Glaukopis di Sophie Isabella Nikolaevna (/viewuser.php?uid=112900)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1 ***
Capitolo 2: *** 2 ***
Capitolo 3: *** 3 ***
Capitolo 4: *** 4 ***
Capitolo 5: *** 5 ***
Capitolo 1 *** 1 ***
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GLAUKOPIS
CAPITOLO 1
Sono
passati anni, tanti
anni, dall'ultima volta in cui ho messo piede in questo luogo. Tanti
anni, ma non abbastanza da farmi dimenticare di quello che è
successo.
La piana è deserta, tutto ciò che i miei piedi
calpestano
è terra chiara mista a sabbia ocra. Il vento fa volare la
polvere tutto intorno a me e mi scompiglia i capelli, che la mia
complicata acconciatura non riesce a trattenere. Briciole di pulviscolo
mi entrano negli occhi, facendoli lacrimare. O forse sto
piangendo veramente, non è colpa del vento.
Alla mia sinistra si estende il
mare, una distesa del
blu più vero che abbia mai visto. E' un pozzo profondo, una
coperta finemente tessuta, un cielo notturno sceso in terra per
riposare.
Alla mia destra, invece, le rovine. I resti delle mura, squarciate un
po' dal tempo e un po' da quella guerra tanto lontana, e oltre le mura,
macerie di abitazioni ancora annerite. Lo scheletro del Cavallo,
invece, non c'è più. Deve essersi distrutto con
lo
scorrere degli anni, con le piogge e con i fulmini di mio padre.
Mio padre. Mi guardo intorno preoccupata. Non c'è nessuno,
ma so
che lui sa che mi trovo qui. Come potrebbe non saperlo? Oltre ad essere
il più potente degli dei, è anche mio padre. Sa
di sicuro
delle lacrime che, ancora una volta dopo tanti anni, mi solcano le
guance.
In me non è cambiato nulla da allora. Sono rimasta la
stessa.
Sono una dea, e gli dei non invecchiano come gli uomini, non con la
loro rapidità. Quanti anni sono passati? Due, cinque, sette?
Potrebbe non esserne passato nessuno. Solo guardandomi intorno intuisco
che di tempo ne è passato.
Ma così come non è cambiato il mio aspetto, non
è
cambiato quello che provo, né il ricordo di quello che ho
provato, in
questo luogo, tempo fa.
Non è cambiato il mio ricordo dell'incontro con quell'uomo,
e di tutto quello che tale incontro ha comportato.
Mi infilo l'elmo che tengo sottobraccio e mi dirigo verso le mura
diroccate, e mi sembra ancora di vedere quell'esercito potente come
un'onda del mare, e di sentire ancora quegli schiamazzi agitare la
piana di Troia.
La prima volta in cui lo vidi, la guerra era appena iniziata.
Il mare color notte era invaso dalle navi. Migliaia di navi. Navi dalle
vele colorate, sparpagliate come stelle. Miriadi di guerrieri, schiavi
e schiave si riversavano sulla spiaggia di sabbia e terriccio. Ognuno
proveniva da un diverso luogo, infinite culture si stavano fondendo in
un trepidante marasma.
Ero scesa alla
piana di Troia con Artemide e Afrodite, per vedere come procedeva
l'arrivo degli Achei a Ilio. Mentre loro erano
entusiaste, io, pur nella mia curiosità, non ero serena.
Ritenevo quella una guerra giusta, ma futile. Una guerra per una donna,
offerta a quel tale, quel Paride, da Afrodite. Una guerra che avrebbe
potuto essere evitata. Ero la dea della guerra combattuta per nobili cause.
Il dio della violenza
era quel megalomane di Ares, io mi occupavo solo ciò che era
combattuto
giustamente. Ero,
però, anche la dea della saggezza, e la mia mente mi diceva
che,
per quanto giusta, era una guerra inutile. Per la prima volta ero
divisa, combattuta.
Ero una dea, non un'umana, eppure mi comportavo
come una di loro.
"Non possiamo restare qui", riflettei ad alta voce. "'E' meglio tornare
da nostro padre".
"Non ci penso nemmeno", cinguettò Afrodite. "A Troia
c'è
mio figlio Enea. Suo padre è Anchise, ve ne ho parlato,
quando...".
"Efesto, Ares, poi questo mortale, Anchise... ti ricordo che sei tu
stessa la causa di questa guerra, Afrodite".
"Artemide, se non vuoi stare qua puoi tranquillamente tornartene
all'Olimpo. E tu Atena, se vuoi, puoi andare con lei. Io ho intenzione
di assumere le sembianze di una schiava, entrare a Troia e salutare mio
figlio".
Ciò detto, in un attimo Afrodite si tramutò in
una
ragazza dagli abiti poveri e poco appariscenti tipici di una schiava, e
sparì in mezzo alla folla. Era così minuta e
veloce che
in attimo la perdemmo di vista.
"Non rischia di essere catturata dagli Achei?", domandò
Artemide, un poco preoccupata, osservando sei enormi guerrieri poco
lontani da noi che scaricavano da una nave un pesante ariete di legno.
"No", la rassicurai. "E' abbastanza veloce e poco appariscente da non
essere notata. E inoltre, è una dea, come noi".
Restammo in silenzio per qualche secondo, ad osservare il viavai di
armi e soldati.
"Io la seguo", affermò. "Anche se di certo non
andrò a
rimirare i guerrieri: voglio vedere Troia. Là sono molto
devoti
al culto di Artemide dea della caccia. Vieni anche tu?".
Artemide si voltò a guardarmi interrogativamente.
Osservai le alte mura di Troia, mura che sembravano inoppugnabili,
stagliarsi illuminate contro il cielo terso. Il Sole ardeva senza
pietà, quel giorno. Poi il mio sguardo passò alla
moltitudine di soldati Achei. Principi e re, ognuno con la propria nave
dalla vela colorata, venuti a combattere per una donna.
"No", le risposi, mantenendo fisso lo sguardo sugli Achei, "io resto
qui, sulla spiaggia".
Mentre Artemide si allontanava, anche io assunsi le sembianze di una
schiava: ma non di una schiava Troiana, bensì una
proveniente
dalla Grecia. Feci il mio gesto abituale di calarmi l'elmo sul viso, ma
restai a mani vuote: non avevo più l'elmo, solo capelli
castani,
ben diversi dalla mia veri chioma color dell'ebano.
Mi avvicinai alla folla, pronta ad inoltrarmici.
Ed ecco, ero dentro. Le persone mi sorpassavano, mi urtavano, mi
vedevano ma non mi osservavano. Potevo spiare senza essere spiata.
Sentii un richiamo nell'aria. In lontananza volava una civetta.
Sospirai. Una civetta che volava in pieno giorno non era normale, i
guerrieri avrebbero subito capito che Atena si era nascosta tra la
folla. Feci un'impercettibile gesto con la testa, invitandola ad
allontanarsi.
La mia attenzione fu attratta da una coppia di uomini accanto ad una
tenda che discutevano con, apparentemente, enorme trasporto. Non
stavano litigando, come avevo pensato in un primo momento. Stavano
parlando di spedizioni militari, e uno dei due faceva proposte
all'altro, con il tono di chi non può aspettare un minuto di
più. Spedizioni militari. Mi avvicinai, cercando di non
essere
notata. Era sempre così: ogni volta che si trattava di
guerre e
battaglie, sentivo un fremito percorrermi da capo a piedi, ed ero
attratta inevitabilmente dal discorso, o dalle armi, o da qualsiasi
cosa fosse. Gli scintillii al Sole degli scudi erano tutti per me,
quando li vedevo sembravano quasi chiamarmi. Parole come "spedizione",
"armata" e "lancia" avevano un suono che incantava il mio udito, come
una musica che conquista lo spirito.
Li osservai. Uno dei due era più basso e meno appariscente
dell'altro, parlava con un
tono di voce più pacato e sembrava più tendente
alla
bontà e alla
gentilezza. L'altro invece si esprimeva con gesti forti e decisi. Era
più muscoloso e alto dell'amico, la voce più
possente,
maggiore
l'inclinazione alla guerra e alla violenza. Però, erano
entrambi
biondi e bellissimi. I loro capelli sembravano pagliuzze d'oro, che
risplendevano come infuocate al Sole della terra di Ilio.
"Dobbiamo essere soltanto noi Mirmidoni", stava dicendo quello più alto al compagno,
gesticolando freneticamente. "Altrimenti la cosa non
riuscirà.
Per abbattere le difese esterne della città bastano pochi
soldati, mobilitare l'intero esercito significherebbe...".
"Lo so, lo so!", esclamò l'altro ridendo. "Tranquillo. Me lo
hai
già detto. Ora, piuttosto, vai a recuperare il resto della tua roba, l'hai
lasciata quasi tutta sulla nave".
"Ora non posso", rifletté il primo. "Ho altro a cui pensare,
devo parlare con Agamennone di una faccenda, e poi mettere a posto gli oggetti che ho già scaricato".
"Allora andrò io a prenderla, se vuoi".
Il guerriero guardo l'altro sorridendo.
"Grazie. Sei un amico".
"Di niente. Sono solo felice di poterti fare un favore".
Nei pochi secondo in cui rimasero a fissarsi, potei notare che,
nonostante le maggiori altezza e virtù fisiche, il guerriero
che
aveva parlato di spedizioni militari sembrava il più giovane
fra
i due. Si notava in lui una certa impulsività a cui l'altro
sembrava essere superiore, come chi ha più anni di
esperienza -
o forse, semplicemente, erano due persone molto diverse. Diverse ma
profondamente, inscindibilmente legate. Lo si intuiva dal sorriso
impresso sui volti di entrambi nei pochi istanti in cui si guardarono
negli occhi. Mentre quello più basso aveva sorriso per tutto
il
tempo, l'altro l'aveva fatto solo in quel momento. Ma in quel sorriso
c'erano tutta la sincerità e tutto l'affetto di un vero
amico,
quasi di un fratello.
Si separarono. Uno si diresse verso il mare, l'altro sparì
in
direzione delle mura. Davanti a me era rimasta solo la tenda, immaginai
appartenente ad uno dei due.
Vinta dalla curiosità e dal desiderio di saperne di
più su quei due amici dai capelli d'oro, vi entrai.
C'era un ricco giaciglio addossato alla parete in fondo, e il resto del
pavimento era cosparso di sacche di tela piene di qualcosa. Il
guerriero proprietario della tenda evidentemente non era ancora
riuscito a mettere ordine. Mi chinai, tentata di sbirciare il contenuto
di una delle sacche. Un pensiero mi attraversò la mente come
un
lampo di quelli di mio padre: mi stavo comportando esattamente come
Afrodite. Un'impicciona irrispettosa. Ero la dea della saggezza. Ma ero
anche la dea della guerra, e probabilmente alcune di quelle sacche
contenevano armi. Al solo pensiero di slacciare l'apertura della tela e
ritrovarmi fra le mani del ferro scintillante, non resistetti.
Proprio come avevo immaginato, il baluginare del riflesso del Sole che
filtrava dalla tenda sul ferro mi rapì. Un attimo dopo,
però, mi accorsi che ciò che riluceva non era
ferro
bensì rame, e che non si trattava di un'arma
bensì di una
statuetta di un dio. La presi in mano: rappresentava una dea che
portava, sopra la veste, un'armatura. In mano teneva un'alta lancia e
in testa un elmo, su cui era posata una civetta.
Era una statuetta di Atena, una mia statuetta.
"Chi sei? Cosa ci fai qui?".
Una voce possente mi fece sobbalzare, e la statuetta mi cadde di mano.
Era entrato il guerriero più alto e muscoloso, che ora mi
fissava con gli occhi azzurri che rilucevano d'ira.
"Chi sei? Come osi entrare nella mia tenda e frugare nelle mie cose?",
gridò. Mi si avvicinò a grandi passi e mi prese
per le
spalle, prima che potessi compiere qualsiasi gesto. "Rispondi! Che cosa
stavi rubando?!".
La soluzione era una sola. Chiusi gli occhi, e un attimo dopo sentii
nuovamente il peso dell'elmo sulla mia testa. Immediatamente, le sue
mani lasciarono le mie spalle, ora ricoperte da veli pregiati e non
più di abiti da schiava.
"Perdonami, mia signora... io non sapevo...", iniziò.
"Chi sei, guerriero?", domandai, interrompendolo.
"Sono Achille figlio di Peleo, re dei Mirmidoni", disse guardandomi
negli occhi.
Achille.
Dunque, finalmente incontravo il Pelide Achille, il semidio figlio di
Teti, di cui avevo tanto sentito parlare. Il bel guerriero forte e
biondo che nessuno aveva mai sconfitto. L'invulnerabile, l'eroe.
Fra tutti i soldati Achei che erano giunti a Troia, ero capitata
proprio nella sua tenda.
Sosteneva il mio sguardo con una luce negli occhi, al contrario di come
avrebbe fatto la maggior parte della gente davanti ad un dio. Ma la sua
non era sfrontatezza: leggevo in lui un profondo rispetto verso di me,
una devozione. Non mi guardava negli occhi per affrontarmi, ma per
comunicarmi in modo diretto la propria ammirazione. Un modo di
comunicare che mi toccò molto più
profondità di
quanto avessero mai fatto inchini e inginocchiamenti.
Lo sguardo che si addice ad un eroe, sicuro di sé ma mai
empio e sfrontato. Da qualche parte, mi colpì.
Un tuono rombò, lontano. Vi sentii un richiamo. Mio padre.
"Achille Pelide, re ed eroe dei Mirmidoni, è stato un onore
conoscerti", dissi restituendogli la statuetta. "Tornerò
presto
da voi Achei. Potrete contare sulla mia protezione".
Mi diressi verso l'uscita e mi fermai sulla soglia della tenda. Il
cielo si era improvvisamente rannuvolato, e i fulmini lo illuminavano
esattamente sopra di me.
"Aspetta, figlia di Zeus Egioco. Ho bisogni di parlarti di questa
guerra".
Mi voltai a guardarlo. I suoi occhi, ora che il Sole se ne era andato,
erano diventati dello stesso colore del cielo nuvoloso.
"Non posso, ma tornerò presto".
"Ti aspetterò presto, dea dall'occhio azzurro".
Guardai un'ultima volta l'eroe di cui avevo tanto sentito parlare, e
poi me ne andai in tutta fretta, ignara di quello che si era appena
scatenato, pensando che i miei occhi erano dello stesso colore dei
suoi.
NOTE:
L'idea di questa fiction mi è venuta da un sogno che ho
fatto, e
ci tenevo a metterla per iscritto perché secondo me come
storia
può funzionare. Ci sto provando ad essere fedele all'Iliade,
alla cultura della Grecia arcaica, al loro modo di pensare e
comportarsi, alle loro idee e alla caratterizzazione dei personaggi
omerici, e quindi a restare In Character. Ci sto provando. Il risultato
è un altro paio di maniche, ma GIURO che ci sto provando.
Ovviamente, alcuni particolari sono un po' diversi da quelli omerici,
ma se non lo fossero, non sarebbe la mia storia ma una fotocopia
dell'Iliade. Per qualsiasi critica, consiglio e qualche eventuale
complimento a caso, ma proprio a caso, scrivete una recensione! Vorrei
tanto sapere cosa ne pensate.
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Capitolo 2 *** 2 ***
CAPITOLO
2
Sarei tornata presto, gli avevo detto.
Tornai. Tornai più volte. Ma mai, in dieci anni, riuscii a
rivederlo.
Dieci anni non sono niente per una dea, ma sono tanti per la vita di un
uomo.
Le alte mura di Troia sembravano inespugnabili. Gli Achei, con i loro
guerrieri valorosi - con Achille - non riuscivano a penetrare nella
città. Quasi ogni giorno mi recavo all'accampamento Acheo e
cercavo di aiutare i soldati. Mi univo alle loro battaglie, donavo loro
forza e velocità. Mai, però, riuscivo a vedere
Achille.
Lui era lì, con i suoi compagni, ma qualcosa mi
impediva di vederlo. Ogni volta che lo vedevo avvicinarsi da lontano,
senza neanche distinguerne appieno i tratti del viso, una forza
sconosciuta mi accecava e mi portava lontano, lontano, in un mondo nero
e soffocante. E quando questa oscurità opprimente si
dissolveva
riportandomi alla piana di Troia, il guerriero Mirmidone non c'era
più, e spesso la battaglia si era già conclusa.
Più volte avevo ritenuto che gli Achei sarebbero penetrati a
Troia solo se io avessi aiutato Achille. Più volte mi ero
diretta verso la sua tenda, e l'oscurità mi aveva catturata,
lasciandomi andare solamente quando il guerriero aveva ormai
abbandonato la tenda.
Qualcosa, o qualcuno, non voleva far sì che lo vedessi, e
che parlassi con lui. Chiunque
avesse creato quel prodigio non abbassava mai la guardia.
Con
lo scorrere del
tempo iniziai a credere che si trattasse di un trco di Afrodite.
Parteggiava per i Troiani, e mai avrebbe permesso che io avantaggiassi
gli Achei. Anche Artemide era dalla parte di Troia, ma non avrebbe mai
fatto una cosa simile. Afrodite, però, negava, e
continuò
a negare per dieci anni.
Lentamente, la
mia determinazione ad aiutare Achille Pelide per avantaggiare
gli Achei svanì. Continuavo a scendere alla piana, ma le mie
visite mancate alla tenda di Achille diminuirono poco a poco.
Evidentemente, era giusto così. Achille era un semidio: non
aveva bisogno del mio aiuto. Forse avrei semplicemente dovuto
supportare ancora di più gli altri soldati.
Compivo così il mio dovere, e ogni tanto, solo ogni tanto,
ripensavo a quell'eroe. Gli anni stavano passando. Il suo volto doveva
essere cambiato. Chissà se, quando fossi riuscita a
rivederlo,
l'avrei riconosciuto.
Ero certa che l'avrei rivisto. Non ci sarebbero stati
né "se" né "ma" ad impedirmelo. Ancora non sapevo
come e
quando sarebbe successo, ma ne avevo il presentimento, la
consapevolezza, la certezza.
Erano passati dieci anni, dieci anni in cui non avevo più
incontrato il suo sguardo dello stesso colore del mio.
La guerra di Troia era giunta ad un punto di estrema tensione.
L'esercito degli Achei era agitato da rancori in procinto di esplodere.
Agamennone spadroneggiava dall'alto della sua prepotenza, tanto da
giungere ad un atto di piena tracotanza e irrispettosità.
Fece
sua prigioniera di guerra la figlia di Crise, anziano sacerdote di
Apollo. Il vecchio pregò affinché, dall'alto
dell'Olimpo,
dessimo ad Agamennone una degna punizione.
"Certo che li punirò", diceva Apollo, furente, scuotendo i
ricci biondi come il suo Sole.
"Sì, fratello, è la cosa più giusta da
fare", lo sostenne Artemide, e Afrodite annuiva prontamente.
"E come li punirai?", chiesi io, preoccupata.
"Mi dispiace per quell'esercito, Atena. So quanto ci sei affezionata",
mi rispose lui con l'espressione torva. "Ho intenzione di lanciare
frecce avvelenate sul loro accampamento, e far sì che la
peste
dilaghi. E' quello che si meritano".
"Io li proteggerò", mormorai, sconvolta dalla notizia, con
un'amara consapevolezza: li
avrei potuti proteggere tutti, tranne uno.
"Sarà inutile".
Anche se sapevo che Achille era invulnerabile, e che quindi non sarebbe
certo bastata una semplice peste ad abbatterlo, non ero tranquilla. Non
lo vedevo, non potevo proteggerlo. Avrebbe potuto succedergli qualsiasi
cosa, e io non l'avrei saputo.
Nelle giornate successive feci di tutto. Andai all'accampamento acheo.
Diedi ambrosia ai soldati malati, e forza nel combattimento a quelli
vivi. Ma quando due dei combattono, è quasi impossibile che
uno
dei due riesca ad avere la meglio sull'altro. Apollo continuava a
scagliare le sue frecce, e nonostante i miei aiuti gli uomini ne erano
continuamente colpiti. Fu così che un'idea improvvisa si
fece
strada nella mia mente. Avrei rubato l'arco e le frecce di Apollo.
Aspettai la notte. Negli ultimi tempi, Apollo di notte se andava
sempre. Probabilmente si recava da qualche donna mortale. Sapevo dove
nascondeva le frecce avvelenate: in mezzo alle foglie di un'acanto di
fianco ad una grande roccia a forma di stella. Così, decisa
ad
aiutare gli Achei anche a costo di mettermi definitivamente contro
Apollo con un gesto scorretto come un furto, mi diressi verso la roccia
attraverso quel territorio nebbioso e arido che è la cima
dell'Olimpo.
Ero a metà strada quando sentii delle voci. Voci di
divinità. Un maschio e una femmina. Discutevano, e anche
piuttosto animatamente. Non mi ci volle molto per capire che si
trattava di Zeus e Hera.
Non ero figlia di Hera, ma era come se lo fossi. Oltre che una sorta di
madre, era sempre stata per me anche un'amica e una sorella. Nemmeno
nel momento della contesa della mela d'oro eravamo state veramente
rivali.
"Non è giusto che tu lo faccia, Zeus. Non lo reputo per
niente giusto", stava dicendo.
"Donna, non dirmi che cosa è giusto che io faccia. Questo
sono
io a deciderlo". Simili discussioni fra Zeus ed Hera avevano luogo
assai spesso.
"Certo, ma io lei la conosco, e posso assicurarti che se in un qualche
modo dovesse scoprire che sei tu a farle questo, non ti rivolgerebbe
più la parola".
"Atena è mia figlia, e stabilisco io come comportarmi con
lei".
Incuriosita, mi fermai ad ascoltare. "Se io ritengo che vedere
quell'uomo per lei sarebbe
pericoloso, allora è giusto che non lo veda".
"Ma in questo modo, Zeus, gli Achei non potranno mai vincere. Non senza
una collaborazione fra la Dea della Guerra e Achille, sovrano dei
Mirmidoni".
"Ma quale collaborazione? Questo porterebbe solo alla rovina di mia
figlia".
"Ne sei proprio sicuro? Io ho il sentore che presto il Pelide Achille
avrà bisogno di lei".
Non volli sentire altro. Le parole del loro dialogo mi rimbombavano
nella testa mentre fuggivo via, dimentica dell'arco di Apollo. Era
Zeus. Era mio padre ad impedirmi di vedere Achille. Era un trucco di
mio padre!
Non so per quanto corsi. Quando fui esausta mi fermai e mi lasciai
andare appongiandomi ad una roccia, e il ricordo di quello che avevo
appena sentito mi travolse come un'onda distruttrice.
Per dieci anni mio padre mi aveva impedito di vedere Achille. Per dieci
anni non avevo potuto aiutare gli Achei, non avevo potuto partecipare
alla guerra in modo decisivo. Non avevo potuto dare una svolta agli
eventi sebbene avessi tentato disperatamente di farlo. Tutto
perché vedere il re dei Mirmidoni sarebbe stato la mia
rovina. Per quale motivo mio padre non mi aveva avvisata di questo?
Perché aveva preferito agire mantenendomi all'oscuro di
tutto?
Le ore passavano, e il cielo si modulava in nuvole striate di rosso e
improvvisi bagliori. Fissavo quei colori cangianti, confusa. Erano le
dita rosate dell'Aurora? Oppure erano i fuochi oscuri di
Ares, la guerra più nera?
Un pensiero mi tormentava come un insetto fastidioso. Cercavo di
scacciarlo, ma come una mosca, era sempre abbastanza veloce da fuggire
e tornare a pungermi.
Per dieci anni non avevo potuto aiutare gli Achei. Ma soprattutto, non
avevo potuto rivedere quello sguardo di zaffiro, cangiante come il
cielo.
Il tempo scorreva indistinto. Ormai il Sole splendeva alto, infuocato e
silenzioso, senza neanche una nuvola a recargli disturbo. Intorno a me,
il nulla. Solo un nudo pavimento roccioso sferzato dal vento. Non
sapevo in quale parte dell'Olimpo mi trovavo. Il silenzio era
opprimente. Totale.
Improvvisamente udii dei passi in lontananza.
Non erano passi comuni. Erano veloci e leggeri, aggraziati. Una corsa
quasi danzata. Non mi sorpresi quando vidi comparire Hermes
all'orizzonte, la sua sagoma sottile in controluce. Le ali dei suoi
calzari lo facevano volare alto e veloce.
"Mia signora Atena, vieni, presto! All'accampamento acheo!", mi
urlò da lontano, e la sua voce mi arrivò rapida,
nitida e distinta. "Il destino della guerra è in grave
pericolo!".
Quelle parole mi smossero. Immediatamente mi alzai e cominciai a
correre veloce, come solo una divinità può fare.
Hermes prese la mia mano e volai insieme ai suoi calzari alati.
"L'Atride Agamennone è entrato in competizione con il Pelide
Achille", mi spiegò con la sua voce squillante. "Il capo
degli Achei ha deciso di rendere la propria schiava a Crise. Vuole,
però, che Achille gli ceda la propria schiava, per
compensare la perdita. Fa' presto, mia signora. In pochi secondi
potrebbe accadere qualcosa di irreparabile".
Capii, capii all'istante. Il Pelide Achille, sovrano dei Mirmidoni,
guerriero valoroso. La perdita di una schiava, un affronto. Ringraziai
Hermes e spiccai il volo verso la piana di Troia.
Achille avrebbe potuto uccidere Agamennone. Se l'avesse fatto, gli
Achei si sarebbero trovati senza un capo. La maggior parte di loro
sarebbe tornata alle proprie navi e avrebbe salpato verso la patria, i
restanti avrebbero senza ombra di dubbio perso contro l'intero esercito
troiano.
Non doveva succedere. Non doveva succedere.
"Atena! Figlia!". La voce di mio padre rimbombò ovunque,
cupa e potente come un tuono. Non lo ascoltai. Era una questione di
vita o di morte.
Sentii le più piccole briciole di tempo scorrere mentre
l'accampamento acheo si faceva sempre più vicono. Ogni
singolo granello che smuoveva le sabbie del tempo aveva un suono
atroce, infernale, insopportabile. Mi sembrò di udire un
altro suono, dalla tenda di Agamennone. Una mano che afferra l'elsa di
un'arma. Achille. No!
Gridai, mi buttai a capofitto dentro la tenda e bloccai la mano del
Fato.
Secondo capitoloo!
Sono felice di aver aggiornato, anche se secondo me nessuno
degnerà mai questa storia, l'Iliade non è un
fandom molto quotato... uhe uhe. Ma io scrivo lo stesso! *agguerrita*
Lo so, ci sono delle imprecisioni. Come nello scorso capitolo, come ci
saranno nei prossimi. Alcune sono licenze, altre sono semplici sviste
(non ho mai letto l'Iliade tutta intera, ma penso che quasi nessuno di
voi l'abbia fatto...?).
Alla prossima, spero che i tempi di aggiornamente sianio più
brevi ma purtroppo non garantisco nulla! L'unica cosa certa
è che il prossimo capitolo ARRIVERA'.
Ciao ciao, fatemi sapere cosa ne pensate.
Isabella
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Capitolo 3 *** 3 ***
Sono una civetta.
Una civetta che volteggia con il Sole, l'ombra ridotta ad un puntino.
Sotto di me, le rovine.
Le civette, almeno, non piangono.
Quasi alla mia altezza, su un'altura, oltre le mura distrutte,
c'è l'unico palazzo rimasto in piedi. Sontuoso anche
nell'abbandono, ha un'aura ancestrale, quasi a voler ricordare antichi
tempi di re ed eroi passati. E' davvero trascorso così tanto
tempo? Oppure è solo una mia impressione?
Era il palazzo di Priamo.
"Atena".
Non è una voce a chiamarmi. Non è una voce,
eppure sento
il richiamo, il mio nome. Un pavone volta alto nel cielo poco lontano
da me. Un pavone, un uccello di solito incapace di volare.
E' mia madre, mia sorella, la mia migliore amica. Hera.
Entrambe riprendiamo le nostre sembianze umane, facendoci trasportare
dall'aria, in una lievissima brezza che nessun umano riuscirebbe a
percepire.
"Era da tanto che non facevi visita a questi luoghi, Pallade", mi dice
Era prendendomi gentilmente per un braccio con la sua bianca mano. Il
suo profilo dritto è intento a scrutare il palazzo
abbandonato
nella sua decandente magnificenza impregnata di memorie.
"Davvero?", chiedo, in un sussurro. Non potrebbe uscire alcun suono
dalla mia gola. Nemmeno l'acuto richiamo della civetta.
"Hai seguito e aiutato Odisseo, che nonostante il tuo prezioso
contributo è ancora perso, e non è ancora tornato
a
Itaca. Sono passati cinque anni dalla Guerra di Troia".
Cinque anni. Che cosa sono cinque anni per una dea? Un granello di
polvere, un soffio di piuma. Eppure questi anni sono passati con la
pesantezza del piombo. Ho aiutato Odisseo - o meglio, ho giurato
a Odisseo che l'avrei aiutato. Ma egli ora è perso nelle
braccia
della ninfa Calipso, e io sono ancora persa nei ricordi. Troppo persa
per restare là a guardarlo e a mentire a me stessa.
"So che pensi ancora a quell'uomo".
"Non era un uomo", ribatto con un filo di voce. Lui non era un uomo, e
io tutto sono, in questo
momento, fuorché una divinità. "Era un semidio.
Era un
eroe".
Hera mi sorride, con lo stesso sorriso circondato da capelli simili a
fiamme che fece innamorare il Re degli dei.
"Andiamo". E mi trascina per il braccio in una planata sempre
più veloce verso l'entrata divelta di quell'antico palazzo
di
ricordi dimenticati.
"Perché sei venuta?".
Riaprii gli occhi, e fui quasi accecata.
Quella voce arrivò al mio cuore in mezzo ad una luce
sfavillante
che a mapalena mi permetteva di vedere. Intravidi dell'oro, dei
tendaggi. Un re dall'ego superiore al buonsenso. Stavo sognando?
"Perché sei venuta, figlia di Zeus Egioco? Per vedere la
violenza dell'Atride Agamennone?".
Mi riscossi.
Era lì. Il suo sguardo ancora fisso nel mio, esattamente
come
l'ultima volta, e la fronte aggrottata. Non era quasi invecchiato, solo
qualche impercettibile ruga intorno agli occhi...
Il suo polso sinistro era
stretto nella mia mano, e mi accorsi di averlo preso per i capelli con
l'altra. Immediatamente lo lasciai andare.
"Sono venuta per placare la tua ira", dissi senza espressività, come
una marionetta. "Mi inviò il messaggero della dea Hera, la
quale
ha ugualmente a cuore entrambi noi. Togli la mano dalla spada, e
offendi il tuo avversario solo con le parole".
"Sei stata lontana per dieci anni, mia signora. Forse, se fossi stata
al mio fianco, non si sarebbe arrivati a questo".
Fu come uno schiaffo.
Nessun altro uomo avrebbe osato sfidare una dea, sostenendo il suo
sguardo con impertinenza... impertinenza? Così l'avrebbe
definita mio padre, o qualunque
altra divinità. Ma io potevo immaginare quanto si celava
dietro
quello sguardo: dieci anni di assedio, di estenuazione, di speranze
vane, di disillusione. Dieci anni in cui la dea che gli aveva promesso
aiuto non si era più fatta viva.
Aveva ragione, e fui io ad abbassare gli occhi.
"Ne sono consapevole, Achille figlio di Peleo", dissi. "Ma le
spiegazioni arriveranno quando sarà il tempo. Ora, riponi
l'arma
e ascoltami. Riceverai doni tre volte per aver avuto pietà
dell'Atride. Trattieniti, dunque, e obbedisci".
"Bisogna rispettare la parola di una dea", rispose Achille a denti
stretti. Sentivo il peso del suo sguardo su di me. "Anche nei momenti
di rabbia". Poi, si rivolse al suo avversario, mentre io svanivo
lentamente. Gli rivolse parole che non volli sentire, e con la mia
mente volai alta nel cielo. Il mio corpo, invisibile, era ancora in
quella tenda, mentre la
mia mente di dea era in altri cieli, altri orizzonti. Il cuore
mi
stava esplodendo nel petto mentre sentivo le ali piumate della civetta
spuntarmi al posto delle braccia, incontrollate. Perché
desideravo tanto volare lontano, proprio ora che ero riuscita a
rivedere Achille? Il miei occhi di dea della guerra vedevano il
rifulgere delle sue armi, incomparabili a quelle degli altri Re. Eppure
la mia mente di dea della saggezza aveva bisogno di riflettere, di
volare. Se mio padre aveva voluto tenermi lontana da Achille, doveva
avere avuto una valida motivazione. Quale avrebbe mai potuto essere?
Avrei dovuto chiederglielo, parlargli...
"E' così, Atride! Questo è il mio giuramento
solenne: mai
più mi vedrete combattere in campo, e anche se un giorno mi
rimpiangerete, tu non potrai fare nulla per aiutare l'esercito!", disse
Achille con voce tonante gettando a terra lo scettro di bronzo
dell'assemblea, con un colpo che mi riportò vertiginosamente
alla realtà.
"No!", esclamai mentre Achille si risedeva. Non mi uscì
alcun
suono. Fu inutile ritentare: non riuscivo a parlare, a muovermi. Una
folata di vento, due occhi violacei ammiccarono nella mia mente. Lo
riconobbi:
era il Fato. A dispetto dei miei poteri divini, non potevo nulla contro
di lui. Neanche mio padre avrebbe potuto sfuggire al suo volere. Senza
capire niente - quel paio di occhi continuava a fissarmi ed
ipnotizzarmi, da qualche parte all'interno della mia testa - camminai
barcollando fuori dalla tenda, sotto un cielo che si incupiva di viola.
Mi
diressi verso un'altra tenda, una tenda che ricordavo perfettamente. Vi
entrai, sentendomi spinta da un'enorme mano purpurea. Di fianco ad un
giaciglio mi aspettava una statuetta rilucente che mi sembrava di
conoscere. Era accanto al cuscino, proprio come un talismano. Il suo
riflesso bronzeo si illuminò di viola. Feci
appena in tempo a prenderla in mano, sentendo il sudore sulla fronte,
prima di accasciarmi su quel letto.
"Hai idea del
perché si trovi qui?".
"No, anche se spero sia
vero quello che immagino".
"E che cosa immagini?".
Silenzio.
Dove mi trovavo?
Una terribile consapevolezza si fece strada nella mia mente ancora
confusa, e mi alzai di scatto.
I due interlocutori si voltarono improvvisamente verso di me. Mentre
Achille rimase fermo immobile, l'altro - quello più alto e
più maturo, che negli anni avevo scoperto essere suo cugino
Patroclo - si
inginocchiò:
"Mia signora".
"Patroclo, amico mio", disse Achille, senza distogliere lo sguardo dal
mio. "Potresti, per favore, uscire per un poco da questa tenda? Ho
bisogno di parlare alla figlia di Zeus Egioco, Atena Glaucopide".
Patroclo sembrò comprendere, e si ritirò,
accompagnato
verso l'uscita da Achille. Evidentemente era stato informato dal cugino
della mia inspiegata
scomparsa negli ultimi dieci anni.
Eravamo soli.
"Posso sapere, se non è osare troppo, il motivo della tua
assenza al mio fianco in questi anni, mia signora?", mi chiese con voce
pacata ma ferma, ancora voltato verso l'entrata della tenda. "Sono
sicuro che le ragioni di una dea sono sempre valide e inconfutabili.
Tuttavia, vorrei conoscerle, se mi è permesso. Mi avevi
fatto una promessa, dieci anni fa, e non l'hai mantenuta".
"E' stato mio padre", ammisi d'un fiato. "E' stato Zeus, il signore di
tutti gli dei, a non permettermi di incontrarti".
"Ma io ti vedevo. Ti vedevo mentre combattevi a fianco dei miei
compagni, ma non appena mi avvicinavo, tu svanivi in istante, mia
signora. Come se non fossi mai esistita. Ho iniziato a credere di avere
soltanto sognato il nostro incontro. Un sogno ingannatore, passante per
le Porte d'Avorio".
"Quando mi vedevi scomparire, io entravo in un mondo buio ed estraneo
alla realtà. Un posto oscuro in cui mi mandava mio padre...
un
posto chiamato Ate, il nome della cecità".
"E perché Zeus ha voluto impedirci di collaborare in questa
guerra?".
"Ha detto a Hera...". Se avessi svelato ad Achille quello che avevo
sentito da mio padre, avrei potuto mettermi contro il più
grande
degli dei. "Ha detto a Hera che vederti avrebbe causato la mia rovina".
Silenzio. Fissai il suolo, in attesa di una risposta, non sapevo se da
parte di Achille o di Zeus.
Dopo qualche istante, sentii un rumore di legno che scricchiolava
leggermente, e alzando lo sguardo notai che Achille si era seduto sul
proprio trono.
"Accomodati, mia signora", mi disse gentilmente, indicandomi il
giaciglio su cui ero crollata poco tempo prima. "E dimmi
perché
vedermi dovrebbe essere un rischio per te".
"Questo non lo so", mormorai sedendomi. Dal profondo della Saggezza
annidata in
me una vocina continuava a ripetermi che in realtà lo
sapevo, lo
sapevo benissimo.
"E non temi che, dicendomi ora queste cose dopo essere sfuggita al
controllo di Zeus, tu stia rischiando?".
"Sì, lo temo", risposi. "Ma la sorte di questa guerra
è più importante di ciò che crede mio
padre".
Da qualche parte, una porta si chiuse.
Achille mi fissò in silenzio per qualche secondo.
"Hai compiuto una scelta, mia signora", mi disse dopo un po'.
"Ne sono consapevole", risposi. "E so che tornare indietro
sarà
difficile, se non impossibile. Tuttavia, desidero aiutare gli Achei
più di ogni altra cosa".
Il tuono ci fece sobbalzare entrambi. Era là fuori e mi
chiamava, senza
ammettere repliche. Scambiai un'occhiata d'intesa con il figlio di
Peleo, proprio mentre la luce del fulmine si rifletteva nei suoi occhi.
"Questa volta", gli dissi, "non ti abbandonerò".
Ti?
Perché non vi?
'Questa
volta non vi abbandonerò, Achei'. 'Questa volta non ti
abbandonerò, Achille'. Era stato solo uno sbaglio? Che cosa
avevo voluto dire esattamente?
"Atena".
Mi feci coraggio. La voce che mi aveva chiamato era udibile solo dalle
mie orecchie: a quelle dei mortali sarebbe parso come un comune tuono.
"Mi fido di te", mi disse Achille, "e so che questa volta tornerai".
Volli crederci anch'io.
Scostai il lembo di tela che chiudeva la tenda e il fiato mi si
mozzò.
Nonostante fosse mio padre, Zeus era ancora capace di impressionarmi
con quello che riusciva a fare. Un uragano saettante, un enorme tunnel
di nuvole temporalesche mi chiamava dal cielo. Il vento mi sferzava il
viso così forte da farmi male, facendomi ondeggiare come un
giunco.
"Atena", ruggì.
Sapevo a cosa stavo andando incontro, e sapevo che la cosa
più
giusta da fare era affrontare la mia sorte. Tenendomi indietro i
capelli dal viso camminai controvento verso il tunnel, muovendomi a
fatica. Le raffiche mi sollevarono, scagliandomi dentro il tunnel in un
mulinello infernale. La terra era lontana. Intorno a me, nei rari
momenti in cui riuscivo ad aprire gli occhi senza essere accecata dalla
pioggia tagliente, vedevo solo uragani grigio piombo e fulmini talmente
luminosi da sembrare neri. Improvvisamente fui schiantata contro una
superficie dura, fredda e massiccia. Caddi inerte su quella che
sembrava una scala, alla base del muro contro cui mi ero scontrata.
"La riconosci questa, Atena?".
Aprii gli occhi a fatica, sentendo dolori in tutto il corpo, e guardai
in alto. L'enorme struttura che mi sovrastava, di un marmo
probabilmente dorato ma oscurato dal temporale, era una porta. Una
porta maestosa e inoppugnabile. Una porta che, se chiusa, è
impossibile riaprire dall'esterno. La porta dell'esilio.
"Sì, padre. E' la porta dell'Olimpo".
"Sai bene che questa porta è sempre aperta tranne in un
caso".
"Quando un dio viene esiliato dall'Olimpo".
"Esattamente".
Mi alzai, in un gesto quasi di sfida, tentando di apparire incurante
degli acciacchi che mi ricoprivano.
"Me lo aspettavo", sentenziai, "e ne prendo atto. Ho compiuto una
scelta, e me ne assumo la responsabilità".
"Non puoi immaginare il dolore che prova un padre nell'esiliare la
propria figlia".
Un moto di Guerra si fece strada dentro di me.
"Se sei così triste, padre, dimmi il perché del
tuo trucco. Dimmi perché non avrei dovuto vedere Achille".
"Lo sai benissimo perché, anche se ti rifiuti di aprire gli
occhi sulla realtà. Presto lo vedrai da te. E ora, addio.
D'ora
in avanti, la tua vita proseguirà in un solo senso, quello
delle
vicende terrene. Sarai una dea tra i mortali".
Un vento risucchiante e freddo come quello che mi aveva portata
lì mi prese nuovamente, questa volta spingendomi ad una
velocità esorbitante verso terra. Caddi rovinosamente nel
punto
da cui ero partita, e se fossi stata un'umana avrei sentito le mie ossa
sbriciolarsi una ad una. Mi parve che la tempesta si stesse diradando,
ma non potevo esserne sicura. La testa mi pulsava, e girava come una
trottola.
In una visione offuscata, mi parve di scorgere Achille mentre usciva
dalla tenda. Alzai lo sguardo verso di lui. Dovevo sembrargli tutto
tranne che una dea, in quel momento.
"Non so dove andare", sussurrai mentre il Re di Ftia mi aiutava ad
alzarmi. Lo fece senza chiedermi alcun permesso, e ancora una volta non
potei fare a meno di ringraziare la sua sincerità priva di
formule di cortesia - di ipocrisia.
Mi portò nella sua tenda.
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Capitolo 4 *** 4 ***
CAPITOLO 4
Gli raccontai quello che era successo. La testa mi girava ancora per la
caduta, e, pur cercando di mantenere la calma, non ero sicura di stare
parlando in maniera comprensibile. Tuttavia, lui sembrava capire.
"Evidentemente,
oggi non è stata una buona giornata per nessuno dei due",
commentò,
potevo leggere l'ira nei suoi occhi. Cieli tempestosi.
"Esattamente, Pelide. Ora sei tu a dovermi spiegare il tuo
comportamento con Agamennone".
Si passò una mano sugli occhi e, forse per la prima volta,
non mi guardò in faccia mentre mi parlava.
"Quel cane. Ha...".
"Lo
so che cosa ha fatto, Pelide. Voglio che tu mi dia una spiegazione per
le tue parole. Ti avevo detto di ferirlo con il discorso e non con la
spada, ma non volevo, non avrei mai voluto, che tu ti ritirassi dalla
guerra. Dimmi perché l'hai fatto".
"L'ho
fatto, dea, perché quell'uomo ha ferito il mio onore",
rispose
voltandosi di scatto. Non lo diedi a vedere, ma fui pervasa da un moto
di paura. Per un breve attimo, vidi nel suo volto la furia
dell'assassino, del guerriero sterminatore. Se non avessi saputo di
stare parlando con l'eroe Achille, avrei detto che chi avevo davanti
era un guerriero pervaso dalla furia violenta di Ares, e non dalla mia
Guerra. Tuttavia, sapevo che non era così.
Speravo che
non fosse così.
"Non
posso tornare a combattere, mia signora", mi spiegò, i denti
stretti.
"Calpesterei il mio onore più di quanto non sia
già stato calpestato".
"Ma così facendo assicurerai al tuo esercito la sconfitta,
Achille".
"No. Loro hanno Aiace Telamonio, hanno Diomede, hanno Odisseo e il suo
arco. Se la caveranno".
"Non è così, lo sai bene. Li metterai in grosse
difficoltà".
Di nuovo, Achille abbassò gli occhi:
"Lo so, Pallade". Sospirò. "Ma non posso fare altrimenti".
Fece una pausa. "Briseide ora è con
Patroclo. Entro breve andranno a prenderla".
"Ti
importa davvero così tanto di quella ragazza, Pelide?", non
potei fare
a meno di chiedere. "Tanto da spingerti a non combattere?".
"No,
mia signora. Avrebbe potuto essere un'altra donna: non vi sarebbe stata
alcuna differenza. Certo, quella ragazza ha un valore, ma non
è questo
il punto. Agamennone ha preteso da noi un dono in cambio della sua
schiava, un dono che non potevamo offrirgli, non lì, non in
quel
momento. Non ne avevamo i mezzi, ci sono rimaste poche ricchezze, da
gestire come ognuno di noi meglio crede. Di certo, io non avevo alcuna
intenzione di sprecare il mio bottino, che mi sono guadagnato in dieci
anni di guerra, per ripagarlo di Criseide. Lui ha perso la schiava per
via della sua arroganza, ed è giusto che chi è
causa dei propri stessi
mali sappia risolversi i problemi da solo. Quel cane non si
è
quasi mai esposto in battaglia, non l'ho mai visto affrontare i nemici
come li affrontiamo sempre io, Aiace e Odisseo. Chi è lui
per pretendere dei
doni da noi? E ora che, dopo avermi insultato, dopo avermi detto che la
mia forza non vale nulla, si è preso la mia schiava con la
forza, il
mio onore non mi permette di combattere sotto il suo comando. No. Ha
detto, prima che arrivasti tu, Pallade, che potrebbe
tranquillamente fare a meno di me. Lo accontento".
Volli
rispondere, ma rimasi in silenzio. L'onore. Perché?
Perché l'effimero
parere altrui aveva tanta importanza per i mortali? Le loro vite
duravano un soffio, perché sprecavano energie a concentrarsi
su quello
che altri mortali, caduci quanto loro, potevano pensare? Achille aveva
volutamente scelto per sé una vita più breve di
quella di
chiunque altro, perché non voleva più viverla
combattendo?
Perché voleva sprecare i suoi pochi giorni?
Quel pomeriggio i soldati di Agamennone si portarono via Briseide.
Osservai la scena da lontano, in riva al mare. Achille non li
fermò, non li ostacolò. Non li guardò
nemmeno in
faccia. Ma quando se ne furono andati portandosi dietro la schiava, il
Pelide si allontanò dalla propria tenda senza dire una
parola.
Si diresse verso il mare, ma non nella mia direzione. Lo osservai da
lontano mentre camminava lungo il litorale e si faceva sempre
più piccolo. Socchiudendo gli occhi, potevo ancora
distinguere i
dettagli della sua veste. Nessun umano avrebbe potuto notarli, a quella
distanza, né avrebbe potuto udire il rumore dei passi di
Achille sulla sabbia come lo udivo io. Quando fu giunto in un punto
sufficientemente lontano da
qualunque tenda, accanto ad un'altura su cui sorgeva un tempio di
Apollo, si fermò. Un'idea mi salì alla mente,
tanto
improvvisa quanto terrificante: si era recato al tempio di Apollo per
ottenere favori dal figlio di Latona, tradendo il suo intero esercito.
Ma era un pensiero sciocco, e inverosimile. Achille, infatti, non si
voltò verso il tempio del dio, bensì rimase a
guardare il
mare.
All'inizio dubitai della mia vista. Pensai di aver scambiato una
semplice onda per uno straordinario prodigio, un essere vivente... una
donna.
Le ninfe erano sempre capaci di sorprendermi, nonostante persino il mio
più debole potere fosse
in grado di contrastare senza fatica tutte le loro forze insieme. Era
Teti, la madre di Achille. Emerse dalle onde come se fosse stata creata
della loro stessa materia, e probabilmente lo era. Mi parve di vedere
la sua pelle scintillare, o forse era la veste. Argento.
Appoggio una mano sulla spalla del figlio. Per la seconda volta non
potei credere ai miei occhi: Achille si portò le mani al
viso e
cominciò a singhiozzare. Sbattei le ciglia, sbalordita. Era
vero? Teti lo abbracciò, e lui cominciò a
parlarle.
Non volli sentire.
Non è vero
che una dea sa tutto. Nemmeno mio padre Zeus
può affermare con certezza di conoscere ogni cosa. Una dea
non
sa tutto. Una dea può vedere oltre i fatti, ha l'acume per
raggiungere una conoscenza successiva. Una dea ha la vista di falco e i
piedi di ghepardo, è capace di scrutare dietro alle leggi
fisiche e dirigerle in direzioni diverse. Ma una dea non può
prendere decisioni a suo piacimento. Può modificare il corso
degli eventi, ma non senza conseguenze. Ci sarà sempre, per
ogni
aiuto, ogni sostegno che una creatura divina darà ad un
mortale,
una ripercussione, da qualche parte, positiva o negativa. Tutto si
conserva, e nemmeno le azioni divine passano inosservate.
Per questo io, Atena, non posso smettere di pensare, e
pensare, e
pensare, fino a rodermi nel profondo. Aiuto gli uomini, rendo loro
favorevoli le azioni di Guerra, li dirigo sulla strada della Saggezza.
Ma l'energia torna indietro. Per ogni buona azione che compio, nasce un
pensiero in più nella mia testa, e io non posso fare a meno
di
interrogarmi, di notare ogni dettaglio, di non dimenticare mai nulla,
di prestare attenzione a qualsiasi cosa. Può essere un
bene come può non esserlo.
Nessuna dea
riconoscerebbe mai di non sapere tutto: io sì. Io
posso deviare il corso del vento o la traiettoria di una lancia, ma non
posso leggere nei cuori delle persone. Non posso.
Solo il Fato sa scrutare
gli animi.
Passarono i giorni. Non domandai ad Achille del suo incontro con Teti,
lui non me ne parlò.
Furono
giornate di stasi. Achille non combatteva. Agamennone prendeva buona
ogni occasione per sparlare di lui con altri soldati, e
così facendo mi
ricordava terribilmente Afrodite. Nonostante i dissapori spesso
avuti con loro, mi mancavano le altre dee, mi mancavano Apollo
e Ares,
mi mancava Hera. Nessuno di loro era sceso al campo in quei giorni. Ma
quello che era stato detto non poteva essere ritirato. La porta non
avrebbe potuto essere riaperta.
Finché, quella mattina, lei non tornò.
Era il dodicesimo giorno dall'incontro di Achille e Teti, e camminavo
in
mezzo agli alberi. Mi recavo là ogni notte, nei
boschi dietro Troia,
per parlare con le civette. I nostri discorsi andavano oltre ogni
comprensione mortale. Parlavamo come parla chi vede il mondo con occhi
diversi.
In confronto all'oscurità notturna del bosco, il cielo
mattutino era un diamante
abbagliante. Una
mattina limpida, l'aria frizzante, il cielo luminoso tanto chiaro da
sembrare bianco, un azzurro impercettibile. L'alba si era
appena conclusa. Stavo tornando all'accampamento acheo. A quell'ora i
guerrieri iniziavano a prepararsi per la giornata appena iniziata.
Improvvisamente scorsi poco lontano da me, sul limitare del bosco, un
pavone completamente bianco che faceva la ruota.
Sembrava scolpito nel marmo da quanto ogni suo dettaglio era perfetto,
dalle piume ritte sopra la testa a quelle lunghe e vaporose della coda,
un intarsio pregiato. Riluceva come una leggera tenda
bianca alla finestra in una mattina d'estate, attraversata da luce
pura. Il mio cuore fece un salto. Hera! Doveva essere vicina, ed era
venuta
per me! Iniziai a correre, e in poco tempo raggiunsi l'uccello.
Non appena uscii dal bosco la trovai
appoggiata ad una roccia. La sabbia mista a terra aveva un color ocra
rossa che richiamava quello dei suoi capelli di fiamma. Il pavone,
ritirata la ruota, le si affiancò e si accovacciò
a terra
ai suoi piedi.
"Hera!". Ci abbracciamo. "Hera, amica mia, quanto sono felice di
rivederti! Dove siete tutti? Perché non vedo più
nessuno di voi in battaglia?".
"Anche io sono felice di vederti, Atena. Eravamo nel paese degli
Etiopi, e ci siamo rimasti per dodici giorni".
"Nel paese degli Etiopi? E perché?".
"L'ha
deciso Zeus, di punto in bianco. Penso avesse qualche affare in sospeso
con un nostro parente, da quelle parti. Come al solito, non ha voluto
spiegarmi nulla".
Non seppi con quali parole rispondere. Subito dopo
la mia espulsione, Zeus se n'era andato portandosi dietro tutti gli
dei, con il preciso intento - lo sapevo - di farmi sentire abbandonata.
E forse aveva raggiunto il suo obiettivo.
"Nessuno di noi è più lo stesso di prima, ora che
tu non ci sei più".
"Davvero?". Mi allontanai di un passo da lei, confusa. "E che cosa
dicono della mia scomparsa, se mi è lecito saperlo?".
Hera sospirò.
"Manchi
ad Artemide, a Hermes, e penso anche ad Afrodite. E
soprattutto a me.
Io e Zeus litighiamo ogni giorno. Non posso perdonarlo per quello che
ti ha fatto, né per quello che sta infliggendo a me".
"La colpa non
è di Zeus, Hera. Sono stata io ad espormi, io a
disobbedirgli. Ma mi
sono presa la responsabilità delle mie azioni, e mi ritengo
fiera di
essermi comportata come ho fatto".
Hera sorrise:
"Questa è la dea della Saggezza".
"Dimmi di te, ora. Quali sofferenze ti sta infliggendo Zeus?".
"Come
al solito, ha voluto nascondermi le sue azioni". Sospirò.
"Ma questa volta sono riuscita a scoprirle. E' stato
poco prima della nostra partenza per il paese degli Etiopi. Ero con
Efesto alla sua fucina, e stavamo parlando di alcune armi da costruire.
Avevo lasciato Zeus solo, al suo trono d'oro, nel prato in cima
all'Olimpo. Quando sono tornata indietro, però, non era
più solo: una
donna era con lui. Potevo vederli, ma loro non vedevano me: mi ero
nascosta dietro ad alcuni alberi lì vicino. Atena, quella
non era una
donna qualunque. Vedevo chiaramente il suo viso alla luce del Sole. Era
Teti, ninfa marina, madre del Pelide Achille".
Aprii la bocca per dire qualcosa, ma non mi uscì alcun suono.
"Non
so come sia iniziato il loro discorso", proseguì Hera. "Teti
abbracciava le ginocchia di Zeus, evidentemente per ottenere un favore
da lui. Non mi hanno sentita arrivare, e sono riuscita ad ascoltare la
fine della loro conversazione. Lei gli stava chiedendo se avesse o meno
deciso se fare qualcosa per lei, qualcosa che
ignoravo. Lui ha acconsentito: l'avrebbe fatto, di qualsiasi cosa si
trattasse". Hera fece una pausa, ma io, ancora una volta, non risposi.
Troppi pensieri mi ronzavano in testa, come uno sciame di api.
"Dopodiché, quella sera stessa, siamo partiti per il paese
degli
Etiopi. Ho continuato a fargli domande sul suo incontro con Teti per
tutto il viaggio, ma egli, naturalmente, non ha voluto darmi risposte.
Solo alla fine, una volta tornati all'Olimpo, sono riuscita a
strappargli alcune informazioni".
"Davvero?", non potei fare a meno di chiedere. "E come ci sei riuscita?
Non ho mai conosciuto nessuno più testardo di Zeus".
Hera sospirò.
"Nell'unico modo in cui avrei potuto riuscirci". Fece una pausa e capii
che non voleva entrare nei dettagli. Non domandai. "Ad ogni modo, mi ha
raccontato tutto. Teti gli ha parlato dello scontro fra Achille e il re
Agamennone, della disperazione di suo figlio e della sua
decisione
di non combattere più. Lo ha pregato di fare qualcosa,
qualsiasi
cosa, pur di far sì che l'esercito acheo abbia bisogno di
Achille, affinché egli possa combattere di nuovo,
affinché non sprechi la breve vita che ha scelto di
vivere...".
"...e Zeus ha accettato", finii la frase.
"Esatto".
Fui pervasa da un improvviso moto di speranza.
"Che cosa farà?".
"Invierà ad Agamennone un sogno ingannatore, un sogno che
farà credere al re di Micene di avere ormai la vittoria in
pugno. Agamennone schiererà così le truppe, ma
andrà incontro ad una sconfitta. Così, si
renderà
conto dell'importanza della presenza di Achille, e lo
pregherà,
finalmente, di tornare all'esercito".
"Una sconfitta?", chiesi, turbata. "Quanto grande?".
Hera si strinse nelle spalle:
"Grande abbastanza da superare l'orgoglio di Agamennone. Quindi,
suppongo piuttosto ingente".
"Non posso permetterlo", mormorai. "Non posso... So quello a cui il mio
esercito sta andando incontro, non posso non dare loro aiuto...". Mi
bloccai. "Ma se li aiuto, Achille non tornerà da loro...".
Hera mi guardava scuotendo la testa.
"Ritenevo fosse giusto avvisarti", disse, "ma so che non è
facile decidere il da farsi".
"Devo avvisare Achille", risposi quasi senza pensare. "Devo per forza
parlare con lui".
"Forse hai ragione. Forse è la cosa migliore da fare".
"Non è la cosa migliore, ma è semplicemente
quella che
causerebbe meno danni. Ma devo parlargli subito". Guardai Hera negli
occhi. "Tornerai a trovarmi?".
"Certo".
Ci abbracciammo, e capii quanto preziosa era stata in quei pochi minuti
la sua presenza, quanto le fossi grata. Capii che, fra gli dei e fra i
mortali, solo di
lei potevo fidarmi.
"Achille, ho bisogno di parlarti".
Il re dei Mirmidoni si voltò a guardarmi, sorpreso. Lo
stesso
fecero Patroclo e Odisseo, con cui stava parlando davanti alla propria
tenda. Io stessa mi stupii di come mi ero rivolta a lui.
"Perdonami l'irruenza, Pelide. Si tratta di questioni importanti. Spero
che tu voglia scusarmi per i miei modi di pochi istanti fa", mi
affrettai a dire.
"Una dea non deve scusarsi con un mortale per questo", rispose Achille.
"Ti ascolto, mia signora". Si voltò verso i suoi
interlocutori,
e fece loro un gesto con il capo che stava chiaramente a significare
che avrebbero dovuto allontanarsi e tornare da lui in un secondo
momento.
"No, non andatevene, guerrieri", esclamai istintivamente, senza un
progetto preciso in mente. "Forse è utile che anche voi due
ascoltiate".
Sì, forse non era una decisione troppo avventata. Nessuno
conosceva Achille quanto Patroclo, e Odisseo era un altro suo buon
amico. Entrambi erano guerrieri valorosi e intelligenti. Avevano
anch'essi il diritto di essere a conoscenza delle macchinazioni di
Zeus. Inoltre, se avessi parlato con Achille al loro cospetto, mi
avrebbero aiutato a convincerlo.
"Entriamo nella mia tenda, allora", propose Achille. "Lì
potremo parlare indisturbati".
Raccontai loro tutto. Patroclo mi ascoltò a bocca aperta e
Odisseo ogni tanto, durante il mio resoconto, annuiva. Achille mi
guardò negli occhi per tutto il tempo, ma capii che le mie
parole non lo stavano minimamente scalfendo.
"Capite, Achei?", dissi infine, concludendo il discorso. "Il solo modo
in cui è possibile evitare al vostro esercito la sconfitta
è che Achille torni a combattere. Ora, e non a sconfitta
subita".
Odisseo e Patroclo si voltarono a guardarlo, e lo stesso feci io. Per
una decina di secondi regnò sovrano un silenzio carico
d'ansia,
poi Achille sospirò.
"Non posso, e lo sapete".
Chiusi gli occhi. Sarebbe stata una discussione difficile.
"Achille, stai declinando la richiesta di una dea. Te ne rendi conto?",
lo ammonì Patroclo con tono timoroso.
"Non è questo il problema", risposi. "Il problema
è
quello che ne sarà dell'esercito acheo. Io ho abbandonato
l'Olimpo, ho abbandonato mio padre Zeus per proteggere questo esercito.
Non posso permettere, ora che conosco i piani di mio padre, che subisca
una sconfitta".
"Una sconfitta è solo ciò che Agamennone si
merita", sentenziò Achille.
"Ma pensi veramente che anche noi la meritiamo?", gli chiese Odisseo.
"Io e tuo cugino Patroclo?".
Calò il silenzio.
"Odisseo, Patroclo. Potreste, per favore, lasciarmi solo con la dea?",
chiese Achille a bassa voce, fissando il tappeto sotto di
sé. "Ho bisogno di parlarle di alcune cose".
Sapevo già che cosa aveva intenzione di dirmi, tuttavia
sentii
il mio cuore accelerare il suo battito. Non volevo discutere con lui.
La situazione era già abbastanza difficile.
I due guerrieri uscirono dalla tenda, dedicandomi inchini e saluti a
cui risposi con un sorriso. Dopodiché mi voltai nuovamente
verso
il re dei Mirmidoni, preparata al peggio.
"Atena Glaucopide", iniziò, "io ho un enorme rispetto di
te, e ti sono devoto come non lo sono con nessun'altra
divinità.
Non voglio in alcun modo sembrarti empio o sfrontato. Tuttavia, ti
prego di non chiedermi più di tornare a combattere. Ti ho
già spiegato le mie ragioni, giorni fa".
"Certo, Pelide, me ne ricordo", risposi. "Ora, però, la
situazione è cambiata. So per certo che Zeus ha in serbo una
sconfitta per il tuo esercito. Capisci? Non posso permettere che questo
accada, non ora che saprei come evitarla, questa sconfitta".
"E' inutile, mia signora".
"Ma... i tuoi compagni!", esclamai, sforzandomi, in quel momento, di
essere la dea della Saggezza e non quella della Guerra. "Io li
proteggerò come ho sempre fatto, ma se Zeus stesso dovesse,
ad esempio, disarmarli e nasconderli
alla mia vista, non ci sarebbe niente che io potrei fare! Hai pensato a
Patroclo?".
Un'immagine era impressa nella mia mente. Patroclo steso a terra privo
dell'elmo, coperto da un'armatura non sua. Pallido e grondante di
sangue.
"Mia signora, finché il comandante di quell'esercito
sarà
Agamennone, io non combatterò con loro. Inoltre, se fosse
Zeus
stesso a disarmare i miei compagni, non credo che la mia presenza
potrebbe fare molto per salvarli. Chi sono io in confronto a Zeus, o a
qualunque altro dio?".
Il discorso aveva una sua logica, ma non volevo, non potevo accettarlo.
Quello che avevo davanti, in quel momento, non era un eroe, era un
principe dai mille capricci insulsi.
"Davvero il grande Achille è così meschino ed
egoista?",
dissi a bassa voce. "Davvero ad un grande eroe importa tanto del parere
degli altri? Se non stimi Agamennone, se non lo consideri degno di te,
allora non dovrebbe essere nemmeno degno delle tue
attenzioni.
Perché sprecare energia ad arrabbiarti con lui, Achille?
Perché vivere i tuoi giorni nella stasi? Perché,
invece,
non esci e non combatti, senza pensare a ciò che quella
persona può dire di te? Sono delusa". Dovetti sforzarmi
per non far sentire il tremolio della mia voce. "Sono veramente delusa.
Sei un egoista". Mi alzai e mi diressi verso l'uscita della tenda. Non
potevo più stare lì dentro, a meno di non voler
gettare
da una rupe ogni ultima traccia rimasta della mia natura divina e
superiore. "I
miei saluti".
Non appena fui fuori, mi resi invisibile a qualunque mortale e
cominciai a piangere. Achille uscì di corsa dalla tenda e mi
cercò con lo sguardo, ma inutilmente. Non sapeva certo che
in
quel momento ero esattamente davanti a lui. Rimase fermo a scrutare
l'accampamento, e potei leggere il dispiacere nei suoi occhi, un
dispiacere profondo. Quegli occhi erano due oceani tristi. Piansi
nuovamente, senza che lui mi vedesse né mi udisse. Non avevo
mai
pianto prima d'allora, neppure nel momento più brutto della
mia
vita - una notte terribile di anni, secoli prima che non ricordavo mai
volentieri.
Dopo qualche minuto Achille rientrò nella sua tenda. Una
parte
di me, la stessa che piangeva calde lacrime, volle rimanere
lì
finché non fosse uscito di nuovo, ma, per fortuna, almeno in
parte ero ancora la dea della Saggezza.
Mi asciugai le lacrime e mi diressi verso il bosco. Avrei avuto tanto
da raccontare alle civette, questa volta.
...
vi prego, non odiatemi. Ci ho messo sette mesi ad aggiornare, ma non
odiatemi. Pls. Ho avuto, nell'ordine: il test di biotecnologie, la
maturità, la patente, concerti vari di
pianoforte/canto/chipiùnehapiùnemetta e il test
di medicina. E' stato un periodo un po' pieno. Chiedo venia.
Ma passiamo alla storia. Come avrete visto, Atena non è una
dea perfetta se non vista dall'esterno: in realtà nasconde
molte domande, che si pone in continuazione, e molte insicurezze. In
questo capitolo lascia trapelare questa sua personalità
verso la fine, quando dice ad Achille di essere delusa da lui. Un'Atena
dell'Iliade di Omero probabilmente non avrebbe mai fatto niente di
simile, ne sono consapevole, ma io volevo, invece, soffermarmi sul lato
"umano" della dea (come farò per il resto della storia),
senza però mai esagerare (spero!).
Fatemi sapere la vostra opinione, anche se negativa!
Alla prossima, un beso a tutti!
Sophie
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Capitolo 5 *** 5 ***
CAPITOLO 5
Il giorno appena successivo Agamennone convocò il consiglio
degli anziani, dopodiché chiamò tutti gli Achei
in
assemblea.
Era una mattina fresca e arieggiata, le nuvole nell'alto dei cieli
erano continuamente plasmate e rimodellate dal vento. Mi chiesi se Eolo
si stesse divertendo a modulare le loro forme come più gli
piaceva.
Osservavo, ferma sulla riva del mare, le miriadi di soldati che
camminavano verso il centro dell'accampamento, chiedendosi l'un l'altro
cosa mai avesse spinto Agamennone a convocarli. La maggior parte di
loro, probabilmente, non aveva mai visto il volto del loro comandante.
Achille, come mi aspettavo, non si presentò.
"Salute, mia dea", esclamò qualcuno alla mia sinistra. Non
ebbi
bisogno di voltarmi per capire a chi apparteneva quella voce.
"Salute a te, figlio di Laerte".
"Questa assemblea non mi convince", affermò Odisseo.
"Perché mai Agamennone dovrebbe convocarci tutti solo per
organizzare un attacco? Non si è mai visto nulla di simile.
C'è sotto qualcosa, lo sento".
"Sono d'accordo con te", risposi. L'assemblea generale non
convinceva nemmeno me. Quale diavoleria si sarebbe inventato
Agamennone, questa volta? "Restami vicino durante l'adunata. Sono
sicura che ci sarà bisogno della tua famosa astuzia".
Odisseo aveva fatto bene a sospettare di Agamennone. Il generale,
infatti, aveva chiamato l'intero esercito per mettere alla prova la
fedeltà dei suoi soldati. Fece loro credere che la guerra
fosse
finita, che avrebbero potuto tornarsene alle loro case. Nessuno di loro
stava combattendo quella guerra per interessi personali o per servire
qualcuno a cui erano devoti: tutti quanti corsero verso le navi,
impazienti di lasciare quell'inferno. Per un momento, Odisseo
fissò la folla in corsa spaventato, impotente. Per fortuna,
fu
solo un attimo.
"Forza, Odisseo", lo incitai. "A te daranno ascolto. Fermali!".
Non ci fu bisogno di Agamennone e degli anziani: Odisseo seppe fermare
la folla con le sole proprie parole. Nemmeno il mio aiuto
fu necessario. Osservai quell'uomo, incredula: giovane ma scaltro e
pronto a tutto, capace di compiere con le parole quanto i
più
non riescono a portare a termine con la spada. Già altre
volte
il re di Itaca si era distinto fra i suoi compagni, ma mai quanto quel
giorno. Una volta calmata l'onda furiosa degli Achei, Odisseo fu capace
anche di stroncare le lamentele di uno sgradevole soldato di nome
Tersite, famoso nell'esercito per il suo cattivo carattere.
Sorrisi: qualche soldato dotato di buon senso era rimasto.
Quasi a farlo apposta, voltandomi verso il mare potei vedere Achille
che osservava la scena da lontano, seduto su un gruppo di scogli
percossi dalle onde. Riuscivo a scorgere i dettagli del suo viso:
guardava nella direzione mia e di Odisseo con un'espressione di
indefinibile serietà.
I giorni successivi passarono come in uno strano sogno di attesa. Ero
diventata la consigliera di guerra di Odisseo: lo aiutavo in ogni
scontro, e parlare con lui era sempre interessante. Vedere come la
mente di un mortale potesse escogitare piani come i suoi mi
affascinava. Era un uomo serio e responsabile, che dava tutto se stesso
all'esercito e alla buona riuscita della spedizione. Tuttavia, non
passava un giorno senza che mi parlasse della sua patria, la rocciosa
Itaca, di suo figlio Telemaco e di sua moglie. Si chiamava Penelope, ed
era la cugina di Elena di Troia.
"E tu hai preferito Penelope a sua cugina?", gli chiesi la prima volta
che mi parlò di lei. "La donna più bella del
mondo?".
Odisseo sorrise:
"Elena sarà anche la donna più bella del mondo.
Ma Penelope è la donna più bella del mio mondo.
Elena avrà i capelli d'oro, gli occhi verdi e il corpo
simile a
quello di Afrodite, ma non vedo in lei la luce di Penelope. Potrei
avere mille altre donne durante la mia vita, ma nessuna di queste
potrebbe competere con Penelope, anche se più belle di lei".
Da un uomo saggio come lui non avrei potuto aspettarmi altro che una
risposta simile, e ne fui profondamente felice. Fui felice per
Penelope, compagna di vita di un uomo intelligente e saggio, e fui
felice per loro figlio Telemaco.
Cercavo sempre di non guardare nella direzione delle tende dei
Mirmidoni, e se possibile ne stavo alla larga. Ma qualche volta, solo
qualche volta, mi lasciavo prendere dalla debolezza. Allora mi
sollevavo in alto nel cielo, con le mie ali da civetta, e passavo in
volo sopra l'accampamento di Achille.
Capitava che non lo vedessi da nessuna parte, e allora tornavo
indietro. Altre volte, invece, lo vedevo giocare al lancio del disco
con Patroclo, e una parte di me sorrideva alla vista dei due cugini e
del profondo affetto che li legava, un affetto che probabilmente andava
oltre l'amicizia.
Infine, c'erano le volte in cui Achille sedeva da solo in riva al mare,
e allora mi fermavo a volare in cerchio sopra di lui, cercando di non
farmi vedere.
Scrutava sempre l'orizzonte. Forse pensava a sua madre Teti, ninfa
marina. Forse pensava ai suoi compagni che, nel frattempo, stavano
combattendo. Forse sperava, preoccupato, che non succedesse nulla a
Patroclo mentre lui non c'era. Avrei potuto ascoltare i suoi pensieri
se lo avessi voluto, ma non lo facevo mai. Vedevo la cosa come una
mancanza di rispetto, non sarei mai entrata nella testa di nessuno.
Forse, mi ritrovavo ogni volta a sperare, stava pensando alla dea
Atena, che si era dichiarata delusa da lui. E allora venivo assalita da
un moto di tristezza mista ad indignazione: se solo fosse stato
responsabile e saggio come Odisseo, invece che capriccioso e volubile.
La sua impulsività gli avrebbe portato
solo danni nella sua breve vita.
Ogni volta, appena arrivavo a questo punto di pensieri, Achille
sollevava la testa di scatto e mi notava, come se l'avessi chiamato.
Non c'erano mai parole tra di noi, ma lui ogni volta capiva che ero
lì, e che - stavo quasi imparando ad ammetterlo a me stessa
-
non ero preoccupata solo per la sorte dell'esercito: ero preoccupata
anche per la sua.
L'altro pensiero ricorrente di quei giorni erano gli altri dei: dopo la
visita di Hera non avevo più avuto contatti con nessun'altra
divinità, e mi chiedevo quando e come li avrei rivisti.
La risposta arrivò il giorno del duello.
Sembrava una battaglia come le altre: ormai non c'era più
tensione fra i soldati, non c'era più paura. Ognuno di loro
aveva assimilato la consapevolezza di poter morire da un momento
all'altro, e questo mi spaventava più di qualsiasi scontro.
Quel giorno, nessuno dei due eserciti accennava a compiere alcuna
mossa: le due fazioni erano schierate l'una di fronte all'altra, ferme. Io, come sempre, ero sul campo
insieme agli Achei.
Ad un tratto, un troiano si
fece avanti, uscendo allo scoperto di
fronte agli avversari. Era giovane e bellissimo, gli occhi neri grandi
ed
espressivi come quelli di un cerbiatto. Sembrava ancora più
un
ragazzino che un uomo, e le sue membra perfette erano ricoperte, oltre
che dall'armatura, da una pelle di leopardo.
Paride.
Un mormorio indistinto percorse l'intero esercito acheo. Lanciai
un'occhiata in direzione di Menelao, che stava nelle prime linee sul
suo carro, poco lontano da me. Al contrario del fratello, lo vedevo
sempre combattere. Forse, era l'unico che ancora credeva in quella
spedizione. Alcune ciocche di capelli biondi che gli uscivano dall'elmo
rilucevano al sole, e teneva lo sguardo fisso su Paride, le
sopracciglia agrottate. Lui sì che, al contrario del principe
avversario, aveva l'aspetto di un uomo.
"Chi ne ha il coraggio", esordì Paride, cercando di fare la
voce
grossa, "si faccia avanti e venga a combattere. Io sono il principe
Paride, io vi ho rubato Elena! Se potete, venite a punirmi!".
Percepii un forte tremito nella sua voce. Intenzioni buone, ma mancanza
di coraggio. Mi domandai dopo quanto tempo sarebbe fuggito a gambe
levate. Odisseo, accanto a me, sembrava starsi chiedendo le stesse cose.
Menelao invece non se lo fece ripetere due volte: immediatamente
balzò
a terra e corse verso il suo rivale con la velocità e la
ferocia
di un leone all'attacco. Paride, che probabilmente tutto si sarebbe
aspettato fuorché questo, spalancò gli occhi e,
con
un'espressione di terrore, scappò verso il suo esercito fino
a
raggiungere suo fratello Ettore in prima linea. Menelao si
fermò, furioso, e gli Achei si guardarono l'un l'altro con
incredulità. Io, invece, non ero affatto sorpresa.
Ettore rimproverò duramente il fratello con aspre parole.
Lui,
sì, che aveva tutto l'aspetto di un principe. Non doveva
avere
molti anni in più del fratello, ma fra i due sembrava quasi
intercorrere un'intera generazione. Vidi
Paride annuire più volte, e alla fine annunciò
che
avrebbe combattuto in duello contro Menelao: chi avrebbe vinto si
sarebbe preso Elena, e la vittoria sarebbe stata sua.
Dubitavo fortemente che le cose sarebbero andate come Paride aveva
appena annunciato. Nonostante entrambi gli eserciti fossero
visibilmente entusiasti della decisione presa - tutti avrebbero
finalmente potuto tornare a casa dalle loro famiglie - a me sembrava
tutto troppo... facile. Scontato. Troppo veloce. Qualcosa non sarebbe
andato secondo i piani, e io lo sapevo.
Il duello ebbe inizio. Menelao, a causa della sua
impulsività, in
breve rimase disarmato: la sua asta era conficcata nello scudo di
Paride, la spada frantumata nel tentativo di rompergli l'elmo. Il re di
Sparta, però, non si diede per vinto: come una furia si
avventò su Paride e lo prese per l'elmo, tirandolo a
sé
fino quasi a strozzarlo. Era molto più grande e muscoloso
del
giovane avversario, e riuscì a trascinarlo a forza verso
l'esercito
Acheo, mentre i Troiani osservavano la scena con gli occhi sbarrati.
Ettore in particolare aveva la bocca semiaperta e un'espressione di
totale disperazione e smarrimento sul volto.
Improvvisamente una figura bianca ed eterea arrivò volando,
luminosa come una cometa. Conoscevo quel fulgore, conoscevo quella
grazia: Afrodite. Fu improvvisa, velocissima: prima ancora che mi
rendessi conto della situazione aveva slacciato la cinghia dell'elmo di
Paride, facendo cadere a terra il principe e lasciando in
mano a Menelao l'elmo vuoto. Afrodite avvolse Paride in una nuvola di
nebbia
che si dissolse dopo un attimo: il figlio di Priamo era sparito.
Menelao si guardava intorno senza capire. Lui non poteva vederla: era
alta nel cielo, bianca e luminosa, i capelli d'oro
a circondarle il viso su cui era stampata una decisa ed irritante
espressione di sfida. E i suoi occhi guardavano esattamente nella mia
direzione.
"Atena, era da tanti giorni che non ti vedevo", esclamò, un
sopracciglio alzato. "Nostro padre ti ha forse proibito di tornare?".
"Paride è fuggito e Menelao ha vinto", diceva nel frattempo
Agamennone. "Rendetegli Elena e le sue ricchezze!".
"Che cosa hai fatto?!", gridai volando alta verso di lei. "Disgraziata!
Hai interrotto un duello!".
"Così voleva il Fato", rispose lei in tutta calma,
sorridendo. Nessun soldato poteva più vederci.
"Storie! Sei stata tu a volerlo! Sapevi che Paride sarebbe stato
sconfitto!".
"Ora i tuoi Greci hanno avuto la loro vittoria, non sei contenta?".
"Sai benissimo che non è così! Ora uno dei due
eserciti
attaccherà l'altro e la sconfitta di Troia sarà
ancora
rimandata! Lo sai fin troppo bene!".
Proprio in quel momento un grido di Menelao richiamò la mia
attenzione sull'esercito. Una freccia troiana l'aveva colpito alla
gamba. Il silenzio più totale piombò sui due
eserciti.
"Certo che lo so". Afrodite sorrise di nuovo. "Buona battaglia, Atena!".
Ritornai in picchiata sul campo. Scoppiò il
pandemonio. Avevo avuto ragione a
sospettare: eravamo
di nuovo immersi nell'ennesimo scontro cruento. Avevo perso di vista
Odisseo, ma ero sicura che il re di Itaca sarebbe stato capace di
cavarsela da solo. Come ogni volta che mi
trovavo in un combattimento, smisi di ragionare e lasciai che fosse la
Guerra a guidarmi, con i suoi clangori e i suoi scintillii di armature.
Vidi Diomede che, veloce, mi si avvicinava con il suo carro maestoso.
D'istinto, con un balzo vi fui sopra. Gli occhi mi lacrimavano per la
polvere e per il vento, i cavalli correvano veloci come i fulmini di
mio padre Zeus.
"Sei tu, mia signora?", mi urlò Diomede in mezzo al fragore,
guardando fisso verso la mischia davanti a sé. "Atena
Glaucopide?".
Mi affiancai a lui e per tutta risposta gli corressi la posizione del
braccio prima che lanciasse l'asta, aiutandolo a colpire un arcere
troiano che mirava proprio a lui.
Vedemmo in lontananza Afrodite, e feci in cenno a Diomede con la testa.
Il figlio di Tideo ordinò all'auriga di
dirigersi in quella direzione. Non
aspettai che prendesse un'altra asta: senza pensarci gli misi in mano
la mia, forgiata personalmente da Efesto, d'oro e avorio. Di nuovo gli
sostenni il braccio e glie lo portai all'altezza giusta. Non
all'altezza per uccidere, no, ma a quella per ferire.
Diomede scagliò l'asta e colpì di striscio
Afrodite,
che emise un grido di dolore e immediatamente si
voltò a
guardarmi negli occhi. Aveva un taglio
sul braccio, non profondo ma lungo, che sanguinava.
"Questo Zeus lo saprà", mi gridò la dea
dell'Amore, una
luce negli occhi che non potrei mai dimenticare. "E tu davvero non
rivedrai mai
più l'Olimpo! Mai più!".
Come se questo avesse fatto qualche differenza, pensai con rabia: ero già
stata condannata a non vedere più la mia casa! Afrodite mi
guardò in silenzio per un altro secondo come un animale
ferito,
poi svanì in una nuvola simile a quella con cui aveva fatto
scomparire Paride, e io cercai di tornare nell'irrazionalità
della mischia. Non volevo ritrovarmi ad affrontare il fatto che avevo
appena indirettamente colpito Afrodite. Non volevo ricordare i suoi
occhi e la loro espressione tradita, non volevo sentire la colpa, non
in quel momento.
La Guerra si impossessò definitivamente di me, impedendomi
di
provare qualsiasi sentimento. Ero diventata l'anima stessa della
battaglia, la mente di ogni attacco, la legge fisica dietro ogni
lancio. Ero diventata la strategia,
una strategia che parlava chiaro: mettere fuori gioco chiunque aiutasse
i nemici. Non avevo più un corpo, ero solo uno spirito
iridescente e impetuoso, ponto a compiere il suo dovere.
Mi infilai nel corpo dell'auriga e guidai il carro di Diomede
attraverso la confusione, il sangue e le punte acuminate. Una violenza
soprannaturale regnava sulla battaglia: Ares combatteva con i Troiani.
Lo vidi da lontano, imponente e violento, sterminare chiunque gli si
trovasse davanti. Dietro di lui combatteva Apollo. Immediatamente feci
galoppare i cavalli nella loro direzione, con tanta foga che il carro
quasi si ribaltò. Tutto era sempre più veloce,
più
forte, più vicino. Diomede si reggeva in piedi in perfetto
equilibrio, tenendo l'asta in posizione di lancio.
Il dio della Lotta mi riconobbe, e vidi i suoi occhi scintillare di un
rosso cupo da sotto l'elmo.
Fu una frazione di secondo.
"Lancia!", gridai con tutte le mie forze, e un attimo dopo l'arma di
Diomede aveva scalfito la pelle di Ares, facendolo sanguinare
esattamente come Afrodite. Diomede aveva preso un'altra
lancia e l'aveva già sollevata, pronto a scagliarla verso
Apollo, ma il dio del Sole fuggì.
Lo vidi prendere il volo e scappare verso l'alto, e ben presto la sua
capigliatura dorata diventò tutt'uno con l'astro nascente.
La furia di Diomede cessò quando si trovò di
fronte a
Glauco, un guerriero troiano a lui legato da antichi vincoli di
ospitalità. L'eroe smise di combattere, e con la sua furia
svanì anche il mio ardore di guerra, e tornai me stessa.
Diomede
non aveva più bisogno del mio aiuto, così presi
il volo e
sorvolai la battaglia, cercando con gli occhi qualche acheo in
difficoltà da soccorrere. Davanti a me si ergeva Troia in
tutta
la sua magnificenza, una città che tendeva verso l'alto e
culminava con lo splendente palazzo di Priamo, come la vetta innevata
di un monte.
E ora, invece,
è annerito e mangiato dal tempo, abitato solo dalle anime
dell'antica polvere.
I
miei occhi furono
attirati da due figure alla base della città, alle porte
Scee.
Socchiusi le palpebre: erano un uomo e una donna, ed ero più
che
certa che l'uomo fosse Ettore, il valoroso principe troiano.
Incuriosita, mi feci trasportare dal vento verso le porte, e ben presto
piume di civetta mi ricoprirono le braccia. Riuscivo ancora a vedere la
battaglia, ma un'immensa curiosità mi spingeva verso le
porte Scee.
In breve mi ritrovai a volare sopra gli enormi battenti storti di
Troia. Ettore parlava con una bellissima donna dai lunghi ricci castani
che il vento gonfiava. In braccio alla madre stava un neonato che si
guardava intorno sbigottito, senza capire dove fosse capitato.
"Se tu muori, di me non resterà che polvere!", diceva la
donna,
piangendo. "Tu sei per me sei
sia il padre che la madre, sei i miei fratelli e il mio sposo, e sei il
padre di mio figlio".
Ettore sospirò. Non vidi lacrime sulle sue guance, ma dentro
di sé quell'uomo era frantumato dal dolore, e una parte di
lui urlava in silenzio.
"Andromaca, sai che non voglio per nostro figlio il destino di un
orfano. Ma, se non andassi a combattere, non potrei più
ripresentarmi come principe di Troia: chiunque, vedendomi, riderebbe di
me e della mia vigliaccheria". Parole che mi sembrava di avere
già sentito. "So bene che Ilio cadrà, e non posso
accettare l'idea che tu diventerai la schiava di qualche acheo". A
questo punto Andromaca cominciò a singhiozzare. "Quindi,
spero
di essere morto prima che questo accada, non potrei sopportarlo".
Ettore si avvicinò al figlio per prenderlo in
braccio, ma
il piccolo si ritrasse con un gemito di paura. Il padre sorrise e si
tolse
l'elmo, e questa volta suo figlio lo riconobbe. Con il neonato in
braccio, Ettore dedicò una preghiera a Zeus sotto la luce
accecante di
quel sole, poi rivolse alla moglie l'ultimo saluto:
"Non ti affliggere: se morirò, sarà
perché il Fato vuole così".
Si guardarono negli occhi per un istante lungo decenni, e probabilmente
si raccontarono in uno sguardo quanto non erano riusciti a dirsi in
anni e anni. Infine, Ettore diede un bacio al figlio, lo rimise in
braccio alla moglie e si allontanò verso la
battaglia, lasciando Andromaca nella disperazione. Una disperazione
ormai priva di speranza.
Andromaca rimase ferma a guardare il marito che si allontanava, le
vesti mosse dal vento, infine rientrò a passo lento in
città e sulla soglia delle Scee non
rimase più nessuno. Ero sola con il sole e il vento.
Ero profondamente colpita. Il silenzioso grido di dolore di Ettore mi
rimbombava ancora in testa. Avevo visto negli occhi suoi e di Andromaca
una luce che io non
avevo mai realmente sperimentato. Avevo percepito nelle loro voci una
nota diversa. Non ero mai stata come Artemide, che volutamente aveva
sempre rifiutato ogni forma di amore, corporale o spirituale. Io,
semplicemente, non me ne ero mai interessata. Avevo sempre avuto
pensieri più urgenti. Avevo passato i miei anni scrutando le
profondità dei cieli notturni e scoprendo nuove saggezze
nelle
leggi fisiche che governano il moto dei pianeti. Avevo sperimentato
livelli di astrazione superiori, avevo affinato i miei sensi. Non mi
ero mai innamorata, ma non avevo mai sentito la mancanza di un
sentimento del genere. Non l'avevo ripudiato, non l'avevo cercato.
Qualcuno l'aveva cercato in me, ma evitavo sempre di pensare a quel
giorno, o meglio, quella notte.
Le poche parole che i due amanti si erano scambiati avevano portato con
loro, oltre alla malincionia, dei pensieri che avevano
cominciato
a martellarmi la testa. Pensieri sconosciuti ma, lo sapevo, infidi.
Pericolosi. Se avessi abbassato la guardia, si sarebbero insinuati
nella mia mente, e questo non doveva assolutamente accadere.
Mi voltai nuovamente verso la piana della battaglia, in modo da non
vedere più le Scee. Mano a mano che planavo verso i soldati
in
guerra riacquistavo la mia forma umana, e quando toccai terra ero di
nuovo una giovane donna dagli occhi azzurri, armata e pronta a
combattere.
Come ogni giorno, all'imbrunire venne sancita la tregua, e iniziarono i
rituali di sepoltura per i morti.
Le pire ardevano in lontananza, tingendo d'arancio il cielo color
pervinca del tramonto. I loro fumi si fondevano con le nuvole,
amalgamando il colore del sole e quello dei fuochi. Il mare rifletteva
le tinte, increspandole e facendole risplendere. Se non avessi
conosciuto
la morte e la desolazione che accompagnavano quei colori, avrei detto
che era uno spettacolo meraviglioso.
Tirava una brezza leggermente pungente, tipica delle prime sere
d'estate: di giorno il sole arde e scalda, ma appena il carro dorato
sparisce oltre l'orizzonte, la sera raffredda improvvisamente il mondo,
facendolo respirare.
Camminavo sul bagnasciuga, osservando l'accampamento poco
lontano. Non passò molto tempo prima che mi ritrovassi
davanti
alle tende dei Mirmidoni. Non mi nascondevo più. In una sola
giornata avevo vissuto anni e
anni, e forse tutto quello che mi serviva era parlare con
qualcuno. Non con l'ardore di Diomede o con la macchinosa astuzia di
Odiesso: avevo bisogno di umanità, pura e difettosa
umanità.
Achille, come mi aspettavo, era seduto in riva al mare, lo sguardo
fisso verso l'esplosione del tramonto. Lo raggiunsi lentamente e mi
sedetti accanto a lui, sulla sabbia grezza della costa di Troia.
"Atena Glaucopide", disse Achille, spostando lo sguardo su di me.
"Achille Pelide", risposi.
Poi, entrambi tornammo a concentrarci sulle violente pennellate del
tramonto miste al fumo delle pire. Colori che riflettevano lo scontro
di poco prima.
"Sono passati giorni dall'ultima volta che abbiamo parlato",
constatò.
"Per questo sono qui, figlio di Peleo".
Lo udii sogghignare piano, poi parlò:
"Mi dispiace, mia signora, ma non ho cambiato idea riguardo
all'argomento delle nostre ultime discussioni".
"La mia intenzione non era di parlare di questo, infatti".
"Allora a cosa devo l'onore della tua visita, mia signora?".
Sospirai. "A volte bisogna raccontare, parlare".
"Mi trovi d'accordo".
"Oggi in battaglia ho colpito Afrodite", cominciai, e le parole mi
uscirono incontrollate come un fiume in piena. Achille si
voltò
a guardarmi incuriosito, le sopracciglia agrottate. "E Ares. E ho messo
in fuga Apollo. In realtà è stato Diomede figlio
di Tideo
a colpirli, ma io guidavo il suo carro. Io. Anche se siamo sempre state
opposte, Afrodite è come una sorella per me. In pochi giorni
mi
sono resi nemici quasi tutti gli dei, quelli che avevo sempre
considerato la mia famiglia. Solo Hera è rimasta dalla mia
parte. Mi
chiedo se rivedrò mai più l'Olimpo, se mio padre
mi
riaccoglierà mai. Vorrei poter tornare da tutti loro, anche
solo
una volta. Nella mia vita ho avuto contrasti con molte
divinità,
ma ora è come se nulla di questo importasse più.
Al tempo
stesso, però, non posso abbandonare il campo di battaglia.
Ho
promesso che vi avrei aiutati, e il mio ruolo, il mio dovere
è
questo. Ma non smetto di farmi domande. Poco fa ho visto il Principe
Ettore dire addio a sua moglie prima della battaglia, e ho capito che
c'è qualcosa che mi manca. Non saprei spiegarlo.
C'è
qualcosa che non ho mai conosciuto, e che ho bisogno di conoscere.
Davvero l'amore è così importante?". Feci una
pausa.
"Ti porgo le mie scuse, figlio di Peleo. Non avrei dovuto dirti tutto
questo. So che non è proprio
di una divinità parlare
così di se stessa, ma anche una dea, delle volte, ha bisogno
di
riflettere sulle
proprie azioni. Anzi, io lo faccio piuttosto spesso. Troppo, forse".
"So bene che un dio
riflette esattamente come un essere umano, anzi, molto di
più", mi rispose lui a voce bassa.
"Vorrei farlo anche io. Temo di fermarmi troppo poco a pensare. Ho il
dubbio di stare
sbagliando. Negli ultimi giorni ho cercato di dedicarmi al pensiero
più che a ogni altra cosa, ma ogni riflessione mi riportava
sempre, inesorabilmente alla guerra". Scosse la testa. "Hai chiesto se
l'amore è davvero così importante, figlia di
Zeus?
Purtroppo non sono la persona più adatta per risponderti. Ho
una
moglie, a Ftia, ma non sono sicuro di amarla. Penso che amare sia una
parola molto complicata, e forse è meglio non usarla mai.
Prendi
Patroclo, mio cugino: l'affetto che nutro per lui è di gran
lunga superiore rispetto a quello che provo per mia moglie, e penso sia
il sentimento più forte che provo. Ma non avrei un nome da
darvi. A me basta che esista. Non so se davvero l'amore
è così necessario, ma non penso che sia una
questione da
porsi. Se si è soddisfatti della propria vita, vuol dire che
la
si sta vivendo nel modo giusto per
se stessi amore o non amore. Ma se si ha la sensazione
che qualcosa manchi, allora la risposta è chiara".
Non seppi rispondere e rimasi in silenzio a guardarlo. Quell'uomo non poteva essere
lo stesso che da giorni aveva deciso di non combattere a causa di un
capriccio. Lo
scrutavo senza dire una parola, e i miei pensieri, poco alla volta e
contro la mia volontà, iniziarono a viaggiare lungo il corso
dei
suoi neuroni. Per la prima volta, alla luce infuocata di quel tramonto,
non vidi l'eroe, non vidi il semidio: vidi la persona. Vidi la
complessità della psiche, vidi i contrasti e le armonie,
l'imperfetta perfezione della mente umana, quello che avevo sperato di
trovare quando mi ero seduta accanto a lui.
Ma subito tornai in me e riacquistai lucidità.
"Ti ho offesa con la mia risposta, mia signora?", chiese Achille
guardandomi negli occhi. "Ti delusa ancora di più di quanto
non abbia già fatto?".
"No", risposi. "No. Niente affatto".
Il tramonto faceva risplendere dei fuochi nell'oceano dei suoi occhi, e
lo rendeva simile ad una rilucente statua di bronzo. Se qualcuno ci
avesse visti dall'esterno avrebbe detto che lui era una
divinità, e io una donna qualsiasi.
"Passa una notte tranquilla, Pelide", gli augurai alzandomi. Gli
rivolsi quello che avrebbe potuto assomigliare ad un sorriso timido e
mi allontanai da lui di qualche passo, verso il bosco delle civette.
"Atena Glaucopide!". Al suono della mia voce mi voltai di nuovo a
guardarlo. Aveva sul viso un'espressione preoccupata. "Davvero non ti
ho offesa?".
Questa volta gli rivolsi un sorriso sincero, sincero in ogni
particella, e non ebbi bisogno di rispondergli.
Il bosco mi aspettava. Potevo sentire i richiami delle civette fin
dalla spiaggia, striduli suoni nel buio.
NDA:
La lunghezza di questi capitoli cresce con andamento esponenziale,
aiuto.
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