The Blue Eyed Soul - Storia di un ragazzo dagli occhi blu

di EllieMarsRose
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Distacco ***
Capitolo 2: *** Preoccupazione ***
Capitolo 3: *** Smacco ***
Capitolo 4: *** Apatia ***
Capitolo 5: *** Pianto ***
Capitolo 6: *** Rassegnazione ***
Capitolo 7: *** Rabbia ***
Capitolo 8: *** Ricordi ***
Capitolo 9: *** Amarezza ***



Capitolo 1
*** Distacco ***


Spike

Fuori pioveva. Come sempre, del resto. Vivere nel Regno Unito significava avere a che fare con la pioggia quasi giornalmente, tutto l'anno.

Ciò che era veramente strano, però, era che stesse piovendo dentro di lui; nonostante seguisse con gli occhi i tergicristalli che ondeggiavano sul parabrezza, sperando che spazzassero via dalla sua anima tutto quello schifo di malumore e facessero ritornare un po' di sole, non riusciva a pro­vare un minimo di sollievo. Lanciò un'occhiata fugace al sedile del passeggero: Leah era lì, con i pugni stretti sulle cosce e gli occhi castani che guardavano l'asfalto scorrere veloce fuori dal finestrino.

«Ti prego, dimmi di nuovo perchè devi proprio andarci» Spike ingranò nervosamente la terza mentre la macchina saliva di giri. Cercava di andare piano, il più piano possibile, per godersi appieno quegli ultimi istanti con lei.

Leah sbuffò guardando il tettuccio di quella Mini scassata: «È la mia grande opportunità»

«Questo me l'hai già detto un sacco di volte». Spike parcheggiò la macchina vicino al Terminal 4. «Ma perchè proprio Lione?».

La ragazza sbuffò di nuovo e tentò di scendere dall'auto, ma Spike la bloccò per un polso; Leah arricciò le labbra, indispettita: «Perchè è l'unica università dove posso veramente specializzarmi in ciò che mi piace di più».

Lo guardava con gli occhi che gli urlavano spazientiti: Te l'ho già spiegato un sacco di volte, perchè ti ostini a non capire?. Ma lì non era questione di non capire; Lione non era attaccata a Londra. Lione era in Francia, lontano, oltre il mare, giù a sud.

«E poi puoi venire a trovarmi tutte le volte che vuoi! Basta prendere l'aereo» gli aveva urlato quelle parole mentre scendeva dall'abitacolo e andava a prendersi la valigia nel bagagliaio.

Spike guardò i suoi capelli color mogano e lisci svolazzare nell'aria umida e si sfregò le palpebre: sei tu quella che non capisce. Scese nella pioggia a bagnarsi la chioma castana scura, dopo aver picchiato i palmi sul volante: «Qui non è questione di prendere l'aereo per passare la Manica»

«Senti» Leah sbuffò caricandosi in spalla lo zaino pesante «se sei diventato improvvisamente aerofobico, sappi che puoi prendere il treno».

Fece per incamminarsi verso l'entrata del terminal, ma Spike le vomitò addosso tutta la rabbia che aveva accumulato in corpo nelle tre settimane precedenti: «Porca puttana, non fare orecchie da mercante e ascoltami! Lo sai che non sono aerofobico, non inventarti scusanti del cazzo». Si bloccò per un attimo, prendendo fiato e preparandosi psicologicamente per le parole importanti che stava per pronunciare: «Non voglio che tu vada lontana da me».

Leah lo guardò dritto negli occhi blu sotto la pioggia battente: «Tu cosa provi per me?».

Spike si avvicinò a lei, le prese la mano e se la portò al cuore: «Ti amo. Non dimenticarlo». Con il naso le accarezzò il profilo e le baciò le labbra bagnate di pioggia.

Leah si ritrasse riluttante: «E allora, proprio perchè mi ami, dovresti lasciarmi fare ciò che mi piace di più. E poi sono solo sei mesi; passeranno in fretta».

Spike annuì in silenzio, mentre il suo sguardo cadeva verso il basso, sulle loro scarpe; i suoi stivali da cowboy e quelle scarpine verde scuro che tanto gli piacevano. Era l'ultima volta che li avrebbe visti insieme; erano la cosa più carina da osservare quando si alzava per andare in bagno dopo aver fatto l'amore con lei. Guardava i piedi del letto e le scarpe verdi di Leah erano sempre, puntualmente, appoggiate sopra il gambale dei suoi stivali. Per un secondo, la vista gli si appannò e fece fatica a prendere fiato: «Mi manchi già adesso, che sei ancora accanto a me».

Leah sorrise; il suo ragazzo voleva apparire sempre sicuro di sè e spigliato, ma sotto nascondeva un animo sorprendentemente tenero. Lo strinse forte ed immerse il naso nella sua guancia profumata di dopobarba: «Anche tu mi mancherai tanto. Sei davvero la cosa più importante che ho». Si distaccò un attimo per guardarlo negli occhi, quei splendidi occhi blu che l'avevano ipnotizzata dal primo istante che l'aveva visto; sentì le proprie corde vocali annodarsi: «Ti amo, Jonathan».

Jonathan... solo sua madre e sua sorella lo chiamavano ancora così; e, naturalmente, anche Leah nei momenti di intimità. E solo dio sapeva perchè, quando lei pronunciava il suo nome di battesimo, gli partiva il cuore a mille. La strinse di nuovo al petto, baciandola con passione e cercando di nascondere una lacrima che, furtiva, gli era scivolata fuori dalla palpebra chiusa, sotto una ciocca ribelle che scappava dalla bandana blu scuro. Con la punta della lingua giocò con lei e le accarezzò le labbra, per imprimere al meglio nella propria memoria quel sapore che gli sarebbe mancato troppo a lungo.

Poi...

Poi lei si staccò dal suo viso e lo prese per mano in silenzio, trascinandolo dentro l'aeroporto. Spike assistiva al distacco come se fosse stato rinchiuso in una bolla di sapone; sembrava che lei si muovesse a rallentatore, in silenzio, ma nulla poteva fermare quell'inesorabile allontanamento. Solo quando lei lo salutò da lontano sventolando il passaporto, si rese conto di essere veramente solo. Avrebbe voluto bloccarla, impedirle in tutti i modi di prendere l'aereo; oppure gli sarebbe piaciuto comprare su due piedi un biglietto di sola andata per il volo per Lione, magari sul sedile di fianco a lei. Sì, ma con che soldi?

Sospirò abbassando il capo, sentendo la consapevolezza gravargli sulle spalle. Sei solo; hai gli amici, ma ti manca lei. Aveva chiesto a Leah di mollarlo prima di partire; sarebbe stato meno doloroso che vivere a distanza. Ma lei si era rifiutata, gli aveva detto che lo amava con tutto il cuore e che avrebbe preferito che lui ci fosse sempre stato, anche se per sei mesi l'avrebbe solo sentito per telefono. Guardò il tabellone dei voli in partenza: l'aeromobile Air France per Lione saliva verso l'alto troppo in fretta. She's gone...

Diede un calcio ad un'etichetta persa da qualche passeggero frettoloso e si incamminò verso la Mini con lo sguardo perso nel vuoto. Era così fuori dal mondo che urtò un uomo d'affari senza volerlo, facendogli rovesciare a terra una cartelletta piena di documenti che stringeva gelosamente sotto il braccio. L'uomo, calvo e grassoccio, gli diede del drogato e del tossico, dato che con quei capelli e quella faccia non puoi essere altro che uno di loro; Spike nemmeno si girò per mandarlo al diavolo, al contrario, mantenendo gli occhi blu fissi sulle piastrelle, si scusò in modo molto timido e lo aiutò a raggruppare i fogli in fretta e furia. Guardò l'uomo sparire nella folla borbottando, seguendo con le sue pupille vuote l'oscillare ritmico dell'impermeabile che indossava, passando rasente la libreria del Terminal 4. E lì lo vide, che beffardo lo osservava da dietro il vetro, con la sua copertina candida decorata con disegni bimbeschi. Quel libro che con le sue frasi ad effetto aveva ammaliato la sua Leah e la stava allontanando da lui; guarda caso, l'autore dava anche il nome all'aeroporto dove lei, un paio d'ore dopo, sarebbe atterrata.

Antoine De Saint-Exupéry: Il Piccolo Principe.

Lo stronzo francese che le aveva occupato il cervello.

Senza dare nell'occhio, entrò nella libreria, fece un giro fra gli scaffali con le mani in tasca, poi, molto discretamente, rubò una copia di quel libro terribile. Salì in macchina ed uscì dal parcheggio dell'aeroporto, diretto verso un posto dove nessuno l'avrebbe mai visto. Passati circa dieci minuti svoltò in una piccola stradina poco dopo Hounslow West; posteggiò la Mini attaccata al marciapiede e si mise in mezzo alla strada. Con la pioggia che gli appiccicava i capelli alla faccia, estrasse dall'interno della giacca il libro, sentendo la rabbia montare in lui. Aprì una pagina a caso e lesse la prima frase che vide: "Se vuoi un amico, addomesticami".

Le lacrime gli salirono inesorabilmente agli occhi e le viscere gli si annodarono: con tutto quello che potevo trovare, proprio la prima frase che lei mi ha detto per conquistarmi dovevo leggere?

Gettò il libro a terra e corse nell'abitacolo della Mini a prendere le sue Lucky Strike e l'accendino; era confuso, solo, amareggiato, triste ed incazzato. Doveva assolutamente fumare. Diede un paio di colpi a vuoto, poi la pietra focaia scintillò ed accese una debole fiammella arancio; Spike diede due aspirate nervose dal filtro, mordendosi le labbra ogni volta, prima di espirare il fumo grigio in una lunga nuvola, e sentendo il sapore salato delle proprie lacrime mescolarsi a quello della pioggia. Fissò il libro per un'ultima volta con gli occhi appannati, poi, stringendo la sigaretta fra gli incisivi, si inginocchiò ed accese l'accendino. Fortunatamente questa merda non è ancora inzuppata. Lentamente, le pagine presero fuoco, una dopo l'altra. Stette per un attimo a guardare l'inchiostro sciogliersi nell'umidità, poi accese il motore e tornò al suo appartamento, dove si scaraventò sul divano e si addormentò.



Sinceramente non so perchè mi sia messa a scrivere una nuova storia; come potete vedere, può essere sia un capitolo autoconclusivo, così, solo perchè avevo voglia di animare un po' Spike Gray, oppure può essere benissimo una storia che può andare avanti con altri capitoli. Non saranno lunghi come al mio solito (credo).

Se state leggendo queste poche righe, vi ringrazio; se volete lasciare una recensione, vi ringrazio ancor di più. Bella o brutta che sia non ha importanza; ciò che è veramente importante è che voi mi diate qualche consiglio per migliorarmi.

Se la storia andrà avanti, conoscerete meglio il mondo dei Quireboys (e credo che ci sarà anche un cameo di Tyla... d'altra parte, nella vita reale, lui e Spike sono molto amici), sennò... va bene così.


Questa storia è stata ispirata essenzialmente da due persone: la prima ha ispirato il personaggio di Leah (un uomo... che qui è diventato una donna; uau) e solo Twin potrebbe capire a chi mi riferisco; la seconda è, ovviamente, Spike Gray con il quale (per colpa del mio ragazzo) ho un autografo e una foto in sospeso.


Vediamo un po' come va a finire... see you soon (spero)

Ellie

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Capitolo 2
*** Preoccupazione ***


02 Preoccupazione

La prima settimana di distacco era stata quasi surreale; Spike e Leah si chiamavano a giorni alterni e tutto quello che riuscivano a dirsi era: «Come stai? Sai, mi manchi un sacco». Guy Bailey, il coinquilino di Spike, ascoltava quelle conversazioni con le pupille rivolte al soffitto, sentendo progressivamente i suoi molari cariarsi uno dopo l'altro. Poi le cose si erano “routinizzate”; le telefonate si erano ridotte drasticamente di numero già dalla seconda settimana, arrivando a due, e gli argomenti si erano in un certo senso ampliati: oltre al “mi manchi” si era aggiunto “come va lo studio?”.

Sti cazzi, che due coglioni continuava a ripetersi ogni volta Guy mentre preparava qualcosa di commestibile per cena mentre Spike stava al telefono a tubare per cinque minuti abbondanti.

Poi, una sera, dopo un mese e mezzo che Leah era partita per Lione, il telefono non suonò e nemmeno il giorno dopo ci furono chiamate in entrata dall'estero. Spike sedeva inquieto sul divano fissando in cagnesco il telefono grigio e tamburellando con il piede destro contro la gamba del tavolino basso. Guy lo fissava con la schiena attaccata al muro vicino alla finestra, espirando cerchi di tabacco; vedere l'amico in quello stato lo mandava non poco in bestia: «Ehi, senti» cercò di fargli spostare gli occhi blu dal telefono «io te l'ho sempre detto che quella non mi piaceva».

Spike andò su di giri: «Spiegati meglio».

«In realtà c'è poco da spiegare» Guy fece rotolare il mozzicone lungo il davanzale umido «quella ti prendeva e ti sta tutt'ora prendendo per il culo»

«Puttanate» il ragazzo si fece paonazzo in viso e si alzò puntandogli contro l'indice «secondo te due parole importanti come “ti amo” si dicono così, tanto per dare aria alla bocca?».

Guy si fece scappare una risatina: «Mi spiace, ma alcuni lo fanno».

Spike fece per rispondergli per le rime, ma si bloccò: e se avesse ragione? Nah, impossibile... eppure, Guy un po' di dubbi glieli aveva fatti venire. Improvvisamente il suo stomaco si fece grande quanto un granello di sabbia e per un attimo smise di respirare, provando una schifosa sensazione di nausea. Senza aggiungere altro, si infilò la giacca ed uscì in strada, direzione nessuna parte; voleva stare solo e girovagare con i suoi pensieri.

Guardando i suoi stivali avanzare sul marciapiede, Spike provò a richiamare alla memoria le ultime telefonate avute con Leah: con il passare dei giorni lei suonava sempre più fredda. Beh, ma penso sia in un certo senso “normale”; insomma... non ci si vede da ormai un mese e mezzo. Si fermò per un attimo ad osservare un foglio del Times attraversargli il cammino per poi farsi schiacciare da un taxi in corsa: già... e se in questo arco di tempo lei avesse... no, impossibile. Lei è innamorata. È innamorata di me. Non avrebbe mai sprecato parole così importanti per nulla. Credo.

Sentì la propria gola chiudersi ed il cuore mancargli un battito. No, non andava bene. La verità era che era maledettamente preoccupato che lei si fosse trovata qualcun altro con cui sostituirlo; qualcun altro con cui avrebbe potuto parlare di quel dannato bambino innocente che aveva candidamente chiesto al pilota di disegnargli una pecora. Già... quel cosino biondo era veramente sopra ogni cosa per lei. Da che l'ho conosciuta tre mesi fa, non ha fatto altro che parlarmi di quel libro in ogni modo possibile. Si può amare di più un libro di una persona?

Spike alzò gli occhi blu al cielo e una goccia gli arrivò dritta in faccia; stava per mettersi a piovere di nuovo. Sbuffò allacciandosi la giacca e pensando ad un luogo dove andare a ripararsi: il Dark Crimson Velvet non è poi così distante... Julie dovrebbe essere di turno questa sera. Quello era sempre il posto migliore dove andare: per bere una birra, per tirare quattro freccette, per fare una partita a biliardo fumando sigarette fino a tarda notte. Entravi in quel velluto rosso scuro e ti lasciavi avvolgere dolcemente da un universo a sé stante, profumato di alcol e tabacco, con le pareti morbide e le luci calde. Il Crimson era come una sensualissima donna nuda con le labbra di un rosso intenso.

Il ragazzo aprì la porta pesante ed andò ad accomodarsi su uno degli sgabelli davanti alla spillatrice. Si prese la testa fra le mani e cominciò nuovamente a pensare a Leah: io la amo... è vero, sono solo pochi mesi. Eppure senza di lei non riesco a stare. Com'è che diceva? Se tu mi addomestichi, avremo bisogno l'uno dell'altro. Però lei... se è andata via... va bene, è andata via per studio, però se n'è andata comunque. Si morse l'interno delle guance per cercare di bilanciare il dolore che si diramava dal proprio torace: mi manca...

«Jon!» la voce famigliare di Julie gli fece aprire gli occhi «Che ci fai qui solo?».

Gli occhi blu di Spike incrociarono quelli color nocciola della sorella; lo stava guardando con un sorriso dolce: «Ho voglia di una birra, Julie»

«Che c'è?» la ragazza cominciò a spillare una Newcastle Brown «Anche se penso già di conoscere la risposta. Sei l'unico uomo che, per me, non ha segreti».

Spike sorrise appena e diede una lunga sorsata dal bicchiere che gli aveva appena passato la sorella: «E allora credo che non ti stupirai della richiesta che sto per farti». Julie si protese con l'orecchio in avanti, accanto alla bocca del fratello. Spike stette per un istante in silenzio, capendo che ciò che stava per dire era un azzardo in piena regola, ma la sua voglia di vedere Leah e tutti quei dubbi che avevano preso possesso della sua mente non gli lasciavano altra scelta; se voleva dormire sonni tranquilli la notte, doveva assolutamente compiere quella pazzia: «Quanti soldi mi puoi prestare?».

Julie scosse bonariamente il capo: «Lo sapevo... dipende»

«Da che cosa?» Spike bevve un altro sorso di Newkie Brown

«Tu quanto puoi metterci? Penso che un solo andata costi intorno alle quaranta sterline».

Spike ebbe un capogiro: «Sono un mucchio di soldi per le mie tasche bucate»

«Lo so» Julie si scostò una ciocca mora che le era crollata sul naso «se magari ti sbattessi un po' di più e trovassi un lavoro un po' più redditizio del proiezionista, non avresti questi problemi»

«Posso metterci solo trenta sterline» il ragazzo le rispose scocciato «e comunque ci ho provato a cercare un altro lavoro, non mi vogliono da nessuna parte. A scuola andavo male in tutto, esclusa ginnastica; se non mi fossi rotto il braccio durante gli allenamenti, a quest'ora sarei il primo portiere di qualche grande squadra. Oppure, se riuscissi a trovare qualcuno che ci faccia un contratto discografico, a me e alla band, farei il musicista. E lo sai».

Julie sospirò e rovistò nella tasca del grembiule nero: «Posso darti le mie mance di oggi più quelle di settimana scorsa; lavorando praticamente tutte le sere, ho preso dei bei soldini». Fece il giro del bancone in silenzio e mise in mano al fratello sessanta sterline: «Restituiscimeli quando puoi, senza fretta. Sai che mi fido».

Spike sorrise sinceramente mentre si metteva il denaro nella tasca interna della giacca: «Sei la migliore, sorellona»

«Però mi devi promettere una cosa, occhioni blu» Julie lo fissò con le sopracciglia aggrottate, mettendogli una mano sulla spalla «ti devi trovare un compagno di viaggio. Non mi va che tu vada da quella da solo».

Spike si mordicchiò il labbro abbassando lo sguardo: possibile che Leah non piaccia proprio a nessuno? Nemmeno uno dei miei amici la sopporta e mia sorella non la può vedere. È veramente così...

Di nuovo fece fatica a respirare e il cuore gli si pietrificò per un istante. Basta. La questione andava risolta: doveva andare a Lione con qualcuno, sennò sarebbe morto di sincope prima ancora di imbarcarsi. Ma chi? Guy non la poteva vedere. Nigel, anche se suonava con loro da poco, aveva detto da subito che la trovava antipatica; per non parlare di Chris e Cozy che affermavano che Leah era “a dir poco irritante”. Forse potrebbe venire qualcuno dei miei colleghi... nah, sono tutti squattrinati almeno quanto me.

Improvvisamente il telefono del locale prese a suonare insistentemente. Julie accarezzò fugacemente la guancia del fratello e si precipitò a rispondere: «Dark Crimson Velvet, sono Julie... ah, ciao Guy!».

Guy? Spike aggrottò le sopracciglia mentre ingurgitava il fondo della sua birra; non riusciva a capire perchè il suo coinquilino stesse chiamando il pub.

«Ma dai? Davvero?» Julie sorrideva mentre teneva con entrambe le mani la cornetta.

Che sta succedendo?

«Allora bisogna organizzare una bella festa di bentornato! Tu non ti preoccupare, ci penso io; vi riservo l'intera stanza con il biliardo e vi faccio trovare dentro l'universo».

Spike aspettò che la sorella terminasse la conversazione con l'amico e poi la studiò con i suoi occhi azzurri: «Ma era Bailey?».

Julie annuì: «Fra cinque giorni organizziamo la festa di bentornato per i Dogs».

Di punto in bianco Spike si sentì leggermente risollevato: «Rientrano dalla Finlandia?». Aveva una gran voglia di rivedere quei quattro scapestrati; soprattutto Tyla. Già... Tyla; potrei chiedere a lui. Quando ci sono di mezzo questo genere di questioni, non si tira mai indietro. Sembra che abbia una strana predisposizione per le situazioni spinose e dolorose...


A quanto pare, la decisione di continuare la storia è stata piuttosto celere. Come potete notare, sto anche cercando di mantenere la promessa di fare capitoli brevi e “piuttosto d'impatto”; spero che chi abbia letto il primo capitolo, l'abbia trovato di proprio gradimento. C'è anche da dire che la storia è in una sezione piuttosto infognata del sito; ad ogni modo, grazie infinite :)

Spike è divorato dai dubbi e grazie all'aiuto della sorella maggiore Julie riesce ad avere i soldi per andare a Lione. Tyla accetterà? Se la storia vi piace, mi raccomando, state sintonizzati perchè nel prossimo capitolo ne vedremo delle belle.


Ellie

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Capitolo 3
*** Smacco ***


03 Smacco

A Lione la luce era a dir poco abbagliante. Spike si pentì amaramente di non essersi portato gli occhiali da sole e fu costretto a coprirsi gli occhi blu con la mano destra, mentre con la sinistra si caricava in spalla lo zaino con quella poca roba che gli sarebbe servita per sopravvivere in quella città trentasei misere ore. Si guardò intorno, cercando di interpretare i vari cartelli scritti in francese: «Dobbiamo trovare un mezzo che ci porti in centro città».

Tyla si passò una mano in mezzo ai capelli rossicci e si accese una Marlboro: «Più che trovare un mezzo, bisogna scovare qualcuno, dato che siamo d'accordo che dobbiamo spendere il meno possibile». Inforcò gli occhiali da sole ed indicò due ragazze che stavano caricando delle valigie in macchina: «Loro, per esempio».

Spike arricciò il naso: «Credo che non sia una grande idea». Tyla lo fissò stranito da dietro le lenti scure dei Ray Ban, aspirando deciso dal filtro, in cerca di spiegazioni. «Insomma, metti che Leah mi vede arrivare sotto il suo appartamento e scendo dalla macchina su cui ci sono due ragazze, che figura ci faccio?».

Tyla sputò il fumo ridacchiando e fece cadere a terra il mozzicone della sigaretta: «La figura di quello che se la sa sbrigare e che sa fare economia». Fece due passi, poi si voltò a guardare l'amico: «Vuoi seguirmi oppure preferisci fartela a piedi fino in centro?».

Spike abbassò lo sguardo e seguì lo sventolare ritmico della giacca indaco dell'amico. Ripensò alla fatica che aveva fatto per chiedergli di seguirlo in Francia; provava una vergogna infinita, si sentiva debole e vulnerabile. Eppure, Tyla non aveva esitato ad accettare.


♫♫♫


Quella sera lui, Guy e gli altri Quireboys erano entrati al Dark Crimson Velvet curiosi di vedere se sette mesi in Finlandia fatti di registrazioni, pubblicazione di un album, un singolo in classifica e concerti avevano cambiato l'atteggiamento dei loro amici Dogs. “Secondo te si saranno montati la testa? Saranno cambiati tanto?”. Spike osservava gli amici discutere fra loro senza spiccicare parola: penso che se Tyla e gli altri fossero cambiati, potrei veramente andarmene via sbattendo la porta. È l'ultima cosa di cui ho bisogno ora. Nel giro di pochissimo tempo erano già mutate troppe cose, ci mancava solo che, oltre a Leah, anche Tyla si fosse allontanato da lui. Possibile che, quando tutto sembra andare perfettamente, sempre ed immancabilmente, qualcosa debba incrinarsi o rompersi in modo irrimediabile? Non sarebbe tutto più facile se ciò che ci fa star bene fosse “immobile”? Sospirò senza farsi sentire, percependo i propri occhi farsi più umidi; alzò lo sguardo e si trovò di fronte all'ingresso del pub. Vide uno dopo l'altro Guy, Chris, Nigel e Cozy entrare nel velluto cremisi e bearsi dell'atmosfera che quel posto trasmetteva; lui, invece, rimase per un attimo titubante attaccato al maniglione della porta in noce indeciso sul da farsi. Si sentiva come il primo giorno di scuola di prima elementare, quando il cuore gli batteva così forte che stava per sputarlo in faccia alla maestra ed aveva pregato sua madre di riportarlo a casa. Poi vide Julie andargli incontro con uno dei suoi migliori sorrisi: «Ehi Jon, c'è Tyla che ha già chiesto di te. Dice che vorrebbe fare una bella partita di biliardo come ai vecchi tempi».

Spike, un po' più sollevato, decise di dirigersi verso la “Pool room” del Dark Crimson Velvet, dove poco prima erano entrati gli altri; come aprì la porta, fu investito dal suono di risate e voci amiche. Il primo che gli andò incontro fu Bam, che gli mollò una sonora pacca sulla spalla: «Sempre smilzo come al solito, eh Spike?».

Tipica frase di Bam; il ragazzo sorrise e gli restituì il colpo: «Allora Cavernicolo? Tutto bene?».

In men che non si dica, Spike fu raggiunto anche da Jo Dog e Steve; ci furono altri scambi di battute ed il ragazzo, lentamente, iniziò a sentire la propria tensione sciogliersi. Ma i muscoli gli si distesero totalmente quando vide una nuvoletta di fumo innalzarsi verso la lampada centrale; Tyla era seduto sul bordo del tavolo da biliardo con le gambe a penzoloni ed una bottiglia di whisky stretta nella mano sinistra. Smise di respirare per un momento quando lo vide alzarsi ed andare verso di lui. Quando gli arrivò a pochi centimetri, Tyla alzò la mano destra in cui stringeva la sigaretta; di riflesso Spike alzò la sua ed i due si scambiarono un cinque che fece tremare i muri del locale seguito da un potente abbraccio. «Sei sempre il solito bastardo!» si urlarono a vicenda, scrutandosi come se fossero millenni che non si vedevano. Passarono tutta la serata insieme a raccontarsi cosa avevano fatto in quei sette mesi che non si erano visti, in modo particolare Tyla raccontò delle varie avventure vissute in mezzo a renne, gelo e ragazze che parlavano una lingua incomprensibile. Quando suonò la campanella dell'ultimo giro, i ragazzi si salutarono ed iniziarono ad uscire dal pub; solo Spike fu trattenuto da Tyla: «Oh, dobbiamo ancora farci la nostra partita. Tua sorella mi ha detto che se ci tratteniamo qui anche dopo la chiusura, finchè c'è lei, non ci sono problemi».

Così i due scelsero le stecche, passarono il gesso sulle punte e cominciarono la loro partita a Palla 8.

«Allora» Tyla si accese l'ennesima sigaretta della serata mentre posizionava le biglie al centro del tavolo «mi sembri un po' teso, Spike».

Il ragazzo si chinò sulla sponda e spaccò il triangolo: «Si nota tanto?»

«Abbastanza, guarda che colpo da femminuccia che hai fatto» Tyla si scostò una ciocca rossiccia studiando il tappetino verde «vediamo se riesco a buttare la 2 in buca».

Spike sospirò ed anche lui si accese una sigaretta: «Sai, non volevo accennarti il discorso mentre c'erano qui anche tutti gli altri, avrei rovinato la festa. Però... ho dei problemi con la mia ragazza. Se n'è andata a Lione».

Tyla grugnì per il tiro non andato a segno, poi guardò l'amico negli occhi: «Se non me ne hai mai parlato, significa che con questa ci esci da poco» fece una pausa per aspirare dal filtro «e se mi dici che ci sono problemi, anche se non è molto che la vedi, vuol dire che tu a lei tieni molto e lei non tiene per un cazzo a te».

Spike sentì il proprio sangue ghiacciarsi; incredibile... anche a Tyla non piace, pur non avendola mai vista. Possibile che io sia il solo che vede del bello in lei? Iniziò a tremare per il freddo che sentiva in sé, ma cercò in tutti i modi di non darlo a vedere. Si chinò sul tavolo stringendo fra i canini la Lucky Strike e cercò di deviare i suoi pensieri da Leah verso la biglia numero 10.

«Scommetto che non vi sentite al telefono da giorni ormai. E tu non puoi chiamarla perchè sei quasi a bolletta».

Spike cominciò a sentire sempre più i nervi a fior di pelle mentre gocce di sudore freddo prendevano ad inumidirgli la bandana legata in fronte. Tranquillo Spike, tranquillo. Caricò il colpo.

Tyla continuò il suo discorso con la violenza di un uragano: «Hai paura che lei abbia un altro?».

Quelle parole lo colpirono come lame affilate; Spike perse completamente la concentrazione e strisciò per dieci centimetri la punta della stecca sul tappetino verde, colpendo di sbieco la biglia.

«Oh, cazzo! Hai rovinato il tavolo!» aveva starnazzato Tyla come una gallina, ma Spike sembrò non preoccuparsene minimamente.

Lasciò la stecca appoggiata alla sponda e con il capo chino si sedette sulla panca appoggiata alla parete in legno. Fissava l'amico attraverso il fumo della sigaretta che teneva fra le labbra; aveva un che di mistico. Tyla riusciva sempre a capirlo facendogli una domanda sola, secca e diretta. Lo studiò mentre spegneva il mozzicone nel posacenere con quei capelli un po' castani ed un po' rossicci che si muovevano rischiarati dalla luce giallastra della lampada centrale. Spike sospirò, sentendo l'agitazione impadronirsi dei suoi muscoli: «Tyla...»

«Non possiamo non dirlo a tua sorella» l'amico scuoteva il capo guardando il biliardo.

Il ragazzo alzò gli occhi blu al soffitto: «Lascia perdere il tappetino, cazzo! Non è fondamentale»; cercò di prendere fiato per fargli la domanda. Aveva terrore di ottenere un rifiuto.

Ma proprio mentre avvicinava il filtro alle labbra per infliggere il colpo di grazia alla paglia al fine di darsi ancora un po' di coraggio, Tyla gli disse lapidario: «Comunque ci sto, non importa se dovrò rifare di nuovo le valigie. Fammi sapere quando puoi prenderti dei giorni di ferie».


♫♫♫


E così, circa una settimana dopo, erano finiti su quella Citroen, dove le due ragazze avevano tentato di raccontar loro in un inglese sgangherato che erano state in vacanza a Dresda per “studiare i comportamenti dei tedeschi dell'est”. Spike seguiva la conversazione con il massimo disinteresse, seduto sul sedile posteriore e guardando fuori dal finestrino il paesaggio scorrere veloce davanti agli occhi; ogni tanto annuiva o mugolava in segno di assenso, ma più si avvicinavano al centro, più gli tremavano le gambe e gli sudavano le mani. Aveva una voglia matta di vedere Leah, di sentire la sua voce ed assaporare il suo profumo. Alla fine, le ragazze li lasciarono in una piccola piazza adiacente all'indirizzo che avevano loro dato e se ne andarono salutandoli con un fazzoletto arancione.

«Molto, molto carine» Tyla ammiccò da dietro le lenti scure, agitando lievemente la mano in aria in direzione dell'auto.

Spike non gli diede per nulla ascolto; fece scorrere il proprio sguardo sulle pareti degli edifici che circondavano la piazza, finchè non intravide il cartello che indicava la via dove si trovava l'appartamento di Leah. Il numero 54 era situato piuttosto all'inizio, fra un piccolo bar frequentato da universitari ed un fiorista. Il ragazzo ripiegò il foglietto e se lo mise nella tasca dei jeans, studiando le rose che facevano capolino dai vasi enormi del negozietto.

«Se vuoi fare una cosa dolce, comprale una rosa rossa» Tyla gli parlava mentre si accendeva una sigaretta, studiando la facciata del palazzo «una sola, non tre e nemmeno cinque. È un gesto molto significativo, fidati».

Spike abbozzò un sorriso: «Grazie» e setacciò le proprie tasche alla ricerca di qualche franco da snocciolare al commesso per avere uno di quei fiori.

Il ragazzo lo vide rigirarsi fra le mani la rosa e poi aprire il portone con fare titubante; gli alzò il pollice per rassicurarlo e tirò l'ultima boccata alla sigaretta, guardandolo sparire su per le scale.

Spike imboccò la rampa, annusando l'aria stantia e maleodorante di quel posto rischiarato a malapena da una finestra grande quanto una feritoia; era così teso che faceva fatica ad alzare le ginocchia per salire gli scalini. A metà si fermò, cercando di rilassarsi e di ricordarsi come si faceva a respirare, senza però ottenere risultati apprezzabili. A che piano sarà l'appartamento? È l'unica informazione che non c'è scritta sul foglietto. Riprese a salire in punta di piedi, raggiungendo il primo pianerottolo: Potrei suonare tutti i campanelli, ma che figura ci pianto? Non so una parola di francese e...

Proprio mentre la rosa stava per scivolargli via dai polpastrelli, talmente erano sudati, una ragazza dai capelli neri, che stava per uscire dall'appartamento di fronte a lui, lo bloccò: «Mais... tu es Jean Charles!».

Spike strabuzzò gli occhi e fissò la rosa rossa: non vorrà mica rubarmi il fiore questa qui!

«Que belle fleur!» La ragazza gli sorrideva sinceramente «Tu l'as acheté pour Leah, c'est ça?».

Il ragazzo rimase a fissarla con gli occhi fuori dalle orbite; aveva detto Leah? Sì, con accento smaccatamente francese, ecco perchè non ci sono arrivato subito. Doveva comunicare con la ragazza, forse era la sua coinquilina; cercò di cavarsela con il linguaggio dei gesti e l'unica parola che sapeva di quella lingua straniera: «Leah... oui, oui»

«Oh, merveilleux!» la bruna prese Spike per il polso e lo scaraventò letteralmente dentro l'appartamento, rischiando di farlo cadere con la faccia a terra «Elle va arriver en vingt minutes! Tu peux l'attendre ici!».

Non capiva una sola parola di ciò che la ragazza gli stava dicendo, però era certo che lei fosse la coinquilina della sua ragazza, quindi si limitò ad annuire e a sorridere.

«Alors, je m'en vais» la bruna infilò le chiavi nella toppa «bonne chance, Jean Charles! À bientôt». Chiuse la porta con decisione e diede due giri di chiave.

Spike, piuttosto frastornato, si ritrovò solo in una casa che non aveva mai visto. Fissò per un secondo la rosa rossa che stringeva fra le dita e poi, in punta di piedi, cominciò a girovagare per l'appartamento; senza nemmeno farlo apposta, la prima porta che aprì fu proprio la camera da letto. Nella luce morbida che penetrava dalle tende rosa appena scostate, due letti sfatti erano posizionati l'uno di fianco all'altro, separati da un piccolo comodino di legno chiaro. Sulla moquette regnava il caos più completo: scarpe spaiate erano accantonate l'una sull'altra, circondate da magliette spiegazzate, braccialetti ed altra chincaglieria femminile. Spike aggrottò le sopracciglia: sapeva che Leah non era esattamente ordinata, ma non si aspettava che fosse così incasinata. Studiò i letti e cercò di capire quale fosse quello della sua ragazza; si guardò le spalle per controllare che non ci fosse nessuno a spiarlo, poi si chinò sul guanciale del letto di sinistra. Immerse il naso nella federa e respirò a pieni polmoni; poteva sentire nitidamente il profumo fruttato dei suoi capelli incastrato nelle fibre di cotone. Di riflesso il suo cuore cominciò a palpitare; desiderava incontrarla più di ogni altra cosa ed il fatto di doverla aspettare, per non si sa quanto tempo, chiuso in quell'appartamento, lo faceva uscire pazzo. Alzando gli occhi dalla federa, la sua attenzione fu attirata da una chitarra classica appoggiata malamente al muro: dev'essere dell'altra ragazza... disordinata pure lei. Afferrò lo strumento per il manico e lo studiò: tutto sommato, ha solo bisogno di un'accordata. Gli venne voglia di suonare per ammazzare il tempo. Si sedette a gambe incrociate sul letto di Leah e, posata la rosa accanto a sé, cominciò a girare le chiavi per tirare le corde. Era così preso a intonare il sol, che non si accorse nemmeno che qualcuno era rientrato ed era andato in cucina. Fu un lontano tintinnio di stoviglie che copriva l'ondeggiare del nylon ad attirare la sua attenzione; con il fiato sospeso e gli occhi blu spalancati bloccò con la mano aperta la vibrazione dello strumento e si mise ad ascoltare. Due voci provenivano dall'altro lato della casa; due voci allegre. Una è quella di Leah, ne sono certo. L'avrebbe riconosciuta fra mille, era impressa a fuoco nella sua mente. Spike rimise a posto la chitarra e prese la rosa; chiuse gli occhi ed assaporò quella dolce melodia che ormai da giorni non gli giungeva più all'orecchio. Era tenera e sensuale, perfino quando parlava in francese; un accento quasi perfetto, se non fosse che, ogni tanto, conserva ancora quella sua tipica inflessione londinese. Appena giunto in corridoio, però, si bloccò. La seconda voce che arrivava dalla cucina era più scura e più rotonda; il sangue gli si ghiacciò in un nanosecondo: un maschio. Strinse la rosa più forte, sentendo le spine recise dargli fastidio alla mano, ed in punta di piedi fece capolino dallo stipite. Ciò che vide lo pietrificò: le pupille gli si dilatarono a dismisura ed i muscoli gli diventarono di legno. Leah, più bella che mai, era poggiata al lavello mentre stringeva fra le mani una tazza fumante; i capelli mogano erano legati in uno chignon disordinato ed i suoi occhi erano calamitati a quelli della persona che le stava davanti e che le stava stringendo i fianchi. Un ragazzo. Un ragazzo completamente diverso da lui: biondo, con le guance rosee e piene come quelle di un bambino e gli occhi castani. Le stava parlando pericolosamente vicino al viso. Il primo impulso di Spike fu quello di prenderlo per le spalle, sbatterlo a terra e gonfiarlo di botte; ma il suo cervello lo bloccò e gli impose di stare a guardare. Dopotutto, se quello si stava permettendo di comportarsi in quel modo con Leah era perchè lei glielo stava concedendo; questo era il particolare più agghiacciante. Lei non sembrava affatto che lo stesse respingendo o che fosse infastidita dal fatto che lui la stesse toccando. Continua a sorridere e scherza... se solo capissi cosa si stanno dicendo! Spike si maledisse infinite volte per non essere mai stato in grado di prendere una sufficienza in quella merdosa lingua straniera. Più passavano i secondi e più il suo stomaco si faceva piccolo per il nervosismo: adesso mi sente. Non era nel suo stile fare scenate di gelosia, Julie diceva che lui era “un esserino gentile e pacato”; però Leah stava concedendo troppa libertà a quello sconosciuto.

Ma proprio mentre stava per irrompere in cucina ed iniziare ad urlare, ebbe un capogiro folle nel vedere il biondo appoggiare le proprie labbra su quelle della ragazza.

Spike si irrigidì di colpo: ti prego Leah, spingilo via.

Invece lei sorrise, gli accarezzò il viso e lo baciò a sua volta, cingendogli il torace con le sue braccia.

Il ragazzo osservò la scena con gli occhi vacui, poi fece un passo in avanti, uscendo dalla penombra del corridoio, continuando a stringere la rosa. Dentro di sé sentiva sempre più prepotente il vuoto avanzare; il cuore gli pompava lento nel petto, producendo un frastuono che gli rimbombava violento nella testa. Avanzò ancora di una falcata, con i muscoli che iniziavano a tremargli vistosamente, e la chiamò a voce bassa con il suo nomignolo. Mi dicevi sempre che io ero il tuo “piccolo Principe” e tu la mia...

«Volpe».

I primi occhi che incrociò furono quelli del ragazzo; marroni, inquisitori e paragonabili a due buchi neri. Lo stavano squadrando da capo a piedi, stavano guardando con ribrezzo la sua bandana viola che gli scendeva sulla spalla, la camicia nera con le maniche rivoltate all'insù, gli stivali texani e la rosa rossa ormai rovinata per essere stata strapazzata per troppi minuti.

«Qui es-tu?» gli vomitò addosso, visibilmente irritato per l'interruzione del bacio.

Il ragazzo corrugò le sopracciglia, rendendo i propri occhi blu di ghiaccio; nonostante non sapesse il francese, aveva capito benissimo cosa gli aveva chiesto. Gli rispose mantenendo la voce bassa e graffiante; voleva ferirlo con le parole: «No, dude: who the fuck are YOU?»

«Spike».

Leah pronunciò il suo nome sottovoce, lasciando che la tazza le scivolasse di mano, sul tappeto, andando in piccoli frantumi.

Il biondo si voltò verso di lei, con un'espressione di disappunto tatuata in viso: «Mais, tu le connais?».

La ragazza non rispose alla domanda, si limitò a portare una mano alla bocca e a fissare gli occhi blu di Spike.

«Alors? Leah?» il biondo si stava scaldando, la pelle gli era diventata di un bel color peperone.

Leah cercò di tranquillizzarlo: «Jean Charles, s'il te plaît...»

«Diglielo pure che io sono il tuo ragazzo» Spike gettò con forza la rosa rossa a terra, ormai spappolata «o forse ero, dato il tuo atteggiamento».

Jean Charles perse completamente le staffe: «Toi, con, qu'est-ce que tu veux? Qui es-tu?»

«Silence!» Leah gridò con tutto il fiato che aveva in corpo mentre allontanava delicatamente il francese da sé.

Spike fissò i suoi occhi blu in quelli castani di lei, percependo un freddo glaciale fra di loro; la guardava come se la stesse vedendo attraverso un iceberg. Non gli sembrava possibile che tutto il calore che quella ragazza aveva saputo donargli in pochi mesi si era tramutato improvvisamente in una pioggia di cristalli di ghiaccio affilati come coltelli che gli si stavano conficcando nell'animo. Per un attimo si guardò la mano che aveva gettato la rosa a terra e si accorse che stava tremando sempre più forte; chiuse gli occhi e fece un respiro profondo, stringendo le dita segnate dalle spine tagliate: «Perchè?»

«Chi ti ha fatto entrare?» la ragazza cercò di tastare il terreno.

«Una tizia coi capelli neri» rispose Spike evasivo.

«Oh... la mia coinquilina, Colette».

Spike strinse i denti: «Non tergiversare. Perchè?»

Leah non disse una parola, si prese solo la testa fra le mani.

«Non ti ha fatto piacere questa sorpresa. Anzi... sembra proprio che io abbia interrotto qualcosa che ti piaceva».

Di nuovo, Leah non battè ciglio.

Risposta fin troppo eloquente. Spike sentì uno di quei cristalli attraversargli il torace con violenza: «Allora tu... non mi ami, Leah?».

Sperava di sbagliarsi; desiderava ardentemente che la sua ragazza gli si buttasse fra le braccia e gli urlasse che lo amava, più di qualunque altra cosa, perfino di più di quel francese che fisicamente assomigliava tanto a quel bambino maledetto che conservava rose sotto vetro, belle ed eterne. Non come quella che lui aveva appena gettato sul pavimento.

Ti prego, chiamami ancora Jonathan e dimmi che mi sto sbagliando.

Ma la risposta che udì lo uccise: «Credo di non averlo mai fatto, Spike».

Il ragazzo trasalì; in quell'istante potè percepire un tonfo secco all'altezza dello sterno. It's over.

Leah continuò imperterrita, con tono di voce basso e deciso: «Tu non mi hai mai capita fino in fondo, semplicemente perchè non sei in grado di apprezzare quel libro. Tu hai sempre detestato il Piccolo Principe. Io ci ho provato ad addomesticarti, ad insegnarti che l'essenziale è invisibile agli occhi... ma non ha funzionato».

Spike si sentì soffocare: «Quindi non mi hai mai amato...»

«Pensavo di poterlo fare, ma mi sbagliavo»

«... solo perchè non mi piace quel libro di merda?». Gli occhi di Spike presero fuoco; non poteva credere al mare di stronzate che lei gli stava raccontando. Si prese il viso fra le mani cercando di mostrare calma ostentata; credo di aver sentito abbastanza: «Bene. Allora me ne vado»

«Sì, è meglio» Leah gli inflisse un'altra pugnalata al cuore «in fondo è tutta colpa tua se non ha funzionato fra di noi. Sei tu quello che si deve rimproverare, sei tu la causa del tuo dolore».

Spike rimase immobile per un paio di secondi a guardare il suo amore, poi una strana forza lo attirò verso la porta d'ingresso. La vide allontanarsi da sé, dalla sua spalla su cui si era addormentata tutte le volte che avevano fatto l'amore, dalle sue mani che l'avevano accarezzata dolcemente, dal suo corpo, che lei aveva detto più volte di trovare fantastico. Più lui retrocedeva, più il francese alzava il suo braccio per cingerle le spalle. Ma non voleva guardare, non avrebbe sopportato la vista di quella mano sconosciuta che accarezzava centimetri di pelle che, fino a qualche secondo prima, lui riteneva suoi. Come chiuse la porta alle sue spalle, il mondo intorno a lui diventò sfocato e confuso: i colori si mischiavano senza criterio ed i suoni arrivavano ovattati alle sue orecchie; inoltre, la testa gli girava e sentiva di non poter governare le sue membra. Tremavano così forte che nemmeno dei lacci in acciaio avrebbero potuto tenerlo fermo. Senza che se ne rendesse conto, si trovò di nuovo al piano terra, ad aprire la portineria e ad uscire in strada. Si sentiva distaccato dalla realtà, come se tutto quello che era appena successo fosse stato solo un incubo orrendo. Eppure, qualcosa nella sua mente devastata sapeva che avrebbe dovuto abituarsi a quella sensazione di merda che si stava facendo largo dentro di lui. Ogni secondo che passava si sentiva sempre più vuoto, come se si stesse vaporizzando progressivamente. Chiuse gli occhi e rivide Leah, con quello chignon, che gli diceva che era tutta colpa sua. Non poteva crederci. Non voleva crederci. Se una situazione del genere va a puttane, la colpa non è mai di uno solo. È di entrambi. Dalla palpebra chiusa, una lacrima scese ad accarezzargli la guancia, come se volesse dargli conforto e dirgli che, in fondo, lui non era l'unico responsabile.

«Ehi» una voce gli aprì gli occhi, facendolo riemergere dal pozzo nero in cui stava precipitando; era Tyla. Lo stava aspettando con la schiena appoggiata al palo della luce e teneva in mano due bottiglie di birra. Sputò il mozzicone di sigaretta che stringeva fra le labbra, poi gli si avvicinò, seguito dallo sventolare della sua giacca indaco, e gliene porse una rivolgendogli un sorriso amaro: «Torniamo a casa».

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Capitolo 4
*** Apatia ***


04 Apatia

Guy aprì la porta dell'appartamento aiutandosi con il gomito destro e rischiando di rovesciare il pranzo sul pavimento. Diede un'occhiata al corridoio; era vuoto.

«Spike!».

La risposta fu un silenzio immobile. Guy scosse la testa e sospirò, sconsolato; lasciò il fish and chips sul tavolo della cucina ed andò a bussare alla porta della stanza dell'amico strisciando gli stivali: «Bello, ho comprato da mangiare. Ci sono delle patatine fritte galattiche...»

doveva cercare di suonare molto più convincente

«... e se le mangi fredde fanno schifo».

Di nuovo non udì la voce di Spike.

Guy si alterò; tentò di abbassare la maniglia, ma la porta era chiusa a chiave dall'interno: «Senti, sono giorni che sei tappato nella tua stanza e ti rifiuti di collaborare con il mondo esterno. Non so nemmeno se sei vivo o morto, cazzo!».

Il ragazzo rimase con il fiato sospeso, in attesa di una qualsiasi risposta; anche solo un vaffanculo. Ti prego Spike, mandami a fare in culo. Era da quando era tornato da Lione che si nascondeva fra quelle quattro mura; metteva il naso fuori dalla stanza solo per andare in bagno e, saltuariamente, per rubare i McVitie's dalla dispensa. Ma non era il fatto di non trovare più biscotti in cucina che lo mandava in bestia; ciò che lo faceva partire per la tangente era essere certi che il proprio amico stava così male per colpa di una per cui lui aveva perso la testa e che l'aveva piantato in asso senza remissione. Io ti avevo avvertito diverse volte Guy si tastò le tasche alla ricerca di una graffetta anzi, tutti ti avevamo detto di lasciar perdere, che quella era una stronza, che non ci piaceva per svariati motivi e sbuffò per aver trovato solo qualche moneta da un penny ma tu, proprio, zero.

Improvvisamente, il chitarrista sentì scattare la serratura e la porta si aprì leggermente; rimase con la bocca aperta quando di fronte a sé vide Spike spettinato, con la barba incolta di almeno quattro giorni, gli occhi stanchi ed arrossati, circondati da occhiaie profonde, e la sigaretta stretta fra le dita tremanti. «Non importa se fredde faranno schifo» parlava con voce roca e bassa e il suo alito sapeva pesantemente di alcol «lasciale pure sul tavolo della cucina. Ora non ho fame».

Guy lo fissò preoccupato: l'amico stava in piedi per miracolo, attaccato alla porta come se fosse la sua ancora di salvezza. Si vedeva lontano miglia che erano giorni che non riusciva a dormire, che non faceva altro che bere, fumare, mangiare qualche briciola ogni tanto e pensare ininterrottamente a quella stronza. L'incazzatura gli salì alle stelle, ma tentò comunque di tenerla per le briglie, mostrando una calma ostentata: «Oggi abbiamo le prove» si allungò verso di lui per mettergli una mano sulla spalla; poteva sentire sotto il palmo i muscoli tesi del cantante «c'è bisogno di te».

Spike gettò il proprio sguardo sul pavimento seguito, poco dopo, dalla sigaretta. La guardò rotolare sulle piastrelle e spegnersi nel giro di pochi secondi. Si rivide in quel mozzicone; si sentiva spento, freddo, inutile. Da quando Leah l'aveva lasciato per quei motivi futili, si sentiva privato di ogni motivazione possibile per andare avanti. «Guy» fece un respiro profondo, passandosi una mano sulle palpebre «credo che, d'ora in avanti, dovrete cercarvi un altro cantante e chitarrista»

«Stai scherzando?» il chitarrista rimase intontito dalla frase dell'amico, come se avesse appena ricevuto una bastonata in testa. Sperava con tutto se stesso di aver capito male; ma Spike scosse il capo, continuando a tenere lo sguardo basso.

A quel punto Guy sentì di aver raggiunto il limite di sopportazione: «No, no, NO! Tutto tranne questo» spalancò la porta con un pugno facendo perdere l'equilibrio a Spike. Lo fissava con gli occhi iniettati di sangue: «Non vuoi più suonare la chitarra? Beh, ci posso anche stare; non perchè tu non sia bravo, ma perchè già canti. Ma un cantante no, un altro cantante NON-LO-VOGLIO». Il chitarrista gli diede uno spintone e lo fece cadere come un sacco di patate sul letto, pieno di pacchetti di Lucky Strike vuoti e tappi di bottiglie di whisky: «Vedi di non fare il cazzone, che nessuno canta come te. E tutta questa voglia di mollare per cosa? EH?»

Spike lo fissò per qualche secondo con gli occhi blu vuoti, incapace di reagire, poi si girò verso la parete, dandogli le spalle: «Per favore, lasciami solo».

Guy lo guardò con il sangue che gli ribolliva per la rabbia; guardò lui e l'ambiente che lo circondava. Erano giorni che in quella stanza, praticamente, non entrava luce: le persiane erano chiuse ed il timido sole londinese disegnava chiare strisce sfumate sulla moquette scura della stanza, costellata delle varie bottiglie di alcolici recuperate dal soggiorno, tutte svuotate del liquido e riempite del dispiacere di Spike. L'unica bottiglia ancora piena era poggiata sul comodino. Guy guardò un raggio di sole illuminare il liquido ambrato che l'etichetta bianca nascondeva in parte e si soffermò su di essa; poteva vedere il gallo cedrone fissarlo con i suoi occhietti tondi. Famous Grouse, la mia bottiglia. Inspirò fra i denti, sempre più nervoso, ed arricciò il naso; nell'aria aleggiava un forte odore di chiuso mischiato ad una fitta nebbia fatta di nicotina. E Spike si nascondeva in quella nuvola torbida, un misto di sporcizia, distacco e testa pulsante per i troppi pensieri, cercando di non avere nessun contatto con la realtà. Non parlava per esorcizzare il suo demone. Non urlava per sfogare la sua rabbia. Non piangeva nemmeno. Non faceva assolutamente nulla; solo metteva a tacere quel male affogandolo nell'alcol. «Non puoi scappare in eterno, bello» il chitarrista raccolse dal pavimento due bottiglie vuote «prima o poi ti prenderò. E quando lo farò, tu verrai con me a suonare».

La porta fu chiusa con un tonfo sordo e Spike sospirò, facendosi scivolare addosso le parole del coinquilino. Dava le spalle all'unico ponte con il mondo esterno, adagiato su quel letto completamente sfatto e freddo. Già... sfatto come il letto di Leah in quell'appartamento. Rabbrividì; cercò un lembo della coperta e se la tirò fin sopra la testa. Nascosto nel suo mondo, con la lana che gli pungeva le guance, Spike si rifugiò nel passato, nel frangente in cui Leah gli aveva detto che non lo amava. Celò gli occhi blu dietro le palpebre e fece un respiro profondo, rivedendo a rallentatore tutti i dettagli di quel fatidico giorno: la facciata dell'edificio, i muri scrostati del pianerottolo, Colette che lo tirava in casa scambiandolo per il nuovo trombamico (perchè è questo che lui è, vero Leah?), la camera da letto con le scarpe sparse sul pavimento e la chitarra classica che lui aveva perso tempo ad accordare, le voci... il bacio... la rosa che veniva buttata a terra e quelle parole che lei gli aveva sbattuto in faccia con violenza: all the pain is with yourself, all the blame is with yourself.

Io? Era l'ennesima volta che se lo chiedeva in quei quattro giorni insonni: io, cos'ho sbagliato? Ripensò alla loro breve relazione, a come aveva subito perso la testa per lei e a come quell'incendio passionale, nel giro di quattro mesi scarsi, si era estinto completamente, laciando il posto al nulla più completo. Spento per lei, ma non per me. Fin dalla prima volta che l'aveva addocchiata, le rotelle del suo cervello si erano per magia inceppate e le cose erano andate sempre più accentuandosi, finchè, dopo due settimane, le aveva detto le due paroline magiche. Non sapeva spiegare perchè provava quel sentimento così forte; Leah aveva quel non so cosa che mi tirava scemo... è successo e basta. In fondo, non si decide arbitrariamente di chi innamorarsi. Si mise a pancia in giù, con la fronte appoggiata al cuscino, in cerca di una risposta; la storia del “tu non mi hai mai capita fino in fondo perchè non sei in grado di apprezzare quel libro” gli suonava fin troppo assurda. Proprio non riusciva a capire perchè Leah si era attaccata a lui, ci aveva fatto l'amore e poi l'aveva piantato in asso per andare in Francia e farsi il primo che capitava. Era così frastornato che non riusciva a reagire in alcun modo; gli sembrava di essere sigillato in una bolla di sapone. Tutto sembrava uno scherzo ai suoi occhi. Sempre rimanendo nascosto sotto le coperte, si mise seduto ed allungò il braccio per afferrare il whisky che aveva lasciato sul comodino; diede una lunga sorsata e poi si poggiò la bottiglia in grembo. Con la bocca e lo stomaco che bruciavano per il troppo alcol, appoggiò la schiena e la testa al muro. Rivide di nuovo Leah che lo fissava con sguardo glaciale: all the blame is with yourself... ma perchè? Ormai era così confuso che non riusciva più a connettere; l'unica cosa chiara nella sua testa era il tonfo lento e regolare del suo cuore. Un suono triste e continuo; non c'era modo di fermarlo.

Improvvisamente la serratura della porta d'ingresso scattò e delle scarpe pesanti si posarono sulla moquette. Guy... Un rumore crescente di passi si stava avvicinando al suo nascondiglio; a quanto pare non è solo. Fece spallucce. Vorrà presentarmi il mio sostituto; tutto sommato, è stato veloce. Sapevo che non sarebbe stato per nulla difficile. La porta della camera si aprì e Guy disse a qualcuno: «È lì sotto». Spike si appallottolò ancor di più su se stesso, vergognoso di farsi vedere da un estraneo ridotto in quelle condizioni. Ma quando una mano gli tolse bruscamente di dosso le coperte ed una voce conosciuta lo chiamò per nome, fu costretto ad alzare il capo.

SPIKE!

Tyla lo stava fissando con le sopracciglia corrugate ed un'espressione dura; non lo salutò, andò immediatamente al punto: «Cosa stai facendo?».

Proprio non lo sapeva: «Sto cercando di... pensare?».

«Sì, questo lo vedo» gli occhi verdi di Tyla passarono al setaccio la stanza velocemente, poi tornarono sull'amico: «Perchè non sei andato a provare?».

Il ragazzo parlava con tono quasi minaccioso; Spike si irritò e cominciò lui stesso ad alzare la voce: «Perchè non ho voglia, non puoi costringermi».

Guy si intromise nel discorso: «Ripeti un po' quello che mi hai detto, dai!»

«Che non voglio più suonare» Spike si alzò in piedi barcollando ed urlò con tutto il fiato che aveva in corpo: «NON VOGLIO PIÙ SUONARE!»

«Piantala di dire stronzate» Guy gli si buttò addosso con violenza e lo prese per il bavero della maglietta bianca, inzaccherata di spirito: «Se lo ripeti, anche solo una volta, ti sfondo la faccia a pugni».

Spike ridacchiò fra i denti, mentre una scintilla gli attraversava lo sguardo: «Fallo... coraggio. Tanto ormai non ho più nulla da perdere».

Guy vide rosso per un secondo ed alzò la mano destra, ma fu bloccato tempestivamente dalla voce di Tyla: «Buono Guy, lascia perdere». Fece scivolare fuori dalla tasca della giacca rosa una sigaretta e se l'accese: «Senti un po'» parlava a Spike con tono stranamente tranquillo «lo sai che sei conciato uno schifo?».

Il ragazzo non si rispose; si limitò a mettersi seduto e a guardare in faccia l'amico dopo aver spinto via Guy.

Tyla proseguì: «E credo anche che tu sappia molto bene che non puoi andare avanti così». Spike indurì i propri lineamenti, ma, di nuovo, non proferì parola. Per parte sua, Tyla lo osservò attraverso il fumo grigio della Marlboro che stava facendo fluire dalle proprie labbra verso il soffitto della stanza e, come era solito fare in quelle situazioni, lo mise fuori gioco con una sola domanda: «Hai pianto?».

Nella stanza scese il silenzio più assoluto; sia Guy che Spike guardavano sbalorditi il cantante dei Dogs D'Amour per quello che aveva appena chiesto. Dopo qualche secondo, la voce ruvida del ragazzo fece vibrare l'aria: «No» che puttanata, che roba da bimbe «dimmi tu, è necessario?».

Tyla finì la sigaretta con una lunga aspirata, carbonizzando in parte il filtro, poi fece due passi verso la finestra e la spalancò con veemenza, scaraventando il mozzicone in strada: «Allora: innanzitutto, aprire le finestre per lasciar uscire questa puzza insopportabile».

Spike grugnì e si coprì il viso con un braccio, sentendo i propri occhi colpiti brutalmente dalla luce del giorno.

«Poi, fili immediatamente a lavarti via il lerciume che hai addosso» Tyla alzò l'amico di peso e gli mollò uno spintone in direzione del corridoio «e non tornare finchè non avrai un odore decente».

«Non...».

Spike fece per ribattere, ma Tyla gli urlò contro: «VACCI, PORCA DI QUELLA TROIA».

Guy fissò il coinquilino sbalordito, mentre con il capo chino e l'espressione vuota ciondolava verso il bagno; si voltò verso Tyla con la bocca semi aperta in cerca di spiegazioni.

«Ormai lo conosco come le mie tasche» il cantante bevve un sorso di Famous Grouse e poi continuò: «tranquillo che lo recuperiamo alla grande».

«Me lo auguro» Guy si passò una mano in mezzo ai capelli sbuffando «posso aiutarti in qualche modo?».

Tyla annuì in silenzio e gli mise un braccio intorno al collo: «Vai a farti un bel giro... diciamo per un paio d'ore. Non cercare altri musicisti per il momento. Vai a fare una bella partita a freccette e poi chiama tutta la band. Ci vediamo allo scantinato di Bam intorno alle sette questa sera».

Guy aggrottò la fronte: «Perchè proprio alla vostra sala prove?»

«Perchè noi abbiamo un registratore che a voi manca» Tyla lo accompagnò verso la porta «fidati che entro mezzanotte avrete il vostro primo brano inedito».

Il chitarrista sgranò gli occhi incredulo.

Tyla, di rimando, gli fece l'occhiolino e lo lasciò sul pianerottolo: «Soprattutto, Spike si rimetterà in bolla».

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Capitolo 5
*** Pianto ***


05 Pianto

Spike era appoggiato con la spalla sinistra allo stipite della porta della camera, le braccia conserte e le caviglie incrociate; guardava Tyla, in piedi dritto davanti a lui, con gli occhi blu vuoti, demotivati. Stettero in quella posizione, immobili, per un minuto abbondante; Spike che guardava inespressivo Tyla e Tyla che studiava l'amico con occhio quasi clinico. Alla fine il cantante dei Dogs ruppe il silenzio: «Allora?».

«Allora cosa?» rispose monocorde Spike, facendo scivolare la pelle contro il legno e sedendosi a terra con le gambe incrociate.

Tyla fece due passi verso il centro della stanza, si levò la giacca rosa, la lanciò sul letto e si sedette anche lui a terra: «Mi fa paura questo silenzio. Non è da te».

Spike fece spallucce e rivolse lo sguardo alla moquette.

«Perchè non parli? Perchè non ne parli?».

Spike non rispose; mantenne lo sguardo basso, a guardare la polvere che si alzava dal pavimento.

Tyla picchiettò ritmicamente i palmi sui gambali degli stivali, poi si alzò e sparì in corridoio. Spike si trascinò all’interno della stanza e si appoggiò con la schiena al letto, prendendosi la testa fra le mani; in realtà sapeva benissimo perché non voleva parlarne. Era certo che se avesse aperto la bocca per toccare quel discorso, avrebbe reagito come una femminuccia; avrebbe fatto quello che, assolutamente, non aveva voglia di fare: sentirmi gli occhi irritati e il naso chiuso. No. Assolutamente no. In quei casi il silenzio era meglio. Poi, ciò che non uccide fortifica, no? Ecco, così facendo posso sembrare una roccia.

Una sequenza conosciuta di do, la minore, fa e sol gli fece improvvisamente alzare la testa; Tyla, con la chioma che gli copriva in parte il viso, imbracciava la sua chitarra acustica blu oltremare e stava suonando la strofa di “How Do You Fall In Love (Again)”.


Sitting with my head in my hands,

Letting the tears trickle through like sand

The times you’ve taken

And the things you’d given

And the films we watched, and the things we’d do

And the things I’d say to you…


«Tyla smettila…». Ma a quanto pareva, il nylon vibrava più vigorosamente della voce senza enfasi di Spike.


How do you fall in love again

How do you start it all over

How do you fall in love again

How do you start it all over?


Il ragazzo dagli occhi blu arricciò le labbra e respirò profondamente; mise le braccia incrociate al petto e cominciò a picchiare velocemente la punta del piede sul pavimento.

Tyla alzò un angolo della bocca in un ghigno e bloccò con la mano aperta le corde: «Ho colpito nel segno?».

Di nuovo, Spike deviò lo sguardo lontano da lui: «Credo di sì. È un singolo quella canzone, avrà pur venduto qualche centinaio di copie in Finlandia, no?».

Tyla si scostò una ciocca castana mentre si toglieva la chitarra dalla spalla: «Sai bene che non intendo questo».

L'amico volse ancor di più gli occhi verso il soffitto; si rifiutava categoricamente di interagire. Il cantante dei Dogs lo scrutò in viso, cercando di capire cosa gli stesse riempendo la mente in quel momento; non gli era chiaro se fosse arrabbiato, devastato, triste o tutte e tre le cose insieme. Doveva prendere di petto la situazione, altrimenti non avrebbe cavato fuori un ragno dal buco; Spike si sarebbe appallottolato gradualmente come un riccio e per lui sarebbe stato sempre più impossibile aprirlo. Così si sedette di fronte all'amico, appoggiandosi lo strumento in grembo, e cominciò a parlare, a raccontargli che, anche lui, una cosa simile l'aveva sperimentata. «Sai... qualche anno fa anche io mi sono ritrovato nella tua stessa situazione».

Spike mugolò con fare incurante; non aveva voglia di sentirsi fare la paternale dal suo amico.

«E...» Tyla si mordicchiò il labbro con le iridi verdi fisse sul manico della chitarra, alla ricerca delle parole giuste «ti dico, non è facile uscirne».

Il ragazzo guardò il suo interlocutore di sottecchi: ma dai? Non c'era bisogno che venivi fino a casa mia per dirmelo, ci ero già arrivato da solo. Lo sforzo di Tyla era apprezzabile, ma Spike non voleva essere confortato da frasi di circostanza: «Qualche anno fa, eh?». Si mise in ginocchio, guardando per la prima volta dritto negli occhi chi gli stava di fronte: «Senti Tim, ti ringrazio per lo sforzo» sospirò pesantemente aria carica d'alcol «ma non credo che una cotta adolescenziale sia paragonabile alla situazione in cui mi ritrovo».

«Beh, non era esattamente una cotta adolescenziale; la chiamerei più» Tyla alzò gli indici in aria per mimare delle virgolette «una “situazione a se stante”. E poi ogni situazione è a sé, Spike; questa è molto vicina alla mia».

«Senti» Spike sentiva che stava per perdere di nuovo le staffe e non capiva se era per il troppo alcol bevuto o per l'insistenza di Tyla nel volerlo aiutare «tu hai la minima idea di che cosa mi ha fatto provare Leah? NO! No che non lo sai, quindi serra la mascella».

Senza proferire parola, il cantante dei Dogs si rimise in piedi, poggiò la chitarra al letto e recuperò la giacca. Fece qualche passo verso la porta d'ingresso tenendo l'indumento sulla spalla, poi si voltò a guardare l'amico che lo fissava arrabbiato: «Se vuoi che me ne vada, problemi non ce ne sono. Io volevo solo aiutarti» girò leggermente la maniglia facendo scattare la serratura «ti dico solo una cosa però»

«Sentiamo».

Tyla fissò Spike, seduto fra le bottiglie e con i capelli che gli cadevano indisciplinati sulle spalle: «Se vai avanti così, non risolverai un cazzo; diventerai un essere» e qui spalancò le palpebre come se dovesse fulminarlo «APATICO e NOIOSO. Comunque, vedi un po' tu. Sei grande abbastanza».

Spike seguì con lo sguardo l'amico mentre metteva un piede sullo zerbino e l'altro sul pianerottolo ed accompagnava la porta verso lo stipite; se ne stava andando sul serio. E solo in quell'istante si rese conto che, davvero, la compagnia di Tyla era la cosa più preziosa che ancora possedeva. Senza contare che l'amico aveva una storia da raccontare; una storia vera. «Aspetta».

Dopo due secondi, la chioma tendente al rosso del ragazzo fece capolino; sotto la frangia ribelle, gli occhi lo fissavano interrogativi.

«Se dici che questo tuo caso è così simile al mio» Spike fece un respiro profondo passandosi una mano nei capelli castano scuro «perchè non me lo racconti?».

Tyla sorrise beffardo: «Cos'è, sei improvvisamente diventato curioso?».

«No, è che...» tanto vale essere sinceri. Di Tyla mi posso fidare «mi fa proprio schifo la situazione in cui mi ritrovo. Sembra tutto un sogno orrido, un incubo da cui voglio scappare e non ci riesco. Dover rinunciare a Leah perchè l'ha deciso lei, senza chiedere il mio parere... non mi piace».

La voce dei Dogs richiuse la porta alle sue spalle e si avventurò in quel cimitero di bottiglie vuote in direzione dell'amico; scaraventò nuovamente la giacca sul letto, non prima però di aver estratto dalla tasca il pacchetto di Marlboro. Ne sfilò due, una per lui ed una per Spike; poi prese l'accendino dalla tasca dei jeans ed aiutò l'amico ad accendersi la sua. Stettero per qualche istante in silenzio, entrambi con la schiena poggiata alla sponda laterale del letto e gli occhi levati al soffitto, a guardare il fumo grigio innalzarsi lineare; poi Tyla parlò: «Te la ricordi Katherine?».

Spike non rispose subito; socchiuse gli occhi blu mentre aspirava dal filtro e sfogliava mentalmente tutte le amiche femmine di Tyla. Non molte, in realtà. «Katherine... la tua amica quella gnocca?». Tyla lo guardò con la miglior espressione di disappunto dipinta in viso. Il geordie corresse il tiro: «Intendo quella bionda, molto bella, con gli occhi verdi come i tuoi che era venuta con noi a Camden la prima volta che ero stato a Londra. Quella che ti aveva fatto comprare la giacca indaco».

«Lei» Tyla riprese a fumare buttando lo sguardo al soffitto «noi siamo sempre stati molto amici. È stata una delle prime persone che ho conosciuto quando mi sono trasferito da Wolverhampton a Kensington. Andavo ancora alle elementari. Si è instaurato da subito un rapporto molto saldo e forte tra di noi; nonostante lei avesse tre anni in meno di me, la sentivo molto vicina. Da piccoli giocavamo insieme e poi, con il tempo, abbiamo iniziato a parlare e confidarci; il tutto senza malizia». Fece una pausa per dare un'altra boccata di tabacco: «Poi, quel giorno di Camden, sulla via del ritorno... qualcosa è cambiato. Dopo un bisticcio stupido, l'ho abbracciata per chiederle scusa e» schioccò le dita ingiallite dalla nicotina «mi è partito il cuore a mille. Così, dal nulla. Ho iniziato a sentire sempre più forte il desiderio di abbracciarla di nuovo, di tenerla attaccata a me. Alla fine l'ho baciata sotto casa, mentre la pioggia scrosciava, e ho preso la bronchite come un coglione».

«Non capisco» Spike gettò svogliato il mozzicone fuori dalla finestra aperta «dove vuoi arrivare?».

Tyla scosse la testa espirando l'ultima boccata di fumo e buttò anche lui la sigaretta finita fuori dalla stanza: «Le avevo promesso che ci saremmo rivisti il giorno dopo, soli io e lei a bere una birra; ma conciato com'ero non potevo nemmeno mettere il naso fuori casa. Avevo chiamato, mi aveva risposto sua madre ed avevo lasciato un messaggio. Pensavo fosse tutto ok» il ragazzo sentì ancora, come ogni volta, il proprio animo ridursi in polvere quando il cervello ripescava quei pensieri «invece la settimana dopo, mentre andavo da lei per farle una sorpresa, l'ho beccata su quegli stessi scalini dove l'avevo baciata io, che ficcava la lingua in bocca a un pugile di merda».

Spike annuì e mise le braccia conserte: «Sì, situazione simile; ma con una differenza sostanziale: io, con Leah, ci ho fatto l'amore. Io ho dato in mano a quella ragazza il mio cuore. Io ho avuto una relazione con lei»

«Hai ragione» Tyla lo guardò negli occhi vuoti «però anche io sono innamorato di Katherine, come tu lo sei ancora di Leah. Tutti abbiamo delle tempistiche diverse di innamoramento e soprattutto non scegliamo per chi e quando perdere la testa». Il cantante dei Dogs sentì lentamente le corde vocali annodarsi: «Adesso so che fa l'università qui a Londra... e che sta frequentando uno. Ma la cosa più assurda è che ormai, quelle poche volte che ci vediamo, ci comportiamo come se nulla fosse, come se quel pomeriggio sotto la pioggia non fosse mai trascorso. Lei non sa che l'ho vista con il pugile e lei si comporta come se quel bacio fra di noi fosse stato uno sbaglio tremendo. Stiamo zitti e andiamo avanti così».

Spike guardò l'amico protendersi verso il Famous Grouse e dare una lunga sorsata; per la prima volta, dopo giorni sorrise. Un sorriso amaro e consapevole. Tyla voleva mostrarsi al mondo come essere maschilista e brutale, una specie di Bukowski British, ma sotto sotto era forse il maschio più sensibile sulla faccia della terra: «Quindi, ci sei ancora dentro questa storia?».

Il ragazzo dai capelli rossicci annuì con la bocca piena di superalcolico che svuotò prontamente: «Diciamo che ho imparato a gestirla. Cosa che dovrai fare anche tu, come ti ho detto; non puoi andare avanti così».

Spike chiuse gli occhi ed abbassò il capo; parlò con la voce roca e bassa: «Tyla, io» sospirò, esalando apatia «in questo momento non ho proprio voglia di reagire. Magari fra un paio di mesi mi tornerà un po' di voglia di vivere. Ma ora tutto quello di cui ho bisogno è la mia Leah»

«Che però non è più tua».

Le parole di Tyla tagliavano come coltelli nuovi di zecca. Spike rabbrividì sentendole sfrecciare di lato alle orecchie; si tirò le ginocchia al petto e ci poggiò la fronte contro, come se dovesse ripararsi.

Il cantante dei Dogs scosse la testa: «Io, da amico, non riesco proprio a vederti in questo stato. Non sei mai stato così... morto».

Morto. Già, magari sarebbe meglio.

«E come se non bastasse» Tyla gli mise una mano sulla spalla «ti rendi conto della cazzata che hai detto a Guy? Il gruppo ha bisogno di te, almeno come cantante. Hai una voce invidiabile, puoi farci grandi canzoni».

«Può darsi. Però voglio un altro chitarrista, non me la sento più di suonare» il ragazzo infossò ancor di più la testa fra le gambe «e non ce la faccio nemmeno più a cantare, sinceramente».

Tyla mollò la presa dalla spalla e si alzò da terra con fare deciso: «Non ne sono così convinto». Il ragazzo preso lo strumento e glielo picchiettò sulla testa, facendogliela alzare: «Adesso TU suoni». Gli occhi blu di Spike lo guardarono; Tyla scorse una voragine così profonda che lo fece rabbrividire. Cercò di incoraggiarlo: «Io sono riuscito a gestire il mio dolore per Kat componendo».

«Stai scherzando?».

Tyla alzò un angolo della bocca, mettendogli la chitarra fra le mani: «Tu non hai idea della quantità di lacrime che ha bagnato il manico della mia prima Fender acustica».

Spike si scostò una ciocca scura dal viso: «Tu sei l'unico uomo che conosco che piange come una femminuccia».

«Piangere come una femminuccia è diverso» puntualizzò Tyla, piuttosto indispettito «io piango quando capisco che posso farlo; nel luogo e nel momento più adatto. Sembro una femminuccia solo perchè ammetto di farlo, ecco tutto. Anche per noi maschi versare qualche lacrima ogni tanto non fa male».

Il ragazzo sbuffò, appesantendosi sulla cassa blu con gli avambracci: «Non ho voglia di farlo. Lasciamo stare, ok?».

Il cantante dei Dogs si fece scuro in viso; non lo facevo così cocciuto. Gettò l'occhio al whisky e vide che anche quella bottiglia si era inesorabilmente svuotata. Serve altro alcol, altro spirito. Temporeggiò un secondo, a guardare Spike che fissava senza motivazione il legno laccato della chitarra, e poi andò in cucina, sperando di trovare qualcosa di potenzialmente utile. Dopo due minuti abbondanti, rientrò in camera con in mano una bottiglia di vino ed il cavatappi: «Ecco qui». Stappò e la porse all'amico.

Il ragazzo, tenendo le mani sulla chitarra, lesse l'etichetta: «Chardonnay... ehi, questo l'ha comprato Guy per la cena di stasera»

«Non importa, non mangeremo perchè avremo di meglio da fare. Bevi». Tyla gli avvicinò ancor di più la bottiglia.

Spike guardò la moquette: «Non credo di averne voglia...»

«Ma non raccontarmi cazzate!» l'amico cercava di spronarlo «Dopo tutto il whisky che hai bevuto, c'è sicuramente posto per un sorso di buon vino. Senza contare che, in questo momento, per comporre è essenziale».

Spike sentì tutti i suoi muscoli irrigidirsi. Essenziale... quella parola Leah gliel'aveva detta un sacco di volte; gli aveva detto che lui, per lei, era essenziale; essenziale come l'ossigeno che la teneva in vita. Essenziale per farle battere il cuore. Ma a giudicare dall'andamento delle cose, poi così essenziale non era. Era più essenziale quel dannato libro di qualsiasi altra cosa; ci aveva anche tirato fuori una citazione al riguardo. Alzò gli occhi; Tyla lo guardava con sguardo fermo e deciso, sempre con la bottiglia tesa verso di lui. Sembrava una statua, se non fosse stato per il fatto che un ciuffo ribelle gli cadde sul viso. Spike guardò l'amico ravvivarsi i capelli rossi: «Leah mi diceva sempre che l'essenziale è invisibile agli occhi».

«Aveva torto» Tyla si rigirò fra le mani la bottiglia di Chardonnay e bevve il primo sorso «io l'essenziale l'ho sempre trovato qui dentro». Mugolò in segno di soddisfazione, poi mise il fondo della bottiglia nelle mani di Spike.

Finalmente il ragazzo si decise a bere; sentiva quel succo d'uva color paglierino corrergli giù per la gola, finire nello stomaco e dargli fuoco.

«In vino veritas» Tyla si accese un'altra Marlboro «ora tutto quello che devi fare è concentrarti su te stesso e... parlare con la chitarra. Raccontale il tuo malessere. Ricordati che, per tutta la vita, la donna che tieni fra le mani in questo momento sarà l'unica che ti capirà sempre fino in fondo». Per la prima volta, dopo quella frase, Tyla vide il viso di Spike contorcersi in una specie di smorfia; era come se si stesse preparando a piangere. «Vuoi che vada via?».

Il cantante dei Quireboys scosse la testa. Seguì con lo sguardo l'amico che andava a spaparanzarsi sul letto sfatto dietro di lui e poi posò gli occhi blu sul manico di palissandro. Fece un respiro profondo e, senza rendersi conto, suonò un accordo di do maggiore; no... troppo aperto, troppo chiaro. Non ho bisogno di questo. Improvvisamente gli era venuta voglia di urlare, di prendere a pugni la parete e di strappare le sue amate bandane; Tyla aveva ragione. Scosse di nuovo le corde; accordo di mi. Gli piacque. Sentì uno strano sapore in bocca; era voglia di continuare, voglia di esternare. Le dita si mossero da sole. Un semplice accordo di la. Trovata. Sorpreso, con i polpastrelli pigiati contro il nylon, ascoltò il proprio cuore aumentare progressivamente il ritmo; barely alive... more or less conscious... agitated and then pounds like hell. Aveva anche lui qualcosa da raccontare. Cominciò a suonare a ripetizione quei due accordi e poi espanse la sequenza: si, la, mi, fa diesis minore, di nuovo la e mi a chiudere il giro. Esattamente come l'ho cominciato. Le dita camminavano sulla tastiera da sole, come se già sapessero cosa dovevano fare, per filo e per segno; suonavano quegli accordi che aggrovigliavano le viscere di Spike in un fraseggio senza fine. Dopo giorni di apatia pura, il cantante cominciava a sentire dentro di sé la tempesta che, fino a quel momento, aveva tentato di sedare. Lo agitava, lo stordiva, gli sballottava lo stomaco da una parte all'altra, facendogli venir voglia di rimettere tutto l'alcol che aveva ingurgitato fino a pochi istanti prima; la stanza girava vorticosamente, pur essendo saldamente cementata al resto dell'edificio, e questo gli provocava dolore. Chiuse gli occhi per non vedere le pareti oscillare, mentre continuava a suonare quegli accordi; Leah gli apparve di nuovo dietro le palpebre, per ribadirgli ancora una volta le ultime parole con cui l'aveva scaricato.

All the pain is with yourself... aching stomach, bleeding heart

All the blame is with yourself... it ain't true, ya liar.

La marea aumentava e lui stava affogando; stava andando a fondo con dei massi legati alle caviglie. Più andava giù e più sentiva quell'acqua salata salirgli agli occhi e l'aria che non gli colmava più i polmoni. Rivide nitidamente tutta la scena, la rosa che finiva scaraventata a terra vicino ai cocci della tazza che le era scivolata di mano per lo stupore e gli sguardi di disapprovazione che aveva ricevuto. Ma perchè Leah, perchè? Già pensavo al nostro futuro, perfino ad un ipotetico bambino... invece no, perchè? Perchè!

Aprì gli occhi blu di scatto, sentendo due gocce scivolargli lungo gli zigomi e incagliarsi nella barba incolta; aveva la bocca aperta e la gola serrata. Cercava di respirare invano, ad un ritmo frenetico, come un pesce fuori dall'acqua che si dimenava impazzito. Si sentiva sibilare, con il cuore che gli martellava nel petto incontrollato e le mani che avevano abbandonato la chitarra per infilarsi disperate fra i capelli.

Tyla si sporse dal letto, preoccupato; vide Spike rantolare, con gli occhi che lacrimavano fuori dalle orbite. «Merda». Si precipitò dall'amico e gli tolse la chitarra di mano: «È tutto ok, Spike, guardami». Gli alzò il mento e gli mise una mano sullo sterno: «Calmati adesso, sennò mi muori. Mi muori qui sul pavimento e poi io cosa faccio?». Faceva spavento: non aveva mai visto Spike bianco come un cencio e con le occhiaie nere, il viso contratto in una smorfia ed il fisico che si sforzava di sopravvivere a quel panico da mancanza. Tyla sentì i capelli rizzarsi sulla nuca: «Porca troia, Spike, respira». Gli parlava quasi sussurrando, per non trasmettergli anche la sua agitazione: «Respira, bello. Calma. Hai il cuore che sta per rimanermi in mano. Respira, per dio, respira».

Il cantante dei Quireboys emise un fischio più acuto degli altri, poi riuscì finalmente a inspirare ossigeno; chiuse gli occhi e lasciò uscire lo tsunami in cui stava annegando. La testa gli cadde sulla spalla di Tyla e cominciò a singhiozzare. Le lacrime gocciolavano dai suoi occhi copiose, bagnandogli le guance ispide. Ogni respiro era come un ruggito strozzato, annebbiato dal male che stava riuscendo ad esternare. Ringhiava a denti stretti Spike, con le palpebre strizzate e i capelli che gli nascondevano in parte il viso; fremeva, cercava sostegno. Si sentiva agitato in quella burrasca che si stava scatenando dentro di sé. Con le braccia intorpidite strinse la cintola di Tyla ed affondò ancor di più il viso nell'incavo della sua spalla.

Il ragazzo si irrigidì per un secondo, poi ricambiò l'abbraccio, avvolgendo le spalle dell'amico come un mantello. Non disse nulla, si limitò ad accarezzarlo finchè i singhiozzi non diminuirono e non lo sentì più disteso.

Lentamente Spike alzò la testa e, tenendo lo sguardo basso un po' per la vergogna e un po' per lo stordimento, si passò i palmi aperti sul viso; sospirò e tirò su con il naso, mentre fissava il muro con la mandibola contratta per evitare che tremasse. Tyla lo teneva per le spalle; lo guardava preoccupato, cercando di incrociare i suoi occhi blu. Lo chiamò per nome sottovoce. Finalmente il cantante dei Quireboys si volse verso di lui, con gli occhi lucidi, pronti a versare altre lacrime; parlò con voce roca, devastata dal panico che si era appena dissolto: «Lei non è più mia». La consapevolezza si stava facendo largo nella sua mente.

«È passato?» Tyla era ancora in ansia; aveva timore potesse arrivare un altro attacco.

Spike non rispose alla domanda: «Non potrò più riaverla, vero Tim?». Due grosse lacrime caddero dai quegli splendidi zaffiri e si schiantarono silenziose sulla moquette.

Tyla abbozzò un sorriso: «No, Jon».

Il ragazzo si passò le mani fra i capelli castani e singhiozzò ancora una volta: «Mi manca da morire».

Il cantante dei Dogs lo abbracciò fraternamente: «Passerà. Ora devi solo sfogarti». Lo sentì singhiozzare ancora, mentre con le mani Spike gli stringeva il bacino; sembrava volergli dire di non scappare, che aveva ancora disperato bisogno di lui e del suo sostegno. Tyla cercò di farlo rilassare: «Stavo ascoltando quello che stavi suonando... mi piaceva».

Spike si asciugò il viso: «Ho visto delle immagini pazzesche mentre suonavo quegli accordi... ho rivissuto tutto quello che è successo. Tutti i miei desideri infranti».

«E saresti in grado di scriverci una canzone?» ce l'hai sulla punta della lingua, si percepisce.

«Forse» Spike fece spallucce «ma non credo di esserne in grado».

Tyla gli porse un fazzoletto: «Datti una sistemata. Ti porto alla Tana. Tu hai una storia da raccontare».


* * *


Quando arrivò alla Tana, Spike fu alquanto sorpreso di trovarci dentro tutta la sua band. Guy lo guardava con occhi scuri e duri, mentre il resto dei ragazzi giocherellava con i propri strumenti. «Perchè ci sono qui anche loro?».

Tyla accese il registratore e gli diede una pacca sulla spalla: «Perchè hai bisogno di loro per sentirti meglio. Ora» gli parlò all'orecchio «dimenticati di essere maschio, duro e bruto. Hai bisogno di aprire il cuore e sfogarti. Non è affatto da froci, credimi».

«Ho paura di piangere di nuovo» Spike cercò di protestare «o che mi assalga di nuovo il panico».

«Ci sono qui io, tranquillo» il cantante dei Dogs gli sorrise e poi gli fece cenno di andare verso Guy.

Il coinquilino lo guardò avvicinarsi con il capo chino: «Vedo che ci hai ripensato».

Spike gli rivolse un sorriso amaro: «Sul cantante sì... sul chitarrista ancora non so»; poi gli spiegò il giro che doveva suonargli.

Guy annuiva mentre lo ascoltava, poi eseguì il riff esattamente come gliel'aveva spiegato l'amico; guardò Spike chiudere gli occhi e cominciare a cantare.


I went to see her just this morning


Lo vedeva immaginare una situazione in cui lui e Leah fossero più che felici.


To see how the child might be


E poi andare incontro alla distruzione.


She sat there smokin all my cigarettes
At a table set for three


Vide il viso del cantante contrarsi in una strana smorfia


I could've cried

I could've cried...


E lo stava facendo; una lacrima gli scivolò furtiva dalla palpebra chiusa sulla guancia. Guy non disse nulla e continuò a suonare.


When she said

Spike strinse i pugni intanto che gli si accapponava la pelle; non riusciva a ricacciare indietro le lacrime, a mostrarsi di marmo. Ma si stupì del fatto che nessuno si affrettò a schernirlo. La cosa lo fece sentire infinitamente più libero e leggero.


I don't love you anymore
I was slain and shown the door
Ain't no room here anymore


Una lacrima gli corse giù, fino al collo; rabbrividì, ripetendo le parole d'addio di Leah.


Please don't look to me for help
All the pain is with yourself
All the blame is with yourself

Nigel annuì in direzione di Guy ed iniziò a seguire il ritmo, seguito poco dopo da Chris e la sua tastiera.


So I went and seen my friends
I tried to turn to them for help
But all that any of them said


Gliel'avevano detto tutti di stare attento; ma io non ho voluto ascoltare nessuno.


You gotta look out for yourself
I could've cried
I could've cried...


Tyla guardò Spike da dietro il registratore; è il momento Spike... urla.


When she said


E Spike vomitò tutto il suo dolore, con la sua voce ruvida che scartavetrava i muri.

I don't love you anymore
I was slain and shown the door
Ain't no room here anymore
Please don't look to me for help
All the pain is with yourself
All the blame is with yourself

Il cantante aprì per un istante gli occhi, vedendo il mondo appannato e sdoppiato, sentendo sempre più forte la consapevolezza che Leah non era più sua. E faceva male. Un male porco.


You're all I ever wanted
All I ever needed
Every time I see your face
Reminds me baby of what we had
I get so lonely, Ooooh yeah yeah yeah yeah

All our lives I've been down
Always seemed in emptiness
I say my prayers every night
But even God don't care less, Ohhh yeah
I could've cried
I could've cried...When she said

Si interruppe; non ce la faceva più a ripetere quelle parole, si sentiva la gola stretta e le corde vocali annodate. Spike si mise con l'avambraccio al muro e ci appoggiò contro la fronte. Guy e Nigel posarono i loro strumenti sui piedistalli ed andarono verso di lui, mentre Tyla spegneva il registratore, soddisfatto del lavoro dell'amico; lo confortarono, gli diedero pacche sulle spalle, cercarono di infondergli coraggio e nessuno gli rimproverò il pianto che aveva fatto. Guy gli toccò il braccio: «Sono contento che tu ci abbia ripensato. Ricordati che noi, per te, ci saremo sempre. Sei un grande cantante e soprattutto un grande amico».

«Senza contare» Nigel gli tirò per gioco un lembo della bandana «che questa canzone che hai scritto mi piace molto».

Chris si alzò dal suo sgabello e si avvicinò: «Dobbiamo rivederla bene, secondo me può diventare un gran pezzo».

Tutti annuirono e Spike sorrise, asciugandosi l'ultima lacrima: «Grazie ragazzi».

«Non ringraziare me» la voce di Cozy arrivò dal fondo della sala, da dietro la batteria. Tutti aggrottarono le sopracciglia, increduli. Lo osservarono alzarsi dallo sgabello, scavalcare i jack che si snodavano sul pavimento ed andare verso la porta d'ingresso.

Fu Nigel a tentare di attirare la sua attenzione: «Ehi, socio...»

«Scusa bello» Cozy uscì dalla sala «ma queste ballate melense non fanno per me».

La porta si chiuse fragorosamente e, nel silenzio attonito della Tana, i ragazzi poterono ascoltare le scarpe dell'ex batterista salire le scale fino all'uscita.

Alla fine, Spike parlò con voce graffiante: «Che razza di bastardo» in un attimo diventò rabbioso «è la mia prima canzone! Non è che continuerò a scrivere canzoni d'amore per il resto della mia esistenza. Che bastardo!».

«Adesso ci sente, quello là» Guy si rimboccò le maniche e fece cenno al coinquilino di seguirlo, ma Tyla li prese per le spalle:

«Lasciate perdere. Se se n'è andato per così poco, non era un musicista adatto a voi».

«Vero» Nigel si passò una mano fra i capelli castani «il mio ex socio ritmico, obiettivamente parlando, faceva abbastanza schifo».

«E perchè non l'hai detto prima?» Guy indispettito arricciò dapprima le labbra, poi sospirò «Beh, poco male. Ora, oltre a cercare un secondo chitarrista, dobbiamo pure trovarci un batterista».

Sono presenti due canzoni nel capitolo; la prima è "How Do You Fall In Love (Again)?" dei Dogs D'Amour e la seconda è "I Don't Love You Anymore" dei Quireboys. Non possiedo i diritti di nessuna delle due canzoni.

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Capitolo 6
*** Rassegnazione ***


Guy e Nigel si scambiarono uno sguardo complice, guardando il candidato numero uno uscire dalla cantina della casa del bassista. Sospirarono rassegnati e scossero il capo; d'altra parte, quando si trattava di scegliere un nuovo membro per il gruppo, il primo che si presentava non era mai quello giusto, qualsiasi ruolo dovesse ricoprire. «No, eh» disse Nigel passandosi una mano fra i capelli.
«Mi sa che è meglio aspettare domani e vedere il prossimo» Guy guardò Spike di sottecchi e mimò l'azione di cacciarsi due dita in gola.
Il cantante ridacchiò e si sfilò la bandana viola, sciolse il nodo e la aprì, guardando i disegnini bianchi che si dispiegavano in modo regolare sul tessuto; non appena distoglieva la mente da qualcosa che lo teneva più che impegnato, come le audizioni che avevano appena terminato, il suo pensiero finiva naturalmente sul ricordo di Leah. Guy guardò la sua espressione mutare in pochi secondi, rabbuiarsi ed indurirsi; la bocca si contrasse e gli occhi blu si velarono di una pellicola scintillante. Spike alzò lo sguardo e si rimise frettolosamente la bandana: «Vado a casa ragazzi».
I due non dissero nulla; sapevano benissimo cosa stava andando a fare il cantante. Lo salutarono con un fugace cenno della mano ed iniziarono a riordinare la sala.
Spike salì le scale e si diresse a passo lento verso la stazione della metropolitana di White City, con l'umidità che lo prendeva sotto braccio e gli gonfiava i capelli, arruffandoglieli e rendendoli appiccicosi. Teneva gli occhi blu fissi sull'asfalto che scorreva sotto i suoi stivali; ogni tanto vedeva che il mondo iniziava a sdoppiarsi, così era costretto a fermarsi un attimo, alzare la testa e fare un respiro profondo. Serviva a riparare gli argini; li avrebbe rotti più tardi nel suo appartamento. La metropolitana affollata non era il luogo ideale dove far fluire i propri sentimenti. Cambiò treno a Tottenham Court Road per uscire definitivamente dal tunnel a Leicester Square. Salì nell'appartamento, si accese una sigaretta appena arrivato in salotto e scaraventò la giacca sul divano. Con il naso a pochi metri dalla finestra, guardava il vetro che si bagnava progressivamente e le goccioline che, su quello sfondo grigio, un misto di cemento e nuvole pesanti, si rincorrevano su quella superficie trasparente per diventare sempre più grandi e scivolare verso il davanzale. Le iridi blu seguivano quelle linee bagnate, mentre la mano meccanicamente portava la sigaretta alla bocca, le labbra aspiravano senza un perchè e quel denso fumo grigio gli scendeva per la gola, fino a finirgli nelle vene, nei reni, nel cuore e nel cervello. Quel sapore di bruciato che gli solleticava il palato, nei momenti di solitudine gli ricordava quello schifo di libro che bruciava sotto la pioggia, mentre la sua mano rimetteva in tasca l'accendino. Quasi a voler imitare lo spettacolo fuori dalla finestra, una goccia salata gli percorse la guancia, silenziosa; poi un'altra. E un'altra ancora. Sentiva ancora il vuoto in sé; manchi... possibile che mi manchi dopo tutto quello che mi hai fatto? Tentava con tutto se stesso di essere razionale, di lasciarla da parte per ovvi motivi; eppure una piccola parte di lui, ancora, l'avrebbe rivista. Anche solo per dirti ciao. Tirò sul con il naso e voltò di poco il capo; la chitarra lo stava guardando, pregandolo di essere presa in mano. Spike la immaginò con sembianze umane: una bellissima donna con indosso un vestito di satin blu scuro, che lo prendeva per le spalle e si chinava su di lui, baciandogli il collo. Rabbrividì; troppo tempo senza sensazioni del genere. Afferrò lo strumento per il manico e si chiuse nella sua camera, sdraiandosi sul letto, con la chitarra adagiata lungo il fianco. Accarezzò con i polpastrelli le corde, poi le suonò dolcemente, sfiorandole, immaginando fossero capelli morbidi e profumati. Chiuse gli occhi e, girandosi sul fianco, l'avvicinò lentamente al proprio corpo, poggiando la fronte al manico. Si ricordò delle parole di Tyla: per tutta la vita, la donna che tieni fra le mani in questo momento sarà l'unica che ti capirà sempre fino in fondo. Con il cuore stretto in un laccio invisibile, trattenne il fiato e baciò il manico, immaginando di assaporare labbra morbide e calde; si figurò di nuovo quella bellissima donna con il vestito di satin, che lo guardava negli occhi, lo accarezzava e si appoggiava a lui, delicata e decisa allo stesso tempo. Sembrava dirgli di parlarle, di lasciarsi andare. Il ragazzo si rimise supino, sempre con la testa immersa nel suo universo celato dietro le palpebre, e dopo un respiro profondo cominciò a raccontarle il suo male e le sue mancanze, con la mente densa di ricordi e le mani che scorrevano su e giù per la pelle, quasi a volersi infondere calore e conforto. Ormai era consapevole che Leah non gli apparteneva più, che era stato un dolce ricordo ma che ora, per il suo bene, doveva lentamente accantonare. Aprì gli occhi, sentendo il cuore pulsargli sfrenato nelle tempie; quel dialogo immaginario l’aveva aiutato a riordinare le idee, facendogli percepire ancor più prepotentemente l’esigenza di buttar fuori di sé tutto il dolore che lo devastava. Con le ciglia umide e le dita frementi, si sedette sul letto ed impugnò la chitarra:

No need to shout girl I can hear you
No need to scream you're not in pain

Desiderava averla ancora lì, di fronte a lui, per cantarle quell’addio con tutto l’amore che aveva provato per lei. Se una lacrima gli fosse scappata via dagli occhi non sarebbe stato orribile; anzi, sarebbe risultato solo più vero e sincero.

My my little girl, you're sure a tough one
You don't have to prove it once again

Anche se fosse stata la cosa più inutile. Anche se a te non frega più niente di me. Faccio finta di nulla, non mi importa. Vorrei solo ricordarti che io ti ho amato con tutto me stesso. Vorrei solo che tu possa parlare di me con il sorriso sulle labbra.
 
And all the lies have been forgotten
All the bad things that we said
Let's leave it now with no hard feelings
The best five years we ever had

Quattro mesi vissuti come cinque anni. Intensi ed importanti come non mai. Eppure, everything comes to an end. Anche l’esperienza più meravigliosa aveva un epilogo, uno straziante canto del cigno che stracciava l’animo di chi la viveva.

It's the last time
It's the last time
It's the last time
It's the last thing that I'm denying
So baby stop your crying
Over me

Spike guardò la chitarra con un piccolo sorriso, sentendosi leggermente risollevato; suonò ancora un accordo per proseguire con la canzone, ma un battito di mani gli fece alzare la testa. Guy era entrato senza fare rumore e lo guardava annuendo: «Devo dire che Leah, tutto sommato, ti ha fatto bene».
«In che senso?» il cantante si alzò e fece per dirigersi verso la cucina.
«Nonostante il male che ti ha fatto, ti ha reso un cantante produttivo. Mi piace questa cosa, bello. Che ne dici se ti do una mano a finire la canzone? Ho un paio di idee interessanti».
Spike stava per dargli una pacca sulla spalla per ringraziarlo quando il telefono cominciò a squillare; con la mano bloccò il coinquilino e, strisciando tranquillo i piedi, arrivò all’apparecchio. La sua crescente serenità venne stroncata in un secondo: «Ciao Spike». Le pupille gli si dilatarono a dismisura, nascondendo lo splendido blu degli occhi; si augurò con tutto se stesso di aver sentito male. Rimase muto per qualche secondo, destando la preoccupazione dell’interlocutore che stava all’altro capo del filo: «Mi senti? Sono Leah».
Guy vide l’amico sbiancare e crollare sul divano: «Chi è, tua madre?».
Il cantante iniziò a tremare, mentre fissava il vuoto davanti a sé; non riusciva a capire il perché di quella telefonata.
«So che ti starai chiedendo perché ti ho chiamato» la ragazza dall’altro capo del filo fece una breve pausa «ma… volevo dirti che fra un paio di settimane torno a Londra a trovare i miei».
Quindi? Avrebbe voluto urlarlo nel suo orecchio, sfondandole il timpano e facendole percepire almeno una minima percentuale del dolore che lei gli aveva provocato spezzandogli il cuore, ma non riuscì ad emettere nessun suono.
«Pensavo che… avremmo potuto incontrarci».
Spike ebbe un capogiro. Guy lo vide appoggiarsi sconvolto una mano sulla tempia, come se fosse stato colpito da un mal di testa improvviso; continuava a non capire cosa stava succedendo.
«Volevo parlarti» Leah sospirò «spiegarti perché le cose fra noi sono cambiate così all’improvviso».
Una valanga di pensieri e domande che avrebbe voluto porle investì con violenza il cervello del cantante; se avesse avuto un quaderno, non sarebbe bastato ad annotarle tutte.
«Mi stai ascoltando Spike?» non udendo alcuna risposta, Leah pensò di parlare con l’aria.
Il cantante rispose glaciale: «Quindi sei qui la prima settimana di maggio?»
«Esatto».
Il ragazzo fece un respiro profondo per riorganizzare le idee, poi sentenziò: «Allora ci vediamo il 3 al Dark Crimson Velvet. C’è un concerto dei Dogs D’Amour, ci troviamo direttamente lì». Buttò giù il ricevitore con foga ed affondò le mani nei capelli, con il diaframma immobilizzato.
Guy, sospettoso, fece due passi verso di lui: «Non era tua madre, vero?».
Spike stette immobile per qualche istante, poi, sempre con la faccia nascosta dagli avambracci, parlò lapidario: «Era Leah».
Il coinquilino stette per un po' in silenzio, poi esplose: «E TU CON CHE CORAGGIO LE DAI UN APPUNTAMENTO?».
«Vuole solo parlare, Guy. Non ti scaldare per niente».
«Veramente» il chitarrista scosse la testa schifato «ha proprio una bella faccia di culo a venirti a chiedere un colloquio dopo tutto questo tempo per cercare di spiegarti perché ti ha scaricato. Cos’è, vuole lavarsi la coscienza?».
Guy poteva anche avere ragione, anzi, da com’era incazzato ce l’aveva di sicuro, eppure Spike era convinto che, davvero, Leah volesse fare chiarezza fra loro due: «Senti, ormai l’ho persa. Lei ha preferito uno stronzo francese biondo come quel cazzo di principino e io, più di tanto, non posso fare. Però…» gli fece una domanda apparentemente insensata «hai trovato il batterista?».
Il coinquilino strabuzzò gli occhi.
Spike continuò: «Ho bisogno di incidere un paio di pezzi e voglio qualcuno che mi batta i quattro quarti».
Incredulo, Guy rimase a bocca aperta: «Fammi capire… sei passato dal “voglio piantarvi in asso” al “ti prego, ho un mare di idee”?». Si fece scuro in viso e lo guardò di sottecchi: «Non è che hai qualche intenzione strana? Tutta questa fretta improvvisa…».
Spike lo interruppe: «Voglio salutare Leah senza rimorsi. “I Don’t Love You Anymore” ed il nuovo pezzo che stavo iniziando devono finire su bobina entro massimo due settimane. Sono canzoni per lei e voglio che le ascolti. Senza secondi fini. Sono sue e basta». Guy stava per riempirsi la bocca con un sonoro “vaffanculo”, ma Spike lo bloccò di nuovo: «Senza contare che sono comunque nostri pezzi e potrebbero anche finire nelle mani di qualcuno che li porta a qualche discografico e ci fa un contratto».
Il chitarrista rimase immobile per un paio di secondi, poi sospirò: «Okay, non fa una piega. Troviamo sto cazzo di pestapelli e registriamo; ti do anche una mano a finire il pezzo nuovo. Però giuro che, se dopo il concerto dei Dogs, Leah non si eclissa, la faccio sparire io».
Spike scosse il capo e mise una mano sulla spalla dell'amico: «Proprio non ti piace».
«No» rispose lapidario Guy «Non mi è mai piaciuta».

* * *

Spike sedeva con il gomito sinistro poggiato al bancone ed un bicchiere di Newcastle Brown che ondeggiava inquieto nella mano destra. Gli occhi gli vagavano nervosi per il pub; ad intervalli alterni guardavano le pareti offuscate dal tabacco che aleggiava nell’aria e poi fissavano altri sguardi. Quello di sua sorella Julie, che correva dietro il bancone e spillava in continuazione birre ed ogni tanto gli donava un sorriso fugace mentre si asciugava le mani nel grembiule nero. Quello di Guy, in piedi poco distante da lui, un po’ secco ed un po’ pungente come al suo solito, ben celato dietro un cilindro nero un po’ scassato. Quello di Tyla, in piedi sul palco, intento a tenere il pubblico per il bavero, che ogni tanto gli lanciava un'occhiata complice. Ma, ancora, non aveva incrociato lo sguardo che più di tutti aveva voglia di vedere; quegli occhietti marroni che qualche mese prima gli avevano fatto perdere completamente il senno. Diede l'ultimo lungo sorso dal bicchiere e lo appoggiò rumorosamente dietro di sé, mentre con la mano si tastava per l'ennesima volta la tasca interna della giacca; aveva una paura folle che il nastro che avevano inciso pochi giorni prima insieme a Rudy, il nuovo batterista, potesse inspiegabilmente rotolargli sul pavimento ed andare in frantumi. Preferiva custodirlo lì, nascosto, vicino al proprio cuore. Sì, come se la cassetta potesse assorbire i tuoi sentimenti al pari di una spugna. Erano le sue ultime parole d'amore per Leah e, qualsiasi cosa si sarebbero detti nei minuti a seguire, voleva che le giungessero intatte sia alle mani che alle orecchie. Guardò di nuovo Tyla sul palco, aggrappato con la mano destra al microfono, con la Gretsch che gli pesava sulla spalla sinistra, intento in un'interpretazione molto ubriaca di "Unconscious Boy"; aveva gli occhi spalancati, le pupille dilatate e la classica espressione da indemoniato che gli deformava il viso già non stupendo. Sembrava a metà fra un malato di mente ed uno che aveva disperato bisogno dell'esorcista; nella sua pazzia sembrava quasi sano. Poi, d'un tratto, lo vide cambiare completamente espressione; notò che sembrava quasi si stesse pietrificando, come se stesse sprofondando in un baratro oscuro. I suoi occhi verdi allucinati avevano visto qualcosa di reale che lo disarmava. Spike seguì la loro traiettoria, mentre l'amico suonava l'accordo finale della canzone e cominciava lo scroscio di applausi, in cerca della causa di questo cambio così repentino. Nonostante fosse passato un sacco di tempo dall'ultima volta che l'aveva vista, la riconobbe quasi istantaneamente: Katherine, con i capelli biondi che le cadevano ordinati sulle spalle, avvolta in un cappottino nero stretto e bella come non mai, era appena entrata nel pub, catapultando nuovamente l'amico indietro nel tempo, squarciandogli nuovamente quel cuore apparentemente di piombo, ma in fondo così delicato, e medicato in qualche modo con bourbon e Marlboro per anni e anni. Vide Kat fare due passi verso il palco ed alzare timidamente la mano destra, facendo ondeggiare le dita nell'aria in direzione dell'amico. Spike osservò Tyla respirare pesantemente mentre le faceva un occhiolino fugace e si impegnava il più possibile a sorriderle. Poi chinò il capo, nascondendosi dietro la frangia spettinata, e cominciò a suonare "The State I'm In". Avrebbe voluto alzarsi, per vedere la faccia di lei, per capire se Kat realizzava che Tyla stava male; che aveva l'anima a brandelli per colpa sua. Ma non voleva fare la figura dell'invadente, non voleva intromettersi in quel dolore a cui Tyla, nonostante tutto, era fortemente legato. Spike tornò a guardare il cantante dei Dogs D'Amour che aveva ripreso una posizione più composta; ora stava eretto, aggrappato all'enorme chitarra, con i capelli sudati appiccicati al viso ed i suoi occhi verdi fissi sulla donna che non riusciva a detestare. Suonava nella penobra del palco, con una luce rosso sangue puntata addosso e gli accendini del pubblico che parevano quasi un contorno funereo. Cantava quelle parole: "If you could see the state I get in, I'm thinking 'bout you again. Every time I see you, it always seems to be the wrong place" con la voce intrisa di dispiacere. Spike rabbrividì e si rese conto che la ferita di Tyla era ancora aperta; l'amico non si sentiva come lui, rassegnato, cosciente del fatto che la ragazza che gli aveva ridotto il cuore ad un pezzo di carne macellata non l'avrebbe mai più desiderato in alcun modo. Forse perchè con Kat non aveva mai litigato, o forse perchè, tacitamente, qualcosa si trasmettevano ancora: un'irrinunciabile chimica magica. Dentro di sé aveva ancora il coraggio di custodire una piccola fiammella di speranza. "I'm here 'cause the whisky's free, that don't really bother me, yeah! I just don't wanna say a long goodbye". Per un istante lo invidiò, ma subito si ricredette; Leah, per come l'aveva trattato, non si sarebbe nemmeno meritata le canzoni che lui le aveva scritto. Però non gli interessava; voleva comunque dirle addio come se fosse un'amica. Proprio in quel momento una folata di aria fredda ed umida gli schiaffeggiò la guancia, facendolo voltare verso la porta d'ingresso. Spike sentì il proprio stomaco contrarsi ed annodarsi mentre vedeva Leah entrare al Dark Crimson Velvet con i capelli mogano acconciati come l'ultima volta che l'aveva vista a Lione; si passava energicamente le mani sulle spalle del cappotto bagnato dalla pioggia londinese come se dovesse levarsela a tutti i costi di dosso. Per un secondo la ragazza guardò la parete, poi diresse i suoi occhi castani verso il bancone. Quando Leah lo vide, Spike percepì un netto tuffo al cuore. Guy guardò il coinquilino, con gli occhi sapientemente nascosti sotto il proprio cilindro: era più teso di un obelisco, non era quasi più capace di respirare; fece qualche passo indietro per prendere le distanze dalla situazione e da quella zoccola che sgomitava fra la folla del pub per dirgigersi verso l'amico con indosso uno dei sorrisi più falsi della storia dell'umanità. Spike sentiva la propria gola farsi sempre più stretta ed il cuore premergli contro la custodia della cassetta, mentre Leah gli si metteva davanti e si apriva il cappotto. Improvvisamente tutte le parole che voleva dirle sparirono dalla sua testa. Con le pupille dilatate all'inverosimile la vide disfarsi lo chignon, accompagnata dallo scroscio di applausi che salutava calorosamente i Dogs D'Amour, pregandoli di tornare presto sul palco a suonare.
«Salut, Spike» voleva suonare spiritosa, simpatica e piacevole; gli aveva perfino fatto l'occhiolino.
Ma il ragazzo reagì quasi disgustato: «Leah, sei a casa. Non mi parlare in francese».
Lei ridacchiò facendo spallucce: «Dai, stavo solo scherzando. Come stai?».
«Devo essere sincero?». Fu una risposta lapidaria, pronunciata con un tono parecchio infastidito, che stupì lo stesso Spike; sembra quasi che si stia prendendo gioco di me.
Leah rimase per un attimo basita, poi cercò di cambiare argomento: «Mi stai aspettando da molto?».
«Calcola che è appena finito il concerto, ed io ero qui dall'inizio». Altra granata lanciata contro di lei; Spike si stupì di nuovo. Non riusciva a capire come stesse manifestando con così tanta facilità tutto quell'astio.
Leah reclinò la testa di lato, facendo un altro sorrisino: «Perdonami» gli parlava con voce stridula, quasi infantile «ma ho dovuto aspettare una persona». Spike la vide allungare dietro di sé una mano per trascinarsi di fianco un altro ragazzo; anche questo era biondo, con la faccia rosea e gli occhietti innocenti come quelli del Piccolo Principe. Ma non era quello con cui Leah l'aveva tradito. «Spike, ci tenevo a presentarti Thierry, il mio nuovo fidanzato».

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Capitolo 7
*** Rabbia ***


Era rimasto pietrificato, con il viso inespressivo ed il gomito poggiato al bancone. Leah lo fissava sorridendo, come se quella che stava facendo fosse la cosa più innocente e naturale del mondo. Gli occhi blu di Spike saltellarono per un attimo dallo sguardo della sua ex a quello di quel francese spaesato, che a sua volta lo fissava cercando spiegazioni. Da come lo stava guardando, non aveva nemmeno realizzato chi lui fosse; probabilmente pensava che fosse un fratello, un cugino o, alla peggio, un caro amico d'infanzia di Leah. Qualcuno che per lui non possa costituire una minaccia. Spike gli guardò le pupille frementi e preoccupate e, in una frazione di secondo, riconobbe quella speranza che lui stesso aveva nutrito per pochi secondi in quell'appartamento disordinato a Lione, quando aveva osservato nella penombra del corridoio il ragazzo che baciava Leah sulle labbra. Tutto d'un tratto la bocca gli si riempì di un sapore orrendo, come se avesse bevuto del veleno, e subito realizzò che tutti gli avvertimenti dei suoi amici e di sua sorella riguardo a Leah e tutti i cazziatoni di Guy contro la sua cecità ed ottusità del non voler vedere come realmente stavano le cose avevano un senso. Tutte quelle frasi che nei mesi precedenti non aveva voluto ascoltare tornarono indietro con la potenza di un tornado e gli riempirono la scatola cranica, creando un gran frastuono. Quanto avevano ragione. Tutti, dal primo all’ultimo. Con i denti stretti e le mani che iniziavano a prudergli, si alzò dallo sgabello, animato dall’impulso di assestare un bel destro sul naso di quel francese, ma subito si bloccò: in fondo, non è colpa sua. Le sue iridi blu ritornarono su quel sorriso stridente e finto: Quella che dovrebbe prendersi il pugno è lei… ma le ragazze non si picchiano mai, per nessuna ragione al mondo. Neanche fossero bastarde come questa qui. Così arricciò velocemente il viso in una smorfia e, senza proferire parola, si avviò con passo lento e deciso verso la porta del camerino, aprendosi un corridoio fra la folla, lasciando Leah ed il suo nuovo ragazzo alle proprie spalle. Il deejay aveva già iniziato a far suonare “Doctor Doctor” degli UFO, ma la mente del ragazzo era così prepotentemente occupata da quei pensieri assordanti che non riusciva nemmeno a percepire le note che arrivavano dalle casse. Una volta arrivato nel backstage, appoggiò silenziosamente la pesante porta tagliafuoco allo stipite, lasciandosi dietro tutte le voci ed il tintinnio dei bicchieri, chiuse gli occhi e picchiò con veemenza il pugno sulla parete: «Quella stronza!». Sibilava al pari di un serpente, con la faccia al muro ed il sudore che cominciava ad intingergli la bandana; sulle palpebre aveva ancora fissa l’immagine di Leah che lo beffeggiava allegramente. Iniziò a sentire un tremito continuo e nervoso attraversargli tutti i muscoli. Diede un altro pugno alla parete, poi un altro ed un altro ancora. Al quinto pugno riuscì a ruggire; riaprì gli occhi e spalancò le fauci alla pari di una tigre infuriata: «Che stronza maledetta!». Si voltò verso il centro della stanza tenendo gli occhi blu iniettati di sangue fissi sul pavimento e lanciò la propria bandana rossa sul persiano consumato. Spike accartocciò le falangi e se le passò iracondo nei capelli scuri: «Prima fa tutta quella tenera ed innamorata, poi…». Si rese conto di non essere in grado di finire la frase, nonostante avesse un milione di insulti da snocciolare, tutti dettati dalla rabbia. Strinse i denti così forte da rischiare di ricacciarli dentro nelle gengive; poteva sentire un leggero sapore ferroso scorrergli sulla lingua mentre si toglieva le mani dal capo e contraeva le dita in pugni così stretti da fargli diventare le unghie bianche. Bastarda. Insensibile bastarda. Ed io cieco, cieco come non mai! Spike sentì la propria temperatura raggiungere il picco, provocandogli un gran mal di testa; doveva assolutamente sfogare tutta quella rabbia o sarebbe imploso. Così aprì la bocca ed ululò al soffitto con tutto il fiato che poteva riempirgli i polmoni. Urlò con tutta la potenza graffiante della sua voce, quasi volesse scheggiare i vetri di quel piccolo stanzino.
Tutti i membri dei Dogs e Katherine, entrata poco prima di lui per salutare Tyla, si voltarono a fissarlo, preoccupati.
Ma la cosa sembrò non scalfire minimamente Spike: «Puttana che non sei altro!».
Bam staccò lentamente le labbra dal bicchiere di Cuba Libre, attonito; gli sembrava impossibile che Spike avesse detto quelle parole. Lui, la persona più posata che conosco.
«Sei una grandissima stronza» gridò nuovamente, rischiando di strapparsi le corde vocali; poi, accecato dalla rabbia più nera, prese la cassetta che fino a quel momento aveva custodito all’interno della sua giacca bianca e la scaraventò con violenza sul pavimento. La custodia trasparente si divise in due ed il nastro scivolò fuori dal suo involucro; rimase a guardarlo, con le piccole bobine che lo fissavano come due occhietti impauriti, quasi volessero chiedergli di calmarsi, ma Spike non si fece impietosire.
«Jon?» la voce esterrefatta di Tyla gli giunse alle orecchie, facendogli alzare lo sguardo; il cantante dei Dogs dischiuse la bocca nel vedere Spike posseduto dalla rabbia più cieca e non ebbe più il coraggio di aggiungere altro nel momento in cui i suoi occhi verdi velati di malinconia incrociarono quelli blu striati di rosso dell’amico. Aveva paura che, se l’avesse interrotto nel bel mezzo della sua sfuriata, non sarebbe uscito vivo da quello stanzino.
«Non dire nulla, Timothy, sta' zitto» Spike ruggì alla pari di una tigre inferocita, poi sollevò da terra lo stivale destro «quella può anche andare a fanculo, FANCULO!» e con il tacco sbriciolò la cassetta con tre colpi ben assestati.
Tutti si immobilizzarono e trattennero il fiato per qualche secondo; gli occhi di Tyla, Bam, Steve, Jo e Kat erano puntati su quel ragazzo, non troppo alto e non esattamente muscoloso, che con una forza quasi animalesca aveva disintegrato quel nastro.
Tyla lo studiava, con le pupille dilatate e gli occhi stupiti; l’amico respirava affannosamente ed aveva un filino di bava che si aggrappava disperatamente al suo labbro inferiore per evitare di sfracellarsi a terra. Sembrava quasi che Spike stesse per tramutarsi in un lupo mannaro. La voce gli uscì spezzata dalla gola: «Jon… era» deglutì rumorosamente «era la cassetta con su quei due brani che avete registrato l’altro giorno alla Tana?».
Spike voltò lentamente il capo per guardarlo in viso; stava ancora digrignando i denti.
Il cantante dei Dogs continuò: «Quelli che avete registrato con Rudy?».
«Sì, sì… E ALLORA?» Spike diede un calcio ai rimasugli di quello che voleva che fosse l’ultimo regalo per Leah.
Tyla vide rosso per due secondi, poi esplose a sua volta: «Dico, sei rincoglionito?». Con il dito indicò la cassetta distrutta: «Io ti ho donato parte del mio tempo e lo spazio per poter realizzare questa fatica E TU ME LA BUTTI VIA COSI'?».
«Merita di essere buttata via» Spike fece un passo verso l'amico, scansando malamente con la punta dello stivale la cassetta spappolata «DEVE essere buttata via!».
Anche Tyla avanzò verso di lui, con la temperatura corporea che stava raggiungendo livelli altissimi: «Certo, buttiamo via anche il bene che ti vogliono gli amici per quella lì!».
«Non sto buttando via il tuo bene, Timothy!» il cantante dei Quireboys gli arrivò, in punta di piedi, a due centimetri dal naso, mentre gli sputava addosso quelle parole. Il suo alito sapeva di birra e amarezza.
«Invece sì» con un sibilo quasi impercettibile, l'amico gli restituì come un boomerang tutto l'astio che gli stava rovesciando addosso; poi alzò la mano aperta per scagliarla contro la sua guancia: «e non mi chiamare Timothy che mi dà FASTIDIO!».
Spike ridusse gli occhi ad una fessura, pronto a ricevere il colpo, mentre alzava l'avambraccio per proteggersi quanto bastava, ma in una frazione di secondo si sentì tirare indietro dalle mani di Jo intanto che Bam bloccava il braccio destro a Tyla dietro la schiena.
«Basta, smettetela tutti e due!» una voce femminile si intromise in quel contesto così carico di testosterone per cercare di raffreddare gli animi. Kat si piazzò esattamente a metà fra loro e li fissò con gli occhi saturi di disapprovazione: «Questo non è un comportamento maturo».
«Perché tu pensi che siano maturi?» si intromise Steve.
La risposta fu un corale: «Zitto» da parte di Tyla, Spike e Kat.
La ragazza si ravvivò i capelli biondi facendo un respiro profondo e poi riprese: «Qualunque cosa sia successa, Tyla, perché non gli fai spiegare il motivo del suo gesto?».
Spike si liberò dalla presa di Jo e fece spallucce: «Lasciamo perdere»
«E invece ne parliamo» Tyla gli puntò l'indice dritto contro e lo fissò in cagnesco.
Alla fine, il cantante dei Quireboys cedette: «Va bene, però vai tu fuori a prendere qualcosa di forte da bere e ci mettiamo in un posto tranquillo».
Dieci minuti dopo erano rintanati nello sgabuzzino del Dark Crimson Velvet, circondati da ramazze e secchi per lavare i pavimenti. L'aria aveva un odore a metà fra l'ammoniaca e la muffa ed era piuttosto umida; la lampadina che avrebbe dovuto rischiarare l'ambiente si era bruciata quando i ragazzi avevano acceso l'interruttore, quindi avevano dovuto ripiegare su una candela incastrata nel collo di una bottiglia vuota di Jack Daniel's. Sedevano l'uno affianco all'altro, con la schiena poggiata alla parete e lo sguardo puntato sulla fiammella arancione che si librava nell'aria, rischiarando a malapena i loro visi. Per il primo minuto stettero entrambi in silenzio, sorseggiando vodka liscia come se fosse acqua minerale dai loro bicchieri della Coca Cola, accompagnandola con sporadiche boccate di tabacco; fu Spike ad interrompere l'immobilità: «Ho visto Leah».
Tyla lo guardò con la coda dell'occhio, parlando dentro il bicchiere: «So che avevi appuntamento con lei stasera».
«Volevo darle quella dannata cassetta» Spike diede il colpo di grazia alla sigaretta e poi si mise a bruciare il filtro con la fiamma della candela «ma lei mi si è presentata con un francese».
Il cantante dei Dogs appoggiò il bicchiere a terra e corrugò le sopracciglia: «Ma... "quel" francese?».
Spike lasciò cadere quel poco che rimaneva del filtro direttamente nella fiamma: «Magari». Emise una corta e roca risata e si riempì la bocca di vodka.
Tyla annuì socchiudendo gli occhi: «Ho capito». Si voltò verso l'amico, guardandolo da dentro il fumo della Marlboro che stringeva fra le labbra: «Hai avuto la schiacciante conferma che tutti noi avevamo ragione».
Il ragazzo dagli occhi blu guardò per la prima volta in viso Tyla dopo il loro litigio. Lo fissò con consapevolezza ed amarezza, sentendosi crepato ma più forte; non sentiva più il bisogno di piangere, ma solo quello di urlare al mondo la propria rabbia.
Tyla inspirò a fondo dalla sigaretta e gli mise una mano sulla spalla: «Meglio tardi che mai. Vedrai che nei prossimi giorni ti sentirai meglio».
«Certo che avevo proprio le fette di salame sugli occhi» Spike si sentì le guance più calde mentre diceva quelle parole e ringraziò il fatto che la lampadina aveva deciso di tirare le cuoia quando loro erano entrati in quello stretto stanzino.
Il cantante dei Dogs annuì abbozzando un sorriso, poi spense la sigaretta contro il muro: «Però mi è girato il cazzo quando hai distrutto la cassetta. Sia per la fatica e l’impegno che ci avevate messo voi a registrare, sia per il fatto che io vi ho dedicato del tempo aiutandovi in questo piccolo progetto e mi sono visto ringraziare con un bel calcio nel culo».
Spike abbassò lo sguardo, parecchio imbarazzato, sentendo tutte le scuse che stavano per uscirgli dalle labbra completamente inutili.
«Per fortuna che ho imparato a fare sempre una copia in più di tutto» Tyla bevve l’ultimo sorso di vodka e si schiarì la voce «Una volta in Finlandia mi è caduta una cassetta fuori dal finestrino del treno mentre attraversavamo la steppa. Ti lascio immaginare le parolacce che ho detto. Ho dovuto rimettermi giù ad incidere il pezzo da capo con i ragazzi, anche se, alla fine, abbiamo ottenuto un risultato migliore». Il ragazzo si voltò verso l’amico e lo vide ridere sinceramente; sorrise a sua volta, sentendo un brivido di freddo percorrergli la schiena: finalmente un po’ di luce in fondo al tunnel. La luce che forse io non vedrò mai. Rilassò i muscoli del viso, sentendo la tristezza e la malinconia velargli la mente che nel frattempo volava qualche metro più in là, al di fuori di quel buco di cemento, in una stanza più spaziosa ed illuminata, dove Kat gli aveva detto che l’avrebbe aspettato ancora per un po’: «Ma non troppo Tyla. Sai, Jack non sa che sono qui; si incazzerebbe a morte se lo sapesse. Ti ha preso in antipatia e non so perché. Però io ti voglio bene e non voglio rinunciare a vederti».
Spike gli lesse negli occhi flebilmente illuminati dalla candela quella voglia così proibita, sbagliata e dolorosa di voler parlare con lei ancora per qualche minuto, così si alzò e raccolse il suo bicchiere: «Mi dispiace bello. Scusa per la cassetta e scusa per il tempo rubato. Ma sai una cosa?». Tyla non proferì parola, così il cantante dei Quireboys continuò: «Sono fortunato ad essere tuo amico». Detto questo gli diede le spalle ed uscì dallo sgabuzzino, lasciando Tyla ed il suo sorriso malinconico a volteggiare nel buio, rischiarato a malapena da quel timido moccolo aranciato incastrato in una bottiglia di whisky. Si diresse a passo deciso verso il bancone in legno scuro e grezzo del locale, ormai quasi vuoto, per andare a consegnare i due bicchieri svuotati dell’alcol. Salutò Julie con un fugace cenno della mano ed uscì in strada, dove l’aria umida londinese iniziò immediatamente ad accarezzargli amorevolmente un lembo della bandana rossa che gli scendeva sulla spalla. Spike sollevò gli occhi blu verso la lampadina di un lampione, pochi metri più avanti di lui; nell’alone giallastro rarefatte gocce d’acqua ronzavano alla pari di sciami di zanzare, indisciplinate ed innumerevoli, spostandosi seguendo il vento che arrivava dal Tamigi e sbattendo contro le sue guance, rendendole velate di pioggia. Rabbrividì, infilando le mani nelle tasche della giacca bianca ed incassando il collo, cercando di ripararsi dagli spifferi: meglio che mi sbrighi ad arrivare a casa… Guy avrebbe anche il coraggio di chiudermi fuori solo perché ho rivisto Leah per due secondi. Fece due passi, sentendo le suole lisce dei suoi stivali strisciare sull’asfalto bagnato, quando la sua attenzione fu attirata da due voci che risuonavano dal vicolo attiguo al locale.
«Senta, perché rompe mi le palle? Io non ho fatto proprio un bel niente. La colpa è di quello con i capelli rossi che era con me».
Delinquente.
«Se non ti spicci a svuotare le tasche, te le rivolto io. Quanto scommettiamo che ci trovo dentro quelle cinquanta sterline che sono sparite?».
Poliziotto.
Sapeva che era rischioso e sapeva ancora meglio che se si fosse fatto i cazzi suoi sarebbe stato meglio per tutti quanti, ma la curiosità vinse e Spike fece capolino dal muro del Dark Crimson Velvet e guardò le due figure muoversi in quel buio quasi totale, mentre tratteneva il fiato. Ascoltò il ragazzo sbuffare e trafficare con le dita dentro i jeans: «Questo è tutto quello che ho. Cinque misere sterline. Se le faccia bastare». A giudicare dalla voce, probabilmente ha la mia età.
Ci fu un attimo di silenzio, poi un tonfo sordo rimbalzò sulle pareti in mattoni del vicolo, seguito da un urlo strozzato e dal ragazzo che cadeva sulle proprie ginocchia: «Per stavolta accetto solo un quinto del totale che ti sei sgraffignato. La prossima volta non la passi liscia».
Spike strabuzzò gli occhi e fece qualche passo indietro in punta di piedi; doveva proseguire il suo cammino verso casa passando davanti al vicolo, ma non voleva assolutamente farsi intercettare dal poliziotto: se mi scambia per un complice mi massacra. Così si appoggiò al muro, ad una distanza ragionevole dal vicolo, e si accese una Lucky Strike.
Vide il poliziotto uscire dall'ombra a passo spedito e passargli di fianco; gli si fermò davanti, sistemandosi l'elmetto nero con fare arcigno: «Hai qualcosa da nascondere?».
Il cuore prese a martellargli nel petto per la paura; per essere uno delle forze dell'ordine, era aggressivo oltre misura. Cercò di mascherare il proprio nervosismo, stringendo più forte che poté la sigaretta, evitando che gli ballasse fra indice e medio: «Mi scusi?».
«Cosa ci fai qui a quest'ora?» fece un passo verso di lui e sguainò il manganello.
Spike deglutì rumorosamente, per paura di essere preso a botte ingiustamente: «Signore, io... sto aspettando mia sorella. Lavora qui dentro» si appiattì ancora di più contro il muro «si chiama Julie. Julie Gray».
Il poliziotto corrugò le sopracciglia, poi rimise a posto il manganello nella fondina: «Effettivamente le assomigli. So chi è» e senza salutare, si avviò per il marciapiede in silenzio.
Spike tirò un sospiro di sollievo e guardò il filtro della sigaretta che teneva nella mano destra; lo aveva stretto così forte che aveva assunto una forma ovale. Non si riesce nemmeno a tirare un po' di tabacco. Fece un passo verso il posacenere che stava fuori dal locale, quando una voce dietro le sue spalle gli urlò: «Tu sei veramente il fratello di Julie Gray? Quella di Newcastle?».
Il cantante dei Quireboys riconobbe la voce del ragazzo del vicolo; si voltò, sospettoso: «Come fai a conoscerla?». Si portò la sigaretta deformata alle labbra, cercando di assumere la sua miglior espressione di sfida: «Cosa vuoi da lei?».
Il giovane fece un passo in avanti, uscendo dal cono d'ombra dove era stato nascosto fino a quel momento. I capelli castani con i riflessi mogano gli incorniciavano un viso perfettamente sbarbato e dall'espressione furba, in cui spiccavano due grandi occhi color nocciola; le labbra carnose erano distese in un sorriso inaspettato: «Ma come Spike, non mi riconosci?».
«Dovrei?» non sapeva come reagire; se sentirsi più tranquillo perché chi aveva davanti sembrava amichevole oppure agitarsi ancora di più, perché magari poteva essere uno squilibrato.
Il ragazzo aprì le braccia, come se volesse mostrargli qualcosa di fin troppo evidente: «Dai Spike, andavamo a scuola insieme! Non puoi esserti dimenticato di Ginger!».
Spike si immobilizzò per qualche istante, poi corse a buttargli le braccia al collo: «Cazzo Ginger, sei tu davvero! Che figata, non sapevo che anche tu ti fossi trasferito qui».
«Già, sono un paio di mesi».
Spike non stava più nella pelle; fu assalito da una gran voglia di andare in qualche locale che rimaneva aperto fino al mattino per poter parlare con quel vecchio amico e di raccontarsi tutto quello che era successo negli anni in cui non si erano visti, ma Ginger lo anticipò: «Scusa bello, però ora devo proprio fuggire. Però se mi lasci il tuo indirizzo ti passo a trovare fra un paio di giorni».
«Volentieri» così gli annotò l'informazione su un volantino che Ginger teneva nella tasca interna della giacca e poi lo guardò correre via nella notte umida. Solo in quell'istante, mentre riprendeva il suo cammino verso casa, si ricordò della disputa che quel vecchio compagno di scuola aveva avuto con il poliziotto; ma di sicuro sarà stata una cavolata. Diede un calcio ad una lattina di birra mentre attraversava la strada: ogni tanto capita che le forze dell'ordine se la prendano con quelli un po' diversi. Salì le scale in tutta fretta e bussò alla porta del proprio appartamento.
Dopo qualche secondo, Guy fece capolino da dietro lo stipite: «Ah, ma sei ancora vivo? Ti ho visto sparire nel backstage e poi, quando sono venuto a chiamarti, non eri più lì».
«Sono andato a parlare con Tyla in un'altra stanza» Spike si tolse la giacca e rabbrividì «Vado a prepararmi un tè».
Guy lo seguì sospettoso fino in cucina: «E... com'è andata con Leah?».
Il ragazzo non si voltò a guardarlo negli occhi, ma gli parlò fissando davanti a lui e sputando veleno sull'antina dell'armadietto delle tazze: «Deluso». Fece una smorfia e lo ribadì: «Deluso in pieno».
Il coinquilino ghignò alle sue spalle in silenzio: ben svegliato bello.
Spike si voltò di scatto stringendo tra le mani la bustina di infuso, con il volto ancora segnato dal disprezzo: «Sai cos'ha fatto? Si è presentata con un altro francese! Non quello con cui mi ha tradito, NO! UN ALTRO! TI RENDI CONTO?».
Guy lo zittì, facendogli segno con le mani di abbassare il tono: «Non urlare, che è una certa».
Spike se ne infischiò: «Portami la chitarra».
«Che?» il coinquilino sgranò gli occhi «Così rasentiamo lo sfratto, sei matto?».
«Non ci sfrattano» il ragazzo dagli occhi blu gli consegnò malamente la bustina di tè e si avviò verso il soggiorno, verso la chitarra: «Siamo in pari con l'affitto».
Guy cercò di ribattere: «Ok, ma ricordi che ci hanno già richiamato più volte per rumori molesti?».
Spike scoppiò a ridere: «No, un momento; diciamo le cose come stanno. TU sei stato richiamato più volte per rumori molesti. Non sono io che faccio urlare la mia trombamica a squarciagola alle tre di notte e alle quattro e anche alle cinque».
Il chitarrista digrignò i denti, sibilando: «Ho già detto a Danielle di limitarsi, ma non mi dà retta».
Spike annuì con fare di chi non credeva ad una sola parola di ciò che aveva appena detto Guy e suonò un accordo di sol: «Ti piace?».
Guy arrossì di colpo: «Ma chi? Danielle?».
«Ma va!» il cantante scosse la testa, poi risuonò il sol seguito da un re ed un la: «Il riff intendevo».
Il chitarrista arricciò le labbra e si fece passare la chitarra; ripeté la sequenza, poi annuì soddisfatto: «Prendi carta e penna».
Spike afferrò il gesso e cominciò a scarabocchiare sulla lavagnetta della cucina:

Jenny was a shy girl I gave her my love
And everything she was dreaming of

Poi si voltò a guardare Guy: «Però lei sì».
Il chitarrista bloccò le corde con la mano aperta: «Lei chi?»
«Non fare il finto tonto».
Guy non aprì bocca e suonò nuovamente il giro.
Spike aggiunse altri versi sulla lavagna mentre canticchiava a bassa voce ciò che scriveva:

She don't want me that's alright
Ain't no reason no time to fight

Poi riprese a guardare il coinquilino: «Chi tace acconsente».
Guy diventò bordeaux: «Vai-a-fare-in-culo».
Spike sorrise rigirandosi il gessetto fra le dita.

I caught you out no word of a lie
See you walking with another guy
All ya said and all ya done
Oh baby, you did me wrong yeah

«Guarda che non c'è nulla di strano» cercò di rassicurarlo il ragazzo dagli occhi blu, ma Guy gli urlò contro:
«DANIELLE NON MI PIACE, CHIARO?».
Spike scosse il capo, mentre con il gesso incideva sulla lavagna il suo sentimento mutato per Leah. Si allontanò di qualche passo, poi lo cantò ad alta voce:

Hey you what can I do
Can't you stand by your man like the other girls can

Lui e Guy si guardarono negli occhi soddisfatti e fecero per scambiarsi un cinque, quando l'inquilino del piano superiore diede due colpi con il manico della scopa al pavimento: «Silenzio! Che c'è gente che dorme!».

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Capitolo 8
*** Ricordi ***


08 Ricordi Quel giorno Spike aveva lavorato alla proiezione del pomeriggio e si ritrovava con la sera completamente libera e Guy a casa di Danielle a cena. Se proprio vogliamo chiamarla "cena" ridacchiò sommessamente mentre si apriva una lattina di Harp. Era certo che Guy non avrebbe nemmeno mangiato tonno in scatola a casa di quella ragazza; in compenso, lui avrebbe potuto farsi comodamente i fatti propri fino alla mattina successiva e guardare tutto quello che voleva in TV, senza che nessuno gli dicesse che alle 10 c'era il suo sceneggiato preferito. Afferrò l'ultimo pacchetto maxi di patatine alla salsa Worcester e si lanciò sul divano, allungandosi appena verso la sponda per raggiungere il telecomando, gioendo interiormente per non doversi subire Fawlty Towers almeno quella sera. Stava mettendosi comodo, con il gomito affondato in un cuscino ed il pacchetto aperto e coricato al suo fianco, pronto ad immergersi nella visione di un bel poliziesco quando bussarono alla porta. Mugolò, parecchio infastidito, e prendendo in braccio le patatine si avviò verso l'ingresso; a pochi metri dalla porta affondò la mano aperta nel pacchetto, si riempì la bocca e poi abbassò la maniglia, già pronto ad insultare Guy perchè aveva dimenticato le chiavi e ad imprecare perché Danielle era dovuta correre in ospedale per qualche urgenza, compromettendo così la sua serata di cazzeggio solitario. Invece rimase parecchio sorpreso nel trovarsi davanti Ginger, con i capelli umidi ed il mozzicone di una sigaretta in bocca: «Che ci fai qui?»
«Mi hai dato tu il tuo indirizzo, te n'eri dimenticato?» il ragazzo gli sventolò sotto il naso il volantino arancione che teneva spiegazzato nella tasca interna della giacca.
«No, solo non ti aspettavo proprio adesso» quindi niente film nemmeno stasera. Spike si sentì leggermente dispiaciuto: È paradossale! Faccio il proiezionista ma non guardo nemmeno una pellicola durante il turno; forse dovrei iniziare a farlo... ma alla fine decise che la compagnia del suo vecchio compagno di scuola era decisamente migliore di qualsiasi film.
Ginger entrò nell'appartamento, scrutandone le pareti rivestite di una vecchia carta da parati, a tratti un po' ingiallita, e decorata da qualche poster di musicisti o di donne mezze nude messo in posizione strategica per coprire dei buchi. Ridacchiò e si mise a guardare Spike, con la bocca piena di patatine: «Beh, non è certo Buckingham Palace».
Il cantante inarcò le sopracciglia, stupito dal modo di fare superiore di Ginger: «Non posso nemmeno permettermelo Buckingham Palace. Però sono in zona strategica, vicino ad un sacco di locali» deglutì rischiando di ingozzarsi «tu dove abiti ora?».
Il ragazzo scostò un po' d'aria con il dorso della mano: «Uhm... zona British Library. Sì, King's Cross».
Camminò lungo il corridoio, verso il soggiorno; Spike lo studiò da dietro, guardando la sua giacca grigia muoversi ad ogni passo. L'aspetto fisico di Ginger non era cambiato granché negli ultimi anni: sempre i soliti capelli color mogano, sempre gli occhietti color nocciola e quello sguardo un po' da volpe e sempre quel fisico alto e smilzo. Eppure c'era qualcosa di nuovo in lui; non l'ho mai visto fare quello superiore... o quello spocchioso. Magari mi sbaglio, però...
«Non è che mi daresti una manciata delle tue patatine?» gli urlò dal divano su cui si era lanciato.
Spike arricciò le labbra, poi si diresse perplesso e con passo lento in cucina per prendere una ciotola in cui versare dentro il contenuto del sacchetto. Mentre prendeva un'altra birra dal frigo si ritrovò a pensare: bah... magari sono solo io che sono un po' fuori fase stasera. Ma Ginger che scrocca così bellamente è troppo strano. Per tutto il tempo che si erano frequentati, quindi dalla prima elementare fino a quando non ho fatto la valigia per venire nella capitale, Ginger era stato un amico fedele, tranquillo, divertente e soprattutto discreto. «Allora Ginger? Tutto bene?» gli chiese dalla cucina mentre prendeva le patatine e la birra per lui.
«Non c'è male, bello... sempre la solita vita».
Spike appoggiò gli snack sul tavolo del salotto; improvvisamente gli ritornò alla mente la scena di Ginger che discuteva con il poliziotto nel vicolo attiguo al Dark Crimson Velvet. Silenzioso, diede un sorso alla sua birra mentre allungava una lattina ancora chiusa all'amico; decise di iniziare il discorso facendo un giro molto largo: «L'altra sera eri anche tu al concerto dei Dogs D'Amour?».
Ginger si riempì la bocca di patatine: «Sì, sono arrivato verso metà. Non sono male»
«Sono bravi» lo corresse Spike un po' piccato «e sono anche miei amici».
Ginger sorrise con la bocca piena di birra: «Hai gli agganci giusti tu!». Il cantante corrugò le sopracciglia, non capendo dove l'amico volesse andare a parare. Ginger continuò: «Sai, ho appena perso il lavoro qui a Londra»
«Oh cacchio, mi dispiace...»
L'amico lo interruppe: «Risparmiati le frasi di circostanza Spike. A me non dispiace per nulla, invece, aver perso quell'impiego; mi faceva abbastanza schifo lavorare come lavavetri per un'azienda di periferia, rischiando di cadere dall'impalcatura ogni giorno e venendo pagato una miseria» si accese una sigaretta «E sapere che hai degli amici musicisti è una figata, perchè io voglio entrare in una band».
Spike rimase spiazzato da quell'affermazione: «Non sapevo ti sarebbe piaciuto suonare»
«Infatti è circa un annetto che ho imparato a suonare la chitarra, ma devo dire che me la cavo abbastanza bene».
In quel momento, il cantante ebbe un'idea; vediamo cosa sa fare. Fece il giro del salotto e recuperò la sua chitarra: «Dai, fammi sentire qualcosa».
Ginger sorrise mentre Spike, sedendosi di fronte a lui, gli porgeva lo strumento; controllò velocemente che fosse accordato, poi iniziò ad improvvisare una linea blues.
Il cantante rimase ad ascoltarlo, quasi ammaliato, mentre l'amico fischiettava un'ipotetica linea vocale che accompagnava il riff. Ad un certo punto lo bloccò: «Niente male bello, non male davvero... di' un po', ma come mai ti è venuta voglia di imparare a suonare?».
Ginger fece spallucce: «In realtà è una cosa che mi è sempre interessata, anche se non mi ci sono mai applicato. Ho iniziato a suonare più "seriamente" da quando te ne sei andato. Ho perfino avuto una band per poco tempo».
Spike annuì e diede una sorsata abbondante di birra mentre lo ascoltava.
Ginger proseguì: «È stata un'esperienza fulminea, non abbiamo fatto granché. Abbiamo suonato giusto in qualche pub; il nostro sogno più grande era riuscire a suonare almeno al Mayfair di Newcastle; anche come gruppo spalla».
A Spike si illuminarono gli occhi: «Il Mayfair?». Quasi gli si strinse lo stomaco nel sentire quel nome e tutti i ricordi ad esso abbinati: «Ti ricordi quanti concerti abbiamo visto lì dentro insieme?».
«Sì» il ragazzo fece un cenno affermativo mentre si accendeva una sigaretta «ed anche tutti i venerdì sera passati lì dentro».
«Dio mio!» Spike buttò la testa all'indietro, passandosi una mano sulla fronte: «Te la ricordi Lilianne? Che faceva sbarellare tutti e non la mollava mai a nessuno?».
«Con tutti i sogni erotici che ci siamo fatti su quella morettona davanti a una birra, potremmo veramente scriverci un libro» Ginger scoppiò a ridere, appoggiandosi alla cassa della chitarra «Per non parlare invece di quel cesso di Rebecca che si strusciava addosso a tutti ma nessuno la voleva».
«Quella era un incubo! Ti ricordi la sera del concerto degli UFO? Noi che continuavamo a scansare Becky per vedere le bocce di Lily che andavano dolcemente su e giù mentre lei ballava?».
«È l'unica cosa che ricordo lucidamente di quel concerto» Ginger tirò un'altra boccata dalla sigaretta  «oltre a Rebecca attaccata alla mia gamba con un alito che poteva far resuscitare un morto».
Scoppiarono entrambi a ridere, con la testa riversa all'indietro e la pancia quasi dolorante. Le urla riempivano l'appartamento, rimbalzando sulle pareti rivestite di carta cadente e rotolando fuori dalla finestra semiaperta nella notte scura e umida.
Ad un tratto, Ginger si alzò in piedi e, impugnando la chitarra, si arrampicò sul tavolino, assumendo una posizione da perfetto guitar hero: «C'era Paul Chapman con la paletta puntata verso il pubblico, che ti guardava con gli occhi di fuoco e poi faceva strillare la chitarra». Cercò più che poté di far sentire il suono delle corde curve della chitarra acustica sotto il suo medio.
Spike si unì al gioco, salendo in piedi sulla poltrona davanti all'amico: «Sì, e Phil Mogg che indicava il pubblico e diceva: "Grazie, grazie a tutti! Siete grandi!"».
Ginger alzò le mani al soffitto, mimando la massa della gente sottostante il palco ed aprendo la bocca facendo uscire un sordo soffio d'aria; poi, sempre continuando ad impersonare Paul Chapman: «E ora DJ tocca a te! Facci saltare per tutta la NOTTEEEEEE!». Mise le mani sul manico della chitarra e cominciò ad improvvisare un riff, allargando le gambe e facendo scivolare sul pavimento la ciotola delle patatine.
Spike lo maledisse infinite volte mentre balzava giù dal divano per raccogliere il suo snack preferito, malamente sparso a terra ed ormai irrecuperabile; aveva una dannata voglia di mangiare quelle patatine, ma prima Ginger gliele aveva rubate malamente dal sacchetto e poi gliele aveva rovesciate tutte a terra. Però, più ascoltava quel giro e più quella linea lo prendeva e lo caricava.  Al diavolo le patatine. Alzò gli occhi verso l'amico che era nascosto dietro una massa movimentata di capelli mogano e gli chiese: «Che canzone è?»
«Boh» Ginger fece spallucce «improvvisata adesso. Immaginavo me e te appesi a due bicchieri di birra che scuotevamo la testa e saltavamo».
Il cantante strabuzzò gli occhi sbalordito: «Cioè… ti è uscita così, senza pensarci troppo?».
Ginger fece una smorfia: «Non ti piace?»
«Al contrario!» Spike balzò in piedi «Suonala ancora… però andiamo di là». Gli fece strada fino alla camera, dove la chitarra elettrica di Guy ed il suo amplificatore lo aspettavano appoggiati al muro. Spike fece cenno con la mano all’amico di prendere lo strumento; Ginger non se lo fece ripetere due volte. Si mise orgoglioso la Fender a tracolla e, intanto che il Marshall scaldava le valvole, sistemò l’accordatura; poi suonò di nuovo il riff di pochi minuti prima. Se sulla chitarra acustica gli sembrava quasi dolce, su quella Stratocaster, invece, prendeva una sfumatura graffiante ed accattivante.
Il cantante dei Quireboys chiuse gli occhi, con quel fraseggio che lo trasportava violentemente indietro di qualche anno, quando ancora abitava a Newcastle e tutti i weekend faceva almeno una serata al Mayfair, il locale dietro casa sua.
Mayfair… dove ho bevuto la mia prima birra. Dove ho fumato la mia prima sigaretta. Dove ho preso la mia prima sbronza di whisky e i miei amici hanno dovuto riportarmi a casa sorreggendomi, perché strisciavo i piedi; e la mattina dopo il culo che mi sono preso da mia madre perché “Jonathan, ti credevo più responsabile!”. Eppure ero ritornato subito la sera successiva. Avevo bevuto ancora ed ero riuscito ad accompagnare a casa Candice, che mi piaceva tanto. L’avevo baciata sotto casa sua, con tutta la mia lingua infilata nella sua bocca. Lo sberlone che mi ero preso ed il “Non voglio vederti mai più!”.
Mayfair… quanti concerti lì dentro. È stato proprio lì, fra quelle quattro mura grondanti d’alcol e sudore che ho capito che avrei voluto fare il musicista. Guardare meravigliato ed ammaliato tutti quei gruppi favolosi, che ti investivano con la loro grinta, sentire il proprio petto martellare al ritmo della grancassa ed i capelli drizzarsi sulla nuca per un assolo di chitarra mozzafiato e dirsi: "Anche io voglio farlo".
Mayfair... con tutte le tue belle ragazze ed i loro splendidi vestitini pazzescamente trasparenti, i capelli acconciati ed il trucco da serata, accompagnati da scarpe alte ed unghie perfettamente sistemate. Il cuore che martellava nel petto ed il pisello scalpitante nelle mutande quando una di queste ti passava rasente inebriandoti con il suo profumo, così dolce, così intriso di femminilità. E tu già ti immaginavi con la faccia in mezzo alle quelle tette, più o meno grandi, e il tuo amico immerso in quel paradiso che immaginavi di fisso sempre caldo e curato.
Spike corse a prendere carta e penna e iniziò a scarabocchiare idee in modo quasi frenetico.
Ginger smise di suonare e lo guardò stranito: «Ma che fai?».
Spike, continuando a tenere le iridi blu sul foglio, gli rispose: «Scrivo il testo».
Il ragazzo strabuzzò gli occhi, incredulo e felice, quando improvvisamente la serratura di casa scattò e la porta si aprì con un leggero scricchiolio. Dopo pochi secondi Guy, fradicio e nervoso, fece il suo ingresso nella stanza e, nel vedere Ginger con la sua "adorata Bimba" a tracolla, diede libero sfogo a tutta quell'elettricità che già gli stava scorrendo nelle vene. «Chiunque tu sia, metti giù quella roba» pronunciò perentorio, sbuffando come un toro durante una corrida.
Spike balzò in piedi e gli corse incontro, prima che gli mettesse le mani addosso: «Tranquillo, è mio amico...»
«Senti, patti chiari e amicizia lunga» Guy lo guardò arcigno da sotto il cilindro «lo sai che la Bimba non la può toccare nessuno e non me ne frega nulla se quello è tuo amico».
«Calma bello, non ho la lebbra e non mi stavo nemmeno facendo una sega sui tuoi pick up» Ginger si intromise nella discussione con tono piuttosto scocciato «stavamo solo scrivendo una canzone».
Guy fissò Spike con gli occhi fuori dalle orbite.
Il cantante annuì: «Te la facciamo sentire».
Guy stava per rispondere che no, grazie, non me ne frega un cazzo. Vorrei solo che quello stronzo mettesse giù la mia Fender, ma Ginger non gli diede tempo di ribattere che attaccò subito il riff travolgente della canzone, facendo ingoiare a Guy le sue parole piene d'astio. Ascoltò quelle note energiche fino all'ultima, mentre Spike con la sua voce graffiante descriveva immagini fatte di birra, ragazze e musica. Alla fine fu costretto ad ammettere che il pezzo aveva davvero del mordente: «Anche se sistemerei due o tre cose sul ponte».
Ginger sorrise rimettendo, con grande sollievo di Guy, la chitarra sul suo supporto: «Allora domani possiamo trovarci per sistemare il pezzo, che ne dici Spike?».
«Non vedo l'ora!» il cantante gli andò incontro e i due si scambiarono un cinque, dandosi appuntamento per il pomeriggio successivo sotto lo sguardo tagliente di Guy. Pochi minuti dopo, Ginger usciva dalla porta per immergersi nella pioggia londinese, lasciando i due coinquilini a scrutarsi negli occhi.
Guy fissò quelle due pozze blu che lo guardavano sprizzando euforia, per la serie abbiamo trovato un secondo chitarrista e ha già buttato giù un pezzo che spacca; vide gioia ed euforia. Scosse la testa amareggiato: a lui quel tipo non piaceva neanche un po', c'era qualcosa di marcio nel suo modo di fare. L'aveva notato dalla risposta che gli aveva dato quando ancora aveva a tracolla la sua Stratocaster; se non ci fosse stato Spike davanti, gli avrei spaccato la faccia molto volentieri. Si rituffò per un istante negli occhi blu dell'amico e constatò che c'era anche tanta ingenuità, forse dettata da quella bontà così tanto radicata in lui.
«Allora, che ne dici di Ginger?».
Guy cercò di mantenersi neutrale: «Sì, non male... basta che tiene giù quelle manacce dalla mia Bimba».
Spike sorrise e gli mise una mano sulla spalla: «Adesso siamo veramente al completo. Ginger è molto più bravo di me a suonare; adesso hai una spalla degna di te. A proposito, come mai già a casa?».
Guy alzò gli occhi al soffitto: «Incidente grave e lei è dovuta correre in pronto soccorso. Certo che avere l'amica di letto che fa la dottoressa in ospedale non è facile». Si tolse il cilindro: «Ma questo Ginger da che parte spunta?».
Spike sentì la voce dell'amico pungere; abbassò gli occhi, triste: «Eravamo compagni di scuola a Newcastle. Non ti piace?».
«A suonare non è niente male» poggiò anche il cappotto sull'attaccapanni «ma a pelle... ha qualcosa che non va».
Ed in quel momento, Spike si ricordò che non aveva chiesto all'amico come mai aveva avuto da discutere con il poliziotto; era la seconda volta che perdeva quell'occasione. Probabilmente è così roba di poco conto che è per questo motivo che continuo a dimenticarmene. Fece spallucce e guardò Guy: «Non è che magari sei partito un po' prevenuto nei suoi confronti perché hai la luna storta per colpa di Danielle?».
Il chitarrista fece spallucce, poi si diresse verso il frigo della cucina: può darsi che abbia la luna storta per colpa di Danielle... ma si dà anche il caso che la mia prima opinione sulle persone non è mai sbagliata. Si voltò e, di sottecchi, vide Spike scaraventarsi sul divano afferrando la sua lattina di birra mentre fischiettava il ritornello di "Mayfair": è ancora così ingenuo... è buono come il pane quel ragazzo. Infilò la mano nel frigo e il nervoso gli triplicò nel constatare che era finita la birra; di sicuro, Spike ha offerto. Fanculo, quello prima mi tocca la chitarra e poi mi finisce la birra. Serrò l'anta con veemenza e si prese un bicchiere di Coca Cola. Irritato chiuse gli occhi e diede un lungo sorso, sentendo le bollicine solleticargli il naso: dovrei dargli una possibilità, non è giusto partire prevenuti nei confronti di nessuno... ma a me quel Ginger non mi convince neanche un po'.

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Capitolo 9
*** Amarezza ***


09 AmarezzaGuy diede una lunga sorsata alla sua birra mentre cercava di scaricare il nervosismo. Si guardava intorno, con il piede che frenetico tamburellava contro la gamba del tavolo; fissava i propri compagni di band seduti al tavolo con lui, che festeggiavano e brindavano in continuazione. In particolare guardava Spike, seduto dritto davanti a lui, che cingeva le spalle di Ginger con il suo braccio e seguitava ogni due secondi ad alzare il bicchiere verso il soffitto. Era felice, si vedeva; lo erano tutti, in realtà. Da quando quel vecchio compagno di scuola era entrato nella band, in pochissimo tempo erano arrivati un contratto discografico, promosso proprio da "Mayfair" che i due avevano composto, un videoclip da girare e, soprattutto, una marea di concerti in più. Doveva essere felice anche lui, il suo sogno di campare di musica stava diventando sempre più palpabile ed invece era lì, quasi isolato, che beveva la sua Tennent's con i nervi tesi come fili dell'alta tensione. Di nuovo un altro sorso di birra e le sue iridi castane che fissavano Ginger, il suo compagno di sei corde: non gli piaceva, non gli era mai piaciuto e, molto probabilmente, non gli sarebbe mai andato a genio. Ma non era questione di "sentirsi messo da parte"; gli altri, Spike compreso, avevano sempre mantenuto lo stesso atteggiamento nei suoi confronti. Quello che lo infastidiva davvero era il comportamento dell'ultimo arrivato: sempre pronto a sbeffeggiarlo, a schernirlo in modo velato; magari per il modo in cui si vestiva, magari per il suo modo di essere naturalmente un po' burbero oppure - e questo non lo sopportava - per il suo modo di suonare. Gli altri non se ne accorgevano quasi, ma lui sentiva tutte quelle frecciatine conficcarglisi sotto pelle e provocargli un prurito crescente. Espirò pesantemente e si alzò dalla sedia: «Vado a fumare».
Camminò fino al bordo del marciapiede e, dopo essersi lasciato il locale alle spalle, con gli occhi fissi verso la strada, si accese la sua sigaretta. Sentiva il fumo caldo scendergli giù nei polmoni che lo accarezzava e cercava di calmarlo, quando una voce alle sue spalle lo fece voltare: «Ehi Guy, cos'è tutto questo silenzio?». Spike era arrivato senza farsi sentire e anche lui stava per unirsi a lui in quel rito di rilassamento; fissò la fiamma dell’accendino poi rivolse i suoi occhi blu al coinquilino, attendendo una risposta.
Il chitarrista scosse il capo deglutendo una boccata di tabacco, come se volesse minimizzare il suo non essere partecipe, ma sapeva bene che quegli occhi blu, innocenti come li descriveva lui, non gli lasciavano scampo. Il cantante capì immediatamente qual era il problema:
«Da quando c'è Ginger sembra quasi che...»
«Ha qualcosa che non va» lo interruppe Guy con un tono di voce che non ammetteva repliche. Picchiettò con l’indice la Marlboro e guardò Spike dritto negli occhi; tutta quell’innocenza e benevolenza che li riempivano quasi lo commuovevano, ma sapeva bene che, in questo caso, doveva vomitare la verità e metterlo al corrente del reale corso delle cose. Così come aveva già fatto per metterlo in guardia da Leah: «È come se nascondesse qualcosa... come se fosse marcio».
«Marcio?» ripeté Spike incredulo «Impossibile, non Ginger».
Guy annuì, respirando dalla sigaretta: «Facci caso: cerca sempre di sminuirmi, di criticare il mio modo di essere e suonare. Non si può piacere a tutti, è vero, ma mi sembra che lui manchi di obiettività». Spike fece per ribattere, per dire che forse stava esagerando, che Ginger scherzava solamente, ma il chitarrista proseguì: «Ma poi, quello che più mi fa rabbia, è che pretende sempre di andare lui a prendere il cachet».
Spike, di nuovo, cercò di difenderlo: «Non è che lui pretende... è che si presta»
«Può darsi, ma mancano sempre soldi».
Il cantante rimase senza parole; adesso non aveva davvero nulla con cui scagionare Ginger. Non che dai compensi mancassero grandi somme, erano sempre una decina di sterline circa; però, obiettivamente, venivano immancabilmente tolte.
Per il servizio bar, diceva lui, effettivamente beviamo tanto.
Ma, da accordi, le bevande dovevano essere gratis; fosse stata soda, birra o anche il whisky più costoso della loro cantina. Spike si mordicchiò il labbro: era strano. Ed era ancora più strano il fatto che nessuno di loro se ne fosse accorto; o, magari, non avesse dato il giusto peso alla questione. Guy fece un respiro profondo: «Vedrai, succederà anche stasera».
«Secondo me no» il cantante lanciò la sigaretta in mezzo alla strada e facendola spegnere da una macchina in corsa «Te la stai prendendo un po' troppo, per cosa poi...».
Guy corrugò le sopracciglia: «No. Non capisci. Non è il fatto che ha suonato la mia bimba senza permesso o che mi ha preso la birra dal frigo o che, ancora, mi ha sfiocchettato il jack l'altra sera a fine concerto. Non sono questi singoli episodi, anche se l'avrei pestato molto volentieri. È tutta la situazione, nel complesso. Non va Spike, non va. Ha qualcosa di sbagliato».
Spike scosse il capo, amareggiato; abbassò gli occhi e fece un passo per ritornare nel pub: «Non pensavo potessi essere invidioso, Guy. Sono...» deluso? Incredulo? Attonito? Non lo sapeva. L'unica cosa di cui era certo era che questa situazione gli creava ansia. Il cantante desiderava che anche Guy apprezzasse Ginger, ma invano. Ma, come era già capitato per Leah, improvvisamente, una voce "antagonista" urlò alla sua mente che forse Guy così torto non aveva. In fondo, lui stesso aveva notato che Ginger non era più lo stesso di quando andavano a scuola a Newcastle; sembrava essere più sfacciato, con meno scrupoli. Rabbrividì mentre tornava verso il tavolo: ecco che ritorna quella schifosa sensazione di cattivo presagio. La stessa che avevo provato per Leah.
Al momento della chiusura del pub, mentre tutti stavano smontando e caricando la strumentazione, Ginger diede in mano la propria chitarra a Spike e gli disse di caricarla al posto suo poiché sarebbe andato a ritirare il compenso per il concerto. Non appena quelle parole giunsero alle orecchie di Guy, il chitarrista si spicciò a caricare il suo amplificatore e fece finta di correre in bagno per la troppa birra bevuta. Spike lo guardò camminare con passo spedito verso la grande sala del pub, corrugando le sopracciglia e con un crescente senso di inquietudine.
«Ehi» Nigel vide il cantante assorto nei suoi pensieri e cercò di attirare la sua attenzione «secondo me stasera prenderemo cachet pieno; non abbiamo bevuto molto, a parte Guy che si è scolato sei birre». Spike si limitò a mugolare, così il bassista proseguì: «Sai, se dovessimo calcolare quante decine sterline abbiamo perso per la nostra sete d’alcol, a quest’ora avremmo già degli amplificatori nuovi ed anche un mixer decente».
«Già» Spike sospirò e, tenendo il capo chino, caricò la chitarra di Ginger, con la crescente sensazione che di lì a poco qualcosa sarebbe andato storto.
Intanto, all’interno del pub, appena girato l'angolo per il corridoio del bagno, Guy si fermò e fece capolino con le orecchie tese; vide Ginger ringraziare con un sorriso falso il gestore, un uomo immensamente grosso, e quest'ultimo che si allontanava per andare nel retrobottega. Il ragazzo alzò per un attimo lo sguardo e poi si mise a far frusciare le banconote fra le dita; le contò due volte, prima in un verso ed in seguito nell'altro, poi sfilò una banconota da dieci sterline e la nascose fulmineo nell'elastico dei pantaloni. Guy digrignò i denti e dovette chiamare a raccolta tutta la calma in suo possesso per non tirargli immediatamente una manata fra capo e collo e prenderlo poi a calci. Si accontentò di uscire semplicemente allo scoperto e di bloccargli il passaggio: «Sistema subito».
Il tono con cui aveva pronunciato quelle parole non ammetteva repliche. Ginger si fermò, con lo sguardo fisso sui soldi; si soffermò per qualche secondo a guardare la Regina Elisabetta, che lo fissava ricamata con colori diversi, poi ebbe il coraggio di reggere lo sguardo di Guy, nascondendosi dietro un ciuffo mogano che gli rotolava sulla fronte.
L’altro chitarrista fece un passo verso di lui e lo afferrò per il colletto della giacca, alitandogli in faccia la sua rabbia come un serpente: «Hai sentito quello che ti ho detto, o devo chiamare qualcuno per farti pulire le orecchie?».
«Levami le mani dosso Bailey, puzzi di birra» Ginger si attaccò ai polsi dell'altro cercando di allontanarlo, ma con scarso successo.
Nel vedere che tentava di ribellarsi, Guy lo mise violentemente al muro, generando un tonfo che fece vibrare le assi di legno che lo rivestivano; gli si fece ancor più vicino al viso, sentendo la propria temperatura corporea salire: «Rimetti a posto i soldi che hai preso».
«Sei ubriaco secco, non ho preso nulla» disse l’altro chitarrista a denti stretti.
«Potrò essere ubriaco» Guy aumentò ancor di più la pressione «ma ci vedo da dio».
Ginger, con le spalle al muro, cercò di discolparsi: «Mi spettano quelle sterline».
Guy, livido, alzò il tono di voce: «Ci spettano in ugual misura, stronzo».
«Attento a come parli, bastardo» finalmente Ginger riuscì a spingerlo via da sé e a fargli picchiare il fondoschiena contro una sedia  «ugual misura un cazzo».
Il proprietario abbandonò il retrobottega, preoccupato dai rumori che provenivano dalla sala, appena in tempo per vedere Guy rilanciarsi contro Ginger e rovinare a terra insieme a lui: «'Sti ubriaconi!». Con la pancia prorompente ancora fasciata nel grembiule da lavoro, corse intorno al bancone e cercò di interporsi fra i due ma con scarso successo; si mise in mezzo proprio nel momento in cui il pugno di Ginger, diretto allo zigomo di Guy, lo colpì in pieno viso, facendolo retrocedere con il sangue che iniziava a colargli dal naso. Emise un grugnito degno di un orso bruno guardandosi le mani sporche, poi afferrò entrambi i ragazzi per le braccia sbraitando: «Se volete far rissa, ve ne andate fuori sul marciapiede. E se mi avete danneggiato qualcosa, mi riprendo i soldi che vi ho dato».
«Meno dieci» Guy allungò la mano libera verso la vita dei pantaloni di Ginger, ma l'altro gli bloccò il polso girandogli malamente la mano e facendolo urlare: «Figlio di puttana, MOLLAMI!».
«Di' ancora una parola e ti giro il polso sottosopra, così per il prossimo mese non suoni più, pezzo di merda».
Il padrone del pub stava per picchiare insieme i ragazzi alla pari di due cimbali, quando arrivarono di corsa Nigel, Spike e Rudy, attirati dal fracasso.
Il cantante fece saltar fuori gli occhi blu dalle orbite: «Ma cosa state facendo?».
«Fuori dai coglioni, subito!» il padrone del locale aveva le labbra ormai completamente ricoperte dal proprio sangue e fissava Ginger in cagnesco «Prima che chiami la polizia e ti denunci per aggressione immotivata».
Il respiro di Spike si bloccò per lo stupore; non è possibile che Ginger abbia intenzionalmente colpito lui! «Aspetti, aspetti, se ne parliamo possiamo...»
«Sta' zitto Jon, per dio, taci!». Guy aveva strillato con tutta la forza possibile; ritrasse la mano dalla morsa di Ginger e poi guardò Spike dritto negli occhi: «Qui non c'è bisogno di parlare» spostò lo sguardo sul bassista: «Nessuno deve essere difeso».
Nigel e Rudy si sentirono raggelare; in un istante capirono che Ginger li aveva traditi.
Spike rimase di sasso. Non può essere vero. No, Ginger non ne sarebbe capace. Tenne per qualche secondo la bocca chiusa, poi, a passo spedito e pesante, con gli stivali texani che rimbombavano contro le assi del pavimento, si diresse verso Guy e gli parlò dritto in faccia con un filo di voce, mal celando il nervosismo: «Certo che sei davvero subdolo, da te non mi sarei aspettato una cosa simile! Tutto questo casino per cosa?» deglutì con difficoltà; colpa del cuore che gli stava ostruendo la gola: «PER GELOSIA?». Quasi fischiò quelle ultime due parole. «Sai bene che non devi, siete due chitarristi eccezionali...»
«Questo lo so» lo interruppe Guy, poi aggiunse: «ma il tuo compagno di scuola è proprio un uomo di merda» Capiscila Jon, per dio! Non so più come dirtelo.
Ginger fece per graffiargli il viso, ma il padrone del locale, che ancora teneva i due, gli diede uno strattone con cui lo fece finire a terra; poi mollò Guy e si affrettò a mettere un piede sull'altro ragazzo, proprio sulle palle, impedendogli così di muoversi: «Se solo provi a rabbrividire, faccio una bella marmellata con i tuoi gioielli».
Spike era sempre più senza parole; guardava Ginger a terra, tremante e bianco in viso, con le palle quasi schiacciate da un energumeno che era tre volte lui e Guy che si avvicinava a loro due, lentamente. Cercò di fermarlo: «Adesso basta Guy!». Fece per allungarsi verso il chitarrista, voleva assolutamente chiedergli spiegazioni, ma Nigel gli mise una mano sulla spalla; Spike si voltò a guardarlo, con gli occhi blu che cercavano spiegazioni. Il bassista si limitò a scuotere il capo in silenzio. Il cantante smise di respirare mentre si voltava a guardare i chitarristi, con il cuore che gli rimbombava inspiegabilmente sempre più potente nelle orecchie. Vide il coinquilino chinarsi all'altezza dell'elastico dei pantaloni di Ginger, allargare e sfilare una banconota da dieci sterline. Lo stomaco si contrasse in una morsa dolorosissima che gli fece salire le lacrime agli occhi. In un secondo collegò le parole di Guy con il comportamento di Ginger e capì per quale motivo il suo vecchio compagno di scuola, quella sera in cui si erano rivisti fuori dal Dark Crimson Velvet, si era preso un cartone dal poliziotto nel vicolo. Aveva rubato. Ginger ruba. Ha rubato fino ad ora. Ha rubato ai locali che frequenta. Ha rubato perfino a me, che siamo amici da una vita. Ha rubato i soldi che ci siamo guadagnati insieme. Mentre quelle parole gli rimbombavano nella mente, il cuore prese a battergli così forte che la testa cominciò a girare come un uragano. La nausea cominciò a farsi sentire sempre più prepotente, insieme con il sapore della birra parzialmente digerita che saliva per l'esofago, accarezzandogli il palato; il sapore della delusione. Lo stesso di una sbronza finita male. Gettò giù nervosamente il conato di vomito che cercava di farlo soffocare e guardò Ginger dritto negli occhi: «Perché?».
Il silenzio scese mentre il sangue che scorreva nelle vene di Spike faceva sempre più rumore. Nessuno si mosse, solo il gestore del locale sparì per andare a pulirsi il sangue dal viso; tutti fissavano quel ragazzo con i capelli ribelli e mogano, che si stava rimettendo seduto. Il cantante, pilotato dai suoi sentimenti di delusione, lo rimise in piedi con forza, sollevandolo malamente per un gomito: «PERCHÈ GINGER?».
Il chitarrista rabbrividì leggermente; fu solo capace di dire: «Mi servono».
«Servono anche a noi, pezzo di stronzo» Guy stava per rimettergli le mani addosso quando Nigel bloccò tutti, dicendo di lasciarlo parlare.
«Mi servono… faccio fatica a tirare avanti». A Ginger tremavano le mani.
Spike si sentì soffocare; oltre il danno, la beffa. Il mio amico non si fida di me. «Te li avrei prestati volentieri, se li avessi chiesti». Il suo tono di voce si faceva sempre più acuto e le sue pupille sempre più piccole, mentre nella mente si accavallavano mille pensieri, uno più doloroso dell’altro. Ginger ruba, Ginger mente, Ginger non si fida di me. Il tutto stava sfiorando l’assurdo.
Anzi, lo sfiorò: «Chiudi la bocca Spike». Ginger, sprezzante, lo guardò con odio non giustificato: «Sei squattrinato almeno quanto me e poi, ti prego, chi ha scritto “Mayfair”? Chi ha scritto il singolo che ti sta facendo guadagnare?».
Il cantante si sentì raggelare il sangue, mentre il parquet sotto i suoi piedi si sgretolava alla velocità della luce; aveva paura di sapere cosa stava per dire il chitarrista.
«Quei soldi, oltre che a servirmi, mi spettano» Ginger fece un passo verso di lui con l’indice puntato contro il suo petto «Hai capito che MI SPETTANO?».
Quelle parole taglienti come lame, lanciate contro di lui con violenza ed astio, spensero per un attimo il cervello di Spike. Era la nostra canzone quella. NON LA TUA, LA NOSTRA. Vide letteralmente nero per pochi secondi, giusto il tempo di sbattere le palpebre per cercare di far luce. Quando le riaprì, Ginger era inginocchiato a terra che si teneva il muso fra le mani e le nocche della sua mano destra erano imbrattate di un liquido rosso scuro e appiccicoso. Sangue. Le membra erano tutte un tremito e lacrime colme di delusione iniziavano a scendere copiose dai suoi occhi. Prese fiato come se dovesse andare in apnea per sempre: «Sei fuori. Fuori dalla band, fuori dal pub, fuori dalla mia vita. FUORI!». E poi corse via, diretto da nessuna parte, lasciando gli altri membri della band soli con Ginger. Di sicuro, anche loro avranno da dire qualcosa. E prese a correre per le strade buie di Londra, con le lacrime che si mescolavano alla pioggia ed il sangue che, dalla mano, colava sul marciapiede, maculandolo in modo irregolare.

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