The Requiem

di Marlene Ludovikovna
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Spring: Part 1 ***
Capitolo 3: *** Spring: Part 2 ***
Capitolo 4: *** Spring: Part 3 ***
Capitolo 5: *** Spring: Part 4 ***
Capitolo 6: *** Spring: Part 5 ***
Capitolo 7: *** Spring: Part 6 ***
Capitolo 8: *** Spring: Part 7 ***
Capitolo 9: *** Spring: Part 8 ***
Capitolo 10: *** Spring: Part 9 ***
Capitolo 11: *** Spring: Part 10 ***
Capitolo 12: *** Spring: Part 11 ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Prologo

1942 - Berlino, Germania
 

Le foglie d'autunno danzavano liberamente, facendosi trasportare dall'aria fredda e ruvida. 

Ester sentiva il freddo pungerle la pelle bianca e delicata.

Le piacque la sensazione d'infinito che ebbe in quei pochi secondi di freddo, foglie danzanti e grigio; si sentì come se potesse volare via da un momento all'altro finché una sensazione oppressiva non le pervase il petto. 

Non avrebbe potuto volare da nessuna parte. 

Posò lo sguardo verso una SS dall'aspetto regale e austero, come se provenisse da una buona famiglia, che la guardava dall'alto in basso. 

Stava fumando una sigaretta tranquillamente, con l'aria che hanno i soldati ai gradi alti che pensano di poter essere i padroni del mondo. 

Lui però aveva un'aria di superiorità quasi fondata. 

Ester lo capì dal suo sguardo intelligente e anche dal modo in cui si muoveva nell'ambiente in cui lavorava. Poco prima lo aveva visto dare ordini ai soldati in un modo che poco si confaceva ai nazisti che era abituata a vedere di solito. Eroi della patria, certo, ma che urlavano in modo alquanto fastidioso. 

Il sogno di qualsiasi donna era sposare un uomo di quel tipo. Un vero eroe. Sì, certo. 

Ester non poteva dire di non essere d'accordo con loro, ma semplicemente non era interessata alle questioni politiche. 

Nazisti, comunisti, fascisti... Cosa sarebbe cambiato? Era pur sempre uno stupro alla libertà a cui lei non si era mai dichiarata contraria e mai l'avrebbe fatto quindi non avrebbe portato nessuna differenza rilevante nella sua vita. 

Una folata di vento le scompigliò i capelli. 

"Chiuditi la giacca se non vuoi ammalarti," disse la SS. Aveva una voce fredda come l'aria di quella giornata. Con una voce simile avrebbe potuto sembrare aggressivo persino parlando in francese. 

Dapprima Ester non lo ascoltò; si era limitata a sentire il suono della sua voce che nonostante la durezza aveva una sua armonia. 

"Mi ha sentito, mein Schatz?" Domandò per la seconda volta la SS. 

I preziosi occhi nocciola di Ester incrociarono quelli azzurri di lui, poi si abbassarono sulla moltitudine di medaglie che ornava la sua giacca. Quella che spiccava su tutte era la spilla dorata del partito nazista. 

Lui sorrise divertito. "Dai, fa' quello che ti ho detto." 

Ester si chiuse la giacca in un gesto veloce e inconsapevole. 

"Cosa ci fa una ragazzina come te qui da sola?" 

"Stavo prendendo una boccata d'aria fresca."

La voce di lei era limpida e musicale, come il canto di un esile uccellino. 

Dopo una pausa lui disse: "Non ci siamo ancora presentati: Hans Wesemann delle SS." 

"Ester Stradsberg."

Lui le baciò la mano, che poi tenne ferma insistentemente davanti al proprio viso. 

C'era qualcosa in lei... Qualcosa di vivido, languido e, soprattutto, desiderabile. 

Adesso era talmente vicina che poteva sentirne il profumo inebriante. 

Poi nei suoi occhi notò qualcosa; nelle ragazze della Bund Deutscher Madel - la lega delle giovani tedesche - c'era sempre qualcosa di frivolo oltre ogni limite. Lo notò anche in lei, ma vide la sua frivolezza rivolgersi contro qualcosa di conosciuto, ma inconcreto.

"Adesso devo andare," disse lei. "Auf Wiedershen, Herr Wesemann." 

Vide la figura esile di lei allontanarsi, immergendosi nel caos di quella mattinata frenetica nel centro di Berlino. 

E da non troppo lontano, la vide fermarsi davanti ad un grande cancello.

Quello in cui Ester Stradsberg stava per entrare era un imponente palazzo e al centro di esso appeso perché tutti lo potessero vedere c'era un grande manifesto dal fondo scarlatto. 

E al centro, sovrana di tutto, una grande imponente svastica. 
 

Angolo Autrice:


Ebbene sono riuscita ad articolare bene una trama e scrivermela su un foglio stracciato! *^*
Finalmente so che sto scrivendo qualcosa con un filo logico ben preciso e non così come mi viene al momento.
Mi sento molto fiera di me. AHAHAH.
Era da tempo che volevo scrivere una long originale, e soprattutto ambientata nella Seconda Guerra  Mondiale, periodo storico che trovo interessantissimo e che amo studiare.
In questo prologo voi lettori (se esistete) siete venuti a conoscenza di Hunter e Swann *^*, sappiate che a questi due verranno riservate delle belle.
Spero che questo inizio vi sia piaciuto e ne siate rimasti incuriositi... O almeno che non vi abbia fatto schifo, ecco. lol.
Se volete  darmi un parere mi farebbe piacere che me lo comunicaste tramite una recensione, accetto critiche e quant'altro. ^-^
Cercherò di pubblicare presto il prossimo capitolo in cui verrà introdotta Emilie.
Un bacio, tanti orsetti gommosi a voi e alla prossima!

 

Marlene xx

 

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Capitolo 2
*** Spring: Part 1 ***


 

 

 












 






Spring: Part 1













1943 - Parigi, Francia

Emilie  Kaltenbatch prese il treno delle 9:30 diretto a Parigi, da Vienna. 
Lasciare la sua città un po' le dispiaceva, ma d'altra parte era troppo eccitata ed euforica. 

Avrebbe fatto parte della città dei boehmien, degli artisti, dei grandi scrittori. La città di Simenon, con i suoi gialli intricati e scintillanti, la città in cui vissero Francis e Zelda Fitzgerald, la città delle rivoluzioni, in cui c'era stato un primo tentativo di libertà dal potere già nel Settecento. Una città e un paese così meraviglioso non meritava l'occupazione, pensava Emilie. 

Parigi aveva sempre avuto un grande fascino, per lei. Per questo prendere il treno non fu affatto una sofferenza. 

Amava viaggiare, ma spesso quando si trattava di lasciare l'Austria sentiva un po' di insicurezza. 

Questa volta non fu così.

Si sentiva ottimista e piena di buoni auspici e adesso poteva dire di sapere come si sentivano le persone felici e con una vita bella e perfetta. 

La sua non era così, ma in quel momento, mentre aspettava alla stazione, riscaldata dal suo cappotto rosso e con i bagagli tra le mani aveva pensato che un giorno avrebbe potuto esserlo. 

Magari avrebbe avuto tanti uomini e poi avrebbe dipinto e dipinto e dipinto. E sarebbe diventata famosa; avrebbe avuto una vita libera, piena di sfarzo, di gioie di dolori e tutte queste emozioni le avrebbe messe nei suoi quadri. Sarebbe stata la pittrice donna del regime! Tra cent'anni l'avrebbero ricordata e avrebbe conosciuto Hitler e.... Si sarebbe sentita terribilmente sbagliata in mezzo a tutto quell'oro e a tutte quelle svastiche. 

E poi sapeva che erano tutti sogni privi di alcun senso; i suoi genitori non l'avevano mai appoggiata nel suo talento artistico e c'erano stati momenti, durante l'adolescenza in cui si era sentita profondamente sola.

... Però adesso le cose per lei erano cambiate, per questo stava prendendo quel treno. 

"Mi scusi, saprebbe dirmi dov'è il binario quattro?" Chiese Emilie ad un ufficiale della Gestapo. 

Lui le indicò la strada e lei ringraziò con un sorriso tirato, ma pur sempre luminoso come potevano essere solo i suoi sorrisi. 

Aveva sempre avuto un'antipatia incondizionata nei confronti della Gestapo, eppure non avrebbe dovuto. Era parte integrante del partito nazionalsocialista, perché avrebbe dovuto odiarli? 

Arrivata a questo punto mentiva sempre a se stessa, dicendo che era un antipatia incondizionata, come quando vedi una persona per strada e pensi che abbia una faccia antipatica e senti di detestarla per motivi ignoti a te e a Dio, sempre se esistesse. Quel giorno, però, non volle mentire. 

Nel momento in cui prese posto sul vagone del treno aspettando che partisse, ragionò su quello che avrebbe fatto una volta arrivata a Parigi. 

Ormai persino la città che era nei suoi sogni fin dall'adolescenza era stata occupata. 

Ciò la deprimeva, ma l'entusiasmo non riuscì a svanire mai del tutto durante la durata del viaggio. 

Sentiva Parigi come una svolta nella sua esistenza, inutile fino a poco prima, come se la sua vita fosse una freccia appena scagliata e destinata a fare centro. Come se avesse incominciato a vivere solo prendendo quel treno. 

Quando si fermarono a Lione vide entrare una ragazza francese completamente in lacrime. 

"Pardon, posso sedermi qui?" Chiese costei. 

"Oui, certement." Nonostante la pronuncia francese di Emilie fosse buona, la ragazza sussultò nel sentire l'accento tedesco e la guardò con un briciolo di odio. 

Emilie non si mostrò sorpresa; si sarebbe sentita allo stesso modo se il suo paese fosse stato occupato. 

La ragazza seduta accanto a lei aveva un'aria scialba, ma carina con i suoi capelli biondi e dritti come spaghetti che le cascavano sul viso. 

"Vuole un fazzoletto?" Domandò l'austriaca prendendo la borsetta. "Oh, merci." La francese fece un debole sorriso provando a mascherare la sua aria angosciata. 

"Se posso sapere... Qual'è la ragione delle tue lacrime?" Emilie fece di tutto per sembrare il meno indiscreta possibile, ma appena ebbe finito di formulare la domanda capì quanto fosse stata ingenua. Qui non si trattava di indiscrezione, ma semplicemente del fatto che la sua era una domanda da interrogatorio nazista formulata con dolcezza. Per un istante sentì il desiderio di strapparsi di dosso la spilla del partito. 

La ragazza sembrò chiudersi in se stessa e singhiozzò. 

Emilie si avvicinò a lei e parlò a bassa voce: "Io non sono una di loro."

"Ma siete tedesca." Obbiettò la francese. 

"Per la precisione, sono austriaca." 

Alla ragazza non sembrò fare molta differenza, ma alla fine parlò. 

"Hanno preso mio padre, vogliono interrogarlo, lo picchieranno. Dicono che ha collaborato con gli ebrei, ma lui..." Venne interrotta da un forte singhiozzo. 

Emilie le fece cenno di parlare più a bassa voce; nonostante il vagone fosse vuoto, a parte loro, non voleva essere sentita. 

"Come ti chiami?" Domandò alla ragazza. 

"Céline." 

"Bene, Céline, se mi aiuterai io aiuterò tuo padre." 

Lo sguardo di lei si illuminò. 

"Davvero? Insomma... Sul serio? Cioè, davvero non si vedono spesso persone così gentili e io... Oh, grazie! Cosa devo fare?" 

Emilie ammiccò. "Oh, nulla di speciale... Solo, una commissione per mio conto. Dovete andare a casa Stradsberg, a Parigi... Sa dov'è casa Stradsberg, vero?" 

La ragazza annuì, chi non lo sapeva. Era il luogo più mondano che esistesse. 

"... E consegnare questo alla signora Stradsberg, dite che è da parte di Fraulein Kaltenbatch di Vienna." 

Emilie diede alla ragazza un pacchetto bianco con attaccato un biglietto scritto con la calligrafia di chi ha passato l'infanzia con un'educatrice fin troppo esigente. 

Céline annuì concentrata. 

"Come si chiama tuo padre?" Chiese Emilie tirando fuori un taccuino. 

"Auguste Delacour." Disse lei con un barlume di incertezza che le scurì il volto. 

Si stava davvero fidando? E se non ci fossero speranze per suo padre? E se fosse già morto?

Emilie sorrise. Quel sorriso luminoso e ipnotizzante che la gente non riusciva a smettere di guardare, riempì la francese di speranza. La donna che le stava davanti era troppo bella, troppo interessante per non essere ricordata. Un ciuffo castano le cadde sul viso e Emilie non lo scostò, come se non le importasse un granchè. 

"Auguste Delacour sarà rilasciato domani mattina," disse. 

La ragazza la guardò incredula, probabilmente pensando che non aveva mai visto una tedesca - una nazista, il nemico - comportarsi in modo così gentile. 

Una fermata dopo, entrambe scesero. 

"Be', au revoir!" Disse lei. 

"Au revoir! Farò come mi avete detto." 

Poi la ragazza francese che aveva conosciuto poco prima si perse nella folla. 

Emilie sorrise esaltata guardandosi intorno. La stazione era così dorata e perfetta come se la immaginava, in quello stesso posto era stata ambientata una scena di "Tenera è la notte" di Fitzgerald che aveva letto facendoselo mandare illegalmente quando era appena uscito. Ricordava quanto aveva atteso quel libro e quanto avesse faticato per ottenerlo. 

In tedesco non era stato tradotto, percui aveva dovuto farselo mandare dall'America. Era ancora molto affezionata a quel libro - come a tutti gli altri di letteratura americana e inglese che erano praticamente stati proibiti dal regime - e lo custodiva gelosamente. Lo aveva riletto cinque volte, analizzando tutte le sfumature dei caratteri di Dick e di Nicole. Adesso era tutto rovinato e con le pagine ingiallite che quando le annusi sanno di buono. 

Emilie tornò a guardarsi intorno con aria sognante.  

"Fraulein, faccia vedere i documenti." Disse un soldato tedesco con un francese stentato e un tono che non ammetteva repliche. 

Emilie lo guardò incredula e spostò la giacca per far vedere la spilla del partito nazista. 

Lui annuì e con aria incerta disse: "Non importa, fraulein. Dobbiamo vedere i documenti." 

"Ja," rispose lei aprendo la borsa. 

Lui guardò il passaporto. "Oh, va bene. Chiedo scusa per averla importunata, non accadrà più." 

"Lo spero, soldat." Commentò lei mettendo via i documenti. 

Emilie prese a camminare fieramente verso l'uscita dalla stazione; i tacchi facevano rumore al contatto con il marmo del pavimento. 

Era ancora un po' infastidita dal fatto precedente. 

Sembrò davvero così poco... Germanica? Si chiedeva. Insomma, in Austria non sono tutti biondi, Cristo. Ho gli stessi capelli del Fuhrer, perché mai dovrebbero sempre prendermi per ebrea o guardarmi sospettosi? 

Il suo aspetto non la interessava più di tanto ed era questo il suo fascino, il fatto che semplicemente si vestiva bene quasi perché doveva farlo e che adorava le cose immateriali e inconcrete. 

Non che odiasse i vestiti, i trucchi e tutte quelle cose, solo sentiva di poterne fare a meno, ma non per questo era mal vestita. Anzi, il fatto che non desse troppo peso all'apparenza aiutava il suo abbigliamento che dava l'impressione di non essere frutto di ore e ore davanti allo specchio. Le dava un'aria di totale naturalezza.  

Passando davanti ad una pasticceria in stazione ricordò di non aver fatto colazione, così decise di entrare. 

Mangiò un croissant al banco e bevve un cappuccino. 

In quel momento di calma totale, in quel bar così francese e con così pochi tedeschi - quasi nessuno - si sentì pervadere da una sensazione di fibrillazione e di... Allegria? No, ma per un istante sentì che avrebbe potuto  fare quello che le pareva, che sarebbe potuta entrare in una libreria e snobbare Mein Kampf per comprare Liberty Bar di Simenon e ciò la riempì di conforto. 

Il tovagliolo si macchiò di rossetto quando lo usò per pulirsi la bocca, poi lo appoggiò al bancone, pagò e uscì. 

Fermò un taxi e ci salì dentro, facendosi aiutare a mettere dentro i bagagli. 

"Dove la porto, mademoiselle?" Domandò il tassista, sporgendosi verso il sedile posteriore. 

Emilie lesse l'indirizzo da un foglietto per poi riportarlo al tassista. 

La ragazza guardò fuori dal finestrino e per la prima volta osservò davvero la città dei suoi sogni di quando era piccola. Non era esattamente come se la immaginava, perché se la immaginava senza svastiche ovunque, ma era pur sempre... Magnifique. Solo e solamente Parigi sarebbe potuta essere così magnifique. 

Al suo arrivo si ritrovò davanti ad un palazzo meraviglioso e barocco. 

L'hotel Lumiére, dove avrebbe alloggiato durante tutta la sua permanenza nella città degli artisti. 

Lasciò le sue valige in reception e venne accompagnata alla sua stanza. 

C'era un letto a baldacchino cosparso di petali di rose rosse - tutta la stanza era cosparsa di petali di rose rosse - e appoggiata al comodino una bottiglia di champagne. 

Quando dopo aver fatto un bagno caldo Emilie si distese sul letto e posò il suo sguardo sul soffitto con affreschi e decori si sentì come se non avesse dovuto essere da nessuna parte se non lì. 

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Capitolo 3
*** Spring: Part 2 ***










 

Spring: Part 2 


Emilie scese le scale quasi correndo. 

Il fatto che avesse abbandonato il suo solito cinismo la rendeva contenta, così tanto da accettare l'invito a pranzo di un signore francese che era da sempre un amico della sua famiglia. Un certo monsieur Claude Bonet. 

Adesso Emilie indossava un abito bianco e lungo, con le maniche a sbuffo e lo scollo ampio che non si addiceva assolutamente ad un pranzo, soprattutto se portato assieme ad una giacca marroncina, a due collane di perle e a delle scarpe nere col tacco. 

Ah, mademoiselle Kaltenbatch eccola, finalmente!Esultò Bonet. 

C'erano altre persone sedute al tavolo, con lui e tutti gli sguardi erano puntati contro Emilie che stava ferma immobile con il fiatone e le guance arrossate.

Un uomo dalla bellezza stupefacente si girò a guardarla e sorrise compiaciuto, poi si alzò. 

Fraulein, Kaltenbatch... Esordì lui. 

Emilie. Corresse.

Oh, Emilie... Lui sorrise, poi tornò serio. 

Colonnello Hans Wesemann delle SS. Disse sbattendo i tacchi. 

Lei rise e fece un inchino come se stessero per ballare alzando un po' il vestito. 

Rise anche lui e Emilie fu lieta nel constatare che aveva un pizzico di senso dell'umorismo. 

Poi si presentò a monsieur Bonet che le sorrise caldamente. 

Le era stato riservato un posto accanto alla SS che le versò del vino dicendole che doveva assolutamente assaggiarlo. 

Bonet aveva un'aria minimamente simpatica, gradevole, quasi. 

Oltre a loro, al tavolo c'era altra compagnia: Ginet Feller - una giovane modella che diceva di aver lavorato per Coco Chanel -, Cristiana Bellini, l'amante italiana di Wesemann, Vincent Keller, un borghesotto qualunque e Ginevra Knauffman. 

Hans rimase incuriosito da Emilie che, ogni volta che i loro sguardi incrociavano, sosteneva l'occhiata in modo quasi insistente. 

Quella ragazza aveva un'aria così dannatamente libertina che gli venne voglia di sbatterla al muro e violarla lì davanti a tutti. 

Hans Wesemann era un predatore e non aveva mai fatto nulla per amore di una donna, persino quella stupida di Cristina poteva esserci arrivata, dopo un mese che stavano insieme. 

La loro vita di coppia per lei era un vero strazio, quasi una prigione. Ma non c'era stata una grande scelta a dir la verità. O restava a Roma a soffrire la fame oppure andava in Germania - che poi era diventata Francia - con un crudele colonnello tedesco che l'avrebbe trattata come la puttana che sembrava. 

Allora, mia cara... Come hai passato il viaggio? Domandò Bonet a Emilie, dopo aver ordinato del caviale e altre pietanze di pesce. 

Oh, tutto bene. Nulla di speciale. Disse lei con un leggero sorriso in volto e il mento appoggiato alla mano con aria disinteressata alla società che si muoveva intorno a lei. 

Da dove hai detto che vieni? Si introdusse Vincent Keller. 

Non l'ho detto. Rispose lei facendo spallucce. 

La tavolata intera scoppiò in risate. 

Comunque sono di Vienna.Disse lei. 

Gran bel posto! Ci ho vissuto per un po' di tempo... I viennesi sono delle persone adorabili.

Emilie si limitò a sorridere. 

Ma mai efficenti quanto può esserlo un berlinese! Fece Wesemann. 

Di nuovo uno scroscio di risate.

Emilie osservò per qualche istante i suoi bellissimi lineamenti da perfetto tedesco. I capelli biondi pettinati con la riga di lato, gli occhi azzurri e la mascella pronunciata. Era assolutamente e perfettamente bellissimo. 

Il volto della Germania nazista. 

A Emilie stette subito antipatico; non riuciva a provare grandi simpatia per le persone troppo belle. I difetti le piacevano, davano senso e armonia a tutto il resto. 

Era proprio così: l'uomo che le stava accanto era privo di armonia, in tutto. 

Non riuscì a spiegarselo, ma quell'uomo era... Così. 

Sentì di nuovo tutte le persone intorno a lei ridere e poi Hans le lanciò una breve occhiata. Il suo sguardo si induriva quando si posava su di lei, come se venisse ricoperto di ghiaccio. 

Wesemann aveva preso a parlare da un po', intrattenendo tutti, ma lei non lo aveva ascoltato nemmeno per un istante. 

Era una cosa che capitava spesso quando la gente lo ascoltava: il discorso veniva vissuto, più che ascoltato. 

Era un tratto presente anche in Adolf Hitler e il Colonnello Wesemann ne era fiero. Non tanto perché fosse simile al suo Fuhrer, in questo, ma perché era stato grazie anche a questo suo carisma che era riuscito ad arrivare così in alto nelle SS.

Se c'era una cosa che Hans Wesemann amava della sua vita, quella era il suo lavoro. Ebbene sì, lui non era una di quelle vittime della guerra che avevano visto la morte, gli arti mozzati e i campi di battaglia. 

Cioè, li aveva visti, ma quelle visioni non lo avevano mai urtato realmente e tra l'altro spesso era lui la causa degli arti mozzati. 

Le SS gli avevano fornito una carriera rapida, dopo il duro addestramento, e poi era arrivato all'elitè. Ogni giorno, mentre si metteva la divisa inamidata e si pettinava i capelli si sentiva estremamente fortunato dell'essere nato tedesco e, mentre guardava gli stemmi sulla sua giacca, davanti allo specchio, sentiva di stare dalla parte giusta. 

Questa cosa sarebbe potuta cambiare molto presto, non appena le cose avessero iniziato a cambiare non gli avrebbe fatto differenza alcuna diventare una spia dell'esercito americano. 

Non si vergognava nell'ammettere con se stesso che degli ideali nazisti gli importava poco e niente finché avesse avuto il conto in banca pieno e adorava e odiava al tempo stesso i sovversivi che camuffavano la loro ribellione interiore con la normalità o a volte con un eccessivo zelo. 

Emilie Kaltenbatch non rientrava in nessuna delle due categorie, ma Hans percepì subito che in lei c'era qualcosa di inconsueto. 

La sua gioiosità la trovò un po' fastidiosa, ma anche frizzante. Quella frizzantezza che lo eccitava, ma nonostante ciò riuscì a rimanere impassibilie per tutto il resto della conversazione. 

Dove hai detto che abiti? Cambiò argomento Keller, ad un certo punto della conversazione. 

Vie Bussoise. Rispose la SS. 

Oh, se vivi lì dovrai assolutamente conoscere Stradsberg! Si intromise Emilie. 

Hans Wesemann sobbalzò. Stradsberg, hai detto?

Sì, esatto. Wolfgang e Ester Stradsberg. Concluse Bonet con un sorriso compiaciuto. 

No, no. A dir la verità no. Era sempre stato bravo a mentire, ma si irrigidì per un secondo. 

Ester Stradsberg era stata il suo sogno irraggiungibile fin da quando l'aveva vista. Nonostante fosse sempre stato rigido e dedito al lavoro con tutto se stesso si permetteva le ragazze più belle che esistessero, ma Ester non l'aveva potuta avere e quello restava un suo rimpianto, pur non essendo rimasto straziato dalla cosa. 

Non aveva nemmeno avuto tempo di conoscerla, Ester, però spesso si era immaginato come potesse essere senza i vestiti, con i boccoli biondi che ricadevano sulla schiena nuda e... Dio, era una visione così vivida che per un poco non rischiò di perdere il contegno. 

Be', presto dovrai conoscergli gli Stradsberg... Commentò Ginet, per poi aggiungere: Sono l'animo della nuova Parigi!

Lo sguardo di Wesemann si fermò sull'espressione leggermente contrariata della signorina Kaltenbatch dopo l'intervento di Ginet Feller. 

Be', sì. Sono davvero... Meravigliosi! Disse Ginevra Kaufmann, dopo un po' di tempo che non aveva parlato se non per interventi insignificanti e inutili allo scopo narrativo. 

Poi una voce prima d'allora del tutto sconosciuta per Emilie si intromise rendendo quella conversazione priva di armonia una sinfonia quasi gradevole.

Ester Stradsberg sarà anche meravigliosa, ma mai come la signorina qui presente che questi uomini poco gentili non mi hanno ancora presentato.

Emilie si voltò di scatto, facendo fluttuare i ciuffi che erano rimasti fuori dal raffinato chignon. 

Jean Russeau le baciò la mano e si presentò. 

Piacere, Emilie Kaltenbatch. Rispose lei con uno di quei suoi sguardi luminosi, che facevano sembrare due astri i suoi occhi smeraldini. 

So chi sei. Il nostro monsieur Bonet mi ha parlato a lungo di te. Disse Russeau con fare suadente.

Bonet sorrise, quando venne accennato a lui. 

Quest'uomo, Jean Russeau, sembrava godere di grande rispetto tra tutti. 

Tutti tranne Hans Wesemann lo guardavano in modo quasi riverenziale. 

Poi, quando gli occhi di Emilie giunsero alla spilla infilata nel tessuto vicino al taschino della giacca di lui capì il perché. 

Era un collaborazionista e un temuto e odiato traditore della sua stessa patria. Che cosa ignobile vendersi ai nazisti per qualche dollaro in più, pur essendo forse la cosa più sensata da fare una volta trovatisi con la propria città occupata.

Emilie lo guardò per qualche secondo. 

Aveva uno sguardo sfuggente, i capelli ben pettinati e la barba sottile molto curata. La sua giacca bianca e la sua camicia beige sembravano essere di raffinata fattura e lui aveva del tutto il portamento che poteva avere chi era molto ricco. 

Vuoi sederti con noi, Jean?Propose Bonet. 

Oui, ovviamente.

Poi ordinò del vino e al momento più opportuno picchiettò il coltello sul bicchiere per richiamare l'attenzione, che aveva già prima. 

Jean Russeau emanava un'aria patinata  e piena di buoni auspici. 

Bene miei ospiti, ho un annuncio importante da fare. Quest'oggi ho concluso un affare molto importante per la mia carriera...

Fu subito interroto dal gridolino isterico di Ginet, che aveva fatto cadere tutto il vino sul tappeto pregiato. 

Oh, Dio. Dovrò ripagarlo... Be', pagherò i danni. Disse lei tentando di sembrare disinvolta, ma era arrossita di colpo per la figuraccia. 

Jean Russeau fece un sorriso ipnotico e si adagiò sulla sedia con aria noncurante. 
Be', non c'è problema alcuno, Ginet, mia cara. Perché questo hotel è... Appena diventato mio.

 

Angolo Autrice:

Sono riuscita ad aggiornare e sono soddisfatta per il semplice fatto che per ora sto riuscendo a portare avanti seriamente una long originale. Speriamo che l'ispirazione non manchi! *^*
Allora, questo capitolo è ancora dedicato a Emilie, se no avremmo visto anche il nostro Hans uccidere poco prima del pranzo, ma ve l'ho risparmiato. AHAHAH.
Prima di tutto volevo specificare che non approvo ASSOLUTAMENTE le ideologie naziste e se nel corso della storia si sentiranno dialoghi razzisti (perché ci saranno) e i nostri personaggi come abbiamo visto sono praticamente tutti dei nazi, chi più chi meno... Be', ecco sappiate che tutto questo è proprio scritto con un fine dissacratorio (e con ciò non intendo che debba essere comico) nei confronti di Hitler e del nazismo.
Spero che questo nuovo capitolo vi sia piaciuto e che questa mia fic possa essere apprezzata.
Accetto pareri e critiche costruttive, qualsiasi cosa. Sono un'orsetto asociale propenso al dialogo AHAHHA. <3 
Well, che dire.... Niente. Alla prossima!
Auf Wiedershen; 

Marlene xx

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Capitolo 4
*** Spring: Part 3 ***



 
The Swan: Ester Stradsberg
 

Spring: Part 3




Il pacco da parte di sua cugina Emilie arrivò giusto quella mattina. 
A portarlo era stata una francesina, le avevano detto. Ester aveva sorriso; la cugina faceva sempre quelle sue promesse irrealizzabili alle persone ingenue che sapeva non avrebbe rivisto mai più, come quando aveva promesso ad un soldato della Wermacht che lo avrebbe sposato se lui avesse trovato un modo per togliere Ester dalla Bund Deutscher Madel per il puro gusto di farlo. 
Tutti sapevano che il soldato non poteva fare nulla, ma Emilie si divertiva così e lei la trovava una compagnia davvero divertente. 
In quel momento, fuori dal terrazzo, senza nessuno che la guardava potette permettersi di scartare il pacco con dentro una copia de Il Grande Gatbsy. Se valeva la pena di mantenere i rapporti con sua cugina era anche solo per questo! Quella ragazza aveva un commerciante sottobanco persino per la droga. 
Vieni qui, tesoro! La chiamò suo marito. 
Sì, Wolfie. Cosa c'è? Accorse Ester obbediente. 
Hai letto sui giornali? Disse lui con tono soddisfatto. 
No, perché?
Dicono che probabilmente il Fuhrer verrà a far visita a Parigi! 
Ester sorrise radiosa e disse: Ma è meraviglioso! Credo che potremmo essere i prescelti per organizzare una bella festa... 
Oh, a quello stavo pensando, infatti! Dobbiamo rendere onore al capo della nostra nazione! 
Ester si sedette sulle sue ginocchia e lo guardò amorevolmente 
Sì, sì! Hai ragione, amore mio! Dobbiamo farlo assolutamente! Esclamò con tono spassionato. 
Wolfgang sorrise soddisfatto e le fece cenno di alzarsi. 
Oggi andrò a concludere degli affari, sai, devo riuscire ad accaparrarmi una fabbrica in Polonia e spero di riuscirci, cara. Sarebbe molto importante per noi. Tu cosa farai?
Credo che starò a casa... Forse mi vedrò con la mia cugina austriaca. 
Bene, bene. Commentò lui pavoneggiandosi davanti allo specchio mentre sistemava il nodo della cravatta.
Ester lo guardò con aria assente, poi si alzò dal letto. 


Quando suo marito fu uscito Ester corse a prepararsi per andare a fare colazione fuori. 
Le giornate in cui la lasciava sola - che erano molte - erano le migliori, quelle che Ester si godeva di più in quanto a tranquillità. 
Poi la sera ci sarebbe stata una grande festa e non vedeva l'ora di parteciparvi; sarebbe stata a casa dei Von Guttenberg. Aveva già scelto il vestito, del suo rosso preferito.
 Ester adorava valorizzare la sua bellezza, pur rendendosi conto di essere vagamente inconsistente nei suoi vezzi e nelle sue vanità, ma quello non era importante. Suo marito adorava esibirla davanti a tutti, la chiamava la Rosa del Reich e Ester, adorava essere esibita. 
Mai una volta aveva avuto l'impressione di essere una pedina. Questa ipotesi era passata talmente tante volte davanti a lei da essere inquietantemente abituata ad ignorarla.
Da sempre si era sentita fiera di se stessa solamente facendo ciò che si esigeva che una brava ragazza tedesca facesse, anche se ultimamente aveva iniziato a trasgredire un po' spesso le regole. 
Soprattutto a causa di Emilie e dei suoi libri. Ma che poteva farci? Li adorava talmente tanto, pur forse non comprendendoli realmente a fondo. 
Oppure lo faceva, ma non avrebbe mai accettato che la ricchezza e le ossessioni distruggessero, come Fitzgerald diceva, ma comunque trovava interessanti questi pensieri così diversi da quelli di Hitler, così vicini a quelli di Stalin. 
Si era sentita una sovversiva nel pensare che era necessario conoscere culture diverse per poter comprendere da che parte stare, ma forse era proprio questo quello su cui puntava Hitler. 
Se una persona fosse nata sotto il regime Nazionalsocialista non avrebbe conosciuto altro che quello, come avrebbe potuto quindi farsi un'idea propria?
Infatti, non avrebbe potuto a meno che non avesse avuto un'ampia cultura e, alla fine della fiera, a Ester la politica di Hitler non dispiaceva affatto. 
In tutte le sue giornate passate sul divano del suo salotto, non aveva mai pensato alla politica o a cosa fosse giusto o sbagliato. Non prima di allora, non prima di Emilie. 
Era iniziato tutto con una copia del Manifesto comunista di Marx che le era stata inviata per sbaglio - o forse no - e non aveva alcun mittente. 
Ester si era sentita in possesso di un segreto troppo importante e prezioso per potersi permettere di bruciarlo.
Per la prima volta in vita sua aveva commesso un crimine. 
Si era sentita strana e poi, dopo aver letto il libro incriminato tra uno spazio buco e l'altro, l'aveva bruciato nel camino una notte che era in casa da sola. 
Ma, libro dopo libro, nonostante sapesse che stava infrangendo la legge, non riusciva a smettere di leggere. Sentiva come se quella cultura potesse essere una sua arma per sopravvivere in un mondo di uomini (e di nazisti), nonostante sapesse che l'occasione per usarla non sarebbe mai arrivata. 
Un giorno le era arrivata una lettera di Emilie in cui le diceva che presto sarebbe arrivata a Parigi e allegato ad essa c'era una copia di Quarantanove racconti, di Hemingway. Le era piaciuto lo stile audace dello scrittore, ma tra i due avrebbe sempre preferito Fitzgerald.
In quel momento aveva capito che anche il primo libro le era stato mandato da Emilie, ne era stata subito convinta e in quel momento aveva odiato la cugina con tutta se stessa. Era colpa sua se aveva commesso un crimine. 
Ma quello che pensò guardando la città intorno a se fu che lei aveva avuto la possibilità di scegliere tra il bene - o meglio, il concetto di "bene" che poteva avere un nazista - e il male e aveva scelto il male. 

Entrò nel primo caffè che si trovò davanti e vedere che era pieno di soldati tedeschi la fece sentire un po' meno intimorita in quella nuova città con una lingua diversa dalla sua. 
D'altra parte però iniziò a pensare come sarebbe andata se qualcuno avesse saputo. Sarebbe morta e lei non voleva morire, voleva vivere abbastanza per veder morire suo marito ucciso dalla guerra, perché era certa che un giorno o l'altro sarebbe finita, ma obbiettivamente pensava che sarebbe stato meglio che fosse stato tra qualche anno. Magari quando avesse smesso di essere il simbolo dell'ideologia nazista e di frequentare Goebbels.
Sì, sarebbe stato meglio per lei. 
Si appoggiò al bancone del bar in cui era entrata e osservò lo spazio che le stava attorno. 
Nonostante la Francia prima d'allora non le fosse sembrata molto piena di attrattiva e avendo sempre preferito il clima rigido di Berlino, adesso si sentiva soddisfatta del posto in cui era. 
I tavoli e le sedie in ferro battuto davano un aspetto minimale a tutto il resto e il parquet scricchiolava al suo passo. 
All'improvviso le venne voglia d'una sigaretta.
Prese il pacchetto dalla tasca della giacca in calda pelliccia.  
Ester si guardò intorno indecisa su chi importunare per l'accendino, poi optò per l'uomo che era girato di spalle davanti a lei. 
"Scusi, ha da accendere?" Domandò lei. 
L'uomo si voltò con un'espressione cordiale impressa sul volto e l'aria di aver sentito per la seconda volta una sinfonia che aveva adorato, ma non era più riuscito ad ascoltare. Fino ad allora. 
Angolo Autrice: 

Ebbene, salve miei prodi!
Questo è il primo PoV  di Ester e per problemi tecnici non sono riuscita ad inserire il banner con lei. *si dispera*
Ebbene, spero di essere riuscita a presentare il nostro Cigno in modo soddisfacente e non vedo l'ora di sentire la vostra!
Un bacio, tante caramelle gommose a voi e Auf Wiedersehen!

Marlene xx

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Capitolo 5
*** Spring: Part 4 ***


























 

 

Spring: Part 4






Quella giornata di lavoro era stata una come un'altra, nessuna novità. 
Hans Wesemann iniziava ad apprezzare sempre di più la routine a cui era sottoposto da quando era arrivato a Parigi. In realtà non era una vera e propria routine ed era quella la parte divertente del suo lavoro. 
Ogni azione corrispondeva ad una reazione, ma non si poteva mai sapere quale sarebbe stata la seconda senza aver consociuto la prima e adesso era nella posizione di decidere lui la reazione. 
In quel caso, la reazione non era stata troppo drastica, ma il Colonnello aveva fatto ben attenzione a non macchiarsi troppo la divisa di sangue.
Ci teneva al suo aspetto e non avrebbe mai voluto sembrare un soldatino da trincea, non gli si addiceva. 
In quella mattina primaverile, lui era entrato nella casa di Carl Margeit accompagnato da una squadra di Waffen-SS armate fino ai denti. 
Wesemann sapeva che non c'era realmente bisogno di tutte quelle armi, per il semplice motivo che il suo carisma intimidatorio poteva riuscire dove le armi non riuscivano. 
Quando si trovò davanti il signore emaciato che era Carl Margeit, ad Hans venne da sorridere. 
I nemici facili erano i suoi preferiti. Si divertiva da morire a giocare al gatto col topo, a vedere la gente che rimaneva col fiato sospeso pensando che lui, Hans Wesemann, avrebbe potuto ucciderli. 
Costruendo la propria immagine nel Terzo Reich era diventato molto più di una divisa. Era una celebrità e le sue azioni sarebbero state lodate da chiunque anche dallo stesso Hitler. 
 Buongiorno, siamo qui per Louis e Rachel Margeit. Annunciò il colonnello. 
Carl Margeit deglutì e disse con voce flebile: Non sono qui, sono andati a Vichy una settimana fa.
Hans sorrise. Posso accomodarmi? 
Carl Margeit fece un cenno d'assenso indicando il salotto. 
Venite pure. Disse. 
Wesemann gridò dei comandi in tedesco agli altri soldati e entrò nel salotto accompagnato dall'ufficiale Hesser. 
Gut, eccoci. Commentò l'ufficiale, parlando in tedesco.
Ci dica, monsieur Margeit - iniziò Hans con il suo francese fluente - ha per caso frequentato degli ebrei in vita sua? Insomma, sa che infide persone possono essere?
L'interrogato aveva l'aria di stare per scoppiare a piangere e il colonnello rispose con un sorriso comprensivo. 
Non è un peccato, commettere degli errori, monsieur. Ciò che conta per noi è che lei si sia pentito. Disse per poi interrompersi, nel osservare la squallida casa di Carl Margeit mentre con la coda dell'occhio si gustava l'espressione di tensione nel volto della sua vittima.
Allora... L'ha fatto? Domandò. 
Sì, signore. 
Questo è positivo e... Mi dica, lei che lavoro fa monsieur Margeit? Disse alzandosi per appoggiare la giacca allo schienale della sedia. 
Ero un dottore, fino a poco fa... Rispose lui. 
E poi? Esortò Wesemann stuzzicando le corde sensibili della sua vittima.  
Senta... Iniziò Margeit con le lacrime agli occhi. 
Sul volto del nazista si aprì un sorrisetto ricambiato anche dall'ufficiale. Era il sorriso di chi prima ancora di trarre i dadi sapeva di avere vinto. 
E adesso il francese, sapeva di essere morto, prima ancora di vedere la pistola puntata contro di se. 
Hans Wesemann si sporse verso l'indiziato. 
Suo figlio ha sposato un ebrea. Non era una domanda. 
Il francese guardò verso il basso.
Oui. Disse con la voce straziata dalle lacrime. 
Ora, noi sappiamo benissimo che i vostri figli abitavano qui e sono qui ancora, giusto? 
Oui. Rispose infine Carl Margeit, con impotenza e rassegnazione, stringendo forte i bordi della sedia come se conficcandosi le scheggie  nella carne avesse potuto espiare le sue colpe. 
Il nazista sorrise soddisfatto. 
Vedo che iniziamo ad intenderci. 
Nessuna risposta, se non un silenzio desolato. 
Il colonnello Wesemann mise una mano nella tasca della giacca ed estrasse delle manette mentre Hesser puntava la pistola contro Margeit. 
Hans lo legò, per poi costringerlo ad alzarsi. 
Per favore no! Per favore no! Non ho fatto nulla... Glielo giuro, lo giuro. Dio, aiutami! Pianse il francese, però nella sua voce c'era traccia di arrendevolezza. Sapeva di essere morto nel momento in cui aveva sentito bussare alla porta. 
Nehmen Sie es aus! - Portalo fuori! Comandò seccamente all'ufficiale. 
La porta si chiuse. 
Sentì uno sparo e altri rumori, poi il caos  cessò.  
La sua espressione rimase neutra. 
Dopo di che si rilassò, e assaporò la quiete che regnava intorno a lui. 
Sapeva di non essere solo in quella casa, ma nonostante ciò non aveva alcuna intenzione di mettersi fretta. 
Giocherellò con il macabro pugnale delle SS. 
Il tuo onore si chiama fedeltà era inciso sulla lama, subito sotto ad un teschio nero. 
In tutto quel silenzio si sentivano solo i suoi lenti e profondi respiri. 
Tamburellò le dita sul tavolo e poi si alzò con estrema lentezza e andò verso la porta chiusa che probabilmente portava alla camera da letto. 
Posò cautamente la mano sulla maniglia. 
Nel momento in cui aprì seppe con certezza di aver trovato ciò che cercava. 
Camminò avanti e indietro con le mani in tasca e attaccò a parlare. Stava recitando, lo stava facendo davvero.  
Non ha gli occhi un giudeo? Un giudeo non ha mani, organi, membra, sensi, affetti, passioni
Non si alimenta dello stesso cibo, non si ferisce con le stesse armi, non è soggetto agli stessi malanni, curato con le stesse medicine
Estate e inverno non son caldi e freddi per un giudeo che per un cristiano?
Se ci pungete, non facciamo sangue? Non moriamo se voi ci avvelenate? Dunque se ci offendete e maltrattate, non dovremmo pensare a vendicarci?

Alla fine del monologo smise di camminare e sorrise, poi si fermò ad ascoltare i rumori che c'erano attorno a lui. 
Un respiro.
Sorrise; amava Shakespeare, nonostante tra i due ci fosse qualche divergenza a proposito delle razze. 
Ah, caro Shylock, come saresti stato male in questi tempi! Questo pensierò scatenò un moto d'ilarità dentro di lui. 
Guardò verso la scala che portava al soppalco con aria beffarda. 
Era in momenti come questi che amava il suo lavoro. Sapeva che la visita a Margeit era stata improvvisa, sapeva che loro non sapevano del suo arrivo prima di sentire i suoi passi, la sua voce, la sua presenza. 
Salì le scale, sempre con una calma innaturale. Il suo modo di fare non era quello di una persona che aveva voglia di uccidere a tutti i costi, ma di un perfezionista.
Quando arrivò su si guardò intorno. 
Gli piacque lo spazio semivuoto che vide, illuminato dall'abat-jour sulla scrivania. Ciò gli faceva pensare che qui era stato qualcuno prima di lui. L'ormai defunto Margeit, probabilmente.
Si fermò e si guardò intorno con aria sospettosa. 
Heil, Juden. Disse sogghignando, ma con il tono di voce che si addiceva a chi chiama il proprio cane. Quasi teneramente. 
I rumori cessarono per un istante.
Persino Hans smise di respirare. 
Poi avanzò lentamente verso l'armadio di legno vicino alla disordinata scrivania piena di carte e di documenti che non perse tempo a guardare.
Si avvicinò all'armadio tenendo i passi più leggeri possibili, poi appoggiò la mano all'anta e aprì con un colpo secco. 
Oh, aberes ist jemand hier. - C'è qualcuno qui.  Disse con un sorriso crudele stampato in volto.
Guardò i volti lacrimosi di Rachel e Louis Margeit sbiancare di colpo. 
Erano abbracciati, tremanti e indifesi in un mondo ostile a loro. Non provò pietà, ma solamente divertimento e si sentì molto fortunato di essere nato nel paese giusto, dai genitori giusti e nel momento giusto
I due amanti sventurati restarono abbracciati senza guardarlo, i loro corpi semi illuminati scossi dagli spasmi del pianto. 
Il colonnello Wesemann li guardò con finta compassione ed estrasse la pistola.
Poi tutto finì con immensa velocità. 
Premette il grilletto tre volte, più un'altra per sicurezza e la vita dei due cessò. 
I due si unirono ai suoi... Scheletri nell'armadio con la facilità con cui avrebbe potuto bere un bicchier d'acqua. 
Pensò che probabilmente tra cent'anni nessuno avrebbe nemmeno saputo chi fossero. Sarebbero semplicemente stati due dei tanti ebrei uccisi. 
Chiuse le ante dell'armadio e lasciò tutto com'era entrato, rimise a posto perfino il tappeto di cui aveva un po' piegato l'angolo camminando. 
Si soffermò sul ricordo che aveva del volto dell'ebrea di poco prima che aveva causato la morte di ben due persone senza nemmeno accorgersene. Povera stupida, sospirò Hans Wesemann. 
E la vita dei tre era finita così come quella di tanti altri prima di loro e molti altri che sarebbero susseguiti. 
Si rimise la giacca e cercò qualcosa nella sua tasca. Un flacone di benzina che aprì facendone cadere accidentalmente il contenuto per terra. Così come fece cadere anche un fiammifero...
... Inziò a sentire l'odore di legno bruciato...
... Poi chiuse la porta. 

Angolo Autrice:

Ebbene sì, finalmente sono arrivata al capitolo di Hans *esulta* e notizia, notizia, anche il prossimo sarà dedicato a lui.
In questo  capitolo ho voluto fare un'introduzione della personalità di Hans, il bellissimo e crudele colonnello e credo che nessuno gli si addica meglio di Christoph Waltz come prestavolto *^*. Insomma... QUELL'UOMO. COSA NON E'. fdjkd. Okay, basta. AHAHHA.
Be', spero che questo capitolo sia stato gradito!
Un bacio e all prossima; 

Marlene xx

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Capitolo 6
*** Spring: Part 5 ***



















 

Spring: Part 5
 

L'auto nera fermò davanti ad un caffè con una grande svastica esposta sulla porta. 
Cose di questo genere facevano sorridere Hans, come se il resto degli esseri umani gli facesse un po' pietà. I nazisti avevano bisogno della svastica come gli ebrei della stella di Davide. 
Avevano tutti un marchio, un'etichetta che li spersonalizzava. 
Hans si immaginò le espressioni delle sue vittime precedenti nel momento in cui l'avevano sentito parlare. Dio, quanto avrebbe voluto vederle davvero!
Si immaginava il bel viso terrorizzato della ragazza, quello di lui, il battito cardiaco che aumentava, i respiri mozzati, il buio claustrofobico...
Heil Hitler! Urlò entrando. 
Tutti risposero prontamente con aria impettita.  
Si sedettero in un tavolo in un angolo tranquillo del locale. 
Gli altri ufficiali iniziarono a parlare e nonostante Hans fosse interessato alla conversazione, non riuscì a stare seduto. Non sapeva perché, ma non aveva proprio voglia.
Si accese una sigaretta e aspirò profondamente. Questo aiutò a rilassarlo. 
Poi sentì una voce provenire da dietro e chiamarlo in modo cordiale.
Si voltò subito. 
L'aveva già sentita quella voce armoniosa, leggiadra che sapeva di... Soldi. Fruscio di banconote e tintinnare di monete. 
Scusi, ha da accendere? Ripetè lei guardandolo con gentilezza e un leggero sorriso sul volto. Ogni cosa in lei sembrava voler essere desiderata; le labbra rosse, gli occhi luminosi e il viso genuino, puro. Il suo volto sembrava uscire da un ritratto, da un quadro senza tempo. Sarebbe potuto essere stato guardato cento, duecento volte, ma sarebbe sempre stato lì e lo scorrere del tempo non avrebbe mai potuto corrodere tanta bellezza. 
Hans ricambiò lo sguardo cordiale e prese i fiammiferi dalla tasca. 
Prego. Disse porgendole il pacchetto. 
Uh, danke. Rispose lei accendendosi la sigaretta. 
Le sue labbra si chiusero attorno alla sigaretta lasciando una piccola traccia di rossetto. 
Il colonnello Wesemann sorrise galantemente. Ho la sensazione di averla già vista, mia cara. Una bimba così carina non si scorda... 
La risata di lei era armoniosa, vivida. Una di quelle risate che avresti voluto ascoltare all'infinito. Come il suo nome, che solo dopo avrebbe pronunciato e che aveva già sentito uscire dalle sue labbra che si erano schiuse per lui solo due anni fa. Ester.
È un immenso piacere. Disse lui baciandole la mano. 
Il piacere è mio, mein Herr. 
La mano di Ester restò intrappolata nella sua presa per qualche secondo più del previsto, ma abbastanza perché lui potesse notare la fede che lei portava. Possibile che fosse sposata? Chissà quanti anni aveva... Era perfetta, la ragazza che la commissione avrebbe sicuramente fatto sposare ad una SS, il tipo di ragazza che avrebbe ottenuto l'approvazione da chiunque e non c'era alcun uomo in quella terra che non si sarebbe ucciso per accontentarla. 
Devo ricordarmi dove la ho già vista, mein fraulein. Commentò Hans scrutandola. 
Lei sbattè le palpebre ripetutamente, come un cerbiatto impaurito, solo che nel suo sguardo Hans non vide affatto terrore. Era completamente composta e posata e nulla avrebbe potuto distruggere il suo idillio personale. 
Posso avere l'onore di offrirle qualcosa da bere? Propose lui con fredda e composta galanteria. 
D'altronde una giovane signorina tutta sola... Non sta bene. 
Sarebbe un onore e un piacere sedere con un nostro eroe nazionale. 
E forse era così, perché il sorriso di lei era sincero nel mentre pronunciava quella frase banale e stucchevole che sembrava essere stata già sentita e già pronunciata. 
Anche Margeit voleva far pensare che fosse un onore vedermi seduto al suo tavolo. Ridacchiò Hans tra se e se. 
Mi aspettiqui che io vado a chiedere un tavolo. Disse lui, con un tono gentile, ma da cui si percepiva che non amava essere contraddetto. 
Ja mit Vergnügen! Rispose Ester con aria serena. 
Il colonnello Wesemann si mosse cercando un cameriere a cui chiedere se poteva essere dato loro un tavolo finché non trovò una ragazza mingherlina, con su gli abiti da cameriera. 
Il y a un table pour deux? Domandò. 
Oui, je le fais tout de suite mettre la table. Rispose la cameriera, mantenendo lo sguardo basso un po' intimorita. 
Eh bien, dépêchez-vous. Disse lui rigidamente, ma divertito dal timore della ragazza.
Oui, monsieur. Annuì la cameriera. 
Il modo in cui la sua famiglia gli aveva insegnato a muoversi nel mondo era quello, per questo da sempre Hans conservava una certa rigidità nei confronti di se stesso e degli altri. Non aveva detto alla cameriera di fare in fretta solo per puro sadismo, ma anche perché odiava l'inefficienza.
 Ester era ancora lì al bancone, che lo aspettava fissando il vuoto. 
Proprio mentre lui si stava avvicinando le porsero una domanda in francese a cui lei rispose con un veloce battito delle palpebre e uno sguardo desolato. 
La mademoiselle est en France récemment et ne connaît pas bien la langue. Intervenne lui in suo soccorso, ottenendo la reazione che si sarebbe aspettato da colui che aveva rivolto la parola a Ester. 
Il francese si mostrò leggermente infastidito e disse: Êtes-vous son mari? 
Est-ce moi ou vous êtes trop des faits qui affectent les autres? Hans rispose alla domanda, con una domanda che non voleva risposta che pose con tono mellifluo, ma aggressivo. 
Ester gli volse uno sguardo tra l'incuriosito e il preoccupato guardandolo dal basso all'alto. 
Herr Colonel, cosa voleva?
Nichts, è solo un impertinente francese, che vuole farci. Rispose riprendendo la solita cordiale e sicura formalità. Ora venga, Ester... Posso chiamarla Ester, vero? Disse lui toccandole la schiena con la mano, come se volesse guidarla o... Difenderla? 
Ja. Sie können mich anrufen, was Sie wollen, Sir. Rispose lei. 
Si sedettero al tavolo che avevano preparato nel frattempo e lui mise a posto la sedia per Ester poi si sedette. 
Aveva la compostezza di una persona sicura di se e che sapeva di essere in una posizione di superiorità. Questo lo si capiva dai suoi movimenti sicuri, dal modo in cui camminava e dal fatto che non mostrava alcun segno di nervosismo o di alun'altra emotività. 
So, mein Fräulein... Appena attaccò a parlare venne interrotto dal cameriere per l'ordinazione. 
Eh bien, pour moi un café et pour la mademoiselle... Si interruppe per rivolgersi a lei: Cosa prendi? 
Quello che prende lei, Herr Colonel. 
Deux cafès, alors. 
Gut, dov'eravamo rimasti? Domandò lui. 
Ester aggrottò un pochino le sopracciglia con aria pensosa per poi dire: In realtà non avevamo proprio iniziato alcun discorso. 
Delle leggere risate si aggiunsero agli altri rumori presenti nel locale.
Mi hanno parlato molto bene di lei e suo marito, sa che coincidenza, io vivo proprio lì vicino! Parlò Hans tanto per essere cordiale. 
Oh, che bello! Sta sera daremo una festa, nel caso avesse piacere di venire saremo onorati di ospitare un eroe nazionale. Disse sorridendo. 
Hans notò che a volte sembrava che stesse recitando quando parlava, eppure al tempo stesso era spontanea. Incredibile che fosse così, ma Ester riusciva a far combaciare perfettamente le due cose. 
E la sua voce alternava del trilli ad un tono quasi neutro nei momenti in cui il suo sguardo si scostava dall'interlocutore come se cercasse una via di fuga. 
Vennero portati rapidamente i due caffè. 
Mercì. Rispose Hans, imitato prontamente da Ester. 
Da quanto vive a Parigi, Ester? Domandò lui, notando per la seconda volta le sue difficoltà linguistiche. 
Da quasi un anno, ma non ho mai voglia di imparare il francese.... Insomma, il tedesco è la lingua del Führer e della gloriosa nazione germanica per cui non vedo il motivo di imparare il francese. Formulò la sua obbiezione quasi ironicamente, ma Hans ebbe la sensazione che non era quello il motivo per cui lei non sapeva la lingua. 
E come mai è così giovane e già sposata, mein lieber? Il tono della sua domanda, se mai ci fosse stata della sincera curiosità, non la mostrava. Era meccanico come tutto il resto della conversazione, ma a Ester non sembrava dare fastidio. 
Mi sono sposata molto giovane....
Quanti anni ha? 
Diciannove. Rispose lei, quasi vergognandosene.
Lui si mostrò meravigliato e lo era davvero. 
E quando si è sposata, mein Kind? 
Lei arrossì violentemente e disse: Mi sono sposata a diciassette anni. Lo hanno deciso i miei genitori e io amo mio marito. 
Il rossore delle guancie che si accostava a quello delle labbra e alla lucentezza degli occhi la faceva sembrare ancor più desiderabile. 
Diciannove anni. Per lui, che era più vicino ai quaranta che ai trenta, era del tutto una bambina. 
Una dolce piccola bambina indifesa... 
Hans le rivolse un sorriso forzato, pieno di autocontrollo. 
Ci sarò sta sera, mein Schatz. Annunciò lui alla fine di qualche minuto di silenzio. Sarà un piacere, sempre se a Herr Stradsberg possa andare bene. 
Sarebbe andato da Ester, quella sera, ma sapeva che non avrebbe agito. Non ancora. 
Sapeva che avrebbe sempre ottenuto ciò che voleva, e questa volta non sarebbe stata da meno. 



 
Angolo Autrice:
Alors, mi sta intrippando questa cosa di mettere i dialoghi in lingua AHHAHAAH.
Ebbene, in questo nuovo capitolo è avvenuto l'incontro tra Hans e Ester (jfdkfd) e ho voluto metterci il giusto tocco di angst as always.
Il prossimo capitolo credo proprio che sarà di Jean Russeau di cui non ho ancora scritto e non vorrei che poi si ingelosisse lolz.
Well, that's it. Se volete dirmi il vostro parere sullo svolgimento della vicenda mi farebbe molto piacere e grazie tantissimo a chi sta seguendo la storia! <3 
Un bacio e Auf Wiedersehen, 
Marlene xx

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Capitolo 7
*** Spring: Part 6 ***





 

Spring: Part 6


Jean accarezzò il nodo ben fatto della cravatta guardandosi allo specchio. 
Oltre alla sua immagine vide riflessa anche quella di Ginet Feller sdraiata sul letto, il corpo coperto solo da un sottile lenzuolo color champagne. 
Non ti prepari? Domandò Jean guardandola attraverso lo specchio. 
La ragazza miagolò strusciandosi sulle coperte. 
Non ne ho voglia. Disse. 
Ah, si? Domandò lui sarcasticamente, girandosi verso di lei.  
Mh, mh. Fece Ginet, maliziosa. 
Be', devi venire lo stesso. 
No. 
Si, mia cara. 
Ho detto di no... Resta con me, Jean... 
Lui rise ironicamente e le porse la mano. 
Al massimo, potresti essere tu ad andartene, dato che questa è casa mia. E ora alzati, non voglio più ripetertelo, cheri. 
Il suo tono era comunque scherzoso, ma lei rimase indignata da quell'improvvisa aggressività.
Jean! Le sue labbra si schiusero in un suono fastidioso. 
Oui, ma chérie?
Non si comportano così i gentiluomini! Rimproverò lei. 
Tesoro, ti senti autorizzata a parlarmi così perché non sono un nazista? Domandò sedendosi accanto a lei, improvvisamente serio e infastidito. 
Pensi che io non abbia autorità alcuna solo perché non indosso un uniforme con una grande svastica? 
Ad ogni parola Jean si avvicinava a lei, sentendo sempre di più il suo tepore, il suo respiro. 
Be', la vedi questa? Esclamò afferrando la spilla del partito nazista. 
La vedi? Ripetè. 
Lei annuì. Oui, oui, Jean. Però adesso calm- 
La sua voce venne interrotta dal violento gesto di Jean che dopo aver afferrato la spilla l'aveva anche lanciata da qualche parte nella stanza, rovinando il tessuto della giacca. 
Jean...Fece lei, prima di essere travolta da un bacio. Io capisco che...
Lui si staccò e la guardò intensamente. 
Se credi che io l'abbia fatto per amore, ti sbagli di grosso. L'ho fatto per me e per me soltanto, è meglio che tu lo sappia. Ma a te non da fastidio che i tedeschi invadano il nostro paese? Che sfruttino le nostre arti come se fossero le loro? Perdio, non ti da fastidio vederti negata la tua libertà? 
Pronunciò quelle parole con un trasporto che sorprese Ginet. 
Facciamo ciò che è meglio per un'ideologia giusta. Disse lei. 
Contenta tu. 
Ginet lo guardò irritata. Jean, rimettiti la spilla, se andrai al ballo senza... Loro non vogliono che vengano commessi affronti, lo sai...! 
So come funziona. La zittì lui voltandosi. 
Jean si chinò per raccoglierla. 
Questa stupida svastica mi ha dato potere, ma fosse per me glielo darei anche indietro. 
Perché dici questo, perché? Dai, smettila. Vieni qui, amami.Disse Ginet mordendosi il labbro. 
Non posso pensare ad amare qualcuno se mi viene negata la libertà. Pronunciò quelle parole cercando di contenere l'astio, ma non aveva mai detto nulla di più vero. Quello era uno di quei momenti in cui l'immagine del divo svaniva per lasciare spazio a quella di un uomo venduto e Ginet non poteva capire. 
Dai, prepariamoci, dolcezza. Disse lui con un sorrisetto rassegnato, sistemandosi i capelli e mettendosi a posto la spilla. Adesso nel suo volto imperfetto ma che lasciava intravedere un fascino magnifico non c'era più astio, solo una profonda ironia. 
Poco dopo erano pronti per uscire. 
Lui guardò Ginet che si sistemava la veletta davanti allo specchio del salotto. 
A volte si sentiva oppresso dalla superflua presenza di lei, non riusciva a descrivere la sensazione. Poteva avere altre mille amanti e lei non avrebbe detto nulla, però se lui avesse osato insultare i nazisti avrebbe fatto un dramma. Era stato con lei solamente per una notte e poi si era quasi trasformato in innamoramento. No, non innamoramento. Era una scintilla che si era assopita dopo poco e adesso sentiva che non esisteva più. 
Guardando fuori le pose una domanda: Sei felice? 
Ginet si volto con un sorriso. Perché me lo chiedi?
Lo sei? 
Non lo so, forse. Sì, credo di si. 
Non ti senti arrabbiata quando i tedeschi ti trattano come se tu fossi una puttana? O forse lo sei...
Jean! Di nuovo quel flebile e stizzito rimprovero. 
Lui rispose con uno sbuffo, ma sapeva che questa volta avrebbe resistito. Non avrebbe spostato l'infelicità di coppia su una conversazione futile, voleva che anche Ginet respirasse quell'infelicità che stava per finire. 
Perché non vai a fare direttamente la puttana, eh? Chiese lui con sarcasmo.
Sei uno stronzo, Jean Russeau! Urlò lei. 
Credi davvero che io non sappia che lo scorso sabato pur di aver un po' di rilievo nella società sei uscita con Goebbels? 
Ginet iniziò a piangere. 
Joseph vuole solo aiutarmi...
Joseph?! Cristo santo, tu sei davvero una puttana. E da quando lo chiami per nome? 
Lei restò a guardare fuori dal finestrino, finché non sputò una risposta: Da quando ho una parte in un suo film. 
Jean alzò gli occhi al cielo per poi scoppiare ad una risata grossa e forzata. 
Le sue risa rimbombavano nell'auto. 
Sai, tesoro, perché non vai da lui e ti offri anche per sta sera? E dato che sei una donna indipendente e che sa fare le sue scelte perché non scendi dalla mia auto e vai a chiedere aiuto a der Fuhrer? 
Le lacrime bagnavano il volto di lei. 
Siete ignobile, monsieur. Quel tono di voce e il cambio di registro segnarono un evidente distacco. 
Ginet lo guardò con astio e lui rispose con un ultimo, violento bacio. 
Jean sapeva quanto il suo modo di vivere fosse terribilmente scorretto, ma sentiva che se gli fosse stato tolto quello lui sarebbe diventato davvero un manichino nelle mani del Terzo Reich. Se gli fosse stata tolta la passione con cui ora baciava una restia Ginet lui sarebbe stato un nessuno pieno di soldi. 
Vai via o ti fai accompagnare fino a villa Stradsberg, dolcezza? Chiese lui con un barlume d'ironia nello sguardo. Era divertito dalla faccenda, adesso. Non si trattava di fare buon viso a cattivo gioco, lui non l'avrebbe mai fatto. 
Jean la baciò di nuovo.
Ho voglia di bere qualcosa. 
Lasciami! Rispose lei invece. Basta, è finita. 
Uh, perfetto. Scusa, dolcezza. 
Entrambi tornarono a guardare fuori dal finestrino. 
Jean era sempre rimasto affascinato dalle relazioni complicate, come quella dei suoi genitori. Si erano sposati per poi iniziare ad odiarsi, quindi costretti a vivere nell'infelicità eterna. 
Per questo adesso trovò fascino in questa disarmonia, in questo battibecco. 

La casa degli Stradsberg era magnifica, densa di quell'atmosfera patinata. 
Guardandosi intorno si vedevano uomini in divisa o con il vestito migliore che avevano e ragazze che indossavano abiti costosi e pregiati ornate di gioielli diamanti. 
Le svastiche erano ovunque, diventando parte integrante di quell'oro, di quella sfrenata mondanità che un tempo gli apparteneva. Tutt'intorno a lui c'era la borghesia nazista, in tutte le sue più complesse sfaccettature. Ciò gli faceva venire voglia di vomitare, ma al tempo stesso si stava divertendo. 
Tutto il suo astio nei confronti dei nazisti stava venendo annegato dallo champagne, dal lusso di cui lui faceva parte. 
Proprio nel momento in cui entrava lui, scendeva lentamente le scale una bellissima Ester Stradsberg insieme a suo marito Wolfgang. Lei era avvolta in un vestito rosso e con una bellissima collana di diamanti e i capelli raccolti in un'acconciatura complessa. 
Ciò che lo affascinava in Ester era il modo in cui chiunque avrebbe potuto dimenticarsi del marito vedendola. Tanto era il suo carisma, tanta la sua bellezza.
Gli Stradsberg gli andarono incontro e lui si preparò a riceverli con un sorriso smagliante e il suo migliore tedesco. 
Ester! Wolfgang! Che piacere! 
Jean! Trillò lei, contenta. 
Lui baciò la mano di Ester e si rivolse al marito dicendo: Vostra moglie diventa più bella ogni volta che la vedo, Herr Stradsberg. 
Come risposta il marito annuì e fece un rigido sorriso, mentre lei ringraziava, raggiante. 
Dopo le convenienze si fermò in mezzo alla sala agghindata ghermita di persone in festa, rendendosi conto che non trovava nulla di cui festeggiare. Eppure ogni volta lo faceva; festeggiava. E per cosa poi? Per essere vivi? Per ringraziare della vita donata affogandola nel superfluo. 
Dall'altra parte dell'enorme sala, sotto lo stesso lampadario di cristallo, una ragazza si voltava incrociando lo sguardo di lui e voltandosi subito dopo con una risata sulle labbra. 
Jean aggrottò le sopracciglia. Quella avvolta in un abito dello stesso colore ambrato dello scotch e con i capelli castani riuniti in boccoli grandi era la stessa ragazza del ristorante. Emilie. 
Gli venne offerto del caviale e lo accettò ben volentieri mentre aspettava.
Emilie dall'altro lato aveva in mano un taccuino e sopra degli schizzi per un quadro, sentiva un impellente desiderio di muoversi, di fare qualcosa. 
Proprio quando Jean stava per andare da lei, dopo un bicchiere di liquore la raggiunse un ufficiale della Gestapo che la invitò ad unirsi a loro.
Il taccuino di lei rimase dimenticato doveva l'aveva appoggiato o meglio, fatto cadere. 
I passi di Jean risuonarono sul pavimento in marmo. 
Raccolse il taccuino, ma si trattenne dal desiderio di aprirlo e leggere ciò che c'era scritto. 
Sentì lo sguardo ostinato di lei, nei brevi istanti in cui si poteva voltare prendendosi una pausa dalle luride e poco divertenti battute dall'ufficiale Hoeffman. 
Le sfiorò la spalla seminuda facendola voltare a quel leggero tocco. Le labbra rosse socchiuse e l'espressione divertita. 
Vi è caduto questo. Disse. Sapeva che con lei avrebbe potuto parlare in francese. 
Merci! Buon uomo! Rispose lei ridendo; in una mano un calice di vino, nell'altra il taccuino appena restituito. 
Poi si voltò verso i nazisti che la stavano guardando incuriositi. 
Ah, Jean! Proruppe una voce da dietro. 
Hans Wesemann! Rispose lui con altrettanto entusiasmo, voltandosi. 
Il nazista gli venne incontro con un sorriso stringendogli la mano. 
Emilie dall'esterno osservava la scena bevendo e con sguardo accigliato. 
Il Colonnello le sembrava ancora più fastidioso e inquietante quand'era allegro e sorridente, come se da un momento all'altro avrebbe potuto avere uno scatto d'ira e uccidere qualcuno. 
I due le vennero incontro e lei salutò Hans. 
Sono davvero contenta che voi siate venuto, Herr Colonel. 
Il piacere è il mio, una casa fantastica quella della vostra splendida cugina. Disse lui con voce espressiva. 
Tra poco andremo tutti, o meglio, la gente più importante, nella biblioteca degli Stradsberg, Ester mi ha detto di invitarla. 
La fraulein è davvero gentile, ci sarò. Ringraziatela da parte mia. 
Jean con espressione desolata s'introdusse nel loro copione. 
Mi dispiace molto, Hans, ma ti dovrò rubare la mademoiselle. 
Wesemann sorrise e disse: Prego, è tutta vostra. 
Poi lui si immerse nelle chiacchiere da nazisti, lasciando Emilie in presenza di Jean. 
I due andarono verso le scale come se sapessero benissimo cosa fare. 
Merci. Disse lei sorridendo con amarezza. 
E di cosa?
Le loro battute non sono divertenti, le conversazioni noiose, gli argomenti irrilevanti. Poi prese un respiro perché aveva parlato troppo velocemente, sputando ciò che aveva da dire. Io sono Emilie Kaltenbatch, in caso non ve lo ricordaste. 
Jean sorrise. Ovvio che mi ricordo e... Dove stiamo andando? 
In biblioteca. Rispose lei, sicura. 
Camminava davanti a lui, che la seguiva per i corridoi patinati. 
Perché ci tenete tanto ad andare in biblioteca? Domandò lui. 
Ne ho voglia. Rispose lei voltandosi.
Quella donna emanava un'energia emancipata, che nella presenza dei nazisti veniva repressa. In quel momento Jean capì che ella gli stava donando una parte di lei che probabilmente non aveva dato a nessun altro sconosciuto. 
Emilie si appoggiò alle pesati porte della biblioteca e spinse, facendosi strada.
La biblioteca era uno spazio enorme, con scaffali di legno che arrivavano fino all'alto soffitto e tappeti pregiati che ricoprivano alcuni punti del parquet. 
C'erano anche dei divani in pelle verde scuro e un tavolino con gli alcolici. 
Emilie appoggiò la schiena alla libreria. 
Vi piacciono i libri? 
Sì, abbastanza. Rispose Jean guardandosi intorno. 
Qui, dove io mi sto appoggiando sono racchiusi molti saggi scritti da buoni tedeschi nazionalsocialisti. Li leggiamo insieme? Fece lei maliziosa togliendosi il giacchetto nero. 
Nonostante avesse visto donne e donne, Jean rimase affascinato da come il colore ambrato dell'abito esaltava la purezza delle sue trasparenze. Quando lei si voltò notò un neo sulla spalla destra. 
Ecco qui, disse lei prendendo un libro. 
Metti giù la biografia di Hitler, carissima. Più che altro, non vuoi qualcosa da bere? Disse lui indicando il bar. 
Sì, c'è dello champagne lì. C'è sempre dello champagne in casa Stradsberg; prendo quello. 
Bien. 
Lui le porse il bicchiere, i loro visi illuminati dalla luce fioca della biblioteca. 
Emilie bevve lentamente. 
Cosa ti ha spinto a venire qui a Parigi tutta sola soletta? Chiese Jean in tono ironico. 
Mi fanno tutti la stessa domanda. 
E qual è la risposta? 
La risposta che do sempre, intendi? 
No, la tua. 
Emilie sorrise. 
Per assaporare il fascino ripugnante della borghesia. Rispose con uno sguardo vacuo. 
Noi facciamo parte della borghesia. Obbiettò lui. 
Sì, questo è vero. Ma ha un discreto fascino se la osservi nel suo pieno invece che da un palazzo di Vienna pieno di gente aristocratica che pensa in modo così poco audace, che pensi? 
Lui sorrise. Quindi siete passata al tu! 
Si, si! E voglio che lo faccia anche tu. Ti prego, chiamami Emilie! 
Jean fu affascinato dalla passionalità con cui Emilie pronunciò quelle parole. 
Lui la guardò insistentemente mentre lei andava a rimettere il libro a posto. 
Sicuro che non vuoi leggere Mein Kampf? Domandò lei inclinando la testa. 
Jean rise. Grazie, cara, sto bene così. 
Emilie ricambiò la risata. 
Sei pregato di non ironizzare sul nostro Fuhrer. Sottolineò la parola nostro fissando la spilla sulla giacca di lui. Il tono di Emilie però nascondeva un sottofondo d'ironia che non la fece sembrare quasi del tutto credibile come se stesse solo imitando chi parlava in quel modo. 
Jean guardò i vari libri sugli scaffali. 
Quando vuoi andare dimmelo. Disse lei, sedendosi sulla scrivania con aria visibilmente annoiata. 
Attenta a non far cadere il... 
Oh, cazzo! Esclamò lei guardando la macchia d'inchiostro sul tappeto. 
Jean corse a vedere il danno. 
Tu sei un genio, Emilie Kaltenbatch. Disse ironicamente guardando in basso. 
Poi il vortice passionale che la travolse non fu affatto inaspettato. 
Jean stringeva i suoi fianchi, scendendo sempre di più, poi le teneva la testa prendendole i capelli con delicatezza e passione, disfandole tutti i boccoli. 
Lui la lasciò, facendola ondeggiare contro la scrivania.
Allora è così un bacio da Jean Russeau. Commentò lei in un appassionato sussurro. 
E c'è molto molto altro. Disse lui travolgendola di nuovo. 
Le labbra si toccavano ardentemente, nel tepore della biblioteca. 
In ogni bacio di Jean e sentendo la spinta del suo corpo sul suo Emilie si sentiva liberata. 
Si staccarono di nuovo, ma lui continuò a tenere il viso osservando i suoi occhi verdi spalancati verso di lui, lucidi per il desiderio. 
I loro respiri erano affannati, desiderosi d'aria. 
Jean sentì che avrebbe potuto osare, in quel momento. Avrebbe potuto alzare il vestito di Emilie, avrebbe potuto... 
Dimmi la verità, Jean Russeau... Interruppe lei i suoi pensieri, ipnotizzandolo come mai gli era successo. 
Perché hai deciso di collaborare? 
Lui fece una smorfia rassegnata. 
O collabori o perdi tutto, è così che funziona, dolcezza. 
Io ho tutto. 
Tu collabori. 
Sì, per amore della Germania. 
Di nuovo quel disco rotto s'impossessò della voce calda di lei. 
Jean la bloccò per le spalle. 
Dal momento in cui ti ho vista non ho mai creduto nel fatto che tu nutrissi una vera fede in Adolf Hitler. Dimmi tu la verità adesso. 
La verità? E potrei fidarmi di te? 
Sai che è un rischio, ma mi hai portato qui in biblioteca. I tuoi rischi te li sei assunti. 
Sì. Sussurrò lei. 
Poi gli buttò le braccia al collo. 
E lui lo fece, lui alzò il vestito e lei, seduta sulla scrivania lasciò che lui s'impossessasse del suo giovane e bellissimo corpo. 
Si sentì inusuale, libera, emancipata. 
Ebbe un gemito e lui fu soddisfatto nel sentirlo. 
In quel momento Jean non ricordava delle altre donne prima di lei, perché quando stava con una donna era sempre come se fosse la prima. 
Lei appoggiò la testa sulla spalla di lui, ansimante. 
Poi ciò che lui voleva avvenne, proprio come lui inconsciamente voleva che avvenisse. 
Fu sussurrato in una biblioteca semibuia, nel bel mezzo della frenetica attività parigina, fu flebile, subito schiacciato dalla presenza possente del lusso: Abbasso... Abbasso Hitler.

 
Angolo Autrice:

Ed ecco a voi il primo capitolo di Jean Russeau! *^* Sono contentissima di averlo scritto e...
Sì, sono pazza a far ehm... fare cose ai miei personaggi la seconda volta che si vedono. Eggià. AHAHAH.
Spero che la storia stia continuando bene e che vi stia piacendo. In caso di consigli, critiche e tutto quello che volete vi prego di lasciarmi un parere, per me è molto importante sentire l'opinione dei lettori. <3
Un bacio e alla prossima, miei cari;


Marlene


 

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Capitolo 8
*** Spring: Part 7 ***




Spring: Part 7


Emilie corse in bagno scossa da una scarica improvvisa d'adrenalina che interruppe la sua normalità. Un sorriso autentico e luminoso che sostava sulla sue labbra vermiglie. 
Non era tanto quello che avesse fatto con un semisconosciuto, quanto le parole da lei dette. Avrebbe potuto illuminare una sala intera semplicemente entrandovi. 
E così fece, quando tornò nella stanza e vide Jean che la osservava da lontano, come se non fosse successo niente... O forse no. Vedeva qualcosa di malizioso nel suo sguardo, ma quel qualcosa era sempre presente nello sguardo magnetico di lui. 
All'improvviso la sala si riempì della soave musica del valzer. Quello che le ricordava la sua infanzia a Vienna, quando ancora la presenza di Adolf Hitler appariva come qualcosa di talmente distante da non poter nemmeno sfiorare la sua famiglia. 
Aprirono le danze Wolfgang e Ester, nella loro immagine di perfezione che avrebbe potuto stregare chiunque. 
Loro volteggiavano con grazia al centro della sala e tutti li guardavano, poi Emilie si sentì chiamare da dietro e la voce maschile e fredda interruppe l'artefatto idillio degli Stradsberg. 
Fraulein, Kaltenbatch. Gradirei l'onore di un ballo. Era il Colonnello Wesemann e aveva la sua mano graziosa stretta nella sua. Il tono era di colui che non ammetteva repliche e che aveva già conquistato prima ancora di chiedere. Per lei sarebbe stato troppo pericoloso dire di no e andare a bere confinata in un angolo, così sorrise.
Con piacere, Herr Wesemann. Disse lei cercando di mostrarsi serena, mentre con rammarico guardava verso Jean, che beveva un bicchiere appoggiato al muro. Cosa strana per lui, il re di Parigi. 
Poco prima, quella stessa espressione l'aveva assunta Hans Wesemann, per poi andare incontro ad Emilie sfoderando uno sguardo cordiale. 
Hans le guardò la mano sottile. 
Come mai una signorina graziosa come voi non è ancora sposata? 
Nella sua voce c'era un tono di affetto, quasi. L'affetto un po' forzato fatto di convenevoli e baci che si puà provare nei confronti di una persona che non ti è rivale e che è nella tua stessa posizione sociale. 
Non ho trovato ancora l'occasione giusta. Rispose lei guardando il soffitto illuminato dai lampadari di cristallo e ripensando a poco prima, in biblioteca. 
Se qualcuno lo avesse saputo sarebbe stato uno scandalo. 
Un silenzio snervante avvolse i due. Hans la indagava con il suo sguardo freddo e impassibile, mentre lei continuava a ripensare a quello che aveva detto. Per un istante ebbe la sensazione che lui sapesse; ostentava una sicurezza che le faceva pensare che potesse sentire i suoi pensieri, ogni cosa. Si sentiva nuda, in mezzo alla sala ghermita di persone. 
Poi al secondo valzer Hans scattò facendole fare una piroetta e portandola al centro. 
Una cara persona, Jean Russeau. Commentò lui tra un passo e l'altro. 
Già. Disse lei deglutendo, per poi mostrare un sorriso. 
Lui la guardò dritto negli occhi per poi tornare a concentrarsi pienamente sulla danza. 
All'improvviso la sala si era svuotata al centro per dare spazio a loro e agli Stradsberg. Senza accorgersene avevano accentrato tutta l'attenzione su di loro. 
Non c'era una persona che non notasse lo sguardo desolato e gli occhi spalancati di Emilie, come quello impassibile di Hans, che era anche vagamente divertito, ma al contempo vedere Ester ridere felice e libera come una rondinella accanto a quell'uomo inutile gli recava fastidio. 
Nel momento in cui Wolfgang prese tra le sue braccia la vita sottile di Ester lui fece lo stesso con Emilie, ormai succube di tutto ciò che stava accadendo e splendente, ma ora come ora consapevole di questo. 
Poi le danze cessarono e Emilie venne posata a terra da lui, come fosse un oggetto che poteva essere usato a piacimento di chi ne ha la proprietà. 
Posso sapere cosa volete da me? Domandò lei nel momento in cui lui si allontanò leggermente, mentre le loro mani restarono unite. 
La sua fedeltà al Reich, fraulein.
Un ballo per la mia fedeltà al Reich? 
Lui sorrise a quella domanda quasi di sfida. 
Esatto. 
Ora era solo Emilie al centro di tutto, con gli sguardi indiscreti posati su di lei e quello di Jean che sembrava incuriosito dagli ultimi avvenimenti. 
Hans prese di nuovo la mano di lei e si inchinarono al loro pubblico inaspettato. 
Emilie guardò tutti con aria estraniata, confusa e smarrita. Poi sorrise, in quel modo che fece tirare un sospiro alla cugina. 
La sensazione che ebbe quando si distaccò dal Colonnello fu qualcosa di insolito, ma allo stesso tempo conosciuto. Sentiva, nelle allusioni e nel tono della sua voce che lui sarebbe stato sempre un passo avanti rispetto a chiunque. 
Ma non a me, non a me. Si ripeteva. 
Poi l'attenzione passò ad altro. Emilie non era più al centro degli sguardi perché adesso era nelle parole e nelle chiacchiere, era nello champagne, nel caviale. 
Jean Russeau la guardò e fu come se la sua voce limpida rimbombasse nella sala. 
Abbasso Hitler, diceva. 

Poco dopo, come premesso, si riunirono tutti in biblioteca. 
Ester tentò di fermare la cugina per parlarle, per dirle dei bisbigli. Emilie, dal canto suo, nel momento in cui al suo passaggio aveva sentito i bisbigli delle signore, aveva capito il gioco a cui aveva accettato di giocare nel momento in cui non aveva respinto il Colonnello. 
Le era stato insegnato a rispettare sempre un eroe nazionale, ma in quel momento Hans Wesemann aveva pensato solo a disonorarla, a metterla in ridicolo, ma d'altra parte aveva ottenuto un'altro effetto. 
In pochi secondi di ballo, l'aveva resa desiderabile. Emilie non voleva questo, desiderava popolarità, desiderava che i suoi quadri venissero comprati, voleva arricchirsi sempre di più e quello era il gioco a cui bisognava giocare se ci si voleva arricchire e Hans ne era un maestro. 
Passando e facendo accomodare tutti Ester notò una macchia sul tappeto. 
Cosa è successo qui? Diamine questo tappeto... Iniziò a bisbigliare istericamente. 
Te ne posso comprare altri mille altri, non c'è bisogno di fare drammi. Disse lui prendendola per la vita e facendola sedere vicino a lui. 
Allora, Herr Wesemann. Sa quanto sia un piacere averla qui con noi sta sera, quindi proporrei il primo brindisi a lei. 
Il tintinnare del vetro e i gridolini di gioia riempirono la sala. 
Emilie lanciò uno sguardo a Jean. 
Poi ripensando ad Ester in ansia per il suo tappeto le venne da ridere e quel sorriso fu ricambiato da lui, così che lei seppe che stavano pensando la stessa identica cosa. 
Non erano seduti vicini, e Hans Wesemann osservava calcolatore i loro scambi di sguardi. 
Be', miei cari, lasciate che vi dica una cosa. Il Colonnello Wesemann è a Parigi da poco, ma sono sicuro che lascerà un'impronta e un segno d'onore per la sua nazione. Era Moritz Fritsch a parlare, un ufficiale della Gestapo famoso per i modi innovativi di tortura delle sue vittime.
C'era qualcosa di vagamente raccapricciante nel suo vacuo e ampio sorriso.
Ti ringrazio molto, Moritz. Rispose educatamente Wesemann. 
All'improvviso sentirono bussare alla porta. 
Avanti! Urlò Wolfgang alzandosi. 
Si trovò davanti due ispettori della Gestapo, con la divisa da servizio. Uno di loro aveva un foglio in mano. 
Siete a conoscenza di una certa Emilie Kaltenbatch? 
L'interessata si alzò. Sono io Emilie Kaltenbatch.
Aveva un sorriso lieve sulle labbra, ma guardava i due con espressione concentrata. 
Abbiamo il dovere di comunicarla che un qualche infiltrato ha ucciso l'intera famiglia, in vostra assenza. Sono stati rilevati i cadaveri esattamente quest'oggi. I defunti sono Christoph Kaltenbatch, Johanna Kaltenbatch, Leon Kaltenbatch il primogenito e Christiane Katlenbatch la terzogenita. 
A quell'affermazione il silenzio prese a regnare e per la seconda volta Emilie Kaltenbatch fu protagonista. 
Si guardò intorno, un tremito iniziare del labbro, gli occhi offuscati. 
Siete sicuri che... Ma come è successo? Domandò, con l'aria di chi sta mostrando una grande forza d'animo. 
Strinse la gonna del vestito tra le mani, in uno scatto di rabbia. 
Ma come! Come! Com'è potuto accadere! Dio, abbi pietà di me! 
Emilie cadde a terra, come un fantoccio senza vita. 
Qual è il motivo di tale odio nei confronti della mia famiglia? Quale?! Chi osa un così ignobile atto? Urlò, tra le lacrime. 
Ester guardò il marito, in preda all'angoscia. 
Cugina mia adorata, sono con te con tutta la mia anima! Disse con passione e le guance arrossate inginocchiandosi accanto a lei, unendo le sue lacrime alle sue e baciandola sulla guancia con affetto. 
Hans sentì l'impulso di fare qualcosa, qualsiasi cosa che gli facesse acquistare una posizione, ma al contempo sentiva la nausea davanti a tutta quella dolcezza diabetica. 
Chi i sospettati di questo fatto terribile? Chiese con il tono di voce inflessibile che riservava a chi gli era inferiore di grado e che faceva trasparire ancora di più l'accento berlinese.
Non sappiamo nulla riguardante i possibili sospettati, ma le nostre squadre sono al lavoro per scoprilo al più presto, mein Fuhrer. Rispose uno dei due ufficiali della Gestapo. 
Ist gut. Disse Hans rigidamente. 
Jean aveva ormai rinunciato a una qualsiasi presa di posto mondana e se ne stava in fondo alla stanza aspettando un buon momento per porre le sue condoglianze ad Emilie. 
Ester piangeva a dirotto come se il male fosse direttamente capitato a lei. 
Andarono nella stanza dei coniugi Stradsberg in modo che Emilie potesse riprendersi. 
Che disgrazia, che disgrazia! Balbettavano tutti. 
E Emilie piangeva, e piangeva, nel modo migliore e più carino che le riuscisse. 
Era quasi un corteo funebre quello che scese le scale per tornare alla sala principale in cui si tenevano le danze. 
La musica cessò. 
La notizia si era diffusa con una velocità disarmante passando per labbra in labbra. 
E all'entrata della povera Emilie sorretta da Ester e dal corteo che le stava dietro la stanza si riempì di voci in un suono comune, disumanizzante. 
Heil Hitler! Heil Hitler! 
Anche Emilie si sforzò di ricambiare il saluto nazista che ormai tutta la sala le rivolgeva. 
E ogni tanto faceva in modo che il suo sguardo incrociasse quello di Jean, come se in lui cercasse qualcosa. Qualcosa che la discostasse dal fatto che ora era un'eroina e che la stavano salutando come tale. 
  Hans Wesemann la colse come un'occasione. 
L'insulto alla famiglia Kaltenbatch è un'insulto allo stesso Reich! E per la gloria di esso dobbiamo ritenerci indignati come se la famiglia deturpata fosse la stessa di ognuna di noi.
I volti delle persone mutavano alle parole di Wesemann. Le sue parole facevano mutare le espressioni degli ascoltatori al variare del tono e dei segni percettibili. 
Anche Wolfgang si pronunciò per rappresentare il suo rammarico per la perdita dei Kaltenbatch. 
Ma nel momento in cui Emilie svenne tra le lacrime e i singhiozzi, sgretolò ogni tentativo da parte degli altri di sottrarle la scena. 
C'erano persone che adesso avevano le lacrime agli occhi e tutti accorrevano a lei. 
Povera, ragazza! Dicevano le mille voci nella stanza. 
Si rianimerà? Oh, povera la mia cugina adorata! Chiamate un medico! Urlava Ester piroettando nel suo vestito rosa tutto svolazzante in preda ad una crisi isterica. 
Chiamate un medico, per Dio! Esclamò Herr Stradsberg dinanzi le pressioni della moglie. 
E al centro di tutto, posto sul pavimenti lucidi, sotto i soffitti dorati posava il corpo splendido di Emilie Kaltenbatch, con il viso incorniciato dagli splendidi e lucidi capelli castani.  
Il mondo roteava, ma lei era lì e le urla di Ester, gli ordini ferrei di Wesemann e gli interventi di altri rappresentati nazisti, non avrebbero mai potuto cancellare la sua presenza.  
Il giorno dopo, i giornali nazisti distribuiti in gran parte dell'Europa avrebbero parlato di lei, dell'affare Kaltenbatch, la famiglia deturpata dalla minaccia ebrea. 
Se Emilie Kaltenbatch non si fosse impegnata per dare una soddisfacente messa in scena della perdita dei sensi avrebbe potuto godersi la gloria del momento. Una gloria che poteva dare solo la morte stessa, ma non era detto che dovesse essere per forza la sua.

 
 
Angolo Autrice:

Ehilà! In questo capitolo si è svelata una parte importantissima della personalità di Emilie. Ovvero questo alone di mistero legato alla morte della sua famiglia e che verrà in parte svelato nel prossimo capitolo. Come avete visto il buon vecchio Wesemann sta prendendo posizione e sì, il ballo era solamente per torturare Emilie.
Devo confessare una cosa, prima di ritirarmi nel mio angolino, e cioè che per qualche istante ho shippato Emilie/Hans. Lo so, sono pazza perché sono io la scrittrice e shippo coppie che non sono canon in una mia stessa storia, but it doesn't even matter if I'm crazy, don't it?
E vabbe' i miei deliri finiscono qui, vi lascio. AHAHAHA. *^*
Auf Wiedersehen,

Marlene

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Capitolo 9
*** Spring: Part 8 ***





Spring: Part 8


Il successo di Emilie Kaltenbatch inizò con un Requiem. 
La morte improvvisa dei possibili eredi della fortuna familiare rese Emilie l'unica possibile candidata.
Vennero incolpati degli anarchici per il delitto, ma la cosa risultò abbastanza ambigua. Emilie fu sinceramente lieta che la farsa stesse andando bene, ma era dominata da una profonda inquietudine, nel profondo di sé. 
La sua famiglia era sempre stata fortemente simpatizzante alle teorie nazifasciste e si era sempre sentita così sola, rinchiusa nella sua stanza a leggere tutti quei libri proibiti come una piccola e patetica adolescente incompresa. O almeno lei si sentiva così, ma la sensazione di benessere quando sentiva di avere ragione su qualcosa nonostante tutti dicessero il contrario la rendeva viva. 
La rendeva viva anche ascoltare lo swing, sempre nella sua camera, fingendo che quelle stupide bambole appoggiate alle mensole le piacessero. 
Si sentiva oppressa dalla sua famiglia, che avrebbe venduto l'anima al diavolo pur di apparire bene e che continuava a bacchettarla parlando di buone maniere. Sentiva sempre il desiderio di avere dei momenti di sfogo e per un po' li aveva trovati, ma poi tutto era finito. 
Adesso quella sensazione magica gliela aveva fatta provare Jean, rendendo vivido il pensiero che da sempre, fino ad allora non si era concessa.                                                                                                                                                                                                                                                     
Ricordava i ricatti di Leon e l'indifferenza di Christiane, sempre presa dal suo amore non ricambiato per un giovane soldato. In questo Ester gliela ricordava molto. Lei cercava sempre di apparirle più vicina possibile. Una brava ragazza al servizio della sua nazione. Il ricordo che aveva di lei era quello della ragazzina bionda con la divisa della Bund Deutscher Madel e le treccine. 
Quella che leggeva poesie in onore del suo Fuhrer e che era sempre la prima quando si trattava di onorare la sua nazione senza mostrare una vera opinione. 
Effettivamente non esprimere un'opinione significativa era più semplice rispetto alla continua lotta interiore di Emilie, che adesso si sentiva con il fiato del Colonnello Wesemann e piena di sentimenti contrastanti dentro di sé. 
Cercava di regalarsi dei momenti di pace quando si rinchiudeva nella stanza degli ospiti senza nessuno a disturbarla, solo se stessa, sdraiata sul letto a leggere o a fare qualcos'altro. 
Adesso poteva ammettere con se stessa ciò che aveva fatto. Aveva commissionato l'omicidio della sua famiglia per ottenere soldi, fama, libertà. Prima aveva pensato che probabilmente poi si sarebbe sentita in colpa, ma adesso era completamente consapevole della forza del falco che era dentro di lei. Ora conosceva pienamente il suo senso di ambizione che prima era inesplorato o esplorato solo in parte. 
Fu in questi giorni di lutto prima del funerale che ideò quello che sarebbe dovuto essere il suo quadro migliore. 
Prima d'allora si era accinta a dipingere paesaggi, nature morte e un'infinità di quadri propagandistici per il Reich. I suoi genitori probabilmente non avrebbero mai accettato l'idea di una figlia artista ed era anche per questo motivo che la loro morte significava libertà. Volevano che diventasse una brava moglie, come voleva essere Christiane. 
 In quei giorni di lutto e compatimento, Emilie sperimentò la felicità delle piccole cose. Del tè a tutte le ore del giorno, dei libri, della solitudine più totale anche se poteva udire gli urletti isterici di Emilie dall'altra parte della casa, ma il silenzio era quello presente nella sua mente che adesso era completamente libera da qualsiasi catena. Ci mise un po' a capire che non si trattava solamente della morte dei genitori, ma anche dalla frase sussurrata in biblioteca. Questa volta non era stata distrutta dalla mondaneità e ciò non sarebbe successo, per questo sentiva il desiderio di vedere Jean. Era anche suo il merito della quasi indipendenza che provava in quel momento. 
Poté anche interrogarsi su cosa fosse l'amore. L'amore non era quello di Ester per Wolfgang, quella era la devozione che una bambina inconsapevole prova nei confronti di colui che la salva dal lupo cattivo e l'amore non era nemmeno quel sentimento eroico che veniva descritto nei libri. Emilie si sentì indifferente nell'accorgersi che l'amore più intenso che provava era quello per se stessa. E quell'amore le aveva impedito di concedersi ad un uomo che non fosse egoista quanto lei. Ma ancora non capiva cosa quel sentimento implicasse davvero. 
L'unica certezza in quel momento era la morte, ma ciò non toglieva che dovesse incontrare Jean. Provava sentimenti ambigui e indistinti nei confronti dell'uomo che con la sua distinta seduzione l'aveva costretta a pronunciare le parole che voleva dire da tempo. 
Ester non disse nulla quando Emilie uscì di casa per andare chissà dove con la scusa di fare due passi. 
Aveva telegrafato Jean poco prima e si sarebbero visti al caffè La Clarisse.
Lei si era vestita completamente di nero, come si usava per mostrare il lutto e una veletta rendeva ancora più misterioso il suo sguardo intenso. 
Lo intravide appena fuori dal caffè con le mani in tasca e un mezzo sorriso. 
Apprezzo il tuo sostegno morale. Commentò Emilie dopo i saluti. 
Lui rise. 
Senti, mademoiselle, questo bar è pieno di nazisti e sinceramente non vorrei che ti sfuggisse di nuovo una certa parolina... Insomma non in mia presenza. 
Ovvio. Tu pensi che io volessi davvero venire qui? L'ho fatto solamente perché mia cugina si fida solo a lasciarmi andare accompagnata dalla Gestapo... Ha paura che io svenga o che mi suicidi in mezzo alla strada. 
Ah, premurosa la cuginetta. Rise lui accendendosi una sigaretta. 
Vuoi? Aggiunse poi. 
Emilie sorrise provando la calma e allo stesso tempo l'eccitazione che avvertiva solamente immergendosi tra le pagine di un buon libro. 
Jean le accese la sigaretta. 
Mercì. Disse lei aspirando appoggiata al muro con la schiena. 
Lui si voltò verso il bar. 
Allora, mia mademoiselle in nero, per dove ci avviamo? Domandò con tono intraprendente. 
Per ora non ho preferenze, scegli tu. 
D'accordo, andiamo. Disse lui incamminandosi con il suo fare disinvolto.
Jean Russeau e Emilie Kaltenbatch in quel momento divennero padroni del centro storico di Parigi. I soldati nazisti venivano eliminati dal loro subconscio, perché sarebbe stato come vedere continui difetti in un quadro. 
I miei complimenti. Disse lui all'improvviso, afferrandole entrambe le mani. 
Si bloccarono. Non importavano i soldati; Emilie era certa di voler vivere appieno il suo egoismo, come aveva fatto nella biblioteca, perché non esisteva nulla di più piacevole di esplorare i sentimenti che le erano stati negati. 
È stata la messa in scena più convincente che io abbia mai visto e il piano più geniale, non sto scherzando. Sei una SS mancata. Quella triste battuta non era fatta con cattiveria, ma solo con la dolce amarezza delle foglie di un tè scadente.  
Emilie si sentì completamente piena, non contava nulla per lei se non la sua felicità personale e Jean in quel momento poté dargliela. 
Fu lei a travolgere le sue labbra, con amore, con passione. 
Fu lui a ricambiare quel bacio intenso come può esserlo solamente un sentimento d'odio oppure qualcosa di totalmente contrario. 
La morte fu galeotto per Emilie e Jean che inconsapevoli continuavano a baciarsi bloccando il passaggio. 
Poi si staccarono e ripresero a camminare come se nulla fosse, come se Parigi fosse la stessa di com'era prima dell'occupazione. 
Avrei tanto voluto che la vedessi, era così... Viva. Disse poi Jean. 
Emilie restò per un po' a guardarlo in silenzio. 
Allora perché indossi quella spilla? Non ti fa schifo guardarti allo specchio ogni mattina? Sei un collaborazionista, Russeau. 
Jean non riuscì a decifrare subito l'aggressività di Emilie, ma ne rimase irritato. Quelle erano cose che diceva a se stesso e la propria immagine a volte lo disgustava, ma lei metteva a nudo quei sentimenti di ripudio come se fossero nascosti semplicemente da un leggero e sottilissimo velo. 
Lo denudava umiliandolo, per poi restare indenne. 
Tu porti la stessa spilla, Kaltenbatch. Rispose lui, non sentendosi volenteroso nel baciarla dopo quella aggressione. 
Emilie rise. Siete un vigliacco. 
Era così carina mentre lo diceva, così carina e così crudele. Jean la percepì come la sua punizione dopo la gente finita male per colpa sua, ma non si sarebbe mai aspettato che la sua punizione avesse le sue fattezze di stupenda imperfezione. 
Forse lo sono, sai? Ma cosa conta l'onore quando al mondo non importa? 
Lei si sentì scaldare il cuore da quelle parole così vere, sincere. Fuori da qualsiasi idillio di perfezione, perché il mondo era imperfetto e sarebbe sempre stato tale. 
Emilie si avvicinò a lui, alzando un po' lo sguardo in modo che i loro sguardi si incrociassero. 
Niente. L'onore non conta assolutamente niente. Disse lei sorridendo. 
Un'altro bacio, per un'altra pagina della loro filosofia personale che stavano scrivendo insieme. 
Portami a casa tua! Urlò lei all'improvviso. 
Oh, sì! Di sicuro lì non ci saranno nazisti. Esclamò lui con ilarità.
Emilie rise di cuore. 
  La morte era solo l'inizio di tantissime altre vite, pensò.  

La casa si apriva in due larghe scale appena cerate su cui era posato un tappeto bordeaux. 
Tutto per Emilie era l'emblema del desiderio, dell'oro, della ricchezza immorale che non voleva nascondersi dietro ad un concetto nazionalistico d'onore. E Jean che correva su per quelle scale, come per dire seguimi, vieni con me. 
E lei avrebbe detto si. Sì, lo voglio. 
Jean afferrò il suo braccio, sorreggendola nel mentre le sue labbra venivano aggredite da un sensuale bacio. 
Fammi vedere tutta la casa, Jean. Voglio vederla. Disse lei con voce limpida.  
Lui sorrise. Va bene, la vedrai. 
E così si avviavano per quella casa enorme e vuota, con pochissima servitù. Solo loro e i corridoi. Le pareti erano abbellite da quadri, talvolta si potevano notare opere d'arte. E ciò era fantastico, perché Emilie amava l'arte, amava come l'essere umano potesse esprimersi mostrando completamente il suo Io. 
Visitarono ogni stanza, anche la biblioteca, ma da decisero inconsciamente che questa volta non sarebbe avvenuto lì uscendo dalla stanza. 
Entrambi parlarono poco, limitandosi a qualche frase spezzata a qualche sospiro. 
 La camera da letto di Jean Russeau, in cui poco prima dormiva anche Ginet era magnifica. Il letto matrimoniale era stato rifatto alla perfezione, avevano addirittura cosparso dei petali di rosa rossa sopra il copriletto.
Emilie cadde sul letto sospesa in una dimensione ovattata, in cui gli unici suoni erano le sue risa e i respiri di Jean. Poi si destò e tutto era troppo realistico, troppo magnifico. 
Si tolse la veletta e le dita attorno ad essa si schiusero fino a farla cadere a terra. 
Jean le sorresse la testa, afferrandole i capelli, ma senza farle troppo male. 
Emilie Kaltenbatch era per la prima volta era succube di qualcuno per sua volontà e quel qualcuno era sopra di lei e le stava slacciando il vestito. 
Sei la donna in lutto più bella ch'io abbia mai visto, Kaltenbatch. Sussurrò con le labbra appoggiate alla sua pelle liscia. 
Lei sorrise debolmente, troppo presa dal momento per riflettere appieno sulla situazione. 
Si lasciò di nuovo cadere all'indietro, sprofondando nel materasso, tra i petali di rosa. 
Jean colse del momento, per seguirla negli ondeggiamenti del suo corpo. Le sue curve vennero rimodellate dal tatto di lui, dai baci leggeri e poi più passionali. 
  Jean si bloccò a guardarla dritto negli occhi.
Tu mi vuoi. Disse; non era una domanda. 
Emilie restò per un po' con la bocca semiaperta e gli occhi spalancati.
Io... Ti... Voglio. Pronunciò ansimando. 
Ti voglio, non ti amo. Era quello il loro tocco di classe. 
E Emilie riuscì ad apprezzare ogni singolo istante di quella loro riscoperta di sè, un viaggio magnifico che potevano condurre insieme. 
Era un crescendo d'adrenalina, di passione. Tutte contenute in una stanza che dava verso Parigi; Emilie era certa che lì avrebbe trovato fortuna e adesso pensando ai genitori morti non si sentì più così in colpa, come spesso si sentiva. 
Per la prima volta, tra le braccia di Jean e tra quelle del destino in cui tanto credeva sentì di aver individuato davvero i nazisti come nemico. Erano il nemico e in quanto tale andavano eliminati. Ma sì, lo ammetteva a se stessa che si era venduta pur di ottenere più fama e nemmeno se ne vergognava. 
Ora che il nemico era chiaro, però, i sensi di colpa erano qualcosa che non avrebbe potuto nemmeno sfiorarla da quanto erano lontani. 
E questo l'amore! Urlò al culmine del suo piacere. 
Poi le spinte di Jean smisero e i due restarono sdraiati sul letto. 
Questo è volere, Emilie. E se vuoi una cosa... - venne scosso da un gemito - ... Te la prendi. Disse lui. Aveva uno strano scintillio negli occhi che Emilie identificò con ambizione. 
Lui afferrò una manciata di petali e gliela fece cadere dolcemente sul viso. 
Emilie sorrideva allegra, come si sentiva raramente. 
Lei gli afferrò il viso e lo baciò ancora, poi Jean si alzò per azionare il grammofono. 
Una commerciale canzone tedesca che non significava niente. Uno di quei motivetti allegri che si sentono nei bar, cantato da Willy Fritsch e Lillian Harvey. 
Anche Emilie si alzò. 
Questa canzone è completamente stupida, la detesto. Disse. 
Oh, anch'io... Però tu mi devi un ballo. Rise lui mettendole una mano sul fianco in questa intimità nuova per Emilie. Quei gesti con lui non erano cortesia, erano veri. 
Va bene, balliamo. Accordò lei improvvisando una piroetta. 
Risero avvolti dalla musica, mentre dall'altra parte della città nello stesso preciso momento un auto nera si fermava sotto la casa degli Stradsberg.

 

Angolo Autrice:

Oh, bien sono finalmente riuscita a pubblicare! YAY. *^*
In questo capitolo c'è ancora tanta tanta tanta Jemilie, ma state sicuri che nel prossimo ci sarà molta Hanster.
Spero che io stia riuscendo a portare avanti bene la storia rendendo credibile l'epoca storica e i personaggi. Specialmente in questo capitolo in cui inizio ad esplorare un lato più infido e contorto della personalità di Emilie. Quella di ragazza egoista, ironica e molto intensa. Voglio rendere umani i miei pesonaggi e spero tanto che io ci stia riuscendo.
Il prossimo capitolo sarà di Ester, perché mi sento in colpa a darle così poco spazio AAHHA. 
Un grazie a tutti coloro che stanno seguendo la storia.
Auf wiedersehen;

Marlene

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Capitolo 10
*** Spring: Part 9 ***





Spring: Part 9
 


I passi risoluti di Hans Wesemann risuonavano sul marmo delle scale all'ingresso. 
Casa Stradsberg era memore di una giovinezza proibita, quella di Ester e dei sentimenti di speranza che erano stati trasportati via insieme alle foglie d'autunno. 
Il maggiordomo aprì il portone con aria ossequiosa. 
Heil Hilter. Disse. 
Heil Hitler, sono il Colonnello Wesemann. Si presentò togliendosi il cappello con il teschio simbolo delle SS. 
Sono qui per parlare con Emilie Kaltenbatch, se mi è possibile. Aggiunse con un sorriso sbilenco. Quel se mi è possibile era davvero un tocco di classe; sapeva benissimo che nessuno gli avrebbe mai chiuso la porta in faccia. Il maggiordomo, infatti, annuì con aria compita. 
È uscita, ma tornerà presto. Nel frattempo posso farla accomodare, Herr Wesemann. 
Wunderbar. Esclamò lui. 
L'enorme palazzo era diverso senza tutte le persone e le decorazioni da festa. Volse la testa verso i soffitti alti e ben decorati con lampadari e affreschi.
Faccio chiamare Frau Stradsberg, attenda pure qui all'ingresso. 
L'ingresso era immenso e costituiva quella che era la sala delle feste. 
Hans si tolse i guanti di pelle nera e li infilò nella tasca del giaccone. 
Ripensandoci era strano sentire che la piccola Ester veniva chiamata Frau. Signora. Detto così chiunque avrebbe immaginato una donna seria e sulla cinquantina, non quella dolce rondinella dal corpo vivace e gli occhi brillanti, ma sempre velati da una certa malinconia che lui ancora non riusciva a comprendere. 
Frau Stradsberg lo raggiunse con il suo passo leggero, facendo muovere le rouches del suo abito francese, mentre il suo volto spaesato era illuminato da una collana di perle.  
Heil... Heil Hitler. Disse con voce soave, ma non frivola. 
Quando lui, dopo aver ricambiato il saluto, la fissò dritta nei suoi smeraldi dalle sfumature nocciola, lei si affrettò a guardare verso il basso. 
Hans non riuscì subito ad identificare quel gesto, ma si affrettò a baciare intensamente la sua piccola mano godendo di quella poca intimità che riusciva ad ottenere da lei. 
È un piacere, ma mi domando il perché di questa visita, Herr Colonel. Disse lei, questa volta con più sicurezza e accennando un tratto di sorriso sulle piccole labbra. 
Hans sorrise distrattamente. 
Una formalità che sono tenuto a svolgere per... Sa... L'Affare Kaltenbatch, come è stato nominato. 
Ester annuì. 
Be', capisco. Credo che tornerà verso sera.... Nel frattempo vuole un caffé? Qualcosa da bere? Domandò lei sbattendo le ciglia più volte. 
Nonostante ad Hans sembrassero studiate alcune mosse di lei, intuiva la sua inconsapevolezza giovanile. Era lodata da tutti, ma malgrado ciò non si voleva bene. Era sicuro che superata la fanciullezza sarebbe diventata più consapevole e sicura, un po' come quella stronza di sua sorella Emilie, almeno a detta di Hans. 
La moglie bambina sospirò, come prossima alle lacrime. 
Hans la fermò per il braccio.  
Non c'è alcuna ragione di avere timore, semplici formalità, gliel'ho detto. 
Lei ebbe la scaltrezza di voltarsi velocemente con un fruscio del velluto rosa, dandogli così le spalle. 
Puoi chiamarmi Ester. Sussurrò velocemente come se non volesse essere sentita, nemmeno dal suo arguto interlocutore. 
Ancora non ti posso dare il permesso di chiamarmi Hans, ma sarò lieto di fare come dici... Ester. Un nome incredibilmente intenso e dolce. 
Lei si voltò con quegli occhi da cerbiatto spalancati, come ad accusarlo. 
Per un misero istante Hans si meraviglio di tanta insolenza. 
Sicuro che non vuole nulla da bere? Domandò come se nulla fosse. 
Wesemann si ricordò solo allora di essere in piedi al centro della stanza, immerso in uno di quei silenzi talmente profondi da essere snervanti. 
Guardò il grammofono. 
Per me va benissimo un espresso. Rispose, puntando tutta la sua attenzione sul grammofono posato sulla credenza. 
Hai qualcosa di Mozart? Chiese. 
Mh, ja. Certamente. Rispose lei; scelse il primo disco di Mozart dalla collezione e lo mise su. 
Si sentiva incredibilmente irritata da quella visita, ma infondo sentiva un piacere quasi masochista nel parlare con quell'uomo privo di vergogna alcuna nei confronti dei suoi atti. 
Chiamò Pier, il maggiordomo, e chiese per avere caffè e per lei un bicchiere d'acqua. Si sentiva la gola inspiegabilmente secca, inaridita. 
Su, si sieda. Disse lui con un tono gentile, ma che non ammetteva repliche, indicando il divano. 
Quando si sedettero, lei provò una sensazione di vago imbarazzo, mentre lui la studiava con aria imperterrita. 
Ester accavallò la gamba e per un secondo furono visibili una striscia di pelle e il reggicalze, che lei si affrettò a coprire immediatamente. 
Hans si ritrovò compiaciuto da quella visione eterea e impura al tempo stesso. 
Voleva sentire il profumo di lei, toccarla... 
La mano di lei tremava leggermente e ancora lui non comprendeva il motivo di tanta paura.  
La fece voltare verso di lui, a cui tutto era concesso e scostò dal suo giovane viso una ciocca ribelle di capelli biondi. 
Le sue mani ebbero contatto con la pelle liscia del suo viso, quando le accarezzò la guancia rosea.
Ester sentì un brivido scorrere dentro di lei, ma non aveva freddo. 
Ho conosciuto tua madre quando vivevo a Berlino... Le somigli proprio tanto, sai, bambina mia? Disse infrangendo l'intimo silenzio che era calato. 
La guardava negli occhi, la mano posata sulla calda guancia di lei... I suoi occhi brillavano e Hans non riusciva a capire se fosse per gioia o paura. Ester sorrise leggermente, adesso ricambiando l'intensità dello sguardo. 
Poi all'improvviso si scostò da lei, terminando quella punizione che sembrava volerle infliggere. 
Lei puntò lo sguardo smeraldino verso i cristalli del lampadario. 
Non vedeva l'ora che quella tortura terminasse; non vedeva l'ora di sentire i passi pesanti del Colonnello Wesemann allontanarsi verso la porta. 
Pensava ai libri proibiti abbandonati nel soggiorno di camera sua non aspettando visite, dato che il marito era a Vienna per lavoro. 
Voleva sapere di più sul comunismo, che sapeva esistere allora in Russia. Dai libri sembrava quasi bella l'idea di rivoluzione, ma di per sé non le interessava un cambiamento politico - che tra l'altro l'avrebbe svantaggiata in quanto parte della borghesia -, ma leggere le dava un senso di libertà e la faceva sentire compiuta. 
Quei libri li aveva comprati in una libreria a Berlino e li aveva portati lì. Alcuni immaginava li avessero salvati dai roghi, perché erano un po' bruciacchiati sui bordi. 
 Non osava pensare cosa avrebbe fatto l'uomo seduto accanto a lei se mai li avesse visti. 
Si ricordava di alcune persone sorprese per tradimento, picchiate per strada dalla Gestapo. Sentiva una paura, flebile all'inizio, impossessarsi di lei. 
Hans Wesemann era così vicino a lei che ne sentiva il respiro. 
Si alzò all'improvviso.
Non capisco perché il caffè tarda ad arrivare! Disse istericamente. 
Pier! Pier! A che punto siete con il caffé? La cucina si è presa un giorno di ferie?
Era strano, non si comportava mai così, ma in quel momento le era sembrato l'unico modo di sfuggire allo sguardo indagatore di Wesemann, che sapeva seguirla ancora senza lasciarla mai.
Venne servito il caffè, che Wesemann bevve velocemente. 
Mi dica, ha notato comportamenti strani in sua cugina? Chiese. 
Mh... Nein. 
E cosa sapeva dei Kaltenbatch? 
Be', erano i miei zii e spesso andavo a far loro visita, anche se ultimamente meno e ero molto affezionata a loro. 
Capisco... 
Già. 
Hans Wesemann sorrise. 
Che mi dici dei gusti letterari di fraulein Kaltenbatch? Disse con sguardo feroce, consapevole di aver fatto centro, notando lo sguardo spaurito di lei. 
L'unica viva, intendo. Si affrettò a precisare con una punta di ironia.
Poi il portone si aprì e poco dopo i passi di Emilie aleggiarono nella sala. 
  Hans si alzò di scatto. 
  Fraulein, Kaltenbatch! Disse con un sorriso sprezzante, ma non troppo.
  La stavamo giusto aspettando. Aggiunse tendendo le braccia. 
  Lei si immobilizzò, incontrando lo sguardo di Ester, ferma dietro il nazista. Non fece nemmeno caso al modo in cui la cugina la guardò spaurita, né a come lui la fissava indagatore. 
Ebbe voglia di vomitare, ma poi si espresse in un sorriso che riuscì a sembrare quasi spontaneo, dopo qualche secondo di sbigottimento. 
Poi lo sfidò, tendendo l'arco: Il piacere è tutto mio, Herr Colonel. 
Si avvicinò, pronunciando le ultime parole con ironia, incontrando il suo sguardo fermo. 
L'aveva voluto lei. 


Angolo Autrice.

Heilà!
Vi faccio un regalo di Natale in ritardo aggiornando in ritardo! Yeah, sono un genio del tempismo. AHAHAH.
Ancora non è giunto il momento di esplorare a fondo la personalità di Ester, ma tra qualche capitolo sarete accontentati. E saranno accontentate anche coloro che shippano Hanster (una standing ovation per Ilaria che ha inventato questo nome)! *^*
In questo capitolo ho provato a mettere la giusta tensione sessuale, un arduo compito, ma spero di esserci riuscita!
Be', ora mi ritiro nel mio angolino.
Un bacio e alla prossima;

Marlene

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Capitolo 11
*** Spring: Part 10 ***




Spring: Part 10 

Emilie. Disse Ester sbattendo le ciglia lunghe. Ti aspettavo più tardi. 
La cugina guardò Hans, poi lei, e poi di nuovo Hans. 
Volevo prendere una boccata d'aria fresca. Sai, tutto questo dolore mi ha fatta sentire incredibilmente vecchia. Fece con aria teatrale e un po' vissuta, scostandosi lo scialle. 
Ester rispose con un debole sorriso, calmandosi improvvisamente. 
L'isterismo di poco prima era qualcosa di passato, sembrando talmente lontano da renderla intoccabile, ma sapeva che non era così.
Ora che il Colonnello Wesemann era entrato nella sua vita momenti come quelli sarebbero o stati così frequenti.... Un po' era infastidita dal comportamento di Emilie, ma non riusciva a capire perché. 
Hans si voltò velocemente verso Ester. 
Mein frau, sarebbe così gentileda indicarmi un posto in cui io e la signorina potremo discutere in privato? 
Sì, be' potete andare nello studio di mio marito. Rispose lei servizievole. 
Marito. Quella parola fece uno strano effetto ad Emilie. Marito. Moglie. Due istituzioni base di quella che era considerata la famiglia. 
Non riusciva a capire il senso del matrimonio della cugina ed era davvero felice di essere scampata a quel destino. Magari tra pochi anni sarebbe stata vista male dalla società, considerata una zitella, ma sarebbe sempre stata libera. Con la morte dei genitori le era stata garantita una libertà che altrimenti non avrebbe avuto. 
Se i genitori fossero stati ancora lì presto avrebbe dovuto cercarsi un marito oppure l'avrebbero cercato loro. 
Lei la falsità di Ester non la voleva. 
Lei voleva poter fare tutto ciò che si potesse desiderare a qualsiasi ora del giorno e della notte, svegliarsi e trovare l'altra metà del letto vuota, poter pensare, poter amare, poter vivere. Amare non era sposarsi, per Emilie Kaltenbatch, e quello degli Stradsberg non era affatto amore. 
Quello di lei e Jean sarebbe potuto diventare amore e fin da subito aveva capito che ciò che Hans nutriva era un'ossessione e non poteva essere altro che quello. 
Grazie per l'offerta ma preferirei... - Hans fissò intensamente Emilie - la biblioteca. 
Quelle parole colpirono sordamente Emilie per i ricordi celati in quel luogo e perché capì che lui in qualche modo sapeva, e Ester che lì, aveva nascosto malamente alcuni dei suoi libri proibiti poco prima. 
Ester annuì. 
Sì, ma certo. 
Lui sa, lui sa. Pensò nervosamente Emilie. 
Per la prima volta sentì di temere davvero le conseguenze di una sua azione. Le temeva su se stessa, non sulla reazione della sua famiglia adesso. Anche questa è indipendenza, si disse guardandolo negli occhi. 
Allora, mademoiselle, vogliamo andare? Domandò Wesemann, sornione e crudele, prendendole la mano. 
I cristalli di lui e gli smeraldi di lei si incontrarono, per un secondo, scatenando un istante di odio puro e nudo. Per un istante i sentimenti reali si rivelarono alla luce del sole senza bisogno di parole. 
Emilie odiava quell'uomo perché era così diverso dai nazisti convinti, tanto da essere più simile ad uno di quei gerarchi, i veri creatori della farsa. 
Una volta aveva visto il ministro della propaganda del Reich Joseph Goebbels e ne era rimasta sinceramente colpita.
Era un piccolo e maligno creatore di sogni e false speranze che preparava una nazione ad essere governata dalla purezza e che condannava una razza con un sistema propagandistico snervante. 
Studiando il suo modo di parlare Emilie aveva capito che se avesse detto una bugia tante volte, sarebbe poi diventata realtà. 
 Emilie percepì il disagio, durante il percorso verso la biblioteca, attraverso i corridoi e le scale. 
Hans avrebbe potuto ucciderla lì per poi dichiararla una nemica dello stato - cosa che era realmente - e il suo atto sarebbe restato impunito. 
E Ester continuava a cinguettare, ad obbedirgli. Come uno stupido e misero cane. 
Tutto bene, fraulein Kaltenbatch?
Mi manca.... Mi manca l'aria. Questa, però, era di nuovo parte di una recita e Hans lo capì. 
Oh, non temete. Dieci minuti e potrete riposarvi. Disse con un sorriso magnificamente falso. 
Un'altra maledetta stoccata con cui Hans l'aveva umiliata. 
Emilie fece un leggero sorriso sofferto, appoggiandosi alla ringhiera delle scale. 
Lei è davvero un grand'uomo, Herr Wesemann. 
Non Herr Colonel, Herr Wesemann. Detto da chiunque altro sarebbe sembrato normale, ma detto da lei era semplicemente un tentativo di spodestarlo dalla sua posizione. 
Negli occhi di Emilie Kaltenbatch aleggiava una certa ironia e Hans percepì l'ennesima offesa celata da parte della ragazza, che colse con irritazione e un brillante e falso sorriso. 
Faccio solo il mio dovere, fraulein Kaltenbatch. Ora, se si è ripresa, vogliamo andare? 
Mentre parlava la toccava di nuovo e la sua mano si stringeva su quella di lei. 
Il suo tocco le dava un'incredibile fastidio, fino a farla sentire soffocata. Avrebbe voluto scostare la mano di lui, prendere la sua walter dalla giacca e sparargli un colpo in testa. 
Vedeva già il suo corpo steso sulle scale, lo spazio intorno a lei che si tingeva di sfumature bronzee e il sangue di un rosso intenso, senza malintesi, che scorreva sulle scale. 
 Hans aprì la porta della biblioteca e Emilie perse il suo momento. 
Non prendiamoci in giro; non ucciderò mai Hans Wesemann. È troppo potente, troppo importante, sarebbero subito fatte tante di quelle indagini.... Per la mia famiglia l'ho passata liscia, ma per lui non sarà così. Nessun Affare Wesemann, solo io picchiata da uno della Gestapo. Pensò con irritazione. 
Sorrise amabilmente mettendosi a posto il vestito, mentre Hans le indicava di sedersi alla scrivania. 
Il suo luogo pieno di idilli, quella biblioteca, stava essendo spazzato via dalla personalità distruttiva di Wesemann. Riusciva ancora a sentire la pressione del corpo di Jean sul suo, riusciva a vedere i loro corpi appoggiati agli scaffali, al materasso. Dio! 
Il colonnello prese del vino e due bicchieri dal mobile per gli alcolici. 
Guardò la bottiglia. 
È un vino italiano del Monferrato. Disse. 
Emilie lo versò sentendosi infastidita dall'essere guardata dall'alto in basso. Si sentì tremendamente umiliata da lui, dal suo atteggiamento coridale. Avrebbe preferito essere chiamata puttana, sgualdrina, traditrice. Avrebbe accettato tutto, ma non quelle buone maniere studiate e fastidiose. 
Hans stappò il vino e gliene versò un bicchiere pieno. 
Beva. Disse con risolutezza perdendo la cordialità di poco prima, il viso solcato da un'espressione rigida, ma tradita da una nota di sarcasmo. 
Emilie fece un leggero sbuffo, con aria indignata, sistemandosi le pieghette del vestito. 
Rifiuto il suo invito, il vino mi da alla testa. 
Questa volta ci aveva provato, almeno, a controbattere il colpo. 
Hans sorrise. 
Signorina Kaltenbatch, non le ho domandato se vuole del vino, le ho detto di bere finché non potrò ritenermi soddisfatto. Quindi su, faccia la brava bambina.
Aveva perso di nuovo e lui adesso la guardava tronfio e consapevole di ciò. 
Guardare in basso, verso il tappeto, le venne spontaneo. 
Wesemann, con voce piena di sottintesi, aggiunse: Attenta a non farlo cadere. 
Lei restò immobile con la bocca aperta per qualche secondo di troppo, guardando il bicchiere. Ma non era vino, era inchiostro. 
Ormai era palese che sapesse, ma ciò che non capiva era come lo avesse scoperto e soprattutto perché si ostinasse ad aiutarla nel suo gioco. Perché era stato proprio lui quello che aveva portato avanti le indagini dando la colpa a dei ribelli o a chissà chi. 
Lui l'aveva coperta. 
Adesso che lo aveva ammesso, Emilie era ancora più sconvolta. 
Lui la guardava, appoggiato al tavolo, con quella sua espressione da stronzo consapevole. 
Indicò il bicchiere con lo sguardo. 
Non faccia la bambina imbronciata, fraulein Kaltenbatch. E soprattutto non mi faccia arrabbiare; posso essere parecchio intransigente
Per lei tutto ciò era insopportabile. Aveva caldo, aveva freddo, voleva uscire, prendere una boccata d'aria. 
Voleva sentire le spinte di Jean, voleva essere ovunque, ma non con lo sguardo ghiacciato di Hans Wesemann puntato su di lei. 
Lo faccia allora. Sussurrò Emilie, umiliata. 
Aveva le guancie rosse per il caldo e nel momento esatto in cui sentì che stava per cedere, aveva già ceduto. 
Wesemann si espresse in una risata debole. 
Come, scusi? Disse tornando serio, in modo teatrale. 
Mi costringa a bere. Si era pentita della sua azione avventata nel momento stesso in cui l'aveva compiuta, ma ormai sentiva di dover portare avanti il gioco; era una questione d'onore. 
Signorina Kaltenbatch, io capisco che lei sia scioccata, ma abbiamo cose importanti di cui discutere e non mi sembra affatto il caso di avere queste reazioni infantili - si chinò in modo di essere all'altezza del suo viso, così tanto da sentirne il respiro spaventato -, avanti, beva. 
No, no, Herr Wesemann. Il tono di lei adesso era pieno di una calma ritrovata, nonostante l'umiliazione. Sapeva che il suo nemico non sarebbe mai stato così impulsivo ed era incondizionatamente arrabbiata per questo. 
Sa, sei lei fosse una giovincella stupida avrei già esercitato la mia autorità punendola come meglio credo, ma - disse riprendendo un tono quasi gioviale - dato che siete pur sempre di famiglia rispettabile ritengo mio dovere educarvi alla società come l'educazione e il mio ruolo mi permettono. 
Credo di poter cavarmela da sola, ma danke, Herr Wesemann. 
La SS prese il bicchiere e se lo rigirò tra le mani per qualche lunghissimo istante. 
Credo che lei avrebbe veramente bisogno di qualche cinghiata, vero signorina Kaltenbatch? Disse, non nascondendo la minaccia. 
I respiri di Emilie erano lenti e profondi. 
Io credo che lei dovrebbe farsi gli affari suoi, Herr Wesemann.
Poi lui in un rapido scatto di violenza la fece voltare e tenendole ferma la testa le fece ingoiare il vino. 
Emilie non riuscì nemmeno a trovare il tempo per ribellarsi; era sorpresa dall'espressione crudele e decisa di lui, dal modo in cui la stava punendo. Per lei quel trattamento era un oltraggio e si sentiva sempre più rossa in volto. 
E ciò che più le pesava era essere stata completamente nelle mani di lui, il suo nemico, per un tempo che era sembrato interminabile. 
E alla fine anche l'ultimo sorso passò per la sua gola e lei si rese conto di quanto fosse stata sciocca a farsi costringere a bere. 
La tortura cessò quando sentì il vetro toccare il legno del tavolo; sentiva gli occhi bruciare per le lacrime, ma sapeva che non avrebbe pianto. 
Per il prossimo bicchiere, fraulein, spero di non dover forzarla ancora. Di umiliazioni ne ha subite abbastanza per oggi, d'altronde . La ammonì, dolcemente, sadicamente. 
Emilie si lasciò cadere sullo schienale della sedia; emise un sospiro, poi anche il colonnello, finalmente, si sedette. 
Un altro sospiro, questa volta di sollievo. 
Hans prese di nuovo il vino, riempì di nuovo il bicchiere e, ancora una volta, Emilie si trovò nella posizione di rifiutare. 
Non devo trattarti come una bimbetta disobbediente, vero? Commentò Wesemann con un'aria di attesa, come se si aspettasse che adesso non facesse storie. 
Così Emilie, per una volta, decise di accontentarlo e bevve. 
Al contrario di ciò che pensava, però, il nazista non rimase affatto impressionato; sapeva benissimo che dopo aver subito un'umiliazione simile per una persona così orgogliosa non avrebbe accettato una seconda volta. 
Be', ma torniamo agli affari... Come mai una giovane ragazza ha deciso di partire per Parigi tutta sola? Riprese lui come se nulla fosse.
Adesso iniziò a studiarla con attenzione, lo sguardo fisso su ogni movimento, ogni respiro. 
Ho studiato arte e voglio dedicarmi alla pittura...
Lui la interruppe subito: Da quanto so i suoi genitori erano contrari. 
Be'... 
Cosa volevano per lei?La interruppe lui, prontamente. 
Volevano che io fossi una brava moglie al servizio del Reich. 
Hans rimase divertito dal suo tono di ilarità con cui palesava i suoi sentimenti di insofferenza. 
E lei invece è andata a Parigi. Cosa pensavano i suoi genitori di questo viaggio? 
Cosa avrebbero dovuto pensare? 
Signorina, non vuole vedermi arrabbiato, no? Disse, tornando serio. 
Emilie alzò le sopracciglia ben definite. 
Senta, Herr Wesemann, io non capisco il perché di tutto questo. Mi sembra inutile; lo avete trovato il colpevole. Si lamentò con stizza, alzandosi. 
Su, su, signorina. Si sieda.  Quel tono non ammetteva repliche, ma lei capì il suo gioco e si sedette. 
Cosa pensavano i suoi genitori del suo viaggio a Parigi? 
Che era un semplice viaggio di piacere nella nuova Parigi germanica. Un grande trionfo, non crede? Finalmente era riuscita a dare una rispostache lo soddisfacesse. 
Lui si alzò; sorrise. 
I loro sguardi si incontrarono e Hans fu rammaricato nel non trovare alcun timore in lei. 
Bene, abbiamo finito - sorrise - non è stato così terribile, no? 
Emilie restò immobile, sbattendo le palpebre due, tre volte. 
Poi Hans Wesemann si rivestì in fretta e poco dopo era già uscito. 
Le aveva baciato la mano, donandole l'ultima stoccata con uno sguardo gelido.
Auf Wiedersehen, Herr Wesemann. Aveva detto lei.
  Appena il rumore dei passi della SS cessarono si accasciò sul divano, lasciandosi cadere. Tolse le scarpe lasciandole messe per terra in malo modo e finalmente, trasse un sospiro lungo, memore di ciò che era successo poco prima. 
Si sentiva esausta, sconfitta, ma infinitamente superiore a lui. 
Però questa volta l'aveva distrutta e l'umiliazione ancora le bruciava le guance.
Si abbandonò alla spossatezza dovuta da quella sconfitta, dai tanti duri colpi. 
Il suo sguardo venne richiamato velocemente dal tappeto, dal tavolo, dalla stanza. 
Era accaduto lì. Lì aveva pronunciato le parole che cercava da sempre e le aveva trovate così... Semplici.
Abbasso Hitler. 
 Osservò il tappeto. Era stato cambiato; d'inchiostro non c'era traccia. 

 
Angolo Autrice:

Et bien! Un altro capitolo pieno di tensione sessuale che spero di aver creato! ^.^
Le shippers della Hamilie saranno molto soddisfatte da questo capitolo in cui Hans si rivela più stronzo e autoritario che mai. Ffdfjdkd. Perché sì, può essere odioso quanto vuoi ma è sexy. Molto. AHAHAH.
Comunque mi sento troppo scema nel fangirlare di una cosa che ho scritto io stessa.... Be' okay.
Coooomunque. Volevo cogliere l'occasione di ringraziare la pucciosissima Ilaria (Ireide) e dirle che le voglio bene e poi basta.
Auf Wiedersehen;


Marlene

 

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Capitolo 12
*** Spring: Part 11 ***





Spring: Part 11


 

Ester aveva uno sguardo fastidiosamente colpevole con gli occhi lucidi rivolti verso il basso, le gote rosse. 
Si sarebbe detto che era una piccola e povera vittima in quel vestitino, adesso stropicciato, con il piccolo viso bagnato di lacrime e i capelli spettinati. 
Forse lo era, forse no. Solo in seguito avrebbe capito quanto l'età non l'avrebbe mai giustificata in un'esistenza passiva e dedita al vizio in quanto tale. Non al vizio con lo scopo finale del piacere, ma alla costrinzione della dimostrazione di esso. 
Ester aprì una scatola di cartone rosa con un fiocco azzurro. 
Macarons. 
Quei deliziosi dolcetti colorati la invitavano ad essere mangiati, così lasciò che la sua bocca venisse riempita dal sapore del dolce e le lacrime poco a poco svanirono anche loro. 
Perché stavo piangendo? Si chiese, sentendosi come una bambina viziata a cui non è concesso un privilegio. 
Era un segreto talmente profondo che non avrebbe potuto sussurrarlo nemmeno a se stessa, tanto era oscuro. 
Lei temeva Hans, le reazioni che suscitava in lei quel pulsare nel suo ventre quando lui la torturava facendola sentire piccola e insulsa nella sua presunta grandezza di uomo maturo. 
Quella era forse anche una delle ragione che la legava inesorabilmente a Wolfgang, di cui ora s'era quasi dimenticata con tutti gli avvenimenti recenti. 
Eppure suo marito non doveva essere sempre al primo posto? Avrebbe dovuto esserlo, ma se l'era dimenticato completamente per lasciare spazio a pensieri e realtà più importanti e completamente distanti da lui. Adesso ciò che avrebbe dovuto dominare dentro di lei era la colpa, ma il sentimento prevalente era un'irresistibile voglia di macarons alla violetta che si spezzavano sotto i suoi denti con un movimento morbido e dal suono sordo.  
Emilie scese le scale poco dopo, adesso vestita con solo degli ampi pantaloni di lino e una camicetta bianca come secondo la moda francese. Il suo collo dalla pelle di porcellana - proprio come quella di Ester - era decorato da una semplice collana di perle e il suo viso aveva l'unico trucco del rossetto che non serviva ad altro se non ad evidenziare le sue labbra già belle. 
Per la prima volta Ester si ritrovò ad ammirare sua cugina che tanto disapprovava, ma a cui tanto era grata. Per la prima volta si soffermò a trovare della bellezza in ciò che non era etichettata come tale dai ministri del Reich. 
Ammirò il modo in cui portava i capelli boccolosi, sciolti e semplici tenuti indietro solo da un fermaglio. 
Ammirò il modo in cui la sua figura elevata e snella si muoveva nella sala agghindata di mobili costosi e amabilmente superflui. 
Ammirò quella consapevolezza di sé che Emilie aveva, ma da cui Ester era spaventata. 
Forse aveva ragione Daisy, nel suo proibito Grande Gatbsy, a dire che fosse meglio che una ragazza nascesse stupida. Una bella piccola stupida. 
Ad Emilie questa grazia non era toccata e adesso si trovava bella a modo suo, consapevole e dall'indipendenza così agognata e che non sempre le veniva concessa.  
Ester non aveva nulla di tutto questo e se ne vergognò, ma al tempo stesso capì quanti problemi le avesse evitato essere nata così come si definiva. Sciocca. Anche se forse il solo ammetterlo significava che non lo fosse, ma nemmeno questo poteva dirlo a sé. 
Wolfgang tornerà tra poco, è meglio che io vada a mettere a posto le cose in biblioteca.... Mormorò Ester alzandosi. 
Emilie la fermò con un leggero sorriso.
Ho già fatto tutto io e mi sono anche ripresa i miei libri. 
L'altra restò per un attimo interdetta; si stirò la gonna. 
Perché l'hai fatto? Disse.
Sono miei e poi a cosa serve un libro se poi non si trova in esso la libertà intellettuale di dire a Wesemann che se vuole giocherellare con qualcuno può anche fottersi? 
Emilie! Urlò Ester istericamente. 
Non sono cose che si possono dire, non... Venne interrotta da un improvviso singhiozzo.
Non credi nemmeno a ciò che dici tu stessa. Credo che potremmo mettere fine a questa farsa per consolidare una sorta di segreto femminile... Disse Emilie maliziosa, non trovandosi poi tanto diversa dal suo nemico come armi e sotterfugi.
Ester si volse verso il giradischi e mise su uno degli amati dischi di Benny Goodman posseduti segretamente dalla cugina. 
Cugina cara, io ti amo come membro della mia famiglia. Iniziò melensa lei, con la sua voce così armoniosa e da bimba che Emilie per un istante la odiò. 
Ma sappi che qui nessuno ha il coltello nella parte del manico, nè tu nè io. 
Mentre sferrrava il primo colpo consapevole della sua vita "Stompin' at the Savoy" riempiva la sala dei suoi suoni così esotici per una ragazzetta nazista che aveva passato la sua infanzia tra Bach - senza alcuna offesa per il musicista - e coretti di Heil Hitler. 
Dopo un momento di stordimento la melodiosa e fredda risata di Emilie arricchì il ritmo swing. 
Senti, prenditi pure tutti i libri che vuoi, ma comunque devi assolutamente sapere una cosa. E te lo dico perché voglio aiutarti, non per altro. Un giorno in treno ho visto una povera ragazzetta francese a cui serviva aiuto, è lei che ti ha consegnato il pacco. In cambio le ho promesso pietà per suo padre, caduto nelle amorevoli cure della Gestapo - sorrise -, la sventurata fanciulla pensò che io in quanto austriaca abbia potere in tutto ciò, ma la verità è che l'unica cosa che ci ha guadagnato è stata la mia promessa. Probabilmente suo padre è morto, anzi di sicuro. 
Ester aggrottò le sopracciglia in un'espressione confusa. Una rete intricata si stava sciogliendo davanti a lei ma stava facendo di tutto per non notarlo, tanto da soffermarsi sulla musica, sull'arredamento, su quanto amasse suo marito. Tutto pur di non pensare alla realtà. Quella vera, non quella creata dalla propaganda e più sarebbe passato il tempo, più si sarebbe accorta quanto le due cose fossero differenti. 
Perché mi dici questo? Sicuramente se la Gestapo lo aveva incarcerato sarà stato perché aveva commesso un qualche reato. Disse lei, con un leggero fremito. 
Ti dico questo, semplicemente perché le promesse sono utili, Ester. Danno speranza alla gente e ti aiutano ad ottenere i tuoi scopi. La svastica che io porto, che tutti portiamo, mi dà dei privilegi... Per cui Heil Hitler e lunga vita al Terzo Reich, però devi sapere che... Non c'è alcuna morale in quello che ti ho detto e... Cazzo, ho perso il filo del discorso. Ah... Si, ecco. Per cui smettiamola di essere carini e remissivi, voglio essere sincera con te; la Germania non è solo quella che conosci tu, una certa Celine e molti altri francesi possono dimostrartelo, prova a chiedere in giro... No, anzi, non farlo. Biascicava leggermente, ma era brillante e splendida nella sua irriverenza, così tanto che Ester si sentì ancora inferiore a lei. Tutto quel vino era servito solo a renderla più bella e sincera, sicché al momento desiderava terribilmente uno scontro con Wesemann. 
Ester sapeva che ciò che faceva la cugina era sbagliato e che lei era nel giusto, ma non poteva fare a meno di sentirsi insoddisfatta di sé. Sapeva che il suo Fuehrer l'avrebbe apprezzata, che sarebbe arrivata una ricompensa, un giorno, anche se quelle certezze iniziavano a sgretolarsi. 
La Germania ha bisogno del suo spazio vitale. Disse con voce che pretendeva di essere fredda, ma il suo labbro tremava e i suoi occhi erano lucidi. Una di quelle frasi già sentite così tanto da aver perso il loro senso. 
Anch'io ne ho bisogno, mein liebe. E detto questo, ti saluto. Rise Emilie, poi infilatasi una giacca imboccò la soglia della porta. 
Heil Hitler a te, cugina! Disse, sempre ridendo. 
Dopo lunghi istanti Ester si alzò trasognata, con lo sguardo vacuo, come se non stesse pensando a nulla. Come se non stesse vivendo quel momento. 
Poi si risvegliò e allora fu stupita della reazione inaspettata della cugina. 
La conosceva, ma non abbastanza e questo glielo aveva dimostrato. Il mondo era pieno di persone che conosceva ma non abbastanza e le cene e le feste in cui avrebbe incontrato gente e gente non sarebbero mai servite a renderla meno sola. 
Quei pensieri irruppero in lei e furono accettati, per la prima volta.
Sono sola. Si disse, nel mentre un amaro sorriso le tinse le labbra e, per la prima volta, comprese. 
Poi andò di sopra, si preparò un bagno caldo; tutto con estrema lentezza. 
Una volta dentro, con l'acqua che avvolgeva la sua pelle chiara si sentì sollevata. Non sapeva cosa aspettarsi da niente, ma la reazione di sua cugina l'aveva scossa. 
L'aveva scossa vedere come lei ammetteva a modo suo di non credere nel Fuehrer. 
Eppure una parte di lei aveva sempre percepito quanto Emilie fosse diversa da tutti loro. Sorrideva così raramente, ma quando lo faceva poteva dare il colpo finale e la sua risata era così cattiva e lacerante a volte. Poi un giorno lo aveva capito ed era diventata quella che ora era Emilie Kaltenbatch. 
Ester se ne rendeva conto solo ora e i fatti iniziavano ad essere belli e chiari. Le piaceva la chiarezza, le piaceva l'ordine. 
Si immerse completamente nella vasca. 
 La sera stessa ci sarebbe stata una cena. Una di quelle cene in cui si conosceva gente. In quel momento si odiava, voleva trovare un modo per punirsi pur non sapendo nemmeno perché e poi all'improvviso nel pieno del suo masochismo intellettuale si ritrovò a pensare ad Hans Wesemann. 
Aveva un che d'ambiguo e crudele nei suoi confronti, ma era anche vero che lei voleva essere ingenua, bella, cordiale. 
Doveva pur trovare qualcosa da dire, prima che lui la salutasse, prima che andasse via. 
Lui, con la sua divisa nera e la sua autorità che la faceva sentire così piccola. 
.... Eppure al tempo stesso lo incolpava di questo...  
Per questo l'aveva invitato. 

 
Angolo Autrice.

Ebbene sì, ho dedicato un intero capitolo all'introspezione di Ester e presto vedrete cosa combina Emilie e la cena... 
Inanzitutto però  mi scuso per questo infinito ritardo, sono una persona terribile e con troppe cose da studiare. :')
Con questo capitolo ho voluto rendervi partecipi delle vicende di Ester dato che precedentemente la protagonista assoluta era sembrata Emilie ma non è vero :3 lei è solo una gnoccona splendida e stronzissima. AHAHAHHAH. Ma come sono professionale.
Comunque si, le ho fatto fare una scenata alla Walter del Grande Lebowski/Jack Sparrow/barbone ubriaco. Amatemi. lol.
Ebbene ora mi ritiro sotto le coperte che sto morendo.
Auf Wiedersehen; 

Marlene

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