Renče - Feuilleton Reboot

di floflo
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Lo Sconosciuto ***
Capitolo 2: *** Cčline ***
Capitolo 3: *** Il Cugino David ***
Capitolo 4: *** Diane - prima parte - ***
Capitolo 5: *** Diane - seconda parte - ***



Capitolo 1
*** Lo Sconosciuto ***




 

1. Lo sconosciuto


“L’inferno e il paradiso sono stanze in cui si va a finire senza sapere di averne aperto la porta e, quando si realizza dove si č, o si fa di tutto per uscirne al piů presto, oppure si desidera rimanervi il piů a lungo possibile.”

La strada che conduceva a Noisy era ridotta a un pantano in quella stagione.
Forti piogge tormentavano la regione, piogge di primavera, anche se della dolce stagione, ricca di promesse e germogli di vita, ancora vi era ben poco.
Grosse nuvole grigie cariche di pioggia solcavano un cielo pesante, plumbeo come l’orizzonte reso ancor piů tetro dallo scuro della boscaglia, sferzata da un vento sgarbato e tagliente, che si dilatava ai fianchi della via maestra.

Quando madame de la Croix si trovň davanti quella maschera di fango fradicia e intirizzita, stentň a riconoscere di chi si trattava.
Suo marito, il marchese de la Croix, era fuori a caccia e madame temette che lo sconosciuto che si era presentato quel pomeriggio a casa sua, fosse messaggero di ferali notizie, una disgrazia, un incidente occorso a qualcuno… Non si poteva essere sicuri di niente in quelle terre circondate dalle foreste, infestate dai briganti e lontane dalla cittŕ.
Lo aveva detto madame a suo marito il barone di non andare a caccia con quel tempaccio…, ma lui niente, era partito ugualmente lasciandola sola a casa, incurante delle sue preoccupazioni e delle sue preghiere.
Chi poteva essere, dunque, quello sconosciuto che aveva battuto al portone del suo palazzo come fosse l’ultima azione della sua vita?
Coperto com’era da quel mantello scuro e pesante lungo fino ai piedi, fradicio come se avesse galoppato a lungo sotto il diluvio cercando di finire di proposito dentro ogni pozza, incrostato di schizzi di fango fin sopra il cappello con il volto terreo semi nascosto dalla tesa abbassata, era impossibile non rabbrividire dal gelo dell’ inquietudine al suo cospetto.
Anche madame de la Croix non poteva fare altro che stringersi le spalle, cercando con le dita conforto nel calore del suo corpetto di lana di pecora, mentre scrutava intimorita, per non dire terrorizzata quella tetra presenza con il suo alone di mistero e presagio.
Una servetta, poco piů che una bambina, la fiancheggia in quel frangente, terrorizzata, e con la mente sottosopra, quanto lei: lo aveva capito da come si era precipitata nel suo salottino privato per annunciarle l’inatteso arrivo, e da come ora tormentava l’orlo del suo grembiale.
Nessuno si sarebbe preso la briga di avventurarsi nelle campagne di Noisy con quel tempaccio se non fosse stato strettamente necessario…
Doveva mantenere assolutamente la calma e i nervi ben saldi, qualsiasi cosa il misterioso visitatore avesse detto.
La servetta si sarebbe messa a gridare, o nella migliore delle ipotesi sarebbe fuggita a gambe levate in cucina, lasciandola sola a fronteggiare l’ignoto che si sarebbe spalancato davanti a lei.
Inspirň profondamente cercando di raggruppare tutte le sue forze prima di proferire la fatale domanda mentre un nugolo di pensieri torbidi vorticavano nella sua testa.
- … Ebbene? - proferě con il tono di voce piů fermo che potesse uscire dalla sua gola, nel tentativo di darsi un tono e di rassicurare la giovane domestica oltre che sé stessa.
L’uomo scostň di poco la falda del cappello facendo colare un minuscolo rivolo d’acqua lurida sopra il pavimento per rivelare, finalmente, il suo volto.
Madame sussultň con tutto il contegno che le era concesso.
La figura dello sconosciuto era alta e slanciata, tuttavia non tanto massiccia da poter essere scambiata per quella di un uomo maturo.
I suoi lineamenti erano delicati, la pelle candida, ma furono soprattutto gli occhi a catturare tutta l’attenzione della baronessa.
Quegli occhi che avevano il colore plumbeo del cielo e sembravano allagati dalle medesime pozze d’acqua che inondavano le campagne.
Enormemente sorpresa, ma anche lievemente inorridita, madame de la Croix sussurrň con un filo di voce come se stentasse a credere alle sue stesse parole:
- Renče?-
- … Diane …- rispose con mormorio sommesso colei che si celava sotto quel mantello che gocciolava irrimediabilmente sul pavimento.
Madame abbandonň allora ogni remora, ogni timore, ogni cupo presagio.
Si avvicinň e scostň con circospezione il bavero del mantello inzaccherato, fino a che la luce pallida di quel tetro pomeriggio non rischiarň definitivamente il volto che si nascondeva lŕ sotto, e allora non ebbe piů dubbi: chi poteva arrivare di soppiatto, senza avvisare, a spron battuto con una stagione del genere?
- Renče! Sei proprio tu! - esclamň con tutto il sollievo e la gaiezza provati da chi č stato appena sgravato da un peso opprimente.
Un torrente incontenibile di parole, esclamazioni di stupore e abbracci affettuosi travolsero l’etichetta formale e i modi misurati di cui la baronessa si era fatta scudo fino a quel momento.
- Che sorpresa! Sei qui da sola? Perché non hai avvisato? E il conte de la Fčre č rimasto a Bragelonne?- non faceva altro che ripetere serrandosi con trasporto al mantello inzuppato della sua amica, incurante del fatto che il suo abito andava infradiciandosi a sua volta.
Renče si lasciava circondare dagli abbracci, dalle feste e dalle domande incalzanti dell’amica, limitandosi a stringerle forte le spalle annuendo computa, mentre qualche lacrima rigava il suo volto confondendosi con le gocce di pioggia.
- Sono contenta che tu sia qui… - sospirň Diane incontrando finalmente gli occhi lucidi della sua amica.
In un battibaleno, ritrovň il suo contegno decoroso e tornň ad essere la solenne baronessa de la Croix, la padrona di casa: diede precise istruzioni alla servitů e condusse Renče nelle sue stanze private.

Nell’intimitŕ e nel calore del suo salotto al piano nobile, Diane spogliň Renče del suo fradicio mantello, poi afferrandole con delicatezza le dita di una mano la guidň accanto al camino acceso, sistemando l’amica su una poltroncina, avvolgendola in una coperta con gesti lenti e circospetti, come avesse a che fare con una cosa preziosa e, al contempo, estremamente fragile; poi si accovacciň ai suoi piedi stringendole le mani intirizzite dentro le sue e parlandole con voce bassa e suadente.
- Allora, vuoi dirmi cosa ti č successo?-
Attese in religioso silenzio, osservando Renče dal basso verso l’alto, il viso reclinato dolcemente da una parte, gli occhi spalancati e attenti, pronta a raccogliere le parole dell’amica… Parole che, purtroppo, avevano tutta l’aria di non voler arrivare.
- Va tutto bene, non č vero?- la incalzň infine dopo un lasso di tempo consono, secondo lei, per avere una risposta.
Renče annuě, ma Diane continuava a scrutarla attentamente: la conosceva troppo bene per non intuire che dietro quel silenzio reticente si nascondeva qualcosa.
Il sorriso condiscendente di madame scomparve improvvisamente, mentre un pensiero cupo le attraversava la mente come un lampo:
- Con il conte tuo marito, va tutto bene?- domandň.
Renče parve incespicare.
- Sě, naturalmente…-
- Perché non ti sei fatta accompagnare da lui in carrozza allora? Viaggiare da sola a cavallo con questo tempo…-
- Oh, io ci sono abituata…, e poi a me piace cavalcare in solitudine…-
- Tra i boschi. - la interruppe Diane ammiccando con gli occhi nel tentativo di allentare la tensione. - Avevo scordato questo particolare… -
Renče si abbandonň con un sospiro sullo schienale della poltrona, come sfinita.
Con la circospezione e la cura che si usa per aprire il riccio spinoso di una castagna Diane continuň la sua indagine.
Forse aveva trovato un indizio.
Le girň attorno, poi le aggiustň meglio la coperta sulle spalle e infine, avvicinando il mento alla sua spalla, sussurrň:
- Il conte lo sa che sei qui?-
Questa volta Renče rispose senza esitazione, quasi stizzita.
- Naturalmente.-
Le labbra di Diane si schiusero in un sospiro di sollievo.
- Oh, meno male…, per un attimo ho temuto che…- la frase rimase sospesa mezz’aria per un istante, prima che la stessa Renče la completasse.
- Che fossi scappata?-
Un leggero sorriso di scherno piegň le labbra di Renče all’insů.
Questa volta era stata lei a leggerle nel pensiero come ai vecchi tempi.
Sapeva che lei sapeva
- Beh, insomma …- si schermě Diane nel maldestro tentativo di dissimulare quel pensiero all’amica.
- Non preoccuparti, non sono scappata, ecco… sono tornata per un motivo ben preciso…- disse risoluta, prima di avere un istante d’indecisione - Vorrei incontrare una persona…-
Renče aveva pronunciato quelle ultime parole con un flebile soffio, come fosse soprapensiero.
- Finalmente! – Diane le si gettň addosso abbracciandola - Hai deciso di incontrare tua zia ed i tuoi parenti?-
Renče s’irrigidě immediatamente dentro quell’abbraccio, mordendosi un labbro.
- Beh, non esattamente…, non so se sono pronta… ancora…-
Diane si staccň da lei perplessa e prese, di nuovo, a scrutarla attentamente in viso.
- Ma come?-
Diversi mesi erano trascorsi dalla celebrazione delle nozze con il conte de la Fčre e, ancora, la sua amica non si era decisa a presentarsi alla sua famiglia d’origine.
Renče si chiuse allora dentro l’ostico silenzio in compagnia del quale era arrivata a Noisy.
Diane decise allora di cambiare strategia di nuovo, la questione doveva prenderla ancora piů alla larga, prese a frizionarle le braccia con vigore, come se volesse strigliarla, o consolarla a seconda dei punti di vista, ad ogni modo la sua intenzione era di farle sapere che lei era lě, pronta ad ascoltarla e a coadiuvarla.
Renče la lasciň fare di buon grado, poi ad un tratto poggiň il capo su una spalla di Diane, quasi fosse divenuto improvvisamente troppo pesante, o troppo pesanti fossero i pensieri che la sua testa dentro custodiva:
- Ti ricordi di Cčline?- disse sottovoce.













 

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Capitolo 2
*** Cčline ***



2.Cčline



L’inferno e il paradiso sono stanze in cui si va a finire senza sapere di averne aperto la porta…

Due braccia che la serravano forte, schiacciandole il faccino contro quel ventre grasso e sfatto… Ancora se lo ricordava Renče l’odore del suo grembiule a righe: pesce e grasso.
Quante volte quelle braccia forti l’avevano sollevata e stretta? Quante volte quelle mani piene di tagli e annerite dalle lordure della cucina, eppure odorose di cose buone da mangiare, l’avevano carezzata, asciugato le lacrime, imboccata, consolata?
Quante volte lei aveva cercato riparo e affetto tra quelle braccia fasciate da maniche perennemente umide d’acqua?
Il primo ricordo della sua vita forse era proprio di lei stretta in quell’abbraccio…
Era buio, l’avevano messa giŕ a dormire nel suo lettino, poi di colpo si era svegliata mezza schiacciata tra i seni di Cčline, la cuoca, che la cullava e intanto piangeva recitando strane litanie e preghiere.
Cosa era successo? La veritŕ l’avrebbe conosciuta soltanto qualche anno piů tardi dagli stessi racconti della cuoca; ma quella notte, la piccola Renče, non sapeva ancora niente. Quel giorno, cosě lontano nei ricordi, avrebbe segnato la sua vita per sempre.
I suoi genitori erano stati colpiti dal “morbo” come lo chiamava Cčline facendosi il segno della croce e volgendo gli occhi al cielo con una smorfia da miracolata, e in capo a pochi giorni sarebbero volati in paradiso, come le aveva raccontato poi per non spaventarla troppo…
Dovevano essere stati giorni terribili: secondo la narrazione macabra della cuoca, il “morbo” infuriava giŕ da parecchie settimane nella zona; una febbre violentissima divorava letteralmente le persone, mietendo vittime ovunque, senza guardare l’insegna del casato o il portone d’ingresso, erano colpiti tutti indistintamente, i ricchi e i poveri, i signori e i servi, in ogni casa, in ogni strada, ovunque si contavano ammalati e soprattutto cataste di morti ammucchiati agli angoli delle strade.
Di lě a pochi giorni sarebbero fuggiti tutti per il terrore del contagio, anche i domestici, abbandonando la bambina e Cčline al loro destino.
Perché la cuoca non era scappata insieme a tutti gli altri? Renče se lo sarebbe chiesto molte volte nel corso degli anni, quando il nume della ragione aveva cominciato a guidare le sue azioni e i suoi pensieri, senza trovare una risposta che non fosse illuminata dalla piů semplice delle ragioni. Denaro? Riconoscenza? Pietŕ? Affetto?
Forse Cčline si era occupata dei suoi genitori moribondi: nella memoria le pareva di vederla mentre si aggirava per le stanze abbandonate con un fazzoletto legato sopra il naso come un bandito, per poi correre a lavarsi le mani con l’aceto e ritornare, infine, da lei.
Ricordava lunghe giornate trascorse in compagnia della sola cuoca, a giocare sotto i portici nel cortile assolato del palazzo deserto.
Nonostante tutto, non furono giorni troppo angosciosi per lei, la cuoca le teneva buona compagnia, il suo faccione da luna piena sempre colorito, lucido di sudore e il suo modo di fare pacioso e, allo stesso tempo leggero, le trasmetteva serenitŕ e la rassicurava.
Poi un giorno, forse al termine della quarantena, erano comparsi alcuni suoi parenti, un uomo e una donna vestiti di nero: i fratelli padre.
Il morbo si era portato via piů di un membro della famiglia D’Herblay, tra i quali anche il marito di zia Bčnčdicte, un anziano barone.
Dall’alto della sua postazione aggrappata ai fianchi di Cčline, la piccola Renče osservava con una certa preoccupazione quei due misconosciuti parenti, piombati improvvisamente a casa sua. L’immagine di quella donna né giovane né vecchia, dall’espressione severa e vestita da capo a piedi di nero nel fulgore della luce di un pomeriggio d’estate, le fece capire inesorabilmente che qualcosa nella sua vita sarebbe di nuovo mutato.
La zia aveva infatti accettato di occuparsi della nipotina rimasta orfana.
Renče ricordava ancora i pianti e gli strepiti di quando avevano cercato di separarla da Cčline: le si era aggrappata al collo come una scimmietta, e a poco o nulla era valso l’intervento dello zio che aveva cercato di staccarla a forza. Tanto aveva scalciato, dimenandosi come un’ossessa, che non erano riusciti a trattenerla per farla entrare nella carrozza, ed era finita tra le ruote della carrozza a rotolarsi per terra, con il volto impiastricciato di polvere e lacrime di disperazione.
Soltanto l’intervento di Cčline era riuscito a calmarla.
Fu cosě deciso che la cuoca avrebbe seguito la bambina a Noyse le Sec.
Che cosa aveva convinto zia Bčnčdicte ad accogliere assieme alla nipote anche la cuoca? Riconoscenza per essersi occupata della bambina durante quei giorni angosciosi? Pietŕ per una piccola rimasta orfana e per una cuoca non piů giovane rimasta senza lavoro, che sembrava inestricabilmente legata alla sventura di sua nipote? Non aveva certo bisogno di ulteriori domestici a palazzo d’Herblay la zia…
Nella sua nuova casa, Renče non mangiava se non era Cčline a imboccarla, non dormiva se Cčline non le dava la buona notte, si rifiutava di vestirsi se non era Cčline a svegliarla la mattina, nonostante l’infinitŕ di bonnes e tate che la zia aveva preso per occuparsi della nipote infante.
Zia Bčnčdicte le sembrava sempre cosě distante, algida, a volte anche irrimediabilmente goffa nei suoi confronti. Il suo atteggiamento poco si confaceva con la compassione e la tenerezza, eppure tollerava la presenza della vecchia cuoca e l’attaccamento quasi morboso che la nipote aveva nei suoi confronti, facendo buon viso anche agli atteggiamenti stravaganti per non dire inopportuni che la bambina andava manifestando.
Non vi erano mai stati bambini a casa della zia, ella non aveva avuto figli, non vi erano giocattoli, non vi erano passatempi adatti a Renče, cosě la bimba se ne stava tutto il giorno in compagnia della cuoca, guardandola mentre immergeva le mani nel sacco del carbone, mentre soffiava sul fuoco sotto la marmitta, spennava galline, preparava intingoli vari.
Speso la notte si alzava e raggiungeva Cčline nella sua stanza, entrava nel suo letto e si stringeva al quel corpo, morbido e caldo, che manteneva addosso l’odore della cucina e del sapone delle stoviglie. La mattina, al sorgere del sole, la cuoca la avvolgeva in una coperta e la riportava nel suo letto.
Secondo un misterioso e tacito accordo Cčline le aveva fatto da balia.


 
***

- Cčline?-
Diane la osservň stupita. Cosa stava passando nella testa di Renče? Era venuta fin lě per parlare della vecchia cuoca di palazzo D’Herblay?
- Ti ricordi di lei, non č vero?- insistette Renče.
- Certo che mi ricordo… Ma perché vuoi incontrare proprio lei?-
Renče rimase in silenzio, aumentando, per certi versi, lo sgomento della sua amica.
- Vorrei salutarla…- bofonchiň con un fil di voce.
- La cuoca???-
In realtŕ Diane sapeva quanto Renče fosse affezionata a quella donna; ricordava quando da bambine le portava a vedere la gabbia dei conigli e ne tirava fuori uno mettendoselo in grembo perché loro potessero carezzarlo. Ricordava anche quella volta che, disgraziatamente, avevano visto una di quelle povere bestiole ciondolare a testa in giů, pronta per essere spellata e poi buttata in pentola, e di come la cuoca si era prodigata a consolare il loro pianto disperato con biscotti e miele.
Cčline era come una seconda madre per Renče.
- Beh, non so che fine abbia fatto…, se lavora ancora a Palazzo D’Herblay. Di sicuro sarŕ piuttosto anziana…- balbettň Diane colta completamente alla sprovvista – Trovo decisamente curioso che tu voglia incontrare proprio lei e non tua zia…-
- Potremmo andare a trovarla uno di questi giorni…- continuň Renče, lasciando madame de la Croix ancora piů interdetta.
- Forse sarebbe meglio prima passare a salutare madame D’Herblay… Anche lei č molto invecchiata, ed č sempre sola, poverina … -
Renče si chiuse di nuovo nel suo ostico silenzio rabbuiandosi e lasciando sgomenta Diane.
Trascorsero attimi che parvero durare un’eternitŕ, scanditi soltanto dal ticchettare di un orologio a pendolo. Poi Diane abbracciň Renče come se volesse confortarla per qualcosa di smarrito:
- Beh, spero che tu non abbia troppa fretta… Magari uno di questi giorni passiamo davvero a salutarle, tua zia e Cčline, eh? Puoi rimanere qui quanto vuoi, mio marito č a caccia, e non tornerŕ prima di due settimane! -.
Improvvisamente Renče si sentě sola, tremendamente sola, sopraffatta dalla vertigine dell’abisso che le si apriva dinnanzi, si appoggiň con la fronte al braccio di Diane che la sorreggeva e al contempo l’abbracciava.
Con Diane, un tempo si capivano anche senza parlare, ma ora Renče la sentiva terribilmente distante, cosě diversa da lei, come appartenessero ormai a due mondi irrimediabilmente differenti.
Diane era la regina del suo piccolo universo domestico, perennemente indaffarata a vegliare sulla sua casa, il marito e i figli, i servi, gli amici, a correre perennemente dietro i guai che si questi portano dietro, inventando, di volta in volta, nuove astuzie per non rimanerne schiacciata a sua volta.
Non era esattamente questo, quello che Diane stava facendo anche in quel preciso istante?
Consolare, preoccuparsi ed occuparsi degli altri, proprio come aveva sempre fatto Cčline.
Come era stata brava Diane ad organizzare la servitů dopo il suo arrivo, si vedeva che era avvezza giŕ da parecchio tempo a mandare avanti la casa con quel piglio deciso e autorevole… Eppure avevano la stessa etŕ ed era trascorsa appena una manciata di anni da quando giocavano a rincorrersi.
Se si fosse sposata anche lei a diciassette anni come la sua amica, sarebbe diventata anche lei cosě?
In realtŕ Renče si era sempre sentita diversa, inadatta a qualsiasi ruolo dovesse interpretare: probabilmente non era stata la nipote che zia Bčnčdicte avrebbe voluto, si era ritrovata suo malgrado nelle vesti di un soldato e chissŕ se sarebbe mai riuscita a diventare una buona moglie…
Da quando aveva messo piede a Bragelonne, non aveva fatto altro che sentirsi inadeguata. Pensava a madame Bonnet e Grimaud che aveva lasciato nella dimora di suo marito: come poteva riuscire ad impartire ordini a loro con il piglio deciso che usava Diane con i suoi sottoposti, senza sentirsi tremendamente ridicola?
In fondo lei conosceva Grimaud e madame Bonnet da molto tempo prima, per un breve lasso di tempo era stata essa stesso una domestica sottoposta ai loro stessi ordini ed ora, entrare di nuovo in quella casa nelle vesti di padrona, le sembrava tremendamente fuori luogo…
Diane con un semplice cenno del capo, riusciva a far muovere una mezza dozzina di domestiche senza perdere nulla della dolcezza e grazia che la contraddistinguevano fin dall’adolescenza.
Perché non riusciva proprio a immedesimarsi in quella parte che ora il suo nuovo ruolo di padrona di casa richiedeva?


 
***
 

Un visitatore misterioso: Renče non poteva fare altro che immaginare cosa si celasse dietro il chiacchiericcio incessante delle domestiche di madame de la Croix al suo passaggio nei corridoi del palazzo, mentre si dirigevano verso la stanza degli ospiti.
“Madame che decide di dare ospitalitŕ ad uno sconosciuto mentre suo marito il barone de la Croix č fuori?”
Captava brandelli di frasi maliziose appena mormorate che, con ogni probabilitŕ, anche Diane riusciva ad udire, eppure la sua amica non pareva affatto turbata, si limitava a redarguire la servitů con uno sguardo severo, talvolta muoveva la mano come infastidita da un insetto molesto. Al passaggio di madame, i domestici si spostavano con riverenza e timore, i sussurri e i pensieri sconvenienti si affievolivano, e tutti riprendevano a muoversi seguendo una coreografia preparata in anticipo, secondo un ritmo conosciuto soltanto da chi l’aveva predisposto.
Era stata cosě gentile la sua amica ad accoglierla anche quella volta senza farle troppe domande, disposta a stare dalla sua parte sempre e comunque. L’avrebbe difesa anche in quell’occasione Diane, l’avrebbe protetta, e Renče in quel momento aveva un disperato bisogno di sentirsi protetta.
Lontano da Bragelonne, ma anche lontano da Athos, sospesa in un limbo che nemmeno lei aveva mai conosciuto.
Improvvisamente aveva l’impressione di essersi trovata in un mondo a lei estremamente ostile, un mondo di nemici misteriosi e sconosciuti.
Avrebbe preferito mille e mille volte potere affrontare quegli sconosciuti con la lama della sua spada, la stessa che continuava a tenere appesa nel fodero al suo fianco. Ma come sarebbe riuscita a sferrare uno dei suoi veloci fendenti se il suo nemico la spiava dagli angoli oscuri della sua mente?
Il suo non era un nemico reale, una persona in carne ed ossa come lo erano stati Manson, Milady; il suo era un nemico subdolo, che la spiava di nascosto, soprattutto la notte quando era sola avvolta dal silenzio e la rendeva insicura e spaventata come mai prima in vita sua le era capitato.
Puntava gli occhi nell’oscuritŕ Renče, ma l’unica immagine che riusciva a scorgere era il suo volto terreo e sconvolto. Perché l’inferno e il paradiso sono stanze in cui si va a finire senza sapere di averne aperto la porta…
Era convinta che sposando Athos, avrebbe ritrovato la sua strada, sarebbe tornata ad essere quella che era prima, quella che era sempre stata.
Ma chi era stata Renče prima?
Era possibile cancellare con un semplice colpo di spugna, con una promessa, con un voto, tutto il suo passato?
Forse soltanto Athos sapeva chi era veramente Renče ora, mentre Diane conosceva chi era stata Renče prima.
Era tornata a Noisy sperando di riallacciare i fili del suo passato e del suo futuro.
Era corsa a rifugiarsi dalla sua amica Diane, ma sapeva che avrebbe anche dovuto affrontare i suoi fantasmi, e soprattutto la sua famiglia.
Si ritrovava costantemente davanti agli occhi l’espressione severa di sua zia Bčnčdicte vestita di nero impartire ordine a Cčline, mentre la cuoca annuiva compostamente asciugandosi le mani nel grembiule di tela.
Da bambina Renče era quasi terrorizzata dai lineamenti rigidi e senza tenerezza della zia, quella fronte severa con una ruga centrale che divideva in due lo spazio tra le sopraciglia come una sciabolata, infatti non appena questa se ne andava, correva ad aggrapparsi alla sottana della cuoca.
Affondava il viso nel suo grembiule di tela a righe, cercava con le manine di incontrare il corpo e la carne della cuoca, per sentire che era viva, che era umana, che non era solo una presenza scura e severa.
Di nuovo venne sopraffatta da quella strana sensazione alla bocca dello stomaco: angoscia.
Quanto avrebbe voluto Renče affondare di nuovo il naso in quella sottana, aspirarne il profumo, riuscire a sprofondare in quella morbidezza calda che aveva tanto il sapore dell’affetto e dell’infanzia perduta…
- …Celine…- mormorň.


 
***

- Monsieur? -
Oh, mio dio! Si era di nuovo addormentata! Il calore dell’acqua e il profumo delle essenze che Diane aveva versato nella vasca smaltata, erano troppo invitanti per non abbandonarsi piacevolmente in quella nuvola di voluttŕ senza dimenticare di tutto il resto.
La cameriera era entrata nella stanza reggendo degli asciugamani puliti, ma fortunatamente Renče aveva avuto l’accortezza di ripararsi dietro l’ampio paravento, occultandosi, e la domestica imbarazzata non aveva avuto l’ardire di oltrepassarlo.
Istintivamente Renče si immerse nell’acqua fino al mento, prima di riuscire a gorgogliare con la voce piů profonda che potesse uscire dalla sua gola:
- Andate pure, mademoiselle!-
La giovane domestica fece capolino da dietro il separč, arrossendo lievemente.
- Ho portato la biancheria pulita. Desiderate qualcos’altro moniseur?-
Renče scosse la testa avvampando, almeno quanto la cameriera, immergendosi ulteriormente nell’acqua.
Perdinci! Lo aveva fatto di nuovo! Si era scordata di comportarsi come avrebbe fatto un vero uomo. Se fosse stata ancora un moschettiere, Athos l’avrebbe ripresa sicuramente.
La cameriera abbandonň la stanza, un poco mortificata, dopo avere ravvivato il fuoco nel camino.
Renče si raggomitolň dentro l’acqua per cercare ancora quel piacevole profumato tepore che la aveva cullata prima, ma orami anche questo era sfumato, per lasciare posto ad una sensazione fastidiosa che la fece rabbrividire.
Ripensň alla domestica che era uscita pochi istanti prima, l’aveva palesemente scambiata per un uomo, mentre lei avrebbe dovuto presentarsi fin da subito come la contessa de la Fčre.
Che strana situazione la sua…, sempre a interpretare il ruolo sbagliato.
Uscě dall’acqua, mentre uno specchio posizionato poco piů in lŕ rifletteva l’immagine del suo corpo nudo di donna. Rimase qualche istante perplessa davanti a quella visione, poi si avvolse in un asciugamano, domandandosi se fosse veramente pronta per raccontare la veritŕ.






 

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Capitolo 3
*** Il Cugino David ***




 

3. Il Cugino David





Scivolava in un sonno dall’atmosfera fumosa e sfocata, al caldo e al sicuro nella casa della sua amica, scordandosi per qualche ora di cercare di incastrare i pezzi sparpagliati della sua esistenza.
Eppure gli eventi passati continuavano a rincorrerla…

Era da poco uscita dal suo grembiulino di lino e dalla cuffietta merlettata che le metteva la bambinaia ed era entrata in un nuovo abito: una piccola tonaca color crema.
Presto sarebbe entrata in convento. Per essere educata, ma non solo.
Del resto, cosa avrebbero dovuto fare i suoi parenti di lei, una femmina, una piccola orfana? Se avesse avuto dei fratelli, sicuramente l’avrebbero fatta monacare o, se fossero rimasti in vita i suoi genitori, nella migliore delle ipotesi, l’avrebbero data in sposa a qualcuno.
La zia era vedova e senza eredi, Renče era dunque soltanto un peso, ma dopo la morte dei suoi genitori non potevano lavarsene le mani, cosě la soluzione ottimale era parsa quella di mandarla in convento e farle prendere i voti, in questo modo tutto il patrimonio sarebbe stato del cugino David, il primogenito di suo zio.

David, se lo ricordava ancora…
Era una bimbetta che non vedeva l’ora di evadere la sorveglianza della sua nuova tata, che la costringeva a stare ore inginocchiata di fianco al letto a pregare, per correre incontro a quel giovanotto che arrivava a cavallo a far visita alla zia vedova.
Tendeva le orecchie attentamente, avrebbe riconosciuto lo scalpiccio degli zoccoli del suo cavallo tra mille altri, poi si precipitava di sotto, lungo il vialetto tra le aiuole a corrergli incontro.
Lui la sollevava afferrandola sotto le ascelle e la faceva volare in aria come fosse senza peso, mentre lei rideva a crepapelle.
Veniva spesso quel giovanotto allegro e dal fare disinvolto a fare visita alla zia vedova con sincero affetto, e si intratteneva volentieri con la piccola cuginetta, ben conscio di rompere l’austero isolamento della bambina.
Il cugino David era il gioco preferito da Renče, anzi il suo unico gioco in casa della zia.
Con lui alternava interminabili partite a picchetto nei bui pomeriggi invernali, alle ricerche sui libri di araldica custoditi orgogliosamente nella biblioteca del defunto marito della zia, seduta sulle sue robuste ginocchia.
Renče osservava estasiata quelle immagini dai colori sgargianti che raffiguravano tra riccioli dorati simboli mitologici, grifoni, draghi, cavalli alati, spade, simboli di potenza e di ricchezza, mentre lui le spiegava i significati di quelle immagini, imbastendo per la cuginetta racconti fantastici tratti da vicende realmente accadute.
Durante l’estate lui le insegnava a giocare a volano.
Trascorrevano giornate a rincorrere la pallina nei cortili di palazzo d’Herblay, mentre zia Bčnčdicte lanciava sguardi compiaciuti al bel nipote maschio e di rimprovero alla nipotina che rischiava ad ogni istante di cadere e di rovinare la piccola tonaca; correvano avanti e indietro come forsennati, poi si gettavano tutti e due in mezzo all’erba esausti e sudati, attendendo l’arrivo di Cčline con un vassoio di limonata fresca.

Era bello il cugino David, una figura slanciata ed elegante, un ciuffo di capelli lucidi color miele gli scivolava impertinente sulla fronte e lui lo ricacciava regolarmente indietro con un gesto spigliato e seducente.
Con le dame e le amiche della zia - ma anche con qualche graziosa servetta - si inchinava con un gesto teatrale, portando avanti la gamba e compiendo col braccio un’ampia curva, rovesciando indietro il polso e scuotendo le piume del cappello: consapevole del suo fascino, non perdeva occasione per mettersi in mostra, senza malizia perň, con un pizzico di ironia.
Renče lo osservava estasiata quando montava a cavallo, le sembrava un principe delle fiabe mentre infilava la punta dello stivale nella staffa e si tirava sů con un balzo leggero e composto.
Non poteva resistere alla tentazione di tendere le mani verso di lui per farsi prendere in braccio e montare a cavallo insieme a lui.
La bambina si aggrappava alla criniera di Tzigane, il cavallo di David, mentre lui la teneva saldamente in posizione, poi partivano al galoppo per scomparire tra i boschi, rischiando ogni volta di far morire zia Bčnčdicte dallo spavento.
Che fosse stato il cugino David a far nascere in lei quell’istinto spericolato a furia di fughe dagli obblighi e dalle costrizioni?
Se lo era domandato molte volte, il temperamento allegro e scanzonato di David era stata la luce che aveva illuminato i suoi primi anni a casa di zia Bčnčdicte.
Unico erede maschio del casato dei D’Herblay, per lui si sarebbe preparato sicuramente un matrimonio faraonico con qualche nobildonna molto ricca e molto blasonata.
In realtŕ era proprio la sua amica Diane la designata consorte, ma questo Renče l’avrebbe saputo soltanto in seguito.

Quando Renče aveva incontrato François per un istante le era sembrato di ritrovarsi di fronte proprio David: lo stesso garbo la stessa tensione nei gesti, ma senza traccia di affettazione o di presunta superioritŕ, la loro regalitŕ era innata, loro non avevano bisogno di dimostrare niente a nessuno.

E pensare che avevano fatto tutti e due una fine orrenda, strappati al suo affetto da un giorno all’altro senza nessun preavviso.
David sarebbe morto di lě a poco in un incidente; la sua carrozza era finita contro un muro, per una cosa stupida, una questione di precedenze.
L’avevano riportato a casa senza una goccia di sangue sui vestiti, ma con l’osso del collo spezzato.
Bellissimo anche nella morte.
Sembrava soltanto addormentato quel giorno su quel letto di rose.
Aveva anche un buon odore di fiori, nulla a che vedere con l’odore ripugnante e dolciastro della morte che Renče avrebbe conosciuto qualche tempo dopo.
Per un istante le parve addirittura che respirasse, che le sue narici vibrassero quasi impercettibilmente, e un alito di vita scorresse ancora in lui.
Era solo un’illusione e, nell’attimo in cui realizzň di cosa si trattava, fu come se tra le ciglia agli angoli degli occhi di David brillassero due minuscole stille… O forse le lacrime erano state solamente le sue.

Le sensazioni di straniamento e abbandono invece erano rimaste a lungo.
Le sembrava impossibile non sentire piů il cavallo di David giungere al trotto, le sue parole festose rimbombare nell’androne di palazzo D’Herblay, le sue forti mani che la sollevano e la facevano roteare in aria.
Non poteva essere accaduto tutto realmente.
Per molti giorni e settimane rimase in attesa del suo ritorno e dell'allegria che lo contraddistingueva.
Ma non accadde nulla.
In seguito subentrň il sentimento di colpa e di segreto rimprovero.
Reneč non riusciva a perdonarsi di non avere capito prima che il destino si era accanito contro di lei e non le era concesso di amare.
Prima sua madre e suo padre, poi il cugino David.
Tutte le persone a lei piů care la abbandonavano.
Aveva anche pensato che fosse stata colpa sua quello che era successo, in fondo lei era un piccola bambina destinata a Dio, alla misericorda e alla preghiera: non avrebbe mai dovuto divertirsi tanto insieme a David.
Alla fine erano stati puniti tutti, il cugino che era morto, la sua famiglia che aveva perso l’erede del casato e, ovviamente lei, che avrebbe portato quella colpa come un marchio.
Si disperň giorni per quella perdita e per la nostalgia, arrivando a pensare che dovesse pregare ininterrottamente affinché Dio restituisse a lei e alla famiglia l’amato cugino.

Era diventata una bambina pallida ed introversa, sempre intenta a cercare qualcosa che le facesse espiare la sua terribile colpa, quando un giorno la pletora dei parenti al completo si presentň a casa di sua zia.
Fu proprio in quell’occasione che si tenne una importante riunione familiare, mentre Renče se ne stava con la sua istitutrice a fare esercizi spirituali e le signore chiacchieravano agitavano ventagli ricamati e egli uomini discutevano animatamente sorseggiavano vino e liquori tra una partita di Faraone e l’altra.

Una mattina Cčline non le infilň la piccola tonaca come al solito, ma un bell’abito di velluto e seta comparso misteriosamente tra le mani di una cameriera.
Gli zii e le zie vennero ad ispezionarla piů volte, la osservarono attentamente, mentre lei se ne stava composta seduta sopra una sedia, disquisendo sulla sua carnagione, il garbo dei suoi modi, il colore dei suoi capelli.
A decisione presa, dovettero insistere parecchio perché la bambina si liberasse del crocefisso di legno che si ostinava a tenere in mano, infatti, la famiglia all’unanimitŕ aveva stabilito che la piccola non sarebbe piů dovuta andare in convento.
Dopo la morte di David, Renče si era ritrovata improvvisamente con una cospicua dote e un discreto patrimonio: ora era lei l’erede designata dei D’Herblay.



 
***



- Buongiorno! Avete riposato bene, madame? –
La testa di Renče sgusciň fuori dalle coperte come una grossa tartaruga che si domandava se fosse per caso giŕ ora di uscire dal letargo invernale.
Era cosě strano tornare al presente dopo quel viaggio nei ricordi...
Gli occhi ancora assonnati misero a fuoco la figura Diane che la osservava divertita.
- Stiamo aspettando solo te per fare colazione. – disse la baronessa.
- Eh? –
Renče si tirň su a fatica, stropicciandosi gli occhi.
- Mia cara, č giŕ giorno da un pezzo! E a differenza di ieri, oggi č una bellissima giornata! - esclamň Diane scostando le pesanti tende scure per lasciare entrare dalle finestre una luce quasi accecante.
- Ti ho portato i vestiti! – esclamň Diane con entusiasmo mostrandole con orgoglio la poltroncina a fianco alla finestra su cui aveva riposto i panni.
Renče si sforzň di aguzzare la vista ancora offuscata dal sonno, quei colori, quei disegni del tessuto, quelle trine: Diane le aveva portato inequivocabilmente abiti da donna!
La sua amica le sorrideva con le mani poggiate sui fianchi, mentre Renče, ancora ammutolita, posň lo sguardo sconsolato sopra un mucchietto di stracci umidi abbandonati accanto al caminetto: gli abiti con cui era arrivata a Noisy il giorno precedente.
- Oh no, Renče! Non penserai di fare una cosa del genere anche qui??? Non in casa mia perlomeno… - la rimbrottň Diane scuotendo il capo allarmata.
- … Non vorrai dare una delusione alle tue domestiche? – mormorň Renče con aria di scherno.
Diane la osservň leggermente stupita, ma alla fine sorrise sorniona.
- Oh, no… Non le illuderei mai… E tu non vorrai mica ingannare Cčline e tua zia? –

Renče sospirň mestamente: la battaglia era appena cominciata.









 

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Capitolo 4
*** Diane - prima parte - ***





 

4. Diane – prima parte -



Renče era riuscita, alla fine, a farsi dare qualche abito del barone, l’aveva buttata sul fatto della sicurezza: Diane era sola a palazzo, il marito fuori a caccia e avere un “uomo” in casa a proteggere lei e i bambini poteva sempre fare comodo…
Madame de la Croix, seppure con qualche riottositŕ, aveva acconsentito che Renče si vestisse da uomo, a patto che anche suo marito, il conte de la Fčre, giungesse a Noisy al piů presto.
L’aveva lasciata in quel limbo di incertezza: donna vestita da uomo che si comporta come tale, e donna con un marito da qualche parte.
Diane era fatta cosě, sembrava sempre abbandonare tutto a metŕ, con noncuranza, disattenzione, pigrizia, ma segretamente convinta che alla fine tutto si sarebbe ricomposto secondo i suoi desideri.
Apparentemente era remissiva e malleabile, aveva la capacitŕ di adattarsi a qualsiasi situazione con facilitŕ, avvezza ad assumere qualsiasi forma, come l’acqua, pur rimanendo sempre indissolubilmente lei stessa.
Diane era forte, forse addirittura piů forte di Renče, lei riusciva sempre a sopportare tutto, si piegava, ma non si spezzava.
Renče invece, era piů propensa alla fuga, era come un animale selvatico del bosco, mal sopportava le imposizioni, i cambiamenti repentini, le gabbie… Se Renče era un torrente impetuoso che nulla puň trattenere, Diane era la goccia che lentamente scava la roccia.
Quel giorno gliel’ aveva data vinta, eppure Renče sapeva che Diane non avrebbe desistito tanto facilmente: l’aveva accontentata, in modo paternale le aveva concesso di vestirsi da maschio in casa sua ma tuttavia non aveva dubbi che alla fine l’avrebbe spuntata la sua amica.
Era questione di tempo, bastava solamente attendere come e quando Diane avrebbe deciso di sferrare il suo affondo finale.

Si ricordava ancora il giorno in cui aveva incontrato Diane.
Era appena assurta agli onori della famiglia, dopo la morte del cugino David, era lei l’erede designata dei D’Herblay; i suoi parenti avevano discusso intere settimane sul da farsi, e alla fine avevano deciso di farle recuperare tutto il tempo perduto in pochi mesi.
In precedenza stato deciso che sarebbe entrata in convento per prendere i voti, ma ora le cose erano mutate improvvisamente: sarebbe stata educata tra le sacre mura, ma non per diventare sposa di Dio, bensě per ricevere l’educazione che spetta ad una futura nobildonna.
Era accaduta una cosa strana perň, proprio zia Bčnčdicte, che era sembrata tanto reticente quando si era trattato di accoglierla in casa sua, si era opposta con fermezza all’ipotesi del suo ingresso in convento.
La zia aveva insistito per occuparsi personalmente dell’educazione della nipote, cosě Renče era rimasta a Noisy con zia Benčdicte a palazzo D’Herblay.
All’epoca era una bambina pallida e introversa che si ritrovava in continuazione sballottata dagli eventi per certi versi tragici della sua vita, non faceva in tempo ad abituarsi alla sua condizione che immediatamente doveva ricominciare tutto daccapo.
Renče non aveva amici, non c’erano bambini a palazzo D’Herblay, se si escludevano i figli di qualche serva, e comunque a lei non era concesso giocare con i figli dei domestici.
Di tanto in tanto zia Benčdicte riceveva la visita di madame de Gaillard, una nobildonna sposata al marchese de Gaillard i cui possedimenti confinavano proprio con quelli dei D’Herblay.
Al cugino David era stata fatta la proposta di prendere in moglie proprio la figlia del marchese, Diane, che allora era soltanto una bimbetta esattamente come Renče. Era un affare praticamente giŕ concluso, i terreni dei D’Herblay e dei Gaillard si sarebbero uniti raddoppiando cosě le rendite agricole, inoltre dal momento che Diane era ancora troppo giovane per sposarsi, David che era giŕ in giovanotto, avrebbe avuto tutto il tempo per scapricciarsi e frequentare il bel mondo.
Con la morte di David perň Diane era rimasta senza marito e Renče senza amici.
A zia Benedictč che nel frattempo forse aveva avuto modo di affezionarsi alla nipote, non era parso vero di potere usufruire della frequentazione di madame de Gaillard e della giovane figlia per introdurre gradualmente Renče al suo nuovo ruolo.
Che leprotta era Diane da bambina, tutta allegria e trepidazione!
Il giorno in cui l’aveva incontrata le era comparsa improvvisamente nel salotto di zia Benčdicte, un faccino paffuto e pieno di lentiggini, al cui sorriso sul davanti, mancavano un paio di denti.
Avevano giocato per un po’ “a fare le signore” sotto gli sguardi amorevoli e orgogliosi della madre di Diane e quello severo della zia, ma Renče che non aveva mai giocato con una bambina e presto aveva cominciato ad annoiarsi, cosě aveva trascinato Diane di sotto in giardino, a giocare a volano e a correre tra le siepi e le aiuole in fiore, come aveva fatto fino a poco tempo prima assieme al cugino David.
Il giorno successivo fu la piccola d’Herblay ad essere ospite dei Gaillard, e quando la bambina tornň a casa aveva le guance infiammate dalla febbre, tanto era stravolta dalla stanchezza e dalla meraviglia di quella nuova esperienza.
Diane aveva diversi fratelli e sorelle di etŕ assortita e Renče non aveva mai visto tanti bambini messi assieme: bambini che le sembravano estremamente chiassosi e disordinati per lei che era abituata a recitare preghiere inginocchiata davanti a un crocefisso.
La sua nuova amica le aveva mostrato i suoi giocattoli: le bambole dal viso di porcellana, gli occhi dipinti e gli abiti delicati che erano la perfetta riproduzione in miniatura di quelli delle signore, i suoi libri dalle figure fantastiche e colorate…
Renče osservava estasiata ogni cosa, lei abituata a maneggiare una piccola Bibbia, immagini di santi e crocifissi, timorosa e allo stesso tempo desiderosa tenere tra le mani quegli oggetti meravigliosi e sconosciuti che appartenevano alla sua amica.
Una cosa in particolare perň aveva colpito l’animo di Renče: la madre di Diane.
Era una donna leggermente pingue dalla cui morbidezza delle forme scaturiva un senso materno di calore e tenera voluttŕ.
Aveva grandi occhi bovini e un naso capriccioso che arricciava in continuazione facendo smorfie buffe quando si rivolgeva ad ognuno dei propri bambini.
Renče l’aveva trovata bella come una dea.
Madame de Gaillard si era dimostrata da subito molto cordiale con la piccola d’Herblay, ma una cordialitŕ differente da quella di maniera che le avevano dimostrato fino a quel momento i suoi parenti, una cordialitŕ che presupponeva grande confidenza priva di distacco: la cordialitŕ affettuosa tipica di chi ha a che fare con la tenerezza e poco con la cerimoniositŕ di certi atteggiamenti.
Madame de Gaillard era attorniata perennemente da quella nidiata di bambini che erano i suoi figli.
Pochi mesi separavano le loro etŕ, come se la sua unica occupazione negli ultimi anni fosse stata solo quella di sfornare marmocchi.
Alcuni di essi erano ancora in braccio alla balia, ma ella non faceva distinzioni tra quelli piů grandicelli e quelli ancora in fasce, si chinava a turno su ognuno di loro e dispensava carezze e baci sulle guance e sulla testa di ognuno di loro.
Quella fisicitŕ talvolta ingombrante e quei gesti erano quasi completamente sconosciuti a Renče, la turbavano e la sorprendevano al contempo, lasciandola estasiata ad osservare.
Forse per gioco o forse di proposito, circondata com’era di bambini, la madre di Diane aveva finito con il dare un tenero bacio sulla guancia anche a Renče, per poi posarsi una mano sulle labbra sorridenti come fosse stato un errore divertente, un piccolo e innocente scherzo… La piccola Renče rimase tramortita da quel contatto inaspettato.
Quando madame de Gaillard le si era avvicinata aveva odorato il suo delizioso profumo, aveva sentito la morbidezza quasi sfrontata di quella pelle delicata e invitante, quelle labbra tenere color geranio che le avevano sfiorato la guancia le avevano fatto nascere un sentimento nuovo e completamente sconosciuto per lei fino a quel momento.
Con il tempo l’avrebbe invidiata la sua amica Diane, non per le bambole e la quantitŕ di giocattoli, ma per quella madre e per quei fratelli.
Avrebbe imparato a riconoscere i sentimenti che le ispiravano il salone e il grande giardino dei Gaillard: allegria per tutti quei bambini sempre in procinto di mettersi a correre, urlare, piangere e ridere, mentre la presenza di quella donna sensuale e amorevole la riempiva di nostalgia.
“Si puň provare rimpianto per qualcosa che si č conosciuto appena?” Si era domandata in seguito, quando aveva compreso la natura del sentimento che provava per la madre della sua amica.
Eppure il ricordo della luce e del calore che si irradiava da quella donna attorniata di mocciosi aveva fatto affiorare in Renče un sentimento a lungo assopito ma non del tutto dimenticato.



 
***


Gli abiti del barone le stavano decisamente larghi, inconfutabile segno che il padrone di casa era piuttosto corpulento.
Se non altro l’ampia camicia di lino che indossava sotto il farsetto di lana grossa mascheravano leggermente il suo aspetto esile, anche se le cuciture dell’ampio carrč ricadevano un po’ miseramente sulle sue spalle spioventi.
Meglio era riuscita ad aggiustarsi le brache, e tuttavia non aveva rinunciato alla compagnia del cinturone di cuoio in cui era appesa la sua spada, senza la quale si sarebbe sentita nuda.
Qualche domestico aveva provveduto ad asciugare e a lucidare i suoi stivali, l’unico indumento che non avrebbe mai potuto scambiare con quelli del barone.
Mentre misurava con ampie falcate battendo i tacchi solennemente lungo il corridoio deserto si sentiva sicura di sé e possente, come avesse dimenticato le angosce del giorno precedente e della notte, ma giunta a metŕ del grande scalone che conduceva dal piano nobile a quello sottostante, si arrestň sgomenta…
Era convinta che avrebbe trovato ad attenderla soltanto qualche domestico, una tavola imbandita e la sua amica Diane, invece...
Quei rumori e quelle vocine tenere e cristalline non lasciavano dubbi di sorta…
“Bambini…” Aveva constatato.
Nulla la terrorizzava come quelle misteriose creature, soprattutto quando si trovava costretta a interagire, suo malgrado, con loro. Piů erano giovani d’etŕ e piů avevano il potere di metterla a disagio.
Assomigliavano a folletti, gnomi, creature magiche e misteriose, totalmente imprevedibili che si reggevano a stento su quelle gambe ora grassocce ora macilente, con quegli occhi spalancati, talmente grandi da sembrare infinti, profondi come le maree di Normandia che tutto sommergono, tanto limpidi da potersi specchiare dentro.
Istintivamente Renče pensň a Jean, l’unico bambino con cui avesse avuto a che fare nella sua vita da adulta, l’unico che, con una semplicitŕ disarmante, aveva scoperto il suo segreto quando si travestiva da moschettiere.
Soltanto un bambino, dotato di quelle particolari doti magiche di intuizione, sarebbe riuscito laddove altri non avevano capito ancora niente.
"Ci risiamo..." pensň con un groviglio nello stomaco.
Inspirň profondamente prima di entrare nella sala da pranzo, gonfiando il petto, come se con quel gesto cercasse di innalzare una barriera tra sé e quegli esseri minacciosi.
Il salone da pranzo era ampio e luminoso, le pesanti tende erano state completamente scostate per fare entrare la luce del sole che illuminava una tavola per metŕ ancora imbandita di prelibatezze e per l’altra metŕ, invece, contenente i resti della colazione appena consumata dai commensali: madame Diane e un paio di bambini, maschi, che se ne stavano tutti impettiti a fianco della bambinaia, vestiti pomposamente di velluto e pizzi come piccoli adulti, nonostante i teneri e rosei lineamenti tradissero la loro giovanissima etŕ.
Dal momento in cui Renče aveva fatto la sua comparsa nel salone, i due fanciulli avevano cominciato ad occhieggiare da dietro le sottane della bambinaia intimoriti e allo stesso tempo irresistibilmente attratti dal nuovo arrivato.
- Buon giorno, avete riposato bene? - disse furbescamente Diane lanciandole un’occhiata maliziosa.
- Benissimo madame…- le fece il verso Renče inchinandosi ossequiosa nell’atto del baciamano.
Un inatteso tintinnio metallico catturň gli occhi dei bambini che si concentrarono immediatamente sul il fianco di Renče, dove pendeva la sua spada.
Diane non riuscě a trattenere una lieve smorfia di disappunto:
- Non riuscite proprio a fare a meno di quell’affare, vero? -
Costernata Renče si liberň alla svelta del cinturone con l’arma, posandolo sopra una cassapanca.
Immediatamente le due testoline si volsero verso l’oggetto che aveva attirato la loro curiositŕ il loro desiderio.
Il bambino piů piccolo perň aveva negli occhi una luce strana e aveva preso a osservare il nuovo arrivato con insistenza, lanciando occhiate furtive ora alla sua spada e ora a lei stessa.
- Perché indossate gli abiti di nostro padre? – ruppe gli indugi con una vocina che sembrava avere la soavitŕ del canto di un cherubino.
- Jean-Luc! Che maniere sono? – Lo riprese a bassa voce la bambinaia assestandogli un buffetto sulla nuca.
Il bimbo rientrň rapidamente nei propri ranghi senza battere ciglio.
- I miei figli, Jean-Marie e Jean-Luc. Vi prego di perdonare la loro irruenza. - Si affrettň a dire Diane indicando i due bambini mentre chinavano le testoline in un ossequioso gesto di riverenza.
Il bambino piů grandicello non si trattenne a lungo e pochi attimi dopo aver terminato l’inchino al loro ospite, domandň soavemente alla madre se “monsieur poteva mostrare loro la sua spada”.
Diane sospirň, annuendo non troppo convinta per poi aggiungere severamente.
- Senza toccarla, perň. –
I due bambini trotterellarono accanto alla cassapanca, mentre Renče, che in realtŕ avrebbe voluto fuggire il piů lontano possibile, afferrava l’arma e lasciava sgusciare dal fodero una piccola porzione della lama.
Esclamazioni di estasi e meraviglia spalancarono le labbra dei due bambini che si scambiavano rapidi sguardi di intersa, combattuti tra il desiderio di avvicinare le dita paffute all’elsa della spada e il rigoroso divieto della madre.
Renče non poté fare a meno di notare quanto fossero graziosi quei due visini dalla pelle rosata e trasparente, quegli occhi limpidi da cui stillavano soltanto innocenza e stupore.
- Avete combattuto molti duelli, monsieur? - domandň di nuovo il bimbo piů grande con la sua vocina.
Renče annuě presa da un improvviso groppo che le serrň la gola che le impediva di parlare, scoprě ulteriormente la lama con un gesto lento, in modo da offrire la lama alla luce del giorno, facendola rifulgere di bagliori cangianti.
I due bambini allungarono il collo pur di avvicinarsi, soltanto con gli occhi, ulteriormente all’oggetto del loro desiderio, immaginando magnifiche battaglie.
- Avete ucciso molte persone con questa, monsieur? - la incalzň il piů grandicello prendendo ulteriore confidenza.
- Beh… insomma… - balbettň Renče colta completamente alla sprovvista dalla feralitŕ della domanda, facendo rientrare completamene la lama nel fodero.
- Adesso basta Jean-Marie. Lasciamo monsieur desinare in pace. Piů tardi, se ne avrŕ voglia, potrŕ raccontarvi le sue mirabolanti avventure. – intervenne prontamente Diane con un piglio autoritario ed un inaspettato accenno di ironia su quelle “mirabolanti avventure”.
La bambinaia allargň le braccia, e come una chioccia con i pulcini accolse i due bambini imbronciati tra le ampie maniche del suo abito, conducendoli fuori dalla sala.
- Fate pure con comodo monsieur, piů tardi potete raggiungerci sotto il porticato. – aggiunse poi Diane con un inchino prima di lasciare una Renče attonita e spaesata alle attenzioni di due domestici.



 
***


Diane aveva proprio ragione, come del resto spesso negli ultimi tempi: tanto la giornata precedente era stata uggiosa, tanto quella che avevano dinnanzi pareva gradevole.
Renče indugiň parecchio assaporando la promessa di quel radioso mattino di primavera davanti alla grande porta a vetri scostata che dava sul giardino della casa.
L’aria era ancora frizzante, ma non pungente e fradicia, i raggi del sole cominciavano a riscaldare con un tenero tempore, mentre la luce prepotente del giorno inondava copiosamente il mattino trafiggendo le gocce di umiditŕ ancora sulle foglie della lussureggiante vegetazione, facendole risplendere dei colori dell’arcobaleno, come minuscole luci appese da misteriose creature a mo’ di lanterne alle foglie.
Si sentě per la prima volta dopo molto tempo a casa, poteva riconoscere finalmente l’odore particolare dell’aria di quella regione selvaggia che, in fondo, le apparteneva.
Si lasciň abbracciare dai raggi tiepidi del sole, sentiva quel piacevole tepore irradiarsi nelle sue ossa intorpidite, insinuarsi fin dentro la sua anima a sciogliere il freddo che sentiva dentro.
Rinfrancata da quell’atmosfera idilliaca, pensň di andare a controllare il suo cavallo nella scuderia, prima di incontrare Diane e mettersi alla scrivania a cercare le parole adatte per convincere Athos a raggiungerla palazzo del la Croix.
Aveva giusto mosso pochi passi quando ebbe l’impressione che voci infantili la stessero rincorrendo.
- State in guardia messere! -
- Come osate, ora assaggerete il mio ferro! -
Renče non potč fare a meno di sorridere tra sč e sč: frasi tanto altisonanti e minacciose pronunicate da quelle vocette soavi...
- Vostre signorie, vi supplico di non correre in quella maniera e di rimanere sopra il ciottolato: l’erba del giardino e bagnata e piena di fango! –
Jean-Marie e Jean-Luc alternavano scene di inseguimenti a scene di duello, mulinando con fare minaccioso due piccole spade di legno sotto un piccolo gazebo al centro del giardino, inseguiti da una bonne d’enfants trafelata che cercava di riportarli ad un minimo di disciplina.
- Č arrivato anche Monsieur! - gridň, ad un tratto, uno dei due bambini interrompendo il gioco. Abbandonato il duello all’ultimo sangue come se nulla fosse, i due presero a trotterellare in direzione di Renče che indietreggiň qualche passo riuscendo a dissimulare a malapena la sua non remota volontŕ di fuggire lontano da quei due perniciosi nemici alti quanto un soldo di cacio, completamente ignara che un'altra minaccia, ben piů terrificante, stava sopraggiungendo alle sue spalle preceduta da un miagolio ovattato trasportata da passi lenti e da una nenia sussurrata.
- Bene! Noto con piacere che avete deciso di fare quattro passi in giardino…- la voce di Diane echeggiň soave dietro di lei.
Il colore sembrň per un istante abbandonare le guance di Renče non appena il suo sguardo incontrň la sua amica: Diane teneva infatti tra le braccia un fagottino avvolto da morbide coperte che emetteva un borbottio tutt’altro che rassicurante. 
Presa completamente alla sprovvista da quella visione e circondata da quei marmocchi urlanti, a Renče non rimase altro da fare fermarsi ed affrontare ciň che di piů temeva.
- Voglio presentarti un altro membro della famiglia del barone de la Croix: Madeleine, la mia ultima nata.- disse con orgoglio Diane mostrando a Renče il contenuto del fagottino.
- … Č una femmina?...- farfugliň Renče a stento.
Da ragazza trovava poche cose piů insopportabilmente noiose dell’ostentato chiacchiericcio delle mamme sui propri figli, ma a quel tempo era troppo giovane per domandarsene il motivo, quindi semplicemente si defilava con una scusa qualsiasi.
Le matrone di Noisy la guardavano con accondiscendenza quando mostravano i loro pargoli a zia Bčnčdicte e lei rimaneva impassibile di fronte a quelle faccine da scimmietta, sentenziando semplicemente “Imparerŕ…”.
Provava una sorta di istintiva e incontrollabile repulsione per i lattanti di qualsiasi ordine e grado, perfino per quelli della sua amica d’infanzia.
Li trovava tutt’altro che deliziosi e, ogni volta che se ne trovava uno di fronte, si interrogava sul motivo per cui qualsiasi giovane donna o fanciulla si sdilinquisse nel vezzeggiare quei piccoli mostriciattoli capaci soltanto di cacare e strillare per ore e ore con il volto paonazzo.
La neonata di Diane dal canto suo, pur non essendo ancora dotata di parola, pareva avere avvertito lo stato d’animo tutt’altro che amichevole di Renče e le aveva rivolto uno sguardo con gli occhietti obliqui a metŕ tra l’indifferente e l’annoiato prima di sbadigliare e girare la testolina verso la madre, come a interrogarla sul motivo di quell’incontro.
- La vuoi tenere? - domandň Diane in modo del tutto inutile dal momento che, mentre pronunciava quelle parole, aveva giŕ piazzato la bimba tra le braccia di pietra di Renče.
La donna che era stata un tempo moschettiere fu scossa da un tremito di puro terrore, avrebbe preferito passare attraverso un plotone d’esecuzione piuttosto che ritrovarsi quel fagottino infiocchettato tra le braccia.
Quando prestava servizio come moschettiere era stata enormemente grata alla divisa che indossava, perché la esonerava dal mostrare il benché minimo interesse verso quelle creature agghiaccianti, che si trattasse indistintamente di rampolli di qualche nobile casato o dei figli delle strade di Parigi.
Avrebbe dovuto esibirsi ora in una ridda di mossette, gorgheggi e smorfie ridicole come tutte le donne allo scopo di sollazzare l’infante e compiacere la madre e le tate che osservavano la scena estasiate?
Per un istante che sembrň eterno Renče rimase di pietra con la neonata tra le braccia senza sapere bene che fare, con le mani che arpionavano le coperta ricamata quasi a cercare disperatamente un appiglio e l’ansia crescente le contorceva le viscere.
Un silenzio assordante d’un tratto pareva calato nel giardino, come se l’universo intero fosse in attesa di un gesto, un sorriso un sospiro da parte di Renče: Diane e balia avevano perso misteriosamente l’uso della parola, gli uccellini avevano smesso di cinguettare, i non ti scordar di me di occhieggiare tra i fili d’erba e perfino Jean-Luc e Jean-Marie tacevano immobili con le loro piccole spade di legno abbandonate sul fianco.
L’unica che poteva salvare Renče era proprio Madeleine, la neonata.
Dopo quell’attimo che sembrava non finire piů, la bimba spalancň la sua boccuccia sdentata ed iniziň a frignare, dapprima sommessamente, poi via via a pieni polmoni, come a reclamare con stizza quella dose di attenzioni che Renče le aveva negato.
Con il pianto della piccola, il volto di Diane si rianimň come per magia mentre la balia tendeva le braccia verso Renče perché le restituisse il prezioso fagottino urlante. - Ci penso io Monsieur. – furono le parole della sua salvatrice.
Sbarazzatasi dell’ingombrante fardello, quella che una volta era stata la donna moschettiere, riacquistň la padronanza del proprio corpo e della propria mente.
In un battibaleno tutte le attenzioni erano tornate alla figlia di Diane e con enorme sollievo Renče tornň ad eclissarsi tra la balia e la sua amica.
Una sottile inquietudine perň continuava a farle tremare le mani: dal suo punto di vista non aveva affatto superato l’esame e la prova era soltanto rinviata per qualche tempo.
Nella concitazione generale gli occhi turbati di Renče incontrarono quelli di Jean-Marie che stringeva la sua piccola spada di legno.
- Che ne dici, piccolo moschettiere, di fare un po’ di pratica?- domandň stupendosi lei stessa dell’audacia al bambino che la osservava rapito.
- Sěěěěěěě! - rispose un coro due voci infantili.
Reneč sospirň con una certa soddisfazione, del resto, due spade di legno erano di gran lunga meglio di una culla.






 

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Capitolo 5
*** Diane - seconda parte - ***




 

5. Diane – seconda parte -




- Due fidanzati?-
Diane irruppe in una cristallina risata che le scaturiva dal petto, niente a che vedere con quelle risatine al limite della reticenza prontamente celate dietro un ventaglio a cui le signore per bene erano avvezze: la sua era proprio una risata liberatoria, schietta e verace, di quelle che fanno rovesciare la testa all’indietro per la goduria rischiando di far scivolare il grazioso cappellino del completo da amazzone.
Renče aveva deciso di fare una passeggiata a cavallo nei dintorni quel pomeriggio e Diane, accantonando momentaneamente i suoi impegni materni, si era unita a lei.
Quella risata sincera le aveva restituito l’amica che ricordava; quel pomeriggio, Diane, era di nuovo la ragazza spensierata che era stata anni prima, come se il fatto di uscire dalle mura di palazzo de la Croix, l’avesse trasfigurata.
- Non č possibile che abbia detto una cosa del genere! –
Diane sprizzava allegria da tutti i pori e non riusciva a smettere proprio di ridere, aveva iniziato ancora prima che i servi aprissero il cancello per farle uscire a cavallo e non si era ancora fermata. Era stato suo figlio Jean-Marie a dire, mentre le salutavano sotto l’occhio vigile delle tate, che sembravano due fidanzati a cavallo.
Renče montava l’imponente palafreno bianco con cui era giunta a Noisy, ed era equipaggiata come se dovesse affrontare un lungo viaggio a cavallo: lunghi stivali di cuoio e mantello di feltro con un grande cappuccio scuro. Diane invece, indossava un completo di velluto verde da amazzone e cavalcava con la stessa disinvoltura che aveva da ragazza, ma con consapevolezza e la signorilitŕ del ruolo che interpretava ora: la gentil donna.
A vederli mentre si allontanavano dalla via maestra per imboccare una stradina laterale, si sarebbe detto veramente che somigliavano a una coppia di fidanzati – male assortiti, in vero – a passeggio e forse in cerca di un po’ d’intimitŕ nei boschetti circostanti.
Le due amiche, abbandonati ben presto anche i sentieri battuti, s’inoltrarono nei pascoli erbosi circostanti la macchia e saggiato la consistenza del terreno, lanciarono i loro cavalli in un galoppo sfrenato, ridendo a crepapelle e incitandosi a vicenda.
Il grande cavallo di Renče divorava lo spazio con lunghe falcate e i suoi zoccoli possenti sollevavano piccole zolle di terreno umido, mentre la puledra di Diane lo tallonava con le sue zampe snelle, veloce e aggraziata come una libellula.
Nella mente di Renče si era scatenato un tumulto di emozioni, stimoli e ricordi rievocati dalle sensazioni provate in quella perfetta giornata di sole.
Era divertente galoppare nell’erba giovane della primavera, gli zoccoli dei cavalli non martellavano rumorosamente i ciottoli della strada rendendo scomoda l’andatura, sui prati il terreno era soffice e l’erba frusciava dolcemente tra le zampe degli animali, la cavalcata risultava fluida mentre si lascava scivolare piacevolmente avanti e indietro sulla sella di cuoio, in perfetta simbiosi coi movimenti del suo destriero.
Diane montava come una vera signora e, probabilmente, per lei non era cosě agevole inseguirla al galoppo. Di questo, Renče, si doleva leggermente mentre voltava la testa indietro per assicurarsi che la sua amica fosse ancora nei paraggi.
Le tornava alla mente il giorno in cui Diane l’aveva iniziata a quelle corse temerarie nel bosco e le sembrava oltremodo strano che ora fosse proprio a lei inseguirla, giacchč era stato proprio per merito della sua amica se aveva imparato a cavalcare in quella maniera “decisamente inappropriata” per una signorina.
- Č divertentissimo, devi provare anche tu! – le aveva detto semplicemente.
- … Ma non si fa… -
Renče inizialmente era rimasta un po’ perplessa di fronte a quella proposta piuttosto sconveniente, ma la sua amica, del resto, sapeva essere molto convincente semplicemente con uno dei suoi sorrisi disarmanti.
Aveva presto imparato che trasgredire non era affatto difficile.
Uscivano bardate di tutto punto, a volte perfino con le gualdrappe, poi lontano da occhi indiscreti, liberavano i cavalli e montavano in arcione, senza curarsi delle gonne che si sollevavano inesorabilmente sulle caviglie e partivano a spron battuto.
Chi avesse istigato Diane a cavalcare in quella maniera restava tutt’ora un mistero per Renče.
Forse era inevitabile: essere infrante č il destino implicito di regole e consuetudini, ed eludere i divieti faceva parte del gioco.
Il brivido di violare i precetti regalava loro un sottile piacere a cui non sapevano rinunciare, mentre si scambiavano sorrisetti complici il cui significato era noto soltanto a loro.
Durante quelle corse segrete, lontano dagli sguardi delle istitutrici e di zia Bčnčdicte, assaggiavano il sapore di essere semplicemente loro stesse: giovani e indipendenti.
Renče aveva pensato a lungo che la libertŕ avesse il sentore dell’aria che passa attraverso le orecchie di un cavallo.
Fin da bambina era sempre stata affascinata da quelle bestie, che si trattasse da cavalli attaccati a una carrozza, da parata o di grandi palafreni da viaggio: cosě eleganti nelle movenze, cosě maestosi, cosě nervili…
Avrebbe trascorso intere giornate a osservarli se glielo avessero consentito.
Fino a che era rimasto in vita, il cugino David l’aveva portata a passeggio sul suo splendido sauro; si sentiva cosě importante quando lui la teneva tra le ginocchia lassů in alto e gli zoccoli del cavallo risuonavano sul selciato annunciandoli.
Lui le aveva anche promesso che un giorno le avrebbe fatto dono di un pony e le avrebbe insegnato a montare come una vera lady; sfortunatamente perň lui era morto prima di poterle insegnare e di questo Renče si era sempre rammaricata.
Per qualche tempo aveva anche insistito con zia Bčnčdicte perché mantenesse la promessa che le aveva fatto David, ma lei si era sempre categoricamente opposta: in compenso un giorno le aveva fatto trovare un piccolo cavallo di legno, dalla lunga coda di veri crini, con cui giocare.
Evidentemente sua zia sperava in quella maniera di risolvere la questione senza spargimenti di ulteriori lacrime, e la cosa funzionň anche – per un certo periodo di temo - , fino al giorno in cui Renče vide per la prima volta la sua amica Diane sopra un cavallo vero.
Un piccolo pony color miele, dalla folta criniera bionda infiocchettata, tenuto alla corda da uno staffiere, che trotterellava felice con sopra un’ancora piů felice bambina.
I primi tempi si era accontentata di guardare con gli occhi pieni di desiderio quel cavallino grazioso, ad accarezzarlo, a intrecciare la sua lunga coda e la criniera dorata, ad aiutare il garzone a spazzolarlo e a pulirgli gli zoccoli…, finchč non aveva deciso che i tempi erano maturi per fare il grande passo e porre di nuovo la fatidica domanda:
“Posso avere anch’io un cavallo come Diane?”
- Per le ragazze esistono le carrozze e le lettighe. - Era stato il lapidario commento della zia. Era conscia che questa volta non se la sarebbe cavata con un cavallino di legno, il suo divieto doveva quindi essere categorico – I Gaillard hanno sempre avuto idee riguardo l’educazione delle fanciulle talmente… all’avanguardia!-
La zia aveva pronunciato quell’ultima frase con un accento nasale, come se quella parola “avanguardia” avesse un cattivo odore, come il tanfo del letame nelle scuderie, o qualcosa che contiene al suo interno una minaccia da cui fuggire a gambe levate.
Renče aveva chinato il capo, costretta a fare buon viso a cattivo gioco.
Non Diane perň… Lei era un piccolo diavoletto pestifero vestito di seta, nastri e trine…
Un giorno era riuscita a convincere lo staffiere a mettere la sua amica sulla sella del pony e le aveva fatto fare un giro nel giardino di casa…
Tanto era bastato per iniziare Renče all’arte e all’esercizio del cavalcare.
Tanto avevano insistito le due bambine con Madame de Gaillard perchč anche Renče potesse prendere lezioni di equitazione, che quest'ultima, con le sue idee “rivoluzionarie”, ce l’aveva messa tutta per convincere zia Bčnčdicte a far prendere lezioni di equitazione a Renče, declamando con enfasi che una fanciulla erede della nobiltŕ forese aveva l’obbligo quasi “morale” di sapere andare a cavallo.
Un giorno, di ritorno da una battuta di caccia al seguito del marito, aveva ricevuto zia Bčnčdicte fasciata in un bellissimo completo da cavallerizza di velluto color rosso cupo che metteva in risalto il delicato biancore della sua carnagione e i suoi capelli corvini trattenuti da una reticella da cui sfuggivano imperterriti alcuni riccioli ribelli.
Aveva ancora addosso l’odore forte del bosco, della corteccia e delle foglie, fresco dell’erba rorida calpestata, inebriante del vento che sibila tra i rami e infiamma le guance durante una galoppata nella campagna.
Quel giorno, la madre di Diane si era dimostrata particolarmente prodiga di salamelecchi alla zia, novellava in modo spropositato di quanto si fossero divertite lei e le signore mogli gentilizie, e di quanto si potessero tessere legami importanti a questo genere di eventi. Lontano dai saloni da ballo, dove sotto le luci delle candele anche la crusca acquista le sembianze del fiore della farina, durante una battuta di caccia, alla luce del sole, si potevano vagliare la salute, lo stato sociale, l’educazione e le buone maniere di molti giovani e… aspiranti mariti!
Negli occhi di zia Bčnčdicte parve balenare un lampo d’interesse remoto.
Del resto, madame de Gaillarrd era donna di mondo piů di quanto potesse essere lei, che era vedova…
Alla fine, non senza parecchia riluttanza dovuta piů che altro al timore che la nipote potesse farsi del male, vuoi per l’avvenenza di madame e per la prospettiva di fare buoni incontri, la zia aveva dato il suo beneplacito.
Seguiva le lezioni della nipote da dietro i vetri di una finestra, sussultando ad ogni balzo del cavallo, ad ogni incertezza della nipote issata sulla sella, coprendosi gli occhi con le mani ad ogni ruzzolone, sospirando dopo avere ringraziato qualche santo del paradiso ogni volta che Renče si rialzava e rimontava in sella piů determinata che mai.



 
***


Quando furono paghe di emozioni forti, le due amiche misero i cavalli al piccolo trotto e tornarono sulla strada principale.
L’aria fresca e l’adrenalina della corsa avevano infiammato le guance di Renče e allargato i suoi occhi celesti, mentre il viso imbellettato di Diane aveva assunto sulle guance una tenue colorazione rosacea che rendeva la sua carnagione simile a quella di una bambola di porcellana; Renče osservň la sua amica a lungo, tutto di lei parlava di signorilitŕ, la sua posizione composta sulla sella, l’andatura disinvolta della sua puledra, perfino le pieghe che si disegnavano mollemente sul suo vestito, come se le due anime di lei, la Diane ragazza e la sobria madame de la Croix convivessero felicemente.
La strada era fiancheggiata da una doppia fila di gattici le cui foglie giovani stormivano sotto l’effetto della brezza primaverile come un leggero tintinnio di minuscoli sonagli e l’aria era impregnata dell’odore silvestre dei boschi circostanti.
Renče conosceva bene quel profumo, quante volte si era riempita le narici dell’aroma di foglie cadute l’autunno precedente e ormai ridotte a poltiglia dalle intemperie dell’inverno in contrasto con l’odore dolce delle foglie giovani spuntate da poco, odore di terra umida, di erba nuova, di vento.
Si scoprě felice di trovarsi in quel posto, in quel momento, in compagnia della sua amica.
Il suo cavallo allungava il collo ogni volta che passava a fianco delle fronte piů lunghe che gli passavano a fianco e tentava di afferrare le foglie tenere con la bocca.
- Ma che cos’ha il tuo cavallo? – domandň incuriosita Diane - Si direbbe che questa mattina nelle scuderie lo abbiano lasciato a digiuno…-
Renče sorrise compiaciuta.
- Č solamente goloso… Diciamo che non disdegna fare uno spuntino fuori pasto di tanto in tanto! -
Pensň a Porthos, il palafreno bianco era stato il suo regalo di nozze… evidentemente quando aveva scelto quel cavallo, lo aveva fatto con cognizione di causa: tale e quale a lui… Del resto imponente e maestoso – anche nell’appetito - non poteva che averlo scelto lui quel cavallo!
Anche Diane parve divertita da quel commento, il grosso cavallo di Renče, non aveva niente di minaccio, al contrario sembrava sě, un ragazzone imponente e tenace, ma anche incredibilmente bonario.
La sua amica teneva le redini ben salde sul collo della sua puledra che camminava svelta e decisa, ma aveva quel mezzo sorriso da cerbiatta negli occhi, che madame de la Croix non avrebbe mai avuto, e intanto fissava un punto ben preciso lungo la via…
- Ascolta cosa faremo… - disse alla fine senza distogliere lo sguardo davanti a sé.
- … Eh?- A Renče parve di non afferrare bene il senso di quell’ affermazione.
- Beh, dobbiamo pur inventare una scusa per avvicinare tua zia, no? –
Renče ammutolě. Come se il fiato avesse improvvisamente abbandonato la sua gola e una mano gelida le stringesse il cuore nel petto…
- Non sei venuta fino a qui per questo?- domandň senza attendere nemmeno la risposta. – Stamani ho inviato un invito a tua zia Bčnčdicte. Tu hai scritto a tuo marito non č vero? –
Renče biascicň qualcosa, ma improvvisamente aveva la bocca troppo secca per articolare qualsiasi suono di senso compiuto.
- Purtroppo non sono sicura che Cčline sia ancora al servizio di tua zia, ma se la fortuna ci assisterŕ avrai ottime probabilitŕ di incontrarla. La metteremo davanti al fatto compiuto. Andrŕ tutto bene, non ti preoccupare. -
L’intuizione della baronessa e la relativa proposta era stata talmente lineare e priva di artificio che controbatterla a Renče sembrň totalmente privo di senso.
Eppure, qualcosa non tornava…

La cavalla di Diane drizzň le orecchie poi partě al galoppo quando la sua amazzone schioccň semplicemente la lingua, mentre Renče, in groppa al suo grosso destriero, indecisa se rincorrere o meno Diane e la sua vivace puledra, rimase immobile a guardarle mentre si allontanavano.








Ai miei lettori: keep the faith!
Lo so, non aggiorno piů tanto spesso…
Pochissimo tempo da dedicare alle scrittura (e alla ri-lettura!), congiunture personali piuttosto sfortunate, nuovi fandom che attraggono irresistibilmente la mia attenzione e la mia ispirazione mal si conciliano con la prosecuzione di questa fic… 
: (
Ma non temente, non vi abbandonerň… Non č mia usanza lasciare le cose a metŕ, vi chiedo solo di avere un po’ di pazienza!
Un grazie di cuore a tutti voi che, nonostante tutto, continuate a seguirmi e ad avere fiducia!

 

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