Quattro volte in cui Emma e Regina furono felici e la quinta in cui non lo furono.

di _Trixie_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il primo bacio ***
Capitolo 2: *** Il primo appuntamento ***
Capitolo 3: *** La prima volta ***
Capitolo 4: *** Il primo figlio ***
Capitolo 5: *** Il primo amore ***



Capitolo 1
*** Il primo bacio ***


Personaggi: Emma Swan, Regina Mills, Henry Mills (Biancaneve | Mary Margaret Blachard, Tremotino | Signor Gold, Principe Azzurro | David Nolan, Belle)
Pairing: Swan Queen (Rumbelle, Snowing )
Tipo di coppia: Femslash (Het)
Rating: Arancione
Generi: Sentimentale, Slice of life, Triste
Note: What if?
Avvertimenti: Spoiler!
Introduzione: La storia è stata scritta dopo alcune puntate della terza stagione, perciò alcuni dettagli (come il fatto che David sia impossibilitato a tornare a Storybrooke) non sono stati presi in considerazione. E non perché non volessi farlo, ma perché i produttori sono troppo imprevedibili e giocano certi scherzi poco simpatici.
La storia è composta da cinque capitoli e l'aggiornamento sarà ogni lunedì ;D 
Spero che vi piaccia, buona lettura, 
Trixie :)

 
A K., per la pazienza nell'aiutarmi 
a scegliere i titoli.
 
 
 
I. Primo bacio
 
 
Quando Regina, Emma e tutti gli altri tornarono dall’Isola Che Non C’è con Henry, scoprirono che i giorni a Storybrooke non erano trascorsi esattamente nel più tranquillo dei modi.
«Belle!» urlò il signor Gold dal ponte della nave di Uncino che stava attraccando al porto. Nonostante l’andatura poco regolare, l’uomo fu il più veloce a scendere sulla terra ferma per stringere a sé la ragazza che gli corse incontro.
Gli abitanti di quel piccolo angolo del Maine, che sembravano essersi raccolti al porto, applaudirono quando videro Henry, stretto tra le sue mamme, sorridere sano e salvo.
«Ma che diavolo è successo qui?» domandò invece Regina, rabbuiandosi immediatamente mentre il suo sguardo scorreva in lontananza.
«Cosa?» domandò Emma, che ancora non aveva notato nulla, ma che impallidì nel seguire lo sguardo di Regina. Oltre gli edifici del porto, piccole linee di fumo si alzavano verso il cielo grigio a brevi intervalli.
«Belle, cosa è accaduto alla mia città?» domandò il sindaco alla ragazza quando la ebbe raggiunta. Il signor Gold stava giusto chiedendo il quel momento la ragione degli occhi tristi di Belle e delle sue numerose scottature sugli avambracci e sul volto.
«Un incendio nella foresta» disse Belle, scuotendo la testa. «Siamo riusciti a domarlo solo da qualche ora, non abbastanza in fretta perché non si propagasse alla città. La scuola e molte case in quella zona sono andate distrutte, insieme a un’ampia parte della foresta».
«Un incendio? Avete fatto delle indagini? Sapete già se è scoppiato a causa di un caso sfortunato o se è stato provocato da qualcuno?» intervenne Emma.
«Abbiamo già il nostro piromane» disse Ruby, che si unì alla conversazione con Mary Margaret e David. Gli unici a rimanere sulla nave furono Uncino e Neal.
«Chi è stato?» domandò Regina, con furia.
«Ritiri gli artigli, sindaco Mills» la avvisò Ruby. «Avete presente la storia dei tre porcellini? Pare proprio che il signor Ludwing abbia incendiato la casetta di paglia costruita nel bosco da uno dei tre fratellini Spoink. Non sopportava gli schiamazzi dei tre bambini mentre giocavano vicino alla sua proprietà».
«Tieni» aggiunse Belle, consegnando un paio di chiavi ad Emma. «Io e Ruby ci siamo occupate dell’ufficio dello Sceriffo e delle questioni amministrative più urgenti in vostra assenza, ma ormai il compito è vostro. Abbiamo arrestato il signor Ludwing, ma lui ha dichiarato di non voler discutere con una donna della questione, è più misogino di quanto mi aspettassi».
«Grazie, ragazze» disse Emma, lanciando un’occhiata eloquente a Regina. Il sindaco scosse la testa, non capendo ciò che l’altra cercava di suggerirle.
«Credo che ti stia consigliando di ringraziare le signorine» bisbigliò il signor Gold nell’orecchio di Regina, che fece una smorfia.
«Sì, certo, grazie» sputò alla fine, con poca convinzione.
Ruby e Belle annuirono, imbarazzate almeno tanto quando Regina.
«Eravamo così preoccupati per voi…» disse Belle, portandosi le mani al petto.
«Ma sono tornati e perché non festeggiare? Tutti da Granny’s, gente!» urlò Ruby, voltandosi verso la folla. «Henry è sano è salvo!»
 
Il giorno dopo il suo ritorno a Storybrooke, Regina aveva ripreso il diretto comando amministrativo della città e si era ritrovata alle prese con una quantità incredibile di richieste relative all’incendio. Per giunta, il mal di testa con il quale si era svegliata quella mattina era uno dei più feroci che avesse mai avuto, forse perché in città c’erano stati schiamazzi e urla fino all’alba a causa dell’improvvisata festa di Ruby, cui aveva partecipato solo per qualche ora, rimanendo per lo più in disparte. Quelle non erano situazioni che le si addicevano.
Così come l’amministrazione di una città non si addiceva a Belle, a giudicare dai documenti e dal disordine che trovò sulla propria scrivania.
La ragazza aveva organizzato in squadre gli abitanti di Storybrooke perché iniziassero a ricostruire le zone che l’incendio aveva divorato, ma ognuna di loro aveva problemi e richieste che sembravano irrisolvibili senza l’aiuto di Regina.
Mancavano gli attrezzi, i materiali, gli uomini, le capacità.
Il sindaco capì che dal suo ufficio non avrebbe risolto assolutamente nulla, così si vide costretta a raggiungere la zona in ricostruzione, nonostante le occhiate poco amichevoli di molti concittadini, che ancora vedevano in lei la cattiva.
Fece della sua auto il centro organizzativo e scoprì che in realtà Storybrooke non mancava assolutamente di nulla e che semplicemente le risorse venivano gestite male.
Leroy sembrava conoscere a menadito ogni chiodo presente nella città e per questo divenne il suo principale interlocutore, nonostante la poca simpatia che scorreva tra i due.
Regina si ripeteva in continuazione di mantenere la calma ogni volta che il nano le lanciava battute sarcastiche.
«Credo che Sua Maestà abbia fatto un’infelice scelta in quanto abbigliamento quest’oggi. Perché non va a casa? Solo per cambiarsi, naturalmente, non è che io trovi insopportabile la Sua presenza».
In effetti, Regina portava stivali alti ormai completamente macchiati di terra, gonna e un poco pratico cappotto, ma non aveva tempo per tornare a casa.
Henry passò a salutarla dopo la scuola, allestita da Belle nei locali della biblioteca con l’intento di conservare un’apparente quotidianità almeno per i più piccoli.
Il ragazzino lasciò il suo zaino sul sedile anteriore dell’auto di Regina e poi raggiunse David e Neal, che lavoravano fianco a fianco per ricostruire l’aula dell’edificio scolastico dove insegnava Mary Margaret. Seguendo suo figlio Regina scorse i capelli biondi di Emma, cui Henry diede un veloce bacio prima di correre via.
Regina non sapeva esattamente cosa fosse successo tra Neal, Emma e Uncino, ma tra loro c’era un’evidente tensione e sembrava che Emma facesse di tutto pur di stare lontana da entrambi. Il vero problema era Neal, che trascorreva molto tempo in compagnia di Henry e, inaspettatamente, di David, mentre Uncino sembrava preferire la solitudine della sua barca e aveva chiaramente fatto capire che non avrebbe alzato un dito per aiutare i cittadini di Storybrooke.
Il giovane sceriffo dovette sentissi osservata, perché si voltò in direzione di Regina e accennò un sorriso, che il sindaco non colse perché distolse immediatamente lo sguardo.
«Tieni» disse una voce qualche minuto dopo, alle spalle di Regina. La donna si voltò e vide Emma porgerle una tazza con del caffè caldo. «Ho pensato che ti avrebbe fatto piacere» aggiunse.
«Grazie» rispose sorpresa il sindaco, accettando la tazza, ma osservando sospettosa Emma Swan, che si appoggiò al baule dell’auto.
Regina non era per nulla abituata a quei gesti gentili, anche se durante l’esperienza che avevano condiviso sull’Isola Che Non C’è le due donne avevano imparato a convivere e ad unire le forze. Perdere un figlio e provare a salvarlo le aveva avvicinate sempre di più ogni giorno, mostrando loro che ciò che Emma non sarebbe mai stata in grado di fare era alla portata di Regina e viceversa.
«Ho visto che mi stavi osservando, prima».
«Non ti stavo affatto osservando. Mi chiedevo solo in che guaio ti fossi cacciata questa volta» minimizzò Regina, appoggiandosi accanto allo sceriffo.
«Assolutamente nessuno» mentì Emma, sorseggiando il proprio caffè.
«Non sono esattamente la tua… confidente, Swan, ma ti conosco abbastanza da sapere quando stai mentendo. E ora stai mentendo. Cosa hai fatto a Neal e a Unicino?» domandò Regina.
Emma rimase per qualche secondo senza parole, colpita dallo spirito di osservazione e deduzione dell’altra.
«Io…» sospirò. Non aveva ancora raccontato a nessuno di quello che era successo.
E con chi mai si sarebbe potuta confidare su quella dannata isola? David? I diretti interessati? Mary Margaret? Forse, ma da quando aveva scoperto il rapporto di parentela che esisteva tra loro, non riusciva più a guardarla come un’amica.
Sull’Isola, comunque Emma non aveva nemmeno preso in considerazione l’idea che Regina potesse interessarsi alla sua vita privata e persino ascoltare i suoi problemi.
Certamente, si disse lo sceriffo, si sta solo preoccupando dell’effetto che la mia relazione con Neal o Uncino potrebbe avere su Henry.
«Ho detto a uno dei due di amarlo e ho baciato l’altro. E poi ho dato il ben servito a entrambi» sintetizzò infine Emma. «Ora userai la cosa per danneggiare la mia immagine?»
«No» disse Regina lapidariamente, abbassando lo sguardo. «Non ho motivo di farti del male. Lo sai che non sono più quella donna».
«Hai ragione, scusa».
«Non importa» minimizzò Regina. «Capisco la tua mancanza di fiducia».
Emma sospirò e trangugiò il proprio caffè. In realtà, aveva imparato a fidarsi di Regina, dopo tutto quello che era successo sull’Isola, e ora aveva davvero bisogno di confidarsi con qualcuno che non fosse la propria madre.
«Non provo nulla per Neal e nemmeno per Uncino, non in senso romantico. Non riesco a perdonare Neal per avermi abbandonata e nutro rancore verso di lui, mentre detesto Uncino per quel suo modo spavaldo di porsi e… tutto il resto» spiegò Emma con un gesto vago nella mano che fendette l’aria. «Ma non è davvero questo il problema. Il problema è che, a volte, molto raramente, quasi mai, a dire il vero, provo questo strano e del tutto ingiustificabile impulso di baciare… un’altra persona. E te lo sto dicendo perché mi fido» disse Emma, che parlando si era spostata davanti a Regina.
Il sindaco tacque, guardando l’altra negli occhi sena scorgervi alcun segno di menzogna.
«È una persona che non credi di poter avere, non è vero?» domandò Regina. «Lo capisco dallo sguardo che hai, dal tono di voce».
«No, non posso averla».
«Credo che tu ti stia sbagliando. Con il viso e il corpo che ti ritrovi, dubito che qualcuno possa dirti di no e, in ogni caso, la tua fama di Salvatrice gioca odiosamente a tuo favore» considerò Regina.
Emma sorrise.
«Quasi non ti riconosco, sindaco Mills».
«Quasi ti sopporto, signorina Swan».
 
«Forse non ti è chiaro, nanerottolo, chi di noi ha il potere qui» sibilò Regina Mills in direzione di Leroy, con il viso stravolto dalla rabbia e gli occhi ridotti a due fessure.
«E forse a te non è chiaro, strega, chi di noi ha le capacità migliori, qui» ribatté il nano, anch’egli furioso.
Era il quarto giorno di ricostruzione e i rapporti tra il sindaco e Leroy erano diventati sempre più tesi, logorandosi ora dopo ora, centimetro dopo centimetro, fino all’esperazione. Regina non faceva che rivolgersi a lui in tono scortese e Leroy insisteva nel trasgredire le decisioni di Regina di proposito, anche quando si trattava della scelta migliore.
«Vedi di darmi ascolto d’ora in poi, perché mi viene voglia di strapparti il cuore dal petto ogni volta che ti vedo» lo minacciò Regina.
«Un giorno ti ritroverai la punta del mio piccone conficcata nel tuo, di cuore».
«C’è qualche problema qui?» intervenne Emma Swan, che proprio in quel momento li raggiunse, in cerca di Leroy. Voleva delle indicazioni su ciò che avrebbe dovuto fare quel giorno per aiutare a ricostruire.
«Non sono affari che ti riguardano, Swan» abbaiò Regina, senza distogliere lo sguardo di Leroy.
«Regina, sono sicura che si tratti solo di un malinte-»
«Oh, maledizione, taci. Vai a occuparti dei tuoi dannati problemi sentimentali invece di ficcare sempre il naso nei miei affari» ritorse Regina, alzando il tono della voce.
Emma rimase in silenzio per qualche secondo. Ora sì che riconosceva Regina.
«Avevo bisogno di parlare con Leroy» disse Emma, spostando lo sguardo sul nano.
«Tutto, pur di non dover stare in presenza di questa strega».
«Ti ho già avvisato una volta» disse Regina, facendo un passo avanti.
«Che paura!» commentò Leroy ironicamente. «Se non ti dispiace io vado a fare qualcosa di davvero utile per la città, invece di fingere di supervisionare i lavori. Dimmi tutto, Emma» aggiunse il nano, voltando le spalle a Regina e afferrando il braccio di Emma, per trascinarla lontano dal sindaco.
Lo Sceriffo si voltò per incrociare lo sguardo di Regina, ma questa sembrava troppo impegnata a stringere i pugni e a controllare la rabbia per farci caso.
 
Quella sera Henry cenò da Regina e i due decisero di guardare un vecchio film trasmesso in televisione per trascorrere la serata. Il bambino si addormentò quasi subito, così Regina diminuì il volume e lo coprì con una coperta. Gli accarezzò i capelli castani e guardò il suo piccolo petto alzarsi e abbassarsi ritmicamente, trattenendo le lacrime che minacciavano di rigarle le guance al pensiero di perderlo di nuovo.
A volte, durante la notte, si svegliava terrorizzata, cercando di eliminare dalla propria memoria le immagini di Pan che teneva prigioniero Henry. In quei momenti si trovava a combattere contro la necessità di raggiungerlo, a casa di Emma, e di stringerlo a sé, ma quando quell’impulso si faceva troppo potente per essere vinto – e Regina lo sapeva di non essere mai stata brava a contrastare le passioni violente che si scatenavano in lei – quando non riusciva a resistere alla paura che potesse essere successo qualcosa a suo figlio, Regina usciva nel bel mezzo della notte e guidava fino alla casa di Emma, assicurandosi che tutto fosse tranquillo.
Perciò averlo tanto vicino, quella sera, le dava una calma tale che stava quasi per addormentarsi anche lei, cullata dal respiro ritmico del ragazzo, quando si accorse della macchina gialla che sfrecciò di fronte alla finestra della sala. Emma era venuta a prendere Henry come avevano deciso.
Sospirando amareggiata, Regina fece attenzione a non svegliare Henry mentre si alzava e andava ad aprire la porta. Si trovò di fronte Emma, con il dito a pochi centimetri dal campanello.
«Si è addormentato, non volevo che il suono lo svegliasse» spiegò Regina, in risposta allo sguardo interrogativo di Emma. «Vuoi… entrare?» aggiunse, incerta e titubante.
«Non lo so, credi che debba andare a risolvere i miei problemi?» disse Emma sarcastica.
«Oh, andiamo, mi hai trovata in un momento di rabbia» le fece notare Regina.
«Almeno in quel momento ti ho riconosciuta». 
Le parole di Emma ferirono Regina e lo Sceriffo se ne accorse, a causa dell’ombra cupa che attraversò gli occhi del sindaco.
«Vado a svegliare Henry» disse Regina, accennando a chiudere la porta.
«Aspetta, Regina, non volevo dire che… » tentò Emma, senza sapere come proseguire. «L’invito ad entrare è ancora valido?»
Regina la studiò per qualche secondo, poi annuì e si fece da parte. Accompagnò Emma fino in salotto, dove Henry dormiva ancora beatamente.
«Dorme così bene» disse Emma, sorridendo.
«Già. Io non ci riesco più. A dormire senza fare incubi, intendo» sussurrò Regina, guardando l’altra di sottecchi. «Sai, per via di quello che sarebbe potuto succedere su quell’Isola, a Henry».
«Lo so, Regina, nemmeno io ci riesco. Di notte mi sveglio e controllo che lui sia al sicuro».
«Non volevo essere scortese con te, ieri mattina, solo con quel nanerottolo di Leroy» disse Regina.
«È una brava persona».
Regina fece una smorfia, senza aggiungere altro. Emma stava diventando per il sindaco qualcosa di pericolosamente simile a un’amica, me pretendere che lei sopportasse quei nani sarebbe stato davvero troppo.
Entrambe le donne osservarono Henry per qualche minuto.
«Se vuoi… se Henry vuole, può restare qui a dormire, qualche volta» disse Emma. «In fondo, la sua stanza è vuota, no?»
Regina rimase sorpresa dalla proposta di Emma e si voltò a guardarla di scatto.
«Posso provare a fingere, ma sai perfettamente che non sono cambiata. Non così tanto perché tu possa lasciarmi tuo figlio per un’intera notte. Potrei fuggire con lui» disse il sindaco, con tono secco.
Emma sorrise.
«Non avresti mai detto una cosa del genere prima. E in ogni caso non c’è bisogno di cambiare proprio tutto, di te. Alcune cose sono…ok».
«Un complimento incoraggiante, Swan» commentò sarcasticamente Regina.
«Sull’Isola hai fatto cose che io non avrei mai potuto fare».
«Sull’Isola ho fatto cose che non nessuno dovrebbe mai fare».
«Per salvare nostro figlio» precisò Emma, indicando Henry. I sussurri delle sue mamme non sembravano infastidirlo in alcun modo.
Regina sentì una scarica lungo la schiena, rendendosi conto di quando Emma si fidasse di lei. Lo sceriffo ancora non poteva saperlo, ma sarebbe arrivato il momento in cui l’immagine che Regina stava dipingendo di sé si sarebbe macchiata e l’odio di Emma nei confronti del sindaco avrebbe preso il sopravvento.
Succedeva sempre così, quando le persone iniziavano a fidarsi di Regina, a un certo punto loro semplicemente smettevano di crederci. E allora anche Regina smetteva di crederci.
«Credo che dovremmo svegliarlo» considerò Regina dando un taglio a quella conversazione e, avvicinandosi lentamente a Henry, si chinò all’altezza del volto del ragazzino. «Henry» sussurrò, scoccandogli un bacio leggero sulla fronte. «Henry, tesoro, ti devi svegliare».
Il ragazzo stropicciò gli occhi e, lentamente, mise a fuoco Regina.
«È già ora di andare a scuola?» mugugnò, stropicciandosi gli occhi.
«No, tesoro» sorrise Regina. «Vai a casa con Emma, forza».
Henry alzò la testa e si guardò intorno, prima di incrociare lo sguardo di Emma. Si alzò e si strinse la coperta sulle spalle.
«Ciao, mamma» disse a Regina, mentre si dirigeva all’ingresso.
Barcollò leggermente e mise le scarpe in malo modo. Il sindaco si morse le labbra per non rimproverarlo: sarebbe caduto e si sarebbe fatto male.  
«Buonanotte, Regina» aggiunse Emma, con un sorriso incerto.
«Veglia su di lui» disse la donna, seguendoli fino all’ingresso.
Quando Emma si girò verso di lei un’ultima volta, vide solo la porta bianca con il numero 108 appeso al centro. Non si accorse di Regina che sorrise, guardandoli dallo spioncino.
 
«Tieni» disse Emma, avvicinandosi a Regina che cercava di decifrare una lettera di richiesta da parte di Leroy. Si era bloccata alla seconda riga, non riuscendo a capire la fine della parola che iniziava con “tr”. Aveva la vaga impressione che fosse un velato insulto diretto a lei, volutamente scritto in modo ambiguo, ma non ebbe il tempo di verificarlo, colta alla sprovvista da Emma.
«È la coperta che Henry ha portato a casa per sbaglio, è tua. L’ho lavata» aggiunse lo sceriffo.
«È stato gentile da parte tua, grazie» sorrise Regina, sorpresa dal gesto di Emma.
Era la seconda volta in pochi giorni che Emma si presentava da lei per una questione che non riguardasse minimamente Henry, l’unica cosa che avrebbe potuto essere oggetto della loro conversazione.
«Non è nulla di importante» minimizzò lo sceriffo, mentre le sue dita sfioravano quelle dell’altra, nel passarle la coperta.
«Grazie lo stesso».
«D’accordo, allora, insomma, è tutto. Ci vediamo questa sera? Porto Henry da te per le sette» disse Emma.
«Alle sette, va bene» concordò Regina.
Il sindaco guardò Emma Swan allontanarsi ancora stupita della gentilezza che quella donna le stava dimostrando, una gentilezza che, lo sapeva, non derivava dalla necessità di fare la cosa giusta e nemmeno dal desiderio di sentirsi a posto con la propria coscienza. No, Emma Swan non era quel tipo di persona, lei non era cresciuta nella Foresta Incantata. Lei era cresciuta in un Incubo.
Emma Swan sapeva come andavano queste cose e Regina dubitava fortemente che lei credesse a cose come il lieto fine. Era pur sempre la figlia di Biancaneve, certo, ma da lei non aveva preso nulla.
Perché Emma Swan era il tipo di persona da aver fiducia in Regina, senza illusioni, basandosi solo sulla realtà dei fatti; era il tipo di persona che credeva alle parole di Regina, ascoltando persino quelle taciute; ma soprattutto, Emma Swan credeva in Regina Mills come donna e madre.
  
«Siete in anticipo, è successo qualcosa?» commentò Regina aprendo la porta di casa a Henry ed Emma.
«Mary Margaret e David ci hanno cacciato di casa. È il loro anniversario e vogliono festeggiare» spiegò Henry con un’alzata di spalle, sorpassando Regina e togliendosi il cappotto.
«Oh, capisco» si limitò a dire Regina, guardando turbata Emma.
«Tranquilla, Henry ancora non sa del… modo in cui una coppia… festeggia gli anniversari» si affrettò a precisare Emma.
«Grazie al cielo» disse Regina, visibilmente sollevata.
«Sarà meglio che vada prima che io perda ogni tavolo libero da Granny’s» aggiunse Emma, accennando un saluto e voltandosi. Quando posò il piede sull’ultimo gradino della casa di Regina, la voce del sindaco la fermò.
«Puoi rimanere. A cena » propose Regina.
Emma si voltò lentamente, con la bocca spalancata, incapace di credere alle parole che doveva aver immaginato di udire. Regina Mills la stava invitando in casa sua? Per giunta, sacrificandosi a condividere uno dei pochi momenti che aveva a disposizione per rimanere con Henry.
Il suo primo impulso era stato di accettare, ma probabilmente quello di Regina non era che una cortesia per sdebitarsi del caffè. O della coperta. O forse di entrambi.
Balbettando, Emma si rese conto del tempo che scorreva mentre non riusciva a venire a patti con la propria indecisione, incapace di rispondere all’invito del sindaco.
«Forza, Emma, cosa aspetti?» disse il ragazzino, che aveva origliato le ultime battute della conversazione. Le sue parole sembrarono scuotere Emma e rompere il momento di stallo tra lei e Regina.
«Io…» iniziò Emma, ancora incerta sul da farsi. «Non voglio essere di troppo: è la tua sera con Henry».
«In ogni caso lui parla sempre di te».
«Allora… Rimango».
 
«Ora capisco perché quando ceni da tua madre poi torni a casa con la pancia tanto piena da riuscire a malapena a muoverti» commentò Emma, abbandonandosi allo schienale della sedia dopo aver mangiato l’ultimo boccone di lasagne. Si potevano dire molte cose di Regina, non tutte esattamente lodevoli, ma di certo non si poteva dire che non fosse una cuoca eccellente.
«Se fosse per te mangeremmo sempre pizza» ribatté Henry. «Ce ne sono ancora un po’?» domandò poi, allungando il piatto verso Regina, che annuì.
«Non è assolutamente vero!» protestò Emma.
«Solo perché la nonna cucina per noi» disse Henry, posando il piatto davanti a sé e afferrando coltello e forchetta per avventarsi su un nuovo piatto di lasagne.
Emma fece una smorfia e alzò gli occhi al cielo.
«Non sai cucinare?» domandò Regina, incrociando le mani sotto il mento, i gomiti appoggiati sul tavolo e il busto leggermente sporto in avanti. A differenza della posizione della signorina Swan, quello era un modo appropriato per sedersi a tavola, considerò il sindaco, rassegnata da tempo ai modi poco eleganti di Emma.
«Non bene quanto te» rispose lo sceriffo, che osservava con attenzione la figura di Regina. Oltre ad essere un’eccellente cuoca, Emma dovette ammettere che era una delle donne più belle che avesse mai visto. Si chiese distrattamente quanti anni avesse in realtà, con la storia della maledizione e tutto il resto, ma forse sarebbe stato meglio non indagare.
«Il problema è che non sai nemmeno che forma abbia una padella!» si intromise Henry, dopo aver ingoiato velocemente il boccone che stava masticando.
«Mangia e taci, ragazzino o ti costringerò a pizza e coca-cola per il resto della settimana» lo minacciò scherzosamente Emma.
«Sei una che se la sa cavare facilmente. Pensavo sapessi arrangiarti anche in cucina» considerò Regina.
«No, a dire il vero no. Non stavo abbastanza a lungo in una famiglia perché si fidassero a lasciarmi avvicinare al fornelli o prendere in mano un coltello».
Regina annuì, appoggiandosi allo schienale della sedia e posando le mani in grembo, poi guardò Henry, che faceva scorrere lo sguardo da una mamma all’altra, masticando e concentrandosi sulle sue lasagne.
Nessuna delle due donne sapeva cosa dire, temendo di risvegliare nell’altra ricordi di un passato che volevano entrambe dimenticare.
Il ticchettare dell’orologio e il tintinnare delle forchette sui piatti erano gli unici rumori in quella stanza, ma il ragazzino non sembrò notare quella tensione serpeggiante nell’aria.
«Potrei mangiarne ancora» commentò Henry, quando ebbe finito anche il suo secondo piatto di lasagne.
«Sei un pozzo senza fondo» commentò Emma. «Comunque, si è fatto tardi. Credo che per me sia ora di andare. Ho parlato ad Henry della possibilità di fermarsi a dormire e gli piacerebbe rimanere questa notte» aggiunse, accennando ad alzarsi.
«Vuoi rimanere a dormire?» domandò Regina al bambino, sorpresa.
«Non hai toccato il mio computer mentre ero via, vero?»
«No, certo che no».
«Perfetto! Ciao, Emma» salutò velocemente Henry, dando un bacio sulla guancia alla donna mentre le sfrecciava accanto, diretto alla sua vecchia stanza.
«Ciao» fu tutto ciò che lo sceriffo riuscì a dire, prima di udire un tonfo sordo provenire dalle sue spalle. «Cosa è stato?»
Regina scosse la testa.
«Solo Henry che lascia le scarpe sulle scale» la rassicurò Regina.
«L’ordine non è proprio il suo forte» ammise Emma.
«Questo l’ha preso da te» disse Regina, mentre si alzava per sparecchiare.
Emma fece una smorfia colpevole, incassando il colpo.
«Lascia, faccio io. Sei stata così gentile da condividere la tua sera con Henry con me. Non credere che non sappia quanto ti sia costato invitarmi» disse lo sceriffo.
Emma si alzò e prese piatti e posate dalle mani di Regina, senza lasciarle il tempo di replicare e le portò in cucina. Il sindaco afferrò i bicchieri e la seguì, confusa.
«Non è stato poi tanto male» riuscì infine a dire Regina, porgendo i bicchieri all’altra per avere le mani libere mentre si chinava di ad aprire lo sportello della lavastoviglie, poi aiutò Emma, in silenzio, a mettervi piatti e posate.
«È cambiato qualcosa tra te e Neal? O Uncino?» domandò Regina.
Emma scosse la testa.
«Neal mi odia e non posso biasimarlo. Lo so cosa significa essere abbandonati dalla persona che si ama. Lui lo ha fatto con me. L’unica differenza è che lui lo ha fatto per proteggermi, io… sono solo egoista».
«E Uncino?»
«Non l’ho più visto. Si è rintanato sulla sua Jolly Roger».
«Ora credi di poter avere la persona che desideri?» domandò Regina, appoggiandosi alla lavastoviglie con il fianco per chiuderla.
«Non lo so. Forse… forse ora c’è una speranza».
«Sei schifosamente figlia di tua madre» rise Regina, facendole segno con il capo di seguirla.
«Voleva essere un insulto?» domandò Emma, mentre percorreva i corridoi di casa Mills e si sedeva nello stesso luogo in cui Regina l’aveva accolta la prima volta in cui si erano incontrate.
«No, non esattamente» confessò il sindaco, mentre prendeva posto di fronte a Emma. «Comunque, se c’è una speranza, dovresti provarci. Scommetto che non sa nemmeno quello che provi».
Emma spalancò la bocca, stupita.
«Te lo sei dimenticata, Swan? Io so sempre tutto quello che succede a Storybrooke… o che non succede».
Emma sorrise, sospirò e rimase in silenzio, puntando i propri occhi in quelli di Regina e raccogliendo ogni briciola della propria forza e della propria autodeterminazione.
Non poteva dire una cosa del genere al sindaco, non quando Emma ci aveva messo settimane, mesi, per accettarla.
Non poteva distruggere quella serenità che era venuta a crearsi tra lei e Regina, nonostante i piccoli screzi, solo per egoismo, solo perché lei provava qualcosa che andava di là di un semplice desiderio di amicizia. Doveva pensare ad Henry e a ciò che sarebbe stato meglio fare per Henry.
E poi, non si era mai sentito della Principessa che salva la Regina Cattiva, né in questo, né in nessun altro mondo. Semplicemente, non poteva alzarsi da quella sedia e baciarla, sperando di non venire polverizzata all’istante.
Eppure Emma lo fece e guardò Regina negli occhi per un istante. Poi fuggì.
Perché è questo che Emma Swan era abituata a fare quando le cose diventavano ingestibili.
Emma stava fuggendo e in quel momento aveva deciso di scappare da Regina.
Mise in moto l’auto e guidò per ore, senza mai guardarsi indietro.
 
Emma tornò a casa sua la mattina seguente, poco dopo l’alba. Mary Margaret e David si erano già svegliati e si stavano preparando per uscire. Leroy aveva raccomandato loro di mettersi al lavoro il prima possibile e di sfruttare ogni ora di luce che avevano a disposizione: l’inverno stava arrivando e molti cittadini di Storybrooke ancora non avevano una casa.
«Emma!» esclamò Mary Margaret, infilando il cappotto. «Credevamo stessi dormendo di sopra, con Henry».
«Sono… uscita presto. Un falso allarme» disse lo sceriffo, toccando il proprio distintivo.
«Henry dorme?» chiese David, porgendo il cappellino alla moglie.
«Henry ha passato la notte da Regina» rispose Emma, cercando il latte nel frigorifero pur di non guardare le loro espressioni.
Regina. Ho baciato Regina Mills. Cantilenò una voce nella sua testa, la testa che le aveva tenuto compagnia per il resto della notte, mentre guidava senza meta, via da Storybrooke e dal suo sindaco.
C’era una linea sottile tra follia e audacia e lei sapeva di averla ampiamente oltrepassata la sera precedente.
«Oh» disse David.
«Oh, è per questo che hai quell’aria triste e stanca, tesoro?» chiese Mary Margaret. «Ti manca Henry. Non sei riuscita a dormire affatto questa notte, non è vero?»
«Sì, infatti, non ho chiuso occhio» annuì Emma, riempiendo la tazza di latte.
«Prova a riposare un po’, allora. Parliamo noi a Leroy» disse David.
«D’accordo, grazie, ciao» disse Emma.
«Ciao, tesoro».
 
«Ho lasciato Henry con David. Non ti ho vista oggi, a dare una mano con i lavori» disse Regina entrando nell’ufficio dello sceriffo, senza salutare.
«Io… avevo del lavoro da svolgere» rispose Emma, alzandosi dalla scrivania dietro la quale era seduta. Si aspettava di tutto, ma non la visita del sindaco.
«Swan, te l’ho già detto, io so tutto quello che succede in questa città. Tu non hai niente da fare».
«Burocrazia, archiviazione, sai, quel genere di cose».
«Ti stai nascondendo» l’accusò Regina.
Emma sospirò e tornò a sedersi. Il sindaco aveva colpito nel segno.
«Mi biasimi per questo?»
«No, certo che no. Il tuo è stato un gesto coraggioso, anche se folle. E oserei dire che è stato stupido, da parte tua».
Emma avrebbe voluto sprofondare. Sperò solo che il rossore che sicuramente le aveva inondato il viso non venisse notato. E, soprattutto, sperò che Regina non decidesse di approfittare di quel suo gesto avventato. Certe vecchie abitudini sono dure a morire.
«Almeno su questo siamo d’accordo» riuscì infine a dire Emma, scoprendo di essere in grado di controllare perfettamente il tono della propria voce.
«E così non ti piacciono i pirati e nemmeno i figli del Signore Oscuro, ma hai un debole per le Regine Cattive. Se Biancaneve dovesse scoprirlo morirebbe d’infarto e nemmeno nei miei sogni più rosei avevo mai immaginato un tale destino, Swan. Guadagni un punto per la creatività» commentò Regina, sedendosi di fronte a Emma.
«Stai facendo dell’ironia su quello che è accaduto?» domandò incredulo lo sceriffo.
«Mi biasimi per questo?»
«No, hai uno strano modo di reagire alle situazioni scomode».
«Non sto reagendo, Swan. Tu mi hai… tu hai fatto una cosa. Io so cosa hai fatto e nessun altro lo sa. Credo che la questione si possa chiudere qui».
«Suppongo che dovesse andare così, allora». 





NdA
Volevo solo assicurarvi che Leroy ha scritto semplicemente travi, nel biglietto indirizzato a Regina. Non è colpa sua se ha una scrittura pessima ;D 
Grazie per essere arrivati fin qua, 
Trixie :)

 

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Capitolo 2
*** Il primo appuntamento ***



II. Il primo appuntamento
 

A Storybrooke non ci fu cittadino che non aiutò a ristrutturare la parte della città andata persa nell’incendio e quando finalmente i lavori si conclusero e le case vennero ultimate, le strade vennero decorate e illuminate a festa, mentre nel cortile e nel giardino della scuola vennero disposti tavoli di ogni sorta, grandi, piccoli, quadrati, rotondi, la cui varietà venne superata solo delle innumerevoli sedie a disposizione. Ogni cittadino di Storybrooke portò da mangiare e il banchetto che si tenne fu uno dei più confusi e divertenti che la cittadina avesse vissuto nella sua breve vita, nonostante il pungente freddo autunnale.
Regina Mills sedeva alla stessa tavola di Emma Swan, su invito del piccolo Henry, che tanto aveva insistito per avere tutta la famiglia vicina. Persino il signor Gold si era dovuto rassegnare alle insistenze del ragazzino, alle cui richieste si era immancabilmente unita Belle.
In ogni caso, comunque, Regina non aveva nessun altro che le offrisse un posto alla propria tavola, nemmeno se si era presentata con tre teglie delle sue famose lasagne, una delle quali, naturalmente, era riservata esclusivamente a Henry.
«Oh, no, Regina, con quelle finiremo per morire tutti di indigestione» commentò Emma quando la vide appoggiare una dopo l’altra le teglie.
«Un modo originale per farci fuori persino per la Regina Cattiva» osservò il signor Gold, divertito.
«Tremotino!» lo rimproverò Belle, bonariamente, dandogli una leggera spallata.
«Scusa, tesoro, non ho saputo resistere».
Henry rise e Regina finse di non aver sentito la battuta, mentre Emma si appuntava mentalmente di non fare riferimenti a omicidi conclamati, sospetti o tentati in presenza di Regina.
«Le hai già assaggiate?» domandò invece curiosa Mary Margaret alla figlia.
«Una volta ha mangiato con me e la mamma. Voglio dire, mamma Emma si è fermata a mangiare con me da mamma Regina» specificò Henry. «Forse è tempo che trovi dei nomi in codice per entrambe».
«Davvero? Non ne sapevo nulla» disse Mary Margaret, sorpresa.
«È stata una cosa improvvisa» disse Emma.
«Già, Henry ha insistito tanto» sottolineò Regina.
«Oh, va bene».
«Che affiatamento, si direbbe che L’Isola Che Non C’è non cambi solo l’animo dei bambini, anzi, non vi riconosco quasi più» si intromise il signor Gold, mellifluo. Emma ebbe la sensazione che avesse capito più di quanto gli fosse lecito e lo sguardo duro di Regina le confermò questa impressione.
Non avevano più parlato del-, insomma, di quello che era accaduto, e nessuna delle due aveva intenzione di farlo. Se una temeva l’umiliazione che ne derivava, l’altra temeva di risvegliare desideri che difficilmente sarebbe stata in grado di accettare.
«Oh, Tremotino, smettila di stuzzicare Regina, vieni» disse Belle, tirandolo per un braccio.
«Nonno, andiamo ad allenarci con le spade mentre aspettiamo che arrivino tutti gli altri? Neal ha detto che ci avrebbe aspettato davanti all’ingresso della scuola» propose Henry con entusiasmo.
David lo sollevò da terra e se lo caricò di spalla di traverso, entusiasta della proposta del nipote.
«State attenti voi, con le spade. Henry è solo un bambino!» si raccomandò Mary Margaret.
«Sì, amore, non preoccuparti» urlò David in risposta, agitando appena la mano in segno di saluto.
«Sì, nonna, non preoccuparti» gli fece eco Henry.
Mary Margaret sospirò e scosse la testa, poi guardò Emma.
«Polso» disse lo sceriffo, dopo un istante di riflessione.
«No, questo mese sarebbe la terza volta. Spalla» rispose sua madre.
«Di cosa state parlando?» domandò Regina .
«Oh, nulla. Solo che Neal e David si lasciano prendere un po’ la mano quando giocano con le spade e finiscono sempre per farsi male. Così noi scommettiamo in quale punto del corpo il Principe Azzurro avrà il prossimo livido» spiegò Emma, velocemente.
«Oh, chiaro» annuì Regina.
«Sarà meglio apparecchiare, mezzogiorno si avvicina in fretta. Emma, ti dispiace tornare alla macchina e prendere i piatti? Li ho dimenticati» propose Mary Margaret.
«Nessun problema» rispose pronta lo sceriffo, afferrando le chiavi e allontanandosi dalla madre e Regina.
 
Mary Margaret passò i bicchieri a Regina perché li sistemasse sulla tavola.
«E così tu e Emma siete amiche, ora» disse Biancaneve, con tono leggero.
«Sì, una specie, credo» rispose Regina, guardinga.
«L’hai invitata a cena».
«Henry voleva…»
«Emma non si sarebbe mai fermata se avesse percepito che il tuo era solo un invito di cortesia. E sai che Emma queste cose le capisce» la fermò Mary Margaret con un sorriso. «Volevo solo… volevo solo dirti che va bene, che tu e mia figlia siate amiche. Forse lei riuscirà dove io ho fallito, Regina».
«Cosa intendi dire?»
«Forse riuscirà a farti tornare quella che eri».
 
«Mamma?» disse Henry, quando finì il suo secondo piatto di lasagne.
Sia Emma che Regina si voltarono verso il ragazzo che era seduto tra di loro nello stesso istante.
Il signor Gold non perse questo dettaglio, seppur intento a farsi imboccare da Belle.
Henry sospirò.
«Ve l’ho detto che servono dei nomi in codice. Però intanto a me serve dell’altro cibo, ho fame».
«Henry, hai mangiato due piatti di pasta della nonna, quasi la metà del pasticcio di Belle, due fette della strana frittata del signor Gold e due porzioni delle lasagne di Regina. Non puoi avere fame» elencò Emma, incredula.
Henry le fece segno di avvicinarsi con l’orecchio e lei acconsentì.
«E ho ancora spazio per il tuo dolce alla cannella, anche se so che sarà disgustoso, farò finta di apprezzarlo. In fondo è la prima volta che tocchi un forno» sussurrò.
«Henry!»
«Mangia e zitto?» domandò il ragazzino.
Emma scosse la testa e annuì, mentre Henry porgeva il piatto a Regina.
 
«Una torta alla cannella. Questa deve essere di Mary Margaret o Emma, sono le uniche a sopportarne il gusto!» commentò Tremotino, quando Emma scoprì il piatto sul quale era posato ciò che considerava il suo primo tentativo di cucinare qualcosa.
«L’ha fatta Emma» confermò Henry.
«Oh, in questo caso è molto più probabile che ci uccida questa torta che le lasagne di Regina. Comunque, a giudicare dagli ultimi sviluppi, non mi stupirei se venisse fuori che sono complici» sogghignò Tremotino, gustandosi il rossore leggero sulle guance di Emma e lo sguardo furioso di Regina.
«Hai visto, Emma? Lo sanno tutti che non sai cucinare, persino il signor Gold!» disse Henry.
«Va bene, va bene, d’accordo. Ma almeno provatela» disse Emma, mentre tagliava la torta a fette. «E siate sinceri».
«La sincerità è carente in questo periodo» commentò Neal, che fino a quel momento aveva parlato il minimo indispensabile. Ancora non riusciva a perdonare Emma, eppure non poteva lasciare Storybrooke, per il bene di Henry.
«Ed ecco la prima fetta per il mio nipote preferito» disse subito Mary Margaret, porgendo il piatto a Henry.
«Nonna, sono il tuo unico nipote. Vuoi davvero sacrificarmi per la torta di tua figlia?»
Emma continuò a tagliare e servire le fette che Mary Margaret distribuiva, ma quando ognuno si trovò davanti la propria porzione, nessuno ebbe il coraggio di provare a mangiarla per primo, nemmeno Emma.
«Oh, andiamo, non sarà poi tanto male, è solo una dannata torta» esclamò Regina, spazientita dal silenzio e dell’imbarazzo che si era venuto a creare.
Portò il primo boccone in bocca proprio mentre Henry iniziava a parlare.
«Fossi in te non lo farei».
«Il disgusto potrebbe risvegliare in te istinti omicidi finora sopiti nei confronti della signorina Swan» aggiunse il signor Gold.
Regina cercò di rimanere impassibile e trangugiò il proprio boccone, ma era evidente che la sua non era stata un’esperienza affatto piacevole.
«Non è male, è che non amo la cannella» disse solo, prima si svuotare il proprio bicchiere d’acqua.
«Che strano, non si direbbe proprio da quel che vedo» commentò il signor Gold.
Gli altri si affrettarono a posare le forchette e a scusarsi con Emma: erano tutti davvero pieni.
 
«Tesoro, non mi sembra il caso di portare i bambini nella foresta» disse Mary Margaret qualche ora dopo la conclusione del pranzo. David si era messo a organizzare con Neal e Ruby un’immensa partita di nascondino per i bambini di Storybrooke nella foresta attorno alla città.
«E perché no? Ruby li sta annusando uno ad uno, non corrono nessun pericolo».
«Ti fa ancora male dove ti ha colpito Neal questa mattina?» domandò la donna.
«No, non molto» disse David, mostrandole il polso. Emma aveva indovinato.
«Fa freddo e diventa buio presto, i piccoli potrebbero farsi male. Lo so che vuoi solo che per loro sia una giornata di festa e che Henry si diverta, ma non è sicuro. Perché non giocate a qualcosa di meno… avventuroso?»
«Perché altrimenti non sarebbe tanto divertente» rispose David, baciando la moglie sulla fronte e richiamando l’attenzione dei bambini con un urlo. L’uomo fece un ampio gesto della mano invitando i bambini a seguirlo in direzione della foresta.
Mary Margaret si voltò verso Emma e Regina, ancora sedute a tavola.
«Vado con loro, so muovermi nei boschi, se dovesse succedere qualcosa…» disse Mary Margaret alla figlia.
«Certo, finisco io di sistemare. Ma Ruby, Neal e David se la sanno cavare, non succederà nulla. E poi i genitori di Storybrooke sono felici di non doversi occupare dei propri figli per qualche ora, si fidano del Principe Azzurro» la rassicurò Emma.
«Perché non sanno che tra tutti è quello che si divertirà di più» commentò Mary Margaret, inseguendo David e la piccola e bassa colonna di bambini che già si incamminava vero la foresta.
«Aspettatemi, vengo anche io!» urlò Leroy, seguito dai suoi fratelli, uno dopo l’altro. Per ultimo passò Scricciolo.
Regina fece una smorfia.
«Nani».
«Non li sopporti proprio, eh?» domandò Emma.
«Non godono esattamente della mia simpatia» ammise Regina. «E la cosa è reciproca».
«Ascolta, credi che il signor Gold…» iniziò lo sceriffo. 
«Sì» disse il sindaco, senza nemmeno aspettare che la ragazza concludesse la domanda. «E, credimi, la cosa non fa che infastidirmi».
«Lo trovo solo imbarazzante. E umiliante. Non capisco come faccia il signor Gold a leggermi come se per lui fossi un libro aperto» commentò Emma.
Regina la guardò con gli occhi stretti a due fessure.
«Ti facevo più perspicace » disse, scuotendo la testa, divertita.
«Di cosa stai parlando?»
«Una volta mi hai detto che sapevi leggere tra le righe, Swan. Ancora non hai capito? Il signor Gold lo sa e se il signor Gold lo sa significa che c’è qualcosa da sapere» disse Regina.
«Sa che io…».
«No, Emma, non è il soggetto corretto».
 
Ogni bambino di Storybrooke tornò a casa sano e salvo quella sera, dopo aver giocato a nascondino con il Principe Azzurro. In realtà, ci fu un solo bambino che era finito in un rovo di spine e ora si lamentava del dolore: David.
«Stai fermo, tesoro, è l’ultima, poi le ho tolte tutte» gli disse Biancaneve, che si stava occupando di lui.
Henry stava raccontando per l’ennesima volta di come suo nonno si era infilato in quel cespuglio pur di non farsi trovare, senza badare alle spine.
«Emma? Emma!»
Mary Margaret dovette alzare il tono della voce per richiamare l’attenzione della figlia, che guardava fuori dalla finestra immersa nei propri pensieri.
«Sì? Scusa, stavo pensando ad altro» si affrettò a dire Emma, raggiungendola.
«Mi serve una mano, puoi tenere premuta questa garza sulla spalla di tuo padre mentre cerco dell’altro disinfettante? A cosa pensavi?»
«Oh, nulla, lavoro» disse Emma, facendo come le veniva richiesto.
«Lavori molto, ultimamente» le fece notare David. «Forse dovresti prenderti una pausa, pensare a te stessa. Magari al tuo… cuore. Neal è un bravo ragazzo, forse se tu…» iniziò l’uomo, ignorando completamente la moglie che gli faceva segno di tacere alle spalle di Emma.
«Vedo che Neal parla molto più con te che con me» commentò lo sceriffo, premendo con la garza.
«Dico solo che ci sono cose che dovresti sapere, che dovresti aver capito. Non badare solo alle sue parole, bada ai suoi comportamenti. Di come lui, ad esempio, sia ancora-».
Non badare solo alle sue parole, bada ai suoi comportamenti.
«Sono sicura che tutto questo sia molto interessante, davvero. Ma mi sono appena resa conto di una cosa, scusate, devo tornare di corsa in ufficio» disse Emma, lasciando cadere la garza a terra e precipitandosi fuori di casa con le chiavi dell’auto in mano.
La porta d’ingresso sbatté violentemente, facendo sussultare gli altri tre, rimasti attoniti di fronte al comportamento di Emma.  
«Non credo stia andando in ufficio» commentò Henry, dopo qualche istante di silenzioso stupore.
«Infatti, lo credo anche io» disse Mary Margaret, affrettandosi a tamponare il sangue di David.
«Sorrideva troppo, per una va che in ufficio. La seguiamo?» propose il ragazzino.
«Henry, ma come ti viene in mente? Non spieremmo mai nostra figlia. E nemmeno tu dovresti!» disse Biancaneve, mentre l’entusiasmo per la proposta del nipote svaniva velocemente dal viso di David.
«È per il suo bene» tentò di convincerli Henry.
«No, tesoro, Emma sa badare a se stessa» disse Mary Margaret, anche se in cuor suo moriva dalla voglia di scoprire in quale guaio sua figlia si stesse cacciando.
 
Emma suonò il campanello del numero 108 con insistenza, fino a quando non vide una luce al piano superiore accendersi.
La porta si aprì qualche minuto dopo.
«Henry sta bene?» domandò Regina allarmata quando vide lo sceriffo alla sua porta.
«Sì, sta bene. E io ho capito» disse Emma, entrando senza nemmeno attendere un invito. Il sindaco chiuse la porta dietro di lei.
«Cosa hai capito?» volle sapere Regina, assonnata. Ora che lo preoccupazione per Henry era sparita, il sonno era tornato a impossessarsi di lei.
«Quello che il signor Gold sa. Non erano frecciatine rivolte solo a me, Regina, non è vero? Erano frecciatine rivolte a noi» spiegò Emma, concitata, mordendosi il labbro inferiore.
Regina sorrise.
«Credo che sia meglio che tu torni da Henry, Emma».
«Dimmi se ho ragione o meno».
«Non dirò proprio nulla, Swan, va’ a casa, prima che i tuoi genitori mi accusino di averti rapita» le consigliò Regina.
«Puoi sempre negare. Rispondimi, Regina. Lui parlava di noi, non è vero?»
«Capiresti se mentissi».
«Lo so, per questo voglio che tu mi risponda. Non deve essere la verità, devi solo rispondere».
Regina si strinse la vestaglia attorno al corpo, guardando negli occhi quella giovane che si era precipitata a casa sua solo per un’intuizione.
«Non c’è nessun noi, signorina Swan» disse Regina, aprendo la porta perché Emma se ne andasse.
Lo sceriffo trattenne il respiro e uscì dalla casa del sindaco e, mentre scendeva le scale, sorrise.
Regina aveva mentito e glielo aveva letto negli occhi.
 
Il campanello della casa di Regina suonò. La donna mise le scarpe, prima di andare ad aprire. Doveva andare al lavoro, quella mattina, chi diavolo veniva a casa sua a quell’ora?
«Signorina Swan. Il suono del mio campanello ti piace tanto?» domandò Regina, trovandosi davanti Emma.
«Non è esattamente il suono del campanello che mi piace» rispose con una smorfia lo sceriffo.
Regina aprì la bocca per replicare, poi la richiuse, trattenendosi a stento dal ridere. 
«Ci stai provando con me?»
«Forse».
«Lo sai che una frase del genere è da pervertiti?»
«Sì, potrei saperlo».
«Non hai speranze, Swan» disse Regina, scuotendo la testa.
«Ti dimentichi chi sono i miei genitori» le ricordò Emma.
Il sindaco diede le spalle ad Emma per nascondere il sorriso divertito che quella risposta aveva provocato.
«Cosa ci fai qui? Devo andare al lavoro» disse Regina, allontanandosi dalla porta per indossare il cappotto e prendere la borsa.
«Ho accompagnato Henry a scuola. Passavo di qui per caso e ho pensato che sarebbe stato carino salutare la madre adottiva di mio figlio».
«La scuola è dall’altra parte della città» le fece notare Regina, uscendo di casa e chiudendo la porta dietro di sé.
«Ah, davvero è tanto lontana?» domandò Emma, fingendosi stupita.
«Emma Swan, io verrò anche dal mondo delle fiabe, come lo chiamate voi, ma, Dio, devono essere anni che non rimorchi qualcuno per essere tanto scadente» disse Regina, dirigendosi verso la propria auto seguita a ruota da Emma.
«È che in genere erano gli altri a rimorchiare me. Ed erano uomini» si giustificò Emma. «Comunque, puoi sempre farmi vedere come si fa».
«Buona giornata, Emma Swan» si limitò a dire Regina, mentre saliva in macchina.
Ingranò la marcia e prese la via verso il proprio ufficio, prima che Emma potesse vedere il sorriso che era riuscita ad accendere sul suo volto e che, dannazione, non voleva scomparire.
 
«Regina Mills. Il mio ufficio ti piace tanto?» domandò Emma, quando vide il sindaco entrare nella stazione di polizia.
«Sai, volevo sgranchirmi le gambe, con tutte le ore che passo seduta dietro quella scrivania, e mi sono detta perché non passare a trovare la madre biologica di mio figlio?»
«Il tuo ufficio è dall’altra parte della città, rispetto al mio».
«Ah, davvero è tanto lontano?»
«Hai ragione, come frasi da rimorchio fanno pena» ammise Emma, scuotendo la testa.
«Non stavo rimorchiando» commentò Regina. «Non sono il genere di donna che ha bisogno di parlare per ottenere certe cose» le fece notare il sindaco.
Emma rise.
«Sul serio, cosa ci fai qui?» domandò lo sceriffo, immaginando ci fosse qualche problema di ordine pubblico per la quale venisse richiesta la sua presenza.
«Stiamo andando a pranzo insieme» spiegò Regina, accennando con un cenno del capo alla porta.
«Davvero?» domandò Emma, alzandosi lentamente per indossare la propria giacca.
«Sì, Swan, datti una mossa, la pausa pranzo non dura in eterno».
«Ma tu non hai nessuno che ti impone orari».
«No, appunto, ma tu devi fare rapporto al sindaco».
 
Quando Regina entrò da Granny’s seguita da Emma, tutti i clienti si voltarono incuriositi in direzione delle due donne. Tempesta in arrivo, pensarono alcuni, chiedendosi chi delle due avrebbe preso per i capelli l’altra per prima.
Eppure lo sceriffo e il sindaco si sedettero, ignorando gli sguardi estranei puntati su di loro, come avevano imparato a fare ognuna per conto proprio, mentre crescevano ciascuna in un mondo che non le capiva.
Forse avevano in comune qualcosa in più di un figlio.
«Allora, come è riprendere la routine da sindaco?» chiese Emma, mentre sfogliava distrattamente il menù. Sapeva già cosa avrebbe ordinato.
«Noioso. Non ho mai mangiato in questo locale, non c’è qualcosa che non sia… un panino o una sottospecie di panino?» domandò Regina, scorrendo il menù alla ricerca di qualcosa che somigliasse anche solo vagamente a un pranzo.
«Abiti a Storybrooke da dieci anni e non hai mangiato da Granny’s?»
«Ti sembro il tipo da hot dog, Swan?» chiese ridendo il sindaco.
 «Ma Henry adora mangiare qui, mi ha detto che ci veniva anche con te».
«Sì, certo, lo portavo a fare merenda quando riuscivo ad avere venti minuti di pausa dall’ufficio» disse Regina.
«Dall’ufficio o da Graham?» indagò Emma.
«Siamo già passate agli ex?»
«Le vostre riunioni comunali erano piuttosto… chiacchierate» disse Emma, ricordando il precedente sceriffo con una punto di tristezza.
«Cosa vi porto?» interruppe Ruby, visibilmente a disagio nel dover servire Regina.
«Per me un hamburger con doppio di… tutto. E patatine fritte a parte» disse Emma.
«Il solito, insomma» sorrise Ruby, conoscendo a memoria i piatti preferiti di ogni cliente abituale.
«Ordina anche lei?» chiese poi, guardando il sindaco.
«Io… »
«Un hamburger anche per il signor sindaco. Fallo leggero, Ruby» intervenne Emma, notando che Regina ancora non riusciva a scegliere cosa mangiare dal menù.
«Perfetto, arrivano» annuì Ruby, prendendo i menù e avviandosi in cucina.
«So ordinare da sola» precisò Regina con sguardo truce verso Emma.
«Sì, lo so, ma così è più divertente» minimizzò lo sceriffo.
Dopo qualche minuto arrivarono gli hamburger ordinati, ancora caldi, e Emma sussurrò a Ruby di mettere tutto sul suo conto. In realtà, non si trattava esattamente del conto di Emma, ma di quello di Henry, che si fermava spesso da Granny’s a mangiare anche senza lo sceriffo. A fine mese Emma saldava il conto, ma aveva il forte sospetto, dato l’appetito di suo figlio, che Ruby segnasse meno del dovuto, per questo lasciava delle consistenti mance all’amica.
Ruby rimase sorpresa, ma annuì e non lasciò lo scontrino sul tavolo.
Emma guardò Regina e vide il sindaco che fissava il suo piatto. Sembrava non aver notato quel dettaglio.
«Cosa c’è?» domandò lo sceriffo.
«E poi ti chiedi da chi Henry abbia preso tutto quell’appetito. Sul tuo piatto non ci sta più nulla».
«Faccio un lavoro attivo, ho bisogno di mangiare» si giustificò Emma, risentita e per nulla invidiosa del piatto quasi vuoto di Regina.
«E da te ha anche preso la battuta pronta».
«In questo non scherzi nemmeno tu» ribatté Emma, addentando risentita il proprio hamburger e invitando una riluttante Regina a fare altrettanto.
 
«Quindi questo era una specie di… primo appuntamento?» domandò Emma di fronte al municipio, dove aveva accompagnato Regina.
«Non lo so, tu cosa credi?»
«Credo che se fosse un primo appuntamento, e non dico che lo è stato, ma solo che potrebbe esserlo stato-»
«Continua pure, sembra tu abbia le idee molto chiare».
«Sto solo dicendo che se fosse stato un primo appuntamento, sarebbe carino se tu… mi baciassi» disse Emma, guardando prima la punta dei propri stivali e poi il viso di Regina.
«Ah, capisco. E perché dovrei essere io a farlo?»
«Perché io l’ho già fatto»
«Buon motivo, peccato che questo non sia stato un primo appuntamento» disse Regina, stringendosi nelle spalle.
«Io dico che lo è stato» protestò Emma.
Regina sorrise, di quel sorriso che dedicava soltanto ad Emma e che poteva contenere tutte le parole del mondo, pur non pronunciandone nessuna. Era un sorriso che poteva significare ogni cosa, ma anche il nulla, ed era un sorriso che non si poteva cogliere e basta, lo si doveva decifrare. E, per poterlo fare, non avevi che una scelta. Guardare Regina, dritto negli occhi, e sfidarla.
Per questo, era il sorriso dedicato soltanto ad Emma, perché soltanto Emma aveva l’insana abitudine di sfidarla.
«Lo sai che ho ragione» disse lo sceriffo.
Regina non disse nulla, ma fece un passo avanti verso Emma e le morse il labbro inferiore, solo per qualche secondo.
«A te la scelta se considerarlo un bacio, Emma Swan» sussurrò, mentre si allontanava lentamente camminando all’indietro. Poi si voltò e sparì, inghiottita dalle porte del municipio.
Emma lo considerò un bacio. 

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Capitolo 3
*** La prima volta ***


III. La prima volta
 

Emma e Regina non si consideravano una coppia, eppure era diventato raro trovare una senza l’altra attorno.
Emma e Regina non stavano insieme, però si incontravano ogni giorno e, la mattina, facevano colazione insieme a Henry da Granny’s.
Emma e Regina non erano fidanzate, comunque di battute a riguardo ne circolavano parecchie e le migliori appartenevano al signor Gold.
Emma stava camminando lungo Main Street quando venne raggiunta da Regina, i cui tacchi erano inconfondibili sull’asfalto grigio.
«Questa sera pensavo di cambiare menù, basta lasagne» esordì Regina.
«Cosa?!» domandò contraria Emma. «Non se ne parla, Henry le adora!».
«E tu no?»
«No, affatto. Sono buone, ma nulla di speciale» minimizzò Emma.
Da settimane ormai le serate che Henry trascorreva da Regina erano aumentate. Anzi, Henry passava molto più tempo nella sua casa d’infanzia che nell’appartamento dei nonni, ma questo non sembrava infastidirlo, anzi.
Emma si fermava spesso con lui, ma sia lo sceriffo che il sindaco amavano credere che il loro trascorrere tanto tempo insieme fosse dovuto solo ed esclusivamente ad Henry.
«Allora per te non ci sono problemi se cucino qualcosa di diverso» disse Regina.
«Ad esempio?»
«Non lo so. Al castello tacchini ripieni e polli andavano per la maggiore, ma non penso di poter trovare cacciagione fresca. A meno che tua madre non abbia voglia di spolverare l’arco» considerò Regina, strappando allo sceriffo una smorfia. Il fatto che Regina si riferisse a Mary Margaret come la madre di Emma le faceva sempre uno strano effetto.
«È lunedì e lunedì è il giorno delle lasagne, non è il giorno del Ringraziamento» commentò Emma, ironica.
«Non è che cosa
«Nulla, lascia perdere, mi dimentico sempre che voi non conoscete le nostre feste».
«Una festa per ringraziare qualcuno? Non mi sembra una gran bella cosa».
Emma scosse la testa.
«Perché non fai le lasagne e basta? Così non ci devi pensare troppo».
«Perché mi sono stancata delle lasagne!» protestò Regina.
«Oh, allora, se Sua Altezza fa i capricci…»
«Rimarrai senza cena» la minacciò il sindaco, indispettita per la poca serietà con cui Emma considerava il suo problema culinario.
«Ma è uno dei pochi pasti decenti che faccio!»
«Chiederò a Henry, non fate tardi» tagliò corto Regina, ignorando le proteste della ragazza. Emma era solo la mamma biologica di suo figlio, con la quale stava provando a costruire un rapporto non meglio definito. Di certo, non doveva occuparsi anche di lei.
Camminando, comunque, avevano raggiunto l’ingresso del municipio. Emma annuì semplicemente.
Non si salutarono con un bacio, perché quel genere di cose le fanno le coppie e loro non lo erano.
 
Regina aprì la porta di casa a Henry e a Emma con il grembiule da cucina ancora legato attorno alla vita. Mentre il sindaco si chinava per ricevere il bacio dal ragazzo, Emma annusò l’aria, notando dispiaciuta che non sapeva affatto di lasagne.
«Cosa si mangia per cena?»
«Buona sera anche a te, Emma».
Henry corse a sbirciare in cucina, lasciando le scarpe in mezzo al corridoio e l’inseparabile zainetto su una sedia all’ingresso.
Lo sceriffo fece un passo avanti per entrare, ma Regina non si mosse se non dopo qualche secondo, durante il quale la giacca di Emma sfiorò il grembiule di Regina e la tensione creata da quella vicinanza divenne palpabile nell’aria.
«Ti diverti a prendermi in giro?» domandò Emma, sorridendo.
«Arrosto!» urlò Henry dalla cucina.
 
Emma e Regina stavano finendo di sparecchiare, mentre Henry già stava iniziando ad appisolarsi sul divano davanti alla televisione, appesantito dall’abbondante cena che aveva fatto, quando il campanello del numero 108 suonò improvvisamente.
«Non sapevo aspettassi qualcuno» disse Emma, che incontrò lo sguardo sorpreso di Regina.
«Infatti non aspetto nessuno».
Regina camminò spedita verso l’ingresso, seguita dallo sguardo di Emma e di Henry, ora attento.
Il sindaco aprì la porta, trovandosi davanti David Nolan.
«Buonasera» disse l’uomo. «Sto cercando Henry».
Il bambino nel frattempo si era alzato e stava mettendo le scarpe.
«Me ne ero dimenticato!» urlò, concitato. «Maledizione, no!»
«Henry!» lo rimproverò Regina per il colorito linguaggio del ragazzino. Sicuramente doveva averlo preso da lei, ma non era quello il punto.  
«Non posso fermarmi a dormire, mamma» si scusò il ragazzino, gettando a terra i cappotti appesi alla ricerca del suo. «Questa sera c’è il compleanno di Neal!»
Henry finalmente trovò la propria giacca e la infilò malamente, caricandosi lo zaino in spalla.
«Il compleanno di Neal?» chiese Emma, che li aveva raggiunti all’ingresso.
«Temo che non ti abbia invitata, Emma. Mi dispiace» disse David, visibilmente a disagio. «Ma puoi sempre provare a-»
«No, va bene così. È solo che Henry avrebbe dovuto dirmelo».
«Ciao, mamma» urlò il ragazzino, correndo fuori di casa vero l’auto di David.
«Ciao, tesoro!»
«Ciao, ragazzino!»
David guardò le due donne sorpreso, prima di seguire Henry.
«Hai visto, nonno? Mi basta salutare una volta e mi rispondono entrambe, è divertente» udirono dire Henry, prima che David partisse e Regina chiudesse la porta, allontanando la voce del bambino.
 
Emma sprofondò tra i cuscini del divano, mentre Regina spegneva la televisione che Henry aveva lasciato accesa.
«Ti manca? Neal, intendo» disse Regina, sedendosi accanto allo sceriffo e porgendole un bicchiere di sidro di mele.
«Siamo già passate agli ex?» chiese Emma ironica.
«Touché» concesse Regina, invitando lo sceriffo a fare un brindisi.
«A cosa brindiamo? A noi?»
«A noi? Cosa ti fa pensare che ci sia un noi?» domandò Regina.
«I baci che mi rubi a cena quando Henry non ci vede» disse Emma.
«Io non rubo nulla, sei tu che muori dalla voglia di darmeli. Il mio è un gesto altruista».
«Nessuno ti ha mai detto che in certe situazioni è meglio tacere?»
«Credo che l’ultimo che ci ha provato ora non possa più parlare affatto, purtroppo» ricordò Regina, appoggiando il bicchiere sul tavolino.
«Allora devo ritenermi fortunata ad essere ancora viva?» domandò lo sceriffo, posando il proprio bicchiere accanto a quello di Regina, macchiato di rossetto.
«Sì, molto» sussurrò il sindaco, stringendo gli occhi e avvicinandosi a Emma.
Lo sceriffo non rispose e lasciò che Regina le accarezzasse i capelli, come una bambina intenta a studiare il suo nuovo giocattolo, ma solo per qualche secondo. Con un movimento veloce, Emma allontanò da sé la mano di Regina, stringendola nella propria.
«Credevo non ci fosse alcun noi».
«Sono una donna molto volubile, Emma Swan».
Regina afferrò il volto di Emma e lo avvicinò al proprio.   
«Ci stai provando con me, Regina?»
«No, affatto, non mi sembra di averne bisogno».
Emma sorrise e Regina baciò quel sorriso, mentre un brivido le scorreva lungo la schiena, irradiandosi in tutto il corpo.
 
Da un paio di giorni le battute che circolavano riguardo Emma e Regina erano cambiate.
Guai in paradiso, era la più ricorrente, eppure molti si stupivano che il sindaco fosse di buon umore, nonostante gli screzi che sembravano esserci con la signorina Swan.
Mary Margaret aveva anche notato che la signorina Swan in questione in quei giorni sembrava molto più distratta del solito e a farne le spese erano stati i piatti di casa. Emma ne aveva già rotti due.
 
Le mani di Regina si muovevano frenetiche, alla ricerca dell’orlo della maglietta, mentre quelle di Emma tenevano salda a sé per i fianchi il sindaco, come se temesse che l’altra si allontanasse da un momento all’altro.
Le labbra di Emma non riuscivano a smettere di baciare la pelle di Regina, la bocca, le guance, l’incavo del collo e poi di nuovo la bocca.
 
Le dita di Regina giocherellavano con una vecchia penna a sfera, facendola roteare e girare in continuazione, senza sosta, mentre il sindaco si mordeva le labbra, chiedendosi cosa fare.
Guardò l’orologio. Era mezzogiorno.
Prese una decisione e si alzò. Indossò velocemente il cappotto e i tacchi percorsero rapidi il corridoio del municipio, fino alla sua auto.
 
Regina aveva bisogno di sentire il contatto con il corpo di Emma e si spinse verso la ragazza, che fu costretta a reclinare il busto, mentre cercava di sbottonare la camicia di Regina.
Uno ad uno, con una lentezza insopportabile, i bottoni uscirono dalle loro asole, permettendo ad Emma di accarezzare la schiena di Regina.
 
Emma era seduta, sola, in attesa che Ruby le portasse il pranzo.
«Tutto ok, Emma?» domandò la ragazza.
«Sì, perché?» sorrise lo sceriffo. Ed era davvero tutto ok.
«Nulla, è solo che tu e Regina non fate più colazione insieme. Con Henry, intendo».
«Siamo molto impegnate, tutto qui» spiegò Emma.
In realtà, si stavano cordialmente evitando, dopo quello che era successo l’ultima sera in cui avevano cenato insieme.
Non che a Emma dispiacesse, semplicemente non riusciva a superare l’imbarazzo che ne derivava. E poi, a dirla tutta, voleva che fosse il sindaco a cercarla.
 
Regina si alzò repentinamente dal corpo di Emma, affannata.
«Vieni» disse, tendendo la mano ad Emma e trascinandola fuori dal salotto, verso le scale.
Camminando, Emma accelerò il passo e raggiunse il sindaco, baciandola ancora, proprio mentre questa appoggiava il piede sul primo gradino.
Regina si tolse la camicia, ormai non più trattenuta da nessun bottone, e afferrò il volto di Emma.
 
Emma mangiò il proprio hamburger, leggendo distrattamente una rivista che sembrava essere molto vecchia. In realtà, non capiva una parola di quello che i suoi occhi tentavano di mettere a fuoco, perché la sua mente veniva distratta in continuazione, provocandole sorrisi involontari.
Quando si alzò per andarsene, lasciò una lauta mancia sul tavolo per Ruby.
 
Una delle scarpe nere di Regina cadde dalle scale, un gradino dopo l’altro, subito seguita dall’altra, con un tonfo sordo.
«Non si lasciano le scarpe sulle scale » ansimò lo sceriffo, immersa nel collo e inebriata dal profumo di Regina.
«Taci, Emma».
 
Regina arrivò nell’ufficio dello sceriffo e lo trovò vuoto.
Sospirò, immaginando che Emma fosse in pausa pranzo, e si sedette sulla sedia dello sceriffo, abbandonando la borsa sulle scartoffie che ingombravano la scrivania.
Incrociò le gambe e recuperò una vecchia rivista, in attesa di Emma Swan.
 
La porta della camera di Regina sbatté con violenza quando la donna la aprì.
Emma cadde all’indietro, su quello che doveva essere il letto di Regina e non provò nemmeno a guardarsi attorno.
 
Emma parcheggiò fuori dalla stazione di polizia, nello spazio riservato allo sceriffo, e sorrise nel riconoscere la macchina accanto.
 
La gonna di Regina cadde a terra, sopra i pantaloni dell’altra.
Le dita del sindaco percorsero il corpo di Emma, leggere, dal collo fino ai fianchi, soffermandosi dove i suoi morsi avevano lasciato segni rossi e tondi come mele.
Emma sorrise, muovendosi di scatto per ribaltare la situazione e costringere Regina a sdraiarsi.
«Una mossa avventata, Emma Swan».
 
Regina non l’aveva sentita arrivare, ma non appena si era avvicinata, il profumo di Emma aveva attirato la sua attenzione.
«Dove eri?» domandò, senza alzare lo sguardo dalla rivista.
Emma, che si era appoggiata allo stipite della porta, fece un paio di passi verso di lei.
«A mangiare. Devo esserti mancata molto, se sei venuta fino a qui per cercarmi».
«Mi stavi evitando?»
«No, affatto».
«Aspettavi che ti venissi a cercare, vero?»
«Non volevo imbarazzarti con la mia presenza».
«Molto dolce, Emma Swan» disse Regina ironica, abbandonando la rivista e alzandosi.
 
E mentre Emma scivolava in Regina, il suo cuore batteva, batteva come mai aveva fatto in vita sua, come se tutto quel turbinio di emozioni che la sola presenza di Regina le provocava si moltiplicasse, si amplificasse, fino a invadere ogni cellula del suo essere, fino a soffocarla.
E Emma Swan voleva solo annegare in tutto quello, in tutto ciò che era Regina.
 
Regina si avvicinò allo sceriffo, fino a quando le loro gambe non si sfiorarono, e poi continuò ad avvicinarsi.
 
Regina Mills si prese ogni cosa di Emma Swan. I gemiti di piacere, le carezze vellutate, lo sguardo in estasi, il calore delle gambe, i capelli profumati, il sapore di cannella.
E si prese il suo cuore, come mai aveva fatto prima, senza la forza, quel cuore puro le venne offerto con fiducia, le venne offerto perché se ne prendesse cura, perché lo proteggesse.
Così  Regina lo prese perché, quella notte, non voleva soltanto possedere Emma. Voleva amarla.
 
Regina sorrise, a pochi centimetri dal volto di Emma, che ascoltava il cuore dell’altra battere. Lentamente, lo sceriffo portò la mano sul petto di Regina.
«Battito accelerato».
 
Fu qualcosa che né Emma né Regina avevano mai provato in vita propria.
Perché né per l’una né per l’altra si trattò semplicemente di riempire un vuoto, soddisfare un bisogno, mettere a tacere l’esigenza della propria anima di sentirsi amata, anche solo per qualche minuto.
In quella stanza, mentre Regina ascoltava il respiro rotto di Emma, mentre ne assaporava la pelle e cercava di imprimere nei propri ricordi ogni centimetro di quel corpo, accadde qualcosa di diverso.
E Emma lo capì quando baciò Regina a lungo, soffocandone i gemiti, quando si rese conto che non lo stava facendo per sé stessa.
Lo sapevano entrambe, mentre i loro corpi rabbrividivano l’uno contro l’altro, che ormai le cose erano cambiate e che, per la prima volta in vita loro, ciascuna aveva pensato solo al benessere dell’altra, senza sconti verso sé stessa. 

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Capitolo 4
*** Il primo figlio ***


IV. Il primo figlio
 

 
Regina e Emma si erano nascoste, per mesi. Non tanto dalle altre persone, quanto da Henry. Come spiegare a un bambino che le sue mamme avevano messo da parte le armi e si erano legate l’una all’altra più del previsto?
«Comunque, credo che sia ora di dirglielo» considerò Emma, mentre aspettava che Henry uscisse da scuola insieme a Regina.
«No, non credo» la contraddisse il sindaco.
«Regina, non possiamo mentirgli per il resto della vita, lo sai» le fece notare Emma.
L’altra sospirò, gettando distrattamente uno sguardo attorno.
«Se dovesse andare male, comunque, posso sempre modificargli la memoria» concesse Regina.
«Ma è tuo figlio!»
«A maggior ragione!»
«Non posso credere che tu-»
«Ciao!» le interruppe Henry. «Di cosa parlavate?»
«Nulla, tesoro, andiamo a casa» rispose Regina, accarezzandogli la testa e camminando verso l’auto.
Emma sospirò, poi li seguì.
Regina si sedette al volante e Emma al posto del passeggero.
Ormai era diventata una routine, quella di stare a casa di Regina.
Per Henry, si dicevano entrambe, pur sapendo che le cose non stavano davvero così e che, come avevano sempre fatto durante la loro vita, stavano cercando una giustificazione alle loro azioni, senza il coraggio di ammettere la verità.
Perché Emma faceva la doccia a casa di Regina, mangiava a casa di Regina e dimenticava i vestiti a casa di Regina.
Non sono tua madre, Swan, non ho intenzione di lavare le tue magliette.
 
Quella sera, a cena, nessuno parlava.
«Avete litigato?» domandò Henry, soffiando sul cucchiaio per raffreddare la traballante minestra.
«No» sorrise Emma, che non aveva toccato cibo.
«Mangia, prima che diventi freddo» disse Regina.
«È… successo qualcosa?» tentò di nuovo Henry, spostando lo sguardo da destra a sinistra.
«No, ragazzino, va tutto bene».
«E allora perché siete così tese?» domandò il bambino, appoggiando il cucchiaio.
Emma sospirò e Regina capì che voleva dirglielo.
«Non ora» la prevenne il sindaco, con uno sguardo severo.
«Regina… eravamo d’accordo. Non possiamo-»
«Lo so, solo… non ora» ribatté la donna.
«Cosa non ora?» domandò Henry.
Né Regina né Emma parlarono, limitandosi a scambiarsi uno sguardo e poi a guardare Henry.
«Henry, forse è meglio parlarne un’altra volta» disse infine Regina, sorridendo al figlio e allungandosi sopra il tavolo per accarezzargli la testa.
«Io e tua madre abbiamo una specie di storia» disse tutto d’un fiato Emma, fissando Henry e ansiosa della sua reazione.
«Emma, maledizione!»
«Sì, lo so» disse Henry. «Mi sta bene, sono felice per voi».
«Cosa?» domandò Emma, condividendo il proprio stupore con Regina.
«Come fai a saperlo?!»
«Me l’ha detto il signor Gold. Non l’ha proprio detto, me l’ha fatto capire. Papà Neal ancora non riesce a credere che tu abbia rinunciato a lui per una donna. E Uncino blatera qualcosa sul fatto che le donne di Storybrooke sembrano avere una strana propensione per gli animi oscuri» spiegò Henry, riprendendo a soffiare sulla sua minestra.
«Chi altri lo sa?» domandò Regina, allarmata.
«Credo tutti. Voglio dire, si vede, lo sanno. Semplicemente si rifiutano di accettarlo. Un po’ come quando tu, Emma, non volevi credere alla magia. Dovete dare loro tempo, non è una cosa semplice da accettare. E non perché siete donne, ma perché vi siete odiate per tanto tempo» disse loro Henry, con tono paternalistico.
«Sei fin troppo sveglio, ragazzino» commentò Emma, lasciandosi andare sulla sedia.
«E so tutto quello che succede in città» aggiunse Henry.
«Quello è il mio compito» protestò Regina, ancora scossa.
«Forse è ereditario» considerò Henry.
 
«Perciò ora cosa succede?» domandò Henry, seduto vicino a Emma a guardare la televisione. Regina si era sistemata dietro di loro, a una piccola scrivania, intenta a compilare gli ultimi documenti per l’ufficio.
«In che senso?» domandò Emma, prendendo una manciata di pop-corn dalla bacinella che il bambino teneva in bilico sulle gambe.
«Non macchiare il divano, Swan» disse laconica Regina.
Emma alzò gli occhi al cielo.
«Ora che non dovete più nascondervi da me, cosa succede?» chiese di nuovo Henry.
Regina posò la penna e guardò Emma.
«Nulla, cosa dovrebbe succedere?» rilanciò il sindaco.
«Dovresti liberare uno dei tuoi cassetti, così Emma può portare qui qualche maglietta» disse Henry.
«Cosa?» domandò lo sceriffo.
«Abiti ancora con i tuoi genitori a trent’anni. Fossi in te mi vergognerei» le ricordò il ragazzo, alzando le spalle.
«In effetti» concordò Regina, guadagnandosi un’occhiata minacciosa da Emma.
«Non è-, il fatto è che-, le cose stanno-. Ok, è complicato» si arrese lo sceriffo.
«Perciò, libererai un cassetto per lei?» insistette Henry.
«Tesoro, lascia già qui i suoi vestiti quando si dimentica di prenderli. Perché dovrebbe avere un cassetto?»
«Perché Emma si trasferirà qui, non è vero? Le persone che stanno insieme fanno questo, vanno a vivere insieme. Se possono farlo Belle e il signor Gold… E io finalmente avrò un solo posto da chiamare casa».
Emma e Regina si guardarono brevemente.
«D’accordo, se Emma vuole, avrà il cassetto» acconsentì Regina.
Lo sceriffo si limitò ad annuire.
 
«Ho liberato questa parte dell’armadio per te» disse Regina, accompagnando Emma nella sua camera la settimana dopo il discorso a Henry o, per meglio dire, di Henry.
Alle donne erano serviti giorni per familiarizzare con l’idea di condividere un guardaroba, ma alla fine era parsa una scelta logica. Per Henry, naturalmente, perché facevano tutto solo per Henry.
Loro non stavano esattamente insieme, loro avevano solo una specie di… storia. O, almeno, questo era quello che si dicevano.
«Armadio? Non avevamo parlato di cassetto?» domandò Emma.
«Henry ha detto che non hai molti vestiti. E che già che liberavo un cassetto, tanto valeva occuparmi di un armadio».
«Tu naturalmente eri contraria».
«Molto».
«Bugiarda».
«Prendere o lasciare, Swan».
«Andata. Odio quando mi chiami per cognome» le ricordò Emma.
«Lo so» sorrise Regina. «Vai tu a prendere Henry? Non fate tardi a cena».
«D’accordo, ci vediamo questa sera» annuì Emma, uscendo dalla camera dopo aver controllato l’orologio. Rischiava di arrivare in ritardo a scuola per Henry.
«Emma?» la chiamò Regina mentre lo Sceriffo era già a metà delle scale.
«Cosa c’è?»
«Tu… dormi qui, questa sera?»
Emma aprì la bocca, incerta su cosa rispondere.
«Suppongo che per Henry sia meglio. Sai, così si abitua a vederci… insieme» disse infine Emma. «Sempre che non sia un problema».
«No, affatto, è meglio così. Per Henry».
 
«Questa sera non credo che tornerò a dormire. Henry dorme da Regina».
«Cosa? E tu dove dormi?» si preoccupò Mary Margaret, guardando la figlia infilare distrattamente alcuni vestiti in valigia. Un’altra, molto più grande, era già pronta accanto alla porta.
«Io… in hotel. Sai, devo fare alcuni appostamenti e ho trovato una stanza con una visuale ottima» mentì velocemente Emma, chinandosi a terra per raccogliere una maglietta caduta.
«Ah, davvero?» domandò Mary Margaret sospettosa, approfittando della distrazione della giovane per mettere ordine nella sua valigia.
«Sì, sai come è, il mio lavoro»
«Tu stai vedendo qualcuno, Emma».
Lo sceriffo si fermò, prese un respiro profondo e capì di non essere mai stata brava a inventare scuse plausibili. Forse, era una delle controindicazioni del suo superpotere.
«In un certo senso» fu costretta ad ammettere la ragazza.
«E vai a vivere con lui» aggiunse Mary Margaret.
«In un senso un po’ meno certo».
Mary Margaret sorrise, accarezzando i capelli di Emma.
«Quando vorrai puoi sempre presentarlo a me e a papà. Henry sa chi è?»
«Sì, non ti preoccupare. È ancora presto per certe cose» tagliò corto Emma chiudendo la valigia. Diede un bacio veloce a Mary Margaret e uno sguardo a quella che fino ad allora era stata la sua camera, poi afferrò tutte le sue cose e uscì.
 
Henry era in piedi e studiava le sue mamme, sedute sul letto di Regina, che fissavano un armadio mezzo vuoto e un paio di valige aperte.
«Cosa stiamo facendo?» domandò il ragazzino, buttandosi sul letto dietro di loro. Aveva già il pigiama.
«Fa’ piano, tesoro» lo rimproverò Regina distrattamente.
«Devo sistemare i miei vestiti» disse Emma con voce assente.
«E perché non lo fai?» insistette Henry.
«Perché… sto per sistemare tutti i miei vestiti nell’armadio di Regina» fece presente Emma, con una smorfia.
«Si tratta solo di un paio di valige» la corresse il sindaco, stringendosi nelle spalle, mentre Emma e Henry si scambiavano uno sguardo d’intesa.
«No, quelli sono davvero tutti i miei vestiti, Regina».
«Stai scherzando?»
Henry, che nel frattempo era sgattaiolato giù dal letto, stava aprendo le restanti ante dell’armadio di fronte alle donne, uno ad uno, rivelando un’infinità di camicie, giacche, completi, gonne e pantaloni dai toni scuri.
Emma spalancò la bocca.
«Quelli sono i tuoi vestiti? Non puoi indossarli tutti in una sola vita!» protestò lo sceriffo.
«No, non sono tutti i suoi vestiti» rispose Henry. «Solo quelli di questa stagione».
Regina si strinse nelle spalle.
«Mi piace poter scegliere. E poi sono la regina, accidenti».
Emma le lanciò un’occhiata diffidente e si alzò, cingendo le spalle di Henry e dandogli un bacio sulla fronte.
«Ho affrontato cose ben peggiori che condividere l’armadio con tua madre, ragazzino. Posso farcela, non è vero?»
Henry sorrise, poi ci chinò a prendere un paio di pantaloni e li porse a Emma, che li sistemò sul ripiano dell’armadio vuoto.
Regina si spostò e si sedette appoggiando la schiena alla testata del letto, afferrando un libro dal proprio comodino. Sorrideva, guardando Henry e Emma che riempivano quell’armadio, un vuoto che non era solo materiale, ma che, si accorse con stupore, le stava divorando l’animo.
Quando lo sceriffo si voltò a guardarla, Regina si affrettò ad abbassare lo sguardo fingendo di leggere, del tutto indifferente alla loro presenza.
«Immagino che tu non abbia intenzione di aiutarci, non è vero?» chiese Emma, con allegria.
«No, non sono i miei vestiti».
«Ma questo è orribile, Emma. Sicura che non sia della nonna?» disse Henry, richiamando l’attenzione dello sceriffo, mentre reggeva in mano un maglione grigio dalle decorazioni marroni.
«No, è mio! Non è affatto orribile».
Regina alzò di nuovo gli occhi e dovette ammettere che, in effetti, quel maglione era orribile.
 
«Che finale scontato» commentò acidamente Regina, quando il film che Henry aveva insistito per vedere quella sera terminò. Lui e Emma avevano sistemato l’armadio velocemente e il ragazzino le aveva trascinate in salotto. Una serata in famiglia, l’aveva chiamata.
La scelta di termini aveva fatto impallidire Regina e rabbrividire Emma.
Comunque, dato che Henry sembrava tenerci davvero tanto, le due donne avevano acconsentito. Peccato che quando il bambino si addormentò, con la testa sulle gambe di Emma e i piedi su quelle di Regina, nessuna delle due accennò ad alzarsi, preferendo condividere i pop-corn.
«Perché, hai passato i tuoi ventotto anni di vita a Storybrooke guardando film?» sussurrò Emma, cercando di alzarsi senza disturbare Henry.
«Quel tizio, che a malapena si poteva definire cavaliere, ha salvato la giovane in pericolo portandola in salvo sul suo cavallo bianco. Sul serio, Emma, nella Foresta Incantata era all’ordine del giorno» spiegò acidamente Regina.
«Non ci avevo pensato. Mi dimentico sempre da dove vieni» rispose Emma.
Regina aprì la bocca, poi la richiuse, senza emettere parola.
Emma aveva perdonato il suo passato. E, soprattutto, era in grado di dimenticarlo.
Dopo tutto quello che aveva fatto, dopo tutto il male che aveva procurato, dopo tutto ciò che tra loro era successo, Regina non riusciva a credere che Emma non provasse rancore nel proprio cuore nei suoi confronti, non riusciva a credere che quella ragazza sbucata dal nulla fosse riuscita a venire a patto con il passato di Regina molto meglio di quanto Regina stessa fosse riuscita a fare.
«Cosa c’è?» bisbigliò Emma, leggermente china su Regina e Henry, in attesa che lo sguardo stupito e scosso del sindaco passasse o le venisse spiegato.
Regina scosse la testa.
«Dobbiamo svegliare Henry».
 
 
«Henry si è riaddormentato subito» disse Emma, chiudendo silenziosamente la porta della camera di Regina alle proprie spalle. Probabilmente avrebbe dovuto iniziare a considerarla anche la sua camera, ma tra loro le cose non erano per nulla definite.
«Perfetto» sorrise Regina, alzando velocemente lo sguardo. Aveva indossato una di quelle che nel suo mondo si chiamavano sottovesti, ma che lì si usava anche per dormire, e si era infilata a letto. Aveva preso il libro abbandonato poche ore prima sul comodino, con l’intenzione di leggere seriamente, ma un pensiero continuava a distrarla.
Regina stava aspettando, aspettando qualcuno che dormisse con lei, qualcuno con la quale condividere il letto, la notte, la vulnerabilità del sonno.
Si chiedeva se anche per Emma quella notte avesse la stessa importanza che aveva per lei.
Vide lo sceriffo sorridere e inclinare la testa di lato, senza smettere di fissarla.
«Cosa c’è?» domandò Regina.
«Avrei dovuto saperlo. Sei quel tipo di donna che anche quando va a dormire rimane elegante. E l’eleganza, te lo assicuro, Regina, non ti manca affatto».
«Questo è un complimento, Swan?» rispose il sindaco, cercando di nascondere all’esterno quel fiotto di calore che le aveva invaso il petto.
«Non chiamarmi per cognome» le disse Emma, afferrando il proprio pigiama dall’armadio e entrando in bagno.
Dopo qualche minuto, Regina la vide uscire indossando un paio di pantaloncini corti, quasi nascosti dalla lunga maglia nera che indossava.
«Tu dormi così?»
Per tutta risposta Emma si lasciò cadere sul letto.
«Sei meno delicata di Henry, fa piano» la rimproverò Regina.
Emma lo fece di nuovo, facendo sobbalzare il sindaco, che chiuse il libro con uno scatto secco guardando l’altra in cagnesco.
Lo sceriffo colse la sfida e saltò sul letto, ancora e ancora, fino a quando il cuscino che Regina le tirò non la raggiunse in volto. Lo prese al volo e si slanciò verso il sindaco, colpendola sulle gambe.
«Ti ho detto di smetterla» ripeté Regina, senza riuscire a nascondere il proprio sorriso mentre Emma si stringeva nelle spalle, sistemava il cuscino e si infilava a letto.
«Tanto lo so che sei felice di avermi qui».
«Ti sopporto per Henry» la avvisò il sindaco, sdraiandosi imitata da Emma.
Si sistemarono entrambe su un fianco, guardandosi l’un l’altra.
«Sì, infatti, anche io sono qui solo per Henry» annuì lo sceriffo.
«Bugiarda». 
«Anche tu».
Regina si sporse velocemente a spegnere la luce, prima che Emma notasse che stava ancora sorridendo.
«Buona notte, Emma».
«Buona notte, Regina».
Le loro gambe nude si intrecciarono al di sotto delle coperte, ma entrambe finsero di non darvi alcuna importanza.
 
«Emma, dobbiamo parlare».
Il sangue nelle vene dello sceriffo raggelò, goccia a goccia, mentre Mary Margaret si schiariva la voce. Almeno un paio di volte alla settimana Emma e Henry cenavano a casa di Mary Margaret e David e questo accadeva ormai da mesi, da quando lo sceriffo si era trasferita a casa del sindaco.
Perché, ormai, Regina e Emma avevano accettato l’idea di condividere una casa, per Henry.
«Parlare? Stiamo già parlando».
David e Henry erano usciti da pochi minuti, per andare a giocare in giardino nonostante il freddo. Emma sospettò che Mary Margaret l’avesse suggerito al marito di proposito.
«Ti ho vista uscire dalla porta di Regina. Questa mattina. E anche quella prima e poi quella prima ancora. Ho visto la tua auto parcheggiata nel suo vialetto, per giorni interi. Ti ho visto aprire la porta di casa di Regina Mills con un mazzo di chiavi in cui tieni il cigno che ti ha regalato Neal» disse Mary Margaret, velocemente, una parola dopo l’altra.
«Mi hai spiato?» domandò allibita Emma.
«Storybrooke è una città grande, ma non tanto da non farmi notare queste cose!»
«Mi hai spiato!»
«Forse ti ho seguita in macchina un paio di volte» ammise Mary Margaret. «Volevo solo sapere se sei davvero felice come sembri. E poi, immagina la mia sorpresa quando ho scoperto che vivi da Regina. Ti ha affittato una camera? Non ti piaceva stare con noi? Preferisci lei a noi?»
Emma scosse la testa, abbandonandosi allo schienale della sedia e guardando distrattamente fuori dalla finestra alla sua sinistra.
«No, non mi ha affittato una camera».
«E allora aiutami, Emma, perché io davvero non capisco cosa stia succedendo» disse Mary Margaret in tono quasi supplichevole.
Emma sospirò.
«Non dare fuori di matto, ti prego».
«Sei mia figlia, lo so che non ci sono state tante occasioni di fare la madre, ma sono qui, ora».
«Quella ormai non è più solo la casa di Regina o di Henry. Quella è casa mia, nostra. Io vivo con Henry e ho con Regina lo stesso rapporto che tu hai con David» spiegò Emma, guardandosi le mani e lanciando solo brevi sguardi all’espressione che si dipinse sul volto di May Margaret. Emma era sicura di leggervi il terrore.
«Sei… sei la fidanzata di Regina? Mia figlia con-»
«Henry è felice. E anche io e, credo, anche Regina. Non lo ammetterebbe mai e io non lo ammetterei mai davanti a lei, ma siamo felici».
Mary Margaret sospirò.
«Non so se capisci quanto sia difficile la mia posizione, perché la mia matrigna ora è anche mia nuora».
«Non siamo sposate» specificò Emma, stringendosi nelle spalle.
«Sei sicura di quello che stai facendo? Perché Regina è una donna pericolosa e non capisco come tu possa esserti innamorata di una donna senza cuore. Ha provato a ucciderti».
«Anche tu e David ci siete andati vicino un paio di volte» sottolineò lo sceriffo.
«Ma siamo ancora vivi».
«Anche noi. E poi hai sempre elogiato Belle per essersi innamorata di un uomo come il signor Gold. Non sono poi tanto diversa da lei, in questo caso» disse Emma.
«Sei mia figlia e le cose si complicano, tesoro» rispose Mary Margaret.
«Mamma!» urlò Henry aprendo la porta, con una spada di legno ancora in mano. «Ho quasi disarmato il nonno questa sera!»
Emma sorrise, scompigliandoli i capelli. Scambiò uno sguardo con la madre e dal sorriso che lesse nei suoi occhi, capì che non le portava rancore per quello che le aveva rivelato. Capì che le cose tra di loro non erano affatto cambiate e che, nulla, nemmeno Regina, avrebbe potuto allontanare di nuovo Biancaneve da sua figlia. Sarebbe stato difficile per Mary Margaret venire a patti con la situazione, ma poteva gestirlo.
«Bravo, ragazzino. Cosa ne dici di tornare a casa, ora? Ti fai una bella doccia e poi dritto a letto» propose lo sceriffo, alzandosi, sollevata.
«La mamma si sarà annoiata senza di noi» considerò Henry. «Sarà più acida del solito».
Emma si lasciò sfuggire una risata leggera.
«Non dovresti parlare così di lei».
«Parlo così di te anche con lei, non preoccuparti».
«Mi sono perso qualcosa?» domandò David, con sguardo confuso, mentre Emma e Henry si abbottonavano i cappotti.
«Te lo spiego tra poco, caro. Solo, metti a posto quelle spade, prima» rispose Mary Margaret, sospirando.
 
«I miei genitori ci hanno invitato a cena giovedì sera» disse Emma una sera, sdraiata a letto accanto a Regina.
«Lo so, tu e Henry andate sempre a cena da loro il giovedì» rispose il sindaco, sbadigliando e giocherellando distrattamente con i capelli di Emma. Era una cosa che faceva a volte, inconsciamente, e che smetteva di fare ogni volta che se ne rendeva conto.
«Ma con noi intendevo noi. Cioè, tu, io e Henry».
«Swan! Perché dannazione hai detto a-»
«Abbassa la voce, Henry dorme!» la zittì Emma, posandole una mano sulla bocca.
«Swan!» bisbigliò Regina altrettanto minacciosa.
«Non ho detto niente! L’ha capito da sola».
«Quella piccola ficcanaso…»
«Non parlare così di lei» disse Emma, risentita.
«Tecnicamente sono la sua matrigna, posso parlare di lei come voglio» sottolineò Regina.
«Allora, ci verrai?» tagliò corto lo sceriffo.
«Non se ne parla nemmeno».
 
«Perché mi trovo a suonare a questa porta?» domandò Regina retoricamente, di fronte alla porta di Mary Margaret e David.
«Perché hai promesso di farlo per me» rispose Henry, rivolgendo un sorriso raggiante al sindaco.
Emma sogghignò.
«Guarda che questo ragazzino ha il completo controllo anche su di te, Swan» le fece notare Regina acidamente.
«Da quando mi chiami anche tu ragazzino
«Buonasera!» salutò Mary Margaret, aprendo la porta in quel momento. «Ciao, piccolo» disse baciando Henry mentre il marito si avvicinava a lei.
«Ciao, nonna! Cosa c’è da mangiare?» disse il nipote, lasciandosi abbracciare da David.
«Tesoro».
Mary Margaret si rivolse a Emma, scoccandole un bacio sulla guancia, prima di rivolgersi imbarazzata a Regina.
Il sindaco sospirò e tese la mano.
«Grazie dell’invito».
«Fai parte della famiglia anche tu, ora. Non solo per Henry».
 
«Ammettilo, non è stato poi tanto male» disse Emma, svoltando nel vialetto di casa.
Regina fece una smorfia e non rispose.
«Dai, mamma. Lo so che in fondo ti sei divertita! Hai anche battuto il nonno a scacchi» intervenne Henry, sporgendosi dal sedile posteriore.
La macchina si fermò dolcemente.
«E non ha nemmeno barato. Sono stata attenta!» disse Emma.
«Smettetela di fare comunella, voi due, o la smetterò di cucinare per voi».
«Possiamo mangiare da Granny’s».
«O dalla nonna».
Regina fulminò entrambi con lo sguardo.
«Perfidi».
«Abbiamo imparato dalla migliore» disse Henry, prima di uscire dall’auto e correre verso casa. «Mi scappa la pipì!» lo sentirono urlare.
Emma guardò Regina sorridere, mentre seguiva il ragazzo con gli occhi.
«Hai voluto marcare il territorio, non è vero?» chiese a Regina.
«A cosa ti riferisci?» domandò il sindaco, fingendo di non capire. In realtà sapeva benissimo a cosa Emma si stesse riferendo.
«Al fatto che mi hai baciato davanti ai miei genitori. Se non li hai uccisi così è chiaro che non ci riuscirai mai».
«Ho voluto provare, solo per esserne certa» disse Regina, sporgendosi verso Emma e afferrandole il volto.
Si baciarono a lungo, mentre le luci della loro casa si accendevano ad una ad una, in ogni stanza in cui passava Henry.
Nessuna delle due si accorse del ragazzo che le spiò da dietro una tenda, né sembro accorgersi del resto del mondo.
Comunque, tutto quello era solo per Henry, per il figlio che avevano insieme.
 




NdA
Ed eccoci al quarto capitolo, con un Henry che, come al solito, mostra quell’insana abitudine di ficcare il naso negli affari altrui, certamente una dote di famiglia!
Il mio intento in realtà era di aggiornare ogni lunedì, ma poi ho pensato che, considerando i bellissimi commenti che ho ricevuto, non sarei mai riuscita ad aspettare per vedere la vostra reazione a questo capitolo (e al capitolo finale)!
I loro quattro momenti felici sono andati, io vi avviso! Comunque, spero vi sia piaciuto anche questo capitolo, a presto,
Trixie :D

 

 

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Capitolo 5
*** Il primo amore ***


 
V. Il primo amore
 
 
All’inizio accadeva solo ogni tanto. Un paio di volte al mese, poi una volta a settimana e poi quasi ogni giorno.
Regina chiamava dall’ufficio, scusandosi perché anche quella sera avrebbe fatto tardi. Il più delle volte scattava la segreteria telefonica, perché né Henry né Emma si trovavano a casa in quel momento. Di solito era Henry, che tornava prima che Emma finisse i propri turni dagli orari più stravaganti, a sentire il messaggio.
Ma qualche volta Henry non c’era e cenava fuori. Allora toccava a Emma sentire la voce di Regina che riecheggiava nelle stanze vuote, era solo Emma a sospirare e chiedersi perché Regina non fosse mai a casa.
 
«No, Regina, sei tu a non capire, accidenti! Non è facile fidarsi di te» gridò Emma, appoggiandosi al ripiano della cucina.
Regina la guardò, ferita, nascondendo il dolore che quelle parole le avevano procurato con uno sguardo furioso.
«Non è facile, lo so, ma tu mi hai dato fiducia quando nessun altro lo ha fatto. E mi hai rassicurata, più volte, di avere fiducia in me e in quello che sono. Stavi mentendo, Swan?»
«Regina, non intendevo…»
Emma aveva abbassato il tono della voce, la prima volta dopo ore, da quando avevano iniziato a litigare.
«Non mi importa cosa intendevi. Devo andare al lavoro, ci vediamo questa sera» disse Regina, passandole accanto per uscire di casa.
«E immagino farai molto tardi anche questa sera, non è vero?» urlò Emma, esasperata.
In risposta, ottenne solo lo sbattere di una porta.
 
«Vuoi dirmi cosa sta succedendo?» aveva chiesto Emma una mattina, mentre guardava Regina scegliere i vestiti dall’armadio.
«Io… non so cosa mettermi» aveva risposto Regina confusa, lanciandole un’occhiata.
«Non mi riferisco a questo. Mi riferisco al fatto che non torni mai a casa. E la cosa non mi preoccuperebbe, davvero, se solo sapessi perché».
«Nulla, sto solo lavorando a un progetto» aveva sorriso Regina, guardandosi allo specchio.
«Ah, davvero?» aveva domandato Emma sarcastica.
«Sì, perché quel tono sorpreso? Sono il sindaco di Storybrooke, io ho-»
«Sì, certo, tu hai tante incombenze, molte responsabilità e tutto il resto, Regina. Naturalmente, certo» aveva concluso Emma al posto suo.
«Emma, cosa diavolo ti è preso questa mattina?»
«Assolutamente nulla, mi chiedo solo quanto ci metterà questo progetto a distruggerci tutti. Perché di solito i tuoi progetti includono morti, dolore e odio, non è vero?»
«Una volta ero io la stronza tra le due, complimenti» aveva detto Regina, prima di uscire dalla stanza.
Quello fu il loro primo vero litigio e a quello ne seguirono molti altri, per giorni. Emma non riusciva a capire per quale motivo Regina tenesse per sé i suoi progetti, per quale motivo nessuno ne fosse a conoscenza, se non per il fatto che doveva trattarsi di progetti pericolosi.
Quando, quella sera, Regina non chiamò, Emma compose il numero dell’ufficio del sindaco, ma la cornetta all’altro capo del filo squillò fino a quando non rispose la segreteria telefonica.
 
Regina era furiosa. Furiosa con Emma, furiosa con il mondo, furiosa che la sua magia non l’aiutasse.
Prese un bicchiere di cristallo e lo lanciò contro il muro, mandandolo in frantumi. Il suo rifugio personale era completamente a soqquadro, fogli e pergamene sparsi in ogni angolo, alte pile di libri rovesciate, l’odore del fallimento a impregnare l’aria.
«Perché?!» urlò Regina, pestando con i tacchi un vecchio calamaio di inchiostro rosso, che macchiò scarpe e pavimento.
«Accidenti, perché non funziona? Dove sto sbagliando?» si domandava tra sé, sfogliando freneticamente un vecchio e pesante libro di incantesimi. L’odore di muffa la investì, ma ormai lei ci aveva fatto l’abitudine. La metà dei libri che si trovavano in quella stanza, e per i quali aveva spesso molte energie e risorse per riuscire a recuperarli, puzzavano di muffa.
Nella foga, Regina strappò l’angolo di una pagina del libro. Il rumore, in quel silenzio, le parve insopportabile. Lo chiuse di scatto e imprecò, prima di lasciare il suo rifugio.
Per quella sera un fallimento era stato abbastanza, non avrebbe sopportato di più.
 
«Ho trovato questa per terra, in camera nostra, cosa è?»
«Nulla che ti riguardi, Swan»
«E invece mi riguarda, Regina. Cosa stai facendo?»
«Nulla che ti importi»
«Ho trovato questa provetta in camera nostra. So a cosa serve, ti ho visto usarla, ho visto Gold usarla. A cosa ti serve la magia, Regina?»
«Non sono affari tuoi».
 
Quando tornò a casa, Regina trovò Emma che leggeva in salotto.
«Henry dorme?» domandò il sindaco, sedendosi sul divano e togliendosi le decolté macchiate.
«Sì. E tu hai del sangue sulle scarpe. Su quale omicidio mi chiameranno ad indagare domani?»
Regina abbassò il viso e vide gocce dell’inchiostro ormai secco risaltare sul nero delle sue scarpe.
«Non è sangue, Swan. È inchiostro» la corresse Regina, bruscamente.
«Non chiamarmi per cognome».
«Non ricordarmi in continuazione che sono stata un’assassina. Vado a dormire» tagliò corto Regina, salendo velocemente le scale e lasciando Emma alle sue riflessioni.
 
«Perché non vuoi confidarti con me?»
«Ci sono cose che dobbiamo fare da soli, Emma».
«Stiamo insieme, Regina. Devi dirmelo».
«No, ti devo molto, ma non questo».
«Per favore, Regina, ho bisogno che tu sia sincera con me».
«E io ho bisogno della tua fiducia».
 
Emma credeva di impazzire. Non poteva starsene con le mani in mano mentre Regina progettava chissà quale inganno per fare del male a Storybrooke e poco importava se il suo nemico era anche la sua fidanzata. Perché, a maggior ragione, doveva impedirle di fare di nuovo del male alle persone.
Forse, in quel momento, il sindaco stava mettendo appunto una nuova maledizione, dalla quale solo lei e Henry sarebbero stati immuni o, forse, Regina avrebbe protetto anche Emma, ma lo sceriffo era al completo oscuro di tutto ed era ora, si disse, di fare qualcosa. Doveva aiutare Regina e proteggerla da sé stessa.
Emma calpestò i cocci del vaso infranto e afferrò la giacca appesa vicino all’ingresso di quella che non riusciva a non considerare come la propria casa. Uscì nella fredda aria autunnale, decisa a scoprire cosa stessa progettando Regina.
 
«Allora puoi andartene, Emma, puoi andartene da questa casa. Puoi andartene come fai sempre. Complimenti, sei riuscita a resistere al clima di Storybrooke molto più del previsto».
«Non voglio andarmene, voglio sapere cosa mi tieni nascosto, Regina».
«Va’ al diavolo, Emma Swan! Vattene!»
«No, voglio rimanere. Maledizione, Regina, non hai capito che ti amo? »
Regina afferrò il vaso alla sua sinistra e lo scagliò violentemente in direzione di Emma, che riuscì a evitarlo per un soffio.
Il sindaco si voltò e uscì di casa, diretta al suo rifugio.
Sarebbe stato quella notte o mai più.
 
Regina aveva capito in che cosa consistesse il suo errore. Lei era l’errore. Perché fino a quel momento non era stata pronta a farlo, fino a quel momento non aveva capito fino in fondo le implicazioni del suo gesto, fino a quel momento non aveva avuto il coraggio di guardare in faccia la realtà.
E poi c’erano state le parole di Emma.
Non hai capito che ti amo?
Certo che l’aveva capito, ma fino a quel momento era riuscita a negarlo a sé stessa.
Ma ora era pronta, ora avrebbe fatto tutto il necessario, ora non ci sarebbe stato posto per i se o per i ma, c’era posto solo per lei, per Henry e per Emma, nient’altro.
Regina si chinò, accese l’ultima candela che aveva sistemato in cerchio attorno a sé e iniziò a recitare la formula che aveva imparato a memoria, la formula che l’avrebbe portata da Emma.
 
Aveva trovato l’incantesimo per caso, in un libro lurido e sgualcito tra le cose che sua madre Cora aveva lasciato nella cripta. Non aveva mai visto quel libro, ma doveva essere davvero molto importante se sua madre non gliene aveva mai parlato.
La rilegatura in cuoio era molto pesante, in compenso le pagine di pergamena sembravano sul punto di sbriciolarsi tra le sue mani da un momento all’altro.
Regina aveva sfogliato una ad una quelle pagine leggere, studiandone i disegni. Ben presto, si era resa conto che si trattava di un antichissimo trattato di magia, che raccoglieva ogni singolo incantesimo conosciuto che avesse a che fare con il cuore, la sua conservazione o distruzione, dai più semplici, che lei conosceva e aveva usato varie volte, ai più complessi, di cui aveva solo sentito vagamente parlare.
Fu uno di questi incantesimi a catturare la sua attenzione. Un cuore rosso, morbido e innocente faceva bella mostra di sé al centro della pagina.
Cor Remittetur, recitava la pagina in alto.
Una speranza, ecco cosa era, la speranza di far tornare innocente il proprio cuore, la speranza di poter amare ancora, la speranza di poter vivere il proprio lieto fine.
 
Regina provava un dolore che mai, nella propria vita, aveva provato. Era il dolore che aveva provocato lei e che ora le veniva restituito, concentrato in pochi minuti.
Eppure Regina non accennava a fermarsi, la magia scorreva nel suo corpo, e si scatenava attorno a lei, facendo vorticare le candele e le loro fiamme.
Recitava un incantesimo, Regina, senza sosta, perché facesse tornare il suo cuore alla sua originaria innocenza. E per farlo, Regina sapeva che avrebbe provato su di sé tutto il dolore che aveva causato in anni e in anni di rancore e odio verso il mondo intero, verso ogni mondo, da quando Daniel le era stato strappato via.
Moriva ogni secondo e sapeva che sarebbe rinata, solo per morire un’altra volta, ogni volta.
Regina lo sapeva e non voleva fermarsi. Anche se Emma l’aveva perdonata, l’aveva accettata, lei non riusciva a perdonare sé stessa.
Emma e Henry, Henry e Emma, erano le ragioni incise nella sua anima.
 
Emma aveva seguito Regina, stando attenta che la donna non se ne accorgesse.
Il sindaco la condusse fino alla cripta dei Mills e Emma si chiese come avesse fatto a non pensarci prima. Decise di aspettare qualche minuto, prima di seguirla all’interno, per coglierla con le mani nel sacco. Qualsiasi cosa stesse facendo.
 
Regina sentiva il proprio cuore dilaniarsi e contorcersi, cercando una via d’uscita da tutto quel dolore, ma lei non glielo permise.
Prima o poi sarebbe finito tutto quanto e il suo cuore sarebbe tornato puro e innocente, solo che, lo sapeva, avrebbe anche smesso di battere.
Perché la Magia ha sempre un prezzo e in questo caso l’innocenza di Regina le sarebbe costata la vita.
 
Il terreno iniziò a tremare, prima lentamente, poi con violenza sempre maggiore. L’epicentro, Emma ne era sicura, era la cripta dei Mills. Senza perdere tempo corse in quella direzione.
Maledizione, Regina, cosa stai facendo?
 
Non hai capito che ti amo?
Le parole di Emma rimbombavano nella sua testa, all’infinito, senza tregua. Amata, da molto tempo non era stata amata.
Quelle parole aveva fatto scattare la scintilla della comprensione.
L’incantesimo del Cor Remittetur non avrebbe mai funzionato, non fino a quando Regina non sarebbe stata disposta a morire.
Henry si occuperà di Emma, e Emma di Henry, saranno felici.
 
Emma si ritrovò in un lungo corridoio spoglio, con un solo specchio davanti. Non trovava Regina, non capiva dove potesse essersi nascosta. La terra tremava, quel posto sembrava pronto a inghiottirla da un momento all’altro.
«Regina! Regina!» urlava al vuoto, senza nessuno che potesse risponderle.
«Regina!» provò ancora. E la terra smise di tremare.
Regina, dove sei?
La superficie dello specchio tremolò, Emma non perse tempo e si gettò all’interno.
 
Regina.
Una voce lontana che la chiamava.
Regina.
Sembrava la voce di Emma, ma no, non poteva essere.
Regina.
Distesa a terra, senza forze, Regina non osava sperare che Emma l’avesse trovata.
Regina.
Emma.
 
«Regina!»
Emma si chinò sul corpo del sindaco, il respiro allo stremo, il petto che si muoveva appena.
«Regina! Cosa è successo? Cosa hai fatto?»
«Volevo solo amarti, Emma. Ora posso, ti amo».
Regina chiuse gli occhi. E Emma capì che non la poteva proteggere, perché era stata Regina a proteggere lei e non poteva salvare Regina, perché si era già salvata da sola.
Ad Emma bastò uno sguardo al libro abbandonato accanto al corpo di Regina per capire cosa fosse successo. Baciò la donna, le labbra ancora calde, ma lo sapeva, dall’urlo silenzioso che si alzava dalla sua anima, che il cuore di Regina non avrebbe ripreso a battere.
Sacrificarsi volontariamente per la persona amata non è una maledizione, è una scelta, e il contro incantesimo del bacio del Vero Amore in questo caso non può funzionare.  
Emma non poté fare altro che accasciarsi sul petto di Regina e piangere la perdita del proprio amore, della propria anima.




 
 
NdA
 
Ed eccoci qui, alla fine.
Io… Io avrei in mente un seguito. Sarebbe un pochino più lungo e dal carattere più dinamico, non ambientandosi completamente a Storybrooke. Naturalmente, nonostante la fine di questo capitolo, si tratterebbe di una fan fiction SwanQueen. E, sì, insomma, se voi foste interessati, mi piacerebbe saperlo :D
 
Inoltre, avrete notato che ci sono punti della narrazione che sono stati “sacrificati” per far posto a scene interamente Swan Queen. Sono scene che ho già scritto e, anche in questo caso, credo che abbiamo solo bisogno di una revisione, prima di essere pubblicate ;D In definitiva, questi cinque capitoli diventerebbero parte di una serie. :D
 
Ma passiamo alle cose importanti, ovvero ringraziare tutti coloro che hanno lasciato un commento a questa storia, oltre ai lettori silenziosi : )
 
Allora, magari, ci becchiamo in giro per il fandom ;D
Trixie.
 
P.S. Ci sono andata giù troppo drasticamente con il finale? ^^”

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