Dopo Inheritance ma... ai giorni nostri!

di PuCcIaFoReVeR
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Incontri ***
Capitolo 3: *** Serata in famiglia ***
Capitolo 4: *** Gelosia ***
Capitolo 5: *** Biscotti ***
Capitolo 6: *** Imprevisti ***
Capitolo 7: *** Too Handsome, too Sad ***
Capitolo 8: *** Sospetti materni ***
Capitolo 9: *** Ospedale ***
Capitolo 10: *** Padre! Padre? ***
Capitolo 11: *** Shocked ***
Capitolo 12: *** una madre conosce i propri figli nel profondo, non scordarlo mai ***
Capitolo 13: *** Only know you love her when you let her go ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Pov Nasuada
Mifermai di colpo davanti alla porta di ferro e vetro dell’umile palazzo di una via di New York City. Aprii la zip della borsa di Prada falsificata e infilai il braccio fino al gomito per cercare le chiavi. Dovevo sbrigarmi: quella non era esattamente una delle vie migliori della metropoli. Delinquenti e drogati affollavano la strada e i marciapiedi tutte le sere, tranne quando poliziotti che erano a conoscenza della situazione della via venivano a pattugliare armati di pistole e manganelli. Mi guardai intorno: quella sera la strada era deserta. L’unico lampione, davanti alla bianchissima e lussuosissima villa vittoriana di una famiglia ricca che, per non si sa quale motivo, si ostinava a voler vivere nella periferia della Grande Mela. Distolsi lo sguardo. Il nostro alloggio andava più che bene. L’autobus per portare i miei due angioletti a scuola passava proprio a venti metri dalla porta di casa. Era più sicuro che andare a piedi fino a tre isolati dopo, come erano costretti a fare quando abitavamo ancora a Seattle. La mia mano urtò qualcosa di metallico. Le ho trovate!
Estrassi la mano molto velocemente. Troppo, forse perché la chiave cadde con un tintinnio in mezzo al buio pesto. Mi misi una mano nella tasca dei jeans attillati, frugando tra i chewingum e i tamponi interni. Poi lo trovai. Sfilai la mano e accesi lo schermo del mio cellulare all’ultimo grido, regalatomi dalla mia adorata sorella – sorellastra – Arya. Puntai la flebile luce a terra, vicino a dove credevo che fosse caduto il mazzo di chiavi. Un rumore improvviso mi fece raddrizzare. Sulla soglia della grande villa c’era un ragazzo moro, dagli occhi dello stesso colore dei capelli, che teneva in mano le chiavi. Le mie chiavi! Riuscii a riconoscere il portachiavi con la foto dei miei figli regalatomi da loro per la festa della mamma qualche anno prima. Spensi velocemente lo schermo del cellulare e, cercando di sembrare disinvolta mi avvicinai al ragazzo.
«Bella serata, eh?»dissi cercando di sembrare più cortese possibile. Lui mi guardò incerto. Si morse il labbro e disse: «Avete bisogno di qualcosa, signorina?»
Annuii. «Quel... quelle chiavi che avete in mano... dove le avete trovate?»chiesi cercando di non dare a vedere che ero stata io a perderle. «Oh... Mi sono arrivate in testa mentre chiacchieravo con i miei genitori. Sono vostre?»
Sorrisi avvampando. «S-sì. M-mi dispiace che vi siate fatto male. Non l’ho fatto apposta.»
Lui sorrise, vedendomi così agitata e dispiaciuta. Un sorriso così bello l’avevo visto soltanto una volta in tutta la mia vita. E quella volta mi sono ritrovata All’ospedale a fare un’ecografia per vedere i miei figli. Poi mi ricordai dell’appuntamento con loro. «Ehm... mi piacerebbe stare qui a chiacchierare con lei, ma... ho il disperato bisogno di rientrare in casa mia.» dissi troncando bruscamente il discorso. Il ragazzo, che doveva avere la mia età, tese la mano con le chiavi. Le afferrai e corsi verso casa mia. «Aspetta! Non mi hai detto come ti chiami!» mi gridò.
«Domani ve lo dirò. Prometto.» risposi sol prima di entrare nel grande palazzo dove vivevo. O meglio, dove sopravvivevo. Salii le sei rampe di scale che portavano al pianerottolo dove c’era il mio appartamento. Beh, più che mio era nostro. E più che nostro era di qualcun altro. Eravamo in affitto. Non potevamo ancora permetterci una casa nostra. Se solo Murtagh fosse a conoscenza di Gemma e Ryan... Potrebbe aiutarci, lui è ricco...
Infilai una grossa chiave nella serratura di metallo placcato e iniziai a spingere mentre cercavo di farla scattare. Da dietro sentii dei passi che si avvicinavano e la porta si aprì. Gemma, la mia bambina era sulla soglia con l’aria scocciata. «Grazie...» mormorai sorridendole. Lei addolcì un po’ lo sguardo e mi fece entrare. «Sei in ritardo.» mi rimproverò Ryan mettendosi a sedere sul divano, anche lui con la stessa aria scocciata della gemella. «Lo so. Ma avevo perso le chiavi al buio. Sono arrivate in testa ad un ragazzo e mi sono dovuta scusare.» dissi sedendomi accanto a lui. I suoi occhi castani si posarono su di me. Al contrario della sorella, che aveva ereditato gli occhi e i capelli del padre, lui era la mia esatta copia. A parte il colore della pelle. I miei figli avevano un misto tra la carnagione bianca di Murtagh e la mia – colore dell’ebano –. Mi alzai dal divano color crema e mi diressi in bagno. Mi spogliai e aprii l’acqua della doccia. Chiusi a chiave e mi sedetti su uno sgabello. Di fianco a me le strisce depilatorie mi attendevano. Misi il piede sul lavandino e appiccicai la striscia rosa sulle mie gambe scure. Rosa. Come le linee nel test di gravidanza che Arya mi aveva dato quando ero stata male otto anni prima. Quelle strisce che avevano segnato la mia felicità. Applicai e strappai via diverse volte, finchè le mie gambe non tornarono lisce come il sederino di un bambino. Passai il dito lungo i miei arti inferiori, ammirando il mio lavoro pressoché perfetto. Misi la lozione idratante e m’infilai sotto all’acqua bollente. M’insaponai i capelli con lo shampoo alla ciliegia per bambini di mia figlia e mi cosparsi il corpo con il bagnoschiuma di Thor del mio bambino. Mi risciacquai velocemente e mi avvolsi in un asciugamano. Mi intrufolai nella nostra stanza da letto, l’unica della casa ad avere un giaciglio. Gemma mi seguì e aprì l’armadio.
«Mamma sexy o super presente?» mi chiese riferendosi allo stile dei miei vestiti.
«Tanto lo so che opterai per una minigonna da urlo...» borbottai incrociando le braccia al petto.
«Già...» disse lanciandomene una lucida rossa. Mi fece indossare anche i collant neri e un paio di scarpe con un tacco vertiginoso. Si fermò a guardarmi mentre pensava a cosa mettermi nella parte superiore. Poi optò per un top lungo senza spalline con un’immagine di Lola dei Looney Tunes piena di strass e paillettes.
«Vestita così per andare a fare shopping?» le domandai dubbiosa rigirandomi davanti allo specchio. Lei annuì sorridendo e aggiunse: «Magari vedi papà e fai colpo su di lui...»
Sorrisi, ma sapevo che non era possibile. Suo padre era chissà dove con chissà chi, a fare chissà cosa.
 

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Capitolo 2
*** Incontri ***


Pov Nasuada
Mia figlia mi tirò in piedi lanciandomi la borsetta. Mi prese a braccetto e chiamò il gemello. Questo arrivò di corsa, cercando di allacciarsi la felpa. Lo aiutai piegando le ginocchia e bilanciando il peso in avanti. Peso, beh era una parola grossa, avevo avuto due figli ed ero magra come un chiodo. Forse ancora più magra di quando ho conosciuto Murtagh. No, non forse, lo ero. Uscimmo dall’appartamento squallido che chiamavamo casa e ci dirigemmo a piedi verso la boutique di Arya. Entrammo facendo tintinnare una campanella e la mia sorellastra mi corse incontro abbracciandomi forte forte. «Piano, sorella. Così mi spezzi!» brontolai. Lei si staccò e mi squadrò. «Sono due mesi che non ti vedo e già sembra che tu non mangi da mesi.» mi strigliò. Io sorrisi. «Lo sai che non ingrasso!»
«Si, certo. Ma potresti almeno mantenere la linea! Ora quasi non ti vedo!» si lamentò abbracciando i miei figli. «Almeno quando sono nati loro avevi qualche curva in più.» disse ammiccando.
«Non ho intenzione di riprendere tutti quei chili.»
«Come vuoi. Ma saresti più attraente.» disse con un tono che solo io e lei potevamo capire. Feci un cenno del capo ai bambini, che schizzarono tra i vestiti. Sorrisi e mi sedetti accanto ad Arya, su un grosso scatolone pieno di guanti. Il mio top nero tempestato di strass e paillettes proiettava tanti piccoli arcobaleni in tutto il negozio. Mia sorella mi prese per mano, portandomi nel retrobottega. In quel momento sentii la porta del negozio aprirsi.


Pov Murtagh
Entrai nel negozio preferito da mia madre per gli ultimi acquisti. La commessa e proprietaria, Arya, stava portando una ragazza dalla pelle d’ebano nel retrobottega. Una chioma di capelli castani boccolosi riempiva la sua schiena. Quando si mise di profilo il mio cuore perse un battito.
Nasuada...
Non poteva essere lei. Era in Brasile con la famiglia a gestire un negozio d’abbigliamento come quello in cui mi trovavo. La ragazza troppo simile al mio grande amore e la commessa sparirono dietro una porta, senza accorgersi di me. Suonai una campanella sul bancone, simile a quelle nelle reception degli hotel di lusso di Manhattan. Nessuno riemerse. Suonai di nuovo e stavolta una bambina si fiondò dietro al bancone. «Posso aiutarla?» mi chiese sbattendo le lunghe ciglia. Era davvero bella. «Ehm... non saprei... non c’è tua madre?» le chiesi un po’ imbarazzato.
«Oh... Al momento non è disponibile... Ma il negozio non è suo... È della zia Arya...» mi disse sedendosi sul bancone per avere il viso all’altezza del mio. «Quindi tu non sei la figlia di Arya?» chiesi alzando un sopracciglio. Lei sorrise e scosse la testa, facendo ondulare la chioma corvina.
«Però conosco questo negozio come le mie tasche. Posso aiutarti io mentre lei non c’è.» aggiunse tendendomi la mano. «Mi aiuteresti a scendere?» chiese facendomi scoppiare a ridere. «Che c’è?» mi chiese.
«Niente...» risposi passandole un biglietto scritto da mia madre. Lo lesse velocemente e scomparì nel reparto dell’intimo. Un ragazzino, della stessa età di quella che se ne era appena andata, mi si avvicinò osservandomi con la testa piegata di lato. «Ho fatto qualcosa di male?» gli chiesi in un sussurro allargando le mani. Lui alzò le spalle. «Sta’ attento. Lei è mia sorella e sono io a doverla proteggere. Sono l’uomo di casa.» rispose incrociando le braccia al petto, assumendo un’espressione che avrebbe dovuto farmi paura. «E vostro padre dov’è?» chiesi.
«Se n’è andato lasciando la mamma incinta di noi due. Non sappiamo dove sia.»
«Oh... Che cattivone!» borbottai. La bambina tornò con dei reggiseno in mano. Li posò sul bancone e me li mostrò. «Quali piacerebbero a vostra moglie?» chiese guardandomi incuriosita. «Ehm, no. Niente moglie. Sono per mia madre...» dissi diventando rosso.
«Fa la modella?» mi chiese sorpresa. Alzai le spalle.
«No... ma le piace tenersi in forma...» dissi sorridendo.
«Oh... forte...» disse allungandomene due neri di pizzo.
«Grazie... saranno perfetti...» dissi infilandoli in una busta di plastica. Le allungai la carta di credito e mi chiese un documento. Glielo porsi e lei lo studiò incuriosita. «Gemma! Che stai facendo! Scendi da lì!» la rimproverò Arya uscendo dal retrobottega. Rimasi deluso non vedendo la ragazza scura. La bambina, Gemma, scese dal bancone lasciando posto alla zia.
«Scusami, Murtagh.» disse prendendo la carta e passandola nel macchinario per il pagamento.
«E per cosa? Questa bambina è stata bravissima!» dissi strizzandole l’occhio. Lei sorrise, tornando tra gli abiti. In pochi secondi lo scontrino sbucò dalla cassa e firmai sui trattini. Mi guardai intorno un’ultima volta, alla ricerca della ragazza d’ebano. Ma lei non c’era. Uscii dalla boutique salutando Gemma e mi diressi verso la macchina di mio padre.


Pov Nasuada
Arya tornò da me con una maschera d’orrore dipinta sul volto. E probabilmente avevo la stessa espressione. «Lui... era... qui...» dissi.
«Sì...» constatò mia sorella sedendosi accanto a me e cingendomi le spalle.
«E... ha... parlato... con... mia... figlia...»
«Sì...» ripeté Arya cingendomi le spalle con un braccio.
«Ha... capito... qualcosa...?»
«No...»
Sospirai di sollievo. Non ero ancora pronta a dirglielo. «Meglio... così...»
«Vai a casa... I bambini li accompagno io...»
Annuii e uscii dal negozio, raccomandandomi con i miei figli di ubbidire alla zia. Camminai lentamente sul marciapiede troppo vuoto, fino all’incrocio che portava alla via dove abitavo. Attraversai la strada per metà, quando una macchina impennò a pochi millimetri dalle mie cosce. Mi voltai e lo vidi. Era lì, al volante e mi guardava come se fossi una dea. Lessi le sue labbra che mi chiamavano, ma io corsi via.
 

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Capitolo 3
*** Serata in famiglia ***


Pov Murtagh
Vidi Nasuada scappare via piangendo. Cosa le avevo fatto di male? Era lei che era scappata via in un paese straniero per farsi una nuova vita. Ma soprattutto, cosa ci faceva lei in quel negozio? Perché non si era degnata neanche di guardarlo in faccia? Ok, non mi aveva visto e aveva continuato a svolgere le sue mansioni con Arya, ma i bambini? Non mi sembrava che avesse dei fratelli. La macchina entrò nella via dove abitavo, oltrepassando le zebra crossing dove avevo rivisto la mia ex. Con la coda dell’occhio mi sembrò di vederla entrare in un palazzo a poche abitazioni dalla nostra. No. Non era possibile. Nasuada non poteva vivere a pochi passi da me e non avermi mai visto o salutato. Schiaccia un bottone automaticamente sul cruscotto e la porta del garage si aprì. Mentre aspettavo impaziente che fosse sufficientemente alzata per entrare, venni quasi accecato dai fanali di una macchina... proprio davanti alla casa di Nasuada. Due figure entrarono nella porta di ferro e vetro e la macchina ripartì molto velocemente. Scrollai le spalle e spinsi la macchina nel garage. Richiusi a mano la porta e trovai mia madre a braccia conserte che mi squadrava dalla testa ai piedi. «Se è questo che stai cercando, sì, ci sono andato.» dissi lanciandole la sporta con il logo del negozio di Arya. Lei guardò all’interno e il suo sguardo s’illuminò. Si spostò dalla soglia che portava in casa e mi lasciò passare. Mio padre, l’uomo alto dalla bellezza austera e crudele, era seduto al tavolo della cucina e sfogliava un giornale virtuale sul mio Ipad. Aveva la fronte aggrottata, segno che qualcosa, secondo lui, non funzionava. Mi soffermai a guardare lo schermo da dietro le sue spalle, senza proferire parola. Lui passò un dito da destra a sinistra per cambiare pagina, ma questa rimase dov’era. «Oh, al diavolo! Selena! Perché quest’affare non funziona?» sbottò buttandolo sul tavolo. Mia madre emerse in cucina e lo prese tra le mani studiandolo per un po’.
“Cos’ha?” mi chiese mimando con le labbra.
“È scarico.” le risposi allo stesso modo.
«La batteria si sta scaricando, Morzan.» disse ad alta voce. Mio padre la guardò in cagnesco.
«E cosa aspetti a metterlo in carica?» sbottò lui.
«Ora vado. Non ti scaldare. E saluta tuo figlio.» disse lei seccata uscendo dalla stanza.
Mi misi le mani in tasca e girai intorno al tavolo, sedendomi di fronte a lui. Mi squadrò con quei suoi occhi policromi e si alzò, senza degnarmi di una parola. «Dov’è tuo fratello?» mi chiese tenendomi le spalle voltate. «È ancora al lavoro. Tornerà tra qualche minuto.» dissi piatto.
Mia madre tornò in cucina, seguita dal gattino rossiccio che avevo chiamato Castigo. Mi mise davanti un grosso vassoio di stufato. Alzai le sopracciglia stupito. «Spero che non sia tutto mio...» borbottai. Mamma mi scoccò un bacio enorme sulla fronte. «Sei troppo magro. Devi mettere su qualche chilo.» disse toccandomi le costole effettivamente troppo sporgenti.
«Ma lasciane un po’ per Eragon.» aggiunse sedendosi accanto a me. Al contrario delle altre sere in cui tornavo a casa senza un briciolo di appetito, con le emozioni in subbuglio avrei mangiato tutto quello che c’era nella stanza. Morzan mi lanciò un cucchiaio, che presi al volo e affondai nel sugo caldo, quasi sciogliendomi. «Mamma, sei una cuoca fantastica!» dissi mettendomi in bocca il primo cucchiaio. Le mie spalle tese si sciolsero come la carne sulla mia lingua. In quel momento entrò Eragon con i capelli tutti scompigliati e la camicia completamente bagnata. Mamma si mise le mani sulla bocca e gli corse incontro preoccupata. «Eragon! Che ti è successo?» gli chiese portandogli una coperta.
«Sta arrivando l’autunno. Da domani Murtagh dovrà aspettarmi. Non posso più tornare a casa ogni sera bagnato fradicio.» si lamentò mio fratello. Mi guardò e io annuii, facendolo sorridere. Si tolse i jeans attillati e la camicia, rimanendo soltanto con i boxer neri. Si sedette a tavola, dopo essersi preso un cucchiaio anche lui. Poi, senza tanti complimenti, si  fiondò sullo stufato, mangiandone metà. Lui si che non aveva le costole sporgenti. Neanche chili di troppo, se per questo. Quando ero ancora felice ero così anch’io. Poi Nasuada mi ha lasciato e sono caduto in una profonda depressione. Soltanto il mio amico Castigo mi ha aiutato ad uscirne. Ora sono troppo magro per interessare a qualcuna. E pensare che una volta pendevano tutte dalle mie labbra! «Lasciane qualche cucchiaiata per tuo fratello, Eragon.» lo strigliò la mamma. Mi scompigliò i capelli facendomi l’occhiolino. Mi allungai sul tavolo per prendere il vassoio, sbattendo le costole sul bordo. Mi piegai dal dolore e iniziai a tossire. «Piano, Murtagh.» mi sussurrò la mamma massaggiandomi la schiena. Quando il dolore passò mi alzai per andare in camera mia. Mamma mi seguì, chiudendosi la porta alle spalle. Mi tolse i pantaloni e la camicia, facendomi stendere sul letto. Si sedette accanto a me, rimboccandomi il piumone. «Grazie...» mormorai prima di cadere in un sonno vigile e tormentato da incubi riguardanti lei, solo lei... Nasuada

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Capitolo 4
*** Gelosia ***


Pov Nasuada
La porta principale dell’appartamento si aprì, lasciando entrare i miei due angeli. Vedendomi piangere si sedettero accanto a me e uno dei due mi abbracciò. Probabilmente era Ryan, perché poco dopo mi ritrovai in mano una tazza di The bollente, che solo Gemma sapeva fare. La trangugia, senza badare alle buone maniere, cosa a cui solitamente tenevo molto.
«Qual è il problema, mamma?» mi chiese mio figlio vedendomi scoppiare in lacrime. Iniziai a scuotere la testa, in segno che andava tutto bene, ma loro mi conoscevano meglio di chiunque altro e iniziarono a curarmi con l’unico modo che riusciva a tirarmi su un po’ il morale. Iniziarono a cantare una canzone, la stessa che cantavo loro per farli addormentare da piccoli, la stessa canzone che era stata la colonna sonora della mia relazione con Murtagh. Subito la mia mente iniziò a rivangare i ricordi felici e pian piano la tristezza passò. Mi asciugai il viso con il dorso della mano e li mandai a dormire. Mi svestii e indossai qualcosa di più comodo, poi mi affacciai alla finestra. Il ragazzo che avevo incontrato poche ore prima era davanti alla porta di casa a fumare una sigaretta. Presi il cellulare e scesi in strada, facendo finta di rispondere ad una telefonata importante. Finsi per qualche minuto, poi quando rinfoderai il telefonino lui si avvicinò. «Come va, ragazza-cecchino?» chiese scherzando. Era talmente vicino che potevo sentire il suo odore: pioggia. Strano odore per una persona. Poi mi ricordai che era piovuto da poco e avevo ancora qualche ciocca di capelli bagnata.
«Potrebbe andare meglio, grazie. E tu? Lo sai che fumare fa male?»
Lui sembrò sorpreso dalla mia affermazione e gettò via la sigaretta. «Ti da fastidio il fumo?» mi chiese. Scossi la testa. «A me, no. Fumavo anch’io prima di...» mi fermai, accorgendomi di non dover parlare dei miei figli al primo che passava.
«Di...?» mi chiese esortandomi a continuare. Scossi la testa.
«Avere un incidente di percorso...» dissi cercando di rimanere sul vago.
«Che hai fatto di bello stasera?» mi chiese cambiando bruscamente discorso. Possiamo dirlo, a cercare di nascondere che ci stava provando non era decisamente bravo. Alzai le spalle.
«Sono andata a fare shopping...»
«Oh... divertente...» disse un po’ deluso.

Pov Murtagh
Delle voci provenienti dall’esterno mi destarono – fortunatamente – dai miei incubi. Mi trascinai fuori dal letto, scansando Castigo con i piedi. Avanzai quasi a tentoni nel buio fino a raggiungere la finestra che dava sulla strada. Nel centro di essa vi erano Eragon e...
Nasuada...
Chiacchieravano, come se si conoscessero da sempre. Lei sorrideva, a volte piegandosi in avanti dal ridere e lui parlava con il sorriso sulle labbra. Probabilmente il mio fratellino non si era reso conto di avere la donna di suo fratello davanti. Ci stava provando con la ragazza sbagliata. Avrei voluto andare la fuori e tirarlo in casa di peso, ma avrei rischiato di veder Nasuada scappare via come aveva già fatto quel giorno. Era così bello vederla di nuovo sorridente e allegra. Rimasi lì a guardarla come si guarda un dolce al cioccolato, sognando il momento in cui lei sarebbe tornata tra le mie braccia.
 

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Capitolo 5
*** Biscotti ***


Pov Nasuada
Quando mi svegliai ero abbracciata ai miei due angeli. Guardai la sveglia, che indicava le sette e mezza e decisi di alzarmi presto quella mattina. Era sabato e i bambini non dovevano andare a scuola. Io si, purtroppo. Per badare a loro ho perso diversi anni all’università, che mi vedo costretta a recuperare adesso se voglio trovare un lavoro decente. Mi fiondai sotto alla doccia e in meno di cinque minuti ero anche già asciutta. Presi un paio di jeans lilla dall’armadio, che abbinai ad un maglioncino di lana morbido grigio con i brillantini. M’infilai le mie adorate Superga bianche e nere e andai in cucina. Tritai il ghiaccio e l’annegai di sciroppo alla menta e presi una brioche dal forno. Granita e brioche. Era ciò che mangiavo tutte le mattine, come se fosse un rituale, da quando io e Murtagh eravamo andati in Sicilia quando stavamo ancora insieme. Presi la mia tracolla dell’Eastpak e c’infilai dentro i libri che avrei usato quel giorno. Biologia, Letteratura, Inglese, Matematica e Spagnolo. Preparai anche i vestiti comodi per l’ora di Educazione Fisica. Poi, mi abbandonai alla mia colazione. Trangugiai la granita e mangiai in un sol boccone la brioche. Mi avvicinai al lavello per sciacquare il bicchiere dove vi era il ghiaccio fino a pochi attimi prima e aprii l’acqua. Un giramento di testa mi colse alla sprovvista, mandando in frantumi il bicchiere. Mi appoggiai al bordo della cucina per sorreggermi e aspettai che finisse. Qualche minuto dopo la stanza aveva smesso di girare.
A parte i vetri per terra, era tutto a posto. O quasi: Ryan si trascinò in cucina spargendo i cocci con le ciabatte. «No!» gridai tendendo le mani verso di lui, pronta a spingerlo fuori dalla stanza. Mio figlio mi guardò con aria interrogativa e piegò la testa di lato. Mi aspettai di vederlo iniziare a ululare di dolore per i vetri piantati nei piedi, ma mi accorsi che portava le babbucce. «Oh, grazie al Cielo!» dissi cingendogli il collo con le braccia e affondandogli il viso nel mio petto. Si staccò un po’ da me e mi chiese: «Qual è il problema?»
«Oh, niente, amore mio. Torna a dormire.» gli dissi quasi in lacrime. No, non dovevo scoppiare. Mi sarei rovinata il trucco. Lo spinsi di nuovo sul letto e tornai in bagno per gli ultimi aggiustamenti. Mi pettinai i grandi boccoli e mi lavai i denti, poi uscii di casa dopo l’arrivo di Arya. «Buona giornata.» le dissi chiudendomi la porta alle spalle. Sentii che la risposta e sorrisi felice, scendendo quelle sudice scale di finto marmo.

Pov Arya
Passarono alcune ore dall’uscita della mia sorellina-cresciuta-troppo-in-fretta-per-colpa-di-quel-brutto-non-posso-dire-cosa-di-Murtagh e finalmente i miei nipotini si alzarono da letto.
«Ben svegliati, zuccherini. Colazione?» li salutai andando in cucina, dove avevo precedentemente pulito il disastro combinato da mia sorella. Gemma mi seguì stropicciandosi gli occhi. «Mhh... sì, per favore...» borbottò sedendosi sul grande sgabello vicino alla penisola.
Mi misi di fronte a lei, imitandola. Appoggiai i gomiti sul legno e misi il mento nei miei palmi uniti. Lei si accorse della mia presa in giro scherzosa e mi fece una linguaccia. Era tutto suo padre quando faceva così. «Allora, cosa posso offrirle, signorina?» scherzai.
«Mhh...» fece finta di farsi pensierosa. «Magari un Martini con oliva. E, intanto che ci sei, anche unoshot  di Vodka.» rispose scuotendo i capelli lisci e neri. Sorrisi aprendo il frigorifero e riempiendo una tazza di latte freddo, come piaceva a lei. E io sapevo da chi aveva preso questa preferenza. Lei era tale e quale al padre. Quando lei faceva qualcosa nella mia mente tornavano in mente scene di otto anni prima, quando Nasuada portava Murtagh a casa nostra. Vi starete chiedendo perché non si è ancora accorto che sono la sorella di Nasuada. Ebbene, all’epoca avevo meno rughe, i capelli color platino e gli occhi azzurri. Ora ho i capelli dello stesso colore delle penne del corvo, gli occhi smeraldini e le orecchie appuntite. E... beh, anche qualche ruga...
Ryan si affacciò alla cucina, porgendo il computer portatile alla gemella. «C’è una video-chiamata su Skype per te.» disse posando il pc davanti a lei.
Gemma cliccò un pulsante e un finestra con l’immagine della sua migliore amica si aprì sul desktop. «Ismira!» esclamò.
«Gemma! Comment allez-vous? Ehm, volevo dire... come va?» disse correggendosi.
«Bene, bene... Com’è Toronto?»
«Oh, fantastica! I miei parenti che non sapevo di avere sono simpaticissimi! Ci sono tanti ragazzini socievoli! Non avrei mai immaginato...»
«Davvero?» chiese Gemma incredula.
«Sì, davvero... ora devo andare... ti racconterò quando torno, se a tua madre andrà bene...»
Presi un bicchiere di succo d’arancia e me lo portai alle labbra, assaporando il liquido rosso.
«Stai tranquilla, mamma sarà occupata a cercare papà...» Sputai tutto quello che avevo in bocca. Che cosa aveva appena detto mia nipote? Nasuada sta cercando di dirlo a Murtagh?
«Ok... Ti saluto...» disse Ismira interrompendo la video-chiamata. Gemma chiuse lo schermo, riportando il pc al gemello. Tornò in cucina e io le porsi la colazione.
«E da quando tua madre sta cercando M... ehm... tuo padre?» le chiesi sedendomi di fronte a lei. «Non molto, in effetti. Anzi, ancora non lo sta facendo. Ma io e Ryan siamo d’accordo: dobbiamo conoscerlo. Tu sai niente di lui?»
«Sì, so molte cose sul suo conto. E ogni tanto lo incontro per strada. Ma tua madre non è ancora pronta per parlarvene. E non sarò io a farlo.»
«Però hai detto che il suo nome inizia per M...»
«E chi te lo dice, scusa? Potrebbe essere l’iniziale del suo cognome...»
«Oh, grazie mille! Ora ho capito per cosa stanno le due M nella catenina della mamma...»
«Gemma tu non...» iniziai, ma lei non m’ascoltò e corse nell’altra stanza gridando: «Ryan ora so le iniziali di nostro padre!»
«...dovresti indagare senza il consenso di tua madre...» finii la frase tra me e me. Presi il cellulare e digitai un numero. «Pronto?» la voce di mia sorella era preoccupatissima.

Pov Nasuada
«E sono sicura che m’inviterà al ballo oggi stesso...» disse Katrina riferendosi al suo fidanzato Roran. «E tu, Nasuada, con chi ci andrai? Qualche vecchia fiamma?» mi portò alla realtà sentire il mio nome. «Cosa?» chiesi non avendo capito la domanda.
«Il ballo. Con chi ci andrai?»
«Oh, ah... Io in verità...» balbettai.
«Non puoi mancare! Sei tornata quest’anno ed è il tuo primo ballo da mamma... Allora... con chi ci andrai?» mi chiese dandomi delle gomitate alle costole.
«Ti ho detto che non posso andarci... Arya sarà la madrina della serata... dove li lascerò quei due?» Domanda retorica. Non avrei potuto lasciarli soli. Katrina si zittì. Mi capiva. Anche lei aveva avuto un bambino un anno prima di me, anche se aveva diciotto anni. Comunque non mi capiva abbastanza. Roran, il padre di Ismira – la migliore amica di mia figlia – le era sempre stato accanto. Fin dal momento in cui gli aveva detto di essere incinta. Murtagh non ha fatto altrettanto con me. Mi ha scaricata senza neanche sapere che stava per diventare padre.
«Allora non verrai? Sei sicura?»
«Sì, sicurissima. E poi i balli mi ricordano lui...»
«Chi ti ricordano, Nasuada?» intervenne Roran arrivando seguito dalla sua banda di ragazzoni. Erano davvero enormi. Spalle larghe, almeno un metro e novanta di altezza, grugni spaventosi dipinti sui volti spigolosi. In effetti, mi incutevano un po’ di paura. Il ragazzo dai capelli riccioluti baciò Katrina, cingendole le spalle con un grande braccio. Fece un cenno con la testa ai ragazzi che lo seguivano e questi si dileguarono in mezzo alla fiumana di studenti universitari. «Murtagh...» gli risposi con un sussurro. Dire il suo nome ad alta voce mi faceva ancora tremare. «Mh... parliamo d’altro?» si propose Trianna apparendo dal nulla con il suo solito sorriso sulle labbra. Le sorrisi e mimai un ‘grazie’. «Com’è andata la lezione, Nas?»
«Avrebbe potuto andare meglio, grazie. Il professore nuovo non la smetteva di fissarmi.»
«Sei giovane e bella. Non è normale?»
«Già, come no... Giovane, bella e con due figli. Forse è per questo che mi fissava. Mi credeva una poco di buono.»
«Non dire così! Si vede dai tuoi voti che non sei una poco di buono.»
«Sarà...» borbottai. Iniziai a rigirarmi tra le mani il ciondolo con le due M che non toglievo mai.
«Ti manca, eh?» mi disse nell’orecchio, perché nessuno potesse udirla. Annuii e in quel momento il mio cellulare squillò. «Pronto?» risposi preoccupata vedendo il numero di Arya.
«Ho combinato un guaio enorme...» mormorò lei. Sbiancai.
«È successo qualcosa ai bambini?» chiesi con il respiro affannato.
«No, tranquilla. È qualcosa di diverso...»
«Non vedo cosa ci possa essere di peggio... a meno che... non sarai...»
«No, Nasuada! Come ti vengono in mente certe idee! Non ho nemmeno un fidanzato!»
Sospirai di sollievo. «E allora cosa c’è?» chiesi un po’ troppo acida.
«Ho rivelato un po’ troppe informazioni sul padre dei tuoi figli...»
«Non hai osato davvero...» La mia risposta era un misto tra una minaccia e una preghiera.
«Non l’ho fatto apposta! Quei due riescono a tirarti fuori le informazioni senza che tu te ne renda conto...»
Mi misi una mano sopra gli occhi, cingendomi le tempie. «Posso venire lì e...»
«No! Rimani li dove sei! Ti assalirebbero di domande! Cercherò di trovare loro qualcosa da fare per distrarli... potremmo... fare dei biscotti!...» esclamò lei.
«Per me va bene... non è pericoloso...»
«Ok... allora... divertiti a scuola...»
«Lo farò... e tu tieni a bada i miei angioletti...»
«Ciao.»
«Ciao.» Misi nuovamente il cellulare in tasca e mi appoggiai con la schiena agli armadietti.
«Qualche problema?» mi chiese Roran. Annuii.
«Lo definirei più un guaio...»
«Mh? In che senso?» chiese lui piegando la testa di lato.
«Mia sorella ha aperto troppo la bocca davanti ai miei bambini. E adesso sanno alcune informazioni su tuo cugino Murtagh!» sbottai. Chiusi gli occhi e gettai indietro la testa.

Pov Arya
Mia sorella sembrava molto arrabbiata. E, in fondo, aveva ragione. Beh, più che in fondo,  aveva molta più ragione di quanta potessi attribuirgliene io. Gemma mi guardava con aria di sfida. «Mi dici qualcos’altro su di lui?» mi supplicò con la faccia da cucciolo smarrito e in cerca di coccole. Distolsi lo sguardo per non cadere nella sua trappola. In quanto a scaltrezza e furbizia erano entrambi uguali a Murtagh. «Non posso. Tua madre non vuole.»
«E va bene. Vorrà dire che cercheremo tutti quelli che hanno come iniziali due M a Seattle nel 2003.»
«E se vostra madre non lo avesse conosciuto a Seattle?» Ed era vero. Era qui a New York City che si erano incontrati la prima volta. A Seattle erano soltanto nati loro due.
«Impossibile.»
«E, invece, è vero.»
«Giura!»
«Giuro!»
Lei strinse le labbra perfette e mi guardò in cagnesco. «E va bene... Cosa facciamo oggi?»
«I Brownies.»
«Evviva!» Si mise a saltellare per tutta la cucina con le mani al cielo.
«Ryan! Vieni, facciamo i Brownies!» lo chiamai. Lui arrivò correndo, con tanto di mani lavate. Infilai loro i grembiuli e iniziammo ad amalgamare gli ingredienti dentro una pentola sul fuoco. Gemma mescolava, mentre suo fratello aggiungeva ciò che gli dicevo di versare. In poco tempo l’impasto fu pronto per essere infornato. Pulii la pentola che avevamo usato e li seguii sul divano. Alla TV davano ‘Dennis la minaccia’. Ci mettemmo a guardare quel film sempre magnifico, finchè l’odore di torta non invase tutta la stanza. Andammo in cucina e i nostri Brownies erano venuti meglio di qualsiasi altra volta. «Complimenti ragazzi. È un peccato mangiarli da soli.»
Gemma guardò Ryan con uno sguardo d’intesa. «E se li vendessimo, zia Arya?»
«Ok... Per me va bene... ma non allontanatevi da questa via.»
I bambini versarono i dolci in piatti di plastica e li avvolsero con pezzi di stoffa. «Torneremo prima di pranzo.»
«Va bene... e prendete questo...» diedi loro il mio cellulare, spiegando come usarlo.
«Lo sappiamo benissimo, zia.» dissero prima di uscire di corsa di casa.

Pov Murtagh
Il Campanello di casa suonò. «Murtagh! Vai ad aprire per favore?» mi gridò mamma. Mi alzai dal divano sbuffando e andai ad aprire. I due bambini che avevo visto al negozio di Arya erano davanti alla nostra porta e vendevano... Brownies!
«Ehm... ciao... qual buon vento vi porta qui...?» domandai facendo finta di non aver visto i dolci che tenevano in un piatto tra le mani. Anche Nasuada me li cucinava sempre...
«Vendiamo questi dolcetti per racimolare qualche soldo in più.»
«Oh, ah... Avete girato tutto il quartiere?» I due scossero la testa.
«Solo la via. Zia Arya e mamma non vogliono che ci allontaniamo da soli...»
«Potrei accompagnarvi io...»
«No, grazie. Mamma dice di non parlare con gli sconosciuti. E tu sei uno sconosciuto.»
«Non completamente, però.»
«Sì, è vero... allora? Li vuoi o no i Brownies?»
«Oh, sì, certo! Vado a prendere il portafogli...» Mi fiondai in camera mia e afferrai il portafogli di Calvin Klein, tornando dai bambini.
«Quanti?» mi chiese lei estraendo un foglietto.
«Tutti?» chiesi un po’ titubante.
«Tutti?!?» esclamò il bambino.
«E sentiamo, Mr magro, dove li metteresti tu tutti questi Brownies?»
«Oh, beh, me li mangerei...»
«Ok... ma... il costo è un tantino alto...»
«Non c’è problema... sono ricco, posso permettermi qualsiasi cosa...»
«Beh, in tal caso... Che prezzo, Ryan?»
«Offerta libera...» disse rivolto a me.
Frugai in mezzo alle banconote di grosso taglio, in cerca di qualcosa di più piccolo, senza risultati, però. Alla fine optai per una banconota da 100$. La bambina sbarrò gli occhi e scosse la testa. «Non abbiamo il resto da darvi...»
«Siete stati voi a dire che il prezzo era alto. Adesso prendetevi le vostre responsabilità.»
«Ma... abbiamo solo venti dollari...»
«In tal caso, tenetevi pure il resto. Vorrà dire che v’inviterò a cena e mi cucinerete tutti i Brownies che voglio...»
«Affare fatto... oh! Quasi dimenticavo! Dovreste darci il vostro nome...»
«Uhm... penso di sì. Murtagh Morzansson.»
«Ryan, segna. MM.» disse lei con una strana luce negli occhi.
Mi diede il piatto dei dolci e se ne andarono. Chiusi la porta e mi misi in bocca un quadretto di quel ben di Dio.
 

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Capitolo 6
*** Imprevisti ***


Pov Nasuada
Appena entrai in casa un delizioso odore di Brownies mi pervase le narici, trascinandomi in cucina. Aprii il forno, sperando di trovare qualche dolcetto per me. Invece, lo trovai vuoto e infelice. «Gemma! Ryan! Si può sapere dove sono i Brownies?» gridai. La mia bambina emerse in cucina con le braccia conserte. Brutto segno. «Non li avrete mangiati tutti, spero...» aggiunsi.
«No, mamma. Li abbiamo venduti.» rispose scocciata.
«Oh, bello. E vi siete divertiti ad entrare per un po’ nel mondo degli adulti?» Come risposta ricevetti un’alzata di spalle.
«Lo sapevi che solo in questa vi ci sono sei ragazzi che hanno come iniziali due M?» chiese inaspettatamente. Certo che lo sapevo. «E con questo?» Le mie mani iniziarono a tremare come foglie al vento. Lei spostò lo sguardo su di esse e poi sul mio viso.
«Era solo una constatazione. Sarebbe un caso che tra questi ci fosse nostro padre...» Il suo tono era mellifluo, quasi tagliente. Scossi la testa, lasciando che le prime lacrime mi bagnassero le gote. «Perché volete tanto sapere chi sia? Non capite che sto male a pensare a lui?» sbottai con la voce rotta dal pianto. Nascosi il viso tra le mani e uscii di casa correndo. Scivolai sul marciapiede e appoggiai il capo sul muro del mio palazzo. Poi il mio cellulare squillò. Guardai lo schermo: era Arya. «Non dopo tutto quello che hai fatto, sorella.» dissi acida rinfoderando il piccolo parallelepipedo nella tasca dei jeans. Un messaggio fece squillare ancora quel maledetto affare. Un numero sconosciuto mi aveva chiesto de andava tutto bene.
“Chi sei? -_- ” scrissi digitando le lettere sul telefono in orizzontale – perché mi era più facile scrivere - .
“Eragon. ;) Sono dentro casa e ti ho visto piangere. Tutto ok? O.o” rispose più veloce della luce. Strabuzzai gli occhi. Lui?
“Si... sto bene... è solo che... no... lascia stare... Tutto ok da te? :)”
“Sì... a parte mio fratello che mi tratta improvvisamente male da quando ci siamo incontrati l’altra sera...”
“Non conosco tuo fratello, mi dispiace...”
“Lo so... è questo il punto... ma lui è così... e non ci faccio più tanto caso...”
“Fai bene... anche mia sorella ha appena combinato un guaio...”
“Davvero? Vengo fuori e ne parliamo?”
“Grazie... sarebbe d’aiuto...”
Non feci in tempo a rinfoderare il cellulare che Eragon era già seduto al mio fianco.
«Non sporcherai i tuoi pantaloni firmati a star seduto sulla strada?» gli chiesi notando la griffa sui suoi jeans. Alzò le spalle.
«Vale anche per te...»
«Ma i miei non sono firmati...»
«Non importa se sono firmati o no... l’importante è vestirsi...»
«Già...» mormorai. Mi cinse le spalle con un braccio e mi prese la testa con l’altra mano, portandosela al petto. Sapeva lo stesso odore di... No... non dovevo pensarci...
Una lacrima solcò le mie guance già bagnate.
«Allora... mi vuoi dire qual è il problema?» sussurrò lui.
«È una storia un po’ lunga...»
«Raccontamela...»
Espirai sonoramente e chiusi gli occhi, per fermare il flusso delle lacrime.
«Ecco... io... Nove anni fa ho conosciuto un ragazzo. Ci siamo innamorati, fidanzati e la nostra relazione è continuata per qualche mese. La mia famiglia aveva deciso di emigrare in Brasile per cercare la fortuna, così io e quel ragazzo iniziammo a passare insieme tutto il tempo che ci rimaneva. Pochi giorni dopo la partenza scoprii di essere incinta...» Mi presi la testa tra le mani e soffocai un singulto. «Ti prego, non mi giudicare per questo...» mormorai.
«Non ti giudico. Può succedere a chiunque... E poi che è successo?»
«Ho cercato in tutti i modi di dirlo a mio padre e quando ci sono riuscita lui mi ha cacciata di casa... per fortuna mia sorella mi ha seguita e mi ha aiutata, dissuadendomi dall’idea di abortire... siamo andate a fare la prima ecografia quando ero di cinque mesi. Ed è lì che il mondo mi è crollato addosso: erano due.»
«Due gemelli? E poi?»
«Poi ho portato avanti la gravidanza e pochi giorni prima del parto ho preso una delle decisioni più difficili della mia vita: li avrei dati in adozione.»
«E quindi è quello il problema di cui parlavi? Tua sorella ha visto i bambini e ha detto qualcosa su di te?»
Scossi la testa. «No. Il problema è un altro. Ma prima fammi finire la storia. Sono andata in tutti i centri dove accoglievano bambini per l’adozione, ma vicino a Natale non ce n’era nemmeno uno disponibile a prendere in carico i miei figli. Così, ho preso l’appuntamento per il parto all’ospedale e ho aspettato. Mia sorella ha cercato di rendermi quell’attesa gioiosa e facendomi festeggiare la festa che tutti tanto a spettano, ma qualcosa è andato storto anche in quel momento. La mattina della Vigilia mi si sono rotte le acque. E la mattina di Natale avevo i miei due regali tra le braccia. Niente adozione, niente padre, niente soldi. Avevo solo mia sorella. Ho abbandonato la scuola e mia sorella ha cercato un lavoro. Ha aperto una boutique e così abbiamo vissuto decentemente per i primi anni della loro vita. Poi siamo tornati a New York City qualche anno fa e viviamo qui da allora. Ma l’altro giorno ho rincontrato il padre dei miei bambini e lui ha parlato con loro. E adesso mia sorella si è fatta scappare troppe informazioni su di lui...»
«Capisco... e loro sono in casa?»
«Sì, perché?»
«Posso vederli?»
Il mio cuore perse un battito. Lui non fuggiva come facevano tutti. Anzi, voleva vederli.
«Certo, sali.» lo esortai tirandomi in piedi.
Arrivammo davanti alla porta e mi raccomandai: «La storia che ti ho raccontato deve rimanere su quel marciapiede, ok?»
«Ok...» rispose spingendo la porta. I miei angeli, seduti sul divano a guardare un film si voltarono verso di noi e ci guardarono alzando un sopracciglio.
«Ciao...» li salutò Eragon imbarazzato. Mosse qualche passo verso di loro e si sedette accanto al mio ometto. «Piacere, Eragon.» disse porgendogli la mano d’istinto. Mio figlio la prese e disse: «Ryan.»
«Gemma...» disse lei porgendogli la mano, improvvisamente cortese. Il ragazzo la strinse e tornò ad alzarsi. Poi il mio cellulare squillò. Risposi senza guardare il display.
«Nasuada! È successa una cosa terribile!» disse lei con la voce tremolante. Era scossa e poche cose riuscivano a cambiare la voce impassibile di mia sorella.
«Cosa?! Mi dispiace di non averti risposto prima...»
«Risparmiati le scuse per quando saremo in Brasile!»
«In Brasile?! È successo qualcosa a papà?»
«Sì... è stato coinvolto in una sparatoria ed è stato operato... non sanno se riusciranno a salvarlo...» singhiozzò.
«Merda...» mormorai, stringendomi la vita con il braccio libero.
«Dobbiamo partire stanotte stessa. Ci vediamo all’aeroporto alle quattro.» disse e interruppe la chiamata. Lanciai il cellulare sulla poltrona accanto a me.
«Qualcosa non va, mamma?» chiese Ryan.
Mi avvicinai a loro, inginocchiandomi. «Il nonno sta male e devo andare da lui. non so quanto rimarrò la e voi... dovreste andare da Katrina.»
«Ma... mamma... non possiamo venire con te?» chiese Gemma.
«Lo sapete che vostro nonno non vuole avere niente a che fare con voi...»
«Dobbiamo proprio andarcene da Katrina?» chiese lui sconsolato.
«Sì... è necessario...»
«No! Aspetta! Potrebbero venire da me... la casa è grande e ci staremo bene tutti... e poi mia madre non vede l’ora di avere dei bambini per casa...» si propose Eragon. Scossi la testa, anche se l’opzione mi allettava. «Ti conosco appena... non posso riempirti la casa i bambini...»
«Fallo per me...» disse lui, quasi supplicandomi. Gemma e Ryan si guardarono in faccia.
«Possiamo, mamma?» chiesero in coro.
«E va bene... devo scappare a prendere il biglietto dell’aereo. Rimanete qui e fate i bagagli.» Mi alzai e presi la borsa, uscendo di casa. «Grazie, Eragon. Sono in debito con te.» mormorai chiudendomi la porta alle spalle.
*******************
Finalmente era il mio turno per acquistare il biglietto dell’aereo. Mi avvicinai al bancone ed estrassi la carta di credito. «Un biglietto per il Brasile per stanotte, per favore.» chiesi guardandomi intorno.
«Ok... sono 634$...»
«Senta... non ho tutti quei soldi... potrebbe fare uno sconto?»
«Vediamo... il suo nome?»
«Nasuada Ajihadsdaughter»
«Credo che lei si sbagli. Sono appena stati depositati sul suo conto 30 000$ da un utente anonimo....»
«Cosa?! Ci dev’essere un errore... Io non... Oh, no... Eragon...» dissi.
«Lo prende lo stesso il biglietto?»
«Sì... è urgente...»
**********************
Tornai a casa ed Eragon non c’era più. I miei bambini stavano cenando con dei panini improvvisati e le valigie erano ammucchiate sul tappeto.
Mi unii a loro in cucina, dopo essermi scaldata il panino lasciato nel microonde.

 

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Capitolo 7
*** Too Handsome, too Sad ***


Pov Nasuada
Finita la cena portai le valigie sulla strada e preparai la mia. Non appena ebbi finito iniziarono ad assillarmi per andare da Eragon, così fui costretta a portarli di corsa – anche perché eravamo in ritardo -. Bussai alla porta e sentii del frastuono provenire da dentro casa. Una donna, probabilmente la madre di Eragon, impartiva ordini di qua e di la. «Puoi aprire! Tuo padre è presentabile!» gridò ad un certo punto e sentii la serratura sbloccarsi. La porta si aprì ed il ragazzo moro mi sorrise. «Forza, entrate.» disse facendo un gesto del braccio verso il corridoio. «Grazie.» mormorai appoggiando le grosse valigie sulla costosissima moquette.

Pov Murtagh
Quando il campanello aveva suonato tutti i miei parenti erano andati nel panico. Una ragazza stava per portare i suoi figli in vacanza da noi. Non una vacanza normale, una vacanza speciale. I due bambini avrebbero alloggiato da noi sotto la tutela completa di Eragon e – purtroppo – del sottoscritto. Mia madre sosteneva che fosse la nuova ragazza del mio fratellino. Impossibile, mi dicevo io. Eragon non ha mai avuto una ragazza e mai ne avrà una, se continuerà a fare il fifone così...
Mio padre non era al settimo cielo. E come non biasimarlo? Eragon invita due bambini a casa propria e la madre di questi ultimi è una ragazza della sua età. Qualcosa nella loro relazione dev’essere andato nel verso sbagliato e il mio fratellino si è trovato tra capo e collo i marmocchi. Io pensavo che fosse soltanto una sfortuna. Insomma, perché io a badare a loro? Non ci poteva pensare lei che li ama tanto, i bambini? Ero stato spinto a forza nella mia camera con l’ordine di “mettermi qualcosa addosso e rendermi presentabile per la nuova ragazza di mio fratello” da mia madre e la stessa cosa era successa a mio padre, che mi lanciava sguardi con un misto tra il pazzo furioso e l’esasperato. Lui aveva finito prima di me ed era riuscito a scendere quando la porta bianca si era aperta alla famigliola. Io, invece, ero arrivato solo alle scale. Non so perché mi fermai. Anzi, lo so. La voce della ragazza era la sua voce. E questo voleva dire che Eragon e la mia – ma non più tanto mia - Nasuada... No... non poteva essere successo. Eragon non aveva mai avuto una ragazza. Punto. Ci doveva essere un errore. Scesi qualche gradino, tanto bastava per distinguere i volti dalla piccola finestrella in vetro-resina delle scale. No. Niente sbagli. Era lei. E i due bambini non erano neonati come avevo pensato, ma i due bambini dei Brownies. Oh, beh, ora capivo perché erano tanto simili a quelli che faceva la mia ex-fidanzata. Avrei dovuto capirlo prima. Loro nel negozio di Arya dove c’era anche lei e i Brownies con la stessa ricetta. Le lacrime cominciarono ad affiorare. Le ricacciai e mossi qualche passo sul gradino su cui mi trovavo, cercando la forza di scendere e guardarla in faccia. Scaricato da lei per mio fratello minore. Uno schifo, ecco come mi sentivo. «Fate i bravi e andate a dormire presto. Ubbidite ad Eragon e ai suoi genitori. E non fate le pesti, ok? Il mio numero l’avete. Se ci dovessero essere problemi chiamatemi. Tornerò da voi in un lampo!» si raccomandò accovacciandosi per guardarli negli occhi. Si alzò e abbracciò la mia famiglia. Prima di uscire mandò dei baci ai bambini. Senza accorgermene mi ritrovai al piano di sotto, con la morte negli occhi e i pugni serrati, pronto a colpire. Mamma se ne accorse e mi prese per un braccio, trasportandomi in cucina, seguita da nostro padre. Mi fecero sedere sul tavolo e mamma mi prese il viso tra le mani, asciugandomi le lacrime con il pollice. «Cosa c’è, piccolo mio?» mi chiese guardandomi con i suoi occhi nocciola colmi d’amore materno, misto alla preoccupazione. Scossi la testa. «Perché Eragon si diverte a farmi soffrire?» piagnucolai come facevo da bambino quando mi rubava i biscotti. Mamma non sapeva resistere al mio sguardo da cucciolo triste. Si sedette accanto a me e mi prese tra le sue braccia. «In che senso, cucciolotto?»
«Quella ragazza... Nasuada... è sempre stato il mio grande amore... e adesso lui me la sta portando via!»
«Ascoltami... tuo fratello mi ha spiegato che tra loro c’è solo una profonda amicizia...»
«Anche tra me e lei c’era amicizia all’inizio... poi è diventato amore...» sussurrai.
«Ascoltami...» disse lei andando a chiudere la porta della cucina.
«No, mamma, che non ti ascolto! Nasuada è stata la mia fidanzata praticamente da sempre! Lei è stata la prima... e sarà anche l’ultima che amerò!»
«Cosa? E non ce lo hai mai detto? E cosa aspettavi a dirci che non eri vergine?» s’intromise mio padre. Lo guardai con sguardo assassino. Scattai in piedi.
«Ma mi hai visto per caso?» chiesi indicando il mio corpo. «Come fa uno che si ritrova una bellezza tale ad essere ancora vergine? Ho ventisette anni, papà!»
«Calmati, Murtagh. Tra Eragon e lei non c’è niente. E ora vieni qui, sciocchino!» disse mamma sull’orlo delle lacrime. Mi accolse tra le sue braccia e io le strinsi tra le dita la camicetta azzurra che indossava. Ora piangevo veramente. Aspettò che mi calmassi per lavarmi il volto nel lavello. «Ora va’ a presentarti a loro. Da bravo, su.» mi esortò spingendomi in salotto dove stavano giocando a Super Mario Bros. alla Wii.

 

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Capitolo 8
*** Sospetti materni ***


Pov Selena
Non potevo ancora credere a quello che avevo pensato durante il confronto con il mio piccolo Murtagh. Era già cresciuto. Non avrei dovuto stupirmi, in realtà, ma io ero addirittura sconvolta. Pensavo di essere sempre stata una madre presente. Ma, nonostante ciò, il mio bambino non mi aveva reso partecipe delle sue “attività”. È sempre stato un bambino schivo, per colpa dell’educazione che aveva ricevuto da quel burbero di suo padre, ma pensavo di essere ormai un punto di riferimento. Mi aveva mentito negli ultimi anni ogni volta che glielo chiedevo. Un paio di volte avevo dubitato, ma il mio amore mi aveva detto di credergli ciecamente. Ero delusa e amareggiata da lui, ma non potevo fargliene una colpa. A causa del lavoro non ero stata molto presente nei primi tre anni della sua vita, rendendolo indifferente alle mie attenzioni i giorni festivi, preferendo la compagnia di quel suo strano animale di nome Castigo. Poi, quando ero stata costretta a stare a casa per una lunga malattia poco dopo la nascita del suo fratellino, ha pian piano riallacciato i rapporti con me. Varcai la soglia del soggiorno e trovai i bambini intenti a chiacchierare allegramente con lui. Eragon era seduto alla scrivania e rispondeva ad una serie infinita di email che non smettevano di arrivare, producendo un segnale che, a lungo andare, diventava logorante. Mi avvicinai allo scaffale alle spalle del mio figlio minore e accesi la stampante, ricevendo in premio un bacio sulla guancia. Poi andai a sedermi accanto alla bambina che stava parlando di una promessa.
«...E quando lo vorrai ne faremo quanti ne riuscirai a mangiare...» aggiunse sorridendo il gemello. «Grazie...» mormorò mio figlio. Cinsi le spalle dei bambini, tirandoli a me. Murtagh mi lanciò uno sguardo degno del figlio di Morzan. «Non sono bellissimi?! Li sposerei se non lo fossi già...» dissi sfoderando il mio sorriso più caldo.
«Potresti essere loro madre...» sentenziò Murtagh secco e leggermente irritato.
«Potrei essere loro nonna...» dissi scandendo bene la prima parola. Mi fulminò con i suoi occhi azzurro-ghiaccio e posò lo sguardo sul fratello minore. La sua bocca diventò una smorfia di dolore. «Potresti...» borbottò. Tornò a guardarmi, ora era triste e arrabbiato con me.
Possibile, Murtagh, che tu sia così lento a capire chi sono questi due?! , pensai sconsolata.
«Chi vuole un dolcetto prima di andare a dormire?» chiesi alzandomi in piedi.
«Io!» dissero Gemma, Ryan e Murtagh all’unisono. Sapevo che non riuscivano a resistere al ‘dolcetto della buonanotte’. Ebbi l’ennesima conferma delle mie ipotesi. Ma c’era ancora una persona che poteva confermarlo definitivamente. Nasuada.

 

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Capitolo 9
*** Ospedale ***


Pov Nasuada
Arya era in piedi davanti al gate d’entrata per l’aereo. Era appoggiata al muro e teneva le bracci a incrociate al petto. Lo sguardo era fisso sul cartello degli orari e alle orecchie pendevano i fili bianchi degli auricolari. Si era cambiata i vestiti. Aveva messo da parte i suoi abiti e le sue scarpe con tacco 12 per indossare un paio di pantaloni lucidi neri, una canotta bianca, una giacca corta beige e un paio di stivaletti dello stesso colore. Mi avvicinai a lei, trascinandomi dietro le valigie che tutte insieme pesavano più di me. Si tolse le cuffiette, lasciandole penzolanti dalla tasca dei pantaloni. «Sei in ritardo. Tra pochi minuti partirà l’aereo.» disse secca girandosi verso di me.
«M-Mi dispiace... ma le valigie per un mese non sono facili da preparare...»
«Forza, andiamo...» mormorò prendendomi la mano e tirandomi attraverso il gate. Lasciammo le valigie su un rullo e salimmo a bordo, sistemandoci nei nostri posti. «Credo di doverti ancora delle scuse...» dissi dopo diversi attimi di imbarazzante silenzio. Mi guardò sostenendo il mio sguardo. «Non dire sciocchezze! Non è colpa tua. Di sicuro avevi un buon motivo per non rispondere...»
«Non esattamente...»
«In che senso, scusa?»
«Ero arrabbiata con te per quello che avevi detto a Gemma e Ryan... per questo non ti ho risposto la prima volta...»
«Come stanno?»
«Indagano...»
«Sono da Katrina?»
«No... Sono con un mio amico che abita vicino a casa...»
«Oh... beh... ora puoi stare tranquilla, no?»
«Certamente. La madre di quel ragazzo è una donna così dolce e carina...»
«Allora sono anche al sicuro...»
«Già...»
“Si pregano i gentili passeggeri di allacciare le cinture di sicurezza. Tra pochi minuti avrà inizio la manovra di decollo. Rimanete seduti.” , ci avvertì la voce dell’hostess. Seguii subito gli ordini e così fece anche mia sorella. In pochi minuti l’aereo decollò e fummo in viaggio.
**********************
Mia sorella mi scosse delicatamente, svegliandomi. Era quasi mezzogiorno e stavamo sorvolando l’aeroporto della capitale brasiliana. L’aereo iniziò a perdere quota  e in pochi minuti fummo a terra.
Pov Arya
Prendemmo le valigie e chiamammo un taxi che ci portasse a casa. Dieci minuti dopo avevamo appoggiato le valigie sulla soglia ed eravamo tornati in macchina per andare direttamente all’ospedale. Scendemmo davanti a grosse porte di vetro e chiedemmo alla segretaria dove fosse nostro padre. Ci indicò il terzo piano con le dita sullo schermo del computer e corremmo a perdifiato su per le scale, fino alla camera 35. Fuori non c’era nessuno, a parte qualche infermiera che spingeva pigramente carrelli pieni di medicinali. Aprii piano la porta e lo trovai lì, disteso sul letto che guardava fuori dalla finestra con aria triste. Mi avvicinai al letto e così fece anche Nasuada, che però si tenne qualche metro di distanza da me.
«Papà...» mormorai. Lui si voltò verso di me, facendo finta di non vedere mia sorella.
«Ciao Arya...» rispose. Mi voltai verso mia sorella e le feci un cenno di avvicinarsi. Strascicò i piedi fino alle lenzuola candide e prese la mano di nostro padre, che la ritrasse subito, come se quella della figlia scottasse. «Papà, io...» iniziò lei.
«Non chiamarmi così! Non sono più tuo padre!» gridò, poi si rivolse a me «Non mi avevi detto che avresti portato quella lì...»
Gli occhi di Nasuada s’imperlarono di lacrime.
«È la tua unica figlia, papà. Dovevo.» dissi stringendogli la mano, quasi a bloccargli la circolazione. Lui scosse la testa.
«Mia figlia è morta nove anni fa.»
«Non è vero. Lei è qui e...»
«No, Arya! Lascialo dire! Tanto io me ne stavo andando!» gridò lei uscendo e sbattendo la porta. Sospirai. «Perché non vuoi accettare quello che le è successo?» chiesi in un sussurro.
«Era la mia bambina. E quella bambina ha tradito la mia fiducia.»
«Non è stata colpa sua... non del tutto, almeno.»
«Non cercare di scusarla. Io sapevo che avrebbe fatto la fine della madre. L’ho educata perché non succedesse, ma lei se n’è infischiata ed è andata a letto con quel maiale
«Lui non fa più parte della sua vita. Da quando siamo emigrati qui.»
«Tanto meglio per lei.»
«No... i suoi figli avrebbero bisogno di un padre... lei non può fare per due...»
«Lo ha fatto per tutti questi anni, no?»
«Sì, ma... ora quei due hanno iniziato ad indagare sul suo passato, rendendola emotivamente instabile...»
«Non m’interessa...»
«Potresti almeno cercare di essere cortese...»
«Lo farò per te...»
«Grazie.»
 

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Capitolo 10
*** Padre! Padre? ***


Pov Murtagh
Mamma ci portò in cucina, servendoci una zolletta di zucchero intinta nel miele, come faceva quando ero triste da piccolo. Poi spinse tutta la famiglia a dormire. Ci ritrovammo nel corridoio delle scale, io e mio padre in pigiama, mentre mamma indossava una camicetta da notte troppo osé. Eravamo entrati nelle nostre stanze senza ricordarci dei figli di Nasuada. Così eravamo stati costretti ad uscire quando ce ne eravamo resi conto. «Selena, non abbiamo ancora deciso dove dormiranno i bambini.»iniziò mio padre interrompendo l’imbarazzante silenzio.
«Beh, la camera da letto di Eragon è la più grande, perciò...»iniziò lei. La fulminai con lo sguardo. Davvero aveva il coraggio di infierire in quel modo? «Non è sicuro far dormire dei bambini nella camera-porcile di mio fratello.»dissi acido, incrociando le braccia al petto. Mia madre mi guardò male.
«Murtagh! Non è carino! È pur sempre tuo fratello!»mi strigliò Morzan.
«E poi la mia stanza non è così scandalosa come può sembrare!» si lamentò Eragon.
«Non fate così. Però Murtagh ha ragione. Eragon, domani metterai un po’ in ordine là dentro. Per stanotte Gemma e Ryan dormiranno con Murtagh. Vi va bene?» chiese mia madre rivolgendosi prima a mio fratello, poi ai bambini. Annuii abbastanza soddisfatto e invitai loro nella mia stanza, dove tutto era in ordine.
«Uno di voi due dovrà dormire con me sul divano.» dissi indicando con un cenno del capo il piccolo sofà addossato alla parete dove occupava la nicchia della libreria. Si guardarono negli occhi, in un dialogo che solo tra gemelli può avvenire così silenziosamente. «Abbiamo deciso che dormirà Gemma con te.» disse il fratello incrociando le mani dietro la testa. «Non è esattamente quello che si chiama galanteria, ma per me va bene.» sentenziai alzando le spalle. La bambina sorrise e mi strinse le braccia sottili alla vita. Si misero il pigiama e si lavarono i denti nel bagno di fronte alla mia stanza. Intanto io coprii il divano di coperte e ne piegai una ai piedi. Augurai la buonanotte a tutti e due e mi sdraiai. Gemma si raggomitolò al mio fianco nella parte interna del sofà, appoggiando la testa sul mio petto. Arrossii pesantemente e chiusi gli occhi.
***********************************
Quando mi svegliai la mattina alla porta era appesa una busta di plastica trasparente con dentro una fotografia. Gemma non era più accanto a me, ma era addormentata vicino al fratello. Mi trascinai fino a poter prendere la busta e guardai la foto. Eravamo io e Gemma, io che abbracciavo lei e la bambina che mi cingeva il collo con le braccia. “Non siete carini insieme?” La scrittura di mia madre sul retro della carta fotografica mi fece arrossire. Aprii la porta e scesi silenziosamente in cucina, dove mia madre stava preparando la colazione. Le baciai la guancia e mi sedetti al tavolo. «Cosa vorrebbe dire quella scritta dietro a quella foto, mamma?» chiesi con tono accusatorio.
«Niente... è solo che... ecco... non ho resistito...» disse sorridendomi sinceramente. C’era qualcosa di strano in lei ultimamente. Alzai un sopracciglio, guardandola dubbioso.
«Fame, cucciolotto?» mi chiese tornando ai fornelli.
«Un po’...» confessai sovrastando il fastidioso rumore della mia pancia che brontolava.
«Lo credo! Mangi pochissimo a cena. Come farai a mettere su qualche chilo se non metti qualcosa sotto i denti?» disse baciandomi la tempia. La scansai con un mano.
«Smetti di baciarmi! Non sono un bambino!» protestai mettendo il broncio. Lei scoppiò in una risata cristallina e mi arruffò i capelli già spettinati dal cuscino.
«Vai a svegliare Gemma e Ryan. Avranno fame anche loro...»
Mi alzai e salii le scale quasi trascinandomi. Aprii la porta e scossi piano la bambina. Questa si voltò verso di me, senza aprire gli occhi. «Gemma... sono Murtagh... alzati... mia madre ha preparato la colazione...» sussurrai. «Mamma?» chiese socchiudendo gli occhi, ancora nel mondo dei sogni, probabilmente.
«No... Murtagh... Gemma? Mi senti?» chiesi vedendola richiudere gli occhi azzurro-ghiaccio. Scosse la testa e si voltò dall’altra parte, dandomi le spalle. «Tornate domani. Non sono in casa...» borbottò.
«No, Gemma... devi svegliarti...» dissi ancora. Si alzò a sedere a fatica e scese dal letto, cingendomi il collo con le braccia, per sorreggersi. «Dov’è tuo fratello?» chiesi non vedendolo sul letto.
«Suppongo che sia in bagno...» disse ancora assonnata. Si sfregò gli occhi, barcollando fino al corridoio. Bussò alla porta del bagno e Ryan gridò: «Lasciami in pace, Gemma!»
«Ryan! Sono Murtagh! Siamo al piano di sotto a fare colazione! Quando sei pronto scendi!» gridai a mia volta, prendendo la bambina per mano e guidandola in cucina. Le lasciai la mano e mi andai a sedere, ma lei rimase ferma sulla porta. Mamma se ne accorse e le andò vicino. Le augurò buon giorno e le baciò la fronte.
«Avrai fame...» disse portandola al tavolo.
«In realtà per niente...» sospirò. Mamma le cinse le spalle con le braccia, stringendola in un morbido e rincuorante abbraccio. «So che ti manca la tua mamma...» disse sfregandole la schiena con le mani.
«Sì...» mormorò lei. In quel momento arrivò anche Ryan.
«Devi mangiare qualcosa. Ti vanno dei pancake?» chiese sorridendo. Lei annuì e si sedette accanto a me. Mamma servì la colazione, sedendosi a guardarci sognante. Erano anni che voleva avere un altro bambino, ma noi uomini di famiglia le avevamo detto esplicitamente che non era una grande idea. La nostra non era stata una grande idea. Ci aveva messo il muso per mesi, vivendo in casa come se ci fosse solo lei. Anche ora, dopo diversi anni, riservava un po’ di rancore nei confronti di nostro padre. Ma adesso ne aveva due, serviti su un piatto d’argento. «Dato che vostra madre ha deciso di tenervi a casa da scuola, cosa pensate di fare oggi?» chiesi indicandoli con la forchetta. Ryan mandò giù il boccone tutto intero, battendosi sullo sterno per facilitare il passaggio del cibo. «Potrebbero venire con me allo studio fotografico...» propose mia madre. «Mamma... non è un posto dove portare dei bambini...» ribattei pensando alla stanza di fotografia di intimo. Mia madre annuì. «Ok. Hai vinto tu. Allora cosa proponi, Mr. So-tutto-io?»
«Oggi è il mio turno di lavoro da casa... potrebbero stare con me...»
«Ok... ma domani verranno con me...»
«Va bene, mamma.»
Selena si alzò dal tavolo raccolse i piatti vuoti, posandoli nel lavello. «Pulisci tu, amore mio. Io devo scappare. Ci vediamo stasera. Il pranzo è nel forno.»
La baciai e lei uscì di casa correndo. «Avete dei compiti da fare?» chiesi mentre riempivo il lavello d’acqua calda. «Sì... alcuni...» si guardarono in faccia.
«Avete bisogno di aiuto?»
«No, grazie. ce la caviamo discretamente in storia...»
«Siete solo alle elementari... certo che ve la cavate!»
«Sì, certo...» nella voce della bambina c’era un tono ironico. In pochi minuti pulii i piatti e trovai i bambini vestiti e tirati a lucido. «Quando vi siete allontanati dalla cucina?» chiesi.
«Mentre tu lavavi i piatti.»
«Devo ammettere che siete silenziosi... I vostri zaini sono nel ripostiglio sotto alla scala...»
I due si avvicinarono alla porticina, armeggiando con il chiavistello. «Lascia fare a me, donna.» disse il bambino, scostando la sorella. «Potresti anche usare le buone maniere, uomo.»
Mi misi a ridere, vedendoli litigare scherzosamente. Dieci minuti dopo nessuno dei due era riuscito ad aprire la porticina. Mi avvicinai, e la aprii con uno scatto secco. Presero gli zaini e si diressero nello studio, riempiendo il tavolo di libri e quaderni. Io mi sedetti sul divano compilare pratiche per l’ufficio. Finite quelle avevo una pila di fogli da firmare. I bambini, che avevano finito di fare i compiti si sedettero accanto a me, ammirando il mio lavoro stupiti. «Li devi firmare tutti tu?» chiese Gemma dopo un po’.
«Io firmo qui e mio padre firma da questa parte. Lui è il “boss”»
«Anche tu sei una persona importante?» chiese Ryan.
«Io sono il terzo più importante. Primo viene il proprietario della fabbrica, Galbatorix, poi viene mio padre e infine io.»
«E tuo fratello?»
«Lui si è voluto tener fuori. Fa l’impiegato. E vostra madre? Lavora o studia?»
«Quando ha scoperto di aspettare noi ha lasciato la scuola. Quando avevamo circa due anni si è cercata un lavoro. Adesso lei studia all’università e lavora in un bar.»
«Quanti anni avete?»
«Otto,quasi nove. E tu?»
«Ventisette, quasi ventotto. E vostro padre che fine ha fatto?»
Gemma si strinse nella spalle. «Non sappiamo molto di lui. Soltanto che era a scuola con la mamma nel 2003 e aveva qualche anno in più. Oh! Il suo nome inizia con M...»
In quel momento quasi svenni. Tutto coincideva. Quell’uomo ero io.

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Capitolo 11
*** Shocked ***


Pov Gemma
Murtagh si alzò di scatto, ansimante e con la paura dipinta sul volto. Mi alzai piano dal divano, dove ero seduta tranquillamente fino a trenta secondi prima, e mossi qualche passo verso di lui. Scosse la testa e uscì dalla stanza a passo svelto. Lo seguii correndo e lo vidi salire le scale a tre gradini alla volta e sentii una porta chiudersi un po’ troppo bruscamente e una chiave rigirarsi nella serratura. Ryan mi raggiunse e gi guardammo in modo interrogativo. «Credi che stia male?» gli chiesi sommessamente. Lui scosse la testa. «Chiamiamo Selena. Lei saprà cosa fare.»
Su un piccolo tavolo accanto al telefono trovammo un’agenda telefonica. Proprio quello di cui avevamo bisogno. Aprimmo la prima pagina e scorsi il dito sulle lettere impilate, fino alla S. Aprii la pagina corrispondente e iniziai a leggere i nomi. Voltai diverse pagine per assicurarmi che il numero ci fosse, ma questo era sconosciuto a quella carta. «Non c’è... e ora che facciamo?» chiesi a mio fratello. Scosse la testa e mi disse di riguardare. Fu quello che feci. Una, due, tre, quattro volte. Ma niente. Non c’era. Chiusi il libricino e mi soffermai a guardare distrattamente la copertina. Un cuore di vetro faceva da contenitore per una vecchia foto, probabilmente Selena, Murtagh ed Eragon. L’accarezzai con due dita, ripassando il contorno della cornice, quando mi venne l’illuminazione. Aprii e guardai nel retro della copertina. Tolsi i gancini che tenevano fermi cartone e vetro e osservai il retro della foto. Scritto da un bambino vi era la parola MAMMA seguita da un numero di telefono. Perfetto! Presi il telefono cordless e digitai il numero, sperando che fosse quello giusto. Suonò a vuoto le prime due volte, poi prese la linea una voce femminile. «Murtagh? Va tutto bene? È successo qualcosa ai bambini?» chiese un po’ preoccupata.
«Selena, sono io, Ryan. Murtagh sembra... beh... è... come... come se fosse sotto shock. Si è chiuso nella sua stanza e non vuole uscire...» rispose Ryan prendendomi il telefono dalle mani più veloce della luce.
«Ha mangiato dei pistacchi? Lo sa che è allergico...» chiese lei sbuffando.
«No... Ti posso assicurare che non è così... stavamo solo parlando... Cosa possiamo fare?»
«Io non posso uscire di qui... Vi manderò Eragon urgentemente...»
«Ok, grazie.»
«Ci vediamo a cena, stelline. Ricordatevi di chiamare vostra madre... sarà in pensiero...»
«Lo faremo... dobbiamo dirle dell’incidente di Murtagh?»
La voce di Selena si fece agitata e schiva. «Ehm... sarebbe... sarebbe meglio di no... per il momento ditele che state bene... ci penserò io al resto...»
«Va bene... Ciao...» Ryan posò il telefono sul tavolino e mi guardò protettivo.
*************************
Pov Murtagh
Avevo passato tutto il pomeriggio nella mia stanza a guardare il vuoto. Le mie guance tiravano a ogni mio minimo movimento, segno che avevo pianto anche un bel po’. Mi passai una mano tra i capelli e trovai diversi nodi. La camicia era stracciata e sul pavimento e diverse perline erano sparse sulla moquette. Cercai la collana che portavo sempre attorno al mio collo ma non la trovai. L’avevo rotta. Uno dei pochi ricordi di Nasuada era andato perso. Mi presi la testa tra le mani per cercare di fermare il mal di testa che mi provocava fitte alle tempie e osservai l’orologio. Erano le nove di sera. Il mio stomaco iniziò a chiedere cibo e mi sforzai di raggiungere l’armadio. Indossai una t-shirt attillata e scesi le scale a due gradini alla volta e mi trovai in cucina, impietrito davanti a Gemma e Ryan. Sangue del mio sangue. Eppure, nonostante ciò, il mio cuore aveva rallentato e il mio respiro era cessato improvvisamente. Mossi qualche passo verso il mio posto con gli sguardi di tutti addosso. Mamma mi sorrise per incoraggiarmi, mentre mio fratello e mio padre non mi degnarono nemmeno di un saluto o un cenno del capo. Mi sedetti e iniziai a mangiare, guardando di sottecchi i due bambini. «Papà, mi passeresti il sale?» chiese Eragon indicando con il cucchiaio il contenitore bianco. Sussultai nel sentire quella parola... Papà...
«Uh... Papà... anche l’olio, per favore...» Sussultai ancora. Presi il bordo del tavolo con le mani e lo strinsi più che potei, cercando di non svenire.
Mamma mi guardò preoccupata e io scossi la testa, ma il mio movimento non sembrò particolarmente deciso. «Alza il volume, papà...»
«Oh, andiamo, Eragon! È già abbastanza alto...»
«Papà... per favore, papà!» supplicò Eragon. Scattai in piedi e mi rifugiai nello studio, scivolando per terra con la testa tra le mani.

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Capitolo 12
*** una madre conosce i propri figli nel profondo, non scordarlo mai ***


Pov Selena
Non aveva neanche fatto in tempo ad entrare che era già sparito.
«Donna, va’ a vedere tuo figlio...»
«Morzan... lo sai che non mi piace quando mi chiami in quel modo... sono tua moglie...» risposi a mio marito con aria seccata, ricevendo in risposta uno sguardo in cagnesco.
Mi alzai da tavola, seguendo il mio cucciolo nello studio dove lo trovai accasciato a terra con l’aria sconvolta. Mi sedetti accanto a lui, prendendogli la testa e portandomela al petto. Si lasciò cullare per qualche minuto, poi alzò lo sguardo fissandomi con quei suoi occhi penetranti che aveva preso dal padre.
«Mamma... io... io t-ti devo dire una cosa...» mormorò sbiancando.
«Shht... tranquillo... si sistemerà tutto...» risposi accarezzandogli i capelli corvini come ero solita a fare quando piangeva da piccolo.
Anche ora, a quasi trent’anni, riusciva a calmarsi solo accoccolandosi tra le mie braccia. Rimanemmo abbracciati per diversi minuti finchè non si alzò in tutta la sua statura. Mi tese una mano, tirandomi in piedi.
«Mamma...» mi chiamò debolmente. Scossi la testa, spingendolo in cucina di peso. A metà corridoio si aggrappò con le braccia al muro, bloccando il passaggio e non muovendosi. «Murtagh...» mi lamentai cercando di spingerlo, ma lui era una statua.
«Loro...», iniziò scuotendo la testa, «sono... mi dispiace...»
Sorrisi, con sua sorpresa, e gli baciai la tempia.
«Lo so...» gli dissi cercando di essere incoraggiante il più possibile. Lui mi guardò quasi impaurito per poi abbassare lo sguardo come faceva quando suo padre lo sgridava da piccolo. «Amore... lo so... lo so e non m’importa. Non sono delusa. Voglio che tu sia felice, tutto qui.» dissi, stavolta riuscendo nel mio intento. Sorrise rilassato e annuì. «Sei la migliore, mamma.»
Vederlo in quel modo mi strappava sempre un sorriso. Non era mai stato un ragazzo dal carattere facile, fin da piccolissimo. Lo spinsi nuovamente e lui entrò in cucina salutando la famiglia. Ero riuscita a togliergli un peso dalla coscienza, ed ero fiera di me. Ma soprattutto di lui.

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Capitolo 13
*** Only know you love her when you let her go ***


Pov Nasuada
Le condizioni di mio padre erano peggiorate improvvisamente durante la notte ed i medici erano stati costretti a operarlo con estrema urgenza. Ci avevano detto quando un medico era uscito dalla sala operatoria per aggiornarci sullo svolgimento dell’operazione che non erano sicuri che sarebbe sopravvissuto. Eravamo scoppiate a piangere entrambe, guardando le ore passare lentamente sull’orologio del reparto. Ma poi il medico era venuto da noi per darci la grande notizia: ce l’aveva fatta. Ci mettemmo a piangere, stavolta di gioia. Nostro padre era un guerriero, aveva sempre vinto le sue battaglie e le nostre, non si sarebbe mai arreso così facilmente. Ci affrettammo verso la sua stanza, aspettando che lo portassero da noi.

Pov Ajihad
Non capivo cosa era successo. Non riuscivo a ricordare nulla, se non di essermi svegliato nella notte con un terribile dolore al petto. Forse qualcuno dall’alto mi voleva punire per i miei gesti. Ma finalmente il dolore era passato e la mia vista cominciava a tornare. Mi sentivo come un neonato: cieco, fragile e impotente. Quanto odiavo quella sensazione! Un bagliore bianco e alcune figure sfuocate incombevano su di me ogni volta che aprivo le palpebre. Sentivo lacrime di commozione, parole piene di orgoglio su di me, e la risata sollevata e stanca della mia dolce Arya. Ad ogni battito le immagini erano sempre più nitide, finchè non riconobbi il viso della mia bambina. Chinati su di me c’erano diversi medici e lei. Oh, Arya, se solo sapessi quanto ti sono grato di essere qui accanto a me in questo momento... i medici dissero qualcosa e li vidi uscire dalla stanza e il mio sguardo incontrarono gli occhi castani di Nasuada. Gli occhi che aveva preso dalla madre, la mia amatissima Nadara, morta quando la piccola aveva solo sei anni, così belli e dolci. Si alzò in fretta, quasi inciampando, e corse verso di me, scoppiando a piangere prendendo la mia mano.


Well you only need the light when its burning low
Only miss the sun when it starts to snow
Only know you love her when you let her go
Only know you’ve been high when you’re feeling low
Only hate the road when you’re missing home
Only know you love her when you let her go


Non avevo fatto in tempo a ritrarmi. Non avevo avuto il tempo di rendermi conto di cosa stesse accadendo. Vedevo solo lei sinceramente dispiaciuta e in lacrime correre verso di me. Volevo vedere solo lei. Mi rendevo conto solo ora che non si può cancellare l’amore che si prova verso un figlio. Io la amavo, lei era la mia piccolina e nessuno avrebbe mai potuto separarci, non la lontananza, non la malattia, non il dolore, non il rancore. Lei era la mia famiglia, lei era tutto quello che avevo.

Staring at the bottom of your glass
Hoping one day you’ll make a dream last
But dreams come slow and they go so fast
You see her when you close your eyes
Maybe one day you’ll understand why
Everything you touch surely dies
 
Volevo lei, riallacciare i rapporti, chiederle scusa. Volevo vederla quando chiudevo gli occhi per andare a dormire, volevo conoscere i miei nipoti, chiedere loro scusa per tutti questi anni di “no” ed essere per loro un buon nonno. Volevo solo questo: guarire e tornare a vivere una vita completa insieme a loro, con Arya, con Nasuada.
 

Staring at the ceiling in the dark
Same old empty feeling in your heart
Cos love comes slow and it goes so fast
Well you see her when you fall asleep
But never to touch and never to keep
Cos you loved her too much and you dived too deep
 
Well you only need the light when its burning low
Only miss the sun when it starts to snow
Only know you love her when you let her go
Only know you’ve been high when you’re feeling low
Only hate the road when you’re missing home
Only know you love her when you let her go


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*la canzone utilizzata per questo capitolo è Let her go dei Passenger
 

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