I Write Sins, Not Tragedies. { an Adam Monroe FanFics Collection }

di Hermione Weasley
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 01. Lussuria { Thanks For The Memories } ***
Capitolo 2: *** 02. Ira { Finché Morte Non Ci Separi } ***
Capitolo 3: *** 03. Superbia { Escape } ***
Capitolo 4: *** 04. Avarizia {Psycho Circus - Parte Terza} ***
Capitolo 5: *** 05. Invidia { Burning Feathers } ***
Capitolo 6: *** 06. Accidia { Too Much Life (Going To Waste) } ***
Capitolo 7: *** 07. Gola { Glace Aux Fraises } ***



Capitolo 1
*** 01. Lussuria { Thanks For The Memories } ***


La prima delle sette fanfiction scritte per settepeccati [at] livejournal, dedicata ad Adam Monroe.

Note: la scena si svolge all'incirca negli Anni Settanta, è una Heroes!Old Generation fic, quindi non figuretevi Angela vecchia :P

PS: le lyrics sono di Thanks For The Memories dei Fall Out Boy.



THANKS FOR THE MEMORIES.




One night and one more time.

Inspirò a fondo quell'odore per l'ennesima volta nel giro di pochi minuti.
Se ne riempì i polmoni: era qualcosa a metà tra il dolce e l'incredibilmente aspro. Esalazioni di acre amarezza che sembravano raschiargli la gola e riempirgli la bocca.
E poi attendeva qualche secondo, increspando le labbra in un tiepido sorriso quando si rendeva conto di quel retrogusto dolcissimo che sapeva dei suoi capelli corvini ancora sparsi scompostamente sul cuscino sgualcito.
Odore di fiori e del suo profumo da centinaia di dollari, mischiato ad un'essenza che avrebbe definito la loro.
Ed era ovunque, impregnava le lenzuola, le federe, il materasso, era penetrato nelle pareti, nel soffitto, nella moquette scura del pavimento.
Quella stanza sapeva di entrambi, come una fusione perfetta che trascendeva qualsiasi realtà pratica.
Ne poteva respirare il profumo persino addosso a stesso.

I'm gonna make you bend and break.

Il peso della notte appena trascorsa sembrava lambirgli languidamente la pelle nuda.
La luce filtrava fastidiosamente dalle tende tirate. Una sua pessima abitudine.
Era il gusto del proibito quello che si impossessava di lui, ogni dannatissima volta.
L'idea di andare contro ogni regola, contro ogni convenzione, l'idea di poterla fare sua, in barba a tutto e a tutti.
Riusciva ad illudersi per un breve, effimero, fugace istante - di essere l'unico. L'unico in tutta la sua vita, l'unico nei suoi pensieri, e il suo l'unico odore a farle da profumo durante la giornata.

Been looking forward to the future,
but my eyesight is going bad.


Eppure sapeva come funzionava. Le regole del gioco gli erano state ripetute tante e tante di quelle volte, che forse - per la prima volta nella sua infinita esistenza - le aveva imparate a memoria. Se ne fosse stato capace, avrebbe fermato nel tempo ognuno di quei momenti. Cristallizzati in un'imperturbabilità che per quanto illusoria, riusciva a renderlo comunque felice.
Ce n'erano tante di cose che non comprendeva. Quand'erano soli, era sua.
Ma mai aveva conosciuto qualcuno con doti dissumulatorie simili. Era profondamente convinto del fatto che avrebbe potuto convincere chiunque, ovunque, in qualsiasi momento della sua vita. Poteva persuaderti ad agire come lei preferiva, e poi convincerti di aver commesso il più empio dei delitti; il tutto seguendo una logica disarmante. E quei suoi occhi che non lo lasciavano andare nemmeno per un secondo, che lo incatenavano a lei in un legame temporaneamente indissolubile.
Era l'illusione della perfezione fatta persona.

But it's the wrongs that makes the words come to life.

Riusciva a ricordare perfettamente la sensazione dei suoi seni, premuti contro il suo petto bollente. E la sua voce, bassa e roca, che lo inebriava e gli dava alla testa tutte le volte che si chinava su di lui per sussurrargli in un orecchio parole che non avrebbe mai scordato.
Un brivido d'eccitazione lo scosse improvvisamente nel suo pigro ricordare.

Say a prayer, but let the good times roll.

Si era sempre chiesto se ci fosse anche il profumo di terzi in quella stanza.
Era geloso. Era possessivo. Era capriccioso. Era illogico ed irrazionale.
Forse quel retrogusto dolce non le apparteneva. Non apparteneva di certo a lui.
Forse era di qualcun altro.

He tastes like you only sweeter.

Rimase immobile, mentre una rabbia familiare gli riempiva il petto e faceva scorrere più rapidamente il sangue nelle sue vene, come un fiume in piena che raramente riusciva a gestire. Ne aveva avute di donne... aveva perso il conto di tutti i letti che aveva visitato...
Eppure con lei era diverso. Era totalmente... diverso.

Fu in un impeto d'ira che si voltò di scatto verso l'altra parte di letto, allungando un braccio ben sapendo che non avrebbe stretto a sé altro che aria.

One night, and one more time.
Thanks for the memories.


Era vuoto. Di lei solo una scia profumata, e il tepore del suo corpo impresso nel materasso.
Erano le regole del gioco. Le detestava.

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Capitolo 2
*** 02. Ira { Finché Morte Non Ci Separi } ***


- Seconda fic, sul prompt Ira stavolta.

- Mi è venuta fuori vagamente ironica - Adam non riesco a vederlo come un personaggio molto serioso, perciò mi è tornato più semplice (direi naturale) metterci qualche riferimento assurdo ogni tanto.

- La Theresa in questione è la nona moglie di Adam, sposata precisamente nel 1958. La vicenda qui ripresa è raccontata nella graphic novel che lo riguarda. Potete saperne di più cliccando QUI. Ho scombussolato un po' le coordinate spazio-temporali che danno (il fatto che li abbia uccisi la mattina, etc.), ma vabbè - spero sia comunque secondario.

- Grazie a chi ha commentato :)



Finché Morte Non Ci Separi.



Non aveva ancora sperimentato la morte per annegamento.
Anzi, tecnicamente, Adam, non era nemmeno mai morto.
Semplicemente perché non poteva.

Per quanto gli risultasse antipatico ritrovarsi riempito di pallottole, impiccato, soffocato o quant'altro, ogni tanto la prospettiva quasi lo divertiva - una sorta di improbabile svago nella vita di tutti i giorni.

Gli ci volle soltanto una frazione di secondo per capire quello che stava succedendo.

Era crollato a terra dopo ben due spari dritti al petto - ancora! Possibile che il genere umano peccasse così mostruosamente di fantasia? Quante volte avevano tentato di farlo fuori utilizzando semplici e dozzinali armi da fuoco? Troppe.

Il piombo non era di certo la sua passione. C'era diventato così abituato da trovarlo addirittura noioso ed insignificante... anche se, le cose di cui Adam si era stufato erano ormai diventate innumerevoli, e le armi da fuoco erano soltanto un'altra aggiunta ad una lista senza fine - una come tante altre.

Ma non era il dolore al petto che lo irritava, o l'acqua fredda che gli penetrava nelle narici a dargli fastidio - no, no di certo. Erano cose che poteva tranquillamente sopportare.

Era il viso di quel bell'imbusto dagli zigomi sporgenti e le labbra carnose che aveva visto accanto alla sua Theresa, piuttosto, a dargli il voltastomaco. Aveva sempre sospettato che fosse una poco di buono, ma tant'è - dopo otto mogli disseminate per altrettante epoche storiche, aveva smesso di fare lo schizzinoso. Approfittare del momento, cogliere l'occasione, era diventata la sua prerogativa. Theresa gli era sembrata carina, simpatica, spigliata, forse troppo.

Sapeva che non doveva averci messo poi molto per stufarsi di lui.
E così, mentre il povero Adam andava a guadagnare da vivere per entrambi, Theresa occupava il suo tempo con uno dei tanti impiastri perditempo che frequentavano il centro commerciale che tanto adorava.

Avrebbe dovuto sospettare che quella smania di acquisti non fosse dovuta ad una semplice fissazione per lo shopping, cosa decisamente normale per una donna - inizialmente, però, la sua frivolezza gli era quasi piaciuta. Le dava quell'aria di freschezza e spensieratezza che riusciva a tranquillizzarlo anche in faccia ad una morte definitiva (dire di non averla mai agognata sarebbe stata una menzogna bella e buona).

In questi pensieri s'annegava la sua mente, mentre con qualche bracciata raggiungeva la spiaggia che sorgeva poco distante dalla scogliera dalla quale la sua adorata si era premurata di gettarlo con l'aiuto di quell'insulso individuo che - non poteva non rendersene conto - era il suo amante.

L'aveva tradito.

Nella sua infinita esperienza non gli era mai capitato niente del genere.
Una fitta gelida al petto gli fece ricordare che invece sì - sì che era stato tradito.
Era stato in Giappone, un paio di secoli prima, quando la Carpa aveva deciso di ritrattare tutte le sue belle parole, per portargli via Yaeko.

Confessare di non essere mai riuscito a dimenticarla gli causava qualche difficoltà.
A ripensarci gli sembrava una donna totalmente insulsa. Aveva cercato di ritrovarla qualche tempo dopo la loro definitiva separazione, ne aveva sposato la nipote, ma se n'era stancato altrettanto rapidamente.

Si era inutilmente illuso che fosse tutta acqua passata - ma no, non era vero.

L'idea che quella fosse l'unica, cocente delusione che mai avrebbe potuto spazzare via, era ormai ben radicata nella sua mente.

Arrancò malamente sulla spiaggia, affondando nella sabbia bagnata del bagnasciuga, mentre cercava di riprendere a respirare normalmente.
La camicia gli si era strappata sul davanti, dove adesso campeggiavano due enormi fori rossi dai quali già non usciva più sangue.

Non solo l'aveva bellamente tradito, andando a scoparsi il primo deficiente che le aveva fatto gli occhi dolci - perché uno con quell'espressione a pesce lesso non poteva che rimorchiarle in quel modo le donne - ma era arrivata persino ad ucciderlo.

Lei, che sembrava così casta, pura, allegra e amante della vita...
Possibile che dopo così tanto tempo cose di questo genere arrivassero ancora a sorprenderlo?

Senza contare che quella era pure la sua camicia preferita.

Aveva decisamente oltrepassato ogni limite.

Il tessuto bagnato gli stava appiccicato addosso in modo tutt'altro che piacevole. Aspettò che le ferite si fossero rimarginate del tutto prima di dirigersi verso la stradicciola che conduceva alla loro casa poco distante dalla scogliera.

Aumentò il passo, mentre i pensieri s'accumulavano nella sua testa, facendogli ribollire il sangue nelle vene.

Finché morte non ci separi. Era la nona volta che l'aveva sentito ripetere, in formule e riti più o meno simili. Per otto volte aveva permesso che le cose seguissero il loro corso - ma stavolta... stavolta avrebbe accelerato i tempi.

Lo stomaco gli si contorceva ad ogni passo, e le tempie sembravano aver preso a pulsare quasi dolorosamente, mentre irrigidiva i tratti del volto in un'espressione contrita e a dir poco furiosa.

Riuscì a raggiungere il cottage in una decina di minuti, indispettito dal continuo ciack ciack delle scarpe piene d'acqua.

Il sole era già tramontato da un pezzo quando con incredibile sicurezza lanciò la prima pietra abbastanza grande che trovò in quello che era stato il loro giardino. Il vetro della finestra crollò rapidamente, permettendogli di entrare nell'abitazione, dato che - ahimé - le chiavi erano andate a finire chissà dove nelle profondità marine al largo di Los Angeles.

(Ora che ci pensava, era stato fortunato a non aver incontrato nessun pescecane durante la sua nuotatina di piacere. Quella sì che sarebbe stata una novità da aggiungere alla lista dei modi più simpatici di morire).

- Thereeeeesa...

La voce gli uscì cantilenante, vagamente inquietante, mentre individuava l'arma, con cui avevano creduto di averlo ucciso, abbandonata sulla credenza della sala principale.

Voci concitate e spaventate arrivarono dalla camera da letto.

Cristo! Se la scopava sul suo letto? Ma dove diavolo era andato a finire il buonsenso?

Raggiunse velocemente la stanza, mentre il continuo sciaguattare delle scarpe gli dava un'aria quasi ridicola mentre compariva sulla soglia della camera, sorprendendoli nel bel mezzo di qualcosa che non aveva proprio intenzione di definire nei dettagli.

L'espressione di puro disgusto sul suo viso rispecchiava quella di terrore nelle due paia d'occhi che lo fissavano, increduli.

Scosse il capo, apparentemente molto calmo.

- Avrei dovuto capire che hai dei gusti pessimi quando mi hai regalato quell'orrenda cravatta a pallini per Natale.

Disse con tono strano, quasi ironico.

- Di certo non mi aspettavo che saresti arrivata a questi livelli e - ah! Ovviamente non è vero che mi è finita per sbaglio nel tritarifiuti. Ce l'ho fatta cadere di proposito.

La sentì mormorare qualche scusa farfugliata e totalmente priva di logica.
Non risultava molto credibile col lenzuolo malamente tenuto sul petto, e gli occhi sbarrati dal panico.

- Finché morte non ci separi, giusto?

Chiese conferma in una di quelle fastidiose domande retoriche che non amava affatto.

- Finché morte non ci separi.

Ribadì in tutt'altro tono, mentre un'ombra scendeva sul suo viso.
Puntò la pistola prima contro di lui, facendo fuoco, forandogli la fronte, mentre uno schizzo di sangue e altri materiali non meglio identificati imbrattarono il muro alle loro spalle.

- Ritieniti fortunata di non essere finita nel tritarifiuti, Theresa.

Fece fuoco. Di nuovo.
Non volle vedere, e si voltò rapidamente.

Aspettò solo un paio di secondi, rilasciando lentamente il fiato, costringendosi a calmarsi.

Una doccia veloce, giusto per togliersi quell'irritante retrogusto salato dalla faccia, una camicia e dei pantaloni puliti, e poi sarebbe sparito.

Di nuovo.

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Capitolo 3
*** 03. Superbia { Escape } ***


Dedicata a sanzina89 :)

Escape.

And in the end
we lie awake
and we dream of making our escape.


the Escapist, Coldplay

*


La schiena... la schiena mi fa un male del diavolo.
Cerco di girarmi come posso ma lo spazio e stretto, non c'è luce, e il mio livello di sopportazione sta rasentando i minimi storici. E parlare di minimi storici, nel mio caso, è estremamente, estremamente grave.
C'è odore di sangue qua dentro anche se le nocche hanno smesso di bruciare.
Credo di essermi rotto un paio di dita e il polso destro dall'inizio del mio eccitante soggiorno qua dentro. Non ne sono del tutto certo, ma, ad un certo punto, sono piuttosto convinto di aver preso in seria considerazione l'idea di passare il tempo spaccandomi ogni singolo osso del corpo, così... non può essere sicuramente peggio dell'apatia più totale.
Mi verranno le piaghe da decubito, lo so. E faranno schifo.
Certo... ammesso e non concesso che possa riuscire ad uscire da qua un giorno.
Il tempo non è mai stato un mio problema. Quindi aspetto... e spero.
Sento una bassa e grottesca risata risalirmi su per la gola.
Sperare.
Ho smesso di farlo tanto, tanto tempo fa.
E' buffo. Quando ho smesso di avere speranze o aspettative, sono finite pure le lamentele. Fosse per me, il banco reclami sarebbe chiuso ventiquattr'ore su ventiquattro.
Non c'è niente da sperare, o da augurarsi.
La mia unica certezza, che io sia fuori o dentro questa fetida cassa da morto, è che il genere umano è biologicamente predisposto al male, all'insuccesso, alla crudeltà e alla codardia.
Perché ne ho visti tanti, io, di uomini. Di ogni razza, età, altezza, peso, carattere, nazionalità...
Sono stato tra gli inglesi sempre convinti di avere il mondo ai propri piedi, quelli che bevono il thé delle cinque prendendo la tazza come fosse fatta di carta velina, col mignolo all'insù, dandosi arie da grandi filosofi; poi i francesi, con quell'assurda inflessione della voce, la r più ridicola della storia del mondo, e una capacità incredibile di far finta di niente. Penso si chiami nonchalance, o qualcosa del genere. Il francese mi fa abbastanza schifo. Non sono mai riuscito ad impararlo come si deve. I primi tempi faticavo a farmi un nome in quella reggia senza fine, poi è scoppiata la Rivoluzione e me ne sono andato. Mi ricordo chiaramente di essere stato inforcato da un paesano lercio come un cane randagio, mentre mi prendeva a male parole. Mi ha fatto un male del diavolo. Quando mi sono risvegliato i giardini erano pieni di cadaveri. Mi sono limitato a recuperare un vestito un po' più pulito, fregato i gioielli sfuggiti ai ribelli, e me ne sono andato verso Marsiglia, per prendere una nave il più presto possibile.
Parigi, città dell'amore? Rido tutte le volte che lo sento dire.
Non ho mai visto tanta efferatezza in vita mia - e insomma, ripeto, di cose ne ho viste. Anche troppe, credo.
E' stato poi il turno degli spagnoli che fanno solo casino, e pregano Dio per qualsiasi cosa, perché il raccolto vada bene, perché il re non li impicchi tutti, perché non pestino una merda quando escono la mattina presto. Gente strana, gli spagnoli. E poi gli italiani - ridono. Ridono sempre. Che avranno mai da ridere? Il soggiorno da quelle parti è stato molto breve: volevo vedere che faccia avesse questo fantomatico Papa, ma ci sono stati tafferugli e sono salito sulla prima nave per l'Oriente. Sono finito in Cina e poi in Giappone.
I cinesi sono indecifrabili. Sostanzialmente è perché non c'ho mai capito un cazzo in quello che mi dicevano.
Ora che ci penso... il Giappone è venuto prima dei francesi.
Mi sono dimenticato di nuovo... avevo messo giù una mappa di tutti i miei viaggi, ma credo di averla dimenticata da qualche parte. Forse in qualche motel, o bordello.
No - no, aspetta. I bordelli non esistono più, vero?
Do un violento colpo al coperchio della bara che riecheggia con familiare lugubrità facendomi vibrare fastidiosamente i timpani.
Lui.
La Carpa. Mi ha già rovinato una volta.
Scaccio il pensiero di Yaeko e del suo faccino lobotomizzato, sforzandomi di disprezzarla con tutto me stesso.
La verità è che ovunque sia stato, non ho mai trovato casa.
E no, non intendo una casa nel vero senso del termine, con la staccionata bianca da saltare agilmente a piedi uniti tanta è la gioia di vivere, mi riferisco al sentimento di casa.
Nessun paese mi appartiene. Legarsi è inutile perché non posso invecchiare con nessuno, e non perché sia predisposto al rimorchio ossessivo compulsivo, ma solo perché è il mio corpo che non invecchia.
Io resto sempre lo stesso, e il mondo cambia in continuazione. Sempre in peggio.
Dio è eterno, dicono.
Dio non esiste, dico io.
Io sono eterno, Dio invece non lo è.
Quindi, se esiste un dio, quel dio sono io.
E' un sillogismo un po' astratto, ma ehi - non sono mai stato un filosofo.
Sono immutabile, e il mondo mi ruota attorno. Sono il perno, il fulcro dell'Universo, e tutto e tutti mi girano attorno.
Sorrido tra me, e penso a quanto siano stati stupidi Angela, Arthur, Dan... tutta quella manica di spostati che non mi hanno voluto dar retta.
Avremmo potuto cambiare tutto, fare la differenza, resettare questo mostro che chiamiamo comunemente 'umanità'.
Ma non mi hanno prestato ascolto.
Mi hanno ignorato, ancora una volta.
Perché è così che si comportano: fanno come se io non ci fossi, e non capiscono.
Dio, no, no che non capiscono.
Cosa ne vorranno sapere loro di come va il mondo, eh?
Sento l'impazienza fremere nel mio stomaco, e colpisco di nuovo il coperchio della bara.
Che cazzo di legno è? Impreco ad alta voce.
Di nuovo.
Ancora.
Mi sono riaccartocciato le dita. Grandioso.
Veramente grandioso.
Oh, ma stavolta le cose andranno diversamente.
Nessun non-morto resta troppo a lungo in un cimitero, e io sono il più non-morto di tutti. La logica è totalmente a mio favore.
Esulto mentalmente perché so di avere il successo in tasca.
Il tempo è la soluzione, e io ne ho quanto ne voglio.
E poi, Cristo!, l'ho pure visto fare in un film!

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Capitolo 4
*** 04. Avarizia {Psycho Circus - Parte Terza} ***


Avarizia. Questa è anche la terza parte della gen Sylar/Adam che trovate QUI.

Psycho Circus.

- 00.31-00.42 -


"Quanto guadagna un orologiaio?"
Riprende a parlare proprio mentre è sul punto di riordinare la fila delle carte di quadri.

"Non ti hanno insegnato che di questi argomenti non si parla?"
"Uhm, no."
"Dovresti metterti al passo coi tempi, allora."

Si maledice mentalmente. La voce gli è uscita in tono assolutamente odioso. L'attesa è snervante.
Sarà passata al massimo una mezz'ora, ma il tempo si è talmente dilatato da farle sembrare ore ed ore, più che trenta miseri minuti.

"Allora?"
Sta insistendo di nuovo. E' l'unica cosa che gli riesce fare egregiamente.
E' capace di farti venire la nausea nel giro di pochi minuti. Un campione.
"Ci credo che sei diventato un killer psicopatico," riprende, non avendo ricevuto alcuna risposta (nemmeno un misero monosillabo!), "insomma, quanti soldi potrai aver fatto riparando lancette?"

"Erano pezzi rari," specifica con aria pignola. "Non orologi, pezzi rari," sottolinea di nuovo, come se non fosse già abbastanza chiaro.

"Oh. Certo," sembra quasi un tono reverenziale quello che usa, il tutto condito da un mezzo inchino, "allora quanto diavolo si guadagna a spostare le lancette di pezzi rari?"

Sylar è costretto a chiudere gli occhi e fare un respiro molto, molto profondo.
"Non molto," si risolve a dire.
La possibilità sono due: o rispondendogli (anche se brevemente) riesce a farlo tacere saziando la sua curiosità; o l'effetto ottenuto sarà praticamente contrario, come buttare legna sul fuoco, no?
Non è del tutto sicuro di voler correre un rischio di tale portata.
"Non me n'è mai fregato niente dei soldi," aggiunge, giusto per darsi un tono.

Adam, per tutta risposta, si metta a ridere, quasi avesse detto un'enorme bestialità.
"Ma il denaro manda avanti questo turpe mondo, mio caro," sentenzia quasi solennemente, senza però riuscire a nascondere una nota di puro disgusto nel modo in cui pronuncia la frase. "Rubare è necessario se si vuol mandare avanti la baracca."

"Non per me," è la subitanea quanto sorprendente risposta di Sylar.
Ha utilizzato i risparmi accumulati sino a quel momento per mantenersi in uno stato semi decente. Non è mai stato un uomo di grandi pretese o dai vizi costosi, tutt'altro. Raccoglie i frutti di ciò che ha seminato in precedenza, e ne va abbastanza fiero.

Alza di nuovo lo sguardo, insospettito dall'improvviso mutismo dell'altro.
Lo vede frugarsi nelle tasche del giubbotto scuro, prima di buttare sul tavolo svariate collane, anelli e gioielli, alcuni dall'aria piuttosto antica.

"Hai intenzione di metterli?" Chiede ironico, senza riuscire a nascondere uno stupidissimo mezzo sorriso di scherno che stenta ad aprirsi sulle sue labbra.
"No, sono un regalo per te, Psycho."
"Oh, non dovevi, sul serio."
"Oh mio Dio. Hai un senso dell'umorismo! Potrei quasi mettermi a piangere, lo sai?"

Sylar si stringe nelle spalle, tornando a prestare attenzione all'entrata perfettamente immobile del magazzino.

"Li ho presi stamattina prima di colazione," spiega Adam, raccogliendo poi tutti quei preziosi, rimettendoli al sicuro.
"Ho intenzione di fare una capatina a Las Vegas dopo che tutto questo sarà finito."

Deve probabilmente suonare come una battuta, ma Sylar non la capisce, ed Adam è il solo a scoppiare a ridere.

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Capitolo 5
*** 05. Invidia { Burning Feathers } ***


Dedicata ad Eli aka Elivi :)


Burning Feathers.

Do you really know me?
I might be a God.
[...]
Burning feathers, not an angel,
Heaven's closed,
Hell's sold out.


Broken { Sonata Arctica }

*


"Ti ho tirato fuori da là dentro solo perché abbiamo un interesse comune," si affrettò a precisare senza modificare né alterare la placida espressione che gli segnava il volto.

Adam detestava profondamente il modo in cui Sylar gli si rivolgeva.
C'era qualcosa, nel suo sguardo, che non gli piaceva affatto.
Anzi, a dir la verità, era tutta la sua persona - nell'intero - a non convincerlo proprio.

Lo vedeva subdolo, imprevedibile, sadico e moralista allo stesso tempo, come di un bigotto un po' storto, che commette i suoi peccati peggiori proprio nell'assurda convinzione di star assolvendo le sue colpe più terribili.

"Ne sarei uscito comunque," si limitò a ribattere.

Era vero. Dannatamente vero. E Sylar lo sapeva.
Per questo - non appena era venuto a conoscenza di ciò che stava succedendo - si era affrettato a trovarlo. Il viaggio che l'aveva portato in Giappone aveva accresciuto la già affermata convinzione che trovare Hiro Nakamura sarebbe stato necessario. Essenziale.
Teletrasporto, possibilità di viaggiare avanti e indietro nel tempo. Il potenziale di un potere simile si estendeva a perdita d'occhio nella sua mente, in una deliziosa e succulenta prelibatezza che non attendeva altro che essere afferrata e divorata.

"Ma ti ho tirato fuori io," fece notare Sylar.

Vero anche questo. Adam non aveva di che ribattere, e si limitò a stringersi nel suo completo spiegazzato. I muscoli della schiena ancora chiedevano pietà e tiravano in modo così fastidioso da lasciargli una perenne espressione contrita sulla faccia.

"Non so seriamente chi tu diavolo sia," si risolse a dire in tutta sincerità.
Era vero: Sylar aveva sentito parlare di Adam (aveva colto stralci di conversazione quando si era ritrovato a seguire prima Suresh e poi Bennet), ma Adam non era a conoscenza dell'esistenza di un certo Gabriel Gray che si faceva chiamare Sylar per puro egocentrismo.
Uno sconosciuto. E nemmeno tanto illustre, per giunta.
Niente lo tratteneva lì. Sarebbe potuto scappare in un modo e nell'altro, e se fosse morto durante il tentativo -
Il pensiero lo fece ridere. Morto. Come no.
Certo, soffriva - la sua schiena ne era la prova -, ma non poteva morire.
L'invidia lo colse come un fiume in piena.
Il suo viso non gli diceva niente. Gli metteva solo un certo timore, una specie di diffidenza che lo spingeva a non fidarsi ciecamente e - al contempo - a conferirgli la più totale e spassionata credibilità.
Per quanto strano gli sembrasse il suo volto (segnato da qualcosa che Adam avrebbe chiamato solitudine), quell'uomo non sarebbe mai stato come lui.
E viceversa.
Poteva morire, se voleva. Poteva togliersi la vita con estrema facilità.
E Cristo! Lo sapeva che sarebbe bastato un proiettile nel cervello per uccidere anche se stesso, ma era anche altrettanto consapevole della sua sostanziale codardia.
Non ci sarebbe riuscito. Aveva troppa, troppa paura della morte.
Era l'unica cosa che ancora non conosceva, che non aveva sperimentato, o che comunque figurava come prima cosa nella lista delle emozioni ancora mai provate (una lista mentale abbondantemente fornita di fantasie astruse e prive di senso).

Quello, invece, era un uomo che viveva nella sua testa.
Si rinchiudeva nella tranquilla realtà della sua mente, e non ne usciva mai, se non per qualche fugace scappatella.
Adam ne era sicuro. Era diventato - col tempo - un attento osservatore, frettoloso nel dare giudizi (c'era forse bisogno di indulgenza col genere umano?), ma attento a cogliere anche il benché minimo particolare.
Si chiese se ciò che Sylar vivesse in continuazione entrasse mai realmente in contrasto con quello che aveva intorno - con ciò che di concreto aveva intorno.
Stabilì che sì, succedeva, ma che non era comunque abbastanza sconcertante da farlo desistere dalla sua continua pratica di assuefazione a se stesso.
Forse si era spinto troppo in là per poter tornare indietro.
Forse era spacciato e non c'era niente da fare.

"Mi chiamo Sylar, te l'ho detto, e abbiamo un obbiettivo comune, non credo che debba interessarti altro."

Adam pensò che era asciutto, e no, non nel senso fisico del termine. Una persona asciutta. Non diceva mai né troppo, né troppo poco.
Era privo di sbavature. Secco. Preciso. Conciso. Sintetico.
Ben definito. Una volta entrati nel suo meccanismo - rifletté Adam - non ci si poteva sbagliare.
Perché nessuno, nel suo immaginario, era così strano da non poter essere infilato in una categoria, in uno schema che avesse un nome, delle caratteristiche principali e tutto il resto. Forse persino un'etichetta.

"Che razza di nome è Sylar?"
"Un nome. Non è ciò che conta, o vuoi farmi credere che qualche secolo di esperienza non ti abbia insegnato niente sulle apparenze?"

Pungente. Intelligente. Velenoso a volte.
La sua voce gli suonava nelle orecchie come fosse stata qualcosa di poetico. Non pareva un personaggio moderno, ma qualcosa che riportasse al passato, o meglio ancora ad un non-tempo. Uno di quei luoghi astratti che non hanno alcuna connotazione. Era cristallizzato. Cristallizzato nella sua testa. Che fosse stato il 1300, il 1850 o il 2020, Sylar - ai suoi occhi - sarebbe apparso nello stesso identico modo.

"Sei dei buoni o dei cattivi?"
Finì per chiedergli Adam. Alla parola buoni gli venne subito in mente la Compagnia, Angela, Arthur, quello svitato di Daniel, e l'allegra combriccola. Persino Victoria, che aveva tolto di mezzo di recente, grazie all'aiuto di un ingenuo Petrelli. Uno dei tanti.
I cattivi, erano tutti coloro che non facevano i loro interessi. Semplice.
Limpido come l'acqua. La distinzione gli parve geniale e si congratulò con se stesso per non aver sfigurato di fronte ad un essere senza tempo come il fantomatico Sylar, che ancora lo fissava con aria incuriosita e indifferente allo stesso tempo.

"Da nessuna parte. Dalla mia."

Adam gli sorrise, aveva capito. Non voleva sbilanciarsi, ecco perché si comportava così.

"Non te l'hanno detto? Il Paradiso è chiuso, l'Inferno è al completo, non dovresti aver paura di schierarti."

Sylar scosse il capo. Lo stava deridendo, probabilmente.
Adam non volle pensarci: l'idea gli dava alla testa.

"Gli schieramenti non esistono. E' troppo facile entrarci, altrettanto uscirci."

Il modo in cui lo contraddiceva non gli piacque affatto.

E poi. Poi il pensiero lo fulminò di colpo.

Gli sembrava un angelo. Un angelo dai lineamenti mostruosamente deformati, troppo orribile per rimanere nell'alto dei cieli, troppo nobile per poter marcire nelle viscere della terra.

Sylar era rimasto chiuso a metà. Tra il Bene e il Male, e non poteva uscirne.
Non ci sarebbe mai riuscito.

Eternamente sospeso in quel limbo fatto di niente. Di peccati e opere di bene. Di più e di meno che si annullavano l'un l'altro, lasciandolo solo e a mani vuote. Costantemente.

"Troviamo Nakamura, allora."

Invidioso. E di che? Quell'uomo stava messo peggio di lui. Ci si sentiva vagamente affine, ma non così tanto da fargli abbandonare definitivamente l'atteggiamento paternalistico che amava adottare con chiunque.

Sylar era l'angelo, e lui era Dio.

Un Dio diverso, è vero, ma pur sempre un Dio.

Sylar, del tutto inconsapevolmente, gli aveva dato una speranza. Una speranza fatta di rassegnazione e sguardi vuoti, certo, ma pur sempre una speranza per un mondo che gli faceva - sebbene fossero passati quattro secoli - troppo schifo.

"Bene," concluse Sylar.
"Bene," gli fece eco Adam.

L'Apocalisse, la rinascita, non gli erano mai sembrate così vicine come in quel momento.

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Capitolo 6
*** 06. Accidia { Too Much Life (Going To Waste) } ***



Too Much Life (Going To Waste).

Scare myself to death
That's why I keep on running
Before I've arrived
I can see myself coming
I just wanna feel
Real love feel the home that I live in
Cos I got too much life
Running through my veins
Going to waste


Robbie Williams - Feel



"E' snervante non poter vedere la tua faccia."

La voce di Adam gli arriva - come sempre - dall'altra parte della parete che li separa.
Elle è appena uscita, la messinscena già consumata (ormai quotidianamente), le pillole già sputate e fatte finire nel cesso.

Il letto è scomodo, e cigola non appena ci si siede sopra.
Non gli risponde subito, ma aspetta di essersi sistemato, di aver appoggiato la schiena al muro, e di aver socchiuso gli occhi, come se avesse bisogno di concentrarsi.

"Nemmeno io posso vedere la tua," commenta infine, piegando le ginocchia per poterci appoggiare le braccia.
"Oh, sul serio?"

Peter non si è ancora abituato al tono canzonatorio di Adam.
Ha la continua, stressante convinzione che si stia prendendo gioco di lui, e che si diverta pure, ridacchiando silenziosamente, al sicuro dal suo sguardo indagatore.

"Perché non trovi un modo per venire di qua, allora?"

Chiede, allargando leggermente le braccia. Gli piace pensare di averlo davanti, e di poterci parlare normalmente, non come due topi chiusi in gabbia che attendono di essere infilati nei meandri di chissà quale perfido, labirinto mortale.

"E farmi fare l'elettroshock dalla psicotica?" Lo sente sbuffare. "Non ci penso nemmeno."
"Allora dovrai accontentarti di immaginartela, la mia faccia."
"Sono solo pigro, amico, non te la prendere," aggiunge sarcasticamente, ridendo appena.

C'è una pausa, in cui entrambi fissano le pareti che hanno di fronte. Grigie e spoglie come qualsiasi altra cosa racchiusa tra quei vetri.

"Tu non sei americano, vero?"
"No, inglese."
"Come diavolo ci sei finito qua dentro?"
"E tu come ci sei finito?"
"Da quando in qua si risponde ad una domanda con un'altra domanda?"
"Da sempre?"
"Oh. Temo di essermelo perso."
"Tranquillo, amico. Ti assicuro che sono in giro da tanto di quel tempo che," sbuffa una risata, di nuovo, "bè, puoi fidarti ciecamente di me."

Peter sorride. Sta parlando con un uomo che nemmeno conosce, di cui non può dire di aver visto la faccia, ma che gli sta assicurando di esser degno di fiducia, anche di quella di un perfetto sconosciuto.

"Da quanto sei qua dentro?" Domanda, improvvisamente incuriosito.
"Da troppo tempo," taglia corto Adam.

Peter scommette che, dicendolo, Adam ha alzato gli occhi al soffitto.

"Sei sempre così vago nelle tue risposte?"
"Dipende da cosa mi chiedi."
"Cosa dovrei chiederti per metter su una conversazione interessante?"
"Chi ha vinto la Guerra d'Indipendenza?"
"Mi dispiace, non sono molto ferrato in materia. So che hanno vinto gli americani, però," conclude con una sorta di malcelata, patriottica soddisfazione nella voce.
"Questo lo sanno anche i criceti, Petrelli."

Peter riapre gli occhi, infastidito dalla luce biancastra dei neon. Non fosse stato per la consapevolezza di esserci (esserci seriamente, con la testa e tutto il resto), avrebbe trovato quel posto tale e quale ad un ospedale pischiatrico.

Scaccia il pensiero.

"Te l'ho detto che non sono molto bravo in storia," si giustifica, stendendosi sul letto, "e sentiamo... com'è che conosci il mio nome?"
"Tutti conoscono il tuo nome."
"Tu non dovresti."
"La psicotica parla troppo."
"Capisco."

Sbadigliano entrambi. Peter leggermente in ritardo rispetto all'altro.

"Quanto ci vuole per perdere la testa qua dentro?"

Il suono tono cambia di colpo, facendosi solo molto stanco e decisamente stufo.
Incrocia le braccia dietro la testa, chiudendo ancora gli occhi e fingendo di essere nel suo letto, nella sua stanza, nel suo appartamento.

"Più di quanto tu possa credere, amico," risponde Adam.
Di certo non quello che si aspettava. Gli ha detto di essere rimasto lì molto a lungo, ma quanto di preciso? Quantificare - in questo momento - gli è praticamente impossibile.

Rimangono entrambi in silenzio per un attimo che sembra durare un'eternità.

"Sono troppo vivo, per restare qua dentro," lo sente mormorare, quasi fosse sovrappensiero, "troppo, troppo vivo, Peter. Mi stanno negando tutto ciò che un essere umano dovrebbe poter provare."

Tutto?

"E tutta questa vitalità... si sta sprecando, e basta. Sono relegato ad un'accidia obbligata, per colpa dei miei - dei nostri - carcerieri."

Peter non risponde, ma capisce che Adam dev'esser rimasto a fissare quelle pareti grigie incredibilmente a lungo. Magari ne conosce ogni crepa, ogni imperfezione.
Il pensiero lo costringe a rabbrividire, mentre qualcosa di molto simile ad un conato di vomito gli risale su per la gola.

Non vuole rimanere chiuso là dentro. Non sa cosa ci sia fuori, ma la sua vita - per quanto sfocata gli possa apparire - non può avere come unici spettatori quegli stupidi muri spogli.

"Cosa facevi fuori di qui?"
"Cercavo di rendere il nostro, un mondo migliore," asserisce Adam con aria stranamente piccata, "ma nessuno sembrava intenzionato ad aiutarmi."
"Lo farei io, se potessi," ribatte Peter, concedendosi un sorriso storto.

Non è quello che voleva fare lui stesso? Cambiare il mondo, renderlo migliore, seguire i propri ideali, aiutare chi ama... tutti obbiettivi che ha tentato di raggiungere, ma che l'hanno portato sempre più lontano da casa e da se stesso.

Salva la cheerleader, salva il mondo.
Se potesse ricordarselo, Peter penserebbe che ci vorrebbe qualcuno pronto a salvare lui, adesso.

Adam, forse, può farlo.

"Usciremo di qui," decide infine, tamburellando pigramente le dita sulle proprie cosce, "e quando saremo liberi, ti aiuterò a salvare il mondo," annuncia solennemente.
"Sul serio? Un pensiero nobile, da parte tua, Peter."

Pronuncia il suo nome con un'inflessione strana, ma Peter non ci fa caso.

"Grazie, amico," aggiunge Adam subito dopo, sperando di non esser suonato troppo scontroso.
"Ci pensiamo domani mattina, okay?"
"Ricevuto," gli fa eco, prima che le luci si spengano di colpo.

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Capitolo 7
*** 07. Gola { Glace Aux Fraises } ***


Glace Aux Fraises.

*


"Non mi fido degli italiani."
"Oh, andiamo, Adàm," rispose contrito l'uomo che l'accompagnava, "non potete tornare chez vous prima di aver assaggiato il jelato di Monsieur Procope."
"Per Dio!"

Imprecò perfettamente udibile. Tacque fino a quando non raggiunsero il luogo che quel parigino gottoso, Monsieur Partre, aveva tanto insistito per mostrargli.

Mentre il suo accompagnatore sprecava parole per questa o quella attrazione di Parigi (una città così lercia Adam non l'aveva mai vista), pensò a Helene, sua moglie, che ancora l'aspettava a casa.

Mentre Helene avvizziva e invecchiava nella loro grande casa in Germania, Adam sfoggiava la stessa identica prestanza di quattordici anni prima, quando si erano sposati nel 1672. Le cose non andavano molto bene tra loro.

"Et voilà!" Annunciò soddisfatto, voltandosi in direzione di Adam non appena ebbero raggiunto un capannello di gente che sbarrava l'entrata del Café Procope.

"Come contate di oltrepassare questa folla, di grazia?"
Domandò, scoccando un'occhiata pseudo soddisfatta in direzione di Monsieur Partre.

"Adàm, voi non avete fiducia nelle mie referenze," rispose piccato, dando un colpetto ad un paio di enormi sottane che sbarravano l'entrata del locale.

Si mise ad agitare le braccia assieme al suo lungo bastone da passeggio, richiamando l'attenzione di quello che doveva essere il proprietario, l'italiano.

"Franscescò!" Chiamò a gran voce, prima che un ometto piuttosto bassino e con due grandi baffi neri non chiedesse gentilmente di lasciar passare i due ospiti.

Adam si sorprese di tale riverenza e non tardò ad accodarsi a Monsieur Partre, che già rideva ed elogiava il gelataio.
Quando raggiunsero la sala principale, Adam si rese conto che era incredibilmente gremita di gente. Fece l'occhiolino ad una graziosa dama che gli aveva rivolto un gran sorriso, pensando che - in fondo - una fermata in quel posto non gli avrebbe fatto alcun male.

Seguì distrattamente la conversazione in francese tra Monsieur Partre e il gelataio, limitandosi a studiarne l'aspetto di stampo inconfondibilmente mediterraneo.

"Tiens, Adàm," riprese Monsieur Partre, ficcandogli una coppa di vetro piena di gelato tra le mani, "ringrazierete di essere nato, Monsieur, ve lo posso assicurare!"

"Certo, certo," borbottò Adam, fissando la montagna rossa nella sua coppa.

"Fraises," specificò ancora il suo accompagnatore, che smaniava di poter testare la sua reazione.

Adam affondò il cucchiaino nella massa fredda, prendendone un po'.
Esitò a metterlo in bocca, ma i due lo scrutavano attentamente e non aveva voglia di fare una figuraccia.
Lo assaggiò con calma, lasciando che la sua lingua si abituasse al freddo e al sapore di quel cibo, mentre ogni papilla gustativa sembrava volerlo avvisare di essere proprio lì, ancora viva e palpitante.

E mentre Monsieur Partre e Monsieur Procope ridevano della sua espressione, prendendo in giro il proverbiale scetticismo degli inglesi, Adam pensò che non avrebbe scambiato quella coppa di gelato alle fragole nemmeno per la compagnia della donna più bella del mondo.

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