Your heart in me

di dilpa93
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Seneca ***
Capitolo 2: *** Leonard Cohen ***
Capitolo 3: *** Diane Arbus ***
Capitolo 4: *** Thomas Hardy ***
Capitolo 5: *** Leonardo Da Vinci ***
Capitolo 6: *** Mary Catherine Bateson ***



Capitolo 1
*** Seneca ***






“Mentre rimandiamo, la vita passa.”
Seneca

 
 
Marzo 2009
 
C’è una strana calma, che contrasta con la solita frenesia che ogni giorno, da mesi, è solita accoglierlo.
A passo svelto si dirige verso i colleghi con il capo chino sulle scartoffie che ricoprono le loro disordinate scrivanie.
“Una giornata che inizia senza un cadavere... strano ed imprevisto!” Li saluta allegro con curioso umorismo, lasciando il caffè ancora caldo sulla scrivania della detective. Si guarda intorno come un cucciolo spaurito, smarrito senza il suo padrone nei paraggi.
“Ehi ragazzi, dov’è Beckett?”
“Ha chiesto la mattinata libera.” Mugugna Esposito lanciando la penna sulle carte, rilassandosi poi sul morbido schienale.
“Beckett, la mattinata libera? State scherzando?” Chiede scettico continuando a cercarla con lo sguardo.
Da quando era iniziata la loro collaborazione, non c'era stato giorno in cui non l'avesse trovata lì, inchiodata alla sedia, domandandosi se andasse mai a casa, o se dormisse. Sulle scene del crimine era sempre la prima ad arrivare, dal distretto era l'ultima ad andarsene.
“Affatto, ma, visto che lei non c’è, credo che questo non le serva.” Prosegue l’ispanico afferrando il brico riservato a Kate.
“Già, grazie Castle”, ammicca Ryan alzandosi e portandogli via l’latro dalle mani.
“Que-quello in realtà... era, era mio.” Sbuffa sedendosi sulla sedia ormai assegnata a lui. Con le dita picchietta sul bracciolo consunto, arricciando le labbra deluso dal non averla trovata lì. Di sottecchi, osserva il posto vuoto di fronte a lui interrogandosi cosa abbia spinto una stakanovista come Katherine Beckett a prendere un impegno in un’ordinaria giornata di lavoro.
 
Fissa con sguardo assente i piedi fasciati in un paio di stivaletti neri tamburellare sul linoleum lucido. Con le mani si regge il viso pallido; i gomiti poggiano con pesantezza sulle gambe.
Fa un profondo respiro abbandonandosi contro lo schienale della sedia pieghevole. Il contatto con la plastica nera la fa rabbrividire e da quell’istante il freddo diviene pungente, lo sente fin dentro le ossa nonostante la primavera sia ormai alle porte.
Aspetta ascoltando i secondi scanditi dall’incessante e lento ticchettio dell’orologio.
Si tormenta il lobo dell’orecchio sinistro che, da giorni, sente intorpidito, sintomo di un brutto presentimento che invano ha tentato di ignorare.
“Katherine Beckett.”
Alza lentamente il capo, lasciando scivolare la mani lungo le cosce.
“Katherine Beckett”, scandisce nuovamente l’infermiera.
Scuote la testa, rispondendo poi con un timido “sono io” e, facendolo, ogni cosa accanto a lei pare riprendere vita e i rumori dapprima ignorati e apparentemente muti tornano prepotenti ad invadere la sua mente.
Il chiacchiericcio insistente delle infermiere, il ronzio del refrigeratore del distributore di bevande, il pianto di un neonato tenuto tra le braccia dalla donna accanto a lei, il persistente squillare del telefono al banco ed, infine, il deciso tonfo della porta che si chiude alle sue spalle.
“Si accomodi, il dottore arriverà a minuti.”
Sorride cortese l’infermiera digitando sulla tastiera del computer.
“Grazie.”
Rimasta sola, concede al suo sguardo di vagare indisturbato sebbene conosca quello studio a memoria.
Sa esattamente che sulla parete alla sue spalle è appesa la laurea in medicina, il cui quadro, incurante dei numerosi tentativi di sistemazione, continua a pendere più verso destra. Ai lati tavole anatomiche risaltano sull’intonaco bianco e ogni volta, nell’attesa, si perde nell’analisi delle immagini del corpo umano. Vene e arterie, quei sottili tubicini rossi e blu che si ramificano e collegano lungo ogni singolo arto, creando come un'autostrada corporea.
Sulla scrivania accanto al computer tre cornici racchiudono il tesoro più prezioso dell’uomo che da anni l’ha in cura, i suoi figli. Ne hanno parlato spesso durante le visite, forse un modo cortese per alleviare la tensione che era solita mascherare con la gentilezza tipica del suo essere e sorrisi all’apparenza sinceri.
Thomas, il maggiore, ha intrapreso il college l’anno prima. “Economia”, aveva sospirato con una scrollata di spalle il dottor Bolkowitz. Nei suoi occhi aveva colto una leggera delusione, probabilmente dovuta alla speranza, ormai persa, che seguisse le sue orme.
Julie, invece, frequenta ancora al liceo. Una ragazza a modo; aveva avuto l’occasione di incontrarla un paio di volte e non aveva potuto fare a ameno di notare il suo smagliante sorriso. Studia danza classica da quando aveva soli quattro anni, è il suo sogno, la sua vita. Da come gliel'aveva descritta sembra essere già una donna di casa nonostante la sua giovane età, e dalle sue parole aveva avuto l'impressione che senza di lei la casa sarebbe stata lasciata andare, abbandonata al suo destino. Il fatto di essere medico gli precludeva spesso la possibilità di stare a casa per una cena tranquilla o per un film davanti alla tv. La reperibilità quasi sempre necessaria è la parte che più odia del suo lavoro, a pari merito con la perdita dei suoi pazienti. Così spesso Julie si trova a rifare i letti, rassettare, e occuparsi di Maggie, la piccola di casa. Un tornado di sei anni. A detta del padre è la luce della famiglia, soprattutto da quando la moglie é venuta a mancare due anni prima. Le aveva mostrato qualche disegno fatto da quella bimba dalle guanciotte rosee e lentigginose. La maggior parte ritraevano la famiglia. Tutti sorridenti, il sole sempre presente, giallo e grandissimo sopra le loro teste, non si percepiva quasi la mancanza di quella figura fondamentale che non potrà mai vedere quei particolari capolavori.
Non lo sente entrare, assorta nel trambusto dei suoi pensieri.
“Katherine, credevo che ti avrei rivisto non prima di giugno.”
“Già, ma ho la sensazione che qualcosa non vada.”
“D’accordo, siediti sul lettino, controlliamo subito.”
Lo stetoscopio viene a contatto con la pelle calda, reprime un gridolino e inspira a fondo sperando che quella sgradevole sensazione passi in fretta.
“Facciamo un ECG sotto sforzo e vediamo se hai ragione.”
“Come al solito...” Sospira stanca di quella situazione che si protrae ormai da tempo.
Il lobo dell'orecchio sinistro continua a formicolare.
Gli elettrodi aderiscono con facilità, sono per lei come una seconda pelle.
Comincia a camminare lentamente sul piccolo tapis roulant posto in un angolo della stanza, proprio accanto alla grande finestra che dà sul parco interno dell’ospedale. È una vera meraviglia, specialmente in quel periodo, ma nonostante la bellezza dovuta allo sbocciare dei primi fiori e al rinverdirsi degli alberi, non riesce a provare allegria o piacere ogni qualvolta si perde ad osservarlo.
In pochi secondi il respiro diviene corto e accelerato, il viso paonazzo per lo sforzo. Si sente sollevata quando John spegne il macchinario.
Vedendolo tornare a sedersi alla scrivania, rimuove ogni singolo elettrodo quasi come se si trattasse di un’azione quotidiana e sistema la camicia. Ciascun bottone entra con lentezza e precisione nell’asola corrispondente. Se si fosse prestata abbastanza attenzione si sarebbe riuscito a sentire il lieve fruscio della plastica che attraversava il tessuto leggero.
“Purtroppo il tuo presentimento era giusto. La tua cardiopatia si è acuita.”
“Quanto è grave?”
“C’è un’accentuata dispnea e la gittata cardiaca è parecchio peggiorata, si è abbassata di molto dall’ultima volta.”
“È per questo che mi stanco subito, non è così?”
Annuisce sospingendo con l’indice gli occhiali in modo da allontanarli dalla punta del naso aquilino.
“Il tuo cuore non pompa abbastanza sangue dal-”
“Ventricolo sinistro alle arterie, lo so. Ma ci sarà qualcosa da poter fare, da tentare.”
“Ci abbiamo provato, lo sai.”
Scuote la testa, spostando lo sguardo dal volto dell’uomo ad un punto imprecisato del soffitto.
Non avrebbe pianto ancora, se lo era ripromessa quella stessa mattina. Era strano il modo in cui la sua forza e la sua spavalderia, che le avevano permesso di farsi strada nella polizia, sparissero non appena faceva il suo ingresso tra quelle mura, come fossero capaci di indebolire le sue difese, di penetrare la sua corazza.
“Allora, ricominciamo...” Dice in un sospiro aggiustandosi le maniche del camice bianco.
“Non un’altra volta, non ce la faccio più a sentirlo.”
“Invece te lo ripeterò fino a che non ti convincerai che abbiamo fatto tutto il possibile.”
 
La nottata in ospedale era stata lunga. Il silenzio le era risultato insopportabile. Era riuscita a distinguere con precisione ed esattezza, al di fuori della sua stanza, il trascinarsi dei piedi delle infermiere del turno di notte. Aveva sentito ogni singolo passo. Rimbombavano senza permesso nella sua testa.
La mattina era arrivata con lentezza e quando l’avevano finalmente preparata per l’operazione si era sentita più leggera. Ben presto però era sopraggiunta l'ansia, trasparita solo nel modo in cui morbosamente aveva stretto tra le mani il lenzuolo del lettino. Improvvisamente l’essere da sola l’aveva fatta piombare nel panico.
Suo padre era da anni una figura quasi del tutto invisibile. Da troppo tempo non lo sentiva chiederle “come stai?” o interessarsi a ciò che le stava capitando con sincerità e reale apprensione, ormai sprofondato nell’abisso dell’alcol dal quale non sembrava esserci una possibile via d’uscita.
Parlarne con altri? Troppa vergogna e un grande bisogno di fingersi forte ed invincibile, l’esatto opposto di ciò che era in realtà. Quel finto orgoglio di cui si era circondata era ormai diventato una parte di lei. Walter Langer ha scritto “La gente crede più ad una grossa menzogna che ad una piccola, e se viene ripetuta abbastanza spesso la gente prima o poi ci crede”, e così era successo a lei. Aveva finto così a lungo di essere chi non era, che aveva finito per trasformarsi in quella persona.
Aveva aperto gli occhi ritrovandosi nella sua stanza, avvolta dalla luce del sole pomeridiano riflesso dalle superfici bianche.
Spaesata non poté però non sorridere, certa di essere riuscita a risolvere almeno una parte dei problemi che sembravano non volerne sapere di allontanarsi dalla sua vita.
“Ben svegliata signorina Beckett. Come si sente?”
“Come è andato l'intervento?” Aveva domando sbiascicando, sentendo ancora l’effetto dell’anestesia.
“Adesso arriverà il dottore, lei si risposi.”
Avrebbe voluto mettersi seduta, fermarla, obbligarla a dirle se era davvero tutto finito, e invece, ancora intorpidita, non fu in grado di muovere un muscolo.
Il dottor Bolkowitz era arrivato dopo qualche minuto. Cartellina in mano e un sorriso tirato.
“Kate, come si sente?”
“B-bene” aveva risposto incerta, non sapendo cosa aspettarsi.
Il lobo dell’orecchio già formicolava.
“Qualcosa non va?”.
La sua espressione, come risposta iniziale, aveva lasciato poco spazio all’immaginazione.
Un eccesso di tessuto grinzoso intorno al cuore aveva reso impossibile intervenire. Il rischio nel proseguire avrebbe comportato un arresto cardiaco che, sommato alle precedenti aritmie, sarebbe potuto essere fatale. Si erano visti costretti a richiudere e ad inserirla nella lista trapianti.
 
È ormai sei anni che aspetta.
Ha proseguito con la sua vita come nulla fosse, rispettando le visite trimestrali, ma senza per questo risparmiarsi sul lavoro. È arrivato il momento di smetterla di non vedere quanto la sua testardaggine le stia facendo male.
“Sapevi che questo momento sarebbe arrivato.”
“A cosa serve? Sono in quella lista da così tanto... non vedo perché dovrei mettere in pausa la mia vita.”
“Perché altrimenti la tua vita finirà troppo presto Kate, ecco perché. Ci conosciamo da anni, lascia che ti parli come amico e non come medico. Non ti sto dicendo di chiuderti in casa a poltrire, sto dicendo di ridurre il carico di lavoro. Il tempo che guadagnerai potrebbe bastarti fino a quando non arriverà un cuore. Ormai mi sono affezionato a te, ti ho praticamente vista crescere e fare avanti e indietro tra queste mura. Non fare si che la prossima volta che entrerai qui dentro non ne uscirai più.”
Digrigna i denti, torturandosi le dita delle mani le cui ossa scrocchiano ad ogni tocco.
“D’accordo... mi dica cosa devo fare.”



Diletta's coroner:

Nuovo esperimento, nuova long...
Spero di non fare troppi danni!
Buona serata :)
 

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Capitolo 2
*** Leonard Cohen ***






“C'è una crepa in ogni cosa. È da lì che entra la luce”
Leonard Cohen
 



Lancia un’occhiata al sedile del passeggero dove i fazzoletti, impregnati delle sue lacrime, sembrano voler sottolineare le sue debolezze.
Sono anni che non si lasciava andare all’autocommiserazione ed ora, solo ripensando alle parole del dottor Bolkowitz, sente gli occhi andare in fiamme.
Si concede ancora qualche istante prima di scendere dalla macchina, nella speranza che il rossore svanisca o che per lo meno si attenui così da non essere notato, nonostante sappia bene che quei pochi minuti non impediranno a nessuno di notare che ha pianto.
Quando le porte dell’ascensore si aprono si sorprende di trovare Castle seduto accanto alla sua scrivania sulla quale poggia il gomito sinistro. La mano stringe ritmicamente una pallina antistress, vicino a lui una tazza di caffè sembra essere stata dimenticata.
“Castle, cosa ci fai qui?”
Colto alla sprovvista lascia la presa sulla piccola palla di gomma che fa un sonoro splash nella bevanda nera.
“Ah i-io, ti aspettavo.”
“Si, lo avevo capito. La domanda è... perché. Non c’è stato alcun omicidio e io ero-”
“Impegnata”. Con le dita tenta di far sparire dalla scrivania ogni traccia di caffè con il solo risultato di spanderlo sulla superficie liscia e lucida. “A proposito...” prosegue sfregando tra loro le mani pulendole alla meglio. “Appuntamento galante?” Con un fazzolettino di carta asciuga il legno, gettandolo poi nel cestino.
“Alle nove del mattino?” Lascia la giacca di lino sulla sedia prima di chinarsi ad accendere il pc.
“Magari una colazione o forse una colazione a seguito di una piacevole nottata”, ammicca sporgendosi verso di lei, avvicinandosi pericolosamente al suo viso tanto da sfiorarle impercettibilmente la guancia con il naso.
“Credo che tu ed io abbiamo una concezione molto diversa della parola piacevole Castle.” Rilancia inarcando il sopraciglio con fare volutamente provocatorio.
Voltandosi i loro profili quasi si carezzano avendo come unica barriera una sottile linea d’aria.
Si allontana rapidamente, riacquistando in fretta lucidità, forse troppo in fretta per i gusti dello scrittore, deluso dalla fine di quel giochetto malizioso instauratosi tra loro.
Si siede, digitando veloce la password richiesta.
Le dita giocherellano con la tastiera per qualche minuto, fino a che con la coda dell’occhio non intercetta il capitano alle sue spalle dirigersi nel suo ufficio.
Curioso come il suono dei suoi passi e il lieve scricchiolio delle suole in gomma riecheggino nella stanza. Dopo averlo visto accomodarsi sulla poltrona in pelle, decide di alzarsi e raggiungerlo.
“Ho bisogno di parlare col capitano. Puoi andare a casa Castle, non credo che oggi ci sarà qualcosa di... interessante.”
“Non ci penso affatto, sono stato qui tutta la mattina e poi a casa non ho nulla da fare.”
“Giusto, tranne che occuparti di una figlia adolescente e... ah già, scrivere un libro. Non ti ho forse in mezzo ai piedi per questo motivo?” Chiede  cercando di dare alla voce la giusta inflessione per fargli credere di essere scocciata e spazientita. Trucchetto che ormai Castle ha imparato a riconoscere. Le partite a poker che da anni riempiono le sue serate altrimenti solitarie lo hanno istruito a sufficienza, permettendogli di smascherare qualsiasi tic o tranello in cui potrebbe cadere e che lo farebbero perdere.
“Detective Beckett, così ferisce i miei sentimenti! Ma hai ragione, sono qui per scrivere e perché tu sei la mia... ispirazione”, sospira con enfasi in modo spiccatamente teatrale, lieto di aver trovato un’alternativa alla parola musa che lei tanto odia. Non che essere definita ‘ispirazione’ la riempia di orgoglio e felicità, ma per il momento soprassiede, continuando a prestare ascolto alle giustificazioni dello scrittore. “Ed è sempre per questa ragione che non me ne andrò anche se ci sono solo orrende scartoffie da compilare.”
La vede alzare gli occhi al cielo, risposta più che soddisfacente per lui, simbolo della sua resa e, mentre sorride sornione, lei scompare alla sua vista. Anche le sue labbra si increspano in un sorriso ed è lieta che sia riuscito a strappargliene uno persino in quel giorno.
 
“Da quanto tempo sarà dentro Beckett?”
“Saranno almeno venti minuti.” Grugnisce Esposito continuando poi a raffreddare la bevanda calda con piccoli seppur sonori sbuffi.
Dalla macchina dell’espresso ancora esce del vapore. Dal momento in cui Castle l’aveva gentilmente regalata al distretto, la pausa caffè non era più stata tanto male. Lo stesso caffè era di gran lunga migliore. Quella strana patina bruciata era solo uno sbiadito ricordo, come anche il sapore amaro che permaneva nonostante la quantità spropositata di zucchero versato.
“Ragazzi, che fate?” Li sorprende Castle alle spalle soffiando sui loro colli.
“Noi? Niente.”
Rispondono all’unisono.
La loro sincronia lo ha sempre affascinato, portandolo a domandarsi se anche lui, un giorno, sarebbe mai riuscito a trovare una sintonia simile con qualcuno. Non sa spiegarsi il perché, ma qualcosa nella sua testa, una vocina martellante e perforante, lo spinge a sperare che questa persona sia Kate.
“Wow, spiate Beckett. Vi siete ridotti a questo?”
“Parli proprio tu che sei il primo ad impicciarsi della sua vita.” Lo imbecca Ryan offeso dalla sua precedente insinuazione.
“Vero. Allora, cosa avete scoperto?”
“Nulla, ma sapete”, Ryan posa il cucchiaino nel lavabo. Nel caffè il turbine creatosi sta già svanendo e finalmente il fastidioso tintinnio dovuto allo scontro del metallo con la ceramica cessa, “sono in grado di leggere il labiale.” Gonfia il petto, fiero di quella sua strana e particolare abilità.
“Davvero? Avanti John Nash, facci vedere.” Lo canzona il compare sospingendolo davanti alla vetrata dove, socchiudendo gli occhi, il giovane detective si concentra il più possibile per carpire anche il più impercettibile movimento di labbra attraverso le fessure delle veneziane abbassate della sala break.
 
“Signore, so che è chiedere molto visto che non potrò più essere operativa al cento per cento, ma non voglio lasciare questo lavoro. Sicuramente sarei più utile sul campo che ferma ad una scrivania ad occuparmi della parte legale. So di non essere indispensabile, che un agente altamente qualificato potrebbe tranquillamente prendere il mio posto.”
La osserva senza staccare da lei lo sguardo, le palpebre non osano chiudersi. Vede la bocca muoversi eppure non riesce a distinguere nessuna parola. Sa che proverà a scusarsi, che cercherà di convincerlo che nonostante tutto lei è ancora un importante elemento. È sempre stato protettivo nei suoi confronti, quasi paterno, da quando, dopo quel giorno in cui l’aveva colta a frugare tra i fascicoli di vecchi casi con una torcia in mano, aveva fatto di tutto per averla in squadra con lui. Non ha alcun bisogno di convincerlo, lui cercherà sempre di aiutarla e di proteggerla.
“So anche che-”
“Beckett adesso basta!” Batte la mano sulla scrivania, con moderata violenza, guardandola ammutolire e mordersi nervosamente il labbro.
“Bene”, pare compiaciuto del risultato, mentre gli angoli della bocca gli si piegano all’in su e il tono della voce torna pacato cercando di rassicurarla. “Ora che ho la tua attenzione lasciami dire che non ho assolutamente intenzione di lasciarti a casa, il licenziamento non è tra le opzioni. Ti dimostrerai utile come al solito, sarai in grado di coordinare la squadra anche da qui, non ho alcun dubbio sulle tue capacità.”
Cerca di sorridergli in segno di gratitudine per quelle parole nonostante il groppo in gola sembri impedirglielo.
 
“Allora, che cosa stanno dicendo?”
Il bisogno impellente di soddisfare la propria curiosità fa si che lo scrittore aspetti solo pochi secondi prima di porre quella domanda.
“Lui ha detto nonostante la tua capra sia salata farai un buon lavoro e lei-”
“Aspetta, aspetta, aspetta... la tua capra sia salata? Bro sei sicuro abbia detto questo?”
“Sicurissimo, senza ombra di dubbio.”
“Magari stanno parlando in codice. Cospirazioni aliene... Piccoli omini verdi stanno tentando di invaderci!”
L’occhiataccia ricevuta da Esposito lo fa desistere dal proseguire con ulteriori congetture poco realistiche.
“Sentiamo, cosa avrebbe detto ora Beckett?” Chiede con accennato scetticismo Javier.
Non mollerò la pesca, fosse l’ultima frutta che mangio. Sapete cosa? Io ci rinuncio.” Afferma a seguito di sguardi perplessi e poco amichevoli. “Se vuole ce lo dirà lei.”
“Ho sempre pensato fosse il più debole...” Mugugna lo scrittore che, incrociate le braccia al petto, guarda di sottecchi l’irlandese abbandonare la stanza addentando una succulente ciambella.
“Disse l’uomo che parlava di omini verdi che vogliono conquistarci.”
“Ma tu credi a questa eventualità, non è vero?”
“Ah, è ovvio”, e anche lui lo lascia solo ad osservare la collega. Guardandola gli è impossibile non domandarsi “cosa è che ti preoccupa Kate?
 
 
Schiuma il latte, tra le mani la tazza di ceramica blu inizia ad assorbire il calore del caffè rilasciando un piacevole tepore. La soffice spuma sfrigola scivolando lentamente sopra il liquido scuro.
“Con tanta schiuma”, le sorride porgendoglielo una volta arrivato di fronte a lei. La detective dà un’occhiata all’orologio inclinando impercettibilmente il polso verso di sé.
“Ho controllato, sono le quattro e venti... Ho notato che ti accerti sempre dell’ora prima di prendere il caffè nel pomeriggio.” Spiega accorgendosi del suo sguardo dubbioso, “non ho idea del perché tu lo faccia, ma ecco... spero di non aver sbagliato.”
“Va benissimo. Grazie Castle.”
“Ehi, abbiamo un caso!” Esclama quasi euforico Ryan posando con un colpo secco la cornetta sul ricevitore. Dal secondo cassetto della scrivania afferra la glock riponendola nella fondina ascellare, lo stesso fa Esposito incamminandosi verso l’ascensore.
Anche lo scrittore, all’udire quelle parole, muove un passo nella loro direzione. Basta un secondo perché si accorga che Kate non è dietro di lui.
“Becks, tu non vieni?” Domanda Kevin dopo aver visto le porte dell’ascensore aprirsi davanti a sé.
“No, andate voi, ho delle cose da sbrigare. Mi aggiornerete più tardi.”
“Tu vieni Castle?”
Il suo sguardo si posa su di lei, già seduta alla scrivania, e poi nuovamente sui due detective. “No, andate pure.”
“Oh, no, Castle vai, non c’è bisogno che tu rimanga.”
“Si invece. Sono il tuo partner ora, non mi scollerò da te così facilmente.”
Ride, rimettendosi poi china a lavorare sulle carte.
 
Cosa avrebbe fatto, avrebbe detto loro la verità, oppure avrebbe inventato ogni volta una scusa diversa? Quanto avrebbe resistito?
Poco, o forse sarebbe stato il suo finto orgoglio a permetterle di andare avanti a mentire.
 
 
Maggio 2009
 
“Dite che è arrivato il momento di fare qualcosa?”
Con la sedia si avvicina ai colleghi, approfittando della momentanea assenza della detective.
“Riguardo?”
Domanda con spiccata curiosità Ryan.
“Riguardo Beckett.” Esclama cercando tuttavia di mantenere un tono di voce basso nel caso in cui lei fosse piombata improvvisamente alle loro spalle. “Non so se ve ne siete accorti, ma è oltre un mese che non si schioda da qui.”
“Nah, sicuramente ricordi male.”
“Qual è l’ultima volta che l’hai vista sulla scena di un crimine, o partecipare all’arresto di un sospettato, o ad un inseguimento?”
Rick boccheggia, senza parole, cercando tra i suoi ricordi, cosa che gli provoca la deformazione della bocca in una buffa smorfia. Le labbra si muovono senza sosta formando mezze parole e strani e silenziosi gorgheggi.
“Proprio come pensavo.”
“D’accordo... idee?”
“Qualcuno dovrebbe parlarle...”
“Oh, no, non guardate me. Solo perché sono l’ultimo arrivato è giusto affidarmi un incarico che anche un kamikaze rifiuterebbe?”
“Va bene, giochiamocela.”
“Morra cinese?”
“Al meglio di tre.”
“Pronti... Via!”
 
Dopo tutte le volte che gli è capitato di sfidarli ancora si fa fregare dai loro trucchetti come un bambino che, ingenuamente, casca nei tranelli del monopoli ma, prima di andare verso quella missione suicida, ha ancora una carta da giocarsi. L’ultimo e solo asso nella manica.
 
 
“Castle e...” L’anatomopatologa si sporge verso destra tentando di individuare dietro l’imponente figura dello scrittore quella della sua amica e collega. “Castle. Come mai qui da solo?” Smette di armeggiare con provette e vetrini coprendo alla meglio il corpo sul tavolo in acciaio posto tra loro.
“Avevo bisogno di parlare con te. Spero di non aver interrotto nulla.”
“Non preoccuparti, stavo giusto per cominciare l’autopsia, ma io e il mio amico riprenderemo più tardi la nostra conversazione privata. Di cosa devi parlarmi?”
Sfrega tra loro le mani, lisciando poi il tessuto dei pantaloni all'altezza delle cosce.
“Ormai penso di conoscerti, perciò non ci girerò intorno, soprattutto perché la tua vicinanza a quei bisturi mi mette un po’ di agitazione.”
Ne raccoglie uno girandolo lentamente tra le mani; la luce fredda dei neon riflette sulla superficie metallica, la quale scivola indisturbata sui polpastrelli, ricoperti dal lattice dei guanti, carezzandoli.
Sorride divertita dallo sguardo preoccupato dell’uomo che le sta davanti.
“Ecco... stavo appunto dicendo che, che... mettilo giù, ti prego.”
“D’accordo writer boy.” Ridacchia divertita. “Ora che sei più tranquillo dimmi.”
“Sai cosa sta succedendo a Beckett, qualcosa di cui potrebbe aver tenuto all’oscuro me e i ragazzi?”
“Di cosa parli?”
“Nell’ultimo periodo l’abbiamo vista piuttosto strana. Non vogliamo farci gli affari suoi, ok, forse giusto un pochino, ma-”
“Castle, ascoltami, è la sua vita, credo che dovreste smetterla di pensare a lei e concentrarvi su di voi. Posso capire i ragazzi, la conoscono da anni, ma tu la conosci da cinque minuti, non farti spazio, non insinuarti in lei, non criticare il suo modo di vivere, la sua reazione potrebbe essere inaspettata e avere spiacevoli conseguenze soprattutto per te, ma anche per lei.”
Il tono risulta più sprezzante di quanto progettato, le parole suonano poco amichevoli alle sue stesse orecchie.
“Non te l’ho domandato per divertirmi o perché voglio sbattere la vita privata di Beckett in una delle pagine del mio libro.” Tenta di proteggersi da quello che gli è sembrato un attacco, nonostante le intenzioni della patologa fossero completamente diverse. Diventa molto protettiva quando vede la privacy delle persone che le stanno a cuore minacciata. “La verità è che siamo preoccupati e anche io lo sono. Lo sono davvero Lanie.”
“Senti, apprezzo l’onestà ma non sono in possesso di alcuna informazione che possa esservi utile e purtroppo temo che, anche se lo fossi -e bada non sto dicendo di esserlo- non potrei rivelarvi nulla.”
“Capisco. In questo caso torno di sopra.” Sospira afflitto. “Scusa il disturbo.”
“Castle.”
Resta di spalle, appoggiato stancamente con una mano allo stipite della porta.
“Scusami, non avrei voluto parlarti in questo modo.” Si dispiace della sua reazione fumantina. Ha visto la chimica che c’è tra i due, non avrebbe dovuto insinuare, ne tanto meno pensare, che l’interesse di Castle fosse rivolto a secondi fini e non ad una reale preoccupazione. “Ascolta, credo tu abbia capito com’è fatta Kate. Non si apre facilmente alle persone, lo fa con me, è vero, ma accade di rado. Sarebbe felice di sapere che c’è qualcuno che si preoccupa per lei, anche se non lo ammetterebbe mai. Voglio solo che tu sappia che se dovesse dirmi qualcosa farò tutto il possibile per aiutarla. Mi credi, non è vero?”
“Certo.”
Una parola pronunciata quasi con sofferenza, guardando la donna per una frazione di secondo, solo con la coda dell'occhio.
La mano spinge svogliatamente la porta lasciando un alone di condensa sulla placca in metallo.
Sale con calma le scale, sorridendo amaramente.
Se c’è una cosa che la detective aveva messo in chiaro fin dal primo giorno è che lui non avrebbe dovuto, in maniera più assoluta, interferire con il suo lavoro o con il suo mondo. Non è stato in grado di attenersi alla prima richiesta e, nonostante sappia di sbagliare, quella sera avrebbe infranto quella promessa addentrandosi nel suo mondo più di quanto non abbia già fatto.
 
“Ehi Castle, dove eri finito?”
Le compare accanto, come materializzato dal nulla, come se il pavimento si fosse aperto e dopo averlo misteriosamente inghiottito, con lo stesso alone di mistero, lo avesse rigettato fuori.
“Mi erano venute un paio di idee per il prossimo capitolo, così ho cercato un posto tranquillo dove poterle buttare giù.” Improvvisa con evidente successo. “Cosa mi sono perso?”
“I ragazzi sono usciti per seguire una pista sul caso John Doe.”
“Lo sconosciuto trafitto da una ventina di chiodi? Perché mi perdo sempre le cose migliori?”
“Oh, non piangere Castle, non credo risolveranno il caso oggi. Potrai fantasticarci su ancora per un po’, e poi-”, la scritta sconosciuto sul display appena illuminato del telefonino attira la sua attenzione. “Scusami... Beckett.”
“Kate, sono il dottor Bolkowitz. Ci sono buone notizie.”




Diletta's coroner:
Ancora tutto abbastanza tranquillo.
Chissà quale sarà la buona notizia...
Grazie a tutte le persone che hanno letto e recensito il primo capitolo e che hanno inserito la storia fra le seguite.
Buona serata!

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Capitolo 3
*** Diane Arbus ***






Una fotografia è il segreto di un segreto, più cose ti dice meno ne sai”
Diane Arbus
 
 


La mano si muove automaticamente sulle carte. Le dita stringono la penna da un paio d’ore, dopo che la chiamata ricevuta era riuscita a darle la carica.
Nella sua testa sente ancora la voce profonda del suo medico annunciarle che dopo un’estenuante attesa era arrivata in cima alla lista. Aveva specificato che non significava per forza che ci sarebbe stato un donatore di lì a poco. Un trapianto richiedeva corrispondenza di gruppo sanguigno e anche le dimensioni, le aveva spiegato spesso, avevano la loro importanza, eppure adesso queste cose non sembrano contare dinnanzi alla prospettiva di aver quasi raggiunto il traguardo, quella luce in fondo al tunnel che credeva non sarebbe mai riuscita a vedere.
Sorride senza accorgersene mentre compila quelle scartoffie che non sembrano essere più tanto noiose. Non pare neanche rendersi conto del modo ossessivo, più di una volta definito inquietante, in cui Castle la osserva. Lui stesso rimane sorpreso di non ricevere alcun richiamo.
Aveva tentato più volte di intavolare un discorso, nella speranza di portarla a dirgli cosa le impediva di lavorare come prima, cercando di metterla sul ridere esordendo con quanto le mancassero i suoi rimproveri quando si metteva nei guai come se le raccomandazioni fattegli poco prima fossero entrate da un orecchio e velocemente uscite dell’altro.
Eppure apriva bocca e non riusciva a parlare, bloccato al ricordo delle parole della patologa che ancora gli ronzavano intorno come una fastidiosa mosca che nonostante i tentativi di scacciarla continua imperterrita a tornare.
Si alza dopo aver constatato l’ora tarda quando il suo sguardo era caduto sull’orologio del monitor del computer di Beckett. Stiracchia le braccia lievemente intorpidite, ruotando poi il collo. “Bene detective, allora io andrei, ho un epilogo da scrivere.”
“Uhm?” Si volta verso di lui guardandolo in viso. “Certo Castle, non mi ero accorta fosse così tardi. Quindi... il libro volge al termine?” Chiede con titubanza a seguito di un’iniziale esitazione. Se non sapesse che è impossibile a Richard sembrerebbe dispiaciuta.
“Già”, le conferma mesto, “tu resti?”
“Ancora un po’... Buona notte.”
“A domani detective.”
 
 
Solo una volta salito in macchina, lasciata per l’intera giornata a riposare nel garage, si rende conto di aver dimenticato il telefonino. Sbuffa slacciando la cintura ed estraendo nuovamente le chiavi dal quadro.
Fischietta nell’ascensore, osservando i tasti dei piani illuminarsi l’uno dopo l’altro, e quando le porte si aprono si trova spettatore involontario di una conversazione che ha tutto l'aspetto di essere privata.
“Non devi preoccuparti, non ancora comunque. Appena l’UNOS chiamerà l’ospedale... Ci vorrà ancora un po’ temo. Sono attenta papà, non angosciarti per questo. Si, solo lavoro d’ufficio fino a che non mi aggiusteranno”, ironizza tentando di far scappare un sorriso al padre. “Ci sentiamo domani. Anche io... notte.”
Chiude la chiamata ed è in quel momento che si accorge dell’ombra accanto a lei proiettata sul pavimento.
“Castle”, esclama sorpresa voltandosi ed incrociando il suo sguardo colpevole. “Da quanto sei lì?”
“Un paio di minuti. Avevo dimenticato il cellulare.” Bisbiglia raccogliendo poi l’Iphone da sopra la scrivania.
“Quanto hai sentito?”
“Non molto. Va bene, solo e soltanto dell’UNOS. Non sono particolarmente ferrato in ambito medico, ma... ma presumo parlassi di un trapianto, perciò ehm, penso sia questo il motivo per cui non ti sporchi più le mani.
“Quindi direi che hai ascoltato quasi tutto.”
“Mi dispiace.”
“Già. Beh, non fa nulla.”
“Non dirò una parola, promesso.”
“Grazie...”
Lo guarda allontanarsi rigirando la catenina tra le dita sottili. L’anello che vi è appeso poggia nell’incavo che viene a formarsi tra le prime costole.
“Beckett, visto che siamo in vena di confidenze.”
“Non siamo in vena di confidenze.” Ma le sue parole sono come acqua fresca, impalpabili, e lui le siede nuovamente di fronte incurante di ciò che gli ha appena suggerito. “Come non detto”, mormora più a se stessa che a lui.
“Sai, io non so se di questa... cosa di cui stavi parlando con tuo padre ne siate a conoscenza solo voi due, ma”, riprende il cellulare dalla tasca scorrendo rapidamente tra le foto.
Lo porge a Kate con un sospiro. Una volta tra le mani lo tiene tra quasi con la paura di romperlo.
L’immagine ritrae due neonati avvolti in un’adorabile copertina azzurra.
Deve essere piuttosto datata.
Dalle pieghe sulla superficie capisce che è stata scannerizzata. I piccoli aloni circolari ai lati le fanno pensare ad una foto scattata con una vecchia macchina a rullino.
Eppure, nonostante questi indizi, non riesce a capire dove Rick voglia arrivare.
“Siamo in due a saperlo, io e mia madre. Alexis, beh, lei, lei è emotiva, non vorrei che si facesse coinvolgere troppo. Tu invece... non voglio dire che tu sia insensibile, anzi, ma credo che tu sia la persona giusta con cui parlarne.”
È piacevolmente sorpresa da questo lato che sta mostrando. Una premura e una sorta di puerile timidezza che non credeva avesse, almeno non così accentuate.
Lo ha sempre ammirato come scrittore, ma la sua fama lo precedeva e non era certo delle migliori. È felice di sapere che i giornali si sbagliano, e che purtroppo tendono a non far trapelare certi suoi aspetti. Un padre, anche se eterno bambino, emotivo, semplice, in due parole una persona comune. È lieta di poter conoscere l’uomo che è in realtà.
“Questo sono io”, sussurra indicando il bambino sulla sinistra. La vede sorridere al pensiero di quanto fosse carino e dolce mentre dormiva beato nel lettino che ora presume essere del reparto neonatale. “E questo è mio fratello Alexander.”
Ecco che il sorriso svanisce venendo sostituito dallo sbigottimento più totale, gli occhi si sgranano e neanche si accorge di quando lui le sfila il telefonino dalle mani.
“Non sapevo avessi un fratello.”
“Infatti non ce l’ho. È morto quando aveva quattro giorni.”
“Mi dispiace Castle... Immagino non debba essere stato facile per Martha.”
“Affatto. Mi ha raccontato che ha avuto un crollo nervoso. Mio padre non c’era, i suoi genitori non volevano più saperne da quando era rimasta incinta. In meno di un anno ha perso l’affetto delle sole persone che aveva al mondo e un figlio. Siamo nati prematuri”, torna a raccontare dopo qualche secondo, “succede con i gemelli. Quando le hanno detto che mio fratello aveva avuto una crisi respiratoria e non era riuscito a superarla la prima cosa che ha fatto era stata la richiesta di potermi aggiungere un secondo nome.”
“Alexander...”
Lo scrittore annuisce semplicemente con un sorriso appena abbozzato.
“La crisi di nervi è comparsa il giorno in cui avremmo dovuto lasciare l’ospedale. Lei semplicemente è... crollata, continuando a domandare dove fosse il suo bambino. L’hanno tenuta in osservazione un paio di giorni, avevano chiamato psichiatria per una diagnosi. Ha rischiato di perdere anche me se la perizia psichiatrica finale non avesse dato buon esito. Mi ha sempre detto che è grazie a me se ce l’ha fatta, il lottare per potermi tenere con sé, ma io credo che sia solo merito suo. Tu l’hai vista allegra, spensierata, un po’ sopra le righe, persa nel mondo scintillante del teatro e della cosmetica ed è il suo modo di essere per affrontare ogni girono il peso che si porta dentro. Anche con me non ne parla più. Probabilmente è solo stanca di ricordare, ma io sono comunque orgoglioso di quello che ha fatto.”
“Quando l’ho incontrata ho subito pensato fosse un gran donna. È forte e ti ama molto, vi ama molto, te ed Alexis, si vede. Sarebbe contenta di sapere che sei fiero di lei.”
“Credo che lo sappia e anche se ho commesso degli errori -e credimi, ne ho commessi tanti- spero che anche lei lo sia di me.”
“Non ho alcun dubbio a riguardo.”
Si guardano in silenzio, troppo timorosi per andare avanti, per fare domande di qualsiasi natura, almeno fino a che quella quiete, fatta solo dei loro respiri, non diviene troppo opprimente.
“Perché hai voluto raccontarmelo?”
“Te l’ho detto, ho creduto fossi la persona giusta.”
“Castle, per favore.” Lo ammonisce bonariamente.
“Non ho mai voluto dirlo a nessuno, era una mia debolezza, è una mia debolezza, ma a lungo andare è una cosa che ti consuma dentro. Sarà sempre una parte di me, una parte della mia vita che lentamente però mi sta divorando, aggiungiamo anche domande come ‘perché lui? Perché non io?’ e il peso, se così vogliamo chiamarlo, diventa ingestibile. Forse si ha bisogno di parlarne con qualcuno che non sia così coinvolto, che veda la cosa con maggiore... ehm, obiettività e distacco, ma che ti conosca e sappia cosa dire o cosa non dire. Tu sei stata questa persona per me, e sono convinto di aver preso la decisione giusta nel dirtelo. E se per caso pensi abbia sbagliato a gettarti addosso tutto questo, beh, sappi che mi dispiace e non accadrà più.”
“Non chiedere scusa Castle. È strano, e se lo dirai a qualcuno  te ne pentirai, ma penso che tu abbia ragione.” Entrambi sorridono a quella innocua e semplice battuta.
“Ora è meglio che vada.”
Annuisce, eppure, quando lo vede allontanarsi, qualcosa scatta dentro di lei. Non può reprimere quell’impulso, quella forza che le riempie la gola di parole e che la sta bruciando dall’interno.
“Aspetta! Siamo in vena di confidenze, giusto?”
“Giusto”, la sedia lo accoglie nuovamente in quella sorta di abbraccio metallico.
“Bene...” Sfrega tra loro le mani cercando le parole adatte e un punto da cui cominciare. I pensieri si formano da soli, è incapace di controllarli. “Soffro di una cardiopatia valvolare... Negli anni si è aggravata. Ci convivo da quando sono bambina. I medici erano stati ottimisti, dicendomi che sarebbe bastato provvedere con una sostituzione della valvola mitralica, ma era necessario aspettare fino ai diciotto anni per assicurarsi che la crescita fosse terminata. Ma quando arrivò il momento dell’operazione mia madre venne assassinata.” Inevitabilmente gli occhi le divengono lucidi al solo pensiero di come era stata trattata, lasciata a marcire in un lurido vicolo. Assalita nel buio, sola e spaventata. “Non ero pronta ad affrontare un intervento, così rimandai. Nel frattempo la mia vita era continuata normalmente, insomma, nessun disturbo, niente. Ero riuscita ad entrare in accademia, il cuore reggeva e non sembrava più tanto grave. Poi i mesi divennero anni, cercando di aspettare che anche mio padre si riprendesse. Lui ha avuto qualche problema, era diventato-”
“Un alcolista.” Completa per lei vedendola in difficoltà.
“Come lo sai?”
“Qualche settimana fa lo hai aperto”, indica il secondo cassetto della scrivania sul quale, nell'angolo, risalta la piccola serratura circolare. “Solitamente lo tieni chiuso a chiave e l’occhio mi è caduto sul gettone d’orato. È quello del suo primo anno da sobrio, non è vero?”
“Mh-mh, io non me la sono sentita di lasciarlo solo, avrei dovuto passare settimane in ospedale. Ma più aspettavo, più lui sembrava non volerne sapere di farsi aiutare. E così sei anni fa decisi che non potevo più rimandare, ma avevo rinviato tanto a lungo che nel frattempo ogni cosa era peggiorata e non era stato possibile terminare l’intervento, la percentuale di rischio era troppo alta. Al mio risveglio mi diedero la notizia e finì nella lista trapianti insieme ad altre persone. I nomi aumentavano, chi riusciva ad essere inserito più in alto, a chi per gravità gli veniva concessa la possibilità di avere la precedenza... aspetto da allora. Otto settimane fa ho ricevuto l’ultimatum dal medico. È per questo che di rado mi vedete su una scena del crimine e che non accompagno più i ragazzi a cercare i sospettati. Non potrei inseguirli, non potrei difendermi... se mi sparassero, anche con il giubbotto antiproiettile, il mio corpo subirebbe comunque un sforzo che non sarebbe in grado di sopportare.
Sai... la cosa del caffè, il fatto che controllo sempre l’ora... È per questo. Non posso berne più di due al giorno, prendendo il secondo prima delle quattro ora di sera sentirei il bisogno di prepararmene un altro.”
“Io non ne avevo idea.” Sussurra, e Kate capisce che non sta riferendosi unicamente al piccolo aneddoto sulla caffeina.
Castle non avrebbe potuto immaginare un cosa simile, un danno di tale portata. È uno scrittore, un attento osservatore per natura, eppure non aveva avuto un benché minimo sospetto.
“Nessuno lo sa, e anche Montgomery è conoscenza solo dell’indispensabile. Sai, è vero, è bello parlarne con qualcuno.”
“Adesso dirai che sono il solito ottimista, e forse è così, ma sono convinto che andrà bene Kate, tutto andrà bene.” Le carezza il braccio scivolando fino alla mano e poi lungo le dita. Non c’è malizia, non c’è un secondo fine, ma la sola voglia di infonderle coraggio.
“Sai di cosa ho più paura?” Allontana la mano dalla sua facendola rientrare in contatto con il ciondolo. Per un istante è stato come se lui avesse invaso la sua sfera privata, quel tacito accordo di distanza reciproca, raggiungendola sotto la sua scorza più di quanto nessuno avesse mai fatto.
Rick scuote il capo, invitandola a proseguire. “Che il mondo andrà avanti e nessuno si ricorderà che sono passata di qui.”
Non c’è nulla di più comune del desiderio di essere importanti.
“Che fai Castle, citi Shakespeare ora?”
“Sono pur sempre figlio di un’attrice. Piuttosto è curioso che tu riconosca questa frase.”
“Ero appassionata di teatro al liceo, se non avessi scelto di fare legge, probabilmente avrei studiato recitazione e arte moderna.”
“Ma tu sei un poliziotto, non un avvocato...?”
“Una storia alla volta Castle. Ci sarà tempo per questa.”
“D’accordo, ma voglio dirti, per quanto possa servire, che anche quando tutto... questo”, accenna guardandosi intorno, indicando con un rapido gesto ciò che lo circonda, “sarà finito, non mi dimenticherò di te.”
“Sarebbe difficile. Hai scritto un libro servendoti di me come tua musa.”
“Oh-oh, sbaglio o ti sei appena definita la mia musa?”
“Cosa? Sicuramente ti sbagli.”
La loro sottile risata rimbomba nell'edificio da ore deserto. Kate raccoglie la borsa infilandovi all’interno una cartellina scura. Afferra le chiavi della macchina posate accanto ai piccoli elefantini bianchi sfiorandoli distrattamente con le nocche.
Con lui al suo fianco lascia il distretto.
Guida sola, ora, avvolta dalle mille luci della New York nottambula.
La radio le tiene compagnia, anche se a basso volume, con le ultime hit del momento.
Ancora sente il rossore sulle guance imporporatesi per quel bacio delicato datole al centro di una di esse dallo scrittore prima di separarsi.
Sorride.
Sorride pensandoci, sorride sentendo ancora le sue labbra in quel punto, sorride provando leggerezza, sorride accorgendosi che, per la prima volta da anni, per oltre venti minuti non aveva pensato alla sua condizione, a quel cuore malato che ora batte forte per l’emozione.




Diletta's coroner:
Un capitolo un po' caskettoso.
Kate si è decisa a parlare, e anche Castle ha svelato una parte di sé di cui non ha ami parlato a nessuno.
Speriamo che questa chiacchierata sia servita!
Grazier per aver letto *-*

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Capitolo 4
*** Thomas Hardy ***







“Per ogni male, c’è sempre un peggio”
Thomas Hardy
 




“Posso?” La sua figura minuta compare sulla porta.
Lui sta trascrivendo i suoi pensieri. Ora paiono più chiari, meno confusi, messi nero su bianco su quel foglio virtuale. Assorto nella scrittura non l’aveva nemmeno sentita aprire la porta.
“Ma certo pumpkin, entra.”
Si fa largo nella stanza, timorosa. “Spero di non averti interrotto.”
“Niente affatto tesoro. Solo un po’ di scrittura matta e disperatissima.”
“Meglio così”, le dita sottili picchiettano senza sosta sulla sedia davanti a lei. Il tessuto del morbido schienale si piega sotto il suo tocco. “Volevo solo darti la buonanotte.”
Allarga le braccia invitandola a raggiungerlo. La stringe a sé per qualche secondo e poi, proprio come quando era piccola e le rimboccava le coperte dopo averle raccontato una favola, le lascia un bacio sulla fronte.
“A domani.”
“Sogni d’oro amore.”
Trae un respiro profondo cominciando a scrivere, veloce, senza sosta. Le parole sembrano formarsi da sole nella sua testa e con la stessa semplicità compaiono davanti a lui sullo schermo.
Non ha più bisogno di pensare.
Ciò che Beckett gli ha detto, ogni sillaba, gli ha permesso di capire che in lei c’è più di quanto mostri e di quanto lui sia stato in grado, con le sue attente osservazioni, di cogliere, e questo è tutto ciò che gli serve. Ogni nuovo aspetto di Kate è una sfumatura in più per Nikki. E quell’epilogo sta assumendo velocemente le sembianze della conclusione perfetta.
Non mancano i ripensamenti, i paragrafi interi cancellati e riscritti in nuova forma.
Le parole esprimono maggiore sensibilità, meno freddezza. Calore dal punto di vista sentimentale e fisico.
Sente di nuovo bussare alla porta.
Si passa una mano tra i capelli corti, allunga le braccia davanti a sé facendo scrocchiare le dita intrecciate tra loro.
“Avanti.”
“Già sveglio?”
“Di cosa...” Tra le mani prende l’orologio da polso, stringe il quadrante rotondo tra le dita, le due estremità del cinturino in pelle penzolano nel vuoto graffiando l’aria. “Sono già le sette?”
“Sei rimasto qui tutta la notte?”
“I-io...” Non sa cosa rispondere, non gli è mai capitata una cosa simile. Poteva succedere che rimanesse sveglio anche fino a notte fonda se l’ispirazione lo colpiva inaspettatamente o che, nel letto, aprisse gli occhi di colpo, folgorato da un’idea anche alle quattro del mattino.
Scorre le pagine scritte fino ad allora, guarda il cursore lampeggiare accanto a quell’ultima parola.
“Si, sono stato molto preso.”
“Vado a preparare la colazione allora, con tanto, tanto caffè.”
“Credo sia una buona idea”, le sorride bonario torturandosi il viso appena sotto gli occhi, guardandola poi andare in cucina, prendere le uova dal frigo e accendere la macchina del caffè.
Riporta la sua attenzione sul pc. Il cursore lampeggia ancora e, prima che lo schermo si annerisca, avvisandolo dello standby, digita quel simbolo che segna la fine. La fine vera.
“Papà, il caffè è pronto!”
“Arrivo.”
Vicino alla porta si guarda indietro.
Manca ancora una cosa, la più importante.
Vi aveva già pensato, abbozzandola a matita su un foglio, poco convinto della decisione che ora sa essere del tutto sbagliata.
Prende la penna, fa scattare il pulsante più volte.
Ripensa alle parole di Kate, alla sua paura più grande.
Forse irrazionale, forse una paura che non ha motivo di essere, una paura che lui non riesce a capire, ma che c’è, che per lei è reale.
La punta preme sulla carta, si muove fluida, e l’inchiostro nero macchia il foglio imprimendo quelle parole che più tardi avrebbe trascritto.
 
L’aroma penetrante del caffè gli risveglia i muscoli prima indolenziti. C’è qualcosa di  magico in quello che la caffeina riesce a fare.
“Grazie, mi ci voleva.”
“Buongiorno miei cari!” La donna scende le scale allegramente. La vestaglia in raso con motivi arabescati si gonfia, sospinta dalla brezza mattutina che entra dalla finestra.
“Oh Richard”, gli carezza il viso seguendone le linee, lasciandogli poi un buffetto sulla guancia. “Devi riposare. Guardati, somigli tanto a un personaggio dei film di... Ah, come si chiama... Quello dei film dell’orrore, Caravan?”
“Craven mamma, Wes Craven. Te l’ho anche presentato.”
“Beh, per due sillabe...” la mano si agita in aria con naturalezza, lasciando intendere che quei film non l’hanno mai particolarmente interessata e che di conseguenza non c’è motivo di ricordarsi il nome di quel regista apparentemente così famoso. “Guarda tua figlia invece, bella riposata.” Avvicina il volto a quello della nipote lasciando che le schiocchi un bacio sulla guancia. “La beltà di esser giovani.” Esclama come farebbe la protagonista di un dramma Shakespeariano.
“Tu sei giovane nonna.”
La rossa si specchia sul vassoio lucido, tirando la pelle all’altezza degli zigomi.
Le rughe sottolineano il tempo passato, i giorni trascorsi. Testimoni silenziose di ciò che è e di ciò che è stata.
Ricorda ancora quando aveva notato la prima, una mattina di dicembre, guardandosi allo specchio. Non vi aveva mai fatto caso fino a che non era divenuta più profonda, al centro della fronte prima sempre stata liscia. Scesa nel soggiorno, vide Rick salutarla con un grande sorriso, mentre addobbava la casa con la piccola Alexis sulle spalle. Si era aspettata che la notasse o che la nipote, una volta andatole incontro, la sfiorasse piano con le dita sottili domandandole innocentemente “cos’è quella?”. La realtà invece era che nessuno si accorse di nulla, ma lei da quel giorno capì che la sua giovinezza stava svanendo, eppure riflettendoci ora la cosa non aveva più molta importanza.
Rick sorride accingendosi a mangiare le uova. Tra le mani stringe il telefono aspettando una chiamata di Beckett, ma in cuor suo spera quasi che questa non arrivi. Non è più lo stesso andare su una scena del crimine senza di lei. I battibecchi e le battute con i ragazzi su di una improbabile morte, sul luogo del delitto, riguardo i bizzarri doppi sensi che possono scaturire dalla lettura del nome della vittima sono divertenti, ma sente la mancanza di quella sfida continua, di testare la sua pazienza anche alle prime luci dell’alba. Tutto risulta più noioso senza lei intorno.
“Beckett non ti ha ancora chiamato?”
Scuote la testa facendo scivolare l’Iphone nella tasca dei jeans. “Gli assassini sembrano essersi presi qualche giornata di ferie e tutti insieme .”
“Ne sembri rattristato papà.”
“No, ma mi manca l’azione, l’intrigo-”
“E ti manca una scusa per non andare alla Black Pawn.” Termina per lui la figlia.
“Esgattgo”, mugugna mandando giù un boccone.
“Quando lo finirai quel benedetto romanzo. Darling, Paula continua a chiamare, non potrai ignorarla in eterno.”
“Oh, ma il libro l’ho finito. Stanotte, come testimoniano le miei occhiaie e la mia faccia da zombie che hai elegantemente elogiato poco fa.”
“Allora proprio non capisco perché odi tanto quel posto.”
“Ti do un piccolo indizio. Bionda, ex moglie, sanguisuga. Non necessariamente in quest’ordine.”
“Ma se è così una cara ragazza.”
“Lo credo bene che la pensi così, sei stata tu a presentarmela.”
“Ding, ding, ding. Round finito”, seppure divertita da quello sprezzante battibecco, cui ha prestato attenzione mentre terminava la sua colazione, si sente in dovere di interromperlo per evitare che degeneri. “Scappo a scuola prima che inizi il prossimo.”
Prende la tracolla, prima adagiata su uno degli sgabelli, abbraccia il padre cingendolo in vita sentendolo lasciarle un bacio tra i capelli ramati.
“Ci vediamo stasera. Serata film, non te lo dimenticare!” Urla ormai sulla porta.
“Ci sarò zucca!”
Il silenzio piomba nella casa, è quasi innaturale, pare lasciare tutto sospeso, come in una bolla. E, come un bambino che curioso delle conseguenze la tocca con il piccolo indice, è Martha a farla scoppiare con una domanda all’apparenza retorica, ma nella realtà molto importante. Fondamentale.
“Ti adora, lo sai, non è vero?”
“Lo so mamma, lo so.”
Lo sa davvero. Lo vede nei suoi sguardi, nei suoi gesti, nei suoi sorrisi quando riesce a farla ridere in una giornata buia, nei suoi baci che sanno di amore, felicità e talvolta di sincera gratitudine.
 
Arriva davanti l’imponente struttura. Un palazzo vecchio stile, ottocentesco, la facciata impreziosita da fini decori e accurati dettagli. C’è un forte contrasto con l’interno, arredato all’insegna della tecnologia.
Stringe il pomello laccato d’oro sentendo il basso rilievo del monogramma PB graffiargli il palmo.
L’aria calda svanisce mettendo piede nell’edificio.
Un brivido gli attraversa le vene ed è certo che non si tratti né del condizionatore, spento da mesi, né della finestra aperta dietro Robin, l’assistente all’ingresso. È una sensazione spiacevole che è sicuro provenire dalla donna che si trova al di là della porta a vetri chiusa in fondo al corridoio, sulla quale è dipinto in stampatello nero il suo nome. Gina Corwell.
“Qual buon vento... Cosa porta Richard Castle in un’umile casa editrice in questa bella giornata di sole? La tua detective ti ha scaricato?”
Sorpresa nel vederlo entrare nel suo ufficio così presto, si distende sulla sedia schernendolo con non tanto velata ironia.
“Punto uno, non è la mia detective. Punto secondo, non mi ha scaricato. E terzo”, le si avvicina, poggiando la mano sul tavolo, accompagnando quel gesto ad una breve pausa, giusto per lasciarla qualche secondo sulle spine. “Questo è il tuo epilogo.”
Ritira la mano lasciando la pen drive davanti ai suoi occhi.
“Lo hai davvero finito entro la scadenza?” Arriccia le labbra. Le unghie laccate in rosa antico tamburellano sul vetro che ricopre il banco. Il ticchettio lo irrita, è una cosa che odia, anche quando erano sposati non lo sopportava. È un suo tic, eppure, nonostante la conosca da anni, ancora non è riuscito a capire a cosa sia dovuto. Rabbia, nervosismo, una sorta di contorta felicità... potrebbe essere tutto o niente.
“Non posso che dirti che ne sono sorpresa, stai davvero cambiando Ricky, non credevo che sarebbe mai successo.”
Annuisce puntando gli occhi verso il soffitto bianco. Cerca di mantenere autocontrollo e professionalità, cose che solitamente in sua presenza gli vengono a mancare.
“Molto bene, va rivisto ovviamente. Beh, dopo tutti i romanzi pubblicati credo tu sappia come funziona. Poi dovrai pensare alla dedica, ma hai ancora un po’ di tempo.”
“La dedica è già pronta. È tutto lì dentro. Vorrei che non fosse cambiata o modificata.”
Gli occhi verdi sono ormai una fessura. Lo osserva per capire cosa possa averlo spinto ad intestardirsi così, ma rinuncia in fretta. Non riesce a capirlo, non è mai riuscita a capirlo, forse anche per questo il loro matrimonio era andato a rotoli. Ovviamente, riflettendoci, anche l’essersi ritrovata a fare più volte sesso con il suo personal trainer aveva inciso sul naufragio della loro storia.
“C’è altro?” Chiede con evidente sarcasmo, non aspettandosi certo una risposta affermativa.
“Avrei bisogno di una copia stampata entro questo pomeriggio.”
“Stai scherzando vero? Come pensi possa farlo? C’è la revisione, la rilegatura-”
“Non ho bisogno di nulla di grandioso. Non c’è bisogno della correzione. Niente copertina, mi basta solo che le pagine siano tenute insieme, anche con una stringa da scarpe mi va bene. Ah!” Prosegue battendo la mano sullo stipite della porta voltandosi poi, ancora una volta, nella sua direzione. “E la dedica deve esserci.”
“Rick...”
“Te lo chiedo come favore personale, ti prego.”
Non lo aveva mai sentito supplicarla, neanche quella sera di quasi due anni fa, quando lui, tornato a casa, aveva visto le sue valige accanto alla porta e lei scendere le scale con il beauty tra le mani. L’aveva guardata andare via senza battere ciglio, quasi come se se l’aspettasse.
“D’accordo, passa... passa per le tre”, sospira dopo aver guardato rapidamente l’ora, “lo lascerò per te all’ingresso.”
“Grazie”, mormora mestamente per poi scomparire allo stesso modo in cui era apparso solo qualche minuto prima.
 
 
Passeggia per New York.
Gli occhiali da sole nascondono gli occhi smerigliati.
Dopo la visita alla Black Pawn aveva fatto un salto al distretto. Non poteva mancare all’appuntamento quotidiano con Beckett, non poteva non portarle il primo dei suoi due caffè giornalieri. Aveva deciso però di non fermarsi, concedendosi qualche ora per sé all’aria aperta, ringraziando anche il fatto che Ryan ed Esposito fossero troppo occupati con il caso per avere il tempo di domandargli se avesse scoperto qualcosa su Beckett.
Il sole non è ancora alto nonostante sia passato mezzogiorno. Il pranzo è solo un vago ricordo.
La primavera è arrivata da un paio di settimane, ma, ispirando a fondo, riesce ancora a sentire l’aria fredda che proviene dal rigido inverno ormai trascorso.
Guarda gli alberi. Le foglie verdi, i boccioli schiusi, eppure sente la mancanza dei colori e dei sapori autunnali. Il profumo intenso dei castagni, il venticello fresco e la leggera pioggia che impregna col suo aspro e dolce profumo l’intera città. Le foglie che cadono, ricordando quando Alexis era piccola e la portava a Central Park. Correva per il prato con i suoi stivaletti in gomma rossi. Raccoglieva le foglie fino a lanciarle in aria e, anche se non si alzavano che di qualche centimetro sopra la sua testolina ramata coperta dal cappello con il piccolo pom pom azzurro, a lei sembrava toccassero il cielo.
Il telefonino vibra nella tasca della giacca provocandogli un formicolio che lentamente si distribuisce lungo tutta la gamba.
Trovare un messaggio da parte di Gina lo coglie di sorpresa.
“Sono le cinque, dove diamine sei?”
Il solito tono gentile, dice a se stesso scuotendo il capo. Solo dopo realizza ciò che realmente c’è scritto in quella frase.
“Dannazione”, borbotta cominciando a correre verso la casa editrice.
Le ore erano trascorse veloci, perso nei suoi pensieri e nelle sue riflessioni. Entra di soppiatto, non vuole scontrarsi con l’ira della donna, con lei che aveva fatto tutto di corsa, chiesto favori a quasi ogni persona che gliene doveva pur di fargli avere il suo romanzo pronto per le tre.
Avanza verso la giovane segretaria che, sorridente e senza indugio, gli porge un pacchetto.
La ringrazia ed esce.
Robin lo segue con lo sguardo, vedendolo attraversare la strada a passo veloce entrando nel piccolo parco lì di fronte. Si sporge sul banco cercando di non farlo uscire dal suo campo visivo. L’ultima cosa che vede, prima che lo squillo del telefono la interrompa, è lui, seduto su una panchina vicino all’entrata, togliere la carta che avvolge il manoscritto lasciandola poi accanto a sé sul legno grezzo ancora freddo.
Lo sfoglia rapidamente. Si compiace del buon risultato. Deve riconoscere che Gina sa fare il suo lavoro, per quanto invece non sappia destreggiarsi in una relazione, tra gli impegni, i sacrifici e i compromessi che questa esige. Ricordi amari riaffiorano, ma nulla più che qualche secondo e vengono scacciati di nuovo lontano.
Sfiora la prima pagina, porosa, ruvida. La sposta con gentilezza e sfregando contro le altre pare riprodurre il suono delle onde del mare d’inverno.
Controlla quelle prime frasi. Si assicura che neanche una virgola sia stata spostata. Soddisfatto, con un colpo secco della mano chiude il romanzo riavvolgendolo poi in quella carta scura. Annoda lo spago alla meglio.
Cerca nella tasca interna della giacca la penna, quella che porta sempre con sé.
“Per ogni evenienza. Un po’ come te con la tua pistola.” Questa era stata la riposta che aveva dato a Beckett tempo addietro.
Scrive con gesto rapido, ma comunque ordinato, il nome della detective. Respira ancora una volta l’aria che lo circonda e poi si allontana, pronto ad andare a consegnarglielo.
Due dita in bocca e un fischio chiaro e pulito gli permette di chiamare un taxi. La Ford Crown Victoria gialla si ferma bruscamente qualche metro avanti a lui.
Fa retromarcia e torna indietro.
Terminati i convenevoli con l’autista, scusatosi di non averlo visto subito, si rilassa sul sedile in pelle nera dopo avergli comunicato l’indirizzo.
Spera di aver fatto la cosa giusta con quelle parole, di riuscire a strapparle un sorriso, premio migliore di qualsiasi grazie che potrebbe dirgli.
Ripensa alla serata trascorsa al distretto, alle cose che si sono detti. È curioso come le stesse situazioni possano essere affrontate in maniera diversa.
Esiste una tecnica, chiamata spersonalizzazione. Spesso è involontaria, la gente nemmeno si accorge di metterla in atto. Una persona non è vista più in quanto tale.
Si comincia a piccoli passi, lentamente.
Non la si chiama più per nome, si cancellano dalla memoria i momenti passati insieme, si fa si che diventi un estranea.
Martha è arrivata a fare questo per lenire il dolore della perdita, è arrivata a spersonalizzare il ricordo di suo figlio, invece Kate continua a far rivivere in lei la memoria di quella figura materna che troppo presto le è stata portata via, è rimasta vicina ad un padre che l’ha abbandonata nel momento di bisogno e sua maggiore vulnerabilità.
Perché la vita va così.
Un giorno ti svegli e sei felice, spensierato.
Sei una donna che ha appena dato alla luce due gemelli, una figlia che ha abbracciato la madre e lasciato un bacio sulla guancia del padre come ogni mattina prima di uscire di casa.
Poi arriva la sera e ogni cosa, inaspettatamente, cambia.
Sei una donna che ha appena perso un figlio e che pur sapendolo continua ad urlare impazzita il suo nome, cercandolo. Sei una figlia che torna a casa dopo cena e il cui sorriso, appena nato, muore sulle labbra, mentre gli occhi spalancati riflettono le luci blu delle volanti.
Alzandoti la mattina non puoi immaginare che quello sarà il tuo ultimo giorno, non puoi sapere che sarà l’ultima volta che vedrai una persona cara.
Anche Castle, ascoltando lo stridore dei freni dell’auto su cui si trova, non poteva saperlo.
A volte non ci sono presentimenti, non ci sono segnali.
A volte la vita semplicemente... finisce.




Diletta's coroner:
Il libro è finito, e Gina ne sembra davvero sorpresa. La dedica c'è... manca solo consegnare la prima copia a Kate.
Ora mi volatilizzo prima di essere linciata. Non siate troppo dure con me :)
Buona serata!

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Capitolo 5
*** Leonardo Da Vinci ***







“La nostra vita scaturisce dalla morte degli altri”
Leonardo Da Vinci
 

 


“Beckett”, risponde ridacchiando, ancora divertita dall’ultima battuta dei suoi colleghi.
Non è da lei scherzare o dare soprannomi alle vittime, anche se alcune non possono sempre essere definite tali, o agli assassini. L’ha sempre trovata una cosa priva di tatto, ma in quei giorni ha davvero bisogno di mollare la presa, di alleggerire la pressione, e in fondo non c’è nulla di male. Le spiace solo che Castle non sia lì a divertirsi con loro. È convinta sarebbe stato contento nel vederla più rilassata e disinvolta, le piacerebbe potergli mostrare la Kate nascosta sotto l’austera e seriosa Beckett. Magari un giorno ne avrà l’occasione, pensa.
Il sorriso le si è ormai smorzato in volto mentre afferra veloce le chiavi della macchina dopo aver lasciato cadere la cornetta sul ricevitore.
“Ehi Beckett, che succede?”
“Castle ha avuto un incidente. Vado in ospedale per saperne di più.”
“Tienici informati!”
Annuisce prima che le porte dell’ascensore si chiudano davanti a lei con il capo già chino.
 
 
Gli anelli metallici a cui è appesa la tenda tintinnano scontrandosi tra di loro quando questa viene tirata.
L’infermiera gli sorride lasciandolo poi solo, nel mezzo del pronto soccorso, con indosso quel buffo camice e in balia delle due donne andate a fargli visita.
“Cosa ci fate qui?”
“Cosa ci facciamo qui? Richard Castle non osare nemmeno chiederlo! Cosa ci facciamo qui... Quando l’ospedale ha chiamato a casa per poco non mi prendeva un infarto.”
Alexis ignora le parole della nonna, andandogli incontro per stringerlo in un abbraccio.
“Piano tesoro”, geme sentendo un acuto dolore al petto.
“Oh, scusa. Come ti senti?”
“Un po’ indolenzito, ma sto bene.”
“L'infermiera ci ha detto che sei rimasto incosciente fino al tuo arrivo qui.”
“Non ti devi preoccupare, deve essere stato il colpo.”
“Come è potuto accadere?”
“Non lo so, un attimo prima procedevamo tranquilli. L’istante dopo una ma-”
Preoccupata per quell’improvvisa interruzione, Martha prova ad intercettare in che direzione lo sguardo del figlio sia rivolto. Si tranquillizza capendo cos’è, o meglio, chi è stato a farlo ammutolire.
“L’istante dopo...? Papà, sicuro di stare bene?”
“Cosa ci fa qui Beckett?”
“L’ho chiamata io, credevo dovesse saperlo, in fondo passate un sacco di tempo insieme, mi è sembrato naturale.” Ammicca riferendosi al suo rapporto con la detective come a quello tra due persone coinvolte sentimentalmente.
“Non riesci a stare lontana dalla mia vita privata mamma, non è vero?”
“Quando mai la tua vita è stata privata caro?”
Lo sguardo truce di Rick sembra parlare per lui. Come di consueto la donna non ci bada, proseguendo per la sua strada. “Allora, posso andare a prenderla, o preferisci farla vagare a vuoto per mezzo pronto soccorso?”
Senza aspettare una sua risposta, posa la borsa in pelle di Louis Vuitton di un arancio accesso sulla sedia accanto al letto. Muovendosi elegantemente raggiunge la detective davanti al banco dell’accettazione.
“Darling, sono felice di rivederti. Seguimi”, sussurra posandole un braccio intorno alle spalle, “lo sfigurato è da questa parte.”
Sorride alla battuta, lasciandosi condurre in silenzio dal suo partner.
“Ehi Castle”, e finalmente può sentire il proprio battito rallentare. Non sa perché, non ha idea del motivo che aveva causato quell’improvvisa ansia. Eppure, pensandoci bene, una parola continua a ronzarle in testa.
Paura.
Terrore di perdere quello stravagante scrittore di cui fino a qualche settimana prima si curava a malapena.
Studia il suo viso, il sorriso forzato che vi fa capolino quando i loro sguardi si incontrano.
“Alexis, cara, perché non mi accompagni a prendere un tè.”
Ha capito di essere improvvisamente di troppo in quel piccolo angolo. Tra quei due era successo qualcosa, ha vissuto abbastanza per capire che in quello sguardo c’è più di quello che delle parole potrebbero esprimere. Quasi le spiace interromperlo.
“Certo. Torniamo subito.” Mormora rivolgendosi al padre, stringendo la mano nella sua.
Kate, ora sola, rimasta in piedi, fintamente accostata alla tenda grigia, fa vagare lo sguardo lungo le fughe del pavimento. Risale il muro bianco alle spalle di Rick, tornando poi a guardare il taglio che troneggia rosso sulla sua fronte.
“Come ti senti?” Domanda timidamente.
“Sto bene. Ho la pelle dura, ormai dovresti saperlo.”
Ha sempre usato il sarcasmo e l’ironia per dissimulare dolore, tristezza, solitudine, tutte emozioni negative che, conoscendolo solo di facciata, sembrerebbero non averlo mai sfiorato.
“Davvero?” Con un cenno del capo indica la gamba fasciata, l’ematoma che lentamente si fa sempre più evidente sulla caviglia sinistra.
“Nulla più di una frattura, qualche giorno e tornerò come nuovo.”
Massaggia la tempia non riuscendo a reprimere, nonostante l’impegno, una piccola e quasi impercettibile smorfia. “Questo mal di testa però mi uccide.”
In un gesto involontario gli carezza il braccio all’altezza del poso. “Avanti cowboy, resisti.”
Ancora quello sguardo, quel dialogo silenzioso nato tra loro spontaneamente.
Non si può imparare, non lo si può cercare.
È questione di chimica... O c’è, o non c’è.
Lo sente gemere, sfiorandosi ancora la fronte.
“La suoneria non mi aiuta”, asserisce indicando con il capo la tasca dei jeans della detective illuminata, dall’interno, dal cellulare.
La mano scivola attraverso il tessuto afferrandolo. Non sapeva da quanto stesse squillando. Non aveva sentito neanche una nota della suoneria impostata come di consueto a tutto volume, sprofondata nell’immensità dei suoi occhi blu.
“Ehi ragazzi, siete in viva voce.”
Per i due colleghi all’altro capo del telefono è la conferma che, quello che ormai si sentono di definire loro partner, sta bene.
“Castle, come stai?”
“Ho avuto giorni migliori.”
“Siamo sul luogo dell’incidente.”
“Come mai?” Chiede incuriosito Castle precedendo di poco la detective, rimasta con la bocca semi aperta e quelle stesse parole pronte ad uscire.
“Alla guida dell’auto che ha causato l’incidente c’era un certo... Ian McDermot.” Scandisce attento l’ispanico leggendo dal taccuino che Ryan aveva sfogliato rapidamente davanti ai suoi occhi. “È morto qualche minuto dopo l’arrivo dei paramedici.”
“Perché ci hanno chiamati? Credevo si trattasse di un semplice incidente automobilistico.”
“Lo credevamo anche noi, almeno fino a che non abbiamo visto il corpo. Sul fianco destro presenta tre ferite profonde. Ad una prima analisi sembrano essere state inferte da un comune coltello da cucina a lama seghettata.”
“Lanie ha già visto il cadavere?”
“Si, ne saprà di più dopo l’autopsia”, Kate sorride a quelle parole, avendo visto Castle mimarle giusto qualche secondo prima che Esposito le pronunciasse, “ma apparentemente la coltellata centrale sembra essere stata quella fatale. La causa della morte è imputabile all’emorragia dovuta alla lesione di un organo vitale oppure...”
“Oppure?”
“Il coltello potrebbe aver colpito una costola scheggiandola e, durante l’impatto, questa avrebbe reciso i tessuti portando ad un più rapido dissanguamento.”
“Sapete già qualcosa su questo McDermot?”
“Ancora nulla, Ryan sta andando a finire di interrogare i testimoni. Un’ultima occhiata alla scena e poi torniamo al distretto a cercare notizie.”
“Va bene, chiamatemi appena avete qualcosa.”                                 
“D’accordo. Yo Castle, muoviti ad uscire, ti rivogliamo tra noi.”
“Dillo ai medici”, borbotta ricordandosi le parole dell’infermiera quando era arrivato più di un’ora prima, ‘non ci vorrà molto, vedrà’.
“Ci sentiamo dopo.” Chiude sbrigativa la chiamata, lasciando ricadere il telefonino nella tasca.
Quel silenzio, spesso risultato monotono e straziante con molte persone, torna ad essere protagonista tra loro, eppure è piacevole, quasi rilassante.
Concentrata riesce a sentire il battito del suo cuore. Abbassa lo sguardo osservando il suo petto gonfiarsi e sgonfiarsi ad ogni respiro.
“Qualcosa non va?”
“Castle io-”
“Eccoci di ritorno”, esulta l’attrice tenendo saldo tra le mani il bicchiere in plastica opacizzata dalla condensa del calore emanato dal tè al suo interno.
Dietro di lei fa capolino il medico. Tiene la cartella davanti al viso, nascondendolo. Le dita tamburellano sul retro cartonato lasciando scivolare nell’aria un ticchettio pesante.
Il camice, nonostante sembri essere più grande rispetto alla corporatura del proprietario, non riesce a coprire i polsi. Sul destro si riesce bene a distinguere la voglia con un’atipica forma a fragola.
Kate ha la visuale oscurata dalla giovane Castle per poterla notare, ed è solo quando sente la voce dell’uomo pronunciare con austerità nome e cognome dello scrittore che lo riconosce.
“Dottor Bolkowitz?”
“Katherine”, la voce tradisce un’evidente sorpresa.
“Non credevo lavorasse anche al pronto soccorso...”
“In effetti non ci lavoro, ma c’è stato un grosso incidente, la maggior parte dei medici è impegnata, così mi hanno chiesto di dare una mano.”
Richard non ha bisogno di domandarle come mai lo conosca, gli è bastato fare due più due per ottenere la risposta.
“Adesso la porteremo a fare una TAC.” Prosegue lasciando in sospeso quel discorso e rivolgendosi al suo nuovo paziente.
“Per quale motivo?”
Rick non crede di aver mai visto sua madre così preoccupata, lo capisce dal modo in cui si tortura le mani tentando di non farsi vedere. Tuttavia non riesce a capire cosa la turbi e la agiti. Lui si sente bene, è certo di star bene, se non fosse per quel mal di testa che non sembra volerne sapere di lasciarlo in pace.
“Tranquilla nonna, è una precauzione. Non è vero?” Anche lei è preoccupata, da che ha memoria non ricorda di aver mai visto suo padre in un letto di ospedale. La sola immagine che le torna alla mente è lui, sdraiato sul divano, con il gesso intorno al braccio. Stavano giocando in giardino, d’estate, nemmeno rammenta a cosa o come sia successo, sa solo che tutto era stato molto veloce. Lei si era ritrovata sopra il suo braccio e, nonostante il suo leggero peso, glielo aveva rotto. Sorride al ricordo e arrossisce quando se ne accorge.
“Vogliamo solo tenere tutto sotto controllo e scongiurare ogni possibile danno.”
L’infermiera toglie il fermo al letto, sospingendolo poi verso il corridoio principale.
Un accennato stato di nausea lo coglie alla sprovvista appena comincia a muoversi.
Martha gli poggia la mano sulla spalla. Lui le carezza le dita tentando poi un sorriso. La figlia gli schiocca un bacio sulla guancia, lasciando poi che la mano sfiori le lenzuola e successivamente cada nel vuoto. Beckett gli si accosta, picchiettando con le dita di entrambe le mani sul materasso sottile.
“Ci vediamo dopo allora”, sussurra.
“A tra poco detective.”
Con quel solito sorriso beffardo si allontana e il cuore di Kate torna a battere veloce.
Troppo veloce.
Eccola di nuovo, la paura. Stupida e ingiustificata paura.
E il lobo dell’orecchio sinistro torna a formicolare.
 
L’altoparlante gracchia una volta acceso.
Con l’indice il medico picchietta sul microfono già a pochi centimetri dalla sua bocca.
Il respiro si infrange sulle maglie metalliche che formano la piccola testa nera, provocando un fastidioso sibilo.
“Adesso stia immobile, ci vorrà un momento.”
Il tecnico preme il tasto d’avvio dopo un cenno del capo ricevuto da Bolkowitz.
“Come si sente?” Ancora quel perforante sibilare.
“Un po’ intorpidito a dire il vero. Credo... credo mi si sia addormentata la parte destra. È normale? Non la sento, io-”
L’irrigidimento arriva improvviso. I muscoli si contraggono contro la sua volontà.
Il contatto con la realtà è ormai lontano.
Gli occhi puntano fissi verso l’alto, le labbra vengono inumidite dalla saliva che esce senza controllo.
Il dottore lo raggiunge dopo aver chiesto aiuto.
Il codice rosso risuona per l’intero ospedale. Nessuno ha idea di cosa stia succedendo.
Alexis si guarda intorno smarrita, indicando solo con lo sguardo il letto mancante del padre. Martha non risponde, gli occhi traboccanti di lucido terrore della nipote la spronano maggiormente a fermare un’infermiera dopo l’altra. Nessuno sembra sapere nulla.
Mi spiace, non è il mio reparto.
Scusi, non lo so.
Ci lasci fare il nostro lavoro, al più presto le faremo sapere qualcosa.
Le stesse frasi che, alla pari di un disco rotto, si ripetono come una triste melodia degli anni ’40.
Finalmente qualcuno arriva da loro. Una giovane ragazza, coda di cavallo aggiustata qua e là con qualche forcina. Il camice di un azzurro acceso è macchiato sul lembo inferiore. Sembra essere sangue, ma forse si sbaglia, non riesce a capirlo. Gli occhi nocciola si muovono incessantemente scorrendo ancora una volta le parole scritte sulla cartella.
“I famigliari del signor Castle?” Chiede infine.
“La madre e la figlia.”
La ragazza lancia una rapida occhiata alla detective, rimasta in disparte qualche passo dietro le due rosse, rivolgendo poi uno sguardo interrogativo a Martha, quasi chiedendole se anche lei fosse autorizzata ad ascoltare. Consenso che le sopraggiunge con un immediato cenno del capo.
“La prego, ci dica qualcosa. Cos’è successo? Lo hanno portato via ormai più di mezz’ora fa. Hanno detto che sarebbe stata una cosa rapida. Qui i medici corrono come impazziti e non ci dicono nulla.”
“La TAC ha rivelato la presenza di un ematoma subdurale. C’è stato una complicazione e l’hanno dovuto portare d’urgenza in sala operatoria.”
“Un ematoma... di cosa si tratta, che genere di complicanza?”
“Il sangue si è espanso tra l’encefalo e la meninge più vicina al cervello, questo ha causato una crisi convulsiva. Ora stanno cercando di riparare il danno.”
“E come sta andando?” Interviene la detective.
“Ancora non lo so, ma vado ad informarmi e vi porterò notizie il prima possibile.”
Martha è visibilmente scossa. Abbraccia la piccola, tenendola stretta a sé come se bastasse quell’abbraccio a proteggerla dal mondo. Senza farsi notare, Kate raggiunge la dottoressa, avendo nella testa solo il silenzio dei pensieri non espressi da Alexis, esternati unicamente da quella lacrima che aveva brillato sul suo viso adamantino.
“Mi scusi, ancora una domanda, quali potrebbero essere le conseguenze se qualcosa dovesse andare storto?”
Osserva ciò che la circonda sospettosa, sa bene che non potrebbe dare questo genere di informazioni a lei, ma non riesce a tacere notando l’inquietudine nei suoi occhi.
Sospira lentamente, lasciando poi che un sorriso tirato le increspi le labbra rosee.
“Generalmente viene presa in tempo, l’intervento è stato tempestivo, non c’è motivo di pensare che-”
“Vorrei solo sapere quali potrebbero essere i rischi maggiori.” Specifica scandendo con cadenza marcata le ultime parole.
“I deficit neurologici possono essere vari. I più probabili sono la paresi totale di una parte del corpo e la memoria potrebbe risultare compromessa. Ma non credo che-”
“D’accordo, ehm... grazie.” La interrompe quasi bruscamente. Non vuole sentirle dire che tutto andrà bene, non se non può assicurarglielo al cento per cento.
La ragazza annuisce prima di sparire dietro le porte che la condurranno al lungo e buio corridoio, unica barriera rimasta tra lei e la sala operatoria.
 
I minuti scorrono lenti. Prima di quel momento Beckett aveva sempre pensato fosse un logoro modo di dire, ma purtroppo aveva scoperto quanto fosse vero, ogni minuto passava con lentezza innaturale, le lancette sembravano non spostarsi che di qualche millimetro.
Aveva chiamato Ryan ed Esposito. Il caso appariva più complicato di quanto sembrasse.
La prima pista aveva condotto all’ex compagno di cella di McDermot, uscito giusto un paio di giorni prima e con il quale aveva avuto un’accesa discussione nel cortile della prigione. La cosa era degenerata in fretta, sotto le incitazioni degli altri detenuti. Quando le guardie erano intervenute erano già volate parole pesanti e minacce. Tuttavia era risultata un fallimento totale.
Adesso erano diretti verso l’abitazione della fidanzata, nella speranza di scoprire qualcosa di utile. Non erano certi che sarebbero riusciti a concentrarsi al meglio dopo quello che gli aveva appena detto la collega.
L’avevano salutata una volta parcheggiata l’auto davanti alla villetta di proprietà dei genitori della ragazza, promettendole che l’avrebbero raggiunta appena possibile.
 
La sala d’attesa del pronto soccorso è sempre più gremita di gente. Pare non svuotarsi mai, per ogni persona che esce ne entrano il triplo.
Il dottor Bolkowitz appare come dal nulla davanti a loro. Solo Kate lo riconosce ancor prima che si tolga la mascherina quasi trasparente, ora accartocciata nel cestino vicino all’accettazione. Accanto a lui un altro medico che, nervosamente, fa passare la cuffietta blu a righe bianche da una mano all’altra. Non è difficile capire che non sia un buon segno.
Non si muovono, solo la detective si alza in piedi, come al cospetto di un’autorità superiore.
“Durante l’operazione ci siamo accorti che l’ematoma si è espanso più di quanto credessimo.” Comincia mandando in frantumi quel silenzio straziante. “Abbiamo tentato di riassorbirlo, ma l’afflusso di ossigeno al cervello si è interrotto per diversi minuti. ”
“Questo cosa significa?”
“La mancanza di ossigeno al cervello può causare dei danni a livello neurologico, ma anche fisiologico. Il corpo di suo figlio in questo momento non è in grado di reagire... è in coma, mi dispiace molto.”
Quella parola risuona nell’aria come un’eco, rimbombando tra le mura e nelle loro teste.
“Se volete vederlo, dovrebbero averlo già portato in camera.”
Come automi si alzano seguendo il giovane neurochirurgo, Matt Stramb. Kate trattiene il dottor Bolkowitz per un braccio, sente il camice sfuggirle tra le dita.
“È grave, non è così?”
“Ancora non lo sappiamo, ma sai bene che anche se fosse così non sarei autorizzato a dirtelo, Kate.”
“Questa è già una risposta sufficiente.” E lasciandolo solo davanti a quelle sedie pieghevoli ora vuote, come incolpandolo dell’accaduto, raggiunge la porta chiusa ai lati della quale, su di un impersonale pannello quadrato, risalta il numero della stanza, 470.
Alexis siede a un lato del letto, stringe il braccio del padre. La sua voce è poco più di un sussurro.
Svegliati, svegliati, svegliati.
Ripete incessantemente, mentre Martha guarda fuori dalla finestra.
Piove.
Un tipico temporale primaverile. Scrosciante, come una cascata, eppure le gocce sembrano morbide, accarezzano dolcemente i ciottoli che segnano il vialetto nel giardino.
Non se la sente di entrare. Lascia andare la maniglia, accostando semplicemente la porta scura.
Gira per i corridoi smarrita. Non ha una meta precisa, almeno fino a che non individua la macchinetta del caffè.
Fruga nelle tasche alla ricerca di qualche spicciolo. Sembrano essere sufficienti, ma, una volta dentro, il distributore pare non volerne sapere di erogare la bevanda. Sbuffando, lascia un paio di pugni ben assestati sulla plastica rigida sfogando così parte della sua rabbia. Ringrazia di non aver permesso a quella giovane dottoressa di dirle che tutto sarebbe andato bene, altrimenti niente le avrebbe impedito di cercarla e appenderla come un quadro a una delle pareti vuote e impersonali dell’edificio.
Il gorgoglio del caffè rilasciato nel bicchiere le dona un momentaneo sollievo.
Lo beve con tranquillità, estraniandosi da tutto. Dovrebbe chiamare i ragazzi e avvisarli, ma in quel momento non riesce a muovere un muscolo e si lascia avvolgere dal tepore della bevanda.
Passano una ventina di minuti.
Ritorna davanti quella stanza e, non appena varcata la soglia, un’infermiera entra seguita da Stramb, di cui riconosce la cuffietta blu con motivi bianchi riposta nel taschino del camice.
La donna sistema la flebo, controlla il macchinario, tutto sotto lo sguardo assente di Martha e quello attento di Alexis.
“Può sentirmi?” Domanda con innocenza. L’infermiera la osserva per un istante senza proferire parola, riprendendo poi i suoi controlli. “Si risveglierà, non è vero? Voglio dire, magari non adesso, ma domani?” Un altro sguardo dell’infermiera. Sta per aprire bocca, ma il neurochirurgo la interrompe.
“No...”
Kate rimane basita dall’iniziale freddezza e dalla schiettezza di quella risposta.
“Mi spiace dovervi dire che nonostante le funzioni vitali siano buone il suo cervello è... clinicamente morto.”
“Cosa? No! Papà, papà svegliati, ti prego, svegliati!”
“Non può sentirti, lo vorrei, ma non può. Ormai tutto ciò che riguarda le sue emozioni e la sfera ricettiva non funziona più. Mi dispiace.”
“Lei cosa ne vuole sapere? Stia zitto, stia zitto!” Singhiozza fuori di sé.
“Avrei bisogno di farle una domanda.” Prosegue a voce bassa, con tono solenne e rispettoso, rivolgendosi direttamente a Martha. Non la conosce, non ne sa il nome, eppure, da come parla, è come se la conoscesse da sempre.
“Certo...” è sconnessa, la detective immagina quali possano essere i suoi pensieri. Un figlio perso. La stessa storia che si ripete.
“So che è un momento difficile, ma non ha lasciato nulla di scritto, non ha un documento che attesti se lui sia un donatore o meno.”
Lo guarda accigliata, non riuscendo a capire quale sia la reale domanda.
“Dovrebbe decidere lei cosa fare.”
“Oh”, guarda Kate per una frazione di secondo. “Io credo che lui... si, lui avrebbe voluto essere utile e d’aiuto quindi... quindi si, si fate quello che dovete fare.”
Stramb annuisce verso l’infermiera mormorando un semplice “portatele le carte da firmare, fate tutti gli esami e chiamate l’UNOS”, prima che le urla della piccola Castle irrompano prepotenti nella stanza.
“No! Nonna, no! Come puoi, come puoi fare questo a lui? Non toccatelo, non lo toccate, non potete toccarlo. No!”
“Alexis, tesoro, vieni fuori.”​
Sembra tornata in sé e ora la sua parte autoritaria torna alla ribalta.
No, no, no!
Continua a urlarlo mentre la nonna l’accompagna fuori.
Le osserva ancora da dentro la camera, le vede piangere. Stessi sentimenti, ma espressi in maniera differente. Chi urla e piange accasciandosi contro il corpo di lei che da ora dovrà essere il pilastro della famiglia. Chi geme, soffrendo quasi in silenzio, stringendo a sé quella ragazzina così fragile e devastata.
Lascia la stanza solo quando vede altre infermiere avvicinarsi e si sente improvvisamente di troppo.
Prende il cellulare dalla tasca, sfiora più volte il tasto di chiamata. Come può chiamarli e dargli per telefono una notizia del genere. Sospira, si passa una mano tra i capelli che le ricadono poi con pesantezza sulle spalle.
Non sa per quanto continui con quello strano rituale mentre passeggia avanti e indietro alzando solo occasionalmente lo sguardo verso di lui. A interromperlo però arriva una voce roca.
“Katherine, avrei bisogno di parlarti.”
“Non ora dottor Bolkowitz.”
“È importante invece.”
Lo guarda con cipiglio, tenendo le braccia incrociate al petto.
“D’accordo, mi dica.”
“Abbiamo un donatore.”
“Di cosa sta parlando?”​
“Di te. C’è un donatore, un donatore per te.”
“Non è il momento adatto. Lì, in quella stanza, c’è una persona a me cara che non si sveglierà più. Sua madre ha appena dovuto firmare il consenso per-”
Tutto si fa più chiaro e lei capisce.
John abbassa lo sguardo sui guanti in lattice che ancora gli coprono le mani. Lo stetoscopio al collo riflette la luce impersonale e fredda dei neon creando piccoli e sottili fasci di luce sul pavimento.
“Non rimane molto tempo. Devi decidere in fretta Kate.” Sa bene che il tempo che le resta per decidere non sarà mai abbastanza per assimilare la cosa. Che sarà costretto a metterle pressione, cosa che non gioverà affatto al suo stato psicologico pre e post operatorio, ma non può fare nient’altro. Del resto avrebbe fatto lo stesso per sua figlia, o almeno gli piace pensare che sia così. “Tornerò tra poco.” Ed ora si limita a guardarla camminare lenta, quasi inconsapevole del fatto che il suo corpo si stia muovendo.
Se ne va a capo chino, ripone il telefonino nella tasca anteriore dei jeans e, ancora una volta, prende la maniglia tra le mani e questa volta, senza timore o ripensamenti, entra.
La stanza è deserta. Solo lei e lui.
Li siede accanto, carezzando le lenzuola in cotone azzurro.
Gli stringe la mano cercando invano di far intrecciare le loro dita.
La sua pelle è morbida e ancora così calda.
Gli sfiora i capelli scostandoglieli dalla fronte. Con l’indice percorre il profilo delle labbra appena umide che si schiudono per un solo istante, ma non un respiro ne esce.
Parla, racconta una storia, la sua storia. Quella che lui era curioso di conoscere. Perché poliziotto, perché non avvocato? Cos’era successo ai suoi sogni?
Gli svela tutto.
A bassa voce, dolcemente, come se lui stesse dormendo e temesse di svegliarlo, ma non si sveglierà, neanche tra urla e boati.
Le parole lo raggiungono, lo circondano, riempiono quella stanza dai muri bianchi e asettici, e lui non riuscirà ad udirne alcuna.
Non può sentirla, non può guardarla, non può stringerle la mano che ha poggiato sulla sua.
Non potrà più donarle nulla se non il suo cuore e i ricordi e gli affetti in esso racchiusi.





Diletta's coroner:
Pensavate che si fosse salvato, eh? Scusate, ma l'animo angst ha avuto il sopravvento.
Un momento difficile adesso.
Per Martha, per Alexis e per Kate, soprattutto per Kate.
Nel prossimo, ed ultimo, capitolo vedremo cosa deciderà.
Grazie a chi con pazienza sta seguendo questa storia!
Baci

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Capitolo 6
*** Mary Catherine Bateson ***








“Il momento della morte, come il finale di una storia,
dà un significato diverso a ciò che lo ha preceduto”
Mary Catherine Bateson
 



 
Sente due mani posarsi sulle spalle, un tocco che quel giorno ha già provato sulla sua pelle.
“Non è facile, vero? Vederlo così immobile, silenzioso.” Una leggera risata le esce naturale mentre parla. Sa di nervosismo il modo in cui arriccia le labbra, di rabbia il greve digrignare dei denti, di mancanza e solitudine il modo cupo in cui i suoi occhi cercano di sorridere.
Kate resta immobile, sembra quasi trattenere il respiro per non mandare in frantumi la bolla in cui momentaneamente si è rinchiusa.
“Alexis si è addormentata.” Prosegue non sentendola reagire. Non la conosce bene quanto vorrebbe, ma da come Richard gliela aveva sempre descritta la immaginava diversa dalla ragazza fragile a cui sta carezzando dolcemente la schiena. “Ho preferito non svegliarla. Non vorrei ricominciasse a piangere. Non ci sono abituata, è sempre così solare. Vorrei provare a farle mangiare qualcosa più tardi o a portarla a casa, ma non credo di riuscirci.” La detective continua ad ascoltare, in silenzio, ha ripreso a respirare regolarmente. L’odore di disinfettante si mischia a quello di morte, acro e pungente. È fastidioso il modo che ha di insinuarsi nelle sue narici, senza consenso, senza che possa in qualche maniera evitarlo. Eppure, per quanto irritante e disgustoso possa essere, c’è qualcosa di stranamente dolce che l’attira, che le impedisce di cercare altro su cui concentrarsi.
“Non ho idea di come si gestisca la perdita di un genitore, erano così legati che... non so davvero da che parte cominciare. Dovrei avvisare Meredith, ma non è pronta a sentire le ovvietà che sua madre certamente avrà da dire. Non ho mai capito cosa Richard avesse visto in lei. Era forse troppo ingenuo all’epoca, lo è sempre stato in amore.”
La stupisce il modo in cui la donna riesca già a parlare di Castle al passato, anche se lui è ancora lì davanti a loro e il suo cuore continua a battere riempiendo la stanza con quell’incessante bip. “Sono andata a parlare con i medici per sapere come poter far fronte alla cosa.” Fa scivolare stanca le dita tra i capelli rossi, vaporosi, la cui piega è ancora perfettamente integra. “Tra poco verranno a prenderlo. Nel frattempo stanno rintracciando i riceventi”, un brivido percorre Kate dalla base del collo fino alla pianta dei piedi, “ho chiesto di poter essere informata circa i nomi. Ho dovuto forzare un po’ la mano, la capo reparto non era sicura di potermi mettere al corrente riguardo i dati personali, ma credo che abbia capito che non ho assolutamente intenzione di minacciarli o cose simili. Tra di loro ci sono anche due bambini, sette e dieci anni. Ho notato che... tra quei nomi c’è anche il tuo.”
Ha scelto un modo forse troppo diretto, ma pensa sia meglio non girarci intorno.
Le si mette accanto, solo allora nota che la sua mano è intrecciata con quella del figlio.
“Lo so...” sospira la detective senza alcuna inflessione nella voce che permetta di capire il suo stato d’animo.
“Speravo che l’infermiera avesse letto male.” Nota la mano che Kate tiene sulla coscia chiudersi a pungo, tanto stretta da far diventare le nocche bianche. “Ho paura che tu abbia frainteso.” Gliela carezza obbligandola a distenderla. “Non vorrei che pensassi che non voglia che tu riceva l’aiuto che meriti. Speravo solo che una ragazza così giovane non dovesse sperimentare una tale difficoltà.”
Ruota il capo, la fissa sorpresa da quelle parole. Le pupille si muovono veloci a destra e sinistra squadrando ogni centimetro del viso che si trova di fronte. Le iridi sono diventate di un verde più scuro, come quello dei pini bagnati ora rischiarati solo dalla luce fioca del sole ormai tramontato.
“Mi dispiace. Non ce la faccio.” Si alza correndo fuori. Corsa che si arresta quasi immediatamente, rallentando il passo per non dare nell’occhio. Non può sopportare quel peso, non può sopportare di sentire una madre darle l’assenso di impossessarsi del cuore del figlio.
Non c’è nulla di normale in quello. Nelle sue parole, nel suo essere così tranquilla, pacata. Non lo capisce, non capisce perché non la odi, perché cerchi invece di convincerla che va tutto bene, quando a lei sembra non andare bene affatto.
 
Martha si rammarica per quella reazione, ripetendosi che forse avrebbe dovuto aspettare che fosse lei a parlare. Magari non sarebbe riuscita a dirle nulla, non in quel momento, ma per quel poco che l’ha conosciuta attraverso i racconti di Richard è convinta che le avrebbe chiesto il permesso prima di sottoporsi a quella rischiosa operazione, prima di rubarle il cuore di una persona a lei cara.
Sarebbe stato strano, lei non ha alcun diritto di dirle fallo o, al contrario, rinuncia. Eppure per certi versi è così. Le hanno dato la possibilità di scegliere cosa fare al posto di suo figlio. E se si fosse sbagliata, se lui non avesse voluto disperdersi così, in corpi diversi, in diverse parti del mondo? Troppo tardi per tornare indietro, spera solo che sua nipote sarà in grado di perdonarla e di capirla.
Carezza il viso di suo figlio, la mano sfiora l’intera guancia.
“Oh tesoro, dimmi che ho fatto bene”, una domanda retorica con la quale, dopo un ultimo e prolungato bacio sulla fronte, lo saluta.
Raggiunge la nipote sdraiata scomodamente sulle poltroncine nere della sala d’attesa. Le dita scorrono sulle braccia lasciate scoperte dalla maglietta a mezze maniche di un blu cobalto particolarmente cupo, colore che aveva sempre fatto risaltare l’azzurro ghiaccio dei suoi occhi. Si toglie il cardigan distendendolo lungo il suo corpo. Le scosta i capelli dal viso, vedendolo così ancora impastato dalle lacrime che anche nel sonno non le danno tregua. Cortesemente chiede ad un’infermiera di tenergliela d’occhio mentre si allontana alla ricerca di Katherine.
La trova su di una sedia in un corridoio vuoto e silenzioso, tra carrelli carichi di medicinali e lettini liberi. Tiene gli occhi puntati sul pavimento scosso dal tamburellare dei piedi della ragazza. Può sentire il linoleum gemere.
Le poggia una mano sulla spalla.
Sussulta sotto quel tocco.
“Martha... non l’avevo vista. Mi scusi per essere andata via così.”
“Oh cara, ti prego, dammi del tu.”
La osserva, ininterrottamente, senza dare una risposta affermativa né di diniego a quella richiesta. Cerca di placare il suo tormento interiore. Chi ha davanti ha già affrontato il dolore della perdita, della perdita di un figlio, e ora sta per riviverlo. Com’è crudele il destino nel portarle via anche lui.
Vorrebbe che Castle non glielo avesse mai raccontato, vorrebbe non essere a conoscenza di quella storia.
“Lo sai.”
“Cosa?” Domanda con sconcerto.
“Te lo leggo negli occhi. Il tuo sguardo. È quello che hanno tutti quando sanno che hai già perso qualcuno. Oh”, sospira, “non devi preoccuparti, sono contenta che abbia trovato qualcuno con cui parlarne, io non lo facevo più da tempo ormai.”
“Mi dispiace così tanto per Alexander e per... Rick.”
“Parli come se fosse colpa tua”, la vede abbassare il capo, come in un gesto d’assenso. “No, non è così.”
“Non posso portartelo via.”
“Ascolta, me lo hanno già portato via. Non voglio che pensi che abbia accettato la cosa, che abbia accettato di non rivederlo mai più sveglio, ma purtroppo questa è la verità.”
“Non posso farlo, non ci riesco.”
“Hai ancora un po’ di tempo per decidere.”
“Ho già deciso. Non posso.”
“Non puoi, o non vuoi? Credi sarebbe più facile se non lo conoscessi?” Kate la guarda, pensando ad una risposta, ma non dice nulla, restando in silenzio ad ascoltarla. “Hai questa splendida, meravigliosa opportunità di vivere. Falla tua.”
“E Alexis? Io non-”
“Lei capirà. Non oggi, non domani, ma un giorno... Un giorno capirà. Guarderà le foto di suo padre, ripenserà a lui e non potrà non esserne orgogliosa. Sarà contenta che lui abbia aiutato tante persone, che abbia aiutato te.” Portando l’indice sotto il suo mento, le solleva il viso. Gli occhi sono quelli di una madre che parla ad una figlia.
Kate aveva scordato quello sguardo, aveva dimenticato la sensazione di calore che questo emana. La rossa, come se avesse colto i suoi pensieri, le sfiora la guancia in una carezza materna, sentendo poi una lacrima scorrerle lenta tra le dita. “Sai, ho sempre creduto che il cuore di una persona conservi la sua vera essenza. Sono certa che molti medici avrebbero di che contraddirmi, ma io so che è molto più che sangue e vene. Una parte di Richard è racchiusa nel suo cuore.
Cara, non voglio che pensi che io cerchi di convincerti solo per avere qualcosa di mio figlio ancora vicino a me, ma sarebbe mentire non dirti che sarei felice se fossi tu la custode di questa parte di lui. Katherine non rinunciare per paura. Lui non c’è più, quello là dentro non ha più niente di mio figlio, ma tu... Tu splendida creatura sei ancora qui. Vivi Kate, ti chiedo solo questo. Vivi.”
 
 
Ti chiedo solo questo. Vivi.
Sono le ultime parole a cui pensa mentre l’anestesia comincia a fare effetto sul suo corpo. Nonostante stia contando a voce alta è l’implorazione di Martha che le risuona nelle orecchie. Gli ultimi numeri sono poco più che un sussurro, li sbiascica mentre le palpebre si fanno pesanti chiudendosi.
 
Il corridoio dell’ospedale ora è gremito di gente, la sua famiglia.
Martha è stata raggiunta da Jim poco dopo la chiamata fattagli dalla figlia. È arrivato di corsa, un po’ frastornato, giusto in tempo per darle un bacio prima che venisse portata via. Kate gli aveva detto che ci sarebbe voluto tempo e invece, il giorno dopo, eccola lì, anestetizzata e pronta a riprendere in mano la sua vita e a ristabilirsi completamente. Non aveva avuto il tempo di prepararsi, non aveva avuto il tempo di pensare a cosa sarebbe successo se l’operazione fosse andata storta, non aveva avuto il tempo di pensare a cosa dire a quella donna dai capelli rossi che non aveva mai incontrato e che aveva appena perso il figlio, nuova speranza della sua Katie. La donna con la quale ora è lì ad aspettare fremente, dopo averle fatto le sue condoglianze in maniera impacciata e con le sole parole che sentiva venire da dentro sperando fossero quelle più adatte.
I ragazzi erano stati spediti lì da Montgomery.
Dopo essere stato avvertito da Kate, si era preso qualche secondo per elaborare la cosa. Il distretto era la sua casa, la sua seconda famiglia. Era fiero di quei ragazzi che in un certo senso aveva cresciuto, ed era stato felice che la squadra avesse guadagnato un membro in più anche se un po’ sopra le righe. Ed ora tutto si stava sgretolando e, per la prima volta da quando era diventato capitano, gli sembrava di non avere più il controllo su nulla. Aveva posato gli occhi sulle foto dei suoi figli e di sua moglie con la stessa velocità con cui un lampo squarcia il cielo, si era ricomposto e li aveva convocati nel suo ufficio. Aveva dato loro l’ordine tassativo di stare in ospedale fino a che non si fosse risvegliata, e sotto le loro scroscianti proteste, dichiarando di dover ancora portare a termine il caso, aveva tuonato che si sarebbe occupato di persona di mettere dietro le sbarre il responsabile di quella perdita che li aveva profondamente segnati e distrutti. Una cosa che non li aveva sorpresi era il silenzio mantenuto dalla collega sulla sua salute. Collega non era la parola giusta, amica. Si, si era questa la parola, perché dopo tutti quegli anni loro erano prima di tutto amici, avevano imparato a conoscersi ed è per questo che non erano rimasti stupiti ascoltando il discorso del capitano, ma semplicemente dispiaciuti. Non erano stati in grado di portarla a fidarsi di loro, non erano stati capaci di oltrepassare quella corazza che aveva intorno e che era più spessa di quanto avessero mai creduto.
Il tragitto in macchina verso l’ospedale era stato lungo. L’aria era tesa e pesante, tagliente. Il silenzio faceva quasi male, ma nonostante questo Esposito non aveva detto nulla, mantenendo lo sguardo fisso sull’asfalto, sulle colonne di macchine davanti a loro che si biforcavano come la lingua di un serpente illuminata da catarifrangenti rossi. Anche Ryan non aveva parlato, rimasto a fissare lo spesso vetro del finestrino segnato dalla pioggia battente. Il suo sguardo profondo e vuoto e la sua aria impassibile erano stati traditi da quell’unica lacrima che, intrappolata all’angolo dell’occhio, era poi scivolata facendo quella sorta di slalon tra la barba appena accennata.
Se si escludono quelle artificiali, esistono tre tipi di lacrime. Le lacrime basali, che mantengono idratato il bulbo oculare, le lacrime riflesse, quelle causate da un corpo estraneo nell’occhio ed, infine, quelle emotive, associate generalmente al dolore, diverse per composizione chimica alle precedenti.
Contengono infatti un elevato contenuto di prolattina e manganese. Quella lacrima solitaria, che aveva solleticato il viso dell’irlandese, era di quest’ultimo tipo, era custode di dolore per la perdita e paura ed angoscia per quell’operazione che sapeva essere lunga e rischiosa. Aveva letto un articolo in merito, mesi fa, per puro caso. Tutto era spiegato meticolosamente, ma ora non riusciva a ricordarne una sola parola, neanche le percentuali di sopravvivenza. Rammentava solo il viso sorridente del medico a lato di quei due trafiletti.
 
Lanie passeggia nervosa.
È su tutte le furie con l’amica. Con lei che l’aveva tenuta all’oscuro della sua malattia, lei che aveva deciso di parlare e liberarsi di quel peso con una persona che conosceva da poco. Ripensandoci non era arrabbiata, più infastidita. Era forse gelosia quella che per un attimo aveva provato nei confronti di Richard Castle? Si. Ma sarebbe arrivato il momento adatto per parlarne con Kate. L’avrebbe sgridata, ma in tono scherzoso, certa che avesse avuto un motivo valido per decidere di non dirle nulla. Del resto non riesce a non incolpare anche se stessa. Quando Castle era andato a parlarle era riuscita solo a rimproverarlo. Era stata l’ultima cosa che gli aveva detto. Ecco i rimorsi di cui tutti parlano, quelle ultime parole che non avresti detto se avessi immaginato che non avresti più rivisto quella persona. Talmente presa dal difendere la privacy di Kate, non aveva pensato a proteggere Kate stessa, andando a domandarle da amica, magari nel caldo confortevole del suo appartamento, comodamente sedute sul divano, cosa non andasse.
Con questi pensieri a perseguitarla si limita quindi a camminare avanti e indietro, preoccupata, facendo risuonare il tonfo sordo dei tacchi bassi che affondano nel linoleum consumato.
Alexis è ormai sveglia, tiene ancora il cardigan sulle spalle. Inspira a fondo, tirando su col naso ogni qual volta sente il magone impossessarsi di lei. La lana rilascia un profumo famigliare, lo stesso che impregna casa sua, che è solita sentire quando abbraccia Martha, che gustava quando abbracciava il padre nascondendo il viso nell’incavo del suo collo. È qualcosa che la tranquillizza, che le impedisce di scoppiare davanti a tutti, davanti a persone che ancora non conosce bene, ma che conoscevano suo padre e che è certa potranno raccontarle aneddoti divertenti e bizzarri su di lui che lei ignora e che forse riusciranno a farle tornare il sorriso. Ma, mentre si abbandona alla sensazione di calore e famigliarità rilasciata dal golf, la rabbia è in agguato, ribolle, pronta ad esplodere dentro di lei. È furibonda con sua nonna, con quella decisione presa velocemente senza chiederle neanche un parere. Da che ne ha memoria è sempre stata trattata da adulta, invece, quel giorno, è come fosse tornata una bambina, incapace di comprendere e decidere. Solo più avanti, probabilmente, avrebbe capito che era semplicemente così che doveva essere.
Gli occhi, seppur arrossati e gonfi, si muovono incessantemente, finché lo sguardo non le cade sul pacchetto tenuto in mano da Ryan. Riconosce la scrittura di suo padre su quella carta da pacco un po’ malconcia.
“Quello, quello che cos’è?” La voce risulta più acuta di quanto volesse. Ogni volta che tenta di parlare a voce bassa, questa le diventa più stridula rispetto al solito, ancora non ha idea del perché di quel curioso fenomeno.
L’irlandese rigira il pacchetto tra le mani, lo spago sfrega contro le dita lasciandoci sopra sottili filamenti. Lo batte un paio di volte sul palmo, prima di passarlo verso il collega che ha teso il braccio nella sua direzione in quelle richiesta implicita.
“Credo sia un libro. L’abbiamo trovato a bordo del taxi, sui sedili posteriori.”
“Non dovrebbe essere tra le prove?” Domanda Lanie perplessa.
“Beh, abbiamo pensato che non fosse poi fondamentale per le indagini. Insomma... diciamo che nessuno sa della sua esistenza.”
“Katie non ne sarà felice.” Mormora divertito Jim.
“Si, probabilmente si arrabbierà quando verrà a sapere che lo abbiamo omesso nel verbale.” Ammette Ryan grattandosi la nuca con lieve imbarazzato.
“Vorrai dire se... se verrà a sapere che lo abbiamo omesso.” Lo corregge con prontezza Esposito.
Una risata leggera fiorisce a quelle parole, ma non è più che qualche secondo, poi nuovamente il silenzio e il gelo.
 
La porta cigola aprendosi. I passi pesanti del chirurgo scandiscono gli ultimi secondi di quell’attesa estenuante al posto del ticchettio dell’orologio alla parete.
È ormai notte fonda.
Fuori da lì la notturna New York procede come se nulla fosse accaduto.
Una famiglia esce da un ristorante. Sorridono dirigendosi verso la macchina lasciata ad un paio di isolati di distanza.
Un gruppo di ragazzi entra al cinema per godersi il secondo spettacolo, corrono verso la sala scherzando tra loro, lanciandosi i popcorn appena presi ora disseminati sulla passerella in finto velluto rosso.
Le luci intermittenti dei televisori accessi nelle case, riflettendosi nelle pozzanghere disseminate su marciapiedi e strade, rischiarano il buio di quella fresca serata primaverile.
Jim si risolleva dalla parete alla quale è stancamente appoggiato. Sfrega le mani tra loro, incitando il medico a dargli notizie strabuzzando gli occhi stanchi. Velocemente Ryan ed Esposito lo raggiungono rimanendo solo di qualche passo dietro a lui.
I nervi sono a fior di pelle. Sotto le maniche della camicia nascondono tutti una fitta pelle d’oca per quel silenzio protratto a lungo. Le bocche sono asciutte, le labbra secche.
La vena sul collo dell’irlandese pulsa senza controllo, quasi stia per scoppiare. Alexis sembra la sola ad accorgersene, seduta a terra, senza la forza di alzarsi.
“L’operazione è riuscita. Tutto è andato come previsto.”
Un forte sospiro proviene dai presenti, finalmente Jim riesce a deglutire e anche i suoi polmoni incamerano di nuovo aria.
“Adesso verrà portata in terapia intensiva. Avrei bisogno di parlare con i famigliari per i dettagli sulla degenza.”
“Parli pure liberamente”, lo incoraggia Jim, stringendo forte la mano che Martha gli ha posato sulla spalla in quell’amorevole gesto di conforto di cui anche lei avrebbe bisogno.
“Sarà un decorso abbastanza lungo. Per la prima settimana dovrà restare in completo isolamento. Dobbiamo tenere sotto stretto controllo la funzione cardiaca e la ferita chirurgica. Vogliamo scongiurare ogni tipo di infezione. Per i primi giorni il rischio di rigetto è maggiore, seguiranno una serie di antibiotici che eviteranno il suo manifestarsi a lungo andare. Avrà bisogno di sostegno una volta terminata questa settimana. Dovrà rimanere qui per almeno un mese, più avanti discuterà con me e con il suo medico curante circa le visite post operatorie. Sarà necessario un lungo periodo di riposo, i farmaci potrebbero stancarla. Il dottor Bolkowitz mi ha informato che è una donna piuttosto attiva, potrà essere scoraggiata dal dover restare ferma per tanto tempo, quindi avrà bisogno che le restiate accanto e che l’aiutiate. Anche ora, nonostante non possa vedervi, sarebbe un bene per lei sapere che c’è qualcuno. A volte anche piccole frasi che potrà riportarle l’infermiera di turno possono essere d’aiuto. Giusto qualche ora al giorno qui. So che potrebbe essere difficile, per impegni lavorativi e-”
“Non sarà un problema”, la voce della giovane Castle si fa spazio, lievemente incrinata, tra i presenti. Gli sguardi sono ora posati su di lei. Fa leva sulle braccia alzandosi a fatica dal pavimento a cui era rimasta ancorata per quasi cinque ore. “Ci sono le vacanze di primavera. Io e papà dovevamo passarle insieme, ma credo... credo che a questo punto non lo faremo, perciò...” Punta lo sguardo al soffitto. Un modo come un altro per non piangere, per intrappolare le lacrime dentro agli occhi chiari ed ingannare così la forza di gravità. Il modo più gentile per impedire a chi le è intorno di avvicinarsi nel tentativo di consolarla. “Verrò io se ci sarà bisogno. Voglio dire, se... se non ha nulla in contrario Signor Beckett.”
“Affatto, te ne sarei molto grato, e penso che Katherine ne sarebbe felice.”
Gli sorride, anche se fintamente.
Non ha nulla per cui sorridere. Nulla per cui ne valga la pena. Non adesso almeno.
Martha l’abbraccia fiera, “è molto bello quello che fai tesoro”, le sussurra all’orecchio stringendola.
 
 
Quando apre gli occhi ogni dettaglio che lentamente riesce a mettere a fuoco le porta alla mente una situazione già vissuta.
A giudicare dall’altezza del sole, che intravede al di là dello spesso vetro della finestra, deve essere primo pomeriggio.
Cerca di aggiustare la sua posizione, sentendo indolenzito il braccio parzialmente schiacciato dal corpo. Una fitta al petto le impedisce di muoversi ulteriormente. Avvicina tremante la mano sfiorando appena lo sterno, ricordandosi improvvisamente, come una folgorazione, il perché di quel dolore che si fa sempre più acuto. Si lascia andare al pianto, tentando però di soffocare la rabbia che cerca di uscire attraverso mugugni senza senso.
L’accelerare del battito cardiaco, come l’allarme in cucina che scatta quando il fumo la invade, fa accorrere da lei un’infermiera. Le soprascarpe sbuffano strisciando contro il pavimento, il fruscio del cellofan si mischia con lo schiocco dei guanti sterili in lattice quando, prima di controllare la flebo, termina di sistemarli.
Le ruote del carrello a cui è collegato il monitor stridono spostandolo. Il suono si amplifica per la stanza quasi completamente vuota.
Si tranquillizza abbastanza rapidamente, ritrovando il suo solito autocontrollo.
Osserva a lungo gli occhi dell’infermiera, il suo sguardo dolce e gentile.
Ha imparato così a riconoscerle non potendone studiare i lineamenti a causa della mascherina e della cuffietta che ne nascondono i tratti fondamentali, oltre naturalmente a concentrarsi sul suono della voce e le diverse sfumature che assume a seconda di ciò che le viene detto.
Anche la loro camminata, già dopo due giorni, non ha più segreti. Il soffiare delle soprascarpe è diverso per ognuna e riesce bene a distinguere il passo che è in esso racchiuso. Pesante e trascinato, piuttosto che rilassato e quasi inudibile.
È stata felice quando suo padre è andato a trovarla, anche se non aveva avuto la possibilità di vederlo di persona. Era stata Clarice, la caporeparto, a rivelarle la sua presenza, lasciandole poi una carezza sul viso come se fosse stato lo stesso Jim a fargliela.
“Finalmente quella ragazzina ha un po’ di compagnia.” Aveva poi esclamato spezzando il silenzio. “Sono un paio di giorni che è qui. Ci passa le ore in quella sala d’attesa e non l’ho mai vista prendere nulla più di un tè.”
“Una ragazzina. Sapresti descrivermela?”
“Piuttosto carina, pelle chiara, occhi di ghiaccio... capelli rossi.” Aveva mormorato battendo piano sulla siringa prima di infilarle l’ago nel braccio. Il viso di Kate si era illuminato, le labbra increspate lasciando intravedere un sorriso.
“Potresti farmi un favore? Potresti dirle... Dille grazie. Solo grazie.”
“Come vuoi.” Era stata la sua risposta accompagnata da un’alzata di spalle incapace di comprendere.
Dopo quel giorno Alexis è sembrata un po’ più serena, anche Clarice l’ha notato.
Nella stanza di Kate, ogni infermiera che vi fa il suo ingresso ha qualcosa da dirle. Chi le porta auguri di guarigione, chi aggiornamenti su quel buffo detective che ha momentaneamente preso il suo posto, chi notizie più tristi, come quel funerale a cui lei non ha potuto partecipare. Sa esattamente che ogni parola arriva per bocca di Alexis, lei che è i suoi occhi e le sue orecchie al di fuori di quel mondo fatto di farmaci, disinfettati, garze e suture.
Una settimana passa con lentezza, tutti i giorni sono uguali ad esclusione delle piacevoli, seppur brevi, chiacchierate con Clarice. Così, quando quella mattina sente bussare e non riesce a riconoscere il tocco di nessuno resta perplessa, guardando accigliata la porta che, senza attendere il suo assenso ad entrare, si apre davanti ai suoi occhi. Non riesce a capire perché nessuno rispetti quella semplice regola per una convivenza pacifica. Forse perché si è convinti che quando si è malati non si sia in grado o non si abbia voglia di dire ‘avanti’ oppure ‘tornate più tardi’. O semplicemente perché medici e infermiere bussano così, en passant, ignorando il reale volere del paziente.
“Le prime visite del giorno signorina.” Annuncia la voce piuttosto greve dell’inserviente. Una donna robusta, dall’aria paciosa, che si limita ad aprire le porta allungando il braccio sulla superficie di questa, mantenendosi poi di lato per far entrare i misteriosi visitatori prima di volatilizzarsi nuovamente tra i corridoi in compagnia di carrello, spazzolone e disinfettanti vari.
Sorride sorpresa vedendo un grosso mazzo di fiori avanzare verso di lei. I volti dei suoi partner sbucano dietro variopinte rose e gerbere che riempiono quella composizione.
“Ragazzi.” Si raddrizza, sprimacciando il cuscino posizionandolo poi dietro di sé. “Cosa fate qui, credevo non facessero entrare nessuno?”
Ryan poggia il vaso sul comodino in finto legno laccato di bianco e il profumo inebriante stuzzica piacevolmente i sensi di Kate.
“La tua prigionia è finita. La caporeparto ci ha concesso di entrare prima che ti trasferissero in un’altra stanza.”
“Clarice è un angelo, devo ricordarmi di ringraziarla. Ascoltate... Alexis è ancora là fuori?”
“Mh-mh.” Annuisce Esposito sbirciando fuori dalla finestra.
“Come sta?”
“Abbiamo parlato un po’. Sta meglio”, la tranquillizza l’irlandese, “mi è quasi sembrato di scorgere un sorriso mentre le raccontavamo qualche divertente storiella su Castle. Oh, e credo che quando andrai nella tua nuova camera ci troverai anche dei palloncini e un gigante orsacchiotto di peluche.”
Sorride al pensiero di tanta dolcezza. Le piacerebbe poter arrivare a conoscerla meglio e a fondo. Non sa spiegarlo, ma sente uno strano legame con quella ragazza. Potrebbe essere solo l’influenza di sapere di avere il cuore di suo padre che ora batte e pulsa forte dentro di sé, o forse Martha aveva ragione. Nel cuore di una persona c’è più di un semplice ammasso di sangue e vene.
“L’altro giorno ha fatto uno splendido discorso al funerale, il saper usare le parole deve far parte dei geni di quella famiglia.”
“Mi spiace non essere potuta venire.”
“Avevi un valido motivo.” Dice Ryan certo che sentisse il bisogno di quella rassicurazione. “Senti, noi ora dobbiamo tornare al distretto, siamo passati più che altro per darti questo.”
Da dietro la schiena di Esposito ecco spuntare ancora quel pacco rettangolare, la carta agli angoli comincia ad essere più consumata, sull’orlo di rompersi.
Lo prende tra le mani scorrendone i lati incuriosita.
“Lo aveva con sé Castle.” La delucidano. “Crediamo stesse venendo a portartelo, ma nella confusione e nel trambusto quando è arrivato qui deve essersene dimenticato.”
“Non sei obbligata ad aprirlo. Prenditi il tuo tempo. Noi torniamo domani.”
“Sei in buone mani.” Sussurra l’ispanico con un velato riferimento ad Alexis.
“Va bene, a domani. E grazie per essere passati”, mormora ancora scossa per quel misterioso pacchetto. “Aspettate”, prende una rosa bianca, ne inspira forte il profumo. La porge ai colleghi tendendo il braccio avanti a sé. “Potreste...” lascia in sospeso la frase, sicura che capiranno a chi vorrebbe la portassero.
“Certo, passiamo prima di rientrare al distretto.”
Li saluta con un ultimo sorriso, tornando poi a sfiorare quel particolare regalo che sembra scottarle tra le mani. Una sorta di personale eredità di Castle per lei.
Le dita affusolate accarezzano un’estremità dello spago, la tira debolmente, fino a che il nodo non si scioglie e il filo si affloscia stanco sul lenzuolo che la copre fino al ventre.
Toglie la carta attenta a non romperla. Ne elimina ogni piega contemplando il suo nome scritto. La calligrafia inconfondibile, l’inchiostro leggermente assorbito dalla carta color caffè espansosi come una macchia d’olio sporcando quella scritta che prima immagina dovesse essere curata e pulita.
Lascia l’involucro sul letto, accanto a lei. Davanti ai suoi occhi compare il manoscritto. La copertina è appena abbozzata, in prima pagina risalta il titolo nel suo bel carattere fine ed essenziale. Heat Wave. Le lettere sono sottili, i bordi smussati.
Lo sfoglia facendo scivolare rapidamente le pagine tra le dita.
Ne esce un biglietto che, come una piuma sospinta dal vento, vola fino a posarsi sul suo grembo.
La scrittura è fitta, ma comunque ordinata.
Lei non può sapere che era stato scritto quella fatidica mattina, dopo essere andato alla casa editrice e supplicato Gina che una copia venisse preparata in poche ore, infilandolo poi tra le pagine nel pomeriggio, prima di uscire dal parco.
 
“Ho pensato ti avrebbe fatto piacere ricevere la prima copia del libro. Ho insistito particolarmente per averla, ci tenevo ad avere il tuo parere per primo. Mi hai ridato la carica per scrivere, era tempo che non mi sentivo così ispirato, stimolato, vivo. Dopo la nostra conversazione di ieri ho cambiato un po’ di cose nel manoscritto, ho colto una sfumatura in te, forse quella che mi mancava perché il personaggio di Nikki fosse completo, così che i lettori la possano conoscere a 360° gradi. So che forse è solo l’egocentrico che è in me, e che tu tanto odi, a parlare, ma credo di aver fatto un buon lavoro e spero non ti sentirai troppo in imbarazzo per certe scene.  Non sono altrettanto sicuro per quelle due righe che ti ho dedicato in prima pagina. Non so se le hai già lette, se così non fosse, quando lo farai, sappi che lo penso davvero e che le ho scritte col cuore.”
 
Involontariamente, senza rendersi conto di quel gesto, si porta la mano libera al petto, che ora si muove impercettibilmente al ritmo di ogni pulsazione. Le sembra di sentirlo vicino, così terribilmente e irrimediabilmente vicino. Una vicinanza che quasi la spaventa.
Fa un profondo respiro prima di proseguire.
 
“Avrei potuto dirti tutto questo a voce, ma qualcosa mi ha detto che era giusto scrivertelo. Del resto non  sono certo un oratore. Un’ultima cosa prima che questo biglietto si trasformi nel ‘Nuovo romanzo americano’, grazie per avermi ascoltato ed esserti aperta con me, so quanto sia difficile.”
 
E in fondo la sua firma.
Ripone il biglietto sul comodino. Apre ancora una volta il libro girandone le prime due pagine.
La dedica si staglia sul lato destro della pagina di un tenue color crema. Nei suoi occhi verdi si riflettono quelle parole eleganti, gentili e piene di speranza.
 
Alla straordinaria Katherine Beckett,
mia amica, mia ispirazione.
Lotta, resisti, combatti, vivi e so che un giorno il mondo saprà chi sei.
 
Eccola di nuovo, quella strana sensazione di contatto, quella presenza vicino a lei.
Dentro di lei.
La intimorisce, è come sentirsi spiata dall’interno, nel proprio intimo, eppure al tempo stesso si sente tranquilla, al sicuro come non lo è mai stata. Con lui sempre accanto e il suo cuore a proteggerla.
Cuore di cui si prenderà cura ogni giorno finché potrà.
 
 
 
 
 
 
 
Diletta’s coroner:           
 
Siamo giunti alla fine.
Spero vi sia piaciuta nonostante tutto.
Non mi dilungo, vista la lunghezza del capitolo ;)
Ci tengo solo a ringraziare chiunque abbia letto, recensito e inserito la storia tra le seguite, preferite e ricordate. Grazie davvero!
Baci

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