Assassin's Heart di ArashiStorm (/viewuser.php?uid=123336)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** The Journal ***
Capitolo 2: *** Simply Human ***
Capitolo 3: *** A certain somebody ***
Capitolo 4: *** The Truth ***
Capitolo 5: *** When we meet ***
Capitolo 6: *** Dreams ***
Capitolo 7: *** Waking up ***
Capitolo 8: *** Memories ***
Capitolo 9: *** History Lesson ***
Capitolo 10: *** Revelation ***
Capitolo 11: *** Doubts ***
Capitolo 12: *** Hunting ***
Capitolo 13: *** What to do ***
Capitolo 14: *** What I aim for ***
Capitolo 1 *** The Journal ***
Sapevo
che ci sarei caduta....dopo aver giocato ad Assassin's Creed III (che
io ho apprezzato parecchio alla faccia di chi lo ha denigrato) non
potevo non scriverci qualcosa e non è nemmeno una one-shot,
no, perché sono folle e parto a provare con una multi
chapter...mah speriamo piaccia. Aspettatevi molto Connor e Haytham e
Ziio con un pizzico di Aveline (a questo proposito purtroppo non avendo
la psvita non ho potuto giocare a Liberation, anche se mi sono
documentata sulla storia, quindi la Aveline che trovate qui
è una mia visione del personaggio, spero non sia troppo OC)
Se voleste farmi sapere che ne pensate lo gradirei molto, anche
perché saprei se è il caso di continuare la
storia o no XD
Assassin's
Heart
1.
The Journal
Chiuse
il diario con lentezza. Le ultime parole scrittevi all'interno, su
pagine ormai ingiallite, rimbombavano nella sua mente. Sul tavolo dove
il diario era riposto piccolo gocce aumentavano di numero. Non gli fu
difficile capire che altro non erano che lacrime che gli scendevano da
occhi che pensava non fossero più in grado di piangere. Non
dopo aver visto morire sua madre in un incendio che non avrebbe mai
potuto dimenticare.
Eppure
ora quelle lacrime non scendevano per sua madre, ma per qualcuno per il
quale mai avrebbe pensato di poter anche solo credere di piangere.
Connor Kenway stava piangendo per suo padre.
Lo
aveva perso, anzi lo aveva ucciso lui stesso, poco più di un
mese fa. Le sue mani potevano dirsi ancora bagnate del suo sangue,
anche se non solo del suo, perché insieme a quello di
Haytham Kenway, dalla lama celata che teneva al braccio, colava anche
il sangue, ben più odiato, di Charles Lee. E se non provava
nessun pentimento per quell'ultimo omicidio, lo stesso non poteva dirsi
del macigno che sentiva nel cuore per l'uccisione del padre.
Soprattutto ora che, dopo la lettura del suo diario, era riuscito,
forse, a capirlo anche se ancora non sapeva se sarebbe riuscito a
perdonarlo.
Si
asciugò gli occhi, leggermente incredulo di come questi
continuassero a lacrimare e si voltò di scatto, verso la
porta della stanza, quando sentì un leggero bussare
dall'altra parte del robusto legno.
Viveva
da solo in quella grande magione che era stata la villa di Achilles
Davenport e per questo motivo sapeva bene che una sola persona poteva
trovarsi al di là della porta, la stessa persona che quella
mattina si era presentata nella sua tenuta con il diario tra le mani.
"Entra
pure" disse, notando come la sua voce fosse uscita roca e sofferente.
Decisamente non era da lui. Cosa che pensò anche la ragazza
che, entrando in silenzio, lo guardò a lungo prima di aprir
bocca.
"Tutto
bene?" chiese a mezza voce.
"Si,
Aveline. Ti ringrazio." rispose alzandosi dalla sedia e andando a
guardare il buio fuori dalla finestra. Aveva passato tutta la giornata
a leggere il diario di suo padre e solo ora si rendeva conto che si era
fatta notte.
"L'hai
letto tutto?" domandò nuovamente la donna, rimanendo sulla
soglia, con la porta aperta.
Un
cenno del capo fu tutto quello che l'assassina di New Orleans ottenne,
e sembrò bastarle. Connor però, dopo alcuni
istanti, cercò di essere più esaustivo.
"Aveline"
chiamò, sentendo la porta che stava per rinchiudersi. "Ti
ringrazio per avermi portato il diario"
La
ragazza stette in silenzio per alcuni secondi e poi rispose "Mi domando
se ho davvero fatto bene a portatelo"
Il
ragazzo si volse verso di lei, un mezzo sorriso sulle labbra.
"Me
lo sono domandato anch'io - confessò - mentre lo leggevo, e
ora, che l'ho finito, posso dirti che, si, hai fatto bene."
La
ragazza sorrise, ma prima che potesse parlare, Connor tornò
a voltarsi verso la finestra riprendendo la parola.
"Domani
dovrò ricordarmi di ringraziare anche Achilles per averti
chiamata e averti chiesto di tenermi d'occhio"
"Perché
non facessi sciocchezze, mi aveva detto" concluse Aveline.
Connor
sorrise. "Se fosse ancora vivo mi avrebbe sicuramente punito e ammonito
per la mia imprudenza..."
"Più
che imprudenza la chiamerei follia...Entrare nel quartier generale del
nemico mentre viene bombardato dai propri alleati. Sei stato fortunato
ad uscirne vivo."
"Hai
ragione. Ma più che uscirne vivo dalle cannonate, ancor oggi
mi domando come ho fatto ad uscir vivo dalla scontro con mio padre..."
Aveline
rimase in silenzio.
"Ora
mi domando se lui stesse davvero facendo sul serio..."
"Dunque
anche tu te ne sei reso conto...." controbbattè la ragazza,
testando il terreno.
Connor
si volse verso di lei, sul suo volto un evidente segno di
curiosità. Aveline tentò di spiegarsi meglio.
"Ho
visto il vostro combattimento, vi ho raggiunto poco dopo aver trovato
per caso il diario di tuo padre, quando una cannonata ha distrutto
quello che probabilmente era il suo studio. Pensavo fosse una mia sola
impressione, ma anch'io ho pensato che tuo padre non stesse facendo sul
serio e non volesse ucciderti."
Connor
la guardò sempre più pensieroso.
"Avrebbe
potuto chiamare delle guardie, ma soprattutto mentre tentava di
soffocarti, lo stavo guardando bene, pronta ad intervenire, avrebbe
potuto usare la lama celata per tagliarti la gola, anzi, ero sicura che
lo avrebbe fatto... Avrebbe potuto ucciderti facilmente, e invece..."
Calò
un silenzio ancora più pesante, Connor si voltò
nuovamente verso la finestra, una mano sulla lastra di vetro come per
reggere il suo stesso peso contro di essa. Che fosse vero? si
domandava. Che suo padre avesse intenzione di morire per mano sua
dunque? O semplicemente non volesse davvero ucciderlo nonostante le sue
ultime parole?
Connor
era preso da mille dubbi e quasi sussultò quando Aveline
chiamò il suo nome. Si voltò verso di lei
aspettando che parlasse, la mano ancora sulla finestra.
"Mi
rendo conto che tu abbia bisogno di tempo per digerire la faccenda, ma
avrei bisogno che mi accompagnassi a New York domani. C'è
qualcosa che faresti bene a vedere..."
Il
ragazzo annuì e l'Assassina lo imitò di rimando
"Bene, ci vediamo domani mattina allora" disse poi, prima di uscire
nuovamente e chiudersi la porta alle spalle.
All'interno
Connor sentì il portone chiudersi con un rumore sordo,
mentre il suo sguardo si ripose nuovamente sul diario del padre.
C'erano ancora delle pagine vuote, sul tavolo un calamaio e una penna
sembravano aspettare solo di essere sollevati e usati. Connor si
avvicinò al tavolo, si sedette e intinse la punta della
penna nell'inchiostro. Forse gli avrebbe fatto bene ripercorre quei
momenti sulla carta. Forse così, pensò, gli
sarebbe sembrato di parlare con suo padre ancora una volta.
Sulle
scale fuori dalla stanza Aveline nel frattempo si era volta verso la
porta chiusa domandandosi se ciò che aveva pianificato di
fare sarebbe stata una buona cosa o se avrebbe peggiorato la situazione
ancora di più. L'indomani l'avrebbe scoperto...
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Capitolo 2 *** Simply Human ***
2. Simply human
La
mattina dopo, all'alba, Aveline tonò a bussare alla porta
della stanza di Connor ma non ottenne riposta né la prima,
né la seconda volta che le sue dita toccarono il legno. Al
terzo tentativo andato a vuoto entrò comunque, con
circospezione, pronta ad ogni evenienza.
All'interno
non notò nulla di sospetto a parte il fatto che di Connor
non ci fosse nemmeno l'ombra. Sul tavolo il diario del padre era ancora
aperto e la ragazza notò che sulle sue pagine ingiallite
c'erano nuove parole scritte da poco. Non lesse nulla di ciò
che vi era scritto, perfettamente conscia che quelle parole erano state
messe su carta dallo stesso Connor la notte precedente, probabilmente
dopo che lei lo aveva lasciato solo. E non volle quindi impicciarsi
delle faccende di lui.
Si
concentrò, però, per capire dove fosse, e si
diede della sciocca quando riflettendo un attimo le fu facile intuire
dove il suo fratello in armi potesse essere. Uscì dalla
villa, più precisamente saltò giù dal
balcone per fare prima e, come sospettato, trovò Connor
davanti alla tomba di Achilles.
"Connor"
lo chiamò con voce leggermente preoccupata. Il ragazzo si
volse verso di lei e la donna fu felice di rivedere sul suo volto la
stessa espressione di sempre, anche se forse ancora un po' velata.
Probabilmente per via della mancanza di sonno, pensò.
"Hai
dormito?" chiese dunque per assicurasi di aver intuito bene.
"No
- rispose il ragazzo tornando a guardare la tomba del suo mentore -
avevo molto a cui pensare"
"Capisco"
"Ci
sono momenti in cui darei qualsiasi cosa per aver ancora Achilles con
cui parlare. Sicuramente mi avrebbe già urlato contro per
ciò che mi sono ritrovato a pensare, e probabilmente
sentendo le sue parole avrei finito per sentimi meglio pensando che in
fondo avesse ragione...invece ora..."
"E
sentiamo...Cosa avresti pensato che avrebbe potuto farlo infuriare?"
La
domanda aleggiò tra i due Assassini per un periodo che parve
infinito ad entrambi e solo dopo qualche minuto Connor portò
lo sguardo negli occhi di Aveline
"Che
non l'ho mai conosciuto davvero, che l'ho giudicato male e che
è troppo tardi per dirgli che mi dispiace"
Aveline
resse lo sguardo del compagno e non ci fu bisogno che chiedesse a chi
si stesse riferendo. Le fu fin troppo chiaro che Connor stesse parlando
del proprio padre.
Rimasero
a guardarsi finché una lepre non corse via in mezzo all'erba
vicino ai loro piedi, per sparire in mezzo alla boscaglia poco lontano,
seguita dagli sguardi di entrambi.
La
ragazza colse l'opportunità per spezzare il silenzio.
"Sarà
meglio preparare i cavalli" disse velocemente dirigendosi verso le
stalle lì vicino. Connor la fermò prendendola per
un braccio. "Pensi che sia un sentimentale?" chiese con un cipiglio
arrabbiato, con lei o con sé stesso non seppe dirlo. Aveline
non se ne curò in ogni caso, e gli ripose ponendogli una
mano sul braccio che la tratteneva.
"Penso
solo che tu sia un essere umano, e in questo non c'è nulla
di sbagliato"
Connor
la lasciò andare per un secondo spiazzato dal sorriso
sincero che si stagliò sul volto di lei. Un sorriso che la
ragazza mantenne anche una volta datogli le spalle, ora più
fiduciosa di quanto non fosse prima per il loro viaggio verso New York.
Lasciarono
la tenuta l'ora seguente, dopo aver caricato sui cavalli il necessario
per il viaggio. Una volta usciti nella frontiera Connor si mise il
cappuccio sulla testa, mentre Avelin si sistemò meglio il
capello e entrambi partirono al galoppo nel mezzo della foresta.
Era
mattina presto e la rugiada brillava ancora sulle foglie più
basse della boscaglia. Intorno ai due Assassini solo il rumore degli
zoccoli del cavallo e della corrente del fiume che scorreva sotto di
loro. Non si sentivano nemmeno i tamburi delle onnipresenti truppe
militari. Era cosa nota infatti che, anche se ora gli inglesi se ne
erano andati sulla carta, questo non volesse dire che non ci fosse la
possibilità di imbattersi in piccole truppe recidive
più o meno organizzate. Alle volte Connor ricordava anche di
aver assistito a schermaglie tra patrioti e giubbe rosse come se la
guerra fosse ancora in corso nonostante la dichiarazione d'indipendenza
fosse ormai stilata e approvata. Forse, la verità era che la
rivoluzione, come era stata chiamata, non era poi davvero finita...
Il
viaggio, in ogni caso, anche nelle ore successive, proseguì
senza intoppi. I due non avevano parlato quasi per nulla durante la
cavalcata e Connor non aveva ancora avuto modo di chiedere spiegazioni
alla ragazza in merito all'incarico, o qualsiasi cosa fosse, che gli
aspettava a New York. Ma, dopo qualche ora di vento sul volto, con la
mente più lucida e sforzandosi di metter da parte le nuove
rivelazioni apprese il giorno precedente, colse infine l'occasione per
domandare.
"Cosa
ci aspetta a New York? Hai detto che c'è qualcosa che devo
vedere... è forse successo qualcosa?"
"Non
è il caso di parlarne ora...tra qualche ora lo vedrai con i
tuoi occhi" fu la risposta evasiva della ragazza.
Connor
notò come lei non si fosse nemmeno girata nella sua
direzione per rispondere e la cosa, non seppe perché, lo
incuriosì e per alcuni versi lo preoccupò.
"Forse
vuoi farmi vedere il nuovo mercato di schiavi che si è
attivato. Purtroppo l'ho già saputo e prima che tu arrivassi
mi stavo, in effetti, già domandando come agire."
"No,
non è per quello, anche se sarebbe il caso di pensarci"
rispose Aveline tirando le redini del cavallo quando i due si
appressarono ad una locanda per far riposare gli animali.
La
ragazza scese dalla sua cavalcatura e la legò al palo vicino
all'entrata dell'edificio di legno.
"Hai
qualche idea in merito?" chiese poi volgendosi verso Connor che la
stava imitando legando anche il suo destriero allo stesso palo.
"Ho
già chiesto a Doby di investigare, visto che stiamo andando
a New York potrei contattarla per chiederle come procedono le indagini.
Se riuscissimo a scoprire dove si nascondono i trafficanti..."
Aveline
sembrò rifletterci mentre si incamminava verso la porta
della locanda per chiedere rifornimenti e acqua per i cavalli.
"Potremo
anche pensare di colpire i clienti, senza domanda non ci sarebbe
nemmeno offerta" concluse la donna quando Connor le fu vicino.
"è
un'idea azzardata - fece lui - c'è i rischio di uccidere
anche persone che non lo meritano. Ci sono nobili che possiedono
schiavi ma non li maltrattano e per quanto sia ingiusto é
meno deprecabile di coloro che sottraggono i figli alle madri per farne
della merce di scambio..."
Aveline
lo guardò per un lungo attimo e Connor non poté
che distogliere lo sguardo cercando di nascondersi ancor di
più sotto il cappuccio.
"Lo
so, pensi che sia troppo ingenuo e idealista nel pensarla
così...ma ho imparato che non tutte le persone sono come
sembrano..."
La
ragazza lo zittì portandogli un dito alle labbra. "No, hai
ragione" disse annuendo con sincerità ripensando con
nostalgia al padre ucciso dalla sua matrigna "Non sei né
ingenuo né idealista, come ti ho già, detto, sei
solo un essere umano, forse anche più di quanto lo sia io. E
in questo - sottolineò nuovamente prima che Connor potesse
controbattere - non c'è davvero nulla di sbagliato, anzi..."
concluse mentre apriva la porta, ritrovandosi inondata da un vociare
allegro e in alcuni momenti anche volgare.
La
locanda era piena, come è ovvio che fosse vista la posizione
in cui era stata edificata, funzionale per ogni destinazione che ci si
fosse prefissati.
La
donna si fece largo tra i tavoli, seguita dal compagno, e entrambi si
sedettero al bancone chiedendo i rifornimenti di cui avevano bisogno.
Rimasero li il poco tempo necessario e senza mai fare una parola tra
loro uscirono e poco dopo ripartirono verso la loro metà.
New
York sarebbe stata la loro prossima tappa ed Aveline al pensiero di
ciò che sarebbe potuto succedere si ritrovò a
incitare il proprio cavallo per fare più in fretta
noncurante del leggero tremore di preoccupazione delle sue mani mentre
stringevano le redini.
Solo
poche ora dividevano i due Assassini da una certa rivelazione o forse
sarebbe stato meglio dire da un certo qualcuno...
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Capitolo 3 *** A certain somebody ***
3. A certain somebody
Il sole iniziava a intraprendere la
strada per inabissarsi nelle acque dell'oceano quando i due Assassini
attraversarono la porta che conduceva a New York. In cielo bellissime
sfumature colorate dipingevano un tramonto che alcuni pittori
improvvisati tentavano di riportare su tela, seduti sul limitare del
piccolo lago nelle vicinanze dell’entrata della
città. Ai lati del portone, della strada e anche sopra la
pesante recinzione di legno, patrioti in divisa osservavano con
attenzione le persone che passavano loro vicino. Connor ebbe un momento
di sconforto mentre si sistemò meglio il cappuccio sul capo.
Sconforto nel pensiero che dovesse comportarsi in maniera circospetta e
attenta anche ora che i britannici se ne erano andati. Rimanevano i
patrioti, quelle stesse truppe che aveva aiutato in passato e che ora,
nonostante tutto, se avesse fatto qualcosa al di fuori dalla norma, lo
avrebbero fermato e, senza indugio, attaccato con gli stessi fucili che
qualche anno fa stavano dalla sua parte. O forse sarebbe stato meglio
dire che era Connor che si era portato dalla loro parte, nella speranza
di ottenere quella assai agognata libertà che suo padre
temeva tanto. Se quei ricordi non fossero così profondamente
amari, quasi gli verrebbe da ridere al pensiero di quanta
verità nascondessero quelle fredde e dure parole che Haytham
gli aveva vomitato addosso sul tetto di una di quelle case in
lontananza. Connor aveva colto quella verità ora, ma al
tempo stesso non voleva accettarla. Sperava ancora e avrebbe sempre
sperato che qualcosa, prima o poi, sarebbe cambiato in meglio, non
importa quanti anni ci sarebbero voluti, Connor continuava a sperare,
ma era indubbio che quella attesa facesse male. La stessa New York era
per Connor un sinonimo di dolore. Per i ricordi che vi aveva del padre,
per le delusioni che gli aveva mostrato la gente, perfino per
l’ignavia che pareva aver colto anche il generale Washington
che sempre più spesso vedeva lontano dai suoi doveri, e
molto più interessato al suo gioco di bocce. Non che avesse
rinnegato il suo appoggio a Washington, assolutamente no, chiunque per
Connor sarebbe stato meglio di Charles Lee, però al tempo
stesso il ragazzo non poteva non domandarsi che fine avrebbe fatto
questa nuova America viste le premesse su cui si basava. Ma in fondo
lui non era un politico e tutto ciò in cui voleva sperare
era che prima o poi tutti, ma proprio tutti, sarebbero stati liberi di
vivere secondo la propria volontà. Questa era la sua
speranza, quella stessa che ogni volta che entrava a New York veniva
sconquassata di incertezze, davanti alle macerie ancora bruciate e alla
povertà che vi vedeva passeggiare sulle stesse strade che
venivano percorse da nobili ben vestiti. Le persone erano nate per
essere uguali eppure i cittadini che Connor vedeva dirigersi verso casa
avevano mete ben diverse, c’era chi sarebbe arrivato in una
vecchia casa diroccata della periferia e chi nello stesso momento
avrebbe girato la maniglia di una lussuosa abitazione del centro. La
loro, invece, di meta sembrò palesarsi velocemente quando
Aveline non intenzionata ad seguire coloro che, più ricchi,
si incamminavano verso il cuore della città, si
fermò nei pressi di uno dei primi edifici della periferia.
Era una casa in legno, piuttosto
logoro ma intatto, e dal tetto spiovente. Vicino, Connor
notò una carrozza davanti all'ingresso e anche un piccolo
campo di pomodori e alcuni animali, segno che la famiglia non era
così povera, ma nemmeno abbastanza ricca da poter possedere
più di quel che vedeva. Le luci all’interno erano
accese e il cane sembrava dormire silenziosamente sul prato a lato
della casa. Aveline scese da cavallo, legando l'animale alla piccola
recinzione del giardino, subito imitata dal compagno che si
meravigliò quando la donna non si curò di bussare
alla porta principale. Si avvicinò, invece, ad
un’altra piccola porticina, che dava l’accesso ad
un’ala della casa dal tetto più basso rispetto
l’edificio principale. Aveline si fermò davanti e
si volse verso Connor. Nei suoi occhi il ragazzo lesse tensione e
preoccupazione, ma non ebbe tempo di chiedere il perché di
quelle emozioni che la ragazza lo degnò, finalmente, della
sua voce.
“Ora penso che tu debba
rimanere calmo… E promettimi che non farai nulla di
irrazionale e sconsiderato quando aprirò questa
porta”
Connor la guardò
decisamente turbato da quelle parole.
“Si può sapere
che sta succedendo?” chiese, portando la mano al tomahawk
senza nemmeno rendersene conto.
La ragazza sospirò
rumorosamente. “Vedi la cosa che dovevi vedere in
realtà non è una cosa, ma è un certo
qualcuno che probabilmente…” si fermò
per cercare le parole adatte me sembrò non trovarle quando
imprecò a mezza voce e si limitò ad aprire la
porta e a togliersi dall’uscio, invitando Connor ad entrare.
“Sarà meglio
che lo veda con i tuoi occhi…”concluse.
Il ragazzo avanzò con
cautela verso la porta aperta senza però togliere gli occhi
da Aveline, che dal canto suo, evitava di incrociarne lo sguardo
sistemandosi la lama celata sul braccio. Connor dovette però
alla fine cedere e portare la sua attenzione all’interno
della stanza. Era buio, ma i suoi sensi allenati non fecero fatica a
distinguere ciò che si nascondeva
nell’oscurità. Vide un tavolino con uno sgabello.
Sul muro alcune mensole su cui erano appoggiati vari utensili.
Nell’angolo notò appoggiati delle scope e
rastrelli. Lungo la parete destra sacchi e cesti, alcuni pieni, alcuni
vuoti. In fondo alla stanza, riposta con cura, sotto la piccola
finestra, c’era della legna del tutto simile a quella che
aveva visto fuori accatastata, sicuramente pronta per
l’inverno in arrivo. Insomma quella sembrava in tutto e per
tutto una stanza che la famiglia della casa usava come ripostiglio per
tutto cui aveva bisogno. Questo fu ciò che il ragazzo
pensò prima di volgere l'attenzione al muro di sinistra.
Lì vide una cosa che gli parve subito fuori luogo: un letto
perfettamente in ordine.
“Che
significa?” chiese, girandosi verso la ragazza ancora fuori.
Connor notò come l’amica sembrò
spiazzata dalla domanda e cercò di spiegarsi meglio.
“Qui non
c’è nessuno …e a parte un letto in
perfetto ordine, sembra un normale ripostiglio di una famiglia
benestante”
“Come?” e
questa volta la voce della compagna lo preoccupò
all’istante. Aveline si fiondò all'interno della
stanza setacciandone ogni angolo con lo sguardo.
“Dannazione”
imprecò uscendo come una saetta, andando a bussare con
insistenza all’uscio di casa. Connor la seguì e
non gli sfuggì di notare come il cane continuasse a dormire
nonostante il chiasso che la ragazza stava generando sbattendo con
insistenza i suoi pugni contro il legno. Quando finalmente qualcuno
aprì la porta l’Assassino aveva già
appurato come il cane fosse addormentato un po’ troppo
profondamente… La cosa lo mise ulteriormente in allarme e
vedere Aveline che parlava animatamente con l’uomo che aveva
aperto la porta non lo fece stare meglio. Aveva bisogno di risposte ed
era intenzionato ad averle al più presto. Non si
curò più del cane e si diresse con cipiglio verso
la compagna, prendendola per le braccia e costringendola a dargli tutta
la sua attenzione.
“Aveline!” -
urlò esasperato - “che sta succedendo?!”
La ragazza lo guardò
fino a che il fiato
sembrò tornarle di colpo. Sospirò rumorosamente
mentre Connor ancora le stringeva con forza le braccia, notando come
l‘uomo, con il quale stava parlando poco prima, stesse
fissando il ragazzo con evidente comprensione.
“Hai ragione …
sarà meglio che ti spieghi tutto” disse infine.
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Capitolo 4 *** The Truth ***
4.
The Truth
«Mio
padre???»
La
ragazza annuì non curandosi del rumore della sedia di Connor
che si ribaltava dietro di lui per la foga con cui il ragazzo si era
messo in piedi.
Jack,
l'uomo che aveva aperto poco prima la porta, sobbalzò alla
reazione del ragazzo. Era vero che, come amico di Aveline, quella non
era stata la prima volta in cui il dottore si era ritrovato a dover
aiutare la ragazza con le sue cure. Lei, però, lo aveva
sempre tenuto il più possibile fuori dai problemi della
confraternita, tanto che Jack non sapeva nemmeno chi fossero i templari
e ancor più né lui né la sua famiglia
avevano la minima idea che l'uomo che gli era stato chiesto di tener
nascosto fosse il Gran Maestro dei templari delle Colonie.
Proprio
per questo motivo quando Aveline si era ritrovata costretta a spiegare
tutta la faccenda cercò di non far trapelare la vera
identità di Haytham, ben sapendo che Connor avrebbe compreso
la sua linea di pensiero. La spiegazione comunque si risolse essere una
cosa piuttosto veloce in quanto Aveline era molto più
preoccupata a pensare dove il fuggiasco potesse essere sparito rispetto
a fornire un resoconto dettagliato dei ma e dei perché della
situazione. In ogni caso, ben più in subbuglio, era la mente
di Connor che, dopo il racconto, era rimasto ancora in piedi, teso come
una corda di violino, con i pugni stretti così forte da
imbiancarne le nocche.
Suo
padre era vivo. Salvato da Aveline poco dopo che lui lo aveva lasciato
con una ferita mortale al collo. Salvato, da quanto aveva fatto capire
la donna, per ottenere informazioni in primo luogo, ma non solo.
Aveline non lo aveva detto, ma il ragazzo aveva intenso che il suo
salvataggio era stato dettato anche dal poco convincente combattimento
a cui gli occhi dell'Assassina avevano assistito. Glielo aveva detto
anche l'altra sera. Haytham non sembrava aver fatto sul serio quella
notte e se ciò corrispondesse al vero Aveline non era
l’unica a voler sapere il perché di un tale
comportamento.
«è
inutile rimane qui a discutere. Dobbiamo trovarlo»
Connor
si riscosse al suono della voce della sua consorella. Aveva ragione,
Haytham andava trovato e alla svelta. Fortunatamente la sua fuga non
doveva risalire a più di qualche ora fa in quanto il padrone
di casa, che Connor aveva scoperto poco fa essere un dottore amico di
Aveline, lo aveva visitato nel primo pomeriggio notando oltretutto una
salute in netto miglioramento. E un Haytham in buona salute, gli
Assassini lo sapevano bene, era una potenziale minaccia che andava
fermata, o perlomeno arginata, al più presto.
«Ho
un'idea di dove possa essere andato, ma potrei sbagliarmi quindi
Aveline, troverai sicuramente Doby al Black Horse, fatti aiutare da lei
e insieme agli altri adepti perlustrate New York da cima a fondo. Manda
anche un gruppo a Boston anche se c'è meno
possibilità che si sia diretto li, ma è meglio
non lasciare nulla di intentato. Io mi occuperò della
frontiera. Mio padre è un ottimo spadaccino e un uomo dalle
mille risorse, ma l'inverno in avvicinamento rende la foresta un
difficile luogo di adattamento anche per gente come lui.»
«Tu
invece ti ci senti a tuo agio, giusto? D'accordo allora, lascia le
città a noi. A te la ricerca tra gli alberi.»
«Quell'uomo
è davvero così pericoloso come lo
dipingete?» Chiese all'improvviso una voce femminile che
apparteneva alla moglie di Jack seduta anch'ella nella stanza.
Connor
non rispose, si limitò ad annuire, con quanta convinzione
non lo sappe dire nemmeno lui.
«Però...»
tentò di continuare la donna.
«Smettila
Jenny, lo sai che non dobbiamo impicciarci degli affari di Aveline e
dei suoi amici»
Connor
si pietrificò al suono del nome della donna. Si volse verso
di lei e si ritrovò a domandare un'ovvietà.
«Vi
chiamate Jenny?»
La
moglie guardò il ragazzo, ignorando il marito e
annuì osservando con particolare attenzione il volto del
giovane.
«Avete
fatto la stessa espressione che Mr. Haytham mi ha riservato una volta
saputo il mio nome...» aggiunse poi a mò di
domanda implicita.
Connor
colse quella curiosità nel tono della donna e portando lo
sguardo al pavimento le rispose con voce calma e asciutta.
«Avete
lo stesso nome di sua sorella...»
«Oh!ora
capisco. Le deve essere successo qualcosa di brutto allora»
«Perchè
dite questo?» chiese Connor alzando nuovamente gli occhi
sulla signora.
«Perchè
mi guardava spesso con un'espressione molto dolce e nostalgica. Per
questo mi riesce difficile capire la preoccupazione con la quale sia
voi che Aveline avete dimostrato alla sua scomparsa. Poi se non ho
capito male, quell'uomo è vostro padre, non è
forse così?»
«In
effetti ho notato subito che vi assomigliate parecchio»
aggiunse il marito di Jenny.
«Si,
egli è mio padre» ammise Connor rivolgendo la sua
attenzione al dottore.
In
quei pochi attimi gli era sembrato di essere solo in quella piccola
stanza e per questo sussultò quando Aveline gli mise una
mano sulla spalla.
«Sarà
meglio che ci sbrighiamo» gli disse, forse anche per aiutarlo
ad uscire da un discorso che avrebbe potuto ferirlo in qualche modo. La
donna sapeva che Connor aveva finito di leggere solo la sera prima le
memorie del padre e immaginò che i suoi sentimenti in merito
fossero ancora in fase di assestamento.
«Si»
le rispose facendo un passo verso la porta. Ma ancora una volta la voce
di Jenny lo fermò a pochi passi dall'uscita.
«Avete
intenzione di ucciderlo?» chiese con un tono che malcelava
dolore e sofferenza.
Connor
non ebbe tempo di rispondere e nemmeno di pensare a cosa rispondere che
la porta finora rimasta chiusa si aprì di colpo. Entrarono
due bambini piuttosto piccoli che si avventarono contro l'Assassino.
Erano un maschio e una femmina. La bambina era più piccola,
attorno ai 5 anni, il ragazzino invece ne avrebbe potuti avere qualcuno
in più. Connor avrebbe potuto azzardare un otto anni almeno,
ma ciò che più gli saltò all'occhio
era il cappello che il bimbo portava in testa. Lo avrebbe riconosciuto
tra mille, era quello di suo padre!
«Non
uccidete Mr. Haytham!!!Non è cattivo mi ha regalato il suo
cappello» urlò il bambino sbattendo i piccoli
pugni contro una gamba di Connor.
«A
me ha regalato un cavallino fatto con il legno» gli fece eco
la sorella tirando il cappotto bianco e azzurro del ragazzo.
«Mr.
Haytham è buono. Non fargli male» finirono poi
entrambi all'unisono ripetendo quella frase più e
più volte.
Jack
si avvicinò pochi attimi dopo, anche lui preso alla
sprovvista dall'entrata dei due figli.
«Milly,
Richard che ci fate qui? Vi avevo detto di andare a dormire!»
li riproverò cercando di staccarli dai vestiti di Connor.
«Non sono cose che vi riguardano» concluse.
Connor
era impietrito, ma non abbastanza da non rendersi conto che i bambini
avevano iniziato a piangere uno abbracciando il cappello blu del padre
e l'altra stringendo forte il tessuto del suo vestitino rosso. Suo
padre stava così a cuore a due anime innocenti come quei due
bambini? Lo stesso uomo che aveva visto uccidere persone a sangue
freddo senza provare un briciolo di rimorso? Lo stesso uomo che
però, ora Connor sapeva, aveva salvato lui stesso da morte
certa sul patibolo. Lo stesso uomo che aveva passato la vita a cercare
l'assassino di suo padre. Lo stesso uomo che aveva mosso mari e monti
per salvare la sorella prima e colui che era diventato il suo miglior
amico poi. Lo stesso uomo che aveva lasciato andare due Assassini e non
aveva cercato vendetta anche se uno di questi lo aveva ferito quasi a
morte...
Haytham
Kenway, chi era davvero suo padre?
Preso
da mille dubbi Connor si sistemò il cappuccio sulla testa
per nascondere il volto, mentre ai suoi piedi vide anche Jenny che si
avvicinò nel tentativo di aiutare il marito a
tranquillizzare i figli.
«State
tranquilli bambini. Sono sicura che Connor voglia solo parlare con Mr.
Haytham. Non ho forse ragione?» chiese poi alzando gli occhi
verso il ragazzo.
Connor
la guardò da sotto il tessuto del cappuccio e si
ritrovò ad annuire con più convinzione di quanto
credesse. Quelle parole stranamente lo calmarono. Si, in fondo avrebbe
solo dovuto parlare con lui e forse tutto si sarebbe sistemato.
Si
abbassò a livello dei ragazzini e mise una mano sulla testa
di entrambi accarezzando loro i capelli dolcemente.
«Non
voglio fargli del male - disse- voglio solo fargli qualche
domanda»
I
due bimbi lo guardarono, le lacrime ancora visibili sui piccoli volti
paffuti.
«Davvero?»
chiesero pulendosi il naso con i dorso della manina.
«Certo»
rispose lui con un sorriso e i ragazzini si guardarono prima di mimare
un sorriso a loro volta.
«Hai
il suo stesso sorriso!» esclamarono entrambi indicando il
giovane Assassino.
«Ma
Mr. Haytham è più bello!» aggiunse la
bambina con cipiglio.
Aveline
sorrise mentre Jenny cercò di nascondere la risata
rimproverando la figlia con pugnetto scherzoso sulla testolina bionda.
«Milly,
non è carino da dirsi per Connor»
«Ma
è vero» si difese la ragazzina.
Aveline
si avvicino e anche lei si abbassò a livello della bimba.
«Ma
lo sai che Mr. Haytham è vecchio forse più del
tuo papà?» chiese con tono ilare.
«E
allora? anche il mio papà è bello
infatti!» decretò con soddisfazione Milly
guardando il proprio padre ancora in ginocchio vicino a loro.
«Quindi
Mr Haytham è meglio anche di me?» chiese Jack
fingendo tristezza e delusione.
La
bambina scosse violentemente la testa e si buttò tra le
braccia dell'uomo. « No No!! Il mio papà
è il più bello e il migliore del
mondo!» Urlò stringendo forte il padre tra le
piccole braccine.
Jack
sorrise contraccambiando l'abbraccio e sia Jenny che Aveline notarono
come lo sguardo di Connor si fece dolce e sofferente allo stesso tempo
mentre guardava padre e figlia abbracciati e sorridenti. Ma Aveline
sapeva che non c'era tempo per rimanere li a farsi prendere dai
sentimenti, quindi si fece forza e mise nuovamente una mano sulla
spalla di Connor per spronarlo ad andare. Il ragazzo si volse verso di
lei e annuì con prontezza, alzandosi in piedi seguito subito
dalla sua consorella. Fece un passo verso la porta ma dovette fermarsi
nuovamente quando sentì il cappotto tirare alla base. Guardo
in basso e la manina di Milly teneva forte il tessuto, sul volto
un'espressione decisa che poco sembrava quella di una bambina. Connor
le sorrise e le accarezzò nuovamente la testa,
guardò anche Richard e annuì ad entrambi.
«Non
gli farò nulla» ribadì e si sorprese di
sentire così tanta convinzione e sincerità nella
sua stessa voce.
I
bambini colsero quella sincerità e mentre Milly
lasciò il cappotto, Richard annuì con forza al
ragazzo come a dargli la sua approvazione.
Connor
uscì dalla casa poco dopo seguito da Aveline.
Saltò sul cavallo dopo aver dato alla compagna le ultime
raccomandazioni sulla ricerca da imbastire e partì al
galoppo verso la frontiera.
Si
sentiva più leggero e tranquillo di prima. Grazie a quei due
bambini ora era più sicuro dei suoi sentimenti e forse anche
più pronto ad affrontare un padre che credeva di aver ucciso
con le proprie mani. Un padre che, sperava, avrebbe ritrovato in tempo
per un nuovo inizio.
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Capitolo 5 *** When we meet ***
Ecco il nuovo capitolo.
Mi scuso con i lettori, soprattutto con le uniche due ragazze che
recensiscono sempre, per la grande attesa tra un capitolo e l'altro ma
real life docet. Spero che la storia continui a piacervi. Buona lettura. Edit: mi son resa conto che avevo usato la seconda persona con Connor nei confronti di Haytham...(sono troppo abituata a giocare e a leggere in inglese XD) ho corretto facendogli usare il "Voi". Scusate la svista.
5. When We Meet
Ormai si era fatta buio, la foresta si nascondeva nelle tenebre mentre
Connor vi si immergeva al galoppo, spronando il cavallo a fare in
fretta. Era vero che avesse un'idea di dove suo padre potesse essersi
diretto, ma era anche vero che tale ipotesi era piuttosto irreale,
eppure, senza capire il perchè, si sentiva sicuro nella sua
intuizione.
Mentre cavalcava, certo della direzione nonostante
l'oscurità, si ritrovò a pensare che era assai
probabile che poche ore prima, mentre lui e Aveline si avvicinavano a
New York, nello stesso momento Haytham stesse facendo il percorso
contrario. Non si erano incrociati però, Connor se ne
sarebbe accorto, quindi l'unica opzione possibile era che suo padre si
fosse allontanato dai sentieri segnati per gettarsi nel folto della
foresta, lontano da occhi indiscreti di viaggiatori e soldati. La cosa,
non aveva timore ad ammetterlo, lo preoccupava non poco. Era
consapevole di come Haytham, nonostante l'età, fosse ancora
perfettamente in grado di badare a se stesso, ma al tempo stesso sapeva
che l'uomo era senza armi in quanto le sue gli erano state tolte e ora
giacevano sotto chiave a casa di Jack. Non aveva nemmeno la lama
celata, di cui ora Connor conosceva la provenienza, poiché
quella era riposta sul tavolo nei sotterranei di villa Davenport. Senza
armi nella natura selvaggia...se un lupo, o peggio ancora un orso,
avesse dovuto attaccarlo non avrebbe nemmeno avuto la
possibilità di parlargli prima di doverne accertare la
morte, questa volta con sicurezza.
A quel pensiero gli tornò in mente il loro scontro a Fort
George. Più ci pensava più si rendeva conto di
quanto Aveline avesse ragione. Non aveva combattuto sul serio,
l'Haytham, quello vero, avrebbe avuto facilmente la meglio su un
ragazzo ferito quale era lui in quel momento. Poco importa quanta
determinazione avesse, era ferito, arrabbiato e poco lucido,
eppure...suo padre non aveva azionato la lama celata quando lo aveva
messo al tappeto, e non lo aveva preso alle spalle quando all'inizio ne
aveva avuto tutto il tempo. No, si era annunciato decretando la fuga di
Lee e mettendosi lui stesso tra Connor e il suo secondo in comando. Se
fino a qualche giorno fa avrebbe potuto dire che suo padre avesse
voluto ancora una volta tentare di portarlo dalla sua parte, oggi
invece, dopo aver letto il suo diario, Connor sapeva che Haytham era
perfettamente conscio che non sarebbe mai riuscito a fargli cambiare
idea e che se si fossero affrontati uno dei due sarebbe morto. E
Connor, ora, poteva dirsi certo che suo padre avesse già
deciso a chi dei due sarebbe toccato quel destino.
Provò rabbia a quel pensiero, si disse che era
perché si sentiva preso in giro e truffato in qualche modo,
eppure sotto sotto, nel suo cuore c'era altro, un sentimento ben
diverso dalla rabbia derivata da un inganno, era un sentimento molto
più subdolo e doloroso e che, più il tempo
passava, più assomigliava a quello che tanto, troppo tempo
fa, aveva provato vedendo sua madre sparire sotto un muro di fuoco.
Scosse la testa nel tentativo di allontanare tutti quei pensieri dalla
sua mente. Non era quello il momento di rimuginare sul passato. Era nel
bel mezzo della frontiera, in piena notte e alla ricerca di tracce che
sapeva bene suo padre avrebbe cercato di nascondere. Sfortunatamente
per Haytham però, Connor era molto più abile del
padre nella caccia e gli fu relativamente facile riuscire a trovare
indizi utili nella sua ricerca che, come si era aspettato, lo aveva
condotto al luogo in cui fin dall'inizio era certo di trovare il
genitore.
Arrivò al suo villaggio natio con l'alba che si stiracchiava
stanca aldilà delle montagna, donando al mondo una luce
ancora fioca e debole, molto più debole del fuoco che Connor
vide acceso al centro del villaggio. Vicino a quella piccola fonte di
calore, un uomo gli dava le spalle, seduto con la schiena dritta. Sulla
testa nessun cappello...il suo in fondo era tra le mani di un bambino a
New York.
Connor scese da cavallo e si avvicinò piano.
«Charles è morto» disse l'uomo senza
voltarsi. Connor annuì con un si che non tradì
rimorso alcuno. «Per mano mia» aggiunse.
E questa volta fu Haytham ad annuire in silenzio.
«Sei venuto per assicurarti di non lasciare il lavoro a
metà una seconda volta?»
«Non voglio uccidervi»
Haytham si voltò, e per la prima volta dopo Fort George i
suoi occhi incontrarono nuovamente quelli di suo figlio. Connor vi
lesse sincera sorpresa che lo indusse a fermare quel contatto visivo
portando lo sguardo al terreno.
«Non ho mai voluto farlo in realtà»
continuò poi, mentre la sua mano teneva ancora le redini del
cavallo.
Haytham non rispose. Si prese del tempo per continuare ad osservare il
figlio. In quegli anni in cui aveva avuto modo di conoscerlo,
capì di non averlo mai guardato abbastanza. Era
vero che gli era bastato uno sguardo per capire che fosse figlio suo, i
lineamenti dei Kenway e gli occhi di Ziio erano inconfondibili sul
volto del nativo, ma Haytham non aveva mai posto tanta attenzione su
quanto quel ragazzo fosse, beh, un ragazzo appunto. Era giovane eppure
sulle sue spalle gravava un fardello che anche un adulto avrebbe
faticato a reggere. Era giovane, ma indossava una maschera da adulto.
Haytham chiuse gli occhi e sospirò riconoscendo in suo
figlio la sua stessa maledizione, quella che ti costringe a crescere
senza un'infanzia normale, circondato da intrighi, tradimenti e sangue.
Forse la si sarebbe potuta chiamare la maledizione dei Kenway.
L'uomo tornò ad osservare le fiamme che s'alzavano e
s'abbassavano. Lanciò un altro pezzo di legno tra le braci e
riprese la parola notando come suo figlio fosse rimasto immobile nello
stesso punto senza aggiungere altro alla sua ultima frase.
«Perché sei venuto allora Conn...» si
fermò «no, anzi non dovrei chiamarti
così...non è il tuo vero nome, dico
bene?»
Il ragazzo sussultò alzando nuovamente gli occhi sul padre.
«Come lo sapete?» chiese, si era detto sempre sicuro
che sua madre non avesse mai avuto contatti con Haytham dopo la sua
nascita e che quindi non gli avesse mai rivelato di aver avuto un
figlio e ancor meno quale fosse il suo nome.
«Ci pensavo qualche ora fa, in
realtà...» rispose Haytham, ignaro delle ipotesi
che si susseguivano nella mente di Connor «un nome inglese,
anzi americano lo si direbbe ora, beh ... tua madre non lo avrebbe mai
scelto. Invece mi è tornato alla mente ... il figlio di
Davenport...lui si chiamava Connor. È stato il vecchio
Achilles a darti quel nome vero?» chiese infine l'uomo
voltandosi quel poco che bastava a permettergli di vedere la reazione
del figlio.
Connor annuì, stringendo le redini del cavallo senza nemmeno
accorgersene e senza capirne il motivo.
«Dunque come ti chiami...figliolo?» aggiunse
quell'ultima parte con cautela quasi fosse in punta di piedi su un
precipizio senza fondo.
Connor rimase in silenzio per alcuni istanti, poi si lascio scappare un
leggero sorriso.
«Non sapreste comunque pronunciarlo»
dichiarò con ilarità.
Haytham sbuffò tra l'offeso e il divertito. «Beh
che dici di mettermi alla prova, potrei stupirti»
Il ragazzo lo guardò a lungo, poi distolse lo sguardo e
sputò il suo nome pronunciandolo volutamente veloce.
«Ratonhnakè:ton»
Ci fu silenzio. Haytham si prese alcuni istanti prima di cercare di
riprodurre quel suono che alle sue orecchie non poteva nemmeno essere
definita come parola di senso compiuto. Ci provò
più volte, ma ogni tentativo era accolto con uno scuotimento
della testa del figlio segno inequivocabile dell'errore nella pronuncia.
«Aaah è inutile» decretò dopo
almeno una decina di tentativi «se pensavo che il nome di tua
madre fosse complicato, il tuo è proprio impronunciabile.
Non riesco a capacitarmi di come voi possiate capirvi con quella strana
lingua.»
«Ve l'avevo detto che non sareste riuscito a
pronunciarlo» concluse il ragazzo avvicinandosi al genitore.
«Vorrà dire che continuerò a chiamarti
Connor, in fondo è il nome che ti ha dato tuo
padre»
Connor si fermò di colpo, guardando Haytham con uno sguardo
perplesso e leggermente ferito.
«Achilles non era mio padre!» ribatté il
ragazzo con una decisione e un tono tale da far voltare Haytham in modo
brusco. In quelle parole aveva sentito non solo irritazione ma anche
una vena di sofferenza e delusione che non si sarebbe aspettato nella
voce del figlio.
«Che voi lo vogliate o no, siete voi mio padre!» aggiunse
Connor sempre mantenendo lo stesso strano tono.
«Pensavo fossi tu a non volerlo»
Connor sussultò. Non lo voleva? c'era forse mai stato un
momento in cui aveva voluto dimenticarsi del fatto che Haytham Kenway
era il suo vero padre? Forse l'unico istante in cui avrebbe dato
qualsiasi cosa per non averlo avuto come genitore era stato quello in
cui si era visto costretto ad infilargli la lama celata alla gola. Si,
in quel momento avrebbe voluto che quell'uomo, dallo sguardo triste e
risoluto allo stesso tempo, fosse stato solo il gran maestro templare
delle colonie. Se così fosse stato Connor avrebbe archiviato
la sua morte insieme a tutte le altre di cui le sue mani si erano
sporcate e invece quella era probabilmente una delle poche, se non
l'unica insieme a quella del suo amico Kanen'ton:kon, che gli pesava
sul cuore. Non poteva infatti negare che la notizia di saperlo ancora
in vita avesse alleggerito quel peso in modo quasi irritante.
«Achilles è stato il mio mentore, è
stato importantissimo per me. Mi ha insegnato tanto, mi ha cresciuto
quando mia madre se ne andata, ma per quanto io gli sia grato e lo
ricordi con immensa sofferenza...Egli non è mio padre. Non
lo è stato e non lo sarà mai. Quella seccatura
è soltanto vostra»
«Seccatura? Averti come figlio non è mai stata una
seccatura. Un problema forse, una preoccupazione anche, ma mai una
seccatura. Non ho mai avuto intenzione di rinnegarti ma ho sempre
pensato che fossi tu a non considerarmi tuo padre»
Connor si rilassò tirando un lungo sospiro mentre oltre le
montagne il sole cominciava a regalare più luce costringendo
il ragazzo a portare una mano alla fronte per proteggersi dai tiepidi
raggi che gli colpivano gli occhi.
«Ricordate quando mi sono dovuto procurare quel
travestimento per entrare nella birreria mentre inseguivamo
Church?» chiese spostandosi leggermente dalla zona colpita
dal sole.
Haytham annuì seguendo con cura gli spostamenti del figlio.
«Mi annunciaste come vostro figlio quella volta...Ne fui
sorpreso...»
«Sono stato incauto, avrei dovuto pensare che non avresti
vol...»
«Ne sono stato felice» lo interruppe Connor
«li per li non capii come mai, ma le vostre parole mi fecero
felice. Ora penso di aver capito perché»
Haytham scoppiò a ridere «Beh se stai cercando di
commuovermi caschi cale...figliolo» disse intercalando alla
risata qualche colpo di tosse improvvisa.
Connor si irritò. Era ancora ingenuo per riuscire a
comprendere quel magro tentativo di sviare il discorso da parte di
Haytham. Eppure l'uomo si diede dello stupido per non aver immaginato
che quelle sue parole avrebbero irritato Connor, certo, ma non lo
avrebbero convinto ad allontanarsi. Al contrario infatti, il ragazzo
allungò il passo con intenzioni che ben presto cambiarono
quando gli occhi del giovane poterono vedere dove la mano sinistra del
padre era sempre stata premuta fino ad ora.
Il sole aveva ormai illuminato tutto il villaggio ma tutto quello che
Haytham sentì prima che si facesse nuovamente buio fu la
voce del ragazzo, spaventata, come solo quella di un figlio poteva
essere.
«Voi siete ferito!!»
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Capitolo 6 *** Dreams ***
Eccoci al nuovo capitolo. Se devo essere sincera speravo che l'ultimo
capitolo dove i due si incontrano nuovamente sarebbe piaciuto di
più. Non che mi lamenti ma spero solo che le poche letture e
i pochi commenti non significhino che ai lettori non sia piaciuto come
ho mosso i personaggi. In ogni caso ecco il nuovo capitolo, non vi
spaventate se lo trovate strano XD
Enjoy!
6. Dreams
«Padre!»
«Padre!»
Haytham
faticò ad aprire gli occhi. Le immagini erano sfuocate e il
dolore all'addome gli pareva si stesse intensificando. O forse erano
solo fitte intervallate nel tempo. Quando finalmente riuscì
a focalizzare l'immagine si trovo a tu per tu con due occhioni grandi e
neri. Un bambino di una decina d'anni, dall'aspetto familiare.
«Padre!»
esclamò il bambino tornando a saltare sulla pancia dell'uomo
sdraiato a letto. Haytham sbattè gli occhi, più
volte, ma l'immagine non cambiava, il bambino era sempre li.
«Connor...?»
domandò allora con un filo di voce, incredulo lui stesso
della cosa, ma al tempo stesso non vedendo altre possibilità
nell'identificazione del piccolo indiano che gli era seduto sullo
stomaco.
«No,
Ratonhnakè:ton. Dovresti impare il suo vero nome invece di
usare quel vostro nomignolo inglese»
«Non
è inglese mamma, è americano! E a me Connor piace
come nome» trillò il bambino sbuffando un poco.
Haytham si
voltò verso qualla voce femminile, si disse fortunato ad
essere ancora disteso, altrimenti sarebbe caduto sul pavimento seduta
stante. Sulla porta, appoggiata allo stipide, c'era Ziio, in tutta la
sua ruvida bellezza.
Haytham si
alzò piano a sedere, ancora più incredulo di
prima. Doveva essere un sogno, non c'era altra spiegazione,
pensò in un attimo di lucidità, ma questa
scoparve quando lei avanzò verso il letto. Sorriso sulle
labbre e occhi indecifrabili da fiera che studia la sua preda.
«Ziio»
«Non riesci a
pronunciare il nome di tuo figlio, ma almeno quella di tua moglie
potresti anche sforzarti...»
Haytham non la
ascoltò, le prese il polso non appena gli fu a portata di
mano e la trascinò a se. La baciò con passione,
noncurante del bambino che li guardava.
«Haytham che
fai?» disse lei, quasi imbarazzata e sicuramente presa alla
sprovvista.
«Ti
amo!»
E questa volta
Kaniehti:io arrossì sul serio. Mai Haytham le aveva detto
quelle parole, non che lei le bramasse, ma sentirsele dire certo non le
dispiaque. Solo, furono così improvvise che la colsero
davvero senza una riposta pronta, riuscì solo a guardare
loro figlio che si era coperto il viso con le mani e li guardava di
nascosto, osservandoli tra un dito e l'altro.
Haytham non se ne
curò. Che quello fosse un sogno, un'illusione, o che altro
non gli importava al momento. Voleva solo che Ziio sapesse che l'amava,
nonostante tutto quello che era successo, per lui non era stata una
cosa frivola. Provava davvero qualcosa per quella donna tanto bella
quando indomabile.
«Non so come
si dica nella vostra lingua, ma ...»
«Konoronkhwa»
I due adulti si
voltarono all'unisono verso il figlio che aveva parlato, ancora con il
viso nascosto dalle piccole mani.
«Konoronkhwa...significa
ti amo» spiegò il bimbo un po' imbarazzato.
Haytham sorrise e si
voltò nuovamente verso la donna.
«Konoronkhwa»
disse cercando di ripete al meglio che poteva quel suono che aveva
sentito dalla bocca del piccolo Connor.
Ziio sbuffò,
ma il sorriso che ne uscì subito dopo sembrò
illuminare tutta la stanza.
«Forse dovrei
lascire che sia Ratonhnakè:ton a insegnarti la nostra
lingua. L'hai detto perfettamente»
«Perchè
c'ha messo il cuore» proruppe una nuova voce che alle
orecchie di Haytham suonò tristemente familiare. Il suo, di
cuore, perse un battitto, infatti, quando sulla porta vide il padre,
invecchiato, ma sempre e innegabilmente l'Edward che aveva idolatrato
da bambino.
«Padre...»
disse a voce bassa, così bassa che gli sembrò
strano di sentire qualla stessa parola urlata nelle sue orecchie.
«Padre!»
«Bentornato
figliolo» lo salutò Edward con un cenno della
mano, prima di rivolgersi al nipote «Ehi Connor, che
dici...ho rovinato il tubamento dei piccioncini?»
Connor rise e
saltò giù dal letto correndo incontro al nonno
che lo prese e se lo tirò in braccio. Poi entrando
tornò a guardare il figlio.
«Allora...»
chiese in tono più serio «com'è andata
nelle colonie?»
«Colonie?»
domandò lui, ancora spaesato. Non era forse ancora nelle
colonie? Eppure in effetti quella gli sembrava la sua vecchia casa di
Londra. Cosa stava succedendo?
«Resisti padre!»
«Mi sembri
ancora un po' confuso eh» constatò il vecchio
Assassino rimettendo a terra il nipote. «Hai avuto a che fare
con qualche templare? Non mi dire che Birch era li?»
«Reginald...perchè
mai...?»
«Tesoro, non
nominare quel nome in questa casa, per favore» e con questa
nuova voce Haytham rischiò veramente di restarci secco. Era
anch'essa familiare, anch'essa così notalgica da perdersi
quasi nell'oblio della memoria.
«Perdonami
Tessa, ma devo sapere se...»
«Lo chiederai
dopo» rispose lei facendosi avanti nella stanza e fermandosi
davanti al letto del figlio. Si abbassò leggermente e gli
baciò la fronte, come faceva quando era piccolo.
«Bentornato tesoro!»
«Madre...»
Haytham non se ne rese conto, ma una piccola lacrima scese lungo la
guancia. Sua madre fu l'unica ad accorgersene, ma l'asciugò
con un sorriso e non disse nulla.
«Una bella
rimpatriata nella stanza del mio fratellino. Bhe, se non vi dispiace ci
aggiungiamo anche noi. Mio marito sarebbe felice di salutare il suo
miglior amico»
E questa fu la volta di
Jenny che entrò con la schiena dritta, bella come Haytham la
ricordava e dietro di lei Jim Holden.
«Benritrovato
signore» lo salutò, togliendosi il cappello e
facendo un piccolo inchino, mentre Jenny si avvicinava al fratello con
passo sicuro.
«Allora
marmocchio, com'è andata la traversata? Ti vedo
pallido...»
«Ha perso moltissimo sangue. La situazione è
critica»
«...mi sa che
hai bisogno di una buona colazione. Anzi direi che tutti qui ne abbiamo
bisogno.» constatò la giovane donna battendo le
mani.
«Jenny ha
ragione» le fece eco Tessa raddrizandosi «Vado a
chiedere che la preparino per tutti. Jenny, Mr Holden gradireste
accompagnarmi?»
«Con molto
piacere signora. Signor Haytham è stato un piacere
rivederla, ci sentiamo dopo. La lascio prepararsi come le si conviene
per la colazione.»
«Grazie
Holden, anche per me» rispose il giovane Kenway mettendo in
quel ringraziamento tutto il cuore e il sentimento che la voce poteva
esprimere.
Non appena Tessa fu
fuori dalla porta Edward si ribbassò a livello di Haytham,
tenendo un braccio appoggiato allo stipide del letto.
«Voglio un
rapporto completo di ciò che è successo nelle
colonie più tardi, d'accordo. Ti ho mandato li per studiare
la situazione, ma se ti sei imbattutto in qualche templare o peggio
ancora in Birch stesso dobbiamo parlarne. Forse sono stato azzardato a
mandarti da solo. Da quelle parti siamo stati decimati.»
Haytham lo
guardò interrogativo e Edward colse quello sguardo al volo.
«Non hai
trovato nessun nostro confratello vero? Per quanto tu sia abile, un
Assassino da solo non avrebbe potuto fare molto, quindi se non hai
avuto successo nella missione non dartene peso.»
Haytham
trasalì...la sua bocca non proferì parola ma
nella sua mente la confusione continuava ad aumentare.
«Io...un
Assass...?» non finì la frase che i suoi occhi
colsero solo in quel momento una veste blu, con risvolti rossi, appesa
all'armadio davanti al letto. Una veste che gli ricordava quella di ....
«...Connor, resta con lui, io vado a prendere dell'acqua
fresca. Sta sudando per la febbre.»
«Dottore pensa che ce la farà?»
«Probabilmente si. Si vede che è tuo padre, ha la
tua stessa pellaccia dura!»
«Haytham?»
No, non era possibile.
Lui era un templare. Era il Gran Maestro delle Colonie. Non poteva
essere un Assassino, tutto quello era un'illusione...
«Haytham stai
bene?»
Cominciò a
sudare, la voce di Edward e poi quella di Ziio si facevano lontane. Si
guardò attorno. Le sagome si stavano facendo più
ofuscate. Vicino al letto riusciva ancora a distinguere suo figlio,
così piccolo come non lo aveva mai visto. I capelli fino
alle spalle e quella piccola treccia su un lato. Ormai riusciva a
vedere solo lui... e a sentire solo lui....
«Padre?»
una voce preoccupata, flebile...
«Padre» e ora più forte e adulta. Chiuse
gli occhi e quando cercò di aprirli ancora, tutto era
nuovamente cambiato...
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Capitolo 7 *** Waking up ***
7. Waking up
Sbatté gli occhi con lentezza. Faceva fatica a distinguere
l'ambiente attorno a lui, ma era conscio di essere disteso su un letto.
«Padre»
La voce di Connor gli arrivò lontana ma la riconobbe
all'istante. Quella voce gli aveva più volte fatto visita
nei suoi sogni, accompagnata da una voce femminile, roca e tanto amata,
che ogni volta che si alzava pensava di aver dimenticato. E invece lei
si ripresentava sempre, alle volte lo accusava, altre invece gli
sussurrava parole dolci e gentili. La voce di Ziio era la sua ninna
nanna e la sua sveglia più implacabile allo stesso tempo. Ma
questa volta lei non c'era, era solo la voce di Connor a farsi largo
nella sua testa. Gli ci volle ancora qualche minuto per rendersi conto
che quella volta la voce non gli arrivava da un sogno, ma il suo
proprietario era li accanto a lui, in carne ossa e preoccupazione.
Questa era la realtà.
Haytham volse la testa in direzione di quella voce e ai suoi occhi
apparve una sagoma sfuocata ma che indubbiamente riconobbe come suo
figlio.
«Connor, dove....»
«…al sicuro» rispose evasivo il ragazzo.
«Mi hai riportato da quella famiglia. Stupido!»
ringhiò all'improvviso, con quanta rabbia gli fosse rimasta
in quel corpo stanco e provato dalle ferite.
«Devo andarmene. E' troppo pericoloso... i ragazzini...
quella donna...non posso rimanere...»
«Che volete dire?» Domandò il ragazzo
portando un pezza bagnata sulla fronte del genitore.
Haytham scacciò la mano con astio e si puntellò
sui gomiti cercando di alzarsi. «Non capisci, se scoprissero
che sono ancora vivo e mi trovassero qui, li accuserebbero di avermi
nascosto. Non so cosa potrebbero fare. Nessuno di loro sa nulla di me,
i ragazzini in particolare ... loro non devono...»
gridò in preda ad un panico che Connor stentò a
riconoscere nella voce del padre.
«Calmatevi!» gli intimò con voce ferma,
tentando di non sembrare però troppo brusco «non
siete dal signor Jack.» aggiunse poi con più
tranquillità una volta che Haytham fermò le sue
parole.
L'uomo sembrò tranquillizzarsi di colpo, si
lasciò cadere nuovamente sul letto, il respiro che
riprendeva il suo ritmo normale.
«Dove siamo allora?» domandò dopo alcuni
istanti, lasciando che Connor questa volta gli asciugasse il sudore
dalla fronte.
«Ve l'ho detto... al sicuro. Nessun templare verrà
a cercarvi qui.»
«E gli Assassini?»
«Beh...loro sono parecchi da queste parti»
Haytham capì. Connor lo aveva portato alla sua tenuta, nel
bel mezzo dei suoi nemici giurati.
«Sei impazzito? Mi hai portato tra la tua
gentaglia?»
«Cosa avrei dovuto fare? Mi siete svenuto davanti
agl'occhi!»
«Io ti avrei lasciato li»
«Si come no!»
«Ti ricordo che ho firmato la tua condanna a morte qualche
anno fa!»
«…e poi mi avete salvato tradendo quel vostro
stesso ordine»
Haytham si zittì di colpo. Il diario…lo aveva
letto.
«Lo hai letto...» disse semplicemente, distogliendo
lo sguardo. Non aveva programmato questo, o forse soltando non sapeva
come gestire la cosa. Sinceramente si domandò anche come suo
figlio avesse potuto esserne in possesso. Ricordava di aver scritto
quelle ultime pagine nel suo studio, poco prima dell'attacco a Fort
George. Ricordava di aver dibattutto con sè stesso se
portarselo appresso durante il combattimento e rendere più
facile il suo ritrovamento da parte di Connor o se abbandonarlo li,
sulla scrivania lasciando al destino il compito di decidere se quelle
pagine dovessero davvero essere lette dall'Assassino.
«E' stata Aveline a portarmelo. Lo trovò tra le
macerie del vostro studio, poco prima di trovare Voi...»
spiegò Connor strizzando la pezza con un po' troppa forza
sopra il catino.
L'uomo annuì dentro di sè. Dunque il destino
aveva usato quella giovane Assassina come portavoce del suo volere.
Ironico come quella donna quella sera avesse salvato le sue memorie e
la sua vita in un solo colpo, senza nemmeno sapere se ciò
che stava facendo fosse un bene o un male. Tipico agire degli
Assassini, nessun calcolo, nessun pensiero per i risvolti delle loro
azioni, solo puro istinto...
«Non era così che doveva andare.»
commentò con amarezza il vecchio Templare «Dovevo
essere morto e sepolto quando tu avessi letto quelle
pagine...così non...»
«Così cosa?» chiese il ragazzo con
rabbia, gettando nell'acqua la pezza appena strizzata. Questa cadde nel
catino spargendo spruzzi fin sul pavimento.
«Così sarei potuto vivere con il rimorso di avervi
ucciso con le mie mani? Con la certezza di aver deluso non solo mia
madre, ma anche mio padre? Con la convinzione di essere stato
l'artefice della mia solitudine.»
«No» rispose Haytham matenendo la calma nonostante
la comprensibile frustrazione del giovane seduto vicino a lui.
«Era proprio questo che temevo. Questo tuo incolparti per
ciò che non è stato dipeso da te. Speravo che
dopo la mia morte avresti compreso.... che non eri stato tu ad
uccidermi...»
Connor si irrigidì, alzò la testa e i suoi occhi
cercarono con lentezza quelli del padre, trovandoli calmi e pronti ad
accettare qualsiasi reazione.
«Dunque Aveline aveva ragione...»
replicò piano il giovane mantenendo le pupille fisse in
quelle del templare alla ricerca di qualcosa a cui nemmeno lui avrebbe
potuto dare un nome «Voi...vi siete fatto uccidere da
me...»
Haytham chiuse gli occhi in un tacito assenso.
«Perchè?» urlò Connor
alzandosi in piedi di colpo, prendendo suo padre per il bavero della
camicia ancora sporca di sangue, noncurante delle condizioni precarie
del genitore.
L'uomo tossì alcune volte. Connor non mollò la
presa fino a che Haytham non riprese a parlare.
«Perchè nessun padre...- disse con il fiato corto,
ma con voce ferma - dovrebbe seppellire il proprio figlio»
Connor spalancò gli occhi per un brevissimo istante, per poi
richiuderli con forza, quasi a farsi male. Haytham sentì
anche le mani stringere più forte sulla sua camicia mentre
il ragazzo voltava e abbassava leggermente la testa. Adagiò
il padre sul letto con gentilezza, poi gli diede la schiena e si
avviò verso la porta.
«Vado a chiamare il dottore» disse solamente prima
di uscire, chiudendosi la porta alle spalle.
Haytham si domandò se dietro quel grande portone di legno
Connor stesse piangendo, o se, anche lui, in quella guerra senza senso,
avesse guadagnato un cuore tanto arido da non permettere più
nemmeno lo scorrere delle lacrime.
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Capitolo 8 *** Memories ***
8. Memories
Quando il dottore arrivò nella stanza Haytham quasi non lo
vide. Il suo sguardo caddè subito su Connor che seguiva il
medico a qualche passo di distanza. Al vecchio templare non
sfuggì l'alone arrossato che circondava gli occhi del figlio
e per qualche strana ragione fu sollevato nel sapere che Connor fosse,
in fondo, ancora in grado di piangere. Non gli importava che quella
per alcuni potesse essere una debolezza, ai suoi occhi era solo una
prova di quanto suo figlio fosse ancora un essere umano e non una
macchina per uccidere come troppo spesso i suoi fratelli templari gli
avevano fatto notare.
Era perso in questi pensieri mentre il dottore lo visitava e gli
cambiava le fasciature sulle ferite. Lo aveva riconosciuto quasi
subito. Era Lyle White. A Boston il suo nome non era certo portatore di
buon augurio, ma Haytham ora capì che quelle dovevano essere
solo dicerie. Il dottore sapeva fare il suo mestiere, questo era certo
visto che lo aveva salvato da ciò che credeva essere stato
un viaggio di solo andata per l'inferno.
«Come vi siete ferito?» domandò l'uomo
mentre fissava l'ultimo bendaggio.
«Un orso...non avevo armi e lui aveva denti e artigli non
indifferenti»
«Siete sopravvisuto all'attaco di un orso senza armi con voi?
Non solo avete la stessa pellaccia dura di vostro figlio, ma anche la
sua stessa avventatezza a quanto pare. Ho perso il conto di tutte le
volte che ho dovuto ricucire Connor come sto facendo ora con
voi»
«Vi ringrazio per le vostre cure»
commentò l'uomo.
«Non dovete ringraziare me. Non avrei curato un Gran Maestro
Templare se non fosse stato per vostro figlio»
«Infatti, vi ringrazio per le cure prestate a mio figlio, non
per le mie...»
Lyle si alzò e riprese i suoi arnesi. «Per quello
non servono ringraziamenti. Qui tutti noi siamo in debito con
Connor...In ogni caso ora siete un mio paziente e, fossi dannato per
aver curato un templare di Boston, vi rimetterò in sesto,
quindi riguardatevi. Non alzatevi dal letto se non strettamente
necessario e mangiate qualcosa al più presto. Siete stato in
uno stato di semi incoscenza per quasi una settimana. Avete bisogno di
nutrimento per riprendervi.»
Haytham annuì e poco prima che Lyle uscisse dalla
stanza lo chiamò «Mr White?»
L'uomo si voltò incuriosito e un po' stupito nel sentire il
suo nome pronunciato da una persona a cui non si era presentato.
«Le voci sul vostro conto non sono altro che fandonie. Siete
un ottimo medico, Vi ringrazio.»
Il dottor White sbuffò e chiuse la porta con un piccolo
accenno di ringraziamento che non sfuggì a Connor.
Quando il dottore uscì l'Assassino rimase un momento a
guardare la porta chiusa, non sapendo bene cosa dire. Si diresse verso
la finestra. Fuori l'inverno cominciava a dare i primi segni. La brina
quella mattina era più visibile del solito. Gli alberi
sembrano tenersi strette quelle ultime foglie sui lunghi rami e il
cielo era coperto di nuvole di ogni sfumatura di grigio.
«Un orso eh.» disse il ragazzo ad un certo punto
voltandosi verso il padre sul letto «Cosa Vi è
saltato in mente di aggirarvi nella frontiera senza armi? E di notte
oltretutto...»
«Se non ricordo male il mio equipaggiamento mi è
stato sotratto»
Connor sbuffò, roteando gli occhi in aria. «Volete
farmi credere che non avreste potuto rubare una qualsiasi spada al
primo soldato che vi sarebbe potuto presentare a tiro?»
«Connor...» fece Haytham stupefetto, mescolando al
suo tono una buona dose di ironia «non mi starai forse
incitando al furto. E' esecrabile...»
«Non prendetemi in giro. Sapete cosa intendevo...»
L'uomo lo fermò alzando un mano intimandolo a fare silenzio.
«Si, lo so. Diciamo che non lo reputavo così
importante...avere un arma per difendermi intendo. Probabilmente non
volevo nemmeno difendermi quando ho deciso di salire su quel cavallo,
non avevo nemmeno idea di dove andare. Senza contare che volevo passare
il più inosservato possibile, non potevo rischiare che un
soldato mi riconoscesse. Sai tuo padre è piuttosto
conosciuto a New York...»
«Anche vostro figlio se è per questo...»
«Oh si, per certi versi hai ragione.»
commentò con un mezzo sorriso.
«Siete stato fortunato ad uscirne vivo contro un
orso»
«Mi ha solo preso di striscio con una zampata. Tuo padre
è ancora abbastanza agile da salire su un albero fuori dalla
portata di un orso poco volenteroso di salire a sua volta.»
Il ragazzo lo guardò incredulo. «Voi? Su un
albero?»
«Beh? Che significa quell'espressione?»
domandò l'altro alzando un sopracciglio leggermente irritato.
«Mia madre mi ha raccontato di come voi eravate in grado di
saltare da grandi altezze e di arrampicarvi sui qualsiasi edificio, ma
al tempo stesso non riuscivate a scalare un albero.»
«Ah...grazie tante Ziio. Sono migliorato rispetto a quel
tempo. Ne devo dedurre che tua madre ti abbia raccontato solo delle mie
mancanze dunque...»
Il giovane nascose un sorriso abbassandosi il cappuccio e tornando a
guardare fuori dalla finestra.
«No. Mi ha anche raccontato di quanto voi eravate forte e di
quanto le davate sicurezza quando era con Voi.»
Haytham rimase in silenzio, ascoltava senza commentare, perso anche lui
come il figlio in ricordi dolci e amari allo stesso tempo.
Ricordava gli anni in cui soleva passare più tempo tra le
selvagge terre della frontiera rispetto ai brevi periodi negli agi
della città. Era strano ma non una sola volta in quei
momenti aveva rimpianto un materasso morbido o delle mura solide,
quelle mancanze non erano un problema perchè erano colmate
da una presenza ben più importante. Ricordava Haytham,
ricordava il corpo di Ziio abbracciato al suo, le goccie di sudore che
imperlavano la sua pelle scura e forte. I lunghi capelli neri che
vedeva sciolti solo in quelle occasioni e che le ricadevano sulla
schiena come la folta criniera di un cavallo, elegante e selvaggia come
quella di uno stallone indomabile. E indomabile fu proprio come Ziio
rimase fino alla fine. Nemmeno quello che Haytham era arrivato a
considerare amore era bastato a domare quella donna tanto bella quanto
ostinata e irremovibile. Era stata lei a lasciarlo, ad ordinargli di
andarsene per essere più precisi.
«Vattene!
Vattene da questo luogo e non tornare mai più.
Perchè, se lo farai, ti strapperò il cuore con le
mie stesse mani e lo darò in pasto ai lupi»
Gli avevano fatto male quelle parole, più di quanto potesse
ammettere. Aveva tentato di spiegarle, ma non c'era stato verso.
«Tra noi è finita» gli aveva urlato in
faccia prima di voltargli le spalle per sempre. Quella fu l'ultima
volta che la vide. Con il cuore in gola se n'era andato, per non
tornare come lei aveva chiesto, ignaro che nel ventre di Ziio una vita
si stesse formando. Una vita a cui lui aveva dato una parte di
sè, la stessa vita che ora gli stava davanti, forte,
risoluta e testarda come la madre che lo aveva messo alla luce. Haytham
si rattristò nel rendersi conto di non poter avere nessun
ricordo di suo figlio da bambino, i suoi primi passi, le sue prime
parole, che sicuramente non avrebbe compreso. Tutte tappe a
cui ogni padre dovrebbe poter assistere, ma non lui, non la sua
famiglia. Poteva poi quella chiamarsi famiglia? si domandò.
Probabilmente no, ma Haytham era certo che non avrebbe cambiato Ziio o
Connor con nessun altro al mondo. Avrebbe tanto voluto domandare a suo
figlio di raccontargli qualcosa della sua infanzia, di farlo partecipe
anche se in ritardo. Forse anche Connor sarebbe stato curioso di sapere
di più di Ziio, come fosse stata la sua vita prima di
diventare madre. Chissà forse un giorno anche loro due
avrebbero trovato il coraggio di scambiarsi i ricordi che tenevano nei
loro cuori. E quando Connor riprese la parola, Haytham si
domandò, se in quel momento di silenzio, anche suo figlio si
fosse perso in penseri simili ai suoi.
«Quando ero solo un bambino e l'occhio dell'aquila si
risvegliò in me - continuò il ragazzo - Ista mi
spiegò che quello strano modo di vedere era una
capacità straordinaria che avevo ereditato da mio padre. E
che ne sarei dovuto essere orgoglioso, anche se non avrei mai dovuto
parlarne con nessuno.»
«Ne stai parlando con me...»
«Penso che voi sappiate anche più di quanto ne
sappia io su Assassini e Templari e sulla loro storia, dico
bene?»
Haytham sospirò. «In effetti, non penso che
Achilles abbia avuto molto tempo per raccontarti migliaia di anni di
storia, sotterfugi, tradimenti e sangue.»
«Mi ha raccontato quanto basta.»
sottolineò il ragazzo con una punta di acidità
nella voce.
«Ma non sei curioso?» chiese l'uomo, noncurante del
tono poco amichevole del figlio «Posso raccontarti, se
vuoi...» propose.
«La storia degli Assassini dalla bocca di un Templare...
posso solo immaginare come ne possiamo venir dipinti...»
«Ti assicuro che sarò oggettivo. Mi
limiterò ai fatti senza aggiungere commenti. Poi forse ti
stupirai nel sapere che per un certo periodo la vostra visione del
mondo era molto più vicina alla mia...»
Connor lo guardò a lungo, poi si avvicinò, prese
una sedia e vi si sedette appongiandosi allo schienale.
«D'accordo. Forza, Vi ascolto...»
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Capitolo 9 *** History Lesson ***
9. History Lesson
Haytham si sistemò meglio sul letto, cercando una postura
che gli permettesse di sentire meno dolore. Si schiarì la
voce e iniziò...
«La nascita di entrambe le nostre organizzazioni risale a
migliaia di anni fa. E quello che non sai è che all'inizio
i nostri scopi si dice fossero gli stessi. Condividevamo gli stessi
ideali, gli stessi sogni e le stesse speranze per
l'umanità. Tra i templari queste voci sono sempre
più spesso dimenticate perché credute fasulle,
anzi c'è chi dice che siano informazioni che gli Assassini
stessi abbiano infiltrato segretamente per convincerci a cambiare i
nostri dettami.»
«E Voi non lo credete possibile? Non si sa quasi nulla
degli Assassini prima del 465 a.C. quando si ritrovò
la prima vittima della lama celata»
Haytham addocchiò il figlio guardandolo con comprensione.
«Dunque Achilles qualcosa è riuscito ad
insegnartela. Già, come dici tu, la morte del re
archemenide Serse I da parte dell'Assassino persiano Dario è
la prima vera prova dell'esistenza della tua organizzazione. La prima
prova, la prima uccisione... ironico per chi proclama di essere
dalla parte della giustizia, non trovi?»
«Non mi pare che la perdita di un re iracondo quale era Serse
I possa aver provocato gravi danni all'umanità»
«Ne convengo... Sta di fatto che a quel tempo, circa,
sembrano risalire anche le notizie più attendibile delle
operazioni templari. Ma non è certo se Serse I o suo
padre fossero templari, ma è molto probabile che dietro di
loro, di Dario il Grande soprattutto, ci fossimo noi. Mi riferisco
principalmente a quando Dario riuscì a rovesciare
l'usurpatore e prendersi il trono che gli spettava.»
«Non c'è trono che possa spettare ad una sola
persona»
«Non se questa persona non è in grado di
mantenerlo infatti, e dubito che il tuo Washington sia in grado di
farlo»
«Washington non è un re»
«Oh certo, forse non di nome, ma...»
«Padre...» lo avvertì Connor.
«D'accordo, d'accordo. Allora ti farò
l'esempio di un re giusto, forte, intelligente, amato...e
templare.»
«Alessandro Magno» dissero i due insieme.
«Precisamente - continuò Haytham indicando
il figlio che aveva conserto le braccia al petto - non vorrai forse
dirmi che Alessandro Magno non è stato un buon
re?»
«Secondo gli scritti aveva soggiogato il suo impero grazie ad
uno di quegli strani arnesi che voi templari cercate con tanto
fervore»
«è vero, certi scritti riportano che fosse in
possesso di un bastone dell'Eden - confermò l'uomo -
ma anche se fosse?...ha riunito popoli diversi. Ha lasciato loro
quel tanto di libertà che bastava a poter vivere in pace,
senza dover costringere la popolazione ad affrontare guerre
ulteriori. Ha divulgato scienza e portato benefici a
città e persone. Il suo unico peccato è stato
quello di morire giovane...ucciso da un Assassina con il veleno, non
ritieni questo un atto di vigliaccheria?»
«Io lo vedo come un atto di libertà...Ilenni era
una schiava, voleva solo essere libera.»
«Libera da cosa? Libera di essere rivenduta e di diventare
nuovamente merce di scambio e poi probabilmente schiava di un altro
re, e questa volta magari violento e dittatore. Connor la
schiavitù c'è ancora, la reputo anch'io una
cosa esecrabile per come solitamente vengono trattati gli schiavi, ma
non per il fatto che esista. Gli uomini malvagi non finiranno mai di
sottomettere i più deboli se qualcuno non
sottometterà prima loro»
«Ma vi sentite?! Come potete pensare che la soluzione sia
usare la stessa barbaria su altri. Non è costringendolo ad
ubbidire che farete di qualcuno un uomo migliore. E' vero la
libertà ha un prezzo e conseguenze pericolose alle volte,
ma sono rischi secondari rispetto alla perdita del libero
arbitrio.»
«Alle volte? Sempre Connor! Sempre! Secondo la vostra
idea la storia dovrebbe averci ormai insegnato come agire, ma invece
continuiamo a fare gli stessi errori. L'umanità non
imparerà mai da sola, ha bisogno di essere salvata da se
stessa o andrà incontro al disastro. Non ora, non tra
mille anni, ma prima o poi accadrà.»
«Siete troppo pessimisti, voi...»
«No, Connor! Noi siamo solo realisti, siete voi ad
essere troppo idealis...»
«Basta!!!» si infuriò il ragazzo
alzandosi dalla sedia, dando un colpo con il braccio di fronte a
sè, come se volesse scacciare quelle parole che ancora
aleggiavano in aria. «Sbaglio o avevate detto che non
avreste commentato...» aggiunse poi con voce più
pacata ma altrettanto irritata.
Haytham sospirò. Urlare gli aveva provocato nuovo dolore
alla ferita, ma tentò di non darlo a vedere mentre
osservava suo figlio che cercava di mantenere la rabbia sotto
controllo. Probabilmente se non fosse stato a letto ferito, ora
sarebbe a terra con un pugno piantato in faccia. Suo figlio sapeva
essere più irruente di lui in certi casi.
«Mille scuse. Non hai torto» disse mentre la
mano sotto le coperte andava a toccare le fasciature dove il dolore si
stava ripresentando.
Connor si tranquillizò e tornò a sedersi.
«Meglio finirla qui - concluse poi con un sospiro -
non oso pensare cosa riuscireste a dire di Altaïr Ibn-La'Ahad
e di Ezio Auditore da Firenze...»
«Ti direi che son stati grandi uomini...» rispose
Haytham spiazzando completamente il figlio.
Connor rimase senza parole per qualche secondo, rivolgendosi verso il
padre con espressione interrogativa a dir poco.
«Scusate?» chiese con sincera sorpresa.
«Hai capito bene - lo assicurò il genitore
- i due che hai citato sono tra i pochi Assassini che meritano lodi
per il loro operato sotto certi punti di vista e per motivi
diversi»
Il suono del vento che attraversa i rami quasi spogli fu l'unico rumore
che, per i minuti seguenti, si percepì nella stanza dopo
quella frase. Connor non aveva dato segni di riposta all'esternazione
del padre. Troppo esterefatto da quelle parole anche solo per
commentarle, se ne stava li, in attesa che Haytham argomentasse la
sua precedente affermazione. Il vecchio templare dal canto suo non
sembrava intenzionato a proferire verbo, sicuro che ben presto
sarebbe stato suo figlio stesso a rimangiarsi l'intenzione di finire
lì il discorso.
E non dovette aspettare nemmeno molto. Il ragazzo si riebbe qualche
istante dopo.
«Che intendete dire?» chiese con una punta di
sospetto nella voce.
Haytham cercò di nascondere un sorriso beffardo prima di
alzare il volto verso il ragazzo.
«Semplicemente quello che ho detto. Sono stati grandi
uomini degni di lode, entrambi con meriti e colpe, come ogni grande
uomo.»
«Sinceramente sono spaventato dal chiederVi di spiegarVi
meglio, ma giunti a questo punto non dovrei stupirmi più
di nulla, quindi andante avanti» concluse mentre tornava
a sedersi con le braccia incrociate sul petto, in chiara attesa di
ascoltare le spiegazioni del padre, un templare che diceva di tener
in buon conto due dei più grandi Assassini del passato.
«è presto detto. Entrambi furono in grado di
utilizzare la mela per il bene dell'umanità.
Altaïr Ibn-La'Ahad ne studiò a fondo la struttura
e i poteri, riuscì a controllarla e ad utilizzarla e per
questo è degno di lode e ammirazione. Ezio Auditore da
Firenze invece fu colui che chiuse il capitolo più
deprorevole della storia dei templari, quello che viene definito il
periodo oscuro. Nessun templare lo ammetterebbe mai ma io non nego
che la famiglia Borgia abbia macchiato la nostra organizzazione con le
loro macchinazioni e la ricerca del potere personale. Non erano
quelli i dettami e gli scopi per cui i templari sono nati e lavorano
tutt'ora.»
Connor rimase in silenzio durante il discorso del padre, notando come
l'uomo avesse iniziato a stringere con forza il lenzuolo. Il ragazzo
comprese da quel semplice gesto quanto Haytham credesse sul serio in
ciò che stava dicendo e che soffrisse per certi versi per
quanto i Borgia avessero, a suo dire, macchiato l'ordine. Per il
giovane Assassino era difficile capire la differenza tra i templari ai
tempi dei Borgia e quelli attuali, eppure quel templare che gli stava
davanti proclamava che essi erano diversi come il giorno e la notte.
Connor non capiva ma forse, pensò, semplicemente, era
solo quel singolo uomo, nato assassino e cresciuto templare ad essere
l'unico in grado di vedere le cose con due occhi diversi.
«State dicendo che approvate le scelte di vita di Ezio
Auditore?» chiese quasi solo per spezzare il silenzio.
Haytham scosse la testa. «No, certo che no. Ezio
Auditore tenne la mela per sé, la utilizzò per
i suoi scopi e poi ne rinchiuse i poteri lontano da altre mani.
Avrebbe dovuto sfruttarne il potere per fare da guida a coloro che si
erano persi. Il vostro voler lasciare troppo spazio al libero
arbitrio anche a coloro che non lo meritano. Ecco il vostro sbaglio.
No, non approvo le sue scelte, quello che voglio dire è
che se fossi vissuto nel suo periodo, davanti ad una tale
degenerazione dell'ordine templare, allora, forse, anch'io avrei
scelto di essere un Assassino. Mi domando però se la
vostra confraternita avrebbe accolto anche le mie idee e il mio libero
arbitrio.»
«Noi chiediamo solo che vengano seguite 3
regole»
Haytham piegò le labbra verso sinistra in un veloce
sbuffò, andando a coprire la voce del figlio con le stesse
parole:
«Mai nuocere
ad un innocente. Agire sempre con discrezione. Mai compromettere la
confraternita» dissero i due all'unisono. Il
templare però continuò subito dopo.
«...ma al tempo stesso portate avanti dei paradossi
incomprensibili. Gli
assassini promuovono la pace, ma praticano l'omicidio. Gli
assassini promuovono il libero arbitrio, ma obbediscono a regole
severe. Gli Assassini promuovono il rifiuto ad una fede cieca, ma
sono i primi a praticarla. Spiegami che senso
ha?»
«La spiegazione è semplice ... Nulla
è reale, tutto è lecito» rispose il
ragazzo come se si aspettasse quella domanda, in quanto, non lo
avrebbe mai ammesso con il genitore, ma lui stesso l'aveva posta ad
Achilles molti molti anni fa ricevendo come spiegazione la stessa che
ora lui stava dando al padre. Ciò che però fu
diverso rispetto a quella volta fu che Haytham non accettò
tale risposta come verità, ma sospirò gettando
le braccia all'aria perdendo per un secondo la sua tipica compostezza
britannica.
«Non ha senso. Non capirò mai...»
concluse facendo ricadere le braccia sul materasso.
«Eppure mio nonno ci credeva»
Haytham guardò il figlio e chiuse gli occhi ricordando quel
poco che la sua memoria gli donava della figura del padre.
Ciò che non ricordava comunque l'aveva poi scoperta in un
secondo momento.
«Tuo nonno era un Assassino, è vero. Ma non
era nato tale, era caduto nella vostra rete senza nemmeno
accorgersene, mi sono spesso domandato se fosse stato realmente
conscio di ciò che significava essere un Assassino. Forse
non lo sai ma uno dei suoi mentori era un templare, per non parlare
di Birch... da che sono nato, lui mi era sempre stato presentato
come amico. La nostra casa era sempre aperta a lui e mio padre era
pronto a dare in sposa sua figlia al Gran Maestro Templare Britannico
prima di sapere chi lui fosse...»
Haytham si fermò e Connor notò nuovamente come le
mani del genitore stessero stringendo il lenzuolo così forte
da imbiancarne le nocche. Per il giovane non fu difficile indovinare
a cosa l'uomo stesse pensando, i ricordi del diario erano ancora ben
fissi nella sua mente, ma nonostante tutto si stupì quando
sentì la sua stessa voce rompere il silenzio con un frase
che pensava non avrebbe mai avuto il coraggio di pronunciare.
«Padre...pensate davvero che Templari e Assassini non
possano trovare un punto d'accordo per convivere
pacificamente?»
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Capitolo 10 *** Revelation ***
E dopo aver platinato
sia Liberation che Rogue posso finalmente riprendere in mano questa
storia...che ci sia qualcuno che la sta ancora seguendo mi domando? XD
speriamo di si!
Per voi, eccovi il prossimo capitolo, sperando di poter aggiornare con
più velocità in fututo...
10. Revelation
Haytham non ebbe modo di rispondere che dalla porta della stanza giunse
un lieve bussare. I due si ridestarono come da un torpore in cui non
si erano resi conto di essere caduti e Connor si alzò per
andare ad aprire.
Oltre la porta Aveline gli si presentò con un sorriso e una
grossa zuppiera tra le mani.
«è per tuo padre - disse porgendogliela -
da parte di Mrs Corinne . A quanto pare il dottore è
passato alla locanda ordinando di preparare qualcosa per il misterioso
malato che nascondi nella tua dimora.»
Connor annuì prendendo la zuppiera e lasciando la porta
aperta, permettendo ad Aveline di entrare. La donna seguì
il confratello all'interno della stanza chiudendosi il portone alle
spalle.
Sul letto vide subito la figura di Haytham, più in forma
di quanto si aspettasse, sicuramente in condizioni migliori
dell'ultima volta che lo aveva visto. La scena le ricordò
suo padre e il suo cuore si strinse un poco nel pensiero di aver
lasciato il suo veccho genitore solo nel suo letto di morte.
Chissà forse era stato per quel ricordo del suo subconscio
che aveva salvato Haytham quella notte a Fort George.
«Miss Aveline de Grandprè presumo?»
chiese lui con un inchino della testa nel momento in cui la vide. Lei
annuì con distacco.
«Devo dunque a Voi la mia vita. Vi porgo i miei
ringraziamenti»
La ragazza se ne uscì con un sorriso sarcastico,
portandosi le mani ai fianchi.
«Sto ancora valutando se ho fatto bene a salvarvi oppure
no»
E Haytham avrebbe riso, probabilmente anche di gusto a quella
risposta, se la voce di Connor non fosse intervenuta un millisecondo
dopo quella della donna.
«Hai fatto bene!» lo disse con naturalezza, senza
volerci dare troppo peso mentre era impegnato a riempire un piatto con
la zuppa di Mrs Corinne.
Gli altri due occupanti della stanza lo guardarono sorpresi, Aveline
poi si lasciò scappare un sorriso, mentre sul volto di
Haytham permase un puro sbigottimento che scomparve solo quando il
figlio gli piazzò il piatto pieno tra le mani.
«Mangia» disse. Dopodichè
uscì dalla stanza lasciando dietro di sé solo il
suono dei suoi stivali che scendevano le scale.
Aveline aspettò che anche quel suono sparisse al suo udito e
poi intensificò il sorriso sul suo volto.
«Era imbarazzato. Un aspetto di Connor che non avevo mai
visto.» commentò con un nota ilare.
Haytham voltò la testa verso di lei, incuriosito. La
donna notò quella sua curiosità e si sedette
vicino a lui.
«A quanto pare deve essersi reso conto di ciò che
ha detto e sottinteso...e la cosa forse lo ha spaventato oltre che
imbarazzato.»
Haytham abbassò il cucchiaio e sembrò riflettere
su quelle parole, mentre osservava la zuppa fumante nel piatto
«Più resto qui più mi accorgo che
Connor è molto più sensibile di quanto si direbbe
a prima vista» aggiunse poi Aveline accavallando le gambe una
sull'altra.
«Forse troppo» commentò l'uomo
riprendendo a mangiare con lentezza.
«O forse siete Voi a risvegliare la parte più
fragile di Connor. Siete suo padre in fondo.»
«Che importanza può avere un padre che non
è esistito fino ad ora.»
«Per un figlio i genitori esistono sempre, anche quando non
sono presenti. In un modo o nell'altro nel nostro cuore loro
esistono.»
Il templare immerse nuovamente il cucchiaio nel piatto
silenziosamente, mentre i suoi occhi si posavano sulla donna
sedutagli ancora accanto. Haytham stava diventando vecchio, ma
questo non significava che non riuscisse più a cogliere
certe venature nella voce e nei lineamenti di un volto. Venature che
cercavano di nascondere tristezza, dubbi e amarezza profonde. Erano
tratti che non avrebbe confuso con niente altro, visto che erano anni
che li rivedeva anche sul suo stesso volto. Per quello decise di
indagare più a fondo.
«Che mi dite dei Vostri genitori?»
La ragazza ebbe un sussulto dal quale si riebbe solo dopo alcuni
istanti. Si lasciò poi sfuggire uno sbuffo.
«Non verrò certo a parlare di mia madre con un
Gran Maestro Templare - rispose - ma mi stupisco che non
sappiate già di mio padre...Ucciso per mano di un vostro
pari...avvelenato dalla sua stessa moglie, colei che io pensavo una
matrigia premurosa...Quanto ero sciocca»
«Dunque era come temevo - commentò l'uomo
facendosi forza nell'ingoiare un po' di zuppa prima che diventasse
fredda - Mrs de L'Isle ha ucciso vostro padre»
«Mi state forse dicendo che non lo sapevate?»
chiese lei sinceramente sorpresa.
«Anche se siamo parte delle stesso ordine non significa che
le informazioni siano così semplici da reperire. Senza
contare che dal mio ritorno nelle colonie avevo smesso di focalizzarmi
sui quei dannati reperti e su coloro che li cercavano.»
«Intendete quello strano disco...» la donna si
zittì di colpo, rendendosi conto solo in quel momento di
ciò che stava rivelando.
Haytham sorrise. «Lo avete Voi dunque, non era difficile
immaginalo visto e considerato la morte di Mrs. deL'Isle...Siete
stata Voi, dico bene?»
«Ha ucciso mio padre! Mi ha allontanata dalla mia vera
madre e ha finto di volermi bene! Meritava di morire anche solo per
quello.»
«Pensate davvero che abbia finto?»
«Mi ha trattata come uno strumento, mi è stata
vicina solo per confondermi le idee, ha tentato di portarmi
nell'ordine...»
«Avrebbe potuto uccidervi quando voleva...ma non lo ha
fatto, a questo non pensate?» chiese l'uomo ripensando a
tutte le volte in cui lui stesso avrebbe potuto uccidere Connor e
liberarsi di un nemico scomodo all'ordine.
«Non lo ha fatto perché le servivo! - La voce
della ragazza si alzò all'improvviso e Haytham si
riscoprì a notare quando lei e il suo figlio per certi versi
si assomigliassero- Lei stessa ha detto che il mio talento le
serviva.»
«Forse voi Assassini siete troppo svelti nel
giudicare...» aggiunse poi il templare, con voce lieve
che mal si sposava con il tono usato poc'anzi dalla sua
interlocutrice. Aveline cercò di controbattere ma Haytham
fermò le sue parole con le proprie.
«...ma ha ucciso vostro padre e vi ha allontanato da vostra
madre, questo, comprendo, giustifica la sua morte per mano vostra. L'odio per chi uccide una persona amata è qualcosa che si
può comprender solo provandolo» concluse mentre
alla sua mente tornava il volto morente di Reginald. Ancora oggi gli
rodeva non essere stato lui a fendere il colpo mortale contro colui che
gli aveva portato via il padre e quell'infanzia che, forse, l'avrebbe
reso, magari non migliore, ma sicuramente diverso. Meno solo ...
avrebbe voluto sperare per lo meno.
Ma non aveva senso comunque pensarci ora. Il passato non si cambia e
questo Haytham Kenway lo sapeva fin troppo bene.
Aveline nel frattempo era rimasta in silenzio. Le ultime parole del
templare l'avevano fatta riflettere, non sapeva cosa si nascondesse
nel passato di quell'uomo, ma vendendolo e sentendo quelle parole non
gli fu certo difficile capire che anche lui avesse perso qualcuno di
amato. Si domandò chi fosse, ma non ebbe il coraggio di
chiedere, in fondo non erano fatti suoi. Era li solo per
assicurarsi che l'uomo mangiasse quella dannata zuppa che gli avevano
chiesto di consegnare e Aveline decise che era il momento di eseguire
l'ordine. Con un sonoro sospiro prese il piatto vuoto dalle mani di
Haytham e tornò a riempirlo.
«Basta con queste chiacchiere deprimenti -
decretò - ora pensate solo a mangiare che altrimenti il
dottore poi se la prende con me.»
Haytham sorrise. «Agli ordini» ripose con un
abbozzò di ilarità, riprendendo a tuffare il
cucchiaio nel piatto.
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Capitolo 11 *** Doubts ***
11. Doubts
Connor se ne stava seduto alla scrivania. Davanti a sè il
libro contabile della tenuta, in mano la penna, ma sulla punta
l'inchiostro era ormai secco e il foglio ancora bianco.
«Hai fatto
bene!»
Lo aveva detto d'impulso, senza riflettere e questo lo spaventava
alquanto. Significava quindi che lo pensava veramente? Dopo la lettura
del diario di Haytham aveva appurato che la morte del padre era, anzi,
sarebbe stata uno sbaglio. Era felice di sapere le sue mani monde del
sangue di un padre che pensava di conoscere ma che invece ogni giorno
si scopriva essere una persona diversa, un persona, stentava a
crederlo, migliore.
Sospirò. Lo faceva fin troppo volte ultimamente. Il suo
cuore di figlio lo stava davvero rammollendo così tanto? La
mancanza dell'autorità di Achilles e delle sue parole, a cui
credeva con tutto se stesso, lo stavano facendo vacillare a tal punto?
Dove era finito il Connor risoluto e determinato di un tempo?
«Che mi sta succedendo?» si chiese con un filo di
voce posando la penna.
«Connor?»
La voce greve di Aveline, lo fece sussultare leggermente. Si
voltò verso di lei vedendola avanzare nella sua direzione.
«Tutto bene?» chiese preoccupata, non voleva farlo
capire ma aveva colto l'ultima frase del confratello e non poteva fare
a mene di preoccuparsi. Connor era diventato la guida degli Assassini
della zona dopo la morte di Achilles, un suo cedimento sarebbe potuto
essere un cedimento della confraternita intera.
Aveline era pronta a indagare fino a che il ragazzo non avresse ceduto,
parlandole dei suo dubbi o problemi, quindi si stupì quando
Connor non finse di star bene e anzi non mascherò nemmeno la
preoccupazione sul suo volto.
«Non lo so» rispose portando una mano al viso
«La realtà è che non capisco
più nemmeno me stesso.»
La ragazza gli si inginocchiò di fronte prendendogli la mano
che ancora gli nascondeva il volto. « È normale
che tu sia felice di riavere tuo padre. Io darei qualsiasi cosa per
poter riavere il mio»
Connor districò la mano da quella della ragazza e scosse il
capo con forza. «Non è la stessa cosa. Tuo padre
non ha cercato di ucciderti, Tuo padre non era un
templare...» - e poi gli ritornò alla mente di
quando Aveline gli aveva raccontato della sua matrigna.
«sarebbe come se tu fossi felice di riavere la tua
matrigna»
Aveline si levò nuovamente in piedi. Lo sguardo duro sul suo
volto. «No sbagli - disse con fermezza nella voce -
c'è un differenza fondamentale tra Madeleine e tuo
padre»
«A cosa ti riferisci?» chiese il giovane Assassino
sinceramente, alzando lo sguardo su di lei.
«Tuo padre ti ama sul serio!»
Connor continuò a fissarla mentre il viso di Aveline si
rilassava in un sorriso, poi distolse lo sguardo, andando a fissare i
suoi stivali. Non che Connor non credesse nelle parole della
consorella, anzi, dopo la lettura del diario si poteva dire
praticamente certo dell'amore che il padre provasse per lui. Un amore
strano e mascherato fin troppe volte, eppure sincero, così
come lo era il suo del resto.
Aveline lasciò a Connor ancora qualche minuto per
rielaborare le sue parole prima di appoggiarsi alla scrivania e
spezzare nuovamente il silenzio.
«Sai, poco fa è stato proprio tuo padre a
domandarmi se l'amore di Madeleine nei miei confronti fosse davvero
finto come credevo. E' stato in quel momento che mi sono accorta della
differenza tra lei e Mr. Haytham. Gli occhi con cui mi guardava lei,
sono completamente diversi da quelli con cui lui guarda te. Quella luce
l'ho vista solo negl'occhi di mio padre e in quelli di mia
madre.»
Il ragazzo ascoltava, le mani strette una nell'altra e lo sguardo
sempre ancorato al pavimento. Rimase lì fermo a pensare fino
a che non sentì una mano sulla sua spalla.
«Achilles mi ucciderebbe se sapesse che sto ospitando Haytham
Kenway nella sua casa.» disse lui in risposta a quella
stretta.
Aveline alzò lo sguardo al soffitto. «è
per quello che lo hai sistemato nella tua stanza al piano di sopra
invece che in quella più comoda al piano di sotto?»
«Questa qui sotto era la stanza di Achilles, non potevo certo
mettere a dormire sul suo letto il suo più acerrimo
nemico»
«Capisco» rispose lei allontanando la mano e
incrociando le braccia al petto.
«Ti ricordi che una volta mi dicesti che tu credi solo nelle
tue mani?»
E Connor spalancò gli occhi per un secondo, alzando
finalmente la testa. Lei lo guardò e gli sorrise
ironicamente.
«Allora continua a farlo! Non guardare al passato, ma al
futuro. Anche se Achilles non c'è più non sei da
solo!»
«Puoi ben dirlo!» una terza voce di unì
in quel momento. I due Assassini si voltarono all'unisono verso la
finestra, entrambi pronti a far scattare la lama celata al loro polso.
Ma quando Myriham si mostrò i due si rilassarono all'istante.
«Myrhiam!» esclamò il ragazzo con un
tono quasi di rimproverò mentre si alzava andando verso la
finestra.
«Che succede?» chiese poi
porgendosi sul davanzale.
La donna se ne stava in piedi con l'impugnatura del fucile dietro il
collo e la canna dritta lungo le spalle con una mano appoggiatasi
sopra. Alla cintola il suo coltello preferito, un regolo di Norris, il
vestito sgualcito e i capelli un po' in disordine.
«Mi domandavo se non ti andrebbe di venire a caccia.
L'inverno si avvicina e siamo un po' a corto di risorse. E poi... non
voglio impicciarmi nella vostra conversazione ma da quel poco che ho
colto hai bisogno di un po' di svago Connor!»
Il ragazzo rimase perplesso per qualche secondo prima di scoppiare in
una sonora risata. Sbatté una mano sul davanzale e una volta
che la risata si spense sorrise verso Myriham.
«Hai ragione. Cacciare mi farà bene!»
decretò sistemandosi il tomahawk alla cintola e girandosi
verso l'interno della casa per andare a prendere l'arco.
«Oh e Connor...» lo chiamò la
cacciatrice prima che lui sparisse dietro l'angolo
«sinceramente non voglio impicciarmi nei vostri affari, ma
quella che ha detto la bellezza qui a fianco - disse indicando Aveline
- è vero. Non sei da solo, qualsiasi cosa tu decida qui
siamo tutti dalla tua parte. Ricordalo!»
Connor sorrise, un po' imbarazzato. «Grazie»
rispose grattandosi la guancia, come avrebbe fatto un ragazzino
più giovane di quanto lui non fosse. Poi si volse verso
Aveline e con il sorriso ancora sul volto indicò la foresta
con un cenno del capo.
«Che dici? Ti unisci a noi?»
Lei lo guardò e sfilò la sua arma dalla cintola
facendola roteare tra le mani. «Perché
no?» disse e seguì il confratello per prepararsi
alla caccia, mentre fuori Myriham li attendeva sistemando il suo
inseparabile fucile.
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Capitolo 12 *** Hunting ***
12. Hunting
Gli era mancata la foresta di notte. Il vento che ne portava alle
narici tutti gli odori. I suoni più lievi che risuonavano
alle sue orecchie. I colori delle foglie che anche nelle tenebre si
distinguevano nelle loro scure sfumature. Era abituato Connor ad
osservare al buio, spesso non aveva nemmeno bisogno di servirsi
dell’occhio dell’Aquila per potersi orientare. Cosa
che, pensò, invece non fosse vera per Aveline. La vedeva
piuttosto concentrata. Sapeva che per lei quella peculiare visone non
era stata un dono naturale, ma una dote appresa con assidui
allenamenti. Eppure lui si senti quasi orgoglioso di come lei riuscisse
a seguirlo di ramo in ramo, senza dover chiedere nessun aiuto. Myriham
invece era più lenta e circospetta, ma non certo meno letale
e sicura nei suoi salti. Erano rimasti all’interno della
tenuta, per Myriham sarebbe stato troppo pericoloso avventurarsi nella
frontiera di notte, era una cacciatrice esperta, ma non aveva una
preparazione da Assassino e Connor sapeva che un confronto con un orso
non era cosa da prendere alla leggera. La riprova di ciò era
pensare suo padre, uno dei migliori avversari che avesse mai
incontrato, salvo per miracolo dopo un tale incontro.
Scosse la testa. Suo padre era ritornato nei suoi pensieri anche
durante la caccia, nonostante avesse accettato di partecipare proprio
per poter allontanare per un po’ quei pensieri che lo
attanagliavano da giorni.
«Dannazione!» imprecò sottovoce,
saltando su un grosso ramo.
«Connor!» la voce della cacciatrice sotto di lui lo
riportò alla realtà. Gli stava indicando una
volpe in lontananza. Una preda piccola ma come primo bottino poteva
andare bene. La donna imbracciò il fucile pronta a far fuoco
ma Connor riuscì a intercettare lo sguardo di Aveline
spiegandole con gli occhi il da farsi. La ragazza lo capì al
volo e saltò in direzione della cacciatrice arrivandole
abbastanza vicino da posare una mano sulla canna del suo fucile
abbassandolo in silenzio. Le due donne si guardarono e Aveline scosse
la testa leggermente per poi indicare Connor sopra di loro che stava
già tendendo l'arco. Myriham notò solo in quel
momento che la freccia non era però indirizzata verso la
piccola volpe che stava grattando sul terreno con le zappette rosse
sporche di terra. No, la freccia puntava dietro l'animale, verso un
cespuglio piuttosto folto da cui la donna non sembrava riscontrare
nessuna anomalia. Eppure lo sguardo di Aveline volto in quella
direzione e la freccia tesa sull'arco di Connor le indicavano ben
diversa valutazione. La cacciatrice dunque si zittì, senza
fare domande, rimase ferma, notando come Aveline vicino a lei avesse
portato una delle mani all'impugnatura del suo macete. Connor nel
frattempo era una statua, immobile sul ramo, con la freccia pronta a
fendere l'aria. Scoccò all'improvviso mandandola dritta tra
le foglie. La volpe corse via impaurita mentre Myriham notò
un movimento nel momento in cui la freccia toccò l'arbusto.
Vide uscirne in riposta qualcosa che i suoi occhi non riuscirono a
definire, ma che sentì conficcarsi nel legno dove Connor era
stato appollaiato fino ad un attimo prima. Il ragazzo infatti aveva
evitato il dardo, conficcatosi nel tronco, saltando giù dal
ramo e gettandosi verso il cespuglio. Ne uscì rotolando, e
le due donne videro subito che il compagno di caccia stava lottando con
una preda ben diversa da quella per cui i tre si erano inoltrati nella
foresta.
Era un uomo piuttosto robusto e ben addestrato visto le
difficoltà che Connor sembrava avere nel tenergli testa. I
due rotolarono tra terra e foglie ancora per qualche metro prima che
Aveline si muovesse in soccorso del confratello. Con uno sguardo rapido
intimò alla cacciatrice di non muoversi e poi
balzò anch'ella giù dall'albero più
basso, su cui era stata in osservazione fino ad ora. Pensò
di sparare al nemico, ma i due uomini si muovevano troppo velocemente
per darle la certezza di non rischiare di ferire anche Connor. Si
avvicinò ancora un po' e nel momento in cui i due si
separarono, scattò con più decisione, impugnando
la frusta. Vide l'uomo riuscire a strattonare Connor di lato e cogliere
l'occasione per prendere fiato mentre l'altro si rialzava. Il templare
tentò di riandargli contro ma in quel momento
sentì il piede bloccato, gli occhi si volsero prima verso di
esso e poi seguendo la frustra legatavi attorno colsero Aveline, che
prontamente tirò l'altro capo dell'arnese facendogli perdere
l'equilibrio. Si ritrovò a terra, non ebbe tempo di pensare
ad un contrattacco che l'indiano gli si avventò addosso
portandogli il tomahawk alla gola, mentre Aveline estraeva la pistola
puntandogliela contro.
Stava diventando vecchio... pensò, mentre si preparava ad
esalare il suo ultimo respiro. Ma la pistola non fece fuoco e l'arma
sulla sua gola rimase li ferma senza affondare oltre.
«Chi sei templare?» La voce di Connor si
era fatta dura e ferma, come quella che Aveline ricordava qualche anno
prima in una foresta innevata.
L’altro sembrò ne scomporsi, ne tanto meno
spaventarsi al tono dell‘Assassino. Si limitò ad
alzare gli occhi verso di lui come a sfidarlo con lo sguardo. Connor
colse quell’intenzione ma decise di non farsi coinvolgere.
Resto fisso a guardare il suo nemico, Aveline al suo fianco, in attesa
di capire cosa il mentore delle Colonie avesse intenzioni di fare,
teneva il dito sul grilletto della pistola.
«Non te lo chiederò una seconda
volta» il tono questa volta accompagnato da una
leggera pressione dell’arma sulla pelle dell’uomo a
terra. Un rivolo di sangue si fece largo sul collo del templare, che
rimase sempre comunque con gli occhi fermi sul ragazzo sopra di lui.
«Sono un tuo nemico, dovresti capirlo …
L’aura rossa che emano dovrebbe essere
evidente…»
Connor non riuscì a nascondere la sua sorpresa a quelle
parole. Sapeva
dell’occhio dell’aquila? Si chiese
stringendo più forte il manico duro del tomahawk.
«Anche tu sei decisamente …rosso ai miei
occhi, Assassino…» aggiunse poi
l’uomo con un sogghigno non troppo velato.
Questa volta fu Aveline a prendere l’iniziativa. Aveva notato
l’espressione ancor più stupefatta del compagno e
temendo che il nemico volesse approfittare della cosa, si mosse
velocemente rifoderando la pistola. Prese una fune che teneva alla
cintola e legò le mani del templare strette dietro la sua
schiena. L’uomo si sorprese per un istante sentendosi
strattonare e si diede dello sciocco per essersi dimenticato della
presenza di lei. Ma d’altronde sapeva benissimo che la voglia
di vendetta fin troppo volte ti costringe ad errori grossolani come
quello. Erano passati parecchi anni, ma in certe situazioni era ancora
una testa calda come un tempo. Pensò che Haytham lo avrebbe
sicuramente rimproverato se fosse stato ancora in vita, e quel pensiero
gli infiammò ancora di più l’animo
ricordandogli perché si era addentrato nella tenuta
Davenport.
«Sono venuto a vendicare il mio Gran
Maestro» disse con ira, prima di sentire un colpo
alla base della nuca e tutto attorno a lui farsi nero come la notte che
lo circondava.
Quando si risvegliò capì ancor prima di aprire
gli occhi di essere legato ad un palo, attorno a lui però
non sentiva più gli aliti del vento e il gelo della notte.
Anzi era un tepore piuttosto piacevole quello che percepiva nelle
vicinanze e quando finalmente riuscì a mettere a fuoco il
luogo in cui si trovava capì che era un piccolo focolare
quello che emanava la calda sensazione.
Era in una stalla, dietro di lui alcuni cavalli erano chiusi nelle loro
posizioni e davanti, seduti di fronte al fuoco c’erano Connor
e la donna di cui non conosceva il nome. Dell’altra donna,
che aveva notato prima nascosta nella foresta, non c’era
più traccia.
«Sono ancora vivo? Perché?” la domanda a
voce alta fece volgere i due Assassini verso di lui. Connor non
parlò, restò a fissarlo per alcuni minuti
valutando la legittima domanda del templare.
«Perché vogliamo sapere chi
sei.» disse Aveline tornando a puntargli la pistola
in faccia. Connor spostò gli occhi sulla compagna per una
frazione di secondo per poi tornare a fissare il prigioniero.
Il templare sorrise. «Hope sarebbe stata fiera di te se ti
avesse conosciuta» disse con sincerità
e una punta di nostalgia.
Il grilletto scattò e una pallottola si infossò
sulla trave di legno proprio sopra la testa dell’uomo. I
cavalli alzarono tutti un nitrito e alcuni scalciarono un poco. La
pistola ancora fumante e il suono dello sparo ancora nelle orecchie dei
tre seduti uno vicino all’altro.
Il templare alzò lo sguardo sopra di lui e poi
guardò con disprezzo i due Assassini, prima di emettere un
lungo sospiro.
«Shay Patrick Cormac. Maestro Templare. Discepolo del Gran
Maestro Haytham Kenway. L‘uomo che voi avete ucciso e di cui
io reclamo vendetta.»
Shay vide i due Assassini irrigidirsi di colpo e voltarsi uno verso
l’altro, poi, con sua grande sorpresa, la donna
abbassò l’arma…
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Capitolo 13 *** What to do ***
What
to do?
“Mah…
la situazione sta prendendo una piega inaspettata”
commentò Aveline mentre controllava con noncuranza la
propria pistola non più puntata verso il templare legato al
palo.
Shay sembrò
sorpreso del cambiamento nell’atteggiamento della donna, ma
la sua esperienza gli stava dicendo di non abbassare la
guardia…per quanto legato com’era avesse ben poco
potere nel tenerla alta.
“Che vogliamo
fare Mentore?” chiese ancora la donna volgendosi al
confratello.
Connor non le rispose
subito e Shay notò, nonostante la poca luce del fuoco, che i
lineamenti sul viso dell’indiano si erano fatti addirittura
più tesi e lungo i fianchi le mani erano chiuse in pugni
stretti, tanto da imbiancarne le nocche.
Stavano nascondendo
qualcosa, era palese, ma cosa fosse il templare non riusciva a
decifrarlo.
Connor
all’improvviso tirò un lungo sospiro e si
levò in piedi. Gli occhi di Shay e Aveline lo seguirono ma
lui voltò lo sguardo verso la grande villa poco lontana.
Shay avrebbe giurato che
stesse guardando verso la finestra più luminosa della
magione. Aveline invece era semplicemente sicura che Connor stesse
guardando proprio verso quella finestra e non si stupì
quando lui si voltò verso di lei con uno sguardo che parlava
senza bisogno di voce.
Aveline annuì
guardandolo allontanarsi a lentamente non prima di aver dato
un’ultima occhiata verso il templare. Shay dal canto suo
sorresse con sfida e curiosità lo sguardo che
l’indiano gli scoccò prima di vederlo volgersi
verso la grande residenza e sparire nel buio della notte.
“Che
intenzioni avete?” chiese l’uomo cercando di
sciogliere i nodi che gli legavano mani e piedi.
Aveline si
alzò e strinse con più forza le corde.
“Non pensar di poter liberarti facilmente da queste
corde…sono nodi fatti da un uomo di
mare…”
Shay sbuffò.
“Riconosco certi nodi, donna. Non pensare di aver davanti uno
sbarbatello”
La donna sorrise con un
certo divertimento. “Non lo penso affatto, per quello sto
stringendo i nodi…”
Il templare rimase
interdetto per un secondo e poi gli sfuggi una breve risata.
“Interessante…quindi non avete intenzione di
uccidermi?”
La domanda
aleggiò tra i due nemici per alcuni istanti prima che
Aveline potesse rispondere lanciando uno sguardo fugace verso la casa.
“Dipende da
lui…e da cosa deciderà”
rivelò solamente, ma a chi fosse riferito quel “lui”
non avrebbe saputo dirlo nemmeno lei stessa.
---
Connor avanzò
un piede avanti l’altro. Il breve tragitto dalla stalla alla
casa non gli era mai sembrato così breve. Era già
arrivato al portone e nella sua testa le domande si erano centuplicate.
Cosa doveva fare?
Avrebbe dovuto far sapere a suo padre che uno dei suoi allievi si era
spinto fin qui per vendicarlo? Avrebbe dovuto dire a
quell’uomo che il suo Gran Maestro che era ancora vivo?
Oppure doveva ucciderlo e chiudere li la questione?
Connor scosse la testa.
Odiava ammetterlo ma
quel Shay non gli sembrava un uomo cattivo. Per certi versi gli
ricordava suo padre e per altri, che Achilles lo perdonasse, gli
ricordava se stesso. Ucciderlo a sangue freddo non gli era parsa una
buona idea. In fondo aveva ucciso fin troppo in quegli anni. Si era
macchiato di tanto di quel sangue, tra cui anche quello di innocenti
come Kanen‘tò:kon. Ed era servito a qualcosa? La
guerra era finita, ma il suo popolo era stato scacciato, la
schiavitù si espandeva a macchia
d’olio… Davvero il suo intervento nella guerra
aveva portato aiuto, davvero aveva scongiurato un futuro ancora
peggiore come quello che gli era stato mostrato nella visione della sua
gioventù? Davvero poteva esserci qualcosa di peggio di
ciò che aveva dovuto già sopportare?
Quante domande nella sua
testa. Troppe sicuramente per la sua giovane età. Era
Mentore di nome ma non certo di fatto. Achilles lo avrebbe deriso per
questa sua debolezza di spirito. Achilles sicuramente gli avrebbe detto
di uccidere quel templare, di non farsi ingannare da sentimentalismi
inutili… Dio, lui lo aveva praticamente costretto ad
uccidere il suo stesso padre, lui che aveva perso la sua famiglia e che
doveva ben sapere cosa significasse il legame di sangue.
Connor si
bloccò all’improvviso. La mano sulla maniglia
della porta della residenza. Non è che…Achilles
lo avesse usato per aver la sua vendetta su Haytham? No,no, non era
possibile. Achilles non avrebbe fatto una cosa tanto subdola, non
avrebbe mai potuto usarlo in quel modo no? No, certo che
no…Se Achilles voleva Haytham morto era solo
perché lui era il capo dei templari e la sua morte avrebbe
accelerato la fine della guerra e quindi avrebbe portato a meno
vittime. I templari erano portatori di sofferenza e costrizioni, per
quello dovevano soccombere. Per quello Achilles gli avrebbe detto di
uccidere anche questo nuovo templare che gli era capitato a tiro, anche
se sembrava diverso dagli altri, diverso come lo era sua padre.
Già, suo padre…lui invece, cosa avrebbe
detto…?
Connor fece leva sulla
maniglia e aprì la porta.
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Capitolo 14 *** What I aim for ***
What I aim for…
La residenza era immersa nel buio, ma gli occhi allenati di Connor non
si fecero sfuggire la sagoma che sembrava aspettarlo appoggiata alla
ringhiera a metà strada sulle scale.
“Padre! Che fate in piedi e fuori dal letto? Siete ancora
convalescente.”
Haytham si raddrizzò, colpito nel vivo dal quel commento che
lo faceva sembrare un vecchio moribondo. Scacciò comunque
subito quel pensiero guardando Connor raggiungerlo dopo i primi scalini.
“Chi è?” chiese quando il figlio gli fu
più vicino.
Il ragazzo si immobilizzò. Avrebbe dovuto immaginare che suo
padre avesse notato il prigioniero alla stalla.
“Per farla breve…. un templare venuto a
vendicarVi”
Haytham sembrò pensieroso. I due Kenway si guardarono per un
lungo momento, Connor avrebbe giurato che non fossero passati
più di 2 minuti da quando Haytham tornò a
parlare, ma ad entrambi sembrò un istante lungo un giorno.
“Che hai intenzione di fare con lui?” chiese quindi
senza distogliere lo sguardo dal figlio.
Era una bella domanda, la stessa che Connor avrebbe voluto fare al
padre, per essere onesti. Ed infatti si ritrovò a ribattere
proprio in quella direzione.
“Voi che fareste?”
“Non ti è stato insegnato che non si risponde ad
una domanda con una domanda? A maggior ragione se è la
stessa…”
“Non ho avuto un’educazione inglese”
ribattè stizzito il giovane assassino, incrociando le
braccia al petto.
“Non è questione di educazione inglese o meno, si
tratta di educazione e basta…ma evidentemente Achilles aveva
altro da insegnarti…”
“Avete intenzione di ritornare su quel discorso? Sapete bene
che…”
Haytham alzò la mano che aveva tenuto sulla ferita per tutto
quel tempo in piedi e bloccò sul nascere
l’autocelebrazione della confraternita che sarebbe scaturita
dalle labbra di Connor.
“D’accordo, d’accordo. Evitiamo!
Piuttosto non hai pensato che non sia solo? Trovo davvero strano che un
templare sia venuto nella tana del nemico da solo. Senza contare che
scarseggi in previdenza se uno dei miei uomini ha trovato il vostro
quartier generale con questa facilità.”
Connor non colse le varie accuse e frecciate sulle sue scarsi doti di
leader, si limitò invece a uno sbuffò vigoroso,
appoggiandosi con la schiena sulla ringhiera delle scale producendo un
certo fastidioso rumore di legno piegato.
“Vi assicuro che è solo. Ho controllato
personalmente ogni angolo della tenuta mentre Aveline lo teneva sotto
controllo durante il tempo in cui era svenuto. L’unica cosa
che è sospetta è una nave ferma al largo ma ho
già mandato Mr Faulkner a indagare a bordo
dell’Aquila.”
“Una nave? Un’attimo, quel templare…non
sarà mica Shay?”
Connor squadrò il padre dalla testa ai piedi ma non fece
cenno di muoversi dalla sua posizione.
“Dunque lo conoscete…”
“Shay Patrick Cormac…certo che lo conosco. Uno dei
miei uomini migliori che ti dovrebbe essere di grande
esempio.”
Quest’ultimo commento e la visibile stima che si leggeva
nell’intonazione di Haytham portò Connor ad alzare
un sopraciglio con fare curioso, mentre si spostava dalla sua posizione
notando che il padre stava tornando verso la camera da cui era uscito.
Connor lo seguì mentre il vecchio templare riprendeva gli
scalini uno a uno con più stabilità e
facilità di quando Connor avesse pensato suo padre potesse
invocare nelle sue condizioni.
“Che intendete dire?” chiese quando i due
arrivarono al piano superiore. Haytham si fermò
all’entrata della stanza che un tempo era di Achilles e senza
chiedere il permesso girò la maniglia entrando.
Connor sbiancò seguendo il padre e raggiungendolo in due
falcate all’interno della camera.
“Nessuno Vi ha dato il permesso di entrare qui!” lo
fulminò con voce e sguardo.
Haytham non sembrò ascoltarlo e Connor fu costretto a
strattonare il padre per una spalla per costringerlo ad ascoltarlo.
“Avete sentito ciò che Vi ho detto?”
“Achilles è morto Connor…”
gli disse l‘uomo, prendendo con delicatezza il polso del
ragazzo e allontanandolo dalla propria spalla. “non ha senso
tenere sigillata questa stanza. Questa dovrebbe essere la stanza del
mentore della confraterniata, la tua stanza Connor. Ma la
verità è che tu non sai quasi nulla di coloro che
ti hanno preceduto nel ruolo che ti sei imposto di prendere”
“Cosa..?” ma ancora una volta Haytham riprese
parola senza permettere una risposta al figlio
“Per prima cosa perché non porti qui Shay e lo
inviti a dirigersi nella stanza di Achilles? Posso scommettere che
arriverà qui senza che tu gli dica dove andare.”
“Cosa volete dire?” Connor cominciava a scambiare
quella sorta di irritazione nel vedere il padre a proprio agio nella
stanza di uno dei suoi peggior nemici, con una più marcata
preoccupazione per le parole che aveva appena ascoltato.
“Ogni cosa a suo tempo figliolo. Per prima cosa e bene che
Shay sappia che io sono ancora vivo. Averlo come nemico non
è cosa saggia. Portalo qui e ti spiegheremo alcune
cose”
Connor non si mosse. Rimase fermo in mezzo alla stanza, quasi senza
rendersi conto di quando il padre gli lasciò andare la presa
al polso per permettergli di scendere al piano inferiore.
“Beh che succede? Io ti aspetterò seduto qui. Su
forza… vai” agitò la mano il templare
andando a sedersi su una della poltrone posizionata vicino ad un tavolo.
“Non mi fido a lasciaVi qui dentro da solo”
Haytham si posizionò meglio sulla poltrona, una delle mani
andò involontariamente a riposare li dove la ferita ancora
si stava rimarginando.
“Connor, pensi davvero che io in questi giorni non sia mai
venuto qui dentro?”
Il ragazzo si irrigidì. Era stato uno stolto, aveva pensato
che suo padre non sarebbe riuscito a muoversi, oppure era solo che
voleva fidarsi di lui o ancora che semplicemente e ingenuamente Connor
non considerasse suo padre un nemico.
La realizzazione lo spaventò. E quel sentimento doveva
essere ben evidente sul suo volto anche in quella timida luce lunare
che entrava dalla finestre visto che Haytham si ritrovò a
sospirare rumorosamente.
“Rilassati Connor. Non ho nessuna intenzione di distruggere
ciò che hai creato dal suo interno. Ammetto di aver cercato
e trovato alcune informazioni qui dentro… ma non ho
intenzione di usarle contro di te se la cosa può farti stare
più tranquillo…”
“Come potrei fidarmi di un Gran Maestro Templare?”
chiese lui mettendo mani all’elsa del tomahawk legato alla
cintola.
“Nessuno te lo chiede infatti. Io ti chiedo di fidarti di tuo
padre” rispose l’altro, senza abbandonare lo
sguardo sul ragazzo di fronte a lui.
Connor sembrò riflettere per alcuni minuti, poi la mano
lascio l’elsa e il braccio tornò a distendersi
lungo il fianco. Ad Haytham comunque non sfuggì la mano
ancora stretta in un pugno.
“D’accordo” disse con un filo di voce il
ragazzo “ma se verrò mai a scoprire che state
seguendo degli scopi a beneficio dei templari, non fermerò
la mia mano”
Haytham si concesse un mezzo sorriso. “Non preoccuparti
figliolo. In questa mia seconda vita ho solo uno scopo”
Connor lo guardò “E
sarebbe…?” chiese.
“Te ne parlerò quando sarà il
momento”
“…questo non lo è?”
“Questo è il momento che tu vada a prendere Shay,
prima che riesca ad averla vinta sulla tua amica assassina”
“Non sottovalutare Aveline”
“E tu non sottovalutare Shay…”
Connor si strizzì, ma l’ultimo commento lo
convinse a girare i tacchi e a uscire dalla stanza e poi dalla villa
con più rapidità di quanto pensasse di avere.
Solo quando la porta della villa si chiuse alle spalle
dell’Assassino, Haytham si volse verso uno delle finestre da
cui si vedeva fin troppo bene la luna. La luce chiara gli illuminava il
grembo dove riposavano le sue mani. Le guardò notando come
avessero cominciato a perdere tono muscolare. Le mosse piano, quasi non
fossero parti del suo corpo e rimase per un attimo ad osservarne i
palmi.
“Se non ti confido il mio vero scopo Connor è
perche non mi crederesti…ma spero che tu Ziio, almeno
tu” pensò ripiegando, soltanto allora le dita in
pugni “ possa credere nei pensieri di questo vecchio corpo
scampato alla morte più volte di quanto abbia meritato.
L’unica cosa che voglio è poter essere il padre
che non ho potuto essere. Che ci possa riuscire o no, Ziio, questo non
so proprio dirlo…”
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