Il distruttore di Gaya

di whitemushroom
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I ***
Capitolo 2: *** Capitolo II ***
Capitolo 3: *** Capitolo III ***
Capitolo 4: *** Capitolo IV ***



Capitolo 1
*** Capitolo I ***



Il distruttore di Gaya -capitolo 1-


Uno. Due. Tre.

Uno. Due. Tre


I passi dei burmesiani erano perfettamente cadenzati anche quando correvano.

Uno. Due. Tre

Uno. Due. Tre


“Comandante Fratley, l’ho visto andare in quella direzione!” disse la voce oltre la porta, apparentemente femminile. “Credo si stia dirigendo verso la superficie, sta tentando la fuga!”
“Molto bene! Bloccate tutte le uscite. Noi andremo alla Sala della Campana, attendo un vostro rapporto!” rispose il burmesiano al di là del portone metallico.
Squittì qualche altro ordine e si allontanò con le sue guardie. I loro passi si diressero verso i piani alti, divennero sempre più flebili e poi svanirono, lasciando solo l’oscurità e il rivoltante odore di muffa che permeava quelle caverne. Solo quando fu certo che gli unici rumori fossero il battito del suo cuore e l’acqua che cadeva dalle vasche di nutrizione, Kuja riprese a respirare. Si staccò dalla parete e si mosse nella stanza nell’oscurità più totale, scivolando tra una vasca e l’altra senza emettere nemmeno un fruscio. Poi, indispettito, creò tre globi di luce che lasciarono il palmo della sua mano ed attraversarono la stanza.
Detestava le tenebre.
I suoi occhi in realtà potevano vedere al buio anche meglio di un burmesiano, ma si sarebbe sfregiato il viso con una daga rovente pur di ammettere che le modifiche di Garland sul suo corpo avevano una qualche utilità. E poi odiava quell’oscurità così tangibile e densa.
Gli ricordava la sua cella.
Le luci flebili illuminarono solo alcuni punti dell’immensa stanza scavata nella roccia, rivelando scaffali, tomi e alambicchi. E i teschi.
I crani di almeno cinquanta draghi erano disposti lungo le pareti. Ve ne erano di grandi quanto il suo pugno ed altri così enormi che avrebbero potuto inghiottirlo in un sol boccone; su alcuni di essi erano stati dipinti di rosso e verde dei simboli che non conosceva, probabilmente in memoria delle vittorie dei burmesiani su quei grandi predatori dell’aria, sui signori di tutte le creature di Gaya. Si lasciò sfuggire un sorriso amaro.
“Il mio teschio non finirà su quella parete …” disse tra le labbra, anche solo per spezzare la coltre di silenzio.
Distolse lo sguardo da quei trofei e seguì la magia che impregnava quel luogo e tutti i livelli che conducevano in profondità, si lasciò trasportare da quella sensazione come un predatore a caccia della sua vittima fino al fondo della stanza, dove le luci illuminarono il motivo che lo aveva spinto fin nelle profondità delle grotte di Gizamaluke.
Garland non lo lasciava mai scendere su Gaya senza una missione da portare a termine. Lui dava un ordine, e Kuja eseguiva. Fine della questione.
Aveva fatto di tutto in quegli ultimi anni: aveva riaperto la via per la città segreta di Oeilvert, si era fatto notare dalla nobiltà di Alexandria, gli aveva portato il cuore di innumerevoli creature mostruose e si era perfino intrufolato nella biblioteca dell’isola perduta di Daguerreo sottraendo agli anziani custodi le loro preziose conoscenze. Tutto senza porre domande: le uniche volte che aveva chiesto spiegazioni, l’osservatore stellare si era degnato di rispondergli con due sfere infuocate nella schiena. Ma quelle missioni erano l’unica opportunità per uscire da Pandemonium, quindi aveva imparato a tacere ed a godersi il sole, il vento ed il cielo di Gaya ad ogni visita.
Ma quella missione era diversa. Non era lì per portare qualcosa a Garland.
Il suo volto si specchiò nel guscio argenteo delle uova. Girò con cura intorno alla vasca, estendendo tutti i sensi alla ricerca di allarmi o trappole. Sfiorò la superficie liscia come uno specchio, percependo sotto le dita il battere forsennato dei cuori dei draghi. Richiamò a sé le luci e osservò rapito l’incredibile gioco di riflessi che illuminava quel luogo, l’angolo più protetto di tutta la caverna; una luce che faceva sembrare il cristallo azzurro di Branbal niente più che una lampadina per stupidi Jenoma ipnotizzati. Ed era tutta sua.
C’erano poche cose più potenti del sangue di drago, su quello i libri erano concordi. Chi se ne nutriva poteva ottenere il potere degli invincibili dominatori dei cieli, o almeno era questo che affermavano tutti gli autori. Cosa molto idiota, aveva sempre sostenuto Kuja, visto che nessun essere vivente si era mai avvicinato a meno di trenta passi da un drago senza essere incenerito. Fandonie nate dalla fantasia di scrittori annoiati. L’osservatore stellare gli aveva comandato di scendere in quelle grotte ammuffite e divorare le uova custodite gelosamente dai burmesiani, ma non aveva mai creduto nemmeno per un secondo che potessero dargli il potere necessario per essere l’angelo della morte che Garland voleva.
Fino a quel momento.
Le uova argentate traboccavano di vita. Ne prese una, appoggiandola sul palmo della mano. Sotto quel fragile guscio c’era un cuore che pulsava, immerso nel sangue magico. Lo scrutò meglio, cercando di immaginarsi la forma arcuata del drago, la coda ancora abbozzata e le sottili ali strette intorno al corpo ancora privo di scaglie, debole ed indifeso come tutte le forme di vita non ancora formate, proprio come i Jenoma appena usciti dalle loro capsule.
“Patetico …” sussurrò. Poi strinse le dita.
Le sue unghie azzurre distrussero il sottile guscio d’argento ed il sangue colò tra le dita. Non fece in tempo ad apprezzarne il potere che si sentì pervadere da un’ondata selvaggia. Prima anche solo di poter riflettere si trovò con la bocca immersa nel sangue, i denti stretti intorno alla testa del cucciolo; li affondò nella carne e strappò le vertebre dal resto del corpo con una violenza inaudita.

…….... sangue …

Strappò le piccole ali e aprì in due quello che rimaneva del drago. Si gettò sulle viscere in preda ad una convulsione profonda, sentendo il sangue, il calore, la magia, tutto il potere scendergli lungo la gola. Era … inebriante.

…… cosa …?

Il corpo sembrava pervaso dalle fiamme. Divorò anche la pelle, sentendo il cuore battere al ritmo forsennato della creatura che aveva appena sbranato, un rimbombo sordo dentro le orecchie mentre si gettava persino sui resti del guscio, leccando avidamente il caldo liquido rosso che era schizzato sulle sue dita, sul pavimento e contro la parete. Saltò sul bordo della vasca di nutrizione, e quando vide le altre sei uova rilucere sotto i suoi occhi non trattenne un verso di selvaggio piacere che gli nacque dal fondo della gola.
Fu in quel momento che vide il mostro.
Aveva un sorriso feroce dipinto sul volto, ed i denti appuntiti facevano comparsa tra le labbra grigie dischiuse; gli occhi erano color della brace accesa, vividi, puntati proprio contro i suoi. Tutto quello che aveva di vagamente umano erano la testa, le braccia e le gambe, ma la sua lunga coda rossa sferzava l’aria come un serpente furioso, il corpo pronto a balzare. La pelle era candida, resa ancora più spettrale dalla chioma di capelli rossi che scendeva scompigliata fino alle spalle, maestosa come una criniera in cui qualche scienziato pazzo doveva aver intrecciato delle piume color fuoco per il solo scopo di vederne il divertente effetto finale. La bestia doveva aver appena finito di mangiare, perché da sotto le zanne sbucavano i resti di qualche malcapitata creatura e del sangue lo ricopriva dalla testa ai piedi.
Kuja respirò a fondo, cercando riparo e forza nel potere che aveva appena assorbito; si avvolse in un incantesimo di protezione, ma quando si mise in posizione di attacco l’altro fece lo stesso, osservandolo con le sue iridi infuocate. In quegli occhi c’era dipinta una smania primordiale che lo inquietava nel profondo, perché delle tante creature che aveva ucciso nessuna avevo uno sguardo simile, che sembrava provenire dal centro di Gaya. Nonostante il sangue di drago gli stesse pulsando di energia fin dentro lo stomaco, le iridi bestiali del nemico lo investirono con un senso di disgusto, odio e paura.
Perché quegli occhi erano i suoi, e lo fissavano riflessi nei fragili gusci argentati.
Cercò di mettere un freno al terrore che lo attraversava. Si spostò sul bordo della vasca, ma l’immagine animalesca lo seguì, guizzando da un uovo all’altro e provocandolo con la coda rossa bene in vista.
“Vattene …” biascicò, improvvisamente disgustato dal sapore di sangue in bocca. Non posso essere io!
Sentì il nuovo potere entrare in risonanza con la magia delle altre uova, ogni fibra del suo corpo tesa verso i draghi. Lo chiamavano, alimentavano la sua fame, eccitandolo a tal punto da riscaldargli il cuore. Tutto quello di cui aveva bisogno per diventare un vero angelo della morte era in quella vasca, dai capelli alla punta della coda non desiderava altro che buttarsi a capofitto sulle uova ed ingozzarsi di quei piccoli e patetici cuccioli per poi assorbirne il potere fino all’ultima goccia di sangue. Si protese verso il secondo uovo, e le labbra grigie riflesse nel guscio rivelarono un sorriso stralunato e orribile, con i denti macchiati di rosso bene in evidenza che si facevano sempre più grandi man mano che si portava vicino alla vittima. “VATTENE!”
Reagì nell’unico modo che conosceva. Chiuse la bocca e serrò i denti nel proprio polso, fino all’osso.
Il dolore lo scosse oltre ogni limite. Approfondì la stretta, e l’uovo cadde senza rompersi nella vasca. Il desiderio del potere e della magia lo scuoteva nelle viscere, ma più quello si faceva intenso e più rispondeva aumentando la presa. Garland aveva maledettamente ragione. Il dolore funzionava.
Sempre.
Quando raggiunse l’apice si sentì svuotare di qualsiasi cosa, e cadde riverso sul pavimento della caverna. La sete di potere era ancora forte, ma il dolore riusciva a tenerla a bada. Si lanciò un incantesimo guaritivo sul polso destro e rimase lì, ipnotizzato, fissando le sue mani di nuovo lunghe e candide, le unghie azzurre tra cui si dipanavano i fili della magia. Anche i capelli che gli spiovevano davanti alla fronte erano tornati color argento, ma il suo corpo sembrava agitato da un fuoco interiore. Si guardò intorno, fissando i resti del drago appena sbranato. Era stato davvero lui a fare una cosa simile?
Era quello il viso dell’angelo della morte?
“Bastardo …” mormorò, senza forzarsi di fermare le lacrime. In quella caverna nessuno avrebbe visto la sua debolezza.

Sei stato pensato per distruggere, Kuja. È normale che provi piacere nel farlo.

Gli tornarono in mente alcune parole che Garland gli aveva rivolto diverso tempo prima, quando gli chiedeva di descrivergli in dettaglio le emozioni che provava nell’uccidere le sue prime vittime.
Ma solo adesso ne capiva davvero il senso. “Maledetto …” sibilò, guardando un punto imprecisato del soffitto con gli occhi umidi. “COSA VUOI DAVVERO DA ME, GARLAND?”
Spense le luci e si acquattò al buio, tenendo la testa tra le mani. La magia delle uova di drago continuava a reclamarlo, però si strinse le ginocchia al petto e rimase immobile; la coda si agitava per l’eccitazione, ma la forzò con tutto l’odio e l’autocontrollo che gli rimanevano e la costrinse a tornare sotto i vestiti, avvolgendola con violenza intorno alla gamba sinistra. Rimase in quella posizione finché le lacrime non si asciugarono.
È questo che volevi?
Volevi solo una bestia addomesticata, non è così?
Ma allora perché … perché la mia anima sta così male?

Se era vero che era stato creato per distruggere, perché la vista di se stesso in quello stato lo aveva spaventato? No, disgustato era la parola giusta.
Cercò rifugio nella razionalità, ma i pensieri gli sembravano un cesto di fili di lana le cui estremità si perdevano in un gigantesco groviglio. La mente aveva a stento le forze per combattere l’impulso distruttivo del suo corpo.
Si trascinò verso la porta della stanza e ne uscì, serrandola alle spalle e ritrovandosi nel corridoio umido che conduceva verso la superficie. Appoggiò la mano destra sul cuore, ascoltando il suo battito forsennato: la bestia dentro di lui smaniava per uscire, ma si morse il labbro e la tenne a freno. L’osservatore stellare gli aveva ordinato di divorare quelle uova per spingerlo a trasformarsi, ma non sarebbe tornato in quella stanza per tutte le ricchezze di Alexandria. Sapeva benissimo che al ritorno a Pandemonium la punizione sarebbe stata più dolorosa di qualunque altra, forse Garland gli avrebbe davvero portato via l’anima come minacciava da tempo … ma non poteva eseguire quella missione. Se davvero non poteva liberarsi dal controllo di Garland almeno non si sarebbe fatto mettere il collare.
“In nome del Re, ti dichiaro in arresto!”
Si girò e vide una lunga lancia puntata contro il suo petto.

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Note (per chi è interessato)

- ho deciso in questa fanfic ed in quelle a venire di utilizzare i termini italiani. FF IX ha diversi problemi dal punto di vista delle traduzioni dei nomi, ma visto che questa fanfic la leggeranno soltanto gli italiani ho deciso di mantenere l'adattamento del nostro paese. Non è poi così scandaloso, solo che quando vai a cercare degli approfondimenti sulla wikipedia diventi matto perché metà delle città e dei personaggi hanno il nome scritto in maniera diversa. Quindi Burmecia è diventata Burmesia, Bran Bal è diventata Branbal e se (e quando) ci arriverò, Zidane diventerà Gidan. Comunque avviserò delle differenze di traduzione ad ogni capitolo.

- questa fanfic ha preso tutt'altra piega di quella che volevo io. La storia si basava sull'incontro tra Kuja ed il personaggio che comparirà nel capitolo 3, e la scena di lui davanti alle uova doveva essere solo qualche riga giusto per spiegare cosa ci stava a fare quel pulitino di kuja in un posto schifoso come le caverne di Gizamaluke. Poi però la scena si è protratta .... ho pensato "ma perché, se possiede lo status Trance, non lo adopera sin dall'inizio del gioco?" e da lì sono passata ad inventarmi la scusa del perché si rifiuti di usarla. Sì, la versione "mostruosa" che ho descritto dovrebbe essere un penoso tentativo di descriverlo quando è in status Trance.

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Capitolo 2
*** Capitolo II ***



Capitolo II

Ma non avevo creato un’illusione per allontanarli da qui?
Almeno venti burmesiani erano comparsi nella galleria, frapponendosi tra lui e l’uscita. Erano tutti più alti di lui, e sebbene i loro disgustosi musi da topo fossero nascosti sotto i cappelli dalle larghe falde era certo che tutti i loro sguardi fossero fissi sulla sua figura. Un muro di lance era schierato per sbarrargli la fuga, e cinque soldati si erano fatti avanti per affrontarlo; l’arma che gli stava punzecchiando il petto era impugnata da una burmesiana all’apparenza molto giovane, con un vestito rosso troppo grande per lei ed un cappello dello stesso colore.
“Arrenditi e metti le mani bene in vista!” squittì lei nel suo scarso Comune per farsi comprendere. I suoi compagni si limitarono a fare cenni di assenso ed a stringere le fila, mentre dalle loro spalle veniva il suono di ulteriori rinforzi. “Seguici senza opporre resistenza ed il nostro Re si mostrerà generoso con te, umano!”
Generoso …
La parola rimbombò nella su mente, ma con la voce di Garland. Una voce che gli diceva di considerarsi fortunato, perché un creatore meno generoso di lui lo avrebbe privato dell’anima al primo accenno di ribellione. E lui era un creatore generoso, perché preferiva correggere le sue mancanze piuttosto che incenerirlo e ricominciare tutto il lavoro dall’inizio.
Generoso.
Un re generoso. Come Garland.

Il cuore iniziò a battergli all’impazzata. Una soluzione. Doveva trovare una soluzione.
Doveva trovare subito una soluzione o il re generoso avrebbe appeso il suo teschio nella caverna insieme a quelli dei draghi. Guardò prima la burmesiana infuriata, poi i suoi compagni e la punta delle lance. Le parole della creaturina rossa gli suggerirono una possibile via di fuga, anche se …
“Credo siate in errore …” disse, sollevando le braccia. Parlò in burmesiano, scandendo bene le parole di quella lingua rozza e disgustosa che aveva studiato solo perché aveva già imparato tutte le altre a disposizione –e non avrebbe pronunciato una sola parola nell’idioma dei Qu nemmeno sotto tortura-. I topi giganti lo fissarono incuriositi: nessun umano conosceva la loro lingua.
Ed ottenne l’effetto desiderato.
Guardarono il suo viso e, per un solo istante, ignorarono le mani. “… non sono un umano”.
Quando l’incantesimo di luce abbagliò tutta la stanza iniziò a correre. I burmesiani mandarono delle urla, temporaneamente accecati, ma Kuja si lanciò giù per la caverna senza nemmeno pensare. Non aveva alcun modo di superare quel manipolo che bloccava l’ingresso alla superficie, quindi percorse la caverna nella direzione opposta. Iniziare uno scontro frontale con quei sorci di fogna era fuori discussione: non solo erano dannatamente resistenti alla magia, ma lo avrebbero sopraffatto con la forza del numero e non esistevano, né su Tera né su Gaya, lancieri migliori di loro.
Avrebbe potuto trasformarsi di nuovo …
A quel pensiero riprese a correre con maggior forza.
La geometria delle grotte di Gizamaluke era discutibile, e sottoterra il suo senso dell’orientamento non era eccellente. Ad un bivio prese una direzione a caso, le urla dei burmesiani di nuovo alte alle sue spalle. Cercò di tenere a mente i tunnel che aveva percorso, ma dopo una decina di svolte si rese conto di non avere la più pallida idea di come tornare indietro, a parte il fatto che stava andando verso i livelli inferiori e l’illuminazione del tunnel era sempre più fioca. Nella foga inciampò su un carrello minerario, scivolò sulle rocce e si rialzò di corsa, senza perdere nemmeno tempo a rimarginare le piccole ferite.
Quel posto era un labirinto. I burmesiani avevano scavato in quelle grotte e ne avevano ricavato una città sotterranea che era grande almeno dieci volte la loro capitale, Burmesia, che sorgeva sulla superficie bagnata da piogge eterne. L’umidità sembrava la vera regina di quel posto, e si posava sulle scale di marmo bianco che salivano e scendevano; l’acqua colava dal livello superiore, ed una goccia gelida gli scese lungo la schiena proprio quando si appoggiò ad una parete per prendere fiato e capire dove andare. L’eco gli portò il suono di un centinaio di piedi che avanzavano a ritmo serrato, ma per quanto guardasse non riusciva a capire da dove i maledetti topi di fogna sarebbero sbucati. Cercò di pensare lucidamente, ma il suo cuore non cessava di battere all’impazzata, gli martellava dentro la testa chiedendogli battaglia, morte ed altro sangue di drago.
Imboccò un corridoio dalla parte opposta rispetto a quello da cui era entrato e riprese a correre.
Doveva seminarli.
Anche per poco tempo.
La cosa orribile era la sensazione di scendere, scendere, scendere fino al cuore della terra. Lentamente la maestà delle grotte venne meno: le decorazioni erano sempre di meno, le scale erano intagliate nella roccia e non nel marmo, le gallerie che prima ospitavano anche sei persone vicine adesso si restringevano. Buon per me.
Stava per accucciarsi e riprendere fiato quando vide la guardia. Era alta, armata, immobile.
E sola.
Oltre la figura del burmesiano il cunicolo proseguiva. Non riusciva a vedere cosa ci fosse, eppure sentiva dell’aria provenire proprio dalle spalle della guardia. Aria calda, umida e stantia. Ma pur sempre aria. Un’uscita …
La prospettiva di rivedere la luce del sole gli mise una strana euforia. Si appiattì contro la parete, lontano dagli occhi del nemico, e sussurrò le parole magiche. L’incantesimo volò dalle sue labbra, attraversò i pochi metri che lo separavano dalla creatura e poi la avvolse; sentì la resistenza dell’avversario, la percepì nell’aria mentre cercava di scontrarsi contro la sua magia. Il soldato si accorse che qualcosa non andava e strinse la lancia: prima che potesse gridare aiuto, Kuja spinse con violenza l’incantesimo dentro di lui, attraversando la pelliccia, la pelle ed i muscoli con una potenza che non aveva mai sperimentato. Il nemico si contrasse in modo innaturale, emise un solo squittio e cadde a terra. Solo quando fu certo che la magia avesse davvero seguito il suo corso, si avvicinò al corpo e lo osservò. Il topo non si sarebbe destato da quel sonno per le prossime cinque ore, ma a lui sarebbero bastati cinque secondi. Appoggiò la mano al petto del nemico, ed in quell’istante sentì il cuore pulsare proprio sotto le sue dita.
Vide se stesso piantare le unghie in quel corpo, aprire in due la gabbia toracica e divorare l’interno in una fioritura di sangue.
Prima che quella visione si realizzasse mormorò un secondo incantesimo, ed i polmoni del nemico si riempirono d’acqua. Niente sangue. Niente urla. Niente piacere. Solo morte.
Il protocollo delle missioni era chiaro. Niente sopravvissuti, a meno che non fosse strettamente necessario il contrario.
E Garland non avrebbe tollerato un errore nel protocollo. Non quando si sarebbe presentato con quella forma incompleta, con il potere dei draghi nemmeno a metà.
A differenza delle altre volte, la sentì distintamente.
Gli sembrò di vederla. Scintillava. Danzava.
Uscì dal corpo del burmesiano come un leggero velo, una lieve increspatura colorata nell’aria illuminata da due piccole candele. Kuja fissò l’anima, ipnotizzato.
Non riusciva a darle una forma, ma era lì, proprio davanti a lui. Avvicinò la mano, ed il tenue baluginare gli scintillò tra le dita, avvolgendole di uno strano calore; con l’altra mano cercò di acchiapparla, ma quella si dissolse in decine di fili invisibili che scivolarono tra le sue unghie e risalirono verso l’alto, quasi a prendersi gioco di lui. L’anima gli danzò intorno alla testa, e per un attimo fu certo di sentire dei suoni meravigliosi, simili a decine di passerotti in coro, mormorare proprio intorno alle sue orecchie. Ma fu solo per un istante, perché quando voltò la testa per osservare meglio il debole gioco di luci, quello scomparve. Si allontanò da lui, disegnando un sottile filamento d’argento: salì verso il soffitto, attraversò la roccia e svanì.
Kuja sapeva benissimo dove stava andando.
Quella era la sua prima anima. La prima anima catturata dall’angelo della morte.
La prima anima che avrebbe riempito il petto di uno stupido Jenoma qualsiasi, ipnotizzato per bene dal cristallo azzurro di Branbal; il primo passo che avrebbe portato a termine il piano del suo creatore.
Sapeva che quel momento doveva arrivare.
Avrebbe dovuto immaginarselo quando Garland gli aveva promesso che in quella grotta avrebbe trovato il potere che gli serviva. In fondo aveva ucciso tante volte prima di quella missione, eppure non aveva mai percepito nemmeno un alito di anima, né l’osservatore stellare aveva detto nulla a proposito.
Ma adesso il Flusso era iniziato.
E lui era incompleto.
No.
Si alzò di scatto, dando le spalle a quello che restava della vittima. Il desiderio di quelle uova lo prese di nuovo, elettrizzandolo fino alla punta della coda.
Basta.
Prese fiato e si gettò di nuovo nel corridoio, la sua mente proiettata verso l’uscita. Se era bastato un solo uovo per permettergli di percepire un’anima e mandarla da Garland … Non osava pensare cosa sarebbe successo se avesse assecondato i suoi istinti e avesse divorato tutta la nidiata. Forse non sarebbe stato in grado di riprendere il controllo di se stesso.
Forse era proprio quello che il suo creatore voleva.
Trattenne le lacrime e avanzò ancora nel buio più totale. Si girò solo per un istante, quando si accorse con orrore che le voci dei suoi inseguitori erano comparse per incanto, sempre più forti, e l’eco dei loro stivali stavolta proveniva proprio dalle sue spalle.
Il suo piano di disperdere i burmesiani e poi riprendere la via verso la superficie era evidentemente da rivedere, visto che le alte creature conoscevano quel posto meglio di lui. Dandosi mentalmente dell’idiota andò avanti, inspirando l’aria umida. Quando mieterò le anime di Gaya voi sarete i primi, ratti schifosi …
Qualcosa, forse un soffio d’aria più forte del solito, lo fermò appena in tempo.
Il cunicolo era buio e stretto, ma retrasse il piede proprio quando questo non trovò più roccia. Un paio di sassi scivolarono giù, in una voragine nera che si apriva in modo del tutto inaspettato. Altro che uscita.
Riprese fiato e guardò. Prima di partire aveva studiato qualcosa sulla geografia delle grotte di Gizamaluke, ma si era interessato soltanto alle vie di entrata ed uscita collegate alla superficie e soprattutto alla sala delle uova. Se vi erano faglie, voragini o burroni le aveva semplicemente ignorate, ma anche se avesse saputo tutto sul baratro che aveva davanti l’unica cosa fondamentale era che questo non conduceva all’uscita. Non riusciva a vederne il fondo. Le uniche sagome che spuntavano erano i fusti e le foglie di qualche rampicante che era cresciuto in quel posto buio sfidando qualsiasi legge naturale. Oltre la voragine vi era una parete di roccia, compatta e liscia: accarezzò l’idea di lanciarsi su di essa e muoversi lungo il costone, ma il salto era perfino oltre le sue capacità e soprattutto si sarebbe perso definitivamente.
Inoltre sul fondo c’era qualcosa, riusciva a percepirlo, e non era affatto certo che si trattasse di una creatura amichevole.
“Fine della corsa, umano!”
Di voi non rimarrà nemmeno un cucciolo …
Si voltò, e vide di nuovo i suoi inseguitori. Stavolta però il loro numero occupava tutto il tunnel, e considerata la grossa voragine senza fondo alle sue spalle decise ti tirare fuori la carta della diplomazia. Sfoderò il sorriso delle grandi occasioni, quello che aveva fisso sulla faccia quando doveva ascoltare le chiacchiere delle vecchie baronesse di Toleco. “Signori, per …”
“TACI!”
“Sono certo che …”
“TI HO DETTO DI TACERE, MAGO!” disse la stessa burmesiana di prima, la topolina con il vestito rosso e l’arma facile. Si era fatta avanti con altri cinque grossi soldati alle spalle, e questo la rendeva piuttosto baldanzosa “Altrimenti la prossima parola la pronuncerai sulla mia lancia!”
Io avrei un paio di idee su dove mettere la tua lancia …
Stavolta l’arma lo punse alla base della gola. Fece per scansarsi, ma i piedi trovarono il vuoto.
Ok, carta della diplomazia andata a quel paese …
Dalla schiera si fecero avanti due burmesiani, e nelle mani reggevano una catena di un materiale che non aveva mai visto, bianco e scintillante anche nella semioscurità. Si avvicinarono a lui, e prima che potessero avvicinargliela ai polsi lanciò un incantesimo di fuoco per tenerli lontani. La burmesiana spinse la lama contro di lui, ma con un guizzo si piegò, scivolò di lato ed evitò l’affondo; la creatura stava per perdere l’equilibrio se non fosse stato per la prontezza di un suo compagno, che la acchiappò per il mantello prima che precipitasse nell’abisso.
L’attimo dopo gli furono tutti addosso. Evitò un secondo fendente, e spezzò l’asta di una terza lancia quando un soldato cercò di stordirlo; prima che quello si riprendesse dallo spavento lo acchiappò per l’abito e lo scaraventò di sotto. Lanciò una sfera di fuoco nel mucchio, senza nemmeno guardare, mandando al diavolo quelle bestiacce così resistenti. Provò a creare un muro di ghiaccio che li tenesse lontani anche solo per riprendere fiato, ma l’incantesimo delicato gli richiese un secondo di troppo; quattro soldati gli vennero addosso e lo trascinarono a terra, la sua testa riversa nel baratro. Usò tutte le forze che aveva in corpo per divincolarsi, con il risultato che altri tre ratti accorsero in loro aiuto e lo inchiodarono sulla roccia. Uno di loro avvicinò la catena ai polsi per ammanettarlo: Kuja si sentì avvolgere da un dolore insopportabile che si irradiava dal metallo bianco senza che questo lo avesse nemmeno sfiorato. Gli sembrò che il polso venisse trafitto da sottili spine di ghiaccio, ed il freddo si irradiasse lungo tutto il braccio fino al cervello.
Un re generoso …
Ogni fibra del suo corpo lottò al pensiero, e l’effetto fu istantaneo e inarrestabile. Perse il controllo, travolto dall’implacabile risposta del suo stesso sangue che iniziò a bruciare come mille torce. Ansimando, la sua schiena si arcuò, e mentre la magia si muoveva il suo aspetto cambiò.
Fermati, ti prego …
Il potere bruciava dentro di lui: febbricitante, lo spogliò del suo aspetto e del suo odore, del pensiero, della paura. Iniziò ad emettere un suono lugubre, un misto da un grido, un ruggito ed un pianto, certo che dall’altra parte della grotta le sue uova, le sue piccole, tenere, dilette uova stessero vibrando, chiamando solo lui. La trasformazione si produsse in un istante, la magia corse dentro di lui e schiacciò Kuja.
Al suo posto comparve di nuovo l’angelo della morte, rosso e furioso, ed il primo burmesiano che lo stava trattenendo morì sul posto, il petto trapassato dal suo artiglio. Il cambiamento fu così inaspettato che gli altri assalitori indietreggiarono sorpresi, e quello fu il loro primo errore. I loro cuori battevano per il terrore, li sentiva, così come sentiva l’anima appena catturata fuggire via; si rialzò in fretta, soffiando minacciosamente, col pelo ritto e la criniera di piume in fiamme, e passò gli occhi su quei piccoli topi che lo sfidavano mostrando le lance, spaventati per il suo potere. Soffiò e sbuffò, in preda ad una rabbia incontenibile. Dove erano le sue prede? Dove erano le anime? Già si sentiva in bocca il sapore del sangue.
Sollevò una mano, e la magia bianca rispose alla sua chiamata come mai aveva fatto. La luce scese in quel luogo dove fino a quell’istante avevano regnato solo le tenebre: sfondò il tetto della grotta, centinaia di metri più in alto, lacerò l’aria intorno a lui e lo avvolse del suo potere bianco. Il suo petto vibrava in un unico desiderio: azzannare ed uccidere chiunque gli venisse incontro. I burmesiani squittirono, non abituati ad una luce così violenta, e solo pochi riuscirono a ritirarsi quando l’incantesimo di luce sacra si abbatté su di loro, attraversando il tunnel. I più fortunati finirono carbonizzati. La maggior parte fu invece investito da quell’onda candida, scagliata contro le pareti: le lance, gli abiti, le pellicce, tutto iniziò a bruciare di un fuoco incantato che nulla aveva in comune con gli incantesimi di fuoco che era abituato a scagliare. Con gioia sovrumana si lanciò su di loro, uno dopo l’altro, dilaniandoli, congelandoli, unendo quella meravigliosa forza fisica alla magia che gli aveva donato il sangue di drago. Le anime si sollevarono intorno a lui e lo circondarono: le vedeva nettamente, minuscole sfere azzurre nell’aria che non aspettavano altro che lui, il loro dio, le guidasse. Le fece danzare con lui mentre tingeva il corridoio di rosso, aumentando il loro numero mentre con pochi balzi catturava i nemici in fuga e li finiva. Sentiva le voci dei soldati fischiargli nelle orecchie, ma erano un coro che osannava il suo potere. Se ne andarono una per volta, sospinte dalla magia del suo corpo, dirette verso Tera.
Garland poteva distruggere tutta Gaya, ma non poteva fare quel miracolo: non poteva prendere le anime, non poteva incanalarle, aveva bisogno di lui. Di lui. Di lui. Di lui.
Di chi?
Fu quella domanda a scuoterlo. Digrignò i denti, per qualche istante dimentico dei nemici in fuga. In mezzo a quella massa di corpi gli sembrò di vedere la figura di Garland, la pelle incartapecorita e l’armatura nera, e stavolta era lui ad impugnare la catena bianca che gli aveva fatto tanto male. Fu un semplice guizzo, ma il lieve barlume di consapevolezza lo scosse e lo costrinse a torcersi su stesso, guardando di sfuggita la piccola burmesiana dal vestito rosso ed una manciata di compagni svanire nei corridoi. Puntò i piedi, combattendo contro il desiderio di farli a pezzi.
Adesso basta.
Si morse come aveva fatto nella stanza delle uova, alla ricerca del dolore, ma stavolta subì l’effetto contrario: il sangue aveva un sapore meraviglioso, e zittì quella parte di lui che urlava per lo strazio. Le sue piccole prede pelose se ne erano andate, ma adesso le sue uova erano lassù, e si sarebbe fatto strada disintegrando le rocce pur di averle. Ho detto di no.
Non riusciva a ritornare come prima. Non dopo quel bagno di sangue. La bestia sembrava schernirlo da dietro la sua stessa mente, sfidandolo ad opporsi. E lo fece.
Spinse i suoi passi all’indietro, ignaro di tutto il resto. Tornò dove tutto era iniziato, proprio verso l’abisso, sfiorando il piacere dello spettacolo di morte che aveva appena seminato e la spaccatura nel soffitto molto più in alto. C’erano altri esseri viventi fuori dalle grotte di Gizamaluke, e la mera idea di tutte quelle anime in attesa di un dio gli fece schioccare la coda in aria.
Ma soppresse l’euforia. Nonostante il piacevole calore del sangue si rese conto che poteva ancora provare disgusto e una grande collera per ciò che aveva fatto. No, si corresse, per ciò che sono stato costretto a fare. Era sopravvissuto, ma il prezzo non gli piaceva. Aveva di nuovo fatto il gioco del suo creatore. Si era esposto al vero potere della sua stessa natura e, anche se l’ammissione lo spinse a piangere dentro di sé, temeva di non poter mai più tornare indietro.
“Hai visto che bello spettacolo ho messo su? Sono stato un bravo burattino?” disse, guardando la voragine senza fondo, giocando con i piedi con un sasso sul margine. Anche la sua voce non aveva più nulla di melodioso. “Spero che ti sia piaciuto …”
Gli rispose solo un debole eco, ma poco importava se la persona a cui erano rivolte quelle parole non era lì. Ormai non lo riguardava nemmeno più.
“… perché non ho alcuna intenzione di ripeterlo. Trovati un’altra marionetta”.
L’attimo successivo si gettò nel vuoto.

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Capitolo 3
*** Capitolo III ***


Capitolo III


Luce.
Fu la prima cosa che vide.
La lama di luce gli ferì gli occhi. Quando sollevò un braccio per proteggersi, tutte le ossa dalla spalla alla mano gli lanciarono delle fitte di dolore. Lasciò cadere il braccio lungo i fianchi e chiuse gli occhi.
Era vivo.
Respirò piano, sentendo tutte le costole ribellarsi a quell’ordine. Si passò la lingua sul palato, sulla mandibola, sui denti: il sapore del sangue permeava qualunque cosa, dalle ferite ancora aperte ad altre che si erano richiuse lasciandogli frammenti di sangue rappreso alla base della gola. Aprì la bocca per prendere aria, ma ne uscì solo un suono inarticolato.
Era vivo. La bestia se n’era andata.
La luce svanì. Sentì un rapido movimento d’aria proprio sopra di lui e qualcosa si mise tra il suo viso ed il cielo. L’odore di muffa impregnava quel posto. Quando inspirò per la terza volta fu assalito da un odore pungente di escrementi, sangue e qualcosa di andato in decomposizione; ma mentre già stava per rimettere, lo raggiunse il profumo di un’anima.
“Quando dicevano che i Jenoma fossero virtualmente indistruttibili non credevo che parlassero in senso così … letterale”.
Era una voce bella. E strana. Tintinnava come tanti campanelli d’argento, diversa da qualsiasi altra voce avesse mai sentito in tutta la sua vita. E non veniva dall’esterno: le parole sembravano risuonare dentro la sua stessa testa, allontanando il dolore ed il senso di pressione che gli sconvolgeva il cranio. Delicata. Femminile.
“Io n-non …” mormorò come flebile protesta, ma la parola gli morì in gola, soffocata dall’ennesimo fiotto di sangue. Quando tossì sembrò che decine di lame gli si fossero conficcate nel petto, e la frase si trasformò in gorgoglio privo di senso. “Fammi il piacere di non schiattare proprio adesso. Se proprio devi parlare, chiudi gli occhi e attacca il cervello. Ammesso che tu ne abbia uno, cosa su cui ho i miei profondi dubbi”.
Qualcosa scivolò lungo il suo corpo. Era un tocco leggero ma dotato di forza, leggermente ruvido contro la sua pelle. Risalì lungo la gamba e si adagiò sul petto. Emanava un senso di calore. Inspirò una volta, poi una seconda, ascoltando il suono del suo stesso respiro mentre gli incantesimi di rigenerazione continuavano a lavorare, attraversando ogni fibra del suo corpo ed attenuando il dolore.
“Non sei proprio come mi aspettavo, sai?” riprese la voce risuonando nella sua testa. Kuja si sforzò al massimo per capire ogni parola, come se anche agguantare le semplici lettere e dar loro una forma fosse un’impresa impossibile. “Quando ho saputo che Garland aveva sguinzagliato il suo angelo della morte mi immaginavo qualcosa più … come dire … Alto? Maestoso? Imponente? Una creatura dalla chioma fluente e da un’ala sola che arriva, spacca tutto accompagnata da un coro angelico e con una spada lunga da qui ad Alexandria? Insomma, qualcosa su quello stampo!”
Mi hai sguinzagliato, eh …?
Pur nella nebbia che avvolgeva i suoi pensieri, un particolare guizzò verso di lui, come una candela nel buio di una cella. Strinse gli occhi, cercando di dare una forma ai suoi pensieri, di toccare la voce argentina con delle parole che avessero un senso oltre la morsa di dolore che gli stringeva le ossa. “Come sai … come sai chi sono?” mormorò, colpito come una frusta al pensiero che tutto il piano di Garland fosse stato scoperto. E che lui ne avrebbe pagato le conseguenze.
“Oh, allora qualcosa del cervello è rimasto! Non che mi servisse per forza, però … Beh, non puoi pensare che il tuo padrone possa fondere due pianeti, regolare il Flusso di Anime, solcare i cieli con le sue aereonavi da guerra e mandare uno come te a fare il bello ed il cattivo tempo senza che noi ce ne accorgessimo. E anche se fossimo sordi, ciechi, muti ed anche zoppi non ti credere che la magia che porti dentro fino a scoppiare passi proprio inosservata. Passi per gli umani ed i burmesiani, che non percepiscono un’Ultima nemmeno quando gli esplode davanti, ma con noi il giochetto non funziona”.
Un’ondata di paura lo attraversò. Si mise a sedere come attraversato da una scossa; l’istinto, la violenta sensazione che qualcosa non andasse gli prese le gambe, ma quando cercò di puntare i piedi ed alzarsi fu colpito da una fitta dietro la nuca, ed il mondo ondeggiò. Si ritrovò in ginocchio, con sotto le mani soltanto la roccia gelida, ma in quel momento la piacevole sensazione di calore tornò. Stavolta gli risalì lungo la schiena, scaldandogli i muscoli fino al collo. Tutto in lui gli diceva di scappare, e quando aprì gli occhi capì il perché.
Oltre il velo di sangue e nebbia c’era un drago.
Le mani si mossero in maniera istintiva, alla ricerca del potere per sollevare una barriera difensiva; non riuscì però nemmeno a sollevare le braccia. Cercò di allontanarsi, ma dalla sua posizione finì solo per rovinare un’altra volta a terra, vanificando qualsiasi processo di rigenerazione. Il suo respiro successivo fu un misto di sangue, aria e schiuma. “Oltre ad essere scemo sei pure sordo? Ti avevo detto di startene fermo …” sussurrò la creatura, e la sua coda si estese verso di lui, sostenendogli la schiena. Kuja riconobbe la sensazione di calore che lo aveva confortato fino a qualche secondo prima, ma in quel momento avrebbe dato qualunque cosa per il gelo ed il dolore del pavimento della grotta. Perché, nascosta dietro al dolore, si era risvegliata la fame. Il potere del drago lo stava chiamando, e sapeva che il proprio corpo non voleva altro che rispondere. Nonostante le ossa spezzate il suo addome iniziò a contrarsi.
La creatura si mosse con un movimento fluido, e l’attimo dopo i suoi occhi diventarono tutto il suo mondo. I due globi di oscurità privi di qualunque pupilla si mossero al di sotto delle squame, e si vide riflesso in quelle gigantesche pozze nere più grandi della sua testa. Una creatura piccola, debole. Rotta.
“Sì, stai messo davvero uno schifo, lasciatelo dire”.
La frase arrivò con un mormorio, ma il mostro non aveva emesso alcun suono. L’enorme mandibola non si era abbassata, e solo una fila di denti bianchi sporgeva dalla porzione bassa del muso; le parole fluivano dolcemente dalla mente del drago alla sua. “Se tu sei l’angelo della morte, Gaya può dormire sonni tranquilli almeno per i prossimi cinquant’anni. Come predatore sei pessimo”.
“Non sono un predatore”.
“Già, e io non sono un drago. Adesso mi dirai anche che hai mangiato una delle nostre uova per fare lo spuntino di mezza giornata … Tu ringrazia solo che non fossero le mie, altrimenti ti troveresti nel mio stomaco” disse, ed il suo tono si fece serio. Ma a Kuja non importava. Il ricordo delle uova si stava facendo di nuovo strada nella sua testa e si scoprì di nuovo con le labbra umettate e la saliva lungo tutta la bocca. Si morse l’interno delle guance fino a farle sanguinare, ordinando ad ogni muscolo del suo corpo di rimanere contratto, di non cadere, di non cedere al desiderio. Gli sarebbe bastato rimanere immobile, rigenerare qualche altro minuto ed avrebbe avuto abbastanza forze per aprire il ventre molle, tuffarsi negli organi e poi …
Le mascelle si aprirono di scatto, saettarono verso di lui e si chiusero con un clangore secco a meno di un palmo dal suo naso. Mandò un grido, fa fu soffocato dal suo stesso sangue. “Fai un altro pensiero del genere, Jenoma, e giuro che sarò il primo drago a scoprire che sapore hanno le bianchissime chiappe di un angelo della morte. Ed a pensarci bene ho ancora fame, visto il cibo scadente che mi hai portato …”
A quelle parole si voltò verso un angolo della grotta, attirato dall’odore marcescente che i suoi sensi avevano cercato in ogni modo di evitare. Cercò di non rimettere alla vista dei cumuli di sterco accumulati dall’animale, ma quando i suoi occhi incrociarono le ossa spolpate di un burmesiano il suo stomaco si contrasse con uno spasmo. E non ve ne era soltanto uno.
Almeno cinque sorci avevano incontrato la stessa fine. Le lance erano abbandonate per terra, ma dai cumuli di vestiti stracciati e pezzi di armatura si vedevano ossa, sangue ed arti staccati di netto; il tanfo degli organi si mescolava a quello dello sterco, e la vista del sangue fresco non fece altro che aumentare la sua fame. Quei burmesiani erano stati uccisi da poco, ed in un lampo rivide se stesso, no, non ero io, scaraventare i soldati nemici che lo assalivano giù nell’abisso cercando di levarseli di torno. La frenesia delle anime, la magia, il potere, tutto assalì la sua mente come un caleidoscopio e si portò le mani alle tempie nel tentativo di fermare quel pulsare violento che sembrava voler esplodere. “Però non mi hai mangiato …”
“La tua perspicacia inizia a sorprendermi, sai?”
“Quindi cosa vuoi da me?”
“Vorrei il potere per dominare il mondo ed essere la regina del mio stormo. Anche quello di bruciare Burmesia e Cleyra con un solo soffio e farla pagare a questi ratti schifosi. E perché no, anche la forza di sconfiggere a duello il leggendario Bahamut ed incenerire le ali di Alexander, visto che ci siamo … Ma perché non provi a guardare meglio e ad usare un po’ di immaginazione?”
Il drago allontanò la testa da lui e sollevò il collo. Nonostante le ferite Kuja rimase senza fiato, ammirando la bellezza di quella creatura. Tutto il suo corpo sembrava scolpito nell’argento più fino, e la luce che scendeva dall’alto disegnava delle sottili strie bianche lungo le squame grigie, piccole e luminose che la rivestivano dalle zampe fino alla testa ed al collo lungo e flessuoso. Non era enorme come si raccontava nei libri: aveva sempre pensato che un drago fosse grande almeno quanto un’aereonave, ma la schiena della creatura era di poco più alta della sua testa.
Ma la cosa magnifica erano le ali.
Il tempo si fermò mentre faceva scorrere i suoi occhi lungo quelle estremità, le stesse che lo avevano avvolto quando era ferito, che avevano schermato per lui l’implacabile luce del risveglio. Erano composte da centinaia di piume.
Provò l’irrefrenabile bisogno di sfiorarle. Di affondare le dita e trovare qualcosa di morbido in cui perdersi. Qualcosa di bianco, di azzurro, di viola, qualcosa che sembrava un arcobaleno in attesa di essere preso. Qualcosa che il suo creatore non gli aveva mai fatto vedere in tutte le loro noiose lezioni.
Il drago mandò un suono poco piacevole, e con un secondo movimento lo costrinse a sollevare gli occhi da quello spettacolo. Kuja la osservò a malincuore, e fu in quel momento che vide il collare. Fu assalito da una sensazione di gelo, la stessa che aveva provato quando i burmesiani avevano cercato di incatenarlo; il collare che si stringeva intorno al collo del drago era dello stesso materiale, di un bianco così intenso da accecare. C’era qualcosa di vivo, di pulsante in quel metallo, perché tutto il suo corpo riprese ad agitarsi, vibrando insieme alla magia di rigenerazione: era stretto intorno alle squame argentate, che in quel punto erano striate di sangue rappreso. Una catena dagli anelli giganteschi univa il collare alle pareti della grotta, ed in quel punto la roccia era consumata, graffiata, colpita senza dubbio dalla potente creatura con tutta la sua furia. Kuja ricordò la spiacevole sensazione della catena bianca vicino ai suoi polsi, e l’idea di averne una simile stretta intorno al collo …
“Bravissimo, vedo che hai capito!” mormorò la voce squillante, entrando di nuovo senza permesso dentro la sua testa. “Su, da bravo, adesso riprenditi per bene e distruggimi questo collare. Sai, ha l’antipatica tendenza a nutrirsi della magia della sua vittima e vedi … io ne ho un bel po’. Occorrerebbe qualcuno che abbia un potere anche maggiore del mio e tu capiti proprio a fagiolo, mio dolce e coccoloso Jenoma”.
“Non … non credo di poterlo fare …”
“E perché no?” stavolta con un verso poco piacevole dal fondo della gola.
“Perché non ho tutto quel potere”.
“Ah no? Per la coda di Bahamut, quel buco nella grotta lo hai aperto tu, non io!” disse, indicando con la testa il soffitto. La crepa sopra di loro, quella che inondava il fondo del baratro con la sua incredibile luce, si apriva come un taglio nel buio. Ricordava benissimo come lo aveva creato. Il potere che lo aveva scosso. E tutto quello che non voleva più diventare. Rivide l’immagine del mostro dalla criniera rossa fare a pezzi con gioia i suoi nemici ed il potere della luce sacra e delle anime che faceva battere il suo cuore all’impazzata. “Proprio quello!” tintinnò il drago. “Trasformati un’altra volta, spacca questa catena e prometto che ti darò un disinteressato passaggio fino all’uscita. Sempre che tu non voglia rimanere qui con …”
“SCORDATELO!”
Non riuscì a capire da dove gli fossero venute le forze. L’attimo prima era lì, in ginocchio davanti alla creatura. Quello successivo era distante, dall’altra parte della caverna, tutti i suoi muscoli si erano contratti ed aveva corso, quasi volato contro la parete opposta, spinto da qualcosa che aveva bruciato in un attimo il suo cuore. Le fitte e lo spasmo ripresero e lo piegarono in due, ma era lontano dal cono di luce, lontano dalla bestia, lontano da tutto. “BASTA! SMETTILA! NON SONO QUELLO CHE DICI TU! NE HO ABBASTANZA DI TUTTI VOI!”
La creatura si mosse nella sua direzione, ma la catena la trattenne. Mandò un clangore delicato, musicale, ed il drago fu costretto ad osservarlo da distante, con gli occhi neri privi di espressione ma con tutto il corpo che si agitava, soffiava, le ali che si aprivano ritmicamente. Tirò, e nel punto in cui il collare si univa alle scaglie uscì un lieve rivolo di sangue che disegnò una scia rossa lungo la meravigliosa trama d’argento.
Si morse le guance con tutta la forza che aveva, lottando contro se stesso. Era ferito, ma gli sarebbe bastato poco per ritornare nel pieno delle sue forze, e con la preda legata alla catena avrebbe potuto benissimo lanciargli contro tutti gli incantesimi che desiderava e poi banchettare con il sangue e le viscere di una delle creature più potenti di Gaya. Un essere che faceva sembrare le sue preziose uova niente più che un pasto momentaneo, uno sfizio che si era dimostrato il preludio a qualcosa di unico, inarrestabile. La sinfonia di potere iniziò a suonare nelle sue orecchie, chiedendogli di agguantarla e danzare con lei.
Taci.
Si accucciò in un angolo buio, stringendosi la testa tra le mani. Coprì le orecchie per non sentire, ma tutto era dentro di lui. Puntò i piedi e strinse le palpebre, cercando di isolare il pensiero del drago e del sangue fino ad implorare le sue gambe e le sue braccia di non muoversi, di non trasformarsi, di non diventare qualcosa di diverso da lui. Ormai conosceva la bestia e sapeva cosa la eccitava.
Se prima la paura di essere catturato dai burmesiani aveva preso il sopravvento, adesso c’erano solo lui ed il buio.
Ed il drago …
No. Lui ed il buio.
Lui ed il buio.
Non si era buttato nell’abisso per trasformarsi una terza volta.
Ancora con le mani premute sulle orecchie si alzò, quasi rigenerato del tutto, e senza sollevare la testa verso la preda iniziò a camminare verso l’ingresso della grotta, quello che aveva notato quando era ancora tra le grinfie del mostro. L’odore del drago invase le sue narici e le labbra erano umettate di saliva. Guardò fisso la punta di quello che rimaneva dei suoi stivali, concentrato solo sul mettere un piede davanti all’altro. La creatura si agitava, poteva sentire il tintinnio della catena, ma non poteva fare nulla. Continuò a camminare, con davanti agli occhi l’immagine del cipiglio di Garland. “Santo cielo, ma proprio a me doveva capitare l’unico Jenoma in piena crisi d’identità?”
La ignorò, e la porta era sempre più vicina.
“Dove stai andando? Guarda che non sono un’ingrata, saprei essere molto riconoscente!”
Il battente del portone era freddo sotto le sue dita. Ma in quel momento era la cosa più rassicurante che avesse mai sfiorato negli ultimi giorni. Il contatto sembrò placare il vortice del suo sangue ed il battere forsennato del cuore, e l’improvvisa soddisfazione lo spinse a girarsi verso la bestia in catene, protesa verso di lui. “Lontano da te e da quelle uova maledette! E dovresti anche ringraziarmi, sono certo che non vuoi vedere quello che posso diventare …” sibilò furioso. “E poi cosa sento, il grande drago che inizia a supplicare?”
“Oh, perdonami se mi preme la mia libertà!” risuonò la voce, ma stavolta fu accompagnata da un ruggito profondo. Kuja si mosse il labbro e resistette, fissando gli occhi neri, il corpo scintillante, le ali che si aprivano e si chiudevano ad esprimere tutta la sua furia. L’odore di muffa scomparve, trascinato dal vento creato dalle forti ali, ed un secondo guizzo si formò dentro di lui all’idea del potere selvaggio racchiuso nella creatura incatenata; lo combatté di nuovo, nella mente soltanto l’uscita e la bestia rossa che premeva per sfuggire al suo controllo. “Se vuoi la libertà, prenditela senza di me!”
“Parole grosse per un pupazzo!” gridò, lasciando che le parole gli esplodessero dentro la testa. Fissò gli occhi neri, e per un attimo gli sembrò che la lunga bocca fosse piegata in un sorriso crudele. Strinse di nuovo il battente, ma non riuscì a volgere gli occhi. “Forza, esci di lì! Torna dal tuo padrone, da bravo! Vai a ballare per lui, inchinati davanti al suo pubblico quando tira i fili, distruggi pure tutta Gaya ad uno schiocco delle sue dita! Sai la novità? Preferisco marcire altri sette anni qui dentro che uscire e raccontare al mio stormo che mi ha liberato una marionetta!”
Cercò di risponderle, ma l’ondata di parole attraversò di nuovo la sua mente. “Continua pure questa patetica farsa. Piagnucola, lamentati, buttati pure di nuovo in un fosso! Ma non cambierai mai nulla. Sarai solo una bambola che Garland tiene al guinzaglio in attesa di crearne una migliore!”
“Non sono l’unico qui dentro ad avere un guinzaglio … o sbaglio?”
“Meglio il mio. Almeno si vede”.
Si accorse di tremare. Non voleva. Scacciò la voce della testa, ma la melodia di quelle parole continuava a scivolargli tra le orecchie, proprio come la risacca dopo una violenta tempesta; un’esplosione di immagini gli comparve davanti, ma prima che potesse controllare quel flusso inarrestabile vide le proprie mani screziarsi di rosso e sentì la coda sfuggire al suo controllo ed agitarsi contro la veste. Si gettò contro il portone con tutte le forze che gli erano rimaste, mentre gli occhi sembravano volergli esplodere dalle orbite.
Fu avvolto da un boato. Schegge di legno volarono in ogni direzione, e quando la schiena impattò contro la roccia sentì tutte le ferite appena rimarginate riaprirsi con violenza, lasciandolo tramortito. Ci fu solo un enorme muro di rumori, sempre più forti e frenetici: il metallo delle armi, squittii, passi ritmati sul pavimento, le grida di combattenti … La grotta, fino a qualche attimo prima quasi buia, fu illuminata da decine di fiamme che si levavano da delle torce come tanti occhi rossi in un velo di oscurità e nebbia. Il ruggito del drago si levò oltre quella confusione, ma quando cercò di capire cosa fosse appena successo vide una sagoma avvicinarsi a lui e sollevarlo per i vestiti come se pesasse poco più di una bambola. Le sue forme erano eleganti per appartenere ad un burmesiano, ma non nascondevano affatto l’odore pungente di quei ratti. Aveva il muso sottile, la pelliccia chiara e le orecchie leggermente appuntite, ma questi furono gli unici particolari che riuscì a mettere a fuoco prima che quello lo strattonasse lontano dalla parete e lo scagliasse a terra, al centro della caverna. Una pioggia di squittii lo accolse e capì che i suoi nemici lo avevano circondato di nuovo, ma stavolta stavano lasciando il passo al burmesiano dalla pelliccia candida, che si mosse contro di lui con una lancia di foggia strana, dalla lunga asta rossa.
L’eccitazione di qualche istante prima stava tornando a galla, riscaldandogli la spina dorsale alla vista di tante prede. Si fece ancora più forte quando la lama ricurva gli venne puntata addosso. Non ci sarebbero state altre occasioni. Sollevò la testa, fissando gli occhi scuri del suo nemico quasi nascosti dalle ampie falde del cappello. Ogni fibra del suo corpo chiedeva solo di immergere le unghie nel suo collo, ma mosse le dita e le strinse convulsamente contro l’asta della lancia guidandone la punta verso il proprio petto, all’altezza del cuore che stava bruciando quanto il nucleo ardente di Tera.
“Uccidimi. E fai presto.” disse, scandendo le parole nella lingua di Burmesia. “O strapperò il cuore a tutti voi”.

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Capitolo 4
*** Capitolo IV ***


Capitolo IV

“Uccidimi. E fai presto.” disse, scandendo le parole nella lingua di Burmesia. “O strapperò il cuore a tutti voi”.
Il burmesiano scostò il cappello dalle falde larghe, e le ombre rivelarono i suoi occhi azzurri, diversi da quelli gialli o neri degli altri ratti. Vi era qualcosa di delicato in quegli occhi, qualcosa di curioso che per un istante diede a Kuja la certezza assoluta che quel sorcio lo avrebbe trapassato con la sua lancia ponendo fine a quella farsa una volta per tutte.
Ma la quella sicurezza venne meno quando il burmesiano si chinò, tirò indietro l’arma e le sue mani ancora intorpidite non strinsero altro che aria. “No. Se stai cercando un boia, non lo troverai qui”.
Uccidimi …
Ti prego …

Tutto il suo corpo stava chiamando quelle prede. Trattenne le mani e conficcò le unghie nella roccia del terreno nello spasmodico bisogno di stringere qualcosa, di fermarsi o di distruggere, di cancellare l’ondata di profumi che lo attraversava risvegliando la bestia dalla criniera rossa. “TI HO DETTO DI PIANTARMI NEL PETTO QUELLA DANNATA LANCIA!” gridò, nascondendo nell’urlo il groppo che gli stringeva la gola e spingeva le lacrime fuori dai suoi occhi. Si accorse di apparire una creatura debole e disperata, ma in fondo forse era proprio quella la verità. Non un Jenoma. Non un angelo.
Solo qualcosa di patetico. Qualcosa in cui era stata inserita un’anima inquieta.
“VOLETE DAVVERO MORIRE TUTTI QUI DENTRO? VOLETE SERIAMENTE CHE IO ESCA DI QUI E DIVORI I VOSTRI CUCCIOLI? NON AVETE DAVVERO NIENTE DA PROTEGGERE?” urlò, e con quelle parole liberò l’odio, la frustrazione ed il dolore che erano iniziati con quelle maledette uova di drago. Si strinse le tempie con violenza, combattendo il pulsare del sangue ed il bisogno di carneficina. La coda premeva per essere libera e la compresse in modo spasmodico contro la coscia, sentendo la gamba indebolirsi e perdersi nel freddo. Sollevò la testa per insultare di nuovo il burmesiano, ma si ritrovò il muso chiaro del nemico ad un palmo dal suo, la pelliccia chiara che ondeggiava attraverso le lacrime che ormai scorrevano senza sosta. Lo guardava come nessuno aveva mai fatto. Con un sentimento che Kuja non conosceva.
“Nessun essere vivente vuole davvero morire. È contro la sua natura, non trovi?” mormorò. Si inginocchiò al suo fianco, appoggiando la lunga lancia rossa per terra, proprio tra loro due. Le guardie che avevano accompagnato lo strano soldato fecero all’unisono un passo indietro, ma non abbandonarono la presa sulle armi. “È chiaro che non stai bene … ma stai tranquillo, non vogliamo farti del male”.
Idiota …
“Seguimi senza opporre resistenza e vedrai che non morirà nessuno, né tu, né noi”.
“Voi non capite …” rispose, scuotendo la testa.
“Forse adesso no. Ma se ci raccontassi cosa ti è successo posso dirti che il nostro Re sa essere magnanimo. Vieni con noi e non ci sarà alcuno spargimento di sangue”.
Stupido ratto illuso …
Senza attendere una sua replica, il burmesiano lo afferrò per un braccio e lo mise in piedi.
Kuja vide se stesso protendersi contro quella mano e staccarla di netto, ed il sangue scivolare lungo la sua gola e poi per tutto il corpo. Non poteva permettere che accadesse di nuovo.
Vi avevo avvisato.
Aprì la mano contro il petto del burmesiano e scagliò un incantesimo di gelo. Dalle sue dita scaturirono cinque lame di ghiaccio che conversero le une con le altre fino a formare un globo. Il suo avversario si chinò, cercando di agguantare la lancia, ma la magia lo colpì alla spalla e lo sbalzò indietro. Kuja barcollò, lottando per tenersi in piedi. Nel corpo, sotto la pelle, sentiva il sangue scorrergli all’impazzata per lo sforzo che aveva vanificato tutta la rigenerazione spontanea delle sue fibre. Spinto dalla disperazione si mosse in avanti cercando di non incespicare nei suoi piedi, l’abito lacero che si sollevava mentre alzava le braccia. La magia del suo fuoco azzurro infranse la penombra, saettando dalle sue dita, e la terra intorno ai suoi aggressori esplose. Dalla roccia uscirono spirali di fumo che si dispersero sopra un gruppo di burmesiani ormai senza vita. Avanti. Fatevi avanti.
Eppure i sopravvissuti esitarono. I lancieri si scambiarono sguardi interrogativi, poi serrarono le fila, pronti a sostenere l’attacco. Venne contro di loro subito, concentrandosi solo sul dolore del proprio corpo e sul mostro dentro di lui che gli premeva contro le tempie, scagliando un’ondata di saette disordinate e frenetiche che si mosse come artigli luminosi per poi abbattersi contro la barriera di lance burmesiane. Altri tre sorci caddero carbonizzati, e sorrise tra sé vedendo i loro compagni urlare per la furia mentre la sua magia li spingeva contro una parete, lontano dall’unica via di fuga. I fulmini si scatenarono di nuovo contro i suoi nemici, ed il mostro gioì dentro di lui quando l’aria fu di nuovo satura di urla. Lo soppresse, trasformando le poche energie che ancora gli rimanevano in un secondo incantesimo. “NON SIETE ABBASTANZA DISPERATI?”
Dalla massa volò una lancia: troppo piccola, troppo debole per quello che aveva bisogno, ma l’arma finalmente saettò. Atterrò ad oltre un braccio da lui, e la punta metallica gracchiò contro la roccia del pavimento. Davanti a tutti gli altri, con la pelliccia bruciacchiata ed una vistosa ferita sul braccio sinistro, stava la piccola burmesiana dal vestito rosso che aveva intravisto nella battaglia dei livelli superiori. Aveva rotto le righe, e gli insulti che lanciava nella sua direzione furono coperti dalle grida dei suoi compagni più grandi; con uno sguardo di sfida raccolse l’arma di uno dei suoi compagni caduti e la scagliò di nuovo. Kuja sorrise a quel maldestro tentativo e a quelle braccia troppo sottili per una lancia così grande, che disegnò una parabola sghemba e atterrò davanti ai suoi pedi. Rimase fermo quando la burmesiana iniziò a tempestarlo di massi e rocce sotto lo sguardo sgomento dei suoi compagni, e anche quando un sasso lo colpì in pieno viso rimase immobile.
Non gli rimaneva molto tempo.
Caricò la piccola guerriera, sapendo che non avrebbe avuto un’altra possibilità. Sarebbe bastato poco, un altro fiotto di sangue, un sorcio a terra e la cosa che stava trattenendo con tutte le sue forze sarebbe uscita, spezzando la catena con cui cercava di tenerla a bada mentre quella gli graffiava il petto, soffiava, bramava. Bruciava.
Con un solo salto superò la distanza che lo separava dalla burmesiana battagliera e atterrò su di lei. Dalla gola gli uscì un verso selvaggio, ma era solo il disperato tentativo di nascondere le sue stesse lacrime amare. Il petto non gli aveva mai bruciato così forte.
Per favore …
Qualcuno …

Qualcosa lo colpì alla testa. Perse la presa sulla ragazza e si ritrovò davanti agli occhi l’asta rossa che si erigeva tra lui e la preda. Cercò di rimettersi in piedi, ma il burmesiano dalla pelliccia bianca, quello che l’aveva respinto per primo, lo incalzò e lo spinse lontano dagli altri. Respinse una seconda ondata di fuoco azzurro con la sua lancia, saltò in alto ed atterrò al suo fianco, poi saltò di nuovo e gli ricomparve alle spalle. Kuja sentì la sua presenza e si voltò, ma l’asta lo colpì di punta sullo stomaco. Il mostro in lui si agitò per il colpo, spinta dalla voglia di spezzare in due quell’arma e divorare il comandante dagli occhi azzurri fino all’ultimo osso. Ma rimase calmo. Soffiò verso il burmesiano e lo guardò mentre si preparava ad un affondo. “Quanti dei vostri cuccioli devo uccidere prima che mi fermiate, capitano?”
“Sei un mostro …”
“Indovinato. Meglio tardi che mai, suppongo”.
Il guerriero fece scivolare la mano destra sull’asta della lancia, ed una fiammata rossa ed oro si propagò per tutta la sua lunghezza, trasformando la lama in una piccola torcia sotto le grida di incoraggiamento degli altri soldati. Era un incantesimo di livello così infimo che avrebbe potuto bloccarlo anche il giorno stesso in cui era uscito dalla sua vasca nutrizionale, ma Kuja chiuse gli occhi e non si mosse. Si concentrò sui passi del nemico, uno, due, tre, quattro. L’aria gli portò sulla pelle il turbinare della lancia, poi l’affondo, e si preparò al bruciore nel petto con le palpebre serrate.
Ma non vi fu alcun bruciore.
O dolore.
La sensazione di calore gli passò accanto al viso senza fargli alcun male; percepì il soldato venire contro di lui, ma quando riaprì gli occhi il nemico era a cinque passi da lui, lo aveva superato e per poco non aveva perso l’equilibrio. “A che gioco stai giocando, mago?” gridò il burmesiano. “Non morivi dalla voglia di farti impalare?”
A quelle parole si guardò i piedi, e con orrore vide che non era stato il nemico a sbagliare l’affondo. Era stato lui ad essersi spostato. I suoi piedi erano in posizione ben diversa, e di certo non era così accucciato quando il burmesiano si era gettato contro di lui. Inspirò rapidamente cercando di capire cosa fosse successo, ma il nemico non gliene diede il tempo e con uno squittio da battaglia saltò in alto con le sue robuste zampe posteriori fino a raggiungere il soffitto della grotta, poi piombò su di lui. La sua lancia si accese di nuovo, stavolta di una folgore azzurra, e Kuja non chiuse gli occhi. Fissò la punta dell’arma avvicinarsi, costringendo i suoi piedi a rimanere inchiodati al pavimento ancora per qualche secondo mentre il cuore gli martellava nelle tempie. Strinse i denti, ed in quell’interminabile serie di secondi ignorò un fastidioso ronzio che gli correva lungo la spina dorsale, nella mente soltanto la lancia affilata.
Una barriera si frappose tra lui e la punta imbevuta di saette. Fu un solo attimo, ma un lampo di luce arancione esplose lungo la lama ed illuminò lo sguardo incredulo ed infuriato del suo nemico. Kuja scosse la testa e lanciò un grido quando vide le proprie mani sollevate, la luce difensiva che scivolava tra le dita.
No.
Abbassò le braccia nella disperazione, ma non fu abbastanza rapido. Il suo incantesimo si scontrò con quello del suo nemico, e la conflagrazione che ne seguì fu troppa per il suo corpo indebolito; non fece nulla per opporsi e si lanciò scagliare per la seconda volta in aria, affondando i denti nella mano traditrice. Sbatté contro una roccia e vide accanto a sé il burmesiano dagli occhi azzurri fare la sua stessa fine, cadendo sul pavimento in una nube di polveri, roccia e saette. Si lasciò andare al suolo ed ascoltò il gorgogliare della magia nelle sue vene mentre cercava di rigenerarlo, trattenne il fiato e si strinse le labbra per contenerla, ma il calore degli incantesimi risaliva su per la sua spina dorsale senza mai abbandonarlo. Decise di non alzarsi. Basta.
Vide tra le palpebre socchiuse l’altro guerriero sollevarsi in piedi nonostante le ferite e trascinarsi nella sua direzione. Kuja sentì sulla propria pelle una rapida folata d’aria e qualcosa sopra di lui che coprì la luce, ed in quell’istante si rese conto di dove era precipitato.
Se ne accorse anche il suo nemico, ma troppo tardi.
“Comandante Flatrey!” grido la burmesiana dall’altra parte della grotta, ed il sorcio fece un passo indietro che gli salvò la vita. Dal buio della grotta una gigantesca sagoma argentea scattò nella sua direzione con una velocità incredibile per la sua mole e due fila di denti si chiusero con uno scatto. Il burmesiano fu sbalzato verso i suoi compagni dalla pioggia di schegge rosse che fino all’attimo prima era la sua arma. Il drago sbatté le ali, poi si voltò di nuovo verso Kuja e sputò la punta della lancia ai suoi piedi. “Erano sette anni che volevo prendermi questa soddisfazione!”
Ringhiò verso gli assalitori, facendo tintinnare il suo collare. La sua enorme coda gli scivolò lungo la schiena e cercò di sollevarlo. “Hai messo su proprio un bello spettacolo, eh?”
“Sei … sei stata tu a proteggermi?” mormorò avvolto nel piacevole calore del contatto mentale.
“Con questo bel collare? Guarda che hai fatto tutto da solo!”
Rivide di nuovo la scena, i suoi piedi che si spostavano e le mani che lo difendevano senza che lui ne desse l’ordine. La mano destra sanguinava, ma percepiva i sottili strali dell’incantesimo che ancora si dipanavano tra le unghie.
“Ammettilo, sei un vigliacco. Nemmeno hai il coraggio di farti impalare da qualcun altro”.
“Io non volevo difendermi …” mormorò tra sé, chiedendosi perché stesse piagnucolando delle scuse con un drago.
“Ma il tuo corpo sì. Il capitano Flatrey ha detto qualcosa di sensato, una volta tanto: un essere vivente non può desiderare sul serio di morire. Non so, sarebbe come se l’acqua desiderasse bruciare … Le tue braccia hanno agito prima del cervello, e dovresti ringraziare il tuo padrone se quando ti ha assemblato è andato a risparmio sulla materia grigia!”
Mandò un ruggito dal fondo della gola e rivolse lo sguardo nero verso i burmesiani. Un paio si erano avvicinati per soccorrere il loro comandante e tutti tenevano le lance puntate in avanti come
se fossero pronti ad attaccare. La creatura argentea scivolò davanti a lui, e le ali si spalancarono al massimo per farla sembrare ancora più imponente; si tese verso gli assalitori fino quasi al limite concesso dalla catena, ed i potenti muscoli del collo si abbassavano e si alzavano ad ogni suo verso. Sbatté le ali due volte, mettendosi in posizione d’attacco. Una coltre di piume bianche, azzurre ed argentate gli coprì la visuale, e per qualche istante rimasero soltanto lui, la sagoma massiccia ed il velo creato dalle ali. E le sue parole, ovviamente.
Il calore aveva ripreso a soffiare la magia nelle sue ossa e nei muscoli; era di nuovo in piedi, come se lo scontro appena combattuto non fosse stato altro che una zuffa di poco valore. Tutto lo stava tradendo. Le dita, i piedi, i capelli, la pelle, persino le proprie unghie lo deridevano: lo sfidavano a ferirli di nuovo, ad andare avanti, si divertivano a vederlo combattere tanto per trovare una semplice fine prima di rimetterlo di nuovo in piedi, pronto per la battaglia proprio come Garland aveva sempre voluto. Il terrore lo prese quando capì che avrebbe potuto ferirsi, mordersi e punirsi a piacimento, ma che non sarebbe cambiato niente. E che la bestia adesso non era solo affamata. Era furiosa.
“Mi permetti di fare un rapido ma intenso riassunto della tua situazione? O trovi una rupe più alta da cui buttarti –e non ne vedo- oppure ti fai mettere un bel collarino dal nostro amico sorcio ed inizi a farti piacere l’idea di passare i prossimi anni a muffire qua sotto per farti studiare dai loro saggi” sbuffò, ruggendo di nuovo verso due burmesiani che avevano fatto ricomparire le loro strane catene. “Se sei indeciso ti posso consigliare la prima scelta? Perché non sono sicura di voler trascorrere un altro decennio o due in tua compagnia …”
“Ma io …”
“Però oggi è il tuo giorno fortunato, perché dall’alto della mia generosità ti concedo di nuovo di rivalutare la mia proposta …”
Da dietro le sue ali spiegate, Kuja vide i nemici separarsi ed assumere una nuova formazione. I lancieri si allargarono e si portarono ciascuno a due braccia di distanza dall’altro in posizione di semicerchio, stringendosi lentamente intorno alla dominatrice dei cieli. Una seconda fila, composta da non più di dieci soldati, si portò davanti ai compagni e tutti piegarono le gambe, come se fossero pronti a saltare. Davanti a tutti loro stava il comandante dalla pelliccia bianca, che questa volta impugnava una lancia per mano. I salti di quelle creature sotterranee erano riportati persino nei libri di storia di Gaya, e non era sicuro che il drago alla catena potesse opporre troppa resistenza. I pensieri della creatura giungevano alle sue orecchie come tanti campanelli, ma la furia rendeva il suono delle parole più sordo e confuso. “Non resisterai a quell’attacco”.
“La tua intuizione è così spiccata solo nei giorni dispari?”
“Quello che stai facendo non servirà a nulla! In catene o morto non uscirò comunque di qui!”
“Non se accetti la mia proposta!”
Si portò sulle zampe posteriori e la luce che proveniva dalla spaccatura illuminò il suo corpo fino a farlo sembrare una torcia evanescente ricoperta da squame che rilucevano come stelle. La sua testa triangolare si inarcò avidamente nell’aria e spalancò le fauci. Una venatura scarlatta corse lungo la catena e Kuja percepì un’ondata di energia correre dalla gola della creatura fino al punto in cui il metallo bianco si univa alla roccia, trasformando l’incantesimo nascente in nulla più che uno scintillio che si mescolò con i denti affilati. I burmesiani non si mossero, ma gli squittii furono coperti dal grido di battaglia del drago.
“Portami fuori da qui e ti darò quello che desideri. Anche la fine che insegui tanto”.
Kuja deglutì. “Lo faresti?”
“Perché no? Io ho solo da guadagnarci …” disse, e per un attimo vide la sua enorme lingua rossa saettare lungo le fauci “… saresti perfetto su un letto di cipolle selvatiche ed un po’ di salsa Qu”
Inspirò, totalmente rapito dal bellissimo manto di piume.
“Allora, sarai il mio partner per questa romantica fuga a due?”
“Non sono certo di poterci riuscire” mormorò alla vista degli anelli della catena che in quel momento pulsavano, assaporando tutta la magia della loro vittima. Ricordò l’orribile sensazione di quel metallo vicinissimo ai suoi polsi, e l’idea di abbattere i suoi incantesimi su quell’oggetto lo fece rabbrividire fino alla punta dei capelli. Il mostro rosso gli sorrise, quasi come un sussurro che lo invitava ad uscire. Per un attimo ebbe la sensazione delle sue lunghe dita sfiorargli l’incavo del collo e soffiargli nelle orecchie, ma l’ondata di calore emanata dal drago incatenato lo invase. “Hai quattro secondi, socio!”
Con un balzo si portò sulle sue spalle ed atterrò sulle squame argentate. I muscoli del collo si contraevano come forsennati sotto il collare; non c’era bisogno di alcun potere speciale per percepire lo spasmo che stava provando la creatura. Sotto di lui il corpo maestoso emanava calore, ma dall’anello bianco non proveniva altro che gelo. Avrebbe preferito morire che trascorrere anche solo un’ora con un simile strumento di tortura. Se ne avesse avuto uno, era certo che Garland lo avrebbe usato su di lui. A quel pensiero si morse la guancia ed iniziò a chiamare tutto il proprio potere. Le guardie burmesiane delle retrovie abbassarono le lance e caricarono come una sola persona.
“Tre”.
Non aveva mai concentrato in quel modo tutto il suo potere. Il sangue di drago si mescolò al suo e sentì la forza appena divorata premergli contro le tempie. Si riversò come un fiume in piena dentro di lui, ed il piccolo argine creato dagli incantesimi di rigenerazione si dissolse, abbandonato nella corrente impetuosa a cui si stava rapidamente lasciando andare. Le anime dei burmesiani uccisi comparvero nella caverna come attirate dal suo potere, e vide quelle sottili ed indistinte luci scintillargli davanti agli occhi prima che questi si riempissero di un caleidoscopio rosso, azzurro ed argentato. Per un attimo le sentì attraversare il suo stesso corpo per dargli forza, sottratte al potere dell’albero di Iifa per permettergli di liberare l’incantesimo che stava nascendo nel palmo della sua mano, privo di forza, bellezza o semplicemente di un nome. Le anime se ne andarono ma lasciarono il suo corpo in fiamme.
“Due”.
La prima linea di burmesiani, guidata dal comandante, saltò. Cercò di seguirli con lo sguardo, ma il vortice che prendeva forma sul palmo della sua mano trasformò il mondo intero in una cascata di scintille. La magia selvaggia saettò tra le dita, corse lungo le sue stesse braccia e l’odore di carne bruciata gli pervase le narici. Il mostro lanciò un grido dalla sua stessa gola, un suono che alle sue orecchie era indistinto tra il dolore ed il piacere; cercò di uscire un’ultima volta, ma Kuja si tuffò nella sua stessa magia e non rallentò. Il potere lampeggiò di nuovo, avvolgendogli le spalle ed il petto, e spirali di fumo azzurro si alzarono dal suo corpo e percorsero la catena bianca. Il drago emise un sibilo acuto, rabbioso, ma rimase sulle zampe posteriori sfidando le due ondate di lancieri.
“Uno”.
I muscoli della bestia per poco non lo sbalzarono via. Il drago lanciò un urlo quando la prima linea di burmesiani a terra si lanciò contro di lei; si curvò e le sue zampe anteriori atterrarono sul pavimento finché la roccia tremò sotto i suoi colpi. Con un movimento troppo rapido per una creatura della sua mole roteò la coda e schiacciò un topo sotto il suo peso, poi un altro, scatenando la sua potenza anche quando una lancia le si conficcò nella spalla. Una delle armi saettò nella sua direzione, ma la punta metallica si sciolse nell’enorme nube di incantesimi che stava divampando; ora nelle sue orecchie c’era solo il grido del cucciolo di drago mai nato che lo aveva trascinato in quel baratro, i suoi artigli informi che strisciavano dentro la sua testa reclamando la vita. Si lasciò vincere dall’odio della piccola creatura e fissò l’aria attraverso il fumo che gli stava lacerando la pelle. Il vento gli portò l’odore del capitano Flatrey in volo, lui ed i suoi lancieri che discendevano su loro due, le punte delle armi a poche braccia dal suo viso e dalla testa del drago; una delle punte scintillò in quel vortice, e Kuja si tuffò in avanti. Strinse il collare con tutte le sue forze, e persino la gigantesca catena si mosse contro di lui. Aprì la bocca per gridare e prendere aria, ma il suono svanì nella confusione mentre la magia si liberò nel metallo gelido, attraversando il suo corpo privo di difese come migliaia di aghi. La bestia rossa gli gridò di rompere il contatto, ma per tutta risposta Kuja si aggrappò al collare del drago e si lasciò avvolgere dalle fiamme mentre il potere degli incantesimi di Burmesia si nutriva di lui.
Un’esplosione di suoni gli invase la mente, poi il mondo divenne bianco e silenzioso. “Lo sapevo che lavorare con te era un affare, socio …”
Le parole giunsero distanti, come trasportate dalla risacca del mare. C’erano altre grida intorno. Non era sicuro di sapere a chi appartenessero. Sapeva solo che stava cadendo nel bianco, e non c’era un sopra o un sotto. O una destra ed una sinistra. Non era in nessun luogo, ma sapeva di aver perso la presa e stava precipitando lontano dalle grotte e dal drago. In quel bianco non c’era nulla, ma sapeva che se avesse chiuso gli occhi delle mani invisibili era lì, pronte ad afferrarlo e a trascinarlo nel buio. C’era qualcosa sotto la sua mano, e senza sapere cosa fosse vi affondò le unghie. Il drago disse qualcosa, ma il bianco prese il sopravvento ed i suoi sensi volarono oltre il cielo.

Inspirò.
Nelle sue orecchie c’era un suono meraviglioso. Era immerso nell’acqua del mare, e sotto di lui la sabbia si sfregava lungo gli scogli con una musica lieve, circolare. Andava e veniva, inseguiva i battiti del suo cuore. C’era la risacca.
Espirò.
Non era in acqua. Il bianco intorno a lui parlava di un vento gelido che correva lungo il suo corpo e gli lambiva il viso e le gambe. Il vento narrava, e portava storie. C’erano delle anime che volavano con lui; allungò una mano nel bianco luminoso per acchiappare quei ricordi, ma quelli sfuggirono dalle sue dita e corsero verso il cielo. Si abbandonò al loro vociare soffuso, alla ricerca di parole; ma nessuna anima si fermò al suo fianco e tutte volarono via, alla ricerca del luogo a cui appartenevano. Ignoravano l’angelo della morte.
Le chiamò. Implorò.
Volarono ancora più lontano, come minuscole creature alla vista di un predatore. Non voleva fare loro del male, non lo voleva davvero, ma quando il pensiero si protese di nuovo per chiamarle a sé esse svanirono in un lampo di luce nella luce. Il mondo bianco svanì e si ritrovò in piedi; la sua bocca era spalancata, e l’aria fredda entrò in lui fino ai polmoni, forte come un battito del suo cuore.
“Dormito bene, Jenoma? Che c’è, ti manca la colazione a letto?”
Prima di comprendere da dove venisse la voce guardò in basso e trattenne il fiato. Sotto di lui la grande forma del mare si estendeva a vista d’occhio; si voltò a destra ed a sinistra, ma la superficie blu colmava tutto il suo mondo. Piccole onde scintillavano nella luce del pomeriggio, così sottili che sembravano sbuffi bianchi lasciati da un pittore maldestro. Lui era lassù, probabilmente ad oltre duecento metri dall’acqua, ed i suoi occhi si riempirono di quel colore straordinario che nessun altro essere vivente osava attraversare. Il cielo era perfetto. Non si era mai accorto che fosse così bello. Aveva volato diverse volte su un’aereonave, ma quello …
“Puah, macchine umane!” brontolò il drago in risposta al suo pensiero. “Se gli uomini fossero nati per volare avrebbero avuto le ali! I bipedi dovrebbero starsene a terra a brucare l’erba. Alterare la linea dell’orizzonte è un privilegio delle razze superiori!”
Non la ascoltò. Lasciò che le sue parole gli fluissero nella mente, ma non aveva alcuna voglia di rispondere. Si riempì gli occhi di quel cielo straordinario, quella cupola azzurra che aveva visto tante volte dal basso o attraverso i vetri dell’Invincible. Si mise in piedi sulla schiena del drago, ed allungò un braccio verso l’alto alla ricerca della nuvola più vicina; quella gli sfuggì tra le dita, ma tutto il suo corpo fu avvolto da un vento freddo e sferzante che gli gonfiò il vestito e gli scompigliò i capelli. Respirò quell’aria, un’aria diversa da quella stantia di Tera. Vi era un profumo di anime in quel vento, e si abbandonò al loro piccolo vortice prima di seguirne il volo con lo sguardo.
Quello era il cielo.
E quello era il mare.
Li aveva visti tante volte, ma nessuna di quelle aveva più alcun valore. Forse nemmeno Garland li aveva mai visti davvero. Di sicuro nessun Jenoma.
“Bella vista, eh?” mormorò la creatura senza nascondere una vena d’orgoglio. “Adesso avrei voglia di sgranchirmi le ali, quindi tieniti stretto e evita di cadere, perché non ho alcuna intenzione di fare una virata fuori programma per venirti a riprendere, intesi? Ah, visto che ci sei perché non dai un senso a quelle belle unghiette lunghe che ti ritrovi e non mi dai una bella grattata? Quel collare mi ha regalato sette anni di insopportabile prurito!”
Kuja cercò di chiederle a cosa di preciso dovesse aggrapparsi, ma il drago impennò ed in pochi secondi il mare si fece ancora più piccolo e le nuvole gli vennero addosso; le potenti ali mossero l’aria e la trasformarono in un unico turbine che lo spinse indietro. Il suo corpo reagì al movimento improvviso e si adattò allo spostamento ed ai grandi muscoli della creatura che si innalzavano e si abbassavano sotto i suoi piedi; scivolò alla prima ascesa ed alla seconda, e per quanto sarebbe stato saggio sedersi e stringersi alle squame del collo decise di restare in piedi. Salirono ancora, oltre il velo di nubi, abbracciati dal sole e dalle lune gemelle che comparivano all’orizzonte, e quando il drago ruggì di piacere risposero solo l’eco, il vento ed il silenzio. Poi di colpo scese. Calarono in picchiata verso l’enorme specchio blu, tra due ali di uno stormo di uccelli multicolore che avevano commesso il tragico errore di finire sul sentiero della predatrice. I loro versi accompagnarono la discesa, poi il vento gli riempì di nuovo le orecchie.
Una piuma si staccò da una delle ali. Senza sapere il perché di quel gesto Kuja si sporse e la afferrò prima che svanisse nell’azzurro. Era delicata e morbida al tatto. Il bianco della radice sfumava nell’argento più puro, e l’estremità si tingeva del colore del mare. La sfiorò dimenticandosi di tutto, lasciando che il viso di Garland e le uova di drago svanissero trascinate dalla corrente delle sue stesse dita che accarezzavano la piuma delicata. La strinse tra pollice ed indice e le impedì di volare via. Rimase a fissarla per tutta la durata del volo e la protesse dagli schizzi d’acqua quando il drago scese in picchiata ed afferrò un piccolo cetaceo.
“Ti sei incantato?”
“Può essere …” rispose. Era tra cielo e mare, ed una piuma di drago tutta sua.
Sbuffò quando vide la costa avvicinarsi all’orizzonte. Avrebbe voluto dire al drago di voltare le spalle e tornare sull’acqua, ma quello scese in picchiata verso la sabbia scintillante ed atterrò tra gli schizzi delle onde. Sarebbe rimasto ancora sul suo dorso caldo, ma il brusco movimento di spalle della cavalcatura lo invitò a scendere. Si ritrovò in piedi sulla sabbia umida, e quando si specchiò nell’acqua vide un viso stanco e dimesso, con gli occhi scavati per la stanchezza e la paura. I suoi capelli erano ridotti ad un groviglio informe, e l’unica cosa bella di quell’immagine lacera era la piuma argentata che si ostinava a stringere tra le dita. Diede un calcio all’acqua, stizzito, e l’increspatura portò via quella figura derelitta e la fece annegare. Al suo posto comparve una sagoma lunga ed affusolata, con gli occhi neri come la notte e le ali aperte per far asciugare le piume. “Allora, com’è Gaya vista da lassù?”
Kuja guardò in alto. Il cielo era azzurro, sempre bellissimo, ma … non era il cielo. Era lontano. Una cupola celeste che adesso lo fissava come un estraneo. O forse non lo fissava affatto, minuscolo com’era su una terra dove camminavano milioni di umani. Persino il mare era diverso, e gli lambiva gli stivali con le sue onde fredde come se fosse un intruso nella sua immensità; aveva guardato tante volte la linea dell’orizzonte seduto su una spiaggia tra una missione e l’altra, chiedendosi cosa facesse tanto agitare la sua anima. Ma in quel momento l’orizzonte era solo una linea come tante altre, priva dello splendore che gli aveva riempito il cuore durante il volo. “Non avrei mai pensato che fosse così bella” sussurrò. “Da quaggiù non si vede nulla”.
“Ecco perché non sopporto i bipedi. Si credono i padroni di Gaya, ma la verità è che non capiscono assolutamente niente. Se il cielo è sopra la terra vuol dire che le creature del cielo sono fatte per dominare su quelle che strisciano al suolo. Ma agli umani sfuggono certe gerarchie elementari” sbuffò. “Se sei davvero l’angelo della morte dovresti smetterla di strisciare come un bipede qualsiasi; non capisco perché il tuo creatore non ti abbia dato un paio di ali, con questo tuo faccino morbido e quelle gambette candide sei il predatore meno credibile di tutta Gaya!”
“Eppure sono stato io a farti uscire di lì”.
“Punto numero uno: sono stata io a portarti fuori da quel carnaio mentre eri svenuto come un poppante. Punto numero due: se non fosse stato per me ti saresti lasciato catturare ed avresti trascorso il resto dei tuoi giorni a lagnarti e piagnucolare. Punto numero tre …” abbassò il collo, e la sua lunga testa scese proprio all’altezza del suo viso. Kuja si vide riflesso in quell’occhio nero, privo di sclera, grande quanto la sua stessa testa. La creatura soffiò dolcemente, ed il calore uscito dalle sue narici lo avvolse. “ … grazie”.
Cosa?
“Guarda che non sono stupida. Ho visto quello che sai fare. E noi draghi rispettiamo solo e soltanto il potere, tienilo a mente. Non devi nascondere quello che tieni dentro di te” disse, e la sua coda gli corse lungo il petto. “Usa tutto il potere che hai a disposizione e smettila di frignare. Se c’è qualcosa che ti indispettisce smettila di scappare o buttarti da un burrone, ma tira fuori i denti e distruggila. Che gusto c’è ad essere un angelo se poi non puoi ridurre in poltiglia e cambiare tutto quello che non ti piace?”
“Ci sono cose che non si possono cambiare …”. Non aveva portato a termine la missione. Aveva divorato soltanto un uovo, e la trasformazione che Garland desiderava era rimasta a metà, dentro di lui. Non appena avesse messo piede a Pandemonium, l’osservatore stellare lo avrebbe … Strinse convulsamente la piuma e soppresse il sorriso beffardo della bestia che lo scrutava da dentro il suo cuore, in attesa di vederlo contorcersi per la punizione. “Noi due avevamo un patto” disse, riconoscendo di nuovo la sua odiosa voce tremolante. “Non eri ansiosa di divorarmi?”
“Altroché, socio. Ma il patto era che avrei esaudito un tuo desiderio. Se è davvero la fine quella che cerchi, non hai che da dirmelo qui. Di nuovo. E sarà indolore, te lo prometto”.
Guardò il mare e l’orizzonte scintillante, chiedendosi quanto dolorosa sarebbe stata la punizione che gli avrebbe inferto il suo creatore. Aveva rovinato il suo piano, e forse dopo avergli impartito l’ennesima lezione lo avrebbe di nuovo rimandato nelle grotte di Gizamaluke a finire il lavoro.
Avrebbe fatto qualunque cosa, ma non quello. E l’osservatore stellare non era il tipo di creatura che avrebbe accettato un rifiuto, specie da un essere che in fondo non era altro che un suo strumento.
Poteva chiudere quella storia con una sola parola, e tutto sarebbe finito su quella spiaggia; fissò il cielo, chiedendosi se si suoi ricordi sarebbero potuti volare più in alto del drago, verso il luogo dove tutte le cose dovevano tornare. Se disciogliendosi tra le nuvole la sua anima avrebbe visto di nuovo il blu vero del mare e la sua estensione, e gli stormi degli uccelli marini al di sotto. Se per un ultimo istante avrebbe potuto riempire un’altra volta lo sguardo di quell’immensità e sentire il sole scaldare i suoi ricordi mentre un nuovo angelo sarebbe rinato su Tera.
Guardò di nuovo la piuma argentata, tutto ciò che rimaneva di quel volo.
Sorrise al pensiero che nessun Jenoma aveva mai visto una cosa simile. Che nessuno, nemmeno Garland, poteva capire cosa volesse dire il vento selvaggio che sferzava il viso quando il drago si alzava in volo. Lo spettacolo che il suo creatore stava allestendo si svolgeva su un palcoscenico molto più maestoso di quello che lui stesso avesse mai immaginato; se proprio doveva essere il primo burattino di quella farsa gli sarebbe piaciuto recitare la sua parte lassù, tra il cielo ed il mare.
Soltanto che non riusciva a vedere la fine di quella farsa. O meglio, non una che gli piacesse sul serio.
Che gusto c’è ad essere un angelo se poi non puoi ridurre in poltiglia e cambiare tutto quello che non ti piace?
Gli sarebbe piaciuto cambiare le cose. Ma non sapeva come fare. O aveva paura. O entrambe le cose. Gli sarebbe piaciuto non morire per forza alla fine di quello spettacolo e lasciarsi il mostro che poteva diventare alle spalle, dentro di sé, così nascosto che nessuno avrebbe mai più potuto vederlo. Gli sarebbe piaciuto vedere un’altra creatura nel riflesso delle onde. Una che non piangesse, al contrario di quella che gli ricambiava lo sguardo nell’acqua bassa. Quel giorno era stato fortunato ed aveva incontrato una creatura che gli aveva mostrato una terza via d’uscita, ma non ci sarebbe stata in eterno.
“Perché no?”
La voce argentata aveva una nota divertita mentre scorreva nella sua mente.
“Aspetta, in eterno no, adesso non ci allarghiamo … però se ogni tanto avessi bisogno di qualcuno che ti prenda per bene a calci nel sedere puoi contare sul mio aiuto. Certo, se invece preferisci farmi da cena tutti questi problemi non si pongono …” sussurrò, e lo spinse tra le sue zampe anteriori con la coda possente. “Allora, questo desiderio? In caso non te ne fossi accorto si sta facendo ora di pranzo, e se sto troppo a stomaco vuoto divento davvero insopportabile!”
Un’altra strada.
Era quello ciò che desiderava davvero. Una via di fuga da quel palcoscenico che non gli apparteneva, o anche solo un sentiero che lo conducesse lontano dall’ingranaggio che Garland aveva messo in moto. Certo, per percorrerla doveva rimanere in vita.
Attendere. Ancora.
Non era certo di averne le forze. Quello che aveva in quel momento erano solo un corpo difficile da controllare ed un’anima confusa e vigliacca.
E una piuma.
La portò all’altezza del viso, rendendosi conto che non aveva trovato il coraggio nemmeno di lasciarla al vento. L’aria cercava di strappargliela di mano e consegnarla al cielo, ma per tutta risposta la strinse con più forza. Guardò di nuovo l’immagine riflessa, e senza saperne il motivo preciso se la legò tra i capelli e fissò tra le increspature l’effetto strano, un po’ asimmetrico, che quella piccola luce argentata gettava tra i suoi capelli.
In fondo nessun Jenoma aveva una piuma di drago, o aveva mai sfiorato il blu del cielo. Ed in quel momento si accorse di aver trovato ciò che desiderava dal profondo del cuore.
“Possiamo volare di nuovo?”

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