Glaukopis

di Sophie Isabella Nikolaevna
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1 ***
Capitolo 2: *** 2 ***
Capitolo 3: *** 3 ***
Capitolo 4: *** 4 ***
Capitolo 5: *** 5 ***



Capitolo 1
*** 1 ***


Licenza Creative Commons
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GLAUKOPIS 




CAPITOLO 1

Sono passati anni, tanti anni, dall'ultima volta in cui ho messo piede in questo luogo. Tanti anni, ma non abbastanza da farmi dimenticare di quello che è successo.
La piana è deserta, tutto ciò che i miei piedi calpestano è terra chiara mista a sabbia ocra. Il vento fa volare la polvere tutto intorno a me e mi scompiglia i capelli, che la mia complicata acconciatura non riesce a trattenere. Briciole di pulviscolo mi entrano negli occhi, facendoli lacrimare. O forse sto piangendo veramente, non è colpa del vento.
Alla mia sinistra si estende il mare, una distesa del blu più vero che abbia mai visto. E' un pozzo profondo, una coperta finemente tessuta, un cielo notturno sceso in terra per riposare.

Alla mia destra, invece, le rovine. I resti delle mura, squarciate un po' dal tempo e un po' da quella guerra tanto lontana, e oltre le mura, macerie di abitazioni ancora annerite. Lo scheletro del Cavallo, invece, non c'è più. Deve essersi distrutto con lo scorrere degli anni, con le piogge e con i fulmini di mio padre.
Mio padre. Mi guardo intorno preoccupata. Non c'è nessuno, ma so che lui sa che mi trovo qui. Come potrebbe non saperlo? Oltre ad essere il più potente degli dei, è anche mio padre. Sa di sicuro delle lacrime che, ancora una volta dopo tanti anni, mi solcano le guance.
In me non è cambiato nulla da allora. Sono rimasta la stessa. Sono una dea, e gli dei non invecchiano come gli uomini, non con la loro rapidità. Quanti anni sono passati? Due, cinque, sette? Potrebbe non esserne passato nessuno. Solo guardandomi intorno intuisco che di tempo ne è passato.
Ma così come non è cambiato il mio aspetto, non è cambiato quello che provo, né il ricordo di quello che ho provato, in questo luogo, tempo fa.
Non è cambiato il mio ricordo dell'incontro con quell'uomo, e di tutto quello che tale incontro ha comportato.
Mi infilo l'elmo che tengo sottobraccio e mi dirigo verso le mura diroccate, e mi sembra ancora di vedere quell'esercito potente come un'onda del mare, e di sentire ancora quegli schiamazzi agitare la piana di Troia.


La prima volta in cui lo vidi, la guerra era appena iniziata.
Il mare color notte era invaso dalle navi. Migliaia di navi. Navi dalle vele colorate, sparpagliate come stelle. Miriadi di guerrieri, schiavi e schiave si riversavano sulla spiaggia di sabbia e terriccio. Ognuno proveniva da un diverso luogo, infinite culture si stavano fondendo in un trepidante marasma.
Ero scesa alla piana di Troia con Artemide e Afrodite, per vedere come procedeva l'arrivo degli Achei a Ilio. Mentre loro erano entusiaste, io, pur nella mia curiosità, non ero serena. Ritenevo quella una guerra giusta, ma futile. Una guerra per una donna, offerta a quel tale, quel Paride, da Afrodite. Una guerra che avrebbe potuto essere evitata. Ero la dea della guerra combattuta per nobili cause. Il dio della violenza era quel megalomane di Ares, io mi occupavo solo ciò che era combattuto giustamente. Ero, però, anche la dea della saggezza, e la mia mente mi diceva che, per quanto giusta, era una guerra inutile. Per la prima volta ero divisa, combattuta.
Ero una dea, non un'umana, eppure mi comportavo come una di loro.
"Non possiamo restare qui", riflettei ad alta voce. "'E' meglio tornare da nostro padre".
"Non ci penso nemmeno", cinguettò Afrodite. "A Troia c'è mio figlio Enea. Suo padre è Anchise, ve ne ho parlato, quando...".
"Efesto, Ares, poi questo mortale, Anchise... ti ricordo che sei tu stessa la causa di questa guerra, Afrodite".
"Artemide, se non vuoi stare qua puoi tranquillamente tornartene all'Olimpo. E tu Atena, se vuoi, puoi andare con lei. Io ho intenzione di assumere le sembianze di una schiava, entrare a Troia e salutare mio figlio".
Ciò detto, in un attimo Afrodite si tramutò in una ragazza dagli abiti poveri e poco appariscenti tipici di una schiava, e sparì in mezzo alla folla. Era così minuta e veloce che in attimo la perdemmo di vista.
"Non rischia di essere catturata dagli Achei?", domandò Artemide, un poco preoccupata, osservando sei enormi guerrieri poco lontani da noi che scaricavano da una nave un pesante ariete di legno.
"No", la rassicurai. "E' abbastanza veloce e poco appariscente da non essere notata. E inoltre, è una dea, come noi".
Restammo in silenzio per qualche secondo, ad osservare il viavai di armi e soldati.
"Io la seguo", affermò. "Anche se di certo non andrò a rimirare i guerrieri: voglio vedere Troia. Là sono molto devoti al culto di Artemide dea della caccia. Vieni anche tu?".
Artemide si voltò a guardarmi interrogativamente.
Osservai le alte mura di Troia, mura che sembravano inoppugnabili, stagliarsi illuminate contro il cielo terso. Il Sole ardeva senza pietà, quel giorno. Poi il mio sguardo passò alla moltitudine di soldati Achei. Principi e re, ognuno con la propria nave dalla vela colorata, venuti a combattere per una donna.
"No", le risposi, mantenendo fisso lo sguardo sugli Achei, "io resto qui, sulla spiaggia".
Mentre Artemide si allontanava, anche io assunsi le sembianze di una schiava: ma non di una schiava Troiana, bensì una proveniente dalla Grecia. Feci il mio gesto abituale di calarmi l'elmo sul viso, ma restai a mani vuote: non avevo più l'elmo, solo capelli castani, ben diversi dalla mia veri chioma color dell'ebano.
Mi avvicinai alla folla, pronta ad inoltrarmici.
Ed ecco, ero dentro. Le persone mi sorpassavano, mi urtavano, mi vedevano ma non mi osservavano. Potevo spiare senza essere spiata.
Sentii un richiamo nell'aria. In lontananza volava una civetta. Sospirai. Una civetta che volava in pieno giorno non era normale, i guerrieri avrebbero subito capito che Atena si era nascosta tra la folla. Feci un'impercettibile gesto con la testa, invitandola ad allontanarsi.
La mia attenzione fu attratta da una coppia di uomini accanto ad una tenda che discutevano con, apparentemente, enorme trasporto. Non stavano litigando, come avevo pensato in un primo momento. Stavano parlando di spedizioni militari, e uno dei due faceva proposte all'altro, con il tono di chi non può aspettare un minuto di più. Spedizioni militari. Mi avvicinai, cercando di non essere notata. Era sempre così: ogni volta che si trattava di guerre e battaglie, sentivo un fremito percorrermi da capo a piedi, ed ero attratta inevitabilmente dal discorso, o dalle armi, o da qualsiasi cosa fosse. Gli scintillii al Sole degli scudi erano tutti per me, quando li vedevo sembravano quasi chiamarmi. Parole come "spedizione", "armata" e "lancia" avevano un suono che incantava il mio udito, come una musica che conquista lo spirito.
Li osservai. Uno dei due era più basso e meno appariscente dell'altro, parlava con un tono di voce più pacato e sembrava più tendente alla bontà e alla gentilezza. L'altro invece si esprimeva con gesti forti e decisi. Era più muscoloso e alto dell'amico, la voce più possente, maggiore l'inclinazione alla guerra e alla violenza. Però, erano entrambi biondi e bellissimi. I loro capelli sembravano pagliuzze d'oro, che risplendevano come infuocate al Sole della terra di Ilio.
"Dobbiamo essere soltanto noi Mirmidoni", stava dicendo quello più alto al compagno, gesticolando freneticamente. "Altrimenti la cosa non riuscirà. Per abbattere le difese esterne della città bastano pochi soldati, mobilitare l'intero esercito significherebbe...".
"Lo so, lo so!", esclamò l'altro ridendo. "Tranquillo. Me lo hai già detto. Ora, piuttosto, vai a recuperare il resto della tua roba, l'hai lasciata quasi tutta sulla nave".
"Ora non posso", rifletté il primo. "Ho altro a cui pensare, devo parlare con Agamennone di una faccenda, e poi mettere a posto gli oggetti che ho già scaricato".
"Allora andrò io a prenderla, se vuoi".
Il guerriero guardo l'altro sorridendo.
"Grazie. Sei un amico".
"Di niente. Sono solo felice di poterti fare un favore".
Nei pochi secondo in cui rimasero a fissarsi, potei notare che, nonostante le maggiori altezza e virtù fisiche, il guerriero che aveva parlato di spedizioni militari sembrava il più giovane fra i due. Si notava in lui una certa impulsività a cui l'altro sembrava essere superiore, come chi ha più anni di esperienza - o forse, semplicemente, erano due persone molto diverse. Diverse ma profondamente, inscindibilmente legate. Lo si intuiva dal sorriso impresso sui volti di entrambi nei pochi istanti in cui si guardarono negli occhi. Mentre quello più basso aveva sorriso per tutto il tempo, l'altro l'aveva fatto solo in quel momento. Ma in quel sorriso c'erano tutta la sincerità e tutto l'affetto di un vero amico, quasi di un fratello.
Si separarono. Uno si diresse verso il mare, l'altro sparì in direzione delle mura. Davanti a me era rimasta solo la tenda, immaginai appartenente ad uno dei due.
Vinta dalla curiosità e dal desiderio di saperne di più su quei due amici dai capelli d'oro, vi entrai.
C'era un ricco giaciglio addossato alla parete in fondo, e il resto del pavimento era cosparso di sacche di tela piene di qualcosa. Il guerriero proprietario della tenda evidentemente non era ancora riuscito a mettere ordine. Mi chinai, tentata di sbirciare il contenuto di una delle sacche. Un pensiero mi attraversò la mente come un lampo di quelli di mio padre: mi stavo comportando esattamente come Afrodite. Un'impicciona irrispettosa. Ero la dea della saggezza. Ma ero anche la dea della guerra, e probabilmente alcune di quelle sacche contenevano armi. Al solo pensiero di slacciare l'apertura della tela e ritrovarmi fra le mani del ferro scintillante, non resistetti.
Proprio come avevo immaginato, il baluginare del riflesso del Sole che filtrava dalla tenda sul ferro mi rapì. Un attimo dopo, però, mi accorsi che ciò che riluceva non era ferro bensì rame, e che non si trattava di un'arma bensì di una statuetta di un dio. La presi in mano: rappresentava una dea che portava, sopra la veste, un'armatura. In mano teneva un'alta lancia e in testa un elmo, su cui era posata una civetta.
Era una statuetta di Atena, una mia statuetta.
"Chi sei? Cosa ci fai qui?".
Una voce possente mi fece sobbalzare, e la statuetta mi cadde di mano. Era entrato il guerriero più alto e muscoloso, che ora mi fissava con gli occhi azzurri che rilucevano d'ira.
"Chi sei? Come osi entrare nella mia tenda e frugare nelle mie cose?", gridò. Mi si avvicinò a grandi passi e mi prese per le spalle, prima che potessi compiere qualsiasi gesto. "Rispondi! Che cosa stavi rubando?!".
La soluzione era una sola. Chiusi gli occhi, e un attimo dopo sentii nuovamente il peso dell'elmo sulla mia testa. Immediatamente, le sue mani lasciarono le mie spalle, ora ricoperte da veli pregiati e non più di abiti da schiava.
"Perdonami, mia signora... io non sapevo...", iniziò.
"Chi sei, guerriero?", domandai, interrompendolo.
"Sono Achille figlio di Peleo, re dei Mirmidoni", disse guardandomi negli occhi.
Achille.
Dunque, finalmente incontravo il Pelide Achille, il semidio figlio di Teti, di cui avevo tanto sentito parlare. Il bel guerriero forte e biondo che nessuno aveva mai sconfitto.
L'invulnerabile, l'eroe. Fra tutti i soldati Achei che erano giunti a Troia, ero capitata proprio nella sua tenda. Sosteneva il mio sguardo con una luce negli occhi, al contrario di come avrebbe fatto la maggior parte della gente davanti ad un dio. Ma la sua non era sfrontatezza: leggevo in lui un profondo rispetto verso di me, una devozione. Non mi guardava negli occhi per affrontarmi, ma per comunicarmi in modo diretto la propria ammirazione. Un modo di comunicare che mi toccò molto più profondità di quanto avessero mai fatto inchini e inginocchiamenti.
Lo sguardo che si addice ad un eroe, sicuro di sé ma mai empio e sfrontato. Da qualche parte, mi colpì.
Un tuono rombò, lontano. Vi sentii un richiamo. Mio padre.
"Achille Pelide, re ed eroe dei Mirmidoni, è stato un onore conoscerti", dissi restituendogli la statuetta. "Tornerò presto da voi Achei. Potrete contare sulla mia protezione".
Mi diressi verso l'uscita e mi fermai sulla soglia della tenda. Il cielo si era improvvisamente rannuvolato, e i fulmini lo illuminavano esattamente sopra di me.
"Aspetta, figlia di Zeus Egioco. Ho bisogni di parlarti di questa guerra".
Mi voltai a guardarlo. I suoi occhi, ora che il Sole se ne era andato, erano diventati dello stesso colore del cielo nuvoloso.
"Non posso, ma tornerò presto".
"Ti aspetterò presto, dea dall'occhio azzurro".
Guardai un'ultima volta l'eroe di cui avevo tanto sentito parlare, e poi me ne andai in tutta fretta, ignara di quello che si era appena scatenato, pensando che i miei occhi erano dello stesso colore dei suoi.



NOTE:
L'idea di questa fiction mi è venuta da un sogno che ho fatto, e ci tenevo a metterla per iscritto perché secondo me come storia può funzionare. Ci sto provando ad essere fedele all'Iliade, alla cultura della Grecia arcaica, al loro modo di pensare e comportarsi, alle loro idee e alla caratterizzazione dei personaggi omerici, e quindi a restare In Character. Ci sto provando. Il risultato è un altro paio di maniche, ma GIURO che ci sto provando. Ovviamente, alcuni particolari sono un po' diversi da quelli omerici, ma se non lo fossero, non sarebbe la mia storia ma una fotocopia dell'Iliade. Per qualsiasi critica, consiglio e qualche eventuale complimento a caso, ma proprio a caso, scrivete una recensione! Vorrei tanto sapere cosa ne pensate.



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Capitolo 2
*** 2 ***



CAPITOLO 2


Sarei tornata presto, gli avevo detto.
Tornai. Tornai più volte. Ma mai, in dieci anni, riuscii a rivederlo.
Dieci anni non sono niente per una dea, ma sono tanti per la vita di un uomo.

Le alte mura di Troia sembravano inespugnabili. Gli Achei, con i loro guerrieri valorosi - con Achille - non riuscivano a penetrare nella città. Quasi ogni giorno mi recavo all'accampamento Acheo e cercavo di aiutare i soldati. Mi univo alle loro battaglie, donavo loro forza e velocità. Mai, però, riuscivo a vedere Achille. Lui era lì, con i suoi compagni, ma qualcosa mi impediva di vederlo. Ogni volta che lo vedevo avvicinarsi da lontano, senza neanche distinguerne appieno i tratti del viso, una forza sconosciuta mi accecava e mi portava lontano, lontano, in un mondo nero e soffocante. E quando questa oscurità opprimente si dissolveva riportandomi alla piana di Troia, il guerriero Mirmidone non c'era più, e spesso la battaglia si era già conclusa.
Più volte avevo ritenuto che gli Achei sarebbero penetrati a Troia solo se io avessi aiutato Achille. Più volte mi ero diretta verso la sua tenda, e l'oscurità mi aveva catturata, lasciandomi andare solamente quando il guerriero aveva ormai abbandonato la tenda.
Qualcosa, o qualcuno, non voleva far sì che lo vedessi, e che parlassi con lui.
Chiunque avesse creato quel prodigio non abbassava mai la guardia.

Con lo scorrere del tempo iniziai a credere che si trattasse di un trco di Afrodite. Parteggiava per i Troiani, e mai avrebbe permesso che io avantaggiassi gli Achei. Anche Artemide era dalla parte di Troia, ma non avrebbe mai fatto una cosa simile. Afrodite, però, negava, e continuò a negare per dieci anni. 
Lentamente, la mia determinazione ad aiutare Achille Pelide per avantaggiare gli Achei svanì. Continuavo a scendere alla piana, ma le mie visite mancate alla tenda di Achille diminuirono poco a poco. Evidentemente, era giusto così. Achille era un semidio: non aveva bisogno del mio aiuto. Forse avrei semplicemente dovuto supportare ancora di più gli altri soldati.
Compivo così il mio dovere, e ogni tanto, solo ogni tanto, ripensavo a quell'eroe. Gli anni stavano passando. Il suo volto doveva essere cambiato. Chissà se, quando fossi riuscita a rivederlo, l'avrei riconosciuto.
Ero certa che l'avrei rivisto. Non ci sarebbero stati né "se" né "ma" ad impedirmelo. Ancora non sapevo come e quando sarebbe successo, ma ne avevo il presentimento, la consapevolezza, la certezza.

Erano passati dieci anni, dieci anni in cui non avevo più incontrato il suo sguardo dello stesso colore del mio.
La guerra di Troia era giunta ad un punto di estrema tensione. L'esercito degli Achei era agitato da rancori in procinto di esplodere. Agamennone spadroneggiava dall'alto della sua prepotenza, tanto da giungere ad un atto di piena tracotanza e irrispettosità. Fece sua prigioniera di guerra la figlia di Crise, anziano sacerdote di Apollo. Il vecchio pregò affinché, dall'alto dell'Olimpo, dessimo ad Agamennone una degna punizione.
"Certo che li punirò", diceva Apollo, furente, scuotendo i ricci biondi come il suo Sole.
"Sì, fratello, è la cosa più giusta da fare", lo sostenne Artemide, e Afrodite annuiva prontamente.
"E come li punirai?", chiesi io, preoccupata.
"Mi dispiace per quell'esercito, Atena. So quanto ci sei affezionata", mi rispose lui con l'espressione torva. "Ho intenzione di lanciare frecce avvelenate sul loro accampamento, e far sì che la peste dilaghi. E' quello che si meritano".
"Io li proteggerò", mormorai, sconvolta dalla notizia, con un'amara consapevolezza: li avrei potuti proteggere tutti, tranne uno.
"Sarà inutile".
Anche se sapevo che Achille era invulnerabile, e che quindi non sarebbe certo bastata una semplice peste ad abbatterlo, non ero tranquilla. Non lo vedevo, non potevo proteggerlo. Avrebbe potuto succedergli qualsiasi cosa, e io non l'avrei saputo.
Nelle giornate successive feci di tutto. Andai all'accampamento acheo. Diedi ambrosia ai soldati malati, e forza nel combattimento a quelli vivi. Ma quando due dei combattono, è quasi impossibile che uno dei due riesca ad avere la meglio sull'altro. Apollo continuava a scagliare le sue frecce, e nonostante i miei aiuti gli uomini ne erano continuamente colpiti. Fu così che un'idea improvvisa si fece strada nella mia mente. Avrei rubato l'arco e le frecce di Apollo.
Aspettai la notte. Negli ultimi tempi, Apollo di notte se andava sempre. Probabilmente si recava da qualche donna mortale. Sapevo dove nascondeva le frecce avvelenate: in mezzo alle foglie di un'acanto di fianco ad una grande roccia a forma di stella. Così, decisa ad aiutare gli Achei anche a costo di mettermi definitivamente contro Apollo con un gesto scorretto come un furto, mi diressi verso la roccia attraverso quel territorio nebbioso e arido che è la cima dell'Olimpo.
Ero a metà strada quando sentii delle voci. Voci di divinità. Un maschio e una femmina. Discutevano, e anche piuttosto animatamente. Non mi ci volle molto per capire che si trattava di Zeus e Hera.
Non ero figlia di Hera, ma era come se lo fossi. Oltre che una sorta di madre, era sempre stata per me anche un'amica e una sorella. Nemmeno nel momento della contesa della mela d'oro eravamo state veramente rivali.
"Non è giusto che tu lo faccia, Zeus. Non lo reputo per niente giusto", stava dicendo.
"Donna, non dirmi che cosa è giusto che io faccia. Questo sono io a deciderlo". Simili discussioni fra Zeus ed Hera avevano luogo assai spesso.
"Certo, ma io lei la conosco, e posso assicurarti che se in un qualche modo dovesse scoprire che sei tu a farle questo, non ti rivolgerebbe più la parola".
"Atena è mia figlia, e stabilisco io come comportarmi con lei". Incuriosita, mi fermai ad ascoltare. "Se io ritengo che vedere quell'uomo
per lei sarebbe pericoloso, allora è giusto che non lo veda".
"Ma in questo modo, Zeus, gli Achei non potranno mai vincere. Non senza una collaborazione fra la Dea della Guerra e Achille, sovrano dei Mirmidoni".
"Ma quale collaborazione? Questo porterebbe solo alla rovina di mia figlia".
"Ne sei proprio sicuro? Io ho il sentore che presto il Pelide Achille avrà bisogno di lei".
Non volli sentire altro. Le parole del loro dialogo mi rimbombavano nella testa mentre fuggivo via, dimentica dell'arco di Apollo. Era Zeus. Era mio padre ad impedirmi di vedere Achille. Era un trucco di mio padre!
Non so per quanto corsi. Quando fui esausta mi fermai e mi lasciai andare appongiandomi ad una roccia, e il ricordo di quello che avevo appena sentito mi travolse come un'onda distruttrice.
Per dieci anni mio padre mi aveva impedito di vedere Achille. Per dieci anni non avevo potuto aiutare gli Achei, non avevo potuto partecipare alla guerra in modo decisivo. Non avevo potuto dare una svolta agli eventi sebbene avessi tentato disperatamente di farlo. Tutto perché vedere il re dei Mirmidoni sarebbe stato la mia rovina. Per quale motivo mio padre non mi aveva avvisata di questo? Perché aveva preferito agire mantenendomi all'oscuro di tutto?
Le ore passavano, e il cielo si modulava in nuvole striate di rosso e improvvisi bagliori. Fissavo quei colori cangianti, confusa. Erano le dita rosate dell'Aurora? Oppure erano i fuochi oscuri di Ares, la guerra più nera?
Un pensiero mi tormentava come un insetto fastidioso. Cercavo di scacciarlo, ma come una mosca, era sempre abbastanza veloce da fuggire e tornare a pungermi.
Per dieci anni non avevo potuto aiutare gli Achei. Ma soprattutto, non avevo potuto rivedere quello sguardo di zaffiro, cangiante come il cielo.

Il tempo scorreva indistinto. Ormai il Sole splendeva alto, infuocato e silenzioso, senza neanche una nuvola a recargli disturbo. Intorno a me, il nulla. Solo un nudo pavimento roccioso sferzato dal vento. Non sapevo in quale parte dell'Olimpo mi trovavo. Il silenzio era opprimente. Totale.
Improvvisamente udii dei passi in lontananza.
Non erano passi comuni. Erano veloci e leggeri, aggraziati. Una corsa quasi danzata. Non mi sorpresi quando vidi comparire Hermes all'orizzonte, la sua sagoma sottile in controluce. Le ali dei suoi calzari lo facevano volare alto e veloce.
"Mia signora Atena, vieni, presto! All'accampamento acheo!", mi urlò da lontano, e la sua voce mi arrivò rapida, nitida e distinta. "Il destino della guerra è in grave pericolo!".
Quelle parole mi smossero. Immediatamente mi alzai e cominciai a correre veloce, come solo una divinità può fare. Hermes prese la mia mano e volai insieme ai suoi calzari alati.
"L'Atride Agamennone è entrato in competizione con il Pelide Achille", mi spiegò con la sua voce squillante. "Il capo degli Achei ha deciso di rendere la propria schiava a Crise. Vuole, però, che Achille gli ceda la propria schiava, per compensare la perdita. Fa' presto, mia signora. In pochi secondi potrebbe accadere qualcosa di irreparabile".
Capii, capii all'istante. Il Pelide Achille, sovrano dei Mirmidoni, guerriero valoroso. La perdita di una schiava, un affronto. Ringraziai Hermes e spiccai il volo verso la piana di Troia.
Achille avrebbe potuto uccidere Agamennone. Se l'avesse fatto, gli Achei si sarebbero trovati senza un capo. La maggior parte di loro sarebbe tornata alle proprie navi e avrebbe salpato verso la patria, i restanti avrebbero senza ombra di dubbio perso contro l'intero esercito troiano.
Non doveva succedere. Non doveva succedere.
"Atena! Figlia!". La voce di mio padre rimbombò ovunque, cupa e potente come un tuono. Non lo ascoltai. Era una questione di vita o di morte.
Sentii le più piccole briciole di tempo scorrere mentre l'accampamento acheo si faceva sempre più vicono. Ogni singolo granello che smuoveva le sabbie del tempo aveva un suono atroce, infernale, insopportabile. Mi sembrò di udire un altro suono, dalla tenda di Agamennone. Una mano che afferra l'elsa di un'arma. Achille. No!
Gridai, mi buttai a capofitto dentro la tenda e bloccai la mano del Fato.



Secondo capitoloo! Sono felice di aver aggiornato, anche se secondo me nessuno degnerà mai questa storia, l'Iliade non è un fandom molto quotato... uhe uhe. Ma io scrivo lo stesso! *agguerrita*
Lo so, ci sono delle imprecisioni. Come nello scorso capitolo, come ci saranno nei prossimi. Alcune sono licenze, altre sono semplici sviste (non ho mai letto l'Iliade tutta intera, ma penso che quasi nessuno di voi l'abbia fatto...?).
Alla prossima, spero che i tempi di aggiornamente sianio più brevi ma purtroppo non garantisco nulla! L'unica cosa certa è che il prossimo capitolo ARRIVERA'.
Ciao ciao, fatemi sapere cosa ne pensate.
Isabella


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Capitolo 3
*** 3 ***



CAPITOLO 3





Sono una civetta.
Una civetta che volteggia con il Sole, l'ombra ridotta ad un puntino. Sotto di me, le rovine.
Le civette, almeno, non piangono.
Quasi alla mia altezza, su un'altura, oltre le mura distrutte, c'è l'unico palazzo rimasto in piedi. Sontuoso anche nell'abbandono, ha un'aura ancestrale, quasi a voler ricordare antichi tempi di re ed eroi passati. E' davvero trascorso così tanto tempo? Oppure è solo una mia impressione?
Era il palazzo di Priamo.
"Atena".
Non è una voce a chiamarmi. Non è una voce, eppure sento il richiamo, il mio nome. Un pavone volta alto nel cielo poco lontano da me. Un pavone, un uccello di solito incapace di volare.
E' mia madre, mia sorella, la mia migliore amica. Hera.
Entrambe riprendiamo le nostre sembianze umane, facendoci trasportare dall'aria, in una lievissima brezza che nessun umano riuscirebbe a percepire.
"Era da tanto che non facevi visita a questi luoghi, Pallade", mi dice Era prendendomi gentilmente per un braccio con la sua bianca mano. Il suo profilo dritto è intento a scrutare il palazzo abbandonato nella sua decandente magnificenza impregnata di memorie.
"Davvero?", chiedo, in un sussurro. Non potrebbe uscire alcun suono dalla mia gola. Nemmeno l'acuto richiamo della civetta.
"Hai seguito e aiutato Odisseo, che nonostante il tuo prezioso contributo è ancora perso, e non è ancora tornato a Itaca. Sono passati cinque anni dalla Guerra di Troia".
Cinque anni. Che cosa sono cinque anni per una dea? Un granello di polvere, un soffio di piuma. Eppure questi anni sono passati con la pesantezza del piombo. Ho aiutato Odisseo - o meglio, ho
giurato a Odisseo che l'avrei aiutato. Ma egli ora è perso nelle braccia della ninfa Calipso, e io sono ancora persa nei ricordi. Troppo persa per restare là a guardarlo e a mentire a me stessa.
"So che pensi ancora a quell'uomo".
"Non era un uomo", ribatto con un filo di voce. Lui non era un uomo, e io tutto sono, in questo momento, fuorché una divinità. "Era un semidio. Era un eroe".
Hera mi sorride, con lo stesso sorriso circondato da capelli simili a fiamme che fece innamorare il Re degli dei.
"Andiamo". E mi trascina per il braccio in una planata sempre più veloce verso l'entrata divelta di quell'antico palazzo di ricordi dimenticati.

"Perché sei venuta?".
Riaprii gli occhi, e fui quasi accecata.
Quella voce arrivò al mio cuore in mezzo ad una luce sfavillante che a mapalena mi permetteva di vedere. Intravidi dell'oro, dei tendaggi. Un re dall'ego superiore al buonsenso. Stavo sognando?
"Perché sei venuta, figlia di Zeus Egioco? Per vedere la violenza dell'Atride Agamennone?".
Mi riscossi.
Era lì. Il suo sguardo ancora fisso nel mio, esattamente come l'ultima volta, e la fronte aggrottata. Non era quasi invecchiato, solo qualche impercettibile ruga intorno agli occhi...
Il suo polso sinistro era stretto nella mia mano, e mi accorsi di averlo preso per i capelli con l'altra. Immediatamente lo lasciai andare.
"Sono venuta per placare la tua ira", dissi
senza espressività,
come una marionetta. "Mi inviò il messaggero della dea Hera, la quale ha ugualmente a cuore entrambi noi. Togli la mano dalla spada, e offendi il tuo avversario solo con le parole".
"Sei stata lontana per dieci anni, mia signora. Forse, se fossi stata al mio fianco, non si sarebbe arrivati a questo".
Fu come uno schiaffo.
Nessun altro uomo avrebbe osato sfidare una dea, sostenendo il suo sguardo con impertinenza... impertinenza? Così l'avrebbe definita mio padre, o qualunque altra divinità. Ma io potevo immaginare quanto si celava dietro quello sguardo: dieci anni di assedio, di estenuazione, di speranze vane, di disillusione. Dieci anni in cui la dea che gli aveva promesso aiuto non si era più fatta viva.
Aveva ragione, e fui io ad abbassare gli occhi.
"Ne sono consapevole, Achille figlio di Peleo", dissi. "Ma le spiegazioni arriveranno quando sarà il tempo. Ora, riponi l'arma e ascoltami. Riceverai doni tre volte per aver avuto pietà dell'Atride. Trattieniti, dunque, e obbedisci".
"Bisogna rispettare la parola di una dea", rispose Achille a denti stretti. Sentivo il peso del suo sguardo su di me. "Anche nei momenti di rabbia". Poi, si rivolse al suo avversario, mentre io svanivo lentamente. Gli rivolse parole che non volli sentire, e con la mia mente volai alta nel cielo. Il mio corpo, invisibile, era ancora in quella tenda, mentre la mia mente di dea era in altri cieli, altri orizzonti. Il cuore mi stava esplodendo nel petto mentre sentivo le ali piumate della civetta spuntarmi al posto delle braccia, incontrollate. Perché desideravo tanto volare lontano, proprio ora che ero riuscita a rivedere Achille? Il miei occhi di dea della guerra vedevano il rifulgere delle sue armi, incomparabili a quelle degli altri Re. Eppure la mia mente di dea della saggezza aveva bisogno di riflettere, di volare. Se mio padre aveva voluto tenermi lontana da Achille, doveva avere avuto una valida motivazione. Quale avrebbe mai potuto essere? Avrei dovuto chiederglielo, parlargli...
"E' così, Atride! Questo è il mio giuramento solenne: mai più mi vedrete combattere in campo, e anche se un giorno mi rimpiangerete, tu non potrai fare nulla per aiutare l'esercito!", disse Achille con voce tonante gettando a terra lo scettro di bronzo dell'assemblea, con un colpo che mi riportò vertiginosamente alla realtà.
"No!", esclamai mentre Achille si risedeva. Non mi uscì alcun suono. Fu inutile ritentare: non riuscivo a parlare, a muovermi. Una folata di vento, due occhi violacei ammiccarono nella mia mente. Lo riconobbi: era il Fato. A dispetto dei miei poteri divini, non potevo nulla contro di lui. Neanche mio padre avrebbe potuto sfuggire al suo volere. Senza capire niente - quel paio di occhi continuava a fissarmi ed ipnotizzarmi, da qualche parte all'interno della mia testa - camminai barcollando fuori dalla tenda, sotto un cielo che si incupiva di viola. Mi diressi verso un'altra tenda, una tenda che ricordavo perfettamente. Vi entrai, sentendomi spinta da un'enorme mano purpurea. Di fianco ad un giaciglio mi aspettava una statuetta rilucente che mi sembrava di conoscere. Era accanto al cuscino, proprio come un talismano. Il suo riflesso bronzeo si illuminò di viola. Feci appena in tempo a prenderla in mano, sentendo il sudore sulla fronte, prima di accasciarmi su quel letto.

"Hai idea del perché si trovi qui?".
"No, anche se spero sia vero quello che immagino".
"E che cosa immagini?".
Silenzio.
Dove mi trovavo?
Una terribile consapevolezza si fece strada nella mia mente ancora confusa, e mi alzai di scatto.
I due interlocutori si voltarono improvvisamente verso di me. Mentre Achille rimase fermo immobile, l'altro - quello più alto e più maturo, che negli anni avevo scoperto essere suo cugino Patroclo - si inginocchiò:
"Mia signora".
"Patroclo, amico mio", disse Achille, senza distogliere lo sguardo dal mio. "Potresti, per favore, uscire per un poco da questa tenda? Ho bisogno di parlare alla figlia di Zeus Egioco, Atena Glaucopide".
Patroclo sembrò comprendere, e si ritirò, accompagnato verso l'uscita da Achille. Evidentemente era stato informato dal cugino della mia inspiegata scomparsa negli ultimi dieci anni.
Eravamo soli.
"Posso sapere, se non è osare troppo, il motivo della tua assenza al mio fianco in questi anni, mia signora?", mi chiese con voce pacata ma ferma, ancora voltato verso l'entrata della tenda. "Sono sicuro che le ragioni di una dea sono sempre valide e inconfutabili. Tuttavia, vorrei conoscerle, se mi è permesso. Mi avevi  fatto una promessa, dieci anni fa, e non l'hai mantenuta".
"E' stato mio padre", ammisi d'un fiato. "E' stato Zeus, il signore di tutti gli dei, a non permettermi di incontrarti".
"Ma io ti vedevo. Ti vedevo mentre combattevi a fianco dei miei compagni, ma non appena mi avvicinavo, tu svanivi in istante, mia signora. Come se non fossi mai esistita. Ho iniziato a credere di avere soltanto sognato il nostro incontro. Un sogno ingannatore, passante per le Porte d'Avorio".
"Quando mi vedevi scomparire, io entravo in un mondo buio ed estraneo alla realtà. Un posto oscuro in cui mi mandava mio padre... un posto chiamato Ate, il nome della cecità".
"E perché Zeus ha voluto impedirci di collaborare in questa guerra?".
"Ha detto a Hera...". Se avessi svelato ad Achille quello che avevo sentito da mio padre, avrei potuto mettermi contro il più grande degli dei. "Ha detto a Hera che vederti avrebbe causato la mia rovina".
Silenzio. Fissai il suolo, in attesa di una risposta, non sapevo se da parte di Achille o di Zeus.
Dopo qualche istante, sentii un rumore di legno che scricchiolava leggermente, e alzando lo sguardo notai che Achille si era seduto sul proprio trono.
"Accomodati, mia signora", mi disse gentilmente, indicandomi il giaciglio su cui ero crollata poco tempo prima. "E dimmi perché vedermi dovrebbe essere un rischio per te".
"Questo non lo so", mormorai sedendomi. Dal profondo della Saggezza annidata in me una vocina continuava a ripetermi che in realtà lo sapevo, lo sapevo benissimo.
"E non temi che, dicendomi ora queste cose dopo essere sfuggita al controllo di Zeus, tu stia rischiando?".
"Sì, lo temo", risposi. "Ma la sorte di questa guerra è più importante di ciò che crede mio padre".
Da qualche parte, una porta si chiuse.
Achille mi fissò in silenzio per qualche secondo.
"Hai compiuto una scelta, mia signora", mi disse dopo un po'.
"Ne sono consapevole", risposi. "E so che tornare indietro sarà difficile, se non impossibile. Tuttavia, desidero aiutare gli Achei più di ogni altra cosa".
Il tuono ci fece sobbalzare entrambi. Era là fuori e mi chiamava, senza ammettere repliche. Scambiai un'occhiata d'intesa con il figlio di Peleo, proprio mentre la luce del fulmine si rifletteva nei suoi occhi.
"Questa volta", gli dissi, "non ti abbandonerò".
Ti? Perché non vi? 'Questa volta non vi abbandonerò, Achei'. 'Questa volta non ti abbandonerò, Achille'. Era stato solo uno sbaglio? Che cosa avevo voluto dire esattamente?
"Atena".
Mi feci coraggio. La voce che mi aveva chiamato era udibile solo dalle mie orecchie: a quelle dei mortali sarebbe parso come un comune tuono.
"Mi fido di te", mi disse Achille, "e so che questa volta tornerai".
Volli crederci anch'io.
Scostai il lembo di tela che chiudeva la tenda e il fiato mi si mozzò.
Nonostante fosse mio padre, Zeus era ancora capace di impressionarmi con quello che riusciva a fare. Un uragano saettante, un enorme tunnel di nuvole temporalesche mi chiamava dal cielo. Il vento mi sferzava il viso così forte da farmi male, facendomi ondeggiare come un giunco.
"Atena", ruggì.
Sapevo a cosa stavo andando incontro, e sapevo che la cosa più giusta da fare era affrontare la mia sorte. Tenendomi indietro i capelli dal viso camminai controvento verso il tunnel, muovendomi a fatica. Le raffiche mi sollevarono, scagliandomi dentro il tunnel in un mulinello infernale. La terra era lontana. Intorno a me, nei rari momenti in cui riuscivo ad aprire gli occhi senza essere accecata dalla pioggia tagliente, vedevo solo uragani grigio piombo e fulmini talmente luminosi da sembrare neri. Improvvisamente fui schiantata contro una superficie dura, fredda e massiccia. Caddi inerte su quella che sembrava una scala, alla base del muro contro cui mi ero scontrata.
"La riconosci questa, Atena?".
Aprii gli occhi a fatica, sentendo dolori in tutto il corpo, e guardai in alto. L'enorme struttura che mi sovrastava, di un marmo probabilmente dorato ma oscurato dal temporale, era una porta. Una porta maestosa e inoppugnabile. Una porta che, se chiusa, è impossibile riaprire dall'esterno. La porta dell'esilio.
"Sì, padre. E' la porta dell'Olimpo".
"Sai bene che questa porta è sempre aperta tranne in un caso".
"Quando un dio viene esiliato dall'Olimpo".
"Esattamente".
Mi alzai, in un gesto quasi di sfida, tentando di apparire incurante degli acciacchi che mi ricoprivano.
"Me lo aspettavo", sentenziai, "e ne prendo atto. Ho compiuto una scelta, e me ne assumo la responsabilità".
"Non puoi immaginare il dolore che prova un padre nell'esiliare la propria figlia".
Un moto di Guerra si fece strada dentro di me.
"Se sei così triste, padre, dimmi il perché del tuo trucco. Dimmi perché non avrei dovuto vedere Achille".
"Lo sai benissimo perché, anche se ti rifiuti di aprire gli occhi sulla realtà. Presto lo vedrai da te. E ora, addio. D'ora in avanti, la tua vita proseguirà in un solo senso, quello delle vicende terrene. Sarai una dea tra i mortali".
Un vento risucchiante e freddo come quello che mi aveva portata lì mi prese nuovamente, questa volta spingendomi ad una velocità esorbitante verso terra. Caddi rovinosamente nel punto da cui ero partita, e se fossi stata un'umana avrei sentito le mie ossa sbriciolarsi una ad una. Mi parve che la tempesta si stesse diradando, ma non potevo esserne sicura. La testa mi pulsava, e girava come una trottola.
In una visione offuscata, mi parve di scorgere Achille mentre usciva dalla tenda. Alzai lo sguardo verso di lui. Dovevo sembrargli tutto tranne che una dea, in quel momento.
"Non so dove andare", sussurrai mentre il Re di Ftia mi aiutava ad alzarmi. Lo fece senza chiedermi alcun permesso, e ancora una volta non potei fare a meno di ringraziare la sua sincerità priva di formule di cortesia - di ipocrisia.
Mi portò nella sua tenda.

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Capitolo 4
*** 4 ***





CAPITOLO 4

Gli raccontai quello che era successo. La testa mi girava ancora per la caduta, e, pur cercando di mantenere la calma, non ero sicura di stare parlando in maniera comprensibile. Tuttavia, lui sembrava capire.
"Evidentemente, oggi non è stata una buona giornata per nessuno dei due", commentò, potevo leggere l'ira nei suoi occhi. Cieli tempestosi.
"Esattamente, Pelide. Ora sei tu a dovermi spiegare il tuo comportamento con Agamennone".
Si passò una mano sugli occhi e, forse per la prima volta, non mi guardò in faccia mentre mi parlava.
"Quel cane. Ha...".
"Lo so che cosa ha fatto, Pelide. Voglio che tu mi dia una spiegazione per le tue parole. Ti avevo detto di ferirlo con il discorso e non con la spada, ma non volevo, non avrei mai voluto, che tu ti ritirassi dalla guerra. Dimmi perché l'hai fatto".
"L'ho fatto, dea, perché quell'uomo ha ferito il mio onore", rispose voltandosi di scatto. Non lo diedi a vedere, ma fui pervasa da un moto di paura. Per un breve attimo, vidi nel suo volto la furia dell'assassino, del guerriero sterminatore. Se non avessi saputo di stare parlando con l'eroe Achille, avrei detto che chi avevo davanti era un guerriero pervaso dalla furia violenta di Ares, e non dalla mia Guerra. Tuttavia, sapevo che non era così.
Speravo che non fosse così.
"Non posso tornare a combattere, mia signora", mi spiegò, i denti stretti. "Calpesterei il mio onore più di quanto non sia già stato calpestato".
"Ma così facendo assicurerai al tuo esercito la sconfitta, Achille".
"No. Loro hanno Aiace Telamonio, hanno Diomede, hanno Odisseo e il suo arco. Se la caveranno".
"Non è così, lo sai bene. Li metterai in grosse difficoltà".
Di nuovo, Achille abbassò gli occhi:
"Lo so, Pallade". Sospirò. "Ma non posso fare altrimenti". Fece una pausa. "
Briseide ora è con Patroclo. Entro breve andranno a prenderla".
"Ti importa davvero così tanto di quella ragazza, Pelide?", non potei fare a meno di chiedere. "Tanto da spingerti a non combattere?".

"No, mia signora. Avrebbe potuto essere un'altra donna: non vi sarebbe stata alcuna differenza. Certo, quella ragazza ha un valore, ma non è questo il punto. Agamennone ha preteso da noi un dono in cambio della sua schiava, un dono che non potevamo offrirgli, non lì, non in quel momento. Non ne avevamo i mezzi, ci sono rimaste poche ricchezze, da gestire come ognuno di noi meglio crede. Di certo, io non avevo alcuna intenzione di sprecare il mio bottino, che mi sono guadagnato in dieci anni di guerra, per ripagarlo di Criseide. Lui ha perso la schiava per via della sua arroganza, ed è giusto che chi è causa dei propri stessi mali sappia risolversi i problemi da solo. Quel cane non si è quasi mai esposto in battaglia, non l'ho mai visto affrontare i nemici come li affrontiamo sempre io, Aiace e Odisseo. Chi è lui per pretendere dei doni da noi? E ora che, dopo avermi insultato, dopo avermi detto che la mia forza non vale nulla, si è preso la mia schiava con la forza, il mio onore non mi permette di combattere sotto il suo comando. No. Ha detto, prima che arrivasti tu, Pallade, che potrebbe tranquillamente fare a meno di me. Lo accontento".
Volli rispondere, ma rimasi in silenzio. L'onore. Perché? Perché l'effimero parere altrui aveva tanta importanza per i mortali? Le loro vite duravano un soffio, perché sprecavano energie a concentrarsi su quello che altri mortali, caduci quanto loro, potevano pensare? Achille aveva volutamente scelto per sé una vita più breve di quella di chiunque altro, perché non voleva più viverla combattendo?
Perché voleva sprecare i suoi pochi giorni?

Quel pomeriggio i soldati di Agamennone si portarono via Briseide. Osservai la scena da lontano, in riva al mare. Achille non li fermò, non li ostacolò. Non li guardò nemmeno in faccia. Ma quando se ne furono andati portandosi dietro la schiava, il Pelide si allontanò dalla propria tenda senza dire una parola. Si diresse verso il mare, ma non nella mia direzione. Lo osservai da lontano mentre camminava lungo il litorale e si faceva sempre più piccolo. Socchiudendo gli occhi, potevo ancora distinguere i dettagli della sua veste. Nessun umano avrebbe potuto notarli, a quella distanza, né avrebbe potuto udire il rumore dei passi di Achille sulla sabbia come lo udivo io. Quando fu giunto in un punto sufficientemente lontano da qualunque tenda, accanto ad un'altura su cui sorgeva un tempio di Apollo, si fermò. Un'idea mi salì alla mente, tanto improvvisa quanto terrificante: si era recato al tempio di Apollo per ottenere favori dal figlio di Latona, tradendo il suo intero esercito. Ma era un pensiero sciocco, e inverosimile. Achille, infatti, non si voltò verso il tempio del dio, bensì rimase a guardare il mare.
All'inizio dubitai della mia vista. Pensai di aver scambiato una semplice onda per uno straordinario prodigio, un essere vivente... una donna.
Le ninfe erano sempre capaci di sorprendermi, nonostante persino il mio
più debole potere fosse in grado di contrastare senza fatica tutte le loro forze insieme. Era Teti, la madre di Achille. Emerse dalle onde come se fosse stata creata della loro stessa materia, e probabilmente lo era. Mi parve di vedere la sua pelle scintillare, o forse era la veste. Argento.
Appoggio una mano sulla spalla del figlio. Per la seconda volta non potei credere ai miei occhi: Achille si portò le mani al viso e cominciò a singhiozzare. Sbattei le ciglia, sbalordita. Era vero? Teti lo abbracciò, e lui cominciò a parlarle.
Non volli sentire.

Non è vero che una dea sa tutto. Nemmeno mio padre Zeus può affermare con certezza di conoscere ogni cosa. Una dea non sa tutto. Una dea può vedere oltre i fatti, ha l'acume per raggiungere una conoscenza successiva. Una dea ha la vista di falco e i piedi di ghepardo, è capace di scrutare dietro alle leggi fisiche e dirigerle in direzioni diverse. Ma una dea non può prendere decisioni a suo piacimento. Può modificare il corso degli eventi, ma non senza conseguenze. Ci sarà sempre, per ogni aiuto, ogni sostegno che una creatura divina darà ad un mortale, una ripercussione, da qualche parte, positiva o negativa. Tutto si conserva, e nemmeno le azioni divine passano inosservate. Per questo io, Atena, non posso smettere di pensare, e pensare, e pensare, fino a rodermi nel profondo. Aiuto gli uomini, rendo loro favorevoli le azioni di Guerra, li dirigo sulla strada della Saggezza. Ma l'energia torna indietro. Per ogni buona azione che compio, nasce un pensiero in più nella mia testa, e io non posso fare a meno di interrogarmi, di notare ogni dettaglio, di non dimenticare mai nulla, di prestare attenzione a qualsiasi cosa. Può essere un bene come può non esserlo.
Nessuna dea riconoscerebbe mai di non sapere tutto: io sì. Io posso deviare il corso del vento o la traiettoria di una lancia, ma non posso leggere nei cuori delle persone. Non posso.
Solo il Fato sa scrutare gli animi.

Passarono i giorni. Non domandai ad Achille del suo incontro con Teti, lui non me ne parlò.
Furono giornate di stasi. Achille non combatteva. Agamennone prendeva buona ogni occasione per sparlare di lui con altri soldati, e così facendo mi ricordava terribilmente Afrodite. Nonostante i dissapori spesso avuti con loro, mi mancavano le altre dee, mi mancavano Apollo e Ares, mi mancava Hera. Nessuno di loro era sceso al campo in quei giorni. Ma quello che era stato detto non poteva essere ritirato. La porta non avrebbe potuto essere riaperta.
Finché, quella mattina, lei non tornò.
Era il dodicesimo giorno dall'incontro di Achille e Teti, e camminavo in mezzo agli alberi. Mi recavo là ogni notte, nei boschi dietro Troia, per parlare con le civette. I nostri discorsi andavano oltre ogni comprensione mortale. Parlavamo come parla chi vede il mondo con occhi diversi.
In confronto all'oscurità notturna del bosco, il cielo mattutino era un diamante abbagliante.
Una mattina limpida, l'aria frizzante, il cielo luminoso tanto chiaro da sembrare bianco, un azzurro impercettibile. L'alba si era appena conclusa. Stavo tornando all'accampamento acheo. A quell'ora i guerrieri iniziavano a prepararsi per la giornata appena iniziata.
Improvvisamente scorsi poco lontano da me, sul limitare del bosco, un pavone completamente bianco che faceva la ruota. Sembrava scolpito nel marmo da quanto ogni suo dettaglio era perfetto, dalle piume ritte sopra la testa a quelle lunghe e vaporose della coda, un intarsio pregiato. Riluceva come una leggera tenda bianca alla finestra in una mattina d'estate, attraversata da luce pura. Il mio cuore fece un salto. Hera! Doveva essere vicina, ed era venuta per me! Iniziai a correre, e in poco tempo raggiunsi l'uccello.
Non appena uscii dal bosco la trovai appoggiata ad una roccia. La sabbia mista a terra aveva un color ocra rossa che richiamava quello dei suoi capelli di fiamma. Il pavone, ritirata la ruota, le si affiancò e si accovacciò a terra ai suoi piedi.
"Hera!". Ci abbracciamo. "Hera, amica mia, quanto sono felice di rivederti! Dove siete tutti? Perché non vedo più nessuno di voi in battaglia?".
"Anche io sono felice di vederti, Atena. Eravamo nel paese degli Etiopi, e ci siamo rimasti per dodici giorni".
"Nel paese degli Etiopi? E perché?".
"L'ha deciso Zeus, di punto in bianco. Penso avesse qualche affare in sospeso con un nostro parente, da quelle parti. Come al solito, non ha voluto spiegarmi nulla".
Non seppi con quali parole rispondere. Subito dopo la mia espulsione, Zeus se n'era andato portandosi dietro tutti gli dei, con il preciso intento - lo sapevo - di farmi sentire abbandonata.
E forse aveva raggiunto il suo obiettivo.
"Nessuno di noi è più lo stesso di prima, ora che tu non ci sei più".
"Davvero?". Mi allontanai di un passo da lei, confusa. "E che cosa dicono della mia scomparsa, se mi è lecito saperlo?".
Hera sospirò.
"Manchi ad Artemide, a Hermes, e penso anche ad Afrodite. E soprattutto a me. Io e Zeus litighiamo ogni giorno. Non posso perdonarlo per quello che ti ha fatto, né per quello che sta infliggendo a me".
"La colpa non è di Zeus, Hera. Sono stata io ad espormi, io a disobbedirgli. Ma mi sono presa la responsabilità delle mie azioni, e mi ritengo fiera di essermi comportata come ho fatto".
Hera sorrise:
"Questa è la dea della Saggezza".
"Dimmi di te, ora. Quali sofferenze ti sta infliggendo Zeus?".
"Come al solito, ha voluto nascondermi le sue azioni". Sospirò. "Ma questa volta sono riuscita a scoprirle. E' stato poco prima della nostra partenza per il paese degli Etiopi. Ero con Efesto alla sua fucina, e stavamo parlando di alcune armi da costruire. Avevo lasciato Zeus solo, al suo trono d'oro, nel prato in cima all'Olimpo. Quando sono tornata indietro, però, non era più solo: una donna era con lui. Potevo vederli, ma loro non vedevano me: mi ero nascosta dietro ad alcuni alberi lì vicino. Atena, quella non era una donna qualunque. Vedevo chiaramente il suo viso alla luce del Sole. Era Teti, ninfa marina, madre del Pelide Achille".
Aprii la bocca per dire qualcosa, ma non mi uscì alcun suono.
"Non so come sia iniziato il loro discorso", proseguì Hera. "Teti abbracciava le ginocchia di Zeus, evidentemente per ottenere un favore da lui. Non mi hanno sentita arrivare, e sono riuscita ad ascoltare la fine della loro conversazione. Lei gli stava chiedendo se avesse o meno deciso se fare qualcosa per lei, qualcosa che ignoravo. Lui ha acconsentito: l'avrebbe fatto, di qualsiasi cosa si trattasse". Hera fece una pausa, ma io, ancora una volta, non risposi. Troppi pensieri mi ronzavano in testa, come uno sciame di api. "Dopodiché, quella sera stessa, siamo partiti per il paese degli Etiopi. Ho continuato a fargli domande sul suo incontro con Teti per tutto il viaggio, ma egli, naturalmente, non ha voluto darmi risposte. Solo alla fine, una volta tornati all'Olimpo, sono riuscita a strappargli alcune informazioni".
"Davvero?", non potei fare a meno di chiedere. "E come ci sei riuscita? Non ho mai conosciuto nessuno più testardo di Zeus".
Hera sospirò.
"Nell'unico modo in cui avrei potuto riuscirci". Fece una pausa e capii che non voleva entrare nei dettagli. Non domandai. "Ad ogni modo, mi ha raccontato tutto. Teti gli ha parlato dello scontro fra Achille e il re Agamennone, della disperazione di suo figlio e della sua decisione di non combattere più. Lo ha pregato di fare qualcosa, qualsiasi cosa, pur di far sì che l'esercito acheo abbia bisogno di Achille, affinché egli possa combattere di nuovo, affinché non sprechi la breve vita che ha scelto di vivere...".
"...e Zeus ha accettato", finii la frase.
"Esatto".
Fui pervasa da un improvviso moto di speranza.
"Che cosa farà?".
"Invierà ad Agamennone un sogno ingannatore, un sogno che farà credere al re di Micene di avere ormai la vittoria in pugno. Agamennone schiererà così le truppe, ma andrà incontro ad una sconfitta. Così, si renderà conto dell'importanza della presenza di Achille, e lo pregherà, finalmente, di tornare all'esercito".
"Una sconfitta?", chiesi, turbata. "Quanto grande?".
Hera si strinse nelle spalle:
"Grande abbastanza da superare l'orgoglio di Agamennone. Quindi, suppongo piuttosto ingente".
"Non posso permetterlo", mormorai. "Non posso... So quello a cui il mio esercito sta andando incontro, non posso non dare loro aiuto...". Mi bloccai. "Ma se li aiuto, Achille non tornerà da loro...".
Hera mi guardava scuotendo la testa.
"Ritenevo fosse giusto avvisarti", disse, "ma so che non è facile decidere il da farsi".
"Devo avvisare Achille", risposi quasi senza pensare. "Devo per forza parlare con lui".
"Forse hai ragione. Forse è la cosa migliore da fare".
"Non è la cosa migliore, ma è semplicemente quella che causerebbe meno danni. Ma devo parlargli subito". Guardai Hera negli occhi. "Tornerai a trovarmi?".
"Certo".
Ci abbracciammo, e capii quanto preziosa era stata in quei pochi minuti la sua presenza, quanto le fossi grata. Capii che, fra gli dei e fra i mortali, solo di lei potevo fidarmi.

"Achille, ho bisogno di parlarti".
Il re dei Mirmidoni si voltò a guardarmi, sorpreso. Lo stesso fecero Patroclo e Odisseo, con cui stava parlando davanti alla propria tenda. Io stessa mi stupii di come mi ero rivolta a lui.
"Perdonami l'irruenza, Pelide. Si tratta di questioni importanti. Spero che tu voglia scusarmi per i miei modi di pochi istanti fa", mi affrettai a dire.
"Una dea non deve scusarsi con un mortale per questo", rispose Achille. "Ti ascolto, mia signora". Si voltò verso i suoi interlocutori, e fece loro un gesto con il capo che stava chiaramente a significare che avrebbero dovuto allontanarsi e tornare da lui in un secondo momento.
"No, non andatevene, guerrieri", esclamai istintivamente, senza un progetto preciso in mente. "Forse è utile che anche voi due ascoltiate".
Sì, forse non era una decisione troppo avventata. Nessuno conosceva Achille quanto Patroclo, e Odisseo era un altro suo buon amico. Entrambi erano guerrieri valorosi e intelligenti. Avevano anch'essi il diritto di essere a conoscenza delle macchinazioni di Zeus. Inoltre, se avessi parlato con Achille al loro cospetto, mi avrebbero aiutato a convincerlo.
"Entriamo nella mia tenda, allora", propose Achille. "Lì potremo parlare indisturbati".

Raccontai loro tutto. Patroclo mi ascoltò a bocca aperta e Odisseo ogni tanto, durante il mio resoconto, annuiva. Achille mi guardò negli occhi per tutto il tempo, ma capii che le mie parole non lo stavano minimamente scalfendo.
"Capite, Achei?", dissi infine, concludendo il discorso. "Il solo modo in cui è possibile evitare al vostro esercito la sconfitta è che Achille torni a combattere. Ora, e non a sconfitta subita".
Odisseo e Patroclo si voltarono a guardarlo, e lo stesso feci io. Per una decina di secondi regnò sovrano un silenzio carico d'ansia, poi Achille sospirò.
"Non posso, e lo sapete".
Chiusi gli occhi. Sarebbe stata una discussione difficile.
"Achille, stai declinando la richiesta di una dea. Te ne rendi conto?", lo ammonì Patroclo con tono timoroso.
"Non è questo il problema", risposi. "Il problema è quello che ne sarà dell'esercito acheo. Io ho abbandonato l'Olimpo, ho abbandonato mio padre Zeus per proteggere questo esercito. Non posso permettere, ora che conosco i piani di mio padre, che subisca una sconfitta".
"Una sconfitta è solo ciò che Agamennone si merita", sentenziò Achille.
"Ma pensi veramente che anche noi la meritiamo?", gli chiese Odisseo. "Io e tuo cugino Patroclo?".
Calò il silenzio.
"Odisseo, Patroclo. Potreste, per favore, lasciarmi solo con la dea?", chiese Achille a bassa voce, fissando il tappeto sotto di sé. "Ho bisogno di parlarle di alcune cose".
Sapevo già che cosa aveva intenzione di dirmi, tuttavia sentii il mio cuore accelerare il suo battito. Non volevo discutere con lui. La situazione era già abbastanza difficile.
I due guerrieri uscirono dalla tenda, dedicandomi inchini e saluti a cui risposi con un sorriso. Dopodiché mi voltai nuovamente verso il re dei Mirmidoni, preparata al peggio.
"Atena Glaucopide", iniziò, "io ho un enorme rispetto di te, e ti sono devoto come non lo sono con nessun'altra divinità. Non voglio in alcun modo sembrarti empio o sfrontato. Tuttavia, ti prego di non chiedermi più di tornare a combattere. Ti ho già spiegato le mie ragioni, giorni fa".
"Certo, Pelide, me ne ricordo", risposi. "Ora, però, la situazione è cambiata. So per certo che Zeus ha in serbo una sconfitta per il tuo esercito. Capisci? Non posso permettere che questo accada, non ora che saprei come evitarla, questa sconfitta".
"E' inutile, mia signora".
"Ma... i tuoi compagni!", esclamai, sforzandomi, in quel momento, di essere la dea della Saggezza e non quella della Guerra. "Io li proteggerò come ho sempre fatto, ma se Zeus stesso dovesse, ad esempio, disarmarli e nasconderli alla mia vista, non ci sarebbe niente che io potrei fare! Hai pensato a Patroclo?".
Un'immagine era impressa nella mia mente. Patroclo steso a terra privo dell'elmo, coperto da un'armatura non sua. Pallido e grondante di sangue.
"Mia signora, finché il comandante di quell'esercito sarà Agamennone, io non combatterò con loro. Inoltre, se fosse Zeus stesso a disarmare i miei compagni, non credo che la mia presenza potrebbe fare molto per salvarli. Chi sono io in confronto a Zeus, o a qualunque altro dio?".
Il discorso aveva una sua logica, ma non volevo, non potevo accettarlo. Quello che avevo davanti, in quel momento, non era un eroe, era un principe dai mille capricci insulsi.
"Davvero il grande Achille è così meschino ed egoista?", dissi a bassa voce. "Davvero ad un grande eroe importa tanto del parere degli altri? Se non stimi Agamennone, se non lo consideri degno di te, allora non dovrebbe essere
nemmeno
degno delle tue attenzioni. Perché sprecare energia ad arrabbiarti con lui, Achille? Perché vivere i tuoi giorni nella stasi? Perché, invece, non esci e non combatti, senza pensare a ciò che quella persona può dire di te? Sono delusa". Dovetti sforzarmi per non far sentire il tremolio della mia voce. "Sono veramente delusa. Sei un egoista". Mi alzai e mi diressi verso l'uscita della tenda. Non potevo più stare lì dentro, a meno di non voler gettare da una rupe ogni ultima traccia rimasta della mia natura divina e superiore. "I miei saluti".
Non appena fui fuori, mi resi invisibile a qualunque mortale e cominciai a piangere. Achille uscì di corsa dalla tenda e mi cercò con lo sguardo, ma inutilmente. Non sapeva certo che in quel momento ero esattamente davanti a lui. Rimase fermo a scrutare l'accampamento, e potei leggere il dispiacere nei suoi occhi, un dispiacere profondo. Quegli occhi erano due oceani tristi. Piansi nuovamente, senza che lui mi vedesse né mi udisse. Non avevo mai pianto prima d'allora, neppure nel momento più brutto della mia vita - una notte terribile di anni, secoli prima che non ricordavo mai volentieri.
Dopo qualche minuto Achille rientrò nella sua tenda. Una parte di me, la stessa che piangeva calde lacrime, volle rimanere lì finché non fosse uscito di nuovo, ma, per fortuna, almeno in parte ero ancora la dea della Saggezza.
Mi asciugai le lacrime e mi diressi verso il bosco. Avrei avuto tanto da raccontare alle civette, questa volta.



...
vi prego, non odiatemi. Ci ho messo sette mesi ad aggiornare, ma non odiatemi. Pls. Ho avuto, nell'ordine: il test di biotecnologie, la maturità, la patente, concerti vari di pianoforte/canto/chipiùnehapiùnemetta e il test di medicina. E' stato un periodo un po' pieno. Chiedo venia.
Ma passiamo alla storia. Come avrete visto, Atena non è una dea perfetta se non vista dall'esterno: in realtà nasconde molte domande, che si pone in continuazione, e molte insicurezze. In questo capitolo lascia trapelare questa sua personalità verso la fine, quando dice ad Achille di essere delusa da lui. Un'Atena dell'Iliade di Omero probabilmente non avrebbe mai fatto niente di simile, ne sono consapevole, ma io volevo, invece, soffermarmi sul lato "umano" della dea (come farò per il resto della storia), senza però mai esagerare (spero!).
Fatemi sapere la vostra opinione, anche se negativa!
Alla prossima, un beso a tutti!
Sophie




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Capitolo 5
*** 5 ***





CAPITOLO 5


Il giorno appena successivo Agamennone convocò il consiglio degli anziani, dopodiché chiamò tutti gli Achei in assemblea.
Era una mattina fresca e arieggiata, le nuvole nell'alto dei cieli erano continuamente plasmate e rimodellate dal vento. Mi chiesi se Eolo si stesse divertendo a modulare le loro forme come più gli piaceva.
Osservavo, ferma sulla riva del mare, le miriadi di soldati che camminavano verso il centro dell'accampamento, chiedendosi l'un l'altro cosa mai avesse spinto Agamennone a convocarli. La maggior parte di loro, probabilmente, non aveva mai visto il volto del loro comandante.
Achille, come mi aspettavo, non si presentò.
"Salute, mia dea", esclamò qualcuno alla mia sinistra. Non ebbi bisogno di voltarmi per capire a chi apparteneva quella voce.
"Salute a te, figlio di Laerte".
"Questa assemblea non mi convince", affermò Odisseo. "Perché mai Agamennone dovrebbe convocarci tutti solo per organizzare un attacco? Non si è mai visto nulla di simile. C'è sotto qualcosa, lo sento".
"Sono d'accordo con te", risposi. L'assemblea generale non convinceva nemmeno me. Quale diavoleria si sarebbe inventato Agamennone, questa volta? "Restami vicino durante l'adunata. Sono sicura che ci sarà bisogno della tua famosa astuzia".

Odisseo aveva fatto bene a sospettare di Agamennone. Il generale, infatti, aveva chiamato l'intero esercito per mettere alla prova la fedeltà dei suoi soldati. Fece loro credere che la guerra fosse finita, che avrebbero potuto tornarsene alle loro case. Nessuno di loro stava combattendo quella guerra per interessi personali o per servire qualcuno a cui erano devoti: tutti quanti corsero verso le navi, impazienti di lasciare quell'inferno. Per un momento, Odisseo fissò la folla in corsa spaventato, impotente. Per fortuna, fu solo un attimo.
"Forza, Odisseo", lo incitai. "A te daranno ascolto. Fermali!".
Non ci fu bisogno di Agamennone e degli anziani: Odisseo seppe fermare la folla con le sole proprie parole. Nemmeno il mio aiuto fu necessario. Osservai quell'uomo, incredula: giovane ma scaltro e pronto a tutto, capace di compiere con le parole quanto i più non riescono a portare a termine con la spada. Già altre volte il re di Itaca si era distinto fra i suoi compagni, ma mai quanto quel giorno. Una volta calmata l'onda furiosa degli Achei, Odisseo fu capace anche di stroncare le lamentele di uno sgradevole soldato di nome Tersite, famoso nell'esercito per il suo cattivo carattere.
Sorrisi: qualche soldato dotato di buon senso era rimasto.
Quasi a farlo apposta, voltandomi verso il mare potei vedere Achille che osservava la scena da lontano, seduto su un gruppo di scogli percossi dalle onde. Riuscivo a scorgere i dettagli del suo viso: guardava nella direzione mia e di Odisseo con un'espressione di indefinibile serietà.

I giorni successivi passarono come in uno strano sogno di attesa. Ero diventata la consigliera di guerra di Odisseo: lo aiutavo in ogni scontro, e parlare con lui era sempre interessante. Vedere come la mente di un mortale potesse escogitare piani come i suoi mi affascinava. Era un uomo serio e responsabile, che dava tutto se stesso all'esercito e alla buona riuscita della spedizione. Tuttavia, non passava un giorno senza che mi parlasse della sua patria, la rocciosa Itaca, di suo figlio Telemaco e di sua moglie. Si chiamava Penelope, ed era la cugina di Elena di Troia.
"E tu hai preferito Penelope a sua cugina?", gli chiesi la prima volta che mi parlò di lei. "La donna più bella del mondo?".
Odisseo sorrise:
"Elena sarà anche la donna più bella del mondo. Ma Penelope è la donna più bella del mio mondo. Elena avrà i capelli d'oro, gli occhi verdi e il corpo simile a quello di Afrodite, ma non vedo in lei la luce di Penelope. Potrei avere mille altre donne durante la mia vita, ma nessuna di queste potrebbe competere con Penelope, anche se più belle di lei".
Da un uomo saggio come lui non avrei potuto aspettarmi altro che una risposta simile, e ne fui profondamente felice. Fui felice per Penelope, compagna di vita di un uomo intelligente e saggio, e fui felice per loro figlio Telemaco.
Cercavo sempre di non guardare nella direzione delle tende dei Mirmidoni, e se possibile ne stavo alla larga. Ma qualche volta, solo qualche volta, mi lasciavo prendere dalla debolezza. Allora mi sollevavo in alto nel cielo, con le mie ali da civetta, e passavo in volo sopra l'accampamento di Achille.
Capitava che non lo vedessi da nessuna parte, e allora tornavo indietro. Altre volte, invece, lo vedevo giocare al lancio del disco con Patroclo, e una parte di me sorrideva alla vista dei due cugini e del profondo affetto che li legava, un affetto che probabilmente andava oltre l'amicizia.
Infine, c'erano le volte in cui Achille sedeva da solo in riva al mare, e allora mi fermavo a volare in cerchio sopra di lui, cercando di non farmi vedere.
Scrutava sempre l'orizzonte. Forse pensava a sua madre Teti, ninfa marina. Forse pensava ai suoi compagni che, nel frattempo, stavano combattendo. Forse sperava, preoccupato, che non succedesse nulla a Patroclo mentre lui non c'era. Avrei potuto ascoltare i suoi pensieri se lo avessi voluto, ma non lo facevo mai. Vedevo la cosa come una mancanza di rispetto, non sarei mai entrata nella testa di nessuno. Forse, mi ritrovavo ogni volta a sperare, stava pensando alla dea Atena, che si era dichiarata delusa da lui. E allora venivo assalita da un moto di tristezza mista ad indignazione: se solo fosse stato responsabile e saggio come Odisseo, invece che capriccioso e volubile. La sua impulsività gli avrebbe portato solo danni nella sua breve vita.
Ogni volta, appena arrivavo a questo punto di pensieri, Achille sollevava la testa di scatto e mi notava, come se l'avessi chiamato. Non c'erano mai parole tra di noi, ma lui ogni volta capiva che ero lì, e che - stavo quasi imparando ad ammetterlo a me stessa - non ero preoccupata solo per la sorte dell'esercito: ero preoccupata anche per la sua.
L'altro pensiero ricorrente di quei giorni erano gli altri dei: dopo la visita di Hera non avevo più avuto contatti con nessun'altra divinità, e mi chiedevo quando e come li avrei rivisti.
La risposta arrivò il giorno del duello.

Sembrava una battaglia come le altre: ormai non c'era più tensione fra i soldati, non c'era più paura. Ognuno di loro aveva assimilato la consapevolezza di poter morire da un momento all'altro, e questo mi spaventava più di qualsiasi scontro. Quel giorno, nessuno dei due eserciti accennava a compiere alcuna mossa: le due fazioni erano schierate l'una di fronte all'altra, ferme.
Io, come sempre, ero sul campo insieme agli Achei.
Ad un tratto, un troiano si fece avanti, uscendo allo scoperto di fronte agli avversari. Era giovane e bellissimo, gli occhi neri grandi ed espressivi come quelli di un cerbiatto. Sembrava ancora più un ragazzino che un uomo, e le sue membra perfette erano ricoperte, oltre che dall'armatura, da una pelle di leopardo.
Paride.
Un mormorio indistinto percorse l'intero esercito acheo. Lanciai un'occhiata in direzione di Menelao, che stava nelle prime linee sul suo carro, poco lontano da me. Al contrario del fratello, lo vedevo sempre combattere. Forse, era l'unico che ancora credeva in quella spedizione. Alcune ciocche di capelli biondi che gli uscivano dall'elmo rilucevano al sole, e teneva lo sguardo fisso su Paride, le sopracciglia agrottate. Lui sì che,
al contrario del principe avversario, aveva l'aspetto di un uomo.
"Chi ne ha il coraggio", esordì Paride, cercando di fare la voce grossa, "si faccia avanti e venga a combattere. Io sono il principe Paride, io vi ho rubato Elena! Se potete, venite a punirmi!".
Percepii un forte tremito nella sua voce. Intenzioni buone, ma mancanza di coraggio. Mi domandai dopo quanto tempo sarebbe fuggito a gambe levate. Odisseo, accanto a me, sembrava starsi chiedendo le stesse cose.
Menelao invece non se lo fece ripetere due volte: immediatamente balzò a terra e corse verso il suo rivale con la velocità e la ferocia di un leone all'attacco. Paride, che probabilmente tutto si sarebbe aspettato fuorché questo, spalancò gli occhi e, con un'espressione di terrore, scappò verso il suo esercito fino a raggiungere suo fratello Ettore in prima linea. Menelao si fermò, furioso, e gli Achei si guardarono l'un l'altro con incredulità. Io, invece, non ero affatto sorpresa.
Ettore rimproverò duramente il fratello con aspre parole. Lui, sì, che aveva tutto l'aspetto di un principe. Non doveva avere molti anni in più del fratello, ma fra i due sembrava quasi intercorrere un'intera generazione. Vidi Paride annuire più volte, e alla fine annunciò che avrebbe combattuto in duello contro Menelao: chi avrebbe vinto si sarebbe preso Elena, e la vittoria sarebbe stata sua.
Dubitavo fortemente che le cose sarebbero andate come Paride aveva appena annunciato. Nonostante entrambi gli eserciti fossero visibilmente entusiasti della decisione presa - tutti avrebbero finalmente potuto tornare a casa dalle loro famiglie - a me sembrava tutto troppo... facile. Scontato. Troppo veloce. Qualcosa non sarebbe andato secondo i piani, e io lo sapevo.
Il duello ebbe inizio. Menelao, a causa della sua impulsività, in breve rimase disarmato: la sua asta era conficcata nello scudo di Paride, la spada frantumata nel tentativo di rompergli l'elmo. Il re di Sparta, però, non si diede per vinto: come una furia si avventò su Paride e lo prese per l'elmo, tirandolo a sé fino quasi a strozzarlo. Era molto più grande e muscoloso del giovane avversario, e riuscì a trascinarlo a forza verso l'esercito Acheo, mentre i Troiani osservavano la scena con gli occhi sbarrati. Ettore in particolare aveva la bocca semiaperta e un'espressione di totale disperazione e smarrimento sul volto.
Improvvisamente una figura bianca ed eterea arrivò volando, luminosa come una cometa. Conoscevo quel fulgore, conoscevo quella grazia: Afrodite. Fu improvvisa, velocissima: prima ancora che mi rendessi conto della situazione aveva slacciato la cinghia dell'elmo di Paride, facendo cadere a terra il principe e lasciando in mano a Menelao l'elmo vuoto. Afrodite avvolse Paride in una nuvola di nebbia che si dissolse dopo un attimo: il figlio di Priamo era sparito.
Menelao si guardava intorno senza capire. Lui non poteva vederla: era alta nel cielo, bianca e luminosa, i capelli d'oro a circondarle il viso su cui era stampata una decisa ed irritante espressione di sfida. E i suoi occhi guardavano esattamente nella mia direzione.
"Atena, era da tanti giorni che non ti vedevo", esclamò, un sopracciglio alzato. "Nostro padre ti ha forse proibito di tornare?".
"Paride è fuggito e Menelao ha vinto", diceva nel frattempo Agamennone. "Rendetegli Elena e le sue ricchezze!".
"Che cosa hai fatto?!", gridai volando alta verso di lei. "Disgraziata! Hai interrotto un duello!".
"Così voleva il Fato", rispose lei in tutta calma, sorridendo. Nessun soldato poteva più vederci.
"Storie! Sei stata tu a volerlo! Sapevi che Paride sarebbe stato sconfitto!".
"Ora i tuoi Greci hanno avuto la loro vittoria, non sei contenta?".
"Sai benissimo che non è così! Ora uno dei due eserciti attaccherà l'altro e la sconfitta di Troia sarà ancora rimandata! Lo sai fin troppo bene!".
Proprio in quel momento un grido di Menelao richiamò la mia attenzione sull'esercito. Una freccia troiana l'aveva colpito alla gamba. Il silenzio più totale piombò sui due eserciti.
"Certo che lo so". Afrodite sorrise di nuovo. "Buona battaglia, Atena!".
Ritornai in picchiata sul campo.
Scoppiò il pandemonio. Avevo avuto ragione a sospettare: eravamo di nuovo immersi nell'ennesimo scontro cruento. Avevo perso di vista Odisseo, ma ero sicura che il re di Itaca sarebbe stato capace di cavarsela da solo. Come ogni volta che mi trovavo in un combattimento, smisi di ragionare e lasciai che fosse la Guerra a guidarmi, con i suoi clangori e i suoi scintillii di armature. Vidi Diomede che, veloce, mi si avvicinava con il suo carro maestoso. D'istinto, con un balzo vi fui sopra. Gli occhi mi lacrimavano per la polvere e per il vento, i cavalli correvano veloci come i fulmini di mio padre Zeus.
"Sei tu, mia signora?", mi urlò Diomede in mezzo al fragore, guardando fisso verso la mischia davanti a sé. "Atena Glaucopide?".
Mi affiancai a lui e per tutta risposta gli corressi la posizione del braccio prima che lanciasse l'asta, aiutandolo a colpire un arcere troiano che mirava proprio a lui.
Vedemmo in lontananza Afrodite, e feci in cenno a Diomede con la testa. Il figlio di Tideo ordinò all'auriga di dirigersi in quella direzione. Non aspettai che prendesse un'altra asta: senza pensarci gli misi in mano la mia, forgiata personalmente da Efesto, d'oro e avorio. Di nuovo gli sostenni il braccio e glie lo portai all'altezza giusta. Non all'altezza per uccidere, no, ma a quella per ferire.
Diomede scagliò l'asta e colpì di striscio Afrodite, che emise un grido di dolore e immediatamente si voltò a guardarmi negli occhi. Aveva un taglio sul braccio, non profondo ma lungo, che sanguinava.
"Questo Zeus lo saprà", mi gridò la dea dell'Amore, una luce negli occhi che non potrei mai dimenticare. "E tu davvero non rivedrai mai più l'Olimpo! Mai più!".
Come se questo avesse fatto qualche differenza, pensai con rabia: ero già stata condannata a non vedere più la mia casa! Afrodite mi guardò in silenzio per un altro secondo come un animale ferito, poi svanì in una nuvola simile a quella con cui aveva fatto scomparire Paride, e io cercai di tornare nell'irrazionalità della mischia. Non volevo ritrovarmi ad affrontare il fatto che avevo appena indirettamente colpito Afrodite. Non volevo ricordare i suoi occhi e la loro espressione tradita, non volevo sentire la colpa, non in quel momento.
La Guerra si impossessò definitivamente di me, impedendomi di provare qualsiasi sentimento. Ero diventata l'anima stessa della battaglia, la mente di ogni attacco, la legge fisica dietro ogni lancio. Ero diventata la strategia, una strategia che parlava chiaro: mettere fuori gioco chiunque aiutasse i nemici. Non avevo più un corpo, ero solo uno spirito iridescente e impetuoso, ponto a compiere il suo dovere.
Mi infilai nel corpo dell'auriga e guidai il carro di Diomede attraverso la confusione, il sangue e le punte acuminate. Una violenza soprannaturale regnava sulla battaglia: Ares combatteva con i Troiani. Lo vidi da lontano, imponente e violento, sterminare chiunque gli si trovasse davanti. Dietro di lui combatteva Apollo. Immediatamente feci galoppare i cavalli nella loro direzione, con tanta foga che il carro quasi si ribaltò. Tutto era sempre più veloce, più forte, più vicino. Diomede si reggeva in piedi in perfetto equilibrio, tenendo l'asta in posizione di lancio.
Il dio della Lotta mi riconobbe, e vidi i suoi occhi scintillare di un rosso cupo da sotto l'elmo.
Fu una frazione di secondo.
"Lancia!", gridai con tutte le mie forze, e un attimo dopo l'arma di Diomede aveva scalfito la pelle di Ares, facendolo sanguinare esattamente come Afrodite. Diomede aveva preso un'altra lancia e l'aveva già sollevata, pronto a scagliarla verso Apollo, ma il dio del Sole fuggì.
Lo vidi prendere il volo e scappare verso l'alto, e ben presto la sua capigliatura dorata diventò tutt'uno con l'astro nascente.

La furia di Diomede cessò quando si trovò di fronte a Glauco, un guerriero troiano a lui legato da antichi vincoli di ospitalità. L'eroe smise di combattere, e con la sua furia svanì anche il mio ardore di guerra, e tornai me stessa. Diomede non aveva più bisogno del mio aiuto, così presi il volo e sorvolai la battaglia, cercando con gli occhi qualche acheo in difficoltà da soccorrere. Davanti a me si ergeva Troia in tutta la sua magnificenza, una città che tendeva verso l'alto e culminava con lo splendente palazzo di Priamo, come la vetta innevata di un monte.
E ora, invece, è annerito e mangiato dal tempo, abitato solo dalle anime dell'antica polvere.
I miei occhi furono attirati da due figure alla base della città, alle porte Scee.
Socchiusi le palpebre: erano un uomo e una donna, ed ero più che certa che l'uomo fosse Ettore, il valoroso principe troiano. Incuriosita, mi feci trasportare dal vento verso le porte, e ben presto piume di civetta mi ricoprirono le braccia. Riuscivo ancora a vedere la battaglia, ma un'immensa curiosità mi spingeva verso le porte Scee.
In breve mi ritrovai a volare sopra gli enormi battenti storti di Troia. Ettore parlava con una bellissima donna dai lunghi ricci castani che il vento gonfiava. In braccio alla madre stava un neonato che si guardava intorno sbigottito, senza capire dove fosse capitato.
"Se tu muori, di me non resterà che polvere!", diceva la donna, piangendo. "Tu sei per me sei sia il padre che la madre, sei i miei fratelli e il mio sposo, e sei il padre di mio figlio".
Ettore sospirò. Non vidi lacrime sulle sue guance, ma dentro di sé quell'uomo era frantumato dal dolore, e una parte di lui urlava in silenzio.
"Andromaca, sai che non voglio per nostro figlio il destino di un orfano. Ma, se non andassi a combattere, non potrei più ripresentarmi come principe di Troia: chiunque, vedendomi, riderebbe di me e della mia vigliaccheria". Parole che mi sembrava di avere già sentito. "So bene che Ilio cadrà, e non posso accettare l'idea che tu diventerai la schiava di qualche acheo". A questo punto Andromaca cominciò a singhiozzare. "Quindi, spero di essere morto prima che questo accada, non potrei sopportarlo".
Ettore si avvicinò al figlio per prenderlo in braccio, ma il piccolo si ritrasse con un gemito di paura. Il padre sorrise e si tolse l'elmo, e questa volta suo figlio lo riconobbe. Con il neonato in braccio, Ettore dedicò una preghiera a Zeus sotto la luce accecante di quel sole, poi rivolse alla moglie l'ultimo saluto:
"Non ti affliggere: se morirò, sarà perché il Fato vuole così".
Si guardarono negli occhi per un istante lungo decenni, e probabilmente si raccontarono in uno sguardo quanto non erano riusciti a dirsi in anni e anni. Infine, Ettore diede un bacio al figlio, lo rimise in braccio alla moglie e si allontanò verso la battaglia, lasciando Andromaca nella disperazione. Una disperazione ormai priva di speranza.
Andromaca rimase ferma a guardare il marito che si allontanava, le vesti mosse dal vento, infine rientrò a passo lento in città e sulla soglia delle Scee non rimase più nessuno. Ero sola con il sole e il vento.
Ero profondamente colpita. Il silenzioso grido di dolore di Ettore mi rimbombava ancora in testa. Avevo visto negli occhi suoi e di Andromaca una luce che io non avevo mai realmente sperimentato. Avevo percepito nelle loro voci una nota diversa. Non ero mai stata come Artemide, che volutamente aveva sempre rifiutato ogni forma di amore, corporale o spirituale. Io, semplicemente, non me ne ero mai interessata. Avevo sempre avuto pensieri più urgenti. Avevo passato i miei anni scrutando le profondità dei cieli notturni e scoprendo nuove saggezze nelle leggi fisiche che governano il moto dei pianeti. Avevo sperimentato livelli di astrazione superiori, avevo affinato i miei sensi. Non mi ero mai innamorata, ma non avevo mai sentito la mancanza di un sentimento del genere. Non l'avevo ripudiato, non l'avevo cercato.
Qualcuno l'aveva cercato in me, ma evitavo sempre di pensare a quel giorno, o meglio, quella notte.
Le poche parole che i due amanti si erano scambiati avevano portato con loro, oltre alla malincionia, dei pensieri che avevano cominciato a martellarmi la testa. Pensieri sconosciuti ma, lo sapevo, infidi. Pericolosi. Se avessi abbassato la guardia, si sarebbero insinuati nella mia mente, e questo non doveva assolutamente accadere.
Mi voltai nuovamente verso la piana della battaglia, in modo da non vedere più le Scee. Mano a mano che planavo verso i soldati in guerra riacquistavo la mia forma umana, e quando toccai terra ero di nuovo una giovane donna dagli occhi azzurri, armata e pronta a combattere.

Come ogni giorno, all'imbrunire venne sancita la tregua, e iniziarono i rituali di sepoltura per i morti.
Le pire ardevano in lontananza, tingendo d'arancio il cielo color pervinca del tramonto. I loro fumi si fondevano con le nuvole, amalgamando il colore del sole e quello dei fuochi. Il mare rifletteva le tinte, increspandole e facendole risplendere. Se non avessi conosciuto la morte e la desolazione che accompagnavano quei colori, avrei detto che era uno spettacolo meraviglioso.
Tirava una brezza leggermente pungente, tipica delle prime sere d'estate: di giorno il sole arde e scalda, ma appena il carro dorato sparisce oltre l'orizzonte, la sera raffredda improvvisamente il mondo, facendolo respirare. Camminavo sul bagnasciuga, osservando l'accampamento poco lontano. Non passò molto tempo prima che mi ritrovassi davanti alle tende dei Mirmidoni. Non mi nascondevo più. In una sola giornata avevo vissuto anni e anni, e forse tutto quello che mi serviva era parlare con qualcuno. Non con l'ardore di Diomede o con la macchinosa astuzia di Odiesso: avevo bisogno di umanità, pura e difettosa umanità.
Achille, come mi aspettavo, era seduto in riva al mare, lo sguardo fisso verso l'esplosione del tramonto. Lo raggiunsi lentamente e mi sedetti accanto a lui, sulla sabbia grezza della costa di Troia.
"Atena Glaucopide", disse Achille, spostando lo sguardo su di me.
"Achille Pelide", risposi.
Poi, entrambi tornammo a concentrarci sulle violente pennellate del tramonto miste al fumo delle pire. Colori che riflettevano lo scontro di poco prima.
"Sono passati giorni dall'ultima volta che abbiamo parlato", constatò.
"Per questo sono qui, figlio di Peleo".
Lo udii sogghignare piano, poi parlò:
"Mi dispiace, mia signora, ma non ho cambiato idea riguardo all'argomento delle nostre ultime discussioni".
"La mia intenzione non era di parlare di questo, infatti".
"Allora a cosa devo l'onore della tua visita, mia signora?".
Sospirai. "A volte bisogna raccontare, parlare".
"Mi trovi d'accordo".
"Oggi in battaglia ho colpito Afrodite", cominciai, e le parole mi uscirono incontrollate come un fiume in piena. Achille si voltò a guardarmi incuriosito, le sopracciglia agrottate. "E Ares. E ho messo in fuga Apollo. In realtà è stato Diomede figlio di Tideo a colpirli, ma io guidavo il suo carro. Io. Anche se siamo sempre state opposte, Afrodite è come una sorella per me. In pochi giorni mi sono resi nemici quasi tutti gli dei, quelli che avevo sempre considerato la mia famiglia. Solo Hera è rimasta dalla mia parte. Mi chiedo se rivedrò mai più l'Olimpo, se mio padre mi riaccoglierà mai. Vorrei poter tornare da tutti loro, anche solo una volta. Nella mia vita ho avuto contrasti con molte divinità, ma ora è come se nulla di questo importasse più. Al tempo stesso, però, non posso abbandonare il campo di battaglia. Ho promesso che vi avrei aiutati, e il mio ruolo, il mio dovere è questo. Ma non smetto di farmi domande. Poco fa ho visto il Principe Ettore dire addio a sua moglie prima della battaglia, e ho capito che c'è qualcosa che mi manca. Non saprei spiegarlo. C'è qualcosa che non ho mai conosciuto, e che ho bisogno di conoscere. Davvero l'amore è così importante?". Feci una pausa. "Ti porgo le mie scuse, figlio di Peleo. Non avrei dovuto dirti tutto questo. 
So che non è proprio di una divinità parlare così di se stessa, ma anche una dea, delle volte, ha bisogno di riflettere sulle proprie azioni. Anzi, io lo faccio piuttosto spesso. Troppo, forse".
"So bene che un dio riflette esattamente come un essere umano, anzi, molto di più", mi rispose lui a voce bassa. "Vorrei farlo anche io. Temo di fermarmi troppo poco a pensare. Ho il dubbio di stare sbagliando. Negli ultimi giorni ho cercato di dedicarmi al pensiero più che a ogni altra cosa, ma ogni riflessione mi riportava sempre, inesorabilmente alla guerra". Scosse la testa. "Hai chiesto se l'amore è davvero così importante, figlia di Zeus? Purtroppo non sono la persona più adatta per risponderti. Ho una moglie, a Ftia, ma non sono sicuro di amarla. Penso che amare sia una parola molto complicata, e forse è meglio non usarla mai. Prendi Patroclo, mio cugino: l'affetto che nutro per lui è di gran lunga superiore rispetto a quello che provo per mia moglie, e penso sia il sentimento più forte che provo. Ma non avrei un nome da darvi. A me basta che esista. Non so se davvero l'amore è così necessario, ma non penso che sia una questione da porsi. Se si è soddisfatti della propria vita, vuol dire che la si sta vivendo nel modo giusto per se stessi amore o non amore. Ma se si ha la sensazione che qualcosa manchi, allora la risposta è chiara".
Non seppi rispondere e rimasi in silenzio a guardarlo. Quell'uomo non poteva essere lo stesso che da giorni aveva deciso di non combattere a causa di un capriccio. Lo scrutavo senza dire una parola, e i miei pensieri, poco alla volta e contro la mia volontà, iniziarono a viaggiare lungo il corso dei suoi neuroni. Per la prima volta, alla luce infuocata di quel tramonto, non vidi l'eroe, non vidi il semidio: vidi la persona. Vidi la complessità della psiche, vidi i contrasti e le armonie, l'imperfetta perfezione della mente umana, quello che avevo sperato di trovare quando mi ero seduta accanto a lui.
Ma subito tornai in me e riacquistai lucidità.
"Ti ho offesa con la mia risposta, mia signora?", chiese Achille guardandomi negli occhi. "Ti delusa ancora di più di quanto non abbia già fatto?".
"No", risposi. "No. Niente affatto".
Il tramonto faceva risplendere dei fuochi nell'oceano dei suoi occhi, e lo rendeva simile ad una rilucente statua di bronzo. Se qualcuno ci avesse visti dall'esterno avrebbe detto che lui era una divinità, e io una donna qualsiasi.
"Passa una notte tranquilla, Pelide", gli augurai alzandomi. Gli rivolsi quello che avrebbe potuto assomigliare ad un sorriso timido e mi allontanai da lui di qualche passo, verso il bosco delle civette.
"Atena Glaucopide!". Al suono della mia voce mi voltai di nuovo a guardarlo. Aveva sul viso un'espressione preoccupata. "Davvero non ti ho offesa?".
Questa volta gli rivolsi un sorriso sincero, sincero in ogni particella, e non ebbi bisogno di rispondergli.
Il bosco mi aspettava. Potevo sentire i richiami delle civette fin dalla spiaggia, striduli suoni nel buio.


NDA:
La lunghezza di questi capitoli cresce con andamento esponenziale, aiuto.


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