio assopita, rannicchiandomi sul sedile ove sono seduta.
‹‹Come, scusa?››, chiede lui quasi come fosse sconvolto, imitando una smorfia tersa.
‹‹Portami a casa tua!››, ripeto, sorridendo e scompigliandogli i capelli messi in serbo da un beanie color indaco.
‹‹Come vuoi››, sibila lui, beandosi delle mie mani sul suo volto, ma evitando di prestarmi attenzione al fine di non distrarsi da quello che è il sentiero da perseguire.
Attraverso i finestrini limpidi le immagini sono oscurate per intero e si intravede solo la segnaletica illuminata dai fari del veicolo.
Comunque, abbasso lo sguardo per via del cellulare che vibra.
 
Da: Zayn
Inviato alle: 22, 06
“Harry c’entrava eccome.”
 
Fingo nonchalance e lascio cadere l’aggeggio elettronico all’interno della mia borsa. Dunque mi volto per scrutare lo sguardo profondo di Harry che è rivolto al percorso da compiere.
‹‹Perché mi fissi?››, domanda divertito, ma restando comunque immobile.
‹‹Sei buffo quando guidi: hai un cipiglio quasi preoccupato sulla fronte e gli occhi fissi sulla strada››, spiego, avvampando il volto.
‹‹Di solito non guido in questo modo››, continua, facendo spallucce e sgranchendosi la nuca. ‹‹Ma non posso distrarmi con te in auto››.
‹‹Sì, come no››, sorrido, mentre lui accosta.
‹‹Siamo arrivati e ora posso anche voltarmi››.
I suoi occhi verdi sono colmi di felicità e malizia, e le sue mani sono in aria e si muovono morbosamente. ‹‹E anche solleticarti››, aggiunge, respirando sul mio collo.
Io strillo, divertita, e apro lo sportello al fine di uscire.
‹‹Soffro il solletico, Har››, sussurro, raddrizzando le braccia in avanti come per proteggermi dalle dita del ragazzo. Ma, improvvisamente, mi guardo intorno meravigliata: la residenza di Harry è illuminata da lampioni maestosi e i ciliegi sono adornati da piccole lucine bazzicanti.
‹‹Non è bellissimo, Marie?››, mi domanda, accostandosi a me e conducendomi verso il portone d’entrata e, in seguito, dentro casa.
Io lascio scivolare la mia borsa sul parquet d’ingresso e tolgo le decolleté, indifferente. ‹‹Detesto questi arnesi alti che si portano ai piedi››.
‹‹Non posso immaginare››, replica, passandosi una mano tra i capelli folti. ‹‹Vuoi qualcosa da bere?››.
‹‹Un bicchiere d’acqua, magari››, rispondo, sfilandomi il parka.
‹‹Te lo porto subito-››.
Harry non termina la sua frase, che tutte le luci accese dentro e fuori casa si spengono all’improvviso. ‹‹Che cosa è successo?››, chiede lui imprecando, mentre io getto a terra il giaccone e poggio le mani alle tempie. ‹‹Maria?››.
‹‹Ho paura del buio››, mormoro, aggrappandomi a lui da dietro e inalando l’aroma vellutata che emana il tessuto del suo cappotto.
‹‹Aspetta, vado a prendere delle torce-››.
‹‹No!››, bercio, stringendolo per i fianchi con fare disperato. ‹‹Non lasciarmi sola››.
Harry si volta e mi cinge con le sue braccia calde, poi bisbiglia un ‹‹Andremo a prenderle insieme›› alle orecchie e mi conduce da qualche parte ove la mia vista è impossibilitata a scrutare.
Tutto ad un tratto il ragazzo si allontana da me, e il rumore di un cassetto che viene estratto dalle interiora di un mobile spezza il silenzio venutosi a creare.
‹‹Trovate!››, urla soddisfatto lui, prendendo molto probabilmente delle torce in mano.
Io lo seguo con fare cauto, ma inciampo su qualcosa e cado a terra, strepitando.
‹‹Maria!››, esclama, accendendo una pila e puntandola verso varie direzioni.
‹‹Sono qui sotto››, dico, tirandogli la stoffa dei jeans neri con le dita.
‹‹Ti sei fatta male?››, mi domanda, sedendosi per terra accanto a me con fare immediato.
‹‹No, sono solo caduta!››, bisbiglio, contemporaneamente lui illumina entrambi i nostri volti mediante una torcia di grandi dimensioni. ‹‹A volte mi tratti come se fossi una sottile lastra di vetro idonea a spezzarsi››.
Il suo sguardo è cupo e variegato, e studia ogni particolarità del mio viso irraggiato a metà dalla torcia. È estasiato dall’atmosfera che incombe in stanza, e non sembra neanche più lui.
‹‹Maria, se mi comporto così con te…››, prende un attimo al fine di respirare. ‹‹È perché ho paura che ti accada qualcosa››.
Il mio volto abbraccia un colore rossastro, e Harry sfiora la mia gota destra con il dorso delle sue dita. Pertanto, innalzo lo sguardo nerastro e lo punto su quello ove la Senna osa riflettersi.
Sorrido accigliata, poiché la mia anima non più solitaria ha finalmente compreso.
Il viso di Harry si avvicina sempre più al mio - che inarco con delicatezza - e la sua mano sinistra cinge con vigore la mia nuca da dietro. Dunque, esalo un respiro soffuso e ne inalo un altro, il quale precedentemente apparteneva ai polmoni del ragazzo che amo. Assaporo la sua aria e deglutisco cautamente, al fine di non destare ansia o preoccupazione.
Dire che il mio cuore palpiti come impazzito è un eufemismo; dacché esso batte in modo talmente svelto, da lasciare la mia mente spoglia di vocaboli e lucidità.
I petali di rosa che rivestono la bocca di Harry si schiudono in una danza a me ancora sconosciuta, e i suoi occhi verde Parigi, al contrario, si celano mediante le palpebre sottili, decorate dalle ciglia scure e lunghe che quasi sfiorano le sue goti terse e delicate.
‹‹Nella mia vita questo non è mai successo››, mormoro pianissimo, affinché l’atmosfera regnante in stanza non si dissolva esageratamente in fretta. ‹‹Potrei non essere in grado di farlo››.
Harry sorride ancora a occhi chiusi e spegne la torcia, dunque intensifica la sua presa con dolcezza e depone trionfante le sue labbra sulle mie. 

 
 

 


Angolo autrice
Salve ragazze, come state? Spero bene :)
Non uccidetemi, né picchiatemi ahahah so che questo capitolo era tipo inaspettato, ma non poteva rimanere ancora nei meandri del mio pc.
Sapete, questo per me non è un bel periodo, e sono molto molto stanca. Scrivere questo capitolo è stato il mio toccasana, e scrivere di un amore che non ho mai avuto - e che mai avrò - è stato per me fondamentale.
Quindi, niente ahahah perdonatemi, perché non è come lo volevo.
Scusatemi anche per l'eccessiva lunghezza, ma necessitavo di qualche pagina in più per descrivere di questo evento. Comunque... ho notato che le recensioni sono calate di tantissimo. Mi chiedo: c'è qualcosa che non vi piace più? La mia storia sta diventando pessima?
Per favore, fatemi sapere perché ho bisogno di sapere lol
Ringrazio la mia beta Seth <3
un bacio, Sleepingalone. 
 

 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** Capitolo 12 - Qualcosa di bello ***


 

 

Capitolo 12 - Qualcosa di bello
 

Lungo il corso della vita s’impara a vivere.
Ci si spartiscono i sentimenti e le carezze e gli abbracci e i sorrisi proprio come fossero arnesi materiali da barattare con qualcuno che, magari, ha bisogno di una cosa, piuttosto che di un’altra.
 
Sciolgo il bacio che Harry mi ha offerto qualche secondo fa, dunque piego il capo verso il basso e mi lascio un flebile morso sulla lingua. 
‹‹Come è andata?››, chiedo ironicamente, cercando di non risultare patetica.
Sulla fronte del ragazzo al mio fianco si attenua un’espressione interrogativa, mentre le sue labbra gonfie e a forma di cuore si storcono quasi in un ghigno divertito. Scuote la nuca e la avvicina nuovamente alla mia, al fine di concedermi l’opportunità di assaporare un ulteriore bacio; questa volta deciso e parecchio peccaminoso.
Io, dal canto mio, porto entrambe le mani all’estremità dei suoi capelli ondulati e le infilo nella fessura venutasi a creare tra il beanie e i riccioli castani.
Harry approfondisce il bacio - facendo sì che diventi un vero bacio - e io mi lascio guidare dai suoi movimenti delicati che ai miei occhi semichiusi appaiono destreggianti. Ciononostante, mi muovo con difficoltà e imbarazzo, ma sono impacciata.
 
L’auto di Harry è posteggiata proprio dinnanzi casa mia e, mentre le dita del ragazzo palpitano sul suo ginocchio destro - forse per via dell’atmosfera nervosa esalata da entrambi -, dei vecchi lampioni grigi illuminano il sentiero e ingialliscono l’asfalto e le mura biancastre delle case.
Io guardo fuori dal finestrino, come se volessi defilarmi da quella macchina ovattata.
‹‹È stato bello››, bisbiglio quasi, maledicendomi mentalmente per aver appena pronunciato quelle simili banalità.
‹‹Sì››, emana Harry voltandosi verso il mio lato. ‹‹Lo aspettavo da tanto››, aggiunge, intrecciando poi delle ciocche dei miei capelli ebano alle sue dita prominenti e scolpite.
‹‹Io ti aspettavo da tanto››, confesso, ricambiando lo sguardo vetrato del ragazzo che si perde nell’argento delineato dalla notte. ‹‹Ora devo andare››, annetto, aprendo piano lo sportello destro dell’automobile nera.
‹‹Aspetta››, replica lui, simultaneamente i nostri sguardi s’incontrano con veemenza. ‹‹Maria, cosa siamo io e te, da oggi?››.
Il tono di voce con cui esala quella domanda così semplice e soffice mi intenerisce, dunque faccio spallucce e sorrido. ‹‹Cosa vorresti che fossimo?››.
‹‹Qualcosa di bello››, risponde, cogliendomi di sorpresa e baciandomi a occhi chiusi un’ultima volta, mediante presa leggera.
Io ricambio il bacio morbido, ma in seguito scendo definitivamente dall’auto, sotto lo sguardo vigile di Harry, il quale - attraverso fare protettivo - aspetta che entri a casa prima di ripartire.
Mi chiudo il portone di ingresso alle spalle e, cercando di far meno rumore possibile, mi reco in bagno con la mano destra sul volto arrossato e con la sinistra tra i capelli.
Lo specchio riflette un’immagine di me che prima non avevo neanche ipotizzato potesse esistere: gli occhi lucidi e colorati di bianco, la bocca tremante e un sorriso sul volto che non accenna a dissolversi.
“Non può essermi accaduto davvero” penso, pizzicandomi le labbra e riassaporando il gusto incantevole che quelle di Harry avevano; al contempo delle lacrime di gioia mi scivolano lungo le goti e si inaridiscono solo al dì sotto della mandibola.
 
Metto piede in classe e prendo posto al solito banco, mentre nell’aula vige un silenzio quasi fastidioso alle mie orecchie, che vengono sfiorate dalla soffice melodia di ‘Hey Jude’ attraverso gli auricolari.
Piego le braccia e mi accoccolo a ridosso del banco color panna, oramai pasticciato dagli scarabocchi grigiastri di Birdy. Al contempo, dei rami aridi e spogli graffiano il vetro della finestra che fiancheggia gli ultimi posti. 
Oggi ho preso il primo autobus: per questo sono in anticipo.
Harry non era alla fermata e non perché fosse troppo presto, bensì perché non ha più bisogno di andare a Cromer ogni mattina, senza il pretesto dell’università.
‹‹Mar››, soffia Cher al mio orecchio destro, facendomi sobbalzare. ‹‹Oggi hai fatto prima, non è vero?››.
Annuisco, ancora assorta dai miei pensieri e dai baci che Harry mi ha rubato ieri sera.
‹‹Maria Morales, ci sei?››.
Mi mordo il labbro inferiore e avvampo in volto improvvisamente, poiché beccata in flagrante. ‹‹È successo, Cher››, confesso, scrutando le punte delle scarpe nuove della mia amica, che schiude gli occhi in un cipiglio confuso e incrocia le braccia al petto.
‹‹Doveva succedere qualcosa in particolare?››.
Mi alzo dalla sedia e tiro fuori dallo zaino il libro di chimica e poi il portapenne, cercando di mostrare nonchalance. ‹‹È successo che qualcuno mi ha baciata››.
Cher inarca le sopracciglia e porta le braccia al petto in segno di stupore. ‹‹Non ci credo››, urla quasi, illuminandosi lo sguardo celeste di meraviglia e incredulità.
‹‹Credici››, replico, intristendomi di colpo. ‹‹Poi ti racconto tutto dopo. Piuttosto, ieri Niall e B hanno discusso pesantemente››.
‹‹E per quale motivo?››.
Storco appena le labbra, quando d’improvviso una voce sottile subentra in aula come a volersi incorporare alle pareti. ‹‹Niall ha un’altra››.
È stata Birdy a rispondere alla domanda che Cher mi aveva posto, e ha il volto scavato da una inesorabile tristezza dovuta ai ricordi di ieri sera che le percuotono la testa.  
‹‹Ma, B, non è v-››.
‹‹Tu non sai niente, Maria. E, comunque, non ti avevo mica chiesto di spifferare questa storia ai quattro venti››, Mi interrompe una Birdy dal tono di voce fioco.
‹‹Cher non è “i quattro venti”››, cerco di giustificarmi, gesticolando e abbassando lo sguardo al fine di defilarmi da quella circostanza pressoché strana.
‹‹B, Maria non-››.
‹‹Cher, smettila anche tu, per favore! Smettetela tutte quante e lasciatemi in pace››, strepita lei lasciando erompere una lacrima a ridosso della gota sinistra e uscendo dalla classe in modo alquanto svelto, come avesse le ali al posto dei piedi.
Simultaneamente, l’aula si riempie con gli echi delle mie compagne, e il suono stridulo della campanella ci ricorda che una nuova giornata di scuola è appena cominciata. Tuttavia, la professoressa di chimica non è ancora entrata, quindi esco dalla stanza colma e mi metto alla ricerca della mia migliore amica col cuore spezzato.
Mi incammino lungo il corridoio, sfregando i palmi delle mani sulle braccia coperte da una giacca in lana blu, e, finalmente, ritrovo Birdy poggiata al termosifone posto accanto ai distributori automatici.
‹‹B››, mormoro appena. ‹‹Fa freddo oggi. Mi faresti posto accanto a te?››, aggiungo, con la speranza di recuperare un cenno dal suo viso spento.
‹‹Come è andata con Harry?››, irrompe improvvisamente lei, sorridendo a malapena e permettendomi, dunque, di posare al suo fianco.
‹‹Non è importante, adesso››, rispondo tranquilla, mentre gli occhi della mia migliore amica si riempiono di lacrime e i miei di comprensione.
‹‹Voi due, cosa ci fate ancora in giro? Andate in classe!››, ci urla la vicepreside Rey con un tono misto di rabbia e stizza.
‹‹Andiamo subito. Ci scusi››, pronuncio flebilmente, lanciando un sorriso di intendimento a una B più serena di prima e inoltrandomi all’interno della mia aula, nella quale la rigorosa professoressa Borrows sta già spiegando i vari legami atomici che io non riesco proprio a comprendere.
‹‹Beatrice, stai male?››, domanda la donna - alta un metro e una mela forse -, preoccupata nei riguardi di B poiché, nonostante tutto, è una delle poche insegnanti di buon cuore che io abbia mai avuto.
‹‹No, va tutto bene, professoressa››, dice la mia amica, sedendosi cautamente al suo posto e io al mio con altrettanta calma.
Cher, simultaneamente, mi invia uno sguardo malinconico e io faccio spallucce, dunque rivolgo la mia attenzione verso B che è intenta a scrivere qualcosa sulla superficie chiara del mio banco, con la matita spezzata che si ritrova tra le dita della mano destra.
“Niall mi ha respinta perché sono una parte di passato che non vuole ricordare”, prende la gomma e, dopo essersi accertata che io abbia letto, cancella quella frase e ne scrive un’altra.
“È parecchio difficile dirlo a parole perché io sono davvero innamorata di lui, e perché non è giusto rovinare i tuoi bei momenti con i miei”.
Estraggo dal mio portapenne grigio a righe nere una lapis ben appuntita, pertanto tento di dare una risposta plausibile alla confessione tanto attesa che B pensava di dovermi.
“Se sei la mia migliore amica è perché non devi mai temere di cercare il mio aiuto. Sono sicura che Niall tornerà”.
B cancella con la gomma le mie parole scritte in maniera alquanto disordinata, poi conclude.
“Se tornasse, io lo rifiuterei”.
 
Sfilo le scarpe dai piedi senza slegare i lacci e mi getto a peso morto sulla dondola che mio padre ha sistemato in veranda, massaggiandomi con le dita delle mani le tempie che pulsano per via della pesante giornata di scuola appena trascorsa.
‹‹Maria››, urla qualcuno con il tono di voce abbastanza familiare al di sotto. ‹‹Maria››.
Sobbalzo dalla mia posizione e mi affaccio dal terrazzino. ‹‹Harry?››.
Il ragazzo dagli occhi verdi Parigi risiede dinnanzi il retro di casa mia e indossa un giubbotto di pelle nero che gli dona parecchio. I suoi ricci sono mossi da una fredda folata che proviene dal mare - dacché casa mia è situata proprio dietro la spiaggia - e le sue labbra rosate sono storte in un solito ghigno involontario.
‹‹Cosa ci fai qui, a quest’ora?››, aggiungo, portandomi una mano al petto.
‹‹Volevo vederti››, confessa lui arrossendo.
‹‹Beh, mi hai vista››, scherzo, lanciandogli un’occhiata maliziosa dall’alto.
‹‹C’è qualcuno a casa tua? Qualcuno che possa sentire quello che dirò?››, mi domanda sorridendo in modo alquanto veemente. Io scuoto il capo in segno di negazione, con la stessa espressione divertita in volto.
‹‹Sono qui perché avevo voglia di baciarti››, dice tutto ad un fiato, facendomi avvampare in volto come mai prima era accaduto. ‹‹Passeresti del tempo con me?››.
Mi mordo il labbro inferiore. ‹‹Ora?››.
‹‹Proprio ora, Marie››, risponde, aprendo entrambe le braccia in senso di accoglienza.
‹‹Aspetta giù››, dico, per poi avanzare sino al bagno e darmi una sistemata veloce: lavando i denti, pettinando i capelli vaporosi e staccando i residui di trucco che mi marciavano sulle occhiaie.
Rimetto le scarpe e la giacca in lana blu che poco prima avevo tolto, dunque mi precipito all’ingresso ed esco da casa con impazienza e frenesia.
Harry mi aspetta seduto sullo scalino che conduce all’appartamento del signor Olsen - il mio vicino di casa - e, non appena scorge la mia figura, dischiude le labbra in una smorfia felice. Pertanto si alza e si avvicina a una me parzialmente imbarazzata.
‹‹Maria››, accarezza il mio nome con la voce roca, accoccolando la sua mano desta a ridosso della mia guancia sinistra e accostando il suo volto al mio in maniera impercettibile.
‹‹Har-››, vengo interrotta da un bacio fugace, ma incantevole e delicato, che mi lascia sulla bocca con fare quasi disperato, intanto che il suo respiro s’intreccia al mio e i suoi capelli mi sfiorano a stento il naso.
‹‹Vieni con me››, mi sussurra a fior di labbra, portandosi avanti mediante la mano sinistra che è poggiata sulla mia schiena e permettendo, quindi, al suo bacino di sfiorare il mio.
Io sciolgo quel contatto e annuisco timidamente, posando la mia fronte sulle sue labbra bagnate in precedenza dalle mie.
‹‹Oggi non eri alla fermata››, bisbiglia lui, circondandomi la vita con il prominente braccio sinistro, mentre io m’incupisco, pensierosa.
‹‹Vuoi dire che eri alla fermata, stamattina?››, domando sorpresa e camminando a passi soffusi, intanto che lui annuisce con fare naturale. ‹‹Sei folle››
‹‹E per quale motivo?››, replica, sistemandosi il foulard bianco che utilizza per tenere fermo il ciuffo con la mano destra. ‹‹Sarei disposto a svegliarmi presto tutte le mattine, pur di vederti con gli occhi gonfi a causa del sonno››.
Faccio la linguaccia di proposito, al fine di indispettirlo. ‹‹Ripeto: sei folle. Non voglio che tu lo faccia, davvero››, dico, portandomi le braccia al petto.
‹‹Perché no?››, mi chiede lui con una nota di dispiacere, mentre le sue dita mi comprimono in modo lieve il fianco sinistro.
‹‹Perché devi dormire e riposare, e perché sono inguardabile la mattina››, rispondo, sorridendo e mostrando la fossetta sinistra che mi impreziosisce, anche se di poco, il volto.
‹‹Ci siamo conosciuti alla fermata d’autobus, Marie. So già che aspetto hai a quell’ora del giorno››, mi sussurra lievemente a un orecchio.
‹‹E come sarei?››, mi volto verso di lui, facendo sfiorare la punta del mio naso con la sua, per via della vicinanza che ci accosta. 
‹‹Bellissima››, mormora tanto piano da non far sembrare quella parola realmente detta, e lasciandomi un bacio veloce alle estremità delle labbra.
Il mio viso sorbisce una tonalità imbrunita e, pertanto, dire che sono nervosa, o imbarazzata, o felice è un eufemismo: dal momento che Harry mi rende malleabile in tutto e per tutto, anche solo con l’utilizzo di una parola banale.
‹‹Non essere sciocco››, dico infine, accarezzandogli una guancia, mentre i nostri occhi colorati di pace s’incontrano e s’intrecciano in un gioco a cui mai vorrò smettere di partecipare.
Mi stringo a lui in un abbraccio affettuoso, e vengo ricambiata da un sottile bacio sulla nuca.
‹‹Togliti le scarpe››.
‹‹Che cosa?››.
‹‹Non hai ancora capito dove volevo portarti?››.
‹‹No››.
Harry indica la spiaggia con l’indice destro, e io allargo le labbra, stupefatta.
‹‹Ma fa freddo››.
‹‹Non dobbiamo mica tuffarci in acqua››, replica, scuotendo il capo. ‹‹Voglio fare una passeggiata con te dove il mondo non può interromperci››.
I miei pensieri si riempiono di tenerezza, e sorrido in modo alquanto scontato perché le sue parole sono così soffici e ingenue e colme di sentimento.
‹‹Non ho intenzione di togliere le scarpe››, spiego maliziosa, per poi cominciare a correre verso la spiaggia di Wells con fare spensierato.
Harry m’insegue e mi afferra per le anche, quasi immediatamente. ‹‹Ma cosa avevi in mente di fare? Sei sempre stata una tartaruga››, strepita in una risata coinvolgente, mentre io mi irrigidisco, tutto ad un tratto.
‹‹Sono sempre stata una tartaruga?››, ripeto, confusa.
Il ragazzo dagli occhi verde Parigi diventa all’improvviso serio, e il ghigno che aveva sul viso si storce in un’espressione rigida, e io non ne capisco il motivo.
‹‹Nel senso che sei troppo bassa e io troppo alto, e, di conseguenza, i tuoi passi sono molto più piccoli dei miei››, risponde in modo nervoso, accarezzandosi il capo con la mano. Io, da parte mia, sorrido e annuisco.
‹‹E quindi sono troppo bassa››, constato, fingendomi offesa. ‹‹Ogni ragazzo alto ha una ragazza bassa che lo fai impazzire››.
‹‹Tu saresti la mia?››, mi domanda, attorniandomi la vita con le mani e lasciandomi un bacio soave e delicato sulla fronte.
‹‹No››, mi allontano, sorridendo. ‹‹Sono la ragazza bassa di Zayn Malik››, aggiungo, riprendendo a correre lungo la spiaggia e permettendo alle mie braccia di librare attraverso l’aria torbida con la stessa leggiadra che una rondine adopera al fine di spiccare il volo. Tuttavia, Harry mi attira ancora una volta a sé e, con fare immediato, mi scosta i capelli dietro le spalle e mi lascia un morso morbido sull’incavo del collo nudo.
Io sussulto, mi volto e piego il capo all’indietro, come a volergli concedere l’opportunità di giocare con la mia pelle tersa. Chiudo gli occhi, ma li riapro e lascio loro incontrare l’azzurro del cielo che s’infrange contro il bianco delle nubi.
Riprendo coscienza delle mie azioni e, aiutandomi con entrambe le mani, sposto il viso di Harry dal mio collo alle mie labbra, come per elargire l’opportunità di baciarmi, dal momento che lo desidero disperatamente. 

 
 

 


Angolo autrice
Salve, care lettrici, come state? Io sto benissimo e il merito di ciò va alle vacanze estive, all'aria condizionata e all'otto e mezzo che ho preso in chimica - ancora non ci credo - per concludere l'anno scolastico.
Mi piace pensare al fatto che 'Maria' sia nata all'inizio di questo mio terzo anno di liceo e che, ciononstante,  ora la scuola è terminata, ma la storia è ancora in mezzo a una strada. 
Sapete, sono ispirata da qualcosa di nuovo e se dovessi pubblicare una storia nuova - ma penso non lo farò a breve - cercherò di non rallentare l'andamento degli aggiornamenti. Purtroppo, questa settimana darò l'esame per la certificazione 'first' e da lunedì prossimo comincerò a lavorare nel panificio dei miei; senza contare che poi andrò a Milano per il concerto degli One Direction e quindi penso che comincerò a scrivere il nuovo capitolo solo a Luglio.
Vi siete sorbite questo mio luuuuungo angolo autrice, pardon! 
Non mi soffermerò a parlare delle recensioni dato che uno dei capitoli più belli della storia è stato calcolato solo da 6 persone :( però, insomma, se siete arrivate fino a qui, perché non lasciate un parere? 
Un bacio, vostra Sleep <3

 

Ritorna all'indice


Capitolo 14
*** Capitolo 13 - Passerotto rosso ***



 

Capitolo 13 - Passerotto Rosso
 

Harry siede sulla sabbia impastata e guarda in direzione del mare, come a volersi per un attimo incorporare all’immensità che esso divulga. Simultaneamente, io sono in piedi accanto a lui e mi stringo nel mio parka blu, per via delle folate gelide che mi provocano pelle d’oca e tremori involontari.
‹‹Sono un disastro di persona, non è vero?›› domanda di punto in bianco un Harry dal volto ovattato e terso.
‹‹Sì, è vero. Ma lo sono anch’io, forse più di te››, rispondo, prendendo posto accanto a lui e poggiando la mia nuca sulla sua spalla destra.
‹‹Non posso negarlo, questo››, replica circondandomi con il suo braccio possente e cingendomi, dunque, in una stretta incantevole e dolce. ‹‹Devo dirti una cosa››.
‹‹Dimmi pure››, bisbiglio al suo orecchio con fare soffuso. Lui si ritrae di poco per via della scossa provocatagli e si volta verso me, mentre i suoi riccioli s’immedesimano in movimenti naturali dovuti al vento, e i suoi occhi verdi Parigi si colorano d’affetto.
‹‹Vuoi fare un bagno?››, domanda posandomi delicatamente lo sguardo divertito sulle labbra.
‹‹Tu sei pazzo, folle››, mi correggo scuotendo il capo. ‹‹Perdutamente folle››.
‹‹Lo sai da sempre che sono strano››, sussurra sorridendo, mentre il suo volto, che io conosco a memoria come una poesia, si dipinge giocosamente di felicità
‹‹Mi piaci perché lo sei e perché sei diverso››, continuo, alzandomi da terra. ‹‹Diverso in senso buono››.
Tolgo il parka e lo getto sulla sabbia, pertanto sfilo le scarpe e le calze dai piedi e, infine, il cellulare dalla tasca anteriore dei jeans che indosso. ‹‹Allora… vuoi farlo o no, questo bagno?››.
Lo sguardo di Harry s’illumina. ‹‹Non dicevo sul serio, Marie! Se lo facessimo, ci sarebbe l’alta probabilità di entrare in uno stato di ibernazione››.
Mi mordo le labbra e sorrido con fare malizioso, quindi mi volto e comincio a correre verso il mare, sul quale mi imbatto in maniera violenta. ‹‹Codardo!››, urlo, per poi toccare con la punta del pollice del piede sinistro l’acqua ghiacciata.
‹‹Har-››.
Harry m’interrompe, prendendomi per la pancia con il solo braccio destro e sollevandomi da terra. Io, di conseguenza, rido e grido e allargo le braccia con il medesimo fare di un passerotto rosso; lui mi fa roteare su sé stesso, ma poi scivola, cade in acqua e io mi appoggio sulle sue costole fredde e bagnate.
Lo abbraccio e appoggio la nuca sul suo petto al fine di percepire i battiti di un cuore divenire rapidi e svelti: simili ai tuoni che padroneggiano nel cielo durante le giornate più tetre dell’anno. Gli lascio un bacio senza pensarci su troppo, e lui mi stringe talmente forte che neanche l’acqua riesce a trapelare in mezzo ai nostri corpi sigillati.
Comunque, ritorniamo sulla sabbia congelati e con le labbra violacee; ridiamo come non ci fosse un domani e tremiamo perché, in fondo, oggi è una giornata davvero pesante.
Io mi rimetto la giacca e Harry si rimette la sua. Poi i nostri occhi s’incontrano così come le nostre bocche.
 
‹‹Sono così felice che mi sento in colpa››, mormoro, mentre m’imbocco con un cucchiaino di gelato all’amarena, e mi specchio al di sopra del tavolino in vetro della caffetteria presso io e Harry soggiorniamo al momento. Osservo bene i nostri capelli, ai quali sono appesi sottili granelli di sabbia e gocce d’acqua aride. I miei, poi, sono in particolar modo crespi in superficie. ‹‹Per Birdy, intendo››.
Harry corruccia la fronte e beve un sorso di birra direttamente dalla bottiglia, dunque aspira per via della sensazione secca e frizzante che gli lascia la bibita sulla lingua e punta il suo sguardo sul mio. ‹‹Niall è un cretino di ragazzo. Non che io lo conosca bene, anzi, a dir la verità ci avrò scambiato solo due o tre saluti in qualche festa››, respira in un attimo, poi continua. ‹‹Ha avuto parecchie ragazze, ma non ha mai fatto niente di…››.
Arrossisco e abbasso lo sguardo in direzione della coppa di gelato dinnanzi a me. ‹‹Non ha mai fatto… quella cosa lì?››.
Harry annuisce in modo impacciato e beve un altro sorso di birra, perciò io mi incuriosisco e persevero. ‹‹Mi hai appena detto di non conoscerlo: come fai a saperlo?››.
‹‹So che non ha mai fatto sesso, ma non ne conosco il motivo››, replica in maniera spinta, toccandosi la bocca con le dita. ‹‹Devo ancora focalizzarlo bene››.
Socchiudo gli occhi e annuisco. ‹‹Tu studi le persone››.
Il ragazzo dai riccioli bronzo termina la birra e si passa la lingua sul labbro superiore, poi mi prende la mano - occupata dal cucchiaino di plastica arancione che lascio deliberatamente cadere - e la congiunge con entrambe le sue. ‹‹Allora mettiamola così: sei il mio libro preferito, Marie››, si avvicina al mio volto e mi bacia la guancia in modo tenero e tenue, quasi come se fosse la prima volta. Io, dal canto mio, abbasso lo sguardo e stringo i denti per trattenere l’imbarazzo. ‹‹Sei come la raccolta di Eugene Atget che ti ho mostrato tempo fa: ogni sua fotografia merita d’essere studiata, così come ogni pagina, o parte, di te merita di essere contemplata››.
Gli occhi verde Parigi mi accarezzano il viso con la delicatezza che una piuma riserva al terreno quando scivola giù; al contempo, le sue goti si colorano di rosa e da ciò capisco quanto sia imbarazzato, in questo momento, il ragazzo che ha intrecciato il suo cuore al mio.
‹‹Mi chiedo come sia possibile che questa cosa sia capitata proprio a me››, mi correggo, scuotendo la nuca e sorridendo a mezz’aria. ‹‹Come sia possibile che tu sia capitato a me››.
È una delle domande che mi picchia in testa da quando Harry mi ha parlato per la prima volta in assoluto. Attualmente, non ho una risposta e mi sento tanto dubbiosa e incerta e spaventata; perché, si sa, la felicità sfiora spesso le persone, come i refoli di vento che scompigliano i capelli e che fanno venire il raffreddore, ma si protrae per poco tempo e tende a dissolversi con la stessa velocità con cui la primavera cede il suo posto all’estate, e l’autunno all’inverno.
Gli occhi verdi di Harry sono cupi, dunque mi interrogo su cosa stia pensando esattamente il mio ragazzo o, meglio, cosa lo stia turbando.
Quello che ho imparato dallo stare insieme a lui è che l’umore di chiunque è suscettibile e bipolare: un giorno stai bene, un giorno stai male. E la cosa peggiore è che nessuno è artefice di ciò che prova o pensa: sta alla mente decidere le mosse da fare, le azioni da perseverare, le nozioni da dire e i sentimenti da percepire.
Harry è agonizzante e il verde immacolato dei suoi occhi ha lasciato posto ad una variazione acquamarina a cui non avevo mai prestato attenzione. ‹‹Mi piacciono i tuoi occhi››.
 
Avanzo di qualche passo un Harry che sembra preso dal sole pomeridiano che riscalda il mare di Wells in inverno. Lo osservo con fare cauto, al fine di non tediare i suoi pensieri: di volta in volta, si tocca le labbra con le dita e socchiude gli occhi in cipigli tersi. ‹‹Vuoi fotografare la città?››, gli domando spontaneamente.
Lui si volta verso di me con un sorriso amaro a metà. ‹‹Anni fa ho venduto la mia macchina fotografica››.
‹‹Ah››, sussurro appena, mentre una morsa s’impadronisce del mio cuore. ‹‹Posso sapere come mai lo hai fatto?››.
‹‹È stata mia madre a venderla, in realtà. Non riuscii a guardarla in faccia per giorni, dopo quel gesto››, replica, soffermandosi a rimirare l’oceano, intanto che uno strato di tepore aranciato gli irradia il volto macchiato di perfezioni, e gli uccelli librano in aria con l’intento di cercare riparo tra i rami degli alberi spogli. ‹‹Me l’aveva regalata mio padre: era d’epoca e funzionava benissimo››.
A volte penso che il silenzio sia fondamentale, perché guarisce le ferite più profonde, oppure le calca ancora di più. Ed Harry non ha bisogno di belle parole sussurrate all’orecchio.
Gli sfioro la gota destra mediante il dorso della mano, quindi con l’altra porto il suo capo sull’incavo della mia spalla.
‹‹So che ci vorrà un po’ di tempo, ma devo ammettere che mi ha attraversato la mente il pensiero che questo potrebbe andare come dovrebbe››, continua, attirandomi al suo ventre con le braccia. ‹‹Potrebbe essere l’inizio di qualcosa di buono››.
‹‹Cosa, Harry?››, gli chiedo flebilmente, puntando i miei occhi scuri sui suoi.
‹‹Dirò quello che ho bisogno di dire, Marie››, prende un respiro fugace, e ne esala un altro che s’intreccia ai fili dei miei capelli ancora umidi. ‹‹Ti innamorerai di me››.
 
 
Argini Rosa
 
Son dipinte di rosa e delineate,
sulle quali si posano parole mai pronunciate.
Morbidi argini su cui è concesso far riposare
le labbra altrui, al fine di accontentare
il sapore e la coscienza
che si celano nel sangue di mia appartenenza.
 
Imitano le veemenze d’un cuore dipinto
su un volto oramai inesorabilmente variopinto.
Han quella forma morbida e giocosa
che si plasma alla mia: tenue e deliziosa.
Sponde d’aiuto per le anime sole,
soffiano un respiro senza esalare parole.

 
 
Poso la biro nera sul letto, accanto al quadernetto su cui ho deliberatamente scribacchiato qualcosa che dovrebbe avere l’aspetto di una macabra poesia. Quindi, mi reco dinnanzi l’unica finestra che spazieggia in camera mia e la apro con naturalezza, sebbene faccia freddo e non stia poi meravigliosamente.
Starnutisco, infatti, ogni due o tre minuti, e sono coperta mediante un lenzuolo in lana soffice, perché ho riscontrato la febbre a trentotto dopo esser rincasata.
Poggio i gomiti sul davanzale e, pertanto, il viso sui palmi lisci.
Il mio sguardo corvino si posa sulle costellazioni visibili a Wells in inverno, le quali sono incantevolmente svariate e luminose: trapunte tra le nuvole grigie e il manto blu notte che il firmamento conserva.
Il Pegaso, per esempio, domina i quattro punti cardinali con una maestosa imminenza, esponendosi durante i giorni più freddi di Gennaio; l’Acquario, dal canto suo, soccombe nel cielo del Norwich verso Febbraio e, infine, lo Scorpione si denuda solo quando il venticello primaverile cancella la neve d’inverno.
Tuttavia, quella che più amo contemplare e analizzare, in estate però, è la costellazione del Cigno: probabilmente per la libertà che esala al mio animo, o per il modo con cui la mia mente dipinge un volatile formato di stelle e astri che s’incammina lungo le strade infinite della Via Lattea, mostrandosi impercettibilmente all’emisfero boreale.
E mi perdo nell’osservare le comete bianche legate tra loro, come corpi umani che si cercano per dare forma a qualcosa di bello. Una stella sola, o cadente, è una stella e basta. Una stella accorpata a mille altri esemplari simili è una costellazione: è parte di qualcosa.
 
 
Da: Maria
A: Harry
Inviato alle 00,29
“Ti ho già detto che voglio vedere l’aurora boreale, no?”
 
Da: Harry
A: Maria
Inviato alle 00,31
“Cos’è che ti piace dell’aurora boreale, Marie?”
 
‹‹Har, non posso parlare al telefono ora: stanno tutti dormendo››, sussurro piano.
‹‹Volevo sentirti››.
‹‹Sto guardando le stelle. Lo faccio ogni volta che è possibile››.
‹‹E cosa provi ogni volta che le guardi?››, il tono di Harry è impastato e più roco del normale.
‹‹Ritrovo me stessa››. Mi mordo il labbro inferiore involontariamente e tiro su con il naso per via del raffeddore.
‹‹Stai male?››, domanda lui prima che possa farlo io.
‹‹Febbre. Tu? La tua voce ha qualche nota di stranezza››.
‹‹Febbre anche io››, ride, tossendo piano piano.
‹‹È colpa tua se ci siamo ammalati insieme››.
‹‹È colpa tua se hai preso le mie parole sul serio››.
Sorrido amorevolmente. ‹‹Buonanotte, Harry››.
‹‹Buonanotte››.
Poggio il telefono sul davanzale e porgo un’altra occhiata al cielo. ‹‹Ti amo, ragazzo dagli occhi Parigi››.
 


 
 

 


Angolo autrice
Perdono, ragazze mie!
Ho tardato maledettamente troppo per pubblicare questo capitolo che non supera nemmeno le duemila parole - contando persino quella che dovrebbe essere la poesia/il mio suicidio perché io NON SO scrivere poesie -.
E' molto molto di passaggio, ed è scritto parecchio male per vari motivi che non sto qui a spiegare ahahahah sono complicata, io.
Comunque... perdonate se non ho aggiornato prima, ma sono stata troppo impegnata (Quando mai io?!?). Lavoro al panificio dei miei mattina e pomeriggio, tranne che nel weekend, che è l'unico periodo in cui posso scrivere/leggere/guardare film. 
Sono molto delusa per quanto riguarda le recensioni che da 16 son passate a 4, ma okay ahah me ne farò una ragione. 
Grazie per l'attenzione, e spero di poter leggere i vostri pareri riguardo questa poltiglia!

Un bacio, Linda. 

 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=2217847