La fine di un vagabondo

di Miriel_93
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo uno. ***
Capitolo 2: *** Capitolo due. ***
Capitolo 3: *** Capitolo tre. ***
Capitolo 4: *** Capitolo quattro. ***
Capitolo 5: *** Capitolo cinque. ***
Capitolo 6: *** Capitolo sei. ***
Capitolo 7: *** Capitolo sette. ***
Capitolo 8: *** Capitolo otto. ***
Capitolo 9: *** Capitolo nove. ***
Capitolo 10: *** Capitolo dieci. ***
Capitolo 11: *** Capitolo undici. ***
Capitolo 12: *** Capitolo dodici. ***
Capitolo 13: *** Capitolo tredici. ***
Capitolo 14: *** Capitolo quattordici. ***
Capitolo 15: *** Capitolo quindici. ***
Capitolo 16: *** Capitolo sedici. ***
Capitolo 17: *** Capitolo diciassette. ***
Capitolo 18: *** Capitolo diciotto. ***
Capitolo 19: *** Capitolo diciannove. ***
Capitolo 20: *** Capitolo venti. ***
Capitolo 21: *** Capitolo ventuno. ***
Capitolo 22: *** Capitolo ventidue. ***
Capitolo 23: *** Capitolo ventitré. ***
Capitolo 24: *** Capitolo ventiquattro - parte prima. ***
Capitolo 25: *** Capitolo ventiquattro - parte seconda. ***
Capitolo 26: *** Epilogo. ***



Capitolo 1
*** Capitolo uno. ***


capitolo uno.

Kenshin

Il canto di grilli mi graffia i timpani.
Il caldo non li infastidisce. I grilli hanno altri problemi, non si lasciano certo toccare da questioni di poco conto come l’afa di agosto o i ricordi. Le loro vite semplici ruotano intorno alla sopravvivenza, siamo solo noi, miseri esseri umani, a crucciarci inutilmente.
Osservando il giardino immerso nella penombra delle lanterne, lascio che una goccia di sudore mi scivoli lungo la schiena per un breve tratto, prima di essere assorbita dal tessuto del mio gi.
Un profumo familiare mi solletica il naso e io mi giro verso la sua fonte.
«Ti ho portato una fetta d’anguria prima che Sanosuke e Yahiko la divorino», dice Kaoru, porgendomi una mezzaluna scarlatta.
«Grazie», rispondo, sorridendole. Accetto la fetta di anguria mentre Kaoru prende posto di fianco a me, sedendosi sul legno del portico, faccia a faccia col giardino buio.
«Questo caldo è terribile, come fai a resistere qui fuori?» Domanda, passandosi una manica del kimono sulla fronte.
«Non è così terribile, a volte arriva qualche ventata fresca», Le assicuro, studiando il suo profilo familiare.
«Beh, non che dentro si stia meglio, ma almeno ci distraiamo a vicenda, anche se vedere Sano e Yahiko ingozzarsi come maiali mi fa sudare ancora di più», ammette, con una smorfia.
Ridacchio, staccando qualche seme dalla polpa rossa dell’anguria, lasciandolo cadere nel piatto di ceramica. «Quei due non cambieranno mai», sentenzio, scuotendo appena il capo.
«Purtroppo!» Sospira Kaoru. Un momento di silenzio s’insinua nel buio afoso. «A breve comincerà la Festa delle Lanterne», nota Kaoru, per scacciare lo spettro di quel pesante vuoto.
«Già». Di colpo mi faccio pensoso. Sono passati quasi undici anni, ormai, da quando mi sono lasciato alle spalle il mio ruolo di assassino, eppure ogni volta che le lanterne si accendono per guidare gli spiriti dei propri cari verso casa non posso fare a meno di avvertire un peso sul cuore. Quante vite ho reciso con la mia spada, quante lanterne in più sono state accese a causa mia. E quella lanterna, quanto brucia quell’unica lanterna, nel mio cuore arido.
«Kenshin?» La voce di Kaoru mi riporta sotto il portico del Dojo Kamiya.
«Sì?» Rispondo, tendendo le labbra in un sorriso, mentre gli spiriti del mio passato fanno un passo indietro.
«Niente, ti eri incantato a fissare il vuoto», dice Kaoru, stringendosi nelle spalle. Già, fissavo il vuoto. Il vuoto che mi sono lasciato dietro, un vuoto ritagliato dalla lama della mia spada.
«Dev’essere il caldo» Mi giustifico, con una mezza risata, passandomi una mano sulla nuca sudata.
«Mangia l’anguria, vedrai che ti sentirai meglio», mi suggerisce, con un sorriso.
«D’accordo, grazie», rispondo, sorridendo a mia volta.
Kaoru esita un momento, poi si alza. Avrei preferito che rimanesse un altro po’, mi piace la sua compagnia.
«Torno dentro prima che Yahiko e Sanosuke mangino anche le pareti», mi informa, alzando gli occhi al cielo. Annuisco, sorridendole e la seguo con lo sguardo mentre percorre i pochi passi che la separano dall’entrata, oltre la quale sparisce poco dopo.
Torno a guardare il buio del giardino, invaso dall’aria calda increspata dal canto dei grilli, e addento l’anguria. Un po’ di succo mi cola lungo il mento. Lo asciugo con la punta delle dita mentre mastico. Kaoru aveva ragione. L’anguria è fresca e mi dà sollievo quasi subito.
I grilli continuano a cantare mentre assaporo quella dolce mezzaluna color sangue, sputando i semi nel piatto di ceramica bianca.
Devo andare a Kyoto.
Quella consapevolezza mi colpisce come un pugno in piena faccia.
È giusto così. È giusto che anche io, dopo tutti quegli anni, accenda la mia lanterna. Gli altri se la caveranno anche senza di me, per qualche giorno.
Mi alzo anche io, assicuro la sakabato al mio fianco, raccolgo il piatto con la buccia dell’anguria ed entro, seguendo i passi di Kaoru.
Dentro, seduti sul tatami, trovo Kaoru, Sanosuke, Yahiko e Megumi, immersi in un momento di relativa calma, probabilmente seguito all’ennesima lite tra Yahiko e Sano.
«Kenshin, alla fine ti sei deciso a raggiungerci», mi saluta Megumi, bevendo un sorso di tè.
«Eh, già, il canto dei grilli cominciava a farmi venire ancora più caldo», mento, prendendo posto sul tatami, incrociando le gambe. Kaoru mi versa una tazza di tè freddo al gelsomino e me la porge con un sorriso. La accetto, ringraziandola con un cenno del capo e ne bevo un sorso.
Sanosuke si alza, lanciando un’occhiataccia a Yahiko, che lo guarda storto a sua volta.
«Io levo le tende, ragazzi. Non vorrei che Yahiko mangiasse anche me», annuncia, prendendo in giro il ragazzino.
«Adesso che ti sei sbafato tutto te ne vai? Non potevi andartene prima?» Domanda Yahiko, incrociando le braccia sul petto.
«Non ricominciate!» Li rimprovera Kaoru.
«Penso che me ne andrò anche io. Sanosuke, renditi utile e accompagnami», dice Megumi, alzandosi con eleganza.
«Perché dovrei? Nessuno avrebbe il coraggio di avvicinarsi a una come te», protesta Sano.
«Perché altrimenti la prossima volta che ti farai pestare a sangue ti lascerò agonizzante, invece di curarti», lo ricatta la dottoressa. Con un mugugno, Sanosuke si arrende e, salutandoci con un gesto della mano, si avvia verso l’uscita, seguito da Megumi.
«Buonanotte, ragazzi», ci saluta lei. Le auguriamo una buonanotte a nostra volta e la osserviamo uscire dalla stanza.
Il silenzio calato nella stanza viene interrotto da un rumoroso sbadiglio di Yahiko, che si sfrega la pancia piena.
«Kaoru-dono, se dovessi andare a Kyoto per alcuni giorni non sarebbe un problema, vero?» Chiedo. Meglio battere il ferro finché è caldo.
«No, assolutamente. Ma perché questa decisione improvvisa?» Chiede Kaoru, prima di bere un sorso di tè. Sta cercando di nascondere la sorpresa, lo so.
«Ho una questione da sistemare», dico, restando sul vago.
«D’accordo. Possiamo approfittarne per passare a salutare Misao e tutti gli altri», propone Kaoru, con tono allegro.
«A dire il vero io preferirei restare qui», bofonchia Yahiko, fingendosi interessato a un filo che gli esce dall’orlo della manica.
«Non vuoi rivedere gli altri?» Domanda Kaoru, sorpresa.
«Al contrario, mi farebbe piacere…ma ecco, si avvicina la Festa delle Lanterne e io vorrei rendere omaggio ai miei genitori», confessa il ragazzino, arrossendo lievemente, come se fosse una vergogna.
«Beh, suppongo che Kenshin intendesse partire dopo la Festa», risponde Kaoru.
«In verità contavo di andare a Kyoto proprio per le celebrazioni», preciso.
«Capisco. Vorrà dire che Yahiko prenderà in custodia il Dojo, nel frattempo», stabilisce Kaoru, dopo una breve riflessione.
«Posso andare da solo, non è certo un problema», tento.
«Non se ne parla. L’ultima volta sei quasi morto», mi ricorda Kaoru. Con un sospiro mi arrendo.
«D’accordo», acconsento, bevendo un sorso di tè. Avrei di gran lunga preferito andare da solo, m non posso certo costringere Kaoru a restare. Non è così facile farle fare qualcosa contro la sua volontà. E poi, come darle torto? L’ultima volta che sono andato a Kyoto senza di loro mi sono quasi fatto uccidere. Le ho fatto prendere uno spavento terribile. Non c’è da meravigliarsi, se preferisce tenermi d’occhio.




***L'angolo di Miriel_93*** Salve a tutti ^^ Nonostante Kenshin sia un anime piuttosto "vecchiotto", ho avuto la possibilità di vedermi tutte le puntate solo di recente e devo confessare che mi è venuto il male di vivere. La fine dell'anime (il manga, purtroppo, non l'ho letto) mi ha lasciato l'amaro in bocca. Non che questo mi abbia delusa, intendiamoci. Semplicemente...è triste. Si tratta di una storia davvero tristissima, ed è per questo che, nel mio piccolo, ho voluto creare questa piccola parentesi. Detto ciò, spero che la storia sia di vostro gradimento ^^ Aspetto i vostri commenti! Baci baci, Miriel_93

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Capitolo 2
*** Capitolo due. ***


capitolo due.

Kenshin

La mattina arriva prima del previsto e dopo aver piegato il futon mi dedico, ancora mezzo assonnato, ai miei soliti compiti. Faccio il bucato e lo stendo al sole, scendo in paese a fare compere e comincio a preparare il pranzo. Yahiko e Kaoru si allenano nel Dojo. A volte sento la voce di Kaoru che rimprovera il suo allievo.
Svolgere tutte queste mansioni non mi pesa. È l’unico modo che ho per ripagare Kaoru per la sua ospitalità. Poco a poco mi sto lasciando alle spalle anche l’identità del samurai vagabondo.
Quando entro nel Dojo per informare Kaoru e Yahiko che il pranzo è quasi pronto, mi soffermo un istante a guardarli combattere. Yahiko arretra sotto i colpi del bokken di Kaoru. I capelli le ondeggiano lungo la schiena, raccolti in una lunga coda corvina. La pelle, ricoperta da un sottile strato di sudore, sembra brillare.
Il mio cuore si contorce mentre seguo i suoi movimenti decisi.
Yahiko inciampa nei propri piedi, perde momentaneamente l’equilibrio e l’ennesimo colpo di Kaoru lo manda a sedere sul pavimento lucido del Dojo.
«Non ci siamo proprio!» Lo rimprovera Kaoru, scuotendo la testa.
Recupero due asciugamani appesi vicino alla porta e mi avvicino per porgerli a entrambi.
«Ah, Kenshin. Grazie», dice Kaoru, prendendo un respiro profondo.
«Prego. Il pranzo è quasi pronto», comunico, sorridendo.
«Sì, arriviamo», risponde Kaoru, mentre Yahiko recupera fiato, passandosi l’asciugamano sulla faccia e sulla nuca.
Torno in cucina a controllare a cottura del pranzo.
Più tardi, mentre sto servendo Kaoru e Yahiko, Sanosuke fa la sua puntuale apparizione.
«Come farai quando Kenshin sarà a Kyoto?» Lo prende in giro Yahiko,  puntandogli addosso le bacchette.
«Kenshin va a Kyoto?» Chiede Sano, a bocca piena, guardandomi.
«Ho una cosa da sistemare», rispondo, sorridendo con aria di scuse.
«Non avrai intenzione di andare a rischiare la pelle un’altra volta!» Esclama Sanosuke.
«No, non è niente di pericoloso», gli assicuro.
«In ogni caso lo terrò d’occhio io», interviene Kaoru, infilandosi in bocca un pezzo di carne.
«Questo significa che non cucinerai tu, nel frattempo», nota Sano, con un sospiro di sollievo. Vedo Kaoru sforzarsi di non infilargli una bacchetta nell’occhio, il suo sopracciglio agitarsi nel tentativo di mantenere la calma. «Comunque non è giusto, potevi avvisarmi», protesta Sanosuke.
«È stata una decisione improvvisa, e poi non è nulla di importante», rispondo, prima di ricominciare a mangiare.
«Mh. Quando partite?» Chiede.
«Io…ecco, non saprei», borbotto.
«Mancano due giorni all’inizio delle celebrazioni per la Festa delle Lanterne. Direi che possiamo partire già domani», risponde Kaoru al mio posto, prendendo un sorso di tè.
«Domani, uh? Quanta fretta», la stuzzica Sano. Non è una novità che tutti sospettino che tra me e Kaoru ci sia una relazione. Ma i sospetti sono una cosa, la verità, purtroppo, è un altro paio di maniche.
«Kenshin vuole essere a Kyoto per la Festa delle Lanterne, non si tratta di fretta», replica, nel modo più calmo possibile.
«Ho capito, ho capito. Beh, suppongo che mi toccherà andare all’Akabeko, allora», dice Sanosuke.
«Vedi di pagare, e non di lasciare il conto aperto a mio nome», lo rimprovera Kaoru, con un’occhiataccia.
Sanosuke si limita a fingere di non averla sentita.
 
Finito il pranzo Yahiko e Kaoru si riposano un po’, mentre io rimetto in ordine. Sanosuke mi gira intorno, chiedendomi com’è possibile che il leggendario Battōsai si sia ridotto a fare le pulizie.
«Sano, è l’unico modo che ho di ripagare Kaoru della sua ospitalità. E poi non mi pesa così tanto, davvero», tento, nonostante abbia cercato di spiegarglielo più e più volte, senza nessun risultato.
«Bah, continuo a non capirti», si arrende, allargando le braccia. Un momento di silenzio. «E questa storia che te ne vai a Kyoto? Solo soletto con Kaoru? Uh?» Dice, assestandomi una gomitata che mi fa quasi cadere i piatti lavati e asciugati dalle mani.
«Smettila, Sano. Non le ho chiesto io di accompagnarmi. Anzi, avrei preferito andare da solo, ma sai anche tu che dirle di restare qui è fiato sprecato. Specialmente dopo l’ultima volta», rispondo, sistemando i piatti al loro posto.
«In effetti. Ma si può sapere che diavolo devi andare a fare a Kyoto? Per di più proprio durante la Festa delle Lanterne?» Mi chiede, appoggiandosi al muro.
Capisci il valore della solitudine quando hai un segreto che non vuoi confessare.
«Non è niente di che», taglio corto.
«Allora perché ci tieni tanto?» Incalza.
«Sano, non c’è bisogno di preoccuparsi, sul serio», ribadisco.
«Andiamo, Kenshin!» Continua.
«Sano!» Chiama Yahiko.
Capisci l’importanza di avere degli amici quando sei con le spalle al muro.
«Che vuoi, moccioso?» Risponde Sanosuke, interrompendo l’assalto. Tiro un sospiro di sollievo e finisco di sistemare i piatti.
«Kaoru vuole che io mi alleni con te, dice che confrontarmi con stili diversi mi aiuterà a migliorare», confessa Yahiko, di controvoglia. È chiaro che piuttosto che ammettere di aver bisogno di Sanosuke digiunerebbe una settimana.
Mugugnando contrariato, Sanosuke segue Yahiko verso il Dojo. Sono salvo, per il momento.
 
Il pomeriggio scorre tranquillo mentre gli altri sono impegnati ad allenarsi e io a giocare con le nipotine del dottor Gensai, Ayame e Suzume, che poi si offrono di aiutarmi nel preparare la cena, occupandosi degli onigiri.
Anche la cena si svolge come al solito, con Yahiko e Sano impegnati a litigarsi l’ultima polpettina di riso impastata dalle bambine. Kaoru non può nemmeno protestare quando quei due definiscono l’opera di due bimbe migliore dei suoi tentativi. Non vuole certo offendere Ayame e Suzume.
Dopo cena restiamo seduti a chiacchierare, mentre le bambine si addormentano vicino al dottor Gensai, che le riporta a casa poco dopo con l’aiuto di Megumi.
Mentre pulisco, Kaoru decide di darmi una mano, mentre Yahiko si addormenta sul tatami e Sanosuke prende una boccata d’aria in giardino.
«Partiremo domani mattina, che ne dici?» Mi chiede Kaoru, mentre mi passa i piatti sporchi.
«Per me è perfetto, Kaoru-dono», rispondo, con un sorriso.
«Ottimo. Però non troppo presto, devo ancora sistemare alcune cose e assicurarmi che Yahiko non faccia danni» aggiunge, con un lieve rossore sul viso.
«Non ci sono problemi», le assicuro, mentre lavo accuratamente un piatto alla volta.
Lo nascondo, ma sono preoccupato. Capisco perché Kaoru non vuole lasciarmi andare da solo. Dopo lo scontro con Makoto Shishio non è certo una reazione strana. Solo che avrei di gran lunga preferito tenere Kaoru fuori da quella parte della mia vita, una parte che nemmeno io ricordo volentieri.
Una volta lavati, asciugati e riposti i piatti, Kaoru, Sanosuke ed io ci concediamo una tazza di tè al gelsomino, seduti sotto il portico, finché il nostro amico non se ne va, promettendo di passare a salutarci prima della partenza.
Svegliamo Yahiko perché vada a stendersi sul suo futon e ci ritiriamo ognuno nella propria stanza. Rimasto solo preparo l’essenziale per il viaggio, imponendomi di non lasciare che l’imprevista presenza di Kaoru mi turbi. Provo qualcosa di estremamente forte per lei, ma non posso permettermelo. Non posso permettermi di essere felice, non così tanto. Più volte ho pensato che, forse, era meglio andarmene e lasciare che Kaoru tornasse alla sua vita di tutti i giorni. Solo un cieco non si sarebbe accorto dei suoi sentimenti per me. Eppure, fino a quel momento, ero stato così egoista da non riuscire a riprendere il mio vagabondare.
Allontano quei pensieri e mi infilo lo yukata, preparandomi a dormire. Depongo la sakabato vicino al futon, come sempre, e mi infilo sotto le coperte, chiudendo gli occhi. Ma la mia mente è decisa a non lasciarmi dormire. Non subito, almeno. Prima o poi anche lei crollerà sotto il peso della stanchezza, allettata dal silenzio della notte e dalla promessa di un po’ di riposo.
E appena il sonno arriva, il muro che tiene lontani i miei ricordi cede.


***L'angolo di Miriel_93***
Ebbene, ecco anche il secondo capitolo, sempre dal punto di vista di Kenshin ^^ 
Non importa se nessuno ha recensito o se il numero di visite rispecchia solo quanti di voi hanno aperto la mia storia e poi non l'hanno letta, anche se spero che a qualcuno di voi sia piaciuta ^^
A breve posterò anche il terzo capitolo. Vi anticipo solo che sarà dal punto di vista di Kaoru ^^
Beh, alla prossima, e buona lettura! ^^

 

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Capitolo 3
*** Capitolo tre. ***


capitolo tre.

Kaoru

Il caldo è intenso già ora. Sono le prime ore del mattino e l’afa di agosto non sembra voler dare nessuna tregua al mondo.
Mi metto a sedere nel futon, rinunciando al tentativo di riposare ancora qualche minuto. Il caldo è troppo opprimente. Mi stiracchio, prima di piegare il futon e riporlo nell’armadio appoggiato alla parete in fondo alla mia stanza. Apro la porta e un refolo d’aria relativamente fresca m’investe. Scosto la treccia di capelli da un lato, cercando di farmi accarezzare il più possibile da quella lieve brezza mattutina.
Una volta lavata e vestita mi dirigo verso la cucina, dove Kenshin sta già preparando le provviste per il viaggio.
«Buongiorno, Kaoru-dono», mi saluta, esibendo il suo solito sorriso.
«Buongiorno», gli rispondo, con l’amaro in bocca. Riuscirò mai a vedere un sorriso vero, sul suo volto? Non che finora i suoi siano stati sorrisi falsi, ma ho costantemente l’impressione che non gli tocchino mai il cuore, come se fosse protetto da un muro insormontabile.
Facciamo velocemente colazione, prima che il caldo si faccia insopportabile.
«Kenshin?» Chiamo, posando la tazza di tè davanti a me.
«Sì, Kaoru-dono?» Risponde, facendo lo stesso.
«Perché proprio per la Festa delle Lanterne?» Domando, troppo curiosa per aspettare di arrivare a Kyoto per avere la mia risposta. I muscoli delle sue spalle si irrigidiscono appena. O forse è solo una mia impressione.
«Ho una persona da salutare», dice, senza rispondere veramente alla mia domanda.
«Capisco», commento, annegando lo sguardo nel tè rimasto nella mia tazza. Indagare oltre non porterà a nient’altro, lo so. E per di più non è il caso di forzare Kenshin. Nel suo passato ci sono molti buchi neri, voragini che non conosco e, forse, nemmeno posso conoscere. Spingerlo a parlarmene non è un buon modo per…per cosa? Per cementare una relazione che non esiste?
Bevo un sorso di tè per cancellare quel sapore amaro dalla bocca. Sono più di sei mesi, ormai, che Kenshin vive qui, eppure, nonostante tutto quello che gli altri pensano di vedere, non c’è mai stato nulla. Sì, certo, si è sempre preoccupato per me, ha sempre fatto l’impossibile per proteggermi, per non darmi troppi pensieri…ma che altro? È chiaro che le sue preoccupazioni non vanno oltre un certo grado di affetto…grado che, ahimè, io ho superato, approdando a un livello superiore. A volte un suo sguardo, un suo sorriso appena più intenso del solito, un suo gesto, a volte ho l’impressione che dietro i suoi occhi blu come il mare si nasconda lo stesso sentimento che io provo per lui. Appena sbatto le palpebre, però, quella sensazione svanisce e la realtà torna al suo posto.
«Kaoru-dono, qualcosa non va?» Mi chiede Kenshin.
«Uh, no, nessun problema», rispondo, mentendo spudoratamente.
«D’accordo. Vado a svegliare Yahiko e preparo le ultime cose, poi potremo partire quando lo desidererai, Kaoru-dono», dice, recuperando le tazze del tè vuote, prima di uscire dalla stanza.
 «D’accordo», borbotto, anche se ormai se n’è andato.
Ritorno nella mia stanza per preparare le ultime cose, aspettando pazientemente che Yahiko si svegli e accenda il cervello. Quel ragazzino mi fa sudare sette camicie tutte le volte.
Lo lascio in pace mentre fa colazione, concentrandomi per distogliere i miei pensieri dal motivo che spinge Kenshin a volersi recare a Kyoto proprio in questi giorni. “Ho una persona da salutare”, ha detto. Il fatto che voglia passare per Kyoto proprio durante la Festa significa che questa persona è in qualche modo collegata ai festeggiamenti. Che viva fuori Kyoto e si rechi lì per omaggiare qualche parente? Oppure…che sia…morta?
«Allora, Kaoru, hai intenzione di rispondermi o cosa?!» Il tono di Yahiko è palesemente irritato.
«Scusa, mi ero incantata un momento. Dicevi?» Chiedo, schiarendomi la voce.
«Sei così vecchia da non sentirci nemmeno più?» Mi prende in giro. Mi sforzo di sorvolare. «Ti ho chiesto se dovrò allenarmi con Sano, nel frattempo», ripete.
«Sì, sarebbe meglio. Non voglio tornare e dover ricominciare da capo perché ti sei arrugginito», rispondo, incrociando le braccia sul petto.
«Kaoru-dono, quando vuoi partire io sono pronto», mi informa Kenshin, infilando la testa dentro il Dojo.
«Ah, va bene», dico, perdendo momentaneamente il filo del discorso con Yahiko. Una persona. Ma chi? Quel pensiero di tormenta. «Arrivo subito», aggiungo, sbattendo un paio di volte le palpebre, come se questo potesse aiutarmi ad allontanare quel tarlo dalla mia mente.
Dal cortile ci arriva la voce di Sanosuke, passato a salutarci.
«Ehi, ragazzi. Ho fatto appena in tempo, a quanto pare», ci saluta, notando la sacca sulla spalla di Kenshin.
«Sì, in effetti saremmo partiti a momenti», dico io, uscendo dal Dojo. «Anzi, vado a recuperare le mie cose poi possiamo andare», preciso, avviandomi verso la mia stanza.
Mi assicuro di aver preso tutto il necessario e torno sui miei passi. Sento la voce di Sanosuke farsi più forte e chiara.
«…quando ti deciderai ad aprire gli occhi?» Con chi starà parlando?
«Sano, proprio non capisco a cosa ti riferisci». È Kenshin.
«Appunto», commenta Sanosuke, con tono esasperato. «Spero proprio che tu ti decida a guardare in faccia la realtà», aggiunge, con un sospiro.
Decido di entrare in scena. Kenshin mi sembra in difficoltà. E poi ho fretta di partire.
«Eccomi qui», annuncio, sfoderando un sorriso il più sincero possibile.
«Allora possiamo partire», commenta Kenshin, sembrandomi in qualche modo sollevato. Chissà di cosa gli stava parlando Sanosuke.
Dopo aver salutato i nostri amici, e aver raccomandato a Yahiko di non combinare nessun disastro, io e Kenshin ci mettiamo in marcia verso Kyoto.
«Quando saremo là potremmo fermarci da Okina e gli altri», propongo, dopo qualche tempo, giusto per rompere il silenzio. Il rumore dei nostri passi è rilassante, ma cominciava a sembrarmi piuttosto angosciante.
«Certo», risponde laconicamente Kenshin. Ho come l’impressione di essergli di peso. Cala di nuovo il silenzio. Proseguiamo accompagnati solo dal rumore dei nostri passi per un altro po’ e questo mi permettere di riflettere. Che stupida sono stata a voler accompagnare Kenshin. È chiaro che mi ha permesso di farlo solo perché sapeva che l’avrei fatto comunque, anche senza il suo permesso. Questo viaggio, per lui, ha un valore ben preciso, un valore che io non posso comprendere e nel quale non sono inclusa. Una volta arrivata a Kyoto mi converrà evitare di stargli tra i piedi. Misao avrà certamente qualcosa da farmi fare, durante la nostra permanenza. Così Kenshin potrà andare a salutare quella persona senza che io lo intralci e io sarò più tranquilla, sapendolo non troppo lontano da me.
Qualche ora più tardi raggiungiamo il porto, dove ci imbarchiamo sul primo battello diretto verso sud-ovest. Appoggiata alla balaustra di fianco a Kenshin seguo il suo sguardo mentre si perde nel blu dell’oceano, quasi confondendosi con esso. Non riesco a capire a cosa sta pensano. A dire il vero, difficilmente ci riesco. I capelli color mogano fluttuano indisturbati seguendo la brezza salmastra. Sospiro.
«Qualcosa non va, Kaoru-dono?» Mi chiede Kenshin, voltando verso di me quegli infiniti occhi blu. Scuoto la testa, abbassando per un momento le palpebre.
“Chi è la persona che devi salutare?” Vorrei chiederglielo, ma ho paura. Ogni volta che il suo passato entra in gioco, Kenshin si chiude a riccio su se stesso, come se cercasse di tenersi insieme, come se parlarne potesse disintegrarlo.
Dall’altra parte delle mie palpebre abbassare il silenzio è così perfetto che ho quasi l’impressione che Kenshin se ne sia andato. Riapro gli occhi. Ha ripreso a guardare l’oceano. Trattenendo un sospiro lo imito e torno a guardare quel blu infinito estendersi fino all’orizzonte.


***L'angolo di Miriel_93*** Ebbene, ecco qui il terzo capitolo ^^ Vi ho fatto aspettare un po', ma avendo ricominciato i corsi all'università gestire questa ff e quella che ho iniziato qualche tempo fa non è facilissimo ^^ In ogni caso spero che questo nuovo capitolo vi sia piaciuto ^^
A presto! Baci baci!

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Capitolo 4
*** Capitolo quattro. ***


capitolo quattro.

Kaoru
«Eh?! Come sarebbe a dire “siamo andati in vacanza”?!» Esclamo, leggendo il biglietto appeso alla porta dell’Aoi-Ya. «Non posso crederci», sospiro, sconsolata.
«Ci conviene trovare una sistemazione al più presto, Kaoru-dono. Sembra che la pioggia abbia deciso di farci visita entro breve», suggerisce Kenshin, indirizzando lo sguardo verso il cielo, dove alcune nuvole scure sembrano promettere di rinfrescare un po’ il clima. In realtà, però, sarà un sollievo temporaneo. Dopo la pioggia l’umidità sarà ancora più soffocante.
«Hai ragione. Purtroppo saranno quasi tutte piene, chissà quanta gente sarà venuta qui in occasione della Festa», noto, con un altro sospiro.
«Qualcosa troveremo», mi assicura Kenshin, anche se colgo una lieve nota di delusione nella sua voce. Forse sperava di potermi lasciare in custodia a Misao. O forse mi sto immaginando tutto. Kenshin non è tipo da comportarsi così. O sbaglio?
 
Quando sono ormai convinta di aver passato tutti i ryokan e le locande di Kyoto, la fortuna comincia a girare dalla nostra parte. Beh, più o meno.
«Avete solo una stanza? Capisco», sospiro. Di nuovo.
«Kaoru-dono, non dovrebbe essere un problema, no?» Mi chiede Kenshin. In effetti ha ragione. In fin dei conti ci è già capitato di dover condividere una stanza. E ricordo perfettamente l’agitazione che mi ha messo sottosopra lo stomaco per quasi tutto il tempo.
«Hai ragione. D’altra parte non penso troveremo altro», dico, in fin dei conti non troppo dispiaciuta.
Il padrone dell’albero ci fa entrare e ci mostra la nostra stanza. È piccola ma accogliente. Essendo quasi ora di cena, ci promette che a breve saremo serviti da una delle cameriere. Lo ringraziamo con un lieve inchino e veniamo lasciati soli.
Un silenzio imbarazzante scivola nella stanza a tenerci compagnia. Depongo il mio piccolo bagaglio e mi avvicino alla finestra della nostra stanza. Dà sul giardino interno, sapientemente allestito e ricco di alberi. Il cielo grigio nasconde buona parte della luce del sole, già pronto, dietro le nuvole, a lasciare il posto alla notte. Un rombo lontano avvisa il mondo che pioverà a breve.
«Sembra che quest’anno la Festa sarà piuttosto bagnata», noto, voltandomi a guardare Kenshin. Mi sembra pensieroso. «Qualcosa non va?» Gli chiedo, inclinando la testa di lato.
«Mh? No, va tutto bene, Kaoru-dono», mi assicura, rivolgendomi uno di quei suoi soliti sorrisi a metà.
Vorrei pregarlo di smetterla di chiamarmi Kaoru-dono, di piantarla di fingere di sorridere e di lasciarsi andare. Di dirmi cosa diavolo gli passa per la testa e chi è la persona che vuole salutare. Ma non dico nulla. Mi siedo sul tatami e mi mordo il labbro inferiore in attesa della cena.
«Kaoru-dono, in questi giorni non voglio che tu ti senta obbligata a seguirmi», dice Kenshin, dopo un po’. Tradotto: “non voglio che tu mi segua”.
«Per me non è un problema. In fin dei conti non ho nient’altro da fare ed è per tenerti d’occhio che ti ho accompagnato fin qui, no?» Gli faccio notare. Sì, lo so che il mio proposito era quello di non stargli fra i piedi, ma non ero del tutto convinta nemmeno prima e ora che Misao e tutti gli altri sono fuori città non ho nessun pretesto valido per stargli lontana. E, soprattutto, muoio dalla voglia di scoprire chi è la persona che ha spinto Kenshin fino a qui.
«Come preferisci, allora», cede. Tutto qui? Non si sforza nemmeno di farmi cambiare idea? Forse sa che contro la mia testardaggine non ha scampo. Oppure pensa che evitare di farmi sudare il suo consenso mi farà perdere interesse. In tal caso ha preso un granchio bello grosso.
La cameriera ci raggiunge pochi attimi dopo con i vassoi della cena e del tè freddo. La ringraziamo e cominciamo a mangiare in silenzio, mentre le nuvole cominciano a liberarsi del loro peso liquido scaricando grosse gocce di pioggia sulla città, seminando tuoni e lampi. Un temporale in piena regola.
Mangiamo in silenzio. Senza Yahiko e Sanosuke che litigano, tutto è fin troppo calmo.
«Che silenzio, senza Yahiko e Sano, vero?» Chiedo a Kenshin. Di solito non è di troppe parole, ma da quando abbiamo lasciato Tokyo è fin troppo taciturno.
«È vero. Senza di loro fa veramente strano», mi risponde, deponendo la ciotola vuota che ha tra le mani sul vassoio laccato di nero.
Fine della discussione.
«Spero non combinino troppi guai al Dojo», aggiungo, nel tentativo di trascinare avanti il discorso.
«Non credo ci sia da preoccuparsi, Megumi e il dottor Gensai passeranno di sicuro a controllare, di tanto in tanto», mi fa notare Kenshin.
«Giusto, hai ragione», commento.
La cameriera torna qualche tempo dopo a ritirare i vassoi vuoti. Ci chiede quanto abbiamo intenzione di rimanere e facciamo due chiacchiere sul tempo e sulla Festa delle Lanterne che comincerà domani. Ci informa che, quest’anno, è arrivata veramente tantissima gente, la città trabocca.
«Sì, in effetti ce ne siamo accorti», le dico, con un risatina lievemente nervosa. In circostante normali non avremmo avuto problemi a trovare due stanze separate.
Dopo qualche altra battuta, la cameriera ci saluta, sostenendo di avere un po’ di lavoro da sbrigare. Il silenzio corre a sostituire la sua presenza nella stanza.
«D’accordo, Kenshin, ora basta. Cos’è questo silenzio?» Dico, alla fine.
«Come?» Mi chiede, vagamente stupito.
«È da quando siamo partiti che sono costretta a cavarti le parole di bocca. Cosa c’è che ti preoccupa così tanto?» Incalzo. Al diavolo anche i progetti di aspettare che si apra di sua spontanea volontà.
Kenshin esita. Forse sta cercando una scusa, oppure il modo giusto di spiegarmi le cose. Fatto sta che esita. E l’attesa mi innervosisce.
«Ti spiegherò tutto domani. È una promessa, Kaoru-dono», risponde. Lo fisso inebetita per un momento. La tentazione di insistere è forte, ma qualcosa, nel suo malinconico sguardo color del mare, mi spinge ad accontentarmi.
«D’accordo», mi arrendo, con un sospiro.
Infilandosi la sakabato nella cintura, Kenshin si alza.
«Nel frattempo vado a prendere un po’ d’aria sotto il portico», mi informa. Tradotto: voglio restare solo. Annuisco, fingendo interesse per un fiore disegnato sul mio kimono. Sento la porta aprirsi e richiudersi poco dopo. Per un po’ resto ferma nella stessa posizione, fissando quel fiore. Poi sospiro e mi alzo, avvicinandomi alla finestra. Un lampo illumina il giardino con la sua luce violetta. Il rombo lo raggiunge pochi secondi dopo.
Appoggio la fronte alla cornice di legno della finestra, la mano sul davanzale fresco. Mi mordicchio il labbro inferiore, tormentando lui e la mia povera mente. Perché? Perché Kenshin non vuole aprirsi? Mi siedo sotto la finestra, dando la schiena al giardino, illuminato a tratti dal temporale. Tiro le ginocchia al petto e vi appoggio il mento, esalando un lungo sospiro.
«Kenshin», mormoro. Sembra quasi un lamento.
Più tardi, immersa in un dormiveglia che sa più di sonno profondo che di altro, mi sento spostare da un paio di braccia. Increspo la fronte e pochi attimi dopo qualcosa di morbido mi avvolge. La parte razionale della mia mente, lontana anni luce dall’avere il controllo sulle mie funzioni, mi avvisa pigramente che qualcuno, probabilmente Kenshin, mi sta aiutando a infilarmi nel futon. Devo essermi addormentata sotto la finestra.
Mugugno qualcosa, una risposta di assenso alla mia mente o forse un ringraziamento, poi la sensazione delle braccia che mi hanno spostata svanisce. Inizialmente mi dispiace, ma poi il sonno ha il sopravvento, e anche il dispiacere sparisce.

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Capitolo 5
*** Capitolo cinque. ***


Capitolo cinque.

Kenshin
Resto a guardare Kaoru che dorme per qualche istante, prima di infilarmi lo yukata e scivolare nel mio futon, a un soffio dal suo. Il viaggio deve averla stancata.
Fisso a lungo il soffitto. Forse, se mi alzerò abbastanza presto, riuscirò a portare a termine il mio compito prima che Kaoru si svegli. No. Non sarebbe giusto nei suoi confronti. Le ho promesso una spiegazione, in fin dei conti. Non che sia tenuto a spiegarle nulla, a voler ben vedere, ma non sarebbe corretto.
Mi volto a guardarla. Come posso rifiutarmi di darle le spiegazioni che mi ha chiesto? Il suo viso sembra immerso negli interrogativi persino ora, mentre il sonno ha la meglio su di lei.
È così vicina. Se solo allungassi una mano potrei accarezzarle il viso. Sembra così indifesa mentre dorme. Il suo petto si alza e si abbassa seguendo il ritmo del suo respiro.
Allungo un braccio e lo faccio. Le sfioro la guancia con la punta delle dita. È vellutata, morbida e liscia, come una pesca matura. La vedo corrugare lievemente la fronte e poi sospirare. Si sarà accorta del mio tocco? No, non credo. Ritiro la mano e continuo ad osservarla.
Chissà perché ci riduciamo entrambi ad approfittare dell’incoscienza del sonno per aprirci un po’ di più. Anche lei, la prima volta che siamo stati costretti a dormire nella stessa stanza, ha aspettato che dormissi per posare la sua mano sulla mia. Non penso sapesse che ero sveglio, in attesa che si addormentasse per prima.
Mi viene spontaneo chiedermi perché dobbiamo nasconderci a vicenda i nostri sentimenti. Perché io devo nascondere i miei sentimenti a lei. Ma queste domande galleggiano solo per pochi istanti nella mia mente. Lo so benissimo il perché. E il fatto che sia un motivo che io stesso mi sono imposto lo rende ancora più importante e consistente.
Le palpebre si fanno pesanti, i pensieri incoerenti e sfuggenti. Tutto perde di significato, di sostanza. Di importanza. Tutto, tranne i miei incubi.
Il temporale imperversa fuori dal ryokan e dentro la mia testa.
 
Il mattino arriva prima del previsto. Quando mi sveglio, Kaoru dorme ancora. Per qualche istante esito, guardandola immersa in quel sonno ristoratore. Il suo viso durante la notte si è disteso, la fronte non è più spiegazzata dai pensieri.
Mi alzo senza fare rumore, piego il futon e lo sistemo in un angolo della stanza. Mi rivesto ed esco. Scendo in cortile. Dopo il temporale di stanotte l’aria è fresca. So che è un sollievo breve, presto l’afa tornerà a toglierci il fiato. Attraverso il giardino seguendo il sottile sentiero di ghiaia che passa al centro. Sotto i sandali i sassolini protestano. Da qui si vede la finestra della stanza in cui Kaoru continua a dormire.
Mi siedo su una panchina umida e respiro a fondo. Incredibile come Kyoto sia diventata tranquilla. Undici anni fa una calma simile non era altro che un miraggio irraggiungibile. E invece, eccola qui. Pagata con il sangue di tante, troppe vittime.
Vittime. Quante ce ne sono state, tra quelle strade. E quante sono state trafitte dalla mia spada. Mi perdo nei ricordi a denti stretti, serrando involontariamente i pugni.
Annego nel sangue delle mie vittime finché non sento la ghiaia scricchiolare sotto il peso di alcuni passi. Distolgo lo sguardo dal vuoto e cerco il proprietario di quel suono.
Kaoru.
Si è svegliata. E probabilmente ora vorrà le sue risposte.
«Buongiorno, Kenshin», mi saluta, sedendosi accanto a me sulla panchina.
«Buongiorno, Kaoru-dono», rispondo, rivolgendole un sorriso. «Dormito bene?»
«Sì, grazie. Ti ringrazio per avermi aiutata ad infilarmi nel futon. Chissà che mal di schiena, se fossi rimasta appoggiata al muro», mi dice, abbassando lo sguardo con un lieve rossore sul viso.
«Non preoccuparti, il viaggio è stato lungo. La stanchezza coglie di sorpresa, a volte», la rassicuro, rivedendomela davanti mentre, con la schiena appoggiata alla parete, dormiva con la guancia sulle ginocchia. Mi era apparsa così fragile, nella sua spossatezza.
«Già», commenta, semplicemente. «La cameriera sta per servirci la colazione, l’ho incrociata mentre uscivo», mi informa.
«Allora sarà meglio tornare di sopra e approfittarne», dico, alzandomi. Infilo la sakabato al suo posto e le porgo una mano per aiutarla ad alzarsi. Esita per un momento, poi accetta. La sua pelle è fresca e vellutata. Ricordo la sensazione della sera precedente, quando le ho sfiorato la guancia.
 
Facciamo colazione con calma, forse troppa. La verità è che vorrei che il momento delle spiegazioni non arrivasse. Kaoru non ha ancora detto nulla, ma so che sta aspettando. La vedo cercare di nascondere l’impazienza dietro dei gesti misurati ed eccessivamente precisi.
Quando abbiamo finito di mangiare scendiamo, comunicando alla cameriera che pranzeremo fuori. Ci saluta con un inchino ed usciamo. L’aria è già meno fresca di prima.
Kaoru mi segue silenziosamente mentre cammino per le strade affollate di Kyoto con passo sicuro. Non è la mente a guidare i miei passi. I piedi conoscono perfettamente la strada e si muovono automaticamente, come se avessi percorso quel sentiero mille volte.
Di tanto in tanto ci fermiamo ad osservare le bancarelle. La maggior parte vendono lanterne di carta per la Festa, altre offrono talismani, amuleti, frutta, carne, stoffe, piccoli oggetti di legno intagliato, di ceramica o di giada.
Alla fine, per quanto avessi atteso impazientemente e al tempo stesso con ansia questo momento, raggiungiamo il cimitero. Ci sono molte persone riunite davanti alle varie tombe, tutte impegnate a rendere omaggio ai propri cari. Chissà quanti di loro sono lì per colpa mia. Stringo i pugni e passo oltre. La tomba che cerco io è più avanti.
Anche all’interno del cimitero ci sono delle bancarelle. Molto più piccole di quelle che abbiamo incrociato finora, piene di candele, lanterne, amuleti e fiori, pronte a offrire la propria merce a prezzi scontati a chi non ha fatto i propri acquisti in città.
«Dove stiamo andando?» Mi chiede Kaoru, vedendo che nessuna di quelle tombe è la nostra meta.
«Tra poco vedrai», le assicuro, zigzagando tra la gente.
Non compro nulla. Nemmeno un fiore. Non ne ho il coraggio, o forse sento di non averne il diritto. La verità è che mi sento terribilmente in colpa. Nei confronti di chi sto cercando e di chi mi sta seguendo in questo momento. Per quanto io abbia cercato di allontanare da me il Battōsai del Bakumatsu, so bene che rimane parte di me. Per quanto io possa lavarle, le mie mani resteranno sempre macchiate del sangue di centinaia di innocenti, finiti tra i numerosi cari a cui rendere omaggio per il semplice motivo di essere finiti sulla mia strada. Più ci penso e più il desiderio di riprendere a vagabondare si fa intenso. Ma poi, con la coda dell’occhio, vedo Kaoru camminare di fianco a me e quel desiderio vacilla. Stringo i denti. Non dovrei bearmi della presenza di Kaoru, non merito qualcosa di così puro. Non merito così tanta felicità.
Ancora pochi minuti di cammino tra la gente riunita davanti ad amici e familiari ridotti a una misera scritta incisa su qualche pietra, mi fermo. La tomba da cui sono scappato così a lungo, davanti alla quale mi sono deciso a mettere piede per la prima volta dopo lo scontro con Makoto Shishio è deserta. Nessuno è venuto a farle visita.
«Siamo arrivati?» Mi chiede Kaoru, facendo capolino da dietro la mia spalla. Annuisco.

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Capitolo 6
*** Capitolo sei. ***


capitolo sei.

Kenshin
«Tomoe Yukishiro», legge Kaoru, a bassa voce. Fissa per qualche momento la lapide in perfetto silenzio. Poi sposta i suoi occhi profondi e confusi sul mio viso, chiedendomi silenziosamente le spiegazioni che le ho promesso.
Unisco le mani, facendo combaciare i palmi. Chiudo gli occhi e chiedo di nuovo perdono per quello che è successo. Per quello che ho fatto. E per quello che sto per fare. Non vorrei mai e poi mai disturbare l’anima di Tomoe rievocando quei terribili momenti. Ma sono certo che Tomoe capirà.
Riapro gli occhi e li tengo fissi su quei pochi caratteri incisi nella pietra. Ecco che cosa è rimasto di lei. E tutto per colpa mia.
«Era mia moglie», dico. Poche, semplici parole malamente sbattute in faccia a Kaoru, come se bastassero a spiegare la mia presenza lì, in quel giorno. Come se bastassero a spiegare la presenza di quella tomba.
Gli occhi di Kaoru si allargano, bevono la mia immagine stupiti, ammutoliti, sconvolti.
«Tua…moglie…?» Mi chiede in soffio, spostando a fatica lo sguardo sulla lapide mentre io annuisco.
«Credo sia una storia abbastanza lunga», mi giustifico, lasciando cadere le braccia lungo i fianchi. Le lascio lì un istante, prima di andare a sfiorare con la mano la cicatrice sulla mia guancia. «Una storia molto lunga», preciso, in un sussurro.
Kaoru rimane in silenzio per qualche istante, forse aspettando che mi decida a iniziare il mio racconto.
«…come?» Chiede, semplicemente. Con una parola sola è riuscita a centrare in pieno il problema.
«Sono stato io», confesso, in un sussurro appena udibile. Non stacco gli occhi dal quel nome inciso nella pietra, non ho il coraggio di indagare l’espressione di Kaoru. Non sbircio nemmeno con la coda dell’occhio. Sento che sta trattenendo il fiato. Ha paura? Oppure è solo sorpresa, sconvolta, sotto shock? «Posso spiegare», propongo. Non voglio lasciarle un’immagine di me così drasticamente aderente al Battōsai che sono stato. Kaoru conserva un’idea così pura di me, così tristemente sbagliata. E forse è questo il motivo che mi costringe a restare, l’avere intorno persone che conoscono solo quello che sono diventato, che non hanno pregiudizi su di me, che comprendono solo in parte che cosa sono stato. Sapere che per lungo tempo non sono stato altro che un assassino è un conto, avermi visto in azione è un altro. Sanosuke, Yahiko, Megumi, Kaoru, tutti quelli che posso considerare miei amici sanno, ma non conoscono. C’è differenza.
«Non ora», risponde, prendendo un respiro profondo. «Ti aspetto all’entrata», mi comunica. Annuisco appena, prima di sentire i suoi passi allontanarsi nella direzione da cui siamo venuti.
Davanti alla tomba di Tomoe mi sento completamente solo. Svuotato.
Non so per quanto tempo resto lì, in piedi davanti a tutto quello che resta di mia moglie. Il suo corpo, in realtà, non è nemmeno qui sotto. Il tempo perde di concretezza e si trasforma in una nebbiolina confusa. Tutti i miei ricordi sembrano d’improvviso vicini, troppo.
«Tomoe», bisbiglio, come se quel semplice gesto potesse riparare i danni che ho provocato. Come se chiamandola per nome potesse sbucare da dietro l’angolo e chiedermi dov’ero stato con quel suo sorriso lieve di sempre.
Ma so che non può succedere.
 
Kaoru è appoggiata al muro di cinta del cimitero, lo sguardo perso tra la gente che le cammina davanti, perso nel vociare di chi si trova in quel luogo per salutare qualcuno che non ricambierà.
«Kaoru-dono», la chiamo, temendo di incrociare i suoi occhi blu. Si gira verso di me, evitando a sua volta il mio sguardo.
«Eccoti», nota, semplicemente. Annuisco. Senza aggiungere altro ci avviamo verso il ristorante più vicino, dove mangiamo in silenzio evitando di guardarci negli occhi. Cosa starà pensando? Che cosa avranno causato le mie poche parole nella sua mente? Ripensandoci meglio avrei potuto dire le cose in un altro modo, evitando di essere così telegrafico, ma soprattutto evitando frasi così vaghe.
Queste sono solo giustificazioni.
Se anche le avessi risposto con più cura, la realtà non sarebbe cambiata.
Sono stato io ad uccidere Tomoe, ad uccidere mia moglie, e questo, purtroppo, non cambierà mai. Né oggi, né fra mille anni.
Dopo aver mangiato seguo Kaoru in giro per la città, guardandola studiare con attenzione la merce di numerose bancarelle. Vorrei chiederle se preferisce che io me ne vada, ma non ho il coraggio di lasciarla sola. Non voglio che le succeda qualcosa. E poi, Kaoru è ciò che mi tiene insieme. Kaoru è tutto ciò che mi impedisce di cadere a pezzi.
 
Torniamo al ryokan nel tardo pomeriggio, dopo aver girovagato senza sosta per tutta Kyoto. Almeno Kaoru ha comprato qualcosa ad una bancarella, anche se non so che cosa. La sento distante, eppure se solo allungassi la mano potrei sfiorarla. Esattamente come ieri sera. Rimpiango amaramente di averle concesso di seguirmi in questa città. Ma come posso negarle qualcosa, qualsiasi cosa? E soprattutto, come posso permettermi di farla stare in pensiero?
«Penso che andrò a farmi un bagno caldo», mi annuncia, dopo cena. Sollevo lo sguardo e la osservo mentre guarda fuori dalla finestra. Annuisco. Non ho nemmeno il coraggio di aprire bocca.
Resto solo nella nostra stanza, a osservare il giardino che sprofonda nelle tenebre. Quando ne ho abbastanza del pesante silenzio della camera mi alzo ed esco, andandomi a sedere sotto il portico del ryokan. Alcune lanterne illuminano il giardino, immergendolo nella penombra. Una penombra ricca di fantasmi.
Non so quanto tempo passa, la mia percezione del suo scorrere è ancora alterata. So che è passato un po’, da quando Kaoru è andata a fare il bagno, ma non so quanto. So che quel tempo è trascorso nel momento in cui sento i suoi passi alle mie spalle. Mi giro verso di lei. Tiene gli occhi bassi. Si siede accanto a me e resta in silenzio per qualche istante, mentre io cerco le parole da dire.
«Credo di essere pronta», dice. Le ha trovate lei per me.
«Non era davvero mia moglie. Non all’inizio, almeno», preciso, prima di iniziare il racconto vero e proprio. «Ci siamo incontrati qui, a Kyoto. Al tempo lavoravo insieme agli uomini di Chōshū nel tentativo di costruire una nuova epoca, in cui la gente potesse vivere in pace. La prima volta che ci siamo visti camminavo per le strade di Kyoto. Il nostro primo vero incontro è avvenuto fuori da una locanda. Avevo appena ucciso un uomo e l’avevo involontariamente ricoperta di sangue», le spiego, a bassa voce, come se avessi paura che, parlando a un tono più alto, la scena si sarebbe materializzata davanti a noi. «Lei è svenuta, e io l’ho portata nella locanda in cui alloggiavamo. Ma tra gli uomini di Chōshū c’era una spia e siamo stati costretti a disperderci. Molti di noi sono stati uccisi. Kogoro Katsura, il nostro leader, ordinò a me e Tomoe di rifugiarci in montagna, vicino al villaggio di Otsu, dove avremmo vissuto per qualche tempo fingendoci marito e moglie», continuo, sollevando il viso verso le stelle, leggermente offuscate dalla luce delle lanterne accese in giardino.
Ricordo tutto come se fosse ieri. La stranezza dei primi giorni, l’imbarazzo. L’abitudine che si fa pian piano spazio in quella piccola casetta di montagna. La consapevolezza che se non fossi diventato un assassino, probabilmente quella sarebbe stata la mia esistenza. Istintivamente mi porto la mano sulla guancia sinistra. Sento la cicatrice sotto le dita. Ne seguo le linee sottili con i polpastrelli, sentendomi il cuore pesante. Quei giorni, vissuti nella preoccupazione causata dal non avere che poche, pochissime notizie di quello che succedeva a Kyoto, erano stati i giorni più belli della mia vita. Giorni che si erano trasformati in un mese, poi in due, fino ad arrivare a sei. Non avevo trascorso neppure un anno, su quella montagna, e già sentivo che quello era il mio posto. Se solo avessi avuto la possibilità di continuare quell’esistenza pacifica e priva di preoccupazioni…!

***L'angolo di Miriel_93*** Ci ho messo come al solito un po', ma alla fine ho aggiornato! Non è un capitolo particolarmente intenso, non aggiunge nulla di nuovo alla storia, ma portate pazienza ^^
A presto! Baci baci *-*

 

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Capitolo 7
*** Capitolo sette. ***


capitolo sette.

Kaoru

Kenshin comincia a raccontare. Mi vergogno terribilmente del sollievo che provo quando le sue prime parole negano il matrimonio con quella Tomoe. E mi vergogno ancora di più dello sconforto che mi assale quando capisco che, per lui, era come se quella donna fosse veramente stata la sua sposa. La storia scivola fuori dalle labbra di Kenshin come se la stesse leggendo. È ben impressa nella sua memoria. Mi sento così…stupida. Cerco di reprimere questa sensazione e lo ascolto, osservando il suo profilo stagliarsi contro l’oscurità.
«Siamo rimasti per sei mesi, in quella piccola casa di legno tra le montagne», continua, mentre io cerco di immaginarmi la scena, contro i suggerimenti del mio povero cuore. «All’inizio ci limitavamo a trascorrere i giorni come capitava. Poi abbiamo cominciato a coltivare un piccolo orto. Durante una delle sue visite Izuka, il mio supervisore, ci aveva portato il necessario per cominciare a produrre delle medicine da vendere nel villaggio vicino. Se ci avessi visto, non avresti sospettato nemmeno lontanamente chi eravamo davvero», commenta, e un angolo della sua bocca ha un lieve spasmo, un accenno di sorriso affogato nella malinconia.
Vorrei ripetergli che, per me, lui non è mai veramente stato l’assassino con cui si ostina a identificarsi. So che la realtà è diversa, ma il Kenshin che ho imparato a conoscere e ad apprezzare non ha nulla in comune con il mostro assetato di sangue dell’epoca delle rivolte. Però rimango zitta, e aspetto che continui il suo racconto.
«Tutto andava inaspettatamente bene. Finché non abbiamo ricevuto una visita dal fratello minore di Tomoe, Enishi. Si è fermato per poche ore, e poco tempo dopo Tomoe mi ha rivelato la verità», dice, e i suoi occhi si riempiono di tristezza. «Mi ha raccontato di essere stata molto vicina alle nozze, ma di non essere riuscita a realizzare il suo sogno a causa della morte del suo fidanzato, assassinato nelle strade di Kyoto.  Ha confessato di essersi unita alle forze dello Shogunato per assassinarmi», rivela.
“È per questo che l’ha uccisa?” Mi domando, chiedendomi subito dopo come ho potuto anche solo pensare una cosa del genere. No, Kenshin non avrebbe mai potuto ucciderla per questo. Non l’ha detto, ma glielo leggo in faccia. Era felice, con Tomoe. Veramente felice. Proprio come vorrei poterlo rendere io. Che sciocca sono.
«Col senno di poi, credo di aver iniziato a considerarla realmente mia moglie proprio quella notte», confessa. E a me basta quella sottile allusione per sentire il cuore contorcersi dolorosamente nel petto. D’altra parte, che altro potevo aspettarmi? Era un assassino, ma anche un uomo.
«La mattina dopo Tomoe non c’era, al mio risveglio», continua, e io lo ringrazio mentalmente per avermi risparmiato i dettagli della nottata. «Mentre la cercavo, Izuka si è presentato alla mia porta per rivelarmi l’identità della spia». Kenshin chiude per un istante gli occhi. «Mi sono sentito come se il mondo mi fosse crollato addosso. Diceva che le prove erano tutte nel diario di Tomoe e io sono corso a prenderlo, mentre lui mi rivelava l’identità del suo promesso sposo, lo stesso uomo che a Kyoto era riuscito a colpirmi in pieno volto con la sua spada», così dicendo si sfiora il taglio più lungo sulla sua guancia sinistra, quello verticale. «Avevo ucciso il fidanzato di Tomoe», chiarisce. «Nessuna meraviglia che lei avesse voluto uccidermi», nota, con un sorriso amaro. Non oso nemmeno immaginare come possa essersi sentito in quel momento. Forse è per questo motivo che sembra sempre scappare dalla felicità. Come biasimarlo, però?
«Secondo Izuka Tomoe si trovava insieme ai suoi compagni in un tempio dall’altra parte della montagna. Mi ha ordinato di eliminarla», spiega. Fatico a credere che l’abbia veramente uccisa perché gli era stato ordinato di farlo. «Lungo il percorso sono stato attaccato da alcuni membri delle forze dello Shogunato, ma alla fine sono riuscito a raggiungere il tempio. Appena fuori mi aspettava il loro capo. Mentre combattevo contro di lui ho intravisto Tomoe all’interno del tempio». Le labbra di Kenshin si contraggono in una smorfia di dolore. «Non posso negare di aver incassato parecchi colpi, durante quello scontro. Ma proprio mentre stavo per sferrare l’attacco finale, facendo appello alle mie ultime forze, Tomoe si è intromessa per impedire al capo delle spie di ferirmi con lo spadino che brandiva», continua. E poi si ferma. Lo vedo lottare contro se stesso, contro i ricordi che l’ho spinto a riportare in superficie, a trasformare in parole concrete, in grado di lacerarlo come mille lame affilate. «Ho trafitto entrambi», sussurra infine. «È morta tra le mie braccia, dopo avermi lasciato un secondo segno sul viso», mormora, sfiorando con la punta delle dita la parte orizzontale della cicatrice. Resta in silenzio un istante. «In quel momento ho deciso che una volta finita la rivoluzione e assolto il mio compito non avrei mai più ucciso nessuno», aggiunge. «Ho portato il corpo di Tomoe nella casa in cui avevamo vissuto per sei mesi. Il giorno seguente, dopo aver ricevuto una visita di Kogoro Katsura, che mi ha chiesto di tornare a brandire la mia spada almeno fino alla fine del Bakumatsu, ho dato fuoco alla casa», conclude, in un soffio.
Rimango in silenzio per un momento. Poi mi alzo. Non voglio permettere alla mia mente di formulare un commento, coerente o incoerente che sia, su quello che ho appena ascoltato. Non ha senso commentare, quel che è stato è stato, e se ha reso Kenshin l’uomo che è ora, forse non è stato tutto un male.
«Aspettami qui», gli chiedo, trovandomi davanti due occhi blu confusi e profondamente sofferenti. Mi fiondo in camera a recuperare quello che ho comprato nel lungo pomeriggio tra le strade di Kyoto e torno da Kenshin di corsa. Senza dargli nessuna spiegazione lo afferro per un polso. «Andiamo», gli intimo, trascinandomelo dietro. Sento i suoi occhi perplessi fissarmi intensamente.
Lo tiro fino al fiume Kamo, dove alcune lanterne stanno già galleggiando indisturbate.
«Kaoru-dono, cosa…?» Tenta di chiedermi. Estraggo dal pacchetto che ho portato con me una lanterna di carta, una candela e alcuni fiammiferi. Gli porgo il tutto con un sorriso.
«È arrivato il momento di renderle omaggio, non credi?» Chiedo, a bassa voce. “Forse questo ti aiuterà a conquistare un po’ di pace”, aggiungo mentalmente.
Kenshin annuisce appena, accettando gli oggetti che gli sto porgendo.  Appoggiandosi sul terreno accende la candela e la sistema all’interno della lanterna. Osservo i suoi gesti tenendomi a qualche passo di distanza. Io non dovrei esserci, quindi cerco di intralciare il meno possibile. Lo seguo con lo sguardo mentre si avvicina al fiume, esita un secondo, poi si abbassa e appoggia la lanterna sull’acqua. Esita di nuovo, poi la lascia andare. Lentamente, quella piccola luce si lascia trasportare via dalla corrente, fino a confondersi con altre lanterne. Kenshin la segue con gli occhi finché può. Io stringo i denti per trattenere le lacrime.
Ora capisco. Capisco così tante cose, ora. Capisco la malinconia di Kenshin, il suo malsano evitare la felicità. Capisco perché, anche se a volte sembrava essermi più vicino, poi finiva con l’allontanarsi. Continua a sentire vicino a sé lo spirito di Tomoe.
Dopo qualche tempo si gira verso di me. Mi guarda. Si avvicina.
«Grazie», mormora. Mi avvicino a lui e lo circondo con le braccia.
«Mi dispiace, Kenshin», sussurro, con il mento appoggiato alla sua spalla, il naso nascosto tra i ciuffi color mogano dei suoi capelli. «Posso solo immaginare quello che provi. Anzi, forse nemmeno quello. Ma non puoi continuare a fartene una colpa. Devi vivere, Kenshin. Devi essere felice, anche per Tomoe», dico, sincera. Le parole, ormai, sono come un fiume. «Non puoi continuare a farti consumare dal rimorso e dal dolore. Sono sicura che Tomoe non vorrebbe questo. Sii felice, Kenshin. Provaci, almeno», lo supplico, vicina alle lacrime. Per un attimo sto zitta. Mi mordo la lingua per ricacciare indietro il pianto che minaccia di straripare. «Ti prego», mormoro alla fine, capendo che non riuscirò a dire niente di più.
Kenshin resta immobile tra le mie braccia. Sembra che non respiri nemmeno. Capisco di aver esagerato, di aver osato troppo e, lentamente, lascio scivolare le mie braccia via da lui. Alla fine, però, sono le braccia di Kenshin a stringermi contro il suo corpo.
«Kaoru-dono…io…», tenta, senza riuscire a finire la frase. Lo circondo nuovamente con le braccia e mi lascio sfuggire le lacrime che mi pungono gli occhi.

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Capitolo 8
*** Capitolo otto. ***


capitolo otto.

Kenshin

Il gesto di Kaoru mi coglie di sorpresa. Le sue parole mi scavano dentro con una forza che mi lascia senza fiato. Dentro di me, da qualche parte, so che ha parzialmente ragione. So che Tomoe non vorrebbe vedermi scappare dalla felicità, sapere che anche dopo quasi undici anni mi sto ancora punendo per quello che le ho fatto. Eppure…eppure non ci riesco. L’idea di vivere la felicità che ho negato a Tomoe, l’idea di essere felice con qualcun’altra, l’idea di vedere sbiadire il suo ricordo…tutto questo mi terrorizza. Il Battōsai, il tagliatore di uomini, non ha avuto paura della morte, ma ora ha paura di essere felice.
Sento le braccia di Kaoru scivolare via. Mi riscuoto dal torpore in cui sono caduto e la stringo a me.
«Kaoru-dono…io…», tento, senza riuscire a finire la frase. Le braccia di Kaoru tornano a circondarmi. «Io non posso…», mormoro. La sento trattenere il fiato. «Come posso permettermi di essere felice, quando le mie mani sono macchiate del sangue di così tante persone? Quante altre, come Tomoe, hanno perso la loro felicità per causa mia? Non oso nemmeno provare a contarle. Io…io semplicemente non posso…non posso essere felice», ribadisco, stringendola più forte a me come a voler sottolineare le mie parole.
«Ti sbagli, Kenshin. Ti sbagli. Tu hai tolto la felicità a Tomoe, ma poi gliel’hai restituita. Si è sacrificata per te, Kenshin. Perché tu potessi continuare ad essere felice, perché tu avessi un motivo per continuare a fare quello che facevi e per smettere, quando sarebbe venuto il momento», mi dice. Sta piangendo. «Tomoe ti ha salvato, nonostante quello che avevi fatto. Sapeva chi eri, e ti ha salvato lo stesso», continua. «Anche io so chi sei. Eppure sono qui, Kenshin. Non sei più l’assassino che eri. Hai smesso di esserlo nel momento in cui hai incontrato Tomoe. Sii felice, Kenshin. Fallo per Tomoe…fallo per…per me…», mi implora.
Mi allontano da lei abbastanza per trovare il suo viso. Sta proprio piangendo. I suoi occhi sono pieni di lacrime. Alcune le rotolano lungo le guance. Incrocio il suo sguardo.
«Io non posso essere felice, Kaoru-dono. Però, forse, mi è concesso rendere felice te», azzardo, raccogliendo una lacrima con il pollice. La vedo sgranare gli occhi. Le sollevo il viso con delicatezza e poso le mie labbra sulle sue. Sanno di lacrime, di stupore e di sale. Inizialmente le labbra di Kaoru esitano, e io mi ritrovo a chiedermi se ho frainteso tutto quanto. Poi, però, le sento rispondere timidamente alle mie. Le mani di Kaoru mi sfiorano il viso, si posano sulle mie guance. La sua mano sfiora la mia cicatrice. Il sapore di pianto pian piano svanisce. La bocca di Kaoru è dolce, delicata, timida. Quando mi allontano dalle sue labbra punta gli occhi, sorpresi e confusi, nei miei. Reggo il loro sguardo in silenzio, aspettando.
«Perché, Kenshin?» Mi chiede Kaoru, con le mani ancora delicatamente appoggiate sul mio viso. Non dovrei sentirmi così leggero, eppure quel semplice contatto sembra capace di liberarmi dal peso che mi trascino dietro da troppo tempo. Le afferro delicatamente i polsi e allontano le sue mani dalle mie guance. Farlo mi costa una certa fatica, ma so di doverlo fare.
«Ho ucciso tante, troppe persone e ne ho ferite ancora di più. Non posso permettermi di ferire anche te, Kaoru-dono. A me non è permesso essere felice, ma non voglio che tu soffra per questo», le spiego con calma. Il capo di Kaoru ondeggia. Prima a destra, poi a sinistra, poi di nuovo a destra e di nuovo a sinistra.
«Non voglio la tua carità», sibila. Le lacrime tornano a rendere liquido il suo sguardo. Cerca di liberarsi i polsi dalla mia stretta.
«Kaoru-dono, io non ti sto offrendo la mia carità. Ti sto offrendo quello che posso per renderti felice», mi giustifico, prima di lasciare la presa. «Se questo ti ferisce mi dispiace», aggiungo, abbassando lo sguardo. A quanto pare non posso nemmeno rendere felici gli altri.
«Non hai ascoltato una sola parola di quello che ti ho detto», ringhia Kaoru. La sua non è una domanda, è un’affermazione piuttosto decisa. «Se fossi in Tomoe non so cosa ti farei», dice, stringendo i pugni. Alzo per un momento gli occhi sul suo viso e vi leggo una rabbia profonda, accuratamente mescolata a un dolore sordo e bruciante. Incrocio il suo sguardo per un attimo, prima di abbassarlo di nuovo.
«Non puoi capire», mormoro, alzando gli occhi verso il cielo. Un attimo di silenzio e poi i passi di Kaoru che si allontanano in fretta, incespicando nel buio, innervositi dalle mie parole. «Mi dispiace, Kaoru-dono», sussurro, anche se ormai è troppo lontana per sentirmi.
Per un po’ resto a guardare le lanterne che scivolano sull’acqua tranquilla del fiume Kamo. Sono così tante. Chissà quante di quelle sono lì a galleggiare per causa mia.
«Tomoe», mormoro, gustando il sapore di quel nome che non ho osato pronunciare per così tanto tempo. «Perdonami», supplico. «Kaoru ha ragione, non è così? Eppure, anche se so anche tu mi diresti che sto sprecando la mia vita, proprio non riesco a vederla in quest’ottica. Questa è la giusta punizione per tutto quello che ho fatto. Soprattutto quello che ho fatto a te», continuo, sentendomi più leggero a ogni parola. Il silenzio e il buio assorbono tutto ciò che dico, lo bevono come un assetato si scolerebbe dell’acqua fresca nella calura estiva.
Lì, in piedi in riva al fiume Kamo, a parlare alle lanterne che galleggiano placide sull’acqua, ho l’impressione che Tomoe sia accanto a me, ad ascoltare quello che ho da dirle. Chiudo gli occhi, e quasi mi sembra di sentire il profumo di fiori bianchi di pruno che la accompagnava sempre. Provo una profonda sensazione di pace, una quiete che si infila in ogni fibra del mio essere, come il calore dei raggi del sole. Mi lascio pervadere da questa ondata di benessere. Sento i muscoli rilassarsi, sulle braccia mi spunta la pelle d’oca.
«Cosa stai cercando di dirmi, Tomoe?» Chiedo, da dietro le palpebre abbassate.
Apro di scatto di gli occhi. Forse mi sono lasciato trasportare dai sentimenti che ho represso così a lungo, forse sono state le parole di Kaoru, ma ho come l’impressione che il vento lieve della sera mi abbia portato una parola, una sola. “Vivi”. E la voce, nemmeno a dirlo, era dannatamente simile a quella di Tomoe.
Mi guardo intorno, giro su me stesso, spio il buio, assottiglio lo sguardo.
Nulla.
Con la punta delle dita sfioro la cicatrice.
Forse Kaoru ha ragione. Avevo rubato la felicità a Tomoe, ma poi gliel’avevo restituita, per quello che un samurai assassino poteva fare. E anche una volta che la mia lama aveva attraversato la sua carne, negli occhi di Tomoe non avevo letto nessun rancore. Forse, nell’aldilà, aveva incontrato di nuovo il suo fidanzato, quello a cui avevo spietatamente tolto la vita.
Questa riflessione mi colpisce come un pugno nello stomaco. Ho fatto tanti errori, ho reciso tante vite, ma forse quella che più mi premeva…forse Tomoe…forse le avevo restituito la stessa felicità che le avevo sottratto.
Guardo un’ultima volta le lanterne, poi do le spalle al fiume e mi avvio verso il ryokan. Kaoru è sicuramente tornata là.
Schivo la gente che parla, ride, piange, canta, aspetta, ascolta, osserva. Scivolo come un’ombra tra una persona e l’altra, ripercorrendo la strada a ritroso. Appena raggiunto il ryokan entro, senza esitazioni. Tolgo i sandali davanti alla porta, li giro con il tallone rivolto verso la casa e varco la soglia. La cameriera mi saluta con un sorriso curioso. Deve aver visto Kaoru tornare da sola. Rispondo al suo saluto con un lieve cenno del capo e, senza fermarmi, mi dirigo verso la nostra stanza.
Entro.
Kaoru è seduta sotto alla finestra. Guarda fuori. Non si gira nemmeno a controllare che sia io. Chiudo la porta alle mie spalle e mi siedo con la schiena appoggiata al muro opposto a quello della finestra. Sfilo la sakabato dalla cintura e la depongo al mio fianco. La schiena di Kaoru è rigida.
«Ho sbagliato, Kaoru-dono», dico, con tono deciso ma dolce.



***L'angolo di Miriel_93*** Sono imperdonabile, lascio sempre passare dei secoli prima di aggiornare =.= Mannaggia all'università!
Comunque sia, spero che il capitolo nuovo vi piaccia! Fortunatamente alla sera riesco a ritagliarmi un po' di tempo per andare avanti a leggere il manga e, ahimè, ho scoperto che, mentre nell'anime la cosa resta un po' più vaga, nel manga Kenshin e Tomoe si sposano per davvero. Bello credere una cosa fino all'ultimo e poi scoprire diversamente =.= Va beh, pazienza, almeno quello che legge arricchisce la storia come l'ho conosciuta attraverso l'anime ^^
Beh, con questo chiudo! Alla prossima! Baci baci ^^

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Capitolo 9
*** Capitolo nove. ***


capitolo nove.

Kaoru

Scappo, scappo da quello che pensavo essere l’epilogo felice della mia vita, scappo dai fantasmi che perseguitano Kenshin. Sono stata una stupida.
Corro tra la gente, senza preoccuparmi di scansarla, urtandola, pestando piedi, tirando gomitate. Che m’importa se qualcuno impreca contro una ragazza in lacrime che corre via?
Arrivata davanti al ryokan mi fermo. Appoggio una mano al muro di cinta dell’edificio e cerco di riprendere fiato. Mi asciugo le lacrime con le maniche del kimono. Un respiro profondo ed entro. Tento di rivolgere un sorriso innocente alla cameriera, che risponde con lo stesso gesto, cercando di nascondere la curiosità.
Arrivata in camera realizzo che ho solo rimandato il colpo di grazia. Kenshin tornerà, prima o poi. E se non farà ritorno in quella stanza, di sicuro tornerà a Tokyo con me. O forse no? Realizzo che forse l’ho perso. E non gli ho neppure detto addio.
Mi avvicino alla finestra, le gambe non mi reggono più e io le assecondo, sedendomi lì, da dove posso osservare il vento estivo muovere leggermente le fronde degli alberi del giardino. Quanto tempo resto lì ferma a piangere in silenzio, senza quasi accorgermene? Non lo so. Non so nemmeno come faccio a non voltarmi di scatto verso Kenshin, quando entra nella stanza. Riesco solo a chiudere gli occhi e ringraziare chiunque abbia fatto sì che tornasse. Al tempo stesso, però, mi irrigidisco. Non ho il coraggio di guardarlo.
Lo sento prendere posto alle mie spalle, appoggiare la sakabatō sul tatami. Tutti piccoli rumori che ho imparato a riconoscere. Anche se non fossi stata certa che fosse lui, l’avrei riconosciuto da quei minuscoli particolari.
Le sue parole arrivano con un tono deciso e, allo stesso tempo, dolce.
«Ho sbagliato, Kaoru-dono», dice.
Chiudo di nuovo gli occhi. Un brivido freddo scivola lungo la mia schiena. Lo sapevo che se ne sarebbe pentito. Non avrei dovuto abbracciarlo. Non avrei dovuto permettermi di dirgli come gestire il proprio dolore e il senso di colpa. Non avrei dovuto seguirlo a Kyoto.
«Capisco», mormoro, cercando di non sembrare la tigre ferita che sono. «Anche io ho sbagliato. Non avrei dovuto…», mi scuso, lasciando in sospeso la frase. Sono così tante le cose che non avrei dovuto fare.
«No, mi hai frainteso, Kaoru-dono». C’è forse un sorriso nella sua voce?
Mi giro lentamente verso di lui, le sopracciglia aggrottate. Sta sorridendo sul serio. È uno di quei suoi soliti sorrisi dal retrogusto amaro, ma sembra meno…meno finto.
«Ho frainteso?» Chiedo, senza capire.
Kenshin si alza, si avvicina. Rimane in piedi, di fianco a me, a guardare fuori.
«Dopo che te ne sei andata ho pensato», inizia. «Le tue parole non sono del tutto sbagliate. Io devo comunque rispondere delle molte vite che ho spazzato via con la mia spada, ma riguardo a Tomoe…forse ho capito una cosa che fino ad ora mi era sfuggita», continua. Si gira verso di me, mi guarda dritto negli occhi e io ricambio il suo sguardo, confusa. «Le ho rubato la felicità, uccidendo il suo fidanzato. In quei mesi tra le montagne, poi, gliene ho restituita una piccola parte. Ma quando…quando l’ho uccisa, Tomoe…lei ha potuto ricongiungersi con il suo fidanzato», dice. «Ovviamente non posso esserne certo, ma è una possibilità. E sono quasi sicuro che sia così», confessa, puntando di nuovo lo sguardo fuori dalla finestra. «Per questo, forse, posso concedermi un po’ di felicità anche io. Non credi anche tu, Kaoru-dono?» Mi domanda, sedendosi accanto a me, sorridendo.
Lo sto guardando a bocca aperta. Me ne accorgo solo ora.
«Kenshin, io…», tento, ma non trovo le parole. Sento un nodo aggrovigliarmi la lingua. Sento le lacrime pungermi di nuovo gli occhi. Mi prendo il viso tra le mani, mi nascondo dai suoi occhi blu, scappo di nuovo.
«Perché piangi, ora?» Mi chiede, con un tono delicato, gentile. Mi sento trascinare verso di lui e mi accorgo che mi sta abbracciando. Scuoto il capo. Non so rispondere. Quel movimento fa sì che le lacrime abbattano definitivamente la diga con cui sto cercando di contenerle. Mi sciolgo in un pianto che mi scuote da dentro.
«Kenshin…», mugolo. È come se non riuscissi più ad articolare altro.
«Sono qui», mi assicura, stringendomi. Mi aggrappo al suo gi, affondando il viso nella stoffa intrisa del suo profumo. Piango e piango, sono un fiume in piena che ha rotto gli argini e ora invade il terreno circostante. Piango finché ne ho la forza. Poi, avvolta dal profumo familiare di Kenshin, scivolo in un sonno senza sogni.
 
Quando mi sveglio, nulla è cambiato. Kenshin è ancora seduto accanto a me, io sono ancora tra le sue braccia.
«Ti sei svegliata, Kaoru-dono», nota. Sta sorridendo.
«Mi dispiace, io non…non volevo addormentarmi», bofonchio, arrossendo appena. Che stupida.
«È colpa mia. Non avrei dovuto farti piangere così tanto, Kaoru-dono», dice Kenshin, scuotendo lievemente la testa. Incredibile. Si dà la colpa anche per le mie lacrime? Com’è possibile che questo ragazzo sia davvero il temibile Battōsai, accidenti?
«Comunque mi dispiace. Non avrei dovuto impicciarmi degli affari tuoi, scusami», insisto.
«Non scusarti. Anzi, dovrei ringraziarti», continua lui.
«Ringraziarmi?»
«Se non fosse stato per le tue parole, ma soprattutto se non fossi venuta con me qui a Kyoto, non avrei mai capito tutto questo», mi spiega, continuando a sorridere. Forse è solo una mia stupida impressione, ma sembra che il suo sorriso si faccia ogni istante più profondo.
«Oh. Io…beh…», borbotto, imbarazzata.
«Grazie, Kaoru-dono», ribadisce.
«Senti, potresti piantarla di chiamarmi così? Preferirei che tu mi chiamassi semplicemente Kaoru», confesso, finalmente. Mi sento meglio.
«Uh, d’accordo», acconsente, preso un pochino in contropiede.
Appoggio la testa al suo petto, mordicchiandomi il labbro inferiore. Avrei così tante domande da rivolgergli. Eppure per nessuna è il momento giusto. Così mi limito a lasciarmi avvolgere dal suo calore, dal suo profumo. Una ciocca dei suoi capelli rossi è appoggiata giusto davanti al mio naso. La sfioro con la punta delle dita, come se avessi paura di fargli del male. La arrotolo sull’indice, osservando il contrasto tra quel nastro scarlatto e la mia pelle. È un colore di capelli così insolito.
«Da chi hai preso il colore dei capelli?» Dico, dopo un po’, saltando di palo in frasca.
«Non ricordo. I miei genitori sono morti di colera quando ero solo un bambino. È successo un anno prima che il maestro mi salvasse la vita», mi racconta. E io, davanti a quella confessione, mi sento meglio, come se avesse finalmente deciso di abbattere il muro di cinta dietro al quale si è sempre difeso e lasciarmi, finalmente, entrare a far parte del suo mondo.
«Mi dispiace», mormoro, lasciando cadere la ciocca di capelli, che si adagia di nuovo sul suo gi. Sollevo la testa, cerco i suoi occhi.
Nonostante gli argomenti ben poco felici, il suo viso sembra rilassato, come se avesse trovato la pace. Siamo così vicini…! Sento il suo respiro sfiorarmi le guance. Lo sguardo mi sfugge involontariamente sulle sue labbra. Mi basterebbe allungare appena il collo per sentirle di nuovo sulle mie, come in riva al fiume. Però esito. Esito a un soffio da quel bacio che ho assaporato per troppo poco tempo per esserne sazia. Nella poca aria che ci separa sento una lieve elettricità che mi fa accapponare la pelle delle braccia. Credo che anche Kenshin la avverta. Normalmente mi avrebbe chiesto se andava tutto bene, invece in questo momento è immobile, sento il suo sguardo sul mio viso. Alzo gli occhi, cercando i suoi, e li trovo proprio dove immaginavo che fossero, puntati nei miei. E a quel punto è come se una mano invisibile mi sospingesse verso di lui, dandomi il coraggio che mi mancava. L’elettricità di fa più intensa, a un millimetro dalle sue labbra. Sento il suo respiro così vicino da farmi quasi girare la testa. Un altro istante di esitazione. Poi, finalmente, la distanza si annulla.





***L'angolo di Miriel_93***
Ebbene ce l'ho fatta, ecco l'ultimo capitolo!
Se devo essere sincera c'è qualche passaggio che mi convince poco, ma siccome una volta che ho scritto poi non riesco a modificare mi sono dovuta accontentare. Spero che convinca voi, e se non è così frustatemi ù.u
A (spero) presto!
Baci baci!

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Capitolo 10
*** Capitolo dieci. ***


capitolo dieci.

Kenshin

Le labbra di Kaoru si posano sulle mie con una certa delicatezza, quasi avesse paura di essere respinta. Dapprima ho l’istinto di sottrarmi a quel contatto dolce, ma fortunatamente il mio corpo, per una volta, ignora la volontà della mia mente e mi permette di restare lì, a godermi quel bacio. Sento le mani di Kaoru posarsi sul mio viso, proprio come era successo in riva al fiume qualche tempo prima. Le mie mani, invece, volano istintivamente sui suoi fianchi, attirandola lievemente a me. Fa quasi strano lasciare il controllo al mio corpo.
Le nostre labbra abbandonano le iniziali timidezze e cominciano a cercarsi con più decisione, si sfiorano, si incontrano, si inseguono, si scontrano in una lotta silenziosa, primitiva, urgente.
Stringo con più forza Kaoru, sentendola sospirare sulla mia bocca mentre mi circonda il collo con le braccia. Il mio corpo comincia a prendersi troppe libertà. Ma è così terribilmente piacevole abbandonarsi a queste sensazioni. Sembra così naturale sentire questo lieve nodo allo stomaco, mentre il contatto tra le nostre labbra sembra volersi estendere anche al resto dei nostri corpi.
Sento che se non pongo velocemente fine a quel bacio, la situazione degenererà. E, per quanto io lo desideri, la voce della mia coscienza, relegata in un angolo remoto della mia mente, mi suggerisce che forse è meglio non affrettare i tempi.
Mi impongo di rallentare. Prendo il viso di Kaoru tra le mani e la bacio con meno urgenza, sfiorandole le labbra più delicatamente. La sua presa resta salda per un istante, prima di allentarsi lentamente, fino a sciogliersi. Che i miei pensieri si siano trasmessi a lei attraverso le nostre labbra?
Dopo un ultimo bacio dal retrogusto dolce e soddisfatto, i nostri volti si allontanano. Mi specchio negli occhi blu di Kaoru, leggendovi la stessa espressione un po’ stranita che deve essere dipinta nei miei.
«Forse è meglio dormire», bisbiglia, dopo qualche istante di silenzio. Annuisco, lasciandola andare con riluttanza.
«Credo che tu abbia ragione», rispondo, con un sorriso. Sento tendersi anche il cuore, non solo le labbra.
Mentre Kaoru si cambia, infilando lo yukata, resto girato verso la porta. Una volta pronta, si infila in uno dei futon che abbiamo disteso al centro della stanza, restando voltata con il viso verso la finestra mentre anche io mi vesto per la notte. Mi infilo nel futon accanto al suo e, una volta ceduto il dominio al buio, resto a guardarla alla debole luce che entra dalla finestra. Lei fa lo stesso, distesa su un fianco, il viso rivolto verso di me. Studio i suoi lineamenti sottili, il modo in cui una ciocca di capelli ricade libera sul suo collo senza darle fastidio, l’ombra lieve della luna sulla sua pelle. C’è silenzio. Ma non è un silenzio soffocante, è un silenzio diverso. Uno di quelli che riempiono l’anima.
Non resisto.
Allungo una mano per sfiorarle una guancia, proprio come ho fatto ieri notte. Solo che, stavolta, Kaoru è sveglia, e vede il mio gesto. Quando la punta delle mie dita si appoggia sulla sua pelle, lei sposta il viso verso la mia mano, cercando quel contatto come un gatto cerca una carezza. Solleva una mano per posarla sulla mia, intrappolandomi sul suo viso. Le sorrido, scoprendomi vagamente imbarazzato e, dopo averle accarezzato la guancia con il pollice, tento di ritrarre la mano. Le sue dita, però, si allacciano alle mie e mi impediscono di scappare, incastrandomi in una morsa decisa ma delicata. Disegno un altro cerchio sulla sua pelle, delineandone la circonferenza con il polpastrello, prima di intrecciare a mia volta le dita con le sue. Tiro la sua mano verso di me e rimaniamo a fissarci negli occhi, le mani allacciate a metà strada tra il suo corpo e il mio, le dita che si sfiorano come a volersi liberare quando, in realtà non desiderano altro che restare così per sempre.
 
Le prime luci del mattino ci sorprendono nella stessa posizione della sera prima. Quando apro gli occhi la prima cosa che vedo è il viso di Kaoru, completamente rilassato dal sonno in cui è ancora immersa.
Sento le dita della mano allacciata alla sua un po’ addormentate. Cerco di sgranchirmele senza svegliarla e senza lasciare la presa.
Mentre aspetto che anche Kaoru si svegli rifletto. Ripenso a ieri sera, ripenso a come le sue parole mi abbiano fatto vedere tutto da una prospettiva nuova, una prospettiva che non avevo mai considerato e che, in parte, avevo paura di considerare.
Avverto una fastidiosa sensazione, come se il mio cuore avesse pericolosamente rallentato i battiti, come a non volersi far sentire nemmeno da me. Mi sento in colpa. Mi sento in colpa perché è bastato così poco a farmi cambiare idea, a farmi credere che io meritassi una felicità che ho negato all’unica donna che abbia mai amato.
Come ho potuto tradire così la sua memoria, il suo sacrificio per me?
Lentamente, mosso da questi pensieri, mi libero dalla stretta di Kaoru. La vedo corrugare la fronte nel sonno, chiudere per un momento la mano a pugno, come a voler trattenere un sogno che stava scappando. Proprio come stavo facendo io. Perché cosa stavo facendo, se non scappare dalla felicità?
Una volta sicuro che il suo sonno non sta per interrompersi, mi vesto velocemente, indossando il mio solito gi rosso, uscendo poi dalla stanza in perfetto silenzio.
In corridoio incrocio la padrona del ryokan, che mi augura il buongiorno. Rispondo al suo saluto e la informo che Kaoru sta ancora dormendo, chiedendole quindi di non fare troppo rumore. Mi promette di non svegliarla, sorridendomi. Probabilmente si è fatta l’idea sbagliata di noi due.
Scendo in cucina, facendo colazione velocemente prima di uscire in giardino. La calura del giorno non ha ancora intaccato la fresca penombra che persiste sotto gli alberi del cortile interno e io ne approfitto per rinfrescarmi le idee.
Sono un completo fallimento, sotto tutti i punti di vista. Non solo ho rovinato la vita della donna che amavo, per poi finire con l’ucciderla, avevo addirittura permesso che le parole dolci di Kaoru mi annebbiassero la mente, spingendomi ad illuderla.
Non credevo di essere così debole. Questo cambia tutto.
Forse dovrei riprendere a viaggiare, a girovagare per il Giappone in lungo e in largo, portando il mio misero aiuto là dove ce n’è ancora un disperato bisogno. Forse dovrei lasciarmi di nuovo tutto alle spalle, impedendomi di ferire ulteriormente Kaoru. Non se lo merita. Così come Tomoe non si merita di essere dimenticata o, peggio ancora, rimpiazzata.
Sono così immerso nei miei pensieri che mi accorgo solo all’ultimo che l’erede della scuola Kamiya si è svegliata e si sta avvicinando alla panchina su cui mi sono seduto. Come ho fatto a non sentire il rumore dei suoi passi lievi sulla ghiaia pallida del piccolo sentiero? Ho abbassato veramente così tanto la guardia, da quando ho smesso di essere un samurai vagabondo?
«Buongiorno», mi saluta. È raggiante.
«Buongiorno», rispondo, un po’ meno caldamente di quanto avrei voluto. I pensieri che mi affollano la mente si riflettono nelle mie parole.
«Qualcosa non va?» Chiede subito Kaoru, sedendosi accanto a me. La vedo esitare per un istante. So già cosa vorrebbe chiedermi. Si è svegliata e non mi ha trovato nel futon accanto al suo, non ha sentito la stretta della mia mano, e le piacerebbe sapere come mai non l’ho svegliata.
«Sì, non riuscivo più a dormire», il che non è del tutto una bugia.
«Capisco», commenta, allontanando lo sguardo dai miei occhi, scrutando la frescura del giardino come a voler capire se le sto mentendo o se dico il vero. «Quali sono i programmi per oggi?» Mi domanda, decidendo di non curarsi troppo di quel dettaglio, forse per paura di scoprire qualcosa che le lascerà l’amaro in bocca.
«Secondo la tradizione oggi dovremmo pranzare con i nostri defunti», noto. «Ma a dire il vero preferirei evitare», aggiungo, prima che Kaoru possa dire qualsiasi cosa.
D’altra parte come potrei chiederle di pranzare insieme a Tomoe? E comunque non me la sento. Non sono fatto per le tradizioni. Sono solo un assassino che cerca la strada del ritorno dall’Inferno.
«Quindi non torneremo alla tomba di Tomoe?» Mi chiede, un po’ confusa.
«No, non ce n’è bisogno, e poi non potrei chiederti di sopportare una cosa del genere, no?»
«Che stupidaggini», borbotta Kaoru. «Siamo venuti qui apposta per la Festa e ora non vuoi rispettarne la celebrazione? Che senso ha?» Domanda. Sembra quasi stizzita.
«Non ho mai detto di volerlo fare», le faccio notare. «Semplicemente era il momento migliore per renderle omaggio senza dare troppo nell’occhio, ecco tutto», confesso, non senza una certa riluttanza. Kaoru resta un istante in silenzio, prima di scuotere la testa.
«Non ha comunque senso», decreta, strappandomi un sorriso con la sua testardaggine. Si ostina a voler difendere la memoria di Tomoe, ma non è difficile, per me, capire che in realtà è sollevata all’idea di non dover fare di nuovo i conti con la sua rivale. E di certo non posso fargliene una colpa.




***L'angolo di Miriel_93***
Mi faccio i complimenti da sola per la velocità di questi giorn, sperando che non sia una cosa passeggera u.u
Non ho niente di particolare da dire, solo che, come sempre, spero che il capitolo non sia una schifezza ^^"
Detto questo mi dileguo!
A presto! :3

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Capitolo 11
*** Capitolo undici. ***


capitolo undici

Kaoru
Io proprio non lo capisco.
Più mi sforzo di decifrare i suoi pensieri, di mettermi nei suoi panni e cercare di comprendere perché si comporta in un modo piuttosto che in un altro, meno capisco. È assurdo, veramente assurdo.
Ieri sera sembrava essersi finalmente convinto che, in fondo, un po’ di felicità la meritava anche lui, oggi, invece, ho come l’impressione che abbia cambiato idea.
Forse sono solo paranoie mie…eppure…eppure non lo so, sento che qualcosa è cambiato da ieri sera. Sento che, rispetto a qualche ora fa, ha fatto un passo indietro. Spero di sbagliarmi. Insomma, finalmente si era deciso a lasciarsi andare, finalmente…finalmente mi aveva baciata, accidenti. Detesto passare per una ragazzina, ma come faccio a negare di aver atteso quel momento per una vita? E quando le sue labbra si sono posate sulle mie…cielo, credevo che il cuore mi sarebbe saltato fuori dal petto una volta per tutte. Certo, quando aveva implicitamente detto che lo faceva solo per far felice me avevo perso leggermente le staffe, ma vorrei vedere chi non l’avrebbe fatto. Insomma, mi stava dicendo che in realtà non l’aveva voluto quel bacio, che me l’aveva dato solo perché lo volevo io, che avrei dovuto fare? Accidenti, che cosa contorta. Però è così che è andata. Quel bacio me l’ha dato tanto per accontentarmi. Se ci ripenso mi viene ancora il nervoso.
Però quando è tornato era diverso. Ci aveva pensato e si era convinto che quello che gli avevo detto era vero. E quando l’ho baciato ha ricambiato perché lo voleva lui. Perché lo voleva, vero?
Accidenti, che mal di testa.
Comunque, che lo volesse o meno, stamattina è strano. Ieri sera faticavo a prendere sonno da quanto ero felice, ma oggi c’è un retrogusto amaro che non riesco a spiegarmi. Già il fatto che quando mi sono svegliata lui non c’era mi ha lasciata un po’ così, stranita. Cioè, mi sarebbe anche andata bene, se non mi avesse risposto a quel modo quando gli ho chiesto se c’era qualcosa che non andava. Crede che non lo conosca, quel suo modo di porsi?
Sospiro, mentre gli tengo dietro per le strade di Kyoto, senza godermi nulla di quello che ci passa di fianco. Sono troppo preoccupata. Sospiro e alzo per un attimo gli occhi verso il cielo terso, decisamente più sereno dopo l’acquazzone dell’altro giorno.
«Sei già stanca?» Mi chiede Kenshin, voltandosi verso di me con un mezzo sorriso. Scuoto la testa brevemente, cercando di nascondere i miei pensieri a quegli occhi che sembrano in grado di scavarmi dentro con il minimo sforzo.
«No. Stavo solo pensando che dopo il temporale dell’altro giorno il cielo è tornato limpidissimo», mento, stringendomi nelle spalle. Non voglio che mi prenda per la ragazzina insicura che sono.
«Hai ragione, non c’è nemmeno una nuvola», risponde, alzando a sua volta gli occhi. «Preferisci che andiamo a goderci il sole in riva al fiume?» Mi domanda, riportando lo sguardo sul mio viso.
«Quello che preferisci tu», rispondo, stringendomi nuovamente nelle spalle. Dirgli che mi basta stare con lui sarebbe troppo smielato, vero?
«Vieni», mi invita, riprendendo a camminare subito dopo avermi rivolto un altro sorriso. Se non altro ha smesso di fingere di sorridere.
Lo seguo docilmente, scivolando tra la gente che affolla le vie di Kyoto, dirette verso il cimitero o di ritorno da esso. Il chiasso è quasi assordante. Tra i venditori che cercano di attirare i clienti, i gruppetti di persone che chiacchierano o ridono e chi si chiama a gran voce, la strada è un miscuglio disorientante di suoni. Mano a mano che camminiamo, però, la folla si dirada e il rumore diminuisce.
«Dove stiamo andando?» Domando, incuriosita, allungando il passo per affiancare Kenshin.
«Vedrai», risponde. Caspita, grazie. Sbuffo, incrociando le braccia sul petto.
Lungo il percorso non aggiunge altro. Non una parola, nemmeno per sbaglio. E il mio umore peggiora sempre di più. Se penso a quanto felice ero appena sveglia mi gira la testa. Mi aspettavo una giornata diversa, con un Kenshin diverso. Non so, più dolcezza, meno misteri, meno silenzio. Anche se, a ben pensarci, non riesco a immaginarlo un Kenshin affettuoso. Non è proprio il tipo da perdersi in moine e discorsi sdolcinati. E non c’entra con il suo passato da assassino. È proprio il suo carattere, suppongo. Anche se il suo carattere è in gran parte forgiato dal suo passato. Mh, se non la smetto mi manderò in fumo il cervello.
Sospiro di nuovo e continuo a camminare, mordicchiandomi il labbro inferiore per non tempestare Kenshin di domande sulla nostra destinazione o su qualsiasi altra cosa che possa rompere questo silenzio fastidioso.
Finalmente, però, Kenshin si ferma.
«Siamo arrivati», annuncia, sorridendo. Mi guardo intorno, realizzando che avevo osservato il paesaggio senza vederlo fino a quel momento.
Dovevamo essere fuori città, ormai. Il fiume Kamo, che avevamo costeggiato fino a quel momento, riempiva un piccolo avvallamento del suo letto, dando origine a quello che sembrava un lago in miniatura. Tra la sponda su cui ci trovavamo noi e quella opposta ci sarà stato al massimo mezzo kilometro. I giunchi offrivano riparo ad alcune famiglie di anatre mandarine, che scivolavano placidamente sul pelo dell’acqua, mentre le folte chiome degli alberi si riflettevano sulla superficie calma del fiume. Un salice piangente spingeva i suoi lunghi rami sinuosi fino a baciare l’acqua, increspandola lievemente. E tutto era così silenzioso, così tranquillo. Sembrava impossibile che ci fossimo appena lasciati alle spalle il caos della festa.
«È un posto che ho scoperto così tanto tempo fa che mi sorprende sia ancora identico a come lo ricordavo», mi spiega Kenshin, mentre io mi perdo ad osservare il sole che fa risplendere l’acqua.
«È così tranquillo…», borbotto.
«Già. Non ho mai avuto l’occasione di fermarmici»
In effetti, come avrebbe potuto? Al tempo era troppo impegnato a lavorare per la Nuova Era e quando era tornato aveva rischiato di lasciarci la pelle, grazie a Makoto Shishio. Non posso negare di sentirmi onorata all’idea che abbia voluto condividere con me questo momento, per quanto non sia particolarmente significativo, a conti fatti. D’accordo, sto blaterando troppo.
Mi avvicino alla riva e mi siedo, seguita da Kenshin. Restiamo in silenzio per un po’ e se dicessi che la cosa mi sorprende direi una bugia. Non è mai stato particolarmente loquace, ma dopo ieri mi aspettavo un po’ più di apertura, da parte sua.
«Kaoru…», mi chiama. Mi volto lentamente a guardarlo, cercando di nascondere la preoccupazione. Non mi piace il tono che ha usato. «Volevo ringraziarti», dice.
Lo guardo inclinando la testa di lato, confusa. «Ringraziarmi?»
Annuisce. «Per essermi sempre stata vicina, per avermi accolto al Dojo Kamiya, per aver creduto in me…un po’ per tutto, insomma». Perché ho l’impressione che sia un addio?
«Perché mi stai ringraziando?»
Stavolta è lui a guardare me con aria vagamente perplessa. «Perché fin dall’inizio hai fatto molto per me, pur non conoscendomi», risponde. Scuoto il capo, chiudendo gli occhi.
«Perché mi stai ringraziando adesso», sottolineo, cercando di impedire alla paura di perderlo di incresparmi la voce.
«Perché non l’avevo ancora fatto», dice.
«Sì, ma perché proprio ora?» Insisto.
«Hai paura che abbia deciso di andarmene?» Colpita e affondata. Non rispondo, non ne ho bisogno. E se rispondessi, probabilmente mentirei. Non ce la faccio a dirgli che è proprio così. Mi limito a chinare il capo, fissando il terreno. «Sarò sincero. L’idea mi aveva sfiorato, ma poi ho capito che non sarei stato capace di andarmene, di lasciare il Dojo, di lasciare gli altri, di lasciare te», spiega. Il mio cuore perde un battito.
«Quindi…»
«Quindi no, non me ne sto per andare. Volevo semplicemente ringraziarti», ribadisce. E io che mi aspettavo, che so, una dichiarazione, qualcosa. Sono proprio una stupida ragazzina.
«Capisco», bofonchio, lasciando cadere l’argomento prima di rivelare la mia stupida ingenuità. Sospiro per l’ennesima volta e cerco di spegnere il cervello, almeno per qualche tempo. Posso solo avere pazienza. Prima o poi si lascerà andare, no? Devo solo lasciargli il tempo di farlo.






***L'angolo di Miriel_93***
Ehm. Ci ho messo una vita, lo so =.=" Sembra che sia estremamente brava a tirarmele, o è solo una mia impressione? Appena dico che ho l'ispirazione, tac, mi arrivano addosso ottocento cose da fare è.é
Comunque, chiacchiere a parte, so che è un capitolo un po' lentino, però, non so, ci tenevo a dare questa visione di Kaoru. Sarà che mi ci rispecchio un po'? Può essere. Fatto sta che i prossimi capitoli saranno meno noiosi, è una promessa ^^
Volo a portarmi avanti, dato che ho una sera libera (yeheee!)
A presto! Baci baci ^^

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Capitolo 12
*** Capitolo dodici. ***


capitolo dodici

Kenshin

È passata poco più di una decina di giorni da quando io e Kaoru siamo tornati da Kyoto, e ogni giorno mi sembra più faticoso del precedente.
«Insomma, Kenshin, si può sapere che ti prende?» Mi chiede Sano, mentre pulisco il pavimento del Dojo, immerso nel silenzio più totale.
«Come?»
«Non fare il finto tonto con me. Si vede lontano mille Ri* che c’è qualcosa che non va», insiste, incrociando le braccia mentre mi guarda.
«Ti sbagli, Sano», gli assicuro, abbozzando un sorriso. «Va tutto…»
«Ma mi hai preso per uno scemo?» Non molla. «È da quando sei tornato che sembri voler evitare a tutti i costi di stare vicino a Kaoru, che l’abbiamo notato tutti»
In questo momento ringrazio il mio sangue freddo. Sento il cuore perdere un battito, ma sono ancora abbastanza bravo da nasconderlo.
«Tutti?»
«Sì, tutti, Kenshin. Perfino Kaoru, se è quello che stai per chiedermi». Colpito e affondato.
Abbandono lo straccio sul legno del pavimento, alzandomi.
«Hai intenzione di spiegarmi qualcosa o…?» Incalza Sanosuke, staccandosi dallo stipite di legno della porta per affrontarmi.
Lo supero senza nemmeno voltarmi a guardarlo, non è una questione che ho intenzione di affrontare con lui. Non per niente...è solo che non lo riguarda. Ma il mio amico non è della mia stessa idea e mi afferra per i capelli, rischiando di farmi volare a terra.
«Tu. Adesso. Mi. Spieghi.» Esige, scandendo bene ogni parola.
«Sano, mi stai facendo male», mi lamento, portando le mani alla base della coda scarlatta che l’attaccabrighe continua a tirare.
«Non provare a scappare», mi avvisa, prima di lasciare la presa. Rispetto la sua richiesta e non mi muovo, abbassando però lo sguardo.
«Non qui», cedo, infilando gli zōri** e avviandomi verso l’uscita del Dojo. Non posso rischiare che Yahiko senta. O, peggio ancora, Kaoru.
«Dove stiamo andando?» Chiede Sanosuke, seguendomi con aria impaziente e le braccia incrociate sul petto.
«Dove non rischiamo di essere sentiti», rispondo, per quanto mi sembrasse ovvio.
Raggiungo la riva del fiume e mi siedo, mentre un gatto randagio scappa per paura di essere preso.
«Ti ascolto»
Sospiro e mi siedo, chiedendomi come ho fatto ad arrivare a questo punto.
«Vedi, Sano, io provo qualcosa per Kaoru», inizio.
«Ma non mi dire», commenta, ironicamente, il mio amico. Lo ignoro.
«E anche lei prova qualcosa per me, però…»
«Hai anche dei dubbi, brutto idiota?» Mi aggredisce, stupito.
«Non sono veri e propri dubbi. Ci sono molte cose che non sai, Sano», cerco di spiegargli, con un sorriso amaro.
«E qualcosa mi dice che non hai intenzione di spiegarmele», deduce. «A dire il vero non m’importano granché», dice, spiazzandomi. «Devi capire che noi tutti teniamo a te, a prescindere da quello che sei stato e da quello che hai fatto, e questo vale soprattutto per Kaoru. Dannazione, Kenshin, vuoi piantarla di fare il martire della situazione?» Un rimprovero fatto e finito.
«Non faccio il…»
«Oh, sì che lo fai. Con questa storia dell’Hitokiri cerchi sempre di dimostrare che non meriti nulla, che non dovremmo preoccuparci per te, che nessuno dovrebbe fare nulla per te e altre stronzate simili. Devi metterti in testa che ormai fai parte del gruppo, che ti vada bene o meno. Quindi o lo accetti, oppure ricominci a vagabondare»
«Sano, non è quello il punto…», non ha afferrato il problema, ma non mi lascia spazio per spiegarmi, è come un fiume in piena che ha deciso di abbattere gli argini e travolgere qualsiasi cosa o persona si trovi sul suo cammino. È un toro inferocito che carica il bersaglio.
«Il punto è Kaoru, Kenshin! Quella ragazza darebbe qualsiasi cosa perché tu ricambiassi i suoi sentimenti e tu stai qui a piangerti addosso»
«Io li ricambio, i suoi sentimenti, Sano. Solo che non dovrei farlo», tento. Sanosuke scuote la testa con decisione.
«Mi fai venire voglia di prenderti a pugni. Quale sarebbe il motivo?» Chiede, con aria di sfida. «E non osare rifilarmi la storia dell’assassino o ti prendo a pugni sul serio»
«C’è una persona che non merita di essere dimenticata», taglio corto, sapendo che la pausa di Sanosuke non è eterna. Tuttavia devo averlo spiazzato, perché non replica subito.
«Di che diavolo stai parlando?»
«Di mia moglie», ammetto. Avrei preferito evitare di parlarne anche a lui, ma non ho altra scelta.
«Non sapevo fossi sposato», bofonchia, guardandomi con gli occhi dilatati dalla sorpresa.
«Non lo sono più», aggiungo, cercando di rivelare il meno possibile, per quanto, ormai, sia tardi per cercare di tenere tutto nascosto.
«È…?» Chiede, lasciando la domanda in sospeso, intuendo il mio dolore. Annuisco. «Capisco. Però devi andare avanti e Kaoru…»
«Mi rendo perfettamente conto del fatto che Kaoru merita il meglio. Ma io…»
«Ma tu sei quello che vuole lei e credimi, nonostante il tuo passato sei una delle migliori persone che io conosca»
«Sano…»
«Parlale. E piantala di comportarti da idiota», conclude, senza aggiungere altro, incamminandosi verso il Dojo.
Ha senza dubbio ragione, ma…
«Sano», lo chiamo. Ho bisogno di conferme, che qualcuno mi dica che ho ragione ad aggrapparmi al passato.
«Cosa?»
«L’ho uccisa io», dico, a bassa voce.
Sanosuke si volta verso di me, impassibile, le mani cacciate nelle tasche dei pantaloni bianchi.
«Non ho intenzione di farti domande. Se l’avessi fatto intenzionalmente non saresti il Kenshin che conosco, quindi piantala di prenderla come giustificazione. Parla con Kaoru», ripete, salutandomi con un gesto della mano prima di riprendere a camminare.
Come può non giudicarmi per quello che gli ho appena confessato? È assurdo. Gli ho appena detto di aver ucciso mia moglie, non può liquidare la questione con un “non sei quel tipo di persona” e poi andarsene come se niente fosse.
Fisso l’acqua di un fiume diverso da quello su cui, pochi giorni fa, ho lasciato andare la seconda lanterna per Tomoe, riaccompagnando il suo spirito nell’aldilà.
È davvero acqua passata? È davvero arrivato il momento di andare avanti?
Non lo so. Ma di una cosa sono certo: Kaoru non merita che io le menta così spudoratamente.


*Un Ri corrisponde a circa 3,9km, è una delle unità di misura giapponesi.
**Gli zōri sono sandali tradizionali giapponesi



***L'angolo di Miriel_93***
Ehm, dunque, allora. Ehm.
Da dove iniziare? Intanto mi scuso per l’ennesimo ritardo nel pubblicare, ma sono stata veramente massacrata dagli esami in questo periodo (che a dire il vero non ho ancora finito, ne ho uno giusto il 25). So che probabilmente non avrei dovuto mettermi a sistemare questo capitolo, avendo l’ultimo esame a breve, ma mi è venuta l’ispirazione e ho dovuto assecondarla (sperando che il risultato non sia uno schifo).
A proposito di questo capitolo vorrei dire un paio di cose.
Innanzitutto, all’inizio era completamente diverso. Nella prima versione (che ho spudoratamente cestinato) Kenshin e Kaoru erano ancora a Kyoto e mancava ancora un giorno alla loro partenza. Il nostro Ken era consumato dai dubbi, e questo è il motivo per cui ho cestinato tutto. Di monologhi interiori sul perché non può amare liberamente Kaoru ne abbiamo avuti abbastanza, direi, anche perché i motivi sono sempre quelli, comunque li presenti. Quindi, considerato il capitolo precedente, ho preferito evitarvi un’altra dolorosa finestra sulle paturnie.
È così che è nata questa nuova versione, ambientata una decina di giorni dopo il loro ritorno. Dieci giorni o poco più in cui Kenshin, forte del fatto che sono finalmente tornati “nella civiltà” e che la magia si è spezzata, ha cominciato ad evitare Kaoru (che vedremo nel prossimo capitolo). Ahimè, però, Sanosuke l’ha beccato in pieno e, da buon amico di entrambi, ha ben pensato di rifilargli una piccola lavata di capo.
Non so quanto possa essere tipico di Sasuke un comportamento del genere, se devo essere sincera, ma l’idea di dare a Kenshin l’opportunità di sentire il parere di un “esterno” mi allettava troppo, e Sano era la persona giusta. Non potevo certo fargli fare la paternale da Megumi, no? O peggio ancora da Yahiko, che è troppo “piccolo” per un discorso di questa portata.
Forse ho forzato un po’ verso la fine, quando Sano fa orecchie da mercante alla rivelazione sulla morte di Tomoe, ma credo che sarebbe stata più o meno la sua reazione. Insomma, si fidano tutti ciecamente di Kenshin e per quanto possano non capire appieno chi era lui prima, credo proprio che cercherebbero di giustificarlo, di difenderlo, in un certo senso, anche davanti a una confessione del genere. Credo. E spero XD
D’accordo, ho blaterato abbastanza, vi lascio (mi tocca, ahimè, tornare a ripassare) e spero che il capitolo vi sia piaciuto ^^
A presto! Baci baci ^^

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Capitolo 13
*** Capitolo tredici. ***


capitolo tredici

Kaoru
 
Ogni giorno di più ho come l’impressione di essermi sognata i giorni della festa a Kyoto.
È tutto così diverso, così uguale a prima, così normale. Come se in realtà non fosse successo nulla.
Sento Kenshin ancora più lontano da me, e questo mi fa male. Ma, in fin dei conti, che diritto ho di lamentarmi o piangermi addosso? Non mi ha promesso nulla. Però, anche se me ne rendo perfettamente conto, una parte di me spera che il suo comportamento sia tornato quello di prima solo per un po’, solo per trovare, nel frattempo, un modo per viverci alla luce del sole, facendoci accettare da Megumi, Sano e Yahiko.
Che fantasie stupide.
Se devo essere sincera comincio a provare una rabbia sorda. Non capisco perché si è comportato così, se le sue intenzioni erano quelle di far finta di niente, una volta tornati.
Mangio in silenzio, come ogni sera, mentre Sanosuke e Yahiko si litigano l’ultima polpetta di riso.
Sembra tutto normale, eppure mi sfugge qualcosa. Ho come l’impressione che Sano e Kenshin mi nascondano qualcosa, li ho beccati a scambiarsi un paio di occhiate eloquenti che mi hanno incuriosita e innervosita insieme.
Ma non m’importa. Non voglio sapere che cosa tramano quei due, preferisco la silenziosa cortina di amarezza che mi avvolge.
Senza dire una parola mi alzo per riportare in cucina i piatti vuoti, benché, solitamente, sia Kenshin a farlo. Ho un bisogno fisico di tenermi occupata, al momento.
Mentre sciacquo le ciotole, avverto una presenza alle mie spalle, qualcuno di troppo silenzioso per essere Sanosuke o Yahiko. Faccio due più due e mi rifiuto di voltarmi, preferisco far finta di nulla.
«Kaoru-dono»
Ah, allora non è diventato muto in questi giorni.
«Tu guarda chi si degna di rivolgermi la parola», borbotto. Avrei voluto sfoderare un tono più deciso, ma pare che la voce abbia deciso di piantarmi in asso.
«Non c’era bisogno di riordinare al mio posto», mi dice Kenshin, con un tono di voce talmente calmo che mi fa venire voglia di girarmi e tirargli una ciotola in piena faccia.
«Tutto qui?» Non riesco a non sbottare. Dimentico per un momento quello che stavo facendo e mi giro a guardarlo. «Dopo dieci giorni che mi eviti l’unica cosa che riesci a dirmi è “non c’era bisogno di riordinare al mio posto”?» Lo aggredisco, lasciando scivolare fuori dal mio corpo la frustrazione che ho accumulato pian piano.
«Non mi hai lasciato tempo di dire altro», mi fa notare, avvicinandosi alla tinozza di legno che ho riempito d’acqua. Si arrotola le maniche e si occupa delle ultime ciotole, mentre io resto a fissarlo incredula e senza parole.
Si asciuga le mani in uno straccio e srotola le maniche, voltandosi a guardarmi.
«Puoi venire un secondo in giardino?» Mi chiede, come se niente fosse. Annuisco, senza dire nulla, seguendolo fuori dalla cucina, rassegnata.
Non apro bocca nemmeno quando ci sediamo sul legno del portico che dà sul giardino del Dojo. Mi limito ad alzare gli occhi verso il cielo scuro punteggiato di stelle. Stasera la luna è rossa.
«Mi dispiace per il mio comportamento», inizia, dopo un po’. Fa una pausa, forse aspettandosi che io dica qualcosa, ma sono stanca di rincorrere il vagabondo. «Però è giusto che tu sappia la verità», aggiunge. Sospiro, distogliendo lo sguardo dalla fetta di luna scarlatta circondata dalle tenebre.
«Kenshin, non credo ci sia veramente bisogno di parlarne. Sono dieci giorni che mi chiedo per quale motivo mi ignori, ma credo di sapere già la risposta», gli rispondo, mettendo da parte la rabbia, sfoderando un tono pacato che non mi credevo capace di gestire. «Capisco quanto sia stata importante Tomoe, capisco che non è giusto che tu la…sostituisca, diciamo. Non lo condivido, ma lo capisco», gli assicuro, senza il coraggio di guardarlo in faccia. «Avrei solo preferito che tu mi facessi capire prima che tutto quello che ci siamo detti a Kyoto non era servito a nulla», confesso, non riuscendo a evitargli un rimprovero nemmeno troppo velato. «Ora, se non ti dispiace, vado a dormire», gli comunico, alzandomi.
Sento le sue dita chiudersi intorno al mio polso e trattenermi, decise ma delicate.
«Non ho finito di parlare. A dire il vero non mi hai nemmeno lasciato iniziare», mi fa notare, rivolgendomi un sorriso che non riesco a sostenere. Sospiro e torno a sedermi, decisa a risolvere questa situazione il prima possibile, per poi andare a rattopparmi il cuore in santa pace.
«D’accordo, ti ascolto», cedo.
«Ti ringrazio», mormora, prima di accarezzare anche lui, con lo sguardo, la luna rossa. «Oggi Sano è venuto a parlarmi», confessa, spiegandomi, forse inconsciamente, il motivo delle occhiate che io non avrei dovuto notare. «E mi ha fatto riflettere. Mi ha fatto una bella ramanzina, per il mio comportamento, e credo di essermela meritata tutta», racconta, con un sorriso sulle labbra. Che cosa ci trovi di divertente proprio non lo so. «Anche lui è d’accordo con me nel dire che meriti il meglio, ma è anche convinto che io mi stia comportando da idiota», aggiunge. Vorrei dirgli che Sano non è l’unico a pensarla così, ma decido di lasciarlo continuare. «Gli ho anche raccontato di…di Tomoe. E non ha fatto una piega». Ecco, questo mi stupisce. Mi volto a osservare il suo volto, alzato verso il cielo. «Mi ha fatto riflettere. Non ha nemmeno voluto sapere come è successo. Ha semplicemente detto che se non ci fosse stata una spiegazione non sarei stato il Kenshin che conosce e mi ha lasciato ai miei pensieri». Si volta a guardarmi, con un’espressione confusa negli occhi blu. «Com’è possibile?»
Fa strano vederlo così, vederlo spiazzato davanti a poche, semplici parole, vederlo cercare una risposta che non conosce, proprio lui che ha sempre letto tutti i suoi avversari come libri aperti.
Abbasso lo sguardo sulle mani che tengo intrecciate in grembo.
«Kenshin…», comincio, sospirando. Scuoto lievemente la testa, riportando gli occhi tra le stelle. «Io davvero non capisco se non riesci a capire o se non vuoi farlo», confesso. Le parole mi escono dalle labbra come le prime gocce di pioggia di un temporale. «Più mi sforzo di capire che cosa ti passa per la testa e meno ci riesco. Tuttavia temo che tu non ti renda proprio conto di quello che hai qui. E non mi riferisco soltanto a me, non sono così egoista. Sembra che tu non veda quanto noi tutti teniamo a te, quanto ci fidiamo di te, quanto poco ci importi di chi eri prima di piombare nelle nostre vite», vado avanti. «Quando ti guardo non vedo un assassino, vedo un vagabondo dai capelli rossi che se ne andava in giro con una spada pressoché inutile ma allo stesso tempo potentissima, che si è ripromesso di espiare i propri peccati salvando quante più vite possibili. Ed è questo il Kenshin che conosciamo noi e a cui teniamo, quello che si porta sulle spalle il peso di tutto quello che ha fatto e cerca di rimediare», mi stringo nelle spalle. «Io…io davvero non riesco a capire come tu possa non considerarti una persona splendida, come tu faccia a non vedere il buono che c’è dentro di te. Forse io sono di parte, non voglio escludere questa possibilità, ma Kenshin…tu sei più di un ex assassino», concludo, sentendomi un po’ più leggera, gli occhi incollati alle mie mani, imbarazzata per il mio discorso e in ansia per le conseguenze. Non che mi aspetti che le mie parole riescano a far cambiare idea a Kenshin, s’intende. Ormai ci ho perso le speranze, in un certo senso.
Il canto dei grilli continua a increspare l’aria di fine estate, sottolineando il silenzio che ci avvolge. Comincio ad aver paura di aver detto qualcosa di sbagliato, anche se non capisco cosa potrebbe essere.
«Vedi, è proprio per questo che non ti merito, Kaoru-dono», dice alla fine Kenshin, dandomi conferma di quanto avevo sospettato. Il mio fiato è andato sprecato, insomma. «Questo vostro modo di vedermi…è decisamente più di quanto meriti un Hitokiri come me. Non posso prendermi anche la felicità che mi offri», mi spiega.
Chiudo gli occhi e scuoto la testa, dapprima debolmente poi con più decisione, man mano che le sue parole mi si depositano dentro.
«Ma perché non vuoi capire, perché?» Domando, sentendo la voce cominciare a incrinarsi. «Hai deciso tu, Kenshin! Hai deciso tutto tu, nessuno è venuto a dirti che non meriti nulla di tutto questo, sei tu che ti intestardisci e neghi l’evidenza!» Sbotto. E sono costretta a fermarmi, a mordermi la lingua per trattenere le lacrime. Ma Kenshin mi lascia la parola, aspetta pazientemente che finisca la mia sfuriata. E quando l’avrò fatto mi contraddirà di nuovo, con il suo tono tranquillo, scontato, come se tutto fosse chiaro come la luce del sole.
Il solo pensarci mi uccide.
Mi alzo di scatto ed evito, non so come, la mano di Kenshin che saetta di nuovo verso il mio polso per trattenermi.
«Non toccarmi», sibilo, tra le prime lacrime, prima di scivolare via, di scappare dalla sua pacifica rassegnazione. Non voglio sentire un’altra parola. Basta.
M’infilo nella mia stanza e solo quando faccio scivolare il pannello di carta alle mie spalle mi accorgo di aver trattenuto il fiato fino ad allora.
Appena provo a ricominciare a respirare mi sciolgo.
Mi accascio a terra lentamente, con un dolore talmente intenso nel petto che non mi permette nemmeno di singhiozzare. Un dolore che, ahimè, non riesce a fermare le lacrime, che rotolano fuori dai miei occhi come biglie che scappano da un sacchetto lasciato cadere a terra, sparpagliandosi sul pavimento.
Mi raggomitolo su me stessa e resto lì, a respirare a fatica con il viso fradicio di dolore, di delusione, di sogni infranti, di fantasie spezzate.
È probabilmente così che mi addormento, accoccolata sul mio cuore spezzato davanti alla porta della mia stanza, come un cane accucciato sull’uscio in attesa del suo padrone.

 

 
 
***L'angolo di Miriel_93***
Come al solito una fa programmi e poi capita qualcosa che glieli fa cambiare =.=
Vi avevo promesso il capitolo entro il weekend e alla fine ho avuto tempo di pubblicarlo solo oggi, ovviamente, però almeno non sono passati mesi, no? :'D
Dunque, su questo capitolo ho poco da dire, se non che mi serviva una parentesi in cui qualcuno cercasse di spiegare come stanno le cose a Kenshin, che cercasse di fargli aprire gli occhi, perché, personalmente (poi ognuno ha la sua visione), ho l'impressione che Kenshin non capisca davvero quanto sia cambiato da quando ha smesso di essere un assassino, che non riesca proprio ad accettare che qualcuno possa "tralasciare" il suo passato. E quindi, non so, avevo bisogno che qualcuno glielo spiegasse. E chi, se non Kaoru, che prova qualcosa per lui?
Forse mi sta uscendo una Kaoru un po' piagnucolona, per essere l'erede della scuola Kamiya, ma suvvia, è pur sempre una ragazza che si vede rifiutare non solo per una ex, ma per una ex morta (e scusate se suona male :/). Che poi, ad essere sinceri, io più che piagnucolare sarei incazzata nera, ma va beh u.u
Detto questo mi dileguo, a presto con il prossimo capitolo!
Baci baci ^^

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Capitolo 14
*** Capitolo quattordici. ***


capitolo quattordici

Kenshin

Se ci fosse Sanosuke qui mi assesterebbe uno dei suoi pugni micidiali. E forse me lo meriterei anche.
Non era così che volevo che finisse. Non mi aspettavo una reazione del genere da parte di Kaoru, anche se avrei dovuto prevederla.
È tutta colpa mia. Non avrei dovuto osare così tanto, sbilanciarmi verso di lei in questo modo, permettermi di farle credere in qualcosa che non può esistere.
Eppure…eppure le sue parole mi hanno scavato dentro. La sincerità che trasudavano mi ha lasciato il segno, è riuscita a farmi mettere in dubbio tutto quello in cui credevo, come un tarlo che s’insinua nel legno e rende traballante tutta la struttura. Anche se per poco, Kaoru è riuscita a farmi vedere me stesso sotto un’altra luce, mi ha fatto vedere come mi vedono gli altri, ed è una versione così diversa da quella che vedo io che sembra quasi appartenere a due persone diverse.
E il problema è proprio questo.
Si tratta di due persone diverse. Per quanto io possa essere cambiato da quando ho impugnato la Sakabatō, sotto la mia pelle vive ancora l’Hitokiri che, assalito dalla furia omicida, non è riuscito a proteggere la donna che amava, che l’ha uccisa con le sue stesse mani.
Per quanto buono possano vedere in me il mio animo non è puro come vogliono credere che sia, come vogliono convincersi che sia. Il Kenshin che credono di conoscere non esiste. È solo il risultato di migliaia di vittime accatastate l’una sull’altra. Accidenti, il mio vero nome non è nemmeno Kenshin.
Non posso permettere che una persona buona come Kaoru, una persona davvero buona, che non ha mai ferito nessuno, si innamori di una bugia. Perché io sono questo.
Sono una bugia.
Non sono chi dico di essere. Sono solo una maschera che il destino mi ha appiccicato addosso. Sono una bugia ripetuta così tante volte per così tanto tempo da essere quasi reale, ma non abbastanza per essere una verità.
Ma la nota peggiore è che tutto questo non mi rallegra per nulla.
Il mio non è un rassegnarmi, è un dover lottare contro me stesso giorno dopo giorno, è trovarsi a combattere contro uno specchio. Io non vorrei essere così. Vorrei non aver mai incontrato il maestro Seijuro Hiko, vorrei non aver mai avvertito il bisogno di impugnare la spada per difendere i più deboli, e soprattutto vorrei che questo mio sentimento non mi avesse spinto a mietere tante, troppe vite innocenti.
So bene che se niente di tutto questo fosse accaduto probabilmente non avrei mai conosciuto né Tomoe né Kaoru, ma per loro questo non sarebbe stato per nulla un male. Anzi.
Tomoe sarebbe probabilmente ancora viva, starebbe vivendo una vita felice accanto al suo promesso sposo, circondata dai loro bambini.
Kaoru non avrebbe mai avuto problemi con il Dojo per colpa di uno scriteriato che si spacciava per me e, soprattutto, non si ritroverebbe a soffrire così a causa mia.
La vita di tutti sarebbe migliore, se io non avessi mai impugnato la spada.
Alzo gli occhi su questa luna color sangue e mi chiedo come può un sentimento nobile come quello che mi aveva mosso all’inizio risolversi in una sofferenza tale. Come ha potuto un ragazzino rimasto orfano trasformarsi in un’arma letale.
Più me lo chiedo e meno riesco a capirlo.
Sospiro e mi rassegno. La mia volontà di cambiare il presente non ha avuto i risvolti che speravo, figurarsi il mio desiderio di cambiare il passato.
L’unica cosa che mi resta da fare è mettere da parte i miei sentimenti di Kaoru prima che sia troppo tardi, prima che il danno sia irreparabile. E direi che già così è un bel problema. Comincio a temere che la mia unica scelta, arrivati a questo punto, sia quella di riprendere a vagabondare, lasciando in pace il cuore tormentato di Kaoru. In fondo, se dicono lontano dagli occhi, lontano dal cuore un motivo ci sarà, no? Anche se temo di essere proprio l’eccezione che conferma la regola. Più lontano dagli occhi di Tomoe cosa può esserci?
Mi alzo, esitando un istante. Con lo sguardo accarezzo quel giardino che ormai mi è diventato così famigliare da poterlo percorrere ad occhi chiusi senza paura di inciampare. Mi imprimo nella memoria ogni particolare, dalla disposizione degli oggetti alle sfumature del legno, al modo in cui la luce delle stelle sfiora le foglie degli alberi, ormai pronte a lasciarsi cadere.
Respiro a fondo e riempio i polmoni con il profumo del legno, dell’erba, degli alberi, dell’aria che mi circonda.
Sento una morsa decisa serrarsi intorno al cuore, mentre realizzo che presto mi lascerò tutto quello alle spalle, che non mi inginocchierò più accanto al pozzo per lavare i vestiti, che non sentirò più Yahiko allenarsi nel Dojo, né Sano lamentarsi per il suo continuo appetito, che non sentirò più Megumi rimproverarlo per la scarsa cura che riserva al suo corpo, mentre gli sistema l’ennesima ferita. Che non rivedrò mai più Kaoru, che il suo sorriso non mi accoglierà più al mio ritorno.
Mi si stringe il cuore, ma so che è la cosa giusta da fare.
Sono stato egoista, e questo mi sorprende. Mi sono convinto troppo a lungo che la mia presenza qui serviva a difendere Kaoru, il Dojo e tutti gli altri, quando in realtà era solo un modo per sentirmi meno colpevole, per distrarmi da tutto il male che avevo fatto nell’ingenuo tentativo di fare del bene.
Distolgo a malincuore lo sguardo da tutti quei piccoli dettagli che ho imparato ad apprezzare, giorno dopo giorno, e mi dirigo a passo lento e cadenzato verso la stanza di Kaoru, dove sono sicuro di trovarla. Ho invaso la sua casa con la mia presenza ingombrante, costringendola a cercare rifugio nell’unica stanza in cui non sono quasi mai entrato.
Da dietro la sua porta non arriva nessun suono.
«Kaoru-dono?» Chiamo, a bassa voce, come se sperassi di non essere sentito per poter far finta di nulla.
Non ricevo risposta, e la cosa comincia a impensierirmi.
Apro leggermente la porta, facendo scorrere il pannello.
 
La trovo lì, rannicchiata appena oltre la soglia, il viso ancora rigato dalle lacrime, gli occhi chiusi e il respiro appesantito da un sonno senza sogni.
Stringo i denti mentre il cuore perde un battito. Come posso restare oltre, se questo è l’effetto che ho su Kaoru? Non merita tutta questa sofferenza.
Entro nella sua stanza e recupero il futon dall’armadio in cui lo ripone ogni mattina, stendendolo al centro della stanza. Poi torno sui miei pochi passi, sollevandola con delicatezza per sistemarla sotto le coperte. Il suo viso si contrae e una lacrima rimasta intrappolata tra le sue lunghe ciglia nere trova il modo di liberarsi, scivolandole lungo la guancia. La raccolgo il pollice e la sento bruciare sulla mia pelle, come se fosse fuoco.
Mi rialzo, uscendo dalla stanza di Kaoru senza fare rumore. Richiudo la porta, restando per un istante davanti al pannello di carta che ci divide di nuovo.
È la scelta migliore.
Domani le spiegherò la situazione e sono sicuro che anche se all’inizio non la prenderà bene, poi capirà l’importanza della mia scelta. So che lo farà.
Mi avvio verso la mia stanza con il cuore pesante quanto una montagna intera.
«Kenshin», la voce di Sanosuke mi strappa ai miei pensieri.
«Sano»
«Hai parlato con Kaoru?»
Annuisco, ma qualcosa nella mia espressione deve suggerirgli che non è andata molto bene.
«Che le hai detto?» Mi domanda, con un leggero rimprovero nella voce.
«È meglio che io ritorni a vagabondare», rispondo, tenendo per me il contenuto della mia discussione con Kaoru. Sanosuke le darebbe pienamente ragione e di litigare con lui non ne ho proprio voglia.
«Che diavolo…Kenshin, che stai dicendo?» Chiede, stupito, con un tono di voce troppo altro.
«Sveglierai Kaoru», gli faccio notare, facendogli segno di allontanarci.
Torniamo in cucina, dove sono costretto a spiegargli cosa mi ha fatto prendere quella decisione senza, ovviamente, ottenere mezza parola di consenso da parte sua.
«È inutile, Sano, ormai ho deciso. È meglio per tutti, soprattutto per Kaoru»
«Meglio per Kaoru un corno! Hai idea di come la prenderà?»
«Dannazione, preferisci che resti qui a farla soffrire con la mia presenza?!» Domando, quasi ringhiando, sorprendendomi da solo per quello scatto. Anche Sanosuke è sorpreso e resta per un attimo senza parole. Stringe per un momento i pugni, poi li rilassa, sbuffando.
«Dormici sopra, ne riparliamo domani mattina, prima che tu ne faccia parola con Kaoru», decide, senza rassegnarsi.
«Buonanotte», rispondo, ben consapevole che la notte non porterà nessun consiglio, che la mia è l’unica decisione da poter prendere che mi sia rimasta.



***L'angolo di Miriel_93***
...sì, lo so, ci ho messo di nuovo un secolo. Chiedo scusa (come sempre, e siete autorizzati anche a mandarmi a quel paese, visti i continui ritardi ç_ç).
Spero che il capitolo vi sia piaciuto abbastanza da valere l'attesa, ma soprattutto spero che non vi venga voglia di linciarmi per la decisione di Kenshin. Insomma, che altro potrebbe fare? È troppo testone per accettare l'amore di Kaoru e ricambiarlo con tutto se stesso <.< D'altra parte, poi "accettiamo l'amore che crediamo di meritare", e uno come Kenshin, appunto, non crede di meritarne molto. Ma pazienza. È fatto così ed è questo che lo rende un personaggio così affascinante (parlo per me, ovviamente)
Beh, non ho altro da dirvi, se non che mi scuso ancora. Non prometterò un capitolo presto perché, da quanto ho capitolo, tutte le volte che lo dico poi non lo faccio, quindi vi dirò solo "alla prossima" :'D
Vi voglio bene <3 (captatio benevolentiae mode: ON)
Alla prossima <3

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Capitolo 15
*** Capitolo quindici. ***


capitolo quindici

Kaoru

Sento il calore del sole sulla pelle.
Con un braccio mi copro gli occhi, impedendo alla luce che inonda la stanza di strapparmi al sonno. Sono sveglia, ma non sono pronta ad alzarmi. Voglio restare qui un altro po’, lasciarmi cullare dalla semi-incoscienza del dormiveglia.
In cortile sento alcune voci, ma non ho voglia di sforzarmi per capire che cosa dicono.
Nascondo la testa nel futon e mi giro dall’altra parte, con un sospiro infastidito. Devono proprio fare tutto questo chiasso? Sono così stanca, voglio solo dormire un po’ più a lungo, perché devono disturbarmi? Mi sento stanca e pesante, spossata.
Sospiro di nuovo e mi impongo di ignorare le voci che ridono e cantano.
Mi risveglio più tardi, sentendomi soddisfatta per essere riuscita a riaddormentarmi ma vagamente in colpa per aver poltrito.
Mi tiro a sedere nel futon e mi stropiccio gli occhi, stringendoli per la troppa luce.
La stanza, però, ha qualcosa di strano. È familiare, ma non è la mia.
Perplessa mi guardo intorno. Non sono preoccupata, sento che è il posto giusto, che è normale che io sia in questa stanza e non in quella in cui ho sempre dormito, ma perché?
Sbadiglio e scivolo fuori dal futon, stiracchiandomi mentre mi alzo. Lo ripiego con cura, compiendo i gesti meccanici che accompagnano ogni mio risveglio. Apro l’armadio per riporlo al suo posto e ne scorgo un altro, piegato e sistemato sul ripiano. Appoggio il mio futon di fianco a quello già presente sul ripiano e, stringendomi nelle spalle, esco dalla stanza.
Il pannello di carta scivola sulla guida di legno producendo un rumore inconfondibile, permettendomi di gettare lo sguardo sul cortile del Dojo. Chiunque ci fosse stato al mio primo risveglio se n’era andato.
Tutto è come sempre, eppure c’è qualcosa che non mi torna. C’è qualcosa di strano, nell’aria. Ci sono piccoli particolari che mi appaiono fuori posto da un lato e perfettamente inseriti nel loro contesto dall’altro. È una sensazione davvero strana.
Camminando a passi lenti, accompagnata dal tonfo leggero dei miei piedi sul pavimento il legno, mi dirigo verso la cucina. Ho un leggero languorino.
È tutto così…silenzioso. Come se in casa non ci fosse nessuno.
Apro la porta della cucina e la trovo vuota, sul tavolo una ciotola di riso coperta con un piattino per tenerne il contenuto al caldo. Di fianco c’è un piatto con piccole frittate dorate, un paio di pesciolini affumicati e sottaceti. Noto un foglietto di carta piegato, infilato parzialmente sotto il piattino.
Lo recupero, con la fronte corrugata e lo apro.
Siamo andati a comprare gli ingredienti per il pranzo. Buona colazione!
Questo spiega perché la casa è silenziosa.
Mi siedo e mangio la colazione che qualcuno, molto probabilmente Kenshin, mi ha lasciato sul tavolo.
Finisco piuttosto velocemente e riordino il tutto, lavando il piattino, la ciotola e le bacchette, mentre aspetto che gli altri tornino.
Proprio mentre sto uscendo dalla cucina, decisa a trovare un modo per ingannare il tempo, sento la voce familiare di Kenshin provenire da oltre il muro che circonda il Dojo. Mi avvio a passo svelto verso l’entrata, spinta da un’irrefrenabile quanto vagamente insensata voglia di vederlo.
Finalmente il cancello si apre e Kenshin appare, con un sorriso mozzafiato stampato sulle labbra. Un sorriso così profondo e sincero che, per un istante, mi lascia basita, incapace di dire qualsiasi cosa.
Mi vede, mi saluta e si avvicina. Solo allora noto due figure più piccole, al suo fianco. Un bambino e una bambina, entrambi con i suoi stessi occhi azzurri, profondi come l’oceano e i capelli castani, tendenti al rosso. Li studio con aria perplessa, finché Kenshin non mi rivolge di nuovo la parola, chiedendomi che cosa ci faccio in giro nelle mie condizioni. Dice che dovrei essere a letto e io non capisco.
Il bambino si avvicina a me e mi prende per mano, promettendo a Kenshin che si prenderà cura lui della sua mamma e del suo fratellino in arrivo.
Di colpo tutto mi appare talmente chiaro da essere quasi destabilizzante.
Sono incinta.
Appoggio una mano sul ventre gonfio e mi volto di scatto a guardare Kenshin, prima di spostare di nuovo lo sguardo sulla bambina, in piedi di fianco a lui, e sul bambino che mi sta tirando insistentemente la mano, chiamandomi “mamma”.
 
Mi sveglio di soprassalto, scalciando inconsciamente le coperte, sedendomi nel futon con gli occhi sbarrati, alla ricerca dei due bambini e di Kenshin.
Ma nella mia stanza ci sono solo io.
Mi porto una mano sul ventre, senza trovare le curve morbide di una gravidanza.
Ho il fiato corto.
Ora ricordo tutto. Sono corsa nella mia stanza dopo il “litigio” con Kenshin, anche se non si può proprio definire così. Non ricordo di essermi messa nel futon, dev’essere stato lui.
Mi alzo e faccio scorrere la porta per guardare fuori. Il cielo è ancora scuro, ma la luna rossa che lo dominava è sparita. Dev’essere quasi l’alba. E io, ovviamente, non ho più sonno.
Esco nell’aria forse un po’ troppo fresca del primo mattino, sperando di trovare Kenshin sveglio, da qualche parte, e al tempo stesso di non incrociarlo. Sono ancora scossa dalla nostra discussione.
Passo davanti alla sua stanza silenziosa e, per un istante, provo l’irrefrenabile istinto di sbirciare dentro, di osservare il suo viso rilassato dal sonno, di bearmi per qualche istante della sua presenza senza paura di dire, o di non dire, la cosa giusta.
Esito, e alla fine torno sui miei passi, rintanandomi di nuovo nella mia stanza, togliendo finalmente il kimono per infilare lo yukata e tornare a letto, per provare a riaddormentarmi.
Questa situazione è a dir poco assurda. Vorrei trovare un modo per risolverla, ma non saprei da che parte cominciare. L’unica cosa che so è che non voglio perdere Kenshin, per cui temo di non avere molte possibilità di scelta. Posso solo far finta che vada tutto bene, che non m’importi, fingermi una donna matura quando, in realtà, non sono altro che una ragazzina che si lascia spezzare il cuore troppo facilmente.
Sono proprio una stupida. Devo solo fingere che qualcosa che non è mai esistito non sia mai esistito. Giochi di parole a parte, che cosa c’è mai stato, tra me e Kenshin? Qualche parola, un paio di baci rubati e nulla di più, il tutto lontano dagli occhi di tutti. C’eravamo solo noi a Kyoto, sulla riva del fiume, nella nostra stanza. Noi e le stelle.
Voglio dire, se dovessi sopportare anche gli sguardi addolorati e un po’ curiosi degli altri sarebbe tutto ancora più difficile, ma loro non ne sanno nulla, quindi che problema c’è?
Mi raggomitolo su me stessa, fissando il buio della mia camera. È questo che si prova? È questo il vuoto senza forma che prende il posto della felicità?
Ho bisogno di un po’ di tempo per rimettermi in sesto, un breve periodo di convalescenza che mi rimetta a nuovo e mi dia la forza di cui ho bisogno per far finta che sia stato tutto un sogno, proprio come quello che ho avuto poco fa. Niente di impossibile, no?
Ma non ho sonno.
Posso girarmi e rigirarmi e girarmi di nuovo nel futon, ma so bene che non mi riaddormenterò. Non se, appena chiudo gli occhi, il sogno di una felicità che non assaporerò mai torna a tormentarmi.
Con un calcio allontano di nuovo il futon.
Se non posso dormire, allora comincerò a dissodare il terreno per la nuova Kaoru.





***L'angolo di Miriel_93***
Ehm, allora, dunque. EHM.
A mia difesa posso dire che in questo lungo periodo di ritardo ho lavorato un sacco nel bar e nel ristorante dei genitori di un'amica (roba come 14 ore al giorno @_@) e che quindi quando avevo un giorno libero ero in catalessi. Poi, come se non bastasse, sono perfino riuscita ad ammalarmi e passati i primi 3-4 giorni di coma profondo mi sono messa al lavoro per sistemare questo capitolo e postarvelo. Perdonatemi ç_ç
A proposito del capitolo.
È una schifezza, non mi soddisfa neanche un po'. Però mi serviva per collegare i prossimi (...comincio a usare questa scusa un po' troppo spesso quando il capitolo è una schifo, ma fidatevi di me, almeno stavolta ç_ç). Vi prometto che i prossimi saranno un po' più intensi e, LO GIURO, pubblicherò in tempi umani. GIURO. E se non lo faccio potete bastonarmi con tanta tanta tanta tanta cattiveria, ne avete tutto il diritto ç_ç
Bene, detto questo mi dileguo, vado a prendere l'antibiotico ç_ç
A presto, è una promessa!
Baci baci! :*

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Capitolo 16
*** Capitolo sedici. ***


capitolo sedici

Kenshin

Li ho sognati o erano reali?
I passi lievi che ho avvertito fuori dalla mia stanza, questa mattina prestissimo, erano veri o me li sono immaginati io nel dormiveglia?
Credo che non lo saprò mai.
È ancora terribilmente presto, ma se voglio avere il tempo di spiegare la situazione a Kaoru, preparare le mie cose e andarmene mi conviene alzarmi.
Scivolo fuori dal futon, lo piego e lo sistemo nell’armadio. Poi mi tolgo lo yukata e mi rivesto, infilando il mio affezionato gi rosso. Faccio tutto lentamente, troppo lentamente, come se questo potesse risparmiarmi la difficoltà di quello che voglio fare. Di quello che devo fare.
Quando non ho più nulla da usare come scusa esco dalla mia stanza a passo di lumaca, avviandomi verso la cucina.
Tutto tace.
Passando davanti alla stanza di Yahiko avverto un lieve russare, segno che sta ancora dormendo. Da un lato è una cosa positiva, significa che avrò la libertà di parlare con Kaoru. Dall’altra…beh, una spalla poteva essere utile, per quanto sia poco probabile che Yahiko sia d’accordo con me. Anzi, è praticamente impossibile.
Anche la cucina è deserta. Kaoru dev’essere ancora nella sua stanza. Chissà, forse non ha nemmeno voglia di vedermi.
Preparo la colazione con gesti misurati e familiari, ripassando mentalmente quello che ho da dirle. Ogni volta che lo faccio, però, mi sembra di aver scelto le parole sbagliate, di essere poco chiaro, troppo brusco, poco sincero, troppo prolisso. E alla fine ricomincio da capo, riformulo il tutto e riparto da zero, senza riuscire a cavare un ragno dal buco.
Finisco di preparare la colazione, ma non si è ancora visto nessuno. Decido di lasciarla in caldo e andare a svolgere qualche altro lavoretto.
«Kenshin, ma sei già in piedi?» La voce assonata di Yahiko mi raggiunge mentre metto ad asciugare le ultime cose che ho lavato poco prima.
«Come sempre. La colazione è in caldo, se vuoi», lo informo, senza chiedergli di Kaoru. È chiaro che mi sta evitando.
Il tempo scorre, però, e se voglio partire entro oggi devo riuscire a parlare con lei prima che arrivino tutti gli altri e comincino a dire la loro.
Finisco di mettere tutti i panni lavati al sole del mattino e torno in cucina, dove Yahiko si sta ingozzando come al solito.
«Yahiko, hai visto Kaoru?» Gli chiedo alla fine.
«No, non si è ancora alzata?» Risponde, lottando per deglutire un boccone troppo grosso.
«Non ne ho idea», dico, corrugando la fronte. Tutto questo è molto strano.
Senza aggiungere altro esco di nuovo dalla cucina, deciso a trovare Kaoru e a spiegarle la situazione. Non ho altra scelta. Il sole si sta alzando e presto Sanosuke sarà qui a reclamare il pranzo. Non posso perdere altro tempo.
Setaccio ogni angolo Dojo, senza successo, finché, alla fine, non mi decido a entrare in camera sua. Mi fermo davanti al pannello di carta che la chiude, esitando.
«Kaoru-dono?» Chiamo.
Silenzio.
«Kaoru?» Riprovo, omettendo l’onorifico.
Ancora nulla.
Mi decido a far scorrere lentamente il pannello, con il timore di disturbarla. Ma la stanza è vuota. Entro, allibito, guardandomi intorno. Apro l’armadio e il futon è al suo posto, ben piegato.
«Che sia andata a comprare qualcosa in paese?» Bofonchio tra me e me, prima di uscire dalla stanza.
Tornando verso la cucina incrocio Sanosuke, che mi viene incontro con aria di sfida. Quasi non lo saluto, immerso come sono nei miei pensieri. Dove si sarà cacciata Kaoru?
«E allora, la notte ti ha aiutato a lasciare da parte certe idee stupide o cosa?» Mi domanda, mentre gli passo di fianco senza quasi degnarlo di uno sguardo.
«Come?» Chiedo, senza capire subito quello a cui si stava riferendo.
«Hai ancora intenzione di andartene o ti sei rinsavito?» Spiega, incrociando le braccia sul petto, guardandomi minacciosamente dall’alto della sua statura.
«Ne riparliamo più tardi, al momento sto cercando Kaoru», taglio corto. Non ho nessuna voglia di riprendere il discorso con lui, tanto non capirebbe.
«Perché, dov’è?» S’informa, tramutando l’espressione corrucciata in una più perplessa.
«Non ne ho la più pallida idea», confesso, particolarmente serio. Non è da lei lasciare il Dojo senza aver prima avvisato qualcuno.
«Come non ne hai idea?!» Mi chiede Sano, stupito.
«Non lo so, devo essermi svegliato per primo, ma non l’ho incrociata da nessuna parte e non è nemmeno nella sua stanza», spiego.
«Hai controllato in palestra?»
«Naturalmente sì», rispondo.
«Ma insomma, dov’è Kaoru? Aveva detto che stamattina mi avrebbe spiegato un nuovo metodo di allenamento!» S’intromette Yahiko, raggiungendoci.
«D’accordo, qui qualcosa non quadra. Che sia da Megumi?» Ipotizzo, incrociando le braccia, tentando di nascondere l’agitazione.
«No. Vengo proprio da là, mi sono dovuto far medicare di nuovo la mano», ci informa Sano, sfregandosi il mento con aria pensierosa.
«Yahiko, corri in paese e vedi se è in giro da qualche parte. Sano, tu resta qui, nel caso tornasse, io vado a cercarla da Akabeko», annuncio, infilando gli zōri ed avviandomi a passo svelto verso il cancello.
 
Tae non aveva visto Kaoru, Megumi, alla quale ero andato a chiedere comunque, nemmeno. Era come se fosse sparita nel nulla.
Mi sento il cuore pesante. Che fine avrà mai fatto? Ormai è pomeriggio inoltrato. Non è normale che stia in giro così a lungo senza avvisare nessuno. Eppure la sua stanza è in ordine, come tutto il resto dell’abitazione. Non può essere stata prelevata con la forza. D’altra parte, però, non c’è nemmeno un suo biglietto, niente di niente. Sparita.
«Allora? L’hai trovata? Qualcuno l’ha vista?» Mi chiede Sanosuke, appena varco la soglia del Dojo. Scuoto la testa in silenzio, senza nemmeno sollevare lo sguardo da terra.
«Deve pur essere da qualche parte, ma dove?» Mugolo, fallendo nel tentativo di non lasciar trasparire la mia disperazione.
«E se ti avesse sentito?» Ipotizza Sano, incrociando di nuovo le braccia sul petto. Alzo lo sguardo per fissarlo con aria interrogativa. «Ieri notte. Se avesse sentito che volevi andartene e se ne fosse andata lei?» Spiega. Un brivido freddo mi corre lungo la schiena. Mi rifiuto di pensarci.
«Kenshin, tu cosa?!» Mi domanda Yahiko, con un tono di voce stridulo e incredulo. Lo ignoro.
«No, mi rifiuto di pensare che abbandonerebbe così il Dojo di suo padre. Non pensi anche tu che avrebbe prima cercato di parlarmi?» Chiedo a Sanosuke.
«E se avesse deciso di andarsene per un po’? Insomma, giusto per cambiare aria, che diavolo ne so», tenta, stringendosi nelle spalle.
«In ogni caso avrebbe lasciato un biglietto, avrebbe avvisato qualcuno...ti pare che sia da lei sparire così?» Cerco di fargli capire, di fargli aprire gli occhi, ma lui niente.
O sono io che voglio negare la verità? E se fosse vero? E se Kaoru mi avesse sentito e le mie parole l’avessero spinta ad andarsene? No, non voglio nemmeno prendere in considerazione questa eventualità. Sarebbe mostruoso, da parte mia.
«Dove potrebbe essere andata?» Domando, cercando di mantenere l’ansia sotto controllo.
«Beh, può darsi che sia a Kyoto, da Okina e Misao», butta lì, sovrappensiero.
Non aspetto oltre.
Mi lancio nella mia stanza a recuperare le poche cose che mi servono e mi fiondo fuori dal Dojo.
«Kenshin! Dove diavolo stai andando?!» Mi urlano dietro Sano e Yahiko.
«A riprendere Kaoru», rispondo, senza nemmeno voltarmi indietro.
«Veniamo con…»
«Non se ne parla. Voi restate qui, nel caso ritorni», sentenzio girandomi verso di loro, impedendo a Yahiko di finire la frase.
«D’accordo. Sta’ attento, Kenshin», risponde Sanosuke, afferrando Yahiko per una spalla. Annuisco, ripartendo a rotta di collo verso il porto.




***L'angolo di Miriel_93***
Ebbene, eccoci qui! Ci ho messo più del previsto, ma sono abbastanza soddisfatta: se non altro non ci ho messo dei mesi ahahah XD
Scherzi a parte, spero che questo capitolo vi sia piaciuto! "Finalmente" siamo entrati nel vivo dell'azione, nella svolta che la cara Solandia (che ringrazio di nuovo <3) mi ha fatto venire in mente con una delle sue recensioni. 
Che fine avrà fatto Kaoru? Mah, chi lo sa! :P
Lo svelerò presto, nel prossimo capitolo o in quello dopo ancora, chi lo sa :3
...d'accordo, la smetto XD
Vado a mangiarmi un sano gelato! Alla prossima e tanti baci! :3

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Capitolo 17
*** Capitolo diciassette. ***


capitolo diciassette

Kenshin

Fu il viaggio più lungo di tutta la mia esistenza.
Nemmeno il mio vagabondare per il Giappone mi era apparso tanto infinito e senza speranza.
La nostra nave solcava il mare a quello che mi sembrava essere il passo di una lumaca pigra, per quanto avessi sentito il capitano vantarsi più volte, nei vari porti in cui ci fermavamo, dell’incredibile potenza dei motori della sua imbarcazione.
Per quanto me ne intendevo io, non erano abbastanza potenti da portarmi a Kyoto prima che impazzissi.
Sapevo che non avevo nessun diritto di andare a riprendere Kaoru, ammesso e non concesso che fosse veramente da Okina, così come non avevo nessun diritto di pretendere di essere informato dei suoi spostamenti. Eppure non m’importava.
Era irrazionale ed egoista, da parte mia, soprattutto considerato il fatto che, una volta tornati a Tokyo, le avrei detto addio per sempre. Però, ecco, un addio glielo dovevo. Dopo tutto quello che aveva fatto per me era il minimo che potessi fare.
«Mamma, guarda, quel signore ha una spada!» La voce acerba di un bambino mi strappa ai miei pensieri, costringendomi a voltarmi con un accenno di sorriso sulle labbra. La paura che leggo negli occhi di sua madre, però, mi ricorda chi sono.
«Sssh, vieni via Eichi», gli sussurra, trascinandolo via senza staccare lo sguardo da me, come a volersi assicurare la fuga.
«Ma mamma, io voglio vedere la spada!» Protesta il bambino, cercando invano di opporre resistenza alla volontà decisa della madre che, senza aggiungere altro, se lo carica in spalla e se ne va. Come darle torto? D’altra parte dalla fine della rivoluzione la legge vietava di portare questo genere di arma e chi osava farlo era spesso e volentieri un poco di buono. E, in effetti, la madre di quel bambino non aveva proprio tutti i torti.
Sospirando riporto lo sguardo verso la distesa d’acqua che si allunga davanti a noi. Il sole è quasi completamente sparito oltre la linea regolare dell’orizzonte. Non siamo molto lontani dalla baia di Osaka, dove sarei sceso per proseguire via terra fino a Kyoto. In confronto alla distanza totale, potevo dirmi a un soffio da Kaoru, eppure continuavo a essere troppo lontano.
Mi costringo a concentrarmi su tanti piccoli dettagli, come il ritmo del mio respiro, il rumore frusciante delle onde, i richiami dei gabbiani, tutti particolari di un quadro più ampio che mi aiutano a distrarmi dal lento scorrere del tempo.
All’inizio è una fatica immane, ma appena quel meccanismo diventa più naturale l’incessante turbinio di pensieri che mi vortica in testa si placa e, quasi senza accorgermene, le porte di Kyoto si stagliano davanti ai miei occhi. Il canto dei gabbiani era stato sostituito dal cinguettio dei passeri, il fragore delle onde dal suono dei miei zōri sulla ghiaia. Solo il mio respiro era rimasto a farmi compagnia.
Stringo i denti, deglutendo. Manca così poco.
Solo ora mi rendo conto che non so cosa dire a Kaoru. Non sono mai stato bravo con le parole, non ne ho mai avuto bisogno, la spada mi è sempre bastata. E quando avevo deciso di non affidarmi più a quel freddo acciaio affilato, non avevo più nessuno con cui parlare.
Dopo una breve esitazione ricomincio a camminare, quasi con riluttanza, verso l’Aoi-Ya, deciso a non pensare a niente in particolare da dire. Al momento giusto avrei trovato le parole. O almeno lo speravo.
 
All’Aoi-Ya tutto tace. La cosa non dovrebbe meravigliarmi, la notte è calata da un pezzo ormai e sicuramente si sono già ritirati tutti nelle loro stanze.
Ancora mi sembra impossibile che Kaoru se ne sia andata senza che io me ne rendessi conto. E pensare che avevo acconsentito di fermarmi al Dojo solo per proteggerla. Bella protezione, se nemmeno mi ero accorto che era sparita.
M’infilo nel cortile interno dell’edificio come se fosse casa mia, notando una luce accesa dietro il pannello di carta che protegge il salotto comune dalla vista.
Il mio cuore perde un battito.
Se c’è ancora qualcuno sveglio posso risolvere il mistero che mi ha spinto fino a qui senza aspettare il mattino. Mi sento improvvisamente più leggero, per quanto ancora appesantito dai sensi di colpa e dalla paura.
«C’è nessuno?» Chiamo, cercando di non risultare più invadente di quanto non sia già stato.
Un’ombra, al di là del pannello, si muove. Esita un secondo, poi si avvicina al sottile schermo di carta che la ripara dai miei occhi, facendosi più grande mano a mano che si allontana dalla luce. Un fruscio leggero, poi il pannello scivola di lato. Ci metto qualche istante a riconoscere la figura di Aoshi Shinomori, il capo degli Oniwabanshū. Istintivamente tendo i muscoli del braccio, pronto a estrarre la Sakabatō in caso di necessità.
«Che ci fai qui, Battōsai?» Mi domanda, senza tanti giri di parole, restando in piedi davanti all’entrata senza muovere un solo muscolo.
«Sto cercando Kaoru», rispondo, senza perdermi in spiegazioni infinite ed inutili.
«Non è qui», m’informa, laconicamente, prima di voltarsi per rientrare.
«Aspetta!» Esclamo, ostinato.
«Che vuoi? Ti ho detto che qui la tua Kaoru non c’è», ripete, voltando appena il capo verso di me.
«Deve essere qui», dico, mostrandomi più fragile di quanto non dovrei davanti a colui che era stato mio nemico per parecchio tempo.
«E io ti dico che quei lei non c’è. Non me ne importa un bel niente delle vostre scaramucce, qui Kaoru non è mai venuta. Se sei passato apposta hai fatto un viaggio a vuoto», conclude, prima di sparire dietro il pannello di carta, lasciandomi in piedi in mezzo al cortile come un povero idiota qualunque.
Che diavolo vuol dire che Kaoru non c’è? Come può non essere qui?
Preso dallo sconforto più totale sento il cervello ingolfarsi. Gira a vuoto intorno a quelle poche parole che io e Aoshi ci siamo scambiati, analizzandole da ogni angolazione possibile e immaginabile alla ricerca di un significato nascosto che esprima l’esatto opposto di quello che, in realtà, significano.
La luce si riaccende e da dietro il pannello di carta appare Okina. Aoshi deve averlo informato sulla mia presenza.
«Entra, Kenshin», m’invita, accompagnando la propria voce con un cenno della mano.
Meccanicamente mi avvio verso l’entrata. Tolgo gli zōri, li giro con i talloni verso l’ingresso e li lascio fuori, mentre Okina blatera qualcosa che non ascolto. Sono ancora bloccato al “non è qui” di Aoshi.
«Mi hanno detto che stai cercando Kaoru», inizia il vecchio Oniwabanshū. Al suono di quel nome mi risveglio dalla trance in cui ero piombato e annuisco, spostando lo sguardo su di lui, pregando che sappia dirmi qualcosa che Aoshi ha taciuto. «Mh. Mi dispiace, ma se è a Kyoto non è passata di qua», ribadisce, stringendosi nelle spalle.
«Capisco», sussurro, avviandomi di nuovo verso la porta.
«Ma dove stai andando?» Mi richiama Okina.
«A cercare Kaoru. Torno a Tokyo», annuncio, in un tono piatto e risoluto.
«Ma non puoi, non ci sono più navi! Dormi qui, ripartirai domani»
«Non posso. Grazie, a presto». Esco, infilo gli zōri e riparto. A costo di farmela tutta a piedi, devo tornare a Tokyo il prima possibile.






***L'angolo di Miriel_93***
Come al solito ci ho messo una vita, lo so ._. Ormai tutti i miei commenti si aprono con delle scuse, sono un disastro ç_ç
In realtà questo capitolo era quasi pronto da un po', solo che poi tutta una serie di sfortunati eventi mi hanno costretta a finirlo solo oggi (vedi: un festival sulla cultura cinese nella mia zona e la partenza - il giorno dopo - per un'estenuante settimana di vacanza con gli amici). Però ce l'ho fatta, come sempre u.u
E quindi eccolo, il capitolo di Kenshin che parte alla ricerca di Kaoru e...non la trova. Già, perché Kaoru non è scema. Se ha deciso di andarsene per riflettere o per motivi suoi (che vederemo), l'ultimo posto dove si sarebbe andata a nascondere sarebbe stato da Okina, NO? Stupido Kenshin. 
E allora: dove sarà andata Kaoru? Eh, lo vedrete. Per il momento non vi dico proprio nulla, dovrete aspettare il prossimo capitolo (e pregare che non si schianti un meteorite sul mio computer impedendomi di pubblicarlo presto - perché ormai mancano solo i meteoriti ç_ç)
Penso di non avere altro da dire, se non: a presto (si fa per dire?)
Baci baci :3

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Capitolo 18
*** Capitolo diciotto. ***


capitolo diciotto

Kaoru

Forse avevo sbagliato ad andarmene così. Avrei almeno potuto avvisare qualcuno, lasciare un biglietto, qualcosa. Se lo avessi fatto, però, non mi avrebbero lasciata partire. Ne sono più che sicura.
È un dato di fatto. Nel tentativo di proteggerci a vicenda, finiamo sempre per tarparci, in un certo senso, le ali. Ecco perché quella notte, dopo aver “litigato” con Kenshin, avevo raccolto quelle poche cose che potevano servirmi e me n’ero andata senza dire nulla a nessuno. Avevo bisogno di riflettere, di capire che cosa ero disposta a sacrificare, se i miei sentimenti o la mia salute mentale.
Ad ogni modo, che io abbia sbagliato o meno, sono a Chiba da quasi dieci giorni ormai e il fatto che nessuno (in special modo Kenshin) sia venuto a riprendermi significa che non hanno idea di dove sia finita. Sempre che non se ne siano lavati le mani. No, ecco, questo è un pensiero stupido.
«Kaoru, tutto bene?» La padrona di casa, nonché vecchia amica di famiglia che mi ha accolto a braccia aperte in questi giorni, dev’essersi accorta della mia aria pensierosa.
«Sì, diciamo di sì», rispondo, non troppo convinta.
«C’è qualcosa di cui vuoi parlare? Sai, per quanto la tua visita mi abbia fatto piacere faccio fatica a credere che tu sia passata di qui per puro caso», aggiunge, sedendosi accanto a me sul tatami.
Mi fisso per un momento le mani, mordicchiandomi un labbro.
«Ecco…a dire il vero…»
«C’entra un ragazzo, non è vero?» Dritta al sodo.
«Circa», farfuglio, sentendo il sangue colorarmi le guance.
«Anzi, ti dirò di più. Si tratta di un ragazzo che ti piace ma che non sai se ricambia, dico bene?» Continua.
«Temo sia più complicato di così», sospiro.
«Accidenti, è peggio di quanto immaginassi. Ti ha per caso presa in giro?»
«No, assolutamente no!» Sbotto, difendendo prontamente Kenshin, per quanto, forse, non se lo meriterebbe. Non mi avrà presa in giro, ma un po’ mi ha illusa. Forse più di un po’.
«Tranquilla, tranquilla, non voglio certo parlar male di lui»
«È una persona un po’ particolare, con un passato un po’ travagliato…credo sia per questo che si comporta così…», bofonchio.
«Mh, capisco», commenta la padrona di casa.
«Quand’era più giovane sua moglie è morta a causa sua e ora non riesce a darsi pace, né a lasciarsela alle spalle fino in fondo», spiego, glissando con nonchalance sui dettagli.
«Ti piace parecchio, non è così?» Mi sento chiedere.
«Sì», ammetto, dopo un istante di esitazione.
«Allora non hai molta scelta», mi comunica, alzandosi. «Dagli tempo. Potrebbe rivelarsi tutto inutile, ma almeno avresti la certezza di aver provato il tutto e per tutto», dice. «Non che questo voglia dire che se andrà male sarà colpa sua. Vorrà semplicemente dire che non era destino», conclude, stringendosi nelle spalle con un sorriso a tenderle le labbra. «Bisogna aver pazienza con gli uomini», sospira, prima di andarsene scuotendo la testa.
Non so se ha ragione oppure no. È vero che Kenshin ha i suoi ottimi motivi per comportarsi come si comporta, ma è anche vero che, proprio perché sono così validi, potrebbe volerci un sacco di tempo prima che decida di lasciarseli alle spalle. Sempre che non abbia già deciso di volerseli tenere ben stretti a sé.
Questo pensiero mi fa scendere un brivido lungo la schiena.
L’unica cosa certa, comunque, è che non potrò mai sapere che cosa ha deciso se resto nascosta qui. Ammesso e non concesso che abbia preso una qualche decisione.
D’improvviso quello che mi sembrava un atto di coraggio, di ribellione, in un certo senso, mi appare come un gesto da codardi, degno di chi non ha abbastanza coraggio per affrontare i problemi.
«Io non sono una codarda», bofonchio tra me e me, alzandomi in piedi. Stringo i pugni fino a farmi male con le unghie, paralizzata per un attimo da quella presa di coscienza.
Mi avvio a grandi passi verso la stanza che i padroni di casa mi hanno gentilmente assegnato, raccogliendo tutto quello che mi ero portata dietro.
«Obasan*», chiamo entrando in cucina.
«Sì, Kaoru?»
«Io volevo ringraziarti. Di tutto, ma proprio tutto…», comincio.
«Affrettati, se vuoi tornare prima di sera. Non è bello viaggiare col buio», mi interrompe l’amica dei miei defunti genitori. Ha già capito tutto quanto.
«Grazie», ripeto, stringendole le mani con un sorriso e gli occhi lucidi. Dopo avermi spronato di nuovo ad avviarmi mi abbraccia e, poco dopo, corro a rotta di collo verso il porto, impaziente di tornare a casa a farmi perdonare o, quanto meno, a cercare di spiegare il mio comportamento. Inutile dire che ho il cuore in gola.
La fortuna sembra essere dalla mia parte, dal momento che riesco, per un soffio, a saltare su una piccola barca diretta proprio a Tokyo. Per quanto sia ancora relativamente presto, essendo passato mezzogiorno solo da un paio d’ore, quella nave era la mia unica speranza di arrivare entro sera. Le altre non sarebbero salpate prima di sera, e la traversata del golfo di Tokyo richiedeva comunque una manciata di ore.
Appoggiata al parapetto di legno smangiato dalla salsedine osservo il mare che si apre davanti a noi, in attesa di scorgere la costa opposta. Pensare a qualcosa da dire non sarebbe una mossa poi tanto sbagliata, ma appena mi ci metto sento il cuore perdere un battito e lo stomaco arricciarsi dolorosamente. Una volta a casa troverò le parole.
 
Il sole è quasi tramontato. La traversata ha richiesto più tempo del previsto a causa di un guasto ad uno dei piccoli motori dell’imbarcazione, che non è stato possibile riparare prima di un paio d’ore. Per scusarsi dell’inconveniente, il capitano aveva offerto ai pochi passeggeri presenti un ottimo banchetto a base di pesce freschissimo e verdure di tutti i tipi, al vapore, alla griglia, marinate e in pastella, il tutto accompagnato da generose quantità di sakè che avevo prontamente evitato. Non potevo certo tornare a casa ubriaca.
Una volta raggiunto il porto ero saltata giù di corsa, ringraziando l’equipaggio e volando letteralmente verso casa.
Ora, però, rimpiango di non aver approfittato del viaggio per studiare un piccolo discorso.
Qui, in piedi davanti alla porta del Dojo in cui sono cresciuta, esito mordicchiandomi le labbra, faticando a trovare il coraggio di spingere il portone di legno per entrare in cortile.
Dall’altra parte sento delle voci stanche, pesanti, spossate.
«Ancora nessuna notizia?» Mugola Yahiko.
«Zero, il vuoto più assoluto. È come se fosse sparita», gli risponde Sanosuke, con un sospiro pesante.
«E Kenshin?»
Il mio cuore si ferma un istante.
Un lungo secondo di silenzio.
«Il solito. È sul retro a fare la bella statuina», sbuffa Sano.
Il retro.
I miei piedi prendono vita, portandomi sull’altro lato del Dojo, dove si apre il piccolo cancello di legno che dà sul cortile interno.
Senza esitare, ma cercando comunque di fare meno rumore possibile, lo spingo, scivolando nel buio rischiarato da un paio di torce.
E poi lo vedo.
Seduto là, sotto il portico, con la Sakabatō appoggiata vicino alle gambe, il viso rivolto vero il cielo con un’espressione tanto seria da far paura.
E poi lui vede me.
 

*Obasan: "zia"


***L'angolo di Miriel_93***
Ma che mi scuso a fare, tanto sono sempre le solite cose che dico ._.
La mia unica giustificazione è che ho ricominciato i corsi all'università (e grazie al cielo è l'ultimo anno). Per di più questo capitolo ha richiesto un sacco di tempo, non sapevo come impostarlo né come concluderlo. Poi, per fortuna, è uscito da solo dalla tastiera :3
Spero che vi sia piaciuto, anche se ha lasciato un po' il tempo che ha trovato. Se non altro Kaoru è tornata, e ora avrà un bel da fare a farsi perdonare da Kenshin per essere letteralmente scappata via (o sarà lui a doversi scusare per averla spinta a tanto? Mah, vedrete).
Detto questo mi dileguo. Alla prossima!
Baci baci :3

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Capitolo 19
*** Capitolo diciannove. ***


capitolo diciannove

Kenshin

Kaoru.
L’avevo cercata per giorni interi e notti infinite senza successo e ora, proprio ora che cominciavo a pensare di averla perduta per sempre senza nemmeno sapere come, proprio ora eccola qui, che oltrepassa il cancello di legno che si affaccia sulla strada. Silenziosa come un sogno.
Smetto di respirare, come se avessi paura che il minimo refolo d’aria potesse dissolvere quel miraggio. Non oso nemmeno parlare, resto seduto immobile a fissarla, l’aria bloccata nei polmoni e gli occhi incollati a lei. E se anche osassi aprire bocca, cosa mai potrei dire?
«Kenshin…», un sussurro lieve, che mi arriva da lontano, inconsistente eppure tanto presente da farmi quasi paura. Quel soffio leggero mi investe come un uragano e prima che possa anche solo rendermene conto mi alzo e percorro a grandi passi la distanza che separa il portico dal cancello.
Quando stringo le braccia intorno al corpo di Kaoru mi rilasso. Espiro, chiudendo gli occhi, contraggo i muscoli delle braccia e trattengo contro di me quel corpo vero, reale, molto più di quanto potessi sperare che fosse. Sento un paio di braccia che, timidamente, mi circondano e, quasi di colpo, l’angoscia sparisce in una nuvola di vapore.
Restiamo così per quella che sembra un’eternità, prima che Kaoru parli di nuovo.
«Kenshin…io…mi dispiace…», bofonchia, con il viso affondato nel rosso del mio gi. La stringo più forte, ma lei si dimena nel mio abbraccio. Perplesso, la libero dalla gabbia in cui l’ho intrappolata e cerco i suoi occhi.
«Mi dispiace, io…avrei dovuto avvisare», si scusa. «Ma ero così…così sottosopra che non…non ce la facevo ad affrontarti», mugola, distogliendo lo sguardo. Istintivamente le afferro il mento, costringendola a incrociare nuovamente i miei occhi.
«Sei qui», noto. «E tanto basta».
Scuote la testa, Kaoru. Scuote la testa e si morde un labbro nel tentativo di non piangere. Cerca di liberarsi dalla mia presa e io la lascio vincere di nuovo.
«No, Kenshin, non basta. Non basta più», mi corregge, prendendo una generosa boccata d’aria, prima di fare un passo indietro. «Sono stata una stupida a scappare così, ma non potevo fare altrimenti. Avevo bisogno di…di starti lontana, di disintossicarmi dalla tua presenza, da tutto quello che significhi per me», mi spiega, facendo vagare gli occhi sullo spazio che mi circonda, evitandomi accuratamente. «Io…io sono solo una stupida ragazzina che dell’amore non sa nulla, che costruisce castelli in aria con troppa facilità e poi scappa a nascondersi per non vederli crollare quando si rende conto che sono costruiti sul nulla. Ho sbagliato ad aggrapparmi così tanto a quello che…a quello che hai detto e che hai fatto. Ho sbagliato, ma se dovessi tornare indietro lo rifarei. Perché, Kenshin, guardiamo in faccia la realtà per un secondo: sono una ragazzina stupida che si è innamorata di te. E lo so che tu non puoi ricambiare, lo comprendo perfettamente, non sono proprio stupida del tutto, ma questo non cambia il sentimento che…»
Troppe parole.
Le afferro il viso e blocco quel fiume di spiegazioni posando le mie labbra sulle sue.
«Basta, Kaoru. Basta. Per favore», le chiedo, a fior di labbra. E lei si ammutolisce, non so se per la mia richiesta o se per il bacio. La guardo a lungo negli occhi, ascoltando il silenzio che galleggia a mezz’aria. «È vero, hai sbagliato», dico, alla fine. «Se non a me, avresti potuto dirlo a Sano, a Yahiko, a Megumi, a chiunque. O lasciare un biglietto. Qualsiasi cosa. Non hai idea di quello che mi hai fatto passare. O che hai fatto passare agli altri. Ti abbiamo cercata ovunque, per giorni interi. È stato egoista, da parte tua», continuo, osservando i suoi occhi farsi più liquidi di quanto vorrei. «Ma me lo sono meritato», aggiungo. «Me lo sono meritato, e forse ne avevo bisogno». Faccio una pausa, lascio che capisca che non la sto accusando.
«Kenshin…»
«Non ho finito», la interrompo, e lei corre a mordersi il labbro inferiore. «Senza saperlo, avevo bisogno di scoprire che cosa significasse perderti, per capire che non è quello che voglio», bisbiglio, accarezzandole le guance con i pollici. «Scusami, se sono stato così stupido da non capirlo prima».
Kaoru mi fissa in silenzio. La fronte è lievemente increspata dalla perplessità, le labbra serrate dalla concentrazione.
«Io non capisco…», soffia. «O forse ho paura di capire male…», aggiunge. La sua fronte si corruga un po’ di più.
«Ti amo, Kaoru», mormoro. I suoi occhi si allargano per lo stupore. «Ci ho messo una vita a capirlo, ad accettarlo. Ma la paura…o meglio, la disperazione che ho provato in questi giorni mi ha aperto gli occhi. Non sapere che fine avevi fatto, se stavi bene o se avevi bisogno di me, non poter fare nulla per rimediare, non potermi nemmeno scusare con te per come mi sono comportato…tutto questo e molto altro mi ha fatto capire che è impensabile anche solo raccogliere le mie cose e lasciarti tornare alla tua vita di tutti i giorni», confesso. «Quella sera…avevo deciso che avrei ripreso a vagabondare. Non aveva senso restare qui a farti soffrire, a consumarti. Ma la mattina dopo tu eri sparita…e io mi sono sentito crollare il mondo sotto i piedi».
«Tu…tu volevi andartene?» Mi chiede, gli occhi sgranati inondati dalla paura di avermi quasi perso. Annuisco, senza aggiungere altro, mentre il suo sguardo comincia ad agitarsi, a cercare di sfuggire, a scivolare da un dettaglio all’altro pur di non sostenere il mio.
«Kaoru, guardarmi», le chiedo. I suoi occhi tornano nei miei, appannati da un velo di lacrime. «Sono ancora qui», le faccio notare. «E non me ne andrò finché non mi manderai via tu». Mi guarda confusa, cercando traccia di ripensamenti, bugie, false speranze. Lascio che frughi nei miei occhi, nei miei pensieri, nelle mie intenzioni. Le lascio tutto il tempo di cui hai bisogno. Poi, quando la vedo sbattere velocemente le palpebre per non rimettersi a piangere, sorrido, stregato da quel suo essere fragile come cristallo. «Sposami, Kaoru». 



***L'angolo di Miriel_93***
Sono imperdonabile. Come sempre ci ho messo un secolo a postare il nuovo capitolo e mi dispiace davvero tantissimo. Purtroppo tra l'università, lo stage per l'università, affari di cuore più ingarbugliati che mai e tante altre magagne, proprio non sono riuscita a trovare né il tempo né l'ispirazione per scrivere. Spero solo che questo capitolo vi piaccia abbastanza da perdonarmi almeno in parte ç_ç
Ad essere del tutto sincera mi convince solo fino a un certo punto, forse è troppo scontato, ma se piace a voi sono contenta.
Per ora mi dileguo, ma torno presto <3
Baci baci!

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Capitolo 20
*** Capitolo venti. ***


capitolo venti

Kaoru

«Sposami, Kaoru».
Sposami? Cosa vuole dire con “sposami”? Non può intendere davvero “sposami”. Insomma, in quale mondo un Kenshin poteva chiedere a una come me una cosa del genere?
Eppure non riesco a trovare altri significati a quella frase. La mia testa non riesce ad afferrare nemmeno mezzo pensiero coerente, come se fosse impantanata nel fango.
«C-cosa intendi dire?» Bofonchio, alla fine, sbattendo le palpebre troppo velocemente.
«Che cosa potrei voler dire?» Mi chiede Kenshin, con aria lievemente accigliata.
«Io…non lo so», borbotto, cominciando a sentirmi una perfetta cretina.
«Intendo proprio quello che ho detto. Sposami, Kaoru», ripete, con un sorriso sulle labbra. Resto in silenzio qualche istante, indecisa se convincermi di stare sognando o meno. «Se con il mio comportamento ti ho messa nella condizione di non voler rischiare più di star male basta dirlo. Davvero. Lo accetterei», aggiunge Kenshin dopo un po’, davanti al mio silenzio impenetrabile.
«No, no, no, ma cosa vai a pensare!» Esclamo frettolosamente, scuotendo la testa con decisione. «È che…non me lo aspettavo…voglio dire, insomma, cioè, io…»
«Vuoi un po’ di tempo per pensarci su?» Mi domanda, con una dolcezza disarmante nella voce.
«No, assolutamente», rispondo, forse troppo velocemente. Ormai non sto più capendo nulla.
«Ho sbagliato io, mi dispiace. Ho corso troppo, hai tutti i motivi del mondo per essere disorientata, non volevo. Ti chiedo scusa», dice Kenshin, alla fine. Sento il panico diffondersi lento ma inesorabile, come la nebbia autunnale che s’infila nei vicoli.
«No, Kenshin, aspetta. Sì», mi affretto a dire.
«Sì che cosa?»
«Sì lo voglio. Cioè, insomma, sì voglio sposarti». Possibile che riesca ad ingarbugliarmi anche in un’occasione del genere?
«Ne sei sicura?» Sul viso di Kenshin leggo un’ombra leggera di dubbio.
«Certo che sì», gli assicuro.
Il sorriso che si allunga sulle labbra di Kenshin vale più di mille parole. Lo vedo solo per un breve istante, perché poi le sue braccia mi stringono di nuovo a lui e io torno ad affondare il viso nel suo gi rosso fuoco, ubriacandomi con il suo profumo.
Io e Kenshin. Sembra impossibile. In quale vita potrebbe mai toccarmi così tanta felicità? Non in questa. O almeno così credevo. A quanto pareva il destino aveva un modo tutto suo per dimostrarci quanto sbagliavamo a farci delle aspettative.
Il tempo, tra le braccia di Kenshin, sembra essersi congelato. Come se, di colpo, nulla avesse più importanza.
«Kaoru!» Una voce stridula, piena di sorpresa e sollievo, condita da una vena di curiosità mi strappa a quell’incantesimo meraviglioso.
Sollevo il viso, Kenshin allenta la presa sul mio corpo e mi ritrovo faccia a faccia con Yahiko che, dopo l’iniziale perdita di controllo, cerca di fare il sostenuto, di tornare a farsi vedere per il ragazzino antipatico e presuntuoso che è. Non credevo che potesse mancarmi anche lui, con il suo comportamento infantile.
«Dove accidenti ti eri cacciata, insomma?!» M’interroga, incrociando le braccia sul petto, piantandomi addosso uno sguardo inquisitore. Pochi istanti dopo, richiamato probabilmente dalle urla, fa la sua comparsa anche Sanosuke, che sgrana gli occhi come se avesse visto un fantasma.
«Ma tu pensa chi ha deciso di farsi rivedere», scherza, sorridendo mentre assesta una poderosa manata sulla nuca di Yahiko. «Direi che le domande possono aspettare ancora un po’, vai a preparare dell’acqua calda per il bagno. Penso che a Kaoru non dispiaccia per niente l’idea», suggerisce, intuendo che, nonostante la mia scomparsa improvvisa, tutto andava bene. Rifilando un’occhiata complice a Kenshin, rimasto in silenzio, Sano se torna da dov’era venuto poco prima, trascinando con sé Yahiko, intento a lamentarsi a gran voce per il trattamento.
«Erano parecchio preoccupati anche quei due», mi confida Kenshin, una volta rimasti nuovamente da soli.
«Mi dispiace. Credo di dovere parecchie spiegazioni anche a loro», borbotto, mortificata.
«Non più di quelle che hai dato a me. In ogni caso meglio entrare. Credo anche di doverti delle scuse, non ho assolutamente pensato che potessi essere stanca», aggiunge, sorridendo appena nella penombra.
«Non preoccuparti», rispondo, mentre una parte di me registra lentamente il fatto che presto sarà mio marito. Sembra ancora così assurdo…!
 
Avevo bisogno di un bagno caldo molto più di quanto pensassi. Rimanere immersa nell’acqua bollente, sola con i miei pensieri, mi stava aiutando parecchio, per quanto avessi avuto la bellezza di dieci interi giorni da dedicare a quello che mi frullava per la testa. Solo che, in quei dieci giorni, non avevo dovuto metabolizzare la notizia che mi sarei sposata.
“Papà, mamma…se solo foste qui, ora…”, penso, raggomitolandomi nella vasca di legno finché l’acqua non mi copre anche le labbra. Soffio fuori l’aria contenuta nei miei polmoni, producendo tante piccole bollicine che increspano la superficie dell’acqua.
Pian piano il calore si disperde e decido di uscire dalla vasca. Mi asciugo velocemente, cercando di combattere il brivido di freddo che l’aria mi sta facendo salire lungo la schiena.
Finito di asciugarmi mi infilo una sottoveste di cotone, faccio passare le braccia nelle ampie maniche di un kimono pulito e mi stringo l’obi in vita. Raccolgo gli abiti da lavare ed esco dalla stanza piena di vapore, dirigendomi verso il retro, dove abbandono il fagotto di vestiti che indossavo prima del bagno. Da lì, poi, mi avvio verso la stanza che dà sul giardinetto interno, dove Yahiko, Sanosuke e Kenshin mi stanno aspettando. Li sento parlare, dall’altra parte del pannello.
«Sarai un cretino, però», dice Sano.
«E pure tonto, aggiungerei», rincara la dose Yahiko.
«Dannazione, dovevi aspettare che scappasse di casa per deciderti a chiederle di sposarti?!»
Quindi Kenshin ha già spiegato a entrambi la situazione. Molto bene.
«Non posso darvi torto. A mia discolpa posso solo dire che credevo di essere più forte. Di essere in grado di fare a meno di lei. La sua fuga, però, mi ha aperto gli occhi», spiega Kenshin. Il mio cuore incespica.
«Sì, sei un idiota», stabilisce Sano, dopo un breve istante di silenzio.
Decido di entrare.
Faccio scorrere il pannello nella guida, entrando con un’aria vagamente imbarazzata.
«Credo di dovervi delle scuse», inizio, prima ancora che possano aprire bocca.
«Più che altro delle spiegazioni», nota Sanosuke, incrociando le braccia sul petto muscoloso.
Sarà una lunga serata, me lo sento.



***L'angolo di Miriel_93***
Ebbene, chi non muore si rivede! 
Mi sembra stupido fare di nuovo un qualsiasi tipo di scuse per il ritardo nell'aggiornare, ma mi sembra una cattiveria, da parte mia, non farvene. Quindi, insomma, scusate di nuovo ^^"
Spero che il capitolo sia una buona moneta di scambio per il vostro perdono XD 
E...beh, non saprei che altro dirvi, ad essere sincera, quindi aspetto commenti (sia positivi che negativi, sia chiaro) e, nel frattempo, vi auguro buon anno (anche se siamo già al 3) e mi auguro che le vostre feste siano andate bene ^^
Ancora auguri e a presto! :*

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Capitolo 21
*** Capitolo ventuno. ***


capitolo ventuno

Kaoru

 Questi ultimi quattro mesi mi sono sembrati tremendamente infiniti. La mia fuga aveva fatto preoccupare tutti, non solo Kenshin, Sanosuke e Yahiko, ma anche Megumi, il dottor Gensai, Ayame e Suzume, le ragazze dell’Akabeko…tutti. Devo ammettere di non essermi fermata nemmeno un istante a pensare a quali sarebbero state le conseguenze di quel mio gesto. L’avevo fatto così, senza riflettere troppo. Ed era strano per chi, come me, si ritrovava a rimuginare all’infinito su qualsiasi cosa, a volte travisando il senso originale di ciò che mi perdevo ad analizzare.
Come avevo potuto ignorare così le persone che tenevano a me? Come avevo fatto ad essere tanto egoista? Non riuscivo ancora a spiegarmelo.
Ad ogni modo, avevo avuto un bel da fare e da dire per farmi perdonare e per cercare di far capire agli altri quello che mi era passato per la testa. Per mia immensa fortuna, però, ero circondata da persone così splendide da preoccuparsi solo che io stessi di nuovo bene. Certo, probabilmente non mi avrebbero mai perdonata fino in fondo per averli fatti preoccupare tanto, ma ero sicura che non me l’avrebbero fatto pesare. E questo mi faceva sentire ancora più in colpa, perché erano sempre stati così premurosi, nei miei confronti, mentre io, alla prima crisi, avevo fatto fagotto ed ero sparita, lasciandoli tutti lì a chiedersi che fine avessi fatto e se stessi bene.
Ma a tutto questo avevo pensato abbastanza negli ultimi mesi.
Sbattendo le palpebre, allontanai quei pensieri, tornando a prestare attenzione a quello che succedeva intorno a me.
Domani mi sposerò. Con Kenshin. E nonostante siano quattro mesi che convivo con questa consapevolezza, fatico ancora a crederci.
Per l’occasione, Megumi, le nipotine del dottor Gensai, Tae, Misao e tutte le altre ragazze degli Oniwabanshū si erano riunite nel Dojo in cui vivevo fin dalla mia nascita, cacciando Kenshin e tutti gli altri uomini del gruppo a casa del dottor Gensai. “Non è conveniente che dormiate sotto lo stesso tetto la notte prima delle nozze”, avevano detto. A me era sembrata una stupidaggine, considerato che, ormai, era quasi un anno che Kenshin viveva con me e Yahiko, ma non c’era stato verso di spiegarlo agli altri. E, così, eravamo stati costretti ad assecondarli.
All’inizio, con Kenshin, non era stato semplice. L’idea che presto sarei stata sua moglie mi metteva in agitazione e in soggezione e a volte facevo persino fatica a rivolgergli la parola senza arrossire. Sì, lo so, sono un caso perso.
Pian piano, però, il nostro rapporto era tornato alla normalità, anche se non è del tutto vero.  Nessuno di noi due era particolarmente espansivo, io perché mi vergognavo a morte, lui perché…beh, perché è lui. Nonostante questo, però, in casa si respirava un’aria diversa. O forse era solo una mia stupida impressione.
Mi era sembrato di vivere un sogno lungo quattro mesi, tra i preparativi e la scelta dei dettagli. Ora che mancava solo una manciata di ore, la bolla in cui ero rimasta comodamente intrappolata sembrava essere scoppiata di colpo. L’agitazione mi impediva persino di bere.
«Santo cielo, Kaoru! Un po’ di animo! Sembra che tu ti stia preparando per un funerale!» Nota Megumi, cingendomi le spalle con un braccio. Il suo fiato sa un po’ di sakè. «Guarda che se ci tieni così poco a sposare Kenshin me lo prendo io», mi stuzzica, assottigliando lo sguardo con aria di sfida.
«Sono semplicemente un po’ agitata, non ho cambiato idea», protesto, arrossendo leggermente, mentre cerco di scuotermi di dosso la tensione reagendo alle provocazioni di Megumi.
«Chissà se sarò anche io agitata come te, quando mi sposerò con Aoshi», bofonchia Misao, la voce impastata dall’alcol.
«Si sposa anche Misao?» Chiedono in coro Ayame e Suzume, tenendo tra le mani una tazza di tè ciascuna, guardandoci con gli occhi luccicanti di curiosità.
«Certo, un giorno sposerò Aoshi!» Risponde loro Misao, con aria determinata, alzandosi in piedi e barcollando leggermente. «Fosse l’ultima cosa che faccio!» Aggiunge, prima di rischiare di perdere l’equilibrio.
Notando che, forse, aveva bevuto davvero troppo, le altre ragazze degli Oniwabanshū decidono di accompagnarla a dormire mentre Tae si offre di accompagnare Ayame e Suzume a casa.
Per fortuna questa serata si è conclusa. Non ne potevo più delle chiacchiere allegre di quelle che posso definire mie amiche. Ho bisogno di restare sola con la mia ansia.
Dopo tutti i saluti del caso, resto sola con Megumi, che vuota l’ultima bottiglia di sakè, prima di schiarirsi la voce.
«Da domani sarai ufficialmente la signora Himura. Spero che tu ti renda conto di che cosa significa questo», dice, dimostrandosi molto meno ubriaca di quanto mi aspettassi. Le rivolgo uno sguardo vagamente confuso. Di cosa sta parlando? «Non guardarmi con quell’aria perplessa. Dovrai prenderti cura di Kenshin in tutto e per tutto e smetterla di comportarti da ragazzina immatura», mi spiega, alzandosi in piedi con la sua solita grazia. «Assicurati che sia felice, o mi vedrò costretta a rubartelo», mi avvisa, con un’occhiata eloquente. «Non sono il tipo di persona che si lascia fermare da facezie come il matrimonio, dovresti saperlo. Se voglio qualcosa lo ottengo. L’unico motivo per cui non mi sono ancora accaparrata Kenshin è perché si vede lontano mille Ri che quel ragazzo ti ama. Ma se dovessi fiutare un calo di interesse nei tuoi confronti, per un motivo o per l’altro, sappi che non perderò tempo. Kenshin è un uomo e ha bisogno di una donna, non di una ragazzina», aggiunge, avvolgendosi nel coprispalle di lana per proteggersi dal freddo della notte. «E cerca di essere felice anche tu, ovviamente. Passo domani mattina ad aiutarti a prepararti. Dormi bene, Kaoru Kamiya», mi saluta, prima di darmi le spalle e avviarsi verso casa con passo sicuro nonostante tutto l’alcol che le avevo visto ingurgitare durante la serata.
Non aveva mai nascosto il suo interesse per Kenshin, eppure le sue parole mi hanno scossa. Avevo sempre creduto che il suo fosse un modo come un altro per spingermi a tirare fuori le unghie e a prendermi Kenshin una volta per tutte…ma a quanto pare mi ero sbagliata.
Poco importa, però. Da domani io e Kenshin saremo marito e moglie. Come farò a dormire con questa consapevolezza?
Riordino velocemente, prima di andare ad infilarmi lo yukata e a stendermi nel futon. Il freddo di dicembre sembra volermi tenere sveglia, come se le mie angosce non fossero abbastanza. Mi giro e mi rigiro nel futon, cercando di mettermi comoda e, allo stesso tempo, di scaldare le coperte. Ma è tutto inutile.
Dopo un tempo indefinito, decido di andare a prendere una boccata d’aria per cercare di calmarmi. Mi avvolgo in uno scialle invernale ed esco dalla mia stanza, andando a sedermi sotto il portico, lo stesso portico su cui avevo trovato Kenshin, quando ero tornata dalla mia fuga a Chiba. Sembra passato così tanto tempo.
Un fruscio attira la mia attenzione, facendomi saltare il cuore in gola. Il cancelletto di legno che dà sul cortile interno del Dojo, dove mi trovo seduta io, si apre lentamente e una figura imbacuccata scivola all’interno del giardino, salvo poi arrestarsi appena percepisce la mia presenza.


***L'angolo di Miriel_93***
Non posso crederci, ma ce l'ho fatta!
Ci ho messo sette lunghissimi mesi, ma alla fine sono riuscita a trovare il tempo di scrivere e aggiornare questa benedetta ff. Tra i corsi all'università, l'ultima sessione d'esami e la stesura della tesi, senza contare il lavoro, sono davvero impazzita nel tentativo di trovare il tempo (e l'ispirazione) per scrivere.
Giusto perché la vita è sempre piena di sorprese, in questi mesi sono cambiate tante cose per me, alcune non in meglio (anche se, col senno di poi, magari rivaluterò certi avvenimenti - o almeno spero), altre, invece, non sarebbero potute andare più splendidamente. Diciamo che, in linea di massima, posso anche evitare di lamentarmi, per quanto le cose che sono andate a rotoli siano particolarmente dolorose. Ma dettagli, non è il caso di perdersi in ciance inutili e di piangersi addosso ^^
Quello che conta è che, finalmente, la mia tesi è a buon punto, il lavoro è in pausa perché, bo, a quanto pare quest'anno i turisti hanno deciso che il residence sul lago era noioso, e che l'ispirazione è tornata a trovarmi. Grazie al cielo.
E quindi, niente, spero che il capitolo valga la lunga attesa e vi prometto solennemente di aggiornare prestissimo, anche perché il nuovo capitolo è già in fase di stesura ^^
Spero di non avervi perse <3
A presto, baci baci!

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Capitolo 22
*** Capitolo ventidue. ***


capitolo ventidue

Kenshin

«Accidenti, non credevo di trovarti qui», bisbiglio, non sapendo se le altre fossero ancora in casa o meno. «Yahiko si è sentito male e…beh, il suo yukata ha fatto una brutta fine così, siccome quelli del dottor Gensai sono troppo grandi e tutti gli altri ne hanno portato solo uno, sono venuto a prendergliene uno pulito», mi giustifico, avvicinandomi a Kaoru con aria colpevole. «Ti prego non dire alle altre che ti ho vista», supplico, temendo di incappare nelle ire di Megumi e di Misao, le più ferventi sostenitrici delle tradizioni.
«Tranquillo, Misao era talmente ubriaca che l’hanno dovuta portare a letto. Tae ha riaccompagnato Ayame e Suzume a casa e Megumi se n’è appena andata», mi rassicura e, nonostante il buio, riesco a vedere il suo sorriso.
«Meno male», noto, sospirando di sollievo, anche se questo significa che Tae potrebbe far scattare l’allarme sulla mia assenza. «Tu che cosa ci fai qui fuori al freddo? Ti beccherai un raffreddore», noto, sedendomi accanto a lei sul legno del portico.
«Non riuscivo a prendere sonno», confessa, abbassando lo sguardo sul terreno gelato del giardino, come se si vergognasse. Mi sfugge un sorriso intenerito.
«Lo immaginavo», commento, prima di restare in silenzio per qualche istante, assaporando il senso di familiarità che la sua presenza mi trasmette. Sto per dirle che, forse, è meglio che mi affretti a recuperare lo yukata per Yahiko, ma Kaoru parla prima che possa farlo.
«So che non sarò mai all’altezza di Tomoe…ma spero di renderti ugualmente felice», mormora, come se avesse paura di parlare ad alta voce. La vedo farsi piccola piccola, come se volesse sparire.
«Kaoru…», inizio, ma lei mi interrompe.
«No, ascoltami, Kenshin. Per favore», chiede, sollevando lo sguardo verso di me. Mi limito a guardarla negli occhi, senza dire nulla, e lei, dopo qualche istante, riprende a parlare. «Non pretendo di sostituirla, non mi permetterei mai. E non voglio nemmeno che tu mi racconti una bugia rassicurante per tenermi buona», mi ammonisce, lanciandomi un’occhiataccia. «Voglio solo dirti che…che ce la metterò tutta, per renderti felice», conclude poi, stringendosi leggermente nelle spalle, prima di abbassare di nuovo lo sguardo. Non è da lei fare un discorso del genere. Sì, è sempre stata una ragazza un po’ insicura, ma non c’è mai stato bisogno che mi dicesse questo tipo di cose. Non ho mai dubitato della purezza dei suoi sentimenti, né l’ho mai considerata incapace di rendermi felice. Anzi. Era proprio perché sapevo che ci sarebbe riuscita che l’avevo evitata tanto a lungo. E, forse, le parole che sono appena uscite dalle sue labbra avrei dovuto pronunciarle io. Sono io quello che ha problemi con la felicità, che non la conosce abbastanza a fondo per poterla donare agli altri.
Resto in silenzio qualche secondo, lasciando che le sue parole si adagino nella mia mente, cogliendone tutte le sfumature e i significati nascosti.
«Non credo dovrai faticare molto. Ho fatto tutta questa fatica ad avvicinarmi a te proprio perché sapevo che eri in grado di rendermi felice come non meritavo di essere», le faccio notare, con un sorriso. «Però, Kaoru, tu e Tomoe non siete nemmeno lontanamente paragonabili», aggiungo, iniziando, forse con il piede sbagliato, un nuovo discorso. La vedo irrigidirsi appena. «Ho amato Tomoe con tutto me stesso, ma il mio rapporto con lei era…era totalmente diverso da quello che ho con te. Io…non so come spiegarmi…», sospiro, alzando gli occhi verso il cielo, incredibilmente limpido nonostante l’inverno. «Nel periodo in cui sei sparita ho riflettuto a lungo e ho capito una cosa importante. Mi sono innamorato di Tomoe per errore. Quello che era partito come una copertura ha finito col diventare reale e anche se questo non intacca la purezza del sentimento che ci univa non posso fare a meno di pensare che, forse, se non mi fossi ritrovato costretto a fingere di essere suo marito non mi sarei mai innamorato di lei. E Tomoe lo stesso. Anzi, forse a maggior ragione. In fin dei conti, io stesso ho assassinato il suo promesso sposo. Il suo amore per me è stato così forte da spingerla a sacrificarsi per salvarmi, ma in quale mondo una donna può innamorarsi dell’assassino del suo futuro marito, se non in un mondo stravolto dalla paura, dall’incertezza e dalla morte come quello in cui vivevamo?» Spiego, tornando a puntare i miei occhi in quelli di Kaoru, che mi guarda con aria incredula. «Ma tu…io mi sono innamorato di te per scelta, per quanto sia stato un percorso infinitamente lungo e tortuoso che ha fatto soffrire entrambi, te soprattutto. E per questo, non smetterò mai di scusarmi», aggiungo. «Mi sono innamorato di te perché…perché sei stata in grado di mostrarmi un lato di me che non credevo esistesse, che fino ad ora avevo reputato un’illusione, nonostante i sei mesi che ho trascorso ad Otsu con Tomoe. Mi hai dimostrato che anche per un peccatore come me può esserci una speranza di redenzione», concludo, mentre vedo Kaoru mordersi il labbro inferiore nel tentativo di trattenere le lacrime. Le sorrido, ma non ho il coraggio di sfiorarla o di dire altro.
«Kenshin…io…», tenta, forse pensando che il mio silenzio equivalesse alla richiesta di una risposta.
«Non c’è bisogno di dire nulla, Kaoru. Sei stata in grado di dimostrarmi i tuoi sentimenti per me ogni singolo giorno, anche quando mi chiudevo in me stesso per impedirti di entrarmi sotto pelle. Hai combattuto per e con me e non posso fare altro che ringraziarti. E prometterti che ce la metterò tutta anche io, per renderti felice», aggiungo. «E ora è meglio che porti lo yukata a Yahiko, prima di farti scoppiare in lacrime. A domani», la saluto, sorridendole.
Mi alzo senza aspettare una risposta e mi avvio verso la stanza di Yahiko per recuperare uno yukata pulito.
Non avrei mai pensato di dirlo, ma sono agitato anche io.
Quando, dopo aver recuperato quello che ero passato a prendere, torno sui miei passi, Kaoru è ancora seduta sotto il portico.
«Seriamente, finirai per ammalarti», le faccio notare, sorridendole con dolcezza, una dolcezza che non credevo sarei mai stato in grado di dimostrare.
La vedo stringersi nelle spalle, abbozzando un sorriso timido.
«Sono agitatissima, anche se rientrassi non riuscirei a prendere sonno», mi risponde, giocherellando con l’orlo dello scialle in cui è avvolta. Tra le righe mi sembra di capire che le mie parole l’hanno messa non poco sottosopra. Forse avrei fatto meglio a tenere per me quei pensieri.
«Ma almeno eviteresti un bel raffreddore», le faccio notare, restando ad osservarla per un lungo istante, accoccolata nella sua agitazione imbarazzata. Sospirando, poi, le tendo una mano. «Forza, ti riaccompagno in camera», propongo.
Kaoru alza lo sguardo su di me, puntandolo prima nei miei occhi e poi sulla mando che le sto porgendo. Esita un istante, poi allunga a sua volta la mano, posandola sul palmo della mia e serrando delicatamente le dita. Si alza senza fare troppa leva su di me, tenendo la testa bassa come se si vergognasse della sua fragilità. Tenendola per mano mi avvio lentamente verso la sua stanza, circondati dal silenzio di questa notte invernale.
Davanti al pannello di carta che cela l’interno della sua camera da letto mi fermo, voltandomi verso di lei con un sorriso sulle labbra.
«Forza, cerca di riposare. Mancano poche ore», le ricordo, anche se, forse, non è la scelta più saggia. Lei, però, si limita ad annuire, tenendo lo sguardo fisso sulle assi di legno levigato del portico.
Lascio andare la sua mano e mi avvicino, stringendola goffamente tra le braccia, accarezzandole i lunghi capelli neri con la mano con cui l’avevo accompagnata fino lì, reggendo lo yukata di Yahiko nell’altra.
«Promettimi che cercherai di dormire», le chiedo, tenendomela stretta addosso. Kaoru annuisce di nuovo, con il viso affondato nel mio gi, cingendomi delicatamente la vita con le braccia esili.
Restiamo così ancora un istante, poi sciolgo il nostro abbraccio, guardandola per un momento negli occhi, prima di posarle un bacio sulla fronte.
«Mi raccomando», insisto, sorridendo. «Buona notte», le auguro, prima di girarle intorno e avviarmi di nuovo verso la casa del dottor Gensai.
«Buona notte», mi risponde, e io sento il suo sguardo seguire la mia schiena mentre mi allontano. Dopo qualche istante, il pannello di carta scivola sulla guida di legno e la sensazione di avere i suoi occhi puntati sulla schiena svanisce, mentre lei entra nella sua stanza e io proseguo verso il cancelletto di legno che mi conduce fuori dal giardino del Dojo.


***L'angolo di Miriel_93***
Ciao a tutte! 
Ho rischiato di non riuscire a pubblicare il capitolo nuovo perché il computer aveva deciso di non collegarsi più al WiFi e di dirmi che l'indirizzo IP non era valido, ma l'ho convinto a collaborare (mah, questa tecnologia @_@).
Cos'è che volevo dirvi? 
Ah, sì!
Lo so che questo matrimonio ve lo sto facendo sudare un pochino, ma ci siamo quasi ^^ Mi sto anche documentando per benino per non scrivere castronate storico-culturali, quindi portate pazienza ^^
Nel frattempo spero che questo capitolo vi sia piaciuto, anche se non è particolarmente "vivo". 
Detto questo, filo a preparare il pranzo, fare due pulizie in casa e poi a lavoro ^^
Ciaaaaao <3

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Capitolo 23
*** Capitolo ventitré. ***


capitolo ventitré

Kaoru

Il tempo si è fermato.
Si è congelato qui, a metà strada tra il Dojo in cui sono nata e cresciuta, la casa del dottor Gensai e il tempio verso cui sono diretta.
La frenetica agitazione che mi ha accompagnata fino a qui si è dissolta come farà, in primavera, il sottile strato di neve che imbianca i tetti delle case. La paura di essere in ritardo, di incappare in un imprevisto, di inciampare, di sporcarmi il kimono riccamente decorato che, una volta al tempio, dovrò sostituire con lo shiromuku1, di rovinarmi il trucco che Megumi mi ha applicato con una cura quasi minacciosa, di sbagliare qualcosa durante la cerimonia…neve sciolta.
Si è dissolto tutto nel momento in cui ho riconosciuto la figura avvolta dal tradizionale haori hakama2 nero che avanza nella mia direzione.
Il mio cuore ha perso il suo battito regolare.
Ci fermiamo ad aspettare il gruppo di uomini che si avvicina lentamente, troppo lentamente. Sembra che stiano camminando nella gelatina.
E io, ferma qui, non riesco a distogliere lo sguardo da lui. Fa così strano non vedergli addosso quel gi rosso che porta sempre.
Kenshin ricambia il mio sguardo con un’espressione che fatico a decifrare. Sembra trattenere a stento l’ansia.
Quando, finalmente, Kenshin e il resto del gruppo ci raggiungono mi sento avvolgere da una bolla. Il vociare della gente intorno a noi sfuma e io resto sola con Kenshin, isolata dal resto del mondo.
Una piccola folla di curiosi ci segue mentre riprendiamo a camminare verso il tempio, augurandoci ogni felicità. Ma a me basta questa, di felicità.
Arrivati a destinazione, io e Kenshin iniziamo il rito di purificazione3, seguiti a ruota da tutti gli altri. Poi entriamo.
Veniamo separati. Megumi mi accompagna a cambiarmi d’abito e mi fa indossare lo shiromuku e lo tsunokakushi4.
Sono ufficialmente una sposa.
Megumi mi riporta da Kenshin, che mi aspetta davanti al sacerdote. Il blu dei suoi occhi si allarga leggermente, quando mi vede e io mi sento riavvolgere da quella bolla che cancella tutto quello che non ha strettamente a che fare con noi due.
La cerimonia mi scivola davanti agli occhi come una rappresentazione teatrale che seguo senza troppa attenzione. Sento la voce del sacerdote provenire da molto lontano, come se arrivasse dai recessi di un sogno.
Sono ancora immersa nella bolla che isola me e Kenshin dal resto del mondo. E mentre il sacerdote parla, i miei pensieri vanno per la loro strada, facendomi notare quanto l’haori hakama stia bene a Kenshin, quanto risaltino i suoi capelli rossi contro il nero del tessuto e quanto incredibile sia il fatto che ci stiamo sposando sul serio.
Mi gira la testa.
Nella bolla appare una tazza di sakè. Ne bevo un sorso, poi la passo a Kenshin. I miei occhi incontrano i suoi e ci restano incollati mentre beve anche lui. Poi la tazza sparisce.
Qualche tempo più tardi, appare una seconda tazza di sakè. Stessa scena: bevo, la passo a Kenshin, i nostri occhi si legano. La tazza sparisce.
Terza tazza di sakè. Bevo, la passo a Kenshin e i nostri occhi si fondono nuovamente. Poi la tazza sparisce.
Qualcosa cambia. L’atmosfera si fa quasi elettrica. È il momento dello scambio delle promesse. Bolla o non bolla, nel tempio regna il silenzio, mentre aspetto che Kenshin pronunci le sue. Quando si volta verso di me, accennando un sorriso, mi rendo conto che sto trattenendo il fiato.
«Ho condotto una vita tutt’altro che esemplare, ho sfiorato la morte mille e più volte, prima di conoscerti», inizia, prendendomi le mani. Come premessa non è molto incoraggiante, ad essere sinceri. «Nonostante tutto il dolore che ho portato nella vita degli altri, sembra che il Destino non abbia voluto privarmi della possibilità di incontrare chi si trova all’altro capo del filo rosso legato al mio dito5», aggiunge, stringendo leggermente la presa sulle mie mani. «Prometto di avere cura di te», conclude, quasi in un soffio, guardandomi negli occhi con una sincerità e un’intensità che mi mozzano il fiato in gola.
Tocca a me.
Ho la bocca secca.
Non riuscirò a parlare, me lo sento.
Farò una figuraccia.
Rovinerò tutto.
«Sono cresciuta nel Dojo di mio padre, seguendo gli insegnamenti della scuola Kamiya, allenandomi con il bokken6 mentre tutte le altre ragazze della mia età giocavano con le bambole di pezza e si esercitavano nelle arti femminili», riesco a dire, la voce leggermente stridula per l’emozione. «Non avrei mai creduto che grazie a tutto questo avrei incontrato chi si trova all’altro capo del filo rosso legato al mio dito», aggiungo, sentendo il labbro inferiore tremolare pericolosamente. «Prometto di avere cura di te», concludo, prima di serrare il labbro tremante tra i denti, cercando di non mettermi a piangere.
Mi sento chiamare “la signora Himura” e il mondo gira vorticosamente per un lungo istante.
Non posso crederci.
Il mondo accelera di colpo.
D’improvviso, come se mi fossi appena svegliata da un sogno, mi ritrovo catapultata fuori dal tempio, circondata da amici e conoscenti che urlano a me e a Kenshin i loro migliori auguri.
In un batter d’occhio siamo di nuovo nel Dojo, dove veniamo accolti da un banchetto a dir poco regale, pieno di prelibatezze. Magari avessi anche solo un briciolo di appetito. Eppure mangio, assaggio un po’ di tutto, sorrido, rispondo alle frasi di congratulazioni che mi sento rivolgere. Sembra tutto lontano, sfocato.
Tutto. Tranne Kenshin.
Kenshin, nel suo haori hakama nero. Kenshin, con quel suo sorriso più vero che mai. Kenshin, con i suoi capelli rossi come il fuoco. Kenshin, con la mano stretta nella mia.
 
Pian piano il sole scivola verso l’orizzonte, lasciando dietro di sé un’oscurità crescente, costellata di stelle.
Gli invitati al banchetto di nozze se ne vanno lentamente, uno dopo l’altro, chi sbadigliando, chi barcollando.
Sento lo stomaco stringersi in una morsa dolorosa mentre le ragazze dell’Akabeko, Megumi e Misao riordinano sommariamente rifiutando qualsiasi collaborazione da parte mia.
Seduta al fianco di Kenshin gioco nervosamente con un filo sporgente del kimono bianco come la neve che indosso. Mi gira un po’ la testa, ma forse è colpa di tutto l’alcol che ho bevuto. Anche Kenshin ha bevuto parecchio, ma sembra tranquillo e sereno come sempre. Non l’ho mai visto scomporsi. Ha mantenuto tutto il giorno quell’aria composta e pacata che lo contraddistingue. Quasi lo invidio.
«Va tutto bene, Kaoru?» Mi chiede, con un sorriso, notando che lo sto fissando da un po’. Annuisco, arrossendo leggermente.
«Sono solo un po’ stanca. È stata una giornata davvero lunghissima», rispondo, distogliendo lo sguardo da mio marito per riportarlo sulle mie mani. Mio marito. Sembra ancora così incredibile!
«Avete intenzione di star lì a prendere polvere, voi due?» Ci apostrofa Megumi, piantandosi le mani chiuse a pugno sui fianchi e rivolgendoci un’occhiataccia. Ho l’impressione che stia guardando male solo me, a dire il vero.
«Speravamo di potervi dare una mano a riordinare, ma sembrate piuttosto determinate a impedircelo», risponde Kenshin, tranquillo.
«Certo che sì. È la vostra festa, non esiste che vi mettiate a pulire», sottolinea Megumi, con un tono di voce meno aspro.
«D’accordo, d’accordo. In tal caso non ci resta che ringraziarvi», aggiunge Kenshin, sorridendole.
«Non c’è di che. Avrete modo di ricambiare, un giorno», risponde lei. «Adesso, però, sarete stanchi, no? Filate a riposare», suggerisce, prima di spostare lo sguardo su di me. È un’aria di sfida, quella che leggo nei suoi occhi?
«Hai ragione, Kaoru stava giusto dicendo di sentirsi un po’ stanca», commenta Kenshin, alzandosi. «Quand’è così, vi ringraziamo di nuovo», aggiunge, accennando un lieve inchino. Mi alzo anche io, imitandolo, con il cuore che martella violentemente nel petto.
«Buonanotte e ancora congratulazioni», risponde Megumi. Sì, non mi stavo sbagliando. Il suo è proprio uno sguardo di sfida.
«Buonanotte», rispondo, cercando di mostrarmi sicura di me per non darle la soddisfazione di credere di avermi intimorito. In realtà ogni singola cellula del mio corpo trema all’idea di quello che succederà.
Sei proprio una ragazzina stupida, mi rimprovero mentalmente, seguendo Kenshin verso quella che, d’ora in poi, sarà la nostra stanza.
 
 
 
1 Il tradizionale “vestito da sposa” giapponese. Da “Shiro”, “bianco”, e “muku”, “puro”.
2 Il tradizionale “completo da sposo” giapponese.
3 Equivale a quello che facciamo noi quando entriamo in chiesa e ci facciamo il segno della croce con l’acqua santa.
4 Un copricapo piuttosto voluminoso che indossano le spose giapponesi.
5 Vedi: la leggenda del filo rosso (運命の赤い糸 Unmei no akai ito)
6 La spada di legno utilizzata per gli allenamenti. Da “boku”, “legno”, e “ken”, “spada”.


***L'angolo di Miriel_93***
Ebbene, eccoci qua a fatto compiuto!
Ho sudato ventordici (?) camicie per scrivere questo capitolo, spero che il risultato sia apprezzabile ç_ç
Per chi di voi si sta chiedendo perché non c'è la classica scena del bacio a cerimonia conclusa, suggerisco la lettura di un articolo che mi è piaciuto molto (http://www.moroboshi.eu/blog/baciarsi-in-giappone-storia-dei-baci-kiss-day-curiosita-notizie-strane-curiose-shunga-giapponesi-periodo-meiji/) e che parla proprio di come è visto (e veniva visto) baciarsi in Giappone. Anche io sono una fan del "adesso puoi baciare la sposa", ma oltre a sentire una frase del genere molto "cristiana", pare che in Giappone abbiano un'idea diversa XD Pazienza!
Che dire, ho detto tutto (forse, non lo so, ultimamente non so più nemmeno io che cosa dico/scrivo, il commento critico della tesi mi sta facendo impazzire e sta prosciugando quel povero mezzo neurone che mi è rimasto) quindi non mi resta che andare a occuparmi delle altre mille cose che devo fare e salutarvi ^^
Alla prossima! :3

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Capitolo 24
*** Capitolo ventiquattro - parte prima. ***


capitolo ventiquattro

-parte prima-

Kaoru

Il suono secco del panello di legno che si chiude dietro di me mi rimbomba dentro come un colpo di gong.
Sento il cuore che mi galoppa nel petto come un cavallo imbizzarrito.
E il silenzio di Kenshin non aiuta per niente. Anzi, contribuisce solo ad agitarmi.
Insomma, Kaoru, sei una donna sposata adesso. Piantala di comportarti come una ragazzina, mi dico. Ma non è così semplice come vorrei che fosse.
Se solo potessi entrare nella testa di Kenshin e capire che cosa sta pensando…!
Prendo un respiro profondo e mi volto verso di lui, trovandolo ancora in piedi davanti allo shoji1. Sembra incerto sul da farsi quasi quanto me. Eppure, dal racconto di quei sei mesi a Otsu con Tomoe mi era sembrato di capire che…beh…insomma, che avesse già…già. Lui non è un ragazzino spaventato e alle prime armi, mentre io…io sì.
Comincio a sentirmi terribilmente inadatta alla situazione, a lui. Mi tremano le mani. Vorrei distogliere lo sguardo dalla sua schiena, ancora avvolta dall’haori hakama, ma non ci riesco, così come non riesco a togliermi dalla testa il fatto che io non sia la sua prima donna.
Ma com’è possibile che io riesca a fossilizzarmi su certi pensieri? Perché non posso essere semplicemente felice di essere sua moglie, ora? Kenshin non è il tipo di persona che giudica la gente, dovrei saperlo quasi meglio di chiunque altro. Eppure mi risulta così difficile sentirmi alla sua altezza.
Lo vedo girarsi lentamente verso di me, sorridendomi con un’aria che mi pare quasi imbarazzata.
Sono così agitata da avere la nausea.
«Ti senti bene, Kaoru?» Mi domanda, mentre il suo sorriso lascia spazio a un’espressione leggermente preoccupata.
«Ah, sì, io, sì, sto bene, va tutto bene», mi affretto a rispondere, sentendo le guance farsi più calde e il cuore battermi disordinatamente nel petto.
«Sei pallida», nota Kenshin. Come faccio a dirgli che sto morendo di paura all’idea di quello che accadrà?
«Sto bene, davvero», insisto, cercando di apparire convincente.
«È stata una giornata stancante. Vuoi fare un bagno, prima di dormire?» Propone lui, dopo qualche istante di silenzio.
Un bagno? Sì, mi sembra un’idea fantastica. Magari nel frattempo Kenshin si addormenterà e io…sono veramente una ragazzina stupida, aveva ragione Megumi. Ho desiderato così intensamente che Kenshin ricambiasse i miei sentimenti, e ora? Ora cerco di scappare.
«Perché no», rispondo, stringendomi leggermente nelle spalle, vergognandomi come una ladra.
«Vado a preparare l’acqua, allora», annuncia Kenshin. È una mia impressione o è sollevato all’idea di lasciarsi momentaneamente alle spalle la mia goffaggine? Se così fosse, di certo non potrei biasimarlo.
Annuisco alle sue parole, mentre lui si volta di nuovo verso lo shoji, uscendo. Mi ritrovo a tirare un sospiro di sollievo.
Se resto con le mani in mano, però, è peggio, così mi adopero per preparare la nostra stanza per la notte.
Mi tolgo lo shiromuku e indosso un più comodo yukata, prima di recuperare i futon e stenderli sui tatami, uno di fianco all’altro. La consapevolezza che dormirò fianco a fianco con Kenshin mi fa stringere quasi dolorosamente lo stomaco.
Mentre cerco di riconquistare una certa calma, Kenshin torna, sorridendo di nuovo con aria un po’ imbarazzata.
«Vieni, l’acqua è pronta», mi annuncia. Lo seguo senza dire nulla, mentre una vocina lontana, nella mia testa, si chiede che bisogno c’è di accompagnarmi. Vivo nel Dojo da sempre, conosco la strada.
Di colpo tutto mi appare chiaro e mi sento bruciare di nuovo il viso. Stavolta, però, insieme all’inevitabile vergogna sento una sensazione nuova, una specie di gratitudine. Posso sbagliarmi, ma ho come la sensazione che anche Kenshin sia un po’ spaventato all’idea di quello che, prima o poi, dovrà accadere. L’idea di fare un bagno insieme sembra in qualche modo rappresentare una sorta di “passo intermedio”.
Quel pensiero mi gonfia il cuore di gioia e gratitudine.
Una volta nel bagno, però, cado di nuovo nello sconforto all’idea di farmi vedere nuda da Kenshin che, però, mi lascia entrare da sola nel piccolo locale invaso da un leggero vapore, chiudendo il pannello di legno dietro di me. 
«Dimmi quando posso entrare», lo sento dire, con una leggera esitazione nella voce. Sento di amarlo come non mai. Questo fa di me una persona superficiale? Non lo so, ma il fatto che si dimostri così comprensivo nei miei confronti senza, peraltro, che io abbia detto nulla mi fa sentire incredibilmente fortunata.
Mi tolgo velocemente lo yukata e mi immergo nell’acqua calda, tirandomi le ginocchia al petto.
«Entra pure», dico, forse a voce troppo bassa. Per un istante sospetto che Kenshin non mi abbia sentita, ma poi lo shoji si apre e lui mi rivolge un sorriso leggermente più rilassato. Mi affretto a spostare lo sguardo sulla superficie dell’acqua, imbarazzata, mentre lui si spoglia, raggiungendomi nella vasca di legno.
E ora?, mi chiedo, angosciata.
Alzo lo sguardo e trovo gli occhi di Kenshin che studiano la mia espressione incerta.
«Non devi avere paura, Kaoru», mormora. Sembra davvero imbarazzato. «Non c’è motivo di forzare le cose», mi spiega. Sento di amarlo ad ogni sua parola di più.
«Grazie», bisbiglio, rannicchiandomi un po’ di più in modo del tutto istintivo.
Ora che so che Kenshin asseconderà la mia timidezza (incredibile che abbia potuto dubitarne) mi sento decisamente più tranquilla, tanto da farmi venire in mente un’idea.
«Posso lavarti la schiena?» Domando, prima che il coraggio mi venga meno, arrossendo lievemente. Perfino Kenshin sembra sorpreso dalla mia richiesta.
«Certo», risponde, ruotando su se stesso mentre io prendo la pezza pulita appesa al bordo della vasca. Mi avvicino e, spostando la coda di capelli rossi di lato, comincio a passare la pezza sulla pelle di Kenshin, rilassandomi progressivamente.
«Grazie per la comprensione. Dico davvero», mi sfugge, a un certo punto.
«Non c’è bisogno di ringraziare», risponde Kenshin.
«Sì, invece. Mi rendo conto di essere una ragazzina inesperta, ingenua e perfino infantile…ma sono felice che tu abbia accettato anche questi lati di me», spiego, sorridendo tra me e me.
«Non l’ho fatto perché ti considero una ragazzina inesperta, ingenua o infantile», precisa. «L’ho fatto perché ti rispetto e perché ti amo, Kaoru»
La semplicità con cui gli escono quelle parole mi toglie il fiato.
«Ho detto qualcosa di sbagliato?» Mi chiede, voltandosi verso di me. Non mi ero resa conto di aver smesso di lavargli la schiena.
«No, assolutamente», rispondo, troppo sorpresa per vergognarmi ancora all’idea di essere nuda davanti a lui. «È solo che…non me lo aspettavo», confesso, stringendomi leggermente nelle spalle.
Kenshin mi rivolge un sorriso dolce e io mi sento sciogliere. Dopo un breve istante di esitazione allungo il viso verso il suo, sfiorandogli le labbra con le mie. Lo sento ricambiare il mio bacio quasi timidamente. Dopo qualche momento, però, mi prende il viso tra le mani, attirandomi verso di lui.
Sento il cuore martellarmi nelle orecchie e le guance bruciarmi come se andassero a fuoco per davvero, ma ignoro quelle sensazioni e mi abbandono a quel contatto. Poso delicatamente una mano sul petto di Kenshin, seguendo la linea dei pettorali con la punta delle dita. È tutto così strano.
Per tutta risposta, Kenshin libera il mio viso dalla sua presa, spostando una mano sul mio fianco, esitando leggermente, come se avesse paura della mia reazione. Devo ammettere, però, che nonostante l’imbarazzo, quel contatto non mi dispiace. Anzi, sento la pelle formicolare piacevolmente, come se non avessi aspettato altro.
L’acqua nella vasca si agita mentre circondo il collo di Kenshin con le braccia, avvicinandomi a lui.
Mio marito. È ancora così incredibile.
Dopo un po’, le labbra di Kenshin si allontanano dalle mie e io, aprendo gli occhi, mi ritrovo catapultata nel blu del mare, un blu così profondo, così vivo, da lasciarmi senza fiato. Rimango immersa in quello sguardo liquido ancora qualche istante, prima che Kenshin mi rivolga un sorriso velato d’imbarazzo.
«L’acqua si sta raffreddando», dice, e io devo ammettere di non averci fatto caso fino a quel momento.
Mi allontano a malincuore dalla sua pelle, annuendo.
«Già…», rispondo, senza sapere che altro aggiungere. Sposto lo sguardo verso la finestrella situata sopra la vasca e vedo la luna fare timidamente capolino da dietro una nuvola.
«Ci conviene uscire, prima di ammalarci», nota Kenshin, alzandosi e uscendo dalla vasca, avvolgendosi in un telo di cotone per asciugarsi. Sembra impacciato quasi quanto me. Mentre mi dà le spalle ne approfitto ed esco a mia volta, rabbrividendo. Mi affretto a stringermi in un altro telo, mentre Kenshin scivola in uno yukata pulito. Una volta asciutta lo imito, piegando il telo umido e appoggiandolo su uno sgabello di legno.
Seguo Kenshin fino alla nostra stanza e ci infiliamo, in silenzio, nei futon.
Timidamente mi avvicino a lui, percependo il calore che il suo corpo emana.
Nonostante la rigidità iniziale, pian piano il sonno ha la meglio su di me e mi trascina in un tranquillo oblio senza sogni.

1 Pannello scorrevole (chiamato anche fusuma)

***L'angolo di Miriel_93***
Che fa-ti-ca!
Scusate (di nuovo) il ritardo, ma non solo questo è in assoluto il capitolo più difficile che io abbia mai scritto (ecco perché ho preferito dividerlo in due parti - la prossima a brevissimo!) non solo perchè stato difficile trovare il tempo per scrivere, visti gli ultimi preparativi per la tesi (il 19 mi laureo, finalmente!), ma anche perché la mia connessione ha avuto la brillante e simpaticissima idea di smettere di funzionare. Va quando vuole lei, dove, come e perché (anche adesso è una specie di miracolo che stia funzionando, infatti non so quando riuscirò a collegarmi di nuovo. Però non mi do per vinta, promesso u.u). Una gioia dietro l'altra, insomma.
Tornando a noi, spero che questo capitolo sia all'altezza delle vostre aspettative. Magari vi spiegherò qualcosa in più sul suo contenuto quando pubblicherò anche la seconda parte, perché ci sono due o tre cose che vorrei specificare ^^
Beh, detto questo vi saluto e aspetto di sapere come vi è sembrato!
Tanti baci e saluti *W*

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Capitolo 25
*** Capitolo ventiquattro - parte seconda. ***


capitolo ventiquattro

-parte seconda-

Kaoru
Che ore sono?
Avverto un suono fastidioso, quasi un lamento, che mi fa arricciare il naso. Mi rendo conto di essere in uno stato di dormiveglia disturbato da un rumore molto vicino. A fatica apro un occhio e mi rendo conto che quel lamento proviene da Kenshin.
Mi giro su un fianco, osservandolo con aria perplessa. Non voglio dire che mi sembra strano che stia sognando, ma l’ho sempre considerato così composto e così stoico che vederlo mugugnare nel sonno come un bambino indifeso mi lascia un po’ incredula.
Sembra davvero un brutto sogno.
«Kenshin…», sussurro, sfiorandogli delicatamente un braccio. Il mio gesto lo fa scattare seduto come una molla. Lo vedo portare istintivamente la mano verso il fianco, in cerca dell’elsa della Sakabatō che, fortunatamente, non c’è. Ritraggo velocemente la mano, rannicchiandomi di lato, presa alla sprovvista e anche un po’ spaventata.
«Mi…mi dispiace», mormora Kenshin, appena si rende conto della situazione, prendendosi il viso tra le mani.
«Va tutto bene», rispondo, sbattendo velocemente le palpebre nel tentativo di riprendermi dalla sorpresa. «Ti stavi lamentando nel sonno e ho immaginato che stessi avendo un incubo», spiegai a mo’ di scusa.
Kenshin sospira con aria rassegnata, quasi sapesse che sarebbe successo.
«Vuoi…parlarne?» Tento, impacciata, recuperando terreno e avvicinandomi a lui.
«Non…non credo sia il caso», risponde, scuotendo leggermente la testa e rivolgendomi un sorriso amaro. Credo di aver intuito.
«Va tutto bene», lo rassicuro, appoggiandogli una mano sulla spalla con fare protettivo, come a volergli ricordare che non sarà mai più da solo. Lui si volta a guardarmi, con un sorriso sulle labbra che quasi mi mozza il fiato.
«Lo so», risponde e io, rincuorata, appoggio la fronte alla sua spalla, sospirando.
Quando sollevo lo sguardo, gli occhi di Kenshin sono lì, pronti ad incontrare i miei. Mi allungo verso il suo viso, fino a posare le mie labbra sulle sue. Sembra quasi che abbiano un sapore diverso.
Non so perché, ma è come se non potessi più allontanarmi da quella bocca dolcemente familiare. A ogni bacio ne segue un altro in una successione che sembra in grado di protendersi all’infinito.
Sento la mano di Kenshin nascondersi tra i miei capelli, attirandomi leggermente verso di lui, come se temesse che potessi porre fine a quel contatto.
Non so nemmeno io quello che sto facendo e, al tempo stesso, ne sono pienamente consapevole.
Circondo il collo di Kenshin con le braccia, mi aggrappo a lui, come a volergli rispondere: “non me ne vado da nessuna parte, resto qui”.
Kenshin mi afferra per i fianchi con delicatezza e decisione e io, istintivamente, mi stringo a lui.
Con la punta delle dita esploro la pelle appena oltre il colletto dello yukata. Sento Kenshin rabbrividire quasi impercettibilmente e questo mi provoca un’inaspettata sensazione di compiacimento. Subito dopo, però, lo sento irrigidirsi.
Sulle prime faccio finta di niente, ma quando Kenshin si allontana dalle mie labbra, con il fiato leggermente corto e uno sguardo vagamente preoccupato, non posso fare a meno di inclinare la testa di lato, cercando di capire.
«Va tutto bene?» Domando, mentre il dubbio di aver fatto qualcosa di sbagliato – ma cosa? – si fa strada nella mia mente.
«Sì…ma è meglio se torniamo a dormire», mi risponde, senza sciogliere il nostro abbraccio. Lo guardo con aria interrogativa, senza capire. Qual è il problema?
«Non capisco…», comincio, finché, da qualche parte nella mia testa, un campanellino tintinna, producendo un suono chiaro e limpido. Che stupida sono. «Oh», mormoro, stupita. Kenshin si schiarisce appena la voce, leggermente a disagio. E io mi sento arrossire.
Eppure, nonostante l’imbarazzo, non voglio allontanarmi da lui e rimettermi a dormire come se nulla fosse.
Mi schiarisco la voce a mia volta, prima di farmi coraggio e parlare.
«Kenshin, se…»
«No», mi interrompe, con un tono dolce ma deciso. «Te l’ho già detto, non c’è bisogno di forzare le cose. Quando sarai pronta…»
«E se io fossi pronta?» Questa volta sono io a interromperlo, con le guance in procinto di prendere fuoco.
Rimaniamo in perfetto silenzio per qualche istante. Posso quasi sentire il mio cuore battere rumorosamente nel petto.
«Non puoi aver cambiato idea nel giro di una manciata di ore…», protesta Kenshin, deciso a rispettare la parola data e a farmi ragionare.
«Lo so…però…», tento, senza sapere nemmeno io che cosa dire. Ha ragione, è assurdo che fino a poche ore fa tremassi anche solo al pensiero di dormire nella sua stessa stanza, mentre ora cerco di convincerlo che sono pronta a fare l’amore con lui. È assurdo…però…non so come spiegarlo, ma sento di esserlo, di essere pronta. Ci sono cose che non possono essere spiegate a parole.
«Non c’è fretta», mi ripete, sfiorandomi una guancia con la punta delle dita. Quel gesto dolce, delicato e premuroso mi scatena dentro una lieve ondata di indignazione. Mi sta trattando come una bambina. Lo so che me la sono cercata, ma ho deciso. Io voglio essere sua moglie, la sua donna. Non una sposina spaventata e infantile.
«Kenshin, dico sul serio», insisto, coprendogli la mano che tiene sulla mia guancia con la mia. Lo guardo negli occhi con aria decisa. Ad essere sincera un po’ di paura ce l’ho, ma so che di lui posso fidarmi ciecamente.
Kenshin mi guarda, studia il mio sguardo, cerca di prendere una decisione. Lo vedo, glielo leggo nel blu dei suoi occhi che è confuso, combattuto, anche un po’ spaventato.
Allungo il viso verso di lui, sfiorandogli delicatamente le labbra con le mie.
Sento che sta per scoppiarmi il cuore.
Kenshin – mio marito – ricambia il mio bacio, ma è titubante.
Mi allontano da lui, increspando le sopracciglia mentre scandaglio le profondità marine dei suoi occhi.
«Sei sicura?» Mi chiede, facendo lo stesso, cercando delle incertezze nel mio sguardo.
Annuisco, stringendo appena la mano che mi tiene ancora posata sulla guancia.
«Sei proprio sicura?» Incalza, fissandomi negli occhi con più insistenza.
«Sì», sussurro decisa, senza evitare quel suo sguardo indagatore.
Stavolta sono le sue labbra a sfiorare le mie. Mi bacia dolcemente, con delicatezza, come se volesse lasciarmi altro tempo per cambiare idea. Ma io, imperterrita, mi aggrappo a lui, cerco di spiegargli che sì, sono davvero sicura.
E, forse, stavolta ci riesco.
Le mani di Kenshin si spostano di nuovo sulla mia vita, mi stringono al suo corpo.
Torno a circondargli il collo con le braccia, con il cuore che martella insistentemente nel bel mezzo del mio petto.
Dopo un tempo indefinito, le mani di Kenshin cominciano ad armeggiare delicatamente con l’obi che chiude il mio yukata, sfilandomelo lentamente.
Mi ritrovo a trattenere il fiato mentre il fruscio lieve prodotto dall’accasciarsi del mio yukata sui tatami increspa l’aria.
Sono di nuovo nuda, e stavolta sotto gli occhi attenti di Kenshin.
Arrossisco lievemente, ma invece di coprirmi imito i suoi gesti, liberandolo dallo yukata. Mi sento un po’ goffa, ma cerco di ignorare quella sensazione.
«Kaoru…», inizia Kenshin, tentando per l’ennesima volta di farmi capire che non sono obbligata.
«Sono sicura, Kenshin. Davvero», ripeto, dolcemente, prendendogli il viso tra le mani.
«Shinta», risponde lui e io mi ritrovo a fissarlo in volto con aria interrogativa. «Kenshin è il nome che mi ha dato il mio maestro, Seijūrō Hiko. Il mio vero nome è Shinta», mi spiega, con un sorriso leggero. «Sosteneva che fosse un nome troppo dolce per un guerriero, così me ne ha dato un altro», aggiunge, mettendo a nudo anche la sua anima.
«Shinta…», dico, assaggiando quel nome, cercando di associarlo al suo viso, alla sua coda di capelli rossi, alla cicatrice che gli solca il viso, a quegli occhi profondi come l’oceano.
Mi ci perdo, in quegli occhi.
Perdo contatto con la realtà, comincio a galleggiare in un mare solcato da onde immobili, attraversato di tanto in tanto da nastri rossi che mi accarezzano il viso.
Un istante sono seduta davanti a Kenshin, davanti a Shinta, e l’istante dopo la mia schiena poggia sul futon.
Kenshin, Shinta, mi sovrasta, guardandomi negli occhi. C’è una luce strana in quelle due perle blu, una scintilla che mi fa accartocciare lo stomaco in maniera quasi dolorosa.
Lo vedo prendere fiato per parlare e comincio a scuotere il capo, sorridendo.
Ti prego, non dire nulla. Non chiedermi di nuovo se sono sicura. Non farlo.
«Sssh», mormoro, prendendogli il viso tra le mani, allungandomi in cerca delle sue labbra, stringendo a me il suo corpo.
La sensazione della sua pelle sulla mia mi fa girare la testa.
Sento il suo corpo insinuarsi nel mio, farsi strada con delicatezza e decisione, ritagliandosi il suo spazio dentro di me.
Nascondo il viso contro la sua spalla, mordendomi il labbro inferiore.
Fa male.
Brucia.
Pare proprio che anche il mio corpo voglia assicurarsi che io sia convinta della mia scelta. Mi mette alla prova, mi chiede di dimostrare la mia determinazione. Ma ci vuole più di questo, per farmi cambiare idea.
«Scusa…», ansima la voce di Kenshin al mio orecchio, dispiaciuta per quell’effetto collaterale tanto naturale. Il mio viso riemerge dall’incavo del suo collo e ondeggia prima verso destra, poi verso sinistra. No, niente scuse.
«Va bene così», gli assicuro, in un soffio, rivendicando quelle labbra tanto premurose.
Pochi istanti di esitazione, il tempo di far accettare al mio corpo quel nuovo stato di cose e Kenshin, o Shinta, quasi avesse recepito il messaggio, comincia a muoversi sopra di me, dimenandosi dolcemente nell’abbraccio in cui l’ho imprigionato.
Il dolore è sparito. Completamente. Se n’è andato e ha lasciato il posto a un piacere sottile, invitante, che serpeggia nel mio essere come la nebbia che s’insinua nei cortili durante le notti autunnali.
Sospiro, sorpresa e appagata, stringendo le gambe intorno alla vita di Kenshin che sospira a sua volta, aumentando il ritmo di quella danza antica e meravigliosa. E più si lascia trasportare da quel movimento, più il piacere s’intensifica, spingendomi a inarcare la schiena verso di lui. Un mugolio soddisfatto mi fa vibrare la gola.
Sono bombardata da mille sensazioni, così tante che la testa mi gira. La pelle di Kenshin sulla mia, il suo respiro contro le mie labbra, i suoi gorgoglii di piacere, il suo corpo imprigionato nel mio, il suo profumo che m’inebria. Ho come l’impressione di poter perdere la ragione da un momento all’altro. Dovrei essere spaventata all’idea di uscire di senno, e invece non riesco a far altro che bearmi di quegli attimi infiniti.
Mi stringo al suo corpo, al corpo di Shinta, di Kenshin, di mio marito, mi stringo a quel corpo che mi sovrasta, che ora più che mai mi appartiene.
«Kaoru…», mugugna Kenshin, o Shinta, non importa chi sia, resta comunque l’uomo che amo.
Rispondo con un mugolio, incapace di articolare una parola qualsiasi.
Le labbra di Kenshin trovano di nuovo le mie, mentre i nostri corpi si fondono, dando vita a un corpo solo, a un’anima sola.
Il piacere che prima aveva la consistenza di una sottile nebbiolina ora inizia a farsi più intenso. Si espande nel mio essere come l’acqua che gonfia il letto del fiume durante la pioggia, minaccia di travolgermi, di sommergermi.
Mentre il respiro mi si blocca, sconvolto da quell’ondata violenta, mi aggrappo al corpo di Kenshin, come se fosse l’unica cosa in grado di salvarmi dalla potenza distruttiva di quel piacere che mi è montato dentro lento e inesorabile fino a esplodere in tutta la sua violenta prepotenza.
Sento Kenshin stringersi a me, trattenendo a sua volta il fiato, affondando nel mio corpo come se non avesse altra scelta, come se fosse l’unico modo per salvarsi.
Con le braccia allacciate intorno alle sue spalle, lo trattengo contro di me, come se stessi consolando un bambino in lacrime. Il respiro di entrambi riprende a strappi, i nostri polmoni protestano e cercano di ottenere l’ossigeno di cui hanno bisogno per mandare avanti tutta la baracca.
Il corpo di Kenshin si fa lievemente più pesante sopra il mio, ma non mi dispiace. Ad occhi chiusi cerco di memorizzare ogni singolo particolare. Il peso del corpo di Kenshin, il suo respiro affaticato, la sua pelle sudata sulla mia, il suo corpo ancora dentro il mio, i suoi capelli che ricadono di lato, solleticandomi la spalla, la sensazione di completezza.
Faticosamente, Kenshin fa leva su un braccio e cerca di liberarmi di parte del suo peso. Punta gli occhi nei miei. Rispondo al suo sguardo con occhi stanchi ma profondamente soddisfatti, appagati. Porto le mani sul suo viso, scosto una ciocca di capelli e gli accarezzo le guance.
«Va tutto bene?» Mi chiede in un soffio, studiando la mia espressione con uno sguardo preoccupato.
Sorridendo, annuisco.
«Benissimo», rispondo.
Kenshin, Shinta, chiunque sia, sospira con aria sollevata, come se avesse temuto il peggio.
Scivolando lentamente di lato, si sistema di fianco a me, fissando il soffitto con aria pensierosa. Osservo il suo profilo, le labbra sottili, il naso regolare, gli occhi puntati verso l’alto, le sopracciglia corrugate, qualche ciocca di capelli rossi sparpagliata sulla fronte.
«Va tutto bene?» Chiedo a mia volta, preoccupata, girandomi su un fianco.
«Benissimo», risponde lui, voltando il viso verso di me per mostrarmi un sorriso così sereno da non sembrare nemmeno suo. Quanto avevo sperato di vederlo sorridere anche con il cuore, non solo con le labbra! Ed eccolo lì, quel sorriso che volevo.
«E allora cos’era quella faccia?» Incalzo, ritrovandomi a recitare la parte della mogliettina paranoica. Ci avevo messo meno del previsto ad adattarmi a quel ruolo.
«Stavo pensando», risponde, riportando lo sguardo verso il soffitto. Con uno schiocco contrariato della lingua lo informo che quello l’avevo notato anche da sola. Sorridendo, davanti alla mia reazione, Kenshin torna a puntare i suoi occhi nei miei. Quanta pazienza aveva, con una come me. «Stavo cercando di decidere se voglio che continui a chiamarmi Kenshin o se preferisco tornare a essere Shinta», mi spiega e, di colpo, la mia paranoia svanisce, impalpabile come il fumo che si alza da un bastoncino d’incenso.
«È una decisione che spetta a te, questa. Io sarò sempre e comunque tua moglie», gli rispondo, posandogli una mano sul petto nudo. Sento che il cuore rischia di esplodermi per la felicità.
«Credo che questa vita sia più adatta a Shinta che a Kenshin», aggiunge, dopo un po’.
«Allora sarò la moglie di Shinta», rispondo io, sorridendo di nuovo. 



***L'angolo di Miriel_93***
E rieccomi qua!
Vi chiedo scusa per l'ennesima volta, ma il 19 mi sono finalmente laureata (non ci credo ancora, ve lo giuro) e quindi sono stati giorni luuuunghi, lunghiiiiiissimi, infiniti (parenti e mica parenti, feste e mica feste, amici e mica amici, un delirio, come potrete immaginare =.=), per non parlare poi dei problemi di connessione (ancora). Alla fine della storia, insomma, sono riuscita a trovare il tempo di finire questa seconda parte del capitolo solo tra ieri e oggi. 'Na fatica.
Ovviamente mi sono anche dimenticata quello che volevo precisare a proposito =.=
Mi verrà in mente? Mah, lo spero.
In ogni caso spero che vi sia piaciuto anche questo capitolo ^^
Come avrei inteso, ormai siamo agli sgoccioli. Non vorrei che fosse una doccia fredda, ma penso proprio che il prossimo capitolo sarà l'ultimo. Non ci credo, finalmente ce l'ho fatta a scrivere questa ff ç_ç Mi viene da piangere.
Ma rimandiamo le lacrime al prossimo appuntamento, che con i miei tempi biblici rischiamo di allagare tutto, altrimenti =w=" 
Detto queeeeesto, alla prossima!
Tanti baci dalla Dott.ssa Miriel *W* (Fa troppo figo!)
Baci baci uwu
 

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Capitolo 26
*** Epilogo. ***


epilogo

Shinta

Mi sento di dire che ho finalmente imparato una cosa.
Una cosa molto importante che, per quanto scontata, si tende sempre a dimenticare.
Guardare avanti. Si deve sempre guardare avanti.
Per undici anni avevo vissuto nel passato, aggrappandomi ai tutti quegli sbagli che avevo fatto, seppur in buona fede, e che mi pesavano sulle spalle, schiacciandomi con il loro peso immenso. Avevo deciso che quello era l’unico modo di espiare le mie colpe. Come se bloccare la mia vita a quel modo potesse davvero redimermi. Come se cessare di vivere avesse potuto restituire tutte le vite che avevo ingiustamente strappato ai legittimi proprietari per mezzo della mia spada.
Se solo fosse davvero bastato così poco.
Ero intenzionato con tutto il mio misero essere a saldare il mio debito, a pagare per le mie colpe. Ma qualcuno, molto più potente e puro di me, doveva aver deciso che non era quello il mio destino.
Per questo, forse, ero incappato in Kaoru.
Kaoru, che con la sua tenace dolcezza è riuscita a mostrarmi un’altra verità, a insegnarmi che il passato non va dimenticato, ma nemmeno tenuto così saldamente ancorato a noi. Grazie all’intensità dei suoi sentimenti e alla sua pazienza nell’attendere che uno studente sciocco come me lo comprendesse, è riuscita a farmi capire che gli avvenimenti del nostro passato altro sono che gradini di una scala, assi di un ponte o mattoni di argilla. Elementi essenziali per progredire, per costruire il proprio futuro.
Mai avrei creduto che la punizione che io stesso mi ero inflitto potesse portarmi così lontano. A volte mi veniva il dubbio di aver sbagliato tutto, di aver imboccato la strada sbagliata.
Un cammino di espiazione non poteva condurre a un finale così idilliaco.
La facilità con cui mi ero adattato a questo nuovo stato di cose, tra l’altro, mi aveva lasciato basito. Certo, si poteva dire che sapessi già un paio di cose sul matrimonio, ma tra il me stesso che aveva vissuto con Tomoe e il me stesso che ora vive con Kaoru c’era una differenza abissale. E, comunque, sembra che anche per la mia sposa le cose siano state meno complicate del previsto.
Nonostante l’imbarazzo iniziale, il nostro matrimonio era partito senza intoppi, come se non fosse cambiato nulla. Gli unici ad essersi trovati vagamente in difficoltà erano stati Sanosuke e Yahiko, che proprio non riuscivano ad abituarsi all’idea che io e Kaoru ci fossimo finalmente dichiarati. O meglio, che io fossi riuscito a “darmi una mossa”, come spesso sottolineava Sano.
Pian piano, però, anche loro erano riusciti ad adattarsi a quel nuovo equilibrio e tutto era tornato come prima del nostro matrimonio. Sanosuke continuava a presentarsi al Dojo a qualsiasi ora del giorno e della notte, soprattutto quando si avvicinava l’ora di mangiare, mentre Yahiko passava le sue giornate a brontolare, prendere in giro Kaoru e allenarsi.
Per quanto riguarda me, anche io sono tornato alle mie abitudini. Cucino, pulisco il Dojo, faccio il bucato. Kaoru aveva provato a convincermi a lasciare che fosse lei a occuparsi delle faccende domestiche, come ogni moglie avrebbe fatto, ma quando Yahiko si era messo a protestare, spaventato all’idea di dover mangiare qualsiasi cosa cucinata da lei, si era rassegnata. Non pacificamente, certo, ma alla fine aveva deciso di lasciare che le cose tornassero com’erano prima che ci sposassimo, lasciando a me il ruolo di massaia e tenendo per sé quello di insegnante di Yahiko.
Tra i miei compiti figurava anche l’andare a fare compere, cosa che svolgevo puntualmente ogni mattina, dopo aver preparato la colazione. Ero sempre il primo a svegliarmi (suppongo che certe abitudini siano dure a morire) e questo era un modo come un altro di tenermi impegnato facendo qualcosa di produttivo.
Ed ecco perché, anche oggi, nonostante l’ora di pranzo sia ancora lontana, sono già in cammino per andare a fare la spesa, dopo aver imbandito il piccolo tavolo della sala da pranzo con uova sode, verdure in salamoia, riso bollito e tè bollente.
Mi è sempre piaciuto osservare il mondo di prima mattina. Specialmente in questa stagione, quando i boccioli dei fiori di ciliegio cominciano a decorare i rami degli alberi. La leggera foschia che aleggia a un soffio dal terreno sta iniziando a diradarsi, avvolgendo il panorama come un telo semitrasparente. L’aria è fresca, frizzante, rinvigorente. La ghiaia scricchiola appena sotto i miei zōri1.
Una volta arrivato nella via principale, compro il tofu, del pesce fresco e un po’ di frutta e verdura. Fatti gli acquisti della giornata, mi avvio verso il Dojo carico come un mulo. Nonostante non ci abbia messo poi molto tempo, il mondo è un luogo più sveglio di quando sono uscito. La foschia mattutina ha lasciato il posto a un brillante mantello di goccioline di rugiada, i cortili delle case cominciano a risuonare delle risate dei bambini e dei rimproveri delle madri.
Sorridendo tra me e me, continuo a camminare, accompagnato dai sassolini che protestano sotto il mio peso e dal canto degli uccellini appollaiati da qualche parte, tra i rami degli alberi, ricoperti dalle prime tenere foglioline.
Sono ormai quasi arrivato quando, dal cortile del Dojo, sento provenire un po’ di trambusto.
Perplesso, affretto il passo, impaziente e vagamente preoccupato.
Appena varco la soglia del cortile, mi trovo davanti una scena che cancella immediatamente ogni traccia di inquietudine.
«Dovresti essere a letto a riposarti!»
«Sì, lo sai che non dovresti fare fatica!»
«Ho solo bisogno di fare quattro passi, non posso restare sdraiata o seduta tutto il giorno!»
«Adesso li hai fatti, torna dentro!»
«Sì, torna dentro!»
Vorrei riuscire a trattenere una risata divertita, ma non ce la faccio e quel suono tradisce la mia presenza.
«Ah, grazie al cielo sei qui», esclama Kaoru, con aria palesemente disperata. «Ti prego, fa’ qualcosa», mi implora rinunciando a qualsiasi tentativo di liberarsi dalla presa delle due bambine che cercando in tutti i modi di convincerla a tornare in casa.
«Emi2, Eri3, forza, lasciate stare la mamma», suggerisco, sorridendo con aria incoraggiante in direzione delle due gemelle di tre anni che movimentano le nostre giornate da quando sono venute al mondo un anno dopo il nostro matrimonio.
«Ma la mamma deve riposarsi!» Protesta Eri, decisa a non demordere.
«Sì, ce l’hai detto tu e ce l’ha detto anche zia Megumi!» Rincara la dose Emi.
Guardandole entrambe dritte in quegli occhi blu che avevano ereditato da noi, cerco di trovare un compromesso che soddisfi tutti quanti.
«Ci penso io alla mamma, adesso. Portate queste cose in cucina, d’accordo? E attente a non rovesciare il tofu», dico, distribuendo gli acquisti di quella mattina in modo più o meno equo tra le due.
«Arrivo prima io!» Urla Eri, voltandosi rapidamente verso l’entrata, seguita dai lunghi capelli mogano identici a quelli della sorella, poco più scuri dei miei.
«No, non vale!» Le grida dietro Emi, imitandola.
«Il tofu!» Le ammonisco, seguendole con lo sguardo, scuotendo la testa con aria rassegnata. So già che non arriverà mai in cucina sano e salvo. «Allora, da quando non riesci a tenere a testa a due bambine di tre anni?» Domando a Kaoru, sorridendole con aria divertita.
«Non ti ci mettere anche tu», mi rimprovera, incrociando le braccia sul petto. «Sono testarde come muli, lo sai», brontola, esasperata.
«Non hanno preso da me», mi difendo, stringendomi nelle spalle.
«Ma se sono il tuo riflesso!» Nota Kaoru, con enfasi.
«Appunto, ma il carattere è il tuo», mi limito a replicare, sorridendo con aria innocente. «Piuttosto, come ti senti stamattina?» Chiedo, nel tentativo di archiviare quella discussione, ormai trita e ritrita.
«Stanca di dovermene rimanere tranquilla tutto il giorno», risponde, con un sospiro.
«Immaginavo. Ma Megumi ha detto che è meglio se eviti di affaticarti troppo. Dopo i problemi che hai avuto con Emi ed Eri è meglio non rischiare», le ricordo.
Come dimenticare l’ansia che ci aveva accompagnato continuamente mentre Kaoru era incinta delle nostre due figlie? Le nausee continue che non le permettevano di mangiare abbastanza per mantenersi in forze, i dolori al ventre, quelle macchie che non avrebbero dovuto esserci, la corporatura troppo esile di Kaoru che sorreggeva a stento il peso di due bambini…era stata una tortura infinita per entrambi.
«Erano due», si difende Kaoru, stringendosi nelle spalle. «Ed erano le prime», aggiunge.
«Lo so, ma non è meglio portare pazienza un altro po’ ed essere tutti più tranquilli?» Le domando, cercando di farla ragionare.
Portandosi una mano sul ventre, addolcito dalle forme rotonde di quella nuova gravidanza, Kaoru sospira, con aria rassegnata.
«D’accordo», concede, mettendo un broncio leggero che mi strappa un sorriso.
«Forza, rientriamo. Puoi sempre darmi una mano a pulire e tagliare le verdure», propongo, prendendola per mano. A volte ho l’impressione di averne già tre di figlie.
«Se me lo lasci fare…!» Risponde Kaoru e le sue parole suonano un po’ come un rimprovero. «Però…ecco, volevo chiederti se oggi potevi aiutare Yahiko con gli allenamenti. Non vorrei che si arrugginisse troppo. E poi potrebbe fargli bene un po’ di esercizio con te. Sanosuke è un ottimo sfidante, ma non usa la spada», butta lì poi, stringendosi nelle spalle, mentre ci avviamo verso il portico su cui si apre la sala da pranzo.
«Lo faccio volentieri», le assicuro, prima di sentire un rumore concitato di passi frettolosi venire verso di noi.
«È colpa di Emi!»
«No, è stata Eri, mi ha fatta inciampare!»
«Avete rovesciato il tofu, vero?» Domando, rassegnato, mentre Emi ed Eri si incolpano a vicenda, urlando per sovrastare una la voce agitata dell’altra.
«Sì ma è stata colpa sua!»
«Smettila di dire le bugie!»
«Di chiunque sia la colpa, ormai il tofu si è rovesciato. Vi avevo avvisato di stare attente», le rimprovero, con un tono di voce tranquillo. «Andate a pulire mentre io vado a comprarne dell’altro», ordino, mentre Kaoru, ridacchiando, si siede sul legno del portico.
«Sì!» Esclamano in coro le bambine, tornando da dove sono arrivate, sempre di corsa.
«E tu aspettami qui e comportati bene», aggiungo, rivolto a Kaoru, che cerca di non farsi scoprire mentre ride di gusto. Vedermi cercare di gestire quei due uragani in miniatura la diverte sempre più di quanto dovrebbe.
«E dove vuoi che vada, sono sorvegliata a vista», protesta, sorridendomi mentre lascia dondolare i piedi giù dal portico, accarezzandosi distrattamente il ventre.
«E meno male», noto, sospirando di sollievo.
A volte stento a riconoscermi. Mi chiedo come facciano gli altri, Kaoru compresa, ad essere sicuri che io sia proprio io, che l’uomo taciturno e perennemente appesantito dal proprio passato si sia veramente trasformato nell’uomo che sono oggi. Ci penso spesso, ma non trovo mai una soluzione. Poi, però, mi rendo conto che se erano riusciti ad accettarmi per l’Hitokiri che ero stato, probabilmente accettare il cambiamento che la presenza di Kaoru nella mia vita aveva comportato non doveva aver rappresentato poi chissà quale difficoltà.
«Ti aspetto seduta qui, Shinta», mi assicura Kaoru.
E io, dopo averle rubato un bacio, mi rimetto in marcia per andare a comprare dell’altro tofu.
Chi l’avrebbe mai detto che un samurai vagabondo come me sarebbe finito a fare la spola per riuscire a far arrivare il tofu in cucina?
 


1 I sandali giapponesi, li abbiamo già incontrati negli scorsi capitoli.
2 Scritto恵美 o 絵美, significa “bellissima benedizione” o “bellissima immagine”.
3 Scritto恵美子 o 笑子 significa “bellissima bambina” o “bambina sorridente”.


***L'angolo di Miriel_93***
Eccoci qui. 
Non avrei mai creduto che potesse arrivare questo momento, e invece...! 
Vi ho fatto penare un sacco tutte le volte, un colpo aggiornavo subito e un colpo facevo passare una vita, ma alla fine siamo arrivati alla fine ç_ç
Giuro che piango ç_ç
Ci tenevo a ringraziare dal profondo del mio cuoricino sia Solandia che Izzie_sadaharu per la grande, grandissima pazienza nell'aspettare i miei aggiornamenti e per le magnifiche recensioni. Mi avete dato la forza di continuare a scrivere anche quando l'ispirazione vacillava, il tempo mancava e le circostanze non erano favorevoli.
È per lettrici come voi che fa piacere scrivere <3
Spero che anche quest'ultimo capitolo vi sia piaciuto, anche se a me ha lasciato un po' l'amaro in bocca, forse perché è l'ultimo, forse perché ho voluto che Kenshin/Shinta "uscisse un po' dal personaggio". Dopo quattro anni di matrimonio e vita felice, ho pensato che fosse giusto mettere in luce qualche cambiamento, per quanto piccolo. Quello di quest'ultimo capitolo è un uomo finalmente in pace con se stesso e col mondo che lo circonda, e spero che questo messaggio sia passato (e da qui anche la decisione di scrivere "Shinta" all'inizio del capitolo, invece di "Kenshin"). 
Un altro appunto lo volevo fare sui nomi delle bambine, Emi ed Eri. Ci ho messo una vita per sceglierli, volevo due nomi con un significato simile, sono due gemelle e sono entrambe le primogenite, quindi non volevo che ci fossero troppe differenze tra loro (non è forse questa la tendenza dei genitori? Quella di evitare faide tra fratelli facendo meno differenze possibili? :'D) e quindi, alla fine, sono arrivata a questa soluzione. Spero che sia di vostro gradimento ^^
Vi ringrazio ancora infinitamente per avermi fatto da spalle durante la stesura di questa ff. 
Chissà, magari più avanti ci scapperà qualche One Shot sulla vita di questa famigliola. D'altra parte, dovrò pur presentarvi il pargoletto in arrivo, no?
Grazie di cuore a tutte <3
A presto,
Alice.

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