I'm beginning to think I imagined you all along.

di _InvisibleTouch
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Dance Little Liar. ***
Capitolo 2: *** Second. ***



Capitolo 1
*** Dance Little Liar. ***


 
07.12.13
 
Era strana.
Ma in modo strano e diverso da tutte le altre persone strane.
Era strana al quadrato.

‘Angie, Angie. Perché hai quella faccia? Hai il sorriso triste che avevi un anno fa.’

La paura, quando parlavo con lei.
La paura che il suo sguardo mi gelasse per l’ennesima volta.
Fingeva, sempre. Doveva.
Quando la chiamavi si girava e ti puntava addosso quegli occhi verdissimi, fonte di luce (brillavano, per davvero) e ci leggevi terrore, insicurezza, rabbia, che nascondeva un secondo dopo, facendo finta d’esser contenta che tu l’avessi disturbata, distratta da qualche inusuale pensiero.
Nella sua testa mi sarei persa di sicuro.

Ci misi due anni prima di riuscire a farle quella domanda.
Ero abituata alla sua presenza in classe, alla sua voce, alla sua risata che sembrava vera, ma in realtà non lo era, ma non le avevo mai rivolto la parola.
Quel giorno era seduta sul marciapiede.
Camicia azzurra, canotta blu e jeans dello stesso colore.
Era sempre vestita benissimo.
Si girò senza espressione. Come se quella fosse la domanda più normale del mondo.
Se qualcuno l’avesse fatta a me mi sarei stupita almeno un po’. Per questo ci rimasi male: me l’ero preparata, volevo vederla spiazzata.
‘Peccato’ pensai.
Aveva le cuffie nelle orecchie e riaccese la musica quando tornò a guardare la strada. Vicino a lei il suo zaino rosso con una frase scritta in nero. L’altamarea ci porterà via, credimi.
Nelle cuffie gli Arctic Monkeys. Ne ero sicura. Era fissata con le sue scimmiette artiche. Le chiamava così.
Aveva appeso una foto di Alex Turner vicino alla lavagna.

Era stranamente strana perché di solito le persone strane non vengono accettate.
Lei sì però.
Forse perché non sapeva di esser strana.
O lo sapeva, ma non ci faceva caso.
O era strana senza esser cupa.
No, era molto cupa. Lo ripeteva sempre.
‘Ho un lato oscuro molto pronunciato.’
Ma a quanto pare andava bene così.

Mi sedetti vicino a lei e si girò, togliendosi una cuffia dalle orecchie a sventola su cui aveva di tutto: da una parte un dilatatore, uno di quelli neri col buco. Penso 0.7, l’aveva detto a qualcuno che gliel’aveva chiesto. Sull’altro una perla bianca e una piccola argentata e a metà orecchio qualcosa di luccicante. Dava importanza ai dettagli: sul polso destro aveva dei braccialetti, sempre tutti nello stesso punto. L’unica cosa non fissa era l’orecchino al naso, ma solo perché lo perdeva sotto la doccia. La trovavo armonica. Tutto programmato e perfetto. Anche il tatuaggio che aveva sul petto. Una scritta: And she’s buying the stairway to heaven. Eran tre mesi che doveva farsi dei fiori azzurri sul braccio, ma ancora non si era decisa.

‘Sei impassibile.’ dissi, e sorrise.
‘Non far capire alle persone come ti senti, mai. Poi ci giocano con i tuoi sentimenti.’
‘Ci giocano lo stesso.’
‘Sbagli.’
‘Perché?’
‘Devi sapere con cosa stai giocando.’
si era incupita.
‘Hai ragione. Ti sto disturbando?’
‘Sì, ma non è colpa tua.’
‘In che senso non è colpa mia?’
‘Mi stai disturbando, ma non per quello che mi dici. E' colpa degli Arctic Monkeys che son più importanti di te e quindi voglio ascoltar loro piuttosto della tua voce. Se non avessi le cuffie mi farebbe piacere discutere con te.’
lo sapevo che c’entravano quelle stupide scimmie.
‘Vorrei parlare con te.’
‘Okay. Non oggi.’
non mi chiese di cosa.
‘Domani?’
‘Domani. Mi troverai qui.’
‘Perché ti siedi qui e aspetti? Cos’è che aspetti?’
‘Il pullman.’
‘Ah.’
mi aspettavo una risposta più poetica. ‘E quanto aspetti?
Un’ora.
‘Domani parleremo un’ora, allora.’
‘Sì. Devo andare.’

Si alzò e prese lo zaino in spalle.
Sul pullman si sedette dietro, ma non troppo.
Di che cosa volevo parlarle non lo sapevo nemmeno io. Ma stava peggio del solito.
Stava ascoltando Dance Little Liar.
Le spiai il cellulare, o meglio: si fece spiare il cellulare. Sapeva che a casa l’avrei ascoltata. Voleva che l’ascoltassi.

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Capitolo 2
*** Second. ***


08.12.13
Mi piaceva tantissimo il suo giubbotto: era lungo, ma non troppo, e largo, di un colore verde scuro.
Non credevo m’avrebbe salutata in classe, e in un certo senso non lo fece, mi chiese solo una specie di conferma.
‘Ti è piaciuta la canzone?’
‘Sì.’
mentii, poi lei si girò. Eravamo sole in classe, il suo pullman arrivava sempre prima degli altri.
Ti ricordi che oggi dobbiamo parlare?
Certo.
Dove hai preso il tuo maglioncino nero?’ saltavo da un argomento all’altro. Stavo diventando anche io strana?
‘Camaieu.’
‘Grazie.’


Secondo me non era poi così vero che se lo ricordava, ma capire se mentiva o meno era impossibile.
Mi chiedevo cosa faceva a casa, per passare il tempo, e di cosa parlava con le persone che frequentava.
Da quel che sapevo non aveva mai avuto una relazione con un ragazzo, tranne che in prima, ma era diversa: aveva i capelli lunghi e si teneva male. Cambiò tutto in un mese, le bastò il tempo delle vacanze natalizie. Non capii mai perché tardò così tanto, ma ci riuscì e fu ammirevole.
Ci rimase male quando si lasciarono e non ebbe più nessuno, non ci provò nemmeno, ma era ovvio il fatto che cercava qualcuno proprio come lei. Non sarebbe stato facile.
A volte pensavo ‘Chissà come sarà il suo prossimo ragazzo.’
Per stare con lei di sicuro qualcuno che val la pena di conoscere. Odiava perdere tempo.

Mi deluse quando uscì dalla stanza senza aspettarmi. Dovevamo parlare. Sapevo che se n’era dimenticata, dovevo rimproverarla per questo, per questo la seguii.
‘Avevi detto che mi avresti aspettata.’
Aveva le cuffie nelle orecchie, cominciavo a non sopportarle, come lei probabilmente cominciava a non sopportare me, che stavo diventando ossessiva nei suoi confronti.
Le toccai la spalla e lei sobbalzò, girandosi. Ma quando vide che ero io sembrava quasi sollevata.
‘Ciao.’ disse tranquilla.
‘Avevi detto che mi avresti aspettata.’
‘Quando?’
‘L’hai detto tu: che avremmo parlato. Hai detto che te ne ricordavi.’
‘Ti ho detto che mi avresti trovata là.’
‘Hai ragione. Scusa. Cosa stai ascoltando?’
‘Crying lightning.’
‘Le scimmie?’
‘Sì.’
‘Perché ti piacciono così tanto?’
‘Non so risponderti.’


Non disse nulla per tutto il tragitto e quando si sedette guardò prima il suo zaino, poi la strada.
‘Pensavo di farmi crescere i capelli, appena sotto le spalle.’ aveva iniziato lei il discorso, fu strano, pensavo sarebbe rimasta zitta fino alle due.
Non ce la farai mai.’
‘Hai ragione. Ma devo vincere una scommessa.

Non mi sembri la persona che perde volentieri.
Infatti.
‘Come stai?’

Bene.’
‘Meno male.’
’Già. Non ho capito bene cosa vuoi da me: speri che io ti dica che sei diversa da tutte le altre persone che ho conosciuto? Per questo ti comporti in modo ossessivo e ti prepari le cose da chiedermi a casa?’
‘Non mi preparo le cose da chiederti a casa. L’ho fatto una volta sola, quando ti ho chiesto perché avevi il broncio.’
‘Quella frase non aveva senso, rivolta a me.’
‘Hai ragione, ma volevo far colpo.’


Non mi guardava in faccia, non lo faceva mai con nessuno, e non si lasciava toccare da chi non conosceva bene. Secondo me aveva bisogno d’abituarsi alle persone, piano piano, passo dopo passo. Iniziava con una stretta di mano e dopo vari livelli si lasciava abbracciare. E’ una cosa che notai quando in prima me la presentarono: non mi aveva detto nemmeno ‘piacere’, era rimasta zitta mentre le dita giacevano molli tra le mie che, invece, si stringevano a pugno sulla sua mano. Aveva delle dita lunghissime e le unghie sempre colorate con smalti che non c’entravano nulla col resto dell’abbigliamento.

E comunque, scusa se ti sto addosso.’ mezz’ora dopo.
‘Se non è tua intenzione non è un problema.’
‘Non è mia intenzione.’
‘Allora non è un problema.’
‘Abbiamo perso tempo, oggi, tra un po’ te ne devi andare e non abbiamo parlato di nulla.’
‘Ma abbiamo chiarito un punto fondamentale. Da domani potremo parlare davvero.’
‘Che non ti sto addosso intenzionalmente?’
‘No, che sai stare in silenzio per più di cinque minuti. Credimi: non è da tutti.’
‘Hai ragione. Devi andare. Cosa devo ascoltare oggi?’

Do I wanna know.
‘Ah, mentivo: la canzone di ieri non mi è piaciuta.’
‘Lo sapevo, ma sono contenta che tu l’abbia ascoltata.’


Era seduta allo stesso posto del giorno prima e sapevo che si sarebbe messa lì anche il giorno dopo e quello dopo ancora.
A casa pensai molto alle canzoni che mi proponeva: forse me le dava con un ordine preciso, ma sentivo che invece erano completamente dettate a casaccio, però le scrivevo su un foglio che avevo appeso vicino al letto, una sotto l’altra, in ordine. Ascoltai anche Crying Lightning. Non mi piacevano, ma le ascoltavo lo stesso perché me lo diceva lei. Stavo entrando in una specie di venerazione e, anche se non capivo bene come se l’era guadagnato, sapevo che ne aveva diritto.
Speravo mi raccontasse tutto. Volevo sentirla parlare. Però, volevo sentirla anche dare consigli.
‘Credo sia una delle persone con le orecchie più pazienti del mondo.’ aveva detto una volta qualcuna, in classe, che si era confidata con lei.
Speravo che un giorno dicesse ‘Parlo con quella ragazza alla fermata.’
Ma sembrava così menefreghista delle cose, delle persone, della realtà.

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