21ottobre 2102
Base Spaziale di Vigorovich, Monti Urali
E venne il giorno.
Già dalle prime luci dell’alba, la base si tramutò
in una immensa sala visite, con persone giunte da ogni nazione della Terra per
dare l’ultimo saluto ai gloriosi pionieri spaziali, ormai prossimi ad
imbarcarsi.
Molti di loro erano già arrivati nei giorni
precedenti, e la maggior parte aveva potuto incontrarsi coi propri cari fuori
della base, ma la stampa voleva una immagine da immortalare, e così, nonostante
le proteste di alcuni, era stata organizzata quella specie di messinscena, con
il milione di coloni raggruppati attorno alla nave in un trionfo di abbracci,
lacrime, singhiozzi e saluti struggenti.
Dal punto di vista sociale, culturale e biografico,
i selezionati erano quanto di più disomogeneo si potesse immaginare.
C’erano europei ed africani, asiatici e americani,
singoli individui e interi nuclei famigliari, ragazzini di appena undici anni e
arzilli sessantenni.
L’età media dei coloni si aggirava sui trentacinque
anni; il più anziano, escludendo un paio di membri dell’equipaggio, aveva
settantuno anni, il più giovane appena dieci.
Molti di loro vivevano a Vigorovich
ormai da quasi un anno, durante il quale erano stati addestrati nelle
discipline più diverse, volte a prepararli tanto alle difficoltà del viaggio
spaziale quanto ad affrontare ciò che li attendeva una volta giunti a
destinazione.
Erano stati nominati dei capi e dei sottocapi, senza
tener troppo conto della comunità o del luogo di provenienza, attorno ai quali
all’arrivo si sarebbero dovuti radunare piccoli gruppi, così da rendere più
facile il primo processo di colonizzazione.
Lontano da tutto quel trambusto, il Comandante Alloway si era accomodato molto presto in plancia di
comando, per prendere familiarità una volta per sempre sia con i comandi della
nave che con i suoi sottoposti.
Oltre a O’Neill, gli altri
membri del ponte erano i capitani Crawford e Neeson,
i tenenti Duvalier e Santana e, per finire, il
secondo ufficiale Stavros, un pedante Tenente-Colonnello
greco e membro più anziano dell’equipaggio.
«Dove si è cacciato O’Neill?»
domandò Alloway entrando in plancia e vedendo che il
suo secondo non era presente
«Se dovessi scommettere» ironizzò Duvalier. «Direi nel laboratorio scientifico».
Il laboratorio scientifico si trovava a poppa della nave, nel
centralissimo Ponte D, ed era il regno personale della dottoressa Alexandra Connor.
Nonostante avesse solo ventinove anni quella ragazza
si era fatta una gavetta mostruosa per poter essere selezionata per la
missione, e fin dal giorno in cui aveva messo piede all’università non si era
mai concessa un attimo di respiro.
Nello spazio di pochi anni era diventata uno dei
fari della comunità scientifica internazionale, con decine di pubblicazioni che
spaziavano dalla biologia all’etologia, fino alla paleobotanica.
Era convinta che questo le sarebbe stato più che
sufficiente per conquistarsi un posto a bordo dell’Aurora, ma mai si sarebbe
aspettata che la nominassero a capo della divisione scientifica.
Aveva supervisionato attentamente tutto il possibile
riguardo alla biodiversità di Celestis, per quanto le informazioni pervenute
dalle sonde esplorative discese sul pianeta non fossero mai state
particolarmente accurate, e in base ai risultati ottenuti si era preoccupata di
selezionare tutti i corredi genetici delle piante e degli animali terrestri che
avevano maggiori probabilità di adattarsi alle nuove condizioni di vita,
rinchiusi ora all’interno di un immenso archivio dati che occupava da solo
un’intera ala della nave.
Quando Chris andò a trovarla la dottoressa aveva già
svestito il camice bianco per indossare invece la speciale uniforme biomedica che per i successivi cento anni, a meno di
occasionali risvegli che nel suo caso sarebbero stati al massimo due o tre,
sarebbe stato il suo unico vestito.
Vedendola così acconciata, il giovane
Tenente-Colonnello sorrise divertito. Anche con indosso quella palandrana
stretta, grossa e liscia da film sadomaso riusciva ad essere bellissima, per
non parlare delle sue curve così generose, che l’uniforme metteva bene in
risalto.
«Se hai finito di sbavarmi dietro» lo rimproverò
all’ennesimo sguardo voglioso. «Immagino che avrai del lavoro da fare.»
«Alla partenza mancano ancora tre ore. E fino a che
i passeggeri non si saranno imbarcati, qui dentro sarà una noia mortale.»
«In questo caso, ce l’ho io del lavoro da fare.
Quindi dacci un taglio con quelle occhiate da maniaco e lasciami lavorare.»
«Accidenti. Sei sempre un pezzo di ghiaccio. Sorridi
alla vita».
Alexandra sospirò: ma come aveva fatto a mettersi
con un tipo simile?
«Talvolta ho come l’impressione che tu consideri
tutto questo una specie di gioco.
Voglio darti una notizia, non lo è.
Qui si parla del più grande traguardo mai conseguito
dall’umanità. Stiamo per fare qualcosa che nessun’altro hai mai fatto. Nelle
nostre mani potrebbe esserci il futuro della nostra specie. E tu ti ci
diverti?»
«Non vedo cosa ci sia di male. Credo che tutti
quelli che si trovano a bordo di questa nave abbiano come primo fine quello di
sperimentare un’avventura che fino a qualche tempo fa andava oltre i più
sfrenati sogli.
D’altra parte, se non c’è la voglia di godersi la
vita, che ci stiamo andando a fare a sessanta anni luce da qui?».
Alexandra restò un momento basita, ma se non altro
quel discorso servì a ricordarle perché, nonostante tutto, amasse quello
scapestrato.
«Avanti, ora
lasciami fare.» gli sorrise lasciandogli toccare i suoi lunghi capelli scuri
«Devo sistemare ancora delle cose prima della partenza.» ma non ebbe il tempo
di farlo.
Chris tornò sul ponte di comando con l’aria decisamente soddisfatta e
sollevata, e sembrava talmente felice che Alloway non
volle guastargli l’umore rimproverandolo per il suo ritardo.
«Spero tu ti sia divertito. Dovrà bastarti per cento
anni.»
«È stato solo un antipasto.» ironizzò il primo
ufficiale «Una cosa così, per sciogliere il ghiaccio».
Il Comandante sorrise, quindi infilò le cuffie per
rispondere ad una comunicazione.
«Aurora, qui controllo missione. A che punto siamo
coi preparativi?»
«Qui Aurora, equipaggiamento e provviste già
caricate. Imbarco effettivi al 90%.»
«Ricevuto, Aurora. Inizio procedure di decollo tra
quarantacinque minuti.»
«Quarantacinque minuti.» mugugnò Alloway
alzandosi dalla sua poltrona «Ho giusto il tempo di andare a fare un ultimo
giro.
Voi intanto fate gli ultimi cotnrolli.»
«Sì, Comandante.» risposero in coro i suoi uomini.
Lasciata a sua volta la plancia, il Comandante
perlustrò prima le stive e vari corridoi, per assicurarsi personalmente che
ogni cosa fosse in ordine, quindi scese in uno degli hangar, dove nonostante la
maggior parte dei coloni fosse già al proprio posto l’attività era ancora assai
frenetica.
Con l’approssimarsi del lancio quasi tutti avevano
ormai preso posto all’interno della propria capsula, ognuna delle quali aveva
trascritta alla base il nome dell’occupante ed il suo numero di matricola, così da facilitare
sia le procedure d’imbarco che il riconoscimento; non erano particolarmente
comode, per quanto quello fosse un problema decisamente relativo visto il modo
in cui avrebbero viaggiato
Gli ultimi ritardatari si stavano salutando, altri
tergiversavano, colti da un momentaneo timore ma consapevoli che, a quel punto,
tornare indietro non era più possibile.
Una coppia di giovani neosposi, che considerava quella
una sorta di luna di miele, si complimentarono l’uno con l’altra per aver
tenuto fede alla promessa a suo tempo stipulata, bramando un arrivo il più
rapido possibile per poter finalmente consumare quel matrimonio tanto
aspettato.
Un ricco scapolo pieno di soldi salutò soavemente la
sua ultima conquista, promettendole di costruire assieme a lei un personale
nido d’amore nello scorcio più bello del mondo che stavano andando a
colonizzare.
Due ragazzi, due adolescenti, conosciutisi durante
il corso di preparazione, uniti dalla passione comune per la scienza e la
tecnologia che li aveva spinti a convincere i propri genitori ad imbarcarsi in
quell’impresa, si scambiarono un ultimo batter di mani, ed elettrizzati come
non mai si infilarono ognuno nella propria capsula ansiosi tanto di
sperimentare per la prima volta l’ibernazione quanto di poter finalmente vedere
coi loro occhi quel nuovo mondo che tanto avevano sognato.
Un padre di famiglia tranquillizzò la propria
figlia, che alla vista della capsula ed al pensiero di doversi separare dai
suoi genitori aveva iniziato a fare un po’ di capricci, e dopo averla
finalmente convinta ad entrare disse arrivederci anche alla propria giovane
moglie, al quale promise scherzando che avrebbe cercato di non sognare altre
donne per i successivi cento anni, ma che all’arrivo avrebbe ovviamente preteso
un adeguato premio di fedeltà.
Un ragazzino giapponese appassionato di astronauti e
di militari si trovò a tu per tu con il Comandante, facendogli, passato il
momento di stupore, un saluto che Alloway
amichevolmente ricambiò.
«Come ti chiami?»
«Hiroki, signore.»
«Sei pronto per questa avventura?»
«Certamente. Non vedevo l’ora».
Hiroki poi chiese al
gentile ufficiale di poter essere il primo a mettere piede su Celestis, poiché
questo era sempre stato il suo sogno.
«Ti prometto che sarai il primo di tutti che si
sveglierà» gli disse Alloway guardandolo con
tenerezza. «E che il primo piede umano a toccare il suolo di Celestis sarà il
tuo.»
«Grazie signore!» rispose Hiroki
tutto eccitato per poi tornare dai suoi genitori a comunicare loro la grande
notizia.
Il Comandante tornò sul ponte di comando giusto in tempo per ricevere
dai suoi subalterni la notizia che anche l’ultima capsula si era ormai chiusa,
e che tutti erano al loro posto.
«Controllo, qui Aurora. Procedure di imbarco e di
carico completate con successo. Pronti per la partenza.»
«Qui controllo, carico e imbarco confermati.
Accensione dei motori tra cinque minuti.»
«Azionare meccanismi di sicurezza per i passeggeri.»
«Procedure di sicurezza iniziate, Comandante.» disse
Santana.
Le capsule dei passeggeri, già chiusesi
automaticamente appena i loro occupanti vi erano entrati, vennero tutte
sigillate, e ad un comando dell’ufficiale Santana entrarono in funzione i
dispositivi per la criostasi, che agganciandosi al
corpo in vari punti strategici agivano anche da efficaci cinture di sicurezza.
Era il segnale che tutto era ormai pronto.
Molti si guardarono attorno, cercando di scorgere le
espressioni e gli sguardi dei propri vicini per cercare di leggervi
un’esitazione, o magari un momento di comprensibile panico; qualsiasi cosa che
potesse farli sentire uguali, per quanto uguali inevitabilmente lo fossero, se
non altro per il destino che d’ora in avanti avrebbe accomunato tutti loro.
Il segretario generale Kashimura
volle dare il suo personale saluto ai pionieri dello spazio, comparendo sia sul
ponte di comando che su ognuno dei piccoli monitor che si trovavano all’interno
di ogni capsula. A tutti loro augurò buona fortuna, complimentandosi per
l’ennesima volta per quanto avevano fatto per arrivare fino a lì, e rammentando
loro quanto incommensurabilmente storico e rivoluzionario fosse il passo che
stavano per compiere, che avrebbe reso tutti loro degli eroi sulla terra e i
padri di una nuova civiltà sul pianeta che stavano andando a costruire.
«Questo è il vostro Mayflower. Voi siete i Padri
Pellegrini del ventiduesimo secolo. Nelle vostre mani alberga il futuro della
nostra specie. Una lunga e difficile traversata vi attende nello sconfinato
oceano stellare, ma la ricompensa per questi cento anni di peregrinazione che
vi attendono sarà un nuovo mondo tutto per voi.
Ancora una volta, a nome dell’intera razza umana, vi
porgo i miei migliori ringraziamenti, e vi auguro buona fortuna.
Che Dio sia con voi».
In plancia di comando tutti, alzatisi in piedi,
fecero il saluto, tornando a sedersi appena la comunicazione cessò.
«Controllo missione ad Aurora. Iniziare processo di
ibernazione.»
«Controllo, qui Aurora. Ibernazione in corso».
Bastò un istante, e subito tutti novecentomila e
oltre passeggeri dell’Aurora si sentirono come scivolare via, risucchiati
all’interno del proprio corpo, abbandonandosi senza quasi resistere all’oblio
del sonno criogenico.
«Controllo, qui Aurora» disse alla radio Duvalier. «Processo di criostasi
portato a termine con successo. Sono tutti a nanna, Comandante.»
«Molto bene.»
«Aurora, qui controllo Missione. Iniziamo fase di
rotazione».
Il terreno di colpo parve muoversi sotto i piedi del
Comandante e dei suoi uomini, che ebbero appena il tempo di azionare le proprie
cinture di sicurezza prima che l’immensa rampa di lancio che stava sotto i loro
piedi passasse dalla posizione orizzontale a quella verticale, proiettando la
prua dell’Aurora dritta verso il cielo.
Anche una nave avveniristica come l’Aurora
necessitava di una potente spinta per poter vincere la gravità e superare
l’atmosfera, ma a differenza del passato tale spinta ora era fornita
direttamente dal pianeta, grazie ad un immenso circolo magico tracciato lungo
tutta la pista, talmente grande da essere indistinguibile se visto da terra,
che, funzionando come un elastico, avrebbe sparato la nave ed il suo equipaggio
dritti nello spazio.
«Controllo missione, qui Aurora.» disse O’Neill «Siamo in posizione. Motori pronti e operativi. Tutti
i parametri nella norma».
Alloway trasse un respiro,
stringendo un po’ più forte i braccioli della sua poltrona.
«Controllo. Siamo pronti al lancio.»
«Aurora, qui controllo Missione. Lancio tra sessanta
secondi».
Furono i sessanta secondi più lunghi della vita di
ciascuno dei sette membri del ponte, scanditi silenziosamente ma
inesorabilmente dal timer al centro della plancia.
Il cerchio magico sopra il quale l’astronave sostava
iniziò a risplendere, generando un mare di energia trattenuta faticosamente dai
sigilli spirituali apposti sul simbolo.
«Aurora, inizia l’ultimo countdown. Dieci, nove,
otto, sette, sei…».
Alloway si passò una mano
sui baffi.
Stavros strinse forte il
pendente ad Omega che era stato del suo trisnonno.
Santana recitò una preghiera indios.
Duvalier pensò al fratello
che non lo aveva voluto seguire.
Neeson fece il saluto
rivolto alle stelle.
Crawford chiuse gli occhi.
O’Neill restò immobile,
guardando il cielo a metà tra la rassegnazione e la sfida.
«Beh…» mormorò. «Ti
saluto, Terra. Stammi bene».
«Tre… due…
uno…».
I fermi spirituali saltarono, e l’energia a lungo
pressata ed incatenata all’interno del simbolo esplose nella forma di una
violentissima spinta verso l’alto, che unita ai motori a combustione d’argento
scagliò l’Aurora verso l’alto con la forza e la velocità di un proiettile.
Il baccano fu assordante, così come l’onda d’urto,
che riuscì a far tremare persino i furgoni delle numerose emittenti televisive
e le migliaia di curiosi assiepati nella zona panoramica a tre chilometri dalla
pista, e tutti, alzato lo sguardo, poterono scorgere nitidamente quella specie
di piccola cometa che, come ergendosi su di una montagna di luce che si
innalzava sempre di più, sfrecciava a tutta velocità verso le stelle circondata
da un suggestivo bagliore rossastro.
Tutti i membri del ponte erano stati addestrati a
dovere, e non vi era nessuno tra loro che non avesse sperimentato almeno una
volta un vero viaggio spaziale, ma una tale propulsione ed una simile potenza
di spinta era qualcosa che andava oltre la loro immaginazione.
«Controllo, qui Aurora!» gridò Alloway
per vincere il baccano dell’abitacolo che tremava «Stiamo lasciando
l’atmosfera! Per ora tutto regolare!».
Fortunatamente, non accadde nulla, e quando le
nuvole si diradarono e l’atmosfera fu perforata, si aprì sull’Aurora lo
spettacolo, sempre nuovo e sempre magnifico persino per dei piloti navigati
come loro, dell’oceano stellare, che per cento anni sarebbe stata la loro casa,
il loro personale mare sconfinato da solcare in direzione della loro nuova,
futura casa.
Come l’atmosfera fu alle spalle, il controllo della
nave tornò interamente nelle mani del suo equipaggio. Anche la mancanza di
gravità si fece subito sentire, ma per questo c’erano le cinture, anche perché
l’anello stabilizzatore non poteva essere azionato con la nave in movimento.
«Razzi propulsori operativi.» disse Santana
«Motori a piena funzionalità» disse sorridendo
Crawford. «Cantano come usignoli».
Lasciatasi la Terra alle spalle, la nave puntò
dritta verso la stazione spaziale internazionale, giusto in tempo per assistere
al distacco ed alla partenza delle altre due navi che li avrebbero accompagnati
nel loro lungo viaggio tra le stelle.
«Contatto stabilito.» disse la radio «Ci ricevete,
Aurora?»
«Vi riceviamo, Chevolek e Simpan. È bello sentire la vostra voce.»
«Altrettanto, Aurora. Spero che la partenza non sia
stata troppo traumatica.»
«Pubblicitaria, direi. Volete avere voi l’onore?»
«Con piacere. Cercheremo di ricambiare alla prima
occasione».
Nell’attesa che le altre due navi sorelle entrassero
nei rispettivi gate, il Comandante Alloway e i suoi ufficiali rivolsero un ultimo sguardo alla
Terra, che ora era laggiù, azzurra e bellissima.
Non l’avrebbero rivista mai più.
Lo sapevano, lo avevano sempre saputo. Ma non
potevano non provare un’enorme tristezza a quel pensiero.
«Qualcuno vuole dire qualcosa?» chiese Alloway.
Nessuno se la sentì di dire nulla.
Troppo forti e complessi erano i sentimenti che
ognuno di loro stava provando, impossibili da esprimere a parole.
Ciò nonostante, il Comandante tergiversò più del
necessario, anche dopo che la Simpan e la Chevolek ebbero fatto il salto, e per interminabili minuti
il tempo parve essersi fermato sul ponte di comando dell’Aurora.
Solo al terzo richiamo dalla torre di controllo, che
domandava il perché di quel ritardo, Alloway ed i
suoi si riscossero, tornando, seppur con l’animo in subbuglio, al proprio
lavoro.
«Controllo Missione, qui Aurora. Iniziamo le
procedure per il Gate.»
«Aurora, qui Controllo Missione. Ricevuto. Buona
fortuna».
L’equipaggio si mise al lavoro, ed in pochi secondi,
dinnanzi alla nave, comparve una specie di foro, uno squarcio aperto su di
un’altra dimensione, un altro piano di esistenza, o forse una via tra le stelle
concessa dal cosmo ai pionieri dello spazio.
«Gate in apertura.» disse Neeson
«Porta d’ingresso stabile.» disse Duvalier.
Prima destinazione, prima tappa di quel lungo
viaggio, la stella Aeneas, distante quattro anni
luce.
«Punto d’uscita confermato. Coordinate inserite.»
disse Santana.
Il foro crebbe sempre più, riempiendosi di strani
colori che andavano dal verde al viola profondo, tramutandosi infine in una
sorta di imbuto.
«Gate aperto.» disse
ancora Neeson «Tunnel stabile.»
«Tunnel stabile, Comandante.» disse O’Neill «Pronti al salto al suo ordine».
Alloway rivolse un ultimo
sguardo alla Terra, chiudendo un momento gli occhi.
«Aurora. Saltare!».
Vi fu un’accelerazione improvvisa, quasi un secondo
lancio, e la nave venne come risucchiata all’interno del tubo, che
immediatamente dopo si richiuse.
Il Comandante e tutto il suo staff non riuscirono a credere ai propri
occhi.
La simulazione e le immagini inviate dalle sonde
inviate a suo tempo ad esplorare Celestis avevano dato l’idea di quello che
avrebbero visto, ma lo spettacolo, stupendo ed insieme spaventoso, che si
stagliava ora oltre le vetrate protettive della nave, andava al di là di
qualsiasi concezione.
Tutto attorno a loro vedevano lo spazio, quasi
indistinguibile tale era la velocità con cui lo stavano solcando, ma era come
stare ad osservarlo attraverso l’immagine, indistinta ma bellissima, di un
caleidoscopio. Sembrava di trovarsi sul serio all’interno di un tunnel, una
fessura tra i mondi ridondante di quei colori scuri, ma non per questo meno
stupendi.
Tutti sentirono uno strano calore dentro i loro
corpi. Allora era così che appariva il Gate visto
dall’interno.
Loro erano i primi a poterlo osservare, e forse più
del futuro atterraggio questa esperienza sarebbe rimasta indelebile nei loro
cuori per il resto della vita.
Passato l’iniziale, ma assolutamente comprensibile,
momento di smarrimento, Alloway e gli altri tornarono
ognuno al proprio compito, anche perché ormai era giunto anche per loro il
momento di mettersi a dormire.
«Tutti gli indicatori nella norma. Il tunnel è
stabile.» disse O’Neill
«Nessuna traccia di danni strutturali o problemi di
ogni sorta.» disse Stavros «La nave ha superato il
test a pieni voti.»
«Passo le funzioni di rotta e di navigazione al computer
di bordo.» disse Crawford
«Molto bene.» disse il Comandante e togliendosi il
cappello «Ora signori, non so voi, ma io sono un po’ stanco. Avrei proprio
voglia di una bella dormita.»
«Condivido.» ironizzò O’Neill
«Ho dormito molto poco in quest’ultimo mese. Qualche anno di riposo non mi
dispiacerebbe affatto».
Liberatisi dalle cinture, ed auguratisi
vicendevolmente un piacevole riposo, i membri dell’equipaggio si spostarono nel
vasto anticamera del ponte di volo, una grande stanza cilindrica con al centro
una consolle di comando, raggiungendo ognuno la propria capsula.
A differenza di quelle riservate a civili,
attivabili tramite i comandi centrali, quelle riservate all’equipaggio avevano
dei timer personalizzati. Per evitare di sprecare inutilmente vent’anni di vita
erano state formate otto squadre, ognuna di dodici persone, che a rotazione si
sarebbero occupate del mantenimento della nave nel corso delle varie pause di
volo che si sarebbero susseguite nel corso del tempo.
Prima di entrare nelle rispettive capsule, ognuno
degli otto membri del ponte, che avrebbero di volta in volta avuto il comando
dei singoli turni risvegliandosi uno per volta, impostarono i timer per potersi
risvegliare allo scoccare del proprio, quindi, uno dopo l’altro, calarono a loro
volta nel sonno.
Gli ultimi ad entrare furono Alloway
ed O’Neill, e fu solo per caso che il giovane primo
ufficiale si accorse che il suo Comandante aveva impostato il proprio timer ad
appena 1500 giorni, molti meni di quelli stabiliti dal piano di volo.
«Signore, il primo turno è il mio. Non c’è bisogno
che vi svegliate anche voi.»
«Questa è la mia nave, ragazzo» rispose gentilmente
ma fermamente il Comandante. «Voglio averla sotto controllo per tutto il tempo
che mi sarà possibile. Non mi và di lasciare a voi giovinastri incarichi troppo
delicati».
Non vi era superbia né altro nelle parole di Alloway, e di sicuro non aveva mai dubitato neanche per un
secondo dell’affidabilità dei suoi uomini, ma ciò nonostante ad O’Niell dispiacque la scelta che il capitano sembrava
determinato a compiere.
«Signore. Così perderà vent’anni di vita.»
«Che vuoi che sia. Vent’anni di più o di meno. Sono
un prezzo accettabile se in cambio posso ottenere di far sbarcare questo
milione di persone sane e salve nella loro nuova casa».
O’Neill sorrise, colpito
da tanta dedizione.
Aveva ancora molto da imparare da quell’uomo.
«Siete un vero esempio per tutti noi, Comandante. Vi
ammiro tantissimo.»
«Ah, basta. Non facciamo i romantici. E ora, con il
tuo permesso, credo che mi ritirerò.»
«Certamente.» rise il giovane «Buonanotte,
Comandante.»
«Anche a Lei, Tenente-Colonnello».
Entrambi a quel punto entrarono nelle proprie
capsule, lasciandosi rapidamente ammaliare dal piacevole oblio del sonno
criogenico.
Pochi attimi dopo, le luci si spensero, le porte si
chiusero, e a bordo dell’Aurora calò il più totale silenzio.
Nota dell’Autore
Eccomi qua!^_^
Come promesso, eccoci
al secondo capitolo di questa raccolta.
Con questo secondo
capitolo si chiude la parte introduttiva, e con essa questi lunghi e complessi
capitoli, che d’ora in poi faranno solo delle sporadiche apparizioni nel corso
di eventi particolarmente importanti.
D’ora in poi, infatti,
la maggior parte dei capitoli saranno piuttosto brevi, talvolta persino delle flash-fic, senza un vero e proprio filo logico che non sia
il lungo viaggio dell’Aurora verso Celestis.
Non so ancora quanto
lunga sarà questa raccolta, per il semplice fatto che cercherò di convertire in
racconto tutto ciò che mi verrà in mente.
Ringrazio tutti quelli
che leggono, e la mia fedelissima Flea per la sua
attenta recensione
A presto!^_^
Carlos Olivera