Streets of Philadelphia

di flamin
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** {Prologo} ***
Capitolo 2: *** {Life's a roll coaster} ***
Capitolo 3: *** {Cold Coffee} ***



Capitolo 1
*** {Prologo} ***



≡ Streets of Philadelphia. ²³
 
 
 
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{Prologo} 
 
 
Knew there was somebody somewhere
Like me alone in the dark
Now I know that my dream will live on
I've been waiting so long
Nothings gonna tear us apart
 
 
 
 
 
Non inizierò con monologhi inutili sulla mia vita, non inizierò a raccontare tutto, dalla prima volta che vidi la luce ad ora e… no, non racconterò di come ‘la mia vita si sia illuminata’ dopo la comparsa di un misterioso e bellissimo principe azzurro con tanto di cavallo e sorriso brillante in volto.
Perché non credo a queste cose.
Non so, in me c’era ancora quella parte che urlava con la gola in fiamme, e gli occhi scintillanti di, lasciar perdere i sogni comuni tra gli adolescenti e di vivere una vita solo mia, che non dipenda dagli altri.
Ed ecco perché, adesso, credo sia patetico ammettere che da allora in poi, la mia vita prese una piega notevolmente diversa ed inaspettata.
E io incontrai veramente delle persone in ugual modo dolcissime, disponibili e… speciali.
Il lato divertente di tutta questa bizzarra faccenda è che, dopo aver parlato con lo psicologo della scuola, notai in lui un certo alone negli occhi, come se mi stesse prendendo in giro.
Ma dico io, l’aver vissuto parecchie esperienze orribili non vuol per forza dire che prima o poi usciresti di melone… o no?
Eppure ho sempre raccontato i vari incontri, seguendo la stessa versione e la stessa calma interiore che tenevo di fronte ai medici, preoccupati.
 
 
Il cipiglio bambinesco dipinto sul mio volto fece ridacchiare lo psicologo, mentre si sfilava gli occhiali e passava una mano sul viso imperlato leggermente di sudore. Tirò su col naso adunco e mi osservò con fare accusatorio, come se volesse trovare qualcosa che non andava, in me.
«L’ha ancora per le lunghe?» chiesi, incrociando seccamente le braccia, mordicchiando un labbro e tossicchiando sommessamente.
«Non credo, no.» rispose egli, con voce grave e calma; le pareti sembrarono tremare per una piccola frazione di secondo, come se il suo tono provenisse dalle stesse fondamenta. Ridacchiai tra me e me, ripensando alla poca credibilità dei miei pensieri. Il dottor Freeman unì le mani con professionalità, mentre io, con noncuranza innaturale, mi sistemai sulla poltroncina bordeaux e ritirai una ciocca ribelle e castana dietro l’orecchio.
Con un gesto teatrale della mano, l’uomo –di mezza età- mi richiamò all’attenzione, aprendo un enorme giornale, ormai ingiallito. Il rumore fu così chiassoso che stentavo a credere provenisse da quell’ammasso di carta.
Si alzò dalla sedia girevole e mi venne incontro, tendendomelo. Scattai in avanti, con un’espressione torva e contrariata e, dopo aver lanciatogli l’ultimo sguardo di fuoco, lo aprii e iniziai a leggere.
Le mie iridi verdognole scattavano avanti e indietro, da sinistra a destra, flebilmente, capendo immediatamente il concetto, già dal titolo.
 

 
“Ragazza misteriosa e in fin di vita viene ritrovata in una spiaggia sulle rive della baia di New Jersey.
Ispettori ipotizzano che venga da New York, dopo il ritrovamento di alcuni suoi effetti personali.”
 

«Si indaga su un caso più unico che raro. » lessi ad alta voce, con il volto oscurato e la fronte leggermente aggrottata «Ancora sconosciute sono le cause che hanno portato la ‘naufraga’ proprio lì. Dalla carta di identità, l’unica cosa trovata sulla persona –attualmente in coma-, conosciamo solo il nome e il cognome e la provenienza –probabilmente newyorkese- che non sembra fornire ugualmente alcun indizio. La ragazza è stata trasferita stamani a Philadelphia.»
Presi un grosso respiro, mugugnando qualcosa e prendendo a leggere individualmente, col pensiero.
“I medici credono che possa cavarsela, ma non escludono una possibile amnesia permanente. Non conosciamo neanche alcun tipo di legame esterno che potrebbe rivelarsi fondament--”
Il mio capo smise di muoversi, quindi alzai lo sguardo verso il mio interlocutore e, serrando la mascella, placai la mia voglia di prendere a pugni qualcosa.
Attimi di silenzio. Attimi di silenzio in cui il ronzare fastidioso della mosca faceva di tutto per farmi perdere la pazienza.
E il mio aspetto la diceva lunga sul mio carattere. Il top nero aderente, giacca e pantaloni mimetici e grossi anfibi… Ero una sorta di ribelle rude e grossolana, quando volevo.
Ma potevo giurare assolutamente con convinzione di non essere l’unica ragazza con l’aria talmente sciroccata, in Pennsylvania.
L’uomo sbuffò per l’ennesima, snervante, volta e lasciò cadere sulla scrivania ingombra il resto degli appunti scarabocchiati a caso. Il suo volto, era contratto in una smorfia che, se non fosse stato per le circostanze, avrei considerato assolutamente divertente. Avete presente quando un normale afro-americano assume un’aria concentrata e arriccia il naso socchiudendo gli occhi? Lui faceva esattamente così. Ogni santa volta.
«Dunque, tu ricordi perché sei qui, giusto?»
Ridacchiai con un certo nervosismo nella voce incrinata; scossi la testa e giunsi le mani dietro la mia nuca.
«Oh, please.» parlai con una certa eloquenza, sporgendomi all’indietro e poggiando i piedi –con tanto di scarpe da trekking- sopra la piattaforma legnosa. «Signore, non sono impazzita; e non sono nemmeno stupida. I dottori mi hanno raccontato tutto. So tutto.»
Ecco, a dire il vero, l’aggettivo ‘tutto’ non era praticamente adatto, per me, dato che sapevo solo un quarto della mia storia ed ero a conoscenza unicamente di quello che gli investigatori erano riusciti a scoprire sul mio conto. Il che era estremamente riduttivo.
Ma, strano eppure vero, un giorno mi svegliai con un sacco di immagini in testa. Era davvero bizzarro, non saprei come spiegarlo, era tutto come un caleidoscopio di ricordi: dove diversi momenti della mia ‘vecchia’ vita, visi, credo, conosciuti in passato e frasi strafatte, si univano come in danze disordinate e chiassose, portando solo altro scompiglio.
Eppure io le ricordavo, loro. Le uniche ragazze che riuscivano a strapparmi sorrisi sinceri anche dopo le tempeste più burrascose, le notti più buie e gli inverni più rigidi.
Loro c’erano sempre. Che me ne sia andata io, da loro?
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
nda.
uhh, quello che doveva essere un piccolo prologo si è trasformato in uno scritto di circa mille parole. ma non me ne lamento, su.
mh, mi presento. dopotutto è la prima volta che compaio in questa sezione. piacere a tutti, io sono camomillah, ma chiamatemi vì.
come credo che abbiate capito, in questa long il tema principale è l’amicizia. per questo ho deciso di dedicarla ad alcune fra le speciali tantissime persone che ho conosciuto, su efp. ♥
la mia gemeherika; annaellie; maryalicealessia; ellafraallelolamet ros. ♥
allora, in teoria la protagonista –la cui età e il resto verranno svelata nel prossimo capitolo- racconterà con un introspezione, ogni particolare incontro, man mano che la long andrà avanti.
perdonate eventuali miei errori, alla prossima c:

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Capitolo 2
*** {Life's a roll coaster} ***


nda: salve a tutti! :) esatto, sono ancora qua. ho cercato di aggiornare velocemente, rispetto ai miei impegni. devo dire che sono piacevolmente sorpresa di vedere le recensioni positive allo scorso capitolo e tutti quei ‘mi piace’… insomma, mi aiutano davvero molto. aiutano anche la mia autostima sotto terra, grazie mille <3 dunque spero di non deludere le vostre aspettative, perché sarebbe l’ultima cosa che vorrei fare, ecco.
beh, sono piuttosto di fretta e penso che d’ora in poi scriverò note iniziali e finali, in alternanza, perciò gnè. volevo avvertirvi di una cosa, prima di andare. dato che da questo capitolo inizieranno a comparire vari flashbacks, per garantire maggior scorrevolezza durante la lettura, forse inizierò a narrare sia al presente che al passato, ma non ci giurerei c:
neh, conto di riuscire ad aggiornare entro la prossima settimana;
credo che non ci sia bisogno di ulteriori chiarimenti, vi auguro buona lettura! :)
 
 
 
 
 
 
≡ Streets of Philadelphia. ²³

 

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{ Chapter 2 }
.: Life’s a roll coaster
 
 
 
Theres a part of me I can't get back
A little girl grew up too fast
All it took was once; I'll never be the same
Now I'm taking it back my life today
Nothing left that you can say
Cause you were never gonna take the blame
anyway
 


 
È come stare in uno di quei pallosissimi film sentimentali; varie immagini vorticano man mano che qualche povero sventurato –come la sottoscritta- inizia a ricordare, o raccontare, il proprio passato.
Eppure posso dire di ricordare davvero poco, ancora, nonostante tutto. So solo il mio nome, la mia età ed una serie di informazioni ancora, se possibile, più scontate.
Ma, intendo… la vita è perfettamente paragonabile ad una montagna russa –già, come quelle che si trovano al parco divertimenti, ma non lo dico per la sensazione di vomito e l’amarognolo in bocca; beh… più o meno-, a mio parere. Affronti alti e bassi, quello che ti pare, magari c’entra anche un po’, la cosa del vomito. Ma alla fine quello che rimane è l’esperienza; spesso ti diverti; spesso ti piace. E non hai rimpianti, perché volenti o nolenti lo hai fatto.
Victoria Grace, meglio specificata come me, ha avuto varie occasioni di capirlo.
Esatto, ho imparato, con il tempo e le esperienze, che le nuove e meravigliose avventure arrivano come un uragano, improvvisamente, stravolgendo tutto; ma, inaspettatamente, sono quelle che ti rimangono impresse più a lungo, come marchiate a fuoco.
Chiusi rumorosamente un vecchio libro polveroso, ripescato da un angolo abbandonato della libreria, ripresi atto del dove fossi e focalizzai, pian piano, la mia stanza, di un rosa-bianco quasi paranoico. E io odiavo il rosa, santi numi.
Sentii una voce venire dall’esterno.
«Vì, sei là dentro, giusto? Non ti fai sentire da un po’, almeno dacci segni di vita.» ecco decisamente uno svantaggio nell’avere diciannove anni e abitare con delle coinquiline era quello. Insomma, i momenti di privacy erano davvero rari ed avrei voluto urlargli contro di piantarla, mentre sentivo  gli sciocchi della porta diventare sempre più frequenti.
Continuò a bussare per tre minuti buoni e ogni piccolo rumore –toc, toc, toc-, mi sembrava come un codice morse… o semplicemente ero io che iniziavo a farmi troppi trip mentali; probabilmente il frequentare, di tanto in tanto, lo studio psicologico, non mi avrebbe fatto alcun male, al contrario di quanto il mio scetticismo suggeriva.
Iniziai a vedere sfocato proprio nello stesso momento in cui sentii uno strano retrogusto agrodolce in bocca.
 
 
Il suono di una campanella riecheggiò per tutto il corridoio, trapassando le mura stesse dell’edificio e scatenando il caos tra gli studenti un liceo di Brooklyn.
Ero nuova, a quel tempo, in quel posto, ma ero riuscita a socializzare –e a farmi rispettare- con solita, inaudita, facilità.
Ma, se c’era qualcosa che pochi riuscivano a capire, nessuno si dava una spiegazione logica ed esauriente sul perché ultimamente me ne stessi acquattata in un angolo della classe, con le gambe incrociate e lo sguardo serio puntato su un libro, tenendo il capo chinato e alzandolo poche volte.
Eppure qualcosa che mi costrinse a distogliere l’attenzione dalla mia amata lettura; una ragazza piuttosto rumorosa e maldestra si avvicinò accanto a me, gettando un’occhiata sottecchi.
Effettivamente sembrava essere un paio di anni più piccola di me, ma qualcosa l’aveva fatta avvicinare nella mia classe.
«Mh… Harry Potter, vero?» al che iniziò a sclerare di brutto, continuando a dire le stesse cose –per la maggior parte incomprensibili- entusiaste «Oddio, io lo amo! Trovo che sia la saga fantasy migliore di tutti i tempi, insomma, ha regalato un’infanzia-»
Roteai gli occhi, impaziente. Lo ammetto, la prima cosa che, al momento, avrei voluto era levarmela dai piedi: non che mi stesse antipatica, anzi, io nemmeno la conoscevo, ma chiunque interrompesse la sottoscritta per ragioni del genere meritava una morte lenta e dolorosa.
Ma passai al lato ‘nonchalance’, scegliendo di non picchiare nessuno «Okay» borbottai allungando parecchio la ‘o’.
«S-scusami, non volevo essere indiscreta» ribatté la ragazza dai capelli di un particolare castano mediamente scuro e dagli occhi color nocciola, afferrando la mia… indisposizione. Fece spallucce ed allungo la mano verso di me, sfoggiando un grosso sorriso «Io sono Michela Bennett, molto piacere di fare la tua conoscenza.»
Fissai il palmo sudaticcio della sua mano, con una punta di incertezza nello sguardo; probabilmente una femminuccia avrebbe esitato perché snobbare qualcuno faceva figo, ma io ero perplessa per un altro motivo: non uscivo da una limpida situazione familiare, perciò iniziare a legare, per me, diventava un ostacolo altro dieci metri e largo il quadruplo. Non volevo dar più di tanta confidenza a nessuno, ecco.
Scossi la testa e sporsi la mia mano verso di lei, ricambiando il saluto alla vecchia maniera del quartiere.
«Victoria.» risposi compiaciuta, iniziando a masticare la gomma che avevo lasciato in un angolino del palato.
«E basta? Non hai un cognome?»
Storsi il naso, iniziando a picchiettare il legno colorato del banco «Grace. Il mio cognome è Grace.»
«Oh…» l’occhiataccia che le lanciai doveva averle fatto capire che il discorso avrebbe dovuto finire lì, perciò ritornò all’argomento originale «Beh, a che punto sei arrivata? Nel libro, intendo.»
«La morte di Fred Weasley.» il mio viso si scurì e, nello stesso momento in cui abbassai lo sguardo, pensai di essere patetica, ai suoi occhi, per fare quella faccia lunga per un personaggio immaginario.
Lei ridacchiò, sedendosi accanto a me;
«Tranquilla, non sono come quei babbani.» fece cenno fuori dalla finestra, in direzione di alcuni spacconi che fumavano su di un gradino, come se fossero donne e uomini vissuti «Anche io ho pianto, leggendo di morti come queste. Penso che il legame affettivo che si è creato nel tempo, tra il lettore e i personaggi, è molto più importante di qualsiasi altro.»
«Io trovo che…» commentai alzandomi e sistemando tutto il materiale scolastico «Siano molto meglio; loro. Almeno i personaggi dei romanzi non possono farti del male.»
 
 
Beh, che dire, ricordo che da allora in poi riuscii a legare tantissimo con quella ragazzina, sebbene non ne avessi inizialmente voglia. Ma con lei riuscivo ad essere me stessa, quella persona solare e schietta che era rimasta seppellita quasi completamente, dentro di me. E l’adoravo con tutto il cuore, per me lei era come una sorella minore, qualcuno da proteggere, e nessuno avrebbe dovuto anche solo provare a toccarla, o a ferirla.
Lo psicologo dice che, adesso che credo di iniziare a capirci qualcosa nel groviglio confuso del mio inconscio, ricordare potrebbe farmi davvero bene, darmi una marcia in più per conoscere il passato e capire il presente. Dice che potrebbe essere il mio primo, vero, momentaneo, scopo nella vita; buffo, pensavo che lo scopo nella mia vita fosse finire quest’ultimo anno di liceo per poi concentrarmi appieno sulla mia carriera cinematografica.
Ma a quanto pare mi sbagliavo, in parte.
Un «Oh.» seccato, seguito da un conseguenziale e drammatico «E’ morta.» mi ravvivano velocemente, come se volessi alzarmi solo per aprire la porta ed urlare un acido «No, sono ancora qua, mi dispiace!», ma semplicemente scendo giù dal letto con riluttanza, aprendo velocemente la porta e, dopo aver afferrato in malo modo la mia giacca, mi precipito fuori dall’appartamento.
La strada era davvero umida, a tratti sudicia. Il freddo invernale pungeva la mia pelle diafana –ho scoperto di essere lievemente anemica, buffo, vero?- come un centinaio di minuscoli ed invisibili aghi che continuavano a darmi fastidio. Il respiro mi si congelò davanti agli occhi, formando un vacuo vapore argenteo, etereo; strinsi convulsamente le mie mani tra di esse, sistemandomi fremente il giubbotto leggero che avevo indosso. Oh, sì, che bella idea uscire così senza un motivo preciso, sprovvista.
“No, okay, io torno dentro.” pensai subito dopo un primo paio di minuti, pentendomi della mia stupida impulsività. Mi voltai dal lato opposto, pronta a varcare nuovamente il cancello di casa mia, quando una figura indistinta mi venne letteralmente addosso: sbattemmo entrambi il viso; indietreggiai in malo modo, massaggiandomi il naso arrossato e la fronte dolorante.
«What the hell…» esclamai con stizza, iniziando a focalizzare chi mi aveva investito, manco fosse un camion.
«Scusami, mi dispiace davvero…» una ragazza dai lunghi –lunghissimi- capelli castano scuro e gli occhi nocciola, mi venne incontro, gesticolando con le mani, affranta «Io…» si accorse di chi si ritrovava davanti, immagino, perché strizzò gli occhi per una frazione di secondo «… Victoria?»
«Ah, dopo ‘sta botta non so nemmeno io chi sono…» mi bloccai agganciando il suo sguardo. Ci fu un silenzio quasi innaturale, in una metropoli come quella.
«Mary Rose.» commentai, con la bocca asciutta e la gola secca.
La mia strana vicina di casa ed io, insieme, davanti casa.

 

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Capitolo 3
*** {Cold Coffee} ***


nda. oi, buondì a tutti c:
asfdghjkl-- quanto adoro la naturalezza con la quale riesco a scrivere questa long. non mi vanto certo della qualità dello scritto –dato che ho diversi dubbi su quella :’D- ma noto che le parole sembrano sbucare fuori dalla mia mente in autonomia e adoro quando mi trovo in queste situazioni.
dunque, ringrazio le quattordici persone che l’hanno messa tra le preferite, i ‘mi piace’, le ricordate e il resto; ovviamente anche le recensioni, soprattutto quelle. e non lo dico perché sono avida di recensioni –no, davvero, i don’t care-, piuttosto perché i vostri commenti, complimenti e tutto il resto mi riscaldano il cuore, ahw. scusate se non rispondo spesso, ma alcuni di voi sanno già che prendo in mano il pc solo per scrivere e aggiornare, purtroppo :c
parlando del capitolo, l’ho la scorsa mattinata, durante un’ora buca, a scuola. per quanto riguarda i nomi dei ragazzi che compariranno… c’è sempre un perché e sono tutti nomi che mi piacciono, uhuhuhu-
spero che sia di vostro gradimento c:
un bacione,

 
 
 
 
 
 
 
 
 
Streets of Philadelphia. ²³

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{ Chapter 3 }
Cold coffee
 
 
She’s like cold coffee in the morning
I’m drunk off last nights whisky and coke
She’ll make me shiver without warning
And make me laugh as if I’m in on the joke
And you can stay with me forever
Or you could stay with me for now
Tell me if I’m wrong
Tell me if I’m right
Tell me if you need a loving hand
To help you fall asleep tonight
Tell me if I know
 




 
 
Mi spostai velocemente una ciocca fuori posto dietro l’orecchio e tossicchiai «Ehm… io… devo andare, sì.»
Feci per muovere qualche altro passo in avanti, quando lei mi afferrò per un braccio; la sentii esclamare un «Aspetta!» impaziente che mi lasciò totalmente di stucco, tanto che la mia apertura oculare, sicuramente, superava il centimetro e mezzo.
Era smaniosa, singhiozzava; in effetti sembrava in preda ad un attacco di isteria acuta.
Pensai immediatamente qualcosa di molto educato come “Ma questa che cazzo di problemi ha?” e, a pensarci, ero nel giusto, in un certo senso: chiunque sarebbe rimasta nel mio stesso modo.
Insomma, per comportarsi in quella maniera, doveva avere per forza una ragione valida, a meno che non fosse completamente matta.
Storsi il naso con disapprovazione «Scusa?»
Mary scosse la testa. «Perdonami, non volevo.»
«È tutto ok, ma adesso levati dai piedi.» tagliai corto con secchezza, divincolandomi dalla sua presa.
«Ehi!» ecco, forse fu proprio la sorpresa e la stizza, a farmi voltare, nuovamente, come un pesce lesso; che quella fosse strana, l’avevo sempre saputo, ma non avevo mai testato il suo essere lunatica, prima di allora, ‘dal vivo’.
«Voglio solo dirti una cosa.» borbottò in leggero imbarazzo, dopo essersi resa conto di aver strepitato alla grande in mezzo alla strada.
«Beh, allora muoviti, o rischio di prendermi un raffreddore di dimensioni colossali.»
Fece una cosa ancora più inaspettata; mi lanciò qualcosa. La afferrai con prontezza ed aprii il pugno, esaminando l’oggetto con curiosità: un mazzo di chiavi.
«Cosa cav-»
La Rose aveva appena finito di raccogliere alcune buste della spesa sparse per la via, ridotta ad una sorta di piccola lastra ghiacciata «Prendilo come un invito a prendere un caffè caldo, allora e…» ne fissò uno in particolare, corrucciata, imprecando a bassa voce «Urgh…»
Incrociai il suo sguardo inorridito e commentai, incrociando le braccia «Spero proprio che non ci siano uova, là dentro.»
Scosse la testa, sorridendo tra sé e borbottando un, quasi malinconico, «No, non ci sono uova.»
«Beh, queste sono tue.» le consegnai ancora il mazzo, ammiccando.
Mary tirò su col naso, facendomi cenno di seguirla.
Avete presente quelle giornate strane in cui tutto sembra finire in un battito di ciglia? Esattamente, fu così.
La mia strana vicina mi fece presente la sua –quasi totale- ossessione per la Nutella e mi convinse a preparare una torta al cacao, mettendo in mezzo diversi ingredienti e promettendomi che no, con lei non avrei bruciato nulla e non avrei dovuto preoccuparmi più di tanto.
«Salve a tutti, signori e signore, benvenuti a--»
La mora iniziò a fare il verso di una di quelle presentatrici assurde, tipiche della tv, ma venne interrotta prontamente da me, più indaffarata e confusa che mai, piena di farina e glassa dalla testa ai piedi che esclamai corrucciata «Victoria Grace passione dai fuoco alla cucina.»
Le nostre risate echeggiarono per tutto l’appartamento, mentre il sole calava inesorabilmente verso la costa, come se volesse inzupparsi nel mare, lasciando diverse striature rosa salmone nel cielo arancio.
«E vivi qui da sola?» mi misi una mano davanti alle labbra, ridacchiando e addentando un’altra fetta di torta che, stranamente, era riuscita davvero bene.
Nello stesso momento in cui la avvicinai alla bocca, l’odore dolce e ‘caldo’ della stessa mi risvegliarono diverse sensazioni impercettibili che mi scatenarono tanti piccoli brividi.
“Che strano, eppure mi ricorda… qualcosa…” pensai, sommessamente.
«Nah-» rispose lei, sistemando meglio la teglia, nel divano. A gambe incrociate, dato il nostro essere maldestro, potevamo affermare di aver fatto fin troppo caos in troppo poco tempo, dando un’occhiata all’appartamento completamente sottosopra  «Vivo con una ragazza di nome Erika, ma è più piccola di noi.»
«Mh-mh…»
«Davvero non ricordi nulla, Victoria?»
Attimi di silenzio scorsero come se fosse sabbia da una clessidra, poi scossi la testa, con fare cauto ed insolitamente paziente «No.» conclusi, alla fine.
No, okay, dico sul serio; non mi piace quando mi fanno domande del genere, magari pensando che io sia un po’ troppo fuori, anzi, lo odio.
Perché la gente dovrebbe volerlo chiedere?, è qualcosa di importante?, di inevitabile? Io non credo proprio.
«Ma…»
«Senti.» la interruppi repentinamente, scavallando le gambe e alzandomi. «Non so perché te ne interessi, né cosa ti passa per la testa, ho già il mio psicologo. Non ho bisogno di parlarne con nessuno. E non voglio
«Io volevo solo dire che...» obbiettò la Rose, ma fu interrotta nuovamente.
«Ti ringrazio per la serata; ma domani ho scuola ed ho un mucchio di faccende da sbrigare, stammi bene.»
Pensai di essere piuttosto brava a svicolare, mentre chiudevo fragorosamente il portone e tornavo a casa; il problema è che non riuscivo a capire il perché del suo interesse, o l’istinto naturale di fuggire via. Il mio carattere impulsivo aveva vinto anche quella volta, lo faceva sempre.
Eppure un tempo, ne sono sicura, ero piuttosto diversa, avevo il sorriso contagioso. Lo psicologo diceva che la mia, un tempo, era stata una situazione abbastanza precaria: una famiglia difficile ed un problema di personalità che riuscivo a gestire fino ad un certo punto; lo stress e la perdita di memoria, si pensa, mi indussero a passare definitivamente al “lato oscuro”, l’appellativo spiegherebbe da sé il perché non mi piace lo psicologo. Quello stronzo.
Comunque la mia mente concepiva che c’era qualcosa di davvero strano, insomma, non erano sensazioni che si provavano normalmente ed il fatto che fossero state provocate da un pezzo di torta, era ancora più inquietante.
Cenai con le mie coinquiline e tornai nella mia stanza, come un vecchio lupo solitario. Ultimamente evitavo i contatti con ‘qualsiasi forma di vita organica’, o almeno così si dice, credo.
Le sentivo bisbigliare, su quanto fossi diventata strana e suscettibile, su come mi girava spesso la testa e sui miei incontri in centro, che non sembravano fare progressi. E adesso mi chiedo: ma che cazzo glie ne dovrebbe fregare, a loro?
Feci per bere dalla tazza di caffè caldo che tenevo stretta tra le mani; prima preferii soffiarci su, tanto per non scottarmi come una sciocca.
«A Luke non piacerebbe sapere che la sua ragazza sta diventando matta!» sentii un urletto compiaciuto ed alzai la testa che poco prima avevo affondato nel cuscino.
«Vaffanculo
Probabilmente tre tazze di bevanda piena di caffeina facevano davvero male ai nervi.
Mi misi a sedere a gambe incrociate e accesi il pc, distrattamente, prendendo a fissare intensamente un punto imprecisato della parete di fronte a me. Cosa che fa molto ‘mistico’.
 
 
Fuori dall’edificio e dai vetri appannati dalla condensa, riuscii ad intravedere la pioggia scrosciante che batteva su una frenetica strada, in autunno inoltrato. Un cartello pubblicitario –tra i tanti che scorgevo- di una sala cinematografica, mi fece identificare il posto come ‘Brooklyn’, anche se sapevo già dove mi trovavo. Una sensazione che sentivo così, a pelle.
Il mio naso rosso, che faceva un baffo a certi tizi delle pubblicità natalizie, contrastava con la familiarità del posto e la bella sensazione di calduccio che percorreva le mie membra.
«Che diamine, non è possibile!» sentii qualcuno imprecare, a distanza di circa cinque tavoli; alzai il viso alla ricerca della fonte –che sembrava squittire- e incrociai lo sguardo spiazzato del bibliotecario anziano mentre un’altra donna –la moglie, probabilmente- imprecò a bassa voce e borbottò «Ragazza, siamo in una biblioteca, buon Dio!»
La tipa che aveva fatto imbestialire la proprietaria si era appena versata sopra quello che credo fosse tè. Sinceramente, avrei imprecato anche io come un’ineducata, se mi fosse successa una cosa del genere, ma al contrario dei miei lineamenti induriti, lei sembrava piuttosto diversa: occhi castani dietro una sottile montatura, espressione allibita e guance che, ne ero sicura, dovevano sembrare prendere il volo ogni qualvolta ella sorrideva –cosa che pensai facesse spesso-; sembrava uscita da una di quelle riviste Natalizie accoglienti.
«Scusate, il fatto è che scotta.» spiegò più a sé stessa che agli altri, che la osservavano sottecchi.
Nel frattempo io, che mi ero avvicinata a lei per cercare un libro interessante, mi lasciai sfuggire una risatina; risatina che non sfuggì all’altra.
«Eeeehi, dico sul serio.»
«Non lo metto in dubbio.» ribattei, strizzando gli occhi e sforzandomi di ottenere un’espressione seria.
«Come stai, Victoria?»
«…»
«Qualcosa non va?»
«C-come… come fai a sapere il mio nome?»
Scoppiò a ridere, mettendo in mostra un enorme sorriso; allargando le braccia in segno di resa disse «Sono Anne Smith, siamo sullo stesso piano, a scuola.»
Nh… Smith? Mai sentito. No, aspetta… Ah, giusto, come ho fatto a non capire di averla già vista, prima d’ora? pensai mentre prendevo posto accanto a lei.
 
 
Una volta studiai qualcosa sulla comunicazione, a scuola. A quanto ne so –e a quanto si può capire- la comunicazione è fondamentale per noi esseri umani e, per farla, abbiamo bisogno sia di saper parlare che di ascoltare bene. L’ascolto non è qualcosa di davvero obbligatorio. Captiamo semplicemente i suoni, ma solo noi possiamo decidere a quali dare veramente ascolto; ecco perché, probabilmente, sentii solo allora una delle mie coinquiline esclamare spazientita «Vì, ha chiamato lo psicologo, mi ha chiesto di ricordarti che domani mattina ti aspetta all’ufficio. Credo che abbia notizie.»
«No… notizie?»
Uno squillo mi fece voltare verso lo schermo del computer –che avevo dimenticato di stringere tra le mani- che aveva iniziato a lampeggiare; un messaggio.
 
 
 
Oggetto: -
Mittente: mrsgreen@hotmail.com
Destinatario: victoriagrace@hotmail.com
Testo: “Non sei sola, mandarino mio ❤” -AJ
 
 
 
Rilessi il messaggio una mezza dozzina di volte, l’unico primo pensiero che mi sfiorò la mente fu… “Ma cosa cazzo…”
 
 

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