Sagi

di Hika86
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo: lettere dal passato ***
Capitolo 2: *** 1. Sventurate cadute ***
Capitolo 3: *** 2. Il Giappone di ieri, il Giappone di domani ***
Capitolo 4: *** 3. Morikawa Kazunari ***
Capitolo 5: *** 4. Pantsu-musha ***
Capitolo 6: *** 5. Scontro con la realtà ***
Capitolo 7: *** 6. Promessa sposa ***



Capitolo 1
*** Prologo: lettere dal passato ***


'Con questo mio scritto, pubblicato senza alcuno scopo di lucro, non intendo dare rappresentazione veritiera del carattere di questa persona, nè offenderla in alcun modo'

Il cellulare cominciò a suonare. Rimase nell'ingresso di casa e lo cercò in tutte le tasche. «Pronto?» domandò
«Pronto! Sei arrivato? E' lì?»
«Sono arrivato ora, mi ha dato le chiavi il custode» spiegò togliendosi le scarpe e lasciandole nell'ingresso senza sistemarle, ma cominciando subito a gironzolare per le camere. «Mi sa che qui non c'è»
«Aspetta, ho un avviso di chiamata» e mise in attesa. «Pronto?»
«Sono io, hai sentito Aiba chan?»
«Sì» rispose con un sospiro. «E' arrivato ora, ma la casa è deserta»
«Da sua madre non c'è»
«Non le avrai detto che non lo troviamo spero?» fece mettendosi in allarme
«Ma con chi credi di parlare? No, ho telefonato chiedendole di ricordargli di un lavoro per questo pomeriggio quando se ne va da lì. Allora mi ha detto che non c'era. Mi sono scusato per il disturbo, sapevo che lui voleva passare a trovarla oggi, ma alla fine magari non aveva avuto tempo»
«Sei proprio intelligente Sho kun. Un attimo che ho Aiba chan sull'altra linea» e anche Sho venne messo in attesa. «Aiba chan!»
«Oh, eccoti. Intanto mi ha chiamato il Riida»
«Che dice?» domandò con ansia
«Niente neanche agli studi» rispose l'altro con un sospiro. «Che facciamo ora Matsujun?»
«Senti, veniamo tutti lì e ne discutiamo»
«Ok, avviso il Riida»
«E io Sho. A dopo»
«A dopo » ed entrambi passarono all'altra linea.
Un paio d'ore dopo tutti raggiunsero Masaki a casa di Nino. Il padrone dell'appartamento era sparito dal pomeriggio del giorno precedente.
L'ultima volta era stato visto sul set, poi non se n'era più saputo niente. Gli addetti ai lavori, sgomenti, avevano pensato fosse successo qualcosa, ma il manager non aveva saputo come rispondere perchè nemmeno lui aveva idea di dove fosse sparito Ninomiya: aveva detto "vado a prepararmi", si era avviato ai camerini e nessuno l'aveva più visto. Sul momento, il manager si era inventato un malore grave e improvviso, poi aveva chiamato i membri pensando in uno scherzo di cattivo gusto del ragazzo: certo, non era da lui comportarsi in quel modo sul lavoro, ma Ninomiya era imprevedibile. In quel caso però nessuno degli Arashi ne sapeva niente.
Lo cercavano dalla sera del giorno prima quindi. Non era nei suoi posti preferiti, non era a casa di colleghi, di amici o di conoscenti, non era ovviamente a casa di nessuno di loro e nemmeno a casa della madre. Avevano controllato sui set dei programmi, per le sedi dei vari studi televisivi, avevano fatto controllare alla Johnny's Entertainment e Aiba aveva setacciato palmo a palmo tutto il vicinato. Ninomiya Kazunari si era volatilizzato.
I quattro compagni si radunarono nel suo appartamento, un po' disordinato e polveroso come sempre. Cibo surgelato in frigo, nessun piatto da lavare.
«Che cosa facciamo? Domani dobbiamo girare VSArashi, che scusa potremo mai inventarci per la sua assenza?» chiese Sho in tono lamentoso, mentre si lasciava andare sul divano in sala.
Jun era seduto a terra, intorno al tavolino basso davanti al divano, e rimuginava fissando la pila di riviste di videogiochi in un angolo del ripiano.
«Non possiamo inventarci un malessere, spaventeremmo tutti per nulla e non sapremmo come spiegare al personale dell'ospedale perchè dovrebbe mentire ad eventuali giornalisti» rifletté Aiba raggomitolandosi anche lui sul divano, con aria afflitta
«Suonano alla porta» fece notare Satoshi e gli altri gli fecero segno di andare ad aprire.
Jun fece un sospiro e si passò le mani sugli occhi. «Una persona non può sparire così! Anzi, una persona può, è Ninomiya Kazunari degli Arashi che non può. E' inconcepibile che nessuno, e sottolineo nessuno, lo abbia più visto da un certo momento in avanti» spiegò piccato
«Il Riida è andato sul set e ha chiesto a tutti, ma pare proprio sparito nel nulla» spiegò Masaki
«C'è una cosa per noi» annunciò Ohno tornando in sala con un grosso baule tra le braccia.
Tutti lo guardarono stupiti. «Ma chi era alla porta?» chiese Sho fissando l'oggetto che veniva posato sul tavolino. «Questo affare sembra antico»
«Lo è. Sapete la famiglia che ha concesso di usare nelle riprese al dettaglio katana, wakizashi e altre spade¹ della loro collezione?» chiese Ohno passando con delicatezza il dito sul bordo del baule. «Questo è un oggetto che si tramandano da generazioni. Chi l'ha portato ha detto di fare attenzione perchè è un oggetto datato 1500».
Tutti si zittirono e fissarono il "pacco" appena arrivato con gli occhi sgranati. «E perché dovrebbero far avere a Nino un oggetto d'antiquariato? Se è autentico vale una fortuna!» esclamò Aiba
«Il tizio che l'ha portato ha detto che è per noi, non per Nino» rispose ancora Satoshi, dopodiché capovolse la scatola per mostrare loro il fondo.
Il baule era nero decorato con un motivo di kanji molto fitto, ma sotto era solo laccato scuro e in un quadrato intagliato al centro c'erano dei caratteri scritti più piccoli. C'era scritto l'indirizzo di casa di Nino e sotto diceva:

Ad Aiba Masaki, Ohno Satoshi, Matsumoto Jun e Sakurai Sho
ventunesimo anno dell'era Heisei, quarto mese, dodicesimo giorno²
La chiave è nel giorno in cui abbiamo cantato insieme per la prima volta.


«Che significa?» chiese Jun incupito. «Prima Nino sparisce e poi arrivano a casa sua bauli secolari indirizzati a noi quattro? E' troppo elaborato per pensare che sia solo uno scherzo»
«Allora non lo è» sentenziò Sho mentre girava il baule rimettendolo dritto. «Guarda l'apertura: somiglia ai lucchetti a combinazione delle nostre moderne valigie» disse guardando una serie di anelli numerati che sporgevano dal legno
«Sono otto cifre» osservò Aiba
«Nel 1500 non si usava ancora il calendario occidentale» fece notare Satoshi
«E' chiaro che però qualcuno doveva saperne qualcosa, perchè la "chiave" è una data di otto cifre con anno, mese e giorno» fece Jun stizzito. «Ma è una data che nel 1500 non potevano prevedere»
«Nessuno a parte noi cinque può saperla» ribattè Aiba. «Solo noi sappiamo quando abbiamo inciso insieme le parti del primo singolo»
«Qualcuno alla JE sì ed il loro è uno scherzo di pessimo gusto» insistette Jun
«Si è aperto» annunciò Ohno che nel frattempo aveva girato gli anelli per formare la data. Quando l'aveva inserita aveva sentito che la chiusura sul coperchio si era fatta meno dura e infatti bastò un po' di forza per contrastare i cardini impolverati e ammuffiti.
Chiunque stesse facendo loro uno scherzo non l'aveva pensato molto divertente: il baule era pieno di carta, rotoli per la precisione. Ognuno era tenuto chiuso da un semplice nastro con sopra segnato un numero.
«Leggiamo il primo?» domandò Masaki
«E se fossero scritti in giapponese antico? Io mica so leggerlo» scosse il capo Jun
«Non guardate me» aggiunse Ohno
«Ho capito, cominciamo dal numero uno, direi» sospirò Sho allungando la mano prendendo il primo rotolo.
Rispetto ad altri era un foglietto molto piccolo. «E' giapponese normale» annunciò dando un'occhiata rapida alle scritte
«E' la scrittura di Nino!» esclamò Aiba
«Allora è sicuramente una presa in giro» borbottò Jun incrociando le braccia
«Non avevamo appena concluso che è troppo elaborata per essere una qualsivoglia candid-camera?» sospirò Sho. «Allora leggo».
Questo il testo riportato sul primo rotolo:

Agli Arashi
Prima che continuiate a leggere ho un favore da chiedervi: se sono lì con voi chiudete tutto e distruggete questo baule e quello che contiene. Vi prego di non farvi domande, prendetelo come un mio scherzo e lasciate correre, ma non leggete oltre, per nessun motivo, e soprattutto non fatene sapere niente a me.
Se invece non sapete dove sono, il favore è un altro: smettete di cercarmi, leggete questi fogli e se mai ci rivedremo, non raccontatemi mai nulla di ciò che state per leggere.


Nessuno ebbe niente da dire, anche perchè erano tutti abbastanza confusi, così Jun pescò il foglio con il numero due, lo srotolò e lo lesse ad alta voce:

Se state leggendo questo scritto si è avverata l'ipotesi peggiore.
Nel momento in cui vi si scrivo è il pomeriggio del primo giorno del quinto mese del dodicesimo anno dell'era Eishō. Non so a cosa corrisponda con esattezza nel calendario cristiano, suppongo che avrei dovuto impararmi le tabelle degli imperatori quando andavo a scuola, ma dovrebbe essere la prima metà del 1500. E' maggio quindi, ma sono qui da diversi mesi ed io non so come funzioni lo scherzo del destino che mi ha fatto passare un'esperienza simile: quando, tra poche ore, proverò a riappropriarmi della spada riuscirò a tornare da voi? E quanto tempo sarà passato? Poche ore? Pochi giorni? O magari no... ho i brividi.
In questi mesi, prima per la gamba rotta poi per abitudine, ho tenuto un diario di tutto ciò che accadeva. Accatastavo i fogli nella mia camera, raccolti in un baule qualsiasi. Quando ho avuto l'idea impossibile di farveli avere l'ho fatto modificare: ci sono volute due settimane di progettazione e discussioni animate con il fabbro per fargli capire come volevo che venisse chiuso questo affare! Continuava ad insistere che usare una chiave fosse più semplice, ma come ce la facevo arrivare una chiave nel ventunesimo secolo? Già è tanto se la famiglia Morikawa sopravvivrà per qualche centinaio d'anni, la possibilità che riescano a tramandarsi questa scatola senza valore è minima, figurarsi la chiave! Ma niente, quello zuccone del fabbro non la voleva capire. Alla fine ho vinto io comunque.
Chiudo qui i miei ricordi di questo periodo. La mia richiesta precedente era dovuta al fatto che, se sono lì con voi è meglio che nessuno di noi sappia nulla (chissà, paradossi temporali e bestialità simili da racconto di fantascienza), ma se sono sparito voglio che sappiate dove sono, cosa sto facendo e che tornerò. Tornerò ad ogni costo.


Nino

¹ Katana e wakizashi fanno parte del daishō, ossia il set di due spade che era concesso portare agli uomini della classe dei samurai. Queste due armi hanno costituito il daishō solo dal 17esimo secolo in poi, mentre prima su usavano tachi (spada più lunga e ricurva rispetto alla katakana) e tantō (tipo coltello di 30 cm)
² La data è giapponese e indicata con il calendario delle ere, scadite dal succedersi degli imperatori. Tradotto, è il 12 Aprile 2010

Nota al titolo: 鷺 sagi (si legge "saghi") è il nome dell'airone giapponese (Gorsachius goisagi) la cui silhouette è quella che sta nell'immagine del titolo ;)


Allora, sto per fare una cagata... me lo sento.
Quelle che hanno già letto qualcosa di mio sanno che evito il Nino-protagonista delle ff perchè non riesco a scrivere molto su di lui. Lo adoro e lo amo, ma per me lui più degli altri quattro rimane un mostro sacro che non riesco a comprendere. Non so se Nino è veramente come si mostra ai nostri occhi, ma che sia così o no per me rimane un personaggio criptico che sento come mio completo opposto.
E questo l'ho detto per pararmi le chiappe: se il Nino che leggerete qui farà cagare, non è che sia del tutto colpa mia, io l'impegno ce l'ho messo!
Ma se è tanto complesso, perchè fare una long fic proprio con Nino?? A me piacciono le sfide °_° punto.
Dopo il piccolo tentativo di Kotoba yori -in cui ho sviato il mio problema di incomprensione presentando un Nino piccino picciò diverso da ora- ho trovato un altro modo di sviare il problema XD ahahahahah! Sono scaltra come una faina io!
Non voglio dire altro se non che ora come ora non riesco a capire quanto verrà lunga perchè sto ancora pianificando del tutto l'intreccio. Comunque non ho intenzione di fare una Akai-bis come lunghezza. Sono anche insicura sul rating, ma per ora lo metto giallo che non si sa mai.
Ah, sì, c'è un NinoxOC, ma come avrete notato dal genere della ff... la parte romantica non è proprio prevalente, ma c'è! Perchè sono una trottolina amorosa dududù dadadà (→dovrei essere a letto in questo momento, capitemi)

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Capitolo 2
*** 1. Sventurate cadute ***


Ero di fronte ai tizi peggio vestiti che avessi mai visto. Non che in quel momento fosse la mia primaria preoccupazione, ma le armature che indossavano sembravano prese in un negozio di travestimenti di seconda mano. Quale produzione era tanto scadente da accettare costumi di qualità tanto infima in un film che doveva essere storico e per il quale quindi la scenografia e i vestiti erano importanti?
«Ho chiesto come ti chiami» mi disse l’uomo. Doveva essere il più alto dei due anche se non potevo esserne certo dal mio punto di vista dato che ero riverso a terra.
«Cosa?» domandai incredulo. Da quando avevano cominciato a parlarmi quella era l’unica parola che ero riuscito ad articolare.
«Forse è ritardato» fece il secondo uomo. «Smettiamola di perdere tempo e catturiamolo»
«Cosa?» chiesi ancora, ed era la terza volta. Ora, vorrei essere chiaro, i due parlavano giapponese con uno strano accento ma li capivo e non ero rincretinito tutto d’un colpo: è solo che ripetevo quella parola senza rendermene conto. Ero sotto shock, non capivo dove fossi, né come ci fossi arrivato: pochi minuti prima gironzolavo per gli studi, avviandomi in tutta tranquillità al mio camerino, poi improvvisamente ero caduto a terra. Non “inciampato”, ma caduto! E anche da un’altezza considerevole, cosa che i miei riflessi non erano stati pronti a gestire così il mio impatto col suolo era avvenuto in maniera del tutto scomposta. Risultato? Dovevo essermi rotto o incrinato qualche osso della gamba destra perché in quel momento mi provocava un dolore lancinante.
Quindi ero sotto shock e dolorante, e me ne stavo spalmato sulla strada non perché fossi interessato alla consistenza del terriccio, ma proprio perché non riuscivo ad alzarmi dopo la caduta. Premesso questo, sfido chiunque a fare un discorso sensato in una condizione simile.
«Perché dici che è un ladro? A me sembra solo un po’ tocco» scosse il primo uomo in armatura, data la mia situazione non potevo biasimarlo per ciò che aveva detto
«Guarda com’è conciato: di certo non è un nobile, né un guerriero, quindi nulla giustifica come mai abbia questa con sè» il secondo raccolse un oggetto da terra sfilandomelo di mano e io non mi ero nemmeno accorto di star stringendo qualcosa tra le dita.
«E’ una tachi di buona fattura» ammise il primo
«Direi ottima, deve averla rubata. Catturiamolo»
«Cosa?» domandai di nuovo con un acuto strozzato. In quel caso però non era una ripetizione, ma una vera domanda: il dolore era a malapena sopportabile, io non mi reggevo in piedi e quei due invece di chiamare un’ambulanza o un medico blateravano della qualità di una spada e di catturarmi? Ero io quello sotto shock, allora perché sembrava proprio che fossero loro a ragionare come se avessero avuto delle scimmie urlatrici al posto del cervello?
«Forza alzati, le prigioni ti aspettano» ridacchiò il secondo soldato in armatura facendo un passo verso di me: doveva aver capito che se voleva che mi muovessi avrebbe dovuto alzarmi di peso perché io non avrei collaborato.
«Soldati!» esclamò una voce sottile. «Non avete niente di meglio da fare che tormentare la povera gente?». Un ragazzino dal largo cappello di paglia mi si parò davanti. «La guerra incombe e la gente muore di fame, non dovreste combattere per garantire la pace di queste terre? E invece state qui a discutere se quest’uomo sia un ladro o no? Anche se fosse, la spada è vostra ora. Lasciatelo stare»
«Non potete biasimare la povera gente se cerca un modo per difendersi da sé, dato che voi non fate il vostro lavoro» disse una voce che si levò dai lati della strada.
La testa mi girava e stavo sudando parecchio, inoltre avevo il fiatone e se non mi fossi calmato avrei rischiato di andare in iperventilazione. Nel tentativo di scordare il dolore e riprendere una respirazione normale, girai lo sguardo intorno a me e notai una discreta folla accalcatasi probabilmente già prima che il ragazzino intervenisse in mio favore.
«È così che il vostro signore vuole governare?»
«Vi preoccupate di chi non ha nemmeno le bacchette per mangiare invece che del nemico che ha coltelli per ucciderci tutti»
«Abbasso i Tokudaiji!». In pochi attimi scoppiò la rivolta.
Quando un buon numero di persone si furono messe tra noi e i soldati, il ragazzino si girò verso di me. «Forza straniero, approfittane per andartene» suggerì a bassa voce
«Non posso» riuscii a dire a denti stretti
«Ti sei fatto male?» chiese piegandosi a tastarmi la gamba sopra i jeans. «Aggrappati a me avanti» disse passandosi il mio braccio sulla spalla. Si alzò lentamente aiutandomi a rimettermi in piedi così da poter cominciare ad allontanarci.
Il suo fisico era talmente sottile che in un lampo di lucidità ebbi il buonsenso di aiutarlo spostando un po’ del peso sulla gamba sana per non appoggiarmi solo a lui, ma i primi passi furono difficili: il trambusto alle nostre spalle si faceva sempre più vigoroso e tutto quel rumore mi spaventava, quindi tentai di aumentare l’andatura, ma non feci altro che incespicare nei miei stessi piedi.
Mentre avanzavamo zoppicanti, durante una delle mie tante perdite d’equilibro mi aggrappai saldamente al ragazzino e involontariamente gli appoggiai una mano sul petto. Fu allora che mi resi conto che in realtà era una donna. Io però non avevo testa per stare a chiedermi come mai si travestisse, né per chiederle scusa, tanto più che lei non sembrò nemmeno farci caso.
Ad un certo punto la sentii strattonarmi di lato per imboccare una viuzza secondaria e levarci dalla strada principale.
Avanzammo per un po’ lungo uno stretto passaggio tra alcune case basse, poi da due incroci più avanti comparvero degli uomini che se possibile sembravano ancora più ridicoli dei precedenti: indossavano dei kimono scuri e avevano due spade al fianco, conciati proprio come dei samurai.
Man mano che si avvicinavano però, la rapidità dei loro movimenti e l’aria minacciosa cancellarono ogni elemento di ridicolo dalla loro figura. Mi sentii come probabilmente deve sentirsi un topolino da laboratorio: certo che la sua sarà una brutta fine e che non c’è nessuna via di fuga dalla sua gabbietta; ero terrorizzato, vulnerabile e non autosufficiente. Però non potevo fare a meno di assecondare i passi della donna che mi aveva aiutato, anche se non avevo alcuna certezza che lei non mi avrebbe cacciato in guai più seri di quelli che avrei incontrato consegnandomi nelle mani dei due soldati in armatura.
«Rie sama» gli uomini si fermarono a pochi passi e si inchinarono unendo le mani chiuse a pugno davanti al visto
«Prendetelo. Lo portiamo a casa di mio padre» disse la donna lasciandomi tra le braccia di due del gruppo.
Non mi piaceva essere sballottato come un sacco di patate e nemmeno mi piacevano quei tipi che avrebbero potuto rigirarmi come un calzino, ma alla fine fui grato di quel cambio: mi costrinsero a passare le braccia sulle loro spalle, mentre entrambi mi afferrarono per la vita e mi sollevarono. La gamba non toccava terra e il mio peso non la schiacciava quindi fu un sollievo.
La donna si mise a camminare davanti a noi e gli uomini rimanenti si spostarono alle nostre spalle. Senza me a rallentarla, la sconosciuta prese a camminare più velocemente e cominciammo ad attraversare la città, rapidi e silenziosi.
Svoltammo in vie larghe e in vie strette, alcune erano deserte e altre più popolate. Lanciando qualche occhiata casuale intorno a me, vidi cortili con anatre o cavalli, fuochi da campo accesi nella terra, piccoli giardini curati e altri del tutto incolti. C’erano case in legno ben costruite e altre più sgangherate, alcune cinte da mura, altri solo da steccati. Si alternavano strade sterrate e altre coperte di pietre lisce un po’ sconnesse. L’odore delle cucine si mischiava a quello degli animali e delle feci o col profumo di fiori e di pini. Alcune strade erano silenziose, altre più rumorose. Incrociammo bambini che correvano gridando da un cortile all’altro, signore in kimono intente a parlottare fuori da qualche locale e uomini che vociavano tra loro mentre lavoravano.
Non c’erano negozi con vetrine, né konbini: sembrava un villaggio di campagna e proprio non capivo come fossi finito lì dal set televisivo!
Gradualmente le strade diventarono un sentiero e una foresta prese il posto delle case. Il profumo della resina si fece più intenso ed ogni altro rumore scomparve lasciando spazio solo ad un grande silenzio, riempito dallo scricchiolare del legno degli alberi.
Non capivo quanto tempo fosse passato, forse ore intere o forse pochissimi minuti. Avevo perso la cognizione del tempo, il dolore mi annebbiava i sensi, la gamba aveva ripreso a farmi male più di prima come se la forza di gravità stesse tirando a sé l’osso ed ogni minimo sballottamento dovuto alla corsa non faceva che darmi una fitta dolorosa. Avrei voluto strillare, non me ne importava un fico secco di sembrare un debole, ma avevo la gola in fiamme e talmente secca che forse non sarei riuscito ad emettere alcun suono.
Ad un certo punto vidi davanti a noi un portale con un enorme cancello in legno, ma quando lo raggiungemmo la donna in testa al gruppo entrò spingendo una porticina laterale più bassa. Dall’altra parte, in un grande spiazzo di terra chiara, sembrava svolgersi un allenamento di kendō: c’erano tantissimi uomini con la loro spada di bambù che si allenavano combattendo gli uni contro gli altri.
«Rie sama» salutarono alcuni inchinandosi profondamente con i pugni chiusi davanti al viso
«Rie, cosa ci fai a casa a quest’ora?» un esclamazione si sollevò dal gruppo.
Mi scaricarono a terra malamente, ma ne fui felice: certo ero tornato alla situazione di partenza, a terra e dolorante, ma almeno non avrei più subito gli scossoni della corsa.
«Per favore, fratello, non ha un posto dove andare e i guerrieri dei Tokudaiji lo avrebbero imprigionato» sentii la voce della donna insistere e strabuzzai gli occhi. Un primo pensiero lucido mi attraversò la mente: stava cercando di farmi ospitare lì? In una palestra di kendō? La gente sembrava uscita di senno.
«Ospedale» rantolai e poi tossii per schiarirmi la voce. «Non qui, va bene l’ospedale» spiegai con le lacrime agli occhi: volevo un medico, un’ingessatura e uno stramaledetto letto! Cosa pagavo l’assicurazione sanitaria a fare se poi mi portavano in una palestra di arti marziali quando mi rompevo una gamba?
«Ma come parla?» domandò un uomo vicino alla donna che mi aveva aiutato. «Che città è questa Ospedale? Non l’ho mai sentita»
«E’ uno straniero, fratello. Aiutiamolo, non ha nessuno che conosce e che possa aiutarlo ed è lontano da casa» insisteva lei
«Non possiamo accogliere tutti quelli che attaccano briga coi Tokudaiji, Rie. Non significa che siano per forza nostri amici» scosse il capo l’uomo
«Ma fratello» fece la donna prima di essere interrotta
«Fatelo vedere a me».
Un uomo con una barba brizzolata e un primo accenno di rughe ai lati degli occhi si piegò su di me e mi costrinse a stendermi del tutto per terra. «Sicuramente non è di queste parti, nessuno si veste così qui da noi» osservò prima di tirar fuori un piccolo pugnale. «Perdonami, ma devo vedere la tua gamba» spiegò per rassicurarmi, dato che alla vista della lama avevo tentato di strisciare all’indietro.
Ero abbastanza certo che non volesse pugnalarmi e infatti non era per quello che avevo cercato di allontanarmi, ma piuttosto perché avevo intuito che volesse rompere i jeans e quei Levi’s costavano una fortuna!
Però ero sempre un topo in gabbia, quindi non avevo né il modo, né tantomeno la forza di oppormi: ascoltai a malincuore il rumore dello strappo nei pantaloni. Una persona normale penserebbe che è più importante la salute di un paio di jeans, ma… cavoli, erano costosi e non li avevo nemmeno comprati io! Detesto sprecare i buoni regali.
Senza tante cerimonie e senza nemmeno avvertirmi mi prese la gamba e con un gesto deciso riassestò le ossa. Per qualche secondo non vidi nulla, accecato dal dolore. Forse non riuscii nemmeno ad urlare nonostante avessi aperto le labbra per farlo, o forse emisi qualche suono ma non riuscii ad udirlo. Tutti i muscoli del corpo che si erano contratti per lo spavento e il dolore si rilassarono improvvisamente e mi sentii sul punto di svenire.
«Qualche bastone e alcune tele» ordinò lo strano medico. «Uniteli insieme e usiamoli per trasportare lo straniero».
Dopo i primi momenti il mondo tornò ad essere visibile, anche se mi sembrava pieno di chiazze scure e un po’ appannato. Alcuni uomini si erano raggruppati intorno a noi dopo aver interrotto l’allenamento e mi fissavano, qualcuno incuriosito, qualcuno con l’espressione sofferente, come se partecipasse al mio dolore. Perché c’era quella gente intorno a me invece di esserci dottori, chirurghi ed esperti?
«Padre, lo volete prendere in casa?» domandò il tizio che era contrario alla mia permanenza lì esattamente quanto me
«Fino a prova contraria lo straniero non è nostro nemico e non sarebbe cortese lasciarlo ferito e solo fuori da casa nostra ora che è qui» spiegò l’uomo passandomi una mano sulla fronte. Non aveva ancora capito che doveva portarmi in ospedale, ma almeno era gentile. «Ha la febbre alta. Rie, vai in casa e fai preparare gli impacchi. Toshiaki, ordina che sia preparata la stanza degli ospiti, intanto i tuoi fratelli mi aiuteranno a trasportare il nostro ospite» spiegò ad un bambinetto che annuì e si allontanò di corsa.
L’uomo impartì altri ordini e con grandi sofferenze (per me) venni spostato su una barella di fortuna. «Come ti chiami straniero?» mi chiese con un sorriso benevolo
«Nino» tossii e mi passai una mano sul viso togliendomi di dosso uno strato di sudore. «Ninomiya Kazunari» risposi con voce roca
«Ninomiya sama, il mio nome è Toshiya e sono il capo della famiglia Morikawa. Ti ho sistemato la gamba, anche se non so dirti se ci sia qualcosa di rotto o meno. Comunque mi occuperò io di te»
«L’ospedale va benissimo» ribattei. Non è che non apprezzassi la cortesia del signor Morikawa, che mi aveva appena sistemato un osso e mi trattava anche con grande rispetto, solo che volevo che un medico vero mi facesse una lastra e mi mettesse il gesso. Avrebbe dovuto essere così e non capivo perché quegli sconosciuti si ostinassero a voler fare tutto da sé, accidenti.
«Sei lontano da casa, Ospedale non si trova da queste parti, ma ti prometto che farò del mio meglio perché tu possa rimetterti presto» rispose l’uomo, angelico.
Non c’era niente da fare. Mi rassegnai ancora una volta: come il topo, non potevo scappare e in quel momento non sapevo nemmeno come spiegare che “ospedale” era un edificio, non una città.

Quando mi svegliai era giorno. Aprii gli occhi e vidi un soffitto a me sconosciuto illuminato dalla luce che inondava la stanza. Mi dava fastidio e nascosi la faccia sotto la coperta con un gesto che sembrò costarmi tutte le energie che avevo in corpo.
«Sei sveglio?» pronunciò una voce sottile.
Quando girai la testa vidi una donna seduta di fianco al mio futon, steso a terra. «Chi sei?» mormorai stancamente
«Sono Rie» rispose lei con un sospiro e un sorriso benevolo
«Devo andare in bagno» dissi subito dopo, sentendo lo stimolo
«Dove vuoi andare?» chiese confusa
«La pipì» spiegai rapidamente. Più ci pensavo più mi scappava.
«Vado a chiamare qualcuno che ti dia una mano ad alzarti. Tornerò quando avrai fatto» spiegò alzandosi da terra e uscendo da una porta a scorrimento.
Un giovane in kimono da lavoro venne ad aiutarmi dato che non stavo in piedi da solo. Ero stanco e mi scappava troppo per fare storie, ma quando mi fossi sentito meglio speravo vivamente mi avrebbero concesso di andare sul serio in bagno, perché non mi entusiasmava l’idea di dover fare i miei bisogni in un vaso da notte.

Mi svegliai una seconda volta ed era notte.
Il buio sembrava totale e il silenzio era talmente profondo da farmi pensare che oltre la mia stanza il mondo fosse scomparso, inghiottito dal nulla. Mi chiesi addirittura se non stessi ancora sognando, ma i miei occhi si abituarono all’oscurità e cominciai ad intuire lo spazio intorno a me: al contrario, i sogni di solito sono luminosi, alcune cose ci appaiono indistinte e un po’ opache, ma quello che dobbiamo vedere, anche se sogniamo una scena notturna, lo vediamo sempre benissimo. Ad avvalorare l’idea che fossi sveglio per davvero si aggiunse una folata di vento. Il silenzio era tale che non sentii solo l’agitarsi delle foglie, ma anche lo scricchiolare dei rami e una pigna o altro che cadeva a terra. Quel rumore d’alberi sembrò quasi frastornante e immaginai dovesse esserci una foresta fuori da quella stanza.
Stavo sudando, quindi decisi di mettermi seduto e levarmi di dosso le coperte. Quando provai un movimento la gamba mi fece male e trattenni a stento un’imprecazione, ma quel dolore mi regalò una consapevolezza che avevo temporaneamente perso. Improvvisamente ricordai ogni cosa: la caduta, i soldati, la folla, la corsa, il dolore…
Lentamente, aiutandomi con le mani, mi misi a sedere lasciando le gambe distese sul materasso e una volta raddrizzatomi scostai le coperte. Non lo feci certo per guardarmi, dato che a malapena intuivo la mia sagoma scura che spiccava sul bianco del futon, quanto per sentire un po’ di aria fresca sulla pelle. Tastandomi con grande delicatezza le gambe mi resi conto che il ginocchio destro era più gonfio e l’arto era steccato e fasciato, ma non mi avevano ingessato quindi non doveva essere così grave.
Sentendomi un po’ più sollevato cercai di fare mente locale di ciò che ricordavo, ma non trovai risposta alle mie domande, quindi decisi di capire prima di tutto dove fossi e se fossi al sicuro.
La stanza era buia e la notte era silenziosa, ma riuscii a distinguere dapprima dei capelli neri lunghi che spiccavano sul pavimento chiaro, dopodiché intuii tutto il resto del corpo di una donna che dormiva a terra vicina al mio futon.
«Ehi senti» accennai a bassa voce, un po’ intimorito.
Bastò quel mio sussurro e lei si svegliò immediatamente, mettendosi a sedere. «Ti sei svegliato» osservò acutamente. Sembrava totalmente sveglia dalla voce, quindi forse prima non stava dormendo. «E sei persino seduto, significa che stai meglio»
«Chi sei? E dove siamo?»
«Mi chiamo Rie. Ti ricordi dei guerrieri al mercato? Sono io che ti ho portato via di là»
«Sì, mi ricordo. Ti ringrazio» dissi piegando il capo. «Io sono»
«Ninomiya Kazunari, lo so» mi interruppe. «Nelle ultime due settimane ti sei svegliato spesso e ogni tanto, oltre a chiedermi chi fossi, ti sei presentato a tua volta» spiegò ridacchiando. «Riguardo al “dove sei”, questa è casa mia. O meglio, è la casa di mio padre: Morikawa Toshiya. La nostra tenuta si trova nelle terre degli Ujie, sotto il dominio della famiglia Tokudaiji. Tu da dove vieni?».
La fissai stancamente. Che razza di indicazioni erano quelle? Non ce l’aveva un nome quella città? Sapere chi ci abitava non mi avrebbe di certo aiutato a capire dov’ero finito, quindi qual’era la provincia in cui mi trovavo?
«Io vengo da Tōkyō, nella prefettura di Tōkyō. Questa che prefettura è?» cercai di indagare
«Cos’è una prefettura?» chiese lei. «È così che si chiamano i territori dalle tue parti?»
«Veramente si chiamano così in tutto il Giappone» le feci notare
«Capisco» annuì la donna incrociando le gambe
«Io no, faresti capire anche a me?»
«Dopo, ora avrai fame immagino» e nel momento in cui me lo disse sentii una voragine al posto dello stomaco. «Vado a prenderti qualcosa dalle cucine e quando ti sentirai meglio parleremo ancora» propose prima di alzarsi in piedi. Uscì silenziosamente dalla stanza e mi lasciò da solo.
Sentii i suoi passi sul pavimento del corridoio. Il legno scricchiolava lentamente segnalandomi che stava passando alle mie spalle e che quindi doveva esserci un passaggio dietro quella parete della stanza. Quanto lungo però non potevo dirlo con certezza perchè i rumori continuarono a sentirsi ancora per molto, sempre più attutiti: anche l'uscita era da quella parte? Quanto lontano? Ma non era importante, non sarei mai riuscito a non fare rumore in una casa pavimentata in parquet antico.
La donna tornò dopo parecchi minuti con un vassoio: c’erano una ciotola di riso, del pesce abbrustolito e della misoshiru con tōfu. Il tutto rigorosamente freddo. Dato che aveva portato anche una candela sul vassoio ne dedussi che mancava la corrente, altrimenti come spiegare la mancata scaldatina al microonde? Il pesce non era nemmeno pulito, quindi mi ritrovai nel cuore della notte a togliere le spine al lume di una candela.
«Posso dirti la mia opinione?» domandò la donna fissandomi mentre succhiavo avidamente anche la più piccola lisca: mi sembrava di non mangiare da una vita! «Tu sei uno spirito»
«Ritenta» biascicai con le labbra già sull’orlo della ciotola della misoshiru
«Parli proprio strano» annuì. «Allora, sei uno spirito o no?»
«E’ una candid-camera?» chiesi appoggiando le bacchette al vassoio e guardandomi in giro. Grazie alla candela non vedevo più niente dell’ambiente intorno a me, a meno che non lasciassi abituare di nuovo gli occhi all’oscurità.
«Senti, vogliamo andare avanti a farci domande senza dare risposte?» fece lei con uno sbuffo. «Io ti chiedo una cosa, tu rispondi e poi ne chiedi una a me»
«Ok» risposi tornando alla cena, convinto che fosse un po’ esagerato rompermi la gamba per una candid-camera. «Va bene» dissi quando notai che la donna davanti a me mi fissava come se le avessi parlato in russo.
«Bene, dunque sei uno spirito?» insistette
«Oh che diavolo, no! Mi sono rotto una gamba, come faccio ad essere uno spirito?» sospirai esasperato
«Non ho detto “fantasma”, ho detto “spirito”» ribattè sussurrando. «E non urlare o sveglierai tutti!»
«Ok, ok, non urlo» borbottai. Cosa non quadrava in quella situazione? Perché qualcosa sicuramente impediva alla nostra conversazione di andare nel verso giusto. «Non sono né un fantasma, né uno spirito. Come diavolo ti viene in mente?»
«Ti ho visto quando sei comparso. Prima non c’era nessuno e improvvisamente sei apparso nel cielo. Eri nell’aria, sopra la via del mercato, e poi sei piombato a terra. Se non sei uno spirito chi può fare magie simili?» domandò aggrottando le sopracciglia.
Alla luce della candela, e finalmente con un po’ di lucidità, riconobbi il suo viso. Il giorno che mi ero ferito, i capelli erano nascosti sotto il cappello, ma ricordavo come un sogno alcune delle volte in cui dovevo essermi invece svegliato: lei era sempre stata vicina al mio letto. Aveva il viso tondo e i tratti morbidi, ancora un po’ fanciulleschi. Gli occhi avevano le ciglia lunghe e sembravano vedere nel buio meglio di quanto non facessero i miei.
«Non faccio magie» le dissi. Non era proprio la verità, ma io facevo trucchi di prestigio, mentre lei parlava di capacità ben diverse. «Sono un essere umano come te. Vengo da Tōkyō e ti giuro che io ero lì, poi non so cosa è successo ma, puff, mi sono ritrovato qui e sono caduto a terra. Non volo e non so teletrasportarmi. Non so che giorno sia, dove siamo, né come ci sono arrivato» spiegai con calma. «Avete un telefono? Posso chiamare qualcuno che mi faccia venire a prendere»
«Telefono?» ripetè lei
«O un cellulare» suggerii, ricordandomi che era saltata la corrente e la rete fissa quindi non avrebbe funzionato
«Cellulare?» continuò a dire pensierosa. Mi prendeva in giro o era solo scema? Quel suo farmi il verso cominciava ad infastidirmi. «No, non esistono queste cose da noi. Ospedale dov’è? È vicina a Tōkyō, la tua città?»
«Vorrai scherzare, un ospedale non è una città» sospirai esasperato, posando sul vassoio la ciotola di riso svuotata fino all’ultimo chicco. «Vuoi dirmi che non avete un ospedale nelle vicinanze? Né un telefono? E nessuno ha un cellulare? Ma dove siamo, in Burundi?». Ero sconcertato, per un attimo pensai che la fasciatura fosse una finta e che io fossi veramente vittima di un pessimo scherzo.
«Te l’ho detto, siamo nel regno dei Tokudaiji. Qui sono loro che hanno preso il comando dopo che lo shōgun ha perso influenza, forse nel tuo territorio quelle cose ci sono, ma qui da noi no» mi spiegò lei con molta calma. Mi rispondeva con la pazienza di una maestra d’asilo in presenza del più somaro della classe. Era snervante.
«Un attimo. Shōgun?» domandai, improvvisamente colpito da quella parola. «Che significa? Il sistema shogunale è stato smantellato da più di un secolo». La guardai con gli occhi sgranati, mentre lei non sembrava altrettanto sorpresa. Forse perché si era abituata all’idea che io fossi uno spirito quindi qualsiasi cosa mi fosse successa ad un uomo qualsiasi non poteva essere più tanto strabiliante. «Che giorno è oggi?» domandai
«Sono passate quasi due settimane dal tuo arrivo qui, hai avuto la febbre molto alta. Oggi è il ventitreesimo giorno del decimo mese di quest’anno» rispose
«Di quale anno?» insistetti
«Non saprei, queste sono cose che sa uno studioso. Comunque credo che il tennō¹ si chiami Go-Kashiwabara».
Non avevo mai sentito un nome simile, ma a parte tutto, a meno che in quelle due settimane l’imperatore non fosse morto, io vivevo nell’epoca Heisei. «Non sai dirmi l’anno nel calendario cristiano?»
«Cos’è un calendario cristiano?».
Avevo perso il conto delle parole di cui non conosceva il significato e grazie a quell’irritante particolare cominciai ad unire i puntini: non sapeva cosa fosse un cellulare, quindi dovevo essere finito in una campagna molto isolata, ma se non c’era nemmeno un telefono, o ero finito nel posto più remoto del Giappone oppure c’era qualcosa di strano. Le prime telecomunicazioni moderne in Giappone erano arrivate alla fine dell’800, così come la figura dello shōgun² era scomparsa a metà del diciannovesimo secolo, ma se la donna davanti a me non sapeva nemmeno cosa fosse un calendario cristiano allora dovevo andare molto più indietro! I primi contatti con gli occidentali erano avvenuti nel 1500, ma non potevo certo pretendere che un popolano qualsiasi sapesse subito chi fossero i portoghesi e cosa fosse il cristianesimo: era un’epoca feudale, mica usavano twitter per farsi sapere le cose. Quindi o gli europei c’erano e lei non lo sapeva, oppure non c’erano affatto e quello era un Giappone ancora più antico.
«Chi è lo shōgun?» domandai sudando freddo. Non sapevo molto degli imperatori, ma qualcosa degli shōgun sì: avevo giocato un sacco di videogame di strategia e di combattimento ambientati nel Giappone feudale.
«Ti ripeto che non ne so molto di politica» mi rispose scuotendo il capo. «Non mi interesso e poi lo shōgun ora non è tanto importante. Ormai sono alcuni anni che molti dei suoi sottoposti agiscono in maniera totalmente indipendente. I Tokudaiji erano una famiglia cadetta, ma i legami con le persone al potere erano molto blandi quindi sono stati i primi a commettere tradimento e a dichiarare proprio questo territorio» tentò di raccontarmi ciò che sapeva. Non era molto, ma per essere una donna di quel periodo sapeva anche troppo.
Non erano molte informazioni, e tutta la situazione in sé era abbastanza assurda, comunque quel che sapevo era sufficiente per farmi capire che il periodo al quale si riferivano i racconti della ragazza era quello a cavallo tra il 1400 e il 1500, in una delle epoche più sfruttate da sceneggiatori di manga, anime, film e videogiochi: l’era Sengoku.³
Mi lasciai andare tornando disteso sul futon. «Stai bene? Sei pallido» mi fece notare lei. Mi veniva voglia di strozzarla: ma come si fa a stare bene quando tutto fa pensare di essere stati catapultati indietro nel tempo? Senza sapere nemmeno come, tra l'altro.
«Va bene, mi avete spaventato a sufficienza. Adesso basta per favore, lo scherzo è durato anche troppo» sbuffai cercando di rigirarmi su un fianco, ma la gamba dolorante e steccata mi impedì il movimento. Era una realtà che non potevo negare, ma ancora non volevo crederci.
Mi gettai la coperta addosso nascondendo anche il viso e non risposi a nessun richiamo e a nessuna domanda. Quando si fossero decisi a smetterla di prendermi in giro avrei ripreso a parlare, ma non avrei dato altro materiale da far mandare in onda per quella stupida candid-camera.
Lei se andò di nuovo, portando via il vassoio e la candela, ma poi tornò, spense la fiamma e rimase con me nella stanza, senza muoversi.

¹ Il tennō 天皇 è il nome giapponese della carica di imperatore
² Lo shōgun era la carica più alta delle forze armate del paese. Dopo un po' che si era stabilita questa carica e con il decadere dell'effettivo potere della corte imperiale, lo shōgun era colui che a tutti gli effetti controllava l'impero giapponese (anche perchè la forza militare è sotto il suo comando)
³ L'epoca Sengoku (1478 - 1605) viene chiamata anche periodo degli stati combattenti in cui il potere dello shōgun era indebolito e i suoi sottoposti che controllavano varie zone del Giappone cominciarono a combattere tra loro per avere maggior potere. Questo periodo è molto sfruttato per videogiochi, libri, anime e manga (es: Inuyasha).


Nel prossimo capitolo
«Ok, senti, sono confuso, quindi non so bene da dove cominciare»
«Comincia col dirmi chi sei» propose fissando lo sguardo sul giardino di casa sua
«Io sono giapponese e sono un essere umano. Solo che non appartengo a questo Giappone. Sono abbastanza sicuro di venire dal futuro».

«Va bene, ti credo» annuì ed io non riuscii a trattenere un sorriso di vittoria che forse l'oscurità le nascose perchè non sembrò notarlo. «Vai a riposare, Ninomiya sama. Domani ti aspetta un lungo colloquio» sembrò ordinarmi. «E se non prendi sonno comincia a pensare a cosa dirai. Io non farò parola a nessuno di ciò che abbiamo scoperto stasera: dire la verità o inventari qualche storia è una tua scelta; farò finta di non sapere nulla».
Perchè non rivelare ai suoi stessi parenti chi stavano tenendo nelle loro stanze? O magari era un test per vedere se avessi detto tutto anche dandomi la possibilità di mentire?

«Vorrai capire come tornare a Tokyo, no?» domandò con un sorriso timido
«Ti ringrazio, ma non è detto che io rimanga in questa casa». Io che venivo dal futuro avevo solo un'incognita grossa come una casa davanti a me.
«Se al mio ritorno sarai ancora qui mi racconterai qualcosa del tuo mondo?»

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Capitolo 3
*** 2. Il Giappone di ieri, il Giappone di domani ***


Passai i successivi tre o quattro giorni in preda ad una forte febbre.
Le coperte mi si appiccicavano addosso per il sudore, ma allo stesso tempo tremavo di freddo e avevo quasi paura a tirar fuori la testa dal letto per guardarmi intorno, cosa che, pure a volerla fare, non avrei potuto, perchè avevo il bioritmo totalmente sballato: dormivo in pieno giorno quando c'era luce sufficiente a vedere ciò che mi circondava.
Il rovescio della medaglia era che stavo sveglio la notte, e il silenzio allora era talmente profondo da angosciarmi più di ogni altra cosa. In quelle ore di buio totale era più come se stessi vivendo un incubo, che la realtà.
L'alba poi non era motivo nè di sollievo, nè di terrore peggiore di quello che avevo avuto prima e che avrei avuto anche dopo: ogni volta che la luce si faceva più intensa mi addormentavo sperando di svegliarmi nel mio letto, ma non succedeva mai.

Una di quelle notti mi svegliai già stanco. Capii subito che quella sensazione significava che stavo meglio: era la stanchezza tipica di quando si riposa troppo, quella che accompagna una malattia.
Pur se al buio, ero solito lanciare qualche occhiata intorno per controllare chi o cosa fosse vicino a me, e mi accorsi che la donna che mi ero sempre ritrovato in camera non c'era. La porta scorrevole infondo alla stanza era aperta e il vento fresco della sera arrivava fino al mio letto smuovendo le lenzuola. Ebbi l'impressione che quella brezza mi stesse invitando ad uscire e mi riscoprii a desiderare di seguirla: dovevano essere quasi tre settimane che non mi alzavo da lì, avevo male al sedere e alla schiena quindi un po' di movimento sarebbe stata una novità gradita.
Lentamente e con molta attenzione, mi alzai a sedere e mi girai di modo da mettermi carponi sul materasso: avrei gattonato fino alla porta trascinandomi la gamba dolorante e in quel modo mi sarei mosso rapidamente anche se azzoppato. Certo, delle stampelle avrebbero fatto comodo, ma che potevo pretendere?
Arrivai all'uscita senza fare troppo rumore e il vento mi schiaffeggiò il viso scompigliandomi i capelli, più lunghi di quanto ricordassi.
Appena oltre la soglia c'era un ballatoio in legno levigato, coperto da una tettoia anch'essa in legno, sostenuta da alcune colonne. Raggiunsi la più vicina e mi ci aggrappai abbracciandola, dato che era il sostegno più simile ad una stampella che potessi avere: il ballatoio infatti non era provvisto di parapetto. Mi trovavo a piano terra che, come in tutte le case tradizionali, si trovava solo a poco più di un metro dal suolo. Mi alzai in piedi facendo leva sulla gamba sana e quando finalmente mi ritrovai in posizione eretta mi sembrò di rinascere nonostante un violento capogiro.
Pur certo che non dovevo essere cresciuto in quelle settimane, mi sentii altissimo dopo tutti quei giorni passati steso a livello del pavimento, e lasciai spaziare il mio sguardo sul panorama oltre il ballatoio, sentendomi come un leone che osserva la savana dall'alto della sua rupe.
La luna piena sconfiggeva l'oscurità che sarebbe altrimenti stata totale non essendovi luce elettrica. Potevo così vedere sagome e ombre di un vasto giardino: alcuni alberi stavano perdendo le foglie e altri cespugli erano già del tutto spogli, un sentiero di chiare pietre levigate portava dalle scale del ballatoio -lontane alcuni metri da me- ad un lontano ponticello che si piegava ad arco su un grande stagno. Potevo vedere la sagoma della luna riflessa nelle sue acque leggermente agitate da quella che doveva essere una piccola cascata. Ne sentivo il rumore ora che ero uscito, ma non doveva essere molto vicina anche perchè non riuscivo a vedere nemmeno la sua schiuma in quel buio. Intorno all'ampio spazio del giardino si alzavano delle mura e oltre di esse c'era una foresta scura che si arrampicava su per la montagna della quale, sopra la mia testa, vedevo la vetta, quindi non doveva essere molto alta.
Davanti all'imponenza della natura e al timore che mi incuteva, tornai a sentirmi piccolo, solo e sfigato: altro che leone nella savana; però non ebbi tempo per demoralizzarmi perchè sentii un sospiro alle mie spalle e girai la testa per tornare a guardare verso la porta della mia stanza.
La tizia che mi aveva assistito in tutti quei giorni era rannicchiata a terra, sulla destra della soglia e io non l'avevo nemmeno notata uscendo.
«Sei Rie, giusto?» domandai per sicurezza. Dopo la sera del pesce a lume di candela non le avevo più rivolto la parola se non per dire che dovevo andare in bagno. Non era colpa sua, ma mi era stata antipatica tutto il tempo perchè essendo la più vicina, era anche il miglior obiettivo su cui scaricare la mia rabbia e la mia frustrazione.
«Giusto, Ninomiya sama» rispose lei annuendo ed alzandosi dal pavimento. «Sei in piedi, significa che stai meglio»
«Dipende dai punti di vista» riuscii solo a rispondere. Fisicamente ero ok, mentalmente non volevo ancora accettare la realtà e ci stavo male.
«Domani allora incontrerai mio padre. Ti va se parliamo un po' noi due prima?» suggerì sedendosi di nuovo a terra, stavolta vicino a me, con le gambe che penzolavano giù dal ballatoio.
Sempre tenendomi alla colonna tornai per terra con molta calma, poi mi sedetti tenendo la gamba sana ciondolante come le sue e quella ammaccata distesa sul legno. Appoggiai la schiena contro la colonna e feci un sospiro profondo: niente scivoloni, niente cadute e niente lamenti da femminuccia. Grandioso!
«Abbiamo pulito i tuoi vestiti. Ti proporrei di rimetterli, ma sono stati rovinati» cominciò la ragazza
«Credo di avervi disturbato abbastanza, non dovete anche vestirmi. E poi penso che almeno domani mi darebbe sicurezza rimettere le mie cose».
Non sapevo come l'avrebbe presa il signor Morikawa se mi fossi presentato davanti a lui in jeans e maglietta nera con una luna contro cui spiccava la sagoma di E.T. sulla bicicletta volante, ma al diavolo: lui manco sapeva chi fosse E.T.!
«Hai voglia di parlare stasera? Domani dovrai comunque farlo: a mio padre devi delle risposte» mi spiegò in tono conciliante, ma era chiaro che avrei dovuto spiegare qualcosa il giorno dopo, volente o nolente.
«E a te?» azzardai a chiedere
«A me non devi niente» spiegò scuotendo il capo
«Ti devo la vita, forse» pronunciai quelle parole con fare pensoso. Non avrei mai creduto che nella mia vita avrei pronunciato simili parole. Nella realtà perlomeno, in un film ci poteva stare.
«Ma non l'ho fatto per avere in cambio qualcosa» specificò
«Quindi tuoi padre sì?» ragionai
«Gli sei debitore» ribattè come se fosse stato un dogma a cui non doveva seguire alcuna spiegazione
«Ok, senti, sono confuso, quindi non so bene da dove cominciare»
«Comincia col dirmi chi sei» propose fissando lo sguardo sul giardino di casa sua
«Bene, allora, sono Ninomiya Kazunari» cominciai, convinto che tanto non avrebbe capito nulla di quel che le avrei detto. «Vengo da Tōkyō. Il mio lavoro è fare l'idol: faccio parte di un gruppo di cinque persone. Noi cantiamo, recitiamo, facciamo programmi televisivi per far ridere le persone e programmi radiofonici per passare la musica nostra e di altri artisti. A volte facciamo i modelli, ci ingaggiano per delle pubblicità e ci è capitato di comparire su degli aeroplani con la nostra faccia grande, non so, trenta volte più del normale? Sì, più o meno» spiegai stringendomi nelle spalle.
Lei mi osservò perplessa. Se avessi parlato inglese non avrebbe fatto differenza.
«Ninomiya sama, parli sul serio?» mi chiese facendosi scura in viso
«Beh, nessuno si è messo a ridere» puntualizzai
«Quindi è vero» fece girandosi completamente verso di me e raccogliendo le gambe, incrociandole sul legno del pavimento. «Tu non sei di questo mondo»
«In parte sì e in parte no. Non è così facile» balbettai confuso. «Io sono giapponese e sono un essere umano. Solo che non appartengo a questo Giappone» tentai di spiegare
«E a quale allora?»
«Sono abbastanza sicuro di venire dal futuro».
Non si ha idea di quanto ci si possa sentire idioti a dire una cosa del genere finchè non lo si prova e, dato che non sono tanti quelli che fanno viaggi nel tempo durante i weekend liberi, nessuno realizzerà mai una cosa simile: tutti continueranno a pensare che sia una delle battute più cool da dire, io che invece la dissi mi sentii un imbecille, nonostante fosse la verità.
«Penso che sia successo qualcosa che mi ha fatto viaggiare indietro nel tempo. Di cinquecento anni, credo» conclusi per poi intrecciare tra loro le dita delle mani, posate in grembo. Appoggiai la testa alla colonna dietro di me. Era una realtà faticosa, ma in quei giorni mi ero reso conto che fuggire e nascondermi non era servito a niente, se non a stancarmi di più.
«Come lo sai?» mi chiese pacata
«Come lo so? Un attimo, non mi dirai che te la sei bevuta così? Che mi credi subito?» esclamai spalancando gli occhi
«Non alzare la voce» mi rimproverò mettendosi un dito davanti alle labbra. «Ti credo, sì. E' un'ipotesi più plausibile di quella dello spirito, no?» non c'era niente di plausibile in quella situazione, ma annuii: sì, per assurdo era più credibile che un misterioso Doc mi avesse sbattuto in una Delorian invisibile, piuttosto che pensare che fossi un essere dotato di strani poteri.
«Quanto hai capito di ciò che ho detto prima?» le chiesi
«Quasi niente» rispose lei scuotendo il capo
«Ecco come lo so. Non sapevi cos'era un telefono e nessuno di voi conosce gli ospedali. Inoltre non conoscete Tōkyō e se ti parlo di idol, programmi televisivi, radio, pubblicità e aerei è come se parlassi arabo»
«Che lingua sarebbe?» chiese confusa.
La fissai incredulo, ma poi mi venne in mente che i giapponesi dell'epoca non avevano grandi conoscenze geografiche all'infuori del loro paese, della Cina e forse della Corea. «E' una lingua parlata in un paese lontano» spiegai con pazienza
«Così io non so niente del tuo Giappone. Ma tu cosa sai del mio?» fece con una vena di ostilità. «Mi hai riempita di domande qualche sera fa, quindi nemmeno tu sai granchè»
«Dovevo capire in quale Giappone fossi, no?» risposi piccato. «E comunque ne so a valanghe di questo... questo tempo qui, questo Giappone dove vivi tu» dissi indicando intorno a lei. «Io l'ho studiato sui libri. Lo so cosa sta succedendo: è l'epoca Sengoku, i sottoposti dello shōgun si stanno sganciando dal suo controllo perchè la sua presa politica è debole e chi prima, chi dopo, tutti alla fine cominceranno a rivendicare come proprio il territorio che prima controllavano in sua vece. Ognuno vorrà sempre più terreno e comincerà a lottare con i vicini. E' un periodo di guerre continue, almeno finchè...» avrei voluto parlarle di Oda Nobunaga e della sua missione riunificatrice del paese, ma mi bloccai. Nei fumetti succede sempre un gran casino se si svelano i dettagli del futuro alla gente del passato.
«Finchè?» insistette lei
«Finchè qualcuno di più forte non prevarrà su tutti» conclusi impacciato. Avevo apposta usato dei paroloni nel mio discorso per impressionarla e convincerla: la verità era che non sapevo molto dei dettagli di quell'epoca, ma dovevo pur convincerla di aver ragione io a dire che venivo dal futuro.
«Va bene, ti credo» annuì ed io non riuscii a trattenere un sorriso di vittoria che forse l'oscurità le nascose perchè non sembrò notarlo. «Anche perchè so che la magia esiste, quindi è possibile che sia accaduta una cosa simile. Ma quel che non capisco è come»
«Ne so quanto te. Non sapevo che sarei finito qui perchè non ho fatto niente di» mi bloccai spalancando gli occhi. Raddrizzai la schiena staccandomi dalla colonna. «La magia esiste?» domandai balbettando
«Mi hai spaventato» sospirò la ragazza che mi aveva fissato esterrefatta. Forse aveva creduto che mi fossi ricordato qualcosa.
«Che diavolo, va bene tutto, ma se ora spuntano fuori maghi e bestie strane mi toccherà ritrattare le mie convinzioni: non vengo dal futuro, sono finito in un video gioco!» esclamai shockato
«La vuoi smettere di urlare?» fece piegandosi verso di me e mettendomi le mani sulla bocca. «Nel mio Giappone la magia c'è, peccato non possa farti stare zitto grazie ad essa» minacciò socchiudendo gli occhi.
Deglutii e mi segnai mentalmente di parlare piano, quello sguardo non mi piaceva.
«Che magia è?» chiesi piano, quando mi lasciò libero
«Porta male parlarne. Cambiamo discorso» mi rispose girando lo sguardo verso il giardino. Sembrava avessi toccato un tasto dolente.
«Tu ce l'hai?» domandai ancora
«Vuoi smetterla?» fece infastidita, alzandosi dal pavimento. «Ne parli come se fosse una cosa bella, ma non lo è. Non qui» specificò lapidaria.
Si sistemò il kimono che indossava. «Vai a riposare, Ninomiya sama. Domani ti aspetta un lungo colloquio» sembrò ordinarmi. «E se non prendi sonno comincia a pensare a cosa dirai. Io non farò parola a nessuno di ciò che abbiamo scoperto stasera: dire la verità o fingere, dirla tutta o modificarla è una tua scelta; farò finta di non sapere nulla» e fece per andarsene
«Perchè?» chiesi stranito.
Quella era la casa della sua famiglia, loro mi stavano ospitando lì, quindi perchè non rivelare ai suoi stessi parenti chi stavano tenendo nelle loro stanze? O magari era un test per vedere se avessi detto tutto anche dandomi la possibilità di mentire?
Quella donna, Rie, se ne andrò senza rispondere.
Non rimasi a lungo lì fuori da solo. Dopo un po' mi resi conto che faceva freddo e tornai in camera. Chiusi la porta, sì, perchè quel mondo là fuori era ancora totalmente sconosciuto e continuava a spaventarmi, ma dormii profondamente e senza troppa angoscia.

Il mattino dopo venni svegliato alle cinque e Rie non era lì.
Dalla porta laterale entrò un domestico che mi lasciò i vestiti vicino al futon. «Ninomiya sama, vi attendo qui fuori. Quando sarete pronto chiamatemi e verrò ad aiutarvi ad alzarvi se ne avrete bisogno» si inchinò fino a toccare il pavimento con la punta del naso ed uscì dalla porta che quella notte avevo trovata aperta.
Nel fissare il pannello in carta di riso dietro il quale era scomparso, mi resi conto per la prima volta di un risvolto della situazione a cui non avevo pensato. Rie con me aveva parlato in maniera molto sbrigativa fin dal primo momento, data l'emergenza in cui mi ero trovato allora, e così aveva continuato a fare anche i giorni successivi, quindi non avevo pensato che il linguaggio potesse essere un problema. In quel Giappone feudale però la gerarchia era tutto e alcuni atti di deferenza che io usavo nel mio tempo erano gesti di pura formalità il cui unico significato era il voler essere gentili. A quel tempo invece non erano formalità: usare un certo linguaggio con una persona o con un'altra poteva anche significare offenderla e oltraggiarla al punto da rischiare la vita. La mia idea del Giappone di quell'epoca era quella di una società in guerra, basata sulla forza, sui legami, sull'onore e sulla lealtà, quindi davanti al padrone di casa non avrei potuto esordire con un "Oh, salve", così come non avrei potuto usarlo neanche con un servitore: la gerarchia era rigida, ognuno aveva il suo posto e andava trattato in base a quello. Il problema quindi era capire come rivolgermi alle persone davanti a me e tirar fuori registri linguistici che io non conoscevo o che non ero molto abituato ad usare. Ma poi: che gradino gerarchico occupavano i ventenni venuti dal futuro?
Senza trovare risposta, indossai la maglietta, i boxer e i jeans. Mi rimisi anche l'orologio al polso. Il fatto che funzionasse mi stupì, non perchè nella caduta avesse preso un colpo sufficiente da fermarlo, ma perchè qualcosa nella testa mi aveva fatto credere le lancette del ventunesimo secolo non avrebbero girato avendo io viaggiato indietro nel tempo di 500 anni.
I pantaloni non erano messi bene e mi pianse il cuore vederli rotti così. Quindi decisi di strapparli del tutto e di accorciarli.
Bermuda ed E.T.: chi non si vestiva così all'epoca?
Per alzarmi usai il bastone che mi era stato portato, ma la gamba stava decisamente meglio. Deciso a non chiamare per farmi aiutare, mi aggrappai al legno e feci forza sulle braccia per issarmi da solo. Lentamente e a fatica mi ritrovai in piedi, anche se malfermo.
«Che bravo, Ninomiya sama» farfugliai tra me, ansimando per tutta quell'improvvisa attività fisica. Ridacchiai perchè quell'onorifico era buffo detto con la deferenza del servitore: erano proprio altri tempi.
«Permesso» sentii dire nel momento in cui provai a fare un passo. Nel girarmi persi l'equilibrio e sarei rovinato a terra facendo un gran baccano se Rie non mi avesse sorretto.
«C'è mancato poco, grazie» mormorai appoggiandomi al bastone
«Stai attento» mi consigliò lasciando andare la presa sulle mie braccia
«Come ti sei conciata?» domandai squadrandola. Non indossava un kimono, ma una tenuta da viaggio scura e abbastanza logora. Si era anche raccolta i capelli in una coda.
«Sto partendo» mi rispose con un sorriso. «Quando ci siamo incontrati ero in missione, ma siccome ho insistito perchè ti aiutassimo, mio fratello mi ha costretta a rimanere prendendomi la responsabilità del nostro ospite».
La fissai incredulo. Avevo pensato a lei come ad una ragazza curiosa e insolente, inoltre mi aveva infastidito il suo continuo domandare e il fatto che non capisse nemmeno la metà delle parole che usavo. Eppure, a parte lei, nessuno della famiglia che mi ospitava si era preoccupato per me e non ricordavo di essermi mai svegliato senza averla in camera. Certo, il signor Morikawa mi aveva curato, ma lo ricordavo ben poco perchè aveva semplicemente fatto il suo lavoro: anche se con molta gentilezza, si era solamente assicurato che mi potessi rimettere e non mi aveva mai rivolto la parola.
Dalla spiegazione che Rie mi rivolse in quel momento capii che si era resa responsabile di una mia eventuale fuga, di danni che avrei potuto causare o di tradimenti, se mi fossi rivelato una spia. Quindi le dovevo molto più che la vita, ma non me n'ero reso conto.
Pensai di essere stato scortese e mi misi a pensare a qualcosa da dirle, ma non me ne lasciò il tempo.
«Devi essere arrivato qui con una magia» cominciò a dire tornando a farsi scura in viso. «Ho molte missioni da compiere dopo queste settimane di inattività, ma farò qualche ricerca: chiederò a chi ne sa qualcosa, si dice che al palazzo dei Tokudaiji ci sia un uomo che sa usarla bene quindi mi informerò, cercherò di indagare e se scoprirò qualcosa che può tornarti utile te lo farò sapere» mi spiegò
«Tornarmi utile?» chiesi confuso
«Vorrai capire come tornare a Tōkyō, no?» domandò con un sorriso timido
«Ti ringrazio, ma non è detto che io rimanga in questa casa» le feci notare divertito, mentre facevo i primi passi verso la porta, dandole le spalle. Ma non c'era niente da ridere: io che venivo dal futuro avevo solo un'incognita grossa come una casa davanti a me.
«Se al mio ritorno sarai ancora qui mi racconterai qualcosa del tuo mondo?» chiese speranzosa
«Se avrai notizie per me, potrei farci un pensierino» concessi stringendomi nelle spalle con un sorriso. Ero arrivato alla porta senza eccessive difficoltà, quindi ero piuttosto soddisfatto di me stesso.
«E' una promessa» la sentii concludere.
Per un momento mi sentii in colpa: le dovevo molto, mi stava offrendo altro aiuto e io la ricambiavo con parole tanto scontrose. Eppure era la mia unica alleata in un mondo che non era il mio! Maledissi la mia difficoltà nell'esprimere sinceramente quel che provavo e, appoggiandomi alla trama in legno della porta, feci per girarmi, ma quando guardai alle mie spalle Rie era già andata via. Forse si era offesa o forse doveva partire in fretta.
«Ninomiya sama, siete pronto?» domandò il domestico quando uscii dalla camera
«Sì, possiamo andare» dissi annuendo col capo.
Ormai Rie era partita ed io ero solo. La mia sopravvivenza dipendeva da me soltanto quindi decisi di concentrarmi sul colloquio che stavo per avere con il signor Morikawa: mi aveva curato, mi aveva ospitato e aveva lasciato Rie al mio fianco come un'infermiera o per tenermi d'occhio; anche a lui dovevo molto, ma dovevo far attenzione a come comportarmi perchè se volevo tornare nel mio futuro lontano era bene che mi prendessi cura di quello più immediato.

La villa dei Morikawa era piuttosto grande. Non che mi fossi guardato molto in giro in quei momenti, ero preoccupato da altro, però il tragitto che feci zoppicando dalla stanza fino a dove incontrai il padrone di casa mi sembrò infinito.
Uscito sul ballatoio fuori dalla porta della camera, voltai a sinistra e lo percorremmo per tutta la larghezza della casa. Svoltammo a sinistra, continuando a seguirlo fino ad un paio di gradini in legno che davano l'occasione di scendere da quel camminamento che entro pochi metri comunque si sarebbe interrotto. Fare quella breve scaletta non fu semplice perchè più usavo la gamba, più tornava a farmi male. Alla fine toccai terra con un sospiro di sollievo e il domestico, che mi aveva atteso un paio di passi più avanti, riprese a farmi strada.
Ancora pochi metri e finimmo di percorrere un intero lato della struttura. Quando svoltammo di nuovo a sinistra mi resi conto che quello davanti a me era lo spiazzo di terra chiara dove ero stato portato il primo giorno. Vidi il grande cancello in legno e la porticina laterale più piccola. Anche quel giorno c'erano uomini con le spade che si allenavano. Indossavano kimono scuri comodi per il combattimento ed erano tutti ammassati in un punto dello spiazzo, concentrati su qualcosa. Urlavano due nomi -"Toshinori sama" e "Nagatoshi sama"- e capii che stavano incitando due persone quando il loro cerchio si ruppe improvvisamente: alcuni si fecero indietro di scatto, altri corsero via per fare spazio alla coppia di combattenti che si stava muovendo oltre i confini creati dal cerchio degli uomini.
Un ragazzo magro e sottile, ma molto rapido, aveva cominciato una feroce offensiva nei confronti del suo opponente, un uomo più alto di lui e dalla massa muscolare molto più sviluppata. Lo potevo constatare perchè si era tolto la parte superiore del kimono e combatteva a torso nudo, sudato come lo sono io durante un concerto al Kokuritsu! Questi subiva l'attacco indietreggiando continuamente, ma si difendeva bene, parando ogni tentativo dell'altro di trovare uno spiraglio per affondare. Gli uomini intorno incitavano i colpi continui urlando: «Nagatoshi! Nagatoshi sama! Nagatoshi sama forza!».
Ad un tratto, come se fino a quel momento avesse subito l'offensiva solo perchè l'aveva reso possibile, il più grande sembrò stufarsi e alzò la mano colpendo con l'elsa il gomito dell'avversario. Colto di sorpresa, il ragazzo magrolino trattenne a stento un grido di dolore e la mano perse la presa sulla spada, dopodichè l'avversario gli diede una spallata che lo fece finire a terra. Quando aprì gli occhi, dopo aver battuto la schiena, si ritrovò la punta della spada in legno davanti al naso e a quel punto la folla inneggiò al vincitore: «Toshinori sama! Toshinori sama è il migliore!».
«Ninomiya sama» mi sentii chiamare. Non mi ero accorto di essermi fermato ad osservare con meraviglia il combattimento e stavo così facendo aspettare il padrone di casa.
Il momento prima di rimettermi a camminare vidi semplicemente che il vinto si rialzava da terra, snobbando la mano che il vincitore gli aveva sportivamente offerto. A me una mano in quel momento non avrebbe fatto schifo, ma era anche vero che per dignità non l'avrei accettata.
Quella facciata della casa che dava sull'ingresso aveva due porte d'entrata ai due estremi, mentre al centro c'era una veranda coperta, molto simile nel design e nel colore del legno al camminamento che avevo percorso, ma larga più del doppio. Era come una stanza più lunga che ampia con uno dei lati totalmente aperto verso lo spiazzo. Delle altre scalettine di legno portavano dal terreno al pavimento rialzato.
Come ogni casa tradizionale, tutta la struttura si doveva trovare ad almeno mezzo metro da terra, ma in quel momento avrei voluto una casa moderna con ascensore, o al limite un montascale.
Seduto al centro della sala, ma vicino al bordo per vedere lo spiazzo, era seduto un signore di mezza età che ricordavo essere il padrone di casa. Leggeva un rotolo di pergamena e un messaggero attendeva, inginocchiato, che questi finisse.
«Ecco il nostro ospite» disse alzando lo sguardo dallo scritto e chinando il capo verso di me. «Prego, sali» mi disse accennando alle scalette con un gesto della mano.
Come dire "prego, mangia la tua fetta di torta" o "prego, c'è un bagno caldo che ti aspetta"! Ero stufo di salire e scendere, e di camminare anche, viste le mie condizioni. Ma non potevo darlo a vedere quindi afferrai bene il mio bastone, mi armai di pazienza e feci quell'infernale paio di gradini.
Nel frattempo l'uomo finì la sua lettura. «Fate accomodare quest'uomo. Ha viaggiato molto per portarmi questo messaggio di mio figlio» ordinò con garbo verso il domestico che mi aveva accompagnato. «Riposate qui e questo pomeriggio vi farò avere la mia risposta e un cavallo fresco» aggiunse verso il messaggero
«Grazie infinite, Morikawa sama» rispose questi inchinandosi fino a toccare il tatami con la punta del naso.
Io intanto ero arrivato in cima a quei pochi gradini e lì mi attendeva un'ulteriore prova, ma stavolta non avrei ceduto: io inginocchiato non potevo starci, mi ero salvato l'articolazione della gamba sinistra per miracolo, se volevano la mia rotula per giocarci a golf avrebbero dovuto dirlo prima di curarmi.
Il messo si alzò e se ne andò accompagnato dal domestico, così io rimasi solo col padrone di casa (e una trentina di guerrieri che si allenavano davanti a noi). Per prima cosa pensai bene di inchinarmi. «Mi... dunque, mi scuserete, ma non credo di poter stare in ginocchio» cercai di dire, parlando lentamente e calibrando bene ogni parola
«No, certo che no. Ho fatto preparare quei cuscini apposta» rispose Morikawa allungandosi per avvicinarli. «Siedi come preferisci e puoi usarli per distendere la gamba. Veramente avrei preferito sederci più comodi, ma mio figlio insiste che devo comportarmi come esige l'etichetta» spiegò con un sorriso benevolo
«Grazie infinite» dissi per poi cominciare a trafficare con i cuscini e il bastone. Ormai stavo diventando pratico e non ci misi troppo ad accomodarmi in terra senza cadere di sedere. Piegai la gamba sana verso l'interno, come se avessi dovuto incrociarla, e la sinistra la lasciai distesa sui cuscini: nervi, tendini e legamenti ringraziarono per il sollievo.
«Devi scusarmi se ti ho costretto a venire qui non appena ho saputo che potevi alzarti, non sono solito trattare così i miei pazienti, ma Toshinori non sarà convinto finchè non saprà chi teniamo in casa»
«Toshinori?» ripetei soprappensiero
«Il mio primogenito, quello che si sta allenando laggiù» me lo indicò e in quel momento ricordai che era uno dei due combattenti che avevo visto prima: per l'esattezza quello grande, grosso e forzuto.
L'armadio a due ante non mi voleva in casa sua, com'ero fortunato!
«Allora, Ninomiya sama. Posso sapere adesso da dove vieni e come mai sei qui?» fece Morikawa con un sospiro, raddrizzando la schiena.
Com'è che nei quiz più importanti non c'è mai la possibilità di una domanda di riserva?


Nel capitolo ho deciso di usare il voi. Il giapponese di allora credo prevedesse parecchie formule di cortesia che io non conosco e che ovviamente non hanno alcun equivalente nella nostra lingua. Mi limiterò quindi a giocare sull'uso del voi -per quando si deve portare rispetto- e del tu -quando si parla tra pari o non c'è bisogno di parlare in maniera particolarmente rispettosa.

Vorrei poter ringraziare qualcuno ma... sta ff sta piacendo solo a me accidenti XD


Nel prossimo capitolo
Avevo due possibilità di risposta. Oltre alla fuga intendo, ma non era plausibile: io zoppicavo e tra me e la porta d’uscita, unica breccia che io avessi visto nelle alte mura bianche che circondavano la casa, c’erano una trentina di uomini armati di spada da allenamento, abituati al combattimento e la maggior parte di loro doveva essere pluriomicida dato il periodo.

«Lo hai sentito, Toshinori?» chiese Morikawa guardando alle mie spalle.
L’uomo muscoloso che avevo visto battersi poco prima si era rimesso la parte superiore del kimono e rimaneva in piedi e in silenzioso ascolto con le braccia incrociate. Lui non aveva mai desiderato avermi in casa sua.
«Gli credi?» domandò ancora il padre.

Sgranai gli occhi: se c’era una cosa a cui non avevo minimamente pensato era cosa poteva essere successo nel mio tempo se io ero scomparso! Ero scomparso da settimane! Mi stavano ancora cercando?

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Capitolo 4
*** 3. Morikawa Kazunari ***


Per gentile concessione di Morikawa Rie, avevo due possibilità di risposta. Oltre alla fuga intendo, ma non era plausibile: io zoppicavo e tra me e la porta d’uscita, unica breccia che io avessi visto nelle alte mura bianche che circondavano la casa, c’erano una trentina di uomini armati di spada da allenamento, abituati al combattimento e la maggior parte di loro doveva essere pluriomicida dato il periodo.
La prima opzione, quindi, era mentire.
Non credo di essere mai stato un buon bugiardo e recitare e mentire sono due cose diverse. So mantenere abbastanza bene una faccia da poker, ma quello avrebbe dovuto essere un altro genere d’inganno. Quale storia incredibile avrebbe spiegato il mio abbigliamento? O il modo in cui ero comparso e piombato dal cielo? O il perché parlassi dicendo cose che non comprendevano? Per non parlare di tutti gli altri dettagli che in quel momento non esistevano, come la mia famiglia, i miei amici, la mia vita. Addirittura la mia città!
Poi, oltre ad architettare una scusa avrei dovuto interpretarla. Ero quasi sicuro che mi sarei contraddetto più che facilmente su alcuni dettagli ed è proprio su di essi che nei film cercano di fregare i personaggi per scoprire se dicono la verità oppure no, se sono spie o alleati. Mi avrebbero colto subito in fallo e a quel punto avrebbero sospettato di me per sempre: se avessi mentito una volta perché non due? Insomma mi sarei giocato la credibilità.
Non rimaneva che la seconda possibilità: dire la verità. Quella famiglia mi aveva soccorso, mi aveva ospitato comodamente e curato, seppur con gentile freddezza. Si erano meritati quella verità.
Il problema di fondo era che pure quel che non era una bugia sarebbe suonata come una balla: colossale, grossolana e piena di falle. Infatti, per assurdo, qualsiasi idiozia mi fossi inventato, purché un minimo ragionata, sarebbe suonata molto più credibile della realtà, quindi non potevo escludere che pur parlando sinceramente il signor Morikawa avrebbe potuto non credermi.
Un altro aspetto spinoso della questione era proprio il mio interlocutore. Non potevo raccontargli tutto nello stesso modo usato con Rie: lei era una donna, che in molte realtà di quel tempo significava essere appena più importanti dello straccio per i pavimenti, mentre lui non solo era un uomo, ma era anche il capo di una famiglia importante, o almeno ricca, data l’estensione della casa in cui viveva. Inoltre era una persona istruita, non era un semplice guerriero particolarmente ricco: conosceva la medicina dell’epoca che -per quanto dovesse essere un misto di rimedi della nonna, vaghe conoscenze scientifiche e deduzioni empiriche- era comunque un’istruzione non da tutti, né banale e probabilmente poco accessibile.
Insomma, quello davanti a me era un uomo con molte conoscenze e molti mezzi. In confronto a lui il mio Q.I. doveva essere ridicolo, soprattutto perché non avevo grandi informazioni sulla vita di quel periodo e tutto il mio sapere geografico del mondo, le mie conoscenze di tecnologia o quel poco che ricordavo di scienze e storia dal liceo, in quel momento valevano meno di zero.
Avevo pensato tutte quelle cose la sera prima, come Rie mi aveva consigliato di fare? Ovviamente no. Pensai ognuna di quelle cose in cinque minuti, fissando la spalla dell’uomo davanti a me, in silenzio e cadendo come in trance. Ero immobile da tanto tempo che il mio corpo oscillava leggermente.
«Ninomiya sama?» domandò Morikawa con una nota di apprensione ad addolcire l’aria severa che aveva assunto dopo avermi posto la domanda
«Scusate» balbettai sbattendo le palpebre e cominciando a massaggiarmi la gamba piegata, che nel frattempo si era addormentata. «Stavo pensando a come rispondere, sembra più difficile di quanto non credessi» ammisi parlando lentamente.
«E’ tanto complicato dirmi da dove vieni?» chiese stupito
«Forse è più corretto chiedere prima “da quando” vengo» spiegai facendo una smorfia. «Ma anche in quel caso non sarebbe facile spiegarsi»
«Non capisco» commentò l’uomo portandosi una mano al pizzetto sul mento
«Voi avete pronipoti?» provai a chiedere, alzando timidamente lo sguardo su di lui
«No» mi rispose confuso. «Neanche nipoti, non per ora almeno»
«Bene, allora provate a pensare a me come ad un pronipote. Non ne avete, no? Eppure io sono qui, già cresciuto, e dico di abitare in una città in cima a questa collina»
«Non c’è alcuna città lassù» asserì ancora l’uomo, pensoso
«Non ora, ma magari, per quanto vostro pronipote sarà grande, ci sarà. Quindi lui viene da lì, perché nel suo tempo c’è una città in cima alla collina. E dice di vivere con il fratello Jun e il padre Sho, che sarebbe quindi vostro nipote» ragionai contando gli ipotetici familiari sulle dita
«Che io però non conosco, perché ancora non sono nati» cominciò a ragionare lui seguendo il mio discorso
«Proprio così. Quindi voi state chiedendo al vostro pronipote di dire che viene da una città che ancora non esiste e di raccontarvi di cose di sé che non sono ancora successe: io non sono vostro pronipote ovviamente, anzi non credo di avere alcuna parentela, ma anche se fosse temo che i nipoti e i pronipoti tra di noi siano almeno una decina, il che significa che vengo da un tempo ancora più lontano»
«Quindi non solo mi parleresti di una città che ancora non esiste, ma potrebbe darsi che per te non ci sia nemmeno più la collina?» domandò ragionando lentamente
«Esattamente» annuii entusiasta. Il mio era stato un escamotage brillante per spiegare una cosa semplice come “vengo dal futuro”, in maniera contorta eppure abbastanza pragmatica e chiara da farmi sentire quasi intelligente. Wow! «La mia città non esiste, così come non esistono la mia famiglia, i miei amici e tutto ciò che era la mia vita. Ha senso allora rispondere alla vostra domanda?»
«Alla prima forse no, ma alla seconda?» chiese cocciutamente
«Per assurdo, potrebbe essere più facile, ma sono solo supposizioni. Nella mia epoca io sono un artista e mi stavo preparando per fare una recita» cominciai a spiegare cercando di evitare termini che non sarebbero stati compresi come "camerino", "film", "riprese" e cose del genere. «Poi d'improvviso c'è stata una grande luce e dopo sono caduto a terra in una città sconosciuta. E' stato allora che mi sono fatto male e che sono stato portato qui. Rie sama ha detto che secondo lei sono arrivato con la magia» aggiunsi titubante. La parola “magia” cominciava ad assumere lo stesso sapore di idiozia misto a quello di unica-risposta-possibile che aveva caratterizzato anche la frase “vengo dal futuro”. Era una sensazione fastidiosa.
«Le hai parlato di questo?» domandò Morikawa leggermente allarmato
«No, no. Ma lei mi ha visto comparire in cielo e cadere a terra, non avevo bisogno di raccontarle da dove venivo perché arrivasse ad una simile conclusione» cercai di spiegare. Quella ragazza era stata gentile, non volevo metterla nei guai facendo intendere che aveva taciuto ai suoi familiari la verità. «Anche se fossi di questa epoca, non sarebbe tanto normale comparire dal nulla»
«Non è normale, ma non è impossibile» mi rispose lapidario.
Se non mi fossi trattenuto avrei strillato un “ah no!?”, poi mi venne in mente che anche Rie si era fatta molto seria quando avevamo parlato di magia. Possibile che esistesse una roba così assurda nel Giappone del 1500?
Morikawa mi staccò gli occhi di dosso, e io fissai la mia maglietta di E.T.: il premio assurdità lo vincevo io comunque.
«D'improvviso eri in un posto e poi ti sei trovato da un'altra parte, eh? Anzi, anche in un altro tempo» rimuginò a bassa voce. Perché ancora non mi stava ridendo in faccia?
«Sì, è così» annuii.
Mi portai le dita alle tempie. Ora che avevo chiarito un paio di cose con il mio ospite mi ritrovai a chiedermi quante volte avrei dovuto spiegare quella situazione assurda e quanti mi avrebbero creduto.
«Lo hai sentito, Toshinori?» chiese Morikawa guardando alle mie spalle.
L’uomo muscoloso che avevo visto battersi poco prima si era rimesso la parte superiore del kimono e si era appoggiato col corpo al bordo del “palco” dove ci trovavamo noi, rimanendo in piedi e in silenzioso ascolto con le braccia incrociate.
«Ho sentito» annuì senza guardarci, ma tenendo gli occhi fissi sugli uomini in allenamento. Aveva risposto in tono scontroso, cosa che mi ricordò che lui non aveva mai desiderato avermi in casa sua.
«Gli credi?» domandò ancora il padre
«Se me lo chiedi così, ho il sospetto che dovrei farlo» sbuffò, girandosi finalmente a guardarlo mentre gli parlava. «Non riesco a capire in base a cosa, ma immagino che se gli credi tu, ci sia sicuramente una risposta che io non riesco a comprendere»
«Come? Mi credete?» feci spalancando gli occhi e fissando Morikawa, incredulo
«Ci sono vari motivi per cui accetto la spiegazione del nostro ospite» disse il padrone di casa, finalmente facendo un sorriso cordiale e sincero. «Prima di tutto, la storia che ha raccontato è così poco credibile che se fosse una bugia cercherebbe di inventarne una più convincente. In secondo luogo, le sue parole mi spiegano alcune cose che ha farfugliato quando era malato e che già mi avevano fatto intendere che non era una persona qualsiasi. Certo, non pensavo ad un viaggio nel tempo, ma piuttosto ad una remota isola in mezzo al mare di cui sappiamo poco» ammise aggrottando le sopracciglia.
Gli guardai le piccole rughe che si piegarono ai lati degli occhi e notai la pelle in parte rovinata, forse da qualche malattia. Nonostante per i miei standard non fosse un uomo particolarmente anziano, per le prospettive di vita di quell'epoca doveva essere già un vecchio uomo con molte brutte esperienze alle spalle.
«Quindi in parte sapevo già cosa stavi per dirmi e il fatto che ciò che dici coincide più o meno con quel che avevo dedotto, mi dimostra che posso fidarmi di te: non hai cercato di nascondermi la verità» mi disse infine, provando che ci avevo visto giusto durante i miei ragionamenti pre-discorso.
Avrei voluto sospirare sollevato o fare qualche urlo di gioia dato che era la prima cosa che sembrava andare per il verso giusto, ma chiaramente non era il frangente appropriato e non sapevo fino a che grado di cafoneria avrebbe funzionato la scusa dell'essere un uomo del futuro ignaro dei costumi dell'epoca.
Da una porta alle spalle di Morikawa comparve una serva in un kimono grigio perla. Il padrone di casa le chiese di preparare del té per noi tre, poi tacque ascoltando il figlio maggiore, allontanatosi da noi, che dava nuove direttive sugli allenamenti. Sia io che l’uomo rimanemmo silenziosi ad osservare i giovani guerrieri che si colpivano o provavano schemi di combattimento.
Sull’angolo sinistro dello spiazzo si ergeva un albero gigantesco. Alcune foglie cadevano lentamente fino a terra o si incastravano tra i rami più bassi. Non sono mai stato un esperto di botanica, ma chissà come, sapevo che aveva la ramificazione tipica degli alberi di tiglio e che sono poche le specie che arrivano ad essere così grandi e dalle foglie tanto folte.
C’era anche un enorme pianta rampicante che ricopriva la facciata della casa (o forse erano due, non ci avevo fatto caso), ma non sapevo che pianta fosse, era già spoglia di fiori e foglie. L’estremità nude di alcuni rami oscillavano nel vuoto, penzolando dal tetto. In primavera dovevano formare una deliziosa cornice per quella veranda, ora sembravano solo le scarne dita di tanti mostriciattoli che stavano per scendere giù dal tetto.
«Come mai avete un piccolo esercito in casa?» azzardai a chiedere per rompere il silenzio e distrarmi da quegli inutili pensieri botanici.
Inizialmente avevo pensato di trovarmi in una palestra di arti marziali, ma non le era affatto. Non avevo visto praticamente nulla degli interni, ma era chiaro che quella era una residenza, una villa vera e propria. Avere spadaccini disciplinati a combattere lì non era normale, nemmeno in tempo di guerra.
«Dalle tue parti non è normale?» domandò l’uomo in risposta
«Non lo è, la mia terra è in pace» spiegai evitando accuratamente di parlare del Giappone come di uno stato unito, cosa che per lui non era normale e sarebbe stata un anticipazione di eventi futuri.
«Questi sono solo una parte dei guerrieri della zona che mi sono fedeli. Alcuni sono in missione» disse l’uomo facendosi scuro in viso. «Noi siamo in guerra, anche se ancora non è stata dichiarata tale ufficialmente. Immagino che ritrovandoti qui sarà bene che tu sappia in che tempo sei finito»
«Ho qualche idea, ma la mia epoca è molto lontana e i nomi delle ere si confondono, quindi abbiamo adottato un modo alternativo per contare gli anni» tentai di spiegare parlando con molta cautela. Volevo essere sincero, ma dovevo far attenzione a qualsiasi parola strana che avrebbe potuto destare eccessiva curiosità e svelare troppo sul futuro. «Molti ricordano meglio quello, piuttosto che il metodo tradizionale e così io non so dire esattamente in quale anno ci troviamo secondo il nuovo calendario» scossi il capo: non avrei mai smesso di rammaricarmi per quella gravissima lacuna di conoscenza che altrimenti mi avrebbe aiutato ad orientarmi in quell’epoca.
Gli raccontai quel che potevo dire in generale sull’epoca Sengoku di modo da semplificare il discorso che mi avrebbe fatto.
«Queste una volta erano le terre degli Ujie. La famiglia lavorava direttamente per lo shōgun e nel suo nome amministrava un’area non molto vasta, perché era una delle famiglie minori. Quando c’è stato l’indebolimento della figura centrale, gli Ujie gli sono rimasti fedeli perché non avevano sufficiente peso e potere per poter fare la voce grossa. Purtroppo però la famiglia che controllava il territorio più vasto a nord del nostro è stata tra le prime a rendersi indipendente e in pochissimi giorni ci ha conquistati per superiorità numerica» raccontò continuando a guardare i guerrieri anche quando la cameriera tornò con un vassoio e le tazze di tè fumante. Ne posò una davanti a me, poi davanti al padrone di casa e la terza vicina al bordo del palco: Toshinori stava tornando verso di noi ed era per lui.
«I discorsi politici sono difficili da affrontare» disse il padrone di casa prendendo tra le mani la sua tazza. «E non è il momento. Comunque posso dire che non sarebbe sicuro se si venisse a sapere in giro che nelle ex terre degli Ujie i guerrieri si stanno allenando: potrebbe essere interpretato come un segno che ci stiamo preparando a ribellarci»
«Cosa che stiamo facendo» lo interruppe il figlio
«Sì, ma se lo scoprissero sarebbero loro ad attaccarci per primi e verremmo uccisi tutti. Sono convinto che esista una via alternativa» affermò l’altro, lapidario.
Imbarazzato da quel piccolo bisticcio familiare decisi di far finta di nulla e mi concentrai a mia volta sul tè. La temperatura dell’acqua era ottimale, dopotutto ero fermo e seduto da almeno un’oretta e l’aria non era molto calda, doveva essere autunno inoltrato. Nel mio tempo era Maggio, se avessi saputo di quel viaggio nel tempo e che sarei finito anche in una stagione differente mi sarei portato dietro almeno una felpa!
«Che terre sono queste adesso?» domandai per far andare avanti la spiegazione, mentre osservavo affascinato le decorazioni fatte a mano sulla tazza: la tradizione giapponese della decorazione del vasellame, ancora viva nella mia epoca, in quel momento si mostrava in tutta la sua bellezza e profondità storica.
«Sono le terre dei Tokudaiji. Crudeli, dispotici e superbi» mi rispose Toshinori con una smorfia di disgusto
«Gli Ujie non sono che una famiglia cadetta ormai, ma tutti gli abitanti di ogni villaggio o cittadina sono fedeli a loro, così come lo sono io: le guerre non mi piacciono, combattere e ferire gli altri non è nella mia natura, per questo spero in un’altra soluzione. Però se il mio signore, Ujie Masamune, mi chiederà di portare in campo i miei guerrieri, allora lo farò e dovremo essere pronti» asserì Morikawa con docile sicurezza. Era chiaro che il figlio ardeva del fuoco della ribellione, mentre lui era anziano e stanco, ma non per questo meno leale ai suoi doveri.
«Padre ormai hai me, non dovrai essere tu a guidare le nostre truppe» si intromise Toshinori con apprensione
«Tokudaiji» mi trovai a ripetere. Avevo già sentito quel nome, era mai possibile? «Sì, Rie sama ha detto che conoscono la magia!» esclamai ricordandomi all’improvviso di ciò che mi aveva detto.
I due uomini mi fissarono seriamente. «Si dice che nel loro palazzo viva un uomo esperto di questo argomento, ma non si sa se sia vero» azzardò a dire Toshinori
«Immagino di non poter contare su di lui se siete in guerra con quella famiglia» riflettei mascherando la mia delusione dietro un aria pensosa, come se stessi pensando ad una soluzione. La verità era che mi stavo leggermente rammaricando di non aver seguito i due guerrieri armati che mi avevano minacciato il primo giorno.
«Non si può contare sulla magia» affermò Morikawa con fredda decisione, prima di prendere un sorso di tè. «E averci a che fare è pericoloso»
«Se però è stata quella a portare qui il nostro ospite, temo non avremo molta scelta se non usarla per aiutarlo a tornare a casa» fece notare il figlio. Ok, era un burbero, però era un tipo sveglio, mentre su certi argomenti il padre sembrava piuttosto refrattario a cambiare opinione. Un classico.
«Ho appena saputo la verità, non puoi pretendere che abbia già una soluzione» sbuffò il padrone di casa. «Anzi, prima di pensare a questo, abbiamo altri problemi a cui pensare»
«Come possiamo tenere al sicuro lo straniero?» domandò Toshinori pensieroso. Scoprii allora quanto la lealtà per la famiglia e i legami tra persone fossero profondi, tanto da permeare ogni frase e azione delle persone che vivevano quell’epoca: quell’uomo era sempre stato contrario alla mia presenza lì, di certo doveva aver sospettato di me fino al giorno prima e aveva sempre detto la sua in merito, ma ormai suo padre mi credeva e lui rappresentava la famiglia, quindi tutti avrebbero dovuto conformarsi a quell’idea. Bene, la fedeltà e la gerarchia erano talmente forti che Toshinori da quel momento non parlò più di sospetti sul mio conto e cambiò totalmente atteggiamento ora che una decisione era stata presa, gradita o meno.
«Intanto non chiamiamolo “straniero”, ma “Kazunari”. Giusto?» chiese Morikawa girandosi a guardarmi con un bel sorriso stampato in faccia. Era impressionante come i suoi lineamenti, spigolosi quando aveva un’espressione seria, si ammorbidissero come burro al sole ogni volta che faceva un sorriso. «Con le mie supposizioni in mente ho fatto qualche progetto per coprire il tuo arrivo. Alla luce delle tue rivelazioni devo fare giusto qualche modifica, ma in linea generale penso di avere la soluzione per darti modo di vivere qui con noi senza destare sospetti»
«Significa che non devo far sapere da dove vengo?» chiesi incredulo. Questo mi risparmiava di dover rispiegare la situazione una terza volta, ne fui sollevato.
«O “da quando” vieni, come tu stesso mi hai corretto» fece Morikawa, quasi divertito. «Non so come sei arrivato, ma è effettivamente probabile che sia stato con la magia e non verresti ben visto se si sapesse in giro»
«Mio padre ha ragione. Quel tipo di potere è raro, ma le poche persone che lo hanno vengono isolate e non escluderei che, trovandoti qui e diventando parte dei nostri alleati, potrebbe diventare un’ottima scusa per farti fuori, se dovessi diventare una persona scomoda per i nostri nemici. Potesti essere un bersaglio e un punto debole». Toshinori sapeva essere convincente.
Così, in pochi minuti di conversazione con loro dissi addio a Ninomiya Kazunari e diventai Morikawa Kazunari.
Morikawa Kazunari doveva essere il figlio di uno dei tanti fratelli e sorelle di Morikawa Toshiya, il padrone di casa. Avremmo detto che ero stato mandato lì dalla mia famiglia perché non riuscivo a combinare niente di buono tra le fila dei guerrieri di mio padre. La speranza di questo fantomatico padre era che, sotto il severo allenamento di Toshinori, io imparassi finalmente un po’ di disciplina. Data la mia stravaganza nel vestirmi, cosa che avrebbe dovuto scomparire per dare meno nell’occhio, avremmo raccontato che venivo da una lontana e remota isola dove c’erano usanze diverse dalla terra ferma. Questo mi avrebbe aiutato anche nell’eventualità in cui io avessi usato parole incomprensibili e avrebbe spiegato perché il mio giapponese fosse, anche se comprensibile, piuttosto diverso da quello in uso.
Una cosa però ero determinato a non cambiarla: portare le mutande. Avrei trovato un modo per cucine un altro paio, ma fino ad allora avrei lavato più spesso le mie. Mi rifiutavo di vivere senza indossarle! Non avevo una felpa, ma avevo addosso delle mutande nere che invece mi sarei tenuto ben stretto: non intendevo andare in giro a giocare al samurai con il mio amichetto ballonzolante sotto il kimono. Oltre che essere poco igienico sarebbe stato maledettamente scomodo.

Finito il tè, Toshinori si offrì di accompagnarmi di nuovo alla mia stanza. Inizialmente lo seguii un po’ intimorito: non era eccessivamente più alto di me, ma era largo almeno il doppio grazie alla massa muscolare che aveva sviluppato.
A dispetto del suo aspetto e di come si era comportato fino al giorno prima. si rivelò molto socievole e persino simpatico, prova che ormai mi aveva accettato. Fu da lui che ottenni le mie prime informazioni sulla famiglia che mi ospitava e di cui, da quel momento, ero un membro nemmeno troppo alla lontana: secondo il ruolo assegnatomi da Morikawa, io e Toshinori eravamo cugini di primo grado.
I figli di Morikawa Toshiya, padrone di casa Morikawa, erano cinque. La primogenita, Akemi, non abitava più lì perché si era sposata pochi mesi prima con Ujie Masato, il primogenito degli Ujie, ed era entrata a far parte della famiglia del marito. Non mi sfuggì il fatto che quel matrimonio dava agli Ujie la sicurezza della discendenza e legava a loro i Morikawa che a quel modo non li avrebbero mai traditi. Inoltre quell’unione toglieva una bocca da sfamare lì in casa, e spianava la strada della successione per il secondogenito: Toshinori stesso. Non potei fare a meno di chiedermi come la ragazza avesse preso il matrimonio che con molta probabilità era stato combinato e deciso dalle famiglie, non dai suoi sentimenti.
Toshinori così era diventato l’erede di suo padre e questo spiegava perché fosse lui a comandare i guerrieri. Non spiegava però perché il signor Morikawa avesse chiesto di tacere la verità sul mio conto anche al suo terzogenito Nagatoshi, il tipo mingherlino contro cui avevo visto combattere Toshinori qualche ora prima. Non si fidava del suo terzo figlio, sangue del suo sangue?
Per ultima era nata Rie e nel darla alla luce il fisico della loro madre si era indebolito. Qualche anno dopo infatti era morta. Il piccolo di casa Morikawa, Toshiaki, era nato dal secondo matrimonio, ma anche la seconda moglie era scomparsa dando alla luce il bambino.
Quella storia mi rattristò. Per l’epoca la mortalità alta era normale, soprattutto perché era un periodo di guerra, e morire di parto non era un cosa così strana. Per me invece, un ragazzino orfano di madre a soli otto anni era un caso raro.
«Come sono le famiglie da te?» mi chiese Toshinori quando arrivammo davanti alla porta della mia stanza. La gamba si era riposata mentre ero rimasto seduto e le scale non avevano aiutato a mantenerla rilassata, però dopo aver fatto la strada al contrario mi sembrava di provare meno dolore rispetto all’andata. O forse mi ero solo abituato alle fitte?
«Meno numerose» ammisi. «Di solito si fanno due figli, di più non capita spesso»
«Allora si preoccuperanno di più per te. Pensi ti siano cercando?» mi chiese, improvvisamente preoccupato.
Sgranai gli occhi: se c’era una cosa a cui non avevo minimamente pensato era cosa poteva essere successo nel mio tempo se io ero scomparso! E per la verità mi preoccupavo di più per i miei compagni, che per la mia famiglia. Ero scomparso da settimane! Mi stavano ancora cercando? Cos’avevano fatto gli Arashi senza di me?
Sentii che le gambe faticavano a reggermi in piedi, non per il dolore, ma per quell’improvvisa realizzazione e per l’angoscia che stava seguendo, sempre più violenta. «Io mi riposerò un pochino» tentai di dire nella speranza che Toshinori mi lasciasse solo: per come cominciavo a sentirmi avrei anche potuto buttarmi sul letto e mettermi ad urlare come un disperato. Cos’avevano pensato i miei amici non trovandomi più da nessuna parte? Avevano chiamato la polizia ed era in corso un’indagine? Masaki stava piangendo? Jun era in giro a cercarmi anche dopo tutto quel tempo? Il Riida aveva fatto un mio ritratto magari, e Sho? Stava riuscendo a tenerli tutti insieme in quel momento tragico?
«Fai bene. Mio padre dice che in un paio di giorni dovresti rimetterti. Sembra che tu abbia una costituzione robusta: non ti sei mai rotto niente?» domandò sorpreso. Nella mia epoca non rischiavo di venire sgozzato facilmente, né dovevo lottare per la vita e se pure avessi praticato arti marziali avrei usato protezioni di ogni tipo, quindi no, non mi ero mai fatto male in modo serio.
Però non riuscii a rispondergli, in quel momento la mia mente era piena di immagini di notiziari che annunciavano la mia scomparsa e l’idea dei fan increduli e di mia madre afflitta mi toglievano il fiato.
Mi aggrappai alla porta in carta di riso e un angolo remoto del mio cervello mi ricordò di non stringere la presa o ne avrei strappato la superficie sottile. «Non importa, sei stanco immagino. Riposati per bene, anche perché domani cominci» disse Toshinori dato che non rispondevo
«Comincio cosa?» quell’unica frase mi fece riemergere dalla mia disperazione
«L’addestramento. Devi fingere di essere stato mandato qui per imparare qualcosa di utile, no? Domani ti unirai agli altri» spiegò tutto contento, combattere doveva proprio essere la cosa che gli riusciva meglio.
In quel momento mi resi conto di essermi dimenticato di far loro presente un altro dettaglio importante: sapevo combattere, certo, ma sapevo usare un’arma soltanto, il controller dell’X-box.


Se ve lo state chiedendo, sì, il tiglio è il mio albero preferito. E, sì, la pianta che ora Nino non sa riconoscere è un glicine. Ultimamente ne sto vedendo tanti fiorire in giro e ho deciso di piazzarcelo anche qui. Beh comunque si era già capito che la villa è un posto nascosto tra gli alberi e in mezzo alla natura (c'han pure laghetto e cascata naturali nel giardino!).
Il nostro valoroso Nino, armato di maglietta di E.T., affronta il colloquio con il capo famiglia dei Morikawa finalmente. Da notare l'abilità di Nino nell'evitare il più possibile frasi in cui dovrebbe per forza rivolgersi con rispetto all'uomo che ha davanti XD Beh, dato come si conclude il colloquio d'ora in poi può stare tranquillo che se parla in maniera più familiare sarà solo una cosa normale.
Magari qualcuno comincerà a far fatica coi nomi, il mio consiglio è di cominciare ad impararli fin da subito, questa ff ha un intreccio complesso e moltissimi personaggi (per ora ne ho contati 15/16 tra più e meno importanti) dovrete riconoscerli per capire. E comprendo anche che i nomi simili non aiutino la memoria. Sfortunatamente, all'epoca si usava dare ai nomi dei figli maschi un kanji in comune tra loro e con quello del padre. Nella famiglia Moriwaka il kanji è quello di 智 (sì, lo stesso che forma il nome di Satoshi).
Comunque vi faccio uno specchietto riassuntivo se vi fa comodo (con anche i kanji scelti per i nomi che, come al solito, non sono scelti a caso).

智也 Toshiya → Capofamiglia dei Morikawa
明美 Akemi → Primogenita, andata in sposa al primogenito degli Ujie, Masato
智則 Toshinori → Secondogenito ed erede della famiglia
理智 Nagatoshi → Terzogenito
律恵 Rie → Ultima figlia della prima moglie di Morikawa Toshiya, ora morta
智明 Toshiaki → Figlio della seconda moglie, morta dopo il parto


Nel prossimo capitolo

Scrivere mi sarebbe servito a schiarire le idee. Mi erano accadute tante di quelle cose in poche settimane che avevo bisogno di fare ordine, inoltre fingevo di essere un’altra persona, ventiquattro ore su ventiquattro dovevo modificare il mio carattere e la mia parlata e non avevo più il mio nome. Forse avevo paura di dimenticare chi fossi veramente.

Notai che c’era una luce accesa nella prima sala di ricevimento degli ospiti, dall’altra parte del cortile. «Nessuno è un nemico»
«Amico mio, so che tu insisti con la tua linea diplomatica, ma sai anche tu che siamo agli sgoccioli: la tensione sta raggiungendo il culmine, presto o tardi basterà un incidente qualsiasi per scatenare la rivolta»

Tutti urlarono a tutti della mia presenza, probabilmente nessuno dei presenti mi riteneva dalla sua parte dato che non sapevano che fossi lì, quindi presi la lama che avevo davanti al naso e la tirai verso di me, in preda al panico: se non mi fossi difeso sarei morto su due piedi, per mano dell'una o dell'altra parte.

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Capitolo 5
*** 4. Pantsu-musha ***


A quasi un mese dal mio arrivo nel Giappone del sedicesimo secolo ogni mia ferita era guarita. Il giorno del colloquio avevo chiesto ancora una settimana, dicendo che non avrei mai potuto combattere bene se zoppicavo e non accennando al fatto che non avrei saputo combattere nemmeno quando mi fossi sentito sano come un pesce.
Mi era stato concesso ancora un po' di riposo quindi, ma mi avevano cambiato di stanza: quella dov’ero stato fino a quel momento era in realtà la camera da letto del mio nuovo zio, Morikawa Toshiya, che vi tornò. L’ala est della villa, ossia la parte lungo la quale avevo camminato prima di andare alla mia “udienza”, era composta esclusivamente da camere da letto. Quella in cui ero stato fino a quel momento era la più grande e si trovava all’angolo con l’ala sud, che dava sul giardino del retro, poi ce n’erano altre tre. Quella subito adiacente era la camera di Toshinori, il primogenito maschio, nella seconda avevano dormito Nagatoshi e Toshiaki insieme per molto tempo, mentre l’ultima era stata delle due sorelle, ma da quando Akemi era andata in sposa, Rie aveva cominciato a condividerla con Toshiaki, lasciando che anche il secondogenito maschio della famiglia avesse una stanza tutta sua: non sia mai che una ragazza abbia più privilegi di un ragazzo!
Comunque Rie in quella casa non c’era mai. A una settimana dalla sua partenza non era ancora tornata, così tutti i figli maschi di casa Morikawa erano finiti con l’avere le loro stanze private. Almeno fino al mio arrivo.
In quanto cugino di primo grado non potevo certo dormire con la servitù o con i guerrieri che trovavano alloggio nella villa, quindi mi misero in camera con il piccolo Toshiaki. Fortunatamente ci andavo d’accordo, mi bastarono poche parole scambiate con lui per capire che era una specie di Aiba in miniatura, inoltrei beveva qualsiasi balla gli raccontassi, il che mi divertiva parecchio. Ormai per lui le mie mutande erano indumenti tipici dell’isola da cui provenivo e servivano a facilitare i nostri guerrieri quando usavano una tecnica speciale in cui si facevano molti salti e piroette; inoltre gli dissi che sognavo di entrare negli “Arashi”, un gruppo speciale composto dai cinque guerrieri più valorosi delle nostre terre.

«Uno viene chiamato J-musha»² gli raccontai una notte in cui nessuno dei due prendeva sonno. «”J” sta per “jōzu”.³ Combatte con grande eleganza, sul campo di battaglia tutti lo seguono perché non c’è situazione nella quale si faccia prendere dal panico. Lui sa sempre cosa fare ed è uno dei samurai più fedeli di mio padre. Il secondo guerriero, invece, è Keio-musha»⁴
«Che significa?» mi chiese confuso.
Facevo veramente fatica a trattenere le risate quando capivo dalle sue espressioni o dal tono di voce che non aveva il minimo dubbio che quella fosse la verità. «Ha imparato a combattere in una scuola di addestramento di altissimo livello chiamata Keio» mi inventai. «E’ lo stratega migliore di tutto il nostro regno, lui riceve notizie da tutto il Giappone, ha spie ovunque e sa sempre tutto dei nostri nemici. È talmente intelligente che i suoi piani d’attacco falliscono raramente»
«E quando succede, lui che fa?» mi chiese nel buio, sotto strati di coperte per tenerlo al caldo
«Se succede è perché aveva calcolato una sconfitta» gli risposi: Sho non falliva mai, comunque.
«Ma se uno perde, ha perso e basta» mi fece notare
«Le guerre sono più complicate di così, fidati. Dalle mie parti ce ne sono tante quindi sono esperto». Non ho combattuto alcuna guerra mondiale, ma le ho studiate e nel mio tempo effettivamente ci sono guerre che non possono essere giudicate solo in base ad averle perse o vinte. «Andiamo avanti, va bene? Allora, un altro guerriero è Aiba chan» continuai rigirandomi nel mio futon
«E’ un bambino? Oppure è un soprannome?»⁵ chiese confuso
«No, si chiama Aiba Masaki, ma tutti lo conoscono come Aiba chan. È un guerriero molto coraggioso, ma nonostante abbia combattuto tante guerre e abbia visto tanta morte, è rimasto una persona gentile. Non gli piace uccidere, un po’ come al tuo papà, e lo fa solo se costretto o per difendere i più deboli e quelli che ama» mi spiacque non trovare un soprannome cool per la versione samurai di Aiba, ma tutto sommato la sua qualità migliore era proprio la spontaneità e la trasparenza, quindi non riusciva nemmeno a me di nasconderlo dietro uno pseudonimo o di snaturarlo.
«E l’ultimo chi è? È il loro capo?»
«Ryōshi-musha»⁶ dissi a voce bassa. «E’ il più temibile dei quattro»
«Usa un arco?» fece Toshiaki tutto eccitato. Non gli stavo conciliando il sonno, ahimè, stavo facendo l’opposto.
«No, una rete» risposi confuso, poi capii dove stava l’equivoco. «E’ un pescatore, non un cacciatore.⁷ È chiamato così perché è nato in una famiglia di pescatori»
«E come ha fatto a diventare guerriero? Non può» mi fece notare il mio piccolo compagno di stanza. L’errore era stato mio, avevo dimenticato che pur non essendoci ancora stato il periodo Tokugawa, all’epoca non era comunque pensabile che un pescatore diventasse un samurai famoso.⁸
«Quando ha compiuto dieci anni hanno scoperto che era di nobili natali ed è tornato alla sua famiglia d’origine» cercai di correggermi. «Comunque lui è il leader»
«Il cosa?»
«E’ una parola usata nella mia terra per dire che uno è il capo» dissi con pazienza. «E’ uno astuto sai? Se lo vedi non diresti mai che è un grande samurai. Si finge goffo, è sempre silenzioso ed assonnato e sembra interessarsi a qualcosa solo se gli parli di pesci, ma la verità è che lui finge. Vedi, in questo modo ci si accorge difficilmente di lui, allora le persone parlano senza notarlo e lui invece sente tutto. Ascolta chiunque parli e trae in inganno tutti quelli che lo sottovalutano. Dietro l’unità dei quattro membri degli Arashi ci sono la sua calma e la sua capacità di equilibrare le forze»
«J-musha, Keio-musha, Aiba chan, Ryōshi-musha… ma non erano cinque? Chi è il quinto?».
Dovetti spiegargli che il posto era vacante e che speravo un giorno di occupare io quel posto, ma dato che ero un buono a nulla, ero lì, in casa sua, per migliorare sotto l’allenamento di mio cugino Toshinori. Dopodiché ci zittimmo: Nagatoshi, nella stanza accanto, diede un pugno alla parete di carta che separava le due stanze e ci intimò di fare silenzio.

Nagatoshi mi odiava.
In quei giorni però non ne ero ancora consapevole, avevo solo il sospetto che non sarei mai stato il suo cuginetto preferito, ma più avanti avrei avuto occasione di rendermi conto che mi avrebbe sgozzato con piacere se avesse potuto.
Era il secondogenito, quindi non gli spettava nulla in eredità, inoltre non eccelleva nel combattimento dove era Toshinori a prevalere, quindi veniva tagliato fuori da qualsiasi decisione, militare o familiare che fosse. Io, in quanto lontano cugino e quasi estraneo alla famiglia, avrei dovuto essere trattato peggio di lui, ma così non era. Non avevo voce in capitolo nelle decisioni militari, né mi veniva chiesto un parere perché chiaramente non avrei potuto aiutarli, ma il fatto che il capofamiglia mi ricevesse spesso e che Toshinori avesse piacere a stare con me quando non aveva altro da fare, dava l’idea che mi riservassero un trattamento di favore o che fossi tenuto in considerazione più di Nagatoshi. E questo non gli andava giù.
Il giorno prima dell’inizio dell’allenamento chiesi carta e penna e mi misi a scrivere nella mia stanza, lasciando aperti gli shogi che davano sul quadrato del giardino interno della villa. Mi piaceva guardare i servitori affaccendati che pulivano i tatami, curavano le piante o lucidavano il legno dei corridoi. Dalle cucine arrivavano sempre dei buonissimi odori, alcune servette erano delle ragazze molto carine e la sera, quando pulivano i piatti dopo la cena, cantavano a bassa voce.
Fu una di loro a portarmi l’occorrente per scrivere: pennello, barra d’inchiostro solido, suzuri,⁹ contenitore per l'acqua, fermacarta, shitajiki¹⁰ e poggia pennelli. Anche la carta, sì, un rotolo lungo e ruvido.
Davanti a tutto quell’armamentario quasi mi passò la voglia di scrivere: niente penne a sfera nel sedicesimo secolo, maledizione.
Nagatoshi passò davanti alla mia porta proprio durante quel mio momento di sconcerto: si teneva una pezza bagnata sul braccio destro, scoperto dopo aver arrotolato le maniche del kimono; doveva aver preso l’ennesima batosta dal fratello maggiore. «Che succede cugino, non sai usarli?».
Non mi chiamava mai per nome. Usava sempre “cugino” e avevo l’impressione che ci fosse una sottile vena d’ironia in quel suo modo di chiamarmi, come se non si fosse bevuto l’intera storia del parente venuto da un’isola lontana. Il padre aveva deciso di raccontarla a chiunque e di lasciare che la verità la sapessero solo io, lui, Toshinori e Rie, ma dubitavo che Nagatoshi ci avesse creduto fino infondo.
«Non bene, abbiamo queste cose da me, certo, ma solitamente usiamo strumenti più piccoli per scrivere» spiegai con pazienza: il “vengo da lontano” mi salvava il culo in molte occasioni.
«Fūko, porta a mio cugino un pennello più piccolo, sbrigati» ordinò alla giovane inserviente. Nagatoshi sembrava perennemente mestruato e non potendo sfogarsi né col padre, né col fratello maggiore o con i guerrieri da lui comandati, sfogava la sua rabbia su chiunque gli fosse inferiore, il che comprendeva la servitù, la gente in paese e suo fratello minore. Io probabilmente contavo come uno di loro, ma doveva adottare metodi più raffinati per offendermi dato che ero sotto l’ala protettrice dei suoi superiori.
«Non hai dimestichezza a maneggiare cose grandi, cugino?» domandò con un sorrisino di scherno.
Mi venne voglia di insultarlo, era irritante come poche cose al mondo: probabilmente era ancora un verginello che pure con una donna nuda davanti non avrebbe saputo cosa fare, eppure veniva a fare battutine di quel genere a me? A me che se solo avessi voluto avrei potuto avere una donna diversa ogni notte (nel mio tempo e, perché no, anche in questo)?
«Mai quanto te con le cose taglienti» gli risposi trattenendo gli insulti e accennando al braccio su cui stava comparendo un livido violaceo piuttosto grosso. «Fai più attenzione, altrimenti saremo in due a non poter maneggiare cose grandi. E ti assicuro che, per quanto parenti, non penso avrei voglia di darti una mano in quel caso?».
L’arrivo della servetta mi salvò per un pelo da qualsiasi sua reazione. Diventò paonazzo e se ne andò senza aggiungere niente: nessun uomo ha voglia di parlare di abilità manuali davanti ad una donna.
Rimasi solo con quel mucchio di aggeggi per scrivere, ma ero convalescente e quindi avevo tempo da buttare. Disposi la pagina e preparai l’inchiostro. La cosa buona era che essendo mancino e dovendo scrivere in maniera tradizionale –dall’altro al basso, da destra a sinistra- non mi sarei impiastricciato le mani. Rimaneva da vedere se fossi riuscito ad evitare la stessa fine anche al foglio.
Avevo passato un giorno intero a tormentarmi quando mi ero reso conto di essermi preoccupato solo di ciò che era capitato a me e di non aver pensato a cosa poteva essere successo nel mio tempo. Tutto poteva essere: magari il tempo si era fermato nel ventunesimo secolo, in attesa del mio ritorno, oppure no, ma in quel caso non sapevo come scorresse. Un giorno nel 1500 equivaleva ad un giorno nel mio mondo? Oppure il tempo era calibrato in maniera diversa?
Alla fine decisi di pensare all’ipotesi peggiore: se ero nel 1500 da più di tre settimane, allora ero scomparso da altrettanto tempo nel 2000. Dovevo sbrigarmi a trovare un modo per tornare indietro, ma era anche vero che non avevo nessun indizio per capire come fare, e prima di tutto dovevo assicurarmi un posto e una vita più o meno sicuri in quel mondo se non volevo mettere piede fuori casa e venire sgozzato appena giravo l’angolo.
Così mi ero imposto la calma, perché l’avventatezza mi avrebbe ucciso, ma mi ero anche dato delle priorità, cioè che prima veniva il mio ritorno a casa e poi tutto il resto. Se la possibilità di usare la magia e tornare nella mia epoca avesse richiesto di tradire i Morikawa e andare dai Tokudaiji avrei dovuto farlo. Non mi piaceva l’idea, ma non potevo avere dubbi su quel punto.
Scrivere mi sarebbe servito a schiarire le idee. Mi erano accadute tante di quelle cose in poche settimane che avevo bisogno di fare ordine, inoltre fingevo di essere un’altra persona, ventiquattro ore su ventiquattro dovevo modificare il mio carattere e la mia parlata e non avevo più il mio nome. Forse avevo paura di dimenticare chi fossi veramente. Chiesi “carta e inchiostro” perché pensavo di tenere un diario.

Il giorno tanto temuto arrivò.
Avevo passato tutta la settimana a chiedermi come avrei affrontato la mia prima giornata di addestramento perché, parliamoci chiaro, io non sapevo combattere. Il nemico più temibile che io abbia mai affrontato è stato uno scarafaggio grosso quanto il mio pugno e non ho usato molte armi all’infuori di uno spray anti-insetto. Certo, avevo preso qualche lezione in vista di alcune scene di combattimento in alcuni film, ma un conto è saper tenere una spada e fare qualche mossa davanti alla telecamera, un conto è usare un arma con la consapevolezza che è l’unica cosa che impedisce all’altro di sbudellarti.
Non volevo farmi del male, non volevo sudare tutto il giorno nei vestiti da allenamento e l’idea di dover faticare mi faceva sentire stanco ancor prima di cominciare! Quel che mi convinse, fondamentalmente, era che il sudore fosse preferibile alla morte. Quelli non erano anni in cui si dava tanto spazio alla diplomazia, o meglio, il capo famiglia dei Morikawa forse era nella posizione di parlamentare, ma il nemico che mi fossi trovato in faccia una volta fuori di casa non mi avrebbe dato nemmeno il tempo di dire “parliamone”.
Venni presentato al gruppo insieme ad altre due nuove reclute. Uno di loro si chiamava Kazuo e solo per il fatto che aveva un nome simile al mio lo sentii subito affine, ma a parte quello, eravamo diversi come il sole e la luna. Era un energumeno alto ben più di me: ma da dove spuntava un giapponese così in un epoca in cui la popolazione superava a fatica il metro e sessanta?
Ci misero subito in mano delle tachi da allenamento, quindi non affilate. Quelle erano armi talmente antiche che io non le avevo mai viste da vicino nemmeno in un museo, anche se ammetto di non aver mai prestato attenzione a nulla in quei pochi musei che ho visitato. Negli sceneggiati in costume ho usato quasi sempre le katana: sono ben riconoscibili da tutti e l’arte della loro fabbricazione è sopravvissuta negli anni, mentre le tachi sono pezzi d’antiquariato pregiato. Se fossi riuscito a riportarne una a casa avrei potuto rivenderla per un sacco di soldi…
Tornando al combattimento, dovevamo fare una dimostrazione delle nostre capacità, il che avrebbe significato ben poco nel mio caso, ma non volevo fare la figura dell’imbecille fin dal primo giorno, così decisi che in un modo o nell’altro avrei perlomeno tentato di zampettare in giro evitando gli affondi.
Ovviamente la mia era una speranza sciocca, non avevo idea di come fosse uno scontro reale: al primo incrociarsi di lame sentii un brivido salirmi sulla schiena per lo stridere del ferro e in un attimo mi resi conto che sarei morto sul serio se quell’affare fosse stato affilato e se mi avesse preso nei punti sbagliati. Allora ebbi paura, una paura gigantesca che cancellò ogni altra emozione: quella fu la prima volta in cui in me, uomo del ventunesimo secolo, si risvegliò l’istinto di conservazione, un istinto primitivo e selvaggio fortissimo che prima non avevo mai avuto bisogno di sentire. In un attimo l’adrenalina cominciò ad aumentare e tutta la mia attenzione si focalizzò sul bestione che avevo davanti e sulla sua lama. Non sapevo cosa farmene della mia, ma usai tutto ciò che ero in grado di fare per difendermi: lo guardavo, percepivo i suoi movimenti e li evitavo. Sbalordii persino me stesso.
Andai avanti per lunghissimo tempo ad evitare e parare colpi. Quando Kazuo mi diede un attimo di tregua, ebbi il tempo di realizzare che ero sudato marcio, che i muscoli mi facevano male per l’eccessivo sforzo e che avevo il fiato talmente corto da far pensare ad un attacco d’asma. I guerrieri mi stavano gridando di smetterla di scappare e di affrontare il mio nemico. Ma come? Lo squadrai e ripensai a quei momenti di lotta: questo ragazzo era grosso e forte, ma non aveva tecnica -come me del resto- e inoltre non era rapido, infatti non avevo avuto grossi problemi a sfuggirgli. Dovevo sfruttare in qualche modo la mia piccolezza e metterlo fuorigioco per potermi afflosciare in un angolo a riprendere fiato.
Ad un suo ennesimo attacco, schivai accovacciandomi a terra. A quel punto mi trovai davanti agli occhi le sue gambe, del tutto prive di difesa, quindi pensai di allungare la spada per dargli un colpo alle caviglie: se la lama fosse stata reale gliele avrei affettate. Non avevo calcolato però che la portata del suo braccio era più lunga della mia, così falciai l’aria e, rimanendo accucciato come una ranocchia, mi ritrovai la punta della spada di Kazuo puntata alla gola. «Ha vinto Kazuo! Bravo Kazuo!» applaudivano alcuni.
Un gruppetto ridacchiava di me, ovviamente tra loro c’era anche Nagatoshi. «Non te la prendere cugino, sarebbe potuta andare peggio» mi disse divertito
«Illuminami» sbuffai sbilanciandomi all’indietro e lasciandomi cadere col sedere a terra: i muscoli delle mie gambe imploravano pietà.
«In quella posizione poteva decidere se tagliarti la testa o il braccio. Ha scelto la testa e in uno scontro reale te la saresti cavata in un attimo senza sentire niente, ma se avesse scelto il braccio, stai pur certo che saresti sopravvissuto a lungo per sentire tutto il dolore possibile prima di morire dissanguato».
Quali soavi prospettive! Ma dovevo aspettarmelo: dalla bocca di Nagatoshi non usciva mai niente di soave, almeno non quando parlava con me.
Il mio avversario mi allungò la mano, offrendosi di aiutarmi a tornare in piedi. Sarei rimasto volentieri in mezzo alla sabbia a boccheggiare come una trota morente, ma in quanto al ridicolo, me n’ero coperto a sufficienza per quel giorno. «Grazie» sospirai ancora con il fiato corto
«Di nulla, sei bravo» fece questi ed io lo osservai di sbieco, sicuro che mi stesse prendendo per i fondelli e nemmeno troppo velatamente
«E’ vero! Hai molto da migliorare, certo» fece Toshinori avvicinandosi a noi con un sorriso. «Ma hai dei riflessi niente male, si può cominciare a lavorare su quelli». Non so se da un uomo del futuro si aspettasse qualcosa di più e se l’avevo deluso non lo diede a vedere. «E’ anche vero che Kazuo non ha una stazza particolarmente adatta ai combattimenti rapidi» rise dando una pacca sulla spalla all’altro. Tra tutti e due era questi ad essere più massiccio, ma anche Toshinori non scherzava. «Mettiamo alla prova i tuoi riflessi contro qualcuno di più abile?»
«Ma no, sono sicuramente scarso» cercai di sminuirmi per evitare di rimettermi a combattere, ma il mio fu un tentativo vano: mi toccò dimostrare la mia incapacità altre due volte.
Uscii a pezzi da quella prima giornata. Tre combattimenti di allenamento in cui non avevo né battuto, né ferito, né sconfitto nessuno non erano un risultato grandioso in un periodo in cui gli scontri armati erano all’ordine del giorno. Era anche vero che –a parte il colpo di grazia- io non avevo ricevuto nemmeno un graffio, quindi in uno scontro vero sarei stato un cadavere molto pulito! Comunque, essendo stato un allenamento, il mattino dopo mi sarei dovuto preoccupare solo dei dolori muscolari e non degli ematomi. Magra consolazione.

Passarono due settimane in cui feci allenamenti tutti i giorni, senza sosta. Non sapevo nemmeno se fosse sabato o mercoledì, non c’era alcuna differenza dato che a quei tempi non conoscevano il weekend di riposo.
Toshiaki tutte le sere mi aiutava a mettere degli unguenti sulle ferite e sulle sbucciature, mentre Fūko chan preparava dei pastrocchi di erbe per fare degli impacchi da mettere sui lividi più grossi. La servetta era molto graziosa e sembrava essersi affezionata a me dopo che avevo difeso lei e un paio di altri servitori dai maltrattamenti di Nagatoshi. Sospettavo che si fosse presa una cotta –nonostante i lividi e le sbucciature fossero molto poco sexy- e probabilmente, se avessi voluto, avrei pure potuto approfittarmene; ma per quanto carina fosse, ogni giorno ero sempre più malconcio e troppo stanco per voler fare altro movimento fisico.
Tra l’altro avevo altri problemi a cui pensare. Combattevo ogni giorno, certo, ma c’era anche il fatto che mangiavo molto meno di quanto il mio stomaco del ventunesimo secolo fosse abituato e poi faceva sempre più freddo: l’inverno irrigidiva sempre di più le temperature e in quella casa ovviamente non era previsto alcun impianto di riscaldamento. Avrei dovuto aspettare parecchio tempo prima di vedere l’elettricità, figuriamoci la climatizzazione! La notte io e Toshiaki cominciammo a dormire nello stesso futon ammassando tutte le nostre coperte e dormendo abbracciati per scaldarci. Era come avere un fratellino minore e con il gelo che si sentiva fuori non me ne fregava un accidente di dormire abbracciato ad un altro ragazzo: la notte bramavo il calore molto più del cibo.
Una notte maledissi chiunque nella mia testa per non aver fatto i bisogni prima di essere andato a dormire e alla fine lo stimolo fu talmente forte che mi decisi a sgusciare fuori dalle coperte. Spesso ci dimenticavamo i pitali prima di andare a dormire e infatti in camera non c’era. Presi la coperta del primo strato e me la misi sulle spalle per poi aprire le porte scorrevoli che davano sul ballatoio del cortile interno: i pitali erano lavati nelle cucine e messi ad asciugare sul ballatoio. Richiusi la porta per non far entrare il freddo e feci per zampettare rapidamente a recuperare il nostro, ma notai che c’era una luce accesa nella prima sala di ricevimento degli ospiti, dall’altra parte del cortile. Era molto tardi e a quell’ora di solito nessuno era sveglio, quindi mi incuriosì vedere che qualcuno era ancora in piedi. Camminai lentamente sul terzo listello di parquet da sinistra (avendo dovuto recuperare il pitale molto spesso durante la notte, avevo scoperto che lungo quel cammino, il legno scricchiolava pochissimo) e mi accucciai con cautela a lato delle porte scorrevoli della sala.
«Mi auguro che il viaggio sia stato tranquillo» sentii la voce di Morikawa
«Siamo ben scortati e sappiamo di non aver nulla da temere in queste terre, non siamo noi il nemico» rispose uno sconosciuto
«Nessuno è un nemico»
«Amico mio, so che tu insisti con la tua linea diplomatica, ma sai anche tu che siamo agli sgoccioli: la tensione sta raggiungendo il culmine, presto o tardi basterà un incidente qualsiasi per scatenare la rivolta»
«Non possiamo permetterlo. Non possiamo» lo sentii opporsi con veemenza. «Hai sentito anche tu le notizie che arrivarono quando i Tokudaiji cominciarono a conquistare i territori adiacenti»
«Orribili, certo, ma»
«”ma” che cosa? Amico mio, parliamo di uomini uccisi a centinaia, donne rapite, figli orfani, popolazioni ridotte alla fame. Noi dobbiamo trovare una soluzione pacifica»
«Parleremo domani, ti dispiace? Sono stanco, questi lunghi viaggi non sono più adatti a quelli della nostra età» lo sconosciuto sviò il discorso, addolcendo il proprio tono di voce
«Ma certo, i ragazzi dormono nella stanza a fianco, per stasera ti farò accomodare qui, domani ci sistemeremo meglio».
Li sentii che si alzavano in un frusciare di kimono e cuscini, quindi mi affrettai a tornare indietro. Afferrai il pitale e tornai in punta di piedi nella camera. Mentre svuotavo la vescica mi maledissi: mi ero gelato il culo lì fuori solo per scoprire che erano arrivati degli ospiti durante la notte, bella scoperta! Ero proprio un fesso.

Il mattino seguente nessuno venne a svegliarmi, quindi continuai a dormire imperterrito fino a metà mattina. Mi alzai quando ormai la luce era troppo forte per continuare a dormire. Mi vestii e consumai una rapida colazione nella stanza. Mentre mangiavo, un inserviente mi avvisò che per quel giorno ero stato esonerato dagli allenamenti ed ero libero di fare quel che volevo. Ormai erano svariate settimane che non provavo la gioia tipica di quando ho un giorno libero dal lavoro, peccato che mi mancassero i miei soliti passatemi: manga, videogiochi e patatine.
Decisi di andare al villaggio, dovevo cercare del materiale per farmi delle altre mutande, inoltre volevo dare un’occhiata al Giappone in cui ero finito. Ero curioso di vedere come si viveva e com’erano fatti i centri abitati, non ricordavo molto di ciò che avevo visto al mio arrivo lì.
Scrissi qualche riga sul foglio che portava la data del giorno prima, completando la pagina di diario, dopodiché andai nell’ala sud della villa e salii le scale per andare a cercare Kazuo nelle piccole stanzette dove risiedevano alcuni degli uomini del piccolo esercito dei Morikawa. Ero curioso di vedere quel mondo, ma non ero scemo: ero ancora incapace con la lama, al punto che mi avrebbero ucciso senza difficoltà, ma portando Kazuo con me avrei avuto una guida per non perdermi, un compagno per guardarmi le spalle e un alleato massiccio con cui la gente avrebbe difficilmente attaccato briga. E dire che lui era un ragazzo tanto tranquillo. Non era un gigante buono, anzi, se doveva tirarti un ceffone te lo dava e se doveva difendersi lo faceva senza alcuna pietà per il suo nemico, ma non era tipo da cercare la rissa e parlava in maniera gentile a confronto degli altri compagni che erano l’equivalente cinquecentesco di un branco quindicenni ribelli e sboccati.
«Kazuo kun, ci sei?» domandai affacciandomi alle camerate
«Ehilà Kazunari» salutarono alcuni compagni d’arme. «Hanno dato il riposo anche a te?»
«Finalmente» mi limitai a rispondere. Erano simpatici, non avevo nulla contro di loro, però non sono mai stato bravo nelle relazioni pubbliche.
«E’ qui che sta sistemando il futon» risero dalla stanza infondo. «Kazuo! Ti cercano!».
Il ragazzo si affacciò al corridoio con in braccio alcune coperte. «Kazunari, buongiorno» sorrise. «Mi cercavi?»
«Volevo fare un giro al villaggio, da quando sono arrivato non sono mai uscito dalla villa, ho voglia di andare un po’ in giro» gli spiegai. «Però mi serve qualcuno del posto, ti va di accompagnarmi?»
«Ma certo, finisco qui e andiamo» annuì tutto contento.
Parlava spesso del villaggio, ci abitavano le tre sorelle con le quali era cresciuto, le uniche parenti che gli fossero rimaste. Una sapeva cucire e guadagnava qualcosa facendo rammenti e piccoli lavoretti, un’altra faceva le consegne per alcuni negozi, mentre la più piccola andava ancora a scuola. Per quanto ognuna facesse del suo meglio, era il salario da guerriero di Kazuo che manteneva tutti quanti.
Un’ora dopo eravamo sulla strada per il centro abitato portando con noi un mulo e una lista di cose da comprare che ci era stata data da Haruko, che era una specie di governante alla villa, la signora suprema della cucina: dato che andavamo fino al villaggio aveva deciso di sfruttarci e farci comprare quel che serviva, così da non dover mandare qualche inserviente o le servette che erano più utili a casa in quel momento, dato che c’erano ospiti.
Io però non avevo visto facce nuove, ma era anche vero che non avevamo incrociato nessuno per i corridoi della villa o nello spiazzo. Ovunque fossero i Morikawa e i guerrieri non a riposo, non erano lì quel giorno.
«E te lo tiene bene?» domandava Kazuo lungo la strada
«Certo che sì, hai visto cosa ho fatto l’altro giorno?»
«Oh sì, pazzesco! Non ho mai visto nessuno fare una cosa del genere» disse guardandomi sbalordito. Durante l’allenamento del giorno prima avevo schivato un colpo e mi ero fatto indietro con un backflip: era una delle poche cose acrobatiche che sapessi fare e aveva stupito tutti, compreso Toshinori. «E dici che è tipico del tuo paese»
«Sì, per quello ho bisogno di questo indumento» annuii, stavo cercando di spiegargli l’utilità delle mutande: non avrei mi fatto backflip senza indossarne un paio. «E’ specifico della nostra zona perché anche quella mossa è delle nostre parti»
«Da come lo descrivi sembra che i combattenti da te volino e saltino tutti»
«Più o meno» risposi stringendomi nelle spalle. Mentire a Kazuo non era divertente come con Toshiaki. Ci credeva quanto il bambino, ma non avevo voglia di raccontargli bugie, non a lui. Avendo cominciato l’allenamento insieme, eravamo un po’ come compagni di classe: eravamo molto diversi, quindi ciò in cui lui riusciva a me non veniva e viceversa, allora cercavamo di aiutarci e di compensarci durante gli allenamenti. Apprezzavo la sua compagnia, faceva poche domande e non era eccessivamente chiacchierone.
Il villaggio mi fece una strana impressione. Molte case erano costruite di sola paglia e poco legno per tenerla insieme, i tetti sembravano ciuffi d’erba gialla pronta a prendere fuoco da un momento all’altro. Alcune costruzioni invece erano soprattutto in legno, sapientemente incastrato come da regola dell’architettura giapponese. Le strade non erano cementificate, chiaramente, ma non c’era nemmeno un acciottolato o una lastricazione rudimentale, era solo terra. C’erano sentieri più larghi e calpestati nelle due vie principali, poi c’erano sentierini meno chiari, alcuni poco visibili e coperti dalle foglie secche. Pensavo di essere finito in qualche villaggio sperduto dell’africa nera, invece ero nel mio paese, in Giappone, il paese che nel mio mondo era la seconda potenza mondiale.
Come prima cosa passammo a casa di Kazuo. Girare per le stradine delle case popolari fu un vero trauma. Gli odori erano meno forti della prima volta perché il freddo gelava ogni cosa, ma non poteva comunque nascondere del tutto la puzza di feci, quella degli animali nei cortili o l’odore di legna bruciata. Quelle case ovviamente erano messe peggio della villa in quanto a spifferi, ma erano spesso ad una stanza unica, quindi le persone dormivano lì dov’era acceso ancora il fuoco del pasto serale. Anche per questo le case andavano a fuoco facilmente. Non c’era solo la guerra ad attentare alla vita delle persone.
Noi arrivammo all’ora di pranzo e nessuna delle sorelle era in casa. Preparammo del riso e una zuppa con dentro un po’ di avanzi: i sapori cozzavano tra di loro in maniera quasi disgustosa, ma era un pasto più succulento di quello che mangiavamo nei giorni di allenamento, quindi spazzolammo tutta la pentola senza lamentarci di nulla.
Dopo aver bevuto un pochino di sake da un vecchio otre, ci rilassammo davanti al fuoco su cui avevamo cucinato, aspettando che morisse per poter lasciare la casa in sicurezza. Avrei pagato oro per un fuoco così davanti al letto la sera, ma rischiavo di morire bruciato, quindi a malincuore accettavo il mio gelido destino. Fissai le fiamme annotandomi mentalmente di abbracciare il mio climatizzatore e di trattarlo bene una volta che fossi tornato.
Oltre al fuoco, anche il sake ci aveva scaldato, così ci rimettemmo in strada belli pimpanti, pronti a fare la spesa. Prendemmo il riso, comprammo un paio di frutti e alcuni tessuti. Era lì che stavo rovistando nella vana speranza che mi venisse qualche idea brillante: non avevo fatto caso che le mutande si reggevano grazie agli elastici e di certo non avrei trovato fasce elastiche con cui cucirmene un paio, quindi dovevo trovare una soluzione alternativa, perché in inverno gli indumenti ci mettevano molto ad asciugarsi e non mi andava di affidare alle servette il mio intimo solo perchè al calore della cucina sarebbe stato asciutto più in fretta, quindi avevo urgente bisogno di uno o due ricambi.
Proprio mentre io capovolgevo tessuti e nastri, e Kazuo mi guardava imbarazzato notando gli sguardi perplessi della padrona del negozio, delle persone armate entrarono dalla porta. «Dov’è il proprietario?» chiesero ad alta voce, come se il posto fosse loro
«Signori, sono io. Ditemi, che posso fare per voi?» domandò la donna avvicinandosi a loro a capo chino, con fare ossequioso. Era abbastanza spaventata, il che mi suggerì di rimanere nascosto dietro una pila di stoffe.
«Sequestriamo il negozio» rispose un altro
«Come? Signori, che ho fatto?» squittì la donna allarmata
«Taci donna, esci di qui» fece il primo spintonandola verso l’uscita. «Anche tu garzone, fuori» dissero verso Kazuo.
Il mio compagno lanciò un’occhiata nella mia direzione senza vedermi, quindi si inchinò e si avvicinò alla donna. «Signora usciamo, è meglio»
«No, vi prego! Non potete togliermi la bottega» aveva cominciato ad implorare alzando la voce per la paura
«Falla stare zitta o ci penseremo noi» asserì serio quello che doveva essere il capo
«Lei è accusata di aver venduto ai ribelli del Signore di queste terre. È in combutta con i sovversivi, quindi per legge la priviamo di ogni mezzo per appoggiare la causa di questi individui che lottano contro la pace dei Tokudaiji» spiegò un terzo, intanto altri due cominciavano a girare per lo spazio angusto della bottega, guardandosi in giro.
Per non farmi scoprire mi nascosi sotto un tavolo di stoffe spiegazzate che mi avrebbero coperto. Non sapevo bene perché mi fossi nascosto o che cosa intendessi fare una volta lì sotto: non li avrei certo attaccati per difendere la signora, quindi perché rischiare di farmi scoprire ed essere così sospettato di volerli prendere alla sprovvista? O magari di essere uno dei ribelli! (cosa quasi vera, tra l’altro) Non sarebbero andati molto per il sottile e io non ero ancora capace di difendermi a dovere, quindi perché quella mossa?
Il sake. Doveva essere colpa del sake.
Ad un certo punto, uno del gruppetto armato cacciò un lamento e cadde a terra stordito. «Che succede? Cos’è stato?» domandarono i compagni accorrendo. Il tizio era caduto con la faccia rivolta verso il mio tavolo, se non fosse stato privo di sensi mi avrebbe visto e avrebbe avvisato gli altri.
Altri passi si aggiunsero a quelli del gruppo armato, grida di battaglia e di ordini e sentii lo stridere insopportabile delle lame. Alzai gli occhi al cielo perché quello sicuramente non era il mio giorno fortunato: volevo solo un paio di mutande, era chiedere troppo?
Dopo alcuni momenti di confusione e di battaglia, un ferito venne a sbattere contro il tavolo e lo rovesciò rivelandomi a tutti. Per un attimo non vidi niente perché alcuni lembi di stoffa mi cascarono sulla testa e mi presi un mezzo infarto quando, tolto l’ultimo strato di lino ruvido, mi trovai una lama a pochi centimetri dal viso. Ci vollero pochi secondi per capire che non era puntata contro di me, ma era ancora in mano al tizio che era rovinato sul tavolo.
Tutti urlarono a tutti della mia presenza, probabilmente nessuno dei presenti mi riteneva dalla sua parte dato che non sapevano che fossi lì, quindi presi la lama che avevo davanti al naso e la tirai verso di me, in preda al panico: se non mi fossi difeso sarei morto su due piedi, per mano dell'una o dell'altra parte. Mi tagliai immediatamente le palme delle mani: non era una tachi da allenamento, ma una reale e ben affilata. Trattenni a stento un grido di dolore, ma non rinunciai a prendere con me l'arma anche perchè con la coda dell'occhio intuii che una figura si stava avvicinando velocemente per scagliarsi contro di me. L'adrenalina provata durante i combattimenti di allenamento non era nulla in confronto a quella che mi spinse a muovermi in quel momento: senza aver ancora impugnato a dovere la tachi del nemico stordito, gattonai rapidamente sotto un tavolo vicino, ma chiunque mi stesse inseguendo ci si avventò contro e lo ribaltò immediatamente. Gattonai sotto il terzo tavolo ancora stringendo nella mano destra la lama. Avevo il fiato corto nonostante non avessi ancora fatto nessuno sforzo fisico, sentivo la gola secca e gli occhi che mi bruciavano.
Ancora una volta il mio inseguitore rovesciò la mia copertura mentre passavo sotto il quarto e ultimo tavolo. Il ginocchio che mi ero ferito quasi due mesi prima cominciò a farmi male e anche l’altro non prese bene il fatto di dover sbattere contro il legno ad una simile velocità. Nel frattempo mi decisi ad impugnare la spada dalla parte dell’elsa, cosa non facile perché dai tagli avevo cominciato a perdere un sacco di sangue e tutto ciò che toccava veniva macchiato e diventava viscido. Sul momento non ci feci caso comunque, perché saltato via il quarto tavolo mi ritrovai totalmente scoperto. L’uscita era vicina però, avrei dovuto resistere il tempo di qualche parata e sarei fuggito. I battiti del mio cuore mi rimbombavano nelle orecchie e quando riuscii a bloccare il primo attacco del mio nemico, l’affondo fu talmente violento che mi sembrò di sentire la percossa come se fosse stata data direttamente sull’osso del mio braccio invece che sulla spada. Rimase a guardarmi con una faccia spaventosa, probabilmente la stessa espressione che ha un leone quando sta per uccidere una lepre, ed io avevo cominciato a lacrimare, il che non contribuiva a rendermi un nemico temibile. Non sapevo nemmeno per cosa fosse quel pianto: paura? Dolore?
Fui fortunato che uno dei nuovi arrivati -vestiti di scuro, incappucciati e col viso coperto- attaccò alle spalle il mio aggressore, affondando la propria arma nella sua schiena. L'espressione feroce che aveva fino a poco prima si sciolse in un misto di incredulità e sofferenza. Mi gridò in faccia il suo dolore e prima di accasciarsi sputacchiò del sangue sul mio kimono.
Estratta la lama dal corpo del nemico che mi morì addosso, l’attaccante in abiti scuri mi fissò per qualche secondo ed io lo guardai a mia volta: ero sicuro che mi avrebbe infilzato come uno spiedino ed io non avrei mai fatto ritorno a casa.

¹ (il titolo) il guerriero delle mutande
² Il guerriero J
³ Significa “bravo”, “capace”, “dotato”
⁴ Il guerriero Keio, il nome dell’università di Tokyo in cui ha studiato Sakurai Sho
⁵ "chan" è un suffisso usato soprattutto per i bambini o comunque come vezzeggiativo, poco adatto ad un samurai insomma
⁶ Il guerriero pescatore
⁷ A seconda del kanji usato “ryōshi” può significare pescatore o cacciatore
⁸ Nell’epoca Tokugawa (1603-1868), chiamata così dagli omonimi shōgun che si sono succeduti negli anni, la società giapponese era divisa in quattro classi molto rigide secondo il sistema chiamato mibunsei: samurai, contadini, artigiani, mercanti (in ordine di importanza). la classe di appartenenza si ereditava, quindi non era prevista alcuna mobilità o scalata sociale.
⁹ E' la pietra su cui si prepara l'inchiostro
¹⁰ Il panno da mettere sotto il foglio, serviva a non macchiare il tavolo con l'inchiostro che fosse eventualmente filtrato attraverso la carta


Più leggo il titolo più rido. Mi spiace per Nino, ma sto morendo di risate nel leggere le sue disavventure (ehm... veramente sei tu quella che le scrive....). Però mi vengono anche i brividi, per gente come noi, finire in un tempo così primitivo dev'essere duro e un po' mi dispiace per Ninuccio. Ma apprezzo l'ironia e l'arrangiarsi con cui cerca sempre di cavarsela. E finora ce l'ha fatta, in qualche modo. Adesso però c'ha un uomo morente tra le braccia e rischia di diventarlo a sua volta, per mano di un tipo irriconoscibile... e poi chi sono i nuovi ospiti misteriori?
Vorrei proprio sapere come va a finire! (ti ripeto che sei tu che la scrivi questa roba!)

Grazie a Rebel Girl e WhenItsTime per i commenti carinissimi e stimolanti *-* I love you!

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Capitolo 6
*** 5. Scontro con la realtà ***


Si dice che nei nostri ultimi attimi, vediamo scorrere davanti ai nostri occhi tutta la nostra vita. Balle.
Se state tirando le cuoia nel nostro comodo lettuccio potrebbe anche darsi, ma se stanno per ammazzarvi senza preavviso no, credete a me. In realtà non so a cosa ho pensato in quel momento, ma sicuramente niente di complesso, anche perché certe cose accadono tanto rapidamente che non fai tempo a pensare “merda!” e succedono altre tre cose diverse.
Sono qui a scrivere, quindi è logico che non sono morto. Non era la mia ora, per fortuna, ma in quel momento gli occhi della persona davanti a me non contenevano quella promessa di sopravvivenza, quindi è possibile che io abbia pensato proprio “merda!”. Non è questo gran pensiero per essere l’ultimo della propria vita, dev’essere per quello si racconta di veder scorrere la propria vita: è più poetico. Del mio avversario vedevo solo lo sguardo, il resto del viso e del corpo era nascosto dall’indumento scuro che lo avvolgeva. Ma anche se gli leggevo nelle pupille il desiderio di uccidermi, non lo fece: calciò senza alcuna pietà il corpo del morto che mi stava in grembo per levarmelo di dosso, quindi mi puntò la lama al petto. «In piedi» mi intimò. Alle sue spalle un collega, imbacuccato di nero anche lui, lo difendeva da un attacco.
Mi alzai lasciando cadere a terra l’arma. Fu quasi doloroso perché il sangue aveva cominciato a coagularsi a contatto con l’aria e aveva reso appiccicosa la mia presa sull’elsa. Però anche tenere la spada in pugno era doloroso, perché il cuoio dell’impugnatura sfregava sulle estremità di pelle del taglio che avevo sul palmo.
Lo sconosciuto passò alle mie spalle e mi puntò la lama al collo. Era alto quanto me, quindi non sarebbe stato impossibile sopraffarlo fisicamente, ma in quel momento speravo solo che si accorgesse che ero disarmato, innocuo e inutile: la mia vita non valeva nulla in quel conflitto, quindi se mi avesse fatto il favore di lasciarmela gli sarei stato più che riconoscente.
«Abbiamo un ostaggio! Andiamo!» gridò agli altri lo sconosciuto. Qualcuno gli coprì la ritirata difendendolo dai guerrieri in armatura, di modo che potesse fare il giro del negozio indisturbato, tenendomi sempre l’arma contro la gola. Con un calcio aprì la porta sul retro.
«Vi raggiungiamo subito» dissero alcuni dei suoi compagni e lasciarono che noi due uscissimo da soli.
Mi spinse bruscamente nel cortile puntandomi sempre l’arma contro. «Cammina» ordinò pungendomi la schiena con la punta della spada. Non mi ferì, ma non fu nemmeno come ricevere una carezza, però non protestai e cominciai subito a muovermi.
Uscimmo dal cortile e girammo a destra allontanandoci dalla strada principale dove Kazuo probabilmente era ancora in compagnia della padrona del negozio. Dopo la seconda svolta ci avvicinammo ad un alto steccato intorno al cortile di una casa. Lo sconosciuto abbassò leggermente la guardia, aiutandomi a eseguire i suoi ordini: avvicinare due casse di legno e impilarle. Dopodiché mi fece salire in piedi e scavalcare la staccionata cadendo malamente nel terriccio polveroso del cortile dall’altra parte. Lui mi seguì, atterrando con l’agilità di un felino.
Pochi secondi dopo sentii dei passi pesanti e delle voci per la strada che avevamo appena abbandonato: gli uomini armati erano usciti dalla bottega e mi cercavano urlando. Mi venne chiusa la bocca con una mano e ascoltai gli uomini parlare tra di loro, dicendo di aver controllato in varie vie senza trovar traccia mia o del mio rapitore. Capii che avevano finalmente compreso che io non ero un ribelle, perché l’attacco era stato dei ribelli stessi e non avrebbe avuto senso auto-prendersi in ostaggio. Ma se non ero un ribelle e non ero nemmeno dalla loro parte, allora ero un Signor Nessuno, quindi decisero di lavarsi le mani della mia sorte e le loro voci svanirono in lontananza.
«Va tutto bene? Ti sei ferito?» mi domandò il mio rapitore. Aveva rinfoderato la spada, ma anche senza quella minaccia mi sembrò di aver perso la capacità di proferire parola. Avrei voluto rispondere, ma non riuscivo ad emettere alcun suono, avevo addirittura l’impressione di non sapere più come si facesse a comandare alla bocca di muoversi e alla gola di emettere suoni. Non ero lucido a sufficienza nemmeno per chiedermi come mai quello che mi aveva minacciato di morte poco prima, ora mi stesse chiedendo se ero integro.
«Ninomiya sama?» domandò ancora.
C’era una sola persona che mi chiamasse così in quel mondo.
Rie abbassò il tessuto che le copriva la parte inferiore del viso ed io la riconobbi. La ragazza posò lo sguardo preoccupato sulla mia figura rannicchiata nel terriccio del cortile. «Quanto di questo sangue è tuo?» chiese ancora, prima di aprirmi il kimono denudandomi il petto senza tante cerimonie. Ma non ero ferito e anche se non le riposi, lei capì che le macchie sulla parte superiore dei miei indumenti erano dovute al tizio che mi era candidamente spirato tra le braccia.
Richiuse il kimono e prese le mie mani tra le sue costringendomi ad aprirle per mostrarle i palmi, cosa che si rivelò dolorosa ed ebbi l’impressione di perdere altro sangue. «Solo questo è tuo?» chiese ancora. «Ninomiya sama, rispondi» mi ordinò con voce dura, guardandomi severamente nel occhi.
Provai ad aprir bocca, ma non emisi alcun suono. Solo quando mi strinse leggermente le mani feci un gemito strozzato chiudendo gli occhi. Feci per tirarmi indietro, ma lei mi trattenne per i polsi. «Ce l’hai la voce, quindi rispondimi: eri da solo? C’era qualcuno dei nostri con te? Queste sono le tue uniche ferite?»
«Kazuo era già uscito prima dell’attacco» dissi infine. «Ho solo queste».
Quando riaprii gli occhi, Rie mi aveva lasciato i polsi e aveva recuperato una borraccia da chissà dove, facendo cadere l’acqua sulle mie ferite. «Guarda, non sono molto profonde» mi disse quando la maggior parte del sangue fu lavato via, lasciando in vista la carne tagliata, viva e rossa. «Hai fatto una sciocchezza vero? Hai preso una spada dalla parte sbagliata» indovinò, mentre frugava dentro una piccola sacca. Era nera quanto i suoi indumenti, ecco perché non l’avevo vista. Tirò fuori una striscia di tessuto, la strappò in due e me la girò intorno alle mani. «A casa te le cureranno meglio, ma intanto vediamo se il sangue si ferma così» mi spiegò con voce tranquilla, quindi chiuse anche il secondo nodo.
«Era pesante» mormorai con gli occhi fissi sulle bende. «Mi è caduto addosso e poi è diventato pesantissimo. Non faceva più alcuna resistenza»
«È così quando le persone muoiono. Da te non muore nessuno?» disse Rie
«Sì, ma tra le mie braccia…» farfugliai sbattendo le palpebre. «Così, nessuno prima»
«Sei stato bravo Ninomiya sama» mi rincuorò la ragazza spingendomi a mettere i palmi delle mani l’uno contro l’altro, tenendomi ancora i polsi, con più gentilezza. «Hai cercato di salvarti con tutti i mezzi a tua disposizione, sei vivo, è questo che conta»
«Non ho ucciso nessuno» le feci notare. Ne ero felice, ma in parte mi sentii in colpa perché tutto sommato ero dalla loro parte e non da quella degli uomini armati, quindi facendo fuori qualcuno li avrei aiutati.
«Meglio così. Non sapevi chi avevi davanti, pensavi solo a salvarti la vita quindi avresti ucciso chiunque indiscriminatamente» spiegò con un sorriso rincuorante. «Sei stato bravo, Ninomiya sama. Ora torniamo a casa».
Forse suonerà infantile, ma sentirmi dire di essere stato bravo mi rese tanto felice che avrei pianto.

Tornammo a casa molto dopo l’ora di cena.
Io e Rie mangiammo nella casa dei padroni del cortile dove ci eravamo riparati: conoscevano i ribelli e ci offrirono volentieri del riso con dell’uovo crudo da mescolare nella ciotola. Contando che all’epoca non esisteva il denaro e che la moneta di scambio era proprio il riso, ci offrirono un pasto regale.
Dal villaggio uscimmo seguendo viuzze secondarie che Rie sembrava conoscere come le sue tasche anche al buio. Io inciampavo ogni tre passi: non erano asfaltate e non c’era illuminazione elettrica notturna, immaginatevi voi…
Solo quando lasciammo il centro abitato per avviarci con più tranquillità lungo i sentieri della foresta, dalle tenebre spuntarono alcuni uomini. Mi accorsi di loro solo perché fu lei ad indicarmeli o perché parlavano o ci salutarono. Dopo una trentina di minuti di cammino, eravamo una nutrita compagnia che si inoltrava per i sentieri del bosco immerso nelle tenebre, roba che nel mio tempo non avrei fatto nemmeno per tutto l’oro del mondo a meno di avere una torcia, cosa di cui ero sprovvisto in quel momento. Si presentarono quasi tutti, ma io non conoscevo nessuno di loro. Non erano frequentatori dei quotidiani allenamenti di Toshinori. Molti non parlavano, camminavano in silenzio e non sembravano nemmeno fare rumore muovendosi, alcuni chiacchieravano a coppie o in piccoli gruppi, ma tenevano sempre la voce bassa.
Quando fummo in vista della casa, la maggior parte di loro salutò Rie e si dileguò nell’oscurità, alcuni ci scortarono fino alla porticina di legno delle mura, ma dopo che la oltrepassammo non li vidi più. Entrammo al sicuro della villa e nello spiazzo c’era un fuoco acceso, davanti ad una delle due entrate ai lati della veranda anteriore della casa. Un piccolo braciere intorno al quale, infreddoliti, aspettavano Toshiaki, Yukino, la governante Haruko, Kazuo e gli altri due ragazzi che avevano cominciato gli allenamenti il mio stesso giorno. Non mi stupii solo di trovare loro (di cui nemmeno ricordavo il nome), ma anche di tutti gli altri.
«Rie!» Toshiaki ci vide per primo e si alzò subito in piedi, attraversando di corsa lo spiazzo
«Toshiaki sama!» esclamò Yukino preoccupata, vedendolo schizzare via.
Il bambino saltò agilmente in braccio alla sorella, stringendola felice e sollevato.
«Kazunari» dissero i miei compagni venendomi incontro. «Sei vivo! Temevamo fossi morto»
«Non me lo sarei mai perdonato» disse Kazuo mettendosi in ginocchio e chinando il capo. «Kazunari, non avrei dovuto abbandonarti. O almeno sarei dovuto rientrare a difenderti, ad aiutarti nella ritirata. Mi sono comportato in modo così disonorevole»
«Kazuo» gli dissi. Mi ero abituato a non usare alcun onorifico con i miei compagni d’arme. «Non sono arrabbiato, ma chiedimi scusa domani» cercai di spiegarmi stancamente
«Kazunari sama, avrete freddo» pigolò Yukino. La giovane cameriera aveva tra le braccia una coperta di quelle che avevamo in camera io e Toshiaki. La ringraziai con un debole sorriso e me la misi sulle spalle, rendendomi conto in quel momento che la stanchezza mi aveva reso temporaneamente inconsapevole del freddo che in realtà mi faceva rabbrividire costantemente.
«Yukino, vai a chiamare mio padre, il nostro ospite si è ferito» ordinò Rie con gentilezza. «Voi ragazzi, spegnete il fuoco e andate a riposare. Domani avrete gli allenamenti e avete bisogno di dormire»
«Sì, Rie sama» dissero i tre con un profondo inchino
«Ci vediamo domani mattina» li salutai io sforzandomi di fare un ultimo sorriso.
Rientrammo in casa e Toshiaki scese dalle braccia della sorella per farci strada verso la camera. «Abbiamo avuto degli ospiti, sai Rie?» cominciò a dire. «Papà era arrabbiato che nostro cugino non fosse a cena con noi»
«Mi scuserò domani» mi affrettai a rispondere. Quando era stato deciso il mio ruolo di cugino, Rie era già partita e l’ultima cosa di cui avevo bisogno in quel momento era far saltare la mia copertura. Ma la ragazza non mi lanciò alcuna occhiata stranita e non cambiò espressione: o le era già arrivata la notizia o aveva una faccia da poker eccezionale!
Yukino venne in camera per avvisarmi che sarei dovuto andare in camera del signor Morikawa per ricevere le cure, così lasciai i fratelli da soli e, sempre con la coperta sulle spalle, mi avviai lungo i corridoi fino alla stanza del padrone di casa. Era mezzo intontito dal sonno, ma il rincoglionimento non fu sufficiente a fargli dimenticare che mi doveva sgridare.
«Da quando sei arrivato non fai altro che ferirti» mi fece notare con voce roca dal sonno
«Sono desolato». Mi trattenni dal fargli notare che per me non era un gran sollazzo continuare a farmi male!
«Tu e Kazuo non arrivavate più e Haruko ha dovuto arrangiarsi per la cena» continuò togliendo le bende e tastando le ferite
«Mi spiace, non era nostra intenzione creare tanti fastidi». Tutto quello era successo solo per delle mutande, maledizione. Avrei dovuto arrangiarmi in qualche altro modo.
«Domani hai l’allenamento vero? Non potrai impugnare alcuna spada per i prossimi sette giorni» mi spiegò pulendo le ferite e spalmandoci su una pappetta strana e dal forte odore, simile a spezie o erbe. «Non impugnare niente con forza, rischieresti di far riaprire le ferite. Terminato questo periodo credo tu possa riprendere gli allenamenti senza alcun problema, magari i primi giorni non esagerare» consigliò in tono dolce.
Il signor Morikawa sembrava bipolare a volte, in lui c’erano due persone: il dottore e il capofamiglia; il primo era gentile e premuroso con chiunque, sorrideva, era paziente ed aveva sempre una parola rincuorante; il secondo era testardo, scorbutico, intransigente e ferreo nelle sue convinzioni.
«Cerca comunque di svolgere i tuoi compiti in maniera impeccabile domani e vedi di essere pronto per la cena. Darò disposizione ai servi di cercare un vecchio kimono di Toshinori che sia adatto all’occasione, un tempo ha avuto anche lui la tua corporatura quindi dovrebbe andarti bene. Dovrai scusarti con gli ospiti per la tua assenza» mi spiegò mentre rifaceva la fasciatura con delle bende pulite prese dai suoi bauli pieni di boccette, tele e altre cianfrusaglie utili alle medicazioni.
«Posso sapere chi sono?» domandai stringendo i denti per il dolore mentre le bende sembravano strizzarmi le mani tanto erano strette
«Te ne ho già parlato credo. Ujie Masamune, è il capofamiglia degli Ujie. Lui e la figlia sono arrivati eri sera»
«Sono i precedenti signori di queste terre, giusto?» chiesi piano
«Hanno mantenuto i loro possedimenti perché non si sono opposti apertamente ai Tokudaiji, ma di fatto non controllano più nulla: riscossione delle tasse, leggi, giustizia… è tutto nelle mani dei nuovi padroni».
Avrei voluto chiedere di più. La discussione che avevo origliato per caso la sera prima doveva essere stata proprio con questo Ujie Masamune, ma qualcosa mi diceva che il signor Morikawa non avrebbe preso bene il fatto che io avessi sentito qualcosa. Si fidava di me e per questo mi aveva accolto, ma era passato ancora troppo poco tempo perché potessi azzardare ad ammettere un’azione simile senza che cominciasse ad esserci qualche sospetto –seppur vago- sul fatto che io fossi una spia. Tra l’altro ero una persona fuori posto, anzi, fuori tempo, quindi cosa fosse venuto a fare il capo degli Ujie in quella casa non era affar mio. Soprattutto se per fare quella cosa era dovuto arrivare nel cuore della notte pur di non essere visto. La cosa mi puzzava, ergo: non dovevo interessarmene.
Quando la medicazione fu conclusa ringraziai e tornai nella mia stanza.
«Come ti stai trovando?» mi domandò Rie quando entrai
«Qui dici?» chiesi richiudendo gli shoji e andando a sedermi sul futon. Lei a aveva già messo a dormire Toshiaki che respirava profondamente nell’oscurità. «A parte che continuo a farmi male -come tuo padre mi ha fatto notare- e che sembro sempre un pesce fuor d’acqua -come Nagatoshi non scorda mai di ricordarmi- direi che…» mi bloccai. Cosa stavo per rispondere? «Non lo so» conclusi senza nemmeno rendermene conto. «Non è che stia male: mangio tutti i giorni, ho un tetto sulla testa, coperte per dormire al caldo e un medico ogni volta che qualcosa non va. Ho anche fatto amicizia con qualcuno dei ragazzi, cioè dei guerrieri» mi corressi. Erano ragazzi anagraficamente, però non facevano niente che per me fosse definibile come “da ragazzi”. «Ma non posso dire di stare bene. Allenamenti massacranti, rischio di morte quotidiano, assenza di norme igieniche, di elettricità, di konbini, del cibo che mi piace, della mia casa, della mia famiglia, dei miei amici» elencai sentendomi sempre più sconfortato
«Ti manca casa» annuì Rie nell’oscurità, c’era solo una candela quasi finita ad illuminare un poco la stanza
«Non voglio che tu pensi che io sia un ingrato» mi corressi, riprendendomi da quel mio elenco devastante. Con lei ero sempre molto sincero, cosa che con suo padre non sarei mai stato, non fino a quel punto. «Anzi, non avrò modo di ringraziarvi a sufficienza per quello che state facendo. Tra l’altro non faccio che combinare guai. Ma se devo essere sincero non so se mi trovo del tutto bene» conclusi con un sospiro. «Almeno ci sono un po’ di persone con cui ho fatto amicizia. Kazuo mi piace. Anche Toshinori è interessante. E Toshiaki è un buon compagno di stanza. È un ragazzo sveglio»
«E’ il mio preferito» fece lei.
Mi trattenni dal farle notare che era l’unico fratello a cui rivolgesse la parola senza problemi. «Ci avrei scommesso» mi limitai a dire. «Certo non poteva essere Nagatoshi. Sfido chiunque ad averlo come favorito: è più acido del latte cagliato e ha la stessa simpatia di una sberla» sbuffai stiracchiandomi.
Da qualche minuto ero tornato consapevole della stanchezza mostruosa che mi intorpidiva il corpo: dire che era stata una giornata schifosa non rendeva l’idea, volevo solo dormire e buttarmela alle spalle. Ma quella camera era stata delle sorelle -Akemi e Rie- il che mi fece sorgere un improvviso dubbio. «Dove devo dormire questa notte?» ebbi la forza di domandare. Avevo gli occhi già chiusi a metà e mi girava la testa per la stanchezza.
Io non avrei avuto problemi: mi bruciavano le mani ed ero maledettamente a pezzi quindi non sarei certo saltato addosso a quella ragazza; ma sarebbe stato molto sconveniente per quell’epoca far dormire un uomo e una donna nella stessa stanza, a meno che non fossero sposati.
«Qui, Ninomiya sama» rise piano lei. «Sei il cugino maschio e nostro ospite. Dormirai con Toshiaki, io andrò da un’altra parte». Aveva ragione, era lei l’ultima ruota del carro, non io. Anche se ero io ad essere estraneo lì dentro, mentre quella era casa sua.
Annuii. «Ah, non ho più quel nome» dissi sbadigliando
«Ninomiya?»
«Ora sono Morikawa Kazunari. Sono tuo cugino, quindi puoi chiamarmi “Kazunari”, penso» spiegai stringendomi nelle spalle
«O “cugino”» aggiunse Rie
«No, quello no. Nagatoshi mi chiama così, e lo fa sempre con un tono che non mi piace. Mi sembra un insulto, più che un nome» spiegai.
La giovane si alzò in piedi dando un’ultima carezza al fratello minore. «Non volergli male» mi disse piano. Il suo tono sembrava avere una nota di tristezza. O magari ero io che me la stavo sognando? «Soffre molto. Per lui è difficile mantenere la sua posizione all’interno della famiglia. Se non puoi essergli amico, almeno non essergli nemico»
«Ehi, è lui che mi tratta come una pezza da piedi» grugnii. Non capivo quel discorso strambo: da quando in qua Rie si preoccupava per Nagatoshi? Ok che non conoscevo ancora bene quella famiglia, ma l’avevo vista parlare con il padre e con Toshinori molto raramente, e solo perché costretta dalle circostanza. Aveva un rapporto vero solo con Toshiaki, mentre di Nagatoshi non aveva mai parlato, né lui aveva mai nominato la sorella. Era un po’ come se l’uno non esistesse per l’altra e viceversa.
«Una cosa?» chiese Rie disorientata andando verso la candela
«Non importa, non importa» scossi il capo. «Mi cambio e vado a dormire, non riesco più a stare sveglio» tagliai corto
«Buona notte, Ninomiya sama» fece divertita soffiando sulla candela
«Non puoi» cantilenai al buio rendendomi conto che non vedevo più un accidenti, quindi non avrei mai trovato il kimono che usavo per dormire
«Non devi dimenticare chi sei, Ninomiya sama. Farò attenzione davanti agli altri se ce ne sarà occasione, ma io continuerò a chiamarti così: è questo il tuo nome» spiegò. Aveva interpretato le mie paure di qualche settimana prima, i pensieri che mi avevano spinto a cominciare a scrivere. Quando mi girai nella sua direzione non vidi più nessuna sagoma. Strizzai le palpebre e scossi la testa.
Mi infilai nel futon senza vestiti, ero troppo stanco per cercare altro da mettere e non sarei entrato nelle coperte pulite con addosso quella schifezza macchiata di sangue rappreso.

Per la cena con gli ospiti mi ero aspettato di indossare chissà quale splendido kimono da cerimonia, elegante e colorato: dopotutto erano una famiglia di guerrieri, avrebbero potuto permetterselo. Ma a quanto pareva, ero finito in una famiglia di guerrieri, sì, ma tirchi, quindi mi ritrovai ad indossare un kimono che mi teneva caldo ed era comodo, ma non era particolarmente sfarzoso. I colori erano scuri e poco appariscenti, ma le cuciture erano ottime e il tessuto era liscio e ben trattato. Lo trovai in camera quando tornai dagli allenamenti di quel giorno, pronto da essere indossato. Quando feci per togliermi i vestiti in cui avevo sudato, mi guardai le gambe martoriate: avevo le ginocchia blu per colpa dei lividi fatti durante la fuga e avevo ematomi e graffi praticamente ovunque, dalle cosce alle caviglie. Ed erano tutti freschi. Quella mattina, Toshinori mi aveva sgridato di fronte a tutti i compagni: aveva detto che non esisteva idiozia più grande dell’afferrare una spada dalla parte della lama. Avrei voluto controbattere con qualche frase sarcastica, ma la pelle sul palmo della mano tirava a sufficienza da farmi pensare che, sì, afferrare una spada dalla parte della lama era l’idiozia più grande. Avrei passato tutto il giorno in castigo: mi avevano fatto mettere in posizione seiza in un angolo del cortile a fissare gli altri che si allenavano, perché il medico mi aveva prescritto assoluto riposo manuale quindi non potevo combattere. Nel mio angolino, da solo, avevo passato non so quante ore, poi avevo visto che nella veranda si stavano accomodando il signor Morikawa e un altro uomo un po’ più in carne che non avevo mai visto: dato che erano seduti allo stesso livello e che lo sconosciuto veniva servito prima del padrone di casa, avevo ipotizzato che potesse essere uno degli ospiti, Ujie Masamune stesso. Non che me ne fregasse qualcosa: non usava la magia, quindi non era utile al mio piano di “Ritorno al futuro”.
Ad un certo punto le gambe avevano cominciato a formicolarmi e avevo anche un discreto freddo perché stare fermo all’aperto in Novembre non è un attività riscaldante e non avevo addosso niente di più pesante rispetto ai compagni che si stavano allenando. Allora ecco Rie venire in mio soccorso: l’avevo vista presentarsi nella veranda con vestiti molto semplici e rivolgere al padre qualche parola, con lo sguardo basso, dopodiché si era inchinata ed era venuta da me intimandomi di seguirla. Da quel momento avevo passato tutta la giornata ad allenarmi con lei. Erano stati tutti esercizi per i muscoli delle gambe: saltelli, salti, corsa, balzi di lunghezze non indifferenti, calci e combattimenti solo con le gambe. Le botte prese quel giorno e i loro segni si erano sommati ai tagli sulle mani e a tutti gli altri graffi, ematomi e ferite precedenti. Potevo denunciarli per violenza domestica?
Guardando quei segni, decisi che mi serviva un bagno. Non che l’acqua li avrebbe lavati via, ma mi sentivo acciaccato e rattrappito dal freddo e dalla stanchezza; se mi fossi rilassato un poco, forse ogni cosa avrebbe fatto meno male, e poi dovevo ancora levarmi di dosso lo schifo che mi era rimasto dalla rissa del giorno prima. Il punto però era che eravamo a metà Novembre, faceva un freddo maledetto e non c’era nessuna doccia, ma solo un’eventuale bacinella di acqua fredda da buttarmi addosso nel cortile, cosa che non avrei fatto, non quel pomeriggio. Il sole era ancora abbastanza alto, quindi chiesi indicazioni ai domestici della casa per arrivare ai bagni termali che si trovavano lì vicino.
Chiamarli bagni termali era certamente eccessivo, non c’era alcuna organizzazione con ingresso, spogliatoi e docce come io ero abituato, era solo una fonte di acqua calda che riempiva parecchi stagni formatisi tra le rocce. Si trovava dall’altra parte della collina rispetto a dove era costruita la villa dei Morikawa e anche dal villaggio ci voleva una buona mezzora a piedi, ma a quell’ora non avrei trovato nessuno: una volta usciti dall’acqua, i paesani ci avrebbero messo svariati minuti a tornare a casa, l’ora sarebbe diventata troppo tarda e non era consigliabile gironzolare per i sentieri dei boschi una volta calate le tenebre.
Si potrebbe quindi pensare che, se non era sicuro per loro, non lo sarebbe stato nemmeno per me; la differenza sostanziale è che loro ci sarebbero andati per puro diletto, mentre io ci sarei andato per togliermi di dosso lerciume, sangue incrostato e cattivi pensieri. Accettavo di rischiare un po’ per tutto quello.
Scelsi una pozza d’acqua piccolina e appartata, con massi alti a nasconderla, di modo da non correre il rischio di essere visto da nessun malintenzionato. Mi spogliai e misi i vestiti in un fagotto che nascosi sul primo ramo di un albero, mentre con me portai solo due panni puliti. Uno lo lasciai all’asciutto, sulle pietre, l’altro lo immersi nell’acqua con me per sfregarmi il corpo, non esistendo ancora alcuna comoda spugna.
L’acqua era letteralmente bollente. Mi ci immersi con cautela e una volta che ebbi anche le spalle sott’acqua guardai il colore del cielo e la posizione del sole: era pericoloso rimanere troppo a lungo in tutto quel calore, ma non avevo orologi per controllare il tempo trascorso, quindi dovevo arrangiarmi con quello che avevo. Mi passai la tela ruvida sulle braccia e sul petto tirando via tanto di quel sudiciume da farmi venire le lacrime agli occhi: mi facevo schifo da solo e non ero abituato ad essere così sporco. Avevo il petto di colore rossastro prima di entrare in acqua, ma mi resi conto che era l’alone del sangue colatomi addosso, quindi bastò passarci sopra la mano e venne via. Trovai del sangue rappreso persino nell’ombelico!
A lavare le gambe ci misi di più perché ovunque toccassi mi facevano male. Per ultime lasciai le spalle di modo da massaggiarle un pochino e potermi poi rilassare appoggiandomi alle rocce. Strizzai il panno, lo piegai e me lo misi dietro la testa prima di rilassarmi contro la pietra, di modo che mi facesse da cuscino. Alzai lo sguardo al cielo, controllando quanto tempo mi rimaneva, quindi feci un sospiro e mi imposi di rilassarmi.
Quella notte avevo dormito forse due ore. Ogni volta che avevo chiuso gli occhi mi era tornato in mente il viso dell’uomo che era morto davanti a me, avevo ricordato l’orribile sensazione del suo corpo teso e pieno di vita che si rilassava completamente tra le mie braccia al sopraggiungere della morte e diventava d’improvviso pesante. Quella notte, più che in ogni altro momento, avevo desiderato ardentemente tornare a casa dove nulla di tutte quelle cose rappresentavano la quotidianità, ma quando avevo riaperto gli occhi la stanza davanti a me non era la mia, non era un camerino, non era casa di mia madre, né di Aiba o di Jun o di Ohno. Affranto e terrorizzato, mi ero chiesto se sarei mai tornato a casa e in quel momento, immerso nell’acqua, me lo domandai di nuovo, anche se con meno angoscia, forse grazie a Rie.
Avevo passato il pomeriggio con lei che, mentre mi allenava, mi aveva riempito di domande sul mio tempo, sul mio Giappone. Parlare di cose a me familiari era stato fantastico: avevo provato una grande nostalgia dei discorsi su programmi televisivi, musica e concerti. Le avevo raccontato della mia famiglia, quella vera, e della mia seconda famiglia, gli Arashi. Rie mi aveva ascoltato piena di curiosità e meraviglia, alcune cose non era stato facile spiegarle, altre probabilmente non le aveva affatto capite, ma mi era stata a sentire e si era interessata ad ogni cosa. Insomma, dopo tanto tempo era stato Ninomiya a parlare, non il mio alter ego, Morikawa. E in quel momento mi sentivo ancora me stesso.
Quando riaprii gli occhi vidi che mancava poco allo scadere del mio tempo, quindi mi staccai dalle rocce e feci per tirarmi fuori dall’acqua issandomi sulle braccia, ma un rumore di voci in avvicinamento mi spinse a tornare ad immergermi. Spostai sul panno asciutto un paio di pietre e delle foglie di bambù secche, di modo da nasconderlo, quindi acchiappai il panno bagnato portandolo con me, andandomi a nascondere in un anfratto, dietro la roccia più alta. Se si fosse scatenato un altro scontro sarebbe stata la volta buona che mi avrebbero ucciso: non avevo armi e nemmeno vestiti. Non che questi avrebbero potuto salvarmi, certo, ma in quella situazione cosa avrei potuto fare? Schizzare i miei avversari con l’acqua? Sai che paura...
Con sollievo mi resi conto che le voci erano solo due e il cielo si stava facendo via via più scuro: se fossi riuscito a non farmi scoprire, avrei potuto filarmela quando fosse stato più buio, a patto di non fare rumore.
«Sei sicuro che questo sia il posto migliore per parlare?» domandò una voce
«Stai tranquillo. È troppo tardi perché qualcuno del paese venga qui» rispose l’altro. Sospirai rilassando i muscoli: era la voce di Morikawa san, ero salvo! «In casa invece a quest’ora tutti gironzolano ovunque per preparare la cena o per prepararsi ad essa, non avremmo pace. Allora, di cosa volevi parlarmi?».
Conoscevo la persona con lui. O meglio, conoscevo la voce: era la stessa che avevo sentito parlare dietro gli shoji due notti prima, quando erano arrivati gli ospiti, quindi doveva appartenere ad Ujie.
«Toshiya, ormai siamo una famiglia e sai che ti voglio bene. Rispetto le tue decisioni così come tu rispetti le mie, ma ho una richiesta da farti e so che non accetterai facilmente» cominciò questi.
Perché finivo sempre a sentire discorsi che non era previsto ascoltassi? Ma in quel momento ero ancora Ninomiya Kazunari e non ebbi l’impressione di non dover essere lì, anzi sentivo che quel discorso non mi riguardava affatto e che potevo anche ascoltarlo come avrei ascoltato due persone qualsiasi sulla metro di Tokyo: interessato magari, ma totalmente estraneo.
«So che hai un segreto, amico mio. So chi c’è in casa tua, non credere che non lo sappia»
«Sei sicuro di sapere la verità e di non aver solo ascoltato sciocche voci e pettegolezzi?» lo interruppe Morikawa «So la verità. Combatte per te, nessuno sa chi sia veramente, ma alcuni dei tuoi samurai hanno ormai accettato che sia dei loro» disse, quasi in tono divertito. «So da dove viene, so chi è».
Sgranai gli occhi e di botto Ninomiya Kazunari sembrò sciogliersi nell’acqua calda come se fosse stato un cubetto di ghiaccio. Improvvisamente vidi la mia pelle chiara, lavata dello sporco, sulla quale ora spiccavano colorati tutti i lividi e i graffi subiti fino a quel giorno. Quelli non erano i segni di Ninomiya, erano di Morikawa: lui tornò a pilotare i miei sensi e i miei pensieri, rivendicando il controllo del mio corpo e della mia mente. Parlavano di lui, anzi, a quel punto parlavano di me.
«E qual è la tua richiesta?» domandò Morikawa con voce calma. Se era irritato o diffidente non lo fece intuire dal suo tono, ma non potevo vederlo in faccia. I due uomini si erano immersi in una pozza d’acqua alle mie spalle. In quell’epoca il silenzio era tale che mi ero trovato spesso a dover ricalibrare la mia idea di distanza in base a quanto chiaramente percepivo i suoni: qualcosa che udivo distintamente, poteva arrivare da una distanza superiore a quella ipotizzata, perché vi erano meno ostacoli e meno rumore di fondo a confondere i suoni.
«Rivela la verità. Fai un annuncio pubblico, smettila di nascondere la sua esistenza»
«Per quale scopo? Non ha alcun senso, anzi sarebbe più pericoloso. È molto più sicuro se continua a rimanere un segreto» si rifiutò Morikawa e lo ringraziai mentalmente.
Cosa voleva quello sconosciuto? Perché voleva che i miei ospiti rivelassero la mia presenza? Io non avevo alcun valore sulla scacchiera di guerra che si stava disponendo in quella regione. Ero come una pedina del gioco dell’oca messa tra un cavallo e un alfiere! Contavo come il due di coppe quando la briscola è denari! Non volevo rimanere coinvolto in niente, volevo solo tornare a casa.
«Per un matrimonio» rispose il compagno di sguazzamenti del signor Morikawa. «Ti ricordi ciò di cui abbiamo parlato stamattina? È un buon partito e noi saremo a legati a doppio filo. I Tokudaiji non potranno ignorare questa unione, così come non potranno opporvisi, perché se lo faranno sarà guerra e a quel punto noi saremmo un gruppo decisamente forte, quindi sono convinto che ci penserebbero due volte prima di attaccarci».
Avrei voluto uscire dall’acqua e tuffarmi all’improvviso nel loro stagno urlando parole per loro incomprensibili (tipo “treno”, “microonde” o “jeans”) solo per il gusto di terrorizzarli. Quell’uomo non solo voleva tirarmi in mezzo alle loro scaramucce storiche, ma voleva pure usarmi per farmi sposare qualcuno! Sarebbe stato il colmo: un idol raramente si sposa e io invece sarei stato costretto a contrarre un matrimonio. Non per amore poi, ma per convenienza. Convenienza altrui!
«Devi ammettere che è la soluzione ideale dal tuo punto di vista: hai detto che non vuoi lo scontro e questa è l’unica possibilità per evitare spargimenti di sangue» concluse l’ospite, trionfante. Strinsi le mani a pugno, con rabbia.
«E’ pericoloso» disse Morikawa dopo qualche secondo di silenzio. «Ma si potrebbe fare» concluse.


Sto pubblicando col pc portatile del mare, ho fatto il codice HTML a mano, quindi può darsi che abbia saltato qualche "a capo". Spero mi perdonerete. Quando arrivo a casa (il 31) risistemo, per ora beccatevi così il nostro Nino-musha.
Mi spiacendo sempre più scrivere questa ff. Teoricamente il capitolo era pensato in un modo diverso, con degli avvenimenti o totalmente diversi oppure non proprio in questo modo, ma sono soddisfatta perché con questa soluzione la trama si è fatta più intricata e sto gettando i primi semi per l'intreccio *-* ->autrice malata
Grazie ancora a WhenItsTime. Anzi, il capitolo te lo dedico: mi sono sforzata di fare il codice proprio per te, senza aspettare di essere a casa XD

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Capitolo 7
*** 6. Promessa sposa ***


La sorpresa e il caldo stavano cominciando a farmi girare la testa, quindi uscii il più silenziosamente possibile dall’acqua. Presi il panno asciutto tremando per il freddo, recuperai i vestiti e me la svignai in punta di piedi di modo da trovarmi un angolo tra gli alberi che fosse lontano dalla fonte termale per potermi vestire in pace.
Avevo avvisato Yukino di venirmi incontro con una luce, perché per la fine del bagno sarebbe stata sera e avrei rischiato di perdermi nella foresta buia. Quando la incontrai, era visivamente preoccupata: dovevamo incrociarci a metà strada ed invece, non incrociandomi, era quasi arrivata alla fonte! Pensava fosse successo chissà cosa, ma in realtà mi ero solo attardato ad origliare, io comunque la rassicurai dicendole che mi ero addormentato nell’acqua. Mi misi al suo fianco e ci avviammo verso la villa.
Sposato. Io. Era logico supporre che mia moglie sarebbe stata la figlia di quell'Ujie, altrimenti perchè se la sarebbe portata dietro? Era carina almeno? Yukino doveva saperlo! Mi voltai a guardare il suo viso illuminato dalle fiamme, ma dovetti ingoiare la domanda: sospettavo che avesse una cotta per me, non sarebbe stato carino mostrarmi interessato ad un'altra e probabilmente sarei suonato anche un po' scemo. Per quell'epoca uno come me era ben oltre l'età da marito quindi le mie domande sarebbero suonate infantili. L'età da marito era quella di Yukino, sui 16, 17 anni.
Tornai a guardare l'oscurità davanti a noi, un po' per non inciampare su quel sentiero di montagna, un po' perchè mi ero appena reso conto che Yukino non mi interessava per due motivi: da una parte perchè non ero intenzionato a rimanere in quel posto, ma anche perchè per la mia morale, una morale da ventunesimo secolo, non potevo andare con una minorenne. Non potevo e non mi interessava, non ho mai avuto il complesso di Lolita e le ragazze più piccole non mi attirano. Ma nell'antico Giappone un uomo fatto poteva anche finire sposato con una tredicenne, una bambina insomma! E se la mia futura moglie fosse stata così giovane? Parlando per ipotesi, perchè non avrei alzato nemmeno un dito su una bambina, come avrei assolto ai miei doveri coniugali? Io con una tredicenne sorrido, ringrazio per il suo supporto e basta, di certo non me ne innamoro, non la sposo, non me la porto a letto e... non ci faccio dei figli!
In quale terribile guaio mi stavo cacciando?
Arrivati alla villa mi sentivo di nuovo a pezzi, almeno mentalmente, perchè fisicamente non avevo mai smesso di sentirmi un rottame, vivo per miracolo. Ringraziai Yukino e andai in camera dove uno degli attendenti dei Morikawa mi aspettava per aiutarmi ad indossare il kimono di quella sera. La prima cosa che mi chiese fu se volevo tagliarmi i capelli prima di vestirmi. In effetti era passato un sacco di tempo da quando ero arrivato lì e non mi ero mai posto nessun problema di acconciatura. Rifiutai, ma mi feci dare un nastro scuro: tutto sommato il codino alla Kenshin mi sembrava un'idea figa e avevo bisogno di qualcosa di figo, perchè intorno a me nell'ultimo periodo c'erano solo sudore, lividi e poca igiene.
Una volta pronto, l'inserviente mi aprì lo shoji che dava sul camminamento interno e mi diressi verso la stanza che era solitamente adibita ai ricevimenti, se c'era qualcuno di importante, ma che d'inverno fungeva anche da sala dove consumare i pasti. Normalmente non mangiavo lì, perchè con gli allenamenti ogni membro della famiglia mangiava ad orari diversi ed io ero sempre invitato ad unirmi agli altri compagni d'arme, cosa che mi faceva piacere, quindi facevo sempre il loro pasto e quasi mai lo stesso dei padroni di casa.
Mentre mi dirigevo verso la sala, comunque, pensavo solo all'angoscia che mi assaliva. Ero arrivato alla conclusione che non potevo più rimanere in quella casa altrimenti mi avrebbero fregato alla grande. Dovevo fuggire, e alla svelta anche. Entrai e trovai la famiglia Morikawa già seduta. Davanti al tokonoma¹ c'erano due posti vuoti, ovviamente per gli ospiti, e più distanti, ma di fronte ad essi in linea d'aria, il Signor Morikawa e Toshinori occupavano altri due posti. Rimanevano solo due cuscini con il panchetto su cui sarebbe stato posato il cibo: erano uno di fronte all'altro e si trovavano ai lati dell'immaginaria tavolata: ovviamente da una parte c'era Masatoshi e di fronte mi sarei seduto io. Ero certo che mi sarebbe andato tutto il cibo di traverso. In quel momento comunque mi preoccupava di più cosa fare per scappare. Certo, i Morikawa non si meritavano un voltafaccia, ma nemmeno io mi meritavo di essere sfruttato per i loro scopi politici. Dente per dente, come si suol dire. Avrei chiesto a Rie di prendermi con sé, di farmi entrare nelle fila dei suoi guerrieri. Andarmene e basta sarebbe stata un'idiozia, non avrei mai trovato un posto accogliente e sicuro come quella villa e sarei morto al primo accenno di pericolo. La soluzione migliore era quindi rimanere ancora con qualcuno che mi potesse difendere e a cui importasse della mia sorte (mi auguravo che a Rie importasse, insomma), ma che forse mi avrebbe fatto sparire da quell’intrico di macchinazioni politiche.
Ero seduto al mio posto cercando le parole giuste da rivolgere a Rie una volta che l’avessi incontrata il giorno dopo, e quasi non mi accorsi degli ospiti che stavano per entrare nella sala. Vedevo Ujie Masamune per la prima volta, dopo aver sentito la sua voce e i suoi piani già due volte. In un certo senso, l’idea che mi ero fatto di lui stonava con la sua figura: era più anziano di Morikawa, secco, secco, che sembrava potesse volar via da un momento all’altro se non avessimo fatto attenzione agli spifferi. Aveva baffi e pochi capelli bianchi, un sorriso addolcito dalle rughe profonde e mani dalle dita sottili. Era il ritratto del moderno (per me) vecchio contadino in pensione, che ha smesso di lavorare perché è troppo anziano e perché le esportazioni di frutta e verdura dall’estero hanno ormai reso inutile il suo impegno. Ci sarebbe voluto un cappello di paglia e dei pantaloni sgualciti per completare il quadro, invece il kimono da cerimonia stonava con la sua immagine.
Per quanto potesse sembrare un caro vecchietto, comunque, non avrebbe avuto la mia libertà o il mio stato civile. O almeno così continuai a pensare finché da dietro le sue spalle non seguì anche la figura della figlia, la donna che avrei dovuto sposare.
Era bella. L’aggettivo “bella” è forse troppo poco per descrivere la figlia minore di Ujie, ma “carina” è sminuente e “meravigliosa” dà l’idea di una bellezza sfacciata e vistosa. Aveva i tratti del viso molto dolci e leggermente marcati, segno che almeno non era una bambina. Lunghi capelli neri, tagliati con la foggia dell’epoca, e occhi d’un castano brillante. Aveva un neo piccolo, ma ben visibile, appena sotto l’occhio.
Ovviamente niente di tutto questo venne registrato dalla mia mente in quel momento, posso farlo ora che sono calmo, tranquillo e scrivo tutto ciò che ricordo su queste pergamene, ma in quel momento penso di essere rimasto semplicemente a bocca aperta, come un perfetto idiota. Ne ho incontrate di donne belle nella mia vita, ne incontro parecchie sul lavoro, ma non mi era ancora capitato di rimanere così colpito. Parliamoci chiaro, la bellezza è un dato relativo: ad Aiba chan piacciono delle donne che io non vorrei manco come mie colf, per esempio; ma ci sono persone che sono oggettivamente belle. Jun è bello: può starvi sulle palle, ma negare che sia bello è come dire che la terra è piatta. Io davanti a quella donna rimasi totalmente sconvolto, era veramente la donna più bella che avessi mai visto fino a quel momento… quanto è vero che la terra è rotonda. Di colpo, sposarla, anche solo per poche settimane, non mi parve un’idea così malvagia.
Per i primi venti minuti gli unici a parlare furono i due capifamiglia, poi l’ospite fu tanto cortese da cominciare ad informarsi su ognuno dei convenuti. Parlò con Toshinori trattandolo con grande rispetto, forse perché era l’erede, e poi passò a Nagatoshi: al maggiore aveva chiesto della situazione del villaggio, della casa e con chi vi lavorava, oltre che qualche curiosità sull’addestramento dei guerrieri, mentre col secondogenito si premurò esclusivamente di domandare i suoi progressi con gli allenamenti. Era chiaro che argomenti riguardanti il governo delle terre non dovessero minimamente riguardarlo. Ripensai alle parole che Rie mi aveva detto due sere prima e ammetto che, sì, in quel momento provai pena per lui. Ma dubito che fosse il sentimento che volesse provassi per lui.
Il seguente avrebbe dovuto essere il piccolo Toshiaki, ma forse sarebbe stato sgarbato parlare con me, un adulto e un ospite, dopo di lui. Avrebbe voluto dire che valevo meno di un bambino. Comunque non mi aspettavo di avere la precedenza, quindi quando capii che Ujie Masamune stava guardando proprio me, rischiai quasi di strozzarmi: stavo continuando a lanciare occhiatine furtive a sua figlia, se n’era per caso reso conto?
«Toshiya san, hai tenuto segreto un figlio fino ad oggi?» domandò squadrandomi
«No Masamune san, questi non è figlio mio, ma di uno delle mie tante sorelle». Avvertii un’insolita rigidità nel tono con cui Morikawa rispose: era stato punto sul vivo? Non ero suo figlio, ma era vero che mi aveva tenuto segreto.
«Ah già, la tua è una famiglia numerosa» annuì quell’altro senza staccarmi gli occhi di dosso
«E’ mio nipote, Morikawa Kazunari».
Come ci si presentava a delle autorità all’epoca? C’erano formule particolari? Cose che non avrei dovuto fare? O che avrei dovuto assolutamente fare per non recare offesa alla controparte? Ma che importava? Non avevo risposta a quelle domande e di certo non c’era nessuno alle spalle del signor Ujie ad alzarmi cartelli con su scritto cosa fare. Meglio tentare che stare zitto.
Posai le bacchette e mi voltai con tutto il corpo, scivolando con le ginocchia martoriate sul ruvido tatami. Quindi puntai le dita delle mani a terra e mi chinai fino a sfiorare il pavimento con il naso, come avevo visto fare ai servitori in quella casa. «Mi chiamo Morikawa Kazunari. Sono molto lieto di fare la Vostra conoscenza». Usai la formula più cerimoniosa che mi venne in mente.
«Hai uno strano accento» osservò semplicemente Ujie. Tutta quella manfrina e lui notava la mia strana inflessione? Certe volte quel mondo era proprio frustrante!
«Non è il primo che me lo fa notare» risposi. «Vengo da un’isola lontana dalla costa, sembra che lì la lingua abbia assunto delle caratteristiche molto particolari col tempo»
«E dimmi Kazunari, cosa fai lì sulla tua isola?» insistette. Avevo la crescente impressione che i suoi occhi mi stessero consumando: non avevo problemi a venire fissato da migliaia di fan, ma quei due occhi mi mettevano a disagio come poche volte mi era capitato.
«Sono il primogenito maschio dei miei genitori. Come può vedere sono piuttosto mingherlino, la mia costituzione non aiuta a diventare un bravo guerriero come vorrebbe mio padre. Dato che i miei cugini sono così forti e allenano molti uomini durante l’anno, mio padre mi ha mandato qui per imparare qualcosa e forgiare il fisico» gli propinai la scusa che ci eravamo inventati con Morikawa
«E cosa facevi tutto il giorno sulla tua isola se non eri portato al combattimento?» chiese riprendendo finalmente a mangiare.
Ottima domanda.
Anche io tornai a voltarmi verso il mio piatto. Cosa facevo nella mia inesistente isola per riempire la mia inesistente vita da guerriero? «Cantavo» risposi senza rifletterci troppo
«Cantavi?» ripetè guardandomi con le sopracciglia alzate
«La nostra tradizione musicale è uno dei nostri tesori, a tutti, uomini, donne e bambini, vengono cantante molte canzoni e, se uno è bravo, lo si addestra perché impari a cantare o a suonare uno strumento».
E fare piroette, back-filp, recitare, posare per le foto, condurre programmi e intrattenere centinaia di migliaia di persone. Questo non lo dissi, è chiaro, ma ebbi l’impressione di starmi sminuendo: agli occhi di Ujie ero un uomo fatto che sapeva cantare. Fine. Bella figura!
«E sai suonare qualcosa?» chiese incuriosito. Nonostante quella storia dovesse suonare bizzarra alle sue orecchie, si era fatto appassionare.
«Sì, ma è uno strumento del nostro paese che qui non c’è. Canto comunque» annuii
«E sei bravo?».
Di tutto ciò che sapeva fare, solo i backfilp erano utili ad un misero idol del ventunesimo secolo catapultato magicamente in quell’epoca, mentre l’unica che lui potesse ammettere di saper fare era cantare, quella era l’unica dote che potessi sfoggiare. «Il migliore» risposi con semplicità, come se avessi appena detto “dell’altra insalata, grazie” o “si metterà a piovere domani”. Accidenti, non volevo sembrare una mezza calzetta nell’unica qualità che mi era concesso di ammettere! Già se pensavo di ascoltarmi dal loro punto di vista, mi rendevo conto di essere un inutile idiota, se poi non ero bravissimo in niente avrebbero potuto chiedersi con quale coraggio mio padre avesse deciso di esporre al mondo intero un figlio di cui avrebbe solo dovuto provare vergogna.
«Sul serio?» domandò Toshinori sgranando gli occhi. Lo ringraziai mentalmente, la mia uscita di poco prima peccava di immodestia, ma lo stupore nello sguardo dei miei “parenti” indicava che almeno non ero uno che andava in giro a vantarsi.
«Com’è che non ci hai mai detto di questa tua dote?» chiese Nagatoshi. La mia pietà per lui sparì di botto quando gli vidi un ghignetto divertito stampato in faccia. Perché non si era strozzato con quello che aveva nel piatto?
«Come ho già detto, non sono qui per cantare, ma per imparare dai miei cugini ad essere più uomo» dissi cercando di prevenire qualsiasi sua stupida battutina
«La nobiltà d’animo non è una debolezza» disse una voce sottile. «Un uomo dal cuore gentile saprà come comportarsi sia in guerra che in pace. Uno guidato solo dalla forza fisica realizzerà se stesso solamente nella violenza». Girai lo sguardo perché quella era la prima volta che sentivo la voce della figlia di Ujie. E mi aveva fatto un complimento.
«Ma un giorno sarà parte degli Arashi!» intervenne Toshiaki che aveva già finito di mangiare
«Gli Arashi?» fece Toshinori, confuso
«Sono i quattro guerrieri più fortissimissimi dell’isola di Kazu» spiegò il bambino
«Toshiaki! Pensavo ti fossi morso la lingua. Quando ci siamo visti l’ultima volta non facevi altro che parlare» disse allegramente Ujie e il discorso si spostò finalmente sull’ultimo rimasto.
Il mio interrogatorio sembrava concluso, o almeno li primo round: figuriamoci se il nostro ospite avrebbe dato in sposa sua figlia ad uno smidollato canterino! Si sarebbe di certo premurato di scoprire qualcosa di più e di sapere anche le mie potenzialità future. A mente lucida ero totalmente contrario a quel suo piano, poi però alzavo gli occhi sulla figlia e mi rendevo conto che ad una parte di me non sarebbe dispiaciuto. Quando ebbi il coraggio di fissarla, dopo che il discorso venne dirottato sul mio adorabile cuginetto, incontrai il suo sguardo. Sul momento mi spaventai e feci per abbassare gli occhi, ma mi resi conto del sorriso che la donna mi aveva rivolto quando aveva capito che la stavo guardando e allora mi concessi di chinare appena il capo: volevo ringraziarla per aver preso le mie difese.

Dopo cena ci spostammo nella veranda che dava sul giardino della villa. Era la stanza proprio davanti alla sala dove avevamo mangiato. I due capifamiglia presero una pipa lunga, caratteristica di quell’epoca e del tabacco. La ragazza, Toshiaki e Nagatoshi vennero mandati nelle loro stanze, perché la gente importante doveva discutere di affari. Avrei dovuto andarmene anche io, ma Morikawa mi bloccò quando ero già sulla porta.
«Kazunari, rimani pure» mi invitò.
Mi sorprese, perché pensavo che Ujie volesse parlare proprio della proposta di matrimonio e dell’impressione che avevo fatto, quindi, per potermi criticare in libertà, non avrei dovuto essere presente.
«Non so se è il caso» accennai a mezza voce. Nagatoshi aveva avuto un attimo di incertezza mentre camminava verso l’uscita della stanza, era chiaro che lo infastidisse che io potessi rimanere, mentre lui no.
«Non penso ci sia nulla di male» insistette il padrone di casa. Avrei giurato che il suo sguardo fosse quasi supplichevole. Forse non voleva che si parlasse del matrimonio e sperava che la mia presenza lo salvasse da quel discorso, ma Ujie gli rovinò la festa.
«Lascialo andare Toshiya san, al suo posto, con gli allenamenti che dovrà subire domani e quelli fatti oggi, anche io vorrei solo andare a dormire».
Ma per chi mi aveva preso? Idol non è sinonimo di idiota, almeno nel mio caso: non sarei andato a ronfare nel mio futon mentre quell’Ujie dei miei stivali decideva del mio futuro stato civile! Nemmeno se la consorte era la sua meravigliosa figliola. Chinai il capo in un cenno di saluto ed uscii chiudendo gli shoji. Sospettavo che davanti a me non avrebbero parlato onestamente, non il nostro ospite per lo meno, mentre io volevo sapere esattamente cosa mi aspettava; sarei stato a sentire senza renderli partecipi del fatto che c’era un secondo paio d’orecchie in ascolto.
Nagatoshi era infondo al corridoio e speravo che il fatto che non fossi rimasto lo rendesse più felice. Attesi di sentire i suoi passi allontanarsi quindi, memore del fatto che in una casa di legno e in un epoca senza traffico ogni minimo rumore poteva tradirti, feci il corridoio fino infondo, nella direzione che si supponeva avrei preso per andarmene, poi svoltai l’angolo. A quel punto, invece di proseguire nel corridoio e verso il ballatoio di legno che avrebbe portato alla mia stanza, rientrai nella sala dove avevamo mangiato. I domestici avevano già tolto ogni cosa quindi la attraversai nella penombra senza inciampare in nulla, arrivai fino infondo e uscii di nuovo nel corridoio trovandomi esattamente dalla parte opposta rispetto a quella dove mi avevano sentito camminare. Passai nell’angusto spazietto che stava tra la parete e le scale che portavano al primo piano, dove c’erano le stanze dei guerrieri, e guadagnai la piccola uscita laterale dedicata ai domestici.
Camminai molto lentamente sul legno del camminamento esterno. Ormai avevo imparato a conoscere quel legno, sapevo che era infido e in quel punto non ero mai passato quindi non sapevo dove fosse più cedevole. Guardando alla mia sinistra, infondo a quello stesso camminamento, potevo vedere la colonna contro la quale mi ero appoggiato la prima notte che avevo parlato con Rie, quando ancora ero malato e stordito e dormivo nella camera del padrone di casa. Feci pochi e ampi passi sulle travi, per non venir tradito da troppi scricchiolii, quindi feci un salto per atterrare sull’erba secca. Fortunatamente chi si occupava del giardino spazzava via le foglie secche quasi ogni giorno quindi solo un orecchio sovraumano avrebbe sentito il lievissimo tonfo dei miei piedi contro il terreno.
Mi accucciai trattenendo a stento degli imprechi: camminare a gattoni era devastante per via di tutti i tagli alle gambe, perchè sentivo la pelle tirare, e per via dei muscoli che dopo una giornata intera di salti, calci e zompi di ogni tipo cominciavano a dolermi. In pochi secondi gli arti inferiori cominciarono a tremarmi leggermente. Comunque tenni duro, strinsi i denti e mi nascosi sotto il camminamento. Lì non mi avrebbe visto nessuno e arrivai a carponi fin sotto gli shoji aperti della veranda dove Ujie, Morikawa e Toshinori parlavano a bassa voce.
«... ci assicura che saranno dalla nostra parte?» diceva mio cugino
«A questo serve tua sorella» ribatteva Ujie. Avevano già cominciato a parlare animatamente, mi chiesi se avrei mai capito quale fosse l’argomento dato che quell’uomo parlava sempre lasciando sottintese un sacco di cose, come se avesse paura di venir ascoltato in qualsiasi momento dalla persona sbagliata, cosa non tanto lontana dal vero.
«No, padre, non puoi essere d’accordo con una cosa simile» ma Morikawa non disse nulla. «Non possiamo coinvolgere Rie»
«Quindi il suo nome è “Rie”?» domandò Ujie. Possibile che non sapesse il nome della figlia del suo amico? Tra l’altro, che fine aveva fatto? Se la giovane Ujie era stata ammessa alla cena, perché non era stata presente anche lei quella sera?
«Non può essere coinvolta» continuò Toshinori, ostinato. «Nessuno deve avere a che fare con quella donna e nessuno dei nostri piani può riguardarla, è troppo pericoloso»
«Quando si tratta di incursioni e sabotaggi, i vostri piani la riguardano sempre» gli fece notare l’ospite. «Dovresti deciderti Toshinori, non credi? O la tua famiglia è superstiziosa, e allora avreste dovuto farla fuori quando è nata e ha ucciso tua madre, o non lo è e la smettete di usare quella ragazza solo come pare a voi. È utile, può essere una pedina importante».
Mentre ascoltavo, nascosto nell’oscurità sotto il legno (chissà che diavolo di insetti c’erano lì con me, senza che io li vedessi), fissavo il prato del giardino, quel poco dei tronchi che riuscivo a vedere e le pietre degli stagni in lontananza. Nonostante il tono sommesso della conversazione, la tranquillità notturna di quel Giappone medievale era perfetta per farmi sentire tutto senza grossi problemi. Le serate invernali poi non prevedevano il frastuono di grilli e cicale. Certo, questo significava che anche io dovevo essere prudente: mi ero steso nella terra umidiccia perché le mie gambe avevano cominciato a tremare troppo violentemente per reggermi stando a gattoni o accucciato, ma ero circondato da foglie secche e semi disfatte nel fango e il pericolo di tradirmi con uno scricchiolio troppo forte era sempre dietro l'angolo.
Non mi capacitavo della disumanità di quel discorso. Parlavano di sbarazzarsi di Rie o di usarla per i loro scopi come fosse una tattica invece che una persona. Era una donna, quindi di scarsa utilità in tempo di guerra, e potevo capire che si pensasse così all’epoca, ma non mi capacitavo di come potessero parlare di ucciderla con tanta nonchalance. Ujie già non mi stava simpatico, dato che pensava di venire qui e fare il bello e il cattivo tempo con la mia vita, ma Toshinori che scuse aveva? Lei era sua sorella!
«Vorrei non toccare questo argomento» li interruppe Morikawa. «Come medico, non approvo nulla che porti qualcuno alla morte, lo sai figlio mio. Per questo ho accettato il piano del nostro ospite: se faremo così è possibile che eviteremo uno spargimento di sangue. Pensi che i Tokudaiji si faranno scrupoli a risparmiare la gente dei villaggi di queste terre se scoprissero che non accettiamo nè vogliamo il loro dominio?»
«No, certo, ma non sono d’accordo con l’utilizzare Rie in questo modo» continuò caparbio Toshinori. Presi una foglia tra le mani, sollevato nel sentire che si preoccupava di sua sorella. «Un matrimonio? Tutti i territori e un accordo di servilismo? Non siamo così deboli da dover supplicare gli Yamaguchi a questo modo. Combattiamo da soli e conquistiamoci la nostra indipendenza» fece con fervore. «Ma lasciate stare quella donna. Porta sfortuna, e se è coerenza che desiderate, allora ditemi cosa devo farne di lei e lo farò. Stanotte stessa»
«E tuo fratello?» domandò il padre. «Uccideresti anche lui?» e allora calò il silenzio.
Rimisi a terra la foglia nel nel buio nemmeno vedevo. Non stavo capendo più nulla.
Volevano far sposare me con la figlia di Ujie, quello era il “legame a doppio filo” a cui avevano accennato durante il bagno, dato che le due famiglie erano già legate con le nozze dei primogeniti tra di loro. Questo avrebbe scoraggiato i Tokudaiji dall’attaccarli se avessero rivendicato l’indipendenza delle loro terre. Fino a quel punto mi era tutto chiaro. Ma chi erano questi Yamaguchi? Una famiglia a cui chiedere aiuto militare? Per non parlare del discorso su Rie. Padre e figlio erano pronti a sgozzare lei e il fratello (quale? Nagatoshi o Toshiaki?) oppure ad usarla come fosse un’arma, invece che un essere umano.
Oltre alla totale confusione, alla stanchezza e al conseguente sonno, cominciavano a farmi male i muscoli delle braccia che rimanevano in tensione per non farmi stare con la faccia nel fango, le ferite alle mani poi continuavano a tirarmi la pelle nel loro processo di richiusura e, per la miseria, mi stava venendo pure mal di testa!
Pian piano strisciai scostando con delicatezza i mucchi più grandi di foglie che le mie braccia raccoglievano nell'agitarsi in avanti per tastare il terreno. Uscii da sotto il legno dallo stesso punto in cui ero entrato: avrei dovuto fare il giro della casa, altrimenti avrei rischiato di passare davanti alla stanza di Nagatoshi che sapeva che io in realtà ero tornato in camera. Camminai fino al muro bianco che circondava la casa, intenzionato a percorrerlo fino alla mia camera, nella speranza che la sua ombra mi nascondesse agli occhi di chiunque: non avrei saputo spiegare tutto il fango e le foglie che si erano probabilmente attaccati al kimono elegante che mi era stato dato per quella sera.
Pensai di cercare Rie per avvisarla del pericolo, per dirle ciò che avevo sentito, ma non sapevo dove dormisse nè se fosse alla villa quella sera. Mentre camminavo con passo felpato, sperai di poter stare tranquillo almeno per una notte.
«Chi è là?» sentii domandare dalla casa.
Mi bloccai, pietrificato, addossandomi al muro il più possibile. Avevo fatto solo una trentina di metri accidenti! Dicevano veramente a me? Qualcuno mi aveva già beccato? E cosa avrei potuto rispondere? “Sono il fattorino delle pizze”? Non avrebbero nemmeno capito la battuta…
«Padre, siete voi?» domandarono ancora. A quel punto mi resi conto che era una voce femminile. «Padre?». Non era di Rie. In quel punto della casa poteva essere solo di una domestica oppure… della nostra ospite! Era l’unica ad avere un padre lì con lei nella villa.
«No. Scusatemi se vi ho svegliata» farfugliai a mezza voce. Era una ragazza innocua, non c’era nulla di male se avesse scoperto che ero lì.
«Aspettavo che mi venisse sonno e guardando fuori, vi ho visto» mi rispose con un filo di voce. Non riuscivo a scorgerla, parlava da uno spiraglio degli shoji aperti.
«Pensavo non mi avrebbe notato nessuno se avessi camminato nell’ombra» spiegai cominciando a cercare una scusa valida per la mia presenza lì
«Però siete vestito di scuro e il muro è bianco».
Che idiota…
«Giusto» sospirai. «Lo vedete anche voi, no? Ho ancora molto da imparare dai miei cugini» cercai di scusarmi.
La sentii ridacchiare a bassa voce. Mi sarebbe piaciuto vederla mentre rideva. Quella sera avevo potuto sbirciare solo un sorriso timido sul suo volto, niente di più.
«Non riuscite a prendere sonno?» domandai facendo qualche passo per avvicinarmi
«Kazunari sama, non dovreste!» pigolò socchiudendo lo shoji. Guardava fuori solo con un occhio, le vedevo a malapena lo zigomo e un ciuffo di capelli. «Non sta bene che voi siate qui» spiegò abbassando la voce.
Perché? Con Rie non avevo avuto alcun problema. Ma solitamente le donne non combattevano, eppure lei lo faceva, quindi era plausibile che lei non fosse una rappresentante del genere femminile medio di quell’epoca.
«Scusate, dalle mie parti probabilmente ci comportiamo diversamente. Va bene se mi siedo qui e vi do le spalle?» chiesi avvicinandomi al camminamento in legno. «Nemmeno io prendo sonno e pensavo fossero tutti addormentati»
«Mio padre e Morikawa sama stanno ancora discutendo» spiegò continuando a parlarmi da dietro lo shoji: era aperto ma lei non era più affacciata.
«Scusatemi, io non so il vostro nome» dissi rendendomi improvvisamente conto di quel fatto. Tutti a tavola avevano dato per scontato che io già sapessi tutto, facendo parte della famiglia, invece non si erano nemmeno degnati di informarmi del nome della mia futura sposa. Che modo era quello per organizzare un matrimonio?
«Ujie Masami» rispose dopo un attimo di esitazione. Ma certo: Masamune il padre, Masato il primogenito e Masami la secondogenita.
«E quanti anni avete?».
Mi ritrovai improvvisamente avido di informazioni. Non era proprio nella mia indole attaccare bottone con una sconosciuta, ma non lo era nemmeno allenarmi a massacrare la gente. Ho già accennato al fatto che temevo di perdere me stesso? Comunque non avevo intenzione di impegnarmi con una persona di cui non sapevo nulla, anche se sarebbe stato un impegno breve.
Masami era la secondogenita della famiglia Ujie e aveva più o meno la stessa età di Nagatoshi. La sua famiglia una volta controllava una ampia porzione di territorio, dai monti dietro le colline dove ci trovavamo noi, fino alle pianure che portavano al mare. La sua casa si trovava in una cittadina molto grande (per l’epoca una “grande cittadina” sarà equivalsa a qualche centinaio di catapecchie, ci avrei scommesso) che si era sviluppata lungo il tragitto pianeggiante di un ampio fiume. Sfociava nel mare, ma da casa sua il mare non si vedeva e non si sentiva. Ci voleva un giorno intero di cavalcata per arrivarci, ma le donne dell’epoca non andavano a cavallo. Ormai da molto tempo, però, gli Ujie non erano più signori di niente e la vita si era fatta più agitata: suo fratello si era sposato poco tempo dopo l’arrivo dei Tokudaiji, insieme alla primogenita dei Morikawa, mia “cugina”.
«Lei sta bene. La casa le piace e anche con mia madre va molto d’accordo» mi spiegava con pazienza. Io la ascoltavo, ma in realtà non me ne fregava un fico secco di quella ragazza che non avevo mai conosciuto, né visto. Non era nemmeno una mia vera cugina!
«Si amavano?» chiesi. Era una cosa che una volta mi ero già chiesto: quanto amore c’era veramente in quell’epoca? Le persone si sposavano anche per sentimento, oppure ogni unione era vista come un semplice legame di interessi? Almeno nelle famiglie più abbienti, ogni tanto c’era un matrimonio d’amore? «Abitando lontano non ho mai saputo molto delle vicende di questo ramo della famiglia» mi scusai
«Allora non sapete che è stata un’unione voluta dalle famiglie? In realtà Masato e Akemi erano già promessi, ma la cerimonia è stata celebrata in fretta poco dopo l’arrivo dei Tokudaiji»
«Capisco» annuii, guardandomi i piedi, mentre li facevo dondolare giù dal camminamento. Era una buona cosa dover dare le spalle a Masami: in quel modo non avrebbe visto che ero coperto di foglie e fango che cominciava a seccarsi sulla pelle e sui vestiti. «Quindi era una prova di forza contro gli invasori» mormorai, riflettendo ad alta voce. Non era un matrimonio d’amore.
Mi sentii riempito di tristezza. C’era qualcuno che amava veramente in quel Giappone? Il cuore delle persone aveva mai provato un’emozione come quella? Ogni cosa sembrava così arida. Sentii di star cominciando a capire cosa fosse realmente la guerra, una cosa che tutto sommato nel mio tempo non è più tanto facile comprendere se si vive in un paese economicamente agiato e potente. Sì, la guerra era l’inaridimento di ogni cosa riguardasse il cuore: non solo i sentimenti romantici, ma anche l’affetto più semplice o i legami familiari.
E io perché mi interessavo a Masami? Il nostro sarebbe stato un matrimonio identico a quello: Ujie voleva “un unione a doppio filo”, anche noi non eravamo che strumenti o simboli di potere. Come Rie (anche se non mi era ancora chiaro perché o come). Forse mi provavo interesse per lei perché, seppur privato della libertà d’amare anche in quell'epoca, non avevo comunque alcun vincolo come quello del gruppo, delle fan o dell’agenzia. Anche se sarebbe stato per breve tempo, avrei avuto la possibilità di stare con qualcuno senza problemi, avrei potuto prendermi cura di una donna. Ripensando a quanto fosse carina Masami, decisi che avrei fatto del mio meglio per renderle meno amaro quel destino.
«E voi? Vi sposerete presto? Immagino che vostro fratello voglia cominciare ad avere una famiglia propria»
«Sembra di sì» rispose con un filo di voce. Facevo quasi fatica a sentirla a quel punto. «Mio padre cerca di toccare il meno possibile l’argomento, ma non sono così ingenua: so che si sta avvicinando quel momento».
Quindi non l’avevano detto nemmeno a lei. Magra consolazione. Perlomeno lei sapeva che quello era il suo destino. Il mio avrebbe dovuto essere recitare in un film che avrebbe dovuto avere successo e preparare un nuovo tour con il gruppo: non potevo certo immaginare che la prima cosa che mi sarebbe toccata, una volta piombato nell’antico Giappone, sarebbe stato sposarmi!
«Pensavo lo sapeste» aggiunse vedendo che non rispondevo
«In che senso?» domandai aggrottando le sopracciglia
«Nulla» si corresse, poi sentii un frusciare di stoffe. «Dimentico che venite da lontano e questa è una realtà del tutto nuova per voi». Oh, non poteva nemmeno immaginare quanto!
La stanchezza arrivò per entrambi, inoltre non dovevo farmi beccare dal padre mentre stavo lì a chiacchierare: era una cosa del tutto innocua, ma valli a capire ‘sti Giapponesi dell’antichità!
Tornai in camera facendo il giro della casa passando davanti, come già avevo pianificato, e per poco non mi presi un colpo quando vidi qualcuno davanti alla porta della camera. «Toshiaki!» esclamai vedendo che era tutto intirizzito per il freddo. Si era infagottato in una delle nostre coperte, ma non era bastata e sbatteva i denti per i brividi così forte che l’avevo prima sentito e poi visto. «Che ci fai qui?»
«Dov’eri Kazu?» mi chiese con voce tremante. «Avevo freddo, non tornavi più».
Alzai gli occhi a cielo. Avevo sperato che dormisse, di modo da non avere testimoni del mio non-ritorno in camera. «Sai mantenere un segreto?» domandai tirandolo in piedi e aprendo la porta per farlo entrare. Il bambino annuì prima di entrare nel buio della camera. Non avevo nulla per accedere una candela, così dovemmo aspettare che i nostri occhi si abituassero, almeno per riuscire a distinguere il candore delle lenzuola, sufficiente a dirci dove dirigerci. «Sono andato a trovare una donna» gli dissi mentre mi spogliavo. A lui potevo dirlo: pendeva dalle mie labbra e se gli chiedevo di tacere su qualcosa, lo avrebbe fatto senza chiedere il perché.
«Era bella?» mi chiese confuso
«Sì. Stasera indossava un kimono color porpora che le donava molto» commentai lasciando il mio in un angolo: il giorno dopo avrei dovuto farlo sparire rapidamente.
«Come quello di Masami sama stasera a cena?» domandò Toshiaki
«Ah sì, come il suo» ridacchiai divertito: che occhio quel ragazzino.
«Perché ridi?» fece stendendosi e sistemando la coperta che si era portato dietro sulle altre
«Niente, niente. Sai cosa?» domandai, aiutandolo a stendere gli strati che ci avrebbero tenuti al caldo e mettendomi al suo fianco. «Quasi quasi non mi dispiace l’idea di tuo padre di farci sposare» spiegai chiudendo gli occhi.
Il bambino non disse altro, da fuori non arrivava alcun rumore e anche Nagatoshi, nella stanza a fianco, doveva ormai dormire da un pezzo.

Il mattino dopo feci colazione seduto sul legno del camminamento, come ogni mattina. Persino nel piccolo cortile interno della villa c’era un po’ di nebbia. Il freddo era pungente e le poche foglie rimaste sugli alberi mezzi spogli erano imbiancate dalla brina. Detestavo essere arrivato lì in pieno autunno e non essermene andato subito, prima che arrivasse l’inverno, perché senza climatizzatori, jeans pesanti e piumoni si gelava; ma era anche vero che la mattina facevo degli orari tali che, senza quel freddo, nulla mi avrebbe mai svegliato. Quel clima rigido mi schiaffeggiava i sensi che così erano vivi e all’erta fin dal primo momento in cui cacciavo mezzo alluce fuori dai numerosi strati di coperte sotto i quali mi appallottolavo per dormire con Toshiaki.
Finii la ciotola di riso e scolai la zuppa di miso incandescente in un’unica lunga sorsata. Non mi interessava scottarmi un po’ la lingua, ma volevo che mi arrivasse tutto in pancia ancora ben caldo, di modo che trasmettesse un po’ di tepore a tutto il resto del corpo.
Riportai le stoviglie in cucina, cosa che avevo fatto la prima volta per semplice educazione e che ora continuavo a fare per divertimento: era bello vedere le facce spiazzate e stupite dei domestici che fissavano un membro della famiglia entrare in cucina sparecchiando da sé le proprie cose, risparmiando a loro un piccolo lavoro. Sorrisi e mi inchinai ringraziando per la colazione, quindi uscii ridacchiando sotto i baffi.
Nello spiazzo davanti alla villa si stavano già radunando alcuni dei guerrieri. Alcuni venivano dalle stanze al primo piano, altri sgusciavano dalle porticine in legno del muro che circondava la casa. Salutai i miei compagni e individuai Rie in mezzo ad alcuni degli uomini. Chiedevano di vedere il suo pugnale, le ronzavano intorno come api con i fiori, ma lei sembrava essere abituata a stare tra uomini e riusciva a rimanere distaccata senza però sembrare scontrosa, atteggiamento che li avrebbe mal disposti.
Fissandola mi resi conto della differenza abissale che c’era tra lei e Masami. Rie non si poteva nemmeno definire una donna! E nonostante quello, all’improvviso mi ricordai del discorso origliato la sera prima e mi preoccupai all’istante: e se qualcuno di loro fosse stato incaricato di colpirla? Se avessi visto uno di loro avvicinarsi troppo sarei riuscito a fare qualcosa per evitare la tragedia?
Rie mi vide e li salutò annunciando che era arrivato il suo allievo, quindi mi fece segno di lasciare lo spiazzo. Come il giorno prima, ci mettemmo nella striscia di terreno che andava dal camminamento esterno davanti alla mia camera, al muro di cinta della villa. C’erano almeno 4 metri di spazio, quindi erano più che sufficienti per saltellare come una cavalletta impazzita.
«Rie, devo parlarti» le dissi quando ci trovammo da soli e lontani dalle troppe orecchie presenti nello spiazzo
«A dopo le chiacchiere, cominciamo con lo scaldarci. Hai male ai muscoli, vero?» ridacchiò
«Non sono chiacchiere, devi starmi a sentire: non puoi rimanere qui» dovetti insistere.
Con Rie non era una questione di uomini o donne: il punto era che io ero in debito con lei, mi aveva salvato in più di un’occasione ed era sempre stata dalla mia parte, disponibile ad aiutarmi e ad ascoltarmi. Era l’unica alleata su cui potessi fare davvero affidamento, perché fin da subito lei sapeva (o aveva intuito) chi fossi, eppure mi aveva protetto e fatto curare. Ancora dopo tutto quel tempo, era lei ad occuparsi di me: cercava informazioni su come riportarmi a casa, mi allenava quando sarei stato inutile in un allenamento normale e avrebbero potuto sbattermi fuori casa e mi chiamava per nome, quello vero. Solo lei faceva tutto quello per me. Ora dovevo essere io a ricambiare e metterla in guardia.
«Ninomiya! Devo ricordarti che ora l’insegnante sono io? Decido io quando si parla e quando si lavora» rispose alla mia insistenza facendosi seria e parlandomi in tono duro. Durante quelle lezioni evitava di aggiungere il titolo onorifico al mio nome e cambiava totalmente atteggiamento, tracciando una linea ben definita tra “quando sono la tua insegnante e fai come ti dico io” e “quando siamo amici e puoi fare come ti pare”. Avrei voluto tracciare la linea “quando mi stai a sentire perché sono qui per pararti il culo”, ma ammetto che tutta la mia verve e la capacità di impormi perdevano d’efficacia, acciaccato com’ero e con la perenne sensazione di essere fuori posto.
Feci come mi era stato detto e cominciai gli esercizi. Giuro che non mi ero lamentato fino a quel momento. E so che sembra strano per uno come me. Ma quello era veramente troppo! Mi allenai, ma non trattenni nessuna lamentela, nessun mugolio di disperazione, nessuno sbuffo e nessun impreco. Se mi fossi impegnato, almeno avrei fatto bella figura con Ujie, che non avrebbe pensato di dare in sposa la sua unica figlia ad un inutile menestrello, futuro signore di quattro scogli in mezzo al mare. Che alter ego misero che mi ero trovato!
Insomma andai avanti ripensando alla sera prima e alla delicatezza nei modi di Masami. Così dovevano essere le donne dell’epoca: splendide, eleganti e aggraziate. Rie invece era una specie di animale imbizzarrito, lasciato totalmente allo stato brado! Tentavo di distrarmi per non pensare al dolore e alla fatica, ma alcune ore dopo l’inizio egli allenamenti, più o meno verso pranzo, sentimmo i primi rumori.
Ad attirare la nostra attenzione fu il rumore di uno schianto, del legno spezzato con tanta forza da sovrastare le grida di incitamento e i colpi secchi degli allenamenti nello spiazzo davanti alla villa. Poi sentimmo altri schianti simili, ma meno violenti, e rumore di zoccoli. Rie mi posò una mano sulla spalla bloccando il mio allenamento. Mi voltai a guardarla ed ero chiaramente spaventato. Lei si posò l’indice sulle labbra facendomi segno di stare in silenzio, poi nel giro di pochi secondi sparì. No, nessuna magia (anche se ogni tanto mi chiedevo dove fosse, dato che lei mi aveva detto che esisteva): con una breve rincorsa fece due passi sul tronco di un albero vicino, saltò di lato e si aggrappò ad un ramo robusto. Lo usò per dondolarsi due volte, poi con un colpo di reni si diede lo slancio e vi salì sopra. Era un sempreverde, quindi sparì tra gli aghi folti per ricomparire quando, poco più in alto, la vidi fare un salto non indifferente dal ramo al tetto della casa. Non si girò nemmeno a guardarmi e una volta lassù scomparve di corsa. Probabilmente andava a sbirciare sul piazzale dall’alto.
Io una cosa simile non potevo farla, forse avevo abbastanza muscoli, sì, ma mi sarei riaperto le deboli cuciture sulle mani. Decisi di correre rasente il muro di casa e andare a sbirciare, magari da dietro i grossi ginepri che stavano all’angolo, anche se pungevano da morire. Era un piano perfetto, ma feci appena in tempo a fare quattro passi di corsa, poi un individuo a cavallo si sporse dallo spiazzo a guardare quel lato della casa. Aveva i capelli lunghi e il pizzetto curato. Indossava sgargianti abiti colorati e nessuna protezione: non era un guerriero, era un nobile. Rimasi a fissarlo pietrificato, con gli occhi sbarrati mentre un tremito di paura mi scuoteva il corpo intero. Persino da così lontano, mi sembrava di riuscire a percepire la rabbia e il disprezzo che infiammavano il suo sguardo.
«Daitarō Mitsuyoshi sama!» gridarono dal piazzale e lui si distrasse. Doppio nome, quindi era molto nobile. Nel momento in cui smise di guardarmi, ripresi a respirare. Lui tirò le redini del cavallo e si allontanò. «L’abbiamo trovata, Signore!» gli urlavano a gran voce.C'era rumore di lame, ma nessuno dei miei compagni sul piazzale era armato d’acciaio, usavamo solo bambù, quindi i casi erano due: o chi era arrivato stava massacrando tutti, oppure stava combattendo con gli unici armati di tutta la villa in quel momento, ossia il piccolo seguito di Ujie.
Tremavo di paura, fermo nell'erba secca a fissare il punto dove prima stava quell’uomo, poi vidi Toshiaki affacciarsi alla nostra camera aprendo gli shoji.
«Kazu!» mi chiamò con un’espressione spaventata sul visino
«Toshiaki sama! Rientri subito» lo rimproverava la sua insegnante vedendolo sporsi troppo fuori dagli shoji
«Stai dentro» gli dissi gesticolando e cercando di cancellare la paura dalla mia espressione e dalla voce. «Vado a vedere cosa succede e poi torno ad avvisarti. Capito?»
«Sì, va bene» annuì facendosi nuovamente indietro con la testa. Qualsiasi cosa stesse succedendo, se eravamo in pericolo sarei tornato a prendere Toshiaki e lo avrei portato in salvo perché, per quanta paura avessi, non mi sarei mai sognato di lasciare che uccidessero anche quel bambino.
Quel piano mi diede un po’ di coraggio e alla fine feci come avevo pianificato: dopo aver corso lungo il muro mi sporsi a guardare, rimanendo dietro i cespugli di ginepro, e constatai che non eravamo sotto attacco e nessuno si era fatto male. I miei compagni non si stavano più allenando, ma erano sparpagliati lungo il perimetro dello spiazzo, per lasciare libero il passo ad un gruppetto armato e dalle protezioni scintillanti (ogni tanto incrociavano le lame tra loro, solo per fare rumore e sembrare minacciosi, ma nessuno stava combattendo). Le due porte laterali erano state sfondate e il cancello era parzialmente aperto.
«Vi prego, lasciatemi!» sentii gridare. Dalla parte opposta rispetto a me, un terzetto ben armato stava spingendo Masami verso lo spiazzo: erano andati a stanarla nella sua camera.
«Che modi, che modi! Non è così che si tratta una signorina di buona famiglia» fece l’uomo sul cavallo che avevo visto prima. «Vogliate scusarli, sono uomini poco avvezzi ad aver a che fare con signorine d'alto rango come voi» spiegò con voce affabile. Allungò una mano accennandole al cavallo di fianco al suo.
«Si può sapere cosa succede?» Ujie comparve sulla soglia di casa, subito seguito da Morikawa. «Daitarō?» fece sbarrando gli occhi
«Ujie Masamune, buongiorno» salutò l’uomo a cavallo, doveva avere la mia stessa età, eppure fissava un uomo dell’età di Ujie come se avesse avuto davanti un poppante. «Sono arrivate alle mie orecchie delle notizie molto inquietanti» spiegò facendo un gesto ai suoi uomini. Dato che Masami non accennava salire in groppa al cavallo, gli uomini la sollevarono di peso e, nonostante le sue proteste, la issarono sulla sella.
«Quali notizie? E perché trattate così mia figlia?» domandò l’uomo facendosi avanti con cautela. Non potevo esserne sicuro, ma avevo il sospetto che quello appena arrivato fosse uno dei famosi Tokudaiji.
«Mi dicono che state combinando un matrimonio di cui io non sapevo nulla» spiegò riducendo gli occhi a due fessure. Sembrava farlo per contenere l’ira che invece gli faceva tremare la voce. «A mio padre non piace essere preso in giro e a me piace ancora meno, Masamune. Questa donna è promessa a me» specificò alzando il tono della voce sull’ultima sillaba. «C’è un accordo tra le nostre famiglie, non puoi pensare di aggirarlo portando qui in segreto la mia futura sposa per darla ad un altro uomo. Tu non puoi fare questo. No, non puoi: lei è roba mia, l’hai promessa a me» continuò a ribadire a mezza voce, carica di furia tremante. «Quindi sono venuto qui perché sono stufo di aspettare il momento giusto: prima che tu cerchi di fare qualche altro giochetto, ho deciso di venire a prendermela. Masami starà nel mio castello fino al giorno delle nozze che mio padre sceglierà non appena saremo arrivati».
Era il figlio dei Tokudaiji quindi. E lui e Masami erano promessi? Con la tensione che c’era nel paese, possibile che Ujie avesse tentato lo sgarbo di darla a me senza essere più che certo di non essere scoperto? Quella svista da parte di un complottatore come il vecchio Ujie mi colse di sorpresa ben più del realizzare che non mi sarei sposato con la bellissima Masami.
«Non so chi ti abbia detto una cosa simile, ma ti assicuro che non era mia intenzione» Masamune si inchinò profondamente. «Ti prego, lascia mia figlia. Se sei impaziente di celebrare il matrimonio, la porterò io da te, come tradizione, dopo che saremo tornati a casa e avrà potuto salutare un’ultima volta la sua famiglia»
«Mi hai preso per un’idiota? Se la sua famiglia vuole salutarla allora venga al matrimonio, io non tornerò a casa senza di lei lasciando che tu me la porti via» insistette scuotendo il capo.
Masami era sul cavallo e aveva smesso di scalciare. Era immobile a capo chino. Provai una grande pena per lei: effettivamente non aveva senso opporsi per una donna nella sua posizione e in quell’epoca, perchè nessuno avrebbe mai ascoltato la sua opinione. Quello che lei pensava non aveva mai avuto peso, e prima ancora non l’aveva avuto quello che aveva pensato sua madre del proprio matrimonio, o sua nonna. Alle spalle di Masami c'erano generazioni di donne senza voce in capitolo, quindi opporsi non era proprio concepibile dalla sua mente.
«Daitarō, sono qui per combinare un matrimonio, ma non il suo» ammise infine Masamune. Strabuzzai gli occhi: come? E di chi allora? Aveva altre figlie? Oppure non era di me che parlava? Ma no, i Morikawa non nascondevano nessun altro a parte me.
«E cosa è venuto a fare un vostro lontano parente qui?» chiese ancora Daitarō Tokudaiji. spostando lo sguardo su Morikawa Toshiaki
«Mio signore, è figlio di una delle mie sorelle» rispose lui. Ovviamente era molto più ossequioso. Tutto sommato era un sottoposto di Ujie e lo trattava anche abbastanza amichevolmente nonostante il rapporto di subordinazione, forse in nome della loro lunga amicizia. Ma con i Tokudaiji non era la stessa cosa. Erano i conquistatori, gli estranei, gli aguzzini, i signori indiscussi. A loro doveva solo una cosa: rispetto (e un pizzico d'odio, che ai conquistatori piace sempre instillare negli altri). «È qui per allenarsi e diventare un buon guerriero presso la sua famiglia. Non è stato mandato per alcun progetto di matrimonio, né io potrei proporgli qualcuna senza sentire la sua famiglia prima» rispose tenendo il capo chino
«E dove sarebbe costui, sentiamo?» chiese l’uomo guardando i guerrieri nel piazzale
«Sta facendo degli allenamenti speciali, data la sua scarsa preparazione non è ancora in grado di stare al passo con gli altri». Storsi il naso: non era affatto vero! Ma stava coprendo il fatto che mi ero ferito e poi salvato in uno scontro con le guardie di quella stessa odiosa famiglia, quindi potevo quasi perdonarlo. Quasi.
«Beh, allora è la vostra parola contro la mia» concluse Tokudaiji. «E io mi fido molto di me stesso, quindi mi prendo Masami. Verrà preparata al matrimonio da mia madre e sarà un’ottima compagna di giochi per mia sorella».
Feci per alzarmi e andare nel piazzale. Mi sarei inventato una balla qualsiasi, mi sarei finto l’essere più inetto ed inutile dell’universo pur di convincere quel tipo che nessun uomo sano di mente mi avrebbe dato in sposa sua figlia, ma mi sentii strattonare e feci appena in tempo a raddrizzare le gambe per alzarmi che mi ritrovai di nuovo col sedere a terra. «Che vuoi?» sbottai girandomi. Alle mie spalle trovai Toshiaki.
«Non andare. Non servirebbe» scosse il capo preoccupato. Tokudaiji fece un gesto e la sua scorta si fece a lato per proteggere il suo passaggio e quello del cavallo di Masami fino al cancello d’uscita.
«Non ti avevo detto di rimanere in camera?» chiesi spaventato
«Qualcuno ha fatto la spia, mentre a te non ti conosce: si fiderà più che del suo infiltrato che di un altro, no?» ragionò mentre guardavo la partenza della ragazza sentendomi impotente. Non aveva tutti i torti ed era un ragazzo sveglio e intelligente, a quell’epoca si doveva crescere velocemente.
«Hanno detto che non sono io a dovermi sposare. Eppure ero sicuro» borbottai tra me e me fissando le porte sfondate
«Forse il fratellone Toshinori?» suggerì il bambino cercandolo con gli occhi tra gli uomini che tornavano verso il centro dello spiazzo ormai libero.
«No, ho sentito Ujie che parlava a tuo padre di qualcuno che lui stava nascondendo» scossi il capo.
Non c’era motivo di rimanere dietro quel cespuglio, ma non volevo pormi quelle domande da altre parti se non in quell’angolino, perché qualcuno aveva fatto la spia e avevo solo una spiegazione su come fosse successo. Non ero l'unico a sapere che Ujie aveva dei piani nuziali per qualcuno, ovviamente, ma sembrava fossi l'unico a pensare che mi riguardassero. Però non conoscevo i Tokudaiji, quindi non potevo averglielo comunicato io. La spiegazione al disastro capitato quella mattina era che qualcuno aveva origliato quelle quattro parole che avevo detto a Toshiaki la sera prima.
«Ma tu non sei nascosto» mi fece notare Toshiaki. Sì, beh, per quello che ne sapeva lui io non avevo nulla di strano, ma ignorava molte cose sul mio conto, quindi non poteva capire che invece ero nascosto eccome.
Scossi il capo e mi alzai. «Già, che schiocco. Allora chissà di chi parlavano» sospirai facendo finta di dargli retta
«Rie» mi disse rimanendo accucciato a terra
«Chi?» domandai incredulo
«Rie» ripetè girando lo sguardo verso di me. Era triste e non capivo perché.
«Rie è tua sorella, non c’è nulla di segreto» spiegai mettendo le mani sui fianchi. «Andiamo, altrimenti la tua insegnante di preoccuperà»
«Non te ne sei mai accorto?» domandò abbassando lo sguardo. «Rie non mangia a casa. Rie non dorme con noi. Rie non è mai qui e quando lo è non indossa niente di carino. È sempre vestita come uno degli altri guerrieri» cominciò a spiegarmi Toshiaki.
Mi accucciai a terra e gli misi le mani sulle spalle, preoccupato. «Cosa stai dicendo?» domandai con una strana ansia nel cuore
«Papà non parla mai di Rie. Il fratellone Toshinori nemmeno. Il fratellone Nagatoshi neppure. I domestici non fanno nulla per lei» continuò ad elencare. «Rie non esiste nella nostra famiglia»
«Come? Che senso ha? Nessuno sa che ha un'altra sorella? Nessuno sa che Rie è la quartogenita di tuo padre?» feci confuso. Lo fissai sbalordito: ora che mi diceva tutte quelle cose, mi rendevo conto che erano vere. Si era presa cura di me da sola, mi aveva portato la cena da sola, nessuno le aveva mai rivolto la parola in casa e i suoi familiari non avevano praticamente mai fatto cenno a lei. O forse un paio di volte, ma mi sembrava di ricordare che fossimo soli, senza nessuno di esterno alla famiglia ad ascoltare.
«Sono io il quarto» annuì Toshiaki. «Mi hanno raccontato che lei è nata insieme a Nagatoshi. Lo stesso giorno».
Erano gemelli.


Il capitolo è più lungo dei precedenti. Perdonatemi, sto cercando di mantenere una lunghezza simile, ma non c'era modo di tagliare delle parti senza sacrificare qualcosa che io ritenessi importante.
Il mistero si infittisce...

Un grazie va alla dolce WhenItsTime che commenta con intelligenza e attende paziente gli aggiornamenti: a proposito di questo matrimonio hai scritto qualche riga di considerazione sulla sua reazione nell'utlima recensione,ora che ne dici di questo sviluppo? ;) ne vedremo delle belle secondo me! (→ come se non fossi io a scrivere la storia!)

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