Hope In The Infinity

di Carlos Olivera
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo - 20 ottobre 2102 ***
Capitolo 2: *** 21 ottobre 2102 - Giorno 1 ***
Capitolo 3: *** Giorno 136 ***



Capitolo 1
*** Prologo - 20 ottobre 2102 ***


20 ottobre 2102

Base Spaziale di Vigorovich, Monti Urali

 

Il comandante Jonas Alloway si alzò dalla sua poltrona nell’aula magna della base spaziale per far rifiatare un po’ la schiena e restituire sensibilità alle gambe, andandosi ad affacciare dalle vetrate della sala che guardavano in direzione della rampa di lancio.

L’Aurora era lì, bella e maestosa, con il suo elegante profilo, la fusoliera liscia come la seta scintillante di nero, i potenti propulsori magici, e il suo possente anello stabilizzatore, che al momento giusto si sarebbe aperto come il petalo di un fiore e, girando su sé stesso, avrebbe garantito alla nave la stessa forza di gravità del suolo terrestre.

Se ci pensava ancora gli sembrava incredibile.

Era la nave più avveniristica e tecnologicamente avanzata che la razza umana avesse mai realizzato, il suo sogno e la sua speranza. Ed era al suo comando.

Suo sarebbe stato il compito di condurla alla destinazione, a quel lontano sistema solare dove li attendeva un nuovo pianeta, un nuovo mondo da chiamare casa, sul quale avrebbero costruito una nuova civiltà.

Avevano scelto lui per i suoi trascorsi nell’aeronautica e le numerose spedizioni spaziali all’attivo, ma soprattutto perché non aveva legami, benché a tutti gli ufficiali e membri dell’equipaggio fosse stato concesso di portare fino a cinque famigliari.

L’unico legame che avesse mai avuto, la sua adorata Gloria, lo aveva lasciato ormai da molti anni, prima di potergli donare la gioia di un figlio, e da allora non aveva conosciuto altra donna, né il suo cuore le emozioni di essere padre.

Tutti sapevano che era un viaggio senza ritorno, per chissà quanti secoli, e nessuno se l’era sentita di mettere in mano a qualcuno con dei rimpianti per ciò che avrebbe lasciato la prima nave coloniale della storia dell’umanità.

Erano serviti anni di preparazione, addestramento, formazione pratica e psicologica, ma alla fine era arrivato il momento della partenza.

Quella riunione serviva a dettare le ultime regole, a fare il punto sulla situazione e a ripassare i fondamentale, poi, allo scoccare delle ventitre, sarebbe stata l’ora della verità.

Oltre al comandante erano presenti all’incontro il generale Bielof, capo della sicurezza nazionale del governo russo, il segretario di stato americano Gardner, il segretario generale ONU Kashimura e il dottor Snogiev, che oltre ad essere il direttore di quella piccola base persa nel mezzo della steppa russa trasformatasi da un giorno all’altro nel centro del mondo sarebbe stato anche il rappresentante della delegazione scientifica che si sarebbe imbarcata sull’Aurora.

Completavano il gruppo il colonnello Jules Chimon e il signor Steven Williamson, che avrebbero rappresentato rispettivamente l’Agenzia ed il personale civile sia durante il viaggio interplanetario che, soprattutto, una volta arrivati su Celestis.

Fatti scorrere gli occhi oltre la pista, senza neanche tendere troppo lo sguardo, si potevano intravedere le sterminate folle di persone riunitesi per assistere in diretta allo storico evento, e Alloway non faticò ad immaginare che tra di essi vi fossero molti di quelli che si erano prenotati per un posto a bordo dell’Aurora, o di una delle sue due sorelle, ma che il fato aveva voluto lasciare da parte favorendo altri.

«Questa cosa si è tramutata in una specie di spettacolo.» mugugnò Bielof quasi contrariato

«Non vedo come potrebbe essere altrimenti» disse bonariamente Williamson col suo spiccato accento inglese e sistemandosi i grossi baffi grigi. «Stiamo parlando di un evento senza precedenti nella storia dell’umanità. Al loro posto sarei euforico anch’io.»

«Se vuole scambiare il posto con qualcuno di loro è ancora in tempo.» sorrise Chimon

«Volete scherzare? Sarò anche stato un ministro di sua maestà, ma come tutti ho fatto la coda dalle tre del mattino davanti agli uffici del ministero per potermi iscrivere alle liste.

Non esiste cosa che accenda di più i miei vecchi neuroni del pensiero che presto potrò vedere con i miei occhi la nascita di una nuova civiltà.»

«Secondo me non sarà molto diversa da questa.» commentò Snogiev, da pragmatico e schietto scienziato quale era «La società e la civiltà dipendono dall’uomo, e non certo dal pianeta su cui vengono costruite.»

«A tal proposito, c’è ancora una cosa che non mi è del tutto chiara. Per quale motivo la Terra? La Chelovek e la Sympan partiranno dalla stazione orbitale, il che come abbiamo visto semplifica di molto le procedure di lancio, oltre ad abbattere i costi.

Non sarebbe stato più comodo, e certamente meno dispendioso, fare altrettanto?».

Il segretario generale si tolse un momento le lenti rotonde, lucidandole con la sua cravatta.

«Vede, professore. La Aurora è l’unica delle tre navi coloniali realizzata interamente con finanziamenti pubblici internazionali.

Le Nazioni Unite volevano dare un segno dello spirito universale e transnazionale di questa nave in particolare, e pertanto si è convenuto che farla partire proprio dalla Terra fosse il modo per dare maggior risalto a questo concetto.»

«Non potete biasimare l’Europa e la Russia se hanno voluto fare le cose a modo loro.» commentò lapidario Chimon «La realizzazione della sola Aurora è costata oltre quattrocento miliardi di euro ma nonostante ciò americani, giapponesi e britannici rappresentano da soli quasi il 30% del personale civile selezionato per imbarcarsi.»

«Perché Giappone, Stati Uniti e Gran Bretagna sono le nazioni che hanno versato il maggior numero di contributi per la realizzazione del progetto.» replicò Gardner «Si era detto subito mi pare che il numero di posti disponibili sarebbe stato inversamente proporzionale alla popolazione effettiva e alla quantità di fondi investiti.»

«Accidenti.» disse Williamson con un sorriso sconfortato «Se è questo lo spirito con cui dobbiamo partire, direi che si comincia male.»

«Il professore ha ragione.» intervenne il comandante «Evitiamo di battibeccare su queste frivolezze politiche almeno in questa occasione».

Tutti a quel punto si fecero un esame di coscienza e decisero di darci un taglio, almeno con le parole.

«Mi pare che tutte le questioni siano state sistemate.» disse il dottor Snogiev «Qualcuno ha ancora qualche domanda da fare?».

Nessuno aprì bocca, e tutti si limitarono a scambiarsi dei brevi sguardi, quasi dei fugaci messaggi d’addio. Il dottore si alzò dalla sua poltrona.

«Molto bene. In questo caso, la riunione è aggiornata.

Mi raccomando di essere tutti puntuali all’incontro con la stampa di domani mattina. E se non avremo occasione di vederci ancora prima dell’ora fatidica, auguro fin da subito a quelli di voi che domani non saranno con noi a bordo ogni felicità.

È stato un piacere conoscervi e lavorare con voi».

A quel punto la riunione ebbe fine e, alla spicciolata, uno alla volta tutti se ne andarono.

 

La serata trascorse tranquilla, senza strepiti, almeno fino a quando non ebbe inizio il grande ricevimento organizzato per salutare come si conveniva i gloriosi pionieri dello spazio, come mass media e autorità politiche avevano preso a chiamare i prossimi occupanti dell’aurora.

La scelta del luogo per ospitare i festeggiamenti fu quanto mai simbolica, poiché si svolsero nella enorme, sconfinata stiva di carico del quinto settore, in una delle tante camere di contenimento che avrebbero ospitato la maggior parte dei coloni.

Sembrava di trovarsi in una sorta di macchina del tempo, o in un qualche avveniristico laboratorio di ricerche.

File e file di capsule per la crioconservazione, ordinatamente disposte su di una interminabile sequenza di file orizzontali che correvano lungo tutti e due i lati più lunghi della stanza, dal pavimento fino al soffitto.

Ognuna di quelle stanze poteva ospitare poco meno di diecimila persone, e ogni stiva di ognuno dei dieci ponti aveva spazio sufficiente ospitare dieci stanze. In totale, novecentonovantanovemila e novecento posti, ovvero tutti quelli destinati alla popolazione civile selezionata per la spedizione.

Le restanti cento capsule, riservate all’equipaggio, erano disseminate qua in là nei punti strategici della nave, soprattutto in prossimità del ponte di comando.

Ogni aspetto dell’ingegneria del veicolo era stato accuratamente pensato per combaciare alla perfezione con tutti gli altri, dall’ampiezza dei corridoi, alla posizione dei montacarichi fino allo spazio, davvero esiguo, tra una capsula e l’altra nelle stive di carico.

Per quell’occasione si scelse di dare libero accesso ai giornalisti, se non altro perché quella era davvero l’ultima volta in cui sarebbe stato possibile parlare da vicino con coloro che dal giorno successivo avrebbero avuto nelle loro mani la sorta di quasi un milione di persone.

Solo il comandante e gli ufficiali più alti in grado erano stati invitati, e le attenzioni erano ovviamente tutte per loro.

Il dottor Alexei Snogief non aveva mai avuto un particolare feeling con la stampa, ma per quella sera decise di fare un’eccezione concedendosi, prima che iniziasse la cena, alle domande dei giornalisti.

«Ci spieghi una cosa, dottore.» domandò l’inviata della CNN «Il pianeta Celestis è relativamente vicino rispetto ad altri pianeti potenzialmente abitabili scoperti nel corso degli ultimi anni. Allora come mai saranno necessari tutti questi anni per raggiungerlo?»

«Anche volendo escludere i principi della teoria della relatività, stiamo comunque parlando di un pianeta distante settanta anni luce dalla Terra. Il principio che regola gli spostamenti dell’Aurora come delle altre due navi coloniali è basato sull’uso del warp. Immagino sappiate tutti che la Terra, così come ogni altro corpo celeste, è caratterizzato dalla presenza di un nucleo che genera continuamente un flusso di energia.

Solitamente questa energia non si allontana mai troppo dalla superficie terrestre, ma a bordo di tutte e tre le navi è stato installato un innovativo generatore capace di ricreare lo stesso spettro energetico emesso dai nuclei.»

«Volete dire che questo dispositivo genera la magia?» chiese un giornalista del Washington Post

«No ovviamente. Ad oggi non siamo neanche vicini a creare artificialmente la magia. Si limita ad imitare la frequenza energetica normalmente prodotta dalla magia.

In questo modo la nave è in grado di stabilire un ponte energetico tra un pianeta ed un altro, creando una sorta di tunnel spaziale, ed è attraverso questo tunnel che è in grado di viaggiare. Non è la velocità della luce, né una qualche sorta di varco dimensionale, ma ad oggi costituisce senza dubbio il modo più veloce e sicuro di muoversi nello spazio, tenendo conto anche del fatto che l’afflusso energetico che scorre in questi tunnel annulla la teoria della relatività. Il principio è più o meno lo stesso del viaggiare all’interno di una galleria pressurizzata che scorre sotto il livello del mare.»

«Ma se è davvero così, perché ci vuole tutto questo tempo?»

«Dovete tenere presente che stiamo comunque parlando di una procedura di una complessità mai vista.

Persino i più potenti calcolatori e sistemi di immagazzinamento dati necessitano di enormi quantitativi di energia per poter funzionare a questi livelli, e per quanto potenti i generatori che alimentano le navi coloniali non sono inesauribili.

L’Aurora e le sue compagne possono viaggiare di tunnel in tunnel per circa quattro anni, ma poi è necessario che i generatori, incluso quello che replica lo spettro energetico, vengano ricaricati.

Per fare questo ci serviremo di comete, pianeti e altri corpi celesti, di cui assorbiremo parte dell’energia. Si tratta però comunque di una operazione molto lunga e complessa, che richiederà almeno sei mesi per poter essere completata.

A conti fatti, dei circa cento anni che stimiamo saranno necessari per raggiungere Celestis, solo un’ottantina saranno effettivamente spesi nel viaggio vero e proprio.»

«E i computer riusciranno a gestire tutto questo da soli?» domandò un giornalista francese

«No, ovviamente. Sono procedure troppo complesse perché i sistemi della nave, per quanto avanzati, possano espletarle da soli. Ad ogni sosta una parte dell’equipaggio sarà risvegliato dal sonno criogenico. Oltre a supervisionare il rifornimento di energia si approfitterà di questi momenti per svolgere necessari lavori di manutenzione e controllo.»

«E siete davvero sicuri che tutto andrà come previsto?» chiese quasi con provocazione la giornalista della CNN «Non avete calcolato che potrebbero esserci degli incidenti?»

«Tutte e tre le navi sono state realizzate con le più recenti conoscenze scientifiche e tecnologiche» replicò il dottore con una punta di orgoglio «Ogni elemento è stato attentamente considerato, senza tralasciare nulla. In questo momento quelle navi, e l’Aurora in particolare, sono quanto di più sicuro vi sia su questo pianeta.»

«Però avete fatto firmare a tutti i selezionati per la spedizione dei documenti che esentavano i costruttori e i finanziatori del progetto da ogni responsabilità.»

«Anche se vi fanno firmare l’assicurazione della vostra macchina non è per forza detto che dobbiate avere un incidente.

È solo una forma di tutela legale».

Per fortuna nessun altro si pensò di fare domande troppo imbarazzanti e l’intervista poté proseguire senza altri momenti di tensione.

 

Il comandante si chiamò fuori dai festeggiamenti quasi subito, e abbandonata la stiva andò a rifugiarsi in quello che, per i prossimi cento anni, sarebbe stato il centro del suo mondo, la plancia di comando.

Provò un certo senso di smarrimento nel sedersi sulla poltrona del capitano, la sua poltrona, per poi guardarsi attorno scorrendo con gli occhi le varie postazioni che correvano lungo la consolle di comando.

In tutto, otto sedili, otto persone scrupolosamente selezionate, con le quali avrebbe passato più tempo che con chiunque altro in tutta la sua vita, per amore o per forza.

Una parte li aveva scelti lui personalmente, e tra questi il suo secondo.

Si chiamava Chris, Chris O’Neill, ed era stato uno dei più giovani membri dell’aeronautica militare americana ad ottenere la qualifica di tenente-colonnello, inoltre aveva al suo attivo numerose missioni spaziali, tutto questo prima ancora di aver compiuto i trentacinque anni.

Jonas lo aveva conosciuto quando ancora era una giovane e promettente recluta, e praticamente lo aveva plasmato lui, dopo averne intravisto il talento e averlo preso sotto la propria ala insegnandogli tutto quello che sapeva.

Fino all’ultimo era stato indeciso se chiedergli o meno di seguirlo in quella missione, perché sapeva quante cose un giovane come lui potesse avere sulla Terra per le quali avrebbe preferito restare, e invece era stato proprio lui a presentarsi una mattina nel suo ufficio a Washington chiedendogli di mettere una buona parola per farlo ammettere alla spedizione.

Forse sotto certi aspetti Chirs era ancora un po’ immaturo, ebbro di quella forse un po’ eccessiva autostima tipica dei giovani, ma sapeva il fatto suo, e nelle manovre di avvicinamento ai corpi celesti aveva dimostrato un’abilità che non lo rendeva secondo a nessuno.

Quella missione, si era detto il comandante nel momento di dare l’assenso definitivo, sarebbe stata un’ottima occasione per fargli comprendere meglio il peso del comando, poiché una volta arrivati a destinazione le persone carismatiche in grado di fungere da guida sarebbero servite come il pane.

Quasi per caso, in quel momento fu proprio il giovane tenente colonnello O’Neill a comparire dalle porte automatiche alle spalle della poltrona di comando, con quella sua aria un po’ serafica, quei capelli paglierini portati un po’ più lunghi del normale e quelle sottili lenti da studioso, che portava più per accrescere il proprio fascino che per reale necessità.

«Comandante.» disse sorpreso di trovare lì il suo superiore

«Guarda la combinazione. Stavo giusto pensando a te.»

«Mi dispiace di averla disturbata. Pensavo fosse ancora al ricevimento.»

«Non vado matto per queste pompose cerimonie politiche, lo sai. Avevo voglia di stare un po’ da solo.»

«La capisco» sorrise Chris. «È così anche per me».

Entrambi si guardarono nuovamente attorno, imprimendo nella loro mente ogni più piccolo aspetto, componente ed anfratto del ponte. Avrebbero avuto un sacco di tempo, forse anche più del necessario, per conoscerne ogni singola parte fin nei dettagli più insignificanti, ma era sempre meglio essere preparati in anticipo.

«È tutta un’altra cosa rispetto al simulatore, dico bene?»

«Eccome, signor comandante.»

«Se vuoi puoi ancora tirarti indietro.»

«Sta scherzando? Fare una cosa del genere è stato il mio sogno fin da quando portavo i pannolini.»

«Non ti spaventa l’idea di non tornare mai più? Di non rivedere più il tuo pianeta?»

«Ho ottenuto di poter portare con me i miei genitori. A parte loro non ho mai avuto molti amici. Troppo tempo speso sui libri, o a rubare le ragazze degli altri. Quanto al pianeta, ammetto che un po’ mi mancherà. Ma l’idea di un mondo nuovo tutto da costruire è più che sufficiente a farmi dimenticare la tristezza.»

«Immagino sia più o meno il pensiero di buona parte della gente che ha accettato di far parte di questa missione. In tutta onestà, non sono ancora riuscito a capire bene perché, per cosa e per chi stiamo facendo tutto questo.»

«Lo facciamo per il futuro della nostra specie. Ormai siamo in troppi sul pianeta, e Celestis è il luogo più vicino dove poter instaurare una nuova colonia. Non stiamo ovviamente ancora parlando di evacuazione di massa, e probabilmente ciò non accadrà mai. È solo un primo passo. Un esperimento.»

«Un esperimento di cui però non potremo mai rendere conto. La distanza tra la Terra e Celestis è troppo grande per un contatto diretto, e mi gioco la carriera che tra cent’anni, quando saremo arrivati, qui saranno lontani ancora anni luce dal riuscire a trovare un modo per velocizzare il viaggio.»

«Se vuole sapere come la penso, questo è un faro nella tempesta. Se non fosse stato per il risalto mediatico avuto dalla vicenda è probabile che il progetto sarebbe finito nella spazzatura tempo fa per via dei costi esorbitanti. A conti fatti esistono modi più economici ed efficaci per risolvere il problema della sovrappopolazione nel breve periodo. È probabile che per molti secoli non si vedrà più una spedizione colonizzatrice di questa portata».

Jonas sorrise, passandosi una mano sulla rada barba color fieno che gli contornava la bocca.

«A proposito di ragazze» ammiccò. «Come và con la dottoressa Connor

«Non c’è male.» glissò il giovane «Anche se alle volte è un po’ fredda.»

«È una scienziata. Se non lo fosse non sarebbe normale.»

«Alle volte ho come l’impressione di contare meno dei suoi adorati embrioni. Che poi a cosa serviranno? Celestis ha un ecosistema complesso e diversificato, e che oltretutto non è neppure troppo diverso dal nostro. L’unica cosa che manca è la vita intelligente. A che pro portarsi tutti questi campioni per farli crescere laggiù?»

«Immagino servano a non far dimenticare a noi o ai nostri discendenti da dove proveniamo. Gli uomini sono dei sentimentali, dovresti saperlo meglio di chiunque altro. Staremo pure scappando da questo pianeta estasiati dall’idea di costruire un mondo tutto nostro, ma in fin dei conti la Terra è stata la nostra casa per centinaia di migliaia di anni. Le piante, gli animali, e persino i patrimoni storici ed artistici. Tutto ciò ci permetterà di non dimenticare mai chi siamo davvero.»

«Immagino abbia ragione.» disse Chris sistemandosi gli occhiali.

In quel momento, l’orologio di bordo segnò lo scoccare della mezzanotte del 21 ottobre 2102.

«Beh.» sussurrò il comandante «Ci siamo, infine. Buon Giorno della Rinascita, tenente-colonnello O’Neil.»

«Anche a lei, comandante».

 

 

Nota dell’Autore

Salve a tutti!^_^

Sono nuovo di questa sezione, ma non di questo genere di racconti.

Questa storia, la cui lunghezza è tutta da stabilire, costituisce una via di mezzo tra un prequel ed un missing  moments del mio racconto “Tales Of Celestis”. Benché l’originale sia pubblicato all’interno della sezione Fantasy ho voluto inserire questa storia in questo fandom per via delle sue tematiche, maggiormente improntate alla fantascienza che al sci-fi che invece contraddistingue Tales.

La storia, come si può intuire, è ambientata a bordo della nave Aurora, che nell’originale Tales trecento anni prima portò i primi esseri umani su Celestis dopo un viaggio durato più di un secolo.

Inizialmente doveva essere una storia breve narrata dal punto di vista del comandante Alloway, ma poi ho pensato che sarebbe stato molto più efficace ed interessante farne una raccolta di brevi corti (alcuni vere e proprie flash fic, un genere a me del tutto nuovo) senza un vero e proprio filo logico.

Non so di preciso cosa ne verrà fuori, ma spero di riuscire a realizzare qualcosa degno di nota, anche perché devo dire che l’idea mi entusiasma non poco.

A breve la prima storia, che racconterà la partenza vera e propria dalla Terra.

A presto!^_^

Carlos Olivera

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Capitolo 2
*** 21 ottobre 2102 - Giorno 1 ***


21ottobre 2102

Base Spaziale di Vigorovich, Monti Urali

 

E venne il giorno.

Già dalle prime luci dell’alba, la base si tramutò in una immensa sala visite, con persone giunte da ogni nazione della Terra per dare l’ultimo saluto ai gloriosi pionieri spaziali, ormai prossimi ad imbarcarsi.

Molti di loro erano già arrivati nei giorni precedenti, e la maggior parte aveva potuto incontrarsi coi propri cari fuori della base, ma la stampa voleva una immagine da immortalare, e così, nonostante le proteste di alcuni, era stata organizzata quella specie di messinscena, con il milione di coloni raggruppati attorno alla nave in un trionfo di abbracci, lacrime, singhiozzi e saluti struggenti.

Dal punto di vista sociale, culturale e biografico, i selezionati erano quanto di più disomogeneo si potesse immaginare.

C’erano europei ed africani, asiatici e americani, singoli individui e interi nuclei famigliari, ragazzini di appena undici anni e arzilli sessantenni.

L’età media dei coloni si aggirava sui trentacinque anni; il più anziano, escludendo un paio di membri dell’equipaggio, aveva settantuno anni, il più giovane appena dieci.

Molti di loro vivevano a Vigorovich ormai da quasi un anno, durante il quale erano stati addestrati nelle discipline più diverse, volte a prepararli tanto alle difficoltà del viaggio spaziale quanto ad affrontare ciò che li attendeva una volta giunti a destinazione.

Erano stati nominati dei capi e dei sottocapi, senza tener troppo conto della comunità o del luogo di provenienza, attorno ai quali all’arrivo si sarebbero dovuti radunare piccoli gruppi, così da rendere più facile il primo processo di colonizzazione.

Lontano da tutto quel trambusto, il Comandante Alloway si era accomodato molto presto in plancia di comando, per prendere familiarità una volta per sempre sia con i comandi della nave che con i suoi sottoposti.

Oltre a O’Neill, gli altri membri del ponte erano i capitani Crawford e Neeson, i tenenti Duvalier e Santana e, per finire, il secondo ufficiale Stavros, un pedante Tenente-Colonnello greco e membro più anziano dell’equipaggio.

«Dove si è cacciato O’Neill?» domandò Alloway entrando in plancia e vedendo che il suo secondo non era presente

«Se dovessi scommettere» ironizzò Duvalier. «Direi nel laboratorio scientifico».

 

Il laboratorio scientifico si trovava a poppa della nave, nel centralissimo Ponte D, ed era il regno personale della dottoressa Alexandra Connor.

Nonostante avesse solo ventinove anni quella ragazza si era fatta una gavetta mostruosa per poter essere selezionata per la missione, e fin dal giorno in cui aveva messo piede all’università non si era mai concessa un attimo di respiro.

Nello spazio di pochi anni era diventata uno dei fari della comunità scientifica internazionale, con decine di pubblicazioni che spaziavano dalla biologia all’etologia, fino alla paleobotanica.

Era convinta che questo le sarebbe stato più che sufficiente per conquistarsi un posto a bordo dell’Aurora, ma mai si sarebbe aspettata che la nominassero a capo della divisione scientifica.

Aveva supervisionato attentamente tutto il possibile riguardo alla biodiversità di Celestis, per quanto le informazioni pervenute dalle sonde esplorative discese sul pianeta non fossero mai state particolarmente accurate, e in base ai risultati ottenuti si era preoccupata di selezionare tutti i corredi genetici delle piante e degli animali terrestri che avevano maggiori probabilità di adattarsi alle nuove condizioni di vita, rinchiusi ora all’interno di un immenso archivio dati che occupava da solo un’intera ala della nave.

Quando Chris andò a trovarla la dottoressa aveva già svestito il camice bianco per indossare invece la speciale uniforme biomedica che per i successivi cento anni, a meno di occasionali risvegli che nel suo caso sarebbero stati al massimo due o tre, sarebbe stato il suo unico vestito.

Vedendola così acconciata, il giovane Tenente-Colonnello sorrise divertito. Anche con indosso quella palandrana stretta, grossa e liscia da film sadomaso riusciva ad essere bellissima, per non parlare delle sue curve così generose, che l’uniforme metteva bene in risalto.

«Se hai finito di sbavarmi dietro» lo rimproverò all’ennesimo sguardo voglioso. «Immagino che avrai del lavoro da fare.»

«Alla partenza mancano ancora tre ore. E fino a che i passeggeri non si saranno imbarcati, qui dentro sarà una noia mortale.»

«In questo caso, ce l’ho io del lavoro da fare. Quindi dacci un taglio con quelle occhiate da maniaco e lasciami lavorare.»

«Accidenti. Sei sempre un pezzo di ghiaccio. Sorridi alla vita».

Alexandra sospirò: ma come aveva fatto a mettersi con un tipo simile?

«Talvolta ho come l’impressione che tu consideri tutto questo una specie di gioco.

Voglio darti una notizia, non lo è.

Qui si parla del più grande traguardo mai conseguito dall’umanità. Stiamo per fare qualcosa che nessun’altro hai mai fatto. Nelle nostre mani potrebbe esserci il futuro della nostra specie. E tu ti ci diverti?»

«Non vedo cosa ci sia di male. Credo che tutti quelli che si trovano a bordo di questa nave abbiano come primo fine quello di sperimentare un’avventura che fino a qualche tempo fa andava oltre i più sfrenati sogli.

D’altra parte, se non c’è la voglia di godersi la vita, che ci stiamo andando a fare a sessanta anni luce da qui?».

Alexandra restò un momento basita, ma se non altro quel discorso servì a ricordarle perché, nonostante tutto, amasse quello scapestrato.

«Avanti,  ora lasciami fare.» gli sorrise lasciandogli toccare i suoi lunghi capelli scuri «Devo sistemare ancora delle cose prima della partenza.» ma non ebbe il tempo di farlo.

 

Chris tornò sul ponte di comando con l’aria decisamente soddisfatta e sollevata, e sembrava talmente felice che Alloway non volle guastargli l’umore rimproverandolo per il suo ritardo.

«Spero tu ti sia divertito. Dovrà bastarti per cento anni.»

«È stato solo un antipasto.» ironizzò il primo ufficiale «Una cosa così, per sciogliere il ghiaccio».

Il Comandante sorrise, quindi infilò le cuffie per rispondere ad una comunicazione.

«Aurora, qui controllo missione. A che punto siamo coi preparativi?»

«Qui Aurora, equipaggiamento e provviste già caricate. Imbarco effettivi al 90%.»

«Ricevuto, Aurora. Inizio procedure di decollo tra quarantacinque minuti.»

«Quarantacinque minuti.» mugugnò Alloway alzandosi dalla sua poltrona «Ho giusto il tempo di andare a fare un ultimo giro.

Voi intanto fate gli ultimi cotnrolli

«Sì, Comandante.» risposero in coro i suoi uomini.

Lasciata a sua volta la plancia, il Comandante perlustrò prima le stive e vari corridoi, per assicurarsi personalmente che ogni cosa fosse in ordine, quindi scese in uno degli hangar, dove nonostante la maggior parte dei coloni fosse già al proprio posto l’attività era ancora assai frenetica.

Con l’approssimarsi del lancio quasi tutti avevano ormai preso posto all’interno della propria capsula, ognuna delle quali aveva trascritta alla base il nome dell’occupante ed il  suo numero di matricola, così da facilitare sia le procedure d’imbarco che il riconoscimento; non erano particolarmente comode, per quanto quello fosse un problema decisamente relativo visto il modo in cui avrebbero viaggiato

Gli ultimi ritardatari si stavano salutando, altri tergiversavano, colti da un momentaneo timore ma consapevoli che, a quel punto, tornare indietro non era più possibile.

Una coppia di giovani neosposi, che considerava quella una sorta di luna di miele, si complimentarono l’uno con l’altra per aver tenuto fede alla promessa a suo tempo stipulata, bramando un arrivo il più rapido possibile per poter finalmente consumare quel matrimonio tanto aspettato.

Un ricco scapolo pieno di soldi salutò soavemente la sua ultima conquista, promettendole di costruire assieme a lei un personale nido d’amore nello scorcio più bello del mondo che stavano andando a colonizzare.

Due ragazzi, due adolescenti, conosciutisi durante il corso di preparazione, uniti dalla passione comune per la scienza e la tecnologia che li aveva spinti a convincere i propri genitori ad imbarcarsi in quell’impresa, si scambiarono un ultimo batter di mani, ed elettrizzati come non mai si infilarono ognuno nella propria capsula ansiosi tanto di sperimentare per la prima volta l’ibernazione quanto di poter finalmente vedere coi loro occhi quel nuovo mondo che tanto avevano sognato.

Un padre di famiglia tranquillizzò la propria figlia, che alla vista della capsula ed al pensiero di doversi separare dai suoi genitori aveva iniziato a fare un po’ di capricci, e dopo averla finalmente convinta ad entrare disse arrivederci anche alla propria giovane moglie, al quale promise scherzando che avrebbe cercato di non sognare altre donne per i successivi cento anni, ma che all’arrivo avrebbe ovviamente preteso un adeguato premio di fedeltà.

Un ragazzino giapponese appassionato di astronauti e di militari si trovò a tu per tu con il Comandante, facendogli, passato il momento di stupore, un saluto che Alloway amichevolmente ricambiò.

«Come ti chiami?»

«Hiroki, signore.»

«Sei pronto per questa avventura?»

«Certamente. Non vedevo l’ora».

Hiroki poi chiese al gentile ufficiale di poter essere il primo a mettere piede su Celestis, poiché questo era sempre stato il suo sogno.

«Ti prometto che sarai il primo di tutti che si sveglierà» gli disse Alloway guardandolo con tenerezza. «E che il primo piede umano a toccare il suolo di Celestis sarà il tuo.»

«Grazie signore!» rispose Hiroki tutto eccitato per poi tornare dai suoi genitori a comunicare loro la grande notizia.

 

Il Comandante tornò sul ponte di comando giusto in tempo per ricevere dai suoi subalterni la notizia che anche l’ultima capsula si era ormai chiusa, e che tutti erano al loro posto.

«Controllo, qui Aurora. Procedure di imbarco e di carico completate con successo. Pronti per la partenza.»

«Qui controllo, carico e imbarco confermati. Accensione dei motori tra cinque minuti.»

«Azionare meccanismi di sicurezza per i passeggeri.»

«Procedure di sicurezza iniziate, Comandante.» disse Santana.

Le capsule dei passeggeri, già chiusesi automaticamente appena i loro occupanti vi erano entrati, vennero tutte sigillate, e ad un comando dell’ufficiale Santana entrarono in funzione i dispositivi per la criostasi, che agganciandosi al corpo in vari punti strategici agivano anche da efficaci cinture di sicurezza.

Era il segnale che tutto era ormai pronto.

Molti si guardarono attorno, cercando di scorgere le espressioni e gli sguardi dei propri vicini per cercare di leggervi un’esitazione, o magari un momento di comprensibile panico; qualsiasi cosa che potesse farli sentire uguali, per quanto uguali inevitabilmente lo fossero, se non altro per il destino che d’ora in avanti avrebbe accomunato tutti loro.

Il segretario generale Kashimura volle dare il suo personale saluto ai pionieri dello spazio, comparendo sia sul ponte di comando che su ognuno dei piccoli monitor che si trovavano all’interno di ogni capsula. A tutti loro augurò buona fortuna, complimentandosi per l’ennesima volta per quanto avevano fatto per arrivare fino a lì, e rammentando loro quanto incommensurabilmente storico e rivoluzionario fosse il passo che stavano per compiere, che avrebbe reso tutti loro degli eroi sulla terra e i padri di una nuova civiltà sul pianeta che stavano andando a costruire.

«Questo è il vostro Mayflower. Voi siete i Padri Pellegrini del ventiduesimo secolo. Nelle vostre mani alberga il futuro della nostra specie. Una lunga e difficile traversata vi attende nello sconfinato oceano stellare, ma la ricompensa per questi cento anni di peregrinazione che vi attendono sarà un nuovo mondo tutto per voi.

Ancora una volta, a nome dell’intera razza umana, vi porgo i miei migliori ringraziamenti, e vi auguro buona fortuna.

Che Dio sia con voi».

In plancia di comando tutti, alzatisi in piedi, fecero il saluto, tornando a sedersi appena la comunicazione cessò.

«Controllo missione ad Aurora. Iniziare processo di ibernazione.»

«Controllo, qui Aurora. Ibernazione in corso».

Bastò un istante, e subito tutti novecentomila e oltre passeggeri dell’Aurora si sentirono come scivolare via, risucchiati all’interno del proprio corpo, abbandonandosi senza quasi resistere all’oblio del sonno criogenico.

«Controllo, qui Aurora» disse alla radio Duvalier. «Processo di criostasi portato a termine con successo. Sono tutti a nanna, Comandante.»

«Molto bene.»

«Aurora, qui controllo Missione. Iniziamo fase di rotazione».

Il terreno di colpo parve muoversi sotto i piedi del Comandante e dei suoi uomini, che ebbero appena il tempo di azionare le proprie cinture di sicurezza prima che l’immensa rampa di lancio che stava sotto i loro piedi passasse dalla posizione orizzontale a quella verticale, proiettando la prua dell’Aurora dritta verso il cielo.

Anche una nave avveniristica come l’Aurora necessitava di una potente spinta per poter vincere la gravità e superare l’atmosfera, ma a differenza del passato tale spinta ora era fornita direttamente dal pianeta, grazie ad un immenso circolo magico tracciato lungo tutta la pista, talmente grande da essere indistinguibile se visto da terra, che, funzionando come un elastico, avrebbe sparato la nave ed il suo equipaggio dritti nello spazio.

«Controllo missione, qui Aurora.» disse O’Neill «Siamo in posizione. Motori pronti e operativi. Tutti i parametri nella norma».

Alloway trasse un respiro, stringendo un po’ più forte i braccioli della sua poltrona.

«Controllo. Siamo pronti al lancio.»

«Aurora, qui controllo Missione. Lancio tra sessanta secondi».

Furono i sessanta secondi più lunghi della vita di ciascuno dei sette membri del ponte, scanditi silenziosamente ma inesorabilmente dal timer al centro della plancia.

Il cerchio magico sopra il quale l’astronave sostava iniziò a risplendere, generando un mare di energia trattenuta faticosamente dai sigilli spirituali apposti sul simbolo.

«Aurora, inizia l’ultimo countdown. Dieci, nove, otto, sette, sei…».

Alloway si passò una mano sui baffi.

Stavros strinse forte il pendente ad Omega che era stato del suo trisnonno.

Santana recitò una preghiera indios.

Duvalier pensò al fratello che non lo aveva voluto seguire.

Neeson fece il saluto rivolto alle stelle.

Crawford chiuse gli occhi.

O’Neill restò immobile, guardando il cielo a metà tra la rassegnazione e la sfida.

«Beh…» mormorò. «Ti saluto, Terra. Stammi bene».

«Tre… due… uno…».

I fermi spirituali saltarono, e l’energia a lungo pressata ed incatenata all’interno del simbolo esplose nella forma di una violentissima spinta verso l’alto, che unita ai motori a combustione d’argento scagliò l’Aurora verso l’alto con la forza e la velocità di un proiettile.

Il baccano fu assordante, così come l’onda d’urto, che riuscì a far tremare persino i furgoni delle numerose emittenti televisive e le migliaia di curiosi assiepati nella zona panoramica a tre chilometri dalla pista, e tutti, alzato lo sguardo, poterono scorgere nitidamente quella specie di piccola cometa che, come ergendosi su di una montagna di luce che si innalzava sempre di più, sfrecciava a tutta velocità verso le stelle circondata da un suggestivo bagliore rossastro.

Tutti i membri del ponte erano stati addestrati a dovere, e non vi era nessuno tra loro che non avesse sperimentato almeno una volta un vero viaggio spaziale, ma una tale propulsione ed una simile potenza di spinta era qualcosa che andava oltre la loro immaginazione.

«Controllo, qui Aurora!» gridò Alloway per vincere il baccano dell’abitacolo che tremava «Stiamo lasciando l’atmosfera! Per ora tutto regolare!».

Fortunatamente, non accadde nulla, e quando le nuvole si diradarono e l’atmosfera fu perforata, si aprì sull’Aurora lo spettacolo, sempre nuovo e sempre magnifico persino per dei piloti navigati come loro, dell’oceano stellare, che per cento anni sarebbe stata la loro casa, il loro personale mare sconfinato da solcare in direzione della loro nuova, futura casa.

Come l’atmosfera fu alle spalle, il controllo della nave tornò interamente nelle mani del suo equipaggio. Anche la mancanza di gravità si fece subito sentire, ma per questo c’erano le cinture, anche perché l’anello stabilizzatore non poteva essere azionato con la nave in movimento.

«Razzi propulsori operativi.» disse Santana

«Motori a piena funzionalità» disse sorridendo Crawford. «Cantano come usignoli».

Lasciatasi la Terra alle spalle, la nave puntò dritta verso la stazione spaziale internazionale, giusto in tempo per assistere al distacco ed alla partenza delle altre due navi che li avrebbero accompagnati nel loro lungo viaggio tra le stelle.

«Contatto stabilito.» disse la radio «Ci ricevete, Aurora?»

«Vi riceviamo, Chevolek e Simpan. È bello sentire la vostra voce.»

«Altrettanto, Aurora. Spero che la partenza non sia stata troppo traumatica.»

«Pubblicitaria, direi. Volete avere voi l’onore?»

«Con piacere. Cercheremo di ricambiare alla prima occasione».

Nell’attesa che le altre due navi sorelle entrassero nei rispettivi gate, il Comandante Alloway e i suoi ufficiali rivolsero un ultimo sguardo alla Terra, che ora era laggiù, azzurra e bellissima.

Non l’avrebbero rivista mai più.

Lo sapevano, lo avevano sempre saputo. Ma non potevano non provare un’enorme tristezza a quel pensiero.

«Qualcuno vuole dire qualcosa?» chiese Alloway.

Nessuno se la sentì di dire nulla.

Troppo forti e complessi erano i sentimenti che ognuno di loro stava provando, impossibili da esprimere a parole.

Ciò nonostante, il Comandante tergiversò più del necessario, anche dopo che la Simpan e la Chevolek ebbero fatto il salto, e per interminabili minuti il tempo parve essersi fermato sul ponte di comando dell’Aurora.

Solo al terzo richiamo dalla torre di controllo, che domandava il perché di quel ritardo, Alloway ed i suoi si riscossero, tornando, seppur con l’animo in subbuglio, al proprio lavoro.

«Controllo Missione, qui Aurora. Iniziamo le procedure per il Gate

«Aurora, qui Controllo Missione. Ricevuto. Buona fortuna».

L’equipaggio si mise al lavoro, ed in pochi secondi, dinnanzi alla nave, comparve una specie di foro, uno squarcio aperto su di un’altra dimensione, un altro piano di esistenza, o forse una via tra le stelle concessa dal cosmo ai pionieri dello spazio.

«Gate in apertura.» disse Neeson

«Porta d’ingresso stabile.» disse Duvalier.

Prima destinazione, prima tappa di quel lungo viaggio, la stella Aeneas, distante quattro anni luce.

«Punto d’uscita confermato. Coordinate inserite.» disse Santana.

Il foro crebbe sempre più, riempiendosi di strani colori che andavano dal verde al viola profondo, tramutandosi infine in una sorta di imbuto.

«Gate aperto.» disse ancora Neeson «Tunnel stabile.»

«Tunnel stabile, Comandante.» disse O’Neill «Pronti al salto al suo ordine».

Alloway rivolse un ultimo sguardo alla Terra, chiudendo un momento gli occhi.

«Aurora. Saltare!».

Vi fu un’accelerazione improvvisa, quasi un secondo lancio, e la nave venne come risucchiata all’interno del tubo, che immediatamente dopo si richiuse.

 

Il Comandante e tutto il suo staff non riuscirono a credere ai propri occhi.

La simulazione e le immagini inviate dalle sonde inviate a suo tempo ad esplorare Celestis avevano dato l’idea di quello che avrebbero visto, ma lo spettacolo, stupendo ed insieme spaventoso, che si stagliava ora oltre le vetrate protettive della nave, andava al di là di qualsiasi concezione.

Tutto attorno a loro vedevano lo spazio, quasi indistinguibile tale era la velocità con cui lo stavano solcando, ma era come stare ad osservarlo attraverso l’immagine, indistinta ma bellissima, di un caleidoscopio. Sembrava di trovarsi sul serio all’interno di un tunnel, una fessura tra i mondi ridondante di quei colori scuri, ma non per questo meno stupendi.

Tutti sentirono uno strano calore dentro i loro corpi. Allora era così che appariva il Gate visto dall’interno.

Loro erano i primi a poterlo osservare, e forse più del futuro atterraggio questa esperienza sarebbe rimasta indelebile nei loro cuori per il resto della vita.

Passato l’iniziale, ma assolutamente comprensibile, momento di smarrimento, Alloway e gli altri tornarono ognuno al proprio compito, anche perché ormai era giunto anche per loro il momento di mettersi a dormire.

«Tutti gli indicatori nella norma. Il tunnel è stabile.» disse O’Neill

«Nessuna traccia di danni strutturali o problemi di ogni sorta.» disse Stavros «La nave ha superato il test a pieni voti.»

«Passo le funzioni di rotta e di navigazione al computer di bordo.» disse Crawford

«Molto bene.» disse il Comandante e togliendosi il cappello «Ora signori, non so voi, ma io sono un po’ stanco. Avrei proprio voglia di una bella dormita.»

«Condivido.» ironizzò O’Neill «Ho dormito molto poco in quest’ultimo mese. Qualche anno di riposo non mi dispiacerebbe affatto».

Liberatisi dalle cinture, ed auguratisi vicendevolmente un piacevole riposo, i membri dell’equipaggio si spostarono nel vasto anticamera del ponte di volo, una grande stanza cilindrica con al centro una consolle di comando, raggiungendo ognuno la propria capsula.

A differenza di quelle riservate a civili, attivabili tramite i comandi centrali, quelle riservate all’equipaggio avevano dei timer personalizzati. Per evitare di sprecare inutilmente vent’anni di vita erano state formate otto squadre, ognuna di dodici persone, che a rotazione si sarebbero occupate del mantenimento della nave nel corso delle varie pause di volo che si sarebbero susseguite nel corso del tempo.

Prima di entrare nelle rispettive capsule, ognuno degli otto membri del ponte, che avrebbero di volta in volta avuto il comando dei singoli turni risvegliandosi uno per volta, impostarono i timer per potersi risvegliare allo scoccare del proprio, quindi, uno dopo l’altro, calarono a loro volta nel sonno.

Gli ultimi ad entrare furono Alloway ed O’Neill, e fu solo per caso che il giovane primo ufficiale si accorse che il suo Comandante aveva impostato il proprio timer ad appena 1500 giorni, molti meni di quelli stabiliti dal piano di volo.

«Signore, il primo turno è il mio. Non c’è bisogno che vi svegliate anche voi.»

«Questa è la mia nave, ragazzo» rispose gentilmente ma fermamente il Comandante. «Voglio averla sotto controllo per tutto il tempo che mi sarà possibile. Non mi và di lasciare a voi giovinastri incarichi troppo delicati».

Non vi era superbia né altro nelle parole di Alloway, e di sicuro non aveva mai dubitato neanche per un secondo dell’affidabilità dei suoi uomini, ma ciò nonostante ad O’Niell dispiacque la scelta che il capitano sembrava determinato a compiere.

«Signore. Così perderà vent’anni di vita.»

«Che vuoi che sia. Vent’anni di più o di meno. Sono un prezzo accettabile se in cambio posso ottenere di far sbarcare questo milione di persone sane e salve nella loro nuova casa».

O’Neill sorrise, colpito da tanta dedizione.

Aveva ancora molto da imparare da quell’uomo.

«Siete un vero esempio per tutti noi, Comandante. Vi ammiro tantissimo.»

«Ah, basta. Non facciamo i romantici. E ora, con il tuo permesso, credo che mi ritirerò.»

«Certamente.» rise il giovane «Buonanotte, Comandante.»

«Anche a Lei, Tenente-Colonnello».

Entrambi a quel punto entrarono nelle proprie capsule, lasciandosi rapidamente ammaliare dal piacevole oblio del sonno criogenico.

Pochi attimi dopo, le luci si spensero, le porte si chiusero, e a bordo dell’Aurora calò il più totale silenzio.

 

 

Nota dell’Autore

Eccomi qua!^_^

Come promesso, eccoci al secondo capitolo di questa raccolta.

Con questo secondo capitolo si chiude la parte introduttiva, e con essa questi lunghi e complessi capitoli, che d’ora in poi faranno solo delle sporadiche apparizioni nel corso di eventi particolarmente importanti.

D’ora in poi, infatti, la maggior parte dei capitoli saranno piuttosto brevi, talvolta persino delle flash-fic, senza un vero e proprio filo logico che non sia il lungo viaggio dell’Aurora verso Celestis.

Non so ancora quanto lunga sarà questa raccolta, per il semplice fatto che cercherò di convertire in racconto tutto ciò che mi verrà in mente.

Ringrazio tutti quelli che leggono, e la mia fedelissima Flea per la sua attenta recensione

A presto!^_^

Carlos Olivera

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Capitolo 3
*** Giorno 136 ***


Giorno 136

37094 Giorni All’Arrivo

Cabina del Ponte Di Comando

Cella Di Contenimento n.2

Ten. Col. Nicholas Stravros

 

Nicholas non avrebbe mai pensato che sarebbe finita così.

Si immaginava di concludere la sua vita lì dove l’aveva iniziata, nella sua bella isola circondata dal mare, con le sua terra brulla che emergeva violentemente dalle acque, le sue case bianchissime illuminate dal sole, e al centro della baia quel fumaiolo maestoso che di tanto in tanto tornava a sbuffare, gettando verso l’alto fiotti di acqua incandescente.

Quando era bambino amava correre come un pazzo per le stradine strette della sua Santorini, assieme ai suoi amici, o verso il basso, in direzione della più vicina scogliera, da cui tuffarsi tutti insieme nell’azzurro cristallino dell’Egeo, o verso l’alto, in direzione del duomo, arrampicandosi fin sulla sommità del campanile per godere del più bello dei panorami; da lassù ogni cosa sembrava così piccola, e allo stesso tempo così irraggiungibile, dando nello stesso momento l’impressione di essere dèi e formiche, signori di quel piccolo mondo ma allo stesso tempo insignificanti formiche di quel vasto, infinito oceano che era il cosmo senza confini.

La sera, quando calava il sole, e le case diventavano rosse, era solito sdraiarsi sul tetto blu della sua casa, talvolta assieme alla sua sorellina, e fantasticare assieme a lei sulle innumerevoli stelle che come tante lucciole vedevano accendersi una dopo l’altra sulla volta celeste.

Lei gli chiedeva di indicargli i nomi delle stelle, delle costellazioni e dei pianeti, e lui, quando poteva, le rispondeva, rimanendo ogni volta colpito da quanto poco ne sapesse.

Da lì era nata la sua passione per lo spazio, e la volontà di saperne quanto più possibile.

In pochi della sua famiglia avevano mai lasciato Santorini, quella specie di macchina del tempo in cui tutto restava uguale a stesso mentre fuori, oltre il mare, il mondo progrediva, preda di una sfrenata corsa al progresso che la magia aveva solo contribuito a velocizzare.

Suo padre faceva la guida turistica, e affittava i muli per i turisti che volevano provare l’ebbrezza di una cavalcata, o  qualcosa del genere, sua madre invece aveva sempre fatto solo la casalinga, dividendosi tra la cura dei figli, quella della casa, e l’arte del ricamo in cui era maestra.

Entrambi si erano detti un po’ stupiti quando lui aveva chiesto di poter partire, ma lo avevano assecondato, così lui, raccolti armi e bagagli, un bel giorno di settembre era salito a bordo di uno dei tanti traghetti che facevano la spola con la terraferma, dicendo addio per chissà quanto tempo ai luoghi in cui era cresciuto.

La vista di Atene lo aveva lasciato sgomento.

Aveva visto in televisione le meraviglie del mondo moderno, ma vedersele comparire davanti era stata tutta un’altra cosa.

Il mondo era cambiato.

Se il ventesimo secolo era stato il trampolino di lancio per l’M-Technology*, il ventunesimo aveva letteralmente ridisegnato ogni cosa. Dove prima c’erano il petrolio e il carbone, ora c’erano il sole e, soprattutto, la magia.

Tutto esisteva e funzionava grazie ad essa, e nuovi, infiniti modi per riuscire a sfruttarla venivano scoperti ogni giorni.

La magia aveva restituito lustro ai monumenti, riparato le statue, e ricondotto Atene, o almeno il suo centro storico, alle medesime glorie del suo periodo d’oro, scintillante di maestosità e bellezza.

E poi la natura.

Gli alberi, le pinete, il mare e tutto il resto venivano trattati come figli, strumenti di vita da preservare, perché solo se il mondo e la natura prosperavano la magia prosperava a sua volta, e con essa la società che gli Uomini vi avevano costruito intorno.

Ad Atene, Nicholas non era rimasto a lungo.

Conseguito il diploma di scuola superiore si era nuovamente spostato, a Venezia questa volta, la superba città volante, innalzatasi nel cielo per sfuggire alla minaccia delle acque che ogni anno ne sommergevano una parte, e diventata in pochi anni la più bella città volante che il mondo avesse visto.

L’università di Venezia era una delle più apprezzate nel campo dell’astronomia e delle scienze spaziali, e qui Nicholas aveva potuto ottenere quello che aveva sempre sognato: diventare un cosmonauta.

Tuttavia, sapeva che in quanto civile la sua possibilità di viaggiare nello spazio sarebbe stata molto limitata, così prima ancora di conseguire la laurea in ingegneria aerospaziale si era arruolato nell’ESPEA, l’European SPace Exploration Agency.

C’erano anche i suoi genitori il giorno della consegna dei diplomi di laurea, a quella festa organizzata a bordo della Foscari, l’aeronave da addestramento personale dell’università. Il giorno più bello della sua vita. Nel momento in cui, sotto un piacevole sole primaverile, aveva alzato al cielo il suo diploma, rimirando dall’alto le onde spumeggianti del Mar Adriatico, si era sentito davvero per un istante il re del mondo.

Ma poi, era giunto il momento di tornare sulla Terra, e l’impatto era stato così violento da fargli molto male.

Il seguito non era stato per niente facile. Appena entrato nel programma spaziale, era stato immediatamente trasferito in Scozia, in una delle tante basi disseminate per tutta Europa. E sarebbe sicuramente rimasto a marcire laggiù, lontano da quei luoghi che gli avrebbero potuto aprire le porte del suo sogno, se non si fosse battuto con le unghie e con i denti, accettando ogni proposta, cogliendo ogni occasione, tutto il nome di quel cielo che voleva assolutamente raggiungere.

Finlandia, Norvegia, Turchia, Kazakistan, Spagna.

Aveva viaggiato più lui di qualsiasi altro abitante della sua isola presente e passato, e ogni viaggio lo aveva portato un po’ più vicino alla sua meta.

Più vicino a Le Havre. Più vicino alla sede centrale dell’ESPEA.

Gli mancava la sua isola, e più il tempo passava più rari si facevano i momenti in cui gli era possibile ritornare, anche solo per pochi giorni, ai luoghi della sua infanzia. Poi i suoi genitori erano morti, sua sorella si era sposata e a sua volta trasferita, e così lui non era più tornato.

Ogni viaggio era accompagnato da lodi, ogni lode da una promozione. Di passo in passo, di promozione in promozione, era infine arrivato lì dove voleva.

Fino al giorno in cui, finalmente, era riuscito a trovare ciò che aveva sempre inseguito.

Il cuore gli era quasi scoppiato per la gioia quando, per la prima volta, venne scelto per far parte di una nuova missione spaziale.

Nel momento in cui si era seduto alla propria poltrona, per un attimo gli era sembrato di tornare bambino, al giorno in cui era salito sul traghetto per lasciare Santorini. E ancora una volta, la realtà si era rivelata capace di fare stracci delle sue più sfrenate fantasie.

Il suo primo viaggio fu quanto di più bello avesse mai sperimentato.

Non c’era paragone.

La meraviglia del cosmo superava di gran lunga qualsiasi cosa umanamente concepibile. Non c’era niente di più bello. Niente.

Nicholas ne era stato a tal punto sconvolto da non volersene più allontanare.

Non concepiva più la sua vita lontano dalle stelle.

Dopo quella missione ne seguì un’altra, e un’altra, e un’altra ancora.

Intanto, gli anni passavano, e prima che potesse rendersene conto i capelli si erano fatti grigi, la pelle più sterile, e quelle ossa che un tempo lo avevano sostenuto sulle impervie scogliere di Santorini si erano ormai indebolite.

Era invecchiato.

Il tempo era passato, e lui non se ne era reso conto.

Poi, quando il peso degli anni aveva iniziato a prevalere sul suo vigore di avventuriero, lo stesso che lo aveva guidato da bambino, in quel momento gli era venuto per la prima volta da tirare le somme della sua vita.

E fu allora che capì quanto fosse stato ingenuo.

Aveva inseguito il suo sogno, lo aveva ottenuto, se ne era nutrito fino a saziarsi. Ma per farlo, aveva sacrificato tanto altro, a cominciare dalla possibilità di avere una famiglia tutta sua.

Niente moglie. Niente figli.

Solo una sorella, della quale quasi non ricordava più il  volto.

Era solo.

E così, quando un giorno era stato convocato nell’ufficio del capo dell’ESPEA in persona, per ricevere la più grandiosa e gloriosa delle proposte, lui aveva detto di no. L’ESPEA voleva mettere nelle sue mani la sua nave, la Sympan, che lui stesso aveva personalmente contribuito a creare e collaudare, perché come un nuovo Giasone conducesse un nuovo equipaggio di argonauti alla conquista di un nuovo mondo.

Ma Nicholas ormai era stanco, troppo stanco.

Non gli importava di vedere un nuovo mondo.

Anzi, gli mancava il vecchio.

Voleva tornare alla sua casa, alla sua Santorini, per trascorrervi serenamente la vecchiaia, rimirando ancora quel sole che al tramonto dipingeva le case di rosso, e quella volta stellata che come la luce del paradiso brillava sopra la sua testa.

Per questo, rifiutato il più grande degli onori, era tornato laggiù, nel luogo da cui era partito, e dopo tanti anni fu sorpreso nel vedere che, almeno lì, tutto era rimasto come lo ricordava.

Le stesse case bianchissime, le stesse scogliere nere come il carbone, lo stesso fumaiolo al centro della baia, la stessa gente cordiale ed onesta. I suoi compagni di giochi erano invecchiati, proprio come lui, ma nell’animo erano rimasti anche loro quelli che ricordava, e anche se le facce erano ormai cambiate l’aspetto interiore era rimasto immutato.

Tutto era rimasto uguale.

Solo una cosa era cambiata.

Lui.

Lui era cambiato. Non era più la persona che se n’era andata. Tutto era rimasto uguale, eppure, proprio per questo, non gli riusciva quasi di concepirlo. Ciò che un tempo gli era parso normale ora, ai suoi occhi, era diverso, oscuro.

Le case, gli scogli, il cielo, il sole, il mare. Tutto era diverso.

Anzi, no. Era lui che era diverso.

Nel momento in cui si era staccato dal quel mondo, aveva smesso di farne parte. La normalità, quell’eremo che un tempo era stato la sua casa, gli sembrava aliena, come alieni erano stati tutti i luoghi in cui si era venuto a trovare dal giorno in cui se n’era andato.

Solo allora realizzò.

Quella non era più la sua casa.

Era cambiato.

Era diventato un estraneo per quel mondo. Come quei turisti goffi e opulenti dei quali aveva riso da bambino, guardandoli sudare come fontane per pochi raggi di sole o arrampicarsi tremolanti in sella agli asini di suo padre per una foto ricordo.

Quel mondo non aveva più niente da dargli, neppure un luogo che potesse chiamare casa.

E allora, si era domandato: “Che senso ha rimanere?”.

Così era tornato sui suoi passi, ancora, per accettare quell’offerta.

Ma ormai era troppo tardi. Il suo posto era già stato dato ad un altro.

Il progresso e lo spazio non aspettano i ritardatari o gli indecisi. Se l’era sempre detto. Era stato il suo dogma.

Per fortuna, la sorte non aveva voluto essergli del tutto avversa, e pur perdendo la Sympan aveva guadagnato l’Aurora.

Non la poltrona di comando gli era stata offerta, ma a lui poco importava.

Quello che voleva davvero era una nuova casa.

Se una casa non ce l’aveva sulla Terra, allora Celestis era l’unico altro luogo in cui poterla cercare.

Prima di partire, e ancora prima di immergersi nel sonno criogenico, aveva ripensato alla sua infanzia, alle stradine strette, alle corse con gli altri bambini, e a quella casa che ormai casa non lo era più.

E aveva pregato.

Aveva pregato di trovare qualcosa che assomigliasse anche solo lontanamente a ciò che aveva lasciato.

Ma nutriva molte speranze.

Visto era grande Celestis, doveva esserci per forza un luogo che assomigliasse a Santorini.

Una nuova casa in cui poter ricordare quella vecchia, immerso nella quiete del nulla, solo con le sue memorie.

Nell’attesa che venisse il suo momento.

 

* M-Technology: Tecnologia della Magia, sviluppata a seguito della scoperta della stregoneria nel 1979, sfrutta la magia come fonte di energia. A partire dal XXI secolo, è diventata la principale fonte di progresso e sviluppo scientifico della specie umana.

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