La Coniglietta d'Oro

di LaLadyNera
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La Coniglietta d'Oro (parte prima) ***
Capitolo 2: *** La Coniglietta d'Oro (parte seconda) ***



Capitolo 1
*** La Coniglietta d'Oro (parte prima) ***


Disclaimer e informazioni generali:


Contrariamente al titolo, che può apparire buffo e simpatico, questa storia affonda le radici in una delle più “orrorifiche” e antiche leggende della mia terra, la Maremma toscana. 
Leggende di fantasmi e pirati, di principesse e di… gallinelle dalle uova d’oro! 
E proprio da quest’ultima (da non confondere con l’opera di Esopo) ho tratto ispirazione per il mio racconto, cambiando ciò che c’era da cambiare per giocare un po’ con le parole e le coincidenze.
Ammetto che originariamente era stato pensato per essere una oneshot, ma riflettendoci bene ho poi optato per dividerlo in tre parti (spero!) sia per tenere viva la suspance, sia per non rischiare di correre troppo e fare un lavoro approssimativo.  
Sappiate, dunque, che la trama di base non è farina del mio sacco, che i personaggi appartengono a Naoko Takeuchi, e che non ho alcuno scopo di lucro nello scrivere appoggiandomi al mondo di Sailor Moon. 
Però, insomma, qualcosa di mio ce l’ho messo, e quindi spero che vi piaccia. Se vi va lasciatemi una recensione, ne sarei felicissima.
Ci terrei a dedicare questo mio lavoretto alle persone che mi hanno sostenuto sin da quando mi firmavo “Franceschita”, e che so di avere in qualche modo “deluso” con la mia scomparsa dal fandom di Sailor Moon… una cosa che non mi sarei mai aspettata e che, in qualche modo, ho comunque gradito.
Un grazie particolare va alle ragazze che in questi due anni di “crisi dello scrittore” mi hanno contattata per farmi forza e per esprimere il loro gradimento per quel poco che facevo; e un super grazie, infine, al mio ragazzo, che mi sostiene tutti i giorni, anche e soprattutto nei momenti bui.
Ho chiacchierato anche troppo, grazie per la vostra attenzione.
Buona lettura e tanti saluti.


Francesca, aka LaLadyNera.




Legenda:


Città di Nikko: è meta turistica molto amata perché fra le più antiche e ben conservate del Giappone, patrimonio dell'UNESCO. Si trova a circa 140 km a nord rispetto a Tokyo
Città di Edo: è il nome antico della città di Tokyo
Tatami: tradizionale pavimentazione giapponese composta da paglia di riso pressata e disposta in rettangoli ad incastro
Mononofu: è il termine arcaico che veniva utilizzato per indicare i samurai
Miko: sono le sacerdotesse che abitano i templi shintoisti fin dagli inizi
Hadajuban: è una sottospecie di canotta dal tessuto molto sottile e traspirante, usata spesso col kimono
Amaterasu: è l'antica dea, o dio, del sole shintoista. Non si hanno riferimenti precisi riguardo al sesso, ma si riteneva che fosse antenato diretto della famiglia imperiale giapponese
Katana: è la spada giapponese per antonomasia



LA CONIGLIETTA D’ORO




“La paura del pericolo è mille volte più terrificante del pericolo stesso.”
Daniel Defoe.



PARTE PRIMA



Il villaggio di Nikko, a cinque giorni di cammino dalla più vasta città di Edo, era circondato da meravigliosi boschi di latifoglie, da torrenti impetuosi, da cascate scroscianti e da specchi d’acqua placidi.
D’autunno le sue ciglia selvagge si coloravano di sfumature infinite, graduali, minime, che nonostante la loro quasi totale impercettibilità venivano sospirate e festeggiate dai contadini e dai cacciatori, come dai signori e dai soldati.
Non che l’autunno fosse una stagione gradevole, tutt’altro: le ore di sole erano scarse e pallide, le piogge abbondanti, i venti soffiavano da nord e la neve presto e all’improvviso avrebbe addormentato tutto sotto il suo manto candido e gelato.
Ma il rosso, il rosso delle foglie e l’ocra intenso valevano la pena di dormire un po’. 
Tanto ci avrebbe pensato il ciliegio, con i suoi fiori minuti e mielosi, a riportare il sorriso e il torpore sotto a un acero.
L’autunno, e il bosco, meritavano malinconia e occhi assenti.
I rami e le chiome stanche raccoglievano canti, poesie d’amore recitate come se il cuore stesse esplodendo di dolore e nostalgia.
Arrosti e vino. Balli e musica.
Ma c’era un giorno, un solo giorno, l’ultimo del decimo mese dell’anno, in cui era preferibile tenersi alla larga dal bosco e astenersi dalla voglia di ridere e saltellare abbracciati fra le radici nodose. 
Per non cadere in tentazione, per non perdersi.
Non che dopo non si tornasse. Si tornava eccome. 
Ma se proprio era inevitabile perdersi, allora sarebbe stato meglio non tornare mai.


Il pannello di carta di riso scorse sul pavimento in tatami senza alcuno sforzo.
-La cena non è ancora pronta, fratello. Ti chiamerò io.
Una donna dalla bellezza marcata, una quasi donna, con un qualcosa di ragazzina, ancora. 
Rei.
Una quasi sacerdotessa, amante dei corvi e del fuoco.
Le ciocche dei suoi capelli lucenti e neri erano perfettamente lisce, abbandonate sulla schiena con misurato ordine.
Teneva gli occhi sulle ciotole e sui coltelli, li faceva viaggiare fra uno e l’altro con velocità e attenzione.
-Vado a caccia.
Iridi violacee incontrarono iridi blu.
Scurissimo. Mare in tempesta.
-Non stasera Mamoru, e lo sai.
La voce era dura, molto diversa da quella che aveva usato in precedenza. Aveva cura di usarlo solo con lui, il suo tono dolce. Ma anche quello severo le apparteneva.
-Non iniziare. Io vado.
Gli si piazzò davanti, nascondendogli la porta con il corpo e le braccia aperte.
-Nostro padre… vuoi finire come lui? Vuoi far finire me come nostra madre?
Si riteneva un uomo di poche parole e di pochi debiti, non incline all’ubbidienza e alle intromissioni. 
-Nessuno ti ha chiesto di rimanere. Non ho bisogno di essere badato come un bambino. 
Rei abbassò le braccia per incrociarle al petto, sotto al seno nascosto da una lunga tunica bianca, la metà inferiore cremisi.
-Ti credi grande e grosso, ma al mondo ci sono cose superiori a te. Il fatto che tu sappia maneggiare una katana non ti salverà.
Era un mononofu con la passione per i lupi e per i cervi: i primi li ammirava, i secondi li uccideva.
Non ne aveva mai assaggiato un pezzo, li donava a chi piaceva fare festa sotto gli alberi, in autunno. 
Non sapeva perché, ma in primavera, sotto ai ciliegi, nessuno voleva mai mangiarli.
-La superstizione appartiene agli sciocchi, sorella… e io non sono uno sciocco.
Lei sbuffo. –No, hai ragione: sei qualcosa di più, di uno sciocco. Sei irrispettoso e arrogante, e queste sono colpe. Essere privi di ragione è una disgrazia.-
Lui era alto e proporzionato, con le spalle larghe e i muscoli sviluppati cosicché fossero un dono, non uno svantaggio. I capelli corvini, cortissimi ai lati della testa, più lunghi e folti al centro e sulla fronte.
I lineamenti decisi e fermi.
Del lupo pareva avere l’essenza.
Lei gli somigliava, ma più per una questione d’imitazione, che di natura.
-Non dovresti mancarmi di rispetto in questo modo. Sono il maggiore, e il capo di questa casa. Non dovrei nemmeno farti parlare. E ora, fammi passare.
Provò a cambiare tattica.
-Ti voglio bene, Mamo-chan. Se non vuoi farlo per i nostri genitori, fallo per me. Aspetta domani, non cambia niente per te.
Le braccia le erano ricadute lungo il corpo e la voce era sottile.
-E’ una scommessa, Rei. Non voglio perdere.
La rabbia tornò a infiammarle lo stomaco.
-Motoki… Lo sa che giorno è oggi, vero? C’è solo un animale che avrà la tua attenzione stanotte!
La fece spostare di un poco poggiandole una mano sulla spalla, applicando poca forza. Incontrò resistenza, e allora spinse di più.
Lei non incespicò nemmeno, tornò solamente a guardarlo adirata.
-Lo sa benissimo che giorno è oggi: un giorno come un altro, per me, ma per gli altri no. Sono stato sfidato, non ho fatto altro che accettare. Non ci vedo nulla di male. E poi, non ho paura di una coniglia.
Le lacrime salirono senza controllo, annebbiandole la vista.
-E’ per questo che vai… nessuna caccia…
-Non mi avresti lasciato andare, se ti avessi detto la verità. E questa ne è la prova. Ho dovuto mentirti.
Alzò le spalle, mentre parlava. Era solo una perdita di tempo, per lui.
-Lei… ti troverà… e il dolore troverà di nuovo la via di questa casa…
Mamoru rise.
Aprì la porta, ma si fermò sull’uscio.
-Dormi bene sorellina. Sogni d’oro.
Fu l’ultima stilettata. 
S’inginocchio sul pavimento di paglia pressata, nascondendosi il viso fra le mani mentre lui usciva.


Falce di luna. 
Rossa. 
Bassa all’orizzonte.
Entro Mezzanotte sarebbe scomparsa, ma non era un problema, tanto non l’avrebbe comunque vista, nel fitto del bosco.
Il villaggio dormiva. 
Passò di proposito davanti all’abitazione di Motoki: luci spente. Probabilmente aveva pensato che non l’avrebbe fatto veramente.
Raggiunse con passo svelto i limiti del bosco. Non si guardò nemmeno alle spalle; fischiettando imboccò il primo sentiero che si trovò davanti.
Peccato, non si apprezzano mai sul serio le cose se non l’ultima volta che le si vedono.


Spada e arco sarebbero stati un intoppo per qualsiasi cacciatore inesperto o svogliato - senza considerare il pugnale incastrato nello stivale - nel percorrere una strada immaginaria, e non più un passaggio nella vegetazione scavato e battuto, ripulito ad ogni cambio di stagione.
Ma lui si divertiva. Si divertiva sempre, nello sfidare se stesso e gli altri.
Nei suoi vestiti ben confezionati, comodi e resistenti, era niente risalire il fianco del colle più basso, buio e nero, umido, carico di odori e rumori.
Nella notte non c’era autunno, non c’erano colori, tutto era uguale e nulla era spaventoso.
Anche se era l’ultimo giorno del decimo mese dell’anno. 
Il sudore era abbondante e caldo sulle tempie e lungo il collo, sotto al cotone marrone del suo hadajuban, ma avrebbe scalato anche la montagna più alta di quel bosco, se gli fosse stato richiesto.
Il fulcro della questione, tuttavia, non era quello.
L’altezza di una cima non gli avrebbe mai dato tanto onore quanto quello che avrebbe guadagnato all’alba del giorno che sarebbe nato di lì a poche ore.
Non ci sarebbe stato divertimento più grande, e soddisfazione più appagante, che vincere sulle leggende e le stupide credenze popolari, ridendone fino alle lacrime.
Lei era la sciocca, Rei. Ma le voleva bene.
Forse, se avesse dimostrato al villaggio intero che la storia della coniglia non era altro che una novellina buona solo per spaventare i bambini cattivi, lei avrebbe rinunciato a voler divenire una miko, scegliendo una vita di privazioni, a favore di ciò che aveva sempre sognato, come suo fratello maggiore: che diventasse una moglie, e soprattutto una madre. 
Per farlo divenire zio, per portare un po’ di gioia e luce limpida nella sua esistenza.
Sorrise, il viso a pochi centimetri dal terreno, le dita affondate nell’erba nello sforzo, leggero, di raggiungere il luogo che lo avrebbe reso immortale.


Quando la lama riuscì a strigare il fitto intreccio di arbusti e rovi ricurvi, si ritrovò col fiatone fuori dal tetto naturale che gli alberi avevano creato sulla sua testa fino a quel momento.
I graffi sul viso e le mani bruciavano pur sanguinando appena.
Poggiò i palmi sulle ginocchia, piegandosi un poco in avanti e strizzando gli occhi, respirando avidamente aria che sapeva sorprendentemente di temporale.
Solo dopo aver deglutito più volte, decise di guardarsi attorno.
Il volto imperlato dal sudore si distese in un sorriso.
La cima.
Lo capì soprattutto dalle rovine del tempio di Amaterasu, poche decine di metri distante.
Ce l’aveva fatta, ma fu costretto ad ammettere alle segrete del suo orgoglio di ritrovarsi sorprendentemente stanco.
Non importa, ho tutto il tempo che voglio per riposarmi…
Il cielo sopra di lui tuonò, secco, gettando la sua ombra a percuotere la terra.
Da lontano sentì le prime gocce infrangersi sulle foglie e fra i cespugli, sprigionando sentori che gli ricordavano le estati della sua adolescenza passate sulla costa ovest ad allenarsi come soldato.
Quando anche la polvere ai suoi piedi iniziò a bagnarsi, divenendo di un colore più intenso, volse il viso alle nuvole pesanti, lasciando che l’acqua lavasse via il sangue e la terra. Aprì la bocca e bevve.
La radura respirava insieme a lui.
Lasciando che la pioggia appiccicasse i suoi capelli alla fronte, si avviò a passo lento verso il tempio, abbandonato a se stesso e alle intemperie.
Era molto antico, da secoli disabitato, ma le mura rimaste in piedi creavano un profilo che faceva intuire che quel luogo sacro doveva essere stato maestoso e importante, con torri e finestrelle lunghe e strette, e un portone in quercia e ferro battuto. Come voleva la tradizione, come diceva la leggenda.
Quel che rimaneva della casa del dio Sole non era che un quadrilatero di mura in roccia ancora piuttosto alte, franato un po’ su un lato, e l’accenno di un pinnacolo interrotto nemmeno a metà dalla parte opposta di una torre rimasta invece quasi del tutto intatta.
Durante l’anno non era proibito avventurarsi fino a lì, e alla fine dei conti non lo era nemmeno quella notte; ma se si osava anche solo pensarlo, le donne irrompevano in pianti disperati, in lamenti, e gli uomini ti portavano in un angolo appartato, posandoti mani legnose sulle spalle, per raccontare la fine degli sciocchi che in passato avevano tentato quella follia. 
Semplicemente era contro il buon senso, ed era meglio non parlarne.
Lui c’era già stato, fra quelle pareti diroccate e umide, ricoperte da edera. 
Con suo padre. Da ragazzo. 
Sembravano passate decine di anni.
Togliendosi i capelli dagli occhi entrò nel buio delle rovine.


La fortuna doveva essergli favorevole.
Nell’unico angolo appartato, quello più ad est, aveva trovato un piccolo cumulo di legna asciutta. Sembrava essere lì solo e appositamente per lui.
Lo fece prendere fuoco con facilità, e seduto vicino alle fiamme, si fissò sulla danza ipnotica del rosso e del giallo. Sinuosa e imprevedibile.
Ombre lunghe e tremanti si stagliavano davanti e attorno a lui, ma pareva non vederle.
Era concentrato su niente, eppure la sua espressione tradiva una certa serietà, come se stesse riflettendo su qualcosa di vitale importanza ed estrema gravità.
Si accorse trasalendo che la notte aveva smesso di piangere all’improvviso.
Tutto sembrava illuminato da una luce tenue e pallida, ma comunque splendente. Cercò la luna, ma le nuvole scure, in movimento veloce, suggerivano che già doveva essere morta dietro all’orizzonte.
In più l’aveva visto uno spicchio di luna, solo poche ore prima, ed era rosso… come il sangue…
Confuso tornò alle fiamme.
Il fuoco era diventato bianco come il latte, e lui non aveva mai visto niente di simile.
In piedi, i sassolini scricchiolavano sotto ai tacchi dei suoi stivali e la spada nel suo pugno brillava di quel candore inspiegabile.
-Maledizione…
Il cuore gli batteva forte nel petto, il sangue correva rapido nelle orecchie. I muscoli delle gambe gli facevano male, scossi dall’adrenalina, così come quelli delle braccia.
Non è possibile, sta calmo. E’ solo una leggenda, una stupida leggenda. Ricordati chi sei!
Decise di non tentare nulla. Alla fine il suo scopo era solo quello di sopravvivere.
Si strinse nel mantello, unendo le mani all’impugnatura della sua arma.
La pace di quel luogo era sinistra, inquietante, come se il Male scivolasse sibilando fra i fili d’erba, avvicinandoglisi silenzioso. Avrebbe preferito trovarsi in qualsiasi altro posto del mondo, e non sapeva perché: avevo solo smesso di piovere.
Ti stai suggestionando da solo, Mamoru, non fare il codardo… Non sei più un bambino…
L’idea che potesse essere tutto vero non gli parve più cosi impossibile, ma era una voce irrazionale, la voce del cuore, e quella voce era portatrice di illusioni e menzogne. Ogni uomo d’onore lo sapeva.
Cercò di ingoiare, ma non aveva saliva.
Solo sangue, selvaggio, nelle vene, negli organi impazziti, nel cervello stordito dalla paura.
La luce si faceva più intensa, sempre più bianca, e aveva la sua fonte fuori dalle mura, da dove era venuto, come una fiaccola che si fa strada nell’oscurità, facendosi lentamente ma costantemente più vicina.
La katana gli cadde dalle mani, e non poté non trasalire.
Era lei
La coniglia. Anzi, coniglietta, da quanto pareva tenera e docile e soffice.
D’oro.

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Capitolo 2
*** La Coniglietta d'Oro (parte seconda) ***


gf PARTE SECONDA


La pelliccia brillava nella notte.
Brillava di luce propria, di un oro intenso, sfavillante come il sole che nasce prepotente scalando le spalle della notte. Inesorabile, ma lieve.
Era lì, e lo fissava. Tenera e tranquilla.
Aveva paura di muoversi, di respirare, di spaventarla e farla fuggire.
Incredibile, le leggende… erano tutte vere.
La coniglietta d’oro, era vera.
Si piegò con lentezza misurata, allungando la mano per raccattare la spada che gli era sfuggita per la sorpresa, ma senza distogliere lo sguardo dal misterioso, maestoso animale.
Il terrore che lo aveva avvolto si stava lentamente dissolvendo nell’aria, sentiva crescere dentro di sé la tranquillità propria di chi ha raggiunto una vetta tanto impervia quanto desiderata, trovando finalmente pace per la propria mente e per il proprio corpo.
Le pupille della coniglietta erano grandi, e l’iride azzurro. Questo particolare non era mai stato accennato, nelle storie della sua gente, e si sentì fiero di essere il primo, che di lì a poche ore, avrebbe raccontato questo dettaglio insignificante a tutti quelli che lo avrebbero fermato.
Il pelo lungo e liscio del suo corpo pareva di una morbidezza impossibile, ma aveva davvero il colore dell’oro più prezioso.
Gloria.
Rinfoderò la katana e respirò a pieni polmoni.
-Vuoi portarmi a far vedere la tua tana, coniglietta?
Per tutta risposta quella scattò nella notte, lontano da lui.
Corri!
Aveva sentito quell’ordine dentro di sé, non sapeva bene dove, ma fu impossibile non ubbidire.
La notte era buia e il terreno sconnesso, ma la coniglietta lasciava dietro di sé come una scia di lucciole che si dissolveva al suo passaggio, permettendogli di seguirla senza troppa difficoltà. Incespicò e quasi cadde diverse volte, riuscendo sempre a mantenersi in equilibrio grazie ad una determinazione che mai aveva sentito, nemmeno in battaglia.
Doveva prenderla, viva, e portarla al villaggio. Doveva porre fine a quelle stupide dicerie.
L’animaletto correva a zig- zag, sembrava non sapere nemmeno lui dove andare veramente, ed il fiato iniziava a farsi corto.
Quasi scivolò nel fango per la sorpresa quando la coniglietta si fermò di colpo, girandosi a guardarlo, arricciando un poco il musino e producendo un verso alquanto stridulo, ma buffo.
Se non fosse stato solo uno scherzo della natura, avrebbe giurato che lo stesse sfidando con arroganza.    
-Sei mia.- sussurrò in un soffio, sollevando il braccio e portandoselo dietro alle spalle.
Dannazione, aveva lasciato l’arco alle rovine. Con la spada non sarebbe mai riuscito a ferirla di striscio per potersela caricare sulla schiena e portarla via.
La rabbia gli divampò nel petto come un incendio, e urlando le piombò contro chiedendo ai suoi muscoli di distendersi fino all’impossibile.
Fu un secondo, e il preciso punto dorato in cui la coniglietta si era fermata diventò oscuro, e lo scoprì essere un sasso.
Sbatté la fronte, sentendo la pelle lacerarsi e qualcosa di caldo fuoriuscirne, mentre col corpo atterrò rovinosamente sul terreno disseminato di radici e arbusti. Non fece in tempo ad afferrarne uno che rotolò giù per un pendio irto di massi e chissà che altro, finendo a faccia in giù su dell’erba soffice e fresca.
Gemendo rimase immobile, tagli e abrasioni bruciavano ovunque sul suo corpo, i vestiti oramai laceri e infangati.
Maledetta bestiola, stava tentando di ucciderlo, e lui era così sciocco da lasciarglielo fare!
Forse la leggenda alla fine era solo quello: una dannata coniglia incredibilmente scaltra per la sua razza, che con quel pelo e quegli occhi portava poveri uomini alle morti più assurde e banali.
Che vergogna, Mamoru…
Voltò il viso di lato, facendo aderire un orecchio al terreno umido, e intravide il profilo della discesa che aveva affrontato come un bambino alle prese con le sue prime corse. Era scivolato giù da un piccolo colle.
Sospirando iniziò a chiedersi come avrebbe fatto a tornare al tempio abbandonato, ora che la coniglia era scomparsa nel nulla e la sua strana luce non gli avrebbe più mostrato il cammino.
Le scottature del suo orgoglio bruciavano più delle ferite della sua pelle: quando era partito da casa la sua unica intenzione era quella di passare la notte, quella notte, nel bosco, da solo, e di fare un ritorno trionfale in paese il mattino seguente, come unico e solo sopravvissuto di quella stupida storiella, e non di uccidersi per un animale che probabilmente non sarebbe stato nemmeno buono da mangiare, considerando quanto doveva essere vecchio per aver popolato i racconti di suo padre, di suo nonno e forse anche quelli dei suoi avi più antichi, non ricordava.
Be’, se la coniglia non si fosse più fatta vedere non sarebbe potuto essere che un bene per lui; non era necessario che raccontasse la verità, solo che tornasse. Sulla strada per le rovine avrebbe ucciso un cervo, o un cinghiale, per spiegare le sue pessime condizioni.
Se riuscirai a tornare a casa, Mamo-chan.
Con uno scatto tirò su il viso, guardando ansiosamente nel buio che lo avvolgeva. Aveva sentito una voce, una voce nella sua testa.
Schiacciò i palmi contro l’erba, tentando di alzarsi, ma il taglio al lato della fronte bruciava e pizzicava troppo, costringendolo con un lamento sommesso a rimettersi sdraiato.
Stava impazzendo, stava sul serio perdendo la ragione.
Pensò a sua sorella, probabilmente ancora sveglia, nella sua stanza, o al santuario, a pregare il fuoco, e il suo stomaco non poté non attorcigliarsi un po’ di più di quanto già non fosse… -Rei…
-Mi dispiace forestiero, ma qui non c’è nessuna Rei.
Questa volta era reale, la voce, non era solo nella sua testa. L’aveva sentita con le sue orecchie, portata dal vento, molto vicina a lui.
-Chi c’è?!- gridò sforzandosi di mettersi almeno in ginocchio. –C’è qualcuno?! Fatti vedere!
Tutto era immobile, un muro nero impenetrabile. Strinse i pungi poggiati sulle cosce tese. –Ti ucciderò, quando ti avrò trovato! Chiunque tu sia!
Una risata cristallina, di donna, echeggiò fra gli alberi, rimbalzò sui sassi e gli finì addosso.
No, non era possibile…
-
E perché no, Mamo-chan? Hai desiderato così a lungo di incontrarmi… e ora eccomi, sono qui.
Gli leggeva la mente, non poteva nascondersi da lei.
Qualcosa di caldo, e sottile, e morbido gli passò in mezzo ai capelli, partendo da entrambi i lati della testa, alle sue spalle, e gli coprì gli occhi.
Sarebbe dovuto scappare, il sangue correva selvaggiamente in ogni capillare del suo corpo, il cervello si stava paralizzando dalla paura, di nuovo, ma tutto ciò che riuscì a fare fu sollevare le mani e portarle sopra a cosa, o chi, gli stesse togliendo la vista.
Mani. Tiepide. Asciutte. Piccole e vellutate.
Mani di donna.
A quel pensiero si sentì sprofondare nel terreno malleabile sotto al suo peso.
Qualcosa gli girò attorno senza lasciare la presa delicata sulla sua testa, e gli si portò davanti in silenzio. Poi fu liberato.
Ci mise meno di un battito di ciglia a registrare cosa, o chi, gli stava di fronte, sorridendogli: una giovane donna, una ragazza.
Bellissima, pensò sinceramente di non aver mai visto niente di più bello in vita sua.
A quel pensiero le labbra rosa e carnose di lei si piegarono ancora di più in un sorriso ammaliatore. Aveva denti bianchi, perfetti, e bianca era anche la sua pelle: pareva fatta di perle, le perle più preziose che il mare potesse regalare.
Aveva lunghi capelli biondi, color del grano di giugno, portati in due code mosse perfettamente acconciate, le cui punte sfioravano quasi l’erba.
Gli occhi venivano accarezzati da ciuffetti leggeri.
Gli occhi.
Azzurri, come uno zaffiro trapuntato di stelle d’argento.
Non poté far altro che fissarla, fissare il suo viso dolce, gentile, il suo corpo esile, ma di donna, avvolto in un abito bianco, le spalle scoperte.
-Sei un angelo?- sentì la propria voce chiedere. Voleva sentire la sua, di voce, doveva per forza essere un canto di usignolo.
Lei si morse il labbro inferiore, divertita. –Posso essere quello che preferisci, Mamo-chan.
E le mani di lei raggiunsero le sue, aiutandolo ad alzarsi.
Era così piccola, davanti a lui. Così fragile e indifesa. Innocente.
-Come conosci il mio nome?
Sentì le loro dita intrecciarsi, e i suoi polsi essere rivolti al cielo scuro. Poi la vide chinarsi con eleganza, e posare sulla sua pelle, di entrambe le braccia, un bacio appena accennato.
Qualcosa in lui prese fuoco.
Guardandolo negli occhi gli sorrise ancora. –So molte cose di te, Mamo-chan. Ti da fastidio se ti chiamo così? Preferisci forse il tuo nome completo? Mamoru…
Negò con la testa, schiudendo la bocca senza però sapere cosa dire. Lei rise di nuovo, e tutto intorno sembrò illuminarsi un poco. Gli sembrò che la sua pelle luccicasse, un poco.
-Cosa ci fai qui, Mamoru? Non lo sai che è pericoloso frequentare questi boschi in certe notti?
Mamoru? Perché lo aveva chiamato così? Le aveva detto, o meglio fatto capire, che per lei poteva essere qualcosa di più, di Mamoru
Strinse la presa sulle sue mani e l’attirò velocemente a sé, facendo combaciare i loro corpi. Lei parve sorpresa, piacevolmente sorpresa, ma anche… complice.
-Per te, solo per te, sono Mamo-chan. Tu come ti chiami?
Lei liberò una mano e la portò alla sua testa, sfiorandogli appena la ferita con la punta delle dita. –Come ti sei fatto questo, Mamo… chan?
Lui sorrise per la prima volta. Si sentiva leggero, troppo leggero.
Non ricordava di essersi mai sentito così.
-Sono scivolato.
-E cosa ci fai qui, Mamo-chan?
Mh… che cosa ci faceva lì?! Non era più tanto sicuro di ricordarselo bene.
-Sono venuto a caccia…
Gli fece spostare appena la testa di lato, per studiare meglio il taglio incrostato di sangue. –E cosa hai cacciato, per ridurti in questo stato?
-Una coniglietta. Ma è scappata.
Annuì.
Passò i polpastrelli sulla sua pelle, e subito sentì il dolore scomparire. La toccò lui stesso, e si sorprese nel non sentire niente, assolutamente niente.
-Io mi chiamo Usagi.
Usagi… che nome buffo.
Non voleva dire coniglio nella sua lingua?
-Sembri distrutto, Mamo-chan… vuoi venire nella mia tana, ti farò stare meglio…
Lo sussurrò nella più splendida delle tentazioni, e fu come se una nebbia fitta e densa, perlacea, gli avesse invaso totalmente, finalmente, la mente…
Annuì in silenzio, non sapendo controllare lo stato d’eccitazione che lo stava pervadendo.
Lei si alzò sulla punta dei piedi e gli posò un bacio sulla guancia, caldo, indugiando, e sorridendogli se lo tirò dietro, camminando nella notte.
Strano, pensò Mamoru, gli sembrava che tutto intorno a loro danzasse un pulviscolo dorato, lucente.
Come lucciole.




Alèèè!
Ce l’ho fatta, la seconda parte di questa storia è finalmente uscita dalle mie dita dopo più di un anno!
Più che un’impresa, è stato un parto plurigemellare, ma sono davvero davvero felice di aver finalmente rotto questo maledetto blocco dello scrittore! :D
All’inizio questa fic doveva essere una one-shot, poi avevo deciso di dividerla in due parti, ma oggi pomeriggio, mentre scrivevo, mi sono accorta che solo due capitoli non sarebbero stati sufficienti, avrei corso troppo, quindi ho deciso di stroncare sul più bello il racconto… anche per invogliarvi a leggermi e magari a scrivermi una recensione! ;)
Io m’impegnerò a ritornare a scrivere seriamente (anche con una certa storia revisionata che forse qualcuno di voi starà aspettando), ma voi vi impegnerete nel farmi sapere la vostra opinione? Che sia buona o meno?
Ho bisogno di un po’ di sostegno morale, sennò ricadrò nel baratro… sono fatta così purtroppo!
Grazie in anticipo a chi mi considererà, e già che ci sono vi auguro anche un felice Halloween!
Uuuuuh!

Bacioni,
Francesca



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