Impronte di vernice su muri pieni di vuoti

di tagliarsi_con_gli_origami
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Cannella, vaniglia e smalto per unghie. ***
Capitolo 2: *** Barbecue, erba tagliata e borotalco. ***
Capitolo 3: *** Mela, panico e the caldo. ***
Capitolo 4: *** Caffè nero, dopobarba e Neutol. ***
Capitolo 5: *** Assenzio, collutorio e vernice. ***
Capitolo 6: *** Erba, tabacco e mughetto. ***
Capitolo 7: *** Benzina, cenere e birra. ***
Capitolo 8: *** Guardrail, bruciato e condensa. ***
Capitolo 9: *** Chewingum, Champagne e Disco Inferno. ***
Capitolo 10: *** Epilogo, neve e orsi di peluche. ***



Capitolo 1
*** Cannella, vaniglia e smalto per unghie. ***


A Eva, che riesce a farmi scrivere anche di marmocchi.
 

 
Cannella, vaniglia e smalto per unghie.
 
 
 
Drive on, drive on 
My special one 
Don't you stop 'til you know you're gone 
Your sister and me have a set of keys 
Don't you worry your head 'bout a thing 
(Sister Song, Perfume Genius)

 
Cannella e vaniglia.
Piedi nudi sul parquet e lenzuola che si accartocciano sul fondo del letto. Un silenzioso saltellare, quasi barcollare, troppe birre e troppi cocktail. Lo sciacquone, l'acqua del rubinetto che sbatte contro la ceramica del lavandino macchiato di dentifricio.
Si muove silenzioso, un po' troppo attento, come uno che non compra soprammobili per non dover spazzare i cocci. 
Una cautela che lo fa sorridere, il viso sepolto fra le pieghe della federa grigio chiaro, i muscoli intorpiditi dalle dita dei piedi alle palpebre, e quella sensazione di disastro imminente appiccicata alle vertebre.
Ed è troppo equilibrato per essere uno che gli ha fatto scivolare la lingua in un orecchio nel bagno degli uomini di quel locale a Covent Garden. Troppo per uno che, e ripensarci ha effetti quantomeno imprevedibili sulle zone a malapena coperte da lenzuola stropicciate, è riuscito a fare quello che lui è riuscito a fare.
Ridacchia Louis Tomlinson, di quell'incontro casuale in un bagno, delle sue scarpe sempre un po' rovinate - perché non riesce a sopportare niente di davvero pulito – contro gli stivali un po' usurati dell'altro. Dell'odore di cannella e vaniglia dei suoi ricci leggermente sudati sulle tempie. Del suono gutturale della sua voce contro lo sterno, il rumore come di solletico della sua risata.
E davvero non vorrebbe ricordare tutto così bene. Non di uno che conosce a malapena, almeno, ma lui – masticare le parole giuste per definirlo è stato difficile, eccitante, e inquietante – rimane impresso. 
Impresso. Come le macchie con cui Louis ama arricchire ogni cosa.
Ed è quasi sexy il suo sgusciare per tutta la stanza cercando di recuperare vestiti gettati via a caso, calzini appallottolati nelle scarpe, e i boxer fatti scivolare a unghiate e pizzicotti sulle                                  anche.
Forse troppo, forse.
Sexy in quella maniera che ancora gli fa formicolare l'inguine e lo fa sentire un adolescente arrapato alla sua prima sveltina.
Che poi, a voler essere onesti con ogni singolo muscolo formicolante, tendine dolorante e nervo scoperto, di fretta, lui e Harry Styles di Holmes Chapel, non hanno fatto nulla.
Nulla.
Gli piace far finta di dormire mentre la sua scopata della nottata, del pomeriggio, della pausa pranzo o quel cazzo che è, si fa largo a tentoni sul pavimento della sua camera da letto cercando inutilmente di ripescare il portafogli, le carte di credito, la catenina d'oro del nonno che Lou gli ha strappato a morsi dal collo poche ore prima. Gli piace osservare ad occhi socchiusi, nella penombra, i segni che ha lasciato; i morsi, i graffi, le impronte. È un po' possesso, e un po' orgoglio d'artista nell'ammirare la propria opera d'arte ambulante dondolare nella stanza che odora di chiuso, deodorante per ambienti e pelle.
Ma con lui è diverso, forse. Ha un po' voglia di parlare, di chiedere dei tatuaggi strani, degli anelli di acciaio alle falangi, dei forellini impercettibili sul collo della maglietta un po' sformata.
Del Cheshire, del freddo e la nebbia. Dei vetri appannati dei pub e della posta del mattino.
Chiedergli dove ha imparato a fare quello che ha fatto al suo lobo dell'orecchio, chi gli ha insegnato a muoversi come si muove, con chi, prima, ha inarcato la schiena in quel modo quasi comico che li ha fatti scoppiare a ridere nel mezzo di un orgasmo.
Ma resta zitto, Louis Tomlinson, uno dei migliori piedi di Doncaster, ragazzino promettente, grande speranza dei Rovers, ginocchio fracassato e carriera in declino a soli ventisette anni.  
Resta zitto ad osservare Harry Styles, fotografo, panettiere, cabarettista, chi lo sa, che si riveste velocemente, la pelle delle ginocchia che si intravede sotto gli squarci dei  jeans, le fossette alla base della schiena, la spina dorsale fra le scapole, i ricci appiccicati alla fronte e il cellulare in mano.
I suoi “Merda, merda, merda, merda” sussurrati saltellando nel vano tentativo d'infilarsi i calzini, e il tintinnare straniante dei suoi anelli attorno alla cover dell'i-phone dallo schermo psichedelico che lampeggia come una sirena spiegata.
Resta zitto anche quando la porta si apre di un soffio, e lui scivola via.
Forse gli sarebbe piaciuto chiedergli dell'odore del pane la mattina, a Holmes Chapel.
Forse.
E invece niente.
E' stato un piacere conoscerti Harold.

***

Borotalco e tacos, smalto per le unghie e vaniglia.
Gemma muove piano le dita dei piedi che sporgono da sotto una coperta patchwork, unghie smaltate di amaranto che vibrano un po' nella luce tiepida e caliginosa dell'alba londinese. Una nebbia umida contro la pelle e i vestiti, attorno alle finestre aperte.
I ghirigori della fantasia in rilievo delle tende, che ha scelto sua madre, riflettono strane ombre nella stanza. 
Le sfiora appena l'orecchio con l'indice, e lei arriccia il naso nel dormiveglia
“Hei” spalanca gli occhi leggermente, le ciglia appiccicate di mascara e una manciata di briciole sparse sul collo “era ora...” ma sorride, un pochino, sotto i baffi di marshmallow. Era sempre così anche da piccoli, perché lui è allergico e sua madre non comprava mai il marshmallow.
Gemma non gli diceva niente, finiva i compiti in camera sua ascoltando Christina Aguilera, e sgattaiolava fuori di casa solo quando era quasi ora di cena e l'alimentari della signora Pearce aveva già la serranda abbassata. S'infilava nello spazio di un braccio sotto le gambe del commesso adolescente distratto dal lettore cd che rovinava sempre tutti i suoi album preferiti, e comprava una confezione di marshmallow per nasconderla sotto il cassetto del finto diario segreto.
Sapeva che Harry avrebbe cercato lì, e non ci nascondeva nemmeno più le sterline stropicciate della paghetta settimanale. 
Ma Harry non aveva mai letto il suo diario, né quello vero né quello finto, con dediche e cuori a Billy Osmond della squadra di nuoto. Harry non aveva mai letto una sola parola, perché Gemma era così trasparente che trovare la chiave per aprire il lucchetto del suo diario sarebbe stato più difficile che leggerle nel pensiero.
Gemma è stata trasparente anche sei mesi prima, quando ha sgranato gli occhi sulla porta di casa, un piede sullo zerbino e uno sul parquet appena lucidato, ed ha ingoiato senza parlare un “Te l'avevo detto” per sussurrare un “Vieni dentro” un po' confuso e un po' deluso.
Harry e Gemma, Gemma e Harry.
Si arrampicano scalzi sulla scalinata che porta al piano di sopra, le assi del pavimento che scricchiolano, le dita che scivolano sulla ringhiera che sa ancora leggermente di vernice, dopo che Gemma gliel'ha fatta ridipingere di rosa
“Non abbiamo nemmeno un fiocco, cavolo” ha detto con le mani piantate sui fianchi.
La camera profuma di borotalco e crema idratante al mandarino. E ammorbidente, e peluche nuovi, e carta da parati.
Tutto uguale, anche dopo sei mesi.
Sua sorella si avvicina al lettino con le sbarre in legno chiaro, e sbircia dentro. Sorride, si riavvia una ciocca di capelli dietro l'orecchio, e sorride di nuovo, sfiorando con l'indice la fronte della bambina che dorme con la bocca socchiusa e sdentata, in uno strano sorriso disegnato dai giochi di luce che si rincorrono dalla finestra con tapparella sollevata per metà.
Harry la osserva, mezzo passo indietro, un po' del solito vuoto terrorizzato alla bocca dello stomaco.
Un respiro profondo, uno e poi un altro, lentamente. 
Essere in grado, non essere in grado. Crescere, imparare a gestire tutto, se stesso, gli altri. Lei. Piccola e addormentata. 
Piccola.
Sua.
La sensazione di non riuscire nemmeno a muovere un muscolo. 
Chiudere gli occhi e lasciarsi invadere dal profumo di borotalco e vaniglia. Una strana pace contorta, una scomoda ma confortevole paura. 
Ce la puoi fare, forse.
Lei si sveglia stiracchiandosi leggermente. Sospira profondamente, uno scoiattolo calvo vestito di cotone rosa chiaro – gli Styles e la loro ossessione per il rosa – e si riaddormenta.
Gemma sistema la coperta ricamata con i pesci e le tartarughe di mare, e Harry fa scorrere un dito fra le sbarre di legno, fino a sfiorarle la mano chiusa a pugno.
Stringe per un secondo, cinque dita minuscole e sudaticce attorno al suo indice, e resta così per un attimo, aggrappata.
Ce la devi fare per forza Harold.
Gemma gli fa cenno di uscire, e il bollitore fischia al piano di sotto. 
Forse un caffè sarebbe meglio, visto che lei si sveglierà di lì ad un'ora al massimo, e non sarà per niente misericordiosa nei confronti del suo padre assenteista che ha passato la notte a fare sesso invece di occuparsi di lei.
Ma a Harry il the piace sempre di più, chissà poi perché.
Sua sorella lascia cadere le bustine di Earl Grey e lo osserva ciondolare in salotto.
“Puzzi di qualcuno” esordisce alla fine, mentre l'acqua nelle tazze scompagnate si colora di ambra scura. Soffia sul the, indagatrice “Cera per capelli, e deodorante che non compreresti mai...” lo guarda, mentre Harry quasi si ustiona per la fretta di bere e nascondere l'espressione leggermente estatica dietro il bordo della tazza con il logo di un hotel grattato via dalla lavastoviglie.
Un dolore lieve alla spina dorsale. Un sorriso morsicato e ingoiato. Le dita dei piedi intorpidite, i polpacci, le anche. Una sfumatura di accento marcato. Un timbro di voce strano, adolescenziale, a tratti un sibilo. Il modo di ridere gettando indietro la testa, con una mano sulla bocca.
Louis Tomlinson di Doncaster, e lo sgabello vicino al suo a Covent Garden, e la sua Corona con lime, e le sue bretelle, e il risvolto dei suoi pantaloni rossi, e l'orinatoio vicino al suo, e la sua maledettissima testiera del letto.
“Allora?”
Harry impreca in silenzio con la lingua ustionata dal the. Butta giù un sorso e inspira, lasciando precipitare la testa contro lo schienale del divano, la coperta patchwork appallottolata contro il fianco, e i piedi nudi distesi sul pavimento.
Il cellulare vibra leggermente nella tasca posteriore dei jeans. 
“Potevi anche lasciarmelo il tuo numero, Harry Styles di Holmes Chapel. 
Lou”
Per Harry è impossibile reagire in qualsiasi modo al fatto che quello è veramente il numero di Louis, e l'altro è riuscito davvero a trovare il suo - in un'ora appena – perché sua figlia, e realizzarlo è capace di fargli scorrere un brivido lungo la schiena, si è appena svegliata frantumando con un urlo il muro del suono.
Gemma sospira, ride, lo guarda e ride di nuovo della sua espressione vagamente shockata. Rassegnata, divertita, confusa, leggermente persa.
“Il pianto della mattina è mio...” bofonchia prima di stiracchiarsi e far scrocchiare il collo.
Harry e Gemma, Gemma e Harry.
E Darcy, adesso, uno scoiattolo vestito di rosa con i polmoni di una banshee.







Note: alla fine mi sono lasciato sedurre. E' tutta colpa di Eva Zanker e dei suoi plottaggi folli la notte prima di avvenimenti folli xD
Mi sono lasciato totalmente rapire, e questo è il risultato.
Li amo, comunque, Lou, Hazza, Gemma e pure Darcy, anche se io i bambini li odio visceralmente, specialmente se neonati.
Ma dovevo fare un regalo xD
Il banner mi è stato donato da Eva, ed è bellissimo, e io lo amo, quindi lo metterò OVUNQUE in ogni capitolo ahahaha
E niente, fatemi sapere insommaXD

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Capitolo 2
*** Barbecue, erba tagliata e borotalco. ***


Barbecue, erba tagliata e borotalco.

 


Alice: How long is forever?
 White Rabbit: Sometimes, just one second.
(Alice in Wonderland, Lewis Carroll)
 

 
Eleanor ha dei bei capelli, una sfumatura calda e corposa, densa, e nemmeno la luce grigiastra che si  fa strada a deprimenti gomitate nell'aria viziata del suo ufficio ne smorza i riflessi all'henné sulle punte.
Anche in quelle mattine in cui il telefono squilla dodici volte in mezz'ora, e c'è da approvare il rendiconto delle spese di un mese e mezzo, quei riflessi scuri riescono a confortarlo.
Ha una bella pelle, e un odore gradevole, di appena steso ad asciugare e stirato di fresco.
Completi di alta sartoria, tagliati un po' troppo sopra il ginocchio forse, ma mai abbastanza da lasciar intravedere niente di più di quello che Lou potrebbe semplicemente immaginare. Quel giorno ha virato su una camicetta azzurra e una gonna blu scuro. Semplice e professionale. Come sempre, anche alle sei del mattino, quando riceve strane telefonate da parte sua per rintracciare un  certo Harry Styles di Holmes Chapel, che vive a Londra, e fa il fotografo, ma prima ha fatto il panettiere, e forse domani potrebbe inventarsi cabarettista. O rock star. 
Aveva un completo simile a quello, un anno prima, quando l'ortopedico ha cassato definitivamente la sua cartella clinica.
“Niente da fare” ha detto “mi dispiace davvero, ma il suo ginocchio non regge più”. 
E basta. Lapidario e professionale come un becchino.
Lei è stata brava a gestire quella crisi, come mille altre. Un capo con la fastidiosa abitudine di comportarsi da primadonna bipolare, e una manica di coglioni per colleghi.
È grande con le pantomime diplomatiche – lei – e non importa quante ore corra da una parte all'altra dell'ufficio, o quante telefonate debba intercettare prima che arrivino al numero privato di Louis interrompendo bruscamente rodati rituali di the ad ogni ora del giorno e della notte, non suda mai. 
Nemmeno nelle uniche due deludenti volte in cui hanno fatto sesso, una in ufficio e l'altra a casa di Lou, dopo una cena di lavoro al giapponese e una vertiginosa quantità di sake. 
Ma d'altra parte, in certe situazioni, il sesso è qualcosa di accessorio, estremamente sopravvalutato e teso. E lei è piacevole: un buon odore e una conversazione stimolante, interessi multiformi e un sorriso aperto e disponibile, anche a dare indicazioni nel suo francese un po' stentato.
Louis non ha mai pensato a Eleanor come a qualcuno per cui scusarsi e andare in bagno a smaltire una vistosa erezione, ma riesce a parlare di qualcosa che non sia la sua carriera fottuta e i suoi progetti confusi descritti a sbuffi e imprecazioni dietro una nuvola di fumo di sigaretta al mentolo.
E forse si dovrebbe rispolverare la cara vecchia conversazione fra adulti consenzienti, anziché scorrere a sfilarsi le mutande ogni quarto d'ora.
Però c'è da dire che ci sono giorni in cui è difficile restare concentrati, perché la piega dei pantaloni sfrega contro i graffi sulle cosce, e ogni movimento brusco è una fitta di dolore a qualche muscolo. Louis ha sempre provato un piacere un po' masochistico nell'assaporare i dolori del sesso. Una strana mania da voyeur e una sfumatura di soddisfazione quasi ginnica nel riconoscere negli scricchiolii e le fitte lancinanti nient'altro che movimenti e morsi.
E Harry Styles ha sicuramente la mano pesante nell'autografare le sue opere. 
Quell'impronta di incisivi sulla sua natica sinistra brucia ancora dopo tre giorni.
Ecco, forse è uno di quei momenti in cui sarebbe per lo meno opportuno scusarsi con Eleanor e smorzare sul nascere quel principio di erezione.
“Lou” lei non sembra avere bisogno di scuse per intercettare la carica di pensieri poco ortodossi filtrati attraverso il suo sguardo.
Non ha mai imparato a mentire con gli occhi, Louis Tomlinson. Sa sorridere e dissimulare, e deviare, e infiltrarsi fra le bugie come un veterano di guerra, ma i suoi occhi restano fermi sulla verità, anche quando la sua lingua srotola finzione.
“Siamo in rosso, facciamo schifo, dobbiamo pagare gli stagisti” Eleanor inarca un sopracciglio appena depilato da qualche pazza thailandese con le unghie affilate, e sbuffa
“Harry Styles, il tizio che mi hai chiesto di stalkerare. Ho il suo indirizzo” fa scivolare un biglietto da visita sulla scrivania incasinata, straripante di fogli evidenziati e un paio di riviste di vela aperte sull'oroscopo. “Ha una pagina su Facebook, una mia amica ha messo mi piace e l'ho contattata. Ha fatto le foto al suo pacchianissimo matrimonio tre mesi fa. Credo di aver capito che ha la camera oscura in garage o qualcosa di simile. Lei c'è stata per vedere le foto e ha scritto il suo indirizzo dietro il biglietto” scrolla le spalle, facendo scorrere l'indice sul bordo del foglio ripiegato. Louis osserva inebetito il rettangolo di carta, l'inchiostro nero marchiato a fuoco in un carattere un po' troppo originale, e quelle poche parole scritte frettolosamente a penna.
“Quanto hai detto che ti pago?” lei ride, riavviandosi i capelli dietro l'orecchio
“Poco” 
Louis si rigira il biglietto fra le mani. Non è esattamente da sfigati imperdonabili quello che ha appena fatto, ma sicuramente è da top 10. Anche top 3. 
Chissenefrega. La mia chiappa destra è ancora troppo intatta.


***

Zayn con il cappello di carta in testa è preoccupante. 
In senso positivo. Ma anche un po' spaventoso. 
È Harry, di solito, quello con l'insana passione per i cappelli, i berretti, le cuffie. Meglio se invernali, caldi, di lana, avvolgenti. I cappelli che premono contro le orecchie e i pensieri, che ammutoliscono tutto per un attimo. 
Quando Darcy è nata, nel panico, le ha comprato un berretto di lana grande tre volte la sua testa. A forma di panda. Aveva gli occhi storti e la lingua viola.
Ma era nel panico.
Era padre. Cazzo. Padre.
E non è nemmeno più abituato a dire “Cazzo”, perché Gemma lo ossessiona con la storia che i bambini imparano e ripetono tutto quello che sentono.
Dopo l'inquietante esperienza del panda, ha cominciato a comprarle un cappello alla settimana. La sua cameretta è tappezzata di sombrero, baschi, orecchie da coniglio e strani cappelli da Rangers australiani che Harry si diverte ad indossare ogni tanto, cullandola per la stanza con quel nervosismo da principiante che non riesce a scacciare, comunque, dopo sei mesi.
E così le pareti sono una strana accozzaglia di decorazioni, foto, poster di band famose che lui ama farle ascoltare al giradischi a volume che sua sorella definisce “illegale”, e impronte. 
Le mani di Harry, le mani di Darcy. Pittura rosa e piccole mani che piano piano crescono, dal battiscopa fino al soffitto, si nascondono dietro i capelli e rispuntano fuori. 
Un'impronta al mese.
L'odore del barbecue filtra attraverso le finestre chiuse. Forse da sotto la porta, chi lo sa. Ma non resta mai fuori, impregna ogni cosa.
Niall è un purista degli hamburger, Liam è sempre in imbarazzo a farsi vedere mentre beve birra, specialmente da Gemma, specialmente quando Darcy ha gli occhi spalancati su di lui e gorgheggia strani versi. 
A Harry piacciono le pannocchie, il mais, e gli strani accostamenti di salse piccanti.
E Zayn è convinto che indossare un cappello da cuoco di carta sia perfettamente nel personaggio. Per essere uno che si spaccia per adulto e serio, moglie con i capelli lilla al seguito, sa impersonare perfettamente l'idiota della festa, con tanto di forchettone e grembiule.
A nessuno di loro piace davvero organizzare barbecue nel giardino microscopico di casa Styles. La carne è sempre cruda, la puzza di fumo ingrigisce la veranda, e viene a piovere quasi sempre. Ma è importante per loro essere lì, ricordare com'era prima delle responsabilità e del lavoro d'ufficio. Prima dei figli e delle mogli. 
Prima di crescere.
Harry non voleva crescere, mai, con i suoi orari improbabili in panetteria e le sue fidanzatine da liceo che gli mandavano cuori blu su WhatsApp. Ora fa ridere, e tremare, anche, pensare che l'unico cuore ad ossessionarlo è quello di Darcy, la notte, quando si sveglia senza sapere perché, e spalanca gli occhi sul soffitto scuro, e pensa che potrebbe fermarsi, essersi già fermato. Potrebbe fermarsi in qualsiasi momento. Di lì ai prossimi settantanni. E quella certezza desolante e spaventosa rende quel suono l'unico suono.
Il solo.
Solo un cuore all'impazzata.
Resistere alla tentazione di poggiarle la mano sulla schiena e accertarsi che respiri.
Sapere di non potercela davvero fare, e sperare di sbagliarsi come mai nella vita.
Gemma si muove fra il fianco di Zayn e il gomito di Niall, agevolmente, con Darcy in braccio che mostra a tutti un paio di tonsille invidiabili in uno sbadiglio che le nasconde tutta la faccia.
Non è perché è una donna, e la natura, e la procreazione, e tutte quelle stronzate a cui Harry non ha mai creduto mezzo secondo, è perché fra lei e Darcy c'è quell'intesa spropositata che solo loro hanno. Un fuggevole comprendersi. È la prima donna della vita di Harry assieme all'ultima. La certezza e il panico.
“L'amazzone sta cedendo” ha uno occhio socchiuso e la bocca arricciata, larga, per niente minuta come quella degli altri bambini. Enorme, come quella di Harry. Anche quando sorride, in quello strano modo da mocciosetta furba, la sua bocca enorme sembra inghiottire anche l'aria. Sono gli occhi, forse, che sembrano verdi anche se ancora non si può sapere per certo, che a tutti ricordano lui. Ma è la sua bocca sproporzionata che non conosce broncio la vera marca Styles della sua faccia rotonda. Sono le fossette che lo imbarazzano, ma che su di lei hanno senso. Sono spazio in più per ridere. E Harry lo strapperebbe al mondo lo spazio per farla sorridere.
“Vado su io” non ha voglia di chiacchiere, quel pomeriggio, Harold Edward Styles di Holmes Chapel. Ancora meno di sei mesi prima, con una neonata in braccio in metropolitana alle quattro di notte, e un borsone pieno di vestiti e pannolini gettati alla rinfusa. Ha meno voglia di parlare di sempre. È un po' la solitudine, un po' il caos, un po' il bisogno e un po' la paura. È Sophia che si fa aprire la bottiglia di birra da Liam solo perché sa che quel semplice gesto lo rassicura, è Perrie che sfida Zayn a far roteare in aria gli hamburger senza lasciare che si sfracellino sul prato, è Niall che flirta con Gemma con quel suo accento irlandese mai del tutto smaltito, e quel sorriso da ragazzino cotto a puntino che la fa ridere, e forse un po' le piace.
Darcy piange un po', in un verso che è sempre uno sbadiglio. Stringe nei pugni la sua t-shirt scolorita degli Stones, affascinata dalla decalcomania sbiadita ma dai colori accesi. Batte le palpebre lentamente, ipnotizzata dalla lingua fucsia di Jagger.
“Poteva essere tuo nonno” ridacchia salendo le scale, ripensando agli strani intrecci di somiglianze.
Forse è egoistico, ma non ha voglia di farla addormentare. È divertente sveglia, con la testa che ciondola e la bocca che mastica il vuoto. Scoppierà a piangere, ad un certo punto, e anche quello sarà bello.
È una lingua che Harry conosce, il pianto. Nella risata si trovano, ma nelle lacrime si capiscono davvero. 
Non vuole proteggerla da quelle, non davvero.
Ha sempre pensato ci fosse qualcosa di davvero bello nell'onestà del pianto. Qualcosa di giusto.
Vorrebbe piangere anche adesso Harry Styles, ma Darcy gli ha appena lasciato cadere la testa contro il petto, un rivolo di bava che impregna la stoffa e le mani ancora aggrappate alla lingua di Mick Jagger.

***

Non è il momento giusto per irrompere in casa sua.
Lo ha ripetuto a se stesso per tutto il tragitto fin lì. In macchina, a piedi, nel vialetto, sul prato.
Mentre le sue scarpe di tela senza calzini sfregavano impunemente contro l'erba tagliata di fresco, Louis William Tomlinson sapeva di andare incontro al disastro.
Correre incontro al disastro.
Tastare, stringere, ingoiare il disastro.
Un barbecue. 
Come volevasi dimostrare, disastro.
Louis è a disagio nei sobborghi. Nel silenzio rotto solo dalle macchine che ingranano a malapena la prima, dalle urla dei ragazzini, e dal cigolio del dondolo sulle verande. Il suo appartamento a Londra è un attico, un silenzioso attico sul tetto della città che smorza i rumori ma sa anche accoglierli. 
È il caos che cerca, il silenzio che può trovare, la pace se lo chiede, confusione quando lo decide.
Gli piace il caos, gli ricorda le urla sul campo, allo stadio, in strada. Gli autografi, le feste dove poter saltare la fila, gli occhiali da sole a specchio per mascherare le occhiaie e i pensieri amari.
Gli piace spegnere il caos quando vuole, quando è il momento, quando le grida diventano troppe, le dita fanno male a forza di stringere la penna, e la partita è finita. Ascoltare solo il sudore precipitare dalla fronte al petto sotto la doccia, e i pensieri premere contro le tempie.
Una donna bionda cammina verso di lui sul prato, pestando i piedi in un paio di sandali aperti sulle dita smaltate di amaranto
“Scusa, ci ho messo sei mesi a convincere quella testa di cavolo di mio fratello a tagliare il prato, quindi spero non sia troppo disturbo per te” lo osserva, squadrando i suoi pantaloni blu acceso con il risvolto e le bretelle in coordinato, arricciando il naso “chiunque tu sia, togliere le tue bellissime scarpe da vela dal mio giardino” Louis sorride, in quel modo da riflettori, catturando la luce giusta del sole che ormai è quasi coperto dai tetti. Il modo falso che ha imparato a tracciare fra le labbra e i denti, ma che non sa colorare gli occhi.
“Scusami. Sono Louis. Cerco Harry Styles di Holmes Chapel. Mi hanno detto che vive qui. Devo offrirgli un lavoro” qualcosa dentro gli solletica il fondo della gola allo sguardo leggermente sorpreso di lei. È una tosta, ma a lui le tibie rotte e i paparazzi hanno insegnato quasi a camminare. Di certo a raccontare palle.
“Holmes Chapel uh? Hai un sacco di informazioni per essere uno che ancora non ha capito l'uso corretto dei vialetti nei giardini altrui...” ma sorride. In modo vagamente minaccioso, ma sorride. Una bella tonalità di biondo, delicata, polsi piccoli, caviglie sottili. Alta. Sicuramente prevaricatrice ma affidabile. Belle labbra. Su un uomo sembrerebbero femminili.
Su un uomo, effettivamente lo sembrano.
“Un lavoro tipo?” 
Ciao, tu devi essere la famosa Gemma che lo avrebbe ucciso lentamente e accuratamente.
“Tipo un gran lavoro del ca-” pausa “-volo”. Lei incrocia le braccia al petto
“Mhn, vedremo” si lascia sfuggire una mezza risata calpestando la sua adoratissima erba appena tagliata per fargli strada “Siamo nel mezzo di una festa, ma non farci troppo caso, ce ne sarà un'altra la prossima settimana” agita la mano in aria per sottolineare il concetto “Niall, piantala di ossessionare Zayn, o non mangeremo mai più” un tipo biondo con una voce gorgogliante e un accento irlandese appena masticato fra le parole sta blaterando qualcosa ad un ragazzo dalla carnagione olivastra e grandi occhi pensierosi. 
Lunghe ciglia, belle labbra. Scopabilissimo. 
Fuori c'è ancora un po' di luce, ma la casa è in penombra. 
Odora di barbecue, cannella e vaniglia.
Detersivo per piatti e deodorante per ambienti.
Omogeneizzati. Latte in polvere. Borotalco.
Gemma lo guida fino alla scala di legno con la ringhiera rosa confetto che porta al piano di sopra.
“Prima porta a destra. Non fare troppo casino”
Prima che Louis abbia il tempo di chiedersi perché lei non avverta come minimo suo fratello che un estraneo lo sta cercando, i suoi sandali aperti e il suo smalto color amaranto sono già scomparsi sulla veranda.
Inspira, sale sul primo gradino, e percorre tutta la scalinata, una mano che scivola velocemente sulla ringhiera, e la testa altrove.
Una porta rosa. Decorazioni, adesivi. Cinque lettere di legno dipinto inchiodate alla porta e un nome.
Darcy. 
Elefanti azzurri e strani animali tappezzano il legno.
Bussa una volta. Silenzio. Un'altra.
L'asse cigola sui cardini, solo leggermente, ma abbastanza perché il respiro di Lou segua uno strano percorso fra la giugulare e i polmoni.
Una luce diversa, più calda, più scura, più profumata, taglia in due la stanza rivestita di gommapiuma e pupazzi di peluche.
Harry, con una maglietta macchiata degli Stones, addormentato su un divano.
E lei. La lei degli elefantini, del borotalco, della vaniglia e degli omogeneizzati.
La lei del profumo di crema e avena.
La lei del latte in polvere.
Lei, i suoi pugni stretti contro la stoffa, la testa con pochi capelli rossicci abbandonata sulla spalla di Harry Styles di Holmes Chapel.
Lentiggini, lunghe ciglia, bava. Piccole mani, bocca grande, un po' come lui, come Gemma, forse come tutti loro. 
Una strana tristezza, qualcosa di morbido lungo l'esofago. 
E Louis riesce solo a restare fermo in mezzo alla stanza, a guardarli in silenzio. Vorrebbe uscire, e basta, richiudere la porta cosparsa di elefanti azzurri e nuvolette di tulle, e dimenticare di essere stato lì. Dimenticare l'odore del barbecue, della vaniglia e del borotalco.
Di Harry Styles che quell'odore lo indossa senza accorgersene.
Dovrebbe andarsene, semplicemente, ma invece si schiarisce la voce.
“Non ci si annoia mai con te, Harold Edward Styles di Holmes Chapel” l'altro socchiude gli occhi ancora confuso, la bambina che sobbalza, si sveglia, piagnucola, si aggrappa.
I suoi occhi sembrano neri nella penombra. Non sa se sorridere o spalancare la bocca per la sorpresa. Decide che lei ha la precedenza, ovviamente. Se la sistema in braccio senza nemmeno accorgersi di quanto sembri facile visto da fuori. La solleva, la appoggia nel lettino di legno chiaro, e le lascia l'indice sospeso sulla guancia per un secondo.
Aveva qualcuno da cui tornare, Lou lo sapeva. Ma una bambina, una neonata. Quasi avrebbe sperato in una moglie. 
L'altro lo guarda in tralice, i riccioli incasinati sulla fronte e le guance. Non sorride, ma non è nemmeno serio. Aspetta, cosa non si sa.
E Louis sa che tocca a lui rompere quel silenzio inebetito e imbarazzato.
“E lei?” sorride, si avvicina al lettino ma non si appoggia. Una lontananza che è rispetto e qualcos'altro. È anche un po' terrore, e un po' timore di sfiorare qualcosa che poi vorrebbe stringere.
"Lei è mia" sorride "mia, tipo solo mia..." il modo in cui lo dice, un suono basso, gutturale, protettivo, terrorizzato e fin troppo coraggioso, è come uno sbadiglio sospeso all'infinito. Un enorme sospiro.
Come precipitare senza mai toccare terra.
Se l'infinita incertezza della caduta avesse un suono, sarebbe la voce di Harry Styles.










Note: anche qui siamo arrivati^^ Sto procedendo spedito con loro, perchè li amo. Amo questa cosa e Eva Zanker che me l'ha richiesta. Libera un po' la mente e il cuore, e io ne ho veramente bisogno <3
Non ho nulla da dire, se non che mi piacerebbe davvero sapere cosa ne pensate.
Un bacio e un grazie alle meravigliose persone che l'hanno letta, seguita, piaciuta, recensita e anche solo apprezzata un pochetto. Siete preziosi, tutti. Veramente.

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Capitolo 3
*** Mela, panico e the caldo. ***


A Harry, e i suoi tweet che ridanno speranza.
A Joni Mitchell e le sue canzoni appassionatamente Larry.
A "We don't need no piece of paper from the City Hall", da ricordare
sempre, anche quando pure i sassi decantano Eleounor in ogni dove.




Mela, panico e the caldo.



He's the warmest chord 
I ever heard
Play that warm chord, 
play and stay baby 
(My Old Man, Joni Mitchell)


La veranda è quasi completamente buia. La notte, nei sobborghi, annoia Louis più del giorno. Nessuno urla, nessuna tv a volume illegale sintonizzata su quella gran cazzata di X Factor popolata di boy band di adolescenti da massacrare a randellate, nessuna coppia del piano di sotto che urla in preda ad un raptus di follia orgasmica ogni singolo minuto di ogni singola scopata. Nessun thailandese sotto casa, nessun supermercato pakistano aperto ventiquattr'ore su ventiquattro, nessuna rissa fra ubriachi. 
Nessuna prostituta dall'accento est europeo che sbatte le portiere sbraitando e brandendo scarpe col tacco a spillo come armi improprie.
Solo Harry Styles di Holmes Chapel che fa dondolare i piedi a ritmo di una canzone che esiste solo nella sua testa, e gli anelli alle sue dita che si sfiorano musicalmente quando si muove, e le sue lunghe collane che sbattono contro il petto ritmicamente. E le voci dei suoi amici raggomitolati sotto coperte patchwork sbrindellate su sedie sdraio traballanti, bevendo birre nemmeno troppo fresche.
Lou riesce solo a giocherellare con il cellulare che vibra a intermittenza fra telefonate di Eleanor e mail dei soci. E deve concentrarsi, seriamente, nel tenere le mani occupate su qualcosa che non sia il muscolo in tensione della sua coscia sotto i jeans sdruciti.
O la clavicola che sporge dalla sua maglietta.
O qualcos'altro, che sarebbe molto meno ortodosso toccare, e molto più divertente. Specialmente perché - e questo Louis lo percepisce nell'aria umida di quella serata nuvolosa – Harry sta pensando esattamente lo stesso dei suoi pantaloni di cotone blu che aderiscono sfrontatamente all'inguine.
Una veranda buia, qualsiasi posto immerso nella semioscurità, a dire la verità, è un luogo da evitare se si punta a tenersi addosso i vestiti.
Louis Tomlinson è arrivato a Richmond con il preciso intento di sconvolgerlo. Da primadonna viziata, da intrattenitore della domenica sera. Da calciatore fallito con troppe viti nella rotula che scampanellano come radar impazziti ogni fottuta volta che passa sotto un metal detector.
Ha scelto con cura gli abiti, la cera per capelli e il deodorante. Anche il bagnoschiuma, preparando sotto la doccia la sua entrata trionfale nella vita di Harry Styles di Holmes Chapel. Ha immaginato il suo appartamento spigoloso e cosparso di oggetti, di qualcosa che spiegasse i suoi tatuaggi, che gli raccontasse la sua storia. Le sue allergie, le sue fobie, le sue manie. E invece ha trovato una villetta a schiera con tanto di giardino invaso di amici, birra e salsa barbecue, una casa tirata a lucido, una sorella autoritariamente tenera, e una bambina di sei mesi che sbavava sulla sua maglietta degli Stones.
Eppure Harry Styles resta in silenzio a giocherellare con i suoi ciondoli e i suoi anelli, a sfregare le mani sudate sui jeans e a fissare a intermittenza punti imprecisati nel prato buio di fronte a loro. Ogni tanto qualche disperata zanzara sbatte contro la grata del neon e precipita lì accanto.
Uno dei tizi del barbecue canticchia Barbie Girl, e gli altri si aggiungono ad un coretto ridacchiante ma piuttosto intonato, con tanto di tifoseria finale e applausi.
Lui li guarda, anche se non può vederli, e sorride. In quel modo triste e troppo intenso che a Louis fa paura riuscire già a riconoscere.
“Quindi il tuo, ehm, entusiasmo dell'altra sera era un episodio sporadico” probabilmente esistono sei milioni e mezzo di modi per porre una domanda simile a qualcuno. Louis Tomlinson ha scelto il più criptico, sarcastico, confuso e ambiguo che la sua mente vorticosa e appannata riuscisse a formulare.
Harry ride, sorride, torna serio, e sorride di nuovo; quasi indeciso se sentirsi offeso, lusingato, o intimidito.
“Se per sporadico intendi che casualmente sono finito nudo nel tuo letto a compromettere definitivamente la mia elasticità muscolare, allora direi di no. Non è per niente sporadico, e per niente casuale” si passa una mano fra i capelli in un gesto automatico che sembra rassicurarlo. Nasconde gli occhi per un secondo, e forse riesce a prendere il respiro. Forse ha solo bisogno di sentire che qualcosa di uguale a prima esiste ancora, anche se sono i suoi disordinati capelli ricci che odorano vagamente di mela. Poi si volta, uno strano sorriso inclinato che gocciola della stessa malizia di qualche sera prima, quando ha mosso un passo verso di lui scavalcando un orinatoio, e gli ha letteralmente leccato via il lobo dell'orecchio.
“E tu? Giocherai la carta della vodka, e farai finta di essere venuto qui per chiedermi un lavoro, oppure...” si lascia cedere sul pavimento, sorreggendosi sui gomiti e allungando le gambe, in un scricchiolio di vertebre e spalle un po' curve sotto la maglietta rovinata. Lentamente, con un occhio socchiuso e l'altro fisso su di lui. Sempre furbo, sempre più sveglio, sempre più calmo.
Louis è arrivato in quel prato con la precisa intenzione di far danzare Harold Edward Styles di Holmes Chapel sul filo di un rasoio tesissimo, fra l'incertezza e l'eccitazione, lasciarlo sospeso, affascinato, in attesa. 
Farlo tremare.
E invece si ritrova mezzo sdraiato sul pavimento polveroso e sporco di terra di una veranda di Richmond, cercando a tentoni la sua bocca, la sua gola, i passanti dei suoi jeans strappati, i suoi capelli ricci che sanno di mela.
Non avrebbe mai immaginato che potesse lasciarsi semplicemente andare, senza l'ultima parola, senza agguantare il punto, senza fare il prezioso. Senza strane guerre di posizione in cui rivangare per anni chi dei due ha fatto la prima mossa.
Solo combaciare per qualche secondo, poterlo sondare un po' di più, sentirsi quel tanto che basta per ricordare com'era avere la pelle sui tendini e i polmoni sotto il cuore. Non è romantico e smielato, sotto la luce della luna, divertente, o soddisfacente. Non c'è l'atmosfera, la luce giusta, il giusto climax. È solo rotolare sulle assi di una veranda, senza respiro, incastrati nelle asole dei bottoni e nei cinturini degli orologi, nel buio, nella nebbia e nel freddo umido che penetra sotto i vestiti leggeri.
Intenso, più vero, più colorato, più reale. Disagiato e scomodo. 
Un sapore nuovo.
Harry si libera da quell'intreccio di arti e indumenti solo per ridere. 
“Oppure no...” soffia sulla sua bocca, un sorriso vagamente soddisfatto e infantile, un respiro appena.
Lou intreccia l'indice e il medio fra gli anellini della sua collana, un tintinnio allegro ma un po' stonato.
“Quanto tempo hai prima della poppata, paparino?” per certi versi è impertinente, sardonico, fastidioso, irritante. Sa essere così brusco da ferire la carne, e altrettanto scivoloso.
Louis lo sa questo, sa perché le persone, alla fine, si arrendono.
È il suo senso dell'umorismo troppo ruvido, la sua voce troppo squillante, sono le sue manie di protagonismo, il suo disordine, la sua pigrizia.
Ma Harry Styles non sembra il genere di persona a cui chiedere scusa per questo.
Lo fissa, seriamente. Solennemente, quasi. Così intenso da farlo sentire per un attimo in difetto. Non tanto da pesarlo e misurarlo, non tanto da trovarlo mancante.
Ma sembra comunque che riesca a vedere quanta paura adolescenziale si nasconde nel suo sorriso studiato, quanta voglia, macchiata di incredulità e terrore, tremi nel suo sarcasmo.
Forse si impara a stare zitti e ascoltare altro, quando tuo figlio comunica a versi sconclusionati. Forse è la vibrazione che conta, l'intensità, la frequenza, la vicinanza, il contatto.
Forse l'altro lo sta ascoltando come si ascolta un neonato senza parole, che piange, urla e si dimena solo per tenerlo vicino. Per stringere le dita attorno alla sua collana un secondo di più, per sentire le ossa e i muscoli, il fiato.
Lo fissa serio, ma alla fine sorride, con quelle labbra che inghiottono tutto, quelle fossette profonde che danno al suo viso l'aria smarrita e fragile di un ragazzino inesperto.
Niente di più ingannevole, miope, stupido.
Non è per niente giovane Harry Styles di Holmes Chapel, talvolta è vecchio, così vecchio che qualcosa si spegne dietro le palpebre, e resta freddo. Ma mai troppo a lungo.
Non come Lou, che si svuota ogni sera su un pavimento qualsiasi, a carponi, trascinandosi dietro una reputazione traballante e un'identità confusa. Una sessualità ghiacciata, una giovinezza sfumata e lasciata scorrere via.
Non ricorda più come sia essere giovane davvero, non nei sorrisi, nelle risate squillanti, negli accenti marcati. Ma di quella giovinezza che scorre negli occhi, anche, e non solo sulla bocca.
E quella piccola giovinezza accentua le fossette sulle guance dell'altro, mentre risponde
“Abbastanza”.

***

E' un casino. Non l'aveva notato l'altra volta. I calzini, le magliette, le giacche, i jeans. Tutto arrotolato, appallottolato, appoggiato a caso su sedie e lampade a muro. Fotografie, coppe di chissà cosa, medaglie di tornei di beneficenza. Magliette autografate abbandonate sui mobili anziché affisse in qualche “bacheca dei successi” o cose del genere. Sembra che qualcosa manchi, qui e là. Pezzi di storia, pezzi di vita. Mesi interi, forse anni.
Se ne accorge dai suoi capelli sempre diversi, dalla magrezza del suo viso da una foto all'altra, dai vestiti più sobri, dai sorrisi più opachi. Dalle persone, che prima erano sempre le stesse e poi sono diventate sconosciuti.
C'è un ragazza bruna e carina che talvolta gli si avvicina sperando di trovare quel contatto, di afferrare il momento per toccarlo, per sentirlo. Si vedono le sue punte tendersi, anche se la foto non le inquadra. È solo una sensazione piccola contro lo sterno di Harry, ma chiara.
Sembra che tutti vogliano un pezzo di lui, anche se Louis Tomlinson sorride come uno che di sé ha perso tutto per strada, senza quasi accorgersene.
Gironzola per la stanza, la finestra socchiusa che lascia entrare l'aria umida di un qualsiasi notte di estate londinese, e insieme gli odori e i rumori del caos.
Un caos che quasi piace ad Harry, in mano una maglietta del Real Madrid autografata da Beckam, l'unica in disparte, l'unica a cui Louis sembra tenere davvero, il fresco sulla pelle nuda. La confusione di doversi gettare fra i vestiti per trovarne due che possano stare bene insieme.
Forse è per questo che se ne va in giro con quegli strani accostamenti di colori.
Forse è per questo che sfida il mondo a fargli notare le bretelle, le magliette a righe, le giacche con quelle decorazioni improbabili.
Forse non ce la fa a restare nascosto, anonimo tra la folla, a lasciarsi camminare addosso dalla gente senza nemmeno firmare un autografo, senza quelle foto scattate con il cellulare, senza i sorrisi un po' tirati o le smorfie, quelle vere, quelle che dicono sempre qualcosa. Che non si vuole sorridere più, per esempio. 
Non ci sta, Louis Tomlinson, ad essere dimenticato.
“Potresti piantarla di psicanalizzarmi e chiedere, Harry Styles di Holmes Chapel” Harry solleva le braccia e le lascia cadere
“Tutta questa conversazione. Che palle” ride, lo assapora sulla bocca, sul palato, fra i timpani, nella testa. Una parolaccia, una fottuta, cazzutissima e maledettissima parolaccia detta ad alta voce.
Che bellezza.
“Che palle. PALLE. Cazzo, mi mancava dire cazzo.”
Louis si accorge della sua espressione, e solleva a malapena un sopracciglio.
“Cristo se sei represso” lui scrolla le spalle
“Cristo se te la tiri” si lascia cadere sul materasso, rimbalzando un paio di volte.
“Hei” Louis sembra uno incasinato, ma magari ci tiene alle sue doghe in legno di faggio fatte arrivare direttamente dalla Foresta Amazzonica.
E Harry vorrebbe davvero ribattere qualcosa di arguto e pungente, qualcosa che lo faccia sorridere davvero, ma l'altro si fa serio, quasi scuro, e fa scorrere l'indice sul suo sopracciglio sinistro. Poi il medio e il pollice, e lascia scivolare le dita sulla fronte, le tempie, la nuca. Fra i ricci, spettinati e leggermente sudati dopo il sesso. 
È qualcosa di diverso, di così intimo che quasi lo fa schizzare indietro sul materasso per ripararsi da quell'attimo sospeso. Le sue mani lo hanno toccato per ore intere, ovunque, ma non così. Il sesso è personale, a tratti, intimo, a volte, ma quell'intimità è diversa. È toccarsi senza un motivo, non nel mezzo di una strana e disordinata danza di accoppiamento. Non è per trovare piacere, né per offrirlo. È cercare qualcosa. Sondare, sprofondare. È contatto, e basta. E vuol dire solo che prima Louis Tomlinson poteva restare solo, così, separato, intero. E adesso no. Adesso ci sono i suoi capelli e le sue dita, la sua nuca, la sua spalla e lo sterno di lui. Non deve diventare nient'altro che quello. Ammettere di volerlo trovare anche senza motivo. Solo per sentirlo.
Harry riesce solo a guardarlo dal basso chiudere gli occhi e inspirare. Espirare pesantemente, frustrato e nervoso. Poi cauto. Poi gelido, immobile, terrorizzato.
E alla fine solo calmo.
“Sanno di mela” Harry sorride, e pensa che dev'essere strano vedere la sua bocca enorme distendersi, da quell'angolazione. Si chiede che forma abbiano le sue fossette, che inclinazione il suo labbro superiore.
Si chiede se hanno senso tutti quei tatuaggi sul braccio di Lou. Perché li ha fatti. Per dire cosa. Per raccontarsi a chi. Cosa c'è della sua vita in quell'inchiostro di china, in quel tratto delicato. Se gli piace davvero il the, o lo skateboard. Se ha davvero smarrito la rotta, se  tutto è davvero quello che è. Se quel nodo si è strappato, o se lui lo ha reciso.
Harry pensa alla sua gabbia aperta, al suo veliero, alle mani intrecciate. Pensa al dolore pungente e il sorriso all'endorfina riflesso nello specchio del salone per tatuaggi.
Pensa che se fosse stato sobrio, probabilmente, metà non sarebbero lì.
E pensa che c'era un motivo se era sbronzo, e da ubriaco li ha fatti. Proprio quelli.
Vorrebbe chiedergli tutto, ma sarebbe come violarlo. Entrare nel suo cervello, nella sua storia.
Allora lo sfiora, il suo polso, le virgolette mute tatuate fra le vene blu. Che custodiscano anche lui, un po', solo qualcosa, anche in silenzio.
Un cellulare vibra. È un suono spaventoso in quel mutismo frusciante di lenzuola e di contatti.
“E' il tuo” Louis sorride di sbieco “il mio suona” 
“Se è l'inno del Manchester United invoco la castrazione chimica” l'altro ride, di quella tonalità quasi troppo intensa per essere adeguatamente metabolizzata dall'orecchio umano.
Ma è un bel suono.
Harry si alza, un po' barcollando un po' saltellando, e armeggia con i jeans appallottolati e i calzini intrappolati. Le tasche rigirate, le sterline che precipitano tintinnando sul parquet, e quella vibrazione intensa e ripetuta che piano piano gli spinge il panico in gola. Nessuno lascerebbe squillare così tanto un cellulare, alle due di notte, per niente.
Gemma.
“Hei, lo so son-”
“E' meglio se vieni qui...” non è agitata tipo la-casa-sta-andando-a-fuoco, ma comunque respira troppo velocemente. O troppo lentamente.
“Gem-”
“E' Darcy. Non è niente di grave, però non-”
“Arrivo” non sa nemmeno perché non ha chiesto, non ha lasciato che sua sorella lo rassicurasse, o lo terrorizzasse definitivamente. Ovviamente non ha ragionato nemmeno mezzo secondo.
Forse ha avuto un'altra crisi d'asma. O forse è caduta, ha sbattuto, ha ingoiato la zampa del coniglio rosa mentre dormiva. Doveva pensarci a quel cazzo di coniglio. Troppi peli, cuciture troppo sottili. Armi improprie trasformate in giocattoli assassini.
O magari è quell'irritazione da pannolino del cazzo che viene fuori quando fa caldo.
Magari è peggio. Magari non si sa nemmeno perché piange.
Harry infila i jeans senza sistemare le tasche. Non gliene frega dei boxer incastrati in una gamba, di una calza appallottolata da qualche parte, o della maglietta che ha infilato sotto l'ascella girovagando per la stanza alla ricerca del mazzo di chiavi di casa.
Louis ha trascorso l'ultimo minuto ad osservarlo in silenzio, il gomito appoggiato al cuscino e il mento sulla mano.
Forse vorrebbe fulminarlo con una battuta sarcastica, con una delle sue uscite monumentali da gran conoscitore dell'animo umano, ma in realtà gli riesce solo di sussurrare un vago
“Scappi?” che forse è tutto quello che vuole dire.
Harry non si volta, litiga con le scarpe, rinuncia ad indossarle. Abbraccia nervosamente i vestiti
“Sono un cazzone. Io non la posso fare questa vita” afferra le chiavi da terra ed esce scalzo, uno stivale legato al passante della cintura e l'altro ammonticchiato sulla biancheria. Biascica un veloce “Scusa” prima di correre verso l'ascensore.
Solo quando si trova con una calza e un piede nudo sul marciapiede, si accorge di essere arrivato lì con la macchina di Lou.
“Sei uno che ci crede davvero, Harry Styles di Holmes Chapel, se pensi di trovare un taxi alle due di notte di sabato sera a Londra” ha infilato una maglietta autografata di qualche tizio che Harry non conosce, e un paio di pantaloni di raso nero. 
È forse l'accostamento più improbabile della sua intera vita, ma Louis Tomlinson ha pescato a caso un paio di vestiti per poter essere lì, e Harry può solo restare zitto, con la bocca leggermente spalancata, ed essergli grato.
Il tragitto è un puzzle di silenzi nervosi e dita di Louis che sfarfallano sull'autoradio in cerca di canzoni decenti. 
Si stufa presto, si irrita, dopo trenta secondi è già passato alla prossima. Alla fine resta sintonizzato su uno speciale notturno sugli anticipi della Premier League, assorto. Qualcosa si muove nel suo sguardo, e Harry gli chiederebbe davvero qualcosa, ma non riesce a carburare mezzo pensiero che non sia interamente focalizzato su Darcy.
La veranda è illuminata dal neon antizanzare, che trema e frigge.
Harry sbatte troppo forte la portiera, non si volta a ringraziare Louis, lo guarda a malapena. Scavalca un bidone dell'immondizia rovesciato, evita due sedie sdraio e anche il cadavere di Niall ubriaco sul dondolo della veranda. Non si ferma per svegliarlo, come al solito, e trascinarlo sul divano di casa. 
Non si ferma nemmeno per respirare.
Il pianto di Darcy è l'unico suono. Harry capisce perché Gemma lo ha chiamato. È snervante e desolante. È disperato e letale.
“Hei, scusa se ti ho chiamato, ma non so più cosa fare” Gemma gli sistema Darcy in braccio sfiorandole il naso paonazzo. È pallida e stanca, e sicuramente aver sopportato ore di quelle urla di neonato incazzato non ha disteso i suoi nervi. “Sono di nuovo le coliche” si avvicina al fornello, la teiera pronta.
Harry solleva Darcy e l'appoggia sulla spalla, fra lo sterno e il petto.
Sa che non è il modo giusto, che ci sono esercizi per farle sgonfiare la pancia, e sicuramente ci sono milioni di modi per essere un padre migliore.
Per lui esiste solo una versione a cappella di Isn't She Lovely di Stevie Wonder, con la sua voce un po' roca che non tiene sempre la nota. Ma lo fa vibrare, e vibra anche lei, e sta sempre meglio quando vibra.
Non è una di quelle parole magiche che calmano i bambini come nei film. È una mezz'ora infernale in cui Niall riesce miracolosamente a trascinarsi in casa dalla veranda, e un sorprendentemente imbarazzato Louis si ferma per un paio di secondi fra lo stipite della porta e l'ingresso, finché Gemma, sbuffando, non riempie d'acqua quattro tazze diverse.
Deve cantare a lungo, Harry, prima che il pianto spaccatimpani di sua figlia si calmi abbastanza da non attirare i pipistrelli con gli ultrasuoni.
Ma alla seconda strofa di My Old Man di Joni Mitchell, qualcosa si smuove. Letteralmente.
Louis la canticchia a bocca chiusa, le note alte che nessuno dei due riesce a raggiungere si perdono contro i muri e il soffitto, e le risate di Niall riempiono i vuoti di suoni. 
Darcy si lamenta un po', e alla fine cede con la testa sulla sua spalla, in un verso che è quasi un urlo liberatorio.
Harry scoppia a ridere, avvertendo il peso fra le braccia cambiare, quasi incredulo
“Posso essere contento che mia figlia stia riempiendo il pannolino di me-?”  
Gemma sbatte sul tavolo la tazza con i trifogli irlandesi che le ha portato Niall dall'ultimo Natale in famiglia.
“Harry! Lo sai cosa dicono su-”
“Seh, i bambini assorbono tutto” Harry la fa saltare un po', solo per vedere il suo naso arricciarsi di fastidio, e la bocca torcersi in quello che assomiglia ad un principio di pianto. Ma alla fine ride anche lei anche se di lì a dieci minuti probabilmente odierà il pannolino sporco “Gemma, Cristo Santo, non vedi? È felice. La sua cacca la rende felice. Sii felice per lei!” anche sua sorella cede in una vaga risata, che è insieme uno sbadiglio ed un'espressione di rimprovero.
Niall si alza dal divano per assicurarsi doppio latte e zucchero nel the, e Louis, finalmente, smette di giocherellare con il cellulare e si mette a sedere attorno al tavolo rotondo della cucina.
È inevitabile cercare il suo sguardo. Ed è una sensazione quasi spaventosa pensare di aver bisogno di spezzare e condividere con lui quel momento. Non la semplice allegria, ma l'inspiegabile. 
Routine più o meno quotidiana. Una tazza di the alle tre di notte. Niall, Gemma, Darcy.
Le coliche. Chi diavolo vorrebbe assistere all'esorcismo delle coliche di una neonata il sabato sera?
Probabilmente nemmeno Louis. Per questo è così strano guardarlo in imbarazzo nella sua cucina. Per questo la sua assurda maglietta autografata e i pantaloni di raso gli sembrano così improvvisamente perfetti.
Per questo Gemma non ha aperto bocca.
Per questo Harry si sente così, come se le sue coliche, per un attimo, forse mezz'ora, forse dieci minuti, forse una notte, fossero semplicemente solo qualcosa da lasciare andare.
E Lou lo guarda di rimando, dietro il ciuffo disordinato, dietro il manico di una tazza di the. 
Forse gli piace il the. 
Non ha dovuto nemmeno chiederlo.
Solo scoprirlo.
È sorprendente accorgersi che vorrebbe davvero scoprirlo, alla fine, Louis Tomlinson di Doncaster.





Note: scusate il ritardo, ma ieri è stata una giornata quantomeno delirante, e non volevo pubblicare di tutta fretta questo capitolo che personalmente amo, anche se non si dovrebbe dire :D
Non potevo non dedicare anche solo una citazione iniziale a Harry, Joni, e quel magnifico tweet, perchè a volte io dimentico che sono Larry per un motivo, e per fortuna il nostro Arnoldo me lo ricorda periodicamente essendo il meraviglioso individuo che è.
Quindi dedico questo capitolino a voi Larry, a noi che siamo un po' sfigati ma amiamoci tutti perchè Arnoldo è con noi, e anche Joni Mitchell, e anche Raoul Bova che ha fatto CO alè alè. Son soddisfazioniXD
 

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Capitolo 4
*** Caffè nero, dopobarba e Neutol. ***


Caffè nero, dopobarba e Neutol.


 
But I fear
I have nothing to give
I have so much to lose
here in this lonely place
tangled up in our embrace
there's nothing I'd like
better than to fall.
But I fear 
(Fear, Sarah McLachlan)


Capisci che qualcosa non va nella tua vita quando devi pescare il tuo cellulare che vibra impazzito da sotto un pupazzo a forma di coniglio.
Louis non riesce a pensare ad altro mentre parcheggia davanti all'ufficio, quasi senza guardare. 
Il pneumatico slitta contro il marciapiede.
“Cazzo”
Il cellulare vibra di nuovo.
“Cazzo, cazzo”
E' in ritardo, ancora. Per la terza mattina di fila. Il maledetto traffico del centro.
Non è la stessa cosa da Richmond. 
Non è la stessa cosa Lou. 
Non più, da tre mesi. Da quando ha calpestato il preziosissimo prato di Gemma con le sue scarpe da vela, è sceso dalla macchina nel vialetto di fronte alla buca delle lettere con su scritto Styles con il pennarello indelebile nero. Da quando il maledettissimo Harry Styles di Holmes Chapel ha spinto verso di lui una tazza di the bollente con l'indice della mano libera, mentre con l'altra sorreggeva la sua bambina dai polmoni inarrestabili e il pianto instancabile.
Tre mesi.
Novanta giorni di viavai inconcludente dal suo incasinatissimo appartamento in centro alla villetta a schiena di Richmond che odora sempre di mela, borotalco e latte in polvere.
Non ricorda nemmeno quando ha smesso di trascinare Harry nel suo appartamento, e ha cominciato a prendere semplicemente la strada per andare a casa sua dall'ufficio.
Quando Gemma ha cominciato ad apparecchiare anche per lui, Niall a telefonargli per prendere la birra al supermercato prima di tornare, quando Liam ha lasciato che lo aiutasse a riempire il frigo, o  Zayn gli ha consegnato senza troppe cerimonie il forchettone per girare gli hamburger.
Quando ha cominciato ad unirsi senza riflettere ai coretti ridicoli di qualche canzone pop in falsetto, alle tre di notte, su una sdraio scomoda al limite della decenza, con l'umidità gelida del prato che gli si arrampicava lungo i jeans.
Il sorriso enorme di Harry Styles, appoggiato al suo schienale, e la sua voce un po' roca nell'orecchio, e quella risata assordante dritta contro il timpano, e lo strano prurito dei suoi ricci contro il collo. Il freddo dei suoi anelli stretti attorno alla spalla. Il suo mento appoggiato mai a caso nell'incavo della clavicola.
Strani contatti.
I suoi amici, e la sua famiglia, e le sue stupide abitudini mattutine, i suoi rituali del dopo-sbronza e la salsa piccante ovunque. E il mais. Mais in ogni cosa.
Eleanor gli corre incontro con il massimo grado d'urgenza che i suoi tacchi dodici le permettono sulle piastrelle lucidate. Ha l'espressione tragica delle situazioni che precipitano in fretta, o sono già precipitate, o hanno scavato una voragine nel terreno profonda fino al centro della Terra.
Ha un che di comico, pensa fuggevolmente mentre scaccia dalla mente l'odore dell'erba tagliata e il carbone del barbecue, e semplicemente si fa serio, con quel tocco artificioso e irritante che gli sta così male addosso. Non è più abituato, ora, a fare finta. C'è qualcosa di malato ed elettrizzante nella sua incapacità di dissimulare.
Harry ha riso, due notti prima, nell'osservarlo atteggiarsi da gran conoscitore dell'animo umano, sputando il dentifricio ovunque per non soffocare. Harry ride ogni volta che ci prova, Louis, a mostrarsi inarrivabile, e invincibile, e inattaccabile. Ma la sua risata non significa nient'altro che va bene, che può fare quello che vuole, ma che non serve.
Poi Darcy ha cominciato a piangere, con quella tonalità da ultrasuoni che fa accapponare la pelle sulla spina dorsale, e lui è tornato alla realtà, ad una casa con la gommapiuma sugli spigoli e il disinfettante nella lavatrice, i walkie talkie da una stanza all'altra e Harry che si alza la notte per controllare che lei respiri.
E Louis si è semplicemente accorto di essere troppo egoista per restare.
E troppo cacasotto per andarsene.
E troppo piccolo per rimanere solo.
E troppo ingombrante, tanto da incastrarsi in ogni angolo di quella casa sempre pulita, e i suoi barbecue del sabato pomeriggio.
“Lou. Ci ho provato, te lo giuro, ma sono arrivati così, senza appuntamento, senza-” Eleanor è sull'orlo dell'iperventilazione, ma riesce a guidarlo comunque fra le serpentine ingestibili del corridoio, le porte chiuse e gli ascensori.
“Hei, hei. Sta calma ok? È troppo presto per gli attacchi di panico. Non ho nemmeno fatto colazione” non è esattamente vero. Ma non può dirle che ha bruciato tre toast e si è quasi ustionato con la teiera, prima che Harry friggesse uova e bacon senza smettere di canticchiare a mezza voce i cori da stadio del Manchester United solo per sfotterlo. 
Non può dire a Eleanor un bel niente su quelle persone, quella casa, su quello che lui è diventato. Non vuole nemmeno, a essere onesti, perché non è davvero quella persona. Non del tutto. Perché quelle ombre, quelle idiosincrasie, e le stronzate, sono tutte conficcate nelle ossa, come le viti che lo hanno tirato via a forza dal campo di calcio. Non lascia che tutti le vedano, ma riesce a percepirle sotto la pelle, chiunque, se lo tocca abbastanza a lungo.
E Harry lo ha toccato, davvero, migliaia di volte, troppe volte, e quelle viti le riconosce al tatto. 
È ancora lì, il maledetto Harry Styles di Holmes Chapel, anelli gelidi contro viti gelide. E resta.
Eleanor si blocca davanti alla porta del suo ufficio respirando a velocità inspiegabile per un essere umano, e chiude gli occhi per un attimo.
“Io non lo so cosa vogliono Louis, ma sono qui da mezz'ora, hanno ordinato tre caffè neri senza zucchero e due ciambelle integrali” rotea gli occhi teatralmente Eleanor Calder, l'amante dei frappuccini. Disapprova, semplicemente e senza cerimonie, chiunque prediliga la caffeina, soprattutto se priva di latte, schiuma, panna e zucchero.
Louis sa solo che il panico comincia a scivolargli sotto il completo, fra i muscoli e i tendini, nelle vene. Tre caffè neri e due cornetti integrali.
Non c'è principio di sorpresa nel suo sguardo, quando si richiude la porta alle spalle con un click sommesso e teso.
“Ti sei fatto un bell'ufficio...” Simon sogghigna sempre, come se trovasse divertente ogni cosa. La sua sfortuna, probabilmente.
“Louis, ragazzo, è un piacere vedere che te la cavi sempre bene” l'altro lo osserva con quegli occhi azzurri bonari, ma che nascondono sempre le parole. Forse troppe.
Cheryl è bella, e gli sorride anche con gli occhi, anche da lontano, anche quando è triste. Ci prova sempre a rendere le notizie peggiori meno devastanti, ma a volte fallisce.
Ha fallito con lui, con il suo ginocchio polverizzato, la sua carriera eclissata. 
Tutto.
Ora tutti e tre lo guardano, atteggiati, quasi, nelle espressioni che lui ha cementato nella mente, che a volte ricorda di aver scacciato dagli incubi, quei sogni asimmetrici in cui corre lungo il campo all'infinito, ma senza muoversi, in cui il dolore lo sveglia fra il panico e il sudore, e quella tachicardia di merda che gli appanna la vista.
Simon, Louis e Cheryl, diversamente adagiati su tre sedie girevoli di fronte alla sua scrivania, e l'imbarazzo di saperli a proprio agio nel suo territorio, fra le sue cose, nella sua vita, di nuovo.
“Louis” lei si fa per un attimo seria, ma torna a sorridere mentre Simon la interrompe, mai brusco, ma sempre imponente
“Questo lavoro ti fa schifo” lui non ha quel genere di tatto “e vorrei ben vedere...” non si guarda intorno, lo fissa negli occhi, schietto e sarcastico, la certezza della sua resa stampata fra gli zigomi pronunciati e la linea decisa del naso
“Il Doncaster ha bisogno di te” Louis parla sempre pacatamente, con un po' di melodramma e un po' troppo pathos, ma pacatamente. Quasi a bassa voce, quasi esitando “non solo i tuoi compagni, ma la squadra, il club” Simon sorride mentre l'altro conclude, gravemente “e noi” incrocia le mani
“Siamo nella merda Lou. Sponsor, finanziatori. Facciamo schifo. Ci serve la tua faccia, il tuo nome,   la tua triste storia. Le solite cose” Louis inspira. Realizza. Comprende.
Il Doncaster Rovers. Qualcosa come una casa. Persone come una famiglia.
Il casino degli spogliatoi, l'adrenalina delle partite, le cazzate degli allenamenti, le pause, mai silenziose e mai caute, fra una stagione e l'altra. I viaggi e le parole dette piano su un aereo diretto dall'altra parte del mondo. Altre lingue e altri volti.
Caos. Colore. Odori.
Appartenenza.
Espira.
Simon fa schioccare la lingua, Louis sorride, Cheryl lo fissa un istante, forse amareggiata, forse preoccupata, sempre materna e affettuosa.
Sanno già.
Hanno solo fiutato la sua paura, il suo bisogno di sentirsi indispensabile, di riflettori, di fans, di tifo, di autografi.
I suoi piccoli egoismi quotidiani. L'angoscia di scomparire, o di finire nel trafiletto di qualche giornale scandalistico che redige la classifica dei personaggi più sopravvalutati del decennio.
Il panico di sentirsi al sicuro nei sobborghi, a dividere il letto con un padre single e pupazzi di animali dai colori pastello.
Sanno.
Chissà da quanto.

***

Se Gemma lo sapesse, probabilmente lo ucciderebbe.
La camera oscura non è il posto migliore dove parcheggiare la sua bambina di nove mesi per un pomeriggio intero. Ma è il primo lavoro serio da una vita, e Harry davvero non poteva rimandare ancora.
L'odore di Neutol si appiccica ai vestiti, alla carta immersa nel liquido, ai pensieri.
Mentre immerge le foto da sviluppare nel liquido gli sembra di sentirsi addosso il dopobarba di Lou. È solo un'illusione olfattiva, perché i vestiti sono puliti, e l'altro a malapena gli si avvicina da giorni. Non è stato improvviso. Quasi mai definitivo, ma ha ronzato, sempre più spesso e frequentemente.
L'ha avvertito nell'aria che il suo corpo ha spostato mentre scivolava in bagno dopo di lui, il disastro. 
Louis Tomlinson è sempre stato disastro. Ha significa disastro dal primo momento, a due orinatoi dal suo, con quegli occhi sottili, quelle spalle gracili, quei colori sgargianti.
La sua voce e il suo strano sorriso.  I tatuaggi sulle braccia, sul petto. Il silenzio.
Troppo silenzio.
Anche nel click della serratura, nel ronzare del rasoio elettrico, nello sfregare della pelle del viso sull'asciugamano, Harry ha avvertito la lontananza. La paura, il casino che fanno i pensieri quando non si riesce a fermarli, e sbattono ovunque nella calotta cranica.
Voleva stringerli una manica, un lembo della giacca, circondarlo per un attimo, per respirargli addosso e convincere se stesso di essere solo un paranoico con la sindrome dell'abbandono marcata nel DNA. Ma lo ha solo lasciato andare, perché Darcy doveva fare colazione, e non poteva stargli addosso, non davvero, perché lui ha una figlia di nove mesi e vive con sua sorella, e le persone si stancano, sempre, di Harry Styles.
Anche Melissa, alla fine, tutti.
E loro hanno una figlia insieme.
Ma lei è partita lo stesso, perché di una neonata non voleva occuparsi, e di lui non sapeva che farsene.
Si accorge troppo tardi di aver lasciato la foto immersa nel Neutol troppo a lungo.
Rovinata.
“Cazzo” sibila fra i denti mentre Darcy intavola una conversazione impastata di versi con il suo coniglio rosa. 
Gemma lo sgriderebbe, e forse anche Lou.
Lou.
Scorre lento quel pomeriggio, approssimativo, di movimenti meccanici e testa altrove. Di occhiate di sbieco a sua figlia, che ad un certo punto si addormenta nel box con la testa sulla pancia pelosa del pupazzo. Di dopobarba di Louis incastrato nella pelle e nei presentimenti. Nel disastro.
Alle sei e mezza i fari di un'auto scorrono contro la grata del garage. Non è Gemma, non possono essere i ragazzi.
Può essere solo lui.
Lui, che ci mette una vita a scendere le scale.
Ad aprire la bocca.
Ad emettere un suono.                                                                                                                     Non c'è bisogno di sentirlo per sapere che sta per andarsene.
Forse non ha nemmeno tolto le chiavi dal quadro. Forse è solo venuto a recuperare le sue quattro cazzate dimenticate in giro.
“Ciao” si sforza di dire, allegro, leggero. Un sorriso che non è nemmeno vago, praticamente non esiste.
Louis non sorride nemmeno. Lo guarda, e guarda Darcy, gli incisivi che sfidano il labbro a spaccarsi per quanto lo stringono. Forse lei non era prevista. Mandarlo affanculo con la sua bambina nel box non era previsto.
Deglutisce. Pesantemente, ed è una cosa che non fa mai. Farsi serio, tormentarsi le mani, stropicciare i piedi. Non è da Lou. Lou fa sempre finta di avere la situazione sotto controllo, e quando non ci riesce si comporta da idiota. Divaga e ride, dice cose stupide ad alta voce, e fa finta di niente.
Non ride adesso.
Lo guarda, fisso, gli occhi leggermente dischiusi, grandi e disarmati.
“Torno a Doncaster.” sussurra alla fine, il tono più fermo di quanto Harry si sarebbe aspettato di sentire. Non roco, non basso, senza sensi di colpa. Solo fermo. “Mi hanno offerto il posto di allenatore per la mia squadra. È roba grossa. Grandi cose e-” Harry si sforza di non lasciar cadere la foto di nuovo nel liquido per sviluppare. Si sforza di restare in piedi, e di sorridere. Qualcosa di amaro zoppica in equilibrio nella sua gola, ma cerca di deglutirlo, ingoiarlo e zittirlo. 
“Bello” anche solo biascicarlo gli costa fatica. Anche solo pensarlo. Mentire così tanto non fa per lui. “Sembra” espira “bello” 
Sembra tutta una cazzata invece. Una gran cazzata.
E forse Louis se ne rende conto. Da qualche parte, nelle sottili rughe tracciate con delicatezza attorno ai suoi occhi quando sorride e si morde le labbra, c'è un'amarezza imbarazzata, una tristezza incompleta, una vaga nostalgia.
Si sistema i capelli sulla fronte, in un gesto automatico che sembra soffiargli addosso un po' di sicurezza, quasi un mantra, un momento per chiudere gli occhi e trovare le parole. O la tonalità giusta di silenzio.
“E' una cosa-”
“Grossa, ho capito. Va bene” Harry si volta, cincischia con il cinturino della macchina fotografica, si rigira fra le dita l'obiettivo mobile, riordina le penne e i post it sul tavolo di legno. C'è un'oscurità che non riesce più a trovare confortante. In camera di Darcy, ogni tanto, resta seduto a terra a gambe incrociate, alle cinque del mattino, quando il buio sgomita un po' con il grigio e il verdino dell'alba. Quando fa troppo freddo per uscire dal letto, ma lui ci prova lo stesso. Resta fermo in mezzo alla stanza, sul tappeto rotondo con gli ippopotami viola disegnati, e si lascia svuotare e riempire di nuovo da quell'oscurità incompleta.
La camera oscura era un posto così, prima. Prima che Lou la scegliesse come scenario per un addio senza lacrime e senza parole. 
Prima che si stringesse nelle spalle in un basso “Ok” e si voltasse.
Prima che Darcy allungasse la braccia verso di lui, gli occhi leggermente sbarrati 
“Boo...Boo” 
Trattiene il respiro. Sono solo due mani sporte in avanti, verso la schiena minuta di Lou ad un passo dalla porta del garage. Un passo in equilibrio nella semioscurità. 
Solo quel piccolo suono nel frusciare di vestiti e lo scontrarsi dei respiri.
Boo.
Lou esita un secondo di troppo, si ferma a metà di un passo. Solo uno. Solo un secondo, ma è abbastanza.
Harry riderebbe, se non avesse così paura. Se il panico e la nausea non lo prendessero a calci nello stomaco un secondo dopo l'altro. Riderebbe del suo atteggiarsi a irraggiungibile stronzo, del suo tentativo fallito, della partita impari contro le prime sillabe tremolanti di una bambina.
Non voleva rotolare fuori dalla bocca di Darcy, Louis Tomlinson. Come non voleva essere nella sua vita, non voleva inciampare in lui, e cadere sul suo prato, ingozzarsi di hamburger e salsa piccante, cantare in falsetto stupide canzoni pop e dimenticare il suo dopobarba sulla mensola nel bagno di sopra. 
Non voleva discutere di calcio con Niall, di musica con Liam e di videogiochi con Zayn. 
Non voleva cercarlo nel sonno, inconsciamente, nei suoi incubi di corse inarrestabili su campi senza fine e senza respiro. Non voleva niente, Louis di Doncaster. Non voleva nemmeno Harry.
Eppure non riesce a completare quel passo. Fuori dalla camera oscura, dal muro del suono che lo separa da quel Boo che lei ripete instancabile, offesa, ignorata. Fuori dalla loro veranda sempre sporca di terra, dal loro prato falciato male e la loro cucina che odora di vaniglia e cannella.
Da una vita che non voleva, e che non riesce a lasciare.
Un secondo appena. Un passo a mezz'aria.
“Boo” trattiene il respiro, Louis Tomlinson, per molto più di un passo.
Stringe i pugni in tasca, e forse vorrebbe sapere cosa dire. Senza parole non lo riconosce, Harry, senza suoni. La gola afona e le spalle un po' curve. È Harry quello insicuro, quello che ascolta ogni cosa e lascia che ogni amarezza lo intacchi una volta di troppo.
È lui che cerca conforto in ogni tocco, ogni sillaba e ogni sguardo. Che ha così paura di fallire da rimanere immobile a mezz'aria per giorni interi.
Non Louis. Non lui.
Ma sembra così adesso, in piedi sotto lo stipite della porta aperta, una gomitata di luce che sicuramente friggerà tutte le foto, ma chissenefrega, a tremare in quel calore inaspettato, in quel gelo ancorato alle caviglie, in tutte le voci che sta perdendo, che avverte lontane, sempre più sfocate. I colori e gli odori, le sensazioni. 
Deve scegliere Louis Tomlinson di Doncaster.
Sa che lo sta lasciando andare. Sa che forse dovrebbe dire qualcosa, incazzarsi e gridare. E stringere, forse, da qualche parte. Il collo, il polso, i polmoni, il cuore.
Ma nessuno resta mai davvero. Mai per sempre.
Nemmeno Lou.
Harry solleva Darcy in uno strano abbraccio, che è come cercare quasi stupidamente qualcosa, piuttosto che donarlo.
È affondare il viso per un attimo nell'odore di borotalco e ammorbidente. Ascoltare la pelle di lei, e sapere di avere i piedi a terra, e un battito cardiaco.
“Pa-pa” una mano sul naso, l'altra fra i capelli. Occhi grandi, lentiggini e pochi capelli ricci. Dita innaturalmente lisce che si insinuano senza capire fra i pori della pelle e le piegature delle orecchie.
Si sente sempre stupido, inadeguato, scomodo. 
Ma a lei non importa. Non mentre lo studia, lo sminuzza e lo impara a memoria, con le sue mani troppo piccole, la sua bocca troppo grande, i suoi occhi sgranati e frettolosi.
“Hei” Harry sorride, una vibrazione stanca nella voce che traballa. 
“Pa-pa” solo una parola, mentre la porta del garage scatta di nuovo, lentamente, debolmente, in una nuova oscurità senza conforto. Una luce noiosa e molle, a tratti sferzante. Mai giusta, senza intensità. 
Come se soffrisse.













Note: chiedo scusa per questo capitolo triste e deprimente, ma ci voleva. C'era troppo fluff, troppa allegria, troppe cose belle e troppi momenti felici, ed erano troppo per me, che sono un depresso :)
Quindi niente, perdonatemi per i momenti di scontento, ma un po' di pathos bisogna metterlo da qualche parte aahahahaha
Grazie come sempre a chiunque legga, segua, preferisca, recensisca e qualunque cosa vogliate fare con questa storia :)

 

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Capitolo 5
*** Assenzio, collutorio e vernice. ***


Assenzio, collutorio e vernice.

 


You’ll never know how to make it on your own
And you’ll never show weakness for letting go
I guess it’s still hard if the seed’s sown
But do you really want to be alone? 
(Over Again, One Direction)



Il cellulare squilla per la terza volta.
Ascolta tutta Wasn't Me prima di decidersi ad armeggiare sotto le lattine vuote, le confezioni di cinese e i contenitori vuoti di take away. Forse quella mattina, forse il giorno prima, ha deciso che non avrebbe più risposto al telefono.
È stata solo una stupida decisione impulsiva, ma è quasi confortante ascoltare Shaggy canticchiare, senza un fottutissimo problema al mondo, che non è stato lui.
È confortante nel silenzio, nel crepitio debole dell'alluminio che sfrigola sotto le sue scarpe da vela macchiate di condimento per le fajitas. Guacamole e salsa di fagioli ovunque sul sedile del passeggero, a macchiare la sua preziosa tappezzeria.
Tutto sembra confortante in quella puzza di avanzi e birra secca sui vestiti.
Shaggy ha quasi finito di discolparsi per ogni male del mondo, quando la vibrazione dei messaggi lo interrompe a metà dell'ultimo ritornello.
Inspira.
Lattine di birra vuote, bottiglie di Corona con il lime incastrato che annerisce rapidamente. 
Espira.
Strofina i polpastrelli sui bordi delle confezioni vuote di patatine, il ketchup si appiccica alle nocche, la maionese contro il palmo. Il cellulare sotto il sedile che ancora vibra, insistente e invadente. Confortante.
“E' il terzo volo che perdi Louis. El” 
Prima o poi troverà il modo di prendersi cura di se stesso. Ma non quella sera.
Decisamente non quella sera.
Gli rimbalzano ancora fra le tempie intere nottate. Da qualche parte un locale, da qualche altra la tazza di un water dove vomitare, vodka, rhum, shot raccolti senza mani dallo stomaco di una spogliarellista di Cracovia. Tre arei persi, tre viaggi mancati. Tre messaggi scritti frettolosamente e costellati di errori di battitura e imbarazzanti correzioni del t9. Eleanor ha tentato di telefonargli, di convincerlo.
Quarantotto ore e la prima riunione con lo staff. A malapena tre giorni dal primo allenamento. Un altro Louis Tomlinson. Forse non lo stesso, forse non chi correva e strisciava le ginocchia sul campo come se fosse senza pelle. Forse non il sudore in gola, la terra sulle scarpe con i tacchetti. Forse non il Lou che si scaldava a bordocampo e sfiorava l'erba prima di entrare in area.
Non Louis Tomlinson il calciatore. Louis Tomlinson l'allenatore.
Appartenere a Doncaster in qualche modo, di nuovo.
Appartenere a qualcosa. Non perdersi, non dileguarsi, non sbiadire.
Eppure vive nella sua macchina da tre giorni. Da tre giorni beve, mangia schifezze e ne lascia la metà a marcire sotto il sedile. Da tre giorni appoggia la fronte alle piastrelle scheggiate dei bagni a Covent Garden. Un orinatoio dopo l'altro, una faccia desolata dopo l'altra. 
Ma lui non c'è.
Ha smesso di aspettarlo. Non si può aspettare qualcuno da cui stai scappando.
La facciata di casa Styles è a malapena illuminata. Non c'è la macchina di Harry, con il seggiolino fissato sul sedile posteriore, parcheggiata sul vialetto. Solo l'utilitaria sempre pulita di Gemma, con i pupazzi appesi allo specchietto, e il quadrifoglio portafortuna che le ha regalato Niall intrecciato al volante. Niall e la sua bicicletta verde, addossata al muricciolo di pietra che separa le loro case.
Il fuoristrada di Lou, fermo, fari spenti, motore defunto. Il prato, un altro prato, erba da sfiorare, terra con cui macchiare le scarpe, altri occhi e altre voci.
Mai lo stesso prato.
Scendere dalla macchina è difficile, camminare anche di più. È sporco, odora di sudore, birra e avanzi andati a male. Ha bisogno di una doccia, una dormita, di vomitare, anche, probabilmente.
E dire prendere un aereo, e di andare via. E di essere di nuovo qualcuno da osannare, e chiamare a gran voce dagli spalti, e adorare.
Essere qualcuno da amare è fottutamente troppo difficile.
Gemma si muove in cucina, la sua sagoma scura si riflette nei vetri e sembra quasi giocare a nascondino con quella di Niall dietro le tende chiuse. Una musica leggera lo raggiunge appena messo piede sulla veranda. Risate.
Darcy.
Riconoscere il suo strano gorgoglio fa male da qualche parte. Troppo male.
Barcolla indietro, in avanti, si appoggia alla porta. Suona il campanello. Si lascia cadere sul pavimento del portico.
Lei non corre ad aprire, a malapena cammina borbottando qualcosa a Niall, tipo uno dei suoi soliti rimproveri con i sorrisi nascosti, quando lui non può vederla.
Sorregge con un braccio Darcy, con l'altra dischiude la porta.
“Boo” 
“Tu”
“Hei” parlano tutti e tre contemporaneamente, mentre i passi di Niall si avvicinano dal corridoio
“Dimmi che è la piz-” sorride vedendolo, anche se probabilmente vorrebbe prenderlo a pugni in faccia fino all'alba del giorno dopo “Louis, amico. Speravo fosse il fattorino ma, hei, ne ho ordinate un paio in più per Harry e Nick quando...” s'interrompe, Gemma che lo fissa minacciosa, Darcy che allunga le braccia per afferrare il bottone della giacca di Lou che luccica del riflesso del lampione sul vialetto.
“Reggila” lei non smette di fissarlo, le macchie di unto, l'odore di birra, l'alcool nel suo fiato, e sistema la bambina in braccio a Niall. Poi muove un passo fuori, nel vento umido dell'autunno che ormai si è accomodato fra i fili d'erba del loro giardino, annerendo il barbecue, costringendoli a coprire le sdraio. Incrocia le braccia per il freddo, la treccia morbida che si agita sulla sua spalla
“Spiegati” Louis sa solo che la vista gli si annebbia, la nausea gli serra la gola, e le gambe non lo reggono. 
Si appoggia alla ringhiera di legno, sperando che lei non si accorga di quanto in realtà stia da schifo. Ma Gemma è Gemma. E Louis è Louis, scarpe da vela e tutto il resto.
Stringe le palpebre nel centro esatto dei suoi occhi, espirando 
“Sei un ubriaco depresso e puzzolente. Vieni dentro, fatti una doccia, parla con mio fratello. E, se devi, poi, levati dalle palle” Louis non riesce a dire niente. 
Annuisce e la segue, il vomito alcolico che serpeggia fra lo sterno e la gola, l'odore di fritto dei vestiti stropicciati, il suo essere così irrecuperabilmente patetico.
Patetico in corridoio, patetico su per le scale, patetico sotto il getto impietoso dell'acqua che ci mette cinque minuti buoni ad avere la temperatura giusta, e patetico accovacciato di fronte al water, la fronte appoggiata al bordo della tazza fresca, gli occhi chiusi, la gola in fiamme.
Patetico quando si rialza a fatica per strisciare quasi carponi fino alla camera di Darcy. 
Gemma gli ha lasciato sul mobile del bagno i vestiti di Harry. Una felpa troppo grande e pantaloni della tuta troppo lunghi. Il suo odore fa male più di tutto, più di dover arrotolare le maniche e gli orli, più dello stomaco e della testa, più della gola. 
Il suo odore.
Cammina nella stanza, un passo incerto dopo l'altro. L'odore di vernice vago ma presente fra il borotalco e la crema emolliente per le irritazioni da pannolino. 
Vernice rosa per le loro impronte rosa sul muro bianco.
Impronte fresche. Una accanto all'altra, ogni mese. Harry e Darcy, un po' di vernice. Un ricordo strano, memoria tattile e visiva, colori, odori, bagliori di loro impressi sulle pareti cosparse di poster di band anni '80 e cartoni animati.
Restare lì con loro ancora un po'.
Non lasciarsi dimenticare.
Allunga una mano verso il barattolo sigillato di vernice, esita, lo scoperchia, esita ancora.
Immerge la mano e la osserva, il colore che cola, gli impregna i pori, scivola lungo il polso e l'avambraccio. Gocciola a terra, sui suoi piedi nudi, sulle piastrelle. Sui fogli di giornale stesi per raccogliere gli schizzi.
Li ha osservati vivere per tre mesi, novanta giorni, ha imparato a decifrare le espressioni di Darcy, i suoi pianti tutti diversi, a districare i discorsi infiniti fra i sogni di Harry, che non sa mai stare dalla sua parte del letto, e gli intreccia sempre i piedi freddi alle caviglie, anche quando fa caldo. Ha sfiorato e ricalcato quelle impronte, ma non è mai stato lì quando le hanno marcate, idealmente indelebili, sul muro.
Osservare e mai vivere.
Aspettare troppo.
E perdere.
Inspira appoggiando il palmo accanto a quello di Harry, una tonalità di rosa leggermente più scura, non diluita, tremolante e incerta.
La sua mano accanto alla loro. Impertinente forse, forse indesiderata.
Ma c'è qualcosa di giusto in quello che vede, in quelle tre mani così diverse e gocciolanti una accanto all'altra ad occupare uno spazio infinito.
Qualcosa di bello. E incredibile. E doloroso. E confortante. E difficile, troppo difficile, da lasciar andare.
E forse solo un altro modo per dire addio.

***

Nick sta soffiando fuori il fumo dell'ultima sigaretta della serata. Sa che Gemma gliela strapperebbe dalle labbra e la ridurrebbe poltiglia sanguinolenta assieme al suo naso, e la sua faccia, e il suo orgoglio, se solo si azzardasse a mettere piede in casa con nicotina fumante in presenza di Darcy.
È uno che prende la vita come viene, Nick Grimshaw, e Harry gli deve più di una scampata depressione. Non è solo la sua voce da speaker radiofonico, è quella capacità rara e preziosa di saper condensare senza difficoltà ogni singola idea di divertimento abbia mai avuto; è una sensibilità casinista e un po' brusca, che non prende mai niente sul serio ma non ti lascia solo ad affogare nell'autocommiserazione. È solo Nick, che sa ridere dell'ossessione di Gemma per la salute e la pulizia, di Harry, gay, single, con una figlia piccola, e sa ridere anche di Louis Tomlinson e la sua ossessione per l'abbigliamento da regata e le fughe silenziose a sera inoltrata.
Non prende niente sul serio, Nick, se non forse il suo programma radiofonico e Harry. Prende incredibilmente sul serio anche lui.
Ha bevuto un po', giù a Soho, in centro, con quei suoi amici un po' bohemien che li hanno trascinati per mezza Londra a bere assenzio e fumare narghilè alla mela verde. 
Sono appena le dieci di sera, eppure Harry sente le gambe malferme e la testa vuota. 
Barcolla un po' sul vialetto, ma la casa completamente illuminata strappa una risatina a Nick e un gemito a lui
“Dimmi che non sono coliche, irritazione da pannolino e mal di denti. Ti prego, non stasera” si lamenta raggiungendo la veranda. 
Gemma lo fissa esasperata da dietro la porta, i capelli raccolti in una treccia disordinata che assume un'angolazione stizzosa sulla spalla sinistra
“Io faccio la babysitter a tua figlia, non ai tuoi fidanzati sbronzi che mi svengono sullo zerbino davanti casa” Harry la guarda, l'omogeneizzato alla banana di Darcy incrostato sul collo della maglietta dei Led Zeppelin, lo sguardo vagamente stanco, la carnagione vagamente pallida. Tutto vago, confuso. 
Ma non è lei, è Harry.
“Eh?” non riesce ad afferrare. Le parole “fidanzati sbronzi” zoppicano nella sua mente e nel suo campo visivo. Vorrebbe solo svenire per un paio d'ore, e svegliarsi con le idee chiare. Magari un po' di quel dolore intermittente all'altezza dello sterno, semplicemente, rimarrebbe indietro.
Gemma sospira pesantemente, piantando le mani sui fianchi 
“Il tuo amico, amante dell'abbigliamento da regata, mi è collassato sulla veranda mezz'ora fa, e ora penso stia vomitando l'anima nel bagno di camera tua.” 
Louis.
Riesce solo a registrare quella caliginosa informazione, prima di oltrepassarla, leggermente incerto sulle gambe, barcollando su per le scale.
Darcy.
Si ferma un attimo, uno solo, infilandosi nella stanza attraverso la porta socchiusa. Respira male, il battito cardiaco rimbomba nella testa e l'oscurità lo fa sentire sull'orlo di una crisi di panico. Ma l'odore di borotalco e ammorbidente alla vaniglia riesce a calmarlo. È qualcosa di familiare, piccolo e insignificante. Odore di fasciatoio e bagno appena lavato.
Ma per Harry significa solo che esiste un posto sulla faccia della Terra dove può essere un idiota fallito senza prospettive, e andrà bene così, perché c'è solo Darcy, e a Darcy non importa.
Lui è Harry, è un vago “pa-pa” biascicato con la sua bocca grande.
Lei dorme, il pupazzo del coniglio rosa che le nasconde praticamente tutta la faccia. Lo solleva e lo appoggia ai piedi del lettino, perché non è per niente consigliabile lasciarle premuta sul viso un'enorme palla di pelo acrilico per tutta la notte, e la osserva qualche minuto. Il respiro regolare, quelle pause profonde fra le due fasi della respirazione, quasi un'attesa, una presa in giro per lui che ogni tanto si sveglia nel mezzo della notte per controllare che respiri.
Vernice. Più fresca di quanto ricordasse, più intensa, a tratti più amara. Un avvertimento, un monito.
Un'altra impronta accanto alla sua. Mani più piccole e sottili. Quasi troppo delicate.
Louis.
Un addio, un ciao, uno strano e contorto modo silenzioso per non lasciarli davvero.
Louis.
Le molle difettose del letto di Harry cigolano pesantemente. Lui è abituato a stendersi invece di sedersi dalla sua parte, ma Lou di solito si lascia cadere, senza pensarci, come se il materasso potesse inglobarlo.
Si appoggia allo stipite della porta, e lo osserva, accovacciato, i capelli bagnati, le mani sulle ginocchia, la sua felpa troppo grande arrotolata sui polsi, i pantaloni della tuta infilati nei calzini di spugna. Non riesce a parlare del tutto, perché vederlo lì non è semplicemente bello, o giusto, e non lo fa solo incazzare. È qualcosa di ancora diverso, fatto di tutto e di niente.
È una scivolosa sensazione di piacere condita di gelido panico
“Hei” l'altro di volta, sgrana appena gli occhi. Sorride e torna serio nel giro di quattro secondi.
“Harry Styles di Holmes Chapel. Pensavo avessi un appuntamento a Soho” una punta di amaro gli scivola di bocca senza che riesca a controllarlo.
Lui scrolla le spalle, simulando una noncuranza che non gli appartiene.
Osserva la porta del bagno spalancata, il tappeto scostato, il coperchio del water abbassato, il vago odore di collutorio e dentifricio alla menta.
“Vita sana e regolare voi atleti uh?” Louis solleva l'indice, e lo fa dondolare davanti al viso con lo sguardo vitreo
“Ex atleti, prego. Ci tengo alle etichette” ride amaramente, debolmente, stancamente.
Harry si lascia cadere accanto a lui, incurante di quel lamentoso cigolio del materasso con molle sfondate. Lo ascolta quasi assaporando quel suono.
Gli lascia addosso qualche bel ricordo, alla fine. I movimenti di Lou, che non sapeva mai come gestirle quelle molle rumorose.
Gioca con gli anelli, fa roteare la fede al medio, i ciondoli. 
“Io ho una figlia Lou...” si lascia andare sul materasso, le gambe penzoloni sul pavimento
“Lo so”
“Non puoi presentarti qui come se fosse casa tua, e spaventare a morte mia sorella” Louis si stende accanto a lui, e chiude gli occhi per un attimo, forse per scacciare le vertigini, forse per l'effetto destabilizzante di quelle parole. C'è stato un momento in cui è stata anche, vagamente, casa sua. Un posto dove tornare, di sicuro, persone da avvertire per il ritardo, da chiamare per la spesa. Da salutare.
“Non mi sembra una che si lascia sconvolgere dalla gente ubriaca sul suo vialetto” Harry si volta e appoggia la testa al gomito. 
Lo fissa serio, aspro, inutilmente. C'è tutta l'amarezza di cui il genere umano potrebbe servirsi per una vita intera, incastrata negli occhi di Louis Tomlinson. 
“Gemma non si sconvolge per niente, ma non è giusto lo stesso” Louis sospira, chiude gli occhi e li riapre
“Lo so” Harry allunga un dito sul suo zigomo, disegnando cerchi concentrici sulle tempie.
Si ferma contro le ciglia, fra le piccole rughe disegnate a tratto leggero attorno ai suoi occhi socchiusi
“E non è giusto per me” non avrebbe voluto dirlo, Harry Styles. Non avrebbe voluto ammettere di essere solo un ragazzino spaventato che allunga ancora la mano sul materasso vuoto dopo giorni solo per cercare lui. Abituarsi di nuovo ad abbracciare il vuoto.
“Lo so” ma Lou sembra ancora più giovane adesso, nella sua felpa troppo grande che gli scopre il tatuaggio sulle clavicole. È quello che è. E lo sanno entrambi.
Si alza in piedi, con uno sforzo che gli costa un gemito e un momento per riacquistare l'equilibrio.
Harry raccoglie le ginocchia e si mette a sedere a gambe incrociate sul materasso.
Lo lascia vagare per la stanza, familiarizzare, assaporare qualcosa di sé negli spigoli dei mobili e nelle impronte sul battiscopa.
“Louis” ma alla fine deve romperlo, il maledetto silenzio. Perché sentirlo frusciare di nuovo in quella stanza è come un tarlo nella testa che non smette di rosicchiare, e pungere, e divorare ogni cosa.
“Eh” non vuole voltarsi, e continua ad armeggiare con le foto sul comodino e i poster alle pareti
“Perché sei venuto” 
Ci sono delle domande, e delle risposte. A volte no, nessuno di loro ne aveva bisogno.
Ma Harry non vuole vedere solo le scapole un po' sporgenti di Lou che si allontanano dalla camera oscura. Non vuole ricordare la porta sbattere, e i suoi passi allontanarsi, stretti nella tela delle scarpe da vela. Imprimere sulle cornee la consistenza un po' lattiginosa delle sue iridi, e l'inclinazione degli incisivi, la forma delle labbra, la piegatura delle sopracciglia.
“Casa mia fa schifo” risponde alla fine, voltandosi verso di lui, a metà fra una smorfia, un'alzata di spalle e un sorriso vago “Non ce l'ho una casa veramente. Ho vissuto tre giorni in macchina, e fa schifo” si passa una mano fra i capelli un po' lunghi sulle tempie e il collo, umidi, che si ritorcono fra le sue dita e rimangono aggrovigliati e ripiegati su se stessi 
“Io faccio schifo”
“Un po'” a Harry viene da ridere, ma non lascia che nessun suono turbi quello strano miscuglio di passi, respiri, silenzi e pause. 
I pensieri di Louis che lo abbandonano, e rimbalzano sul parquet come una manciata di biglie, lo confortano, lo fanno sentire meno immerso in una strana bolla d'acqua di stupidità e patetismi.
“Prova a entrare nella mia macchina...” 
Patetici. 
Sarebbe semplice arrendersi ed essere patetici fino in fondo. Autocommiserarsi e salutarsi. Non dirsi addio, e rimandare solo il panico e il dolore fino a quando non faranno meno male, non saranno meno salati sul palato, meno gelidi.
Ma Harry non è un ragazzino di sedici anni alla prima cotta. E Darcy non ha bisogno di strascichi, e di un padre patetico che si piange addosso perché non riesce a stringere abbastanza a lungo da trattenere, da rimanere impresso.
“Lou-”
Lui sbotta, improvvisamente, come uno che ha dentro troppe parole e nessuno spazio dove riordinarle
“Mi manca questa casa troppo pulita. Quel cazzone di irlandese, e quella pazza di tua sorella. Mi mancano anche le coliche di tua figlia cazzo! Io non sono così, non ero così, non-” i passi fanno più rumore, perché c'è un altro silenzio. Un silenzio di intenti e di movimenti. Di sensazioni.
Harry lo guarda, immobile nella sua posizione del loto sul copriletto grigio chiaro.
Solleva lo sguardo su di lui, la bocca sempre troppo grande socchiusa in una domanda rimasta a metà. Le fossette scoperte nel dubbio, anziché in un sorriso
“Io ti manco?” 
E' Louis a sorridere, adesso, e la pelle suoi suoi zigomi si tende in quelle piccole righe sottili che lui odia, ma che Harry non riesce a smettere di guardare, perché significano soltanto che è lì per davvero, che i suoi occhi sono realmente allegri, non come in quelle foto false dove ride solo la bocca, e nemmeno troppo.
“Anche adesso, cazzo” è uno scontro che è quasi un bentornato, quello fra le fossette di Harry e le increspature attorno alle ciglia di Lou. A mezz'aria, sospesi, riescono a trovare un barlume di spazio e di tempo per esistere insieme.
“Smettila di dire cazzo. Lo sai che i bambini assorbono tutto”
Harry scivola sul bordo del letto, posando i piedi nudi sulle assi del parquet
“Fottiti” l'altro rimane in piedi, una manciata di tormentati centimetri da lui, la punta delle dita che quasi lo raggiunge, ma non riesce ad afferrarlo.
“Vieni qui”
Deve essere una scelta quella di Lou. Un passo intero verso di lui, la sua mano sollevata in aria che quasi sfiora la felpa dei Rough Cuts, ma non può stringere.
Non vuole davvero.
Perché forse Harry non è capace di stringere per trattenere, ma magari è arrivato il momento che siano gli altri a decidere di restare.
Louis osserva le sue dita tese, le vene in rilievo sulle braccia, la tensione, l'attesa, la paura.
Anche lui ha paura. Hanno tutti paura.
Intreccia le dita alle sue, giocherellando con gli anelli e i braccialetti sul polso, e si siede sulle sue ginocchia, incastrando le anche a quelle di Harry in un puzzle emotivo e fisico in equilibrio precario.
Il suo fiato sa di birra e assenzio. 
Le sue labbra sono appiccicose di un sapore dolce e pungente, e di mela verde.
Anche lui è incasinato, brillo, stanco. Un po' più disinibito nell'arrampicarsi sulla pelle nuda sotto la felpa troppo grande.
La rete scricchiola sotto il peso di due corpi che rimbalzano sul materasso.
Scricchiola sempre più velocemente, come uno strano accompagnamento musicale allo strofinare dei vestiti che cadono a terra, del contatto gelido dei ciondoli di Harry e lo sterno di Lou. A cose che vengono dette, morse, sussurrate, graffiate. 
Difese che non servono, offese che vagano e non trovano un posto.
Non più il bisogno di prendere tutto e dare tutto, non lasciare un segno e un bel ricordo erotico da rispolverare a pomeriggi alterni. 
Persone, movimenti, scusa, addio e bentornato. 
Devo andare.
Va bene.
Manchi.
Allora torna.
Harry ride nell'orecchio di Louis, alla fine, scivolando sulla parte del letto dove la rete non scricchiola
“Fai un fischio se torna su ancora qualcosa uh?” anche l'altro ride, il tono un po' squillante che filtra  fra le dita della mano di Harry sulla sua bocca. Un vano tentativo di non svegliare Darcy che si spera dorma ancora minimo sei ore in compagnia del suo coniglietto di peluche dal pelo acrilico e mortale.

***

Lou si sistema incassato nelle spalle di Harry, i piedi sempre freddi dell'altro attorno alle caviglie, i ricci che gli fanno il solletico alla nuca e i ciondoli di metallo conficcati nella spina dorsale.
Le sue mani che disegnano strani percorsi di senso sul suo stomaco, litigando con qualche costola qua e là, fino a fermarsi sul bacino.
“Va bene adesso” sospira, mela, assenzio, collutorio e bagnoschiuma che si mescolano in uno strano profumo di casa “Adesso è tutto giusto”
Il suo aereo parte domani. Tutta la sua roba è a Doncaster. La sua vita, forse, che non può più aspettarlo a mezz'asta.
Non può indossare per sempre le felpe troppo grandi di Harry Styles di Holmes Chapel.
Forse.
“Harry” 
“Mhn?” lui ha la voce impastata di sonno e degli ultimi residui dell'orgasmo, una piega morbida e un po' roca, che si acciambella sul fondo della gola e si addormenta. Il respiro lungo e lento, i movimenti stiracchiati.
Addio.
Ti amo.
Ma torno.
Scusa.
Vieni con me.
È una cazzata, lascia perdere.
Ti amo.
Scusa.
“Niente. Spegni la luce.”
Harry fa scorrere il naso lungo il collo, fino alla spalla, la clavicola, il lobo dell'orecchio. Lo morde un instante, solo una pressione leggera. Un ricordo tattile vivissimo. Un bagno a Covent Garden, un orinatoio e mezzo dal suo. La sua lingua nell'orecchio.
E nel suo orecchio sospira, un fiato caldo all'assenzio e mela.
“Lo so” dice semplicemente, stringendolo più a lungo, un po' più forte
“Eh?” 
“Dormi coglione” Harry sbadiglia contro la sua spalla, sfregandogli i ricci sulla pelle
“Le parolacce Styles” la sua risata fa vibrare anche le punte dei piedi.
Lo bacia di nuovo, fra la tempia e i capelli ormai asciutti, e sorride. Louis non lo vede, ma avverte le labbra tirarsi contro l'orecchio. Il modo in cui parla
“Comunque mi piace come hai decorato la camera di Darcy” 
E Louis è quasi grato del fatto che non possa vedere il suo viso in quel momento, perché nessuno, sano di mente, prenderebbe il primo volo per Doncaster con un'espressione come quella stampata in faccia.










Note: a me piace questo capitolo. Lo so che uno non dovrebbe dirlo perchè insomma, cioè, voglio dire, è da teste di cavolo presuntuose, però mi piaceXD
E mi piace questa storia, e il banner, e Eva che mi ha chiesto di scriverla, e tutto il mondo, temporaneamente. Amo anche loro, e chissenefrega se il mondo non capisce un tubo. Io li amo.
E spero anche voi...
Insomma ecco, vorrei dirvi troppo un grazie vero, di quelli che rimangono impressi, e di cui si racconta per anni, ma sono solo uno scribacchino della domenica, quindi vi dico solo a grazie, a tutt* voi, e vi amo :D

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Capitolo 6
*** Erba, tabacco e mughetto. ***


Erba, tabacco e mughetto.

 


My only weakness is knowing your secrets
I'm holding them close, I'm holding them tight
I know the way to, silently make you
Smile with my eyes when you're trying to fight
Can't you see, that when I find you
I'll find me
(When I find you, Joshua Radin)


Non gli avevano detto che avrebbe dovuto parlare. Magari sì, qualche battuta a sfondo sessuale di pessimo gusto per allentare la tensione con i ragazzi, uno o due aneddoti sul suo passato, qualche storiella inventata di sana pianta con cui mostrarsi fragile e un po' sfigato, vagamente umano, e poi basta. Sorrisi, strette di mano, flash, telecamere, giornalisti, paparazzi. 
Il suo nome ovunque, di nuovo, prime pagine e modelle anoressiche con cui far finta di fare sesso. 
Senza guardarsi dentro, senza domande, senza persone di cui preoccuparsi.
È la vita che vuole, da sempre, da quando i suoi piedi mediamente decenti calciavano un pallone di cuoio nel cortine interno della scuola elementare di Doncaster. Una squadra dopo l'altra, un mister dopo l'altro. Compagni e amici, docce, bagnoschiuma dagli odori più diversi, il suo corpo che cambiava, il suo viso e gli spigoli, il suo taglio di capelli, la sua voce.
L'odore dell'erba sintetica del campo e dell'amido delle divise. Il sudore mescolato alla stoffa e alla pioggia che precipitava a secchiate, e infradiciava i capelli appiccicati alla fronte.
Qualcosa di vero e qualcosa di plastica. Il suo sorriso di plastica, e la plastica dei suoi movimenti.
Ma la plastica è rassicurante, a volte, perché è rigida e impermeabile, e tiene lontano tutto.
I pianti dei neonati, l'odore di carbone bruciato e l'umidità di un prato tagliato male alle tre di notte.
Si passa una mano fra i capelli, rassicurato dalla densità della cera sui polpastrelli. Un gesto automatico, che gli appartiene, che riconosce, e lo calma.
Quel gesto che appartiene anche a Harry, in modo diverso, con uno sguardo diverso, quando si copre gli occhi per un attimo mentre fa finta di voler domare quei ricci, ma in realtà lascia solo che lo nascondano per qualche secondo.
Harry.
Lo Champagne nel suo calice vibra per un secondo, fra le dita pateticamente tremolanti.
Harry.
Si schiarisce la voce leggermente, mentre Simon gli si avvicina con il solito vino rosso d'annata.
“Sembri uno che se la sta facendo sotto” sorride soddisfatto mentre lo dice, come al solito
“Forse perché nessuno di voi tre geni mi aveva informato che avrei dovuto tenere un discorso all'umanità” il sorriso tirato di Louis non è lontanamente credibile mentre il fotografo li prega di avvicinarsi per uno scatto destinato alla prima pagina di chissà quale gazzetta locale.
Avrebbero riso tutti, a casa, vedendolo stiracchiare i muscoli del viso in quella pallida imitazione di sorriso. Lo avrebbe preso in giro Niall, con la bocca piena e un piede di troppo sul tavolino da caffè di Gemma, e Harry avrebbe lasciato scivolare fuori una delle sue risate assordanti, a labbra spalancate e occhi socchiusi, perché gli sono bastati tre mesi scarsi a polverizzare anni di allenamento alla dissimulazione e le bugie.
A casa.
Casa.
Scuote la testa, quasi strozzandosi con un sorso troppo generoso di Champagne. Simon ride di lui, dell'incapacità di concentrarsi sul discorso che lo aspetta, sull'incapacità di concentrarsi su ogni cosa che non sia l'odore di mela, vaniglia, cannella e barbecue che quella casa gli ha impresso addosso a fuoco. Sotto la pelle, come impronte di vernice su una parete bianca.
Erba. Bagnata. Non il campo, un'altra erba. Falciata male a settimane alterne. Sempre sbronzi. Risate incontrollate, luci accese nelle case dei vicini, disapprovazione. Pettegolezzi.
Chissenefrega.
Cheryl applaude delicatamente insieme agli altri a qualcosa che Louis si è preoccupato di annunciare al microfono. Lou riesce solo a percepire le ultime parole, un ringraziamento per aver accettato, buoni propositi forse, forse un incoraggiamento.
Applaudono tutti, chi solo per educazione, chi con una strana luce un po' fanatica negli occhi, chi, come Simon, con la sfrontata sicurezza di chi ha già accalappiato il suo sponsor solo sventolando le sue bretelle.
Lou ha la gola secca, di quel genere di tensione da palcoscenico che aveva dimenticato. Non la partita, non i fischi, la sconfitta, le urla, ma quella mondanità un po' contorta che lo rendeva nervoso. Sempre. Era elettrizzante, sconvolgente, disarmante.
Ora ha solo la gola secca. Qualcosa che gratta contro le tonsille e il palato. La secchezza del panico.
Qualcuno, forse Cheryl, gli consegna un microfono, uno di quelli pesanti che somigliano a coni gelato. Anche avvicinarlo alle labbra gli provoca uno strano brivido irritato.
Occhi su di lui.
Orecchie distratte. Movimenti e fruscii. Solo i ragazzi della squadra, facce nuove e visi conosciuti, sembrano concentrati. In nome della vecchia amicizia, forse, anche se la maggior parte di loro non era nemmeno nei paraggi quando lui giocava nel Doncaster. Strani giochi di ammirazione e reputazione.
Quello che loro conoscono, filtrato attraverso informazioni smozzicate da social network brulicanti di notizie incomplete, passaparola e giornali scandalistici con foto sgranate in copertina e nessuno a verificare la fonte.
Non gli importava, prima, di quello che la gente senza nome e i lineamenti sfocati poteva pensare di lui, sussurrare all'orecchio del vicino sull'autobus, o alla moglie sul divano.
Ma ora sì. Stupido, immaturo Louis Tomlinson, ora sì.
“Ehm. È un incredibile piacere essere qui” gli sorridono ma non lo ascoltano davvero. “Sono davvero grato a Simon, Cheryl e Louis per avermi dato la possibilità di tornare-” vorrebbe dire a casa, nel posto a cui appartiene, che lo ha cresciuto, muscoli, tendini, ossa e cuore, ma non ci riesce.
Ha solo post-it di citazioni colte, aforismi di personaggi famosi e testi di canzoni dei The Fray che gli vorticano nella testa, assieme a patetiche scuse e una fuga istintiva da tutta quell'attenzione.
Forse Simon intuisce il suo imbarazzo, forse è solo il solito stronzetto sadico che si diverte ad arricciarsi i baffi speculando sulle sue sventure. 
“Perdonate il ragazzo, è un allenatore, mica un politico” ridono tutti, per cortesia. È evidente. Ma a Simon non interessa con quanta sincerità quelle persone reagiscono alle sue parole. Il suono di quelle risate false lo appaga come il più sincero degli applausi, e va bene così.
La realtà, l'onestà, la verità, non interessano a nessuno. Non interessano nemmeno a Lou, a voler essere sinceri, ma l'odore di quella serata è sbagliato, e lui lo sente. 
I profumi da centinaia di sterline, i bei vestiti, i completi. È tutto sbagliato. Nemmeno l'erba sintetica del campo da calcio riesce a calmarlo. Nemmeno gli spogliatoi che hanno sempre quel vago sentore di adrenalina. Nemmeno il suo calice ormai vuoto di Champagne. 
Nemmeno il sorriso di Cheryl. 
È lui che è sbagliato, che inconsapevolmente sgomita con quell'affettata cortesia, quella tifoseria milionaria e sgargiante.
Il dj fa roteare il vinile sulla consolle, e la musica riparte. Nessuno fa più caso a Louis, se non per farsi fotografare, per brindare, per chiedere, di tanto in tanto, qualche fuggevole informazione su dove sia stato, il piede dorato dei Rovers, per due anni interi lontano dal campo.
Riesce ad evitare il terzo grado della moglie di un azionista della squadra all'ultimo secondo, dribblando due giornalisti e Simon, per scappare nemmeno troppo cautamente verso il bagno.
File di orinatoi e lavandini. Docce, porte di legno e water.
Si accovaccia sulla tavoletta a gambe incrociate e aspetta.
Il cellulare in mano che non squilla. Nessuna chiamata persa, nessun messaggio.
Harry Styles di Holmes Chapel ha un doloroso talento nel lasciar andare.
Preme il tasto verde. Uno squillo, due squilli, riattacca.
Tasto verde. Riattacca.
Tasto verde. Cancellare la cronologia chiamate?
Cancellare tre mesi di Harry Styles? Cancellare l'odore di borotalco sulle sue mani, la sera, dopo aver cambiato il pannolino a Darcy? Cancellare le tracce di salsa piccante sul suo labbro superiore ai barbecue del sabato? L'odore di birra danese, di marshmallow che non può mangiare perché è allergico, di vernice, e di sigarette fumate in giardino lontano dalle occhiate ostili di Gemma?
Cancellare?
Harry?
Darcy?
Cancellare?
Il telefono gli vibra fra le mani, tanto improvvisamente che quasi lo lascia cadere.
Harry Styles di Holmes Chapel lampeggia sullo schermo insistentemente, come uno dei suoi sorrisi migliori, tutto denti e labbra tese fino alle orecchie. Può quasi sentirlo addosso, attraverso il completo blu notte gessato e il papillon.
“Ciao” riesce solo a dire, alla fine di un'attesa barcollante fatta di dita incerte e tasti scivolosi. A metà di quello che è forse il decimo squillo.
Forse non è così bravo a lasciar andare le persone.
“Hei”
Un silenzio strano, imbarazzato. Louis è quello che non riesce mai a gestire il silenzio.
E di solito, per riempirlo, sfodera un repertorio di battute di pessimo gusto che potrebbero far invidia a Simon Cowell.
“Darcy come-”
“Come va lì?” contemporaneamente e inesorabilmente le loro voci si sovrappongono.
“Bene” 
“Alla grande” nervosismo, tensione, niente a che vedere con le persone che sanno di essere, dietro centinaia di chilometri di segnali rimbalzati a ripetitori sparpagliati sul suolo britannico.
Harry sospira all'altro capo. Uno dei suoi respiri profondi che tremano un po', alla fine
“Manchi a tutti” dice semplicemente.
Voglio tornare.
Venite qui.
Il mio appartamento è un casino di roba inutile, e vuoto di quello che mi serve.
Mancate.
Ti amo Harry, mi senti?
“Sono un po' incasinato adesso, sai come va...feste, un sacco di gente da rivedere...” si morde il labbro. 
Cazzo.
“Già” pausa. Una delle sue pause che fanno accapponare la pelle. “Beh, allora vai. Insomma, non voglio che pensino-”
“No. Cioè è ok. Sono in bagno” 
Harry ride. Non come Lou vorrebbe, non con gli occhi, lo sterno e i polmoni. Ma è già qualcosa
“I bagni ti piacciono, si sa” 
Solo se ci sei tu.
Qualcuno lo chiama da qualche parte nell'universo che una volta era un po' anche di Lou. Una voce divertita, strascicata, un po' da ubriaco e un po' da strafatto. Il timbro radiofonico nascosto da qualche birra di troppo e un paio di sigarette fumate velocemente.
Nick Grimshaw si avvicina, le parole sempre più chiare e la voce più alta
“Devo andare. C'è un po' di gente qui e-” non sa nemmeno spiegare a se stesso il perché quel momento lo faccia sentire davvero capace di prendere il primo aereo per Londra, solo per togliersi la soddisfazione di strappare a morsi le suadenti corde vocali di Nick Grimshaw.
Inspira
“Bene. Divertitevi” 
Di' a Gemma di starci, una volta o l'altra, con Niall.
Ricordati di lavare il coniglio di Darcy.
Ho prestato a Zayn l'ultimo GTA, assicurati che non lo sfasci per la frustrazione.
Liam doveva passarmi un paio di gruppi da ascoltare. 
Vorrebbe dire tutto questo, artigliare un po' di quella quotidianità disarmante per conservarla da qualche parte sotto il completo, sotto la pelle e i tendini. Al caldo e al sicuro dai flash e i microfoni a forma di cono gelato.
Anche al sicuro da Simon e i suoi sorrisini machiavellici.
Ma riesce solo a chiudere fuori il caos sonoro di quella casa, e la voce un po' roca di Harry che cerca invano di scusarsi, salutarlo, scartare l'invadenza di Nick per restare al telefono trenta secondi in più. Assicurarsi che vada tutto bene, forse.
Scivola giù dalla tazza, la voglia disperata di una sigaretta anche se non fuma, una vodka liscia e una doccia incandescente.
Un silenzio addormentato e il confortante gracidio del walkie talkie sul comodino.
Voglia di una casa non sua e persone che non sono suoi amici.
Di una quiete sempre sporca di risate con la mano davanti alla bocca per non svegliare nessuno, persone che si muovono in bagno, e padelle per la colazione.
L'odore di un prato diverso da quello del campo da calcio.
Birra danese anziché Champagne.
La Nikon di Harry invece di quei flash assassini da rivista patinata.
Sviluppare le foto nella camera oscura, e lasciare venire al mondo con quell'inevitabile vizio patetico di trattenere il respiro nell'attesa.
Pupazzi di peluche e impronte.

***

Osserva il cellulare dallo schermo nero. Nick ridacchia qualcosa, facendo scorrere il pollice sulla rotella dell'accendino con il suo solito fare teatrale
“E quindi il tuo fidanzatino ti ha fatto ciao ciao come Heidi alle montagne...” avvicina la fiamma alla sigaretta e inspira.
Harry incastra di nuovo il telefono nella tasca posteriore dei jeans, appoggiandosi alla ringhiera del portico
“Vaffanculo Nick” sfila la sigaretta dalle sue labbra e aspira un tiro lento.
Ovviamente è uno spinello “Erano le caprette, comunque” 
Chiude gli occhi per un attimo mentre il sapore della marijuana da spacciatori del centro dell'altro gli inebetisce i sensi quel tanto che basta da ammorbidirgli il respiro
“Eddai Hazza, ha infilato la lingua nelle orecchie di un sacco di gente a Covent Garden. C'è ancora qualcuno che non abbiamo ancora rimorchiato” allunga l'indice e il medio, e Harry gli passa lo spinello quasi distrattamente.
Si morde il labbro, pensando alla routine alienante dei bar il sabato sera, con Gemma a guardare le repliche di Catfish su MTV che si addormenta a metà dell'episodio.
Nick geme vistosamente
“Se spalanchi la tua bocca sproporzionatamente grande per dirmi che lui è diverso, mi ficco la brace accesa nell'occhio” si appoggia accanto a lui, restituendo lo spinello dimezzato.
Harry aspira due boccate prima di rispondere
“Non me ne frega niente se è diverso, o se è uguale. A me andava bene comunque” 
Gemma richiude la porta di ingresso sgattaiolando fuori. Le voci li raggiungono e si smorzano in meno di tre secondi.
“E' un delirio. Dobbiamo smetterla di avere degli amici...” sorride, li osserva e si fa seria. Individua immediatamente l'odore di marijuana nell'aria, e si occupa all'istante del mozzicone quasi spento fra le labbra di Harry “Grazie fratellino, sei immensamente generoso” lo punzecchia ammazzando l'ultimo tiro prima di spegnere la brace sotto la ringhiera.
Nick solleva un sopracciglio e le fa spazio accanto a loro.
“Comunque è diverso. È diverso eccome...” 
Harry ricambia lo sguardo sarcastico e scuote la testa
“Oh, grazie Nicholas Grimshaw, profondo conoscitore dell'animo umano!” l'altro scrolla le spalle
“Conoscitore un cazzo” Gemma si volta di scatto con i suoi ochi grandi e scuri spalancati sotto la frangetta bionda
“Nick!”
Questa storia delle parolacce li ucciderà, pensa Harry fuggevolmente mentre Nick replica un lezioso e quantomeno falso
“Gemma”
Sua sorella lo squadra a braccia incrociate, con il sopracciglio che quasi sparisce nell'attaccatura dei capelli
“Harry!”
Harry si sente solo stanco e leggermente sballato, un dolore allo stomaco continuo e lamentoso che non lo uccide, ma nemmeno lo lascia in pace
“Nick” richiama stancamente l'amico, intento in un duello di volontà con Gemma, che si trattiene a malapena dal mettere insieme una predica sull'uso diseducativo delle parolacce.
“Che palle” ma Nick sembra più che altro irritato dal suo atteggiamento lassista. Harry avrebbe sghignazzato ore nell'osservarli battibeccare e tenere in punto sul nulla.
Harry avrebbe probabilmente rollato un'altra canna seduto a gambe incrociate sulla veranda.
Harry si sarebbe isolato per qualche secondo ad assaporare il ritmo di quella conversazione puntigliosa e disincantata, colma di sfumature di dolcezza e affetto.
Harry resta solo fermo, i gomiti appoggiati alla ringhiera e le caviglie incrociate, e li osserva senza vederli, come un punti grigio impazzito sullo schermo del computer.
Nick sospira melodrammatico
“Fattela passare. Quello è una fighetta isterica con le manie di protagonismo” rientrano silenziosamente, un passo dopo l'altro, nell'ingresso. Gemma non ha ancora smaltito l'irritazione per la soddisfazione di Nick nel farla innervosire, e Harry non trova fra i pensieri nemmeno mezzo neurone in grado di seguire acutamente la conversazione.
Si limita a sorridere quasi tristemente, come se le corde vocali non fosse nemmeno sue quando ribatte
“Più di te?”
“Cazzo sì, più di me.” ignora volontariamente l'occhiataccia di Gemma e si lascia cadere su una poltrona in salotto. Niall è accucciato a terra in una posizione quantomeno deleteria per le sue  articolazioni, e stringe fra le mano il joystick dell'Xbox come se avesse paura di lasciarlo cadere in un precipizio senza fondo, mentre Perrie esulta per un altro goal a Fifa. Zayn e Liam tentano di mettere insieme un vago spuntino di mezzanotte mentre Sophia li osserva farsi strada in soggiorno con un sorriso interrogativo “L'ho intervistato una volta, il tuo amichetto” sfarfalla le dita in aria per disegnare le parole su una lavagna immaginaria “Tommo, il piede dorato del Doncaster Rovers” sogghigna “Una palla. Con quella sua vocetta stridula da tonsille iposviluppate, e quei capelli. Cristo, odio i suoi capelli perfetti.” fa scorrere le dita fra i suoi, scuri, ordinati e impomatati con attenzione. Sembra un ragazzino frustrato, o colto sul fatto mentre scarica film porno da internet. Ha una teatralità che diverte sempre Harry, studiata ma genuina, provocatoria ma ingenua. Sincera, onesta, alla fine. C'è qualcosa dentro, al di sotto, nel profondo. Non è solo scena, è solo un modo per dissimulare quella perenne sensazione di inadeguatezza e fallimento.
Per Harry è la fotografia, sono i ragazzi sconosciuti rimorchiati nei bagno a Soho, i barbecue del sabato. È Darcy, soprattutto, che gli sbatte in faccia la sua inadeguatezza ogni singolo istante della giornata, e allo stesso tempo resta l'unico, vero anche se momentaneo, antidoto contro la sensazione di fallimento invisibile ma inevitabile nella sua vita.
Nick lo combatte con le chiacchiere e le frecciatine senza bersaglio che vorticano nell'etere, e Gemma, forse, nel sentirsi parte di qualcosa, dell'odore di una casa che sa di bambini e famiglia.
“Non te la cavi male neanche tu Grimmy” gli assesta un pugno leggero sulla spalla, e l'altro sorride
“Sfotti poco, paparino...” è un momento di reciproca comprensione quasi istantaneo. Brevissimo. Appena un battere o un levare. Una pausa. Tutti e tre, in silenzio.
Inadeguatezze incomplete che si riconoscono per un momento.
Poi qualcuno suona il campanello.
Harry non può fare a meno di pensare a Louis, anche nell'impossibilità per la ragione di raggiungere un simile traguardo, il dolore affilato nel suo sterno continua a pulsare d'attesa.
“Vado io...spero solo non sia il resto della squadra che viene per guardare X Factor” espira Gemma “sono sfinita...” le sopracciglia attentamente arcuate di Nick la fissano sbalordite.
“Che c'è?” sua sorella getta uno sguardo allarmato alla maglietta, i jeans, i capelli, in cerca della sconvolgente mancanza che ha provocato quella reazione.
“X Factor? Hai presente? Ragazzini minorenni e ingenui che vengono spiattellati in ogni dove? Mi viene un'erezione solo a pensarci!” si guardano qualche secondo, giusto il tempo di studiarsi reciprocamente e reciprocamente disapprovarsi.
“Tu sei malato” Nick sogghigna con un mezzo inchino.
“Lieto di incontrare sempre la tua approvazione Gemma” si avviano tutti e tre verso la porta d'ingresso, sua sorella che ancora scuote la testa ripensando alle parole dell'altro.
Harry resta indietro ad osservare i suoi amici da un'angolazione inusuale. Una macchina fotografica praticamente preistorica riposa nel cassetto del mobile dell'ingresso, assieme alle chiavi di riserva e un sacco di pile spaiate.
Ha ancora una tacca di batteria e un obiettivo decente.
Scatta foto a chiunque, ovunque. I riflessi quasi lilla nei capelli di Perrie, le ciglia incalcolabilmente arcuate di Zayn, l'espressione di Liam quando riesce a sistemare l'oliva nera fra lo stuzzicadenti e il suo sandwich. Niall e la concentrazione fra le sopracciglia e le iridi, la lingua quasi fuori dai denti, la postura raggomitolata.
Sa che manca un pezzo, uno spazio vuoto di troppo, un'assenza che rimane impressa nella filigrana. Quasi un'ombra accanto a Niall, uno squarcio di cucina che si vede e non dovrebbe. Una tazza nello scolapiatti che dovrebbe ciondolare fra il tavolo e il comodino della sua camera da letto.
Spazi in piena vista che illuminano stupide assenze.
Il cellulare di Harry vibra nella tasca posteriore dei jeans, nello spazio fra uno scatto e un respiro. Non prende mai in salotto. Si arrampica fino al piano di sopra, accanto alla finestra di camera sua, e la voce di Andy risuona più nitida e intelligibile
“Andy, hei...” l'altro sbuffa
“Scusa se ho chiamato te, ma Liam non risponde mai, e Niall lasciamo perdere” Harry sorride
“Tranquillo. Sei già in strada?” la serata X Factor di solito raccoglie a casa Styles una quantità di fans inimmaginabile.
Andy non è un tipo chiassoso e vanesio, ma si accoccola volentieri fra Liam e Zayn sul divano del salotto a litigare con i giudici.
“In realtà uno stronzo mi ha tamponato sotto casa. Mi sa che per stasera passo” Harry raccoglie il coniglio rosa di peluche che Darcy ha spinto fuori dal lettino con i piedi. Lo appoggia casualmente sul fasciatoio, appena sotto le impronte ancora umide delle loro mani.
Inspira e torna a concentrarsi sul tono di voce altalenante di Andy che gli racconta del tipo ubriaco che gli ha frenato praticamente nel portabagagli nemmeno un quarto d'ora prima.
“Mi dispiace amico, è uno schifo” si sente in colpa per quel deficit dell'attenzione, ma non ricordava che camera di sua figlia evocasse tutti quei ricordi legati a Louis.
È fastidioso e pruriginoso pensarci. Pensare a quanto di lui ci sia ancora in quella casa. Quanto rimarrà arrampicato dentro per troppo tempo ancora.
Andy riattacca dopo una fantasiosa sequela di imprecazioni che lo fanno sorridere.
Scivola per le scale saltando due gradini e rischiando di cadere sull'ultimo, ma riesce a rimanere in piedi con il cellulare in bilico in mano e la macchina fotografica infilata malamente in tasca.
“Andy ha appena chiamato. La serata X Factor è-” la luce del salotto filtra nel corridoio semibuio.
C'è uno strano silenzio, una tensione viscerale che gli fa prudere lo stomaco per l'anticipazione.

Mughetto. Vaniglia, borotalco e cannella. Tabacco e marijuana che a malapena si percepiscono nell'aria.
E mughetto. Nessuno profuma di mughetto.
Harry odia il mughetto.
Solo Melissa aveva quell'insopportabile ammorbidente al mughetto.
Melissa.
“Fottuta” Niall ricambia il suo sguardo quando ha abbastanza coraggio da raccogliere le energie ed entrare in salotto. Gemma è pallida, cammina nervosamente, Nick sghignazza rigirandosi una sigaretta spenta fra le dita.
Gli altri restano solo zitti, scambiandosi sguardi preoccupati e imbarazzati. Probabilmente si fionderebbero fuori dalla finestra pur di non assistere a quella scena patetica.
Anche Harry lo farebbe. Anche se il vetro fosse rotto e rischiasse di squarciarsi i polmoni con un frammenti sporgente.
Melissa si volta a guardarlo, con quel sorriso appena accennato che parte dagli occhi e solo di rado raggiunge il resto del viso. Lo ha sempre affascinato quel sorriso. Ora vorrebbe solo barricarsi in camera di Darcy per tutto il resto della serata. Dell'anno. Della vita.
“Hazza. E'...bello” mai parola è stata spogliata maggiormente del suo significato. Mentre la guarda, Harry riesce solo a pensare al cellulare che ha dimenticato fra le dita della mano destra, e quel malsano desiderio di afferrarlo e usarlo per chiamare Louis. Per raccontargli di quel momento, di quell'esitazione, dell'imbarazzo. Della paura, anche, solo per sentirlo ridere con quella tonalità da ragazzino, e prenderlo in giro perché si preoccupa troppo.
Perché lei non è lì per portare via Darcy, no?
“Melissa sei...” Harry fissa Nick nel panico, gli occhi di tutti puntati addosso, a radiografare la sua reazione per capire come comportarsi con lei. Se accoglierla, respingerla, fingere di non averla mai vista entrare.
“Niente da obiettare al romanticismo del tutto, ma io sposterei lo psicodramma in veranda, se non sollevate obiezioni. Ho minorenni sessualmente confusi da monitorare, qui” Melissa solleva un sopracciglio, forse sorpresa, forse solo infastidita.
Peggio per lei.
La sua irritazione quasi conforta Harry.
Nick solleva entrambe le mani “Ok, ok, me ne vado a quel paese. Ricevuto” scrolla le spalle, ma Gemma fa schioccare la lingua
“Ma sì, buttiamo alle ortiche trentanni di amor proprio, e guardiamo questi adolescenti canterini sculettare sul palco” incrocia le braccia al petto e sorride a Melissa, tagliente e ferma. Faceva così anche al liceo, quando Harry rimaneva indietro per non farle notare che i suoi amici avevano smesso di aspettarlo per andare in mensa, o fingeva di non voler andare alle feste per non ammettere che non era stato invitato.
Gemma faceva schioccare la lingua, incrociava le braccia al petto e minacciava chiunque. Senza dire niente, senza prenderlo in giro perché era un fifone o uno sfigato. Solo Harry.
Gemma, Harry e Darcy.
C'è stato qualcosa, in quei mesi. Qualcosa in più.
Ma Harry non pronuncia il suo nome nemmeno nella testa, in silenzio. 
Solo Gemma, Harry e Darcy. E Niall, Zayn, Perrie e Liam. E Andy, quando la sua macchina non si accartoccia, e Nick quando, beh, si comporta un po' meno da Nick.
E alla fine sorride, mentre cammina lentamente verso la veranda con lo sguardo di Melissa a pungergli le scapole. Sembra stupido pensarci in quel momento, immaturo e patetico, ma ci sono così tante persone da amare in quel salotto, così tante in quella casa, da ammortizzare per un attimo la gelida sensazione di impotenza che gli spinge la paura contro lo sterno.
Non è più il ragazzino con i brufoli che si sedeva da solo in fondo alla classe.
L'adolescente insicuro dietro una macchina fotografica che pesava più del suo braccio.
Non più l'adulto sessualmente confuso che si aggira alla cieca nei locali a Covent Garden.
Non harry Styles di Holmes Chapel che non sa fare il padre.
Solo Harry, Darcy, Gemma e tutti gli altri. Tutti. In silenzio, facendo casino, fra l'erba del prato, il tabacco e il barbecue, la vaniglia e il borotalco.
E il the.
La vernice, i pupazzi di peluche e la cera per capelli.
Tutti quanti.
Da qualche parte anche Louis. Sentirlo non faceva parte dei piani, ma lo sente.
La sua mancanza, penetrante e dura contro la spina dorsale, non era prevista.
Ma c'è.
E Lou è stato lì, è ancora lì, e semplicemente va bene, Harry sente che adesso, respirarlo nell'aria, è giusto.















Note: vi chiedo immensamente scusa per il ritardo :( Sono stato via e non avevo il pc con me.
Spero che il capitolo valga l'attesa, e prometto che il prossimo non si farà attendere così a lungo.
Vi ringrazio sempre immensamente per tutto l'amore che vortica attorno a questa storia e a tutti loro. Vi sono davvero grato. Davvero**

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Capitolo 7
*** Benzina, cenere e birra. ***


A Shania Twain che piace tanto a Harry.
Specialmente una canzone che si chiama You're Still The One.
A Keith Tomlinson, perchè è Larry, che abbia scritto o meno
quello che io sono convinto abbia scritto.


 
Benzina, cenere e birra.



Look how far we've come my baby
We mighta took the long way
We knew we'd get there someday 
They said, "I bet they'll never make it"
But just look at us holding on
We're still together still going strong 
(You're Still The One, Shania Twain)

 
Il seggiolino di Darcy la mette a disagio. Harry riesce a vederlo attraverso i capelli neri e disordinati. Lo sguardo è leggermente frenetico mentre si siede sulla sponda del sedile del passeggero, allaccia la cintura, armeggia con l'autoradio e i cd disposti disordinatamente nel cruscotto. Sceglie con attenzione, anche se è nervosa. Precisione maniacale nel decidere quale colonna sonora accompagnerà parole sbocconcellate e silenzi imbarazzanti. Ci vuole la canzone giusta per riempire quel genere di vuoti.
Alla fine opta per un mix tape masterizzato, vecchie canzoni che grattano un po', roche e stonate a tratti. Registrate due volte, magari, perché una non era abbastanza.
Harry ama quei cd con le custodie mescolate, le canzoni scritte con il pennarello indelebile dalla punta sottile e le dediche scarabocchiate sul retro. Ogni persona che sia salita su quella macchina ha la sua compilation nel cruscotto.
Tranne Louis, forse, perché lui è più un ronzio basso e continuo, quello di quando si tappano le orecchie e si stappano nelle gallerie. È un rumore di fondo che è sempre un picco squillante nel cervello, ma non lascia penetrare il silenzio, non lo lascia dilagare. Non si interrompe.
Melissa smette di studiare ogni zigrinatura dell'unghia del suo indice.
Un vago odore di benzina accompagna le sue parole
“Stai-”
“Bene. Sì, me l'hai già cantata la canzone...” Harry ha le dita così strette attorno al volante da farsi sbiancare le nocche. 
“Harry”
“Melissa” forse continuare a punzecchiarsi rimanderà il momento in cui dovranno ammettere che ci sono cose da dire che non possono semplicemente essere investite con la macchina.
Lei sbuffa, voltandosi. Harry la guarda di traverso un istante, dimenticando la strada e la linea bianca di mezzeria che traballa.
“Harold Edward Styles, eri d'accordo anche tu” 
Se lo ricorda. A tratti, in modo confuso, patetico e un po' disperato. Vorrebbe avere la mente lucida per analizzare quella serata, ma riesce solo a battere i denti come sulla metropolitana di notte, a febbraio. Darcy che dormiva nel marsupio e le luci accese del portico di casa di Gemma. Il senso di inadeguatezza, di abbandono. La paura, il panico.
Sempre Darcy, e l'espressione di sua sorella mentre si scansava per farlo entrare. L'odore delle lenzuola pulite e della vernice fresca la mattina dopo, dipingendo la ringhiera della scalinata.
Non ricorda quasi nulla di Melissa, se non le sue dita che tremavano attorno alle chiavi della macchina, l'orlo asimmetrico dei suoi jeans con il risvolto, i suoi stivali con il tacco consumato sul pianerottolo.
Non ricorda cosa si sono detti, non ricorda le sue parole e l'espressione del suo viso mentre se ne andava.
Ricorda come si è sentito, e vorrebbe essere capace di parlare con lei di questo. 
Ma non lo è.
“Io? Ero d'accordo IO che TU facessi le valigie un giorno a caso della settimana e sparissi dalla faccia della Terra?” c'è sempre la rabbia prima di tutto il resto. Prima della delusione, dell'affetto, del senso di abbandono, della paura. La rabbia è tremendamente più facile da scagliare addosso agli altri.
Melissa si morde il labbro, le dita che ancora s'intrecciano nervosamente 
“Lo sai cosa-” 
“Sì, lo so, depressione post partum” si sente uno stronzo. Nell'esatto momento in cui il tono di quelle parole si sparge, disordinatamente ostile, nell'abitacolo, Harry sente di aver esagerato. 
Melissa ha occhi grandi di colore diverso, un particolare che lui ha notato il primo giorno di scuola in seconda media, e lo ha sempre fatto sentire in soggezione.
Quegli occhi lo fissano, i suoi zigomi e la sua tempia sinistra, catturano il margine dell'iride fissa sulla strada. 
“Non è stata una festa Harry. Per niente” distoglie lo sguardo da lui, e si lascia andare contro lo schienale. Non significa che si è rilassata, che è a suo agio. Significa solo che è stanca, così tanto da non riuscire a sfidarlo. 
“E adesso?” deglutisce, svolta alla prima uscita verso il centro, e si immette nel traffico. La macchina si muove a rilento, cautamente, e Harry si rilassa, il piede sulla frizione che smette di mandare crampi lancinanti a tutto il polpaccio. “Sbarelli ancora o...” sorridono entrambi del disagio smozzicato di Harry. Poco, in imbarazzo, ma quasi riescono a respirare meglio nell'abitacolo.
“Sbarello ancora, di tanto in tanto. Ma so cosa devo fare, come comportarmi. Sai, le cose che impari a conoscere di te stessa quando il tuo cervello ti manda a farti fottere” il semaforo diventa verde e si riflette sui loro volti seri. Harry rimane zitto ad ascoltarla, ad osservarla sorridere leggermente, e perdersi per quei quattro secondi necessari a rimettere insieme i pezzi, i giorni, le settimane. Forse i mesi, o forse no.
L'auto si muove lenta a trenta centimetri dalla Golf rossa e i suoi cinque passeggeri che agitano le braccia in aria ad ogni semaforo rosso.
Melissa resta ad osservarli con lo sguardo assente e cupo. Forse i suoi giorni a braccia in alto sono finiti, e Harry nemmeno se n'è accorto. Si rigira fra le mani un pacchetto di sigarette al mentolo, e lo guarda in silenzio per chiedere il permesso. Harry abbassa il finestrino del passeggero con il pulsante sul volante e frena. Rosso.
Il puzzle della sua faccia si ricompone sotto la luce dell'accendino, e sorride “C'è una persona. Nella mia vita intendo...lui ha qualcosa” aspira una boccata di fumo e la sputa fuori dal finestrino a metà. Lascia cadere la cenere con un movimento appena accennato dell'indice.
“Qualcosa?” Harry avverte quel brivido di anticipazione lungo la spina dorsale. Quella sensazione di chi sa che le poche parole che verranno dopo sono esattamente quelle che vorticano nella sua testa.
Avere qualcuno che tenga le cose insieme, o che le lasci incasinate, ma con uno strano senso che fa stare bene.
“Qualcosa” scrolla le spalle e indica un punto a pochi centimetri del suo specchietto “Attento allo scooter” abbassa il volume di Sunday Bloody Sunday, la quinta traccia sul cd “Non mi sento come se un frullatore mi avesse appena centrifugata e sparata nell'iperspazio. Sono sempre io, sai com'è, deliri e tutto il resto, ma lui è quel genere di persona con cui non devo fare sempre finta di essere normale, e sono molto meno incasinata se non devo pretendere da me stessa di non essere incasinata” sorride di nuovo, tamburellando le dita sulla mascherina dell'autoradio.
Poi lo guarda con l'espressione decisa e sarcastica delle interrogazioni a sorpresa alle superiori
“Accosta dai, siamo abbastanza lontani da casa perché non possa sclerare, uccidervi tutti e rapire Darcy” sorride mentre lo dice, con le spalle curve e i capelli sugli occhi, ma la sua voce non trema, né per la risata né per il pianto.
“Non l'ho fatto per-” la voce di Harry è intrisa di nevrosi e giustificazioni che si serrano, e di paure che affiorano. Ma lui e Melissa si conoscono da dodici anni due settimane e tre giorni, e hanno fatto un figlio insieme, in uno di quei giorni. E Harry ha visto gli occhi di Melissa svuotarsi di ogni cosa, di ogni senso e di ogni emozione, e implorarlo di costruire impalcature attorno alle parole, i gesti, la perdita. Di non abbandonarla alla deriva, e non abbandonare Darcy.
C'è qualcosa di denso e solido nel suo sguardo, sicuro. Forte. Non calmo, o pacifico, ma vibrante. Una sicurezza, una ruvidezza nuova che sa essere morbida senza deflagrare.
“L'hai fatto esattamente per quello” ridacchia, con quella stessa confidenza un po' brulicante di significati che li accomuna “Ma va bene, Harry, lo so che sono un casino. Tu hai tutte le fottutissime ragioni di questo mondo a fartela sotto”
Forse, proprio in onore di quell'intesa silenziosa, Harry deve scacciare la familiarità di quel momento e appesantire di nuovo l'aria.
“Io voglio solo sapere che vuoi fare Melissa. Tutto qui. Cosa cazzo vuoi fare” deglutisce nel gelo che ha seminato attorno a sé, nella tensione che irrigidisce le spalle di lei, il suo piede sull'acceleratore, sulla frizione. Il freno, prima di accostare e fermare la macchina, finalmente.
Melissa si stringe nelle spalle, riavviandosi i capelli dietro l'orecchio luccicante di piercing di varie dimensioni e metalli.
“Non sono venuta a riprendermi Darcy, se è questo che ti fa uscire di testa. Vorrei farlo, veramente, ma non lo farò” inspira “Ryan dice-”
“Ryan? È lui il mago del training autogeno?” l'amarezza, comunque, non lo lascia affogare del tutto
“Non sfottere Harold” 
“Scusa” sogghignano, uno strano vomito di tensione e pensieri che scrolla di dosso un po' di angosce
“Comunque sì, è lui. È un biologo marino, e gli hanno offerto una cattedra a Tampa, in Florida. È a posto, abbiamo parlato di questo un sacco di tempo”
“E...”
“E io ero dell'idea di piantare un casino che nemmeno Chernobyl per riprendermi Darcy e portarla in Florida con me.” risponde semplicemente, con sicurezza, senza vergogna. Harry invidia per una manciata di secondi la sua onestà, e altrettanto vorrebbe sbatterle senza complimenti il viso sul cruscotto.
“Lo sai come sono fatta...” non vuole scusarsi, perché ha ragione. Harry sapeva, nel momento in cui ha accettato di essere il padre di sua figlia in nome di quell'altalenante amicizia da persone psicologicamente disagiate, sapeva “Ryan pensa che non sia giusto, e io ti ho visto con Darcy, e con Gemma...non lo so. Sembri” allunga la mano destra su quella di Harry, tamburellando con leggerezza le sue nocche tese. Anelli che cozzano e individualità che si scontrano. Un mezzo sorriso sbocconcellato nello specchietto retrovisore, uno sguardo appena “stabile”
Stabile. Di tutti gli aggettivi che avrebbe potuto mettere insieme, Harry non si aspettava assolutamente la stabilità.
“Boh Harry, tu mi conosci, e io conosco te. Eravamo delle belle teste di cazzo alle superiori. Io lo sono ancora, di sicuro” ridacchia intrecciando l'indice a quello di lui “Ma in te c'è qualcosa che non riconosco, un modo più calmo di stare al mondo e...è bello. E non voglio farti questo e basta, per poi partire e far finta di niente” di nuovo quello sguardo. È come un punto fermo, una constatazione, una decisione già presa. 
Harry si passa una mano fra i capelli, in quella pausa dalla realtà che dura solo un paio di secondi, ma è incredibilmente confortante.
Sospira.
“Sarà una merda, e sarà un casino. E non voglio perdere mia figlia. Ma sto provando a far andare le cose un po' meno a puttane ultimamente, e sapere che una delle poche persone al mondo che non ha ancora messo una taglia sulla mia testa potrebbe odiarmi per tutto il resto della vita, non rientra nei miei piani” incrocia le braccia e si sistema meglio sul sedile “Voglio stare bene, voglio essere qualcuno a cui un bambino può appoggiarsi e sentirsi a sicuro. Non la madre depressa che non esce di casa per tre settimane e non mangia per giorni, e non si lava, e chissà che altro. E non sono quella persona, ancora” Harry si volta nella luce baluginante e lattea dei lampioni sulla strada. Si volta e aspetta. Non sa nemmeno cosa, forse un senso, o un punto a quella frase. Qualcosa di definitivo che lo lasci respirare regolarmente di nuovo. 
“Tu sì. Tu e Gemma, e quella strana combriccola di pazzi che ti porti appresso. E magari anche quel tipo con le bretelle...” 
Louis. Il rumore ripetuto che gli fracassa il cervello da mesi si acuisce un istante.
“Cosa?” lei sorride mentre Harry mette di nuovo in moto e fa inversione a U
“Credi che sia arrivata qui 'stasera, e sia entrata in casa tua come se niente fosse dopo quasi un anno?” sbuffa, e il fiato caldo che gli scivola fuori dalla bocca le scosta i capelli dal viso “Sarà la decima volta, minimo, che parcheggio sul vialetto e rimango in macchina ad osservarvi. So del tizio con la Porsche e le scarpe da fighetto. Hai la faccia da coglione quando stai con lui” 
Louis. La bassa frequenza della sua esistenza che spintona le tempie
“La faccia da coglione?”
Louis. La velocità delle onde nel suo cervello che impazzisce e perde il ritmo.
“Sì, la solita faccia che hai quando sei completamente perso per qualcuno, e non lo sai nemmeno”
Oh, lo so, col cazzo che lo so.
Louis.
Melissa espira, sorride, ride, sghignazza e ride di nuovo.
“Sei proprio fottuto”
Louis.
Quello che era un ronzio flemmatico fra le pieghe della sua materia grigia, è una sirena spiegata e lamentosa in cerca di una pace instabile e sclerotica.
Louis.

***

La tredicesima volta che capiti sullo stesso canale facendo zapping, forse dovrebbe balenarti vagamente per l'anticamera del cervello che sei uno sfigato irrecuperabile ed è ora di spegnere la maledetta tv.
Ma Louis abbandona il telecomando fra i cuscini del divano, e distende i piedi nudi sul bracciolo. Lo schermo resta acceso, il volume poco al di sopra della soglia di percezione, le immagini nitide da schermo in HD che si alternano stroboscopiche, ignorate. La luce nella stanza è confortante però, lasciarsi distrarre dal movimento, dal rumore di sottofondo, dalle parole vuote che mastica senza ascoltarle. Il silenzio è troppo ossessivo e claustrofobico. Louis ha sempre preferito la parvenza di caos alla calma. Luce accesa, qualsiasi rumore di sottofondo, anche solo l'impressione di non essere completamente solo.
La Corona sfrigola contro il lime infilato a forza nel collo della bottiglia, dimenticata. L'attrice della soap opera argentina in replica tutta la notte fissa il suo partner con lo sguardo inespressivo e desolatamente tragico tipico delle scene cariche di pathos, e lui continua a fissare il soffitto, annoiato.
C'è stata una festa, ci sono stati flash, autografi, rimpatriate alcoliche e aneddoti grotteschi da spogliatoio che aveva rimosso. Ex compagni di squadra dall'epidermide fritta dalle lampade e la pelle tirata sugli zigomi. 
Vecchi a trentanni, che non sanno più che scuse inventare per passare il tempo.
Ha rivisto un paio di ex fidanzate, modelle e attrici che non hanno mai davvero sfondato, e speravano in una spintarella alla carriera sculettandogli vicino a qualche cena e un evento nel fine settimana. Il suo vecchio manager, il doppiopetto e il Rolex, sorrisi falsi e piani machiavellici, alle spalle di un altro idiota pronto a uscire con la prima tizia anonima scritturata per la parte pur di non tradire l'immagine di gran scopatore in divisa da calcio.
Riesce a sorridere, anche, perché non essere più quella persona, adesso, è quasi come togliere un tappo dai polmoni e arrivare alla fine di un respiro senza tremare. Stringere qualcosa che prima scivolava, e guardare il suo riflesso sull'anta dell'armadietto senza la paura di perdersi in lineamenti tremolanti e tratteggiati malamente. 
È rimasto in piedi ad un certo punto, alla fine della serata, ad osservare quella gente conversare, bere, ridere e guardarsi attorno senza armonia. Senza intenzioni. Ciondolando nello spazio senza un peso.
Una direzione. 
Lou non sapeva nemmeno potesse esistere, prima, una direzione. Per i passi, i movimenti, gli sguardi, parcheggiare, telefonare, chiamare, fermarsi. Una direzione dove non avvolgere il nastro infinite volte per trovare un senso, e stare bene anche senza averlo, un senso.
L'odore della birra è quasi piacevole, la Corona si sta scaldando nella bottiglia, ma non gli importa davvero, perché anche la familiarità dello sfrigolare del lime e delle bollicine lo fa stare di merda. Anche la televisione a volume bassissimo, e quelle immagini schizofreniche sullo schermo, e lo stereo spento, e i cd che non ha ancora sistemato, e una strana voglia di ascoltare di nuovo i The Fray come quando si stiracchiava sui sedili dell'ultimo autobus di Doncaster dopo gli allenamenti, con i muscoli accartocciati e una fame comatosa.
Ha fame anche adesso, ma di un frigo quasi vuoto alla fine del mese e riempito con troppi omogeneizzati. 
Non di fragole del cazzo importate da chissà dove, Champagne e cibo imbustato pronto per il forno a microonde. Non è la fame di quelle cene senza gomiti sul tavolo e il sigaro alla fine della serata. Non della cocaina spalmata sugli specchietti del trucco, e la biancheria spaiata dimenticata fra i cuscini del divano. Non fame del cerchio alla testa e dell'incoscienza del giorno dopo, dei paparazzi appostati dietro i cespugli, e nei parcheggi degli alberghi. Non le interviste con gli occhiali da sole anche di notte per la sbronza ancora da smaltire.
Non ha fame della persona che era, e sbocconcellava risposte a metà condite di sarcasmo e prese in giro. 
È pizza di Domino's forse, una partita a Fifa sicuro di perdere miseramente solo per ascoltare le proteste di Zayn e la risata gorgogliante di Harry, nascosto dietro l'anta del frigo aperto e mezzo vuoto, un paio di birre comprate di corsa dal pakistano e troppi barattoli di marmellata aperti. Niall che lo sfotte perché è veramente da sfigati essere un ex capo cannoniere della Premier League e farsi stracciare a calcio da un irlandese mezzo ubriaco. È fame di quella pace disordinata sempre sopra le righe, di un caos armonioso e avvolgente che circonda ma non soffoca.
È voglia di casa. 
Una direzione.
“Cristo Louis, sei patetico...” Stan non ha nemmeno telefonato, ovviamente. 
Ha il doppione delle chiavi, perché dovrebbe degnarsi di avvertire.
Lou quasi riesce a ridere della cassa di Corona che ha appena appoggiato al tavolino da caffè accanto al divano. 
Patetico. 
Le bottiglie di vetro tintinnano sbattendo l'una contro l'altra, e Stan si lascia cadere nello spazio minuscolo lasciato libero dalle sue gambe distese
“E' sabato notte Tomlinson, cazzo. Mezzo Regno Unito venderebbe sua madre per essere dove sei tu, e ti nascondi in ciabatte dietro gli scatoloni del trasloco, sparandoti questa merda da pensionati, senza nemmeno essere vagamente ubriaco?” scuote la testa cercando il telecomando fra i cuscini.
Louis raccoglie le gambe e butta giù il primo sorso di birra
“Quindi?”
“Quindi usciamo, razza di imbecille. Usciamo e ci sbronziamo, e cerchiamo vagamente di scopare, e riempire questa solitudine esistenziale che non ci abbandona mai e bla bla bla” Stan armeggia con la prima bottiglia di Corona, la stappa e fa cozzare l'imboccatura contro quella di lui, in un brindisi muto, frettoloso e leggermente inconsapevole. 
“Stan...”
“Dio Santo Lou! Sono mesi che ti ossessioni con l'idea di tornare a giocare. E adesso sei qui, cazzo, hai così tanto tempo per giocare che potresti vederlo al mercato nero, e hai la faccia di uno che ha scoperto di aver mangiato i suoi genitori, una notte, tornando dal campeggio! Per l'amore di 'stocazzo coach, come minimo dovresti correre nudo sull'autostrada!” Louis beve in silenzio, fissando il soffitto. Stan ha ragione, e non solo perché è davvero stato ossessionato dall'idea di tornare a giocare praticamente dal momento esatto in cui ha scoperto di non poterlo più fare, ma perché essere lì è stata una sua scelta, una decisione che credeva di aver preso con naturalezza e razionalità. 
Automaticamente. 
Ma il Doncaster Rovers non vuole un allenatore, e Louis lo sa. Forse lo sa anche Stan, ma è sempre stato il genere di amico che prova a indorare la pillola, se riesce.
“Sono un cazzo di ragazzo immagine, Stan. Prime pagine e settimanali di gossip” ride amaramente, le bollicine della Corona che gli risalgono lungo il naso, il sapore acre del lime sulle labbra leggermente screpolate. Brucia un po'. Tutto brucia “io non so nemmeno da dove cominciare ad allenare qualcuno” si stringe nelle spalle, di una consapevolezza che ha qualcosa di piacevole. Remotamente e dolorosamente piacevole. È una certezza, per lo meno. Riuscire a riconoscere le proprie sensazioni e saperle catalogare in qualche modo. Metterle da qualche parte. 
E il senso di colpa lo lascia in pace per qualche secondo, perché non è solo lui che stava scappando, Simon, Louis, Cheryl, stavano scappando tutti quanti.
Forse anche Eleanor, forse Stan sta scappando in quel momento, con la sua birra già bevuta per metà e lo sguardo sospettoso.
Forse anche Harry, a Londra, cullando la sua bambina mentre canta Angie a mezza voce, e Gemma, Niall, quello stronzetto arrogante di Nick Grimshaw. Tutti quanti.
Lui che è scappato e Harry che l'ha lasciato andare.
Accampare una montagna di scuse per non battere le palpebre.
“Cazzate” sbotta l'altro “te la fai sotto e basta”
Sorride
“Anche. Sicuramente. Ma non solo...” si abbraccia le ginocchia, i piedi nudi che si raffreddano nella corrente fresca che entra dalla finestra socchiusa “E' qualcosa di ancora diverso Stan...io non voglio stare qui. Non c'è-” il giusto odore, la giusta consistenza. 
Harry.
La direzione.
Doncaster e il suo gazzettino del venerdì, le sue strade simmetriche e il caos che non esiste.
Non il suo caos.
Ed è surreale realizzarlo in quel modo, stravaccato su un divano nuovo, Stan seduto a malapena sul bordo del cuscino, la tv senza volume con la sua telenovela argentina in loop e una Corona appena toccata accanto. 
Odore di birra e di lime.
Disapprovazione e strane certezze.
Stan lo fissa senza parlare, osservando a sopracciglia aggrottate i percorsi di senso che tracciano le sue pupille. 
Louis ricambia il suo sguardo, un sorriso incerto e vago
“Lo so che stai pensando che sono un pazzo furioso sull'orlo di un esaurimento” l'altro tossisce ironicamente
“Lou, amico, è da una vita che penso tu sia un pazzo furioso. Ma all'esaurimento non c'ero ancora arrivato” sospira, si raggomitola accanto a lui sul divano e finisce la birra con un lungo sorso acrobatico “Ma non so perché sei qui, se ti fa così schifo” fa schioccare la lingua all'esitazione di lui.
Sorride, Louis William Tomlinson, perché lui invece lo sa.
Il cellulare vibra sopra la tv, abbandonato.
È tardi, incredibilmente tardi perché chiunque possa chiamarlo convinto che risponderebbe davvero.
Non è tardi. Se fosse lui non sarebbe tardi. 
Sarebbe solo tempismo del cazzo. Ma il tempismo è fottutamente sopravvalutato.
Non sarà mai tardi davvero.
Si alza, il contatto con il pavimento freddo che lo fa rabbrividire un po', un leggero formicolio alle dita dei piedi. Ha dato un calcio alla Corona per sbaglio e si è rovesciata. L'odore di birra è più intenso e confortante adesso.
Il telefono smette di vibrare, e una luce si accende ad intermittenza sullo schermo.
Louis armeggia con la password per sbloccarlo e legge, le lettere che un po' gli danzano contro le retine, perché è tardi, è buio e lui ha sempre avuto bisogno dei dannati occhiali anche se non li ha mai indossati con un senso logico.
“E' stata una serata assurda.
È una notte folle, e ci sono un milione di cose che vorrei dire, e devo dire, e ad un certo punto ero così fuori che pensavo davvero di trovarti a casa, alla fine.
È un messaggio del cazzo, ma sono sbronzo e sono le tre di notte, quindi chissenefrega.
Continuo a pensare che andrebbe meglio se ci fossi tu, anche se sei un cazzone fighetto con le scarpe da vela. Potrei gestirla meglio questa situazione assurda.
Va be'.
Spero che i tizi nella doccia abbiano la gobba e la gonorrea. Magari anche un pisello ridicolo. 
Fa un po' freddo qui”
Harry.
Ci sono almeno quindici errori di battitura, e il t9 ha corretto metà delle parole senza senso, ma è Harry. Completamente Harry. Sbronzo, depresso e logorroico Harry.
E' lui, di solito, quello che parla per riempire il silenzio che lo terrorizza. Louis, ogni volta, in ogni pausa. 
Harry di solito sorride, mastica continuamente il suo chewingum alla menta, lascia che le sue fossette rispondano al posto suo. 
Qualcosa dev'essere successo allora, si trova a pensare Lou senza nemmeno accorgersi di aver appena indossato a caso un paio di scarpe senza calzini.
“Lou! Lou! Dove cazzo vai? Louis!” Stan lo segue per la casa mentre infila biancheria sparsa e vestiti spaiati nel suo borsone da calcio nuovo di zecca.
“Devo fare una cosa” non sa nemmeno cosa. Non decollerà mai un aereo, a quell'ora, da Doncaster. 
Ma esistono i treni, e gli autobus, i taxi, l'autostop, gli alieni.
Andare a piedi anche.
“Sono le tre di notte cazzone! Hai una fottuta partita domani!” 
Responsabilità. Un sacco di vie di fuga. Un sacco di scuse a disposizione.
Nessuna che voglia davvero usare.
Scrolla le spalle armeggiando con gli occhiali da sole. È stupido pensarci in quel momento, agli occhiali. È notte, e il sole non è che splenda esattamente in stile California, a Docastero, o a Londra. Ma ci sono piccoli rituali che lo fanno sempre sentire meglio. Coprire gli occhi e nascondersi dietro un paio di lenti a specchio è una di quelle cose.
“Tanto sono in tribuna” scrolla le spalle impugnando la maniglia.
Stan emette un verso frustrato, sbattendo il ginocchio contro il tavolino da caffè
“Lou. Amico. Io non lo so perché sei venuto fin qui se non ci vuoi stare...se tornare a Doncaster ti fa sclerare e deprimere. Ma cazzo, amico, cazzo. Se non te ne frega niente dei Tre Moschettieri nei loro uffici dorati buon per te, ma almeno fallo per la squadra. Ci sono persone che si aspettano qualcosa da te.”
E' vero. Ed è una sensazione così strana da far formicolare la pelle. Qualcuno si aspetta qualcosa. Per la prima volta dopo mesi, anni, forse tutta la vita. 
E Louis si aspetta qualcosa da se stesso, e da Harry. E la sua vita, e i suoi amici. 
Quando smetti di essere solo, di sentirti solo, non importa più se lo sei stato davvero.
La squadra, e quei tre, e anche Eleanor, e sua madre, e chissà chi altro. Tutti si aspettano che lui sia la persona che ha promesso di essere.
Inspira, espira. La porta aperta su un corridoio monocromatico e ripetitivo. 
Responsabilità e fughe.
Addenta il labbro con gli incisivi, gli occhiali in bilico sul naso e la cerniera del borsone mezza aperta.
Il cellulare vibra di nuovo.
Harry.
“Scusa, sono un cazzone. Lascia perdere”
Resta immobile, Louis Tomlinson. In piedi, mezzo passo fuori, mezzo dentro. Stan che lo osserva in silenzio, la delusione e la preoccupazione ad alternarsi in modo discontinuo fra le pieghe della fronte. 
Stupido. Così stupido.
Harry ha una figlia, cazzo, e Louis una squadra, un'intera squadra.
Una vita. Doncaster. Amici, famiglia.
Forse vaghe possibilità di redenzione. Tornare indietro, crescere, magari diventare il genere di persona che Darcy potrebbe chiamare Boo quando lo vede arrivare, e non scappare via.
Ma sbattere ovunque come una pallina del flipper non è la soluzione.
Non quella che lui vorrebbe.
Non uno stupido aneddoto da raccontare agli amici fra dieci anni. Non una storiella ridicola su come è quasi andato in autostop fino a Richmond per piombare di nuovo nella vita della persona che avrebbe potuto amare.
Essere quella persona. 
Si lascia cadere sul divano, la testa che precipita pesante sullo schienale.
Sospira.
“Ma che cazzo c'è di marcio nel mio cervello Stan?”
L'amico sorride, stappa una birra, e butta giù un sorso
“Ti rispondo se mi fai il piacere di toglierti quei ridicoli occhiali da sole” sorride anche Lou, chiudendo gli occhi un istante prima di lasciar cadere gli occhiali sul divano.
Si passa una mano sul viso.
Una vibrazione.
Due.
Tre.
“Non lo so ma” il primo messaggio
“Sono un cazzone” il secondo
“Arriviamo” il terzo.
Harry.
Arriviamo.
La Corona non gli cade dalle mani solo perché Stan ha ancora i riflessi allenati di un portiere.



















Notine^^: non so più cosa scrivere in queste note...se non grazie di cuore per tutto l'amore che vortica attorno a tutto questo. Io non ci sono abituato ahahahah
I Larry vi amano, e io pure <3

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Capitolo 8
*** Guardrail, bruciato e condensa. ***


Ai CO su Twitter, di Harry, di Harry, di Harry,
e di Nick Grimshaw e le sue CAAAAKEEEEEEEEE.





 
Guardrail, bruciato e condensa.



And I'll be gone gone tonight
The ground beneath my feet is open wide
The way that I been holdin' on too tight
With nothing in between
(Story Of My Life, One Direction)


Harry si chiede quanto ancora riuscirà a resistere alla tentazione di buttarsi fuori strada. Seriamente, l'amore un po' naif che ancora prova per gli altri passeggeri di quella specie di regata velica del disagio emotivo, in quell'abitacolo soffocante che odora vagamente di tacos, è l'unico ronzio nella sua calotta cranica dolorante che gli abbia impedito di andare a sbattere contro il guardrail alla dodicesima strofa inventata da Niall di When The Saints Go Marching In. Gemma ha infilato a forza nelle orecchie un paio di tappi da carpentiere, di quelli che si indossano per usare il martello pneumatico, eppure l'altro non ha colto il sottile sottinteso della crisi isterica di sua sorella poco prima di biascicare scuse nervose e crollare addormentata sul sedile.
Ha trascorso le passate due ore senza smettere di parlare nell'orecchio sinistro di Harry, le mani aggrappate ai sedili e la sua parlata irlandese appesantita dalla stanchezza e l'adrenalina. 
Darcy, miracolosamente, mugugna qualche inintelligibile verso ogni tanto, ma non sembra minimamente provata dal casino folle e nevrotico di quel viaggio notturno.
Addormentarsi con i Rolling Stones in sottofondo ha probabilmente contribuito ad abituare la sua fase REM al delirio di onnipotenza musicale.
A discolpa di Niall va detto che Harry ha rischiato di addormentarsi tre volte. La prima mentre Jeff Buckley lasciava morire le ultime note di Hallelujah, la seconda all'ultima strofa di November Rain, e la terza cinque minuti prima, mentre Etta James gli scioglieva ogni muscolo sottocutaneo con l'addio definito al suo amore in At Last.
Ripete sempre a se stesso di preparare compilation che non istighino il prossimo al suicidio, ma Zayn, offrendosi di rimettere in ordine casa e preparare il divano letto in salotto per ospitare Melissa, ha proposto un rapper bosniaco crivellato di pallottole nella guerra del Kossovo per chissà quale ragione, e Gemma si è rifiutata categoricamente di intervenire, quindi Harry ha pescato un cd a caso nel cruscotto senza pensare alle conseguenze.
Niall ha solo cercato di tenerlo sveglio senza dover dire apertamente che stava cercando di tenerlo sveglio, e Harry prova davvero a sputare fuori il grumo di gratitudine aggrappato allo sterno, ma resta solo zitto, accostando alla prima stazione di servizio per recuperare almeno la lucidità.
Manca meno di un'ora di viaggio, il cielo è di quel verde gelido da alba imminente, e la necessità epidermica di ubriacarsi di caffeina gli sta rosicchiando via la volontà. 
“Hei...hei” scuote leggermente Gemma dal sonno artificiale prodotto dal spossatezza e ansia. Forse non gliel'ha detto, e si è limitata a salire al piano di sopra a preparare la borsa per Darcy, ma non le piace per niente il fratello che vede. 
D'altra parte è a causa di quella stessa irrefrenabile istintualità che si è trovato solo con una neonata su una metropolitana di Londra in pieno inverno.
Forse la spaventa quel Harry incapace di arginare le intenzioni.
Forse lo sente sfuggire al quotidiano, alla tranquilla routine famigliare che hanno creato.
Forse non ha paura solo per Darcy, ma anche per se stessa, per quella casa con la ringhiera rosa che sembrerebbe tremendamente grande e vuota, e che risuonerebbe di quell'eco al riverbero di fallimento nelle sue orecchie abituate a Barry White in sottofondo e X Factor in replica il sabato sera.
Dovrebbe davvero fare quel discorso a Niall, alla fine, se Harry, Darcy, il forno, la birra ghiacciata in freezer, la tv, una bella canzone alla radio, il telefono o l'avviso di chiamata di Skype non fossero più buone scuse da interporre fra lei e quel bacio del cavolo che lui aspetta da quando, in terza liceo, per poco non finivano Sette Secondi in Paradiso nel sottoscala.
E lei era all'università, ed era irraggiungibile, e nessuno l'avrebbe mai detto che sarebbero finiti a spartirsi una Corona davanti alle repliche di Catfish, con Darcy che strillava come una banshee in braccio ad Harry che tentava invano di calmarla cantando a squarciagola I Don't Wanna Miss a Thing.
E lui non vuole davvero metterla di fronte alla realtà, perché era uno che scappava come se avesse avuto spacciatori colombiano alle calcagna da ogni possibile “realtà”, ma sanno tutti e tre che quel viaggio assurdo immersi nella nebbia autunnale dello Yorkshire non è una visita di cortesia a Louis Tomlinson.
Forse è un sofferto ciao, forse uno spasmodico arrivederci fatto di gambe che si agitano e braccia che svettano in aria. Ma non esiste punteggiatura forte capace di chiudere quella frase definitivamente.
Non con Louis.
E la loro casa forse odorerà di vaniglia, cannella e borotalco ancora a lungo, o forse no.
Ma le persone che torneranno indietro non saranno le stesse parcheggiate in quella stazione di servizio sotto un cielo grigio-verde, nel freddo umido e bagnaticcio delle ore che precedono l'alba, a barcollare fino alla porta girevole per una tazza di caffè e un bagel. Harry non si sente a suo agio nella sua pelle da nove mesi cinque giorni e diciassette ore. I suoi tatuaggi sembrano più scuri, e allo stesso tempo meno definiti, come i perché. Eppure a volte prudono, come se volessero ricordargli qualcosa. 
Ha una figlia che dorme nel marsupio per neonati attentamente assicurato alle sue spalle, e l'odore di ammorbidente, omogeneizzato e crema per le irritazioni da pannolino crea una nube di profumi quasi alienante. 
La commessa della tavola calda lo fissa incerta, poi osserva Gemma e Niall per intuire il filo di parentela che li unisce. Forse vuole provare a raschiare al di sotto delle bretelle del marsupio, del giubbotto di jeans imbottito di lana. Della pelle, magari.
O forse è solo curiosa.
Non gli interessa, non finché Niall non avrà finito il suo caffè, e Gemma la sua ciambella. Non la colazione del campione, ma i carboidrati e gli zuccheri mantengono svegli quasi quanto la caffeina.
Tornano in macchina avvolti da un silenzio stiracchiato e un po' ombroso. Sua sorella resta testardamente zitta ancora per un quarto d'ora, prima che Niall si schiarisca la voce
“Ok, qui dentro abbiamo un problema serio. Sono finite le M&M's e tua sorella sta rovinando il mio viaggio con tutte quelle occhiatacce di traverso” si lamenta addentando il secondo toast farcito.
Lo stomaco di Harry si contorce ad ogni chilometro macinato verso Doncaster.
“Niall non è aria...” lo minaccia stancamente Gemma appoggiando il gomito al finestrino sollevato.
Harry inspira, controlla lo specchietto retrovisore, espira.
Gira il volante e accosta con una frenata brusca e una strombazzata di clacson incazzato dei pendolari delle sei di mattina.
Gemma si regge al cruscotto, Niall pianta il braccio contro la portiera per riparare Darcy dalla frenata, e Harry impreca.
“Cazzo. Cazzo. Cazzo” sua sorella lo fissa a occhi sgranati, mentre il pianto confuso di sua figlia si insinua fra la tensione e la stanchezza.
Gemma non si preoccupa nemmeno di fargli notare l'inutilità controproducente del suo linguaggio, e incrocia le braccia al petto
“E quindi?” 
“Quindi cosa?” Niall slaccia la cintura di Darcy e la fa scivolare sul sedile anteriore, incastrandola fra le braccia di Harry. Il battito del cuore la calma sempre.
Non smette di piangere, ma si lamenta a ritmo con il respiro di lui.
Harry riesce a divincolare il pensiero della figlia da quello della sorella, e per un secondo in quella nottata esasperante, riesce ad allontanare quello di Lou, a sempre meno chilometri di distanza, e a quello che non vorrebbe essere costretto a fare e dire. 
Non un minuto, uno solo, nell'abitacolo della sua monovolume, è riuscito a smettere di pensare alle briciole d'asfalto macinate sotto i suoi pneumatici, ai chilometri rosicchiati velocemente, al cielo sempre meno scuro e al freddo sempre più umido. Non un minuto il pensiero di quel viaggio ha lasciato arieggiare la sua mente. 
Perché? Che senso ha? Chi sei tu, e dove hai messo Harry Styles, padre di una bambina di nove mesi che ha bisogno di dormire nel suo letto, al caldo, otto ore filate, anziché sonnecchiare in un seggiolino sparata a cento all'ora sull'autostrada per Doncaster, South Yorkshire.
“Quindi dimmi se devo tornare indietro” Gemma, come sempre, col suo silenzio ferito e la sua muta ostilità, ha solo fatto da megafono a quei pensieri asfissianti incarcerati dietro le palpebre “Dimmi solo se devo uscire alla prossima e tornare indietro, a Londra, a fare finta di non aver nemmeno mai avuto lontanamente l'idea di salire in macchina” respira lentamente, gli occhi alla ricerca delle iridi in penombra di sua sorella, il silenzio quasi artificiale di Niall, e il pianto incredibilmente realistico di Darcy. La culla quasi meccanicamente, un orecchio sempre adagiato su di lei, nonostante tutto, ma tutti gli altri sensi intrecciati in qualche modo attorno a sua sorella.
Gemma usciva di nascosto a comprare i marshmallow perché lui non poteva mangiarli, e terrorizzava i tizi che volevano picchiarlo alle medie, e probabilmente aveva convinto Missy Conroy ad accettare di uscire con lui il secondo anno.
Gemma è sempre rimasta attorno a lui a vorticare in silenzio, una presenza rassicurante e quasi mai muta. Ha aperto la porta di casa, alle due di notte, alla sua faccia da schiaffi e alla sua bambina appena nata. Ha ridipinto la ringhiera di rosa, ha messo a scaldare bollitori, ha cucinato cene, ha ordinato pizze, ha chiamato amici, ha dormito raggomitolata sul divano aspettando che rincasasse. Anche se non vuole ammetterlo, e probabilmente dalla sua bocca non scivolerà mai fuori una confessione, ha anche cantato canzoni per far addormentare Darcy, ha rammendato tutine e ha imitato le voci stupide dei cartoni animati per farla ridere. Ha fatto smorfie e qualche pessima imitazione di “Cucù Settete” fra le sbarre di legno del suo lettino.
Harry non riuscirà mai a mettere insieme parole abbastanza sensate e credibili per poterle dire grazie. Tanto meno in quell'abitacolo, con il cielo verde che diventa rosa e le occhiaie fin sulle guance. Niente che sua sorella già non sappia.
Tornerebbe indietro, probabilmente, se Gemma glielo chiedesse. Se volesse far scivolare le dita su quel vetro rotto che riflette i precedenti nove mesi come una Casa degli Specchi difettosa e li risputa indietro frastagliati. 
Probabilmente smetterebbe di dimenarsi in quella situazione crudele, se solo Gemma dicesse basta. Se lo riportasse alla realtà.
Una realtà che non contempla le scapole leggermente asimmetriche di Louis Tomlinson, e le sue spalle esili, i suoi tatuaggi, la sua voce stridula e la sua risata atteggiata. Le ossa sporgenti delle caviglie e dei gomiti.
Una realtà comatosa e stantia, ma sicura.
Se Gemma glielo chiedesse, potrebbe davvero.
Lei sospira, di una frustrazione così pesante che quasi fa rumore cadendo sul tappetino dell'auto. Chiude gli occhi a lungo, cercando di riallacciare discorsi fatti a se stessa in mezzo a sinapsi addormentate e stressate. 
“Tu vuoi tornare indietro? Perché io ti conosco Harold Edward Styles, da quando te la facevi sotto per gli scherzi telefonici da una stanza all'altra, e collezionavi le figurine dei Pokémon. Ti conosco, e lo so cosa vuol dire quella faccia, e te che ti mangi di nuovo le unghie dopo chissà quanto tempo. E so che se prendi tua figlia di nove mesi e la metti a caso sul seggiolino della macchina per andare fino a Doncaster è perché quel tizio assurdo con la voce squillante ti aspetta lì. O magari nemmeno ti aspetta, io non lo so. E la cosa che più di ogni altra mi fa diventare isterica, a parte Niall che imita  Louis Armstrong in quel modo atroce, è che nemmeno tu lo sai, Harry, se lui ti aspetta davvero” prende il respiro, immobilizza le mani che gesticolavano un senso a corrente alternata davanti al viso “E non te ne frega niente. Perché in qualche modo lo obbligherai ad aspettarti, e aspetterai lui, e non lo lascerai andare come fai sempre con tutti perché è troppo complicato. E mi fai paura adesso, perché tutto questo è fottutamente enorme per tutti noi, eppure siamo qui, alle sei di mattina, in un'area di sosta d'emergenza, ad ascoltarti mentre chiedi a ME se devi tornare indietro”
Niall le accarezza una spalla. Fa finta di non accorgersene, e Gemma altrettanto, ma le sfiora il cotone del golfino, il collo e la spalla.
Harry resta immobile ad osservarli, un'impercettibile connessione tessuta silenziosamente. Nuovi ritmi e nuove abitudini. Intrecciare nuovi momenti su quelli vecchi, e guardarlo fare lo stesso. Senza rancore, pudore, dolore.
Capaci di costruire,  a partire da quel contatto infinitesimale di polpastrelli ed epidermide, qualsiasi cosa. Una vita intera di nuovi nodi.
Darcy si è addormentata contro il volante, la testa leggermente inclinata e i pugni chiusi attorno alla stoffa del suo maglione slabbrato e bucherellato sul collo da una bruciatura di sigaretta. Respira regolarmente, profondamente, e sospira di tanto in tanto, come se fosse impegnata in una snervante conversazione con i protagonisti dei suoi sogni.
Il battito cardiaco di Harry la culla con una lieve aritmia. Ma non è mai stato un cuore che seguisse il ritmo imposto dalla regolarità, il suo.
Slaccia la cintura e la poggia sul seggiolino, assicurandolo al sedile.
Gira la chiave nel quadro e riparte.
E io voglio tornare indietro?

***

Bruciato.
Prima flebile e appena accennato, poi prepotente, quasi asfissiante.
L'allarme antincendio che fischia come una sirena spiegata. L'acqua che spruzza dagli idranti di sicurezza fissati al soffitto.
Qualcuno bussa alla porta febbrilmente, chiamando, urlando, imprecando.
Louis si alza barcollando dal divano, Stan ha lasciato solo bottiglie di birra vuote e si è volatilizzato. Un cerchio alla testa, vago, di sonno e attesa più che uno strascico di Corona dietro le palpebre.
“Mi sente? Signor Tomlinson mi sente? Sono il capo dei pompieri di Doncaster, è cosciente?” si appoggia alla porta chiusa e toglie il blocco dalla serratura.
L'allarme che lo insordisce, s'insinua fra i neuroni e gli impedisce di pensare.
Harry.
Arriviamo.
E basta.
Socchiude la porta e i pompieri quasi lo spingono a terra per la furia di precipitarsi in casa. È surreale, comico e anche leggermente patetico. Lui, più che altro, che riesce solo ad osservarli a piedi nudi e calzoncini corti dimenarsi nella sua cucina e in salotto, disattivare l'allarme e rigirarsi fra le mani il bollitore d'acciaio quasi carbonizzato.
Uno di loro, un armadio biondo che ha fatto le scuole medie due anni avanti a lui, lo guarda pietosamente.
Lou ricorda vagamente di aver messo a bollire l'acqua per il the, e di essere crollato sul divano nemmeno dieci minuti dopo. Il bollitore ha fischiato, ha sbuffato, ha pianto e l'acqua ha continuato ad evaporare per ore.
Si morde il labbro, si stringe nelle spalle, se solo non fosse lui probabilmente abbasserebbe lo sguardo e chiederebbe scusa.
Ma resta zitto ad osservarli controllare la tossicità dell'aria, sciaguattando nel pantano che è casa sua, scalzo, la maglietta fradicia e i mobili high tech da buttare.
Sorride, di quelle risate un po' angosciate e un po' isteriche, che si trovano a metà fra la crisi e il crollo nervoso. Ed è accorgersi che non gli interessa davvero, non come dovrebbe, lo stato in cui versa il suo salotto, perché il suo cellulare squilla di nuovo sul tavolino accanto al divano, fra una bottiglia mezza piena di Corona e il telecomando della tv, è quasi come uno strano spasmo muscolare. Al viso, allo stomaco e al miocardio.
Harry.
Arriviamo.
Aspetto.
Quello che è presumibilmente il capo dei pompieri gli si avvicina con il bollitore in mano e l'espressione di un padre deluso
“E' fortunato che questo appartamento è nuovo e ha il sistema dall'allarme antincendio funzionante. Poteva morire intossicato” ha lo sguardo grave e i baffi brizzolati. Un accenno di cicatrice da ustione sul lobo dell'orecchio sinistro, forse una scintilla o una fiammata di ritorno che lo ha mancato per un soffio. 
Getta uno sguardo sulle birre vuote, la confezione da dodici quasi piena e le bottiglie di vetro lasciate accanto al divano da Stan. Tre Corona non sembrano giustificare una strage evitata per un soffio. Non dice niente, mordicchiandosi i baffi soprappensiero.
“Scusate per il casino ragazzi” sussurra Louis alla fine, il cellulare che lampeggia a pochi metri e una fretta dannata di rimandarli tutti a casa. “Vi offrirei una tazza di the, ma direi che per 'stavolta passo” ridacchia senza un vero motivo, gli altri tre che si rilassano un po' osservando il capo distendersi. 
Non è una tragedia in fondo, solo attesa.
Non è ingratitudine, è solo attesa.
L'uomo più anziano lascia cadere sul tavolo della cucina il bollitore bruciacchiato, e scrolla le spalle
“Direi che qui non serviamo più a niente” si volta verso i più giovani, un po' burbero “Ragazzi...” 
Uno di loro, il più alto e dinoccolato, con due occhi verdi quasi privi di ciglia, gli si avvicina timidamente
“Tu sei Louis Tomlinson dei Rovers? Il cannoniere?” lo guarda con un misto di ammirazione e sfida, perché in fondo lo ha appena beccato con le braghe calate, e anche se da ragazzino appendeva i suoi poster al muro, gli ha tecnicamente salvato la vita. Che la sua presenza non fosse assolutamente necessaria, non lo racconterà di sicuro, al pub, a fine turno, alla barista carina che lo ascolterà descrivere minuziosamente di come abbia sfondato con una spallata la porta di casa dell'ex capitano dei Doncaster Rovers per salvarlo dalle fiamme divampate nel suo appartamento dopo un festino sesso e droga.
Lou annuisce, ignorando l'invasione di immagini di sé dipinto come il solito ex sportivo fallito che torna alla carica con feste da coma etilico e postumi da rock star. 
Nemmeno di quello che scriveranno su di lui i giornali il giorno dopo gli frega davvero.
L'altro gli porge un fazzoletto di stoffa un po' annerito dal fumo e sorride timidamente
“Puoi farmi un autografo? Mio fratello ti adora...” è un diverso tipo di soddisfazione quella che striscia fra la gola e lo stomaco. Non l'automatismo di sempre, le aspettative, le nevrosi e le attese. Solo un ragazzino da sorprendere con una dedica inaspettata. Piccole soddisfazioni quotidiane da impilare e restare a guardare per un po' a fine giornata. Non l'eroico Louis Tomlinson che torna alla ribalta dopo un infortunio, e si riscatta come allenatore riportando la squadra alle antiche glorie. Non qualcuno che era famoso qualche anno fa, e cerca, strisciando sui gomiti, di catturare uno spiraglio di fama prima che passi del tutto.
Solo un ragazzo che è stato famoso, ammirato, adorato, invocato dagli spalti, che scarabocchia il suo nome su un fazzoletto annerito nel bel mezzo di una situazione imbarazzante, pensa solo che deve sbrigarsi, che è tardi, che deve arrangiare qualcosa per colazione, in attesa.
L'attesa.
Sorride, perché quel fantomatico fratello forse nemmeno esiste, ma non importa.
Sorride perché Harry riderebbe di quel gigantesco pompiere, un po' costretto dalla tuta ignifuga, che riesce a trovare un fazzoletto di stoffa con le sue iniziali ricamate dalla madre alle elementari sotto strati e strati di pesante armamentario.
Riderebbe della sua espressione e di quella di lui. Riderebbe di tutto, con la sua voce roca e umile, da amicone.
Recupera una penna fra i cuscini del divano, una di quelle che per stupida ripicca ha rubato a Simon alla cena con i finanziatori, e scarabocchia il suo nome con la solita calligrafia svolazzante da primadonna impegnata. Poi lascia al ragazzo anche quella, e scrolla le spalle
“Magari varrà qualcosa, fra dieci anni, su Ebay” sorridono entrambi, in modo diverso, asimmetrico e inconciliabile, ma sorridono.
I pompieri se ne vanno accompagnati alla porta dalle scuse di Lou e un vago odore di bruciato, le finestre spalancate a lasciar entrare il freddo umido delle sette e mezza di mattina a Doncaster, e lui che trema di freddo correndo ad infilarsi sotto la doccia incandescente.
Il cellulare vibra di nuovo, ma Louis può solo imprecare, insaponato, sotto la doccia.
Si sciacqua velocemente e corre per casa con i piedi fradici, acqua che si mescola ad altra acqua ormai stagnante sul pavimento in legno. La cucina è un disastro di frutta da buttare e mobili da asciugare, ma il cellulare sta vibrando, ed è questione di priorità.
Messaggi vuoti.
Due.
Schermate bianche che gli strappano via l'aria dallo stomaco come un principio di annegamento. 
Uno strano senso d'attesa e di perdita si rincorrono nel suo stomaco. Aspettare così tanto qualcuno gratta via dalla bilancia i pesi e le misure. Aspettare qualcuno la cui assenza ha il sapore della solitudine vuota e scheletrica contro il palato. Aspettare qualcuno così tanto è come salire sul tetto di un palazzo e sventolare una resa incondizionata senza sapere se il cielo sta cadendo o sono solamente tuoni.
Si asciuga distratto avvolto nell'accappatoio, i capelli umidi che odorano ancora vagamente di bruciato e fanno a pugni con il bagnoschiuma ai frutti tropicali. E vorrebbe davvero chiamarlo per sapere se è vero, se è salito in macchina alle tre di notte solo per raccontargli di Melissa, di Darcy, dei pannolini, dell'inflazione e la crisi economica. Se ha davvero lasciato che Richmond diventasse minuscola nello specchietto retrovisore della sua monovolume per mordere l'asfalto, sfogliare i guardrail e scartabellare chilometri fino allo Yorkshire. Se è davvero arrivato fin lì senza motivo, altro motivo che non sia Louis.
Perché centinaia di persone hanno preso aerei, treni, autobus e taxi per vederlo giocare, e segnare, e vincere, o perdere, anche.
Ma nessuno, mai, solo perché lui era lì. Senza nient'altro da dire e dare che una cucina allagata e la puzza di bruciato contro tutte le pareti.
Il citofono squilla di un rumore trillante e fastidioso fra quei pensieri, fra la rilassatezza e la tensione spasmodica, e la rassegnazione, che è comunque appoggiata alla sua pelle, sempre, anche quando si gratta fino a sanguinare per scacciarla.
Squilla di nuovo, due volte, e Louis si sente pizzicare le ossa al pensiero che siano altri giornalisti, Simon con il contratto per la pubblicità di uno shampoo antiforfora, o qualche pazzo invasato vestito di tritolo che vuole farsi saltare in aria con una celebrità. 
Spero sinceramente scelga di meglio.
Lascia squillare nel silenzio accartocciato dal fumo e l'umidità gelida che entra da fuori. Si lascia cadere sul divano fradicio e appoggia la testa allo schienale.
Il campanello.
Solo un secondo, mezzo secondo, e realizza che, cazzo, potrebbe essere lui.
Per davvero.
Ed è una sensazione ancora diversa. Un misto di sollievo, terrore, panico ed euforia.
Un vago senso di nausea e una fame insaziabile.
Saltare e piangere. Sdraiarsi a terra e ridere.
Socchiude la porta, a malapena, le aspettative che fanno a pugni con la razionalità e le insicurezze da ragazzino troppo basso che vuole fare il calciatore. Tutte le donne della sua famiglia e quei padri che si alternavano come i baristi dietro il bancone della tavola calda sotto casa.
Affetti mescolati, e solo battiti di ciglia per salutarli e passare oltre.
Inadeguato, sempre, perché a dire addio si deve essere allenati, e lui piangeva sempre troppo, e aveva sempre troppa nostalgia, di tutti.
“Se chiedo ancora a qualcuno dove abiti mi denunciano per stalking”
Harry. Un sorriso storto di occhi pesti e la gola raschiata dalla stanchezza e il freddo. Darcy che dorme con la testa penzoloni nel marsupio, sbavando leggermente sul suo maglione liso.
Harry.
Gemma incazzata come un pitone che si sta appisolando contro la parete del corridoio e sulla spalla dell'irlandese folle, un sorrisone da overdose di anfetamine e il suo strano senso dell'umorismo.
Harry.
Louis spalanca lo sguardo, un'incredulità che non riesce a mascherare, lo sguardo dell'altro che lo studia, lo prende in giro.
“Amico, a me piace il tuo corridoio eh, ma ho un sonno che dormirei in piedi...” Niall, se possibile, parla con un accento ancora più marcato quando è stanco.
Gemma nemmeno parla, perché ha sacrificato il dono della parola per tenere gli occhi aperti.
Si trascinano tutti nell'appartamento senza quasi staccare i piedi da terra.
Bruciato. 
Acqua a terra e sui mobili.
Le finestre spalancate e la nebbia fradicia che si spande in tutta la casa.
“Ma che caz-” Gemma ha ancora la determinazione di pizzicare il bracco di Niall per impedirgli di dire parolacce. È una titanica rompipalle, ma Lou è sospeso in un limbo di emozioni troppo rifrangenti per partorire pensieri sensati in proposito.
Riesce solo a seguire Harry che si muove per la casa perfettamente a suo agio, anche nelle pozzanghere sparse sul pavimento, anche nel gelo. Sempre, come se fosse nell'unico posto al mondo dove riesce a respirare.
Dove tutto ha senso.
E quelle quattro mura a mollo nell'acqua dei getti di sicurezza, i mobili comprati in stock e gli scatoloni ancora da svuotare, sono diventate casa sua.
“Mi sono addormentato con il bollitore sul fuoco” borbotta all'espressione sospettosa di Gemma. La risata energica di Niall sembra spazzare via ore di viaggio e sconcerto.
Louis indica loro una porta chiusa con la maniglia ancora avvolta nel rivestimento di sicurezza
“E' la stanza degli ospiti. Credo. Ci sono un letto e un divano, fate a pari e dispari” si stringe nelle spalle e si passa una mano fra i capelli che si sono asciugati a caso. 
Si è accorto di aver addosso solo un accappatoio e una sola ciabatta. Si trattiene dall'imprecare almeno fino a quando Gemma non sarà crollata nella più profonda fase REM.
Armeggia con l'impianto di riscaldamento accanto al camino, e il rumore dell'acqua calda che scorre nei termosifoni ha un suono incredibilmente incoraggiante.
Chiude tutte le finestre, affacciandosi sulla strada in una ricerca inconscia di un paparazzo appostato fra i cespugli di ibiscus dall'altra parte della strada, o assurdi tizi col giornale al contrario seduti sulle panchine. Di qualcuno capace di frantumare sotto i tacchi di un paio di scarpe ortopediche quella curiosa e barcollante felicità intrisa di nebbia e spossatezza.
“Hei” Harry lo squadra, quel sorriso obliquo che lo fa sempre sentire inadeguatamente giusto.
Non riesce a smozzicare altro che un saluto atono prima di guidarlo in camera da letto, lenzuola sfatte e vestiti disseminati ovunque. Lui sghignazza mentre sistema Darcy al centro del materasso matrimoniale.
Louis si infila in bagno per indossare almeno un paio di pantaloni della tuta dall'elastico cadente e una maglietta, mentre la temperatura si avvicina a valori adatti alla sopravvivenza dei mammiferi.
Si ferma sulla porta ad osservare Harry sistemare un cuscino contro la testiera per non farle sbattere la testa, ripiegare le coperte perché non rotoli giù mentre dorme, e riservarle una manciata di quelle accortezze silenziose che lo hanno ipnotizzato quella sera folle in cui è trascinato fino a Richmond con la stupida convinzione di aver rimorchiato il solito single disimpegnato con una villetta a schiera e la noia appesa alle ossa.
Silenziose gentilezze quasi automatiche per cui Harold Edward Styles di Holmes Chapel non si aspetta alcun ringraziamento, che non si accorge nemmeno di offrirle, che scivolano fra loro senza far rumore.
Resta a guardarli per un attimo, solo per assorbire il tintinnio dei braccialetti e gli anelli, le pieghe della t-shirt degli Who nascosta sotto il maglione abbandonato sul letto, i versi sconnessi e il frusciare distratto delle lenzuola. I ricci incasinati e le mezze risate roche di Harry strozzate all'ultimo per non svegliarla.
“Avete trovato traffico?” non ricorda nemmeno perché avesse così tanta paura, adesso.
Tutto fischia e trova un posto, anche se non era quello che aveva previsto.
Harry lo osserva per un attimo e sorride scrollando le spalle
“Il solito. C'era un pullman di imbecilli che veniva a vedere una partita di calcio” si sistema sul materasso accanto a Darcy.
Louis si appoggia al muro a braccia conserte e sbuffa sarcastico
“Che coglioni” 
“Che è successo con il bollitore?” Harry sbadiglia vistosamente.
Allunga una mano, di nuovo.
Solo una mano. Tonnellate di anelli di acciaio e le sue mani dalle dita lunghe e le unghie rosicchiate.
C'è un posto vuoto.
E quello spazio è molto più che metaforico.
Una sola mano per dirgli che manca, da qualche parte, a tutti loro.
Il muro si allontana dalla schiena di Louis, il pavimento dalle piante dei suoi piedi. L'aria manca per un attimo, ma è solo un nulla momentaneo, un rigurgito di terrore e responsabilità.
Un posto vuoto accanto a Darcy e le lenzuola ripiegate come un'imbragatura. Un momento paurosamente famigliare. Una fotografia di intenti.
Harry.
Un sorriso tremolante d'attesa.
Lasciarsi cadere nella vita di qualcun altro come su un letto da rifare.
“Mi sono addormentato mentre guardavo un porno sulla pay per view” e si sente un imbecille a parlare di porno con una bambina di nove mesi addormentata a pochi centimetri.
Ma può essere imbecille con Harry.
È qualcosa di spaventosamente vicino all'unica persona con cui può farlo.
Lui e la sua figlia neonata che gli sta sbavando sulla maglietta, la mano stretta a pugno sulla decalcomania sbiadita del simbolo della Nike. Lui, la sua bambina neonata, la sorella psicopatica e un carrozzone di amici da circo, Nick Grimshaw e madri scomparse che riappaiono, tutti nella stessa puntata.
“La pay per view? Come sei anni '90” ridacchia, con quella strana luce arancione nascosta dentro gli occhi che gli fa pizzicare la bocca dello stomaco.
Harry e quella vita così intricatamente complicata che nessuno sceglierebbe per la pubblicità dei biscotti, ma che a Lou ricorda il the delle tre di notte e le risate soffocate con le lenzuola per non svegliare nessuno.
Impronte di vernice rosa sulle pareti della vita patinata di Louis Tomlinson del Doncaster Rovers, fatta di muri tirati su con un cemento di sorrisi falsi e occhiali da sole al chiuso per nascondere le occhiaie.
Un prato sempre da falciare e una veranda sporca di fango a buttare giù tutto.
Si rilassa contro il cuscino, Darcy che appoggia la fronte al suo sterno, e resta lì.
E Harry che non si muove di un centimetro per spostarla, sistemarla, avvicinarla a sé.
È lei che ha deciso.
Boo.
Anche Louis sorride, sistemandosi meglio sul materasso per incunearsi fra lei e il bordo, i piedi sempre freddi di Harry intrecciati alla caviglia, e quella stupida nebbia che si condensa sugli specchi e i vetri.
Ma non fa più freddo, in nessuna parte di lui.
Non più.











Note: buonaseeeeeeeeeeeeeeera. Questo capitolo arriva con un giorno d'anticipo, non siete contenti??? Ahahahah
E' il penultimo, ve lo dico così, a bruciapelo :(
Sappiate che anche io sono in lutto, perchè sapere che il prossimo capitolo e poi l'epilogo concluderanno questa storia mi fa sentire davvero triste.
Molto triste.
Ma invece di pensare a questo, pensiamo che manca ancora un capitolo PIU' l'epilogo!!!! YAYXD
Sono riuscito finalmente a sentire Story of my life!!! E in onore di questa canzone finalmente meno pop, l'ho inserita nel capitolo!!!

 

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Capitolo 9
*** Chewingum, Champagne e Disco Inferno. ***


A "Harold", il Giappone che è sempre una gioia,
e il video di Story Of My Life che riesco a vedere anche io, Cristo Santo :)


Chewingum, Champagne
e Disco Inferno.





Sciogli i lacci al tuo tesoro avvinghiato,
Dai requie al disciplinato soldatino,
Libera la tua anima rinchiusa in sé, frenata;
Dona, condividi, perdi; sperimenta la totale unione,
Se no moriremo entrambi soli e mai sbocciati.
(Inno al Vergine, David Kammerer)


Louis ingoia il secondo chewingum della partita. Questa volta quasi si strozza perché stava prendendo il respiro per urlare.
Robbins rotola a terra colpito alla caviglia da un tacchetto del terzino dell'altra squadra. Si lamenta, rotola, si tiene stretta la gamba con quell'espressione fra il dolore e la voglia di rigore.
Conosce la sensazione.
L'arbitro fischia il fallo evidente, ma concede una punizione dalla posizione meno comoda per calciare che potesse trovare.
Impreca fra sé, pensando che Robbins poteva almeno lanciarsi nella direzione verso cui calcia meglio.
Simon lo ha voluto in panchina accanto all'allenatore Dickson, serio e giallastro per la chemio, ma con una strana, ipnotica energia folle negli occhi grigi. Fuma e si lamenta, digrignando i denti nel viso squadrato. 
Lo ricorda ancora sbronzo alla festa per la vittoria del campionato. Sua moglie Martha e suo figlio Josh, che ha vomitato le tartine al caviale sulla torta a tre piani ricoperta di pasta di zucchero dorata. Lou è stato contento, perché tutto quell'oro era fin troppo pacchiano anche per lui.
Chissà cosa penseranno sul loro divano con i cuscini con le margherite, guardandolo prendere a spallate un malato di cancro per farsi fotografare dai paparazzi con modelle dagli evidenti disordini alimentari e complessi edipici irrisolti.
Forse lo odiano già, anche lì seduto.
O forse se ne fregano, perché di quella partita, in realtà, non interessa a nessuno.
Non a Bert, Martha e Josh Dickson, che hanno le loro cellule cancerogene che fagocitano quelle sane ogni maledetto secondo da combattere. Non a Simon, che fa solo in modo che Louis sia visibile da bordo campo, dalla curva dei Rovers e anche dalla maggior parte di quella avversaria, perché ci sono sempre fans del mito nascosti in mezzo ai fans del giocatore.
Forse interessa a lui, ma si sente troppo marcio e raccomandato, nonché in soggezione mortale verso l'uomo che lo ha allenato per tre anni, per mettersi a gesticolare che Raley non sta rispettando lo schema perché è troppo in profondità nella metà campo avversaria.
“Quel coglione di Raley va troppo giù” borbotta l'allenatore martoriandosi le pellicine dell'indice destro. 
Il vice si alza e gesticola, urlando
“RALEY, pezzo di coglione menomato, rallenta!” sorridono tutti e tre, anche se Riley ricambia gli insulti con un'occhiata al vetriolo che preannuncia un omicidio preterintenzionale negli spogliatoi. Sorridono di una familiarità un po' ruvida che sa di erba, fango e sudore che precipita sugli occhi. Di quella vista appannata e dolorante degli ultimi minuti del secondo tempo, delle corse per inerzia da una parte all'altra del campo, con le mandibole serrate e i pensieri zen che invocano semplicemente la sopravvivenza, nemmeno più la vittoria.
Le ossa fragili del ginocchio di Lou pulsano di protesta e adrenalina, e fa quasi male incrociare le caviglie per fermare quel tremolio spastico dei polpacci che vogliono solo correre.
L'arbitro fischia, Robbins tenta un calcio di punizione che diventa un cross nell'area avversaria, e Timothy Smith, l'irlandese dai capelli rossi e le lentiggini grandi come una moneta da dieci pence, incastra un goal di testa all'incrocio dei pali.
1-0.
Non è una gioia epilettica la sua, una voglia di spaccare il mondo, correre per il prato e ingoiare a bocca aperta il tifo e le ovazioni della curva. Diventa una morbidezza fra le costole, un prurito nello stomaco e nel petto, stretto attorno al miocardio che si dimena. Una gioia più cauta e meno esibizionista. Da allenatore anziché da capocannoniere.
Dickson lo fissa senza guardarlo, con la coda dell'occhio dalle iridi di un castano scurissimo. Uno sguardo inquietante incastonato nel volto magro, ma allegro. Un luccichio entusiasta, ottimista, più avvolgente di qualsiasi sorriso.
Tranne, forse, quello di Harry.
Harold Edward Styles di Holmes Chapel dovrebbe prendere il porto d'armi per quel sorriso.
E Louis ne è sicuro, davvero, perché quello stesso sorriso lo sta fissando dagli spalti, Darcy avvolta in un impermeabile rosa tipico di Harry, Gemma che ancora non ha deciso se fissarlo ostile o sorridere, e Niall che agita in aria le braccia nell'ibridazione fra un saluto e la ola che percorre velocemente tutta la curva del Rovers.
Tre fischi.
È finita.
È vinta, forse.
Giornalisti, foto, dichiarazioni, conferenze stampa. Il vecchio allenatore, il nuovo allenatore.
Domande.
Riflessi dei neon sulle lenti degli occhiali. Microfoni, nomi di quotidiani.
Web Magazine.
Domande tendenziose. Pettegolezzi, sorrisini. Silenzi.
Harry a dieci metri.
Twitter. Facebook. Lui e Eleanor stanno davvero insieme?
Era davvero lui, ieri sera, a quel festino sesso e droga con le modelle di...
Si parla a volte anche di calcio. Forse.
Harry, Darcy, Gemma e Niall.
“Cosa potete dirci sui piani per il futuro della squadra? Quali competenze può mettere in campo un ex giocatore così giovane?”
Forse dovrebbe rispondere lui, ma Simon ha già confezionato una risposta soddisfacente.
Sorridono, lo studiano, lo fotografano, lo fissano. Sicuramente qualcuno scriverà che era distratto, assente, che non poteva importargliene di meno della conferenza stampa.
Che è un ragazzino, un manichino, una bella faccia da sbandierare alle cene dei finanziatori.
Uno da album di figurine dei calciatori, che sta bene col vestito scuro. I suoi occhi risaltano in video, dicono.
Riesce solo ad alzarsi, alla fine, quando le sedie grattano sul pavimento e i giornalisti si mescolano come formiche impazzite, sciamano fuori in disordinati gruppi che sussurrano pettegolezzi.
Lo feriscono più di ogni articolo denigratorio che leggerà la mattina dopo, più del disappunto e della poca fiducia. Chiacchiere oziose da aperitivo che lo tratteggiano goffamente, dicono di lui qualcosa che non esiste, ma che comunque diverte.
Solo un personaggio di cui parlare fra un salatino e un sorso di birra.
Simon si avvicina per farsi fotografare, Eleanor si morde il labbro fissandolo dispiaciuta, di quella partecipazione affettuosa che Lou sente di non meritare, ma per cui è grato. Un'intesa strana, fatta di piccole verità scomode che lei conosce e accetta, custodisce, asseconda. Silenzi e complicità sottocutanea. Niente a che vedere con l'amore, e tutto con l'affetto di chi condivide segreti senza dover ringraziare.
Esce fuori mentre lo stadio ormai si è quasi interamente svuotato. Tre persone sedute sulla prima fila di sedie degli spalti.
Harry che ride con il poliziotto che cerca di convincerli ad uscire.
Harry è quella persona. Quella che non direbbe mai “siamo con Louis Tomlinson”, ma che riesce a tenere banco con chiunque in qualsiasi momento.
Harry che lo guarda, con i rimasugli di quel sorriso incastrati nelle fossette.
Harry che aspetta.
Harry che lo sfida a lasciarli sbattere fuori.
Harry che ormai lo conosce, più di quanto gli piacerebbe ammettere.
“Ehm, stanno aspettando me” 
Il poliziotto in tenuta antisommossa si volta con un sopracciglio sollevato sotto il caschetto
“Evviva. E tu sei?” Louis arrossisce di quella violenza da adolescente colto in fallo a fissare il seno della compagna di classe.
“Louis. Il nuovo allenatore” l'altro lo fissa, un istante, due, e poi sgrana gli occhi
“Oh cazzo ma sicuro. Tomlinson, cazzo scusa amico...” e se ne va, borbottando fra sé che forse sarebbe stato meglio chiedergli un autografo o una foto.
“Hei” Harry scende e scale per andargli incontro, con i suoi stivaletti tutti consumati e troppo grandi “Avete vinto davvero. È folle...” ride, lui che preferisce l'hockey sul ghiaccio e con un pallone mira solo alle finestre aperte al primo piano dei palazzi.
Louis si gratta la nuca, rimasugli di imbarazzi che si accavallano nella sua espressione
“Già...” Niall e Gemma li raggiungono, con l'irlandese che non la smette di descrivere minuziosamente ogni azione.
Lei non commenta, ma sembra meno ostile.
Un punto per Louis.
Darcy intrattiene lunghi discorsi con il nulla, sbavando sulla spalla di Gemma. 
Alla fine lo osserva, occhi verdi enormi che lo scrutano nella sua divisa da allenatore. 
Si sporge con le braccia verso di lui, la giacca a vento rosa acceso, affascinata dalla cerniera della giacca di Lou con appesi un sacco di gingilli portafortuna 
“Ma-ma” Louis spalanca lo sguardo mentre lei biascica di nuovo “ma-ma”
Harry sghignazza e Gemma appoggia Darcy sulla sua spalla, a metà fra il braccio e lo sterno.
“Ma-ma. Maaaa. Ma.”
“Reggila mammina” lo prende in giro Niall mentre Louis la prende in braccio, le dita che si intrufolano subito fra le pieghe di plastica della giacca impermeabile. Gorgheggia, bofonchia parole a caso, tira, e cerca di strappare la cerniera. Lo studia con le sopracciglia corrugate e pensierose.
Somiglia così tanto ad Harry che quasi non sembra avere anche una madre.
“Chi ca-” lo sguardo di Gemma ha sempre la stessa tagliente vena minacciosa. Anche a Doncaster “-volo gliel'ha insegnato?” è imbarazzato e teso, le braccia che gli fanno già male lo sforzo di non stringerla troppo, o essere troppo morbido.
Harry lo guarda con un sorriso storto, troppo allegro per nascere spontaneo da quella tremolante imitazione di abbraccio. Sua figlia ciondola sul baratro di una presa inadeguata, e Louis potrebbe essere responsabile di un incidente irrimediabile. Eppure lui continua a guardarli e a ridacchiare come un idiota di quei suoi sforzi imbarazzati di non lasciarla cadere a terra. 
Colpisce l'amico con una spallata, e lo indica con un cenno
“Niall”
Louis vorrebbe solo usare Darcy come arma contundente ed ucciderlo. Ma lei non è una bambola che piange per finta, e loro non sono nella macabra e qualitativamente mediocre pubblicità di una compagnia assicurativa.
“Brutto figlio di-” 
“Ma-ma” Darcy non smette di chiamarlo 'mamma' e l'altro non smette di ridere, sollevando i palmi delle mani come per proteggersi
“Dovevo riempire tre ore di viaggio!”
L'aria è satura di quella naturale idiozia post-partita. Negli spogliatoi, sul pullman che li riporterà a casa, per strada, quella sera, a bearsi dell'attenzione dei passanti, i giocatori della squadra si lasceranno sommergere da quella scarica di adrenalina e soddisfazione, la tensione che scivola e cade, lasciandoli leggeri davanti ad una birra proibita.
Louis resta in piedi a godere di quella sensazione. Sentire che i pettegolezzi dei giornalisti diventano un mormorio soffuso e indecifrabile, per le sue orecchie e la sua coscienza.
Sentire che forse non è davvero un buono a nulla, perché se riesce a tenere Darcy in braccio senza che si sfracelli a terra fra arti rotti ed emorragie interne, allora può anche allenare una squadra, ed essere bravo, capace, preparato.
Può riuscirci.
Se Harry lo fissa ancora con uno sguardo soddisfatto e tranquillo, fiero, allegro, partecipe, vero, significa che non è così incompetente, e piccolo, e non abbastanza qualificato.
Significa tutto.
“Ma-ma” Darcy gli crolla sulla spalla, la testa incuneata nell'incavo del suo collo. 
Borotalco, vaniglia, cannella.
Riccioli che gli fanno il solletico alla mandibola.
Qualcosa di morbido, qualcosa di familiare.
Inadeguatezze che consolano, e arricchiscono.
Allenatori in prova e genitori che arrancano.
Genitori.
È quasi spaventoso.

***

Gli lascia sempre la gola secca il sesso con Louis Tomlinson. Ha sempre la sensazione di vederlo andare via, ad un certo punto, come se non fosse mai arrivato davvero. Non fosse mai stato lì completamente.
Ma questa volta non è la sensazione di sentirselo scivolare dalle mani, è una certezza epidermica e silenziosa, pruriginosa sulla spina dorsale. È Lou che ha parlato troppo, lo ha stretto troppo, lo ha baciato più a lungo, con la malinconica foga che contraddistingue gli addii. 
Lo osserva stiracchiarsi goffamente, stancamente, fra le lenzuola che odorano di ammorbidente.
Gli addii non li ha mai saputi gestire.
Forse imparerà.
Imparano tutti, con Harry.
Un primato deprimente.
Ma Louis ha sempre quella strana capacità circense di sorprenderlo, di guardarlo in un modo diverso, di sbieco, o dritto negli occhi, con una serietà quasi sorridente. Grave e penosa, ma avvolgente
“E' una vacanza...” ricade sul materasso con un tonfo e un sospiro. Si volta a sfiorargli i tatuaggi sull'avambraccio.
Things i can't.
“Tutto questo è così...” un brivido che forse è freddo, forse paura, forse solitudine. “Non te lo immagini nemmeno come mi sento, adesso, con te che sei qui, e Niall che fa il cazzone con Simon, e Darcy che non ho idea di dove sia, ma sicuramente tua sorella sì...” si puntella sul gomito, vagando distrattamente in serpentine di centimetri di pelle. Appoggia l'indice sulla farfalla scura al centro del suo torace “Ma non puoi prendere la macchina alle tre di notte per venire qui tutte le settimane...non funziona così” 
Non posso, o non puoi tu?
Lo osserva giostrarsi a disagio in quelle parole. È un discorso che non vorrebbe fare, eppure si sforza, perché forse pensa sia giusto, alla fine, metterlo di fronte all'impossibilità della cosa.
Ma Harry sa, da quando ha infilato la chiave nel quadro, la notte prima, a Londra, sa.
“Hazza, cazzo, tu hai una figlia, una famiglia! Cosa c'entra una villetta a schiera a Richmond con me? Con uno che dimentica il bollitore sul fornello e allaga una casa? Con un coglione con gli occhiali da sole e il terrore delle rughe attorno agli occhi?”
Un idiota esibizionista, un calciatore superficiale, un manichino degli sponsor, un ragazzino spaventato che sapeva calciare bene un pallone, ma non sa come essere un semplice volto? Un testimonial? “Sono poco più di un pupazzo parlante con un contratto di tre anni per fare il fotomodello, invece che l'allenatore” sorride, con un'amarezza che non ha niente a che vedere con la rassegnazione. È solo dolore, e delusione.
Paura.
“Non gliene frega niente di me, e a me non frega niente di loro. E sto bene, è giusto. Nessuno si fa male” ma qualcosa che fa male c'è, e si conficca prepotentemente contro lo sterno di Harry.
Fa male che Louis scelga qualcuno di cui non gli importa niente, ma non lui.
Sbuffa, si alza. Afferra qualcosa, non sa neanche cosa, sul comodino, e lo lancia. Contro il muro, come un adolescente pieno di ormoni.
Si sente stupido, e ridicolo, e perso.
Perso.
Louis si tira indietro di scatto, uno spavento che è più che altro il riflesso condizionato per sfuggire alla rabbia.
“Chi non ama non soffre no? Cos'è? Un corso di Filosofia Orientale per Stronzi comprata per corrispondenza?” non era mai andata così. Lou lo sa, lo percepisce nell'aria.
Harry Styles che non accetta un rifiuto, che non lascia scappare qualcuno.
Forse pensava sarebbe stato facile scaricarlo.
Forse, semplicemente, difficile solo per Lou.
Essere un ex calciatore fallito con il terrore delle responsabilità, e un'incapacità cronica di ammettere di aver bisogno degli altri. Che cliché.
Infila rabbiosamente la maglietta, il buco slabbrato sul collo che si strappa. 
Un suono raggelante in quel silenzio ferito.
“Lou, cazzo, io lo so questo! Non fai altro che dirlo da mesi! Non vai bene per noi...” inspira, passandosi una mano fra i capelli annodati, riccioli arruffati, un gesto che lo ha sempre calmato; nascondere il viso per un attimo, chiudere gli occhi e respirare. Ma non in quel momento. 
In quel momento vorrebbe solo prendere a calci il culo delizioso di Louis Tomlinson.
Espira, saltellando per infilare i jeans scuri squarciati sulle ginocchia 
“IO non vado bene per ME! Ok? Nessuno di noi va bene per Darcy! A stento sappiamo cosa facciamo la maggior parte delle volte! Ma è così che va, è così che abbiamo scelto di affrontare le cose...” Louis si muove, il lenzuolo che scivola via. Harry deglutisce, perché alla fine è sempre lui, ed è nudo, e non è un dettaglio da sottovalutare, nemmeno in tutta quella frustrazione, e quella rabbia incandescente che si sente scorrere fino nelle punte dei piedi.
È sempre Lou. 
Il motivo per cui tutto è com'è. Per cui Harry è com'è.
Sospira, quasi sorride di una stupidità a doppio senso, di decisioni tossiche e incerte, folli ed eclatanti. Di quegli errori che scoperchiano fragilità. Di sé e di lui. Di un plurale che non ha il coraggio di immaginare 
“Ho caricato in macchina una figlia di nove mesi, mia sorella incazzata, e Niall, che è Niall, chiuso in un abitacolo, di notte, strafatto di Coca Cola e M&M's, per tre ore e mezza, perché io voglio stare qui” lascia cadere le braccia afferrando il cellulare scarico sul comodino “un giorno, due, una volta al mese, per sempre, non lo so” lo guarda trattenendo quelle ultime parole come l'ultimo respiro di energia che lo tiene in piedi, perché l'altro non ha pronunciato una sillaba, una sola, e Harry ha solo bisogno che lui lo dica, che vuole essere lì, non importa quando, per quanto o come, per lui.
Per qualcosa di sfilacciato e incerto, stupido e avventato. Reale.
Vero.
Ma Lou resta in silenzio, e fermo, e gelido, e lontano, e solo.
E Harry può solo uscire, passi che diventano falcate, che diventano una corsa a occhi bendati fino all'ascensore.
Solo.

***

Deve solo smettere di guardarsi intorno e aspettarlo.
Solo accettare di averlo spinto abbastanza lontano da impedirgli di ritrovare la strada del ritorno.
Convincersi, semplicemente, di aver fatto la cosa giusta.
Per chi, ancora deve trovare il modo di spiegarlo a se stesso.
Ma non importa davvero, non gli è mai importato di quanto fosse corretto, o giusto, o potesse ferire, il suo comportamento.
L'unica cosa sensata che abbia fatto per gli altri, è stata lasciar andare Harry Styles e la sua incasinata e avvolgente vita da padre single.
Manca ogni fottuto secondo, anche il suo odore, anche la mescolanza di suoni che è la sua risata. Anche la china dei suoi tatuaggi.
Ma Louis non è un padre, è un allenatore finto, una bella faccia e sorrisi tirati e falsi da fare a comando. 
Louis non è un padre.
Non è un fidanzato, un marito, qualcuno da amare. Da rincorrere, da incoraggiare. Da aspettare.
Solo un ginocchio fottuto e i modi pretenziosi di una primadonna egocentrica.
Simon ha voluto un altro party. Ancora giornalisti, paparazzi, fotografi, domande e stupide risposte.
Ma i ragazzi della squadra si divertono, sono su di giri, gli passano accanto con pacche sulle spalle e bicchieri di Champagne che tintinnano l'uno contro l'altro. C'è una vibrante energia fiera, elettrizzato entusiasmo. Un vento leggero di sguardi ammiccanti e prospettive.
Billy Morrison gli fa scorrere una mano sulla spalla, e stringe leggermente
“Coach” sorride, il flute che dondola leggermente fra le dita “E' bello rivederti in giro...” si allontana, senza nemmeno dare il tempo a Louis di rispondere, di realizzare, di assaporare.
Forse è bello davvero. Forse non fa così schifo come allenatore.
Forse no.
Harry.
Perché continua a guardarsi intorno in cerca di Harry?
Harry non verrà.
E forse perché è Louis a dover andare. A fermarlo, forse, forse solo a dirgli che è vero, ha ragione, non potrà essere tutto quello che vuole, ma può provare.
Con lui può provare.
Passa accanto a Simon, senza nemmeno curarsi di dirgli che sta andando via.
Non gli interessa di Simon.
Harry.
Riesce anche a correre su quel prato umido, senza calze, con le sue scarpe eleganti e i pantaloni ripiegati alle caviglie. La sua maglietta a maniche corte sotto la giacca. Il freddo che s'intrufola sotto la stoffa, sulla pelle, brividi lungo la schiena.
Anticipazione.
Harry.
Harry?
Harry è in piedi appoggiato alla portiera, le mani infilate nelle tasche del giubbotto di jeans imbottito, Gemma culla Darcy sul sedile posteriore della loro utilitaria, e Niall esibisce uno dei suoi sorrisi meglio riusciti ad un'affascinata Cheryl, salutando invitato in ogni angolo del giardino.
Fa un freddo glaciale nel South Yorkshire, eppure sono lì.
Niall lo vede, sollevando una mano per salutarlo, e si avvicina.
Harry resta immobile, la portiera chiusa che lo sostiene, e fissa ostinatamente qualsiasi cosa tranne Lou.
Potrebbe fissare persino le tette di Cheryl, pur di non guardare Lou.
“Amico, hei” Niall si avvicina, e gli parla sottovoce “Posso tenere buona Gemma al massimo dieci minuti, prima che vada fuori di testa e si metta al volante per guidare fino a casa, perciò datti una mossa bello, e vedi di dire quello che devi dire, una volta tanto, perché era incazzato come un pitone quando è arrivato a casa tua, eppure è venuto lo stesso” saluta con un cenno Louis che chiacchiera amabilmente con una moglie a caso di qualche investitore.
E Lou sa che si trova in bilico su quel momento, quello in cui dovrà scrollarsi di dosso tutte le stronzate, le paure, l'orgoglio sminuzzato e masticato. Scrollarsi di dosso Harry, e Louis, e cominciare ad essere qualcuno. Qualcosa. Non chiunque. Una persona precisa.
Inspira, espira.
Sospira.
Trattiene il respiro.
E avverte Harry in ogni singolo tremolio spaventato. 
Un passo e un altro ancora, esattamente come nel suo giardino, quella sera, con le scarpe da vela, esattamente come quella stupida notte da ubriaco, con Gemma che lo ascoltava vomitare con una punta di perplessa soddisfazione.
Esattamente come ogni giorno in quei mesi, tre, troppo pochi, forse, per innamorarsi di qualcuno.
Un'eternità.
Un passo dopo l'altro verso Harry.
L'altro lo guarda a malapena, sforzandosi di rimanere immobile e impassibile. Ma non è mai stato bravo ad ignorarlo, Harold Edward Styles di Holmes Chapel.
“Lo so. Lascia perdere. Sono un coglione. Siamo due coglioni, all'ultimo stadio. Facciamo pena, cazzo. Abbiamo quasi trentanni e ci rincorriamo come ragazzini. Sono un ragazzino Harold, lo sono!” si passa una mano fra i capelli, i tatuaggi sui polsi che sbucano dall'orlo della giacca, che colorano quell'imbarazzo di inchiostro di china e ricordi.
Sospira di nuovo, con la lingua accartocciata sul palato e un inspiegabile bisogno di alcool. Ma Niall ha ragione: hanno dieci minuti. 
Dieci minuti prima che Gemma scelga al posto loro nell'inerzia infastidita di quella conversazione. Nel silenzio teso e testardo di Harry, nel suo balbettare sconnesso.
“Io non lo so come starci senza di te, do' fuoco alle cose, e non reggo più nemmeno la Corona...ma questo non vuol dire che non potrò imparare. Solo che-” 
Harry sbotta di nuovo, una rabbia che lo scuote leggermente, perché inaspettata. Una rabbia che gli solletica lo stomaco di piacere. Un piacere infelice, poco confortevole, frustrante, che preme contro le costole.
“Senti Boo, è tardi, puzzo, non ho nemmeno il coraggio di guardarmi allo specchio, perché Darcy ha vomitato da qualche parte, e ho il terrore che 'qualche parte' sia la mia maglietta, ma voglio stare seduto in mezzo a pazzi invasati che urlano slogan servendosi di parole inesistenti nella lingua inglese, a guardarti mentre fai quello che ami fare, in qualche modo. Malgrado tutto, ammaccato e difettoso come sei, loro ti vogliono...e anche io” chiude gli occhi, quasi nel totale silenzio, in un'inaspettata resa.
E Lou non ha davvero più spazio e tempo per lasciar correre quelle parole.
“Hazza”
“Tu parli come se fosse difficile solo per te, tutto questo schifo delirante di gente che ti vuole sexy e irraggiungibile per fare il testimonial di una squadra di calcio, e io che sono io, un disagiato del cazzo con una figlia che non ho idea di come tirare su decentemente. Non fa schifo solo per te, Louis Fottuta Principessa Sul Pisello Tomlinson!”
“Harry” 
“Ma io voglio questo, cazzo, lo voglio, perché stare con te è assurdo e masochistico, e probabilmente uno dei due prima o poi ucciderà l'altro in preda ad un raptus di follia, ma io pensavo che sarei riuscito ad amare solo mia figlia, ormai, dopo tutte le cazzate, il sesso senza senso, e i bagni a Covent Garden. E invece no. E invece penso proprio di no. E fa fottutamente paura. Ma io sono qui, adesso, cazzo, perché voglio starci.”
Ero io che dovevo parlare con te, farti sentire tutto, e dire tutto, e lasciare che tutto scorresse via, finalmente. E invece sei di nuovo tu, Harry Styles, fottuto idiota, a prenderti tutto di me. 
“E onestamente adesso il problema è dove cazzo vuoi stare tu”
Qui.
Lì.
Chissenefrega.
Dammi solo i centimetri da contare.
“HAROLD EDWARD STYLES” la sua voce assume quella tonalità squillante tipica del panico e dell'isteria, ma non gli interessa. Lui è lì, con quegli occhi sgranati e la sua enorme bocca spalancata per la sorpresa, e Louis sa solo che c'è qualcosa di pateticamente giusto in quel momento. Malgrado la nebbia, il freddo, lo sguardo ostile di Gemma, le mogli dei finanziatori che non sarebbero affatto contenti di sapere che il loro preziosissimo ragazzo immagine è un omosessuale per niente represso, e Simon, Cheryl, Louis, e la squadra. I suoi ragazzi e l'attesa.
Doncaster e Richmond.
Harry e Darcy.
Quello che era ieri, e quello che, forse, ha deciso di essere.
Si avvicina e lo bacia, non con delicatezza, o con la depressa angoscia di ogni addio, né con la romanzesca poesia delle scene d'amore. Solo come un bacio che è familiarità e incontro, un saluto, un armistizio, qualcosa da dirsi.
“Mi fai arrapare da morire quando vai fuori di testa così”
Harry sorride, davvero, con tutte le fossette sulle guance e gli occhi.
E 'fanculo anche alle rughe d'espressione, sorride per davvero anche Lou.
C'è un'ombra d'imbarazzo, perché sono in piedi davanti a metà degli invitati, e Louis sarà anche una primadonna egocentrica, ma quel momento non deve scorrere incompreso fra la gente. Non può consumarsi per il troppo uso fra le dita di chi non sa maneggiarlo.
A stento loro sanno tenerlo in mano senza frantumarlo, rovinarlo, raderlo al suolo. A stento, davvero, perché sono anche tropo bravi a far sbattere ogni istante contro tutti i muri.
Disco Inferno a volume illegale negli amplificatori accompagna la loro lenta e cadenzata uscita di scena.
Sarebbe la quinta di destra, se fossero su un palco, in un roboante teatro.
Ma sono solo su un prato umido, a trascinare scarpe troppo costose o troppo grandi.
Trascinarle in un angolo a caso, un posto a caso, a tremare un po' più vicini, su una panchina a caso di una strada a caso. 
Doncaster.
Ma potrebbe essere Richmond, o la Patagonia.
Istanbul o Accra.
L'iperspazio.
Harry tira fuori una birra dalla tasca interna della giacca e la stappa contro lo schienale della panchina.
Si stringe nelle spalle
“Io non guido fino a Richmond stanotte” il modo in cui lo dice, il tono gutturale, che raschia contro la gola e la spina dorsale di Lou, somiglia ad una promessa stupida.
Stupida e rassicurante.
Tempo.
Anche solo ore di tempo.
Louis accetta la birra gelida e ne butta giù un sorso. Ruvida giù per la gola quasi paralitica.
“A me i bambini stanno sulle palle Styles...” Harry fa schioccare la lingua che brulica ancora di bollicine
“A Darcy stanno sulle palle tutti quelli che non sono me, Gemma, Niall, Zayn, Perrie, Sophia e Liam quindi...” 
Lou ridacchia, la birra che gli scalda il palato e il petto. È solo una birra, solo cinque gradi scarsi d'alcool in corpo, eppure sente il terreno sotto i piedi allontanarsi dalle suole
“Siamo anime gemelle...”
“Sei una primadonna frignona anche tu, effettivamente...” 
C'è uno strano equilibrio, una strana morbidezza, una strana lunghezza d'onda confortevole.
Louis non sa dirlo, ma potrebbe essere davvero la sensazione che si prova quando si smette di correre in cerchio.
“Saranno i tre anni più lunghi della storia del mondo, lo sai vero? Cazzate, ritardi, treni, autobus, ritiri con la squadra, deliri e imbottigliamenti sull'autostrada. E io che dovrò disdire, e tu avrai un matrimonio, una comunione, un funerale. Darcy e la varicella, tua sorella che non può farle da babysitter, influenza, nebbia, neve...”
Harry ridacchia, e si avvicina. Morde delicatamente il lobo del suo orecchio.
Convent Garden. Un bagno a caso. A due orinatoi dal suo.
“Oops” ride sulla pelle del suo zigomo
“Ciao” 
Louis forse non è un padre, non è un marito, un vero allenatore. 
E tre anni sono lunghi, e Doncaster non è Londra, e Harry è Harry, e il tempo, lo spazio, il caso, le decisioni, la solitudine e il terrore.
L'indecisione e l'incertezza, le insicurezze del caos.
Forse nessuno di loro due è pronto.
O adulto, o forte abbastanza.
Solo inadeguatezze che si incontrano, e provano ad essere genitori decenti. 
Things i can.















Note: Innanzitutto scusate perchè questo capitolo non è nemmeno lontanamente degno del tempo che lo avete aspettato e di quello che ci metterete a leggerlo.
Tantomeno è degno di essere un ultimo capitolo-prima-dell'epilogo, ma meglio non potevo fare.
Mi spiace perchè oggi è una bella giornata, esce il video, siamo tutti mediamente felici senza motivo, e sicuramente vi aspettavate qualcosa di meglio, ma va così, spero che almeno l'Epilogo abbia vagamente senso :)
E niente, io vi ringrazio sempre per tutto l'amore che vortica attorno a questa storia, e spero sempre che le mie impressioni sugli obrobri che mi vengono fuori siano un po' esagerate ahahaah
Alla prossima con l'Epilogo dove potrò sbizzarrirmi in dediche smielate e frignare adeguatamente dietro a questa minilong che finisce e tutto il cucuzzaro :D
With love da Harold e Boo, da Darcy e da me <3

 

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Capitolo 10
*** Epilogo, neve e orsi di peluche. ***


Alle conclusioni, che invece
sono solo finali aperti,
e oguno può farne ciò che vuole.
A Harry.

 



Epilogo, neve e orsi di peluche.

 


“Ci sono piccole cose 
che sono una cometa
e quando si cambia loro il posto
lasciano tutto bagnato”
(Salvador Dalì)


Sa solo che se non arriva in tempo lo uccide.
Lentamente, con un sacco di accessori e fantasia sadica. Lo uccide e impedisce al mondo di ricordare il suo nome, a costo di setacciare la rete e gli archivi di tutti i giornali per dar fuoco agli articoli che parlano di lui.
Gemma continua a inventare nuove canzoni che obbliga Niall a suonare con la chitarra, e Darcy, forse, non si accorgerà che non c'è. Fino a cena, almeno.
Non con Liam e quell'orso a grandezza naturale vestito da calciatore che le ha regalato, non con Zayn e Perrie che la tengono impegnata a turno con i quiz sulle tremende canzoni che passano su MTV. Non con Harry che ha ancora qualcosa come dieci milioni di scuse da inventare per giustificare l'assenza di Louis.
Ma lo ammazzo. Io giuro che lo ammazzo.
Darcy si muove tranquilla nella sua salopette dalla fantasia scozzese, i riccioli sempre più lunghi da quando Lou gli ha impedito di tagliarglieli, e un nastro rosso attorno alla testa. Un dettaglio che Gemma si è personalmente assicurata portasse.
Sua figlia ha provato a toglierselo in dieci modi diversi, ma la tenacia di Gemma gliel'ha riannodato ogni sacrosanta volta, sorridendo sempre meno e ridendo sempre di più, lei e Niall, con la sua chitarra acustica ricoperta di adesivi di Hello Kitty e Pukka.
Darcy. Sempre Darcy. 
Sei anni di ragazzina urlante che mima le mosse di Iggy Pop, e ha imparato a memoria Like a Virgin solo perché Niall rideva ogni volta che la cantava.
Darcy.
E Louis è di nuovo, fottutamente, in ritardo.
Harry ha concluso un servizio fotografico natalizio per una catena di supermercati in centro, e si è fatto a malapena la doccia una volta tornato a casa.
Gemma era già appostata in salotto per le decorazioni e la cena, Darcy sul divano a gambe incrociate a commentare le repliche di X Factor con Perrie, e Zayn e Liam che discutevano di Premier League con una birra in mano e senza sottobicchieri.
Gli è mancato Lou, improvvisamente, come un posto vuoto sul divano fra la spalla di sua figlia e il bracciolo, ciabatte troppo ordinate, tutto troppo ordinato, senza il suo casino ovunque, fin sulle mensole e dietro le ante degli armadi. Capita sempre, ricordarsi di lui a caso, negli anfratti della giornata, in momenti assurdi, idioti, mentre si lava i denti o sistema la birra in frigo.
O riordina i vinili che lui lascia sparpagliati in camera.
Mentre canta sotto la doccia, ad alta voce, come i ragazzini, e non sente la voce di Louis in camera che risponde nei duetti.
Non è una cosa drammatica, è solo una mancanza familiare, che ha un sapore diverso ogni volta, e un colore opaco e sfumato, come le foto immerse nel liquido di sviluppo in quel passeggero momento di transizione, quando l'immagine ancora non si vede bene, ma si riesce a capire cosa ritrae.
Gli manca così, Louis Tomlinson, a metà, come uno che sta per tornare, ma che arriva sempre in ritardo.
“Papà” Darcy ha ottenuto una rotella di liquirizia da una Gemma sempre più nervosa, che fissa quasi epilettica l'orologio in cucina.
Sono passate due ore.
Niall ha finito il repertorio, Liam e Zayn le squadre di calcio, X Factor è rimasto a mimare le mosse dietro uno schermo muto, e Harry ha finito le scuse. 
Le scuse.
“Hei tu” indica con un cenno la liquirizia nera arrotolata attorno all'indice di lei “tua zia lo sa che hai sgarrato la regola numero uno del Galateo del Cenone della Vigilia?”
Darcy scrolla le spalle.
“Boo non viene?” Harry espira e si siede sui talloni, accanto a lei, accanto al frigo che ha lasciato aperto senza nemmeno ricordare cosa voleva prendere.
“Ma che dici? Ti pare che si perderebbe la cena di Natale e il suo compleanno insieme?” lei succhia seriamente la liquirizia
“Zia Gemma ha detto stronzo e testa di-” 
“Ok ok ok ok” sa che prenderla in braccio serve più a rassicurare se stesso che lei, ma c'è quel momento in cui Darcy gli concede di crederla ancora neonata, con i suoi gorgoglii incomprensibili e il suo adorabile vizio di chiamare Louis 'mamma', e gli appoggia di nuovo la testa sullo sterno, fra la spalla e il cuore, a lasciare che lui canti all'infinito Isn't She Lovely per calmarla.
Faceva bene anche a lui quella routine di vecchi classici e bava sulle magliette.
Fa sempre bene.
“Harry...” Zayn compare nell'arco fra la cucina e il salotto, con l'espressione un po' abbattuta di chi deve dare cattive notizie.
Odia essere lui a dover dare cattive notizie. 
Il telefono gli pende fra le dita magre e lunghe.
Harry smette di respirare per un attimo, come sempre quando squilla il telefono di casa anziché il cellulare. È il dramma insito nel suo essere il padre più o meno single di una bambina di sei anni. Il dramma di sapere Louis a tre ore di macchina o una di aereo da lì.
Il dramma di essere Harold Styles di Holmes Chapel precipitato nella grande metropoli cattiva.
“Sono io”
“L'aereo non parte” la voce di Lou, nasale e sottile all'altro capo del telefono.
È abbastanza.
Torna a respirare.
Respira per imprecare. Darcy distoglie l'attenzione dal viso di Zayn, che ha sempre la magnetica capacità di ipnotizzarla. Forse sono le ciglia, gli occhi, Harry non lo sa, ma sua figlia resta incantata come di fronte al più bel cartone animato mai prodotto nella storia del mondo.
“Boo” 
“Passamela” sussurra l'altro al telefono, il segnale disturbato e un vociare confuso in sottofondo ibridato con una musica natalizia in filodiffusione.
Harry non può sentire cosa le sta dicendo, ma l'espressione di Darcy si fa prima triste e poi calma, poi rassegnata, e malinconica.
Per Louis è sempre più difficile andar via, e sempre più complicato tornare a casa.
È sempre tutto un fottuto casino. Anche quando va tutto bene, e alla tv c'è un bel film, e Darcy si sveglia nel mezzo della notte per infilarsi in mezzo a loro a dare calci nella schiena a lui e nello stomaco a Lou. Anche quando è estate, e si vola da qualche parte, senza il Doncaster Rovers in trasferta, e matrimoni all'ultimo secondo.
È tutto sempre un po' strappato al caos. 
Harry a volte se lo chiede, se per tutte le famiglie è così quando uno dei genitori ha più punti di viaggio della compagnia aerea che giorni liberi.
“Va bene. Ciao Boo” Darcy restituisce il cordless a Zayn e sbatte le ciglia velocemente per non piangere e stringe più forte la maglietta di Harry.
Disarmanti disequilibri.
“Hei piccola...” la rimette a terra, giocando un po' con i suoi riccioli. Louis ha ragione, c'è qualcosa di follemente rassicurante nell'affondare le dita fra i capelli ricci degli Styles. Ora lo sa. 
“Non è colpa sua ok? La neve è...si insomma gli aerei” lei annuisce
“Lo so papà” gioca anche lei, nervosamente, con i capelli sottili “ma mi manca” 
E' semplice, ovvio e lineare. Per questo colpisce a fondo.
Gemma sporge la testa dalla cucina con espressione grave, e Harry scuote la testa.
Sua sorella mima un 'testa di cazzo', ma si vede che è dispiaciuta.
Da' la colpa a Lou per sport, ma si vede che lo vorrebbe lì anche lei.
Perrie riesce ad alzarsi miracolosamente dal divano nel suo pancione di otto mesi, e ridacchia mentre Zayn e Liam, contemporaneamente, si muovono per soccorrerla
“I miei eroi...” li prende in giro lasciandosi cadere sulla sedia di fronte a Darcy, con i suoi capelli biondissimi e il suo sorriso da ragazzina.
“Niente?” Niall si siede accanto a lui dopo aver abbandonato la chitarra su un cuscino a caso steso sul tappeto davanti alla tv.
Harry si schiarisce la voce, nervoso
“E' bloccato lì” 
Vorrebbe davvero non farne un dramma, essere capace di ridere della sfortuna di quella serata e di quelle vacanze di Natale. Vorrebbe aver lo spirito d'avventura di sei anni prima a quella festa assurda, quella birra nascosta in tasca e quella panchina gelida.
Vorrebbe avere ancora l'indescrivibile attrazione per il caos e l'incertezza di quella notte, e tutte quelle dopo, fra Doncaster e Londra, cinese da asporto mangiato nudi sul pavimento.
E invece gli manca e basta, il fottuto Louis Tomlinson.
Sempre.
Comunque.
Anche nella camera oscura, mentre sviluppa foto di persone che non sono loro, e sembrano riuscire a stare insieme senza dover riallineare costantemente l'asse terrestre.
Manca.
Il campanello trilla mentre Gemma appoggia sul tavolo il polpettone cucinato con la ricetta segreta di Anne.
Gli manca anche sua madre. 
Ma anche lei è bloccata a Holmes Chapel per il maltempo.
Forse domani o dopodomani, ha detto.
Forse.
Il campanello suona di nuovo, due volte. Vicine, impazienti, allegre.
Harry si alza scalzo e si trascina fino alla porta.
“Buon Natale!” sua madre non è mai stata una dai lunghi discorsi e le spiegazioni. Ma è lì, con il suo sorriso ampio e seducente, e la sua frangetta scura color mogano. 
Robin è fermo alle sue spalle con una grossa scatola piena di pacchi regalo
“Fare spese al Centro Commerciale a Natale dovrebbe essere dichiarato illegale” si lamenta da dietro i suoi occhiali da vista rotondi, le lenti appannate e il viso rosso e leggermente sudato.
Si fanno strada sbattendo gli stivali contro il battiscopa, piccoli spruzzi di neve che diventano acqua a contatto con il parquet.
L'urlo di Gemma è un suono veramente poco controllato per una che ha fatto dell'ordine e la compostezza un mantra irrinunciabile.
“MAMMA!” 
“ANNE!” a Niall non è mai interessato nemmeno lontanamente essere composto o vagamente adulto. Nemmeno dopo aver ascoltato la sua canzone di compleanno più di trenta volte.
“NONNIIIIII” Darcy è giustificata, lei ha sei anni.
“Harry, hai voglia di aiutarmi a scaricare gli altri regali dalla macchina?” lui annuisce, completamente assorbito dalla confusione di piatti che cozzano, bicchieri e posate che si scontrano sui tovaglioli lasciati cadere a terra.
Annuisce senza muovere un passo, in bilico fra l'ingresso e i gradi negativi che si percepiscono sulla veranda. Fra quello strano calore disadattato e il gelo del mondo esterno.
“Cazzo Harold, si congela qua fuori, datti una mossa!” una portiera sbatte, la nebbia si addensa attorno agli oggetti, alla lampada al neon della veranda.
Harry riesce solo a realizzare marginalmente che quella è davvero la sua voce.
Nessun altro sembra essersene accorto. 
Forse non è vero.
Louis percorre a passi frettolosi il vialetto, il prato, in realtà, perché è quel genere di abitudine che non vuole perdere.
Far incazzare Gemma e calpestare il prato falciato male con qualsiasi tipo di scarpa.
Sfrega i piedi sullo zerbino, scrollandosi la neve dai pesanti stivali imbottiti. Ha ancora la divisa della squadra sotto il cappotto pesante con il cappuccio, e il suo berretto di lana grigia, comodo, troppo largo per lui e vagamente stretto per Harry, quello che si scambiano senza nemmeno rendersene conto.
La barba che ormai lascia crescere senza badarci, quel tanto che basta per fargli il solletico quando si rivedono, e strappargli quel mugolio strano a labbra socchiuse.
Louis.
È davvero lì.

***

Lo scrosciare dell'acqua è il suono che Louis riesce ad incasellare fra i momenti migliori che la sua mente annebbiata da Vigilia di Natale e guida ininterrotta sull'autostrada innevata possano ricordare.
La prima, imbarazzantissima, doccia insieme ai compagni di squadra nei pulcini di Doncaster, e ogni doccia insieme, con le verruche, i funghi, le malattie della pelle e le eruzioni cutanee che ci si scambiava sulle piastrelle bianco sporco.
La doccia di casa, l'unico momento della giornata in cui Fizzie, Lottie, Phoebe e tutto il resto delle donne della sua famiglia non si sentivano tranquillamente libere di invadere ripetutamente ogni brandello di privacy e farlo a pezzi.
La doccia di Harry, e anche un po' sua, con l'acqua calda contata che Lou puntualmente finiva, facendo finta di niente, finché Harry non ha semplicemente capito che l'unica possibilità che ha di lavarsi la mattina è entrare con lui. 
Il rubinetto aperto che è sempre una specie di colonna sonora scrosciante ai suoi pensieri imballati contro le orecchie. Si rilassa un po', spalle, spina dorsale, ginocchia, le punte dei piedi. Come grandi respiri dalle pupille alle dita, sulla lingua.
Harry lo abbraccia affondando le ginocchia sul materasso alle sue spalle, gli anelli freddi al centro esatto del suo sterno, e gli mordicchia il lobo dell'orecchio, in un saluto sempre privato e sempre personale, un modo per essere di nuovo in un bagno a Covent Garden, a salutarsi impacciati e ancora inconsapevoli. Per tastare i contorni invece che dover spalancare gli occhi ed essere costretti a vederli.
Louis espira lentamente, l'odore del bagnoschiuma di Harry che gli formicola sulla pelle. Sempre lo stesso, sempre uguale. Sempre agrumi, e anice, e mora, a rotazione.
“Non perderlo”
Harry ride, non sguaiatamente come se si divertisse, ma a voce bassa, gorgogliante nel suo orecchio, come quando il silenzio si arriccia di un sottotesto condiviso. Un segreto bisbigliato quando solo lo schermo sclerotico della televisione accesa illumina malamente i lineamenti.
“Cosa?”
“Il vizio di fare queste cose” sorridono un po', comodi e accovacciati in quella pausa “Da vecchi, sai, quando ci trascineremo dietro la prostata infiammata e l'artrite, Darcy smetterà di venirci a trovare tutte le domeniche, e tu di deprimerai a morte perché non venderanno più stereo per ascoltare i dischi in vinile” stringe la sua mano, enorme rispetto alla sua, come i suoi piedi giganteschi da hobbit che prende sempre in giro. Disegna strani cerchi sul palmo, distratto dal mondo, focalizzato da quelle stupide parole che gli si incastrano nell'interno della guancia.
E Harry ride di nuovo, più forte, forte come lui lo ricorda, un suono che Louis riconosce a livello epidermico, musicale, una nota alta che riesce a imbroccare all'improvviso, uno scatto, un boato, la serratura che scatta al primo tentativo il sabato notte ubriachi.
Harry, sguaiato, sopra le righe, bizzarro.
Harry, surreale e ostinatamente vero.
Ride e si china a baciargli il collo, il punto esatto fra la spalla e la nuca
“Non te la infilo la lingua in un orecchio a settant'anni Tommo. Dimenticatelo proprio” rotola sul materasso per infilarsi di nuovo i jeans e i calzini, sempre ridendo, sempre del suo umorismo personale e intraducibile per orecchio umano “Magari solo fino ai sessantotto, sessantanove...” 
Anche Louis, alla fine, è riuscito ad armonizzare un po' con quel barcollante senso dell'umorismo.
È bello semplicemente lasciarsi cadere sul materasso con una tuta da ginnastica troppo grande e i calzini di spugna.
È bella Darcy che s'infila nello spiraglio di porta aperta e si arrampica sul letto con l'enorme orso di peluche vestito da calciatore che ha deciso di chiamare Boo. 
Boo Bear. L'orsetto Boo.
Quasi stritola il plesso solare di Lou con una ginocchiata.
Ma è bella lo stesso. Goffa e confusionaria come Harry.
“Papà”
“Mhn?”
“Eh” rispondono entrambi, e lei non si preoccupa nemmeno di specificare con chi stava parlando.
Non importa davvero a nessuno dei tre.
“Zia Gemma dice che devo andare a letto, e io non voglio andarci. Zio Niall mi ha promesso la canzone di-” sgrana gli occhi, e si copre la bocca con la zampa dell'orso, con tanto di calzini e scarpe con i tacchetti.
Lou e Harry si guardano da dietro i ricci ribelli di Darcy, un vago, strano, complice e infantile sorriso cospiratore.
Tutti gli anni da sei anni.
Si alzano, lamentandosi un po' e lasciandosi stiracchiare per gioco, Darcy da una mano e l'orso dall'altra, le sue zampe senza dita, il pelo morbido.
Louis pensa vagamente che non dovrebbero vendere orsi di peluche così grandi per bambini così piccoli.
E chi lo sa se non si possono soffocare con quegli animaletti tanto carini? Chi lo sa che non si scuce un'ascella ed esce l'ovatta, e non la ingoiano fra atroci sofferenze?
Harry ha la stessa espressione, ma espira, chiude gli occhi, e smette di fissare quel pupazzo come se fosse un'arma di distruzione di massa.
La scala che porta al piano di sotto è buia, l'ingresso, il salotto. Solo sulla veranda il neon lattiginoso sopravvive imperterrito ad illuminare i banchi di nebbia che s'infiltrano negli spifferi delle porte.
Il neon è un alone di luce arancione che si riflette negli sportelli della cucina. Un silenzio che è in realtà un brusio, risate, pacche, 'shh' ridacchianti e sussurrati a bassa voce. Gemma che sgrida Niall, Perrie che si lamenta di essere una 'montagna in movimento' e Liam che canticchia la canzone di compleanno per essere sicuro di imbroccare la nota giusta. 
Puntualmente, ogni 24 dicembre, alla fine tutti vanno per gli affari loro. Fuori tempo, stonati e urlanti, cercano solo di fare più rumore possibile, ma Liam ci prova lo stesso a trasformarli in un coro decente. Lo fa stare bene, e nessuno si azzarda a fargli notare che il risultato è quantomeno deludente. Lo fa stare bene e basta. Chissenefrega del resto.
Louis prende in braccio Darcy, perché soffiare sulle candeline fa stare bene lei. 
E anche lui, e Harry, e tutti quanti.
Zayn accende le luci, come ogni anno, iniziano la canzone, come ogni anno, tutti stonano, come ogni anno, e come ogni anno la melodiosa e pacata voce di Liam tenta inutilmente di ammorbidire quel casino un po' schizzato di urla e risate.
Harry si avvicina, e canta nel suo orecchio, come ogni anno.
“Buon Compleanno Boo Bear...Buon Compleanno a te!” gli fa pizzicare lo stomaco, come ogni anno. Come sempre.
E Lou non si sente a disagio nel pensarlo. Al sempre, al futuro, alla possibilità di arrivare davvero ai settantanni in quella casa di folli, con il Natale nel casino di amici e parenti con figli a carico, uno strano diorama di voci e il volume della tv troppo alto, Harry che si avvicina al giradischi e tenta vanamente di imporre la musica che vuole lui, le repliche di qualche programma demenziale per ragazzine arrapate da guardare, un reality su MTV, una sfida adolescenziale a GTA con Zayn, una canna smezzata con Harry sulla veranda, quando Darcy dorme, il walkie talkie appoggiato accanto ad una birra, ad ascoltarla biascicare parole assurdo nel sonno, e dirsi qualcosa a bassa voce, nascosti dietro una Corona, ma che vuol dire tutto, ed è come urlare.
Darcy quasi si addormenta nel piatto, Perrie e Zayn devono andare dall'altra parte della città con la strada invasa dalla neve, e Liam è uno che, anche se non lo ammetterebbe mai, fa una capatina alla messa di Natale. Niall e Gemma devono solo percorrere cinque metri di prato e un muretto di pietre, ma sanno fiutare il momento meglio di chiunque altro. 
Anne e Robin hanno prenotato una stanza in albergo, ma Louis sa che non li lasceranno mai andare via. Harry ha sistemato le loro cose nella vecchia camera di Gemma, che ancora le concede asilo quando sbatte la porta in faccia a Niall urlando per una delle solite cavolate per cui litigano. Alla fine sgattaiola via nel mezzo della notte per tornare indietro, ma suo fratello non ha mai nemmeno voluto indietro le sue chiavi.
C'è sempre la stessa energia casinista che anima il loro salotto, il prato tagliato male e le sdraio.
Un senso di festa del college, anche se non vanno più a scuola da un bel po'. Rimangono tutti lì, alla fine.
E anche Louis.
Rimane anche lui, alla fine.
Harry solleva Darcy dal divano, accoccolata nella coperta di lana rossa ripiegata sullo schienale, il video musicale di una boy band sculettante che si agita sullo schermo muto, e il respiro pesante della fase REM.
Non apre gli occhi nemmeno quando la sistemano sul materasso, il copriletto con i quadrifogli e le lenzuola rosse con i Babbo Natale. Impronte che si rincorrono sulle pareti, di tutti i colori. Di Darcy, di Harry, di Louis. Le pareti che erano bianche, ed ora sono gocciolanti di mani e piedi, lilla, viola, verdi, azzurre, ogni colore, ogni angolazione. 
Impronte dove prima c'erano solo vuoti. 
Louis che ha trovato il suo spazio sul muro, accanto a loro.
Harry gli fa il solletico sotto il naso con uno spinello sottile, accurato, che sicuramente non ha preparato lui, sempre distratto e grossolano.
La veranda è gelida, ma almeno non c'è la neve. Due sedie sdraio rivestite di plastica. Lasciarsi cadere ad occhi chiusi, il fumo che quasi si ghiaccia sotto il portico.
Harry gli passa l'accendino
“E' la tua canna di compleanno Tommo, devi accenderla tu...” Louis obbedisce in silenzio, aspirando una boccata esagerata, finendo a tossire con le lacrime agli occhi.
Harry lo osserva ridacchiando, ma alla fine diventa serio.
“Che hai fatto?” rabbrividisce sfregandosi le mani nude “Con mia madre e-”
“Ho preso la macchina, ho guidato fino a Holmes Chapel, e poi fino qui” il secondo tiro è più controllato, e scivola fino alle tempie “E' Natale Harold, non potevo mica starmene bloccato a Doncaster a soffiare in una trombetta e cantarmi da solo Buon Compleanno!” sorride passandogli lo spinello.
L'altro lo afferra con il pollice e l'indice, e rovescia indietro la testa
“Quanto tempo abbiamo? Una settimana, dieci giorni? Quanta aria ti ha lasciato il guinzaglio di Simon Cowell?” sembra rilassato, ma la sua voce bassa nel silenzio della Vigilia di Natale a Richmond trema di qualcosa che somiglia alla paura. All'ansia anche, e una manciata di attesa.
Louis scrolla le spalle, raccogliendo le ginocchia al petto.
“Non torno”
Harry non fa nemmeno finta di dispiacersi. Ma resta interdetto, come se fosse convinto di aver capito male
“Cosa?”
Aspira una lunga boccata e sistema lo spinello fra le labbra di Lou. Gli ultimi due tiri, piccoli e pungenti, i più amari sul palato.
Si prende tutto il tempo del mondo per rispondere, assaporare l'attesa, il suo sguardo, la sua postura, Harold Styles di Holmes Chapel che lo fissa barcollando nell'attesa.
“A Doncaster. Non torno più. Il mio contratto scade il 31 dicembre, e non lo rinnoverò. Hanno già trovato un sostituto” 
“Ma cosa...ma che cazzo...perché?” si stringe nelle spalle, l'ultimo tiro di spinello che si perde fra la gola e le narici.
E lo guarda aspettare, con quella sua bocca enorme spalancata e gli occhi offuscati dalla marijuana, pensando che non lo terrorizza più per davvero l'idea di cosa farà domani. Cosa faranno, insieme, tutto l'anno, tutti gli anni, a giostrarsi fra l'acqua calda della doccia che finisce troppo presto, e la noia, ogni tanto, di non sapere cosa dire.
Ma non è che la gente si diverta tutto il giorno, no?
E Harry Styles sa essere incredibilmente stimolante anche quando abbassa la voce e scaglia gli oggetti per la stanza, incazzato nero.
“Mi mancate...e direi che chiamare per nome ogni assistente di volo, receptionist, autista di pullman e benzinaio da qui a Doncaster è una situazione che grida a gran voce di darmi una mossa...” 
“Ma la squadra, i ragazzi. Ti piaceva...” sembra che voglia testardamente, in qualche modo, contraddirlo. Se domani, dopodomani, fra dieci anni, Louis avrà un rimpianto, non sarà perché Harry non ha cercato in ogni modo di convincerlo a ripensarci.
Forse amare qualcuno è anche questo: tenergli testa anche quando quello che dice è esattamente quello che vorremmo sentire.
“Mi piace, cazzo. Certo che mi piace. Ma io voglio allenare una squadra di calcio, e anche i pulcini della scuola materna all'incrocio sono una squadra di calcio” ride piano, e ride anche Harry, in quel suo modo sfrigolante di rompere la quiete.
Ride e parla. Piano, con la voce ancora gorgogliante di quella risata svolazzante
“Lou”
“Lo so. La disperazione di non sentirmi più affibbiare finte fidanzate ti ucciderà...” ironia per spezzare una domanda a metà.
Tu vuoi che io sia qui? Vuoi il caos di vivere insieme davvero, e dimenticare di andare a prendere Darcy, e tua madre, e Gemma, e la noia, la frustrazione, gli anni, e vederci invecchiare e raggrinzire, e diventare noiosi e polemici davanti al telegiornale delle sette? 
Lo vuoi davvero?
“Lou-” Harry porta la tazza di the alle labbra, fissandolo ad occhi socchiusi.
Sembra serio dietro i riccioli tagliati da poco.
“Cosa?”
I suoi ricci.
Sembra serio, ma sorride dietro la ceramica un po' sbeccata, un disegno consumato che non si riconosce più, grattato via dalla lavastoviglie.
Si alza e lo bacia lentamente, Lou lecca via il sapore del the dal suo labbro superiore.
Il suo preferito. Troppo dolce, perché l'altro è ossessionato dallo zucchero.
Si siede a cavalcioni su di lui, anche se è troppo alto e goffo, e quasi la sdraio si rompe in due. 
Profuma di Harry. I capelli, i vestiti, la pelle.
Di Darcy.
Di casa.
Lo bacia di nuovo, a lungo e lentamente, come se avessero tutto il tempo del mondo.
Forse è così.
“Bentornato” 
Un'altra impronta di vernice sul muro.













Addi (che sono sempre Arrivederci): e così è finito. 
Io non so come vi sentite voi, ma io son triste. Ma anche soddisfatto, perchè finire una long, anche se di soli 10 capitoli, è una soddisfazione incredibile per me.
Ve lo assicuro, io non finisco mai niente :)
Non sono molto bravo con i ringraziamenti, anzi sono negato, possiamo dire.
Ma ci tengo davvero a ringraziarvi tutti, dal primo all'ultimo, per essere stati con me, i Larry e Darcy, in questo viaggio.
Ringrazio Eva per il plottaggio notturno folle, per gli scleri e tutti i deliri annessi e connessi, anche in chat multiple ahahah
A Dreamwriter e Mhartina per l'entusiasmo in ogni cosa, e per i divertentissimi tentativi di scoprire la mia identità, che sono sempre una gioia :D
E voi, uno per uno, che avete recensito, letto, piaciuto e ricordato, insomma, qualsiasi cosa, a chi ha lasciato un parere ad ogni capitolo, a chi non lo farà, a chi ha deciso di farlo malgrado tutto. A tutti.
Cerco di trovare il modo di farvi capire quanto siete preziosi, ma a volte non ci riesco.
Grazie.

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