Anna

di Moonage Daydreamer
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo - The Night Before ***
Capitolo 2: *** 1. - A Day in the Life ***
Capitolo 3: *** 2. - Chains ***
Capitolo 4: *** 3. - Act Naturally ***
Capitolo 5: *** 4. - I don't want to spoil the Party ***
Capitolo 6: *** 5. - Good Day Sunshine ***
Capitolo 7: *** 6. - Strawberry Fields Forever ***
Capitolo 8: *** 7. - Happiness is a warm Gun ***
Capitolo 9: *** 8. - Mother ***
Capitolo 10: *** 9. - Don't Bother Me ***
Capitolo 11: *** 10. - Blackbird ***
Capitolo 12: *** 11. - Not Guilty ***
Capitolo 13: *** 12. - Twenty Flight Rock ***
Capitolo 14: *** 13. - Bad Boy ***
Capitolo 15: *** 14. - It's all too much. ***
Capitolo 16: *** 15. - I saw her standing there. ***
Capitolo 17: *** 16. - Get Back ***
Capitolo 18: *** 17 - Getting Better. ***
Capitolo 19: *** 18. - We can work It out. ***
Capitolo 20: *** 19. - Help! ***
Capitolo 21: *** 20. - If I Fell. ***
Capitolo 22: *** 21. - She Loves You ***
Capitolo 23: *** 22. - For No One ***
Capitolo 24: *** 23. - Raunchy ***
Capitolo 25: *** 24. - Julia ***
Capitolo 26: *** 25. - Anna (go to him) ***
Capitolo 27: *** 26. - Rock n Roll Music ***
Capitolo 28: *** 27. - Savoy Truffle. ***
Capitolo 29: *** 28. - With a little Help from my Friends. ***
Capitolo 30: *** 29. - Baby's in Black ***
Capitolo 31: *** 30. - Fixing a Hole ***
Capitolo 32: *** 31. - Magical Mistery Tour ***
Capitolo 33: *** 32 - I'll Be Back ***
Capitolo 34: *** 33. - She's leaving Home. ***
Capitolo 35: *** 34. - Hello, Little Girl. ***
Capitolo 36: *** Epilogo. - Nowhere Man. ***



Capitolo 1
*** Prologo - The Night Before ***


The Night Before.
 



La musica risuonava nella sala a un volume folle, ma nessuno sembrava accorgersene. E poi, chi avrebbe chiesto di abbassare il volume quando era stato messo Elvis?                                                                  
Decine di ragazzi ballavano nella stanza, per quanto mancasse l'aria.                                                                  
Una sola ragazza era seduta in disparte, cercando di respirare più ossigeno che poteva; non amava gli spazi stretti e c'era fin troppa gente per i suoi gusti. Visibilmente a disagio, continuava a scostarsi dal viso le ciocche ribelli di capelli dorati che le ricadevano davanti agli occhi.                                    
 Le mancava il respiro.                                                                                                                                                 
Si alzò dalla sedia sulla quale era seduta e si avvicinò a una delle pareti laterali della stanza, cercando invano di farsi strada fra le persone che ballavano senza dover sgomitare. Infine raggiunse la portafinestra che dava sul giardino.
La ragazza non aveva capito bene di chi fosse la festa e in realtà ci era andata solo per fare un favore all'amica che ce l'aveva portata, anche se in quel momento credeva che fosse stata una pessima idea. Che cosa ci faceva una quindicenne ad una festa in cui non conosceva nessuno tranne che l'amica che l'aveva convinta (quasi costretta,in effetti) che ora si era volatilizzata per amoreggiare con uno dei tanti ragazzi che amavano strusciarsi ogni settimana con una ragazza nuova.                                                                                                                            

 La ragazza sbuffò e fece alcuni passi verso il centro del giardino. Era stranamente silenzioso e i suoni della festa giungevano lontani, come se ci fosse stato un velo a separare le due parti della casa.                                              
Levò gli occhi al cielo incredibilmente terso, illuminato da una luna che era raro vedere a Liverpool in quel periodo dell'anno, ma il vento gelido che soffiava da quel pomeriggio aveva contribuito a scacciare le nubi. La ragazza rabbrividì e si maledisse per aver dimenticato il cappotto all'interno della casa, ma alla fine decise che avrebbe preferito congelare piuttosto che ritornare alla festa.                                 
Per quanto avesse cercato di ignorarle, non le erano infatti sfuggite le occhiate che tutti, uno alla volta, le rivolgevano quando credevano che lei non se ne accorgesse.                                             
Sospirò: era sempre stato così, sempre, da quando...                                                                                                    

-Ehi, si gela qui fuori.- una voce interruppe le sue riflessioni e la ragazza si voltò. Un ragazzo che non poteva avere più di un anno in più rispetto a lei le si stava avvicinando, stringendosi nella giacca; quando però il nuovo arrivato si accorse che la giovane davanti a lui non aveva il cappotto, non esitò a togliersela e a porgliela sulle spalle con un gesto all'apparenza molto galante.  Aveva un viso dai tratti particolari, ma non per questo brutti; al contrario, era molto attraente e non solo per la bellezza fisica,ma anche per il modo in cui sorrideva e si muoveva.                                                     
-Rischierai di ammalarti se non ti copri.- continuò lui sorridendo, ma la ragazza non gli rispose; l'aveva visto, per tutta la sera, atteggiarsi da spaccone e flirtare con questa o con quella, indifferentemente.                                              
-Comunque io sono John Lennon . - disse quando si accorse che la fanciulla non aveva intenzione alcuna di rispondergli.                                                                                                                                
-Io sono Anna. -rispose lei, cercando di non dimenticarsi l'educazione. Non disse qual'era il suo cognome, tanto sapevano tutti quale Anna era lei.                                                                                      
-Quella con la madre in prigione per omicidio?- chiese lui direttamente, nonostante nessuno avesse mai osato rivolgerle quella domanda. Probabilmente l'aveva detto solo per farle vedere che si reputava decisamente superiore a lei; dai suoi modi traspariva un'arroganza e una pienezza di sé che irritavano Anna più di qualsiasi altra cosa.                                                                                                  
-Proprio quella. - rispose lei con freddezza e si voltò per ritornare all'interno dell'edificio. Qualsiasi posto era meglio che vicino a John Lennon.                                                                                      
Il ragazzo la fermò prendendola per un polso.                                                                                                          
-Ehi, piccola, scusami, non volevo offendere.- disse con uno strano tono di voce che comunicava tutto tranne che la voglia di scusarsi con lei.                                                                                             
-Non chiamarmi piccola, per piacere.- replicò lei irritata, ma il suo sguardo fu catturato dagli occhi nocciola di John, illuminati da una luce divertita.                                                                                
-Scusa ancora una volta, allora.-                                                                                                                             
Il mezzo sorriso gli si dipinse sul volto gli diede un'aria terribilmente sexy, ma c'era in lui  qualcosa che non andava e la ragazza lo avvertiva. Ogni fibra del suo corpo era tesa.                                                     
 -E' ora che io torni dentro.- mormorò la ragazza. Voleva andarsene, a qualsiasi costo, voleva allontanarsi da John Lennon. - La mia amica mi starà cercando. Grazie per la giacca.-                              
-Ehi, non così di fretta, piccola.- replicò lui posandole una mano sulla spalla. Quel contatto diede i brividi ad Anna. -Non ho sentito nessuno là dentro gridare il tuo nome disperato! -                                
-Ho promesso ai miei che non avrei tardato.-                                                                                  
John rise:- Così sei alla tua prima uscita serale, eh piccola? Sta' tranquilla, è ancora presto.-                                                    
Anna scrollò via le sue mani dalle sue spalle.                                                                                                        
-Non lo sai che dovresti starmi lontano? Secondo molti io sono una ragazza da tenere a distanza.- mormorò lei,facendo finta di stare al gioco che Lennon voleva giocare,  cercando contemporaneamente una via di fuga a quella situazione. John rise di nuovo, poi la raggiunse e  la fermò di nuovo, prendendole la mano e facendola girare verso di sei. Poi le strinse i fianchi e la fece avvicinare a sé.                      
-Oh, ma a me piacciono le ragazze con un passato oscuro alle spalle.-                                                                                          
Premette le sue labbra su quelle di Anna, che sgranò gli occhi, troppo confusa per poter reagire in qualche modo. Cominciò ad arretrare per sottrarsi a quel bacio indesiderato, ma non ci riuscì e alla fine urtò la schiena contro il muro della casa. John cercò di insinuare la lingua fra i denti, ma lei non glielo permise.                                                                                                                                                                 
-No, John, per favore.- mormorò riuscendo a staccarsi. Lui le accarezzò la guancia con un gesto ben poco romantico.                                                                                                                                            
-Non ti preoccupare, piccola: ti piacerà. Non è mai venuta nessuna a lamentarsi il giorno dopo.-                                    
Anna  era paralizzata: l'aveva visto, quello sguardo folle di bramosia che si era augurata di non dover mai più vedere nella sua vita, anche se questa volta gli occhi nei quali l'aveva scorto appartenevano ad un'altra persona. Lennon cominciò a baciarle il collo cercando contemporaneamente di aprire i bottoni della camicetta. Anna chiuse gli occhi: il terrore la rendeva incapace di qualsiasi movimento. Si riscosse solamente quando sentì il desiderio di lui premerle insistentemente contro la coscia.                                                                                                                          
-No, John, ti prego,lasciami andare!- gemette, ma il ragazzo non l'ascoltava; le sue mani avide toccavano le parti più intime del suo corpo .                                                                                                            
-John, cazzo, FERMATI!-                                                                                                                                                      
Lennon insinuò una mano sotto la gonna che le arrivava al ginocchio.                                                                                                                                                                                        
Fu allora che l'istinto di sopravvivenza ebbe la meglio sulla ragazza.  Con un grido, Anna  gli  tirò un pugno, mettendoci tutta la forza che l'adrenalina e il puro terrore avevano fatto nascere in lei . Il giovane, colpito il pieno volto, si sbilanciò e cadde, con il naso insanguinato. Imprecò e guardò la ragazza con occhi iniettati d'odio.
E non era l'unico.
Diverse paia di occhi increduli fissavano Anna; parecchie persone erano infatti uscite attirate dalle grida della ragazza ed erano giunti in tempo per vederla mettere al tappeto, con un unico colpo, John Lennon.                                                                                                                                                                        
-Io giuro, Lennon, che se ci provi un'altra volta, non dovrai più preoccuparti che il tuo cazzo si ecciti in momenti inopportuni!- gridò la ragazza, poi si voltò e si allontanò, senza fretta, mentre Lennon la fissava giurandole odio eterno.





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Innanzitutto devo scusarmi con chi stava leggendo la mia ff  Lucy in The Sky with Diamonds  ma il mio computer è improvvisamente impazzito oggi ed è venuto fuori che invece di aggiungere un capitolo mi aveva cancellato l'intera storia. Sono davvero mortificata.
Tuttavia h o approfittato della situazione per fare alcuni cambiamenti che mi erano venuti in mente scrivendo i capitoli successivi, a partire dal titolo e dal nome della protagonista. (Ho cercato di renderli meno banali )
Ringrazio tutti quelli che hanno letto questa breve introduzione alla storia.


Inolre, preciso che alcuni eventi (per quanto io cerchi di mantenere la cronologia reale) sono stati modificati per adattarsi alle mie esigenze, e, per concludere, voglio aggiungere i soliti avvertimenti: i Beatles non mi appartengono ( perché se mi appartenessero di sicuro non sarei qui) è questa storia è stata scritta senza scopi di lucro.
 

Chiedo ancora scusa ( ci sono i sensi di colpa che mi stanno tormentando. )
 

Peace n Love





 

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Capitolo 2
*** 1. - A Day in the Life ***


A Day in the Life.
 



Un anno dopo potevo vantarmi di essere una delle poche ragazze che avevano conosciuto John Lennon senza cadere preda del suo fascino. Mi sarebbe piaciuto poter dire che dopo quella festa non lo vidi mai più, ma sarebbe mentire; tutti i giorni lui e i suoi amici più grandi venivano davanti alla mia scuola per guardare il culo delle liceali e per tentare di rendermi la vita un inferno.  Come se non bastasse il fatto che io ero l'emarginata più emarginata dell'intera Liverpool: fin da quando era bambina, infatti, le altre persone mi tenevano alla larga, i miei coetanei mi escludevano dai loro giochi e persino i professori sembravano preferire avere a che fare con me il meno possibile, come se potessi, in un momento di follia, replicare ciò che aveva fatto mia madre.                                                                                   


Mi svegliai con un grido . Ero sudata e ansimavo, come se avessi corso per ore. Tremando, mi alzai dal letto e mi diressi in bagno. Il pigiama mi soffocava, così mi spogliai e mi feci un bagno nell'acqua fredda, tentando di scrollarmi via quel sogno orribile. Respirai profondamente per calmarmi. Perché quell'incubo era tornato? Erano passati quasi dieci anni da quando mia madre era stata arrestata e  prima che incontrassi Lennon mi era capitato di rado di sognare in quel modo una volta superato lo shock dei primi tempi.   
Poi realizzai; era il primo maggio. Non erano quasi dieci anni che mia madre era in prigione, erano esattamente dieci anni.                                                                                                    
Sospirando uscii dalla vasca da bagno e mi avvolsi un asciugamano intorno al corpo e cominciai a prepararmi per andare a scuola. Ci misi parecchio per pettinarmi i capelli ingarbugliati, ma alla fine riuscii ad avere ragione dei nodi. Anche se la moda imponeva alle ragazze capelli che non superassero le spalle, io mi ero rifiutata di tagliare i miei capelli biondi, che ora arrivavano quasi  a metà schiena.              
 - Anna!- mi chiamò la voce di Elisabeth                                                                                                                                    
-Arrivo!- risposi, finendo di prepararmi velocemente. Scesi le scale quasi correndo e andai in cucina; lì c'erano le due persone  che mi avevano  adottata dieci anni prima. La mia madre adottiva mi guardò e mi sorrise.                                                                                                                                                                                   
-Buon compleanno, tesoro!- esclamò, entusiasta.                                                                                                               
- Questo è il nostro regalo per te, piccola!- aggiunse suo marito James, porgendomi un  pacchetto.                             
Io lo presi con un sorriso, ma non potei evitare di reprimere un moto di irritazione: da quando avevo incontrato Lennon, infatti, odiavo la parola "piccola"                                                                  
-Forza, aprilo!- mi incitò James.                                                                                                                                                                     
Strappai la carta colorata e mi trovai tra le mani un quadernetto rilegato in pelle. La copertina di cuoio aveva delle incisioni sul perimetro e  a lato c'era una chiusura con dei laccetti di pelle . Era la cosa più bella che avessi mai visto.                     
-Allora, ti piace?- chiese Elisabeth.                                                                                                                                         
 -E'... meraviglioso!- mormorai rigirandomi tra le mani il quaderno.                                                                                    
-Così non dovrai più scrivere su fogli volanti o sulle mani. - disse James ridendo.                                                           
-Grazie mille.- conclusi - Ora vado, se no arrivo tardi a scuola!-                                                                                     
Diedi ai miei genitori adottivi un bacio, poi uscii di casa. Lungo il tragitto, cercai di pensare soltanto al quaderno e a come l'avrei riempito di parole. Scrivere era la cosa che facevo più volentieri,ancora più del dipingere,  perché era un modo per liberare la mia anima dalle catene che la tenevano intrappolata alla realtà, dalla quale spesso era meglio fuggire. Arrivata a scuola con largo anticipo, sebbene avessi cercato di prendermela con comodo, così ne approfittai per inaugurare il nuovo quadernetto, ma  non riuscivo a concentrarmi e la penna che tenevo a pochi centimetri dalla pagina bianca tracciava delle parole immaginarie nell'aria. Mi morsi un labbro e spostati una ciocca di capelli dietro l'orecchio, come facevo sempre quando ero a disagio: non mi capitava spesso di non riuscire a scrivere.                          
"E' normale che la tua mente sia altrove" mi dissi"Oggi sarebbe strano il contrario."                                                                                                                                                                        
-Ehi, Mitchell.- mi chiamò una voce alle mie spalle. Soltanto una persona poteva usare quel tono di scherno.            
- Lennon. - sibilai mentre riponevo il quaderno ancora bianco.- come mai mi rivolgi la parola? Non hai nessuna che accetti di farsi toccare il culo da te?-                                                                       
Lui ghignò:- Purtroppo sono rimaste solo quelle che ti sei fatta tu; dovevo capirlo che sei lesbica, dal momento che non hai voluto saperne di me. -                                                                                
I suoi amici risero con lui. Io li guardai con disprezzo; erano tutti uguali: vestivano allo stesso modo, avevano lo stesso taglio di capelli, quello con l'imitazione (mal riuscita) del ciuffo di Elvis, e lo stesso atteggiamento da "le ragazze sono lì per aprire le gambe ogni volta che schiocco le dita"                                                          
-O forse sono semplicemente una con un cervello - replicai guardandolo di sbieco. - Ma tu non puoi capire la differenza, vero, Lennon? Più che con il cervello, ragioni con il tuo membro, ma fai male: è del tutto normale che i tuoi ragionamenti siano piuttosto limitati perché, fidati, l'ho visto  e posso assicurarti che è decisamente piccolo.-                                                                                                     
Senza aspettare una risposta, mi voltati e mentre gli amici di Lennon sghignazzavano entrai nel liceo.                                   

Mi trascinai per tutta la giornata da una lezione all'altra, senza che succedesse niente di eclatante. Mi sentivo un uccellino in gabbia, o meglio, un falchetto costretto a vivere come un passerotto, anche se la sua natura gli diceva di fare tutto il contrario. Quando suonò la campanella sospirai e uscii da quell'edificio. Non ne potevo più di sentire i professori parlare a sproposito sul fatto che in futuro avrei dovuto applicarmi di più o non ce l'avrei fatta e stronzate varie; ero del tutto insofferente alla scuola e ci andavo solo perché ero obbligata.              
Non mi fermai davanti al liceo, come invece facevano tante altre ragazze, né mi diressi subito a casa,  ma decisi di gironzolare per un po' per le strade di Liverpool, canticchiando tra me e me una canzoncina improvvisata che non aveva né capo né coda. Passai davanti a un negozio di strumenti musicali e mi fermai  a guardare le chitarre elettriche esposte in vetrina; mi immaginai come doveva essere suonare una di quelle, ma sapevo strimpellare solo qualche accordo per divertirmi e accompagnarmi mentre cantavo.                                    
Elisabeth mi aveva spesso ripetuto che il mio animo si volgeva ad ogni forma d'arte come un fiore cerca il sole. Fin da quando ero bambina infatti avevo trovato nell'arte un modo per sfuggire la realtà troppo difficile perché riuscissi a viverci dentro. Mi ero creata un mio mondo, nel quale nessuno poteva entrare per farmi del male.                                                                                                                       
Mi sedetti su una panchina lì vicino e presi il taccuino che quella mattina avevo cacciato nella cartella. Tirai fuori una penna e mordicchiandone in cappuccio cominciai  a scrivere pensieri a caso e alla fine mi ritrovai a fare delle considerazioni sulla follia.                                                                                                                                      
"Gli uomini sono così necessariamente pazzi, che il non essere pazzo equivarrebbe ad essere soggetto a un altro genere di pazzia." scrissi per concludere.                                                                         
" Mia cara Anna, ti ho beccata!"
pensai ridendo" Non vale fregare gli aforismi al povero Pascal!"   Scuotendo la testa riposi il quadernetto e mi incamminai verso casa.                                                     
-Sei tu Anna?- chiese Elisabeth dalla sala quando mi sentì chiudere la porta  e dopo che ebbi risposto affermativamente mi raggiunse. -Ti aspettavamo prima.-                                                              
-Lo so, scusatemi. Ho fatto un giro. - risposi subito. Non ero abituata al fatto che Elisabeth e James mi chiedessero quello che avevo fatto, perché non erano genitori iperprotettivi e capivano che adesso che ero cresciuta avevo bisogno dei miei spazi.                                                                                                                                              
-Non toglierti la giacca, tesoro.- disse James giungendo nell'ingresso - Spero che tu non abbia molti compiti per domani. Io scrollai le spalle, stupita e mi accorsi che entrambi i miei genitori adottivi erano pronti per uscire.                                                                                                                                                                                   
-Dobbiamo andare da qualche parte?- chiesi corrugando le sopracciglia. James ed Elisabeth sorrisero dolcemente:- C'è un'altra sorpresa per te. -


Qualche ora di treno dopo mi trovano in una stanza all'interno della Drake Hall di Yarnfield, seduta  in attesa. Elisabeth e James stavano aspettando fuori dall'edificio che ospitava il carcere femminile; non potevano neanche immaginare quanto fossi loro grata per avermi portato lì.  Al di là dello spesso vetro antiproiettile comparve Beatrice Mitchell , mia madre.
Non era molto diversa dall'ultima volta che l'avevo vista: i capelli biondi erano tagliati corti e gli occhi verdi erano simili a quelli di una cerbiatta. Dai suoi lineamenti era facile intuire che era nata in Italia.
Era bellissima, sebbene fosse dimagrita ancora; da bambina avevo spesso desiderato assomigliare un po' meno a mio padre e un po' di più a lei, della quale allora mi sembrava aver ereditato solo il colore dei capelli. Tuttavia crescendo mi ero accorta che ero praticamente identica a lei da giovane, se si escludevano gli occhi, che erano dello stesso azzurro intenso di quelli di mio padre.                                      
-Mamma...- mormorai. Erano tre anni che non la vedevo.                                                                                                        
 -Ciao, amore mio.- rispose lei sorridendo dolcemente. -Sei cresciuta tanto che per poco non ti avrei riconosciuta. Sei così bella, Anna. -                                                                                          
Deglutii; morivo dalla voglia di abbracciarla : erano anni che non mi lasciavo stringere dalle sue braccia. Tuttavia  mi limitai a sorridere a mia volta.                                                                                   
 -Auguri, tesoro.- riprese lei - Avrei voluto tanto regalarti qualcosa.-                                                                                 
Io scossi lievemente la testa. -E' così bello vederti, mamma.-                                                                                      
Ero conscia delle lacrime che stavano appannando i miei occhi . Permettermi di stare un po' con lei era il regalo più bello che i miei genitori adottivi avrebbero potuto farmi.                                              
-Mi ero ripromessa che per il tuo sedicesimo compleanno sarei stata fuori di qui.- disse mia madre con una nota di tristezza nella voce che non faticai a cogliere - Mi dispiace,piccola mia.-                     
Io scrollai le spalle:- Non importa. Sono così contenta...-                                                                                                            
-Anche io, Anna. - rispose - Avrei tanto voluto vederti diventare così bella.-                                                                                                                              
Una lacrima mi scivolò sulla guancia.                                                                                                                                   
-No, non piangere tesoro. Non abbiamo molto tempo e voglio vederti sorridere.-                                                                              
-Sei dimagrita ancora, mamma.- dissi per cambiare argomento.                                                                                        
Lei rise:- Fidati se ti dico che anche tu preferiresti il digiuno alla roba che ci rifilano qui! Dimmi piuttosto come stai tu: come va a scuola? James ed Elisabeth sono affettuosi? E non dirmi che non hai ancora un ragazzo perché non ci credo!-                                                                                                                                                                      
Cominciai a raccontarle tutto quello che mi era successo in quei tre anni. Le dissi ogni cosa, poiché non volevo avere dei segreti con mia mamma: non potevo privarla di quel poco che poteva sapere di sua figlia. L'unica cosa su cui sorvolai fu l'incontro con Lennon, perché l'avrebbe fatta stare male e avrebbe risvegliato, come era successo a me, ricordi dolorosi.                                                                      
-E così ho una figlia artista, eh?- rise mia madre quando le descrissi la mia passione per la scrittura, il disegno e la musica. - Lo sapevo : eri una tipetta estrosa già da bambina!-                                         
-Sì, mi ricordo.- replicai io con un sorriso - Una volta aprii  i barattoli di vernice che avevi preso per ridipingere la cucina e li usai per "dipingere"  un'intera parete di casa!-                                                      
-Dicesti che era troppo bianca e che il bianco era il colore degli ospedali e dei morti.-                                                                    
- Be', tutti hanno dei ricordi imbarazzanti di quando erano bambini.- replicai facendole una linguaccia scherzosa.                                                                                                                                         
In quel paio d'ore chiacchierammo ridendo, esattamente come se fosse tutto normale tra di noi; non ero mai stata arrabbiata con mia madre per quello che aveva fatto, né avevo paura di stare con lei: sapevo che aveva fatto quello che aveva fatto solamente per proteggermi e mi sentivo tremendamente in colpa per questo.                                                                                                                              
-Devo andare piccola.- mormorò mia mamma. Io annuii con gli occhi bassi.                                                                       
-Guardami, Anna. Non è stata colpa tua.- disse, intuendo i miei pensieri. - Passerei qui tutto il resto della mia vita se con ciò fossi  certa che tu saresti al sicuro.-                                                                
-Ti voglio bene, mamma.-                                                                                                                                                    
 -Ti amo, piccola mia. Salutami Elisabeth e James.-                                                                                                             
-Va bene. Ciao, mamma.-                                                                                                                                                       
-Ciao, amore.-                                                                                                                                                                          
Quando una delle guardie venne a prenderla, mia mamma si alzò e rivolgendomi un ultimo sorriso si voltò. La guardia mi fece un cenno del capo. Molti  lì a Drake Hall mi conoscevano, almeno di fama: io ero la bambina (solo in seguito ragazza) che continuava a voler bene alla madre che le aveva ucciso il padre.
Guardai mia mamma andare via, poi uscii dal carcere.

Appena fuori l'ingresso trovai James ed Elisabeth; entrambi mi sorrisero con dolcezza.                                                                                                                                    
-Grazie...- mormorai - grazie...-                                                                                                                                            
La mia madre adottiva mi abbracciò senza dire niente e James mi posò una mano sulla spalla. Respirai profondamente, fino a riuscire a ricacciare in dietro le lacrime, poi li presi entrambi per mano e con loro mi diressi di nuovo verso la stazione. Era ormai sera,e arrivammo in tempo per prendere un treno per Liverpool che stava partendo in quel momento, anche se ci mettemmo a correre per paura di perderlo.   
Le luci che illuminavano le città scorrevano al nostro fianco, sovrastate da una luna sempre fissa,che sembrava voler accompagnarci nel nostro viaggio verso Liverpool. Guardandola cominciai a canticchiare sottovoce Blue Moon di Elvis.

 Blue moon,
You saw me standing alone,
Without a dream in my heart,
Without a love of my own. 


Era assurdo da pensare, ma quella era stata la migliore "festa" di compleanno che avessi mai avuto. Con la coda dell'occhio vidi Elisabeth appoggiare la testa sulla spalla di James e socchiudere gli occhi. Sorrisi malinconicamente. Nelle difficoltà loro si sostenevano a vicenda, ma io mi sentivo sola; per quanto fossero affettuosi con me e io volessi loro bene, non riuscivano mai a capire del tutto i sentimenti che portavo dentro di me.
 
Blue moon,
You knew just what I was there for.
You heard me saying a pray for
Someone I really could care for.


-Canti davvero bene, tesoro.- mi disse James - Il signor Presley sarebbe orgoglioso del suo lavoro sentendolo cantare da te. -                                                                                                             
Scossi la testa, sorridendo; soltanto James poteva chiamare Elvis "signor Presley".                                                     
- Si certo, come no... Prima o dopo avermi denunciata per plagio?-                                                                 
Io e il mio padre adottivo ridemmo insieme, poi tornai a guardare fuori dal finestrino. Ero troppo stanca per tornare a cantare, così appoggiai la testa contro lo schienale e socchiusi gli occhi.               
Una volta giunti a Liverpool faticai a tenere gli occhi aperti durante il tragitto in autobus dalla stazione alla fermata più vicina a casa nostra .                                                                                                         Quando entrammo James ed Elisabeth si offrirono di prepararmi qualcosa da mangiare, ma io mi rifiutai. Ero talmente stanca che tutto ciò che desideravo era rifugiarmi nella mia stanza.
Mi buttai stancamente sul letto e affondai il viso nel cuscino, per fare in modo che i miei genitori adottivi non sentissero le lacrime che avevo trattenute tutto il giorno e che adesso erano esplose senza preavviso.                                                       
Nonostante io fossi soltanto una bambina quando mi era stata portata via, ero inspiegabilmente legata a mia mamma e ogni volta che la vedevo nascevano in me emozioni contrastanti.                                         Mi calmai solo a notte fonda, ma non riuscii comunque a prendere sonno. Scacciai le coperte usando esclusivamente i piedi, mentre aprivo la finestra posta sopra il letto. Il freddo sulla pelle mi fece rabbrividire, ma non mi coprii. Mi appoggiai alla parete ricoperta di pannelli di legno, con la testa sul davanzale della finestra, rivolta verso il cielo stellato. Respirai profondamente. Quando avevo bisogno di calmarmi, sapevo che l'unica cosa che funzionava davvero era andare all'aperto e respirare dell'aria fresca, poiché la mia più grande paura erano gli spazi chiusi e la sensazione di soffocare mi coglieva molto spesso.                                                                                                                     
Piano piano sentii gli occhi chiudersi e senza chiudere la finestra mi sdraiai, pregando di cadere in un sonno senza sogni.

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Ciao a tutti! Eccomi con il secondo capitolo ( anche questo era stato pubblicato in precedenza). Spero vi piaccia.
L'inizio della storia non ha molto a che fare con i Beatles, ma mi serve per introdurre la psicologia di Anna, che è decisamente complicata.
Ringrazio tutti i lettori.



Peace n Love

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Capitolo 3
*** 2. - Chains ***


Chains.



Non riuscivo a vedere niente, nemmeno le mie mani tese di fronte ai miei occhi. L'oscurità era totale intorno a me e perfino i suoni mi giungevano lontani, come se il buio li avesse inghiottiti. Riuscivo a sentire il pianto di un neonato.                                                                                                 
-Mostro!- udii dire ad una voce. Una risata riecheggiò nell'aria, una risata maligna e piena di disprezzo.                                                                                                                                                       Cominciai a percepire un dolore lancinante. Non sapevo dire da quale parte del corpo provenisse, forse ogni fibra del mio essere si stava contorcendo in preda agli spasmi.                                            
-Non ho fatto niente! - gridò una bambina. Di nuovo quella risata. Ghiacciava il sangue nelle vene.                     
Il dolore si fece più acuto, insopportabile. Urlai.                                                                                               
-Non farmi del male, ti prego.- disse un'altra voce, appartenente sempre a una bimba.                                             
Chiusi gli occhi. Non ce la facevo più. Non riuscivo a respirare: il buio mi opprimeva.                                        
-Non sai che cosa si nasconde nel buio finché qualcosa non illumina gli angoli più oscuri. Non è del buio che devi avere paura, ma della luce. E' lei a portare allo scoperto tutti gli orrori che non andrebbero rivelati. - una voce cominciò a recitare quelle parole come se fossero una litania.                                                                      
-Qualcuno mi aiuti!- gridai, ma mi accorsi che dalla mia bocca non usciva nessun suono. Riaprii gli occhi, spalancandoli nel vuoto che mi circondava. Ero terrorizzata.                                                             
-Non dire una parola, piccola mia. - disse un'ennesima voce. - Rimani qui e ricorda che è la luce a rivelare gli orrori che ci circondano quando siamo nell'ombra.- e cominciava con la litania.        
Cominciai a piangere dal terrore.                                                                                                                            
Intorno a me sentivo innumerevoli voci diverse; tutte recitavano le stesse parole, senza mai sovrapporsi l'una con l'altra, interrotte dal pianto di altrettanti bambini.                                                               Provai a muovermi, ma ero bloccata, come se quell'ombra riuscisse a tenermi bloccata. No, non era ombra, erano mani. Diverse paia di mani mi tenevano ancorata... ancorata a cosa? Non riuscivo a distinguere nulla. Non capivo cosa mi stesse succedendo. Le mani mi stringevano tanto che mi bloccavano la circolazione.                                                                                                                    
-Vi prego!- gemetti.                                                                                                                                                    
-Perché piangi, tesoro?- chiese una voce - sei forse spaventata? Che cosa temi, l'ombra?- e anche quella attaccava con la stessa litania ripetuta all'infinito. Una risata maschile spezzò il susseguirsi di quella sequenza di parole.                                                                                                                                              
Mi guardai intorno, ma riuscii a distinguere soltanto due occhi del colore del ghiaccio, freddi, maligni, spietati. Sembravano essere in grado di capire le mie paure e riprodurle in quella prigione di follia.    
 -Per favore!- piansi - Chi sei? Cosa vuoi da me? Perché mi fai questo?-                                                     
Udii di nuovo la risata maligna. -Perché? Non c'è un perché. Tu sei mia.-                                                                          
Vidi una mano protendersi verso di me, mentre la voce continuava a ripetere:- Tu sei mia.-



Mi svegliai tremando. Ero stata un'ingenua a pensare che sarei riuscita a dormire tranquillamente.
Mi alzai, sebbene faticassi a reggermi in piedi e il mio sguardo si posò sull'orologio a parete. Erano le tre del mattino.
Arrancai fuori dalla mia camera e mi appoggiai al muro del corridoio per arrivare fino al bagno. Lì accesi la luce e aprii il rubinetto sopra il lavandino. Respirando affannosamente mi bagnai i polsi, per cercare di rallentare il battito cardiaco, ma poi mi vidi allo specchio.                                                  
I capelli biondi erano sudati e appiccicati al volto pallido. I miei occhi erano irriconoscibili, come appannati, ed erano circondati da segni violacei, dello stesso colore delle labbra screpolate e tremolanti. Gemetti e riuscii ad inginocchiarmi di fianco al water prima di avere un conato di vomito.                                      
"Che cazzo ti succede?" pensai; mi sentivo soffocare e non riuscivo a calmare il respiro, così mi tolsi il pigiama e lo lanciai da qualche parte.                                                                                   
Non mi era mai capitato di stare così male per un sogno. Ero spaventata da quella reazione, perché sapevo inconsciamente che non significava niente di buono.                                                               
- Anna!- gridò Elisabeth aprendo la porta del bagno. Io spostai lo sguardo su di lei, ma non capivo quello che mi diceva. La mia vista cominciò ad annebbiarsi. Vidi  vagamente che Elisabeth si precipitava al mio fianco.                                                                                                                                      
-E' tornato...- sussurrai con gli occhi sbarrati - E' tornato per farmi di nuovo del male. -                                             
Elisabeth era terrorizzata quanto me da quello che avevo appena detto:- Chi, Anna? Nessuno vuole farti del male, qui. Sei a casa. -                                                                                                           
La guardai, poi persi i sensi.                                                                                                           
Riacquistai conoscenza pochi secondi dopo.  Sbattei le palpebre cercando invano di fare chiarezza nella mia mente. Ricordavo davvero poco di quello che era successo. Vidi al mio fianco sia Elisabeth che James e li chiamai entrambi.                                                                                                         
-Oh, cara!- esclamò Elisabeth.-Stai meglio? James stava per chiamare un'ambulanza!-                                  
 -No!- risposi, forse con troppa veemenza; l' ultima cosa che mi serviva era passare la notte in un ospedale. -Sto meglio, davvero.-                                                                                                
Cercai di sfoderare il mio sorriso più rassicurante e la mia madre adottiva annuì, sebbene sia lei che il marito fossero scettici.                                                                                                               
-Devo solo riposare un po' in pace. - aggiunsi, forse più per convincere me che loro.                                                                                                            
-Ti accompagno in camera?- si offrì Elisabeth.                                                                                                    
-Non ce n'è bisogno. Mi faccio una doccia, poi torno a dormire.- risposi recuperando i due pezzi del pigiama e coprendomi con essi, poiché solo in quel momento avevo dato peso al fatto di essere in biancheria intima davanti ai miei genitori adottivi.                                                                                                              
Aspettai che fossero usciti, poi feci un bagno e il tepore dell'acqua contribuì a riscaldarmi le ossa. Mi asciugai con calma, massaggiando la pelle con un asciugamano, sebbene questa fosse tornata al suo colore naturale. Mi rimisi il pigiama e sgattaiolai fuori dal bagno. Con la coda dell'occhio scorsi la mia figura riflessa nello specchio e con grande sollievo mi accorsi che, capelli bagnati a parte, era tornato tutto alla normalità.                                                                                                                              

Tornai in camera mia senza fare rumore, anche se la porta sbatté appena quando la richiusi alle mie spalle per via della finestra ancora spalancata. Nonostante ci fossero parecchie nuvole, la luna era ben visibile e illuminava con un fascio di luce chiara buona parte della stanza. Non ero abbastanza calma per stendermi a letto.
Senza accedere la luce, presi il quadernetto che mi era stato regalato per compleanno e  mi accomodati su una sedia in modo da essere illuminata completamente dalla luna. Accavallai le gambe, cominciando a dondolarle. Dei tanti pensieri che mi turbavano la mente, non riuscivo a intrappolarne neanche uno nella carta. Continuavo a scrivere parole e a tracciarci delle righe sopra per cancellarle. Socchiusi gli occhi e provi a non pensare a niente.                                                                                                               
"Non sai mai cosa si nasconde nel buio finché qualcosa non illumina gli angoli più oscuri. Non è del buio che devi avere paura, ma della luce. E' lei a portare allo scoperto tutti gli orrori." riportai le parole del sogno, interrogandomi sul loro significato." Finché sei nell'oscurità puoi fare finta che non esista niente di oscuro, ma quando giunge la luce sei obbligato a guardare in faccia gli orrori che cercavi di ignorare." scrissi lentamente.  Mi sfiorai con la punta delle dita la piccola cicatrice bianca sopra il sopracciglio sinistro, una delle tante cicatrici che mi sfiguravano il corpo da tempo immemore.
Cominciavo a capire che, al contrario di quanto avevo pensato fino ad allora, non mi ero liberata affatto delle catene che mi tenevano imprigionata al mio passato.              
Chiusi il taccuino dentro cui avevo infilato la penna e lo lanciai dall'altra parte della stanza, imprecando.                                                                                                                             
Mi alzai e rimisi la sedia a posto, vicino alla scrivania da un lato della stanza, sbuffando.                                  
Poco dopo, però sentii crescere il senso di colpa nei confronti del mio povero quadernetto, così cominciai a cercarlo al buio, sbattendo più volte contro una delle tante cose che riempivano la mia stanza.
Non si poteva certo dire che fossi una ragazza ordinata. La mia camera era una delle più grandi della casa e quella con più finestre, per far fronte al problema della claustrofobia, tuttavia a volte era difficile persino per me muovermi lì dentro. Il letto era posto sotto la finestra più grande, esattamente di fronte alla porta, mentre vicino alla parete destra c'era la scrivania sulla quale, quando ero dell'umore adatto, facevo i compiti. Il pavimento era cosparso dei cuscini su cui mi piaceva sedermi per pensare e scrivere. Dall'altro lato rispetto alla scrivania c'erano due cavalletti con sopra appoggiate due tele, una bianca, una completa a metà;  i cavalletti erano affiancati da due tavolini con sopra appoggiati i pennelli, i colori, disegni e schizzi incompiuti che non meritavano di essere appesi alle pareti. Accanto al letto,  c'era una piccola libreria piena di libri all'inverosimile, tanto che parecchi volumi non ci stavano ed erano impilati in equilibrio precario, con il rischio che mi crollassero addosso, mentre in un angolo avevo buttato una vecchia chitarra scassata, circondata da  spartiti e testi di canzoni che mi piaceva suonare. Quello era il problema della mia stanza: ovunque erano sparsi fogli volanti con annotazioni e appunti di idee da sviluppare, pennelli e tubetti di colore, che spesso venivano pestati ed esplodevano sul parquet di legno chiaro.                                                                              
-Povero libricino dei sogni...- mormorai quando trovai il quadernetto accarezzandone la copertina in cuoio - Tu non c'entri niente con i miei sbalzi d'umore. Stai tranquillo, non ti farò mai più del male.-    
Con delicatezza lo appoggiai sulla scrivania.                                                                                                      
Mi guardai intorno, con la testa reclinata da un lato, poi mi venne l'ispirazione e prese da un lampo di follia corsi ad aprire le tende delle due finestre della stanza rimaste chiuse e spalancai la finestra. La brezza della notte fece volare in giro qualche foglio. Mi tolsi il pigiama e lo buttai sul letto; rabbrividii al primo contatto con l'aria fresca, ma poi scoppiai a ridere. Mi portai le mani alla bocca quando realizzai che Elisabeth e James stavano probabilmente cercando di dormire e rimanendo lì mezza nuda con tre finestre spalancate capii che quella risata non era stata affatto spontanea e rabbrividii, ma non per il freddo.
"Sapevi già di avere qualcosa che non andava, tesoro mio" mi dissi, ma il tono del mio pensiero era molto meno ironico di quanto avessi programmato. " Okay, bella, al lavoro!"                          
Cercai di smorzare la tensione che mi aveva colto canticchiando una delle mie canzoni senza senso e mi avvicinai al cavalletto con la tela mezza fatta. Era un'accozzaglia di colori sgargianti messi in modo da sembrare messi a caso (che ragionamenti contorti che facevo allora); nella mia immaginazione, il disegno finito  essere un'immagine psichedelica senza senso, così che l'osservatore non riuscisse a distinguere i confini delle varie pennellate e dei colori stessi. Ma era ancora a metà. Così cominciai a stappare i tubetti e a intingervi i pennelli, perdendomi nel dipingere. Ero talmente soprappensiero che non mi accorsi che piano piano i colori che stavo usando stavano diventando sempre più cupi, finché arrivai ad usare quasi esclusivamente il nero e il grigio, con i quali cominciai a macchiare i colori brillanti che avevo usato in precedenza. Quando posai il pennello guardai la tela e trattenni un grido: ciò che c'era disegnato, ciò che io  avevo disegnato era simile a un enorme mostro d'ombra che inghiottiva la bellezza e l'allegria del precedente dipinto.                                                                                                                                               
Accesi la luce e cercai disperatamente un paio di forbici spargendo ulteriore caos nella mia già disordinata camera. Quando finalmente trovai ciò che cercavo mi precipitai davanti alla tela che avevo dipinto e cominciai a tagliarla. Praticai delle incisioni sempre più profonde, finché non l'ebbi ridotta a brandelli.
Gettai le forbici a terra, poi mi rifugiai nel letto, stringendo le gambe al petto e chiudendo gli occhi.                                                                                                                                                           

C'era qualcosa che non andava in me, qualcosa di grande.


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Ciao a tutti! Sono tornata con un nuovo entusiasmante capitolo grazie al quale probabilmente finirò in un ospedale psichiatrico.
Be', come vi avevo già anticipato, la psicologia di Anna è decisamente complicata, e questo breve capitolo ne è la prova. ( Siate clementi con questo pezzo partorito dalla mia mente malata: è stato scritto tra l'una e mezza e le quattro e mezza dell'altra notte!)
Ringrazio tutti quelli che stanno leggendo la mia ff e vi assicuro che nei prossimi capitoli si parlerà un po' di più anche di John & co.


Peace n Love 





 


 

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Capitolo 4
*** 3. - Act Naturally ***


Act Naturally.




Rimasi accoccolata a letto per tutto ciò che restava della notte, senza riuscire a chiudere occhio. Ero terrorizzata da quello che mi stava accadendo e un pensiero fisso continuava a tormentarmi.
E se quella che si era manifestata quella notte fosse stata la vera Anna? Se in realtà fossi una folle, e la ragazza che ero stata fino ad allora fosse stata solo una maschera, un fantoccio costruito dalla mia mente?
 "Ma ti ascolti quando pensi?" mi dissi "Verrai fuori da questa cosa una volta per tutte. Ti libererai dei tuoi demoni. Ce la farai, Anna. E' vero, la luce porta allo scoperto gli orrori, ma vederli è l'unico modo per sconfiggerli per sempre."                                                                                                                                               
Quasi l'avessi invocato, il sole si levò oltre l'orizzonte ed entrò nella stanza dalle finestre ancora aperte.                                                                                                                                                     
Sospirai e mi alzai dal letto, stiracchiando gli arti intorpiditi per la posizione scomoda che avevo assunto.
Mi vestii con calma, perché erano solo le sei e spesi molto tempo a pettinarmi i capelli, che non essendo stati asciugati erano diventati una massa informe di nodi.
Mentre passavo il pettine fra le ciocche bionde pensai a lungo e alla fine presi una decisione: quello che stavo attraversando era un periodo passeggero e l'avrei nascosto, in modo che nessuno se ne accorgesse fino a che l'avessi superato.                                                                                                                                                              
Forte di questa convinzione mi guardai lo specchio e sorrisi. Del volto livido della notte precedente non era rimasta alcuna traccia, anche se delle leggere occhiaie circondavano i miei occhi turchesi.     
Scesi le scale ed entrai in cucina, dove Elisabeth si stava fumando una sigaretta.                                                          
-Che ci fai in piedi a quest'ora?- mi chiese scrollando la sigaretta nel posacenere.                                              
-Non avevo sonno. - risposi semplicemente prendendo il pacco dei biscotti. Mi appoggiai a contro il mobile incassato nella parete e cominciai a mangiare direttamente dal pacco. Elisabeth di rivolse un'occhiataccia che voleva significare "si mangia seduti a tavola", ma alla fine si trovò a sorridere.                       
-Sono felice che tu stia meglio.- disse.                                                                                                                   
- Ma certo che sto meglio!- mentii spudoratamente - Avevi qualche dubbio? E poi è maggio, non si può essere tristi in questo momento dell'anno. -                                                                                
Non avevo mai mentito in un modo così sfacciato in tutta la mia vita, ma del resto dovevo rimanere fedele al mio proposito: allegria e gioia di vivere manifestate all'esterno , angoscia esistenziale da far invidia a Giacomo Leopardi chiusa dentro di me.                                                                                                                                                                          
Mi versai un bicchiere di latte e finii di consumare la colazione, quindi feci per salire di nuovo per finire di prepararmi, ma fui fermata prima ancora di raggiungere le scale.                                 
Suonò il campanello.                                                                                                                                      
"Chi può essere a quest'ora del mattino?" pensai.                                                                                          
- Anna, è per te!- mi chiamò James.                                                                                                                      
A quel punto capii di chi si trattasse: c'era una sola persona che potesse accettare di starmi vicino per più di qualche minuto.                                                                                                                                      
-Ciao, Cyn!- esclamai quando vidi la ragazza appena fuori dalla porta. - Avanti, entra.-                                         
-Ciao, Anna. Buongiorno signori Allen.- salutò lei educatamente mentre entrava.                                              
-Oh, Cynthia, quante volte ti abbiamo detto di chiamarci semplicemente Elisabeth e James?- disse la mia madre adottiva sorridendo. 
Io scambiai con lei uno sguardo d'intesa.                                                       
- Forza, andiamo di sopra.- le proposi, poi la presi per mano e insieme ci recammo in camera mia.    
Senza fare troppi complimenti Cynthia si sedette sui cuscini sul pavimento, ma dovette prima spostare alcuni fogli.                                                                                                                                               
-La tua camera è sempre un gran casino.- osservò, poi il suo sguardo si posò sulla tela a brandelli ancora appoggiata al cavalletto. - E quella povera tela che cosa ti ha fatto?-                                               
-Niente, non mi piaceva più.- risposi in fretta, poi mi lasciai cadere sui cuscini al suo fianco.
-Ma tu sei venuta qui per rompermi o cosa?-                                                                                      
Cynthia era la mia migliore amica, l'unica amica che avessi, in verità. Quando io abitavo ancora con i miei genitori biologici eravamo vicine di casa e sebbene lei avesse due anni in più rispetto a me, eravamo davvero molto legate; lei era stata l'unica persona che mi era rimasta accanto nel periodo più difficile della mia vita, dopo che mia madre era stata arrestata.                                                                          
-Ma no! - replicò lei sorridendo - Ieri ti ho cercata ovunque, ma non ti ho trovata da nessuna parte, quindi sono venuta a farti gli auguri tesoro!-                                                                             
Cominciò a frugare nella borsa e ne tirò fuori un pacchetto piuttosto spesso e grande, di una forma strana.                                                                                                                                                                    
-Dai, aprilo, che non abbiamo tutto questo tempo!-                                                                                                             
Scartai il pacchetto e con mia grande sorpresa mi accorsi che la carta ricopriva una tela non troppo grande, sulla quale erano stati appoggiati diversi tubetti di colori ad olio. Guardai Cyn incredula.          
-Non dovevi... insomma, chissà quanto ti sarà costato!- esclamai.                                                                      
 - Ehi, guardami- sbottò sorridendo - Non provare a sentirti in colpa, chiaro? Sedici anni non si compiono tutti i giorni!-                                                                                                                                 
-Grazie, Cyn!- gridai abbracciandola.                                                                                                                 
- Figurati, tesoro. Su, adesso alza il tuo bel culetto che ti accompagno a scuola.- mi disse, anche se alla fine fui io quella che si alzò per prima e che le porse la mano per aiutarla a mettersi in piedi.      
Salutai James ed Elisabeth e uscii di casa insieme a Cynthia.                                                                 
 Camminammo per un po' in silenzio.                                                                                                                    
 -Questa sera io e le altre andiamo al Cavern; vieni anche tu?- mi propose.                                                             
Io la guardai di sbieco.                                                                                                                                           
-Mi stai chiedendo sul serio di accompagnarti dentro un locale semi-buio, senza finestre, privo di condotti di areazione, affollato di gente che tenta di ballare nonostante sia talmente compressa che non riesce a respirare?-                                                                                                                                         
-Okay, come non detto. Ma non mi azzannare, per favore!- replicò lei alzando le mani.                      
Sorridendo continuammo a percorrere le strade di Liverpool in direzione del mio liceo.                                      
-Allora me lo dici?- chiese la mia amica dopo un po'.                                                                                        
-Dirti che?-                                                                                                                                                                 
-Che cosa hai fatto ieri che ti intrattenesse per tutto il pomeriggio.- spiegò, poi mi scrutò socchiudendo gli occhi, assumendo uno sguardo indagatore. -Non è che la piccola Anna ha cominciato a vedersi con qualcuno e non me l'ha detto?-                                                                                    
Io scoppiai a ridere :- No, assolutamente no!-                                                                                                    
-Ehi, non ci sarebbe niente di male, comunque.-                                                                                                                                                 
 Ritornai improvvisamente seria.                                                                                                                            
- James ed Elisabeth mi hanno portata a Drake Hall. - dissi tutto d'un fiato.                                                              
Cyn si fermò ed io la imitai; mi guardò per un momento, poi mi abbracciò stretta.                                                 
-Avresti dovuto dirmelo prima, tesoro...- mormorò.                                                                                             
- "Non provare a sentirti in colpa, chiaro?"- le risposi facendole in verso. Cyn mi diede una pacca sulla spalla, poi riprese a camminare.                                                                                                                
- E come è stato?-                                                                                                                                                
-E' stato meraviglioso: il più bel regalo che Elisabeth e James potessero farmi.- risposi - Non è cambiata tanto in questi anni. E' solo molto più magra di quanto la ricordassi. Abbiamo parlato di tutto quello che mi è successo in questi tre anni in cui non ci siamo viste. E sì, Cyn, abbiamo parlato anche di te. - anticipai la domanda che sembrava essere intenzionata a farmi - Tu soffri di serie manie di protagonismo! -Eravamo ormai quasi giunte davanti alla mia scuola, tanto che  riuscivo a vederlo in lontananza.                      
-Ovviamente, ho evitato di parlarle di quel bastardo di Lennon. - sibilai; con la coda dell'occhio vidi Cynthia improvvisamente a disagio.
La mia amica tamburellava con le dita contro la coscia e continuava a spostare lo sguardo.                                                                                                                          
- Cyn, va tutto bene? -                                                                                                                                         
-Sì - mi rispose lei - però ti devo dire una cosa...-                                                                                             
-E allora parla,mi stai cominciando a preoccupare.-                                                                                            
-E' da un po' che io e John usciamo insieme e, be', ieri abbiamo deciso di metterci insieme .-                                             
Questa volta fui io a fermarmi bruscamente in mezzo alla strada e a guardarla.                                                      
- Tu e John vi frequentate? Tu e John Lennon?- non ci riuscivo a credere.                                                         
-Sì, io e John Lennon.- replicò lei.                                                                                                                       
-Quel John Lennon?-                                                                                                                                             
-Perché, ne conosci forse degli altri?- ribatté lei; cominciava ad irritarsi.                                                                                                  
-Mi spieghi come hai fatto a metterti con lui?-                                                                                                  
Cyn si addolcì un po' :- Non è così male se lo conosci meglio, anzi, non lo è affatto.-                                                
La guardai incredula: non poteva aver accettato di frequentare Lennon, non sul serio.                                       
-Ma è uno stronzo! - esclamai.                                                                                                                          
-Cristo, Anna! E' stata una mia decisione: era quello che io volevo! Perché non riesci ad essere felice per me? Per una volta potresti riuscire a pensare a qualcuno all'infuori di te stessa?!-                     
Cyn riprese a camminare velocemente e con mia grande sorpresa continuò nella direzione del liceo. Io la seguii, ma non provai a calmarla. Forse avevo sbagliato il modo di pormi nei suoi confronti, ma lei non poteva davvero aspettarsi che io fossi felice perché si era messa insieme con quel bastardo di Lennon!                                                                                                                                                 
Quando giungemmo davanti alla scuola Cyn mi lasciò nel mio solito angolino in disparte senza dire una parola e sì allontanò. La seguii con lo sguardo e compresi perché mi aveva, nonostante tutto, accompagnata al liceo.
Cynthia si avvicinò al gruppo di Lennon e dei suoi, che come  sempre stavano appostati vicino al cancello per ammirare la sfilata delle liceali che entravano nell'edificio.
Quando la vide, Lennon scese dal muretto su cui era seduto e le cinse i fianchi, attirandola verso di sé. Disse a Cyn qualcosa che non riuscii a comprendere, e contemporaneamente incrociò il mio sguardo. Mi guardò a lungo, con un la stessa aria arrogante che vedevo nei suoi occhi tutti i santi giorni, poi si chinò sulla mia amica e la baciò in modo decisamente poco romantico.                                          
Io scossi la testa ed entrai nel liceo.         

"Il suo animo era dilaniato dalla rabbia. Voleva urlare.                                                                                                 
Mai in vita sua si era sentita in quel modo.                                                                                                           
In preda all'ira entrò nella stanza sbattendo la porta, ma anche lì non riusciva a trovare pace.                                  
Cominciò a camminare su e giù per la stanza, tentando invano di reprimersi.                                                 
Gridò e in uno scatto d'ira rovesciò la sedia.                                                                                                         
Lo odiava, lo odiava con tutte le sue forze. E odiava pure sé stessa perché provava quel sentimento così poco nobile.                                                                                                                                                  Era a dir poco frustrata.                                                                                                                                  
Prese i fogli sparsi sulla scrivania, li strappò in due  li gettò via.                                                                
Imprecò a voce alta. Non era mai stata tanto arrabbiata in vita sua.                                                                                          
Si avvicinò al muro e staccò la cornice che conteneva il disegno che le aveva fatto, poi la scaraventò dall'altra parte della stanza. Il vetro andò in pezzi vicino al letto.                                                           
Si appoggiò al muro, gridando una seconda volta.                                                                                                  
Tirò un pugno contro la parete con tutta la forza che aveva. Colpì ripetutamente il muro, anche se cominciava a sentire dolore alla mano.
Si stava scorticando, ma poco importava: il dolore fisico era niente paragonato a quello che sentiva dentro. Si sentiva tradita dalla persona sulla quale faceva più affidamento."  Scrissi in fretta e furia sul mio quadernetto mentre il professore spiegava qualcosa di fisica che in quel momento non mi sembrava abbastanza importante perché io lo ascoltassi.
Ero infuriata. Cyn si era messa con John Lennon, con il bastardo la cui unica ragione di vita  era cercare di portarsi a letto più ragazze possibili.                                                                               
 Quando fermai la penna mi sentivo spossata come se fossi stata io quella che stava distruggendo una stanza. Dopo quello sfogo, tuttavia, la rabbia passò, velocemente come era giunta.                                      

" Si fermò ansimando in mezzo alla stanza, massaggiandosi la mano dolorante. Si morse un labbro mentre il suo sguardo cadeva sul mucchio di fogli stracciati. Si portò una mano alla bocca, spalancando gli occhi: che cosa era arrivata a fare? Quelle erano lettere cui teneva tantissimo. Ma ora, in uno scatto di follia, le aveva stracciate. E per cosa poi?"                                                                                          

-Signorina Mitchell, cosa sta facendo?- mi richiamò il professore.                                                                     
-Sto prendendo appunti, signore.- risposi, evitando abilmente la trappola in cui il professore aveva tentato di farmi cadere; molti dei miei compagni,infatti, richiamati in quel modo dall'uomo che ci insegnava le materie scientifiche rispondevano "niente,signore" e lui cominciava con una predica che non finiva più ( e che io puntualmente non ascoltavo) che finiva sempre con un castigo.                
Mentalmente pregai che non venisse a controllare quello che realmente stessi facendo, ma dopo qualche attimo di indecisione, il professore mi guardò scettico, quindi ritornò alla sua lezione.             
Decisi che per il momento era meglio riporre il quadernetto e cominciai a scarabocchiare il margine del libro di fisica. I miei disegnini diventarono ben presto degli schizzi attraverso i quali cercavo di farmi venire un'idea su come riempire la piccola tela regalatami da Cynthia.                                                             
Ora che la mia mente era più calma e avevo sopito la rabbia e lo sconcerto, mi rendevo conto che mi ero comportata da stupida. Era vero: la mia migliore amica stava uscendo con la persona che meno sopportavo sulla faccia della terra, ma era stata una sua scelta e Cyn era abbastanza grande per sapere quello che voleva. Lennon non la meritava, ma se lei era felice insieme a lui, avrei potuto mettermi in mezzo? Forse Cynthia aveva ragione ed ero davvero un egoista.                                                
Fermai la matita che percorreva come una pazza il bordo del libro e guardai gli schizzi. Avevo disegnato qualche ritratto di persone immaginarie, alcune nature morte e due o tre paesaggi, ma nessuno riusciva a convincermi; i miei occhi si posarono infine su un piccolo ritratto fatto in fondo alla pagina, che raffigurava il volto di una bambina che mi guardava sorridendo.                                              
Sorrisi a mia volta: sì, da quell'immagine avrei potuto sviluppare il soggetto da disegnare sulla tela di Cyn.                                                                                                                                                          

Quando l'ultima lezione terminò uscii di corsa dall'aula. Fuori dalla scuola, per mia fortuna, non vidi né Lennon né i suoi amici. Ero molto più calma rispetto alla mattina e mi ritrovai persino a sorridere pensando al disegno con cui avrei riempito la piccola tela bianca.
Ero eccitata all'idea di iniziare quel nuovo progetto e speravo che portasse ad un risultato più felice rispetto all'ultima tela che avevo tentato di ultimare. Invece di percorrere a piedi, come il mio solito, il tragitto sino a casa, presi l'autobus che mi avrebbe portata fino a Forthlin Road in molto meno tempo.                                                
Non amavo gli autobus: tutta quella gente che si accalcava e l'odore della polvere, tangibile nell'aria, mi facevano venire la claustrofobia, tuttavia non volevo perdere tempo e quello era il modo più veloce per arrivare a casa.                                                                                                                   
Quando salii sul mezzo, l'unico posto che trovai era esattamente al centro dell'autobus e non era nemmeno vicino al finestrino.                                                                                                     
"Perfetto!" pensai con sarcasmo. Fui tentata dall'idea di scendere e farmela a piedi, ma prima che potessi tornare sui miei passi l'autobus partì.
Mi sedetti sul sedile, cercando di rimanere sul bordo. Era una posizione scomodissima, ma era l'unico modo per non stare male del tutto.                                            
Non guardai chi fosse seduto al mio fianco, perché non mi interessava, anche se un paio di volte percepii il suo sguardo su di me.                                                                                                                    Tamburellai le dita sul sedile, con impazienza: non vedevo l'ora di scendere, tuttavia sapevo che dovevo ancora superare il momento peggiore.                                                                                                            L'autobus si fermò, anche se il motore non si spense e la maggior parte delle persone che erano sedute si alzarono in piedi nello stesso momento, coprendo i finestrini e rendendo lo spazio già all'interno dell'autobus ancora più angusto.                                                                                                         
L'aria divenne irrespirabile. Chiusi gli occhi, cercando di immaginarmi all'aria aperta.                                   
-Ti senti bene?- mi chiese  la voce del ragazzo seduto al mio fianco.                                                                 
- Certo che sto bene.- ringhiai senza neanche guardarlo. Persino più degli spazi chiusi mi dava fastidio l'ammettere di avere delle debolezze.                                                                                    
Mi alzai e sebbene mi sentissi svenire feci finta di essere a mio agio e scesi dall'autobus insieme a tanti altri ragazzi.                                                                                                                                    

Appena fui fuori respirai profondamente e mi sentii meglio. Cominciai a farmi venire dei sensi di colpa nei confronti di quel ragazzo che era stato gentile con me e che io non avevo nemmeno avuto il coraggio di guardare in faccia.         


____________________________________________________________________________
 Ciao! Eccomi tornata con un nuovo capitolo, spero lo troviate leggibile. E' più che altro un capitolo di passaggio che mi serve per introdurre pian piano tutti i personaggi ( mi sembrerebbe assurdo farli comparire tutti in una volta), come il "misterioso", gentile ragazzo sull'autobus per Forthlin Road (ma chissà chi sarà mai!)
Ringrazio tutti quelli che stanno seguendo e leggendo la storia, che pian piano sta crescendo, e in particolare Jane across the universe e Lonely Heart, che l'hanno recensita.
Purtroppo, per il prossimo capitolo dovrete aspettard un po' di più, perché parto per una breve vacanza, ma vi assicuro che non appena tornerò ricomincerò a scrivere.



Peace n Love


                                                                                                                                                  
 

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Capitolo 5
*** 4. - I don't want to spoil the Party ***


I don't want to spoil the Party.
 



" Tanto non lo vedrai mai più." mi dissi, mentre il mio pensiero correva un'ultima volta al ragazzo dell'autobus. Non mi voltai per vedere se era sceso così da potermi scusare con lui, perché non sarei stata in grado di riconoscerlo.                                                                                                                    
 Quindi mi voltai e mi diressi finalmente a casa.                                                                                        

- Ciao, sono tornata!- salutai i miei genitori adottivi mentre richiudevo la porta alle mie spalle.                 
-E' andata bene oggi a scuola?- mi chiese Elisabeth dal salotto.                                                                           
La raggiunsi e le baciai la guancia:- Certo. Se mi cerchi sono di sopra, ok?-                                                                   
La mia madre adottiva annuì, forse sorpresa di vedermi così espansiva.                                                                    
-Ti chiamo quando è pronta la cena. - disse, ma io la udii appena, perché stavo già dirigendomi verso le scale, che salii praticamente di corsa.                                                                                        
Così come avevo fatto la notte precedente aprii le tre grandi finestre della mia stanza per far entrare la luce del sole. Gettai un'ultima occhiata alla tela ridotta a brandelli, poi la presi e la gettai in un angolo, sostituendola immediatamente con quella che la mattina avevo lasciato, insieme ai colori ad olio, sui cuscini sparsi sul pavimento.
Cominciai a frugare tra gli schizzi lasciati sui tavolini posti di fianco ai cavalletti alla ricerca di una matita dalla punta morbida adatta a disegnare lo schizzo direttamente sulla tela.
Anche se la mia idea di partenza era quella di raffigurare una bambina, avevo deciso che avrei lasciato vagare la mia fantasia, permettendole di tirar fuori qualsiasi cosa da poter disegnare e ben presto mi accorsi che stavo schizzando due figure, quella della bambina e l'altra di una persona più grande, forse adulta.                                                                                                                                                     
Finii il disegno appena prima che Elisabeth mi chiamasse per cena. 
Scesi le scale con più calma rispetto a quando le avevo salite, e il mio pensiero corse di nuovo al litigio con Cyn.                                           
Dentro di me pregai di non aver rovinato la nostra amicizia. Sapevo perfettamente che lei non si sarebbe venuta a scusare per prima (anche perché ero io quella ad avere torto) e cominciai a pensare ad un modo per rimediare al mio errore.
Mi sedetti a tavola insieme ai miei genitori adottivi, i quali cominciarono come al solito a chiacchierare, anche se si dovevano essere ormai accorti che ero più silenziosa del normale. Stavo cercando il coraggio di fare loro quella dannata domanda che mi girava nel cervello e mi tormentava.                                                                                                                        
- Per voi va bene se questa sera faccio un salto al Cavern? - chiesi sfruttando un momento di silenzio.
Sia Elisabeth che James mi guardarono straniti: del resto era la seconda volta in tutta la mia vita che chiedevo loro il permesso di uscire.                                                                                                 
- Vai da sola?- domandò James riprendendo a mangiare.                                                                                                                                                        
-No- risposi - Devo incontrarmi con Cyn. Lei mi aspetta là. -                                                                                  
- Be', mia cara, hai sedici anni ed è ora che tu ti decida a goderti un po' la vita!- osservò il mio padre adottivo, come se quella fosse la cosa più naturale che potesse dire.                                                      
- Io ti chiedo di andare in un locale e tu invece di giurare di segregarmi in casa mi dici che era ora?-                         
-Tesoro, il fatto che tu non uscissi mai cominciava un po' a preoccuparci, in realtà.- replicò Elisabeth.  Li guardai entrambi prima di scoppiare a ridere.                                                                               
- Be', grazie mille allora!- conclusi tra le risa.                                                                                                         
-Su,su, va' a prepararti: non vorrai fare aspettare Cyn, vero?- mi liquidò James sorridendo a sua volta.                                                                                                                                                               
Scrollai le spalle, quindi  portai il mio piatto fino al lavandino e poi salii nuovamente in camera mia. 
In realtà, per quello che mi interessava, avrei potuto benissimo presentarmi al Cavern indossando i jeans vecchi e  macchiati in modo indelebile di vernice che indossavo quando dipingevo, tuttavia, dal momento che mi sarei recata nel locale solo per far pace con Cyn, pensai che fosse meglio cambiarmi per cercare di non metterla troppo in imbarazzo.                                                                                     
Per raggiungere l'armadio dovetti aprirmi la strada spostando un cavalletto e parecchi fogli che intralciavano il mio cammino, ma alla fine riuscii nell'impresa.                                                              
Non avevo molti abiti che potessero andare bene per uscire la sera e non avevo la più pallida idea di quello che avrei dovuto indossare in quell'occasione. Alla fine scelsi uno dei tre abiti piegati alla rinfusa in fondo all'armadio. Era lungo sino al ginocchio, di colore verde foresta. Era molto semplice, ma elegante.
Raccolsi i capelli biondi in una treccia laterale e mi truccai il viso il minimo indispensabile: odiavo impiastricciarmi il volto con tutta quella roba!                                                                      
Quando fui pronta erano quasi le nove e mi accorsi di essere in ritardo;  Cyn era di sicuro già al Cavern e ogni possibilità di incontrarla senza dover entrare nel locale era sfumata.                                    Correndo andai alla ricerca di un paio di scarpe basse che stessero bene con il vestito che indossavo.                                                                
Scesi le scale come una furia e afferrai la giacca appesa all'ingresso, infilandomela in fretta.                             
- Sei bellissima, tesoro.- disse Elisabeth appoggiandosi allo stipite della porta che collegava l'entrata alla cucina.                                                                                                                                         
-Grazie, Elisabeth. Scusami, ma devo andare: sono davvero in ritardo!- risposi. Odiavo i ritardi, soprattutto i miei; era per questo motivo che qualche volta ero arrivata addirittura a presentarmi di fronte al cancello della scuola con un'ora d'anticipo.                                                                                                                                   
A passo svelto raggiunsi la fermata per prendere l'autobus che mi avrebbe portata al Cavern. Salendo sul mezzo mi accorsi con sollievo che era semivuoto, quindi presi posto in uno dei sedili più vicini all'uscita.

Mathew Street era affollata e la maggior parte della gente gremiva l'ingresso del Cavern.                                  
Del resto che mi aspettavo? Era sabato sera e gran parte della gioventù di Liverpool si era recata nel locale ubicato al numero dieci di quella via.                                                                             
Sebbene fossi perfettamente a conoscenza della popolarità del Cavern, a fatica trattenni un gemito quando vidi la massa delle persone di fronte all'entrata del locale.                                                  
Cercai di farmi coraggio: ero lì per Cyn e non me ne sarei andata finché non avessi chiarito con lei.                              
Scrutai la fila di persone alla ricerca del volto familiare della mia amica, ma non la vidi , così mi infilai nella colonna e riuscii a entrare nel Cavern in poco tempo.                                                   
Quando scesi nello scantinato ebbi un tuffo al cuore.                                                                                      
Tre corsie, separate da due file di archi, procedevano sino a punto in cui si apriva il palco.                      
L'ambiente era immerso nel buio , poiché le uniche luci che c'erano erano quelle poste ad illuminare il gruppo che in quel momento stava suonando.                                                                                 
In quella penombra sinistra non si faticava a vedere il fumo delle sigarette levarsi dalla folla di persone dai contorni non ben identificabili che affollavano il locale.                                                                 
Non sarei mai riuscita a trovare Cyn lì dentro, senza contare il problema della claustrofobia.                                
Era la prima volta che entravo in quel locale, e volevo già andarmene a gambe levate. Mi sentivo in trappola lì dentro. L'aria era viziata dal fumo e dal sudore dei ragazzi.                            
Continuavo a spostare lo sguardo da una persona all'altra, pregando di riuscire, prima o poi, a scorgere il viso di Cynthia.                                                                                                                             
Guardai una figura e nella penombra riuscii a riconoscerne i tratti.                                            
"Merda!" pensai mordendomi il labbro "Ci mancava solo lui!"                                                                                                    
Lo sguardo di Lennon si alzò e incrociò per un secondo il mio. Mi voltai immediatamente, sperando nella remota possibilità che non mi avesse riconosciuta.                                                           
- Ehi, Mitchell. -                                                                                                                                              
Come non detto.                                                                                                                                                          
Lennon si avvicinò lentamente, ostacolato dalla folla. Cercai disperatamente un modo per sfuggirlo, ma un gruppo di ragazzi mi bloccava il passaggio.                                                                
Mi voltai: se non potevo evitarlo, avrei fatto in modo di dimostrargli che non avevo timore di affrontarlo.                                                                                                                                                   
Lennon mi raggiunse e mi strinse il mento, sorridendo con cattiveria.                                                              
-Che cosa ci fa qui la mia lesbica preferita?- disse, senza curarsi del fatto che altra gente avrebbe potuto sentirlo, ma per fortuna il volume della musica era talmente alto che persino io faticai a sentirlo.           
- Vattene, Lennon. Non ho voglia di stare a sentire le tue cazzate.- ribattei.                                                      
-Altrimenti?- chiese lui sfidandomi con lo sguardo.- Ah, già, di te dovrei avere paura: potresti chiedere a quella pazza assassina di tua madre che, una volta fuori, venga a vendicarsi al posto tuo, no?-     
Strinsi i pugni e serrai la mascella. Diedi fondo a tutte le mie riserve di calma, pazienza e sopportazione per ignorare quel commento.                                                                                                            
- Vaffanculo, Lennon.- dissi infine, poi mi voltai e mi infilai tra la folla. La soddisfazione di essere riuscita ad avere l'ultima parola e il desiderio, o meglio, la necessità di allontanarmi da quello stronzo mi fecero scordare per un secondo la mia avversione nei confronti dei luoghi chiusi, scuri e affollati.                                                                                                                                                               
Fu in quel modo che mi ritrovai schiacciata in mezzo a un gruppo di persone che accennavano a ballare seguendo il ritmo della canzone che stava venendo suonata.                                                                  Faticavo a respirare e mi girava la testa.                                                                                                                 
"Mi congratulo per la bella trovata, signorina Mitchell!" mi disse una vocina nella mia testa con un tono odioso "Aspettare a domani pomeriggio no, eh?"                                                                                    
-Oh, ma sta' zitta.- dissi a voce troppo bassa perché qualcuno potesse sentirmi.                                                                  
- Anna?- mi chiamò una voce familiare alle mie spalle. Mi voltai immediatamente e mi ritrovai il viso contornato di capelli biondo platino di Cynthia.                                                                                         Nella mia mente ringraziai tutti gli dei della mitologia greca e pure di quella nordica, già che c'ero.                 
Deglutii mentre cercavo di respirare più ossigeno che potevo in quell'aria viziata.                                                 
Aprii le labbra per parlarle, ma alla fine mi ritrovai a boccheggiare.                                                                   
- Ti porto fuori- disse lei con semplicità. Mi prese per mano e cominciò ad aprirsi la strada sgomitando fra la folla. Una volta che fummo in Mathew Street mi sedetti sul marciapiede e Cyn si accomodò al mio fianco.                                                                                                                                          
- Mi spieghi perché sei venuta?- esclamò lei alzando la voce  -Stavi sperimentando una nuova tecnica di suicidio, forse?-                                                                                                                                       Sorrisi, ma non tanto per la sua affermazione, quanto per il fatto che dal suo tono traspariva preoccupazione, non rabbia nei miei confronti.                                                                                                
- Sono venuta per scusarmi- risposi a bassa voce. - Il mio comportamento di questa mattina è stato così... stupido.-                                                                                                                                                  Non riuscivo a trovare un altro aggettivo che potesse descrivere il modo in cui mi ero comportata.                                
- Hai ragione a dire che sono un egoista: in tutti questi anni non ho fatto che pensare ai miei problemi, a come riuscire a venirne fuori, per trovare un po' di felicità.-                                                 
Cyn mi abbracciò. - Tesoro, tu sei la persona meno egoista sulla faccia della terra!- replicò - E lo dimostra il fatto che per venire a chiedermi scusa sei entrata in uno dei locali più claustrofobici di Liverpool, quando sai benissimo che la tua più grande paura sono gli spazi chiusi e bui!-                                                 
-Quindi mi perdoni?- chiesi.                                                                                                                                    
Lei mi sorrise:- L'avevo già fatto: anche io ho esagerato questa mattina.-                                                                       
- Mi dispiace averti trascinata fuori dal Cavern.-                                                                                             
Cyn rise:- Quando ti fai venire i sensi di colpa per motivi inesistenti mi dai sui nervi!-                                                 
Io mi alzai dal marciapiede, scuotendo appena la gonna dell'abito :- Bene, ora che ti ho chiesto scusa non ho più alcun motivo per tornare in quel buco, quindi vado a casa. -                                              
-Ti accompagno.- si offrì Cynthia.                                                                                                                          
- Ma ti ho già sottratto abbastanza tempo, per questa sera e non vorrei mandare a monte i tuoi piani per la serata!-                                                                                                                                    
Cyn mi guardò di sbieco:- Mi costringi a insistere.-                                                                                       
Scrollai le spalle, fingendo un'espressione rassegnata. La mia amica rise, poi mi prese sottobraccio.                  
-Ehi, Cyn, dove vai?- ci bloccò la voce di Lennon.                                                                                                    
Cynthia e io ci voltammo e lei lasciò il mio braccio. Lennon le si avvicinò, le strinse delicatamente il mento e avvicinò il suo volto a quello della ragazza.                                                                                         - Non vorrai lasciarmi da solo così presto, vero, amore?- La baciò con passione.                                              
Abbassai lo sguardo, punta sul vivo dal  comportamento di Lennon; voleva forse dimostrarmi la sua superiorità esibendo la mia unica amica come un trofeo davanti ai miei occhi?                                     
-Ho promesso ad Anna che l'avrei accompagnata a casa. - mormorò Cyn quando Lennon si staccò da lei.
Lui rise:- La ragazzina non riesce a trovare la strada di casa da sola?-                                                                                               
Io ignorai la sua frecciatina e mi rivolsi a Cynthia, che mi guardava mortificata.                                                 
- Non ti preoccupare, Cyn. Vado a casa da sola, tu resta pure qui. -                                                                      
- Ne sei sicura?- mi chiese incerta.                                                                                                                       
Io annuii sorridendole:- Non ti preoccupare. Divertiti.-                                                                                             
Non aggiunsi nient'altro nei riguardi di Lennon e salutai la mia amica come se lui non fosse esistito e mi allontanai.                                                                                                                           

Presi un autobus, perché la distanza fra il Cavern e casa mia era troppo grande da percorrere a piedi, soprattutto di sera, ma anche questo, per fortuna, era quasi vuoto.                                                                   Approfittai del tragitto per cercare di far sbollire la rabbia, ma mi riusciva estremamente difficile.                 
Mi lasciai cadere su un sedile, sbuffando.                                                                                                                
Era la terza volta in una stessa giornata che prendevo un autobus e cominciavo a sentirmi davvero male. Appoggiai la testa contro il finestrino e socchiusi gli occhi, cercando di darmi una calmata.         
Ero tesa come la corda di un violino.                                                                                                                                           
 Lennon era riuscito a farmi incazzare di nuovo, e sicuramente era proprio questo che voleva: costringermi al limite della sopportazione e spingermi a fare qualcosa di stupido.                                                   Tirai un pugno al sedile vuoto che avevo davanti. Avrei voluto gridare e sfogare la rabbia che avevo dentro, ma avevo deciso di reprimermi, e così avrei fatto sino in fondo.  Forse era una cosa stupida, ma, se non altro, non si poteva dire che io non fossi coerente.                          
L'autobus si fermò alla fermata di Forthlin Road e scesi letteralmente di corsa, attirando su di me lo sguardo accigliato dell'autista.                                                                                                                         Fuori la temperatura era mite, così decisi di percorrere la poca strada dalla fermata a casa in tutta tranquillità, così da restare da sola con i miei pensieri.                                                                    
Sospirai. Ero stremata; mai nella mia vita mi ero ritrovata in una situazione nella quale fosse necessario nascondere in un modo così assoluto quello che sentivo veramente. Non avevo neanche mai detto una menzogna prima di allora!                                                                                                            
Cercai di convincermi che reprimere i sentimenti violenti e l'orrore che celavo nell'anima e che affioravano soprattutto di notte fosse la cosa giusta da fare.                                                               
Quando entrai in casa, vi trovai un insolito silenzio.                                                                                                
Mi recai subito in salotto, dove trovai James seduto in poltrona a leggere un libro.                                                  
- Elisabeth era stanca ed è già andata a dormire.- disse anticipando la mia domanda. Alzò gli occhi dal libro e mi guardò da sotto gli occhiali rotondi che indossava per leggere. - Già di ritorno?-        
Scrollai le spalle :- Dovresti esserne felice, no? E comunque sono andata là solo per parlare con Cyn.-                                                                                                                                                                    
 -E avete parlato?- 
Annuii lentamente, poi dissi al mio padre adottivo che sarei andata in camera mia. La prima cosa che feci fu togliermi quell'abito scomodo e sciogliermi i capelli.                                                 
Mi infilai il pigiama quindi accesi la lampada appoggiata sulla scrivania. Mi sedetti e aprii il taccuino di pelle.                                                                                                                                                          

" Era il sassolino che provoca una frana.                                                                                                               
Perse il controllo sulle sue emozioni e sulle sue azioni.                                                                                 
Serrò il pugno e alzò il braccio, ma chiuse gli occhi appena prima che la propria mano colpisse la guancia del ragazzo.                                                                                                                               
Lei non amava la violenza, non l'aveva mai fatto.                                                                                                
Ma quella volta lui se l'era meritato. Aveva fatto di tutto, quasi desiderasse che lei lo colpisse."                         

Lasciai cadere la penna con un sospiro. Non avevo idea di chi fosse quella "lei" di cui scrivevo, ma attraverso le sue azioni sfogavo le mie emozioni.
Sapevo che non sarei durata a lungo, altrimenti: se già dopo un solo giorno mi sentivo così stanca, non sarebbe passato molto tempo prima che esplodessi; mi accorsi di aver creato una valvola di sfogo per tutti i sentimenti che avevo deciso di nascondere.                                                                                                                                             
Chiusi il quadernetto e mi alzai dalla sedia.
Mi ricordai del disegno che avevo iniziato, così mi avvicinai al cavalletto sul quale era appoggiata alla tela e lo guardai attentamente, dal momento che nel pomeriggio non avevo avuto il tempo materiale per rivederlo. 
Avevo disegnato un primo piano di due figure femminili, completamente diverse tra loro: una madre con in braccio la figlia. La donna aveva la fronte appoggiata sulla testa della bimba e sorrideva ad occhi chiusi. Il suo volto era incorniciato da una cascata di capelli che in parte circondava anche la figlia, come una sorta di scudo protettivo. La stessa espressione di pace e felicità della madre era dipinta sul viso delicato della bambina. Ella, però, aveva gli occhi aperti e lo sguardo fisso sull'osservatore.                                     
Sorrisi soddisfatta: mi pareva di aver fatto un ottimo lavoro, nonostante l'avessi schizzato velocemente.                                                                                                                                                          
Ritoccai qualche tratto di matita per rendere ancora più dolce e verosimile l'espressione delle due figure, ma fui costretta a fermarmi dopo poco tempo, perché gli occhi mi bruciavano per la stanchezza.
Spensi la luce e mi diressi verso il letto, ma a metà strada inciampai in uno dei tanti cuscini sparsi in giro e caddi. Sbattei la testa contro la struttura di ferro battuto del letto.                                      
-Merda!- imprecai a denti stretti e mi portai una mano fra i capelli, dove mi faceva più male. La punta delle dita si bagnò.
"Proprio quello di cui ho bisogno" pensai. "Magari dopo questa botta riesco a rinsavire e a tornare normale!"                                                                                                   
 Analizzai l'eventualità di chiamare James ed Elisabeth, ma poi decisi che era meglio far finta di niente.
"De dovessi morire, almeno l'avrei fatto nel mio letto e non in un fottuto ospedale"                           
Mi trascinai sul letto e, facendo attenzione a non appoggiare la parte lesa della testa, mi lasciai sprofondare nel cuscino.

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Ookay, eccomi di nuovo al mio computer, di ritorno, come mi avevo già anticipato, da due settimane di vacanza a Verona insieme a mia cugina. (A questo proposito, mi scuso ancora per il ritardo) Ho "utilizzato" queste settimane per meditare sui futuri sviluppi della storia e riempire un intero quaderno di appunti, quindi non si può dire che non siano state produttive.
Per ciò che riguarda questo capitolo, prendetelo così com'è: una parte di me mi dice che non è male, l'altra grida che è terribile; anch'io sono piuttosto confusa al riguardo e mi rimetto al vostro giudizio.
( Una piccola precisazione riguardo al Cavern: all'epoca era ancora un locale dove si suonava la musica jazz, ma ho avuto bisogno di un luogo in cui Anna non potesse trovarsi a suo agio e il Cavern è perfetto per lo scopo, quindi mi sono, per così dire, presa una licenza poetica )Inoltre, anche se non so se possiate averlo notato, ho deciso di aggiungere l'avvertimento "non per stomaci delicati". La ragione va ricercata negli incubi di Anna, poiché mi sto accorgendo che si stanno facendo sempre più... cupi, diciamo così. Per questo motivo mi sembrava opportuno mettere l'avvertimento.

 
Vorrei ringraziare tutti coloro che hanno recensito la mia storia, e chiedo loro scusa per lo spaventoso ritardo con cui rispondo.

Lonely Heart : ti ringrazio per la tua recensione e sono davvero contenta che la storia ti piaccia. Spero che in futuro non deluda le tue aspettative!

Jane across the universe : Chiedo ancora scusa per il casino successo con la prima versione della fan fiction ( devo ancora far luce su quello che è accaduto quel giorno) e ti ringrazio davvero tanto per la tua recensione: fa sempre piacere sentire opinioni esterne su un proprio progetto, soprattutto se è uno cui stai cominciando ad affezionarti in modo particolare.

CheccaWeasley: Grazie davvero per i complimenti (anche se non sono sicura di meritarmeli). Per quanto riguarda la caratterizzazione dei personaggi, devo confessare che ho ancora adesso l'impressione di aver esagerato, come spesso tendo a fare. Credo di essere incapace di creare personaggi "grigi": o sono bianchi o sono nere, un estremo o l'altro, senza compromessi. Per questo motivo vivo con il timore che risultino inverosimili, soprattutto quelli realmente esistiti (anche a causa della poca esperienza che ho nel tratteggiare la personalità di persone reali, essendo questo il mio primissimo esperimento) Spero comunque che alla fine il risultato d'insieme possa considerarsi discreto.

Grazie anche a quelli che stanno semplicemente leggendo! Spero di finire il prossimo capitolo in fretta.


Peace n Love



 






 P.S ( Scusate anche per l'impaginazione scombinata, non riesco a capire perché me l'abbia messa così)



  




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Capitolo 6
*** 5. - Good Day Sunshine ***



Good Day Sunshine.
 

Mi svegliai nel bel mezzo della notte.                                                                                            
Tremavo come una foglia e goccioline di sudore freddo mi scivolavano lungo la schiena, facendomi rabbrividire. Il gelo di quelle piccole gocce mi penetrava nelle ossa.                                        
Anche se ero sveglia, riuscivo a vederli chiaramente davanti a me: due occhi color del ghiaccio che facevano ghiacciare il sangue nelle vene.                                                                                                      Cercai di scrollarmi quell'immagine via dalla mente e mi alzai dal letto, ma nella semi-oscurità della stanza incespicai nello stesso cuscino in cui ero inciampata la sera prima.                                                       Arrancai fino al bagno e quando vi entrai tremavo ancora.                                                                                   
Non riuscivo a farmeli passare, quegli incubi; tutte le notti andavo a dormire con la speranza di trovare un po' di pace, e puntualmente loro tornavano ad assalirmi, tutte le notti, sistematicamente. Stavano peggiorando, lo percepivo.                                                                                                                           
Era come se la mia anima presagisse che stava per accadere qualcosa di terribile.                                            
Cercai di scacciare quel pensiero, cercando di concentrarmi sui problemi più immediati. Ero indecisa se guardarmi allo specchio o meno, per paura di quello che avrei potuto vedervi.                                 
Mi appoggiai al lavandino per sostenere le mie gambe tremolanti, poi lanciai una rapida occhiata alla mia immagine riflessa nel vetro. Il sollievo che mi investì quando mi accorsi che non c'era niente di eccessivamente fuori dall'ordinario mi calmò un poco e perlomeno riuscii ad acquistare un po' di stabilità.                                                                                                                                 
Riempii la vasca di acqua calda e la prima cosa che feci fu pulire i capelli, in parte incrostati del poco sangue uscito dal taglio che mi ero procurata la sera precedente, ma poi rimasi immersa a lungo, lasciando che il tepore rilassasse i muscoli contratti e le membra ancora tremanti.                                        
"Ti devi dare una calmata" disse la voce della mia coscienza "O perlomeno imparare a conviverci, con questi incubi del cazzo. Se non se ne vanno di loro spontanea volontà, te ne freghi e continui a vivere come hai sempre fatto."                                                                                                                             
-Vorrei vedere te al mio posto...- borbottai uscendo dalla vasca e avvolgendomi in un asciugamano.  
"Tesoro, io sono te come tu sei me (1), e poiché siamo la stessa identica cosa, quello che fai tu è come se fosse fatto anche da me, anche se essendo io soltanto una voce nella tua testolina, non posso agire in prima persona. Logico, no?"                                                                                                                          
 
-Se lo dici tu...-                                                                                                                                                                                  
Decisi che era meglio porre fine a quell'assurdo scambio di battute, e mi chiesi perché proprio a me era dovuta capitare una coscienza amante del sarcasmo.                                                                    

Mi rivestii in fretta, poi tornai in camera. Mi diressi come al mio solito verso il letto, ma a metà strada inciampai di nuovo.                                                                                                                                   
" Mi stai prendendo in giro?!" pensai con rabbia. Non era possibile, non tre volte di seguito.                               
A carponi, tornai verso la porta. Accesi la luce e scrutai il pavimento finché lo trovai: il cuscino su cui ero inciampata tutte e tre le volte . Era uno di quelli che preferivo.                                              
Lo presi e lo guardai per qualche secondo, accigliata.                                                                               
"Scusami, ma te lo meriti."                                                                                                                                   
Lo lanciai dall'altra parte della stanza e andò a finire sotto la scrivania. Era una cosa ridicola da fare, ma in quel momento mi diede molta soddisfazione.                                                                    
pensi di nuovo la luce e finalmente raggiunsi il letto.                                                                                       

La mattina dopo , come tutti gli Inglesi di buona famiglia, andammo in chiesa ad assistere a un sermone, in nome del buon vecchio puritanesimo.                                                                                             
 A me sembrava soltanto un'altra delle gigantesche ipocrisie che la società ti imponeva di seguire fin da quanto eri un bambinetto.
Non credevo nell'esistenza di Dio e non lo feci mai in tutta la mia vita, tranne forse ai tempi dell'asilo, quando ancora mi limitavo a recitare a memoria le parole che gli altri mi dicevano di recitare. Non mi ci volle molto tempo per cominciare a credere che se davvero ci fosse stato un Dio, non avrebbe permesso che nel mondo succedessero tutte le cose orribili che accadevano tutti i giorni.                      
Anche se ero seduta composta sulla panca e avevo gli occhi fissi sul sacerdote che stava parlando in quel momento, nella mia mente stavo canticchiando "One Kiss" di Eddie Cochran.                                       
Ben presto dovetti smettere, perché notai l'occhiataccia che l'anziana seduta al mio fianco mi rivolse: senza accorgermene, avevo cominciato a tamburellare le dita sullo schienale della panca davanti a me a ritmo di rock 'n' roll.                                                                                                                                                                     
Mi morsi un labbro per evitare di scoppiare a ridere in chiesa.                                                                    
Cominciai ad ascoltare distrattamente il sermone. Parlava di qualcosa come l'affrontare Satana tutti i giorni e bla,bla,bla,bla...                                                                                                                       
Satana... effettivamente, c'era più probabilità che credessi nella sua esistenza che non in quella di Dio. Il mio Diavolo, però, non era rosso, con le corna e il forcone, ma aveva un paio di crudeli occhi color del ghiaccio.                                                                                                                                    
Tutte persone presenti in chiesa si alzarono in piedi. Alzai immediatamente lo sguardo e fissai l'alto soffitto a volta, per non avere un attacco di panico, e trassi numerosi respiri, mentre iniziavano i cori. Elisabeth e James erano ormai abituati a quel comportamento e sapevano il motivo per cui facevo così, ma la vecchietta al mio fianco no. Sentii da subito i suoi occhi fissarmi.                          
La ignorai, e non appena mi sentii meglio cominciai a muovere le labbra come se stessi cantando, pur non emettendo un suono. Anche perché le parole che articolavo erano quelle di "Roll over Beethoven" di Chuck Berry ed ero sicura che la vecchietta non avrebbe apprezzato se mi fossi davvero messa a cantare.

Quando finalmente tornammo a casa mi appropriai del giradischi prima che i miei genitori adottivi potessero rivolgere la minima protesta e attaccai un disco.                                                         
Dopo quella mattinata in chiesa avevo decisamente bisogno di rock 'n' roll. Era il mio modo per reagire alle idee che il Cristianesimo tentava di inculcare con la forza nella mia testa(2).                           
Mi appoggiai al muro, ma cominciai ben presto a muovermi a tempo e a cantare sulla voce di Ray Charles.
Il rock 'n' roll aveva la straordinaria capacità di liberarmi da qualsiasi pensiero che non fosse la musica. Lo ascoltavo perché mi rendeva felice e quando ero felice avevo voglia di ascoltarlo. Quindi, pressoché sempre, anche se dovevo ogni tanto scendere a compromessi con i miei genitori adottivi.                                                                                                                                             
James si fermò a guardarmi sorridendo e, come lo vidi, lo presi per mano e lo trascinai a ballare con me. Né a lui né alla moglie dispiaceva ascoltare un po' di rock 'n' roll ogni tanto e capivano l'effetto che quella musica aveva su di me.                                                                                                                                  
 Probabilmente, se avessi avuto qualche amico, sarei stata la sua invidia, da questo punto di vista: non solo la mia famiglia era abbastanza benestante da potersi permettere di comprarmi dei dischi, ma i miei genitori non consideravano la musica che ascoltavo soltanto "rumore", come facevano invece tanti altri.                                                                                                                                                            
- Se avete finito di ballare, potreste venire a pranzare. - ci richiamò Elisabeth ridendo.                                     
Ero stata davvero fortunata, nonostante tutto.                                                 

Dopo pranzo uscii di casa, con il taccuino e una penna in mano.                                                                    
Andai a piedi fino a Calderstones Park e camminai a lungo nel verde, godendomi i raggi del sole di maggio.                                                                                                                                            
Era una splendida giornata e mi era difficile ricordare la terribile nottata che avevo trascorsa. Mi sedetti sull'erba nei pressi del lago al centro del parco e guardai a lungo il riflesso del sole sull'acqua, poi aprii il quaderno e cominciai a scrivere.                                                                                      
Staccai la penna dal foglio parecchio tempo dopo, e solamente perché si era scaricata.                           
Sorrisi e la misi in tasca. Mi guardai intorno, cercando di capire che ore erano perché avevo completamente perso la condizione del tempo.                                                                                           
Una figura in lontananza cominciò a sbracciarsi per richiamare la mia attenzione e la riconobbi subito.  Era Cyn, che evidentemente aveva avuto la mia stessa idea di trascorrere un pomeriggio all'aria aperta e aveva trascinato con sé pure il suo fidanzato.                                                                             
Lasciò la mano di Lennon e cominciò ad avvicinarsi. Mi alzai e le andai in contro.                                       
- Ciao,Anna!- mi salutò allegramente.                                                                                                               
- Il tuo tipo non mi sembra molto entusiasta del fatto che tu lo molli da parte per venire da me. - osservai guardando Lennon, il quale a sua volta aveva gli occhi fissi su di me.                                    
Cyn scrollò le spalle :- Che palle che siete a volte! Tutti e due!-                                                                          
La guardai con aria innocente anche se sapevo che effettivamente non aveva del tutto torto a dire che Lennon non era l'unico ad alimentare la tensione fra noi due, qualche volta.                                   
- In ogni caso, non è per questo che sono qui - continuò Cynthia. - Un mio professore mi ha detto che c'è una mostra interessante alla ICA Gallery, a Londra, e io e John pensavamo di andarci sabato. Perché non vieni anche tu?-                                                                                                                      
- Venire a una mostra con te e... Lennon? - dissi scettica inarcando un sopracciglio.                                                                                                                                                                                                   
Cyn sbuffò:- C'è anche un amico di John, più contenta adesso che te l'ho detto?-                                          
Io risi:- No, ma abbastanza soddisfatta per assicurarti che chiederò a James e ad Elisabeth il permesso per venire.-                                                                                                                                      
-Perfetto, fammi sapere!- esclamò Cyn prima di salutarmi e di tornare da Lennon.                                                                                                                                                               
Guardandoli allontanarsi mi venne spontaneo chiedermi come diavolo avesse fatto Cynthia a convincere Lennon ad andare a una mostra d'arte.                                                                                          
"Meglio non saperlo" mi dissi cercando di non farmi degli strani pensieri, poi mi incamminai verso casa.                                                                                                                                 

E' del tutto superfluo dire che James ed Elisabeth non solo mi diedero il permesso di andare alla ICA Gallery insieme a Cyn, ma furono decisamente entusiasti all'idea e la mia madre adottiva andò avanti tutta la settimana a darmi consigli su cosa indossare, arrivando a volte a contraddirsi da sola.  Non capivo il perché di tutta quell'agitazione, anche perché io, da parte mia, non spesi più di dieci minuti a pensare ad un look adatto all'occasione: andavo a vedere dei quadri, non a fare una sfilata di moda!

La settimana trascorse a una lentezza che mi esasperava.                                                                                       
Tutte le notti mi svegliavo in preda agli incubi almeno una volta; mi alzavo dal letto, andavo in bagno cercando di non cadere a causa del tremore che rendeva instabili le mie gambe e qui rimanevo finché non riuscivo a calmarmi, poi tornavo in camera e mi coricavo di nuovo, nella speranza di riuscire a riposare almeno qualche ora. Stava diventando un'abitudine.                                    
Sabato mattina mi svegliai alle due.                                                                                                                       
Non riuscivo a ricordarmi l'incubo che avevo fatto, ma piangevo disperata.                                                        
Ero terrorizzata. Mi rifugiai in bagno e mi rannicchiai sotto il lavandino, nascondendo il viso con le mani e strinsi le ginocchia al petto, come se quella posizione potesse darmi la protezione che non riuscivo più a trovare da nessuna parte.                                                                                                                                                                 
Piansi silenziosamente per ore, senza svegliare i miei genitori adottivi. Non volevo che mi vedessero in quello stato, non se lo meritavano  dopo tutto quello che avevano fatto per me.                              
Stavo vivendo nella paura; avevo paura di addormentarmi, ma anche di rimanere sveglia: temevo che una notte, guardando il soffitto spoglio della mia camera, mi sarei accorta che gli incubi avevano trovato il modo per tormentarmi anche quando tenevo gli occhi aperti. Avevo ricominciato a temere il buio.                                                                                                                                                     
Mi alzai lentamente con i muscoli che dolevano per la posizione scomoda in cui ero rimasta così a lungo. Non riuscivo a frenare le lacrime e ansimavo come se avessi corso per ore.                       
Aprii la finestra del bagno e mi affacciai mentre aspettavo che la vasca si riempisse d'acqua gelata.  Mi immersi nell'acqua, anche se dovetti trattenere il respiro finché mi abituai al freddo. Mi piaceva quella sensazione. Mi ricordava che avevo un corpo che, qualsiasi cosa la mia mente si inventasse, continuava a svolgere le sue funzioni vitali.                                                                                          
Dopo che fui uscita dalla vasca, persi molto tempo a sfregare con un asciugamano la pelle per non perdere la sensibilità e quando tornai in camera mia erano già le cinque; dal momento che il treno che dovevamo prendere per arrivare a Londra partiva dalla stazione alle sei e mezza, decisi che era ora di prepararmi.                                                                                                                                 
 Mi legai i capelli in una treccia, poi tirai fuori dall'armadio un paio di jeans chiari e una camicetta bianca, cui abbinai un paio di ballerine e una piccola borsa nella quale misi il mio taccuino di pelle, una penna e una matita.                                                                                                                                 
Scesi al piano terra e presi un foglio per scrivere un messaggio ai miei, poiché era talmente presto che pensavo che fossi l'unica sveglia.                                                                                                                
- Buongiorno, tesoro.- mi salutò Elisabeth come entrai in cucina. Sussultai, colta alla sprovvista.                
- Già sveglia?- chiesi alla mia madre adottiva.                                                                                                            
- Io mi sveglio sempre presto, sei tu quella che oggi è in piedi prima del solito. Stai molto bene vestita così. -                                                                                                                                                      
Il tono con cui mi parlava era strano.                                                                                                                   
- Elisabeth, va tutto bene?- domandai poco dopo.                                                                                                           
La donna mi guardò, seria:- Sei stata tanto in bagno questa mattina.-                                                                 
Mi morsi un labbro.                                                                                                                                            
- Ho avuto uno dei miei soliti incubi. Niente di grave. -                                                                              
Elisabeth mi si avvicinò e mi pose una mano sulla spalla.                                                                       
 - Non mentirmi. - il suo tono mi fece capire che non era un rimprovero - Si vede che c'è qualcosa che non va, Anna. -                                                                                                                                    
- Sto bene!- sbottai scostandomi. Non ci volle molto tempo perché mi accorgessi del modo in cui le avevo parlato e le presi la mano, guardandola mortificata. - Scusami tanto. Ma devi credermi: sto bene sul serio. Non ti devi preoccupare.-                                                                                                                                                       
Elisabeth mi abbracciò :- Non chiedermi di non preoccuparmi per te. Tu sei mia figlia: mi preoccupo per te anche quando hai un semplice raffreddore! Ma mi fido e se mi dici che stai bene, che non è niente di grave, ti credo. L'unica cosa che ti chiedo è di non chiuderti mai più a chiave in bagno per così tanto tempo. E' una cosa che mi spaventa a morte.-                                                                     
Io annuii mentre sentivo le lacrime pungermi di nuovo  gli angoli degli occhi.                                                                   
- Vado adesso, altrimenti arriverò in ritardo.-                                                                                                                                
-Ma certo. Divertiti, tesoro. Te lo meriti.-                                                                                                        
Mi diede un bacio sulla guancia, poi presi la giacca e uscii di casa.                                                                  
 Ero decisamente in anticipo, ma volevo arrivare alla stazione a piedi senza preoccuparmi di essere in ritardo e alla fine arrivai prima di Cyn e di Lennon.                                                                            
I due ragazzi fecero il loro ingresso insieme, tenendosi per mano.                                                                                 
Cyn indossava un abito  elegante che le arrivava al ginocchio e persino Lennon aveva abbandonato temporaneamente la tenuta da Teddy boy. Sorrisi alla mia amica, mentre non degnai di uno sguardo il suo ragazzo. Volevo evitare di parlargli il più a lungo possibile.                                                                      
-Immagino tu sia qui da un bel po'- disse Cyn, ma io scossi la testa.                                                                             
- Non ho nemmeno iniziato a scrivere, vedi?- replicai allargando le braccia. In genere resistevo dieci, quindici minuti al massimo, ad aspettare senza fare niente, poi tiravo fuori il quaderno, o un foglio, e cominciavo a scrivere.                                                                                                                         
 Una voce annunciò che il treno diretto a Londra sarebbe partito in una decina di minuti.                              
- Perfetto!- esclamò Cyn. - Possiamo andare.-                                                                                                             
Inarcai le sopracciglia, sorpresa.                                                                                                                             
 - Ma non dobbiamo aspettare il vostro amico?- chiesi, mentre un atroce dubbio si insinuava nel mio cuore.                                                                                                                                           
Lennon sogghignò:- Stu è già a Londra e ci raggiunge direttamente alla mostra. -  Si avvicinò di qualche passo e abbassò la voce. - Non avrai intenzione di tirarti indietro per paura di trovarti a fare il terzo incomodo, vero?-                                                                                                                                  
 Perfetto: ero proprio dell'umore adatto per riuscire a sopportare Lennon per le due ore e mezza di viaggio.                                                                                                                                           
"Grazie al cielo posso mettermi a scrivere." pensai. Ignorai la sua ultima affermazione e mi diressi subito verso il binario in cui era fermo il nostro treno. Anche se era abbastanza affollato, trovammo una cabina rimasta libera non molto distante dall'uscita e io mi sedetti su un sedile vicino al finestrino, di fronte a quelli che occuparono i miei compagni di viaggio.                                                        
Appoggiai la testa contro il sedile.                                                                                                                             
- Che mostra andiamo a vedere?- chiesi a Cyn dopo un po' spezzando il silenzio che era calato tra noi  - Non sei stata molto precisa al riguardo.-                                                                                     
- C'è l'esposizione di alcuni lavori degli studenti dell' Istitute of Contemporary Arts. - mi rispose la mia amica appoggiando la testa sulla spalla di Lennon. 
Annuii e chiusi gli occhi, anche se non ero affatto stanca.  Ero fin troppo cosciente del fatto di trovarmi in una grande scatola di acciaio (o di qualsiasi altro materiale fosse fatto un treno)  chiusa ermeticamente, dalla quale non sarei potuta uscire finché qualcuno avesse deciso che potevo farlo. Mi imposi di regolare il respiro.                                                                                           
Lennon sussurrò a Cyn qualcosa, ma non distinsi le parole, perché tentavo in tutti i modi di concentrare i miei pensieri sulla respirazione , tuttavia capii perfettamente che avevano cominciato a baciarsi.                                                          
 - John, fermati per favore.- disse Cyn quando quel bacio finì - Non mi sembra il caso di fare così di fronte ad Anna. -                                                                                                                                    
- Tanto sta dormendo. - replicò Lennon ricominciando a baciarla.                                                                      
- Non sta dormendo. - sbottò Cyn. Gli angoli della mia bocca accennarono ad un sorriso.                                   
Sentii un rumore, che ipotizzai fosse provocato dalla mia amica che si scostava dal suo ragazzo.                            
- Cosa c'è, hai paura di bloccare la crescita alla verginella?- sibilò Lennon.                                                            
 - Non fare lo stronzo in questo modo, John!- ribatté lei alzando la voce.                                                                           
Calò di nuovo il silenzio, poi sentii Cynthia alzarsi.                                                                                             
- Dove vai?- le chiese Lennon.                                                                                                                            
- A farmi un giro. - gli rispose la ragazza secca.                                                                                                   
-Come vuoi.- disse Lennon, con un tono che faceva sembrare quella frase un "fottiti".                                                                                     
Cyn non gli rispose e uscì dalla cabina.
Aprii gli occhi e guardai Lennon senza celare la soddisfazione che mi aveva dato accorgermi che se c'era una persona in grado di dare del filo da torcere a Lennon, quella era Cyn.                                     
Avrei voluto ridergli in faccia, ma alla fine mi limitai a sogghignare.                                                                       
Presi il taccuino dalla borsa e appoggiai la schiena contro il finestrino, poi cominciai a scrivere, sentendomi improvvisamente ispirata.                                                                                             
Scrissi pagine intere, poi cominciai a canticchiare nella mia testa "Tutti Frutti" di Little Richard. Adoravo quella canzone, aveva un'energia che mi travolgeva ancora più di quanto facesse  "Roll over Beethoven", che era una fra le mie preferite. Cominciai a tenere il tempo muovendo appena la testa e tamburellando le dita contro il finestrino.

- Womp-bomp-a-loom-op-a-womp-bam-boom!(3)-     

La celebre onomatopea che chiudeva il ritornello sfuggì dalle mie labbra senza che me ne rendessi conto.                                                                                                                                                 
Non arrossii, divenni fucsia.                                                                                                                                     
Mi morsi il labbro che tremava appena per l'imbarazzo nel silenzio esterrefatto nel silenzio che seguì la mia brillante uscita. Avrei voluto scomparire.                                                                       
Fosse successo con Cyn, o con chiunque altro, ma con Lennon...                                                                       
Alzai timidamente lo sguardo. Lennon mi fissava, sorpreso. Stava tentando senza molto successo  di trattenere le risate, tuttavia quella volta ebbi l'impressione che fossero spontanee e che non contenessero alcuna intenzione di deridermi. Guardandolo venne da ridere anche me, ma ero ancora troppo imbarazzata per farlo.                                                                                                 
- Ascolti Little Richard?- chiese quando riuscì a calmarsi abbastanza per articolare delle parole.  Aprii le labbra, come per parlare, ma poi le richiusi. Non avevo idea di come comportarmi : mi aspettavo che facesse qualche commento cattivo, invece sembrava solo divertito.                                                                                                                                                                   
Lo guardai a lungo, poi annuii :- Mi piace molto.-                                                                                   
- Non l'avrei mai detto.-                                                                                                                                      
Sorrisi:- E invece ho tutti i dischi usciti fino adesso. -                                                                                       
Lennon spalancò gli occhi e vedere la sua espressione fu impagabile. Non riusciva a crederci.                           
- Davvero?-                                                                                                                                                            
- Sì, a James non dispiace il rock n roll, quindi in genere me li lascia ascoltare.-                                                
- Che culo. - disse semplicemente. Scossi la testa: sembrava che si fosse dimenticato per un momento che io ero Anna Mitchell, quella che l'aveva rifiutato e umiliato davanti ad un sacco di persone e che aveva giurato di odiare fino alla fine dei suoi giorni da Teddy boy.                                                                                                                                                                    
In quel momento entrò Cyn.                                                                                                                                    
- Siete tutti e due svegli e non vi state urlando addosso?! - esclamò sorpresa - State migliorando, ragazzi!- Si sedette di fianco a Lennon e il ragazzo le prese la mano.                                                       
Li guardai: forse non stavano così male assieme, dopotutto. Erano molto simili e si sarebbero tenuti testa a vicenda.                                                                                                                                       
"Ti rendi conto di quello che stai pensando?" mi dissi " Non puoi credere davvero che Cyn possa stare bene con uno come Lennon!"                                                                                                         
Era vero, avevamo fatto la nostra prima conversazione civile dell'anno, ma questo non cancellava il fatto che Lennon fosse un grandissimo bastardo.

Per tutto il resto del viaggio,  io e Lennon non ci rivolgemmo più la parola. Quando arrivammo a Londra ci dirigemmo direttamente alla ICA Gallery perché a causa del viaggio in treno avevamo accumulato un po' di ritardo rispetto all'appuntamento con l'amico di Lennon. Infatti ci accorgemmo che la mostra doveva essere già stata aperta al pubblico, poiché non c'erano molte persone al di fuori della galleria, tuttavia notai subito un giovane minuto, più basso di alcuni centimetro rispetto a Lennon, che aspettava con le mani nelle tasche dei jeans scuri. Aveva lo sguardo basso, ma come sentì che ci avvicinavamo alzò gli occhi e sorrise, poi ci venne incontro.                                                          
-Sempre in ritardo, Lennon.- disse salutando l'amico.                                                                                                             
- E tu sempre vestito da barbone, Sutcliffe.-                                                                                                          
Il ragazzo salutò Cyn, poi posò gli occhi castani su di me. Sorrise e mi porse la mano.                                   
- Stuart Sutcliffe. - si presentò.                                                                                                                        
- Piacere di conoscerti. - risposi stringendogli la mano - Io sono Anna Mitchell.-                                            
-Sì,lo so, la ragazza con la madre in carcere. John mi ha parlato di te. -                                                            
Serrai la mascella.                                                                                                                                                            
- Grandioso. Non devo neanche fare la fatica di aggiungere altro su di me. - sibilai senza preoccuparmi di nascondere il mio disappunto. Un'espressione dispiaciuta si dipinse sul volto dai tratti affilati del ragazzo.                                                                                                                                                              
- Mi dispiace, non volevo offenderti. -                                                                                                                
- Fa' niente, Stuart. Ci sono abituata. -                                                                                                                   
- Gli amici mi chiamano Stu - disse Sutcliffe cercando di cambiare argomento. Non gli avrei permesso di cavarsela così facilmente: ero fuori di me.                                                                                          
- E' un vero peccato, allora, che io ti conosca da due minuti e non possa quindi essere annoverata nella lunga lista di quelli autorizzati a chiamarti con il tuo soprannome. - ringhiai.                                             -Okay, forse è meglio che entriamo, che ne dite?- si intromise Cyn per interrompere quello scambio di battute. Io annuii e precedetti tutti quanti all'interno della galleria.                                                     
La mostra era davvero interessante, poiché, essendo l'esposizione degli allievi della scuola d'arte contemporanea, c'erano opere di ogni tipo: sculture, dipinti astratti, ritratti, paesaggi e nature morte, oli, tempere e acquarelli.                                                                                                                                       
Alcuni dei quadri erano davvero splendidi. Ben presto mi persi nella contemplazione delle opere e mi dimenticai del mio scontro con Sutcliffe, di Lennon e talvolta anche di Cyn. La mia anima si immerse completamente nell'arte e si estraniò da tutto il resto del mondo.                                                            

I due ragazzi si fermarono a osservare una scultura, mentre io e Cyn passammo direttamente al dipinto successivo, allontanandoci un po' dai nostri compagni, che erano tuttavia abbastanza vicini perché potessi udire parte della loro conversazione. Non avevo intenzione di origliare, tuttavia capii ben presto che stavano parlando di me.                                                                                                                        - ... è simile ad alcuni serpenti velenosi : se il suo veleno non ti uccide in pochi secondi ne diventi immune. - stava dicendo Lennon.                                                                                                                   
- Non credo esistano serpenti del genere, ma apprezzo lo sforzo di inventarti una similitudine.- replicò Sutcliffe sorridendo. Poi tornò serio. - In ogni caso, sono io quello che ha sbagliato, John, non lei. Avrei dovuto immaginare che si sarebbe infuriata. Si sarà sentita giudicata per l'ennesima volta per una cosa in cui lei centra relativamente e immagino abbia creduto che io avessi già un giudizio su di lei, formulato sulla base della descrizione che tu ne hai fatto con me. Io al suo posto mi sarei comportato molto peggio.-                                                                                                                     
- Non farti ingannare dal suo visino angelico. Quella è meno indifesa di quanto sembri.-                            
Stuart rise:- Se ti riferisci al pugno che ti ha rifilato l'anno scorso, mi spiace dirtelo, Lennon, ma te lo sei meritato.-                                                                                                                                                Ridacchiai, poi riportai la mia attenzione sull'opera che io e Cyn avevamo di fronte.                                
- Secondo te ho esagerato?- chiesi alla mia amica. Lei mi guardò, perplessa.                                               
- Un po'. - rispose infine.                                                                                                         
Sbuffai.                                                                                                                                                                     
- E' solo che sono stufa che in ogni posto in cui vado, tutte le persone con cui parlo riescano a pensare solo a quello che ha fatto mia madre! Siamo nel 1957, cazzo, non nel Seicento! Ci manca solo che qualcuno mi denunci all'inquisizione e mi faccia bruciare su un rogo!-                                                
Cyn non ebbe il tempo per rispondermi perché Lennon e Sutcliffe ci raggiunsero e io non avevo alcuna intenzione di continuare la conversazione in presenza sei due ragazzi. E poi non c'era più niente da dire.                                 
Giungemmo di fronte agli ultimi due quadri della mostra.                                                                                 
- Questo è splendido!- esclamò Cyn guardando il primo. Era la raffigurazione di una ragazza stesa sull'erba e sul suo corpo nudo erano disegnati degli incredibili giochi di luce.                                         
Io scossi la testa:- Ma è privo di significato. Da esso non traspare alcuna emozione. E' semplicemente un bel dipinto.-                                                                                                                               
- E' vero. - convenne Stuart - Quello a fianco è decisamente meglio.-
Guardai l'altro dipinto. Era dominato da colori scuri, non ben definiti, e da figure contorte,  sfocate, dai contorni  pressoché inesistenti. Una sola di esse era riconoscibile: era un uomo, scuro e quasi indistinguibile dallo sfondo, come un'ombra proiettata da una luce che nel quadro non c'era. Guardandolo si aveva l'impressione di essere avvolti in una nebbia scura e impenetrabile.                             
Cyn lo guardò, inarcando un sopracciglio. Era palese il fatto che quel quadro non le piacesse. Io, invece, non riuscivo a staccare gli occhi da esso.                                                                                           
- E' meraviglioso.- mormorai e Stuart annuì lentamente, assorto nello stesso modo in cui lo ero io.           
- Il sentimento d'angoscia che domina l'atmosfera è quasi palpabile. - osservò il ragazzo.                                 
- Sì... l'angoscia di un'anima che ha perduto la strada e tenta in tutti i modi di ritrovarla, finendo così per smarrirsi in modo irreversibile, o quella di un uomo tormentato che è incapace di chiedere aiuto e si trova da solo ad affrontare gli orrori che lo perseguitano. - dissi e sentii lo sguardo di Sutcliffe su di me.                                                                                                                                                           
Cyn sbuffò:- Non mi piace comunque. E poi quelle due macchie d'azzurro non c'entrano niente con il resto del dipinto. -                                                                                                                          
Dopo la sua osservazione mi accorsi di un particolare che mi era fuggito alla prima osservazione. Dietro all'ombra dell'uomo c'erano due cerchi di azzurro talmente chiaro da sembrare quasi bianco, al centro dei quali c'era una macchia nera circolare.                                                                                         
Impallidii e schiusi le labbra, sgomenta.                                                                                                         
"Con tutti i colori che poteva scegliere l'autore, proprio questa tonalità di azzurro, vero?" pensai mentre cercavo di recuperare un po' di calma.                                                                                   
- Anna, stai bene?- chiese Cyn accorgendosi della mia reazione. Battei le palpebre.                                    
- Certo. Fa solo un po' troppo caldo qui dentro.- mi affrettai a rispondere. Sorrisi, mentre cercavo un pretesto per eludere qualsiasi altra domanda.                                                                                           
- Torni a Liverpool in treno con noi?- chiesi a Sutcliffe.                                                                                                  
- Sì. - rispose lui, meravigliato che proprio io gli avessi posto quella domanda. Mi ero accorta di aver sbagliato con lui, quando ci eravamo conosciuti, e volevo rimediare a tutti i costi.

Ci incamminammo verso la stazione e mentre Cyn e Lennon erano mano nella mano qualche passo dietro di me, io e Stuart procedevamo senza dirci una parola.                                                                 
- Senti... mi spiace per prima. Ho esagerato. - dissi guardando la strada asfaltata.                                                
- No, sono io che devo scusarmi. Ho fatto lo stronzo, e mi dispiace. - replicò lui.                                                                               
- Be', allora facciamo che abbiamo sbagliato tutti e due, ci spiamo scusati e possiamo metterci una pietra sopra. - conclusi sorridendo.                                                                                                          Camminammo ancora un po' in silenzio,finché giungemmo alla stazione, dove pranzammo velocemente in un bar, poi salimmo sul treno che ci avrebbe riportati a casa. Come per il viaggio precedente, riuscimmo a trovare una cabina libera, tuttavia essa si trovava esattamente a metà del vagone e sapevo che poteva costituire un problema non da poco, nel momento in cui tutti i passeggeri si sarebbero accalcati nel corridoio per scendere dal treno e io mi ci sarei trovata esattamente in mezzo.                                                                                                                                       
Cercai di fare finta di niente e mi accomodai ancora una volta vicino al finestrino, mentre Stuart si sedeva di fronte a me. Cyn e Lennon si sedettero dall'altra parte della cabina e cominciarono a parlare fra di loro,ma dopo un po' si alzarono e ci dissero che andavano a fare un giro.                                                                                                          
- Cyn mi ha detto che sei un'artista. - affermò Stu, richiamando la mia attenzione. Scrollai le spalle.                                             
- In realtà non ne sono affatto sicura.- risposi con sincerità.                                                                                   
- Conosco Cynthia e so che non è il tipo da prodigarsi in complimenti non meritati. - disse Stuart - Anche se devo ammettere che quando si tratta di te è poco obiettiva. E'  incredibile come cambi il suo comportamento, il suo intero carattere quando è con te. Credo ti consideri una specie di sorellina minore. -                                                                                                                                           
Guardai fuori dal finestrino. Io e Cyn eravamo molto legate, ma non sapevo a cosa potesse paragonarsi il nostro rapporto. Era così e basta.                                                                                                      
- In ogni caso, secondo lei disegni davvero bene ed è un peccato che tu non faccia la scuola d'arte. -                  
- Tuttavia, anche se ciò fosse vero, ciò non basterebbe a definirmi automaticamente un'artista, non credi? Io non credo che basti il "saper disegnare davvero bene". -                                                   
Sutcliffe mi guardò, interessato dalle mia affermazioni.                                                                                       
- Vorrei che più persone la pensassero così - mormorò il ragazzo. - Un disegno o un dipinto non possono essere automaticamente definite delle opere d'arte solo perché sono perfetti dal punto di vista tecnico.
Sorrisi, piacevolmente sorpresa dal fatto che qualcuno apprezzasse e condividesse le mie idee.     
 


(1)  Ogni riferimento (involontario da parte di Anna) a "I am the Warlus" è del tutto casuale!

(2) Vorrei specificare, per evitare fraintendimenti, che tutte le frasi scritte sulla Chiesa e il Cristianesimo sono stata scritte semplicemente per riportare i sentimenti e i pensieri della protagonista, senza intenzione alcuna di offendere l'ideologia o la religione delle persone che potrebbero leggere la mia storia.

(3) Non sono sicura che si scriva così, perché sono andata "a orecchio". Scusate in anticipo se è sbagliato.


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Hello, everybody!                                                                                                                                                 
Come di sicuro avrete notato, il titolo non c'entra pressoché niente con il capitolo, ma non sapevo cos'altro mettere e alla fine ho "pescato" a casa fra le canzoni che ho sul computer. ( Io e una mia amica abbiamo passato mezz'ora buona a sparare titoli della serie: "Rock and Roll Music" " No, non ci sta. I want you (she is so heavy) ?" "Peggio che andar di notte. Che ne dici di I've just seen a face? ... etc.)Okay, adesso è il momento in cui io dovrei fare qualche considerazione intelligente su questo capitolo, ma... boh! Mi è venuto fuori così: ci sono delle parti che amo alla follia ( come il pezzo di "Tutti Frutti") e altre che non mi entusiasmano.                                                                                              
La cosa positiva è che sto capendo che pian piano sto cominciando a ingranare con la storia e mi pare (dal mio punto di vista di autrice fuori di testa) che cominci a delinearsi la base su cui si svilupperà tutta la vicenda.                                                                                                                                    
La coscienza mi obbliga ad informarvi che la prima parte della storia è  una roba da depressi che cercherò di alleggerire un po' con capitoli come questo, ma che poi ci sarà un miglioramento. Quindi, mettete da parte le lamette ché il bello arriverà tra un bel po'. ( Chiedo venia per l'accenno di anticipazione, ma mi sentivo in dovere di avvertirvi che "here will come the sun", non si sa quando, ma arriverà. )


Lonely Heart: Grazie mille per le tue recensioni. E' davvero confortante sapere che i miei capitoli non sono poi così male, perché nell'ultimo periodo mi sto accorgendo che con essi ho un rapporto amore-odio che mi complica la vita. Se da una parte li adoro, dall'altra mi sembrano insipidi e insulsi. Una volta che sono finiti, non so mai da che parte prenderli.

Un sincero ringraziamento a tutti quelli che stanno seguendo la storia e che hanno la pazienza di leggerla.


Peace n Love.
 

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Capitolo 7
*** 6. - Strawberry Fields Forever ***


Strawberry Fields Forever.


Indugiai davanti alla porta dello Ye Cracke.                                                                                                     
Era passata più di una settimana dal giorno della mostra a Londra ed era da allora che continuavo a ripetermi che dovevo andare in quel locale almeno una volta: avevo fatto una promessa e la mia coscienza insisteva affinché la rispettassi.                                                                                                      

Dopo che Lennon e Cynthia erano rientrati nel nostro scompartimento, sul treno per Liverpool,  avevo cominciato a scrivere e non avevo più smesso fino al capolinea.
Ero stata completamente rapita dai miei pensieri, tanto che non mi ero nemmeno accorta che il treno si stava fermando.                                                                                                                                    
- Hai intenzione di alzarti, Mitchell, o preferisci rimanere qui?- mi aveva detto Lennon, irritato.               
Mi ero riscossa all'improvviso, e mi ero accorta che tutti e tre i miei compagni di viaggio erano già in piedi e stavano aspettando me.  Mi ci era voluto qualche secondo per riprendermi dalla confusione. Avevo guardato  verso lo stretto corridoio che divideva gli scompartimenti. Una colonna di persone era schiacciata lì dentro e ciascuno stava cercando di aprirsi la strada verso l'uscita.
Un gemito mi era sfuggito  dalle labbra.                                                                                                                                    
- Anna, va tutto bene.- aveva mormorato Cyn sedendosi al mio fianco e prendendomi la mano. Avevo cercato  di respirare, ma non ero riuscita, sebbene mi sforzassi,  ad avere abbastanza ossigeno. La testa aveva cominciato a girarmi.                                                                                              
- Cyn, dobbiamo andare. - aveva affermato Lennon, che stava visibilmente perdendo la pazienza . La mia amica lo aveva guardato come se avesse detto un assurdità, poi aveva fatto un cenno verso di me.  
- Cyn, vai. Sto bene.- avevo detto, ma la mia voce stava tremando.                                                                                         
- Non sparare cavolate, Anna. Io non ti lascio sola in questo stato!- aveva ribattuto Cynthia.                                            
- Rimango io. - si era a quel punto offerto Stu - Non è un problema per me. -                                                                     
- Se vuoi resto. - mi aveva sussurrato Cyn. Io avevo chiuso gli occhi, ma ero riuscita comunque a scuotere la testa.                                                                                                                                               
- Sta' tranquilla. Non fare aspettare troppo il tuo ragazzo, perché se arriva in ritardo sua zia gli fa il culo e noi non vogliamo che al povero Lennon sia fatto del male, giusto? -                                          
- Okay, questa è la prova definitiva che stai meglio!- aveva esclamato lei ridendo. - Ci sentiamo, va bene?-                                                                                                                                                    
i era alzata , aveva preso  per mano Lennon e lo aveva trascinato fuori dallo scompartimento prima che potesse rispondere alla mia provocazione.
La folla stava cominciando a diminuire e io piano piano ero riuscita a respirare meglio.                                                                                                                                                   
Ci erano voluti un paio di minuti perché mi riprendessi del tutto.                                                                     
- Stai meglio?- aveva chiesto gentilmente Stu, una volta accortosi che ero riuscita a calmarmi. Io avevo annuito e gli avevo sorriso, poi lo avevo ringraziato sottovoce.                                                                 
- Figurati! Quando una donzella ha bisogno di aiuto, è mio dovere correre in suo soccorso. - aveva replicato il ragazzo e alle sue parole ero scoppiata a ridere.                                                                    
- Bene, ser Stuart, forse è meglio che scendiamo dal treno, prima di trovarci chiusi dentro! -                                                          
Stu mi aveva offerto il braccio, ostentando una galanteria che aveva finto fino a quando fummo scesi dal treno.                                                                                                                                         
- Mi spiace averti trattenuto .- avevo detto allora abbassando lo sguardo.                                                                                 
 - Non ne hai alcun motivo, davvero. - aveva risposto Stuart - Senti, io, John e alcuni miei compagni della scuola d'arte ci troviamo quasi tutti i pomeriggi allo Ye Cracke. Ti va di venire un giorno? Per confrontare le idee e parlare un po'.-                                                                                                                        
Lo avevo guardato per diversi secondi. Ero rimasta davvero colpita dalla gentilezza che aveva dimostrato  nei miei confronti, anche dopo che l'avevo trattato decisamente male.                                            
Gli avevo sorriso.                                                                                                                                                
- Ma certo. Verrò volentieri.- dissi, senza pensarci troppo.                                                                                  
- Me lo prometti?-                                                                                                                                             
- Sì. -

E quindi eccomi lì ad allungare la mano verso la maniglia della porta dello Ye Cracke e a ritrarla improvvisamente. Sapevo che non c'era motivo di indugiare in quel modo. Non poteva essere peggio del Cavern, no?                                                                                                                                    
"Sei una codarda, lo sai, Mitchell?"mi dissi. Sospirai, quindi mi decisi ad entrare.                                         
L'aria era impregnata di fumo, tanto che alcuni punti della carta da parati erano macchiate di tabacco.  Lo Ye Cracke era abbastanza affollato, poiché era il punto di ritrovo degli studenti della scuola d'arte e del Liverpool Institute.   Non mi sentivo per niente a mio agio, ma sarei stata peggio se, due secondi dopo essere entrata, fossi fuggita davanti a tutta quella gente.                                                
"Codarda, codarda, codarda..." continuava a ripetermi la vocina della mia coscienza. Forse lo feci per dimostrarle che si sbagliava, sta di fatto che cominciai a guardare in giro per il locale, alla ricerca di Stu e di Cyn, dei quali non riuscivo a trovare traccia. Quando giunsi nel War Office, la mia attenzione fu richiamata da un gruppo di meno di una decina di persone, che facevano più rumore di tutti gli altri clienti dello Ye Cracke messi insieme. Distinsi una chioma cotonata biondo platino.                                                                                                                                                                    
"Ti prego, dimmi che quello non è il gruppo di Cynthia." pensai, dando alla mia coscienza il pretesto per riattaccare con i complimenti. "Codarda, codarda, codarda, codarda."                                         
- Ehi, Anna, ce l'hai fatta ad arrivare!- mi salutò Cyn, seduta sulle ginocchia di Lennon. Sospirai.                   
Se c'era una probabilità su un milione di scoprire che le cose erano anche peggio di quanto sembrassero, nell'ultimo periodo riuscivo magicamente a beccarla.                                                                              "Dovrei provare a giocare alla lotteria."                                                                                                          
Mi avvicinai al gruppo, ma rimasi comunque in disparte, messa a disagio da tutte quelle persone che non conoscevo. Cyn e Stu si alzarono e mi vennero in contro, il secondo con un boccale di birra in mano.                                                                                                                                                                        
- Pensavo non saresti più venuta. - disse il ragazzo.                                                                                                            
- Anche io, in realtà.- risposi. Spostai una ciocca di capelli dietro l'orecchio.                                                  
Stuart sorrise:- Sono contento che tu sia qui. Vieni, ti presento gli altri.-                                                                     
Gli "altri", in realtà, non erano studenti d'arte, ma facevano parte della compagnia di Lennon: Eric Griffiths, Colin Hanton, Rod Davis, Len Garry. Nessuno di loro si disturbò più di tanto per salutarmi e dopo qualche ciao o un ehi! tornarono alle loro conversazioni. L'unico che sembrava realmente interessato a conoscermi era il ragazzo con cui Lennon stava parlando, un certo Pete Shotton.                          
- Ehi, ciao. Io sono Pete. - si presentò, lasciando a metà il discorso con Lennon.
Mi presentai a mia volta e mi morsi un labbro quando il ragazzo mi disse che "John aveva parlato molto di me". Sapevo che mi conosceva già almeno di vista, perché tutti i ragazzi che Stuart mi aveva presentato facevano parte del gruppetto che insieme a Lennon veniva quasi tutte le mattine davanti al mio liceo.                                                                                                                                          
 - ... ma John spara tante di quelle stronzate, che ormai non stiamo neanche più ad ascoltarlo. - continuò Pete.                                                                                                                                          
Ridacchiai, guardando Lennon di sfuggita: la conversazione sembrava stare prendere una piega del tutto inaspettata, ma subito dopo mi accorsi che cominciava girarmi la testa.                                      
- Frequenti la scuola d'arte?- chiesi, anche se mi aspettavo già la risposta, cercando di ignorare quelle sensazioni.                                                                                                                                                   - No, vado alla Quarry Bank. Anche John la frequenta, nonostante voglia far credere a tutti di essere dell'Istituto d'Arte.  E' per questo che ci chiamiamo Quarrymen. -                                                       
- Come, scusa?- Non riuscivo a seguire quella conversazione: non avevo idea di cosa Pete stesse parlando e non riuscivo a concentrarmi sulle sue parole. Sentivo le gambe cedere appena, ma riuscii a rimanere in piedi senza darlo a vedere.                                                                                                                                                
"Così sta diventando una cosa ingestibile!" pensai.                                                                                                                                                             
- I Quarrymen. E' il nome del gruppo in cui suoniamo. - rispose Shotton.                                                                                         
-Il  mio gruppo. - si intromise Lennon. Era infastidito dal fatto che avessi interrotto bruscamente la sua conversazione con l'amico.                                                                                            
- Il tuo gruppo ?- ripetei inarcando un sopracciglio. La mia attenzione si spostò tutta sul ragazzo, a scapito di Pete, che dopo poco cominciò a parlare insieme ad Hanton. Con la scusa di stare a sentire Lennon misi in secondo piano la claustrofobia.                                                                                                        
- E che musica suonereste?- chiesi.                                                                                                                  
- Skiffle.- rispose Lennon.                                                                                                                                    
Risi:- Sul serio? Skiffle?!-                                                                                                                                    
Il ragazzo scrollò le spalle.                                                                                                                                  
- E allora?-                                                                                                                                                            
- Avanti! Lo skiffle è la brutta imitazione che fanno quei gruppi che non hanno il talento o le palle per suonare il rock and roll! - esclamai.                                                                                       
Lennon mi guardò di sbieco e percepii le occhiatacce degli altri componenti del gruppo, ma alla fine anche loro sapevano che avevo ragione. Stu si intromise prima che la conversazione degenerasse.                         
- Speravo mi avresti portato qualche tuo schizzo.- mi disse, mentre Cynthia tornava sulle ginocchia di Lennon.                                                                                                                                              
- Mi dispiace, Stu, ma nessuno, tranne Cyn, ha mai visto i miei lavori. Credo di non essere ancora pronta.- gli risposi.                                                                                                                                              
 - Mi hai chiamato Stu. - osservò il ragazzo sorridendo.                                                                                         
- Be', io credo che... insomma, abbiamo fatto pace, no? Quindi... - mi interruppi bruscamente per respirare a fondo. Poi cercai di aggiungere qualcosa, ma aprii le labbra e le richiusi subito dopo.                
- Siamo amici.- disse Stu con una naturalezza che non fece altro che confondermi.                             
- Vuoi andare fuori a prendere una boccata d'aria?- chiese poi il ragazzo, intuendo il mio disagio.                                                     
- Sì!- risposi, con una veemenza che fece sembrare quella risposta una supplica.                                          
Quando fummo fuori tirai un lungo respiro e mi calmai in poco tempo, anche perché si era alzato il vento. Annusai l'odore dell'aria socchiudendo le palpebre.                                                                  
- Non ti piacciono gli spazi chiusi, a quanto pare. - disse Stu sorridendo.                                                          
- Ma che cosa dici? Li amo alla follia! - risposi con sarcasmo.                                                                         
- Come mai?-                                                                                                                                                          
- Non lo so. E' sempre stato così da che mi ricordo.- dissi a bassa voce.                                                
"Bugiarda, bugiarda, bugiarda..." riattaccò la vocina.                                                                                            
"Ma la vuoi piantare?!" pensai. Sapevo che la mia coscienza aveva ragione, ma non potevo certo dire la verità.                                                                                                                                                     
- Quindi niente Cavern. - continuò Stuart.                                                                                                      
Scossi la testa:- L'unica volta che ci sono entrata ho rischiato un collasso. Ma non mi pesa: sono un'associale, in fondo. Alla compagnia delle persone preferisco di gran lunga quella di una pagina bianca e di una penna, o di una tela ancora da dipingere.-                                                                                 
- Ma non sei così sprovvista di amici. -                                                                                                               
- A parte Cyn e te, e i miei genitori adottivi, gli umani con cui sono venuta a contatto in modo approfondito sono i miei professori, metà dei quali non mi sopportano, mentre l'altra metà mi odia.-     
Stu mi guardò sorpreso.                                                                                                                                              
- Ti spiace se fumo?- chiese poi.                                                                                                                            
- No, certo che no. - risposi sorridendogli. Era facile parlare con quel ragazzo.                                                     
- Vuoi?-                                                                                                                                                                  
Mi porse una sigaretta, ma io declinai l'offerta.                                                                                                         
- Non fumo. - dissi - E' meglio che mi incammini verso casa ora. Ho detto ai miei che non avrei tardato.  - dissi.                                                                                                   
- Se vuoi ti accompagno.- si offrì il ragazzo.                                                                                                          
- Non hai idea di cosa ti aspetterebbe! Sarebbe farsela a piedi da qui a Forthlin Road, e fidati, è bella lunga.-                                                                                                                                       
- Metti in dubbio la mia resistenza?-                                                                                                                            
- Certo che no!- risposi ridendo. - Tuttavia non ti chiedo di sacrificarti in questo modo per me, anche perché poi mi sentirei tremendamente in colpa.-                                                                                      
 Lo salutai con un bacio sulla guancia, ma prima che me ne andassi, Stu mi fermò.                                                                                                                     
- C'è la possibilità che io ti riveda nei prossimi giorni o mi farai aspettare un'altra settimana e mezza?- chiese sorridendo.                                                                                                                                        
- Chi lo sa? Ma dal momento che i compiti sono facoltativi per me, ci sono buone probabilità che ciò accada.- replicai allontanandomi.
Lo salutai un'ultima volta con la mano, quindi mi allontanai velocemente da Rice Street.                                                                                                                                        
In relatà non dovevo affatto tornare a casa. Era ancora abbastanza presto, così decisi di percorrere Smithdown Road.                                                           
Mi sentivo davvero a disagio quando ero costretta a mentire, ma del resto nessuno sapeva la verità. Non l'avevo mai detto a nessuno e quella cosa cominciava a pesarmi.
In realtà erano davvero poche le volte in cui mi ero trovata con la necessità di dire una menzogna, perché in genere la gente non faceva domande.                                                                           
Tuttavia ero stufa di quella situazione, ma non sapevo cosa fare. Certe cose erano troppo radicate dentro di me perché potessi cambiarle da sola.                                                                                  
 Persa nelle mie riflessioni non badai alla strada e imboccai la svolta sbagliata. Non me ne accorsi finché non mi ritrovai davanti a un cancello rosso che conoscevo fin troppo bene.                                                  
Lo Strawberry Field.                                                                                                                                           
Era parecchio tempo che non ci passavo vicino. Mi guardai intorno, spaesata. Era strano che i miei pensieri mi avessero condotta proprio lì.                                                                                                           Mi avvicinai al cancello e appoggiai la schiena contro di esso.                                                                
Guardai il cielo che cominciava a scurirsi con l'approssimarsi della sera, poi rivolsi di nuovo gli occhi al grande parco che circondava l'orfanatrofio.                                                                                         

Avevo pochi ricordi del periodo che avevo passato allo Strawberry Field, e la maggior parte di essi era confusa e sbiadita. Più che fatti, ricordavo suoni, odori, sensazioni. Quei nove mesi rappresentavano il periodo più duro di tutta la mia vita.
Trascorrevo le mie giornate da sola, in un angolo, a pensare. Non facevo altro, in quella grigia bruma che mi aveva inghiottita.                                                
Anche se non ne ero certa, credevo che all'interno dell'orfanatrofio fossi sempre esclusa da tutto, i bambini mi prendevano in giro,gli adulti mi trattavano con freddezza, ma all'epoca, come adesso, non mi importava affatto.                                                                                                                                     
Tutto il mio mondo era crollato e io stavo cercando di rimuovere le macerie e di ricostruire, ma avevo a disposizione soltanto una carriola giocattolo grande come un tappo di bottiglia.                      
Non piansi mai.                                                                                                                                                      
Quello era uno dei pochi ricordi che non mi avrebbero mai abbandonata. Non versai nemmeno una lacrima quando mi dissero che mio padre era morto e che mia madre era stata condannata all'ergastolo. Semplicemente, mi lasciai scivolare in un piatto susseguirsi di operazioni fondamentali a mantenere il mio corpo in vita: respiravo, mi nutrivo, dormivo. Il mio cuore continuava a battere, il mio sistema nervoso a funzionare, ma la mia anima era come morta. Poi, un giorno, presi in mano una penna e la appoggiai su un foglio bianco. Fu allora che cominciai a scrivere, a scrivere per davvero: se io non potevo vivere una vita felice, allora avrei lasciato che altri la vivessero al posto mio.                                                                                                                               
In seguito cominciai a disegnare, dando un volto ai personaggi che creavo e mentre tracciavo con la matita segni leggeri cantavo; fu una cosa graduale : prima sussurravo filastrocche, poi le canticchiai a bassa voce, fino a cantare a squarciagola canzoni inventate o quelle che sentivo ogni tanto.                                               
Era quello che rappresentava per me lo Strawberry Field: la creazione del mio mondo, dentro cui io potevo decidere di essere chiunque volessi, dove decidevo io quello che succedeva. In quel periodo cominciai a smettere di tentare di rimuovere le macerie che il terremoto che aveva sconvolto la mia vita si era lasciato alle spalle, e cominciai a costruirci sopra con dei mattoni immaginari che avevano la consistenza di una nuvola ed erano dei colori dell'arcobaleno.                     
Smisi per qualche mese di vivere sulla Terra. Quando potevo ero sempre sul mio pianeta, lontano da tutto e da tutti, dove c'era sempre il sole e la notte era sempre chiara. Tuttavia, spesso e volentieri, mi costringevano con la forza a tornare con i piedi per terra, ed io vivevo nell'angoscia: ero terrorizzata dall'idea che forse non sarei più riuscita a trovare la strada per tornare nella mia fantasia, per tornare a casa.                                                                                                                        
Cominciarono a temere che io perdessi i contatti con la realtà, ma non si rendevano conto che quello era l'unico modo che mi permetteva di sopportare quello che mi era successo. Avevo sei anni, e scrivere era per me quello che era giocare con le bambole per le altre bambine. Naturale e necessario. Ma era strano, e per questo non andava bene.                                                                                 
Mi proibirono di scrivere ancora.                                                                                                                         
Piansi per la prima volta dopo mesi e cominciai a manifestare apertamente i miei stati d'animo.                    
Mi dissero che non dovevo piangere, che ero una bambina viziata e capricciosa, così mi chiusi di nuovo a riccio in me stessa. Ricominciai a trascinarmi tutti i giorni da una parte all'altra, dove loro mi dicevano di andare.                                                                                                                                           
Mi dissero che avrei dovuto smettere di comportarmi in quel modo, poiché non ero l'unica ad aver perso i genitori, ma non ci riuscii. Mi avevano tolto tutto quello che mi avrebbe dato la forza per ritrovare un po' di pace.   

Tirai un pugno contro il cancello rosso, per sfogare l'ondata di sentimenti che mi aveva invasa. "Avevo sei anni, cazzo! Che cosa pretendevano da me? Che mi comportassi come un'adulta?!" pensai con rabbia. Chiusi gli occhi. Faceva male ricordare quegli anni, ma i miei pensieri vagavano senza che io riuscissi a trattenerli.

Con l'arrivo dell'autunno, ero di nuovo precipitata nell'apatia. Mi stavo spegnendo lentamente, ancora prima che avessi cominciato a brillare veramente.                                                                               
Poi un giorno tutto cambiò.                                                                                                                                      
Un raggio di sole, anzi, due raggi di sole squarciarono la nebbia scura che mi avvolgeva.                         
Due raggi di nome Elisabeth e James.                                                                                                                  
Non mi ricordavo esattamente il giorno in cui giunsero, ma doveva essere dicembre o gennaio.  Faceva davvero un freddo cane e io giravo perennemente con una coperta sulle spalle.                                      
Il freddo mi faceva paura, insieme ad un sacco di altre cose.                                                                                                                                                   
Quel giorno ero stata punita perché mi avevano scoperta a scrivere di nascosto. Ecco, di loro non avevo paura. Già allora ero troppo orgogliosa. Li avevo fissati mentre mi bacchettavano le dita e non avevo emesso un lamento. Mi piaceva sfidarli, e loro lo sapevano fin troppo bene; quel giorno mi impedirono di tenere la coperta. Non facevo altro che perdere, ma continuavo imperterrita a fare il contrario di quello che mi dicevano.
Stavo tornando nella stanza in cui dormivo quando in corridoio mi ero andata a scontrare contro qualcuno. Era una giovane donna, che mi sorrise, rassicurandomi del fatto che non era successo niente di grave,  quando si accorse delle mani arrossate.
Mi chiese come mi chiamavo, ma io non le  risposi perché avevo imparato a diffidare degli adulti. Qualcuno mi disse che dovevo risponderle, ma mi rifiutai. Anche se quella donna sembrava buona, sapevo che avrebbe potuto riprendersi tutto ciò che mi avrebbe dato in qualsiasi momento, come avevano fatto tutti quelli dello Strawberry Field.                                                  
Sia la donna che suo marito si inginocchiarono, in modo da potermi guardare negli occhi. Si presentarono, dicendo che si chiamavano Elisabeth e James, che l'uomo era un ufficiale dell'esercito congedato a causa di una ferita di guerra e che non potevano avere dei bambini. Mi raccontarono molte cose di loro e io rimasi ad ascoltare in silenzio, tremando per il freddo. James si tolse la giacca e me la fece infilare. Mi strinsi nella stoffa calda.                                                                                                                                                        
Alla fine mi chiesero se me la sentivo di dire loro il mio nome, ma che se non volevo loro non avrebbero insistito. Dissero che non volevano obbligarmi a fare cose che non volevo fare.                        
Non ero mai stata trattata con così tanta gentilezza da nessuno all'infuori di mia madre.                            
Esitai e li guardai a lungo, poi dissi il mio nome. Fu un sussurro talmente lieve che poteva a stento essere sentito, ma comunque aprii la bocca ed emisi un suono.                                                     
Non seppi mai ciò che Elisabeth e James videro quel giorno in quella bambina pelle e ossa, tremante e piena di paure, ma troppo orgogliosa per ammetterlo, testarda come un mulo, che non si fidava di nessuno, nemmeno di sé stessa.

-Tesoro. - mi chiamò la voce di Elisabeth, scuotendomi dalle miei pensieri. Mi voltai immediatamente verso di lei.                                                                                                                              
- Come mai qui?- chiesi. La mia madre adottiva sorrise dolcemente.                                                               
- Lo sai che ore sono?-                                                                                                                                               
Scossi la testa e mi accorsi solo in quel momento che il sole era già tramontato. Quanto tempo ero rimasta a pensare appoggiata alla cancellata dello Strawberry Field?                                                        
- Cominciavamo a essere un po' in ansia. - spiegò Elisabeth.                                                                                
- Come mai eri sicura di trovarmi qui?-                                                                                                                 
Mi fece l'occhiolino:- Chiamalo sesto senso materno, ma avevo la sensazione che tu fossi qui, anche se non ne ero sicura.-                                                                                                                    
Sorrisi:- Difficilmente le madri sbagliano, non è così?-                                                                                    
Mi faceva male anche solo pensarlo, ma era la verità. Io avevo due mamme. Una era la mia madre biologica, che mi aveva dato la vita, che mi aveva insegnato a camminare e che mi aveva sempre protetta, cui  ero legata da un affetto innato, naturale per me come il respirare, l'altra era la donna che mi aveva cresciuta, che mi aveva vista diventare una ragazza, insegnandomi tutto quello che sapeva sulla vita.
Elisabeth mi si avvicinò e mi prese per mano ed io appoggiai la testa sulla sua spalla.                                                                                               
Compresi che non c'era vergogna nell'ammetterlo: avevo due madri e volevo loro bene in egual misura, ma in due modi diversi. Le amavo entrambe; che male c'era in questo? L'amore di una figlia verso sua madre non può essere sbagliato.                                                                                                                            
Sorridemmo entrambe, poi ci avviammo verso casa, senza dire una parola.



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Here I am, con un capitolo scritto in tempo record: l'ho iniziato due giorni fa, anzi due notti, e 'sta sera me lo sono trovato magicamente pronto sul computer.                                                                               
La prima parte non è un granché, lo so, ma dovevo riempire un po' di buchi e non avevo idea di cosa scrivere. La seconda, invece, mi piace molto e ne sono abbastanza soddisfatta.
 

Ruben_J_Jagger: sono davvero felice che la storia ti piaccia e ti ringrazio per averla recensita.

Beba257: Hallelujah, ce l'hai fatta a ritrovare i dati per entrare nel tuo account! I'm very proud (da leggersi obbligatoriamente "prud"!) of you!                                        
Ti ringrazio dal più profondo del cuore per aver scritto queste sette  righe davvero commoventi!                                                                                                            
A parte gli scherzi, la tua opinione è quella che conta di più per me in questo momento.                                
(A proposito di Liverpool, lo sai che prima o poi un salto ce lo facciamo, vero?)

Cherry Blues: anche io credo che i Beatles siano fra i più grandi artisti dal secolo scorso ad oggi ed è proprio per questo motivo che ho sentito il bisogno di scrivere la mia prima fanfiction proprio su di loro. Ti ringrazio per la tua recensione, mi ha davvero fatta sentire orgogliosa della mia storia. (Spero che in futuro io non ti spinga a scappare a gambe levate!)

Un sincero grazie a tutti quelli che stanno leggendo la mia storia.


Peace n Love.


 

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Capitolo 8
*** 7. - Happiness is a warm Gun ***


Happiness is a warm Gun.
 


Maggio trascorse velocemente e la mia vita sembrò ritrovare un instabile equilibrio, precario come il filo di una ragnatela.                                                                                                                                 
Ciò non voleva dire che la notte non fossi più tormentata dagli incubi, ma semplicemente la gioia che provavo di giorno bastava per superare le crisi e tenerle ben celate dentro di me. Arrivai addirittura a smettere di sentire il bisogno di rifugiarmi in bagno.                                                                                                               
Anche se una parte di me continuava a dirmi di non fidarmi, di non abbassare la guardia, poiché non sapevo cosa potesse celarsi dietro il prossimo angolo, l'altra, quella più persuasiva, mi convinse a ignorare l'ansia e la paura e godere appieno ogni singolo istante di quella insperata serenità.                                                 
In cuor mio sapevo che era la scelta sbagliata, ma era anche quella più facile, così chiusi gli occhi e mi lasciai andare.                                                                                                                                 
In quel periodo, però, io e Cyn ci vedevamo molto meno spesso di prima; lei passava molto tempo con Lennon , con il quale io non volevo avere niente a che fare, quindi fu inevitabile che ci allontanassimo. La cosa mi frustrava non poco: la nostra amicizia era sopravvissuta a tutto, compresi mesi di lontananza mentre io ero allo Strawberry Field, e ora era messa in ginocchio dal primo ragazzo che era passato per strada!                                                                                                                 
Al contrario, io e Stu uscivamo spesso insieme, al porto o nei parchi di Liverpool; parlavamo a lungo o semplicemente godevamo della reciproca compagnia mentre io scrivevo e lui disegnava. Diventammo davvero molto amici e forse fu proprio grazie a Stu che potei assaporare un periodo di tranquillità.                                                                                                                                                          
Sia Elisabeth che James erano a conoscenza della mia amicizia con il ragazzo e ne erano molto felici; la mia madre adottiva mi divenne complice, tanto che cominciò a maturare l'idea di invitarlo una sera a cena.

Un pomeriggio, verso la fine di maggio, probabilmente un giovedì o un venerdì, io ed Elisabeth ci recammo al negozio di articoli musicali in Stanley Street, il Frank Hessy, poiché mi si era rotta la corda del mi cantino.                                                                                                                                         
Rimanemmo a lungo nel negozio, perché mi persi nella contemplazione delle innumerevoli chitarre sparse per il negozio.                                                                                                                         
 - Tesoro, solo per sapersi regolare, hai una mezza idea di tornare a casa in tempo per la cena o hai deciso che d'ora in poi ti nutrirai solo di arte e musica?- mi richiamò Elisabeth sorridendo.                  
Io mi riscossi all'improvviso.                                                                                                                                      
- Scusa, mi sono incantata.-                                                                                                                                 
- Sì, me ne sono accorta!- replicò lei.                                                                                                                
Uscimmo dal negozio e prendemmo la strada di casa, ma improvvisamente persi l'equilibrio e scivolai, finendo in mezzo alla strada.                                                                                                                  
Una mano mi afferrò il polso e mi tirò da parte, evitandomi l'impatto con l'auto che aveva appena inchiodato con un rumore stridente. L'uomo alla guida suonò il clacson e mi insultò, poi ripartì sgommando.                                                                                                                                                         
- Stai bene?- mi chiese l'uomo che mi aveva salvata.                                                                                         
- Sì, la ringrazio davvero. - risposi senza incrociare gli occhi con i suoi- Mi scusi, devo tornare da mia madre.-                                                                                                                                       
Mossi qualche passo verso Elisabeth, che a sua volta, sconvolta, mi veniva incontro. Poi riuscii a connettere il cervello. Mi voltai lentamente e guardai "l'uomo".                                                          
Stava già ridacchiando, ma quando vide la mia espressione, Stu non riuscì a trattenersi e scoppiò a ridere.                                                                                                                                                      
 - Effettivamente è molto divertente il fatto che io abbia appena rischiato di essere investita! - sbottai. Elisabeth ci raggiunse.                                                                                                                             
- Anna, stai bene? - mi chiese preoccupata ed io la rassicurai, convincendola che non era necessario farmi vedere da un medico, mentre aspettavo che Stuart riuscisse a darsi un po' di contegno. Finsi qualche colpo di tosse per richiamare la sua attenzione, poi gli presentai la mia madre adottiva.                                                                                                                                            
- E così tu saresti il famoso Stu?- disse Elisabeth.                                                                                                 
Il ragazzo corrugòle sopracciglia:- Famoso?-                                                                                                                                        
- Sai, Anna non fa altro che parlare di te. -                                                                                                          
- Oh, ma davvero?- chiese Stu guardandomi divertito.                                                                                         
- In realtà ciò e dovuto al fatto che non sono il tipo di ragazze che dicono che escono con un'amica quando invece escono con un ragazzo. - specificai cercando di mascherare l'imbarazzo.                                             
- Molto nobile da parte tua. - commentò lui con l'intento di prendermi in giro.                                                           
- Io devo tornare a casa, Anna. - disse Elisabeth, ricordandomi il fatto che James ci stava aspettando. - Stu, ti ringrazio tanto per aver salvato mia figlia. Non so come sdebitarmi. -                               
- Si figuri, signora. Per il mondo sarebbe stata una perdita troppo grave. -                                                            
Abbassai gli occhi, arrossendo.                                                                                                                               
- Ti prego, almeno accetta che ti inviti a cena, per dimostrarti la mia gratitudine. - continuò la mia madre adottiva.                                                                                                                                                    
- La ringrazio ma non vorrei disturbare lei e suo marito. -                                                                        
- Se ti ho invitato io significa che non disturbi affatto!- replicò la donna con la sua logica impeccabile.                                                                                                                                                        
Stu sorrise:- Va bene, allora. Grazie mille. -                                                                                                   
- Perfetto!- cinguettò Elisabeth -  Ti aspetto sabato, allora? -                                                                                     
- Certamente. - rispose Stu concludendo la conversazione.
Nel silenzio che calò fra noi mi accorsi che Elisabeth spostò lo sguardo da me al mio amico e poi sorrise, ma non ci feci troppo caso.                                   
- Bene, io vado allora. - disse infine la donna - Però prendo l'autobus: son troppo stanca per farmi di nuovo tutta la strada a piedi. Ma tu prenditela pure con calma, tesoro; non c'è bisogno che vieni a casa subito. -                                                                                                                                                                   
- Va bene, ci vediamo dopo. - dissi annuendo. La mia madre adottiva salutò sia me che Stu, poi raggiunse la fermata dell'autobus.                                                                                                                          
Io e Stuart rimanemmo per un po' in silenzio, fermi in mezzo al marciapiede.                                                                                                                                                                
- Ti accompagno a casa. - si offrì il ragazzo e lo sguardo che mi rivolse mi fece capire che non dovevo neanche provare a rifiutare.                                                                                                          
- Devi farmi vedere la strada per casa tua, sennò come ci arrivo dopodomani?- aggiunse, a mo' di spiegazione. Scrollai le spalle assumendo un'espressione rassegnata che lo fece ridere.
Cominciammo a camminare e infilai le mani nelle tasche dei jeans.                                                                           
- Non sei obbligato a venire, se non vuoi.- gli dissi dopo qualche minuto - Insomma:  è sabato sera,e se hai altri programmi non farti problemi. Non è niente di importante.-                                                
- Stai scherzando?!- esclamò lui - Non vedo l'ora di conoscere i tuoi.-                                                            
- Devi essere preparato: sono due persone un po' strane. -                                                                                  
Stu rise e mi diede una pacca sulla spalla, facendo finta di spingermi:- Parla quella normale!-        
Quando giungemmo in Forthlin Road guidai Stuart fino al cancello di casa mia.                                                                                                                                                                                                          
- E' qui che abito. Pensi di riuscire a ritrovare la strada da solo o ti devo fare una mappa?- domandai irriverente.                                                                                                                                           
Stu mi guardò per traverso e io gli feci una linguaccia, poi entrambi scoppiamo a ridere.                                    
- Ci vediamo tra due giorni.- dissi salutandolo.                                                                                                      
- Spero anche prima. -                                                                                                                                  
Sbuffai:- Certo che sei incontentabile, Sutcliffe!-                                                                                                     
Stu scrollò le spalle:- Devi prendermi per quello che sono, Mitchell.-                                                                  
Scossi la testa e alzai gli occhi al cielo, poi lo salutai con la mano senza aggiungere niente ed entrai in casa, lasciandolo senza una risposta precisa.                                                                                      
Come misi piede nell'ingresso, trovai James appoggiato allo stipite della porta del salotto, con le braccia conserte e un'espressione seria che era talmente finta che anche lui doveva trattenersi dal ridere.         
- Non mi avevi detto che il tuo amico era così attraente.- disse, tentando in tutti i modi di assumere un tono grave. Era ovvio che stesse scherzando, ma decisi di stare al suo gioco.                                                - James, non dovresti impicciarti così nella mia vita!- esclamai - Ecco, lo sapevo: non ti fidi di me! Uffa, proprio dei genitori così severi dovevano capitarmi!-                                                                                 Ridemmo talmente ad alta voce che spingemmo Elisabeth a venire a controllare che cosa stesse succedendo.                                                                                                                                                            
 - Allora, viene?- chiese poi, quando sia io che suo marito ci fummo calmati.                                               
Annuii sorridendo, poi dissi che sarei salita in camera mia.                                                                              

Mi cambiai e indossai i miei vecchi, larghi, adorati jeans macchiati, poi andai alla ricerca degli acquerelli. Per la tela su cui avevo disegnato la mamma con la bambina, infatti, volevo usare solamente colori tenui, che trasmettessero dolcezza.                                                                                   
 Dipinsi a lungo, ma non riuscii a finire il quadro. Mi piaceva come stava venendo quel quadro e ormai mi mancava un solo, fondamentale dettaglio: gli occhi della bimba. Dovevo trovare il modo per rendere quello sguardo "vero", poiché non desideravo che l'espressione che ero riuscita a catturare  si perdesse e si svuotasse in un colore che la rendeva piatta.                                                                   
Mentre aspettavo che il colore si asciugasse mi sedetti e cambiai la corda della chitarra; strimpellai qualche accordo messo a caso , poi coprii la tela ancora incompleta con un panno bianco.
Non volevo rischiare che qualcuno vedesse un dipinto che non avevo ancora terminato e che potesse giudicarlo prima che fosse pronto per essere giudicato.

Alla fine, io e Stu ci incontrammo anche il venerdì pomeriggio, che trascorse in un battito di ciglia. Facemmo un giro al porto e ci comprammo un gelato, poi il ragazzo mi riaccompagnò a casa.                       Il giorno dopo ero su di giri, ma forse la più esaltata era Elisabeth, che si affaccendò tutto il pomeriggio su e giù per la casa, senza riuscire a rimanere ferma un attimo.                                             
 Quella sera, dopo i primi minuti un po' imbarazzanti, in cui Stu si presentò a James, chiacchierammo a lungo tutti e quattro insieme e ridemmo molto.                                                                           
Dopo cena aiutai Elisabeth a lavare i piatti mentre Stuart chiedeva a mio padre del suo passato nell'esercito.                                                                                                                                                            
- Adesso io e James leviamo il disturbo, non ti preoccupare. - mi sussurrò la mia madre adottiva facendomi l'occhiolino.                                                                                                                                        
- Ma non siete di peso!- replicai.                                                                                                                         
- Lo siamo invece. Stu non si sentirà mai perfettamente a suo agio con noi intorno. - disse lei - Non ti preoccupare, sono stata ragazza anche io e so come ci si sente! -                                                               Riposi l'ultimo piatto nella credenza, poi io ed Elisabeth raggiungemmo i due uomini in salotto, anche se i miei genitori adottivi si spostarono ben presto in veranda.                                                           
- Sono fantastici. - disse Stu quando fummo soli, riferendosi ai due adulti.                                                         
Io annuii sorridendo: - Sì, lo sono. -                                                                                                                       
Il ragazzo si guardò intorno, poi fissò incuriosito il mobile su cui era appoggiato il giradischi. Era come una specie di piccola libreria in cui riponevo i dischi.                                                                        
- Puoi anche avvicinarti, se vuoi. Non vivo in una casa di cristallo che si rompe solo a guardarla. - dissi.                                                                                                                                                                      Stu si chinò e percorse con l'indice i dischi ordinati in ordine alfabetico.                                                           
- E' incredibile. - disse - Se John vedesse tutto questo...-                                                                                
Mi sedetti sul tappeto, giocherellando con il tessuto morbido.                                                                            
- Ma non lo vedrà. -                                                                                                                                                
Il ragazzo mi guardò:- Non riesco a capirvi. Insomma, a parte il pugno che gli hai rifilato, non è successo nient'altro fra voi due che giustifichi tali violenti sentimenti. -                                                
Scoppiai a ridere:- Senti come parla il nostro Sutcliffe! -                                                                                              
- Come mai vi odiate tanto?- insistette.                                                                                                                              
Rimasi in silenzio a lungo, cercando di dare una risposta a quella domanda. Lennon era un bastardo, un egoista che non si curava di nessuno all'infuori di sé stesso, e per capirlo mi erano bastati... pochi minuti.                                                                                                                                                                      
- Non lo so...- mormorai infine. Scossi la testa - In ogni caso, lui non ha fatto niente per rimediare ai suoi errori; ergo, non merita il mio perdono. -                                                                                      
- Non vuoi dargli nemmeno un'altra possibilità? - chiese ancora Stu.                                                               
- Non credo ci sia qualcosa che possa fare per riscattarsi di fronte ai miei occhi. Ci sono sei miliardi di persone su questo mondo e non credo che cambi qualcosa a qualcuno se io e lui ci stiamo simpatici o meno. -                                                                                                                                                 
- Be', io credo che a Cyn la cosa cambi. E anche a me. - replicò il ragazzo.                                                          
- Mi spiace, Stu, ma neanche tutto il bene che voglio a Cyn potrebbe farmi cambiare idea sul suo ragazzo. -                                                                                                                                               
Mi alzai sbuffando.                                                                                                                                              
- Su, in piedi, Sutcliffe. - gli dissi facendogli un cenno del capo. - Andiamo.-                                                      
- Dove?-                                                                                                                                                                    
- Li vuoi vedere i miei disegni o no? -                                                                                                                    
Gli occhi di Stu si illuminarono e sul suo viso si stampò un sorriso a trentadue denti.                                    
Risi della sua espressione, poi lo presi per mano e lo guidai fino in camera mia.                                                 
- Scusa il disordine. - dissi accendendo la luce.                                                                                                      
Quando entrò nella stanza, il ragazzo rimase a bocca aperta.                                                                                      
- E mia madre si lamenta di me! - esclamò.                                                                                         
Mi chinai per raccogliere un po' di fogli sparsi sui cuscini e li posai tutti sulla sedia.                                           
- Siediti. - lo invitai. Stu mi guardò ridacchiando.                                                                                              
- Vorrei farti notare che hai sepolto l'unica sedia di tutta la stanza sotto una valanga di scartoffie.-                     
-Per tua informazione, quelle "scartoffie" sono degli scritti cui tengo tantissimo!- ribattei fingendomi offesa.                                                                                                                                     
Ridemmo, poi Stu cominciò a guardare i disegni e i dipinti che coprivano in modo disordinato le pareti.  Era completamente assorto, così come lo era stato alla mostra, così decisi di non disturbarlo e cominciai a cercare di mettere un po' d'ordine ai fogli sparpagliati in giro per la stanza,  dividendo i miei scritti dai testi delle canzoni e dalle tablature per la chitarra.                                               
Quando rialzai gli occhi da quello che stavo facendo, Stu era nell'angolo dietro i cavalletti e stava sollevando la tela stracciata.                                                                                                                    
- No, Stu!- gridai. Non volevo che vedesse quella... cosa.                                                                                       
Troppo tardi.                                                                                                                                                      
Stuart fece combaciare i lembi dei tagli, così da avere una visione d'insieme. Mi precipitai da lui.                                                              
- E'... bellissima, Anna. - mormorò.                                                                                                                     
- No, non lo è! Stu, per favore, dammela!- lo implorai, in preda all'isteria.                                                                  
Lui mi guardò, confuso.                                                                                                                                         
- Non capisco, perché l'hai stracciata? E' una delle tele più belle che io abbia mai visto.-                                      
Gliela strappai di mano e allargai gli strappi davanti ai suoi occhi, poi la gettai nel cesto che usavo come cestino.                                                                                                                                          
Mi passai le mani nei capelli, ansimando.                                                                                                               
- Anna...- mi chiamò Stu alle mie spalle, sconvolto dalla mia reazione.                                                 
Deglutii a fatica, ingoiando le lacrime.                                                                                                                
- Sto bene. Scusami, Stu. Non so cosa mi è preso. Devo essere molto stanca e mi fa male la testa. -                           
Il ragazzo annuì, poco convinto.                                                                                                                              
- Non dirmi che sai pure suonare la chitarra, perché non ci crederei!- esclamò all'improvviso, notando la chitarra abbandonata dove l'avevo lasciata l'ultima volta che l'avevo suonata. Gli rivolsi uno sguardo pieno di gratitudine per non aver fatto ulteriori domande sebbene la mia spiegazione fosse ben più che debole.                                                                                                                                                      
 - Più che suonare, so strimpellare qualche accordo qua e là, ma niente di serio.- risposi. Pensare a qualcos'altro mi aiutò a calmarmi.                                                                                                             
- Mi chiedo come diavolo fai, ragazza. -                                                                                                                   
- Prova a passare dieci anni di pomeriggi in solitudine, poi mi verrai a dire!- risposi ridendo per sciogliere la tensione che alleggiava ancora nell'aria.                                                                                
Mi sedetti a gambe incrociate sui cuscini e poco dopo Stu mi imitò.                                                                 
- Da dove hai preso l'ispirazione per quel disegno? - chiese il ragazzo indicando una foglio di medie dimensioni appeso di fianco alla porta.
Vi avevo disegnato lo scorcio di una costa. La spiaggia era affollata e piena di gente con il volto privo di espressione che prendeva il sole e di bambini che senza allegria facevano castelli di sabbia, come se si limitassero a recitare i ruoli che la società aveva imposto loro. Il mare, al contrario, era completamente privo di interferenze umane e illuminato dal riflesso del sole. Il protagonista del disegno era un gabbiano che aveva una catena legata ad una zampa che lo teneva incatenato alla spiaggia. L'uccello tentava in tutti i modi di volare verso il mare aperto e il sole, ma non poteva e un'espressione disperata si leggeva nei suoi occhi. Il disegno era in bianco e nero, fatta eccezione per il sole, che era rosso.                                                                                                                     
- Da Blackpool, credo.- risposi inclinando la testa di lato cercando di ricordare quello cui stavo pensando quando mi era venuta in mente l'idea di fare quel disegno.                                                                   
- Non ti piacciono nemmeno le spiagge?- mi stuzzicò Stu. - Poi dai dell'incontentabile a me!-                                  
Sorrisi, ma poi scossi la testa.                                                                                                                              
- Al contrario. Mi piace molto Blackpool. Mia mamma mi ci portava molto spesso d'estate. Non so come mi sia venuto in mente. -                                                                                                                 
- E' molto bello, comunque.-                                                                                                                     
- Sinceramente, Stu, comincio a dubitare che il tuo giudizio sia obiettivo! - esclamai. Non poteva pensare che tutte le mie opere fossero belle: io ne avrei bruciato la metà!                                                     
- Potremmo fare un salto a Blackpool, la prossima settimana. Tutti insieme. - disse Stu.                       
- Specifica che cosa intendi per "tutti". - replicai. Il ragazzo mi guardò di sbieco.                                                 
- Con "tutti" intendo tutti. Io, te, John e i suoi amici, Cyn ... -                                                                                
- Non è una brutta idea. - risposi - E magari c'è la possibilità che la zia di Lennon non gli dia il permesso di venire.-                                                                                                                                      
Stu rise:- Certo che non ti smentisci mai, vero?-                                                                                               
Cominciò a farmi il solletico e io mi ritrovai a contorcermi sui cuscini nel tentativo di sfuggirgli.                                
- Basta, ti prego! Non respiro! - gridai senza fiato. Il ragazzo si fermò ridendosela allegramente fra sé.                                                                                                                                                              
- Okay, è ora che io vada.- disse poi guardando l'orologio.                                                                                                               
Io annuii e scendemmo di nuovo al piano terra, dove Stu salutò e ringraziò i miei genitori. Lo accompagnai alla porta.                                                                                                                                       
- Grazie mille per essere venuto sta sera. - dissi.                                                                                                      
- Grazie a te. Mi sono divertito molto. - replicò lui.                                                                                       
Ero indecisa se scusarmi ancora per il mio comportamento, ma alla fine decisi di mordermi la lingua e tacere, per non  riportare a galla la questione.                                                                              
- Ci vediamo, allora. - mormorai.                                                                                                                           
- Guarda che non puoi rifiutarti di venire a Blackpool, perché ti verrei comunque a prenderti di peso! - disse lui.                                                                                                                                               
- Così mi fai paura! - risposi. - Lo sapevo che non avrei mai dovuto mostrarti dove abito!-                              
Gli diedi un bacio sulla guancia, poi lo salutai.                                                                               
Aspettai che fosse uscito dal cancello, quindi chiusi la porta.

La stanza era illuminata debolmente e ovunque c'erano angoli in penombra. Era un ambiente spoglio, con una sola, piccola finestra troppo in alto perché riuscissi ad affacciarmi. Un lettino era addossato alla parete scrostata. Mi ero sempre chiesta se tutti gli orfanatrofi fossero così.                    
La stanza si riempì all'improvviso di cumuli e cumuli di macerie.                                                                                 
Ne ero circondata, sentivo che mi stavano schiacciando. Non potevo muovermi.                                                      
Il freddo penetrava nelle mie ossa, ma non avevo niente con cui coprirmi a parte gli stracci strappati che già indossavo.
Tremavo e il rumore dei miei denti che battevano l'uno contro l'altro rimbombava nella stanza.                                                                                                                                             
- Non ho mai visto una bambina cattiva come te!- disse una voce femminile.                                                  
- Dovresti vergognarti, Anna! - aggiunse un'altra voce.                                                                                     
- Lo sai come funziona. Le bambine cattive devono essere punite.-                                                                  
Un dolore intenso e breve, come una frustata, mi inondò la schiena. Sentii il sangue colare lungo la colonna vertebrale.                                                                                                                            
Le macerie furono sostituite da agglomerati geometrici di oggetti che faticai a distinguere. C'erano centinaia bambole cui mancavano degli arti, trenini privi di vagoni, trottole divise a metà, cavalli a dondolo senza testa, scarpette da ballerina, macchinine, soldatini e un'innumerevole quantità di fogli stracciati. Da quelle masse di giocattoli colava un fiume di sangue argenteo.                     
Cominciai a piangere, scioccata più da quella visione che dal dolore che mi veniva inflitto mentre fissavo quelle specie di cubi giganti.                                                                                                        
- Cosa c'è, Anna?- chiese una delle voci femminili. Non riuscivo più a distinguerle l'una dall'altra.                      
- Che sciocca che sei. -                                                                                                                                     
- Povera, piccola Anna. Non sapevi che anche i sogni possono morire?-                                                                
Le voci risero.                                                                                                                                                
- Oh, è così facile ucciderli. Sono la cosa più fragile che esista al mondo.-                                                         
- Basta piangere, Anna! Sei solo una bimba viziata!-                                                                                        
- Quella pazza di tua madre avrebbe potuto completare l'opera e far fuori anche te, già che c'era!-                              
Una voce sbuffò. Era vicinissima, ma non riuscivo a vedere che i giocattoli sanguinanti.                                 
- E così ora ci troviamo noi questo peso. -                                                                                                          
- Fa niente, vorrà dire che toccherà a noi, ancora una volta.-                                                                                                 
Tra le bambole cominciai a distinguere delle figure più grandi. Braccia e gambe... umane. La testa insanguinata di un bambino affiorò in uno di quei cubi di sogni spezzati.                                     
Chiusi gli occhi per non vedere.                                                                                                                                                                
- Hai paura, Anna? - mi chiese un'altra voce.                                                                                                              
- Non ti devi preoccupare. Non sentirai tanto dolore: l'ultimo ci ha messo solo cinque anni  a morire. -                                                                                                                                                        
Gridai, terrorizzata, sentendo delle mani immaginarie sfiorarmi. Riaprii gli occhi, ma mi accorsi che non c'era niente intorno a me.
Guardai di nuovo uno dei cubi. Fra le figure informi e insanguinate ne vidi una. Era quella di un adolescente. Guardai il suo volto e lui mi rivolse uno sguardo vacuo.
Non riuscii a trattenere un altro grido.                                                                                       
- John?- lo chiamai. Il ragazzo non si mosse, continuò a tenere i suoi occhi fissi su di me.                                                     
Lo chiamai ancora e ancora, gridando, ma lui non riusciva a sentirmi. Fu di nuovo inghiottito nell'ammasso di oggetti.                                                                                                                                        
- John! Ti prego, aiutami! John!- urlai.                                                                                                               
Mi accasciai  a carponi sul pavimento, piangendo disperata.                                                                            
- Non te ne andare... non lasciarmi qui sola.-                                                                                                         
- Anna - mi chiamò una voce. Era diversa, era la voce di un uomo. Sollevai la testa e davanti a me vidi un paio di occhi color del ghiaccio.                                                                                                           
- Vieni con me, piccola. - disse l'Uomo. Scossi la testa, mentre il mio corpo era sconvolto dai tremiti.                                                                                                                                            
- Lo sai che ti voglio proteggere. Non permetterò che ti facciano del male, piccola Anna. Te lo prometto. Fidati di me. -                                                                                                                          
Il tono della sua voce era suadente e anche il suo sguardo era diverso dal solito. Lo guardai a lungo, poi annuii lentamente.                                                                                                                         
- Brava, piccola Anna. -                                                                                                                                         
La stanza intorno a me si sbriciolò e mi ritrovai in una leggermente più grande. Doveva trattarsi di uno scantinato, poiché nonostante il buio riuscii a distinguere una scala che saliva e conduceva ad una porta chiusa, oltre la quale si trovava una luce.                                                                                              
Mi arrivarono le grida delle donne che fino a qualche momento prima mi stavano torturando.                                                                                                        
- Te l'avevo detto che non avrei permesso loro di torcerti un capello. - riprese l' Uomo dagli occhi di ghiaccio.
Ora eravamo solo io e lui.                                                                                                               
- Sono io l'unico che può farti del male!- gridò scoppiando in una risata sadica. Sgranai gli occhi, terrorizzata, accorgendomi dell'errore che avevo fatto. Un dolore terribile si propagò dal mio cervello a tutto il mio corpo. Cercai di ignorarlo e di mettermi in piedi, ma le mie gambe tremavano.                                                                                                                                                           
L'Uomo rise :- Dove credi di andare?-                                                                                                        
Guardai la porta: se l'avessi raggiunta sarei stata al sicuro, ne ero certa.                                                             
Mossi un piede dopo l'altro, ma ero lenta e instabile . Ero completamente priva di forze e quando giunsi al primo gradino della scala inciampai, ferendomi.                                                                      
- Vuoi scappare, piccola Anna? -                                                                                                                                
Gemendo, feci leva sulle braccia e mi trascinai lungo la scala, strisciando e facendo un gradino alla volta Arrivai alla porta. Afferrai la maniglia con tutte le mie forze.                                           
Era chiusa a chiave.                                                                                                                                              
- Non puoi sfuggirmi, piccola Anna. - disse la voce - Sei mia. -


Mi misi a sedere, con gli occhi sbarrati. Appoggiai la testa sulle ginocchia, gemendo.                                       
Strinsi le mani nei capelli, ma poi mi accorsi che le finestre della stanza erano chiuse.                                    
Perché diavolo non erano aperte?                                                                                                                             
Per non urlare mi morsi il labbro così violentemente che lo tagliai.                                                                            
Tentai di raggiungere con la mano tremante la maniglia della finestra sopra il letto, ma faticavo a rimanere in posizione eretta e dovetti fare diversi tentativi prima di riuscire a spalancare le imposte.                         
Quando sentii la confortante carezza del vento sulla pelle, mi lasciai cadere di nuovo sul letto e affondai il viso nel cuscino, lasciando uscire quel grido disperato che avevo soffocato troppo a lungo.
Dopo mi sentii meglio.                                                                                                                             
Riuscii ad alzarmi, anche se subito incespicai poiché non ero in grado di mantenere l'equilibrio, e andai ad aprire le altre due finestre.                                                                                                   
Accesi la luce.                                                                                                                                                          
" Vaffanculo!" cominciai a imprecare nella mia testa. Non c'era nessuno cui rivolgessi quegli insulti, tuttavia avevo l'impressione di riuscire a trasformare in quel modo  la paura in rabbia.                    
Presi il quadernetto e tirai fuori una penna, poi mi sedetti sui cuscini e cominciai a scrivere parole a caso, nella speranza di distogliere i miei pensieri dall'incubo.                    

" Il sole illuminava il paesaggio fin dove lo sguardo di lei riusciva a spaziare. Era sdraiata in mezzo all'erba, sotto una grande quercia e osservava con interesse la vita ospitata dagli enormi rami dell'albero, lasciando che i raggi del sole la accarezzassero gentilmente. Gli uccelli cantavano e le api e le farfalle andavano di fiore in fiore alla ricerca di nettare di cui nutrirsi.                                                     
La ragazza si alzò all'improvviso e cominciò a correre in mezzo al prato, saltando e facendo giravolte, come una bambina. Rideva allegramente e la sua risata sembrava essere una parte naturale della musica del prato.  Corse fino a che non fu troppo stanca per continuare, poi si lasciò scivolare di nuovo fra i fiori che il vento tiepido strappava e portava lontano. Sognò di essere uno dei petali di quel fiore, che venivano trasportati sopra gli alberi e i pascoli, che valicavano le montagne più alte e discendevano sulle vallate baciate dal sole, per poi arrivare finalmente al mare e posarsi dolcemente sull'acqua spumeggiante."

Una lacrima scivolò sulla pagina, facendo sbavare l'inchiostro.                                                                                                                  
Richiusi subito il taccuino, poiché non volevo che si rovinasse, ma poi cambiai idea.                                      
Presi la pagina che avevo appena scritto e la strappai, poi la gettai insieme alla tela rovinata.                            
Ritornai a sedermi di fianco al quadernetto che avevo abbandonato poco gentilmente da una parte. Lo presi fra le mani e lo portai al petto, piangendo silenziosamente.                                                                      
Forse la felicità era solo un'altra illusione. Forse si era felici fintanto che si faceva finta di esserlo. Forse non esisteva una cosa chiamata "felicità" e noi che ci affannavamo nella sua ricerca eravamo solo un branco di illusi che si poneva sulla via dell'autodistruzione.                                                                      
Un raggio di sole si levò timido dall'orizzonte. Spalancai gli occhi, sorpresa e guardai fuori mentre la bellezza dell'alba riusciva a calmarmi. Distolsi gli occhi solo quando il sole fu troppo alto perché riuscissi a fissarlo senza farmi male.                                                                                                                                  
"Ma che giorno è oggi?" mi chiesi e andai a controllare sul calendario. Domenica 6 giugno.         
Sbuffai: avevo perso la concezione del tempo e avevo completamente rimosso il pensiero dell'uscita a Blackpool "tutti insieme".                                                                                                                    
 " Che bello, non vedevo l'ora!" pensai con sarcasmo.                                                                                            
Alla fine, però, riuscii ad auto-convincermi che uscire e stare in compagnia per una giornata mi avrebbe fatto bene.

- Forza, Anna! Non puoi startene tutto il santo giorno seduta a scrivere!- mi spronò Cyn uscendo dal mare e venendo verso di me.                                                                                                                 
- Si, invece. - risposi semplicemente senza alzare lo sguardo dal quadernetto. La mia amica si sedette sull'asciugamano vicino al mio e sbuffò.                                                                                  
- A questo punto potevi rimanertene a casa tua! -                                                                                                                                                                       
- Perché non lo dici al signore qui di fianco? - replicai in tono piatto indicando con la penna Stuart che prendeva il sole vicino a me.                                                                                                                         - Che cosa c'entro io?- chiese il ragazzo alzandosi sui gomiti.                                                                               
- Scommetto che non ti sei neanche messa il costume da bagno. - continuò Cyn fissandomi.                
Chiusi il quadernetto perché ormai la mia concentrazione era scomparsa.                                                                 
- E invece di sbagli. - risposi, anche se in realtà la mia amica aveva ragione.                                                                                                                               
- Mi spieghi cosa ci fai in spiaggia vestita, allora? -                                                                                                               
Scrollai le spalle, sistemandomi meglio gli occhiali da sole. Cyn e Stu si scambiarono un'occhiata, che io ignorai.                                                                                                                                                   
- Togliti la maglietta. - ordinò la mia amica.                                                                                                          
- No. -                                                                                                                                                              
Quella mattina ero già partita da Liverpool con la convinzione che non sarei mai e poi mai rimasta in costume in mezzo a tutta quella gente, quindi avevo reputato del tutto inutile indossarlo sotto i jeans e la maglietta bianca. Non mi sentivo a mio agio in costume, né indossando degli shorts: le mie cicatrici erano già abbastanza in evidenza senza che fossero messe ulteriormente in mostra.                        
- L'hai voluto tu. Io ho provato a farti ragionare, ma tu te la sei cercata. - sbuffò Cyn, poi fece un cenno a Stu, il quale si alzò e mi afferrò per il bacino, sollevandomi facilmente e caricandomi sulle sue spalle.                                                                                                                                                              
- Stuart Sutcliffe, lasciami subito o giuro che ti uccido!- urlai cercando invano di liberarmi dalla sua stretta.  Il ragazzo rise, seguito a ruota da Cyn, cui rivolsi uno sguardo di fuoco.                           
Stuart si fermò a breve distanza dall'acqua, scrutando la riva alla ricerca di John e degli altri membri dei Quarrymen.                                                                                                                                          
 - E' l'ultima volta che te lo dico: mettimi giù! - ordinai colpendolo in mezzo alla schiena.                                 
- Ai vostri ordini, principessa. - rispose lui. Si avvicinò all'acqua.                                                              
- Stu, non ci provare! Non osare o ti ...  -                                                                                                           
Non riuscii a finire la mia minaccia che il ragazzo mi buttò in acqua.  
Riaffiorai poco distante da Lennon, il quale mi guardò sollevando un sopracciglio.                                                                                     
- Cosa c'è? Hai paura anche dell'acqua? - disse. Stavo per replicare quando Cyn e Stu ci raggiunsero.                                                                                                                                                           
- Lo sapevo che non avevi il costume! Ti conosco troppo bene! - esclamò Cyn trionfante  facendomi realizzare che il reggiseno, seppur chiaro, era fin troppo visibile sotto la maglietta bagnata.                     Arrossii violentemente e mi immersi per sfuggire quella situazione imbarazzante. Afferrai la caviglia di Stu e gli feci perdere l'equilibrio, poi risalii in superficie.                                                                     
Il ragazzo annaspò nell'acqua.                                                                                                                          
- Davvero hai creduto che non ci sarebbero state delle conseguenze? - gli chiesi ridendo. Mi attaccai al suo collo e io e lui cominciammo a lottare nell'acqua. A causa delle risate, bevemmo entrambi un sacco d'acqua di mare, ma nessuno dei due voleva cedere.                                                                                 
 - Okay, mi arrendo!- esclamò Stu alzando le mani dopo l'ennesima volta che l'avevo spinto sott'acqua.- Ho imparato la lezione: mai mettersi contro di te. -                                                                          
Risi soddisfatta, poi cominciai a fare qualche bracciata verso il largo. Nuotare mi veniva estremamente naturale: tutte le estati, infatti, mia mamma mi portava in spiaggia più o meno un giorno sì e uno no e praticamente avevo imparato prima a rimanere a galla che a camminare.                                       
Quando mi fermai ero già a qualche metro dalla riva; vidi Lennon nuotare nella mia direzione e superarmi, per poi fermarsi a sua volta.                                                                                                     
Non mi feci ripetere l'invito due volte. Nuotai e lo superai, ma  lui mi oltrepassò di nuovo. Ingaggiammo una gara a chi si spingeva più in là.                                                                                                  
- Cosa diavolo fai, John?- gridò Pete Shotton perché il suo amico riuscisse a sentirlo.                      
Lennon lo ignorò e si spinse ancora più in là. Lo raggiunsi, ma questa volta non lo superai.                           
- Voi due, tornate subito indietro o giuro che vengo lì e vi affogo! - ci urlò dietro Cyn.                                         
Io e Lennon ci guardammo e per un secondo la competizione abbandonò i nostri occhi. Scoppiammo a ridere, ma un attimo dopo tutto tornò alla normalità.                                                                
Lennon cominciò a nuotare velocemente cercando di distanziarmi, ma io lo imitai e non glielo permisi.  Arrivammo a riva nello stesso momento.                                                                                           
- Siete degli idioti. - ringhiò Cyn.                                                                                                                         
- Ehi, dovresti essere contenta del fatto che non sto scrivendo!- replicai ridendo.                                                        
Rimasi in acqua per un po', ma fui la prima ad uscire e a tornare a prendere il sole.                              
Mentre raggiungevo il posto dove avevamo lasciato gli asciugamani cercai di ignorare il fastidio che mi davano la maglietta e jeans che si appiccicavano alla pelle.                                                             
Mi stesi sull'asciugamano godendo del calore del sole che asciugò abbastanza in fretta i miei abiti bagnati.                                                                                                                                                 
Cullata dal rumore delle onde in lontananza mi lasciai scivolare in un sonno, una volta tanto, tranquillo.                                                                                                                                                          
Quando mi svegliai doveva essere già tardi. Mi guardai intorno, spaesata.                                                    
- Ben svegliata!- mi salutò Stu. Mi schermai gli occhi con una mano, poiché il sole era quasi alla loro altezza.                                                                                                                                                            
- Che ore sono? - chiesi.                                                                                                                                            
- Non lo so. Tardi, comunque. -                                                                                                                          
- Cyn? -                                                                                                                                                            
Non riuscivo a scrollarmi il sonno via dagli occhi e dalla mente.                                                              
- Lei e gli altri sono andati a farsi un giro per Blackpool e mi hanno lasciato a badare alla Bella Addormentata. - rispose Stu e anche se nel suo tono non c'era né dispiacere né fastidio, mi sentii in colpa per averlo trattenuto.                                                                                                                        
- Oh...- mormorai - Mi dispiace tanto, potevi svegliarmi...-                                                                               
Il ragazzo rise:- Ehi, sto scherzando! -                                                                                                                       
Si alzò e mi porse una mano                                                                                                                                
- Andiamo a fare due passi?- propose                                                                                                                
- Molto volentieri.- dissi. Mi alzai e mi stiracchiai appena per scioglierei muscoli, quindi io e Stu cominciammo a vagare per la spiaggia, senza una meta precisa.                                                                  
Mi fermai quando vidi un gruppo di bambini che stavano salendo su degli asinelli.                                        
- Mia mamma non ha mi ha mai dato il permesso di farci un giro. - dissi.                                             
- Dici sul serio?! - esclamò Stu - Non sei mai salita su uno degli asinelli di Blackpool? Che cosa inaudita. -                                                                                                                                                    
Sorrisi malinconicamente:- Io mi arrabbiavo con lei e le dicevo che era cattiva e che la odiavo.-                            
- Be', bisogna rimediare.- affermò il ragazzo.                                                                                                    
- Non ti sembro un pochino cresciuta? -                                                                                                            
Stu fece finta di squadrarmi, poi guardò gli asinelli:- Effettivamente, non so quanto quelle povere creature potrebbero resistere sotto il tuo peso. -                                                                            
Reprimendo una risata gli tirai un pugno sulla spalla.                                                                                  
- Come sei simpatico. -                                                                                                                        
Riprendemmo a passeggiare, ma ben presto mi accorsi che Stu era taciturno e la sua mente era altrove.                                                   
- A che cosa pensi?- gli chiesi.                                                                                                                               
- Ho una domanda, ma non sei obbligata a rispondere. - rispose il ragazzo. - Il giorno che ci siamo conosciuti, tu hai detto che non basta il talento per essere artisti. Cosa ci vuole allora?-                 
Guardai il mare, indecisa su quale risposta dare a quella domanda inattesa.                                                       
- L'arte, quella vera, viene dalla sofferenza. - mormorai infine.                                                                              
- Allora hai fatto male a rimproverarmi quando ti ho definita un'artista. Non è così?-                                     
Lo guardai, sgranando gli occhi.                                                                                                                             
- E' meglio se cominciamo a tornare indietro. - disse Stu cambiando velocemente argomento.

Nel tragitto verso gli asciugamani ritrovammo il buonumore e chiacchierammo ancora a lungo, ma poi inciampai in un castello di sabbia. Stu mi prese al volo, evitandomi una caduta rovinosa.                     
- Mi spieghi come hai fatto a non vedere quel castello di sabbia?- mi chiese divertito. Mi morsi il labbro, imbarazzata.                                                                                                                                    
Stu si fece improvvisamente serio, rendendosi conto solo in quel momento della vicinanza dei nostri corpi. Mi scostò una ciocca di capelli arruffati dal vento.                                                                         
- Grazie...- mormorai scostandomi.                                                                                                                           
- Di niente. - rispose sorridendo.                                                                                                                                     
Eravamo ormai giunti in prossimità degli asciugamani.                                                                                           
- Eccovi, finalmente!- esclamò Cyn quando ci vide - Ci stavamo chiedendo che fine aveste fatto. -  
- O dove lei avesse nascosto il tuo cadavere. - aggiunse Lennon guardando Stu.                                      
Serrai la mascella, ma riuscii a ignorarlo. La mia attenzione si spostò su Cyn, la quale stava cominciando a raccogliere le proprie cose e a riporle nella grande borsa da spiaggia che si era portata dietro.      
- E' ora di andare?- chiesi.                                                                                                                                        
- Mah, vedi un po' tu: sono le sei e venti. - rispose lei sorridendo.                                                                               
- Credo che rimarrò ancora un po'. - dissi.                                                                                                                        
Cyn mi guardò:- Sicura? -                                                                                                                                         
- Sì, devo mettere in ordine alcuni pensieri. -                                                                                                     
- Vorrei farti compagnia , ma ho promesso a mia mamma di non tardare. -                                                                   
- Stai tranquilla. Piuttosto, sbrigati, altrimenti perdete l'autobus delle sei e mezza. -                                               
- Ma sei davvero sicura di voler restare? - insistette Stu - Comincia a farsi tardi e tra poco si metterà a piovere. -                                                                                                                                                   
- Non ti preoccupare, Stu. - replicai sfoderando il mio sorriso più convincente - Ho bisogno di stare un po' da sola con i miei pensieri.                                                                                                               
Il ragazzo annuì, in silenzio. Salutai lui, Cyn e gli altri (escluso Lennon, ovviamente) e li guardai mentre si allontanavano.                                                                                                                                      
Appena furono spariti dalla mia vista, mi avvicinai all'acqua.                                                                           
Anche se c'era un forte vento , la temperatura era mite e io giocherellai un po', affondando i piedi nella sabbia. Respirai il profumo di salsedine.                                                                                 
Guardare l'oceano, spaziare con lo sguardo fino all'orizzonte, era da sempre una cosa che riusciva a infondermi gioia e serenità.                                                                                                                   
Una folata di vento caldo mi portò diverse ciocche di capelli davanti al viso.                                                    
Camminai per un po' sul bagnasciuga e rabbrividii appena quando i miei piedi incontrarono l'acqua fresca. Le onde sollevate dalla brezza arrivavano a toccarmi i polpacci, ma poco mi importava di bagnarmi di nuovo i jeans. Mi abituai in fretta alla temperatura dell'acqua.
Alzai il viso verso il cielo e chiusi gli occhi. Era come se il vento estivo, oltre che il freddo, avesse spazzato via anche la mia angoscia.                                                                                                  
Osservai le nuvole grigie addensarsi e minacciare pioggia che Stu aveva predetta.                                                                                                 
Le poche persone ancora in spiaggia a quell'ora raccolsero le proprie cose e si allontanarono; rimasi da sola e guardai a lungo la spiaggia deserta, con l'anima finalmente in pace.                                            Cominciai a correre lungo la spiaggia, sollevando qualche schizzo.                                                                               
Non avevo idea del perché lo stessi facendo: avevo sempre odiato correre. Mi stancavo dopo solamente qualche minuto, e senza dubbio non ero nemmeno una campionessa di velocità; quando a scuola facevamo delle gare, arrivavo sempre per ultima e alla fine ero talmente stanca che dovevo passare diversi minuti senza fare niente prima di riuscire a recuperare il fiato.                                            
Tuttavia quel giorno correvo, ed era come se le mie gambe avessero deciso di mettersi in moto da sole. Il vento soffiava nella stessa direzione in cui correvo, quasi volesse accompagnarmi in quella folle corsa.                                                                                                                                                               
Mi sentivo, per la prima volta dopo tantissimo tempo, libera da tutti i fantasmi che avevano ricominciato a perseguitarmi.                                                                                                                         
Cominciò a scendere una pioggia sottile.                                                                                                                
Mi fermai e guardai il cielo, allargando le braccia, poi cominciai a girare su me stessa, in una danza strana e senza senso.                                                                                                                         
Sapevo che ero al sicuro: l'uomo dagli occhi di ghiaccio non poteva toccarmi, non finché ero lì.                    
Quando finii di girare ansimavo appena.                                                                                                             
I capelli si stavano appiccicando alla maglietta bagnata.                                                                                
Adesso era davvero ora di tornare a casa, così tornai indietro e raccolsi quelle poche cose che mi ero portata dietro, poi, senza nemmeno rimettermi le scarpe ai piedi insabbiati, mi diressi verso il centro della città. Percorsi il breve tragitto fino alla fermata dell'autobus sotto gli sguardi accigliati di quelle poche persone che incrociavo sulla strada.                                                                                                    
Salii sull'autobus e nonostante fosse pieno, non mi sentii male, come al mio solito.                                     
In quel pomeriggio la mia anima, con un potente,intenso slancio vitale, si era innalzata verso il cielo, liberandosi del male che l'assediava, e non aveva intenzione alcuna di ritornare sui suoi passi. Gli occhi della maggior parte delle persone sull'autobus si posarono su di me, ma non me ne curai.                                              
Trovai posto in un angolino in disparte, di fianco all'ingresso dell'autobus, ma ben presto l'aria viziata divenne per me irrespirabile e il problema della claustrofobia tornò.                                 
"Cominciavo a sentirne la mancanza." pensai con sarcasmo imponendomi con la forza di ignorare il fatto che ero circondata da non so quante persone compresse dentro un autobus. Per mia fortuna i capelli umidi mi davano un po' di sollievo.                                                                                                                                              

Quando le porte si aprirono fui la prima a precipitarmi all'esterno, dove finalmente potei respirare un po' di aria fresca.                                                                                                                                      
Mi infilai velocemente le ballerine, anche se la sabbia mi dava fastidio e percorsi velocemente la strada per arrivare a casa.                                                                                                                                Entrai, chiusi la porta a chiave e mi tolsi subito le scarpe, poi salutai i miei genitori adottivi.                                                                                                                                             
- Ciao, tesoro. Ti sei divertita?- mi chiese Elisabeth dalla cucina. Senza risponderle andai nel bagno e presi un asciugamano, con cui cominciai a sfregarmi i capelli, quindi raggiunsi la mia madre adottiva.                                                                                                                                                                
- Sì, molto. - risposi infine. Elisabeth mi scrutò e sollevò le sopracciglia.                                                          
- Immagino che tu abbia preso la pioggia.- osservò e io scoppiai a ridere, soprattutto per il tono con cui pronunciò quelle parole.                                                                                                                          
- Che cosa te lo fa pensare?- esclamai dandole un bacio sulla guancia.                                                              
- Bentornata, Anna. - disse James alle mie spalle, entrato in cucina dopo avermi sentita ridere.                      
Come la moglie, mi squadrò da capo a piedi sorridendo:- Ti ci hanno buttata dentro, in mare, o ci sei entrata di tua spontanea volontà?-                                                                                             
Ridacchiai, ma non feci in tempo a replicare, perché  fui interrotta dagli squilli del telefono.
James fece una strana espressione che mi fece ridere, poi andò a rispondere.
Presi un bicchiere e lo riempii d'acqua, ma la mia attenzione fu ben presto catturata dalla conversazione che James stava intrattenendo al telefono.                                                                                             
- Sono il suo padre adottivo, può dire a me?- stava chiedendo educatamente. - Capisco. Sì, gliela passo subito.-                                                                                                                                               
James tornò in cucina, serio.                                                                                                                               
- E' per te, tesoro. - disse, scandendo le parole. Nel suo tono non c'era traccia dell'allegria di poco prima. Lo guardia perplessa, poi mi riscossi e mi recai in salotto, dove c'era il telefono.                              Alzai lentamente la cornetta.                                                                                                                                 
- Pronto?- dissi; la mia esitazione traspariva chiaramente da quella singola parola.                                                               
- Lei è la signorina Anna Mitchell?- chiese una voce maschile con una certa urgenza nel tono.                         
- Sì, sono io. Chi parla?-                                                                                                                                       
- Chiamo dal carcere di Drake Hall. -

 
_______________________________________

Oh, oh.. finalmente siamo arrivati a uno dei primi punti chiave. Oh, oh... ( Se non si fosse capito, sono piuttosto esaltata)                                                                         
Chiedo umilmente perdono per il modo con cui ho finito il capitolo, ma non sono riuscita proprio a trattenermi da lasciare tutto in sospeso. Siete autorizzati a venirmi a cercare con i forconi e le torce.               
Credo sia superfluo commentare questo capitolo, se non per dire che mi sono divertita da matti a scriverlo e, questa volta, potrebbero venire a dirmi che è la cosa peggiore che io abbia mai scritto, ma continuerebbe a essere uno dei miei capitoli preferiti. 
                                                                                       

Lonely Heart: Non ti preoccupare assolutamente per il ritardo, perché sono io che ti ringrazio per aver comunque trovato il tempo per lasciare una recensione alla mia storia. Sono davvero felice che ti piaccia e spero sempre che non deluda le aspettative!

MaryApple: Mi spiace, ma per correttezza nei confronti degli altri lettori non posso anticiparti niente ( credimi, muoio dalla voglia di dire quello che succederà e faccio uno sforzo enorme per tenermi la bocca cucita). Comunque credo che tra non molto renderò esplicite le mie intenzione riguardo alla vita sentimentale/sociale di Anna. Grazie per aver recensito.

Ruben_J: Sono perfettamente d'accordo con te ed è per questo motivo che cerco di inserire capitoli "leggeri" e relativamente superflui, in mezzo a quelli importanti come questo che ho appena pubblicato.                                                                                                                                                            
Per  la descrizione dello Ye Cracke, non avendo mai avuto la fortuna - purtroppo - di vedere il locale dal vivo, mi sono dovuta basare su ciò che ho letto in giro, rimettendomi al parere di altri riguardo ad esso.              
Infine ti chiedo scusa peri fazzoletti!!!! ( Ebbene sì, ho il senso di colpa moolto facile... Da questo punto di vista, mi sono ispirata molto al mio carattere per quello di Anna. )

otrop : Effettivamente, io e la mia professoressa di italiano "litighiamo" spesso per la lentezza del ritmo narrativo e la lunghezza delle sequenze riflessive, e anche se sto cercando di migliorare, credo che questa sia una caratteristica del mio stile. ( Anche se in questa fan fiction mi sto sforzando con tutte le mie forze di evitare pause troppo lunghe)                                                                                                
Grazie mille per aver recensito!

Il consueto, sincero ringraziamento a tutti i lettori.

Peace n Love.

 

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Capitolo 9
*** 8. - Mother ***


Mother.



- Chiamo dal carcere di Drake Hall. - scandì lentamente la voce.                                                                       
Persi qualche battito al cuore. Deglutii a fatica, cercando di non andare nel panico.                                                                                   
"Magari non è successo niente di grave. Magari ti vuole dire che la mamma è stata rilasciata." mi dissi, ma ero io la prima a non esserne convinta.                                                                                                 - E' con profondo rammarico che debbo...-                                                                                                           
- Per favore, mi dica cosa è successo.- lo interruppi. Non riuscivo a sopportare il suo tono piatto e distaccato. Mi sembrava di stare ascoltando un messaggio registrato.                                             
L'uomo si schiarì la voce: - Sua madre è morta.-                                 

Battei le ciglia più e più volte. Non credo che in quel momento fossi pienamente cosciente di ciò che quella frase significasse davvero.                                                                                           
Rimasi immobile. Avevo il petto schiacciato da un enorme macigno che mi impediva di respirare.                                                                                                                        
Sentivo il tipo di Drake Hall dire qualcosa, ma non capii cosa.                                                                               
I miei sensi avevano improvvisamente smesso di funzionare e il mio organismo non era più in grado di svolgere le funzioni vitali. Uno strano, inquietante, innaturale silenzio mi circondava.                 
Un gemito mi sfuggì dalle labbra e il mondo scomparve improvvisamente da sotto i miei piedi.
Sentii tutto crollarmi addosso :  rumori, suoni, sensazioni, parole, pensieri, ricordi, come se volessero recuperare il tempo perduto in quei secondi in cui ogni cosa si era congelata.                                
Era troppo, troppe emozioni devastanti in un solo, terribile momento.                                                                              
Le mie mani tremanti persero la presa sulla cornetta che cadde sbattendo contro il mobile su cui era appoggiato il telefono.                                                                                                                      
Non riuscivo a respirare.                                                                                                                                    
Mi appoggiai contro la parete nel disperato tentativo di rimanere in piedi.                                                                   
Sentii vagamente avvicinarsi a me i miei genitori adottivi. O forse no; non ero in grado di percepire nulla di ciò che mi circondava.                                                                                                      
James prese in mano il telefono, mentre Elisabeth si precipitò verso di me.                                   
Rovinai sul pavimento. Mi presi la testa fra le mani. Tremavo, ma ero ancora  troppo sconvolta per poter piangere.                                                                                                                                    
Sua madre è morta.                                                                                                                                          
Quella frase mi risuonava in continuazione nella testa.                                                                                          Suamadreèmortasuamadreèmortasuamadreèmortasuamadreèmortasuamadreèmorta...                                
Mi portai una mano alla bocca. Forse solo in quel momento realizzai che cosa era successo.                                         
Mi aveva lasciata da sola. Mi aveva abbandonata, questa volta per davvero. Se n'era andata per sempre, non avrei mai più avuto l'opportunità di rivederla.                                                                                    
- Non l'ho nemmeno salutata...- mormorai mentre le lacrime trattenute fino ad allora iniziavano a scivolare copiose lungo le mie guancie. Non le avevo potuto dire che le volevo bene, che non ero mai stata arrabbiata o spaventata da lei, ma ora era troppo tardi.                                                                                        
Lei era... morta.                                                                                                                                                  
Appoggiai la testa contro il muro e guardai il soffitto.                                                                                          
Tirai un pugno contro la parete con tutte le forze che mi erano rimaste.                                                            
Gridai, sfogando finalmente tutto il mio dolore.                                                                                                 
Non ci volevo credere, non ci potevo credere.                                                                                                
Elisabeth mi strinse a sé ed io mi abbandonai contro il suo petto.                                                                         
Mi portai le mani sul volto e mi morsi un dito nel disperato tentativo di non urlare ancora.                  
Elisabeth cominciò ad accarezzarmi i capelli, ma nello stato in cui ero sopportavo a fatica il suo contatto. Gemetti, con le tempie che scoppiavano e il sangue che mi pulsava nel cervello.                        
- Andrà tutto bene, amore mio. - mormorò, non sapendo cos'altro dire per cercare di calmarmi.                                                             
Esalai un respiro profondo ma subito dopo qualcosa dentro di me scattò. Mi allontanai da lei, liberandomi dalla sua stretta.                                                                                                                        
- Non dirmi queste cose!- gridai - Non ci provare, Elisabeth!-                                                                                    
Mi aggrappai ad un mobile e riuscii ad alzarmi faticosamente, ma quando i miei genitori adottivi si avvicinarono per aiutarmi, li allontanai quasi con violenza e rischiai di cadere.                                              
- Tesoro, calmati, ti prego.- implorò Elisabeth sconvolta.                                                                                       
- Come puoi pretendere una cosa del genere?- ribattei fra le lacrime.                                                                    
Tirai un altro pugno contro il muro e imprecai. La guardai con rabbia.                                                             
- Tu non sei mia madre! -                                                                                                                                
Corsi su per le scale e mi rifugiai in camera mia.                                                                               
Richiusi la porta facendola sbattere, poi mi lasciai scivolare contro di essa e nascosi di nuovo il volto con le mani.                                                                                                                  
"Perché?" pensai "Non aveva già pagato a sufficienza? Non si meritava anche questo!"                                                         
Mi sentivo soffocare. Mi alzai tremante e spalancai le finestre, ma non riuscii comunque a respirare meglio. Mi guardai intorno, con la vista sfocata. La stanza... era la stanza stessa che mi soffocava.       
Tutti quei colori e quegli oggetti sparsi in giro sembravano farsi beffe del mio dolore.                           
Odiavo ogni cosa che avevo intorno.                                                                                                                            
Mi avvicinai alla parete e cominciai a togliere i disegni e i dipinti appesi, sfogandomi su di essi. Li gettai nel grande cesto bianco.                                                                                                                           Poi fu il turno dei fogli sparsi ovunque. Non risparmiai niente: mi accanii persino contro le poche tele non utilizzate. Presi tutto e lo ridussi in mille pezzi prima di buttarlo.                                               Rovesciai il cavalletto vuoto, poi mi voltai e i miei occhi si posarono sul quadernetto di pelle, posato sulla scrivania dall'altra parte della stanza.                                                                                 
Riuscendo a contenere la rabbia, lo aprii e cominciai a sfogliare le pagine.
Tutte quelle cose felici che avevo scritto mi davano la nausea.                                                                                                        
Cominciai a strappare le pagine e non mi fermai fino a che non le ebbi distrutte tutte, comprese quelle ancora bianche. Afferrai un paio di forbici e cominciai a incidere la copertina di cuoio.                    
Non provai emozioni particolari e non ebbi alcun rimorso quando lo gettai insieme al resto.                                                                                 
Con le forbici in mano mi misi a carponi e cominciai a squarciare i cuscini colorati, singhiozzando. Un nugolo di piume bianche invase il pavimento.                                                                               
La mia mente era offuscata e non era in grado di ragionare. In realtà non riuscivo nemmeno a distinguere le emozioni che stavo provando.                                                                                        
Sapevo solo che avevo male. Un male non solo mentale, ma anche fisico, come quello che si prova a tuffarsi nell'acqua ghiacciata. Solo che era tre,quattro volte più intenso.(1)                                     
Alla fine ruppi perfino le forbici. Le uniche cose che non toccai furono  il cavalletto e la piccola tela non ancora finita, che si salvò soltanto perché era coperta da un telo bianco che mi impediva di vedere i suoi colori.                                                                                                                                         
Mi rannicchiai in mezzo alle piume, stremata.                                                                                                       
Non avevo più la forza né il fiato per singhiozzare ancora, ma continuai a piangere silenziosamente per ore, con gli occhi spalancati a fissare il niente davanti a me, finché non ebbi più lacrime.            
Ero devastata e infuriata con il mondo. Avevo sempre creduto che non ci fosse un modo "bello" per morire, ma mia mamma se ne era andata in quello peggiore.                                                                             Era tutto un fottuto scherzo del destino: lei amava la pace, ed era morta in mezzo alla violenza e all'odio.                                                                                                                                                               
La notte passò in fretta, sebbene non avessi chiuso occhio.                                                                                          
E in un cielo color porpora il sole si levò caldo e luminoso.                                                                               
Visto? Solo un fottuto scherzo del destino.  

La porta si aprì cigolando appena ed Elisabeth entrò piano. Non mossi un muscolo e lei si sedette di fianco a me, senza però osare toccarmi.                                                                                                       
- Io e James dobbiamo andare a Drake Hall. Non sei obbligata a venire anche tu, se non vuoi.- disse piano.                                                                                                                              
- Ci vengo. - sussurrai con un tono piatto.                                                                                                                  
Quando si accorse che non accennavo ad aggiungere nient'altro, la mia madre adottiva si alzò di nuovo e andò verso la porta.                                                                                                                      
- Mi dispiace - mormorai prima che uscisse - Quelle cose che ti ho detto... io non le penso davvero.-                     
- Lo so, tesoro. - rispose, quindi si richiuse la porta alle spalle.                                                               
Passarono diversi minuti perché riuscissi a trovare la forza per mettermi in piedi. Mi trascinai in bagno e poi mi vestii, senza prestare la benché minima attenzione a quello che indossavo: per quello che mi importava in quel momento, sarei potuta benissimo andare in giro nuda.                                                                    
Quando scesi al piano inferiore, trovai Elisabeth e James ad aspettarmi.                                                            
Il mio padre adottivo mi posò una mano sulla spalla e tentò di rivolgermi un sorriso incoraggiante. Feci un cenno del capo per fargli intuire che avevo capito le sue intenzioni, poi uscimmo di casa.       

A Drake Hall ci venne in contro una guardia, che ci rivolse le solite frasi di circostanza con un tono che alle mie orecchie suonò piuttosto inespressivo.                                                                        
Non ascoltai pressoché nulla di quello che stava dicendo quell'uomo: mi dava fastidio sentire la sua voce.                                                                                                                                              
Mi guardavo intorno, completamente persa. Quel luogo sembrava così diverso ora.                      
Mi riscossi solo quando la guardia si rivolse direttamente a me.                                                                         
- La compagna di cella di tua madre vorrebbe parlarti. Ma se non vuoi, nessuno ti costringe. -                               
Annuii stancamente.                                                                                                                                            
- No, va bene. - risposi a bassa voce.                                                                                                                 
Seguii la guardia perché non sarei riuscita a trovare la strada per il luogo in cui di solito avvenivano gli incontri con mia madre. Elisabeth e James, invece, si allontanarono per discutere di qualcosa in cui non volevo essere coinvolta , come l'organizzazione del funerale o cose del genere. A che serviva una cerimonia ufficiale? Non mi avrebbe riportato indietro mia mamma, e a lei non sarebbe cambiato assolutamente niente se il suo corpo fosse stato seppellito nel cimitero della chiesa di St. Peter's Parish o se le sue ceneri fossero state sparse nel vento.                                                                              
Mi sedetti e dopo poco tempo dietro al vetro antiproiettile comparve la figura di una donna. Aveva i capelli biondi tagliati corti e gli occhi verdi simili a quelli di una cerbiatta.                                   
Schiusi le labbra, mentre i miei occhi si riempivano di nuovo delle lacrime che avevo creduto di aver esaurito.                                                                                                                        
Sbattei le palpebre e mi accorsi che la donna che avevo di fronte non assomigliava per niente a mia mamma: i capelli corvini mettevano in risalto la carnagione pallida e gli occhi scuri.               
Sospirai, mentre la disillusione ricacciava le lacrime indietro.                                                                                      
La donna mi sorrise.                                                                                                                                             
- Io sono Kate. - si presentò. - Tu sei Anna, vero? Assomigli davvero tanto a tua madre.-                         
Annuii senza dire una parola, mentre guardavo con la coda dell'occhio la guardia che continuava a rimanere alle spalle della compagna di mia mamma.                                                             
- Prima di andarsene, Beatrice mi ha chiesto di dirti che ti ha sempre voluto bene e che tu sei stata una benedizione per lei. - disse la donna. Io la guardai con gli occhi spenti.                                                   
- Com'è morta? - chiesi all'improvviso.                                                                                                              
Kate rimase sorpresa dal fatto che glielo domandassi così direttamente e all'inizio fu incerta su cosa rispondere.                                                                                                                                         
- E' stata coinvolta in una rissa. E' morta sul colpo, se n'è andata senza soffrire. -                                                     
- Stronzate. - sussurrai. Non mi importava più dell'educazione: qualcosa dentro di me mi stava facendo intuire che la donna mentiva ed io volevo soltanto che mi dicessero come realmente stavano le cose.  
- Per favore, mi dica la verità. - la implorai stancamente. Non avrei avuto la forza per sopportare menzogne.                                                                                                                                                   
- E' morta dissanguata.- mormorò Kate - Ci ha messo più di un ora , ogni tentativo è stato vano, o almeno così dicono.-                                                                                                                
Trattenni il respiro, come colpita da un pugno al petto. Chiusi gli occhi e finalmente riuscii ad espirare.                                                                                                                                                            
- Grazie. - dissi, sinceramente grata che non avesse cercato di riempirmi la testa di falsità.                                         
Kate mi sorrise, poi mi indicò un fagotto azzurro vicino a me che non avevo notato prima.                      
Lo presi e mi accorsi che era un foulard di  seta. Sgranai gli occhi.                                                                                          
- Beatrice lo aveva quando è stata arrestata. Ha sempre voluto che l'avessi tu. - spiegò Kate.                 
Mi portai il foulard al volto e respirai il profumo di mia mamma di cui ancora odorava.                                                
Da piccola avevo adorato quel pezzo di seta e chiedevo sempre a mia mamma di prestarmelo. Lei rideva, me lo avvolgeva intorno al collo e mi sollevava in modo che potessi guardarmi allo specchio. "E' dello stesso colore dei tuoi occhi, vedi?" mi diceva e mi prometteva che quando sarei stata più grande me lo avrebbe regalato. Poi me lo toglieva e lo indossava.                                                        
Sorrisi malinconicamente, poi guardai di nuovo Kate.                                                                                            
- Come mai è qui dentro?- chiesi - Non mi sembra una criminale. -                                                                  
- Nemmeno tua madre lo era. - rispose semplicemente.                                                                                        
Mi morsi il labbro:- Lei... sa?-                                                                                                                                 
Kate annuì:- Dopo tutti questi anni, ha sentito il bisogno di dirlo a qualcuno: sarebbe impazzita altrimenti. -                                                                                                                                              
Ero scioccata. Mia mamma non aveva detto la verità nemmeno di fronte al giudice che l'aveva condannata, e ora scoprivo che una donna che io non avevo mai visto prima era a conoscenza di quel segreto.                                                                                                                                                             
La guardia disse che il tempo che avevamo a disposizione era scaduto.                                                                     
- I suoi ultimi pensieri sono stati per te. Tutti i suoi pensieri erano per te. Ricordatelo sempre.- mi disse Kate prima di andarsene.                                                                                                                 
Com'ero abituata, la guardai allontanarsi, poi mi alzai. Mi avvolsi il foulard azzurro intorno al collo. Elisabeth e James aspettavano poco distante e quando videro che mi stavo avvicinando mi sorrisero. Non mi fecero domande, né io ne feci a loro.                                                                                                    
- Sei stata molto forte, Anna. - disse Elisabeth stringendomi la mano. Io la lasciai fare, ma non ebbi fisicamente la forza per ricambiare la stretta.                                                                                                      - Non lo sono, invece. - dissi.                                                                                                                                  
Mi sentivo svuotata di ogni sensazione; perfino il dolore sarebbe stato meglio di quell'apatia. Volevo solo chiudermi al buio da qualche parte, dove nessuno avrebbe potuto disturbarmi, e lasciare che intorno a me il mondo continuasse a girare.

Alla fine, fu organizzato un funerale nella più rigida tradizione protestante. Si tenne due giorni dopo la morte di mia mamma.                                                                                                                                   In quel breve lasso di tempo rimasi quasi sempre nel caos della mia stanza, nella penombra, uscendo soltanto per far finta di mangiare qualcosa. I muscoli mi facevano male per la posizione in cui rimanevo ore intere, rannicchiata nell'angolo fra la scrivania e il muro esterno, e gli occhi mi bruciavano per la stanchezza.                                                                                                                 
Complessivamente, dormii si e no tre ore: ero terrorizzata da quello che sarebbe potuto succedere se avessi chiuso gli occhi e avessi ceduto allo sfinimento.                                                                    
Mi muovevo il minimo indispensabile, poiché semplicemente sentivo di non aver abbastanza forza per svolgere le funzioni vitali e contemporaneamente rimanere in piedi e camminare.                  
Quei pochi giorni mi sembrarono durare anni e anche se vedevo il sole tramontare e sorgere, persi completamente la percezione del tempo.                                                                                               
Per questo, quando Elisabeth entrò nella mia stanza, una mattina, non avevo la minima idea che fosse già il giorno stabilito. Ero stata tentata molte volte di dire ai miei genitori adottivi che non sarei andata al funerale, ma in fondo non volevo negare a me e a mia mamma di avere la possibilità di salutarci un'ultima volta.                                                                                                                                             
- Anna, è ora di andare. - disse piano Elisabeth per non spaventarmi.                                                                
 Come se fossi in grado di provare qualche emozione. Annuii, con lo sguardo fisso davanti a me. La donna si avvicinò e si chinò.                                                                                                                
- Senti, tesoro, credo che tu debba saperlo: non saremo soli oggi, ci saranno anche...-                            
- Non mi interessa chi ci sarà o chi non ci sarà.- la interruppi, spostando gli occhi privi di espressione su di lei - Voglio solo che tutto questo finisca presto.-                                                                     
In realtà, avevo detto a Cyn e a Stu di non venire al funerale, dopo che loro avevano saputo e mi avevano chiamata. Non conoscevano mia madre e non  volevo coinvolgerli in una faccenda che non li riguardava minimamente, ma non avrei certo fatto una scenata se si fossero presentati comunque.                                                                                          
Respirai profondamente, ma quel gesto mi provocò una fitta al petto. L'aria che passava nei miei polmoni mi ricordava che ero ancora legata a questo mondo, e ciò era l'ultima cosa che io desideravo.
Mi appoggiai alla scrivania per aiutarmi ad alzarmi. Avevo preso la sensibilità alle gambe ed ero malferma, ed Elisabeth venne in mio aiuto, passandomi un braccio in torno alla vita. Mi accompagnò fino al bagno; io chiusi la porta, facendole capire che avevo bisogno di stare ancora un po' da sola, ma non girai la chiave.                                                                                                            
Mi infilai quel maledetto abito nero che mi schiacciava le vertebre come se avessi indossato un corsetto del Cinquecento, e avvolsi intorno al collo il foulard azzurro. Mi pettinai, ma non sprecai forze a tentare di nascondere le occhiaie violacee che circondavano i miei occhi, perché ero perfettamente cosciente del fatto che ogni tentativo sarebbe stato vano. Tutti quel nero su di me (le occhiaie, il vestito, le scarpe) mi faceva sembrare più pallida di quello che ero in realtà.                                                                                                 
Arrivammo a St. Peter's in anticipo e stare in mezzo alle altre tombe non contribuì certo a sollevarmi il morale. In compenso, il sole era così caldo che stavo sudando.                                               
Elisabeth e James erano abbastanza distanti da me, poiché avevano capito che non avrei sopportato la vicinanza di nessuno in quel momento.                                                                                                
Un rumore attrasse la mia attenzione: dal cancello del cimitero entrò un gruppetto di persone molto composito: due anziani, marito e moglie molto probabilmente, tre uomini e una donna tutti sulla quarantina  e un ragazzo che doveva più o meno avere la mia età. La donna era abbracciata con il più alto degli altri adulti e parlava sottovoce con l'adolescente.                                                                                      
I loro volti avevano tratti abbastanza marcati e la carnagione parecchio abbronzata, almeno per gli standard inglesi. Si fermarono a parecchi metri da noi.                                                                           
- Chi sono quelli?- chiesi a bassa voce. Non aspettai una risposta da parte dei miei genitori adottivi, poiché in realtà non avevo rivolto a nessuno quella domanda. Mi avvicinai agli sconosciuti.
Quando i suoi occhi si posarono su di me, l'anziana signora sussultò.                                                                
- Beatrice?- mormorò, titubante, muovendo un passo verso di me.                                                               
Anche la donna più giovane mi squadrò.                                                                                                            
- Non dire assurdità, mamma. Quella pazza di tua figlia aveva gli occhi verdi.- disse.                            
Non capii niente di quello che aveva detto, poiché parlava in italiano , ma percepii l'acidità malcelata nel suo tono. Fissai l'anziana.                                                                                                              
- Io...- sussurrai - Beatrice è.. era mia mamma. Voi chi siete?-                                                                                
Uno dei tre uomini si rivolse alla donna, immaginai per tradurle quello che avevo detto, poi parlò a me.                                                                                                                                                
- Noi siamo la sua famiglia d'origine. -                                                                                                         
Sgranai gli occhi e non riuscii a trovare qualcosa da replicare.                                                                    
James mi raggiunse e mi disse che il prete era pronto a cominciare e riuscii, almeno per il momento, a sfuggire quella situazione assurda.                                                                                            
Tuttavia, avrei preferito trovarmi a gestire altre cento situazioni del genere, piuttosto che fare quello che dovetti fare.                                                                                                                                
Quando l'ultimo granello di terra si staccò dal mio palmo sentii il mio cuore perdere un battito. Mi morsi la lingua per non piangere di nuovo, soprattutto davanti ai sette italiani, i quali, avendo tradizioni diverse, si astennero dal gettare una manciata di terra nella fossa.                                  
"Addio, mamma." pensai.                                                                                                                                        
Rimasi immobile a guardare la bara che veniva coperta da sempre più terra. Era definitivo, ormai. Non c'era più la remota possibilità che un giorno vedessi mia mamma entrare dalla porta e dirmi: "era solo uno scherzo, Anna. Sono qui ora e no ti lascerò più."                                                                         
Una lacrima scivolò silenziosa lungo la guancia, ma l'asciugai in fretta. Elisabeth mi cinse le spalle con un braccio e appoggiai la testa contro la sua spalla.                                                                            
- Portami a casa. - la implorai.                                                                                                                              
- Per te va bene se vengono anche i suoi parenti? - chiese. - Ho cercato di dirtelo, non avrei voluto che lo scoprissi in questo modo. -                                                                                                                         - Non importa. Basta che mi porti a casa. -                                                                                                       
Rimasi appoggiata a lei per tutto il tragitto verso casa, dove mi lasciai sprofondare nella poltrona.
Non mi curai minimamente della presenza degli estranei intorno a me, ma almeno resistetti all'impulso di rifugiarmi in camera.                                                                                                        
Cominciarono le presentazioni: un elenco di nomi che mi suonavano totalmente alieni e che non riuscii a imprimere per lungo tempo nella mia memoria. A parte i due anziani, che erano i miei nonni, c'erano i tre fratelli di mia madre: l'uomo che mi aveva parlato a St. Peter's,  il più giovane dei tre uomini e la donna, che era venuta insieme al marito e al figlio adolescente.                                                               
Ero talmente stordita che non udii una sola parola delle conversazioni che probabilmente si stavano svolgendo intorno a me. Dubbi e domande cominciavano ad affollare la mia testa che stava scoppiando. Com'era possibile che mi fossi trovata davanti la famiglia di mia madre sostanzialmente al completo così all'improvviso?                                                                                                                            L'anziana, mia nonna, si sedette di fronte a me, sorridendo dolcemente, poi alzò la voce e disse qualcosa che non capii. Un secondo dopo si materializzò al suo fianco il ragazzo, al quale la donna disse qualcosa.                                                               
- La nonna dice che era da tanto che voleva conoscerti. - tradusse con un inglese abbastanza corretto.                                                                                                                                                      
Annuii, ma non dissi nient'altro. La stanza precipitò in un silenzio a dir poco imbarazzato.                             
- Perché, se mia mamma aveva dei parenti in vita, io sono stata data in adozione?- chiesi infine con un sospiro.                                                                                                                                          
Nei minuti successivi non si udì una mosca volare, poi  uno dei due fratelli di mia mamma si schiarì la voce:- Beatrice era davvero testarda, a volte. E ci ha detto di volere che tu crescessi a Liverpool;  nessuno di noi poteva lasciare la propria vita in Italia per trasferirsi qui: all'epoca c'erano troppe cose in ballo. -                                                                                                                                      
Battei le palpebre, mentre il mio cervello cercava di capire se quella era una spiegazione sufficiente.
Non lo era, non lo era affatto.                                                                                  
Mi alzai di scatto dalla poltrona e li guardai.                                                                                                                  
- Io sono stata nove mesi in un orfanatrofio! - gridai. - E perché? Perché c'erano troppe cose in ballo?!-                                                                                                                                                                    
- Datti una calmata, ragazzina. - disse la donna più giovane - E anche una svegliata.-                                                          
Mi si fece più vicina e mi guardò con ostilità.                                                                                                        
- Tua madre non ti ha mai desiderata, capisci che intendo? Sei stata un errore, un incidente di percorso. E nessuno nella nostra famiglia ha mai voluto avere a che fare niente con te. -                                  
- Isabella!Non esagerare!- la richiamò l'uomo che aveva appena parlato.                                                                                  
- Ho semplicemente detto quello che qui dentro pensiamo tutti, Marco! - replicò la donna.                              
Mi tremavano le labbra. Non mi ero aspettata che mi trattassero come una di loro, ma nemmeno che si rivolgessero a me in quel modo...                                                                                                         
- Adesso basta!- si intromise James riducendo tutti quanti al silenzio.- Vi abbiamo accolti in casa nostra perché potessimo commemorare Beatrice insieme, non per darvi la possibilità di insultare nostra figlia! Se siete venuti per questo, mi spiace, ma devo chiedervi di andarvene-                                                                                                                                                      
La tensione era palpabile nell'aria e non riuscivo a sopportarla.                                                                  
Barcollai fino alla cucina e spalancai la finestra, poi mi sedetti sul tavolo.                                                              
Passai una mano nei capelli cercando di reprimere la voglia di urlare a tutti gli Italiani  di andarsene e di non farsi mai più risentire. Riuscivo a giustificare la loro presenza al funerale, ma mi sfuggiva il motivo per il quale erano ancora in casa mia, quando era fin troppo chiaro che non avrebbero mai voluto incontrarmi e che, dall'altra parte, la loro presenza, perlomeno a me, non era affatto gradita.
Sentii che James ed Elisabeth cominciavano a discutere con i nostri "ospiti".                                                                                                                                                      
"Andatevene. Andate via. Tornate a casa vostra. Non voglio più vedervi." pensai sull'orlo delle lacrime.                                                                                                                                                                
 - Bene. Noi togliamo il disturbo. Grazie per l'ospitalità. - disse Marco. Il sollievo che provai mi permise di trovare la forza per tornare in salotto e salutare.                                                                            
- E' stato bello incontrarti almeno una volta, Anna. - affermò Marco, visibilmente a disagio.                
- Anche per me. - mentii spudoratamente. Imprecai mentalmente, poiché i saluti si stavano protraendo per troppo tempo, per i miei gusti.                                                                                                        
La nonna mi si avvicinò e mi abbracciò, lasciandomi allibita. Non mi aspettavo affatto quel gesto d'affetto che pareva così spontaneo. Sentii le sue lacrime inumidirmi i capelli.                                           
- Arrivederci. - disse poi.                                                                                                                             
Guardai la "famiglia" di mia madre uscire e mi sentii molto meglio dopo che ebbi chiuso la porta a chiave.                                                                                                                                                   
Mi accasciai contro il legno massiccio e mi lasciai scivolare sul pavimento, scoppiando in un altro pianto convulso. Elisabeth mi si sedette a fianco e mi prese la mano, ma io strinsi la sua talmente forte che si lasciò sfuggire un lamento.                                                                                                               
- Scusa... io... - non riuscii a formulare una frase di senso compiuto. La abbracciai e nascosi il volto nell'incavo del suo collo, mentre lei cercava, accarezzandomi la schiena e i capelli, di calmare almeno i tremiti.                                                                                                                             
 Quando le lacrime si esaurirono, ero stravolta e non riuscivo a muovere un muscolo. Sentii che James mi prendeva in braccio.                                                                                                                             
- Ti porto a letto, piccola. - disse dolcemente.  Mormorai qualcosa che non aveva senso, e mi accorsi a malapena del fatto che la penombra confortante della mia stanza mi aveva avvolta. James mi depose delicatamente sul letto, coprendomi e rimboccandomi le coperte.                                                          
Stavo per abbandonarmi e lasciarmi avvolgere nell'abbraccio del sonno. Ma quando chiusi gli occhi, nella mia mente se ne spalancò un altro paio, che mi guardavano con un'espressione sadica estremamente divertita.                                                                                                                                                       
- No!- gridai e mi misi subito a sedere.                                                                                                                     
Ero da sola e non avrei saputo dire quanto tempo era passato da quando il mio padre adottivo mi aveva portata in camera mia e mi aveva lasciata da sola, credendo che stessi per addormentarmi.  
Mi accorsi che indossavo ancora gli abiti del funerale. Gemendo, me ne liberai dibattendomi come se stessi cercando di sfuggire la morsa di un serpente, fatta eccezione per il foulard.                         
Tolsi la coperta dal letto e mi trascinai insieme ad essa nel mio solito angolino. La semi-oscurità della stanza ora mi faceva paura, e non avevo il coraggio di allontanarmi dalle finestre per andare ad accendere la luce. Nella desolazione che mi circondava avevo paura si nascondessero quegli occhi satanici.                                                                                                                                                
Mi rannicchiai contro la parete,  avvolta nella coperta, con indosso solo il foulard azzurro di mia madre.    


(1)  Questa è un’influenza del greco. Mi è scappata e me ne sono accorta tardi. Dire “tre, quattro volte più…” per i Greci equivaleva a dire “mille volte più…”                                              

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Alt, fermi tutti, che nessuno si muova! Non voglio essere colpita da un proiettile prima di potermi spiegare! Sono a conoscenza che “Mother” non è una canzone dei Beatles ma di John Lennon, però non mi è venuto in mente niente che ci stesse meglio.                                                                                                   
Bene, dopo aver evitato di rischiare la vita, posso passare a parlare del capitolo.                                
Finalmente sono riuscita a finire questa tortura!
So che è terribile, ma è stata davvero una sofferenza da scrivere, perciò vi prego: abbiate pietà.
In realtà non mi piace per niente, ma non sono riuscita a tirar fuori niente di meglio
.

Ruben_J : Anche io ho avuto un incubo simile, non sei l’unica! Anzi, la maggior parte delle cose che scrivo negli incubi di Anna sono cose che ho realmente sognate, adattate poi alla situazione, fatta eccezione per gli occhi, che invece ho inventato di sana pianta.                                                                  
(- Bah… sana non direi.                                                                                                                                    
– Lennon, mi fai il piacere di levarti dai piedi?! Mi stai tormentando!                                                                                                              
– Sei tu che mi chiami sempre, ultimamente.                                                                                                                                             
– Oh no, ti sbagli. Io avrei preferito di gran lunga Paul. * John ammutolisce e mi guarda male.                      
– Oh yeah! Meg uno, Johnny zero! Vai così, socia! *si batte il cinque da sola.)                                         
Okay, dopo questa breve sclerata, passiamo alle cose serie. Anche secondo me la parte di Blackpool è la più importante ed è quella che preferisco; all’inizio l’avevo concepita per evidenziare il colpo finale, ma poi ha preso forma e “vita” ed è diventata una cosa a sé stante.

MaryApple : Spero di aver aggiornato abbastanza presto e di non averti tenuta troppo a lungo sulle spine! Se ti può consolare anche io al momento sto odiando John (nonostante io sia a conoscenza di sviluppi futuri) , ma il mio problema è che poi mi sento in colpa perché non dovrei provare dei sentimenti del genere, né dovrei farli nascere nella gente: va contro i miei ideali!                                      
Ti ringrazio per i complimenti, soprattutto quelli al capitolo. Mi sto davvero innamorando di questa storia ed è un immenso piacere scoprire che anche a qualcuno riesce a piacere. 

Lonely Heart : In realtà, credo che quello che è successo dopo la telefonata fosse abbastanza scontato, ma non sono riuscita a trattenermi dal lasciare in sospeso tutto: è una di quelle soddisfazioni che ogni tanto bisogna prendersi.                                                                                           
Per quanto riguarda l’incubo, be’, credo che basti dire che l’ho scritto ascoltando Revolution 9. ( In genere, quando devo scrivere queste parti “leggermente” cupe, ascolto Revolution 9 o Blue Jay Way.)

Grazie a tutti i lettori.


Peace n Love.

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Capitolo 10
*** 9. - Don't Bother Me ***


Don't Bother Me.





Ero in un seminterrato buio, rannicchiata in un angolo.
Urlavo. 
Delle braccia forti mi tenevano stretta ad un petto muscoloso, ed io cercavo in tutti i modi di liberarmi. 
- Basta piangere, piccola. Va tutto bene. - disse una voce.
Alzai lo sguardo, asciugandomi le lacrime.
- Papà?- chiesi, esitante.
L'uomo sorrise.
- Va tutto bene.- ripeté.
La porta si aprì con un colpo secco e la figura di una donna apparve sull'uscio. Indossava un tailleur elegante e un foulard azzurro. 
I suoi occhi erano pieni di odio e di desiderio di vendetta. In mano stringeva un coltello da carne.
- Sta' lontano da lei!- ordinò mia mamma avvicinandosi e puntando il coltello contro mio padre.
- Bea, calmati. La piccola ha avuto un incubo, sto cercando di tranquillizzarla.- spiegò l'uomo lasciandomi e alzando lentamente le mani. 
- Bastardo!- gridò mia madre e si avventò su di lui.  Affondò il coltello nel collo di suo marito fino al manico e il sangue schizzò sul suo viso, macchiandole il bel foulard di seta.
Estrasse la lama, e mentre il corpo di mio padre rovinava a terra, la donna assunse un'espressione di totale soddisfazione. Guardò il cadavere e scoppiò in una risata perversa. 
Si chinò sul corpo e cominciò a praticare delle profonde incisioni, godendo di ogni attimo. 
Quando si ritenne abbastanza soddisfatta era coperta di sangue. Io la guardavo, incapace di qualsiasi movimento. Si chinò al mio fianco e mi abbracciò, sporcandomi.
- D'ora in poi, nessuno potrà farti del male .- sussurrò al mio orecchio.
Chiusi gli occhi, lasciandomi confortare dalla sua stretta nonostante quello che avevo appena veduto.
Non mi accorsi che mia mamma fece scivolare il coltello nel mio ventre. Chiusi gli occhi, senza sentire dolore.
Quando li aprii ero circondata dalla nebbia. Ero in piedi in mezzo al nulla, come se fluttuassi nel vuoto. Indossavo un abito bianco, sporcato di sangue laddove mia mamma mi aveva accoltellata.                    Davanti a me, gli occhi color del ghiaccio ridevano.
- Dove sono?- chiesi, ma parlare mi provocò una fitta che mi fece finire a terra. Sputai sangue.
- Sei morta, piccola Anna. Ti ha uccisa tua mamma.- rispose la voce dell'Uomo.
Fissai gli occhi con odio.
- No! Non riuscirai a farmi credere che lei è la cattiva. - 
Una risata che assomigliava a quella di una iena risuonò nell'aria.
- Scommettiamo?-
Mi ritrovai in una cripta semi-buia. La luce di un'unica piccola candela danzava sinistramente sulla parete di roccia scabra. L'angusto ambiente era troppo affollato. Tutta la famiglia di mia madre era riunita in circolo, e fra gli Italiani scorsi anche James ed Elisabeth. Non riuscivo a capire intorno a cosa fossero stretti.
Come si accorsero della mia presenza, tutti si voltarono verso di me, puntandomi contro gli indici. Si aprirono, in modo che potessi vedere.
C'era una bara di legno scuro, con sopra appoggiato un rametto di fiori di pesco, i preferiti di mia mamma. Tutte le persone presenti, compresi i miei genitori adottivi, mi guardavano con odio. Abbassai lo sguardo e mi avvicinai alla bara, sfiorando il legno con la punta delle dita.
A quel contatto, i fiori presero fuoco, che si esaurì senza propagarsi solo quando il rametto fu cenere. La bara si aprì lentamente. Dentro v'era il corpo di mia madre.
Soffocai a stento un gemito e mi coprii la bocca con una mano.
Gli occhi di mia madre si aprirono.
Gridai.
Il suo sguardo era iniettato d'odio e di rabbia, ed era... color del ghiaccio.
Mi guardai intorno, accorgendomi solo in quel momento che tutte le persone presenti avevano gli stessi occhi satanici.
Cominciai a piangere e a tremare, finché le gambe cedettero e io caddi sul pavimento di pietra gelata. Mia mamma uscì dalla bara con un gesto teatrale.
La guardai, terrorizzata.
- Mamma?- sussurrai - Mamma, per favore, aiutami.- 
La donna mi rivolse un sorriso malvagio, ma poi si chinò su di me.
- Perché ti sei vestita di bianco, piccola mia?- mi chiese. - Non sei tu quella che ha detto che il bianco è il colore dei morti? -
Sgranai gli occhi, mentre lei mi afferrava per gli avambracci con talmente tanta forza da lasciarmi dei lividi. Mi sollevò facilmente, mentre tutto intorno a noi le persone scoppiavano a ridere.                     Chiamai mia mamma più volte, implorandola di lasciarmi andare, ma lei mi ignorò.
Mi buttò nella bara.
- Spediscimi una cartolina, amore mio.- disse prima di chiudere la bara.
- Mamma!- gridai, cominciando a colpire il legno che mi circondava. - Mamma!-
Le mie urla terrorizzate e i miei singhiozzi non riuscirono a coprire le voci di mia madre e degli altri.
- Finalmente ce l'hai fatta a liberarti di lei. - stava dicendo Elisabeth - Io e James ci stavamo chiedendo quando ti saresti decisa a completare l'opera. - 
- Chiedo scusa a te e a tuo marito per il fastidio. Stupida, capricciosa bambina. Ma volevo una fine in grande stile. -
Elisabeth rise:- Ne è valsa la pena. -
Cercai di aprire la bara, ma il legno non cedeva. Ero allo stremo delle forze.
- Vi prego! Qualcuno mi aiuti!-
Sentii mia madre tamburellare contro la bara.
- Urla e strepita quanto vuoi, sciocca bambina. Esaurirai l'ossigeno più in fretta.- disse. - Spero ti divertirai lì dentro! E' una di quelle esperienze che capitano una volta nella vita. -   
- Per favore, tirami fuori di qui! - piansi, ma sia mia mamma sia tutte le altre persone sembravano essere svanite. L'ossigeno cominciò a scarseggiare, ma io non riuscii a fare altro che a singhiozzare in modo più evidente.
Chiusi gli occhi, mentre cominciavo a sentire che non mi sarebbero rimasti molti altri respiri. 
- Povera piccola Anna. - disse la voce dell'Uomo dagli occhi di ghiaccio. Non ebbi bisogno di aprire gli occhi per percepire che il suo sguardo era proprio davanti a me.
- Non avrebbero mai dovuto torturarti in questo modo. - continuò la voce, poi sospirò. - Ma converrai con me, piccola Anna, quando dico che a questo punto è meglio sfruttare la situazione, no? Sono sicuro che ci divertiremo un mondo, io e te. -  
La voce rise, mentre decine di mani mi toccavano il corpo, facendo marcire la carne.            


I miei occhi si spalancarono sulla stanza buia. Mi strinsi le mani nei capelli così forte che mi strappai qualche ciocca.                                                                                                                                      Gemetti. 
"E' stata colpa tua." mi disse una voce nella mia testa. 
"No, non è vero!" risposi disperata. 
"Sì, invece. E tu lo sai. Se tu non fossi mai nata, lei non sarebbe morta. Per vivere hai ucciso tua madre."
Scoppiai in lacrime di terrore.
"Assassina!"
- No!- gridai.
Mi alzai sulle gambe instabili e corsi in bagno. Mi accasciai contro la porta e incrociai le braccia sul petto, rannicchiandomi su me stessa.
Ero terrorizzata dall'eventualità che quella parte di me che diceva che era colpa mia avesse ragione. 
No, io sapevo che quella parte aveva ragione: ero un'assassina e anche se le mie mani non erano sporche del sangue di mia madre, almeno non in modo diretto, ciò non significava che io non l'avessi uccisa. 
"Sarei dovuta morire io al suo posto." pensai, mentre le lacrime scorrevano incontrollate lungo le mie guancie.
Provavo ribrezzo nei confronti di  me stessa. Non ero altro che un parassita che viveva a scapito delle persone che circondava. Non avevo fatto altro, da quando ero nata: distruggere la vita degli altri.      
Mi avvicinai al lavandino e appoggiai la fronte contro lo specchio. Guardai il mio riflesso. 
I miei occhi... non erano tanto più scuri di quelli dell'Uomo. 
Singhiozzai, mentre un pensiero malato, un'intenzione morbosa cominciava a martellarmi nella mente.
Aprii il rubinetto, in modo che l'acqua coprisse qualsiasi altro rumore, poi mi chinai sul water e mi caccia due dita in gola.
I denti lasciarono dei segni rossi sull'indice e sul medio.
Mi girava la testa e mi sentivo come se un branco di cavalli mi avesse travolta.
Ma non mi bastava.
Mi rialzai e tornai al lavandino.  Aprii lo sportello dell'armadietto vicino allo specchio e cominciai a frugare.
"Dove diavolo l'ha messo? L'ho visto qui pochi giorni fa!" pensai furente. Cominciai a imprecare mentalmente e mi fermai solo quando, finalmente, trovai quello che cercavo.
Il rasoio di James.
Allungai il polso destro sul lavandino e strinsi nella mano sinistra la lametta talmente forte che mi tremava la mano.
Serrai la mascella.
Lasciai la presa sul rasoio, che ricadde nel lavandino con un rumore secco.
Guardai la mia mano aperta, scioccata.
Lentamente chiusi il pugno e portai le braccia lungo i fianchi.
"Che... cosa stavo per fare?!"
Ebbi un altro conato di vomito; spontaneo, questa volta.
Arrancai di nuovo fino in camera e mi chiusi dentro.
Mi lasciai scivolare contro la porta e nascosi il volto fra le ginocchia.
"Perché ti sei fermata?" pensai "Te lo saresti meritata!"
Provai a rialzarmi, con l'intenzione di tornare in bagno e fare quello che poco prima non ero riuscita a portare a termine, ma non ci riuscii: non ne avevo la forza.
Ricaddi sul pavimento e strinsi le gambe al petto.
Scoppiai in un altro pianto isterico. La mia mente era piena delle immagini di lame e coltelli che tagliavano la carne.
"Trova il coraggio di alzarti e andare a tagliarti quelle cazzo di vene!" continuavo a ripetermi, ma un secondo dopo mi rendevo conto della natura dei miei pensieri e gridavo.                                                 Mi alzai a fatica e accesi la luce.
Andai alla ricerca di tutto ciò che avrebbe potuto tagliarmi: oltre al paio di forbici distrutte, matite, penne, temperini, compassi... Presi in mano tutto, ma mi trovai ad esitare.                                                    Sarebbe stato così facile... Scossi la testa, sconvolta.
Aprii la porta e ammucchiai tutto appena fuori dall'uscio, poi mi richiusi nella camera.
"Ti pentirai di averlo fatto, e lo sai." pensai. Gemetti.
Trascinai la scrivania fino alla porta e ce la piazzai davanti, in modo che nessuno, e in particolar modo io, potesse aprirla di nuovo.                                                                                                               Ansimai per lo sforzo fisico e tornai a sedermi contro la porta, sotto la scrivania, per un attimo fiera di aver trovato la forza per liberare la mia stanza da ogni oggetto con cui avrei potuto ferirmi.
"Stupida, stupida ragazza!" mi urlai contro il secondo successivo. Cominciai a graffiarmi le spalle con le unghie.
- Anna, apri la porta!- gridò James bussando furiosamente dopo aver cercato di entrare in camera mia. Non risposi.
"Andatevene." pensai.
- Anna, per favore! - mi implorò Elisabeth.
- No. - mormorai. Non credevo riuscissero a sentirmi.
Ogni colpo inferto alla porta mi provocava una fitta alle tempie. Mi asciugai furiosamente le lacrime.
- Andate via!- dissi a voce più alta. Temevo che se avessero continuato avrei ceduto alle loro richieste e avrei aperto quella dannata porta.
- Non finché non avrai aperto.- replicò James. Soffocai a stento un grido frustrato.
- Lasciatemi in pace!-
- Anna, ti prego! Siamo spaventati a morte ...- sussurrò Elisabeth sull'orlo delle lacrime.
"Anche io, Elisabeth, anche io." pensai. 
Non riuscivano a capire... Io ero terrorizzata da me stessa, da quello che avrei potuto fare.
Rimanere chiusa lì dentro era l'unica possibilità che vedevo. Non osavo immaginare che cosa sarebbe accaduto se quei pensieri mi fossero venuti mentre ero per strada o vicino alla stazione o al porto.
- Per favore, lasciatemi sola.- dissi. James smise di picchiare contro la porta e tutto sprofondò nel silenzio. 
Si sentirono dei singhiozzi. Forse erano miei, o forse di Elisabeth.                          

Nei giorni seguenti non uscii mai, nemmeno per bere. Ero troppo spaventata per farlo.
Anche se in alcuni momenti mi rendevo conto che tutto ciò era assurdo, una parte di me continuava a gridarmi che ero io la responsabile della morte di mia mamma e che dovevo farmi del male. 
I miei genitori venivano spesso a cercare di convincermi ad uscire, ma se ne andavano sempre senza aver ottenuto niente.
- Elisabeth, ti prego. Smettila. - mormorai un pomeriggio, mentre la mia madre adottiva bussava con particolare insistenza.
- C'è Stu fuori. Vorrebbe vederti.- disse lei.
- Digli di andare via.-
- Anna, adesso basta. Ci stai facendo preoccupare tutti. - cercò di imporsi Elisabeth.- Esci di lì. -
- Non posso...- gemetti, di nuovo sull'orlo delle lacrime.
fine aveva fatto la forza che avevo da bambina? Ero riuscita ad affrontare una situazione ben peggiore di quella senza versare una lacrima, e ora non facevo altro che rimanere accoccolata a piagnucolare e a graffiarmi le braccia e le spalle quando avevo troppo schifo di me stessa.
Le ore si trascinavano lente e prive di alcuna emozione. Sembrava che il sole facesse di tutto per non tramontare e non sorgere il giorno dopo.                                                                                                 L'unica cosa che temevo era di addormentarmi e facevo di tutto per tenermi sveglia: quando sentivo che i miei occhi si chiudevano cominciavo a camminare per la stanza, finché non riuscivo a scrollarmi il sonno di dosso.
Pian piano i sentimenti e pensieri più violenti iniziarono a sopirsi, ma ancora non mi arrischiavo a sposare la scrivania. Sapevo che in quella stanza ero relativamente al sicuro e che se fossi uscita avrei avuto milioni di modi tra cui scegliere per ferirmi.
Per il momento, quindi, era meglio rimanere dov'ero.
"Tanto chi vuoi che senta la tua mancanza?" mi dicevo.
Per passare le ore cominciai a sistemare la stanza, nei limiti del possibile. Misi di nuovo in piedi il cavalletto caduto e ammucchiai tutte le piume nella federa meno malmessa che riuscii a trovare. Mi accorsi, con grande dispiacere, che niente di ciò che avevo buttato nel cesto bianco era recuperato e rigirando fra le mani la copertina rovinata del quadernetto scoppiai di nuovo a piangere.
" Adesso basta." pensai asciugandomi le lacrime con rabbia.
- Adesso basta. - mi fece eco la voce di Cynthia al piano di sotto - La ringrazio, signora Allen; conosco la strada. -
Sentii la mia amica salire di corsa le scale; cominciò a picchiare contro la porta con tanta violenza che credevo che sarebbe riuscita a sfondarla.
- Aprimi, Anna. - ordinò, senza alzare la voce.
- No. - risposi - Vattene, Cyn. -
- Non ci penso proprio! Prima esci da quella stanza, mi fai vedere che stai bene, e forse potrei ripensarci.-
- Non ti voglio vedere.-
- Non me ne frega assolutamente niente.-
Il suo tono duro mi fece infuriare.
- Vattene via !- gridai. Cynthia non mi rispose. Sentii dei tonfi.
- Che stai facendo?- chiesi, addolcendo di nuovo il tono.
- Se aprissi la porta lo vedresti. -
Sbuffai.
- Mi sto sedendo, comunque.-  disse poi la mia amica.
- Perché?-
- Non ho alcuna intenzione di aspettare in piedi che tu esca di lì!-
Tirai un pugno contro la gamba della scrivania.
Per tutto il resto del giorno non dicemmo un'altra parola, anche se ogni tanto Cyn tamburellava contro la porta per farmi capire che era ancora lì o canticchiava qualcosa sottovoce.
- Non dovresti andare a casa?- chiesi quando mi accorsi che era l'imbrunire.
- No. Elisabeth ha telefonato a mia mamma e le ha spiegato la situazione. Posso rimanere quanto voglio.- rispose ostentando entusiasmo.                                                                                                                  - Fantastico.- mormorai in tono gelido.
Udii i passi di uno dei miei genitori adottivi che saliva le scale.
- Cyn, ti ho portato la cena. - disse Elisabeth.
- Grazie mille, signora Allen. E' davvero gentile da parte sua. -
- Sono io che ti devo ringraziare. - replicò la mia madre adottiva. Sentii che bisbigliavano qualcosa fra loro, ma non capii una sola parola.
- Ti preparo il divano in salotto.- affermò la donna.
- No- replicò Cynthia. - Grazie, ma preferisco rimanere qui. - 
- Non posso lasciare che tu dorma per terra. -
- Non voglio lasciare la testarda. -
Sbuffai. E così stava provando con il giochetto dei sensi di colpa, ma non avrebbe funzionato quella volta: io non le avevo mai chiesto di bivaccare fuori dalla porta della mia stanza.
- Ti porto delle coperte e un cuscino, perlomeno. - concluse Elisabeth. La udii allontanarsi.
Ritornò poco dopo e Cyn la ringraziò, poi ci lasciò di nuovo da sole.
- Odio quando ti impunti. - mormorai.
La mia amica trovò la forza di ridere:- Senti chi parla. Bene, io mi metto a dormire. Buonanotte, Anna. -
Non le risposi. Sapevo che le sue intenzioni erano le migliori, ma quell'ultima frase sembrava una presa in giro. Cominciai a piangere silenziosamente finché gli occhi cominciarono a bruciarmi per la stanchezza.
"Non devo addormentarmi." mi imposi, ma poco dopo , nonostante le mie intenzione, sprofondai nel sonno.
- Anna!- gridò Cyn, svegliandomi dall'incubo. Picchiava disperatamente sulla porta.
- Cyn...?- mormorai quando riuscii a calmare i tremiti. Non riuscivo a capire il motivo per il quale e fosse  chiusa fuori dalla mia porta. Poi ricordai, non era lei che era chiusa fuori, ero io che mi ero reclusa dentro.
- Stai bene?- chiese la mia amica.
- Certo. - risposi con un tono che riuscì perfino a suonare convincente - Era solo un sogno.-
Mi schermai gli occhi con la mano, perché il sole era esattamente di fronte alla finestra centrale della mia stanza.
- Ma che ore sono?- chiesi mentre mi alzavo a tirare le tende.
- Mezzogiorno meno dieci. - rispose Cyn. - Senti, Anna: sono giorni che non esci di lì. -
- Non lo farò nemmeno oggi!- sbottai.
- Non era questo che volevo dirti. - replicò lei, con una nota mortificata nel tono. Mi morsi il labbro.
- Elisabeth ha cucinato del cibo italiano. So che ti piace molto. Potresti aprire la porta...-
- No!- la interruppi.- Non chiedermelo, Cyn. Non posso farlo!-
La mia amica sospirò:- Lo so, Anna. Ti stavo proponendo di aprirla abbastanza perché io possa passarti il piatto.-
Chiusi gli occhi, accorgendomi solo in quel momento della fame e della sete che avevo. Tossii e deglutii più volte, per rimediare all'arsura che avevo in gola.
- No...- mormorai - Non voglio trovarmi in mano un coltello o una forchetta.-
Cyn rimase a lungo in silenzio dopo essersi resa improvvisamente conto del reale motivo che mi aveva spinta all'isolamento.
- Dei biscotti, allora. - propose infine - E del tè caldo. O del latte, se preferisci.-
La sua insistenza cominciava a spossarmi.
- Va bene...- cedetti infine.
- Perfetto!- cinguettò Cyn ritrovando il suo solito entusiasmo.- Torno subito, tu rimani lì e non muoverti.-
Un qualcosa di simile ad una risata uscì dalla mia gola.
La mia amica tornò come promesso poco dopo e bussò contro la porta nello stesso modo che usavamo quando eravamo bambine e andavamo a dormire una a casa dell'altra.
Strisciando uscii dall'angolino sotto la scrivania, alla quale mi appoggiai per riuscire ad alzarmi. Spostai il mobile quel tanto che serviva affinché Cyn potesse allungarmi il pacco di biscotti, una tazza di tè e una bottiglia d'acqua.
Quando ebbe ritratto il braccio richiusi la porta e vi avvicinai di nuovo la scrivania.
Lasciai il cibo lì dove l'aveva posato Cyn e mi sedetti sopra la scrivania, appoggiando la schiena contro la porta.
- Devi anche mangiarli, però. - borbottò, mentre tornava a sedersi.
- Certo. - risposi, anche se non avevo alcuna intenzione, almeno per il momento, di obbedirle.
- Stu mi ha detto che gli hai fatto vedere i tuoi disegni. - disse dopo un po'.
- E' vero. -
Ero sorpresa che avesse cominciato un discorso all'apparenza normale e avesse smesso di insistere per farmi uscire.
- Dovresti venire alla scuola d'arte. -
- No, non credo. -
- Anche John ha intenzione di mollare la Quarry Bank e passare da noi. -
- Un motivo in più per stare lontano da quella scuola, allora. -
- Non c'è speranza che voi due andiate d'accordo, vero? -
Riuscii ad accennare ad un sorriso.
- Forse sì, chi lo sa. Magari quando il suo gruppo skiffle sarà diventato più famoso di Elvis e avrà fatto un tour mondiale. -
Cyn rise:- Stiamo freschi, allora! A parte gli scherzi, non sono poi così male. Dovresti andare a sentirli una volta o l'altra, almeno per fare un piacere a Shotton. -
- Io e lui non siamo così amici. Ci siamo parlati sì e no quattro volte. - 
- Fa' come vuoi. - disse la mia amica per prendermi in giro. - Più che proporti qualcosa, io non posso fare. -
 - Se proprio ci tieni... - sbuffai.
- Hai mangiato?- chiese all'improvviso, cogliendomi di sorpresa.
- No. - risposi.
- Anna Mitchell, sfondo la porta e ti faccio fuori se non trovo il pacco di biscotti vuoto! -
Alzai gli occhi verso il soffitto, poi mi sdraiai a pancia in giù sulla scrivania, cercando di raggiungere i biscotti e il resto senza scendere dal mobile. Metà del tè, com'era prevedibile, si rovesciò addosso a me e benché non fosse più bollente, non trattenni un'imprecazione.
- Fammi indovinare: ti sei rovesciata il tè addosso! - esclamò Cyn ridendo.
- Perspicace la ragazza. - sibilai. Bevvi il resto del contenuto della tazza tutto in un fiato, poi presi il primo biscotto e mi sforzai di mandarlo giù. Dopo quello, cominciai a mangiare con più decisione e svuotai in fretta la bottiglia d'acqua. Mi sentivo decisamente meglio.
Cyn andò avanti a chiacchierare per ore. Una volta che attaccava a parlare, era impossibile fermarla.
- Sono un' egoista, vero?- chiesi d'un tratto.
- No, non lo sei. - rispose lei.
- Sì, invece. Per tutto questo tempo non ho fatto altro che sguazzare nell'autocommiserazione. "Povera Anna" di qua, "povera Anna" di là. - dissi - Senza curarmi delle persone che ferivo con il mio comportamento a dir poco infantile. -
- Non essere così dura con te stessa. Ciascuno ha il suo modo di reagire al dolore. -
- Ma il mio non è affatto un modo per reagire al dolore, più la cosa giusta da fare per rimanerci intrappolata dentro. -                                                                                                                                          Scesi dalla scrivania e camminai nervosamente in mezzo alla stanza. Mi sentivo una stupida bambina che fa i capricci per avere una bambola nuova.
- Che tutto vada a fanculo! - sibilai, poi spostai la scrivania senza preoccuparmi di contenere la rabbia.
- Anna, che succede ora?- domandò titubante Cynthia. Non le risposi, poiché ero troppo concentrata a calmare il respiro accelerato.
Girai lentamente la maniglia e aprii la porta. Cyn era seduta in mezzo ad alcune coperte e  come mi vide si alzò in piedi.
Sul suo viso si dipinse il sorriso più dolce che qualcuno mi avesse mai rivolto.
I miei occhi si riempirono di lacrime.
Cyn mi abbracciò ed io mi aggrappai a lei con tutte le mie forze.
- Mi dispiace, Cyn...- singhiozzai nascondendo il volto contro il suo collo. Lei mi strinse e le sue lacrime si mischiarono ben presto alle mie.
- Di cosa, Anna?- mormorò, anche se la sua voce tremava leggermente.
Le mie ginocchia cedettero e cademmo tutte e due sul cuscino che Elisabeth aveva portato alla mia amica.
- Mi dispiace...- ripetei. Non ero in grado di dire altro.
Cyn cominciò ad accarezzarmi i capelli.
- Ho paura. - gemetti.
- Lo so...- sussurrò lei, poi mi guardò negli occhi. - Ma cerca di ricordarti che sei circondata da persone che ti vogliono bene. Questa volta non sei sola a cercare di portar via le macerie, e invece della carriola giocattolo hai un bulldozer. -
Riuscì a strapparmi un sorriso appena accennato.
- Ho te, e quando ti incazzi vali come una flotta intera, no?- replicai a bassa voce.
- Esatto!- esclamò lei - Solo che non c'è pericolo che io possa ammutini: ci sarò sempre per te, ventiquattro ore al giorno, sette giorni la settimana, festivi compresi. Tu sei la mia sorellina minore.-
Le lacrime ripresero a scorrermi lungo il volto. Cyn mi strinse di nuovo e io chiusi gli occhi.
- Grazie...- sussurrai.
- Ti voglio bene, Anna. -                                                                                                                                          

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Ciao a tutti. Questo capitolo non mi piace granché, se si esclude l'ultima parte e sono stata più volte tentata di cancellarlo completamente, ma poi ho cominciato a scrivere il dialogo con Cyn, e ho deciso che nonostante tutto valeva la pena aggiungerlo al resto della storia.

Vorrei dedicare questo capitolo a Beba257, conosciuta comunemente come Bea (sì, ti dedico solo i capitoli che fanno schifo, contenta? xD) perché è stata la persona che mi è rimasta più vicina in uno dei momenti peggiori della mia vita e perché senza di lei, quasi sicuramente, questa storia non sarebbe mai nata. Quindi ti ringrazio, Bea, dal più profondo del mio cuore.
Bene, dopo aver fatto questa dedica molto tenera (sì, come no...), è mio dovere informarvi che per un po' di tempo ci saranno capitoli un po' più allegri, perché mi sto facendo venire la depressione da sola...


Ruben_J : nemmeno mi vergogno a dire che ho pianto scrivendolo. (cosa che ho fatto anche per questo appena pubblicato)                                                                                                                               
Ti prometto che ti regalerò una fornitura di fazzoletti.

BibiGreenEyes : ti ringrazio! Sono contenta di sapere che ci sono altre persone che si immedesimano nella protagonista, perché sto dando fondo a tutte le mie risorse per farla sembrare verosimile e reale.

Lonely Heart : Anche a me i parenti di Anna stanno antipatici. Non li sopporto proprio! Quella povera ragazza prima o poi uscirà dal computer e si verrà a vendicare di tutto quello che le sto facendo passare (e che ho intenzione di farle passare. * risata diabolica.)
MaryApple : Mi dispiace deluderti, ma John ci metterà ancora un po' a svegliarsi.
E non ti preoccupare per la recensione: è tre,quattro volte meglio del patetico tentativo che ho fatto io.

Grazie a tutti coloro che hanno la pazienza di leggere la storia.


Peace n Love.

 

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Capitolo 11
*** 10. - Blackbird ***


Blackbird.
 



La mattina seguente fui portata da un medico. La situazione si risolse con dieci gocce di antidepressivo alla mattina e quindici prima di andare a letto, insieme ad altrettante di ipnotico.
Nonostante i timori di Elisabeth, non ebbi alcuna reazione negativa all'idea di prendere psicofarmaci.
Quando finimmo la visita non avevo per niente voglia di andare a casa.
- Possiamo fermarci a comprare dei fiori?- chiesi ad Elisabeth, ben sapendo che la donna aveva un debole per le piante e non mi avrebbe mai detto di no. 
- Sì, certo. - rispose infatti. - Come mai? -   Scrollai le spalle, evitando di risponderle. Raggiungemmo in poco tempo un fiorista, dove mi  persi fra i fiori, inebriata dal loro profumo. Riuscii a trovare, come per miracolo, dei fiori di pesco. Quando li vide, Elisabeth comprese ciò che avevo in mente di fare, tuttavia non mi fece domande.
Tornammo a casa e anche nel tragitto la conversazione rimase su argomenti piuttosto superficiali.
- Io esco. - dissi a bassa voce dopo che avemmo finito di mangiare.
- Se vuoi ti accompagno. - si offrì Elisabeth.
Le sorrisi, ma scossi la testa: - Devo farlo da sola. -
Elisabeth annuì e io la abbracciai, poi uscii di casa.
Non era una giornata bellissima, ma era calda, sebbene il vento soffiasse forte.
Camminai lentamente, godendomi la sensazione di benessere che mi dava essere all'aria aperta. Indugiai qualche secondo fuori dal cancello, respirai profondamente ed entrai nel cimitero.                           Anche se non c'ero stata che una volta soltanto, trovai subito la lapide che recava scritto il nome di mia madre.
Mi chinai e pulii la pietra da qualche foglia caduta, poi sostituii con i rametti di fiori di pesco i più tradizionali crisantemi che erano lì dal giorno del funerale.
Mi sedetti tra l'erba e appoggiai la schiena sul lato della lapide.
Un piccolo merlo si posò di fianco a me, per nulla intimorito dalla mia presenza, e mi guardò.
- Mi piacerebbe essere come te. - gli dissi - Essere in grado di lasciarmi tutto quanto alle spalle, andare via da qui e volare lontano, dovunque mi porti il vento. -                                                                     Guardai la fotografia di mia mamma; sorrideva e mi guardava con occhi verdi pieni d'amore.
Una lacrima cominciò a scivolarmi sulla guancia.
- Mi manchi, mamma...- mormorai.
Il pianto in cui scoppiai era diverso da quelli dei giorni precedenti: non piangevo perché ero terrorizzata, e quelle lacrime malinconiche, più che disperate, andavano a disinfettare le mie ferite, liberandole dalle infezioni che le avevano colpite.
Mi ero finalmente resa conto che la rabbia e l'odio verso me stessa non erano altro che delle specie di fantocci con cui cercavo di sostituire il dolore, per non accettare che se ne fosse andata per davvero.
Non piangere tesoro. Non abbiamo molto tempo e voglio vederti sorridere.
Le parole che mia mamma mi aveva detto l'ultima volta che l'avevo vista mi risuonarono nella mente e non potei evitare di sorridere malinconicamente. Da quei pochi ricordi di lei che avevo, mamma era sempre stata una donna allegra e felice di essere al mondo: lei era il sole, l'estate, il sorriso che mi consolava quando stavo male.
Riuscivo a immaginare facilmente le parole che mi avrebbe rivolto se fosse stata lì al mio fianco: guarda il lato positivo, piccola mia. Finalmente sono uscita da quella stramaledetta cella.
Il merlo continuava a guardarmi, come se riuscisse a intuire i miei pensieri. Inclinò la testa di lato, distese lentamente le ali e spiccò il volo.
- Perché è morta?- chiese una voce all'improvviso.
Trasalii e alzai lo sguardo.
Un ragazzo era inginocchiato vicino ad una lapide non distante da quella di mia madre. Era strano che non avessi notato la sua presenza poiché avevo l'impressione che fosse lì da molto. Il ragazzo posò dei fiori bianchi sulla tomba e sfiorò una fotografia con la punta delle dita. Poi si  rialzò e mi guardò con occhi verdi pieni di dolore.
Io aprii la bocca, ma non emisi nessun suono.
- Che cosa? - biascicai alla fine, non riuscendo ad articolare una frase più appropriata alla situazione.
- Ti ho chiesto per quale motivo tua madre è morta. - ripeté lui con gentilezza.
- Come fai a sapere che è mia madre?- chiesi asciugandomi le lacrime. Maledissi il mio cervello che non riusciva a formulare dei ragionamenti più complessi.
Il ragazzo sorrise appena, infilando le mani nelle tasche dei pantaloni eleganti.
- In realtà non lo sapevo affatto, ma ti ho vista piangere di fianco alla sua tomba e ho fatto un'associazione di idee. -
- Per quale motivo dovrei dirti di lei? Insomma, non ti ho mai visto prima in vita mia! - replicai squadrandolo per un secondo.
Si avvicinò lentamente e si sedette accanto a me.
- E' più facile parlare di queste cose con uno sconosciuto che non con qualcuno che ti conosce da sempre, perché una persona che non hai mai incontrato non può formulare dei giudizi o dire frasi del tipo " è stato meglio così, almeno ha smesso di soffrire."- disse. Sospirò, come se cercasse di scacciare dei ricordi.
Rimasi qualche secondo a guardarlo e a riflettere, toccata dalle sue parole.
- La tua come è morta?- gli chiesi infine.
- Aveva un cancro.- rispose e sebbene avesse cercato di mantenere un tono distaccato, i suoi occhi divennero lucidi.
- Mi dispiace...-
Il ragazzo scrollò le spalle e tornò a guardarmi:- E' stato un anno fa -
Distolsi lo sguardo e respirai profondamente.
- Mia mamma era in prigione quando è morta. - sussurrai - E' scoppiata una rissa e lei si è messa in mezzo per cercare di fermarla, ma l'hanno ferita.-
Cominciai a strappare dei fili d'erba.
- Immagino quello che pensa la gente: " se lo meritava, è stata la punizione divina per aver ucciso il marito." -
- Non credo si possa arrivare a pensare una cosa del genere. Nessuno meriterebbe di morire in quel modo, nemmeno il più scellerato fra gli assassini. -
- Mia madre non era un' assassina! - ringhiai furiosa.
Mi ci volle qualche secondo per accorgermi del tono con cui gli avevo risposto, quando lui aveva soltanto cercato di essere gentile e di confortarmi. Lo guardai, mortificata. 
- Oddio, scusa; io non volevo... - mormorai, ma il ragazzo mi sorrise dolcemente.
- Non fa niente. So come ci si sente. -
Portai una mano al volto, cercando di nascondere le lacrime. Egli, tuttavia, mi abbracciò e dopo che ebbi superato i primi momenti di sorpresa, mi appoggiai contro il suo petto, noncurante del fatto che di quel ragazzo non conoscevo neanche il nome.
Quel pomeriggio gli permisi di giungere in un luogo della mia anima che forse soltanto Cyn aveva raggiunto.                                                                                                                                                               Non seppi mai di preciso quanto il ragazzo mi tenne stretta e mi consolò, tuttavia mi era parso che non avessi impiegato molto tempo a calmarmi. 
- Scusa...- dissi di nuovo, notando che gli avevo bagnato la camicia bianca. Lui si alzò e mi porse una mano per aiutarmi a tirarmi su a mia volta, poi sorrise di nuovo.                                                                     - Io sono Paul, comunque. - disse non appena mi fui alzata.
- Anna... - mi presentai a mia volta. Rimasi a dir poco meravigliata quando Paul si chinò a baciarmi la mano che ancora stringeva fra le sue.
Il ragazzo mi guardò con un'espressione allegra :- Sei tu la ragazza dell'autobus, vero?-
- Come?-
- Quella che era stata male sull'autobus per Forthlin Road a maggio, credo. -
Sgranai gli occhi, stupefatta .
Sorrisi a mia volta:- Sì, sono io, ma... -
Mi fermai; Paul mi stava fissando in un modo strano. 
- Che cosa c'è? - chiesi, messa a disagio da quell'occhiata.
Il  suo sorriso si allargò, illuminandogli il viso.
- Se sono davvero riuscito a farti sorridere, posso ritenermi orgoglioso di me stesso e affermare che la giornata non è andata sprecata. -
Rimasi in silenzio, non sapendo cosa rispondere. Il modo di fare di quel ragazzo mi spiazzava completamente. Senza dire nient'altro, Paul mi prese sottobraccio e insieme cominciammo a dirigerci verso casa. Stranamente, i suoi gesti spontanei non mi mettevano affatto in imbarazzo, al contrario tiravano fuori un'estroversione che non credevo di possedere, dandomi l'impressione di conoscere Paul da anni. Chiacchierammo allegramente fino a che arrivammo all' Allerton Park Golf Course.
- Bene, Paul, c'è qualcosa che devo sapere su di te?- chiesi mentre attraversavamo i campi da golf.
- In che senso?-
- Non so... Sei un killer seriale, un rapinatore, un comunista o Dio sa cosa?- dissi sarcastica.
- Niente di tutto questo. - rispose il ragazzo ridendo. - Sono un normalissimo quindicenne che abita nella tua stessa via. -
Finsi di guardarlo con sospetto:- Definisci "normalissimo". -
- Vediamo... Ho un fratello minore, un padre trombettista e frequento il Liverpool Institute.-
- Sul serio? Il Liverpool Institute?- ripetei. - Devi essere uno che studia molto, allora. -
- No, non direi. - replicò lui. - Bene, ora tocca a te. -
- "Sono una normalissima sedicenne che abita nella tua stessa via." - risposi facendogli il verso.
- Non mi sembra proprio...- ribatté sorridendo.
- Sono figlia unica, i miei genitori adottivi hanno vedute molto ampie e di sicuro non vado  al Liverpool Institute. -
- Che scuola frequenti?-
- Ha importanza? In qualsiasi istituto tu vada, cercano tutti di ingabbiare la tua mente, mentre pubblicamente dichiarano che la loro missione è allargare i tuoi orizzonti.-
Paul mi guardò, sorpreso.
- Oh, scusa. Ogni tanto vengo fuori con queste considerazioni filosofiche. Ci farai l'abitudine. - dissi ridendo.
- Dovresti scrivertele da qualche parte. Potranno rendersi utili, in futuro. -
- In genere lo faccio. Ma il mio ultimo quaderno è... finito, e non me ne sono ancora procurato un altro. -
Sospirai, pentendomi di aver dato quella risposta. Paul sembrò accorgersene e cambiò subito argomento:- Come mai non ci siamo mai incrociati per strada, anche se abitiamo nella stessa via? -
- Io non prendo mai l'autobus ed esco di casa molto presto per arrivare a scuola. Soffro di claustrofobia. - spiegai.
Mi fermai, poiché mi ero accorta che eravamo già in Forthlin Road. Paul sembrò sorpreso dal mio gesto.
- Perché ti sei fermata?- mi chiese.
- Perché questa è casa mia. - risposi indicandogli l'edificio di fronte a noi.
-Ah, sì, certo. - mormorò lui, improvvisamente in imbarazzo. - E' stato un piacere conoscerti. -
- Anche per me, Paul. - risposi. - Senti... a te dispiacerebbe se qualche volta facessimo un giro insieme, così, per passare un pomeriggio? -
- Certo che no! Passa quando vuoi.- Gli rivolsi il sorriso più incoraggiante che avevo, poi lo salutai.                         

Grazie alle quindici gocce di ipnotico prescrittemi passai la notte tranquillamente, anche se la mattina dopo ero un po' stordita e ci misi più del solito a svegliarmi.                                                              
Per la prima volta nella mia vita arrivai in ritardo a scuola, anche se tutto sommato non mi importò più di tanto.  Rimasi tutta la mattina "a scaldare la sedia", poiché la mia mente ritornava in continuazione al pomeriggio prima e a Paul.
Tornai a casa il più velocemente possibile e nel pomeriggio diedi una mano ad Elisabeth con le faccende domestiche, eliminando dalla mia camera tutti i rifiuti che io stessa avevo prodotto. Non ero abituata a vedere la stanza così spoglia: da quello che mi ricordavo non lo era mai stata.
Poco dopo che ebbi rimosso l'ultimo resto, Cyn venne a trovarmi e si fermò a prendere il tè con me ed Elisabeth.
- Appena finisco qui, ti porto un po'  a spasso.- disse la mia amica.
- Sembro forse il tuo cane?- replicai.
- Non eri tu quella fissata con l'aria aperta? -
- Uscire un po' ti farà bene. - aggiunse Elisabeth.
- Ti dispiace se passiamo vicino al porto?- chiesi a Cynthia .- Devo comprare un quaderno nuovo. -
- Al contrario! E' un po' che non usciamo insieme e andiamo da quelle parti. Però poi devo uscire con John...-
- Che botta di vita!- commentai sarcastica, ma lei mi ignorò.
- Alla fine com'è andata ieri? Lo hai fatto?- chiese finendo di bere il tè.
Annuii, senza perdere il buon umore:- E' andato tutto bene! Sono contenta di averlo fatto. E ho anche incontrato un ragazzo.-                                                                                                                                   Cyn scoppiò a ridere, rischiando di strozzarsi con il tè.
- C'è la possibilità che tu riesca a fare conoscenza con qualcuno in modo normale? -
Scrollai le spalle.
- E' stato molto gentile. E poi, in realtà, ci siamo visti per la prima volta su un autobus. E' abbastanza normale per i tuoi standard? -
La mia amica mi tirò una pacca sulla spalla, ma il campanello interruppe la conversazione.
- Vado io. - affermò Elisabeth.
- Salve, signora. Scusi per il disturbo. Io sto cercando Anna, è in casa?- chiese educatamente Paul dopo che la mia madre adottiva ebbe aperto la porta.                                                                                             Mi alzai immediatamente dal divano e corsi fino all'ingresso, senza neanche accorgermi che Cyn mi stava seguendo con più calma. Elisabeth si scostò dalla porta e mi sorrise, poi tornò in salotto.
- Ciao, Paul. - lo salutai appoggiandomi allo stipite della porta.
- Ehi...- disse lui lievemente in imbarazzo.
Cyn mi si affiancò.
- Sei tu il ragazzo che Anna ha conosciuto molto normalmente su un autobus? - disse rivolgendomi uno sguardo sarcastico.
Paul sollevò le sopracciglia:- Scusa? -
- Cavolate. - gli risposi. - Comunque... Paul, lei è Cyn; Cyn, lui è Paul. -
- Vedi? Questo è un modo normale per conoscere qualcuno. - disse la mia amica.
Alzai gli occhi al cielo e Paul mi rivolse uno sguardo con cui mi faceva sapere che avevo tutto il suo sostegno morale. Repressi una risata.
 - Bene, Paul, hai bisogno di qualcosa?- gli chiesi poi. Il ragazzo tornò ad essere un po' a disagio.
- No... ecco, io sono passato per chiederti se hai voglia di fare un giro, ma vedo che sei impegnata...-
- Io e Cyn dobbiamo andare a comprare una cosa, ma se vuoi ti puoi unire a noi. - dissi.
- Non ti preoccupare!- esclamò Cynthia di fronte all'indecisione di Paul - E' praticamente impossibile convincere Anna a fare shopping! -                                                                                                                 Paul sorrise:- Va bene, allora. Se non vi disturbo. -
Inizialmente Paul era un po' a disagio, poiché non conosceva Cyn e lei aveva tre anni più di lui, ma poi capì che la mia amica non era una che si facesse troppi problemi. Mentre passeggiavamo scoprii che Paul conosceva già Cyn di vista, poiché gli edifici del Liverpool Institute e della scuola d'Arte erano adiacenti e lui l'aveva vista parecchie volte fuori da scuola. Dopo che ebbi acquistato un quaderno a righe simile a uno di quelli che usavo per scuola e che non aveva niente a che vedere con un taccuino rilegato in pelle, decidemmo di fare ancora due passi per il porto.
- John! - esclamò Cyn all'improvviso, facendomi sussultare. Non mi ero accorta che a qualche metro da noi c'erano Lennon e Shotton, come al solito insieme.
Cynthia corse dal suo ragazzo, lasciando me e Paul un po' in disparte.
- Non vedevo l'ora di incontrarlo. - mormorai a denti stretti, poi mi rivolsi a Paul - Scusa solo un secondo. -
Mi voltai e mossi qualche passo nella direzione da cui stava provenendo Lennon con Cyn sottobraccio.
- Si dice in giro che hai cominciato a drogarti. - sibilò il ragazzo.
- John, per favore, non è il caso...- disse Cyn, ma Lennon le rivolse un'occhiata che la convinse a tacere.
- Stai tranquillo, Lennon. Non riuscirei neanche lontanamente ad avvicinarmi al tuo livello. - replicai.
Mi guardò con astio, accorgendosi di essere stato di nuovo messo a tacere, poi fece finta di niente.
- Andiamo, Cyn; visto che siamo già qui mi sembra inutile aspettare un'altra ora prima di vederci di nuovo. - disse.
- Non ti dispiace, vero?- mi chiese la mia amica e io scossi la testa, poi lei si avvicinò perché il suo ragazzo non la sentisse. - Gli parlo io, adesso. Ha oltrepassato il limite. -
- Non farlo. Non servirebbe a niente. - replicai. La salutai velocemente e aspettai che lei e Lennon se ne andassero, poi tornai da Paul, del quale il Teddy Boy non si era accorto.
- Mi dispiace averti piantato qui due a zero. - dissi.
- Non fa niente. Quello era John Lennon?-
- Sì, perché?-
- Un mio amico mi ha parlato di lui e del suo gruppo. - spiegò Paul - Ha detto che Lennon è piuttosto bravo. -
Scrollai le spalle:- Non l'ho mai sentito suonare, però posso dirti una cosa: persone così è meglio perderle che trovarle. -
Riprendemmo a camminare e io mi limitai a seguire Paul, fino a che giungemmo in prossimità della fermata dell'autobus.
- Dove stai andando? -
- Secondo te?- rispose lui. -Non ce la farei a tornare indietro a piedi. E' al di là di ogni mia possibilità. -
- Io non ho intenzione di salire su un autobus. - borbottai.
Paul mi guardò con una fittizia aria rassegnata.
- E va bene, questa volta te la do vinta, ma solo perché sono un gentiluomo e perché sei tu che me lo chiedi. -
- Potrei abituarmi. - replicai ridendo.
- Non ci provare.-
Mi prese per mano e si allontanò dalla fermata del'autobus. Il mio cuore era leggero come non lo era mai stato: avevo finalmente trovato una persona, oltre a Cyn, con la quale avrei potuto essere sempre me stessa.
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Dopo parecchi capitoli di tensione e depressione avevo bisogno di qualcosa di "leggero", per tirare un po' il fiato. Non che sia tutto questo granché, ma devo confessare che l'unica parte di cui davvero mi importa è, ovviamente, l'incontro con Paul e ne sono abbastanza soddisfatta.
Spero che dopotutto non sia così male.


Ruben_J: Mi sa che siamo in due, allora, ad avere bisogno di una visita dallo psicologo!
Anche a me il dialogo con Cyn piace davvero tanto.

Lonely Heart: Be', spero che sia una cosa positiva! Gli incubi sono parti che in genere mi piacciono, ma mi sono resa conto che c'era assolutamente bisogno di una pausa, quindi per un po' non credo ce ne saranno.

Mary Apple: Come ti avevo già anticipato, è arrivato qualcun altro a tirar fuori Anna dalla depressione. John ci metterà ancora qualche capitolo, anche perché in questo punto della storia Julia è ancora viva e vegeta! ( Siamo ancora nel '57)

Ringrazio tutti i lettori.


Peace n Love


 

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Capitolo 12
*** 11. - Not Guilty ***


Not Guilty.




- Conosci la strada. - mi disse Paul dopo che ebbe aperto la porta di casa. Si scostò dall'uscio e fece un piccolo inchino.
Era già da qualche tempo che frequentavo casa McCartney e ormai ero capace di orientarmi all'interno dell'edificio senza problemi.
Il salotto era arredato nel tipico stile inglese, con un divano e due poltrone, un camino, la radio e il televisore. Contro il muro, tuttavia, c'era un pianoforte verticale accanto al quale era appoggiata una chitarra, una Zenith, della quale Paul mi aveva a lungo parlato.
- Ciao, Anna. - mi salutò Michael, il più piccolo dei due fratelli McCartney, che seduto su una poltrona guardava distrattamente la televisione.
- Ciao, Mike. -
Paul mi raggiunse mentre ero ancora vicino alla porta del salotto.
- Avanti, accomodati.- mi invitò.
- Ti dispiace se apro la finestra?- chiesi - Manca l'aria qua dentro.-
Paul scosse la testa:- Fa' pure. -
Spalancai le imposte mentre il ragazzo si sedeva sul divano e Mike spegneva il televisore.
- Siete solo voi due?- chiesi. - Sì. - mi rispose Mike - Papà è ancora al lavoro. -
Mi sedetti accanto a Paul, ma il mio sguardo continuava a posarsi sulla Zenith.
- Mi suoni qualcosa? - domandai al più grande dei due fratelli.
Il ragazzo grugnì qualcosa che non riuscii ad identificare.
- Vorresti cortesemente favorire la traduzione? - dissi irriverente.
- Dunque, secondo il vocabolario quel verso incomprensibile significa qualcosa come: "benché io adori vantarmi di quanto sono bravo con la chitarra, sono troppo pigro per abbandonare questo divano per andare a recuperarla dall'altra parte della stanza." - mi rispose Mike ridendo. Paul lo fulminò con lo sguardo, ma poi si lasciò coinvolgere dall'ilarità dell'atmosfera.
- Siete due rompiscatole. - borbottò alzandosi. Prese la Zenith e tornò a sedersi al mio fianco. Essendo mancino, imbracciò la chitarra al contrario e la riaccordò velocemente. Indugiò qualche secondo mentre decideva che cosa suonare, sfiorando appena le corde, poi cominciò con il primo accordo.
Lo ascoltai rapita, osservando con attenzione le sue dita che si muovevano pennata dopo pennata sulle corde.
- Di chi è questa canzone?- chiesi una volta che Paul ebbe finito di suonare.
- Non è una canzone. - rispose lui scrollando le spalle. - Sono tre accordi scelti a caso suonati in fila. E' mia, comunque. -
Sgranai gli occhi, meravigliata, poi mi riscossi e battei le mani un paio di volte, entusiasta:- E' fantastico, Paul! Tu devi assolutamente diffondere la tua musica: cambierà il mondo, ne sono sicura! -
Paul posò la Zenith e si alzò dal divano, ridacchiando sebbene sembrasse un po' imbarazzato.
- Per il momento mi limiterò a riaccompagnarti a casa. - disse porgendomi il braccio con il suo solito modo di fare fin troppo galante.
- Guarda che non rischio di perdermi in questi quattrocento metri che separano le nostre case! - protestai, ma il ragazzo mi ignorò e mi sospinse nell'ingresso.
- Quattrocento cinquanta. - precisò - E poi non si sa mai che brutti ceffi si possano incontrare per le strade di Liverpool dopo le sei del pomeriggio. -
- Giusto, dimenticavo; del resto la tua presenza li spaventerà di sicuro! - esclamai.
Paul strinse gli occhi:- Vogliamo scommettere? -
- E va bene! Sai essere logorroico a volte, lo sai? -
Mi affrettai a salutare Mike nel poco tempo che il fratello mi concesse prima di trascinarmi fuori di casa.
La luce quasi mi accecò: il sole stava cominciando la sua discesa verso l'occidente, e ora si trovava all'altezza dei miei occhi.
Era strano come i giorni si stessero susseguendo senza che nemmeno me ne accorgessi. Anche giugno era ormai quasi finito e io mi chiedevo che fine avesse fatto tutto quel tempo.
- Visto? Che ti dicevo? - disse Paul all'improvviso. Indicò con un dito una vecchietta che portava a spasso un barboncino e che si era fermata di fronte a noi, abbastanza lontana perché non udisse ciò che dicevamo, ma non perché non riuscisse a vedere il dito di Paul che la indicava.
- Brutto ceffo a ore dodici. -
Gli tirai uno schiaffo sulla mano per convincerlo a ritrarla. Sperai che l'anziana donna stesse guardando in un'altra direzione.
- Non indicare, maleducato! - gli ordinai. - E va' da un oculista. Quella è una vecchietta, non un brutto ceffo! -
Paul scosse la testa:- E' tutta una copertura, per farti credere che è innocua e convincerti ad avvicinarti. -
- E scommetto che il barboncino è il complice travestito! - aggiunsi trattenendo a stento le risate.
- Esatto! Vedo che ti stai accorgendo di come è realmente il mondo. Devi ringraziare, cara ragazza, che io sia qui con te, altrimenti ti sarebbero già tutti e due saltati addosso. -
Per quanto l'affermazione di Paul fosse sarcastica, non riuscii a vederne l'umorismo.
Strinsi i pugni e serrai la mascella.
- Anna, ho detto qualcosa di sbagliato?- chiese Paul.
Lo guardai, ritornando alla realtà.
- No, assolutamente no! - mi affrettai a rassicurarlo. - Sono solo un po' stanca. -
In quel momento, una palla di pelo bianco e nero ci tagliò la strada correndo e abbaiando come un dannato.
Seguii il cucciolo di cane con lo sguardo fino a che fuggì dietro ad un cespuglio dopo che il barboncino della vecchietta gli ebbe ringhiato contro.
- E' da un po' che gira per questa zona. - disse Paul.
- Sì, l'ho visto altre volte. -
- E' davvero un bel cucciolone. Credo sia un bobtail, o qualcosa di simile. -
- E da quando sei un esperto di razze canine?!-
Arrivammo davanti a casa mia e mi appoggiai al cancelletto.
- La ringrazio per avermi accompagnato, signor McCartney. - dissi.
- Non le sembra un po' presto per ritirarsi nei suoi appartamenti, signorina Mitchell?- replicò lui.
- Non sono stata io a trascinarmi fuori da casa tua dopo meno di un quarto d'ora che ero arrivata! - esclamai.
- Be', eri in ritardo sulla nostra tabella di marcia. - ribatté. Ridacchiò, poi si sedette sul bordo del marciapiede di fronte al cancelletto. Lo imitai e cominciai a giocherellare con le dita contro l'asfalto.
- Sai, pensavo di entrare in un gruppo skiffle. - disse Paul. Probabilmente notò la mia espressione accigliata, perché si affrettò ad aggiungere:- Meglio lo skiffle che niente! -
- Non era mia intenzione giudicarti. - mormorai. - Hai già in mente quale band?-
- I Quarrymen, credo. - rispose il ragazzo - Un mio amico li conosce e ha detto che ne varrebbe la pena. Devo ancora andare a sentirli, però. -
Annuii, senza dire niente.  Paul sapeva quello che pensavo di Lennon, tuttavia era un bene che non si lasciasse influenzare dalle mie opinioni, anche perché esse non si potevano definire propriamente oggettive. Stavo cominciando ad accorgermi che Paul era un ragazzo più deciso di quanto non sembrasse all'inizio.
- Non li ho mai visti suonare. - dissi - Ma comunque, anche se non so quanto possa avere importanza, hai il mio appoggio. -
Il ragazzo sorrise e mi rivolse uno sguardo che riuscì a farmi percepire la sua felicità.
- Domani sei libera?- mi chiese.
- Sì. - risposi - Cyn ultimamente è sempre con Lennon e le pagine bianche del mio quaderno nuovo stanno diminuendo drasticamente. -
- Ti va di andare da NEMS? - propose.
- Molto volentieri. - dissi - E' da un po' che non do un'occhiata ai dischi nuovi.  Bene, ora è giunto il momento che io vada sul serio, perché sono in ritardo sulla tabella di marcia in una maniera indecente. Ci vediamo domani, Paul. -
- Ciao, Anna. - mi salutò lui. Ci sorridemmo a vicenda, poi lui si incamminò di nuovo verso il numero 20 di Forthlin Road ed io entrai in casa.

Quella notte, come tutte le altre, dormii male. Gli incubi violenti avevano stranamente lasciato il posto ad una serie di immagini sfocate e suoni praticamente indistinguibili che sortivano però lo stesso effetto, senza contare che generalmente dopo il primo incubo ero talmente spossata da non aver la forza per sognare ancora, mentre questi nuovi, inquietanti sogni mi davano il tormento per tutta la durata della notte, lasciandomi addosso una sensazione d'angoscia che era difficile da scacciare la mattina seguente.

Anche se la giornata era nuvolosa e minacciava temporale, io e Paul uscimmo a piedi e ci recammo nel negozio di dischi. Trovammo il nuovo singolo di Eddie Cochran, Sittin' in the Balcony/Completely Sweet, e lo ascoltammo, ma uscimmo dal negozio senza comprarlo, accompagnati dallo sguardo scocciato del negoziante.
- Devo dire che preferisco Completely Sweet - affermai.
- No, Sittin' in the Balcony sta meglio sul lato A. - ribatté Paul. - Ma tu sei la ragazza del lato B, non è vero? -                                                                                                                                                         Scrollai le spalle, sorridendo:- Spesso sul lato A stanno le canzoni più commerciali. -
- Anna?- mi chiamò la voce di Stuart alle mie spalle. Il suo tono incredulo mi fece voltare immediatamente.
- Ciao, Stu! E' da un po' che non ci si vede, vero?- lo salutai sorridendo. Il ragazzo mi si avvicinò.
- Come stai?- chiese sottovoce.
- Molto meglio, grazie.- risposi mentre lui mi abbracciava.
- Sono così contento di sentirtelo dire. Ero così preoccupato...- mormorò lasciandomi andare. Tuttavia, quando si posò su Paul, il suo sguardo si indurì.
Presentai Paul a Stuart, ma questi trattò il quindicenne con freddezza.
- Senti, Anna, io torno a casa, okay? Ho detto a mio padre che non sarei stato fuori a lungo. - disse Paul, anche se era fin troppo chiaro che quella era una scusa per allontanarsi da quell'atmosfera carica di tensione. Lo salutai con un bacio sulla guancia.
- Mi dispiace, Paul. - gli sussurrai troppo a bassa voce perché l'altro mi sentisse. Il ragazzo scollò le spalle e mi sorrise, poi si allontanò. Stu aspettò che se ne fosse andato tenendo le mani nelle tasche dei jeans, poi mi inchiodò con lo sguardo.
- Che cosa è successo, Stu?- domandai, preoccupata per il suo comportamento.
- Dimmelo tu. - sibilò il ragazzo.
Lo guardai, accigliata, senza riuscire a capire cosa ci fosse che non andava. Stuart sembrò perdere la pazienza.
- E' passato quasi un mese dall'ultima volta che ti sei fatta vedere! - esclamò. - Hai idea di quanto fossi in ansia? -
- Questo non è un buon motivo per trattare Paul così male.- replicai.
- Chi diavolo è Paul? - chiese il ragazzo. Non mi fu difficile capire il significato di quella frase. Abbassai lo sguardo, mortificata.
- Non pensavo che la nostra amicizia significasse così poco, per te. - sibilò Stuart.
- Stu, per favore... - mormorai. Feci per sfiorargli la spalla con la mano, ma lui si ritrasse.
- A questo punto mi viene da chiedermi se sia mai stata amicizia. -
Rialzai gli occhi, ma il ragazzo si voltò e si allontanò.
- Stu!- lo chiamai, ma lui continuò a camminare in direzione della fermata dell'autobus. Salì sul mezzo di trasporto che era fermo lì, dove sapeva benissimo che io non l'avrei seguito.
Lo chiamai ancora parecchie volte, ma Stu mi ignorò e sebbene fosse seduto vicino al finestrino non mi rivolse nemmeno un'occhiata.                                                                                                               L'autobus partì, lasciandomi disorientata. Rimasi qualche minuto alla fermata dell'autobus, poi, con la morte nel cuore, mi incamminai verso Forthlin Road.
Per la prima volta dopo settimane mi fermai a pensare al modo in cui mi stavo comportando. Ero stata troppo concentrata a impormi di tenere la mente occupata che non mi ero minimamente posta il problema su ciò con cui la riempivo.
Mi accorsi con orrore che le parole dure che Stu mi aveva rivolte erano più che giustificate.
Mi sedetti sul marciapiede davanti a casa, trattenendo a stento le lacrime. Anche se me l'ero meritata, la sufficienza con la quale il ragazzo mi aveva trattata mi aveva ferita profondamente.
Mi portai una mano sul volto.
L'amicizia di Stu era stata costante nelle settimane precedenti, a volte persino scontata e probabilmente era quello il motivo per il quale mi era sembrato superfluo andare da lui per assicurarlo che stessi bene.  Mi ero comportata da sciocca e solo ora che rischiavo di perderlo, mi accorgevo di quanto fosse importante per me.
E in quel momento, come se ciò non bastasse, avevo paura che anche il mio rapporto con Paul si fosse incrinato a causa della tensione di quel pomeriggio.
Mi sentivo un'egoista, un'egoista stupida, per giunta.
Un abbaio interruppe bruscamente i miei pensieri. Alzai lo sguardo e notai che il cucciolo di bobtail era seduto a un paio di metri di distanza da me e mi guardava con la testa leggermente reclinata, come se fosse per metà curioso e per metà sospettoso. Protesi la mano verso di lui, ma il cagnolino si allontanò guaendo. Tuttavia, si fermò dopo meno di un metro e tornò a fissarmi.
- Scusami, non volevo spaventarti.- mormorai. Abbassai di nuovo la mano e guardai le mie dita che giocherellavano con un sassolino.                                                                                                                   Sentii che il cane si muoveva di nuovo nella mia direzione, ma non mi mossi, per paura di fare qualcosa che lo spaventasse.
"Non sto facendo altro che sbagliare in questo periodo." pensai asciugandomi gli occhi umidi.
Il cucciolo si fece più vicino, tanto da permettermi di udire il rumore che produceva la sua coda che batteva ritmicamente contro l'asfalto. Alzai di nuovo gli occhi e incrociai i suoi.
Mi sembrava che riuscisse ad intuire i miei pensieri e comprendere il mio stato d'animo.
- Dov'è la tua mamma?- sussurrai mentre cominciavo a piangere silenziosamente.
Il piccolo bobtail si accostò a me e mi sfiorò un ginocchio con il muso.
Avvicinai lentamente la mia mano e il cucciolo non si ritrasse; gli feci qualche carezza sulla schiena.
- Se n'è andata pure la tua?-
Il cagnolino si sdraiò a terra e dopo un po' mi mostrò la pancia, scodinzolando e tenendo la lingua di fuori.
- Sei solo un cucciolo bisognoso d'amore, vero?- mormorai accarezzandolo.
Socchiuse gli occhi, ma poi mi accorsi che era ora che io tornassi a casa.
Gli diedi qualche pacca leggera sulla pancia e mi rialzai: - Scusami, piccolo, ma devo andare. -
Il cucciolo si alzò a sua volta guardandomi con gli occhioni spalancati.Mi si stringeva il cuore all'idea di lasciarlo lì.
- Scusa. - ripetei a bassa voce.
Mi incamminai verso casa, tuttavia ben presto mi accorsi che il cucciolo mi stava trotterellando dietro.
Giunsi davanti al cancello di casa, quindi mi fermai di nuovo ad accarezzare il bobtail.
- Ma come faccio a lasciarti qui?- dissi.
Cominciò a cadere una pioggia sottile.
"Ma certo: il tempo è rimasto su per tutto il giorno e doveva iniziare a piovere proprio ora!" pensai "Sembra di stare in uno di quei film strappalacrime di serie Z..."
Il cucciolo non sembrò accorgersi delle gocce che gli scivolavano impercettibilmente lungo il pelo arruffato. La porta di casa si aprì e James mi si avvicinò senza che io lo sentissi.
- Venite dentro, tutti e due.- disse ed io sussultai.
- Ma che...- biascicai.
- Ho osservato te e questo piccolo amico per un po'.- spiegò. Fece un cenno del capo in direzione della casa. - Portalo dentro. -
La mia attenzione si spostò di nuovo sul cucciolo, che guardava allarmato il mio padre adottivo.
- Va tutto bene. - mormorai - Nessuno ti vuole far del male. Sei al sicuro qui. -
Lo accarezzai ancora un po', finché riuscì a calmarsi di nuovo, poi lo presi in braccio ed entrai in casa preceduta da James.                                                                                                                                 Vicino alla porta c'era anche Elisabeth che sorrise dolcemente quando vide il cagnolino.
- Domani lo portiamo dal veterinario. - disse  richiudendo la porta.
Il cucciolo cominciò ad agitarsi fra le mie braccia, forse un po' spaventato da quei visi, suoni e odori sconosciuti, così lo posai sul pavimento.                                                                                                           Rimase fermo, con la coda abbassata fra le gambe, a guardare con circospezione e un po' di paura tutto ciò che lo circondava.
- Apri la porta, James.- dissi - Deve sapere che nessuno lo obbliga a stare qui e vuole privarlo della sua libertà. -
L'uomo fece come gli avevo detto e il cane guardò fuori e si avvicinò alla porta, ma poi si voltò di nuovo e cominciò ad annusare l'aria.
- Sarà affamato. - osservò Elisabeth - E credo che la nostra cena sia ormai pronta. Che cosa mangiano i cani? Insomma, ormai sarà già svezzato da un pezzo, ma è ancora cucciolo... -
- Non lo so. - risposi. - Proviamo con della carne di pollo, o qualcosa del genere. -
Elisabeth annuì e fece per dirigersi in cucina, ma io la precedetti.
- Me ne occupo io, non ti preoccupare. - dissi.
La mia madre adottiva sorrise e mi diede un bacio sulla fronte, poi mi accompagnò in cucina per mettere nei piatti la nostra cena e li portò in sala da pranzo.
- Ti aspettiamo. -
Misi a cuocere qualche pezzo di carne bianca, quindi mi appoggiai al tavolo a osservare il cucciolo che era ancora fermo nell'ingresso con la porta spalancata alle sue spalle. Mi guardò a sua volta, poi mi si avvicinò scrutando attentamente ciò che lo circondava. Era fin troppo facile scorgere la curiosità nei suoi occhioni da cucciolo.
Quando il pollo fu pronto lo misi in un piatto piano togliendo gli ossi e ne riempii uno fondo d'acqua. Portai i due piatti in sala da pranzo, e mi sedetti di fianco a Elisabeth. Il cagnolino esitò di nuovo, ma poi fiutò l'odore del cibo e si avvicinò al pollo.
- Per questa notte puoi prendere qualche cuscino dal salotto e portarlo di sopra, ma poi bisognerà trovarli una sistemazione definitiva. - disse James.
Appoggiai la forchetta contro il piatto, meravigliata.
- Davvero può restare qui?- domandai.
- Non credo abbia un altro posto dove andare. - osservò Elisabeth. Il cucciolo finì di mangiare e ci guardò uno ad uno. - Prima di tutto devi trovargli un nome. E' un maschio, vero?-                                  Annuii, socchiudendo gli occhi pensierosa. Mi alzai dalla sedia e mi inginocchiai di fianco al cane, guardandolo negli occhi.                                                                                                                                       - Frency. - mormorai. 

Per tutta la sera lasciammo il piccolo bobtail libero di ambientarsi e tenemmo comunque la porta aperta, anche se Frency non sembrava essere intenzionato, almeno per il momento, a tornare sulla strada.
Gli preparai un giaciglio di fortuna di fianco alla porta della mia camera con tre o quattro cuscini e una coperta mentre era ancora intento nell'esplorazione del piano di sotto, poi pian piano, mi feci seguire su per le scale.
Come acquisì familiarità con la stanza, Frency spostò i cuscini e la coperta sotto la scrivania e vi si sedette sopra.
Mi accomodai lì vicino e cominciai ad accarezzarlo. Il cagnolino mi mostrò la pancia e mi toccò il braccio con una zampa per incitarmi a fargli le coccole. Sorrisi, più che felice di accontentarlo.
- Nessuno vuole obbligarti a stare qui - mormorai - ma se vorrai farlo, ti terrò al sicuro, lo giuro. Veglierò su di te, e tu sarai il piccolo guardiano dei miei sogni. -
Mi sdraiai sui cuscini e Frency si accoccolò contro la mia spalla, poi entrambi scivolammo in un sonno esausto.


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Innanzitutto vorrei scusarmi per il ritardo con il quale ho pubblicato il capitolo, ma (credo si capisca da quello che ho scritto) ero decisamente a corto di ispirazione e non sapevo che cosa inventarmi per andare avanti.
Ci tenevo a scriverlo soprattutto perché non volevo assolutamente che Stu sparisse magicamente dalla circolazione e poi ricomparisse ancor più magicamente più avanti, ma poi ho deciso di fare un piccolo doppio- tributo. Il primo è, come molti avranno già intuito, un tributo a Martha, il bobtail di Paul McCartney, mentre il secondo, più personale, è quello al grande amore della mia vita, il mio cavallo Frency.
Il capitolo non è un granché, ma nonostante tutto è uscito meglio di quanto mi aspettassi.


MaryApple: A volte anche io mi ritrovo a desiderare intensamente di far soffrire John, ma poi mi impongo di ricordarmi che sono hippy. Tuttavia, il nostro Lennon saprà farsi perdonare almeno qualcuna delle sue (mi si passi il termine) bastardate.

Lonely Heart: In Blackbird è affiorata, dopo tanti capitoli, la parte della mia anima che si droga di commedie romantiche e "stupide canzoni d'amore". Forse è fin troppo dolce, ma sentivo il bisogno di scrivere qualcosa che non parlasse di incubi e depressione. Per quanto riguarda Paul... in realtà non so come veramente sia il suo carattere, non avendolo mai conosciuto in prima persona, e, per lui come per tutti gli altri personaggi, non posso fare altro che scrivere di come io li immagino nella mia mente.

Un gigantesco grazie a chi sta leggendo la mia storia.

Peace n Love.

 

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Capitolo 13
*** 12. - Twenty Flight Rock ***


Twenty Flight Rock.
 


L'abbaiare terrorizzato di Frency riuscì a riscuotermi dall'incubo.
Spalancai gli occhi sulla stanza illuminata.
Il riverbero del sole sulle lacrime che correvano lungo le mie guancie mi accecò e io mi dovetti riparare gli occhi con la mano. Le tempie mi pulsavano tanto da sembrare di essere sul punto di scoppiare e l'abbaiare del cucciolo di bobtail certo non aiutava.
Gemetti e cercai di respirare normalmente, ma i latrati di Francy erano amplificati nella mia mente e mi davano il tormento.
- Frency, ti prego: basta.- mormorai coprendomi il volto con le mani.
Il cane era in un angolo, stretto fra la scrivania e il muro, con la coda fra le gambe e il corpo tremante almeno quanto il mio, se non di più.
Scesi dal letto e strisciando mi avvicinai al cucciolo, tentando di mostrarmi calma.
- Calma, piccolo, va tutto bene. - sussurrai; allungai la mano incerta verso di lui e lo accarezzai, anche se più che altro sfioravo il suo pelo bianco e nero. Con l'altra mano mi asciugai le lacrime.
Lo presi fra le braccia e lo strinsi al petto.
- Va tutto bene. - ripetei. Sentii il suo piccolo cuoricino rallentare un poco i battiti e lo riappoggiai a terra, ma Frency guaì e si precipitò fuori dalla stanza.
Sospirai e riuscii a calmarmi, poi mi rialzai e rifeci distrattamente il letto guardando fuori dalla finestra.
La luce del sole incoronava d'oro le fronde degli alberi, che ospitavano una quantità inimmaginabile di uccellini cinguettanti.
Ancora una volta, pareva che Dio, o Madre Natura, o Zeus, o quegli ammassi di gas che componevano l'atmosfera, o chiunque ci fosse lassù mi stesse prendendo in giro.
Mi passai una mano fra i capelli spettinati.
Cristo, era già passato un mese...
- Anna, devi portare Frency a spasso!- gridò Elisabeth dal piano di sotto.
- Lo so. - dissi, anche se la mia madre adottiva non poteva certo sentirmi.
Mi vestii lentamente e per ultimo indossai il foulard azzurro, sebbene la giornata si preannunciasse a dir poco calda; non uscivo mai senza di esso e lo mettevo anche se contrastava con gli altri abiti che indossavo.
Scesi le scale e mi assicurai che Frency si fosse calmato. Il cucciolo mi aspettava di scodinzolando nel giardino davanti alla casa, e si mise a rincorrere una farfalla.
Eravamo tutti contagiati dal suo entusiasmo e persino in un giorno come quello riuscì a strapparmi un sorriso.
- Qualcuno dovrebbe spiegare alla palletta di pelo che le farfalle in genere non sono così tonte da farsi acchiappare da cuccioli goffi e sgraziati. - disse James fermandosi a guardare il cane.
- Ma no, dai.-  replicai sforzandomi di sorridere. - Non roviniamogli la festa così presto. In genere non si aspetta che i bambini abbiano sei, sette anni prima di dire loro che Babbo Natale non esiste?-
- Solo tu potresti trovare affinità fra una farfalla e Babbo Natale. - commentò il mio padre adottivo.
Gli feci l'occhiolino, poi andai in cucina per prendere i farmaci e fare colazione al volo in compagnia della mia madre adottiva.
- Quando è sceso, Frency sembrava terrorizzato. Cos'è successo? - mi chiese Elisabeth.                                                                                                                                                 
- Dobbiamo trovargli un'altra sistemazione. - dissi trangugiando i biscotti - La mia stanza non è il luogo più appropriato: i miei incubi lo spaventano. -
Non ero dell'umore adatto per domande o discorsi filosofici, perciò andai a prendere il blocco da disegno e il guinzaglio di Frency e corsi incontro al cucciolo che giocava nel prato.

Facemmo una passeggiata fino ad arrivare a Calderstones Park, dove tolsi il guinzaglio a Frency perché potesse giocare in libertà sul prato, tuttavia dopo aver corso un po' in giro, spossato dal caldo, il cucciolo andò a sdraiarsi all'ombra di un albero.
- Siamo telepatici, piccolo. - gli dissi sedendomi accanto a lui fra l'erba. - Questo è uno dei miei posti preferiti. -
Frency cominciò a scodinzolare tenendo la lingua di fuori.
Presi dalla borsa il blocco da disegno e iniziai a ritrarlo. Per fortuna finii lo schizzo di partenza in fretta, perché Frency si stufò di quella posizione in poco tempo e si avvicinò a me, appoggiandomi la testa sulla gamba, sbirciando il mio lavoro.
- Questo sei tu. - gli avvicinai il foglio al naso. - Ti riconosci?-
Il cucciolo si mise a pancia in su, guardandomi con occhi imploranti.
Era davvero incredibile la velocità con la quale si era adattato a quella nuova vita.
- Forza, bello, è ora di tornare indietro. -
Mi alzai e Frency cominciò a trotterellarmi dietro.

Elisabeth e James uscirono subito dopo pranzo per andare alla festa che come ogni anno si teneva  il sei luglio presso la chiesa di St. Peter's.
Io non andai, poiché quello era l'ultimo luogo in cui volevo trovarmi quel giorno.
Ero in camera mia, con Frency che giocava da una parte e il piccolo quadro che si era salvato, ancora coperto dal telo bianco, davanti agli occhi.
"Non può essere così difficile, no?" mi dissi.
La mia politica era quella di non iniziare nuovi lavori se ce n'era anche solo uno che doveva essere ancora finito. Quindi dovevo finire quella tela.                                                                                            Allungai la mano e afferrai il panno bianco, ma indugiai.
"Forza! Nemmeno Dorian Gray aveva così paura di togliere un dannato telo da un quadro!" pensai e feci scivolare il panno.
Guardai le due figure che avevo disegnato sulla tela. Non era cambiato assolutamente niente da quando l'avevo visto l'ultima volta.
Sospirai per il sollievo, come se davvero avessi temuto di vedere davanti a me qualcosa di mostruoso, che riflettesse il sudiciume della mia anima, come era successo al protagonista del romanzo di Oscar Wilde.
Tuttavia, i miei sentimenti nei confronti di esso erano mutati. Ero stata così entusiasta di quella tela, quando l'avevo iniziata, ma ora lo sentivo così distante, quasi non mi appartenesse più.
In ogni caso, anche se controvoglia, presi i pennelli e i colori e mi apprestai a finire gli occhi della bambina. Inizialmente pensai al verde, poi cambiai idea e presi il tubetto marrone; rimasi con il pennello a mezz'aria per qualche secondo prima di passare definitivamente all'azzurro.Usai tutte le sfumature di colore che riuscii a trovare e mi sembrò che il risultato finale fosse abbastanza buono, sebbene non ne fossi completamente soddisfatta.
Il campanello suonò. Sbuffai, appoggiai i pennelli sulla scrivania e mi pulii le dita sporche di colore sui jeans, quindi, seguita da Frency, scesi le scale. Suonarono di nuovo, con più insistenza. 
- Arrivo, arrivo.- borbottai.
Andai alla porta per aprire, ma quando lo feci, Frency si lanciò fuori e "assalì" Paul. Il ragazzo prese il cucciolo in braccio e giocherellò un po' con lui, ridendo come un pazzo.
- Ah, toglietemi la Bestia di dosso! - esclamò chiamando il cane con il soprannome che gli aveva affibbiato. - Lo so che ti sono mancato; mi sei mancato anche tu, lo sai?-
- Non incoraggiarlo, Paul: è già abbastanza agitato di suo. - dissi mentre lui rimetteva Frency a terra.
- Be', è un cucciolone pieno di energia: che ti aspettavi?- replicò Paul sorridendo.
- Vuoi entrare?-
- No, grazie. Sono solo passato a prenderti. -
- Per andare dove?- chiesi accigliata.
- Alla festa di St. Peter's. - rispose con naturalezza, come se fosse scontato. Effettivamente, quasi tutta la popolazione di Woolton e buona parte di quella di Allerton partecipava quella festa; nemmeno a me, a dir la verità, era mai dispiaciuto andarci, ma quell'anno era una cosa diversa.
- Non me la sento di uscire oggi. - mormorai.
- Eh, no, bella! Non accetterò un no come risposta. E poi non sono da solo. -
- In che senso?-
- Tu non lo puoi vedere, ma sono venuto insieme al mio amico immaginario! - rispose con sarcasmo, ma la mia occhiata gli fece intuire che non ero in vena di ironia.
Paul mi indicò con un cenno del capo un ragazzo fermo al di là della strada.
- E' quell'amico che conosce i Quarrymen. Ti ricordi? Te ne ho parlato qualche giorno fa. - spiegò Paul.
Annuii, anche se in realtà non ero affatto sicura di voler uscire di casa, né di voler rimanervi.
- Dai! Non puoi startene chiusa in casa con il caldo che fa! - insistette, poi strinse le labbra e assunse un'espressione implorante.
- E va bene!- sbuffai - Ma sappi che mi devo portare dietro la Bestia. -
Paul scrollò le spalle:- Non vedo come questo possa costituire un problema! Adesso datti una mossa che...-
-... siamo in ritardo sulla tabella di marcia! - conclusi la frase per lui, scoppiando a ridere.
- Come hai fatto ad indovinare? - chiese, poi simulò un'espressione d'incredulità - Non è che sei una specie di strega o cose del genere?!-
Scossi la testa mentre prendevo il guinzaglio e le chiavi di casa.
Solo quando tornai fuori mi accorsi della Zenith che il mio amico aveva a tracolla.
- Non si sa mai. - spiegò lui una volta accortosi del mio sguardo.
Ci recammo dal ragazzo che ci stava aspettando e Paul me lo presentò, dicendo che era un suo compagno di scuola, Ivan.
Le strade erano praticamente deserte, se si escludevano gli autobus e qualche automobile che ci passava di fianco di tanto in tanto, ma man mano che ci avvicinavamo alla chiesa si sentiva sempre più forte il vociare della folla e il numero di persone che incontravamo cominciava ad aumentare sempre di più.
Giungemmo a St. Peter's che la sfilata dei carri era già cominciata da un po', così decidemmo di recarci direttamente nel prato dietro la chiesa, dove i bambini giocavano con il classico tiro a segno con le noci di cocco. Frency era a dir poco esaltato da quell'atmosfera festosa e continuava a correre da una parte all'altra, scodinzolando e tirando il guinzaglio.
Passammo di fianco al cimitero e in un secondo l'allegria del pomeriggio svanì. Mi fermai davanti al cancello, con lo sguardo vacuo.
Era strano trovarsi lì, esattamente un mese dopo, in un contesto tanto diverso.
Sentii la mano di Paul stringermi la spalla.
- Stai bene?- mi sussurrò.
- Sì. - risposi battendo le palpebre per riscuotermi. - Andiamo, dai. La festa è da quella parte. -
Mi affrettai ad allontanarmi dal cimitero, trascinandomi dietro gli altri due ragazzi.
- E così, alla fine, sei venuta!- esclamò James quando mi vide. Dovetti scrutare tra la folla per un po' prima di riuscire a scorgere lui ed Elisabeth.
- Torno subito. - dissi a Paul.
- Posso accompagnarti?- chiese lui.
- Con piacere!-
Ci avvicinammo ai miei genitori con Frency che continuava ad andare da una parte all'altra, rischiando di farci inciampare nel guinzaglio.
- Paul mi ha praticamente tirata fuori di casa con la forza.- affermai, riferendomi alla precedente osservazione di James.
- Quanto sei melodrammatica...- borbottò Paul arrossendo.
Gli diedi uno schiaffetto contro il braccio: - Ma è vero! -
Il ragazzo mi rivolse uno sguardo di sottecchi.
- Credo che rimarrà sempre il mistero su come realmente si sono svolti i fatti. - commentò James ridacchiando.
- Comunque sia andata la cosa, te ne siamo davvero grati. - aggiunse Elisabeth.
Paul sorrise, ma non fece in tempo a dire qualcosa a sua volta, che Frency cominciò ad abbaiare.
- Lascialo a noi. - mi propose Elisabeth guardando il cucciolo.
- Sicuri? E' una mina vagante!- replicai.
- Sì, tranquilla. Ci fa sempre piacere stare con la palletta di pelo. Va' a divertirti con i tuoi amici, adesso. - mi rassicurò James. Sorrisi e gli passai il guinzaglio, poi io e Paul tornammo da Ivan.
- Che ragazza crudele: abbandonare così un povero cucciolo... - mormorò il mio amico.
- Mi spiace, ma oggi non ho intenzione di farmi venire sensi di colpa.- ribattei.
Dei rumori provenienti dal piccolo palco montato in fondo al prato focalizzò la nostra attenzione su di esso. Ci avvicinammo rapidamente, mentre sei ragazzi, in jeans stretti e camicia,  vi salivano sopra, imbracciando gli strumenti. Li conoscevo tutti di vista, ma, a parte Pete Shotton, non ricordavo i loro nomi.
Lennon era salito per primo e si posizionò all'unico microfono che c'era sul palco, davanti a tutti gli altri componenti del gruppo. Disse qualcosa al microfono, presentò il gruppo e fece qualche battuta, ma non prestai molta attenzione alle sue parole, anche se era piacevole stare ad ascoltarlo. Il suo comportamento era diverso dal solito, anche se nel suo modo di atteggiarsi da strafottente riuscivo a riconoscere senza problemi il Lennon di tutti i giorni. Il gruppo cominciò a suonare.
Non erano male, sebbene mi fossi aspettata di meglio. Lennon suonava la chitarra come se fosse un banjo e per quasi tutto il tempo sembrava che lui e gli altri stessero improvvisando.
Tuttavia il risultato complessivo era qualcosa di piuttosto buono, anche se ciò era per la maggior parte merito di Lennon, che catalizzava tutta l'attenzione su di sé.
Dopo un paio di canzoni riconobbi gli accordi iniziali di "Come go with me"dei Del Vikings, ma ben presto mi accorsi che il ragazzo non sapeva le parole e le sostituiva con strofe prese da pezzi blues.
Down, down, down to the penitentiary...
Inarcai un sopracciglio.
- Ma sta scherzando?!- esclamai, ma Paul mi rivolse un'occhiataccia che mi convinse a non aggiungere altro.
Tornai a concentrarmi sulla musica e alla fine dell'esibizione dovetti ammettere che Lennon aveva dimostrato una certa intelligenza, o quanto meno un certo spirito di adattamento, per inventarsi dei testi nuovi che stessero bene con la musica così velocemente.
Dopo un'esibizione dei cani della polizia, i Quarrymen tornarono sul palco e suonarono qualche altra canzone, tra cui  "Be-Bop-A-Lula".
Mi persi completamente nell'esecuzione, sebbene essa fosse tutt'altro che impeccabile (anche perché, inutile dirlo, Lennon non conosceva il testo) ma il ragazzo fu in grado di trascinarmi; la sua voce era qualcosa di... incredibile.
Quando terminarono anche il secondo spettacolo, i Quarrymen scesero dal palco e  Ivan ci fece strada fino al gruppo di ragazzi che stavano ritirando gli strumenti.
Tutti i Quarrymen salutarono con calore il ragazzo, il quale cominciò a chiacchierare allegramente con Pete Shotton.
- Ehi, Ivan, come mai ti sei portato dietro la drogata?- chiese ad un certo punto Lennon guardandomi con astio e spezzando l'atmosfera rilassata.
Ressi senza difficoltà la sua occhiata.
- Veramente...- mormorò Ivan, ma poi decise di lasciar perdere la domanda e cambiare argomento. Indicò Paul. - Lui è un mio compagno di scuola; è davvero bravo con la chitarra. -                                       L'attenzione di Lennon si spostò da me al mio amico. Lo squadrò per qualche secondo, poi fece un mezzo sorriso e gli si avvicinò.
- In questo caso, potremmo chiudere un occhio sul fatto che ti trascini dietro la sfigata con problemi mentali. - disse il ragazzo senza lasciarsi sfuggire l' occasione di insultarmi.
Vidi Paul irrigidirsi, ma gli feci cenno di non dargli ascolto.
- Io sono John. -  
Lennon, una volta tanto memore della buona educazione, gli porse la mano e il quindicenne gliela strinse.
- Paul. - si presentò a sua volta.
Rimasero a guardarsi negli occhi, studiandosi a vicenda.
- Tu suoni una Gallotone Champion, vero? -
- Sì. -
- Me la fai vedere?- chiese educatamente Paul.
Lennon rimase qualche altro secondo a fissarlo, poi gli passò la chitarra. L'altro la imbracciò e sfiorò le corde, poi la riaccordò velocemente. La ripassò al suo proprietario.
- Ecco, adesso è a posto. - disse Paul sorridendo.
Ci fu un altro contatto visivo fra i due: gli strafottenti occhi nocciola  di Lennon in quelli verdi di Paul.
- Bene, Ivan dice che sei bravo. - disse Lennon - Bravo quanto?-
- Abbastanza. - rispose l'altro, anche se il suo sorriso tradì il fatto che si reputava egli stesso un chitarrista piuttosto capace.
- Facci vedere, allora. - lo invitò Lennon alzando un sopracciglio con scetticismo.
Paul si sfilò la chitarra da tracolla e controllò che fosse accordata.
- La tieni al contrario, lo sai?- gli fece notare Lennon con la sua solita gentilezza.
Paul gli rivolse un'occhiata divertita, poi cominciò a suonare.
 
Oh well, I've got a girl with a record machine
When it comes to rockin' she's the queen
We love to dance on a Saturday night
All alone, I can hold her tight
But she lives in a twentiest floor up town
The elevator's broken down

So I walked one, two flight, three flight, four
Five, six, seven flight, eight flight more
Up on the twelfth I started to drag
Fifteenth floor I'm ready to sag
Get to the top, I'm too tired to rock
 

Mai in tutta la mia vita avevo provato tanta soddisfazione per avvicinarsi a quella che provai quando vidi l'espressione arrogante di Lennon, il quale era palesemente convinto di trovarsi davanti ad un ragazzino che aveva praticamente appena finito le elementari, trasformarsi in sconcerto malcelato dai patetici tentativi del teddy boy.
Per non scoppiargli a ridere in faccia dovetti battere la ritirata e allontanarmi di qualche passo dal gruppo, ma nessuno mi notò, poiché tutti erano rapiti da Paul e dalla sua chitarra.
 Mi portai una mano alla bocca, quasi a nascondere il sorriso compiaciuto che non riuscivo a scollarmi dal viso.
Notai Stu appoggiato contro il palco, che spostava lo gli occhi da me al prato, quasi non osasse guardarmi.
Mi avvicinai a lui, e trassi un respiro profondo, ma non ebbi il coraggio di salutarlo io per prima.
- Ciao. - mormorò lui dopo qualche secondo.
- Mi dispiace, Stu! Io non... - non riuscii a trovare le parole. - Scusa. -
Abbassai lo sguardo e arrossii, conscia del fatto che con tutte le probabilità avevo fatto la figura dell'idiota.
- Mi sono comportata malissimo. - aggiunsi - Ho fatto la stronza e...-
Stu mi interruppe abbracciandomi. Nessuno dei due disse niente, bastò solo quel contatto per trasmettere all'altro quello che ciascuno di noi stava pensando.
Mi venne istintivo chiedermi, però, se realmente meritassi di essere perdonata così facilmente.                                                                         
Stu non disse niente mi accompagnò di nuovo dai Quarrymen e da Paul, il quale aveva nel frattempo finito di suonare.
Il ragazzo stava scrivendo per Lennon le parole di "Be-Bop-A-Lula".
- Ecco a te. - disse il mio amico passando il foglio all'altro ragazzo.
- Uhm, sì, grazie. - biascicò Lennon appoggiando il foglio da una parte, senza prestargli molta importanza, poi disse ai suoi compagni di cominciare a prepararsi per l'esibizione serale.
- Ci si vede in giro. - disse Paul, anche se nei suoi occhi scorsi un lampo di delusione, che il ragazzo non diede a vedere.
- Stammi bene. - rispose Lennon senza entusiasmo.
Paul si rimise la Zenith a tracolla e io salutai Stuart, poi insieme ci allontanammo dalla festa.
Camminammo per un po' in silenzio, ciascuno immerso nei propri pensieri, ma poi mi accorsi della strana espressione dipinta sul volto del ragazzo.
- Com'è andata allora?- gli chiesi.
- Bene. - rispose lui, ma non aggiunse altro.
- Perché quando c'è qualcosa che non va gli individui di genere maschile hanno sempre la straordinaria capacità di rispondere a monosillabi? - borbottai tra me e me, riuscendo a strappare un sorriso a Paul.
- Non te la prendere. E' semplicemente incapace di comportarsi in maniera civile con le persone. - commentai - Ma se non ti prende non avrà più alcuna speranza di non essere considerato un essere privo di cellule cerebrali. -
- Perché, se mi prende sì, invece? - mi stuzzicò Paul.
- Dico sul serio!- esclamai.
- Secondo te gli ho fatto una buona impressione?-
- Era stupefatto, e così tutti gli altri. - lo rassicurai - Ripeto: se non ti prende è un idiota. -
 
Qualche giorno dopo un Paul incredibilmente esaltato venne a casa mia e mi annunciò che Lennon gli aveva chiesto di unirsi al gruppo e che lui  aveva accettato ed era entrato a far parte de Quarrymen.


______________________________________________________

Finalmente sembrerebbe che io sia riuscita a superare il blocco creativo (ma starei attenta a non dirlo troppo ad alta voce perché non è del tutto sicuro).
Comunque sia, per fortuna, questo capitolo è stato decisamente più semplice da scrivere e sono riuscita a finirlo in tempi accettabili!
Non che sia un'opera d'arte, ma per lo meno mi sembra ci sia stato un miglioramento rispetto al precedente.


Jane across the universe : Innanzitutto grazie mille per i complimenti e per aver recensito! Sono contenta che il capitolo precedente sia piaciuto almeno a qualcuno, poiché non avevo idea di cosa far succedere e mi sono messa a scrivere praticamente a caso!

Lonely Heart: In realtà, credo che tutta la storia stia cominciando a perdere punti dal punto di vista della qualità, ma ci sono ormai troppo affezionata per mollare tutto e ho troppe idee su cosa accadrà in futuro per scrivere una fine "anticipata" rispetto a quello che mi immagino.
La parte di Frency è l'unica che salverei di tutto il capitolo...

Grazie mille a tutti!

Peace n Love.

 

 

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Capitolo 14
*** 13. - Bad Boy ***


 Bad Boy.
 



Mi rigirai fra le mani la busta bianca più e più volte. Feci per aprirla, ma mi fermai, appoggiandola al mio fianco sul divano. Era da mezz'ora buona che andavo avanti così, ma non avevo il coraggio di leggerne il contenuto.
Da quando avevo cominciato a diminuire le dosi degli psicofarmaci la mia sensibilità e le mie reazioni emotive erano diventate esasperate, ma dopo qualche tempo mi ero stancata di rimanere stordita per tutto il giorno, come se fossi in un continuo trip mentale che non aveva mai fine.
Avevo eliminato del tutto anche il sonnifero e gli incubi erano tornati, tuttavia questa volta ero stata in grado di elaborare un metodo per esorcizzarli: avevo comprato un quaderno nuovo, con la copertina scura, sul quale riportavo in modo dettagliato tutto quello che sognavo non appena mi risvegliavo, annotando persino la data e l'ora. In questo modo riuscivo a vederli per quello che erano veramente, cioè come figli del lato macabro della mia fantasia.
Ripresi la lettera, ma di nuovo la lasciai cadere.
Mi alzai dal divano e presi il telefono, mentre facevo il numero di casa di Cyn. Mi venne a rispondere sua madre.
- Salve, signora Powell; sono Anna. Cynthia è in casa?- chiesi.
- Ciao, Anna. E qui, te la passo subito. - mi rispose la donna.
La ringraziai, poi aspettai qualche secondo prima che la mia amica prendesse la cornetta in mano.
-Pronto?-
- Ciao, Cyn, come va?-
- Ciao, Anna. Tutto bene, tu?-
Le risposi più o meno nel modo in cui aveva fatto lei, poi sprofondammo entrambe nel silenzio.
- Va tutto bene davvero?- mi chiese la ragazza dopo poco tempo.
- Sì...- risposi. - Mi stavo solo chiedendo se hai voglia di passare un secondo da me. -
- Dammi dieci minuti per mettermi addosso qualcosa di decente e il tempo del viaggio in autobus e sono da te. -
- Non c'è bisogno che tu corra. Non è niente di così importante. - cercai di calmarla, ma Cyn non mi prestò attenzione.
- A dopo allora.- disse. - Faccio prima che posso. -
- Grazie. - mormorai mettendo giù il telefono.
Mi appoggiai contro la parete e cominciai ad aspettare la mia amica, tenendo gli occhi fissi sulla busta.
La casa era silenziosa. Elisabeth e James erano usciti insieme a Frency per andare a fare commissioni, ma io, con la scusa di un'emicrania, ero rimasta in camera mia a scrivere per tutta la mattinata, almeno finché era arrivata quella lettera.
Cyn arrivò in tempi record e si lasciò cadere pesantemente sul divano, mentre io tornai ad appoggiarmi al muro.
- Allora, cosa c'è?- chiese Cynthia quando si accorse che ero ancora troppo assorta per cominciare la conversazione.
- E' una stupidata, davvero... Non so il motivo per il quale mi sto comportando in questo modo...-
- Anna, non c'è bisogno che ti giustifichi, basta solo che mi dici quello che ti ha turbata in questo modo. - mi interruppe la ragazza. - Anche se mi dicessi che mi hai chiamata soltanto per dirmi "ciao", mi andrebbe bene comunque! -
Le indicai con un cenno del capo la busta che era appoggiata vicino a lei. Cyn la prese e cominciò a leggere quello che c'era scritto sopra.
- Per Anna Mitchell eccetera, eccetera...- bofonchiò mangiandosi due terzi della frase - In caso di mancato recapito, consegnare in via Rotaldo 10, 37100, Verona, Italia. -
Cyn mi guardò, stupefatta.  Andai a sedermi di fianco a lei.
- Quindi questa te l'ha mandata...-
-... uno dei parenti di mia madre. Non so chi, sulla busta non c'è scritto, ma posso escludere i suoi genitori perché non sapevano l'inglese. - affermai. - Non so perché mi abbia fatto questo effetto; non sono sicura di volerla aprire. -
- E avresti tutto il motivo per farlo! Ti hanno trattata da cani!- esclamò Cyn infervorandosi.
- Lo so, però...- mormorai - La leggeresti tu per me?-
La mia amica rimase a dir poco meravigliata dalla mia richiesta. Lei sapeva quanto mi stesse costando in termini di orgoglio quel dialogo, che io stessa però avevo voluto.
- Sei sicura?- mi chiese.
- Sì...no. Non lo so. - risposi. - Sì, credo di sì. -
Cyn sorrise, cercando di infondermi un po' di coraggio, poi aprì la busta. Prese la lettera, le lanciò una rapida occhiata e si schiarì la voce.
Cara Anna,
rimarrai non poco sorpresa quando ti ritroverai questa lettera fra le mani.

- Il che, per inciso, è vero. Dimostri molto discernimento, parente non meglio identificato. - commentò sarcasticamente Cyn mentre leggeva ad alta voce.
Sorrisi e diedi una gomitata:- Va' avanti, per favore.-
Ti scrivo solamente per scusarmi con te, a nome di tutti noi. Il comportamento che abbiamo adottato, e in particolar modo mia mamma, è stato davvero maleducato e non trova giustificazione nella circostanza nella quale ci siamo incontrati.
- Esatto, bello! Non trova giustificazione!- esclamò la mia amica.
- Cyn, non costringermi ad andare avanti a leggere da sola! - la rimbeccai.
- Sbaglio, o sei tu che mi hai nominata lettrice ufficiale?- replicò, poi tornò alla lettera.
Siamo tutti mortificati e anche se non siamo sicuri del tuo perdono, continuiamo a sperarci.
Tuo (almeno sulla carta) "cugino" Ettore.
P. S. (I nonni mi hanno infine chiesto di dirti che se tu vorrai, la porta di casa sua sarà sempre aperta per te. L'indirizzo sulla busta è il suo.)

 Io e Cyn rimanemmo a guardarci, una più stupita dell'altra.
- Perlomeno si sono scusati. - dissi.
- Con calma, mi raccomando! Non vorremmo mai che si facessero venire lo stress! -
- Meglio tardi che mai. - commentai ridendo. - Grazie mille, Cyn, davvero. -
La ragazza mi abbracciò:- Di niente, tesoro. Però adesso pretendo un favore in cambio. -
- Aspetta, devo prepararmi psicologicamente. - la punzecchiai - Okay, sono pronta a tutto. -
- Visto che la mia festa si avvicina, ho avuto il permesso di comprarmi un vestito nuovo; in realtà so quale prendere, l'ho già scelto, ma vorrei che mi accompagnassi. -
Simulai un sospiro di sollievo:- E io che credevo che mi stessi per imporre una tregua con Lennon!-
- Oh, ma smettila! - esclamò la mia amica scuotendo la testa.
Quando Elisabeth e James rientrarono in casa ci trovarono a chiacchierare sul divano. 
- Ciao, Cyn! Che bello vederti! - la salutò James mentre Frency, sciolto dal guinzaglio, si buttava a capofitto sul divano e veniva ad elemosinare un po' di coccole.
- Ti fermi a pranzo con noi? - chiese Elisabeth.
- Con molto piacere, sempre se non disturbo. - rispose Cynthia grattando la pancia del cucciolo di bobtail.
- Ma che affettuoso questo cagnolone! - disse poi chinandosi su di lui.
- Più che affettuoso è proprio venduto. - commentai alzandomi dal divano e andando a dare una mano ad Elisabeth in cucina.

Io e Cyn uscimmo nel pomeriggio e, quasi per abitudine, mi portai dietro anche Frency, senza pensare che non sarei potuta entrare nei negozi con il cane al seguito.
- Scusa, non ci ho nemmeno pensato. - dissi a Cynthia.
- Figurati! Frency è più importante di uno stupido vestito. - rispose lei accarezzando il cucciolo. - Vado, compro, e torno. -
Ridacchiai: - Mi aspetto la massima rapidità, soldato! Questa è una missione di vitale importanza! -
- Ci puoi giurare! -
Cyn entrò nel negozio di vestiti e io mi accostai al lampione che c'era davanti ad esso.
Assicurai il guinzaglio al braccio, poi andai a rovistare nella borsa alla ricerca del Quaderno Nero e di una penna. Non avevo ancora terminato di riportare l'incubo di quella notte, ma sapevo di poterlo finire con calma, perché non c'era la possibilità che io dimenticassi neanche un particolare.
- Guarda un po' chi c'è. - disse la voce di Lennon, ma io ero così concentrata sulla scrittura che in un primo momento la udii a malapena.
- Ehi, Shakespeare. - mi chiamò ancora con tono dispregiativo. Alzai lo sguardo dal foglio scritto a metà quando già il ragazzo mi si era avvicinato, senza nemmeno scendere dalla bicicletta.
Frency cominciò a scodinzolare, credendo che Lennon fosse un nuovo amico con cui giocare, ma il ragazzo non gli rivolse nemmeno uno sguardo.
Alle sue spalle c'era Shotton, anch'egli in bici, e lo salutai con un cenno del capo.
- Mi spieghi che cosa diavolo stai sempre a scrivere? - sibilò Lennon, irritato dal fatto che non gli prestavo attenzione.
Prima che me ne accorgessi, mi sfilò il quaderno dalle mani e lo guardò. 
- Lennon,dammelo !- esclamai cercando di afferrare il quaderno, ma il ragazzo si scostò e cominciò a sfogliarlo.
- Quindici luglio, ventidue, sette agosto...- lesse velocemente, poi mi rivolse un'occhiata piena di disprezzo. - Questo sarebbe una specie di diario segreto? -
- Lennon, non è uno scherzo, mollalo subito! - esclamai tentando di nuovo di riappropriarmi del quaderno, ma lui si allontanò ancora.
Frency cominciò ad abbaiare.
Lennon mise i piedi sui pedali con la più che evidente intenzione di andarsene.
- Sarà interessante leggere quello che esce fuori da quella mente malata. - commentò, poi partì, seguito da un silenzioso Pete Shotton, e si allontanò prima che potessi fare un ultimo tentativo, o che potessi urlargli quell'enorme "vaffanculo" che mi riempiva la testa. Mi limitai a ringhiarlo e tirai un calcio contro il marciapiede.
Strinsi una mano fra i capelli, reprimendo lacrime di rabbia.
"Cristo santo! L'unico giorno in cui mi ero portata dietro il Quaderno Nero doveva scegliere quello stronzo!" pensai.
Finalmente Cyn uscì dal negozio con una busta in mano.
- C'era un sacco di coda! Ho visto un paio di scarpe che sono la fine del mo... - smise di parlare nello stesso momento in cui vide la mia espressione. - Che cos 'è successo adesso?-
- Perché non lo vai a chiedere a quella bellissima persona che è il tuo ragazzo?- dissi a denti stretti, ancora in preda all'ira. Respirai profondamente parecchie volte, poi riuscii a contenere la rabbia .- Anzi, è meglio di no. Lui è il tuo tipo, io sono tua amica. Sei in mezzo a due fuochi e non è giusto che ti si chieda di schierarti. - 
- Ma...- cercò di protestare la ragazza, ma la interruppi.
- Sul serio, Cyn. E' meglio così. -
- E va bene. - mormorò lei. Capì il mio disagio e cercò di tirarmi su il morale - Questa volta te la do vinta, ma solo questa volta, sappilo! - 
Il suo commento riuscì a farmi ritrovare una parvenza di buonumore.
- Dici così tutte le volte. - affermai ridendo.
Ancora una volta, però, Lennon era riuscito a rovinarmi la giornata e la cosa stava cominciando a darmi sui nervi.      
_______________________________________________

Dunque, questo capitolo è stato scritto in fretta e senza idee particolari che lo facciano risaltare, tuttavia avevo bisogno di definire alcuni punti prima di proseguire con la storia.
(scusate se non mi soffermo troppo, ma vado di corsa.)


Lonely Heart: Come vedi avevo già predisposto un parziale "ritorno" di Cyn (anche se in realtà non se n'è mai andata, ma, non narrando giorno per giorno, ho saltato alcune parti di lei e Anna).  Inoltre, Anna è fondamentalmente un'asociale e soprattutto quando ha qualche problema tende ad isolarsi e a preferire di stare da sola.

Cherry Blues : Per quel capitolo in particolare, ma anche negli altri, ho cercato di rimanere il più possibile fedele alla realtà, anche se alcuni avvenimenti sono stati modificati per adattarsi alle esigenze della storia.


Peace n Love.                                                                                                            
 

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Capitolo 15
*** 14. - It's all too much. ***


It's All too much.
 



Legai il nastro verde in un fiocco, poi mi fermai ad ammirare il mio operato.
Il pacco regalo era venuto piuttosto bene e sapevo che Cyn sarebbe stata entusiasta del suo contenuto. Non sapendo che altro regalare alla mia amica per i suoi diciotto anni, avevo optato per le scarpe che aveva lei stessa definito "da fine del mondo": erano nere, con un tacco piuttosto alto ma non esagerato, eleganti e raffinate, molto "alla Marylin Monroe".
Inoltre, avevo allegato anche il quadretto che avevo dipinto sulla tela che lei mi aveva a sua volta regalato.
"Sono in ritardo!" pensai quando vidi l'ora.
Presi il pacco regalo e lo buttai in una delle due borse che avevo preparato, in quella in cui avevo messo alcuni dischi che Cyn mi aveva chiesto di portare.
I suoi genitori erano via per lavoro per qualche giorno e la ragazza aveva ottenuto, in modi sui quali era meglio non indagare, il permesso di fare una festa per il suo compleanno, e mi aveva implorata di fermarmi a dormire da lei quella notte.
Recuperai anche l'altra borsa che avevo preparato e mi precipitai al piano di sotto.
Salutai Elisabeth, James e Frency, poi mi affrettai a raggiungere la casa di Cyn.
- Sono in orario?- chiesi entrando.
- Sei in anticipo, tesoro. - mi rispose lei ridendo.
Mi accompagnò a posare la borsa dentro cui avevo messo, un po' alla rinfusa, quello che mi serviva per passare la notte da lei in camera sua, anche se il programma era di dormire nel letto matrimoniale, poi scendemmo di nuovo in salotto, dove spostammo i divani e i mobili per recuperare dello spazio.
Tirai fuori i dischi e li passai alla mia amica. Cyn diede loro un'occhiata.
- Elvis Presley, Little Richard, Eddie Cochran... Sapevo di potermi affidare a te! -
Appoggiò i dischi sul tavolino su cui era appoggiato il giradischi, poi venne ad abbracciarmi.
- Auguri, Cyn. - le dissi. Sciolsi l'abbraccio, poi andai a rovistare nella borsa alla ricerca del pacco regalo. Lo porsi alla mia amica.
- Devi aprirlo ora. -
- Come mai?- chiese Cyn rigirando il pacco piuttosto grosso fra le mani.
-Tu fidati e aprilo ora. - risposi.
Cyn si sedette sul divano e cominciò ad armeggiare con il fiocco, cercando di slegarlo, ma dopo qualche tentativo a vuoto si stufò. Mi diede il pacco.
- Fai tu, ché a me viene il nervoso in fretta. - disse.
Mi sedetti al suo fianco e sciolsi il fiocco con facilità.
Tolsi il nastro, quindi ripassai il regalo alla mia amica, che lo scartò in fretta.
Avevo appoggiato la tela sopra la scatola, quindi essa fu la prima cosa che vide.
Accarezzò il viso della bambina con la punta delle dita.
- E' bellissimo, Anna. - disse - Ma io  non lo posso accettare. -
La guardai, mortificata dalle sue parole.
- Anna... E' fin troppo ovvio che siete tu e tua madre. - cercò di spiegare la ragazza.
- No, Cyn, ti sbagli. - mi affrettai a smentire la sua affermazione, scossa profondamente da essa. Non ci avevo mai fatto caso, ma ora che Cynthia me lo faceva notare mi accorgevo della somiglianza fra le due figure del dipinto e me e mia mamma.
- L'ho dipinto pensando a te. - aggiunsi - E voglio che lo tenga tu. -
Ancora una volta mi trovavo a dover inventare una menzogna.
Cyn notò il mio turbamento e mi sorrise.
- Sissignora. - disse, mimando un soldato sull'attenti. - Bene, ora passiamo al resto. -
Aprì la scatola contenuta all'interno e rimase a bocca aperta.
Sollevò il paio di scarpe fissandolo meravigliato.
- Ma queste sono le scarpe... - mormorò, persa nella contemplazione.
La sua espressione mi fece scoppiare a ridere.
Cyn mise giù le scarpe e mi gettò le braccia intorno al collo, quindi mi ringraziò almeno un centinaio di volte.
- Visto che hai fatto bene a fidarti di me?- le chiesi - Pretendo che le indossi questa sera! - 
- Ci puoi scommettere, tesoro! - rispose lei.
Andammo a prepararci e fummo pronte in un tempo relativamente breve. Io indossai un abito blu e il foulard di seta, mentre Cyn un abito con il corpetto nero e la gonna bianca insieme alle sue nuove scarpe.

Gli invitati cominciarono ad arrivare nel tardo pomeriggio.
Alla fine, erano poco più di una dozzina; erano tutti studenti d'arte, e a parte qualche amica di Cyn che avevo visto un paio di volte, Stu e Lennon, non conoscevo nessuno.
Nonostante questo, l'atmosfera era rilassata e tranquilla e non mi sentii mai in imbarazzo.
Con in sottofondo il rock and roll, i ragazzi presenti parlavano a gruppetti, fumando sigarette.
Grazie a Stuart, che mi aiutò ad introdurmi in alcune conversazioni, partecipai per quasi tutto il tempo ai discorsi.
In generale, l'argomento principale era l'arte, ma si parlò anche di musica, letteratura, filosofia perfino, anche se non mancarono argomenti più leggeri e battute di spirito.
Gli amici di Cyn e Stu erano davvero simpatici ed era piacevole parlare con loro, tanto che non mi accorsi nemmeno che Stuart si era allontanato dal nostro gruppetto per andare a discutere qualcosa insieme a Lennon.
L'atmosfera si animò un poco in serata, quando si cominciò a ballare sulle canzoni di Chuck Berry.
Io e Cynthia stavamo chiacchierando vicino al giradischi quando Lennon si avvicinò e cominciò a guardargli gli EP che avevo portati.
- Non pensavo che avessi dischi così belli, Cyn. - disse ad un tratto.
- Infatti sono miei, Lennon.- risposi, consapevole del fatto che non avrebbe potuto replicare niente per non contraddirsi da solo.
Infatti, il ragazzo dovette limitarsi a lanciarmi un'occhiata di fuoco. Per sua fortuna, uno dei suoi amici lo chiamò e lui poté defilarsi senza troppe difficoltà.
Lo seguii con lo sguardo e lo fissai anche dopo che ebbe cominciato a parlare con un altro ragazzo.
- Se non sei troppo impegnata a cercare di uccidere John con il tuo sguardo assassino, mi concedi un ballo?- mi chiese sottovoce Stu arrivando alle mie spalle.
- Ma io non stavo cercando di uccidere ... - iniziai, ma il ragazzo mi rivolse un'occhiata scettica che mi fece ammettere le mie intenzioni - Okay, forse solo un po'. Ma senza cattiveria. -
Stu rise e scosse la testa:- Allora, me lo concedi o no, questo ballo?-
Mi morsi un labbro e abbassai lo sguardo.
- Io non ballo. - mormorai.
Sentii gli occhi di Stu su di me, poi il mio amico mi prese la mano e, ignorando le mie proteste,  mi trascinò in mezzo alla stanza, aiutato dallo spintone che Cyn mi diede per invogliarmi a buttarmi nelle danze.
Nonostante le mie scarse abilità, riuscii a non fare una figura terribile e anche a divertirmi.
La canzone finì dopo pochissimo tempo, poiché quando Stu mi aveva trascinata era ormai a metà, e io cercai di dileguarmi senza dare nell'occhio. Stu, però, mi prese di nuovo per il polso, costringendomi a fermarmi.
- Eh no, Anna. Questo non può essere considerato un ballo. - disse lasciando la presa sul mio braccio.
- E cos'è, il riscaldamento?- replicai, facendolo ridacchiare.
- Esattamente. - rispose.
Mi porse di nuovo la mano, guardandomi negli occhi.
Indugiai qualche secondo, poi gli sorrisi e gliela presi.
Cynthia, dal giradischi, doveva aver assistito alla scena come se fosse al cinema, perché ( ma che coincidenza!) la canzone che partì subito dopo era "Love me tender".
Love me tender,
love me sweet ...

Stu appoggiò le mani sui miei fianchi, mentre io posavo le mie sulle sue spalle.
Vidi con la coda dell'occhio che anche Cyn e Lennon si erano uniti alle danze.
Never let me go.
Il ragazzo mi fece avvicinare al suo corpo.
Arrossii violentemente.
You have made my life complete,
and I love you so.

Stu mi guardò negli occhi, ma non riuscii a sostenere a lungo quello sguardo.
Il ragazzo intuì il mio disagio e si scostò un poco.
Alzai immediatamente lo sguardo, scossa dall'eventualità di aver ferito il mio amico di nuovo, ma incontrai il suo sorriso allegro, da cui fui contagiata.
Quando la canzone finì, tuttavia, Stu rimase immobile per qualche attimo; strinse appena più forte i miei fianchi, poi mi lasciò andare.
- Ho bisogno di uscire. Manca l'aria. - dissi. Per fortuna, la scusa reggeva, poiché le finestre erano chiuse e nell'aria alleggiava il fumo di parecchie sigarette.
- Vuoi che ti accompagno? - chiese Stu, ma declinai l'offerta. Mi feci strada sino alla porta che dava sul giardino.
La notte era serena e l'aria fresca di settembre mi diede sollievo.
Alzai gli occhi e guardai le stelle, sospirando.
Ero oltremodo confusa. Per quanto mi sforzassi, non riuscivo a spiegarmi quello che era successo poco prima.                                                                                                                                                          Insomma, Stu era solo un amico... giusto?
- Mi sembra di averla già vista questa scena. - disse Lennon.
Sussultai e mi voltai immediatamente.
Il ragazzo era appoggiato al muro della casa, con le braccia incrociate.
Mi venne in contro lentamente sotto il mio sguardo diffidente.
- Mi piacerebbe che non finisse come l'ultima volta però.- continuò lui.
Cercai di dare una spiegazione logica per giustificare il tono inusuale con il quale mi stava parlando.
- Devi restituirmi il quaderno. - affermai secca.
L'espressione di Lennon tornò alla normalità.
- Non ho alcuna intenzione di farlo. - mi rispose. - Mi sto divertendo troppo. -
- Restituiscimelo, Lennon! - esclamai. - Tu non puoi leggerlo!-
- Come pensi di impedirmelo?- mi sfidò.
Alzai il braccio e feci per colpirlo,  ma all'ultimo mi bloccai. Strinsi il pugno lo portai lungo il fianco.
- Cosa c'è? All'improvviso non hai più il coraggio di colpirmi? - chiese Lennon con disprezzo. - Ti fai degli scrupoli morali? -
- Io sono migliore di te. - sibilai.
- E chi sei tu per dirlo?- replicò il ragazzo. - Puoi davvero ritenerti in grado di andare in giro a dispensare giudizi, o di decretare che una persona è meglio di un'altra, che c'è chi merita di vivere e chi merita di morire? -
- Perché, tu sì?- ribattei.
L'avevo messo alle strette, ma era lontano dall'arrendersi.
- No, non posso. Almeno a livello teorico. Ma fa parte della natura umana dare giudizi.-
- Allora non puoi nemmeno venire a rimproverare me perché lo faccio. - affermai.
- Né tu puoi sorprenderti o incazzarti con me. -
Aggrottai le sopracciglia:- Tutto questo discorso complicato serve a dire che entrambi dovremmo accettare il fatto che l'altro ha dei giudizi su di noi? -
- Qualcosa del genere. - rispose Lennon con un mezzo sorriso.
Poiché sembrava che fossimo in vena di discorsi civili  e, da un certo punto di vista, anche filosofici, provai a fare un altro tentativo di riappropriarmi del Quaderno Nero.
- Se tu mi restituissi il quaderno il mio giudizio su di te potrebbe migliorare sensibilmente. -
Provare non costava niente.
- Bel tentativo, ma no. - rispose Lennon . - La differenza fra me e te è che io me ne frego del tuo giudizio, mentre tu sei ossessionata dal mio.-
La sua affermazione, che esalava superbia ad ogni parola, mi fece perdere le staffe.
- Ti sbagli, Lennon! Non so chi diavolo ti credi di essere, ma fidati: il tuo giudizio è l'ultimo dei miei problemi, ultimamente! -
 - Balle. - affermò Lennon guardandomi negli occhi. - Non ti arrabbieresti così tanto, se davvero non ti importasse di quello che dico. -
Si voltò e ritornò dentro casa, lasciandomi lì due a zero.
Strinsi i pugni e repressi un ringhio, maledicendo il giorno in cui Lennon era entrato nella mia vita.
Respirai profondamente per sbollire la rabbia e tornai alla festa di Cyn, sforzandomi per tutto il tempo di ignorare il ragazzo.
Vidi Stu seduto sul divano e mi avvicinai a lui; non mi fece domande, ma si limitò a sorridermi.
Il mio sguardo si posò su Cyn e Lennon, che chiacchieravano insieme dall'altro lato della stanza.
- A che cosa pensi?- mi chiese sottovoce Stuart.
Sospirai:- Cyn è così innamorata di lui... Ho paura che la farà soffrire. -
- Non ti preoccupare: Cynthia sa quello che vuole dalla sua vita e sa badare a sé stessa. -
Annuii, anche se ero comunque poco convinta.
Quando gli ospiti cominciarono ad andarsene non era tardi, ma ero stravolta e avevo gli occhi che bruciavano.
L'unico che sembrava non volersene mai andare era Lennon, tuttavia il mio cervello era troppo stanco per chiedersene il motivo.
Se non altro, dava una mano a me e a Cynthia a sistemare la stanza e raccogliere piatti e bicchieri.
Andai a mettere a posto i dischi sparpagliati un po' dappertutto sui mobili, ma subito dopo persi la presa su di essi e ne feci cadere la metà.
Imprecando, mi chinai e cominciai a raccoglierli. Cyn si inginocchiò al mio fianco e mi aiutò.
- Anna, sei stanca morta. Va' a dormire. - disse appoggiando i dischi sul tavolino.
- Ma ti ho promesso che ti avrei aiutata.- ribattei.
- Ce la faccio benissimo da sola, stai tranquilla. - mi rispose, poi abbassò la voce. - Ti dispiace dormire nella mia stanza e non in quella dei miei?-
- No, tranquilla. Buonanotte. - risposi, mi alzai e salii al piano superiore.
Mi infilai a fatica nella tuta che mi ero portata dietro, ma mi dimenticai di togliere il foulard, poi mi buttai sul letto.
F
uoco. Il mondo è squassato da scariche elettriche e scosse di terremoto.
Lunghe crepe si aprono nella terra e nell'asfalto.
Corro lungo la banchina del porto. Non so da cosa sto fuggendo, ma sento che devo continuare a scappare.
Davanti a me c'è il mare, calmo e immacolato. Nessuna nave si vede all'orizzonte, ma solamente un sole che non illumina e non scalda.
Grida ed esplosioni.
Alle mie spalle, tutto intorno a me, la città crolla su sé stessa.
Le case si sbriciolano, gli alberi si spezzano e tutto è devastato.
Sangue, sangue ovunque. Scorre sulle strade come un fiume in piena.
Ci affondo sino alle caviglie.
Il sole tramonta, ma le fiamme degli incendi continuano a illuminare la città, proiettando lunghe ombre sinistre sugli edifici crollati.                                                                                                         Continuo a correre.
Forse è il Giorno del Giudizio, e tutti i miei sforzi di fuggire sono vani, ma non posso fermarmi.
Si alza un vento gelido. Scardina le finestre e sradica gli alberi.
Alza schizzi dal fiume di sangue e mi sporca.
Le mie caviglie improvvisamente cedono.
Cado a terra, ferendomi le braccia.
Mi faccio prendere dal panico.
I miei muscoli non rispondono più, sono come congelati, e annego.
Annaspo, ma qualcosa mi tiene la testa nel sangue.
Con un ultimo sforzo riesco ad alzarmi sui gomiti, poi rotolo supina respirando l'aria impregnata di fumo e dall'odore di carne che marcisce.
Sono circondata da cadaveri. Uomini, donne, bambini, animali. Sono tutti morti.
Grido e cerco di rialzarmi, ma le caviglie sono spezzate e i piedi inermi.
Striscio fra i cadaveri: non posso fermarmi.
Le anime di coloro che avevano abitato la città tentano di afferrarmi. Mi toccano, implorano il mio aiuto.
E urlano.
Una barriera di corpi mi blocca il passaggio.
Gemo e mi copro gli occhi.
Non c'è altra via che io possa prendere.
Mi arrampico sul muro di cadaveri,cercando di ignorare i volti cui mi aggrappo.
Arrivo in cima.
Noto la testa di un cane che affiora da altri corpi.
Lo riconosco.
Un liquido giallastro cola dai sui occhi spenti.
Guardo sotto di me e li vedo. Elisabeth, James, Paul, Cynthia, Stuart, John... Sono tutti lì, in quella barricata.
Con orrore, mollo la presa sui cadaveri e cado. Rotolo su un fianco, mentre il muro alle mie spalle prende fuoco.
Il mio grido va ad unirsi a quello che si leva dalla catasta.
Poi lo scorgo. E' proprio davanti ai miei occhi, a meno di due metri da me.
Un quaderno dalla copertina scura. E' aperto e le pagine scritte in una calligrafia confusa che solo io sarei in grado di leggere si girano a una velocità folle.
Da esso fuoriesce il vento gelido, da esso colano le prime gocce che danno vita al fiume di sangue.
Un'altra scossa di terremoto e un'esplosione.
Sotto di me si apre una voragine e ci scivolo dentro, insieme a tutta la città in fiamme.
Mentre cadiamo nel vuoto, la città si rimpicciolisce, prende le dimensioni di un plastico.
La guardo diventare sempre più piccola, finché esplode, scagliando pezzetti appuntiti di plastica e vetro contro di me.
Mi riparo gli occhi, ma i frammenti di Liverpool si conficcano nella mia carne come punte di freccia.
La caduta ha una fine.
Rovino a terra, sbattendo violentemente contro un pavimento freddo.
Probabilmente mi rompo qualche altro osso.
Una piccola lampadina illumina scarsamente il seminterrato spoglio.
Sui muri c'è una scritta rossa, fatta con il sangue:
Tu sei mia.
Grido, imploro aiuto, percuotendo il muro con i pugni, ma non c'è nessuno che possa udirmi.
O che voglia udirmi.
Il seminterrato si riempie di voci, di risate diaboliche, di occhi privi di un volto.
Decine di mani afferrano il mio corpo martoriato.
Strappano i frammenti di plastica e vetro e li gettano sul pavimento.
Stringono il mio corpo con troppa forza. Mi rompono le ossa del braccio sinistro.
Mi sollevano con facilità.
Su tutti gli occhi ne svetta un paio, color del ghiaccio.
I vestiti mi vengono strappati via.
Le lacrime mi impediscono di vedere in modo distinto tutti gli occhi sconosciuti che scrutano il mio corpo, ma percepisco fin troppo chiaramente le mani che mi toccano.                                                           - Lasciatemi andare!- grido, ma un improvviso, lancinante dolore mi toglie il respiro.
Gemo e reclino la testa di lato, chiudendo gli occhi.
Il mio corpo non mi appartiene più e comincia a contorcersi in preda agli spasmi.
Ovunque risuonano schiocchi sinistri e colpi.
Mi stanno torturando, in modi che non saprei nemmeno definire.
Fa male, fa
male!
L'aria è riempita da grida, le mie grida, che nemmeno mi accorgo di lanciare.
All'improvviso sento una risata. Una risata diversa da quelle dell'Uomo dagli occhi di ghiaccio.
La risata di un bambino.
Essa fa scattare qualcosa in me.
Mi ribello, tendo i muscoli e li contraggo; le mani, colte alla sprovvista, mi lasciano andare.
Cado sul pavimento, sbattendo di nuovo con violenza la testa.
Cerco di rialzarmi, ma le mani mi trascinano giù.
Lotto, tirando pugni e calci alla cieca finché sento la presa delle mani allentarsi.
- Cerci di nuovo di scappare, piccola Anna?- dice ridendo la Voce.
- Io non sono tua! - grido con tutto il fiato che ho.
Raggiungo strisciando le scale del seminterrato, trascinandomi dietro il braccio inerte.
Una mano mi afferra le caviglie spezzate, facendomi urlare di dolore. Rovino sulle scale.
E' già successo migliaia di volte.
Sempre la stessa scena, si ripete ossessivamente come un nastro rotto.
Mi arrampico sulla scala e afferro la maniglia.
E' chiusa a chiave, ma devo fare un tentativo.
Colpisco la porta appoggiandovi tutto il mio peso e spingo con le forze che mi rimangono.
Cigolando, la porta si apre nell'oscurità.
Il mio sguardo corre dal buio che ho davanti alle mani e agli occhi che dietro di me stanno aspettando che crolli per annientarmi.
Il cuore batte impazzito nelle mie tempie.
Le mani si fanno sempre più vicine a me e si protendono per afferrarmi.
Mi getto oltre la porta e la richiudo più in fretta che posso.
La porta svanisce e mi ritrovo nel nulla.


Sono rannicchiata per terra, nella totale oscurità.
Ho le mani sul viso e la fronte appoggiata alle ginocchia.
- Anna!- mi chiama allegramente un voce che saprei riconoscere tra mille.
Alzo la testa, ma non riesco a vedere niente.
- Mamma?- chiedo, esitante. La mia voce è quella di una bambina.
- Vieni qui, amore mio. Dammi un bacino. -continuò la voce di mia mamma.
- Mamma, dove sei?- domando, guardandomi attorno.
Mi sento persa: sento la voce di mia mamma così vicina, eppure non so come raggiungerla.
Sono in balia dell'oscurità.
- Anna?- il tono della sua voce è cambiato repentinamente. All'improvviso lei è... terrorizzata. - Anna chiudi gli occhi. -
Spaventata dal suo tono le obbedisco e mi rannicchio di nuovo su me stessa.
- Che cosa succede?- gemo.
- Tieni gli occhi chiusi. - ripete - Andrà tutto bene, amore. -
Una risata maschile squarcia l'aria.
- Qualsiasi cosa dovessi sentire, tieni gli occhi chiusi! -
Comincio a tremare. L'ossessivo ripetersi di quella frase mi terrorizza.
- Vattene!- grida mia madre a qualcuno nell'ombra. - Siamo libere, ora. -
- Libere?! Voi non sarete mai libere! - replica la voce dell'Uomo dagli occhi di ghiaccio.
- Ti stai sbagliando. Non puoi più farci del male! -
La Voce scoppia in una risata sadica.
Mamma grida. Mi tappo le orecchie con le mani, ma le sue urla risuonano chiaramente nella mia testa.
- Hai visto, sciocca?- chiede con malvagità l'Uomo. - Non so a te, ma a me pare che io ti stia facendo male. -
La sua ironia mi fa scoppiare a piangere.
"Fate che smetta di urlare..." penso.
La Voce riesce a sentire i miei pensieri, anche se sono sicura di non aver emesso alcun suono. L'Uomo ride di nuovo.
- Hai sentito, Beatrice? La piccola Anna vorrebbe non udire più le tue grida. Quanto resisterai questa volta?-
- Tu non la toccherai! - dice mamma, ma un urlo ancora più forte dei precedenti esce dalla sua gola.
- E chi me lo impedirà?! Tu non sei mai stata in grado di proteggerla, non è così? -
Sento che qualcuno mi accarezza i capelli e, pur non vedendolo, so per certo che è l'Uomo.
Gemo e cerco di scostarmi, ma lui mi afferra per i capelli e mi costringe a rimanere ferma.
Altre grida.
La Voce ride.
Anche io grido, nella mia mente, talmente forte che sento che le tempie stanno per esplodere.
Una serie di immagini scorre davanti ai miei occhi chiusi, una serie di immagini che conosco fin troppo bene.
"Basta, basta! Per favore!" gemo, senza aprire la bocca.
Le grida di mia mamma cessano di colpo.
- Piccola Anna - mi chiama l'Uomo con voce suadente- per favore, apri gli occhi. -
Scuoto la testa coprendo con le mani il volto inondato dalle lacrime disperate.
- Apri gli occhi. - ripete. Si sta infuriando, lo sento, ma continuo a ignorarlo.
- Apri gli occhi, stupida bambina!- ordina.
Socchiudo le palpebre.
- Brava, piccola, brava. Devi vedere...- dice la Voce. Davanti a me due occhi color del ghiaccio iniettati di sangue, che mi guardano sadicamente.
- Devi vedere tua madre che muore!- grida la Voce prima di scoppiare in una risata sguaiata.
Il mio sguardo si sposta lentamente e vedo ciò che c'è oltre quegli occhi satanici.
Il corpo di mia madre è appeso, i polsi legati da una corda tanto stretta da fermare la circolazione del sangue. Ha la testa reclinata e appoggiata contro un braccio e i capelli le ricadono sul volto, nascondendoglielo parzialmente.
La corda scricchiola appena mentre mia mamma dondola nel buio che ci circonda.
Il suo corpo è nudo e interamente coperto di piccoli e profondi tagli, simili a una ragnatela di sangue che l'avvolga.
Nonostante tutto il sangue che cola copioso lungo tutto il suo corpo, non mi è difficile vedere il pallore della pelle, talmente livida da sembrare morta.
Mamma rialza lentamente la testa, ma quel movimento la fa gemere per il dolore.
- Anna - sussurra, muovendo appena la bocca priva di colore - chiudi...gli occhi... -
I suoi occhi si spalancano sul vuoto, mentre dalle sue labbra esce un fiotto di sangue.
Gemo e non riesco a trattenere un conato di vomito.
Solo in quel momento mi accorgo di essere immersa in una pozza di sangue vermiglio.
Alzo gli occhi.
Il cadavere di mia madre ciondola sopra la mia testa, facendo gocciolare un fiume di sangue.
Il mio corpo è squassato dai tremiti e non riesco a rimanere in equilibrio.
Rovino a terra, fra il sangue.
L'Uomo dagli occhi di ghiaccio ride ancora. - Ora che lei è morta, non c'è nessuno che possa proteggerti, piccola Anna. - dice maligno.
-
Perché hai aperto gli occhi, Anna? - mi chiede una voce femminile, sovrapponendosi a quella dell' Uomo.
- E' il tuo turno, piccola Anna. -
-
Non avresti dovuto disobbedire a tua mamma. Sei stata davvero una bambina cattiva. E lo sai, le bambine cattive devono essere punite. - continua la voce sconosciuta. - Non avresti mai dovuto aprire gli occhi, Anna. Ora sarò costretta a cavarteli.-
- E' ora che tu muoia, piccola Anna!-
Urlo , mentre un dolore atroce mi lacera le membra.
Il mio corpo comincia a spezzarsi, a disfarsi a ridursi in brandelli. Le ossa si sfaldano e bucano la carne fino a che rimango priva di un corpo.
Sgrano gli occhi, in preda al terrore e al dolore, implorando che esso abbia una fine che sembra non giungere mai.


Gridai con tutto il fiato che avevo.
Mi rannicchiai sotto la coperta e strinsi il foulard di mia mamma al petto, come se potesse proteggermi dal male che infestava i miei sogni, ma tremavo tanto che faticavo a tenere le dita strette intorno alla stoffa.
Sentii qualcosa di caldo gocciolarmi sul viso.
Alzai lentamente lo sguardo. Sopra di me dondolava un corpo insanguinato.
Mi portai le mani alla bocca per non urlare. Terrorizzata, mi alzai incespicando e corsi in bagno.
A metà strada le mie caviglie cedettero e caddi a terra. Guardai le mie gambe.
Le ossa delle caviglie sporgevano dalla carne bucata. 
Gemetti e cominciai a strisciare fino a che riuscii a raggiungere il bagno.
Ebbi un altro conato di vomito, poi, tremando, mi appoggiai al lavandino per cercare di mettermi in piedi.
Riuscii a rialzarmi e sfiorai le caviglie.
Il rendermi conto che non c'era alcun osso rotto non fece altro che spingermi a piangere con più disperazione.
Mi guardai allo specchio.
Sgranai gli occhi quando mi accorsi che oltre alle lacrime non c'era niente che bagnasse la mia guancia.
Il mio sguardo indugiò sullo specchio troppo a lungo.
Dietro al mio riflesso comparve un cadavere seviziato e appeso per i polsi, in parte coperto da capelli castani incrostati di sangue.
Gemetti e mi voltai immediatamente, ma non vidi altro che le piastrelle lucide del bagno.
"Non puoi sfuggirmi " disse la voce dell'Uomo. Non riuscii a capire da dove provenisse.
"Non ti libererai mai di me. Sei mia, piccola Anna."
Gridai e cercai di fuggire dal bagno, ma dopo un passo inciampai e caddi sul pavimento. Strisciai e mi rannicchiai contro la parete, piangendo disperata.
Era troppo per me.
Non ce la potevo fare a sopportare tutto quello. Avrebbe finito con il farmi impazzire del tutto, sempre che non l'avesse già fatto.
No, non sarei riuscita ad andare avanti in quel modo.
Mi alzai lentamente, mentre la Voce continuava a darmi il tormento.
Aprii l'armadietto sopra il lavandino e cominciai a frugare finché le mie dita incontrarono un paio di forbicine.
Mi sedetti sotto il lavandino con le forbici in una mano e il foulard di mia mamma nell'altra.
Nessuno avrebbe potuto accusarmi di essermi arresa senza lottare: ci avevo provato in tutti i modi, ma avevo fallito e ora ero stremata.
Strinsi le forbicine nella mano destre e sollevai lentamente il braccio.
Affondai la punta nel polso sinistro.
Lasciai che il metallo squarciasse la carne e che il sangue fuoriuscisse.
Il dolore fu un sollievo: sapevo che era reale, che non era un demone generato dalla mia mente malata.
La voce tacque improvvisamente.
Impugnai le forbici con la sinistra e mi lacerai il polso destro, ma ero ormai troppo debole e il taglio fu molto più superficiale.
Lasciai cadere le forbici di lato e strinsi il foulard al mio petto, rannicchiandomi sul pavimento.
Le lacrime si mischiarono al sangue.
Sarei morta, ma non mi importava più: l'Uomo dagli occhi di ghiaccio se n'era finalmente andato.
Mi ero liberata di lui e nessuno avrebbe più potuto farmi del male, ora.
La vista si sfocava sempre di più. Infine lasciai che gli occhi si chiudessero.
Trassi un ultimo sospiro.                                                                                                                            

"Sbagliato piccola Anna" disse la voce ridendo malignamente. "Sarai mia per sempre."

Avrei voluto gridare.

Sprofondai nel buio.


_________________________________

* Scappa prima che qualcuno inizi a prenderla a sassate.
A parte gli scherzi, era da qualche tempo che non volevo l'ora di scrivere questo capitolo e credo che ciò spieghi la fretta che ho avuto nei precedenti.
Avevo un'idea in testa che continuava a premere per uscire e dovevo scriverla, non ero più in grado di trattenermi.
Ecco, questa è la storia di questo capitolo, che mi piace in modo particolare ( mi sto accorgendo di avere un lato sadico che non avevo mai creduto di possedere...) e spero che voi possiate apprezzare così come sto facendo io.

 
Peace n Love
.   

P. S (Giuro, giuro che questo è l'ultimo incubo che descrivo!)
                                                                    

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Capitolo 16
*** 15. - I saw her standing there. ***


I saw Her standing there.
 



Mitchell ci mise un'eternità a salire quelle scale.
Appoggiava tutto il peso sulla balaustra e barcollava parecchio, come se non fosse in grado di stare in piedi da sola.
Nemmeno un bradipo ubriaco avrebbe fatto tanto pena.
Ogni giorno che passava faceva accrescere i miei dubbi sul fatto che la ragazza fosse dotata o meno di un quoziente intellettivo nella norma.
Tuttavia Cyn non sembrava essersi accorta di quanto patetica fosse la sua migliore amica e si era spostata in cucina per lavare i piatti.
Mi avvicinai alle sue spalle e le cinsi i fianchi.
- Perché non metti giù tutta questa roba e finisci domattina?- mormorai al suo orecchio.
Cyn, tuttavia, scosse la testa e si scostò un poco:- Lo sai che non posso. Ho promesso ai miei che avrebbero trovato la casa esattamente come l'avevano trovata. -
- Non c'è mica passata sopra una mandria di bufali!- sbottai, lasciando la presa sui suoi fianchi.
- Una promessa è una promessa, John. - disse semplicemente e si mise di nuovo al lavoro.
- Fa' come vuoi.-
Ritornai in salotto e mi sedetti sul bracciolo del divano, incrociando le braccia sul petto. Dopo poco, tuttavia, Cyn mi raggiunge e appoggiò le mani sul mio braccio.
- Dai, John, non te la prendere!- disse - Lo sai come sono i miei: è già un miracolo che mi abbiano permesso di fare la festa...-
Mi sorrise fiduciosa, ma io rimasi indifferente alle sue spiegazioni. Almeno fino a quando, improvvisamente, le cinsi la vita e la strinsi a me in un bacio appassionato; doveva accontentarsi di quello, come risposta. La feci sedere sulle mie gambe e lei strinse le mani dietro la nuca, mentre le nostre lingue cominciavano a giocare tra loro.
Quando il bacio finì, Cyn mi prese per mano e, ridendo a bassa voce, mi condusse su per le scale fino a una stanza in fondo al corridoio. Entrò e accese la luce, mentre richiudevo la porta, poi la presi di nuovo tra le braccia e ripresi a baciarla con sempre più foga.
Improvvisamente, Cyn si allontanò.
- Aspetta, John. - disse - L'hai sentito?-
- Cosa?- chiesi spazientito; mi appoggiai alla parete e tirai fuori una sigaretta.
- Un rumore...come un oggetto pesante che cada. - rispose la mia ragazza. - Meglio che vada a controllare.-
Spensi la sigaretta dopo appena un paio di tiri e fermai Cyn con un braccio. La attirai di nuovo verso il mio petto.
- Non è niente, Cyn. - sussurrai - Non ti sta andando a pezzi la casa. -
Le tappai la bocca con un altro bacio che sapeva di tabacco e la spinsi la parete. Mi accarezzò la schiena con la punta delle dita mentre le mie labbra scendevano a baciarle il collo. Le mie mani salirono lungo le cosce, facendo alzare il vestito elegante.
Ci fu un secondo tonfo, accompagnato da un altro rumore, simile ad un grido soffocato.
- John...- mormorò Cyn, con la preoccupazione dipinta in volto.
- Vado a controllare quello che sta succedendo, va bene?- sussurrai accarezzandole la guancia.
- Grazie. - 
Uscii dalla stanza e Cyn si affacciò sull'uscio.
La porta dall'altra parte del corridoio era spalancata, così come quella del bagno. La luce era accesa.
C'era qualcosa di strano nell'aria, qualcosa che mi faceva rizzare i capelli sulla nuca.
Percorsi il corridoio lentamente, e mi avvicinai cautamente alla porta del bagno; le diedi una spinta affinché si spalancasse, poi sbirciai all'interno.
Mitchell era a terra, raggomitolata in posizione fetale e stringeva al petto il suo orrendo foulard azzurro.
Passarono parecchi secondi prima che il mio cervello riuscisse a rendersi conto che quel liquido rosso che le insozzava il volto e i capelli era sangue.
- Oh, Cristo!- esclamai - Cyn!-
Mi inginocchiai di fianco alla ragazza priva di sensi. Davo le spalle alla porta, tuttavia sentii Cynthia correre verso il bagno, allarmata. Come si fu affacciata sulla porta, lanciò un grido acuto.
- Cyn, chiama un'ambulanza!- ordinai mentre cercavo disperatamente di capire quello che dovevo fare.
Dietro di me Cyn continuava a farfugliare frasi prive di senso con un tono che rasentava l'isteria e di sicuro il suo comportamento non mi aiutava a tenere la mente lucida.
- Cyn!- la chiamai ancora.
Strappai il foulard dalle mani di Mitchell e glielo premetti contro il polso della mano destra, ma il sangue continuava a uscire copioso dall'altro braccio. Continuando a tenere premuto il pezzo di stoffa, mi allungai fino a raggiungere l'asciugamano appeso di fianco al lavandino e con esso cercai di contenere l'emorragia.
Sentii Cynthia al piano di sotto balbettare qualcosa al telefono, poi la ragazza tornò in bagno.
- Non guardare.- le dissi. - Va' sotto e aspetta l'ambulanza. Sto io con lei. -
Troppo sconvolta per poter prendere una decisione da sola, Cynthia fece come le avevo detto. Rimasi solo con Mitchell.
Non la sentivo respirare, tuttavia immaginai che, se ancora perdeva sangue, ciò volesse dire che ancora il cuore funzionava. Il suo viso esangue era paralizzato in una smorfia di paura.
L'ambulanza arrivò dopo poco e sentii i paramedici correre su per le scale, guidati da Cyn. Entrarono spalancando la porta del bagno, mentre nel corridoio lasciarono una barella.
- Ci pensiamo noi, ragazzo.- mi disse uno di loro chinandosi al mio fianco.
Annuii, mollai la presa sui polsi di Mitchell e andai da Cynthia. Lei si avvinghiò a me, nascondendo il volto contro il mio collo, e scoppiò a piangere.
La feci scostare dalla porta del bagno perché non intralciassimo il lavoro dei medici e le accarezzai la schiena per cercare di calmare il tremore del suo corpo.
I paramedici misero Mitchell sulla barella e la portarono sull'ambulanza e uno di loro ci fece cenno di salire a nostra volta, intuendo che noi eravamo gli unici testimoni di quello che era successo.
Per tutto il tragitto Cyn rimase rannicchiata contro il mio petto, sotto shock. Aveva le mani sul viso, ma ogni tanto scostava le dita dagli occhi per sbirciare Mitchell.
- Cyn, guarda me, non lei. - dissi e le feci girare il viso. Nei suoi occhi lessi il terrore e la disperazione; fu un sollievo quando li chiuse e tornò ad appoggiarsi alla mia spalla.
Arrivammo in ospedale in pochissimo tempo e Mitchell fu portata subito in una sala operatoria, mentre noi fummo lasciati in un angolo appartato dell'atrio.
Nell'aria c'era un odore, di medicine e disinfettante, che mi diede il voltastomaco.
Odiavo gli ospedali e, anche se c'ero appena entrato, non vedevo l'ora di andarmene.
Un medico ci scorse e cominciò a venire verso di noi.
Lasciai la mano di Cyn e aspettai che l'uomo ci raggiungesse, poiché sapevo che la mia ragazza non era in grado di parlare.
 - Siete stati voi a  chiamare l'ambulanza, non è così?- chiese il medico.
- Mi sembra una domanda banale per una persona del suo livello culturale.- dissi.
L'altro ignorò il mio commento e si limitò a lanciarmi un'occhiata di sbieco.
- Puoi dirmi che cosa è successo?-
- Non lo so di preciso. Io e Cynthia abbiamo sentito un rumore strano, siamo andati a controllare e l'abbiamo trovata in un lago di sangue.- risposi sbrigativamente.
Il medico mi rivolse un'altra occhiataccia, come se sospettasse ci fosse dell'altro, ma non avevo la minima intenzione di scendere nei dettagli. Doveva comunque ritenersi fortunato: se non altro gli avevo risposto.
- La paziente aveva dei disturbi? Delle ragioni per provare a togliersi la vita?- continuò l'uomo come se niente fosse.
Quella frase diretta e priva di alcuna traccia di sensibilità riscosse Cyn; si alzò dalla sedia e mi fece spostare con ben poca gentilezza per guardare il medico in faccia. 
Dovetti barcollare prima di riacquistare l'equilibrio e nel frattempo Cynthia aggredì a parole il medico.
- Si chiama Anna!- esclamò infatti - Ed è una persona, quindi non parli di lei in questo modo! -
Mi avvicinai a lei e cercai di calmarla, prendendole la mano e accarezzandole il dorso.
- Cyn, calmati. Non c'è bisogno di fare tutte queste scenate. -
La ragazza rimase immobile qualche secondo, ma poi, quando già pensavo che fossi riuscito nel mio intento, mi scostò di nuovo.
 - Non mi toccare!- gridò - Sei solo un ipocrita, John! Tu l'hai sempre odiata, quindi ora non far finta che tu sia preoccupato per lei, come se t'importasse davvero di come sta!-
Il medico pensò bene di eclissarsi, prima di essere coinvolto nella sfuriata di Cynthia e nella mia reazione. Le parole della ragazza mi fecero andare su tutte le furie.
- A me dai dell'ipocrita?!- le urlai contro. - Tu, che mentre la tua migliore amica si tagliava le vene te la stavi facendo con il tuo tipo?!-
Cyn sgranò gli occhi e arretrò di qualche passo, come se qualcuno le avesse tirato un pugno in faccia. E ciò era più o meno quello che avevo fatto.
Ricominciò a piangere e si strinse le mani intorno al ventre.
- Avrei dovuto essere con lei...- mormorò coprendosi la bocca con una mano - Dovevo essere con lei e non c'ero.-
Barcollò sino alla sedia e ci si lasciò cadere sopra. 
- L'ho lasciata sola...- continuò.
Quando la vidi in quello stato la rabbia di poco prima svanì.
Mi avvicinai a lei e le accarezzai la guancia; Cyn si appoggiò contro la mia mano come se fosse l'unica cosa sulla Terra intera che potesse sostenerla.
- Smettila di incolpare te stessa.- dissi.
- Ma se...- cominciò, ma la fermai prima che aggiungesse altro.
- Non è stata colpa tua - sbottai irritato - e di certo in questo modo non risolverai niente!-
Mi voltai e mi allontanai di qualche passo, ma sentii che Cynthia aveva smesso di piangere.
Probabilmente sarebbe riuscita a calmarsi se in quel momento non fossero entrati i genitori di Mitchell.
Li avevo visti di sfuggita una volta ogni tanto, tuttavia non fu difficile riconoscerli: il marito sosteneva la moglie mettendole un braccio intorno ai fianchi perché sembrava che stesse per svenire.
Come li vide, Cynthia si alzò e corse loro incontro.
Ero troppo lontano per sentire quello che si dicevano mentre la ragazza scoppiava per l'ennesima volta a piangere, ma, ad essere sincero, non mi interessava nemmeno.
Il mio unico pensiero era il desiderio di andarmene da quel fottuto ospedale, tornare a casa e ( 'fanculo il mondo) suonare la mia chitarra tutta la sera.
Ora che c'erano anche i genitori di Mitchell , potevo benissimo andarmene senza che Cyn rimanesse da sola in quel posto.
Ma ovviamente, il mondo trovò il modo di fregarmi.
Mentre mi avvicinavo alla mia ragazza per comunicarle le mie intenzioni, comparve dal nulla il medico con cui avevo già parlato. Egli fece qualche veloce domanda ai genitori di Mitchell, alle quali rispose solo il marito, finché la donna non trovò il coraggio di parlargli.
- Come sta?-  mormorò stringendo la mano del marito e quella di Cynthia.
Il medico aveva già dato prova di essere incapace di dimostrare delicatezza nei confronti del suo prossimo e ora rimarcò il concetto: - Sebbene abbia rischiato di perdere la vita a causa della perdita di sangue, siamo riusciti a stabilizzare la situazione. Dovrà rimanere sotto osservazione, ma posso dire che è quasi sicuramente fuori pericolo. -
Cyn e la madre di Mitchell ricominciarono a respirare.
- Possiamo vederla?- chiese nel frattempo l'altro uomo.
Il medico annuì:- Le infermiere la stanno portando in una stanza in questo momento. Se volete seguirmi...-
I due signori si avviarono per un corridoio laterale preceduti dal medico e io e Cynthia rimanemmo di nuovo da soli.
E tanti saluti ai miei piani di fuga. 
Strinsi il fianco della ragazza e la feci avvicinare al mio corpo.
- Hai sentito?- mormorai; come volevasi dimostrare: avevo sempre avuto ragione - Starà bene.-
La ragazza sorrise debolmente, poi scoppiò in un pianto di sollievo, nascondendo di nuovo il viso contro il mio petto. Il suo continuo piagnisteo mi dava sui nervi. La accompagnai di nuovo alla sedia.
- Siediti qui e cerca di darti una calmata; non c'è alcun bisogno di piangere ancora.- dissi in tono secco, ma poi aggiunsi sottovoce - Andrà tutto bene. -
Cynthia annuì, poi si passò una mano sugli occhi, asciugandosi il viso e riuscendo a fermare, almeno un poco, le lacrime.
Sentii il bisogno di uscire di lì: l'aria piena di candeggina mi stava intossicando ed ero in astinenza da tabacco.
Sbirciai la mia ragazza e mi accorsi che si era assopita. Un sorriso appena accennato affiorò dalle mie labbra.
Uscii dall'ospedale e mi appoggiai al muro esterno, in una posizione scostata rispetto all'entrata dell'edificio. Presi una sigaretta e la portai alle labbra, poi l'accesi e feci due lunghi tiri. La mia bocca si riempì del sapore del tabacco.
La strada era ancora deserta, se si escludevano un paio di paramedici che stavano entrando in quel momento. I lampioni si erano già spenti e il cielo cominciava a schiarirsi.
Mimi mi avrebbe ucciso, quando fossi tornato a casa.
Aspirai il fumo e lo buttai fuori lentamente.
L'importante era che non mi spaccasse la chitarra sulla testa.
Osservando la città che lentamente si svegliava stiracchiando le membra intorpidite, lasciai vagare i pensieri liberamente, dopo ore e ore di tensione. Il gesto compiuto da Mitchell mi aveva colpito profondamente: per quanto la ragazza potesse avere dei problemi ( e ne aveva, di questo ero sicuro già da tempo), cercare di ammazzarsi era una cosa così estrema, del tutto inconcepibile per me.  
- John!- l'inconfondibile voce da finocchio di Paul mi richiamò alla realtà. Lasciai cadere la sigaretta e la spensi mentre lui e Stu si avvicinavano rapidamente.
- Che cos'è successo?- chiese Stuart.
- Come mai siete qui?- domandai a mia volta- Le notizie ci mettono così poco a diffondersi?-
- No, al contrario. - rispose Paul - Ieri sera tardi, però, ho visto i signori di Allen uscire di casa e la signora era in lacrime; sono andato a chieder loro quello che era successo e, be', la risposta è stata che Anna era in ospedale. Mentre stavo venendo qui ho incontrato Stu e gli ho raccontato tutto.-
- Come sta Anna?- chiese Stu.
Scrollai le spalle, facendogli capire che non avevo molte informazioni.
- E Cyn?- disse ancora, preoccupato per la ragazza.
- Ha passato la notte a piangere. - risposi mentre tutti e tre tornavamo nell'atrio dell'ospedale - Ora si è addormentata.-
Cynthia era rannicchiata dove l'avevo lasciata poco prima, con i piedi appoggiati sulla sedia a fianco la sua; aveva la testa appoggiata per metà al muro e per metà alla sua mano e le labbra appena dischiuse.
- Stu, puoi riaccompagnarla a casa?- chiesi al mio amico.
- Volentieri, ma prima devi dirmi quello che sai di Anna. - replicò il ragazzo.
Soddisfai la sua richiesta, poi mi avvicinai piano a Cyn e le scostai una ciocca di capelli che le era ricaduta sulla fronte. Mi dispiaceva svegliarla, ma aveva bisogno di andarsene da lì.
- Cyn, sveglia. - sussurrai al suo orecchio - E' arrivato Stu, ti porta a casa. -
La ragazza aprì gli occhi e biascicò qualcosa di incomprensibile mentre la facevo alzare. La condussi da Stu e Paul; Stuart l'abbracciò, ma lei era troppo stanca ed addormentata per ricambiare.
- Cerca di riposare. - le raccomandai, poi le diedi un rapido bacio.
Cyn e Stu si allontanarono e io e Paul rimanemmo a lungo in silenzio.
 - Cos'è successo?- chiese il ragazzino. Mi sedetti sulla sedia più vicina, sbuffando.
- Ti ho già detto che non lo so. - ringhiai.
- Be', può darsi che la tua risposta non mi convinca. -
- Senti, un momento prima stava facendo l'imitazione di un paguro  rincoglionito, un momento dopo quella di un paguro rincoglionito e autolesionista. -
- John!- esclamò Paul, come per implorarmi di parlare seriamente.
Cosa voleva che facessi, che mi mettessi a frignare come una bambina e ammettessi che mi ritenevo, almeno in parte, responsabile?! Avrei dovuto essere morto prima di fare una cosa del genere.
- Va' a casa, Paul. Oggi pomeriggio abbiamo le prove e ti faccio il culo se ti permetti di arrivare in ritardo, chiaro?-
- E tu?- chiese il ragazzo.
- Quello che faccio non ti deve interessare!- abbaiai.
Paul mi rivolse uno sguardo scettico, tuttavia si dovette rassegnarsi a salutarmi velocemente e andarsene.
Rimasto solo, passai un'eternità a fissare il muro spoglio dell'atrio, mentre sempre più persone cominciavano ad animare l'ospedale.
Perché diavolo era ancora lì? Qual'era il fottuto motivo che impediva alle mie gambe di muoversi verso casa? Mi alzai dalla sedia e imboccai un corridoio laterale.
Non riuscivo a reprimere l'irritazione, ma allo stesso modo non potevo evitare di fare quello che stavo facendo.
Incontrai per caso il medico per il quale nutrivo una stima non quantificabile e gli chiesi di indicarmi la strada sino alla stanza dove Mitchell era stata portata. L'uomo mi diede qualche indicazione, poi si congedò. Raggiunsi in fretta la stanza, ma rimasi a lungo sul corridoio.
Ci misi parecchio prima di trovare il coraggio di bussare alla porta.
"Cristo, nemmeno un frocio si fa tutti questi problemi."
Bussai e aspettai qualche secondo, ma non ricevetti risposta. Bussai di nuovo e aprii lentamente la porta.
- E' permesso?- mormorai.
All'interno della stanza c'era solo il letto su cui era adagiata Mitchell; al suo braccio erano attaccate alcune flebo. Di fianco al letto, su una sedia di plastica, era seduta la signora Allen, mentre il marito era in piedi di fianco alla finestra. La madre della ragazza le accarezzò il viso sfiorandola appena, come se temesse che potesse sgretolarsi.
Rimasi qualche secondo a fissare il viso di Mitchell, la cui espressione era rilassata, come stesse dormendo.
Gli occhi stanchi e arrossati della signora Allen si posarono su di me.
Per quale motivo ero entrato in quella dannata stanza?!
- Chiedo scusa per il disturbo. - dissi - Me ne vado. -
Indietreggiai e oltrepassai l'uscio, ma la signora Allen mi fermò prima che riuscissi a defilarmi.
- No, ti prego: rimani. - mormorò, con un tono di voce simile a una supplica.
Non avrei potuto far finta di non aver sentito, perciò, mio malgrado, mi ritrovai a rientrare.
- Hai più diritto tu di stare qui che noi.- aggiunse la donna a bassa voce.
La fissai, senza cambiare espressione e incrociai le braccia sul petto, spostando impercettibilmente il peso da una parte all'altra. Il padre di Mitchell mi si avvicinò di qualche passo.
- Ti saremo sempre grati, ragazzo: le hai salvato la vita. -
Guardai la ragazza per un brave istante, poi spostai lo sguardo sul signor Allen.
- Ne avrei fatto volentieri a meno. - dissi, gelido, prima di voltarmi e uscire dalla stanza, con addosso gli sguardi confusi di entrambi i genitori di Mitchell.



_____________________________________________

Salve a tutti!!! Ebbene sì, sono tornata alla vita dopo aver passato un periodo davvero orribile.
Chiedo scusa per il ritardo, ma tra una cosa e l'altra, non ho quasi mai trovato il tempo di scrivere.
Spero che per i prossimi capitoli, nonostante la scuola e altri vari casini, riuscirò a mantenere un ritmo più o meno simile a quello di quest'estate.
Scusate anche per il capitolo decisamente brutto. So che quello che parla in queste pagine non è John, il quale sta sicuramente meditando vendetta.
( - Nemmeno nei tuoi peggiori incubi ti sei vagamente avvicinata al mio piano !!
- Oddio, Johnny, mi stai facendo paura. 
- Non mi sfuggirai! * risata diabolica, molto diabolica.)
Comunque sia, vi prego di essere magnanimi con questo capitolo malriuscito
.

Melpomene Black: Eccomi qui, con un ritardo gigantesco, ma sempre qui!  Anche a me gli incubi piacciono molto, ma è ora che mi dia una calmata.  In quanto alla reazione di Cyn e John, spero che sia stata all'altezza delle aspettative (anche se, sinceramente, io prenderei questo capitolo e lo getterei in un caminetto. )
A presto.

weasleywalrus93: Be', innanzitutto grazie mille per la recensione e i complimenti!! Sebbene io sia la prima a credere che questa storia sia decisamente lontana dalla perfezione, il tuo commento è bastato per risollevarmi il morale e l'autostima, che nell'ultimo periodo sono sprofondati.
Purtroppo non posso anticiparti niente, ma non credo sia così difficile immaginare quello che accadrà!

 
Peace n Love
 

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Capitolo 17
*** 16. - Get Back ***


Get Back.


Ci sono delle volte in cui la Vita ti trascina fuori dalla realtà e ti porta in un luogo immobile, buio e accogliente come il ventre materno. In genere capita quando stai per fare qualcosa di tremendamente stupido, come buttarsi sotto un treno, sniffare la dose letale di cocaina, tagliarti le vene.
Quando ciò accade, la Vita saggiamente ferma la tua corsa e ti pone davanti tutte le scelte che hai compiuto, dandoti la possibilità di guardare tutto ciò che hai fatto, dal primo all’ultimo momento che hai vissuto; e mentre tu sei intento a osservare come uno spettatore ciò che hai fatto, si avvicina alle tue spalle e ti urla contro: “ Ma che cavolo stai facendo?!”
Tu non sei in grado di risponderle, perché non sai quello che stai facendo: vai avanti alla cieca sperando di prendere la decisione giusta anche se sai che stai scegliendo a caso.
Ora sei di nuovo sulla Terra e puoi riprendere da dove ti eri interrotto (il treno sta per passare, la striscia di cocaina è già pronta, così come la lametta), tuttavia, quasi inconsciamente cominci a pensare a una risposta da dare a quella domanda.
“Che cavolo stai facendo?”

Che cavolo stavo facendo?

Sentii qualcosa, una fastidiosa sensazione al braccio, e un forte mal di testa, come se mi fossi ubriacata e ora ne stessi pagando le conseguenze. Nonostante ciò, stavo ricominciando pian piano ad avere percezione del mio corpo.
Ed era una gran bella sensazione.
Provai a stiracchiarmi, ma mi accorsi che i muscoli erano pesanti come piombo e facevano ancora fatica a rispondermi.
Aprii lentamente gli occhi e all’inizio, a causa della luce troppo forte, vidi tutto come un’indistinta macchia bianca. Quando misi a fuoco le cose che mi circondavano vidi una camera d’ospedale fredda e spoglia, anonima; Elisabeth era seduta accanto a me , ma si era assopita, mentre James guardava fuori dalla finestra, dandomi le spalle.
Solo in quel momento mi resi conto di quello che avevo fatto. Mi riempii di orrore nei confronti di me stessa.
- James… - lo chiamai con un filo di voce. Non volevo svegliare Elisabeth, ma mentre il mio padre adottivo si girava, lei riaprì gli occhi.
- Anna!- esclamarono all’unisono.
- Ciao. - mormorai. Mi sembrava di aver perduto il diritto di farmi voler bene da loro.
- Come ti senti?- chiese la mia madre adottiva prendendomi la mano.
- Bene.- risposi, senza particolare convinzione, mentre anche James si avvicinava al letto.
Mi morsi le labbra e mi coprii il viso con la mano, non trovando il coraggio di guardarli negli occhi.
- Mi dispiace … - mormorai infine. Stranamente, non sentivo l’impulso di piangere, ma al contrario riuscivo a riflettere lucidamente su ciò che avevo fatto, come se non fossi stata davvero io a praticare i tagli sui polsi. Il che in un certo senso era vero.
Entrambi i miei genitori mi abbracciarono e io ricambiai come meglio potevo.
- Non fa niente, piccola. - disse James. - Ora sei qui con noi.-
Il senso di colpa mi stava schiacciando. Ma riuscivo a sentire qualcos’altro, sotto tutte i sentimenti negativi, qualcosa che non avevo mai provato prima di allora: la felicità di essere ancora al mondo e la voglia di vivere.

La prima cosa che feci uscito dall'edificio fu accendermi una sigaretta.
- Se non sbaglio ti avevo detto di andare a casa. - dissi, poiché avevo notato con la coda dell'occhio che Paul era fermo a poca distanza da me.
Il ragazzino si avvicinò: - Ne hai dette di cose...-
Feci un tiro, socchiudendo appena gli occhi.
- Come sta Anna?- mi chiese Paul.
- Ancora con questa storia?!- esclamai sbuffando.
- So che l'hai vista. -
Mi dava sui nervi quando faceva il saccente.
- Puttanate. - negai.
- Non negare la verità. -
Ora mi stava davvero facendo arrabbiare.
- E tu non ti fare gli affari miei!- alzai la voce e contemporaneamente alzai anche un pugno.
Non guardai nemmeno la sua direzione, mi importava solo che andasse a segno, e che facesse male a quello stronzetto.


- Il dottore ci ha chiesto di fargli sapere se fosse successo qualcosa.- mi informò James allontanandosi nuovamente dal letto. - Vado a chiamarlo. -
Annuii e appoggiai la testa al cuscino, socchiudendo gli occhi.
- Anna. - mi chiamò Elisabeth con dolcezza.
Finalmente riuscii a guardarla in faccia. Gli occhi mi si riempirono di lacrime.
Non potevo credere di aver davvero desiderato, anche solo per un secondo, di morire.
Elisabeth intuì con fin troppa facilità i miei pensieri e mi accarezzò la guancia, asciugandomela dal pianto silenzioso:- Riposati, tesoro. -
 Mi portai una mano alle tempie pulsanti e chiusi di nuovo gli occhi, ma la tranquillità durò ben poco, poiché mio padre e un medico entrarono nella stanza. Il dottore salutò velocemente Elisabeth, poi si rivolse direttamente a me.
- Come ti senti? - chiese. Sebbene non fossi una che giudicava alla prima apparenza, il suo tono e il suo modo di porsi suscitarono in me un’antipatia istintiva.
- Bene.- ripetei per la seconda volta nel giro di pochi minuti. L’uomo sembrò scettico, ma lasciò perdere l’argomento.
- Ti ricordi qualcosa dell’altra sera?-
- No, niente. - risposi. Non era del tutto una menzogna, poiché l’unica cosa che avevo bene in mente era l’incubo, cioè l’unica cosa di cui non avrei parlato nemmeno sotto tortura.
- Sei proprio sicura?- insistette. Scrollai le spalle; non avevo altro da aggiungere e il medico recepì il messaggio.
- Molto bene. Signori Allen, per favore, siate così gentili da seguirmi. Intanto - l’uomo si rivolse di nuovo a me. - Cerca di riposare. Se ti dovesse venire in mente qualcosa di rilevante, fammelo sapere.-Elisabeth mi diede un bacio sulla fronte e mi sorrise, poi si apprestò a seguire suo marito e il dottore, sebbene fosse più evidente che era provata sia fisicamente che emotivamente.
Guardandoli uscire dalla stanza, intravidi una figura che cominciò a discutere con il medico.
Possibile che il nuovo arrivato fosse proprio …
- Paul!- lo chiamai con tutto il fiato che avevo.
-  Anna!- ricambiò il ragazzo sbracciandosi.
- Cosa ci fai lì fuori come uno scemo?! - lo presi in giro -Vieni!-
Non pensavo che avrei avuto una reazione così euforica nel vedere il mio amico, ma come l’avevo scorto e riconosciuto avevo perso il controllo: ero così felice che fosse lì!
Paul rivolse un’occhiata impertinente al medico (il quale evidentemente non ispirava molta simpatia alle persone), poi entrò nella stanza e chiuse la porta.
Con un sorriso a trentadue denti si avvicinò, spostò di peso le mie gambe, sollevandole il più possibile, e si sedette al mio fianco, quindi cominciò a tamburellare sulle mie ginocchia.
- Com’è?- mi chiese. Mi rifiutai di rispondere “bene” una terza volta, soprattutto a lui.
- Mi fanno male le cuciture e mi sta scoppiando la testa, e un essere dalla dubbia intelligenza mi ha appena distrutto le gambe. -
Paul ridacchiò:- Addirittura! E poi, amica mia, poteva andarti molto peggio. -
- Lo so. - risposi schietta guardandolo negli occhi.
Il ragazzo aprì la bocca, sorpreso e mortificato, quando si rese conto del significato più profondo delle sue parole. Fece per dire una serie interminabile di scuse per rimediare, ma lo fermai prima tappandogli la bocca con la mano. Gli sorrisi , facendogli capire che di sicuro non mi aveva offesa.
In quel momento, però, mi accorsi che c’era qualcosa che non andava.
Presi il volto di Paul tra le mani e glielo feci ruotare. L’inconfondibile segno rosso di un pugno gli gonfiava la guancia.
- Chi è stato? - domandai, anche se intuivo facilmente quale fosse la risposta. Lo sguardo che Paul mi rivolse confermò i miei sospetti.
- Quale grandissimo … - incominciai, ma Paul mi fermò con la stessa velocità con la quale io avevo bloccato lui poco prima.
- Non essere così dura con lui - mi rimproverò - E’ merito di John se ora sei qui. E’ stato lui a trovarti e a cercare di fermare l’emorragia mentre arrivava l’ambulanza. Lui ti ha salvata, Anna.  -
Dischiusi le labbra e sgranai gli occhi. Non riuscivo a capire, o meglio, non volevo capire; il solo pensiero di dovere qualcosa a Lennon, e ancor più la vita, mi irritava.
- Lui mi ha salvata … - ripetei - Perché?-
- Tu al posto suo cosa avresti fatto?-
- Io non sono come lui. - sbottai.
- Be’, lasciamo perdere l’argomento. - propose Paul e io fui più che felice di acconsentire.
Chissà come mai, ogni volta che si parlava di Lennon diventavo di malumore.
- Ho una questione più importante da porre alla tua attenzione. -  continuò il mio amico, assumendo un tono grave. - C’è un tale che tu conosci che è accampato momentaneamente nel salotto di casa mia che mi ha affidato un messaggio per te: Bau, bau. Bau-bau, bau, bau. Bau wrof. Worf, worf. Tradotto in linguaggio corrente risulta: “ torna a casa presto perché mi manchi da morire. Ti voglio bene, Frency. P. S, il tuo amico mi sta facendo fare la fame”. -
Scoppiai a ridere a crepapelle, non solo per l’assurdità della cosa, ma anche perché mentre parlava, Paul si era sforzato di rimanere serio e aveva assunto un tono stranissimo ed esilarante.
Ridemmo come dei matti fino a non aver più fiato.
Quando riuscii a darmi una calmata, imitai l’aria seria che Paul aveva simulato poco primo:- Bene, signor ambasciatore; abbia la cortesia di tradurre e riferire questa risposta al mio piccolo tesoro:” Mi manchi anche tu, amore, e sta’ tranquillo che sarò lì tra poco. Ti voglio bene anche io. P.S. Se torno e ti trovo deperito faccio il pelo e il contropelo al mio amico.”-
Paul mi tirò una gomitata, ridendo:- E io che pensavo che tu mi fossi grata perché mi sono offerto di badare al tuo cucciolo adorato! -
Incrociò le braccia e mi diede le spalle, fingendosi offeso a morte. Gli gettai le braccia al collo.
- Ma certo che ti sono grata!- dissi reggendogli il gioco. - Dai, non essere arrabbiato con me!-
Paul si girò e ricambiò il mio abbraccio. L’allegria esplosiva di poco prima si addolcì in un momento di pura tenerezza, velata appena da un po’ di tristezza.
Lui (lo percepivo) era felice di poter abbracciarmi e io ero ancor più felice di esser lì per poter farmi abbracciare da lui.
- Come sta Cyn? - chiesi all’improvviso, senza sciogliere la stretta.
- E’ a casa sua con Stu. Lui l’ha portata a casa dopo che ha passato la notte qui insieme a John. -
- Le ho rovinato il compleanno. - mormorai. Mi sentivo un mostro nei confronti della mia amica.
Paul si scostò e mi prese il volto tra le mani, costringendomi a guardarlo negli occhi.
- Non devi dirlo neanche per scherzo!- mi rimproverò, poi si addolcì di nuovo e mi riabbracciò. - Siamo tutti così contenti di sapere che stai bene sul serio. -
Rimanemmo stretti l'uno all'altra ancora per qualche minuto, poi lo sguardo del mio amico si posò sul piccolo orologio appoggiato sul davanzale della finestra.
Si alzò dandomi un buffetto sulla fronte.
- Devo andare adesso. Oggi pomeriggio le prove sono a casa mia e temo che non mi sarà proprio possibile bigiare. - mi informò.
- Saluta Lennon da parte mia. - dissi con più che evidente sarcasmo.
Paul alzò gli occhi al cielo e afferrò la giacca, ma improvvisamente si gettò in ginocchio ai piedi del letto, esasperando dei gesti melodrammatici.
- Addio, mia dolce signora. Il mio cuore già si strugge al pensiero di avervi lontana. - mi prese la mano e me la baciò, mentre io scoppiavo a ridere di nuovo, cercando di mascherare la tristezza. Non volevo che se ne andasse dopo un tempo che mi era parso così breve.
- Torni presto vero, Paul?- lo implorai con un tono simile a quello di una bambina.
Mentre stava già per uscire, il ragazzo si voltò, mi sorrise e strizzò l'occhio:- Non ti libererai di me così facilmente. -
Rimasi da sola.
Appoggiai la testa sul cuscino e guardai distrattamente fuori dalla finestra, quando i miei occhi si abbassarono sui polsi, deturpati dai punti di sutura.
Non essendo per me un tabù, non usavo strane metafore o giri di parole per dare una definizione a quello che era successo (mi ero tagliata le vene e stop), tuttavia ora che vedevo intorno a me le persone che avevo rischiato di perdere per sempre, le lacrime che all'inizio non sentivo il bisogno di piangere cominciarono a bagnarmi le guancie.
Mi coprii gli occhi, ma non emisi alcun suono; semplicemente, lasciai che ciò che avevo provato e che stavo ancora provando si sfogasse.
Non sentii nemmeno quando Elisabeth entrò nella stanza, appoggiò qualcosa sul comodino e si sedette accanto a me, sul letto. Mi strinse contro il suo petto, senza chiedermi niente.
- Mi dispiace. - le dissi di nuovo.
- Andrà tutto bene, amore. - replicò lei. Mi sollevò il mento e con una carezza asciugò le lacrime. - Sorridi: tutto si sistemerà. -
Mi sforzai di tirare fuori un sorriso un po' stentato, poi la mia madre adottiva fece un cenno con la testa, indicandomi ciò che aveva appoggiato sul comodino. Sgranai gli occhi.
- Mentre tu eri con Paul e io aspettavo fuori, James ha approfittato per andare a casa a prenderti le cose fondamentali; gli ho detto che le uniche cose che veramente erano di prima necessità sono i... -
-... libri. - completai io per lei. Allungai una mano e sfiorai le copertine; ero emozionata come se vedessi appena scoperto che i volumi della biblioteca d'Alessandria si erano salvati e li avessi davanti ai miei occhi.
James mi aveva portato tutti i miei libri preferiti: Oscar Wilde, Jane Austen,  una vecchissima copia dell'Iliade e parecchi volumi  di poesia.
- Grazie. - mormorai stringendomeli al petto.
- Non so esattamente quando potremo tornare a casa. Ti terranno compagnia. -   

I suoni uscivano dalla chitarra senza che vi prestassi particolare attenzione. Anche se in realtà avrei dovuto cominciare a provare una nuova canzone prima delle prove, non ne avevo nessuna voglia.
Mimi aveva dato in escandescenze quando ero tornato a casa; non che avessi prestato particolare attenzione alla sua sfuriata, ma essa non aveva di certo aiutato a concentrarmi.
Non sapevo con precisione nemmeno quale accordo stessi suonando.
Sol maggiore, re minore, fa diesis; o era si settima? Non aveva importanza.
Abbandonai ogni tentativo di capire quello che stavo suonando e lasciai le dita libere di muoversi a piacimento sulla tastiera.
Il mio sguardo era continuamente catturato dalla quella dannata copertina nera e lucida e non riuscivo a pensare che ad esso e alla sua proprietaria.
Tirai un pugno contro la parete e imprecai. 
                           

Nei giorni seguenti ricevetti numerose visite di Cyn e di Paul, ma anche di alcuni miei compagni di scuola, sebbene non avessi parlato con loro che un paio di volte, solamente perché nella loro visione del mondo credevano che il mio gesto fosse stato volto alla ribellione contro il sistema.
Non avevano la minima idea di quello che potevo provare mentre li vedevo sfilarmi davanti per posare quantità industriali di fiori sul davanzale o sul comodino di fianco al letto.
Non ci doveva più essere, in tutta Liverpool, un solo fiorista che non fosse stato svaligiato.
Avevo un disperato bisogno di pensare e non ne potevo più di quel continuo andirivieni di gente.
Fu per questo che sospirai di sollievo quando Cyn uscì dalla stanza; lasciai cadere pesantemente la testa sul cuscino e socchiusi gli occhi.
 Per fortuna non ero allergica al polline, altrimenti, con tutti quei fiori, avrei avuto uno shock anafilattico.
- Se avessi saputo della tua intenzione di aprire un negozio di fiori, avrei dato il mio contributo!- disse sarcastico Stuart entrando nella stanza.
Mi misi a sedere di colpo, sorpresa dalla sua improvvisa apparizione.
- Stu!- esclamai, allungando le braccia mentre lui si chinava per cingermi a sua volta. Ci stringemmo talmente forte che alla fine Stu perse l'equilibrio ed entrambi, ancora abbracciati rotolammo sul letto.
- Attento alle flebo!- lo pregai ridendo. Quando entrambi riuscimmo a ricomporci, Stuart mi guardò sorridendo dolcemente.
- Scusa se non sono riuscito a venire prima. - disse.
- Ora sei qui; questo è l'importante, no?- replicai.
Mi alzai dal letto e gli feci cenno di imitarmi.
- Sono stufa di stare qua dentro. - spiegai - Andiamo a fare un giro. -
Stu acconsentì e mi prese sottobraccio mentre afferravo il diabolico trabiccolo cui erano appese le flebo.                                                                                                                                                            Tuttavia, una volta che fummo nel corridoio cominciai a pentirmi dell'idea.
Non che non fosse un sollievo camminare un po', ma quegli anonimi corridoi appestati dall'odore di medicine mi opprimevano.
Non vedevo l'ora di uscire di lì e andare a passeggiare nel parco di Woolton!
Io e Stu sprofondammo nel silenzio, poiché io ero troppo concentrata a mantenere il respiro regolare per poter intrattenere anche una conversazione.
- Vuoi che andiamo un po' in cortile?- chiuse Stu intuendo il mio disagio.
Gli sorrisi, grata, e appoggiai la testa contro la sua spalla.
Prima di uscire, tuttavia, passammo dalla stanza per recuperare la giacca.
Ci dirigemmo fino alla fine del reparto pediatria, dove c'era una porta finestra che dava sul giardino.
Sempre che quel prato semi-incolto con qualche cespuglio rachitico, due alberi in croce e uno sconnesso vialetto lastricato con un paio di panchine qua e là potesse essere definito giardino.
Per lo meno, quello squallore era illuminato dal sole.
Stu mi condusse sul vialetto fino a raggiungere una panchina vicino a uno degli alberelli che cominciavano già a perdere le foglie.                                                                                                                            Ci sedemmo e i raggi tiepidi mi riscaldarono le ossa e contribuirono a migliorare sensibilmente il mio umore: tutto sembrava più bello quando c'era il sole.
Ero perfettamente conscia di avere lo sguardo di Stu su di me, ma la mia attenzione fu richiamata da qualcosa di duro che sentii premere contro la mia coscia; solo in quel momento ricordai che l'ultima volta che ero uscita avevo lasciato nella tasca della giacca uno dei volumi che Elisabeth mi aveva portati.
Lo tirai fuori e lo guardai per un attimo, assorta.
- Che cos'è?- chiese Stu.
- Un libro, vedi?- risposi con sarcasmo sventolandoglielo davanti agli occhi.
Stu mi lanciò un'occhiata esasperata dalla mia pessima battuta e me lo strappò dalle mani.
Mentre io protestavo, lo osservò, accarezzandone distrattamente il dorso.
- John Keats...- disse mentre cominciava a sfogliare le pagine.
Annuii, piacevolmente sorpresa dal fatto che potesse essere un oggetto di interesse per il mio amico:- E' il mio preferito. -
Stu si fermò più o meno a metà del libro, mi guardò per un attimo, sorrise, si schiarì la voce e cominciò a leggere.
-Resta, pettirosso, resta,
e lasciami vedere il tuo occhio splendente;
Oh, la boscaglia non è ancora lo spruzzo d'un filo di perle,
né la tua testa è abbastanza chinata da volare.
Resta mentre ti dico, cose agitate,
che tu dell'amore sei un emblema dell'arte;
Sì! Piuma paziente della tua piccola ala,
calma mentre i miei pensieri t'impartisco.

Quando le notti d'estate elargiscono la rugiada,
e d'estate i soli arricchiscono il giorno
,
tue le note e il fascino dei fiori da soffiare,
ciascuna lieta speranza a tua disposizione.
Così quando in gioventù lo sguardo scuro negli occhi 
parla con piacere dal suo cerchio luminoso,
i toni dell'amore aumentano le nostre gioie,
e rendono superiore ogni delizia
.-
Stetti a guardarlo, estasiata mentre recitava quei versi che amavo così tanto, ma poi mi persi nella poesia.
Chiusi gli occhi e mi appoggiai alla panchina, rilassandomi completamente, tanto che ero a malapena coscia dell'espressione di beatitudine che si dipinse sul mio viso.
- E quando desolate tempeste vagano incontenibili,
e distruggono ogni beatitudine,
non vi è nessun conforto per il bosco senza foglie
l'unica gioia è nelle tue note delicate.
Queste le parole d'amore irripetibili,
quando l'albero del piacere non sopporta più,
e disegna un morbido sorriso accattivante,
in mezzo ad un buio di dolore e lacrime.
(1)  -
Stuart smise di leggere, ma non me ne accorsi.
Mi accarezzò la guancia con la punta delle dita.
- Sei stanca?- chiese a bassa voce.
- Abbastanza. - ammisi. Stu sorrise dolcemente e mi porse una mano per aiutarmi ad alzarmi; nel tragitto verso la stanza mi appoggiai quasi completamente al suo petto, lasciando che il ragazzo mi guidasse e mi sostenesse.
Non capivo perché ero così stravolta, anche se fino ad un momento prima ero stata bene; forse era perché avevo raggiunto il limite di sopportazione della stanchezza, o forse era perché mi sentivo al sicuro.
Stu non disse una parola mentre apriva la porta e mi faceva entrare nella stanza, né mentre io mi gettavo sul letto con un movimento ben poco aggraziato.
Si sedette sul letto e mi guardò intensamente, ma ero troppo stanca per avere una qualche reazione.
Socchiusi gli occhi e tirai la coperta fino al mento.
- Grazie per essere venuto. - biascicai già mezza addormentata.
Stu si chinò e mi baciò la guancia:- Grazie a te per non essertene andata.-
Prima ancora che Stuart si alzasse dal letto ero già sprofondata nel sonno.

Quando mi svegliai era mattina: avevo fatto una tirata unica dal pomeriggio precedente; o forse mi ero svegliata nel frattempo e non me lo ricordavo.
Ultimamente mi capitava di perdermi per strada alcuni momenti della mia vita.
In genere non mi perdevo niente di particolarmente interessante, tuttavia questa volta  c'era qualcosa che doveva essere andato storto.
Perlomeno, non mi ricordavo di aver invitato Lennon a farmi visita.
Rimasi a guardarlo, esterrefatta, per qualche secondo. Era appoggiato al davanzale e guardava fuori, assorto nei suoi pensieri.
Quasi mi dispiaceva disturbarlo; quasi.
- E tu che cazzo ci fai qui?!- esclamai lasciandomi sfuggire un'espressione davvero poco fine.
Lennon sussultò e si girò immediatamente verso di me.
- Ascolta...- incominciò, mai io lo interruppi prima che aggiungesse altro: - No, no: tu ascolti me e rispondi anche alla mia domanda! Che cosa ci fai qui? E chi ti ha dato il permesso di entrare?-
Il ragazzo fece per aprire la bocca , ma la verità era che non avevo alcuna voglia di starlo ad ascoltare.
- Esci, Lennon. -
Il mio continuo interromperlo cominciò ad irritarlo.
- Lasciami parlare. - sbottò.
- Vattene. - gli intimai. - Vattene!-
- Mi lasci parlare?! Ce la puoi fare ad ascoltare una persona che una volta tanto non ti commiseri o non dica quanto sei bella di lì, quanto sei brava là, o è troppo difficile per te?- mi rispose invece.
Non potevo tollerare la sua intrusione un momento di più. Ne avevo a basta di lui e di tutto ciò che lo riguardava.
- Vattene via, Lennon! - gridai -  Esci da questa stanza, esci dalla mia vita! Vattene: io non ti voglio qui. -
Un'infermiera entrò facendo sbattere la porta, mentre Mitchell continuava a urlarmi contro.
- Per favore, esci. - mi disse l'infermiera precipitandosi verso il letto.
Mi diressi con calma verso la porta, ma indugiai proprio sulla soglia.
Lanciai alla ragazza uno sguardo di superiorità, mentre lei cominciava a implorare l'infermiera con un tono piagnucolante.
- No, la prego. Non voglio dormire anco... -
Non fece in tempo a finire la frase che la dose di morfina fece il suo effetto e lei ricadde sul cuscino.
Quello sì che era uno spettacolo patetico.
Uscii dalla stanza e tornai verso l'uscita dell'ospedale, dove trovai (tanto per cambiare) Paul.
- Immagino che non sia andata molto bene. - osservò lui.
Scrollai le spalle.
- Sembri reduce da uno scontro con una tigre. - continuò il ragazzo.
Più che una tigre, quando si arrabbiava Mitchell sembrava un visone cui avevano spezzato un'unghia.  Tirai fuori il quaderno dalla tasca della giacca e lo passai a Paul.
- Restituisciglielo. - ordinai.
Paul lo guardò per qualche secondo, soppesandolo, ma poi me lo restituì.
- Fallo tu. -
Lo incenerii con lo sguardo: era quello che avevo appena tentato di fare e non aveva riscosso molto successo!
Alla fine, però, mi ritrovai a infilarmi di nuovo il taccuino in tasca e uscire insieme a Paul dall'ospedale.


Fissai le mani intrecciate sul ventre. Finalmente mi avevano tolto quei dannati fili neri.
Non che adesso la situazione dei polsi fosse migliore, ma almeno facevano meno impressione.
Presto sarei tornata a casa, ma erano altri i miei pensieri.
La mia mente continuava a tornare al litigio con Lennon, o meglio, la mia sfuriata priva di una giustificazione contro Lennon.
Avevo esagerato, quello lo riconoscevo, ma nel momento stesso in cui avevo aperto bocca mi ero sentita attaccata e avevo avuto l'istinto di difendermi.
Succedeva sempre così quando c'era lui in giro: il mio inconscio lo vedeva come una minaccia.
Tuttavia, avrei potuto almeno ascoltare quello che aveva da dirmi.
Sbuffai.
Ero un po' preoccupata riguardo al mio futuro più immediato: insomma, nell'ultimo periodo la mia vita era crollata e ormai ero sicura che, una volta che avessi messo piede fuori di lì, sarebbe potuto succedere ancora di tutto.                                                                                           
 
(1)
John Keats, Resta, pettirosso, resta.
 
_____________________________________________

Salve, popolo!!!!! (?)
Come state? Scommetto che non si nota nemmeno che sono esaltata per essere riuscita a rispettare la mia tabella di marcia! 
Ma quanto sono teneri Anna e Stu????!
In questo periodo ho un bisogno disperato di coccole e da qui il capitolo è venuto leggermente fluff.

Tuttavia, voglio che il commento di questa settimana non sia occupato da me o dalla mia storia: tra un paio di giorni, infatti, è il compleanno di John e desidero fargli (anche se in anticipo) gli auguri insieme a tutti voi.  
Quindi: happy brithday, Nowhere Man.


AlexaZoso_Lennon : Se ti può consolare, anche io ho fatto quella faccia quando ho scritto il capitolo; infatti non avevo programmato che Anna si tagliasse le vene, ma questa storia sta prendendo pieghe davvero inaspettate. Sono contenta che la frase ti abbia fatta ridere, perché l'ho messa apposta per alleggerire l'atmosfera. (ed effettivamente anche io mi sono messa a ridere da sola quando l'ho scritta, e c'erano i miei fratelli che mi guardavano malissimo!)

weasleywalrus93: Be', allora non posso fare altro che chinare il capo e ringraziare dal più profondo del mio cuore.
Jane across the universe: Confesso che anche a me Anna fa un po' pena: gliene ho fatte passare troppe! Non so però quanto riuscirò a farla stare tranquilla, almeno un po': troppe idee mi stanno venendo sui possibili sviluppi della vicenda!

Melpomene Black : Anche io all'inizio mi immaginavo la storia diversamente, tuttavia la versione che sta venendo fuori, con tutti i suoi alti e bassi, mi piace molto di più. In quanto ai complessi di inferiorità, purtroppo essi fanno parte integrante del mio carattere (insieme all'ansia e ai sensi di colpa), tuttavia prometto che d'ora in poi mi giudicherò un po' meglio.


Peace n Love

P.S ( Scusate se non mi sono soffermata molto, ma sono davvero di corsa)       
  
                                                                 
 

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Capitolo 18
*** 17 - Getting Better. ***


Getting Better.



Lo psicologo si sistemò gli occhialetti sul naso adunco, che lo facevano somigliare terribilmente a uno di quegli psichiatri folli da film horror.
C'è qualcosa che è accaduto quando eri bambina di cui potresti non aver mai parlato con nessuno e che ti trascini dietro da allora? -
Avevo perso il conto di quante volte avevo già sentito quella domanda, in modo più o meno velato.
- No. - risposi incrociando le braccia sul petto.
Probabilmente tutto il mio corpo stava urlando che il mio unico desiderio era andarmene da lì
L'uomo davanti a me, invece, cercava di capire i meccanismi della mia mente, e, sinceramente, non avrei mai voluto essere al suo posto; al momento, però, faceva finta di credere a quello che gli dicevo.
- A volte la nostra psiche rimuove i ricordi più dolorosi, per difendersi da essi. - continuò.
- Non si preoccupi che la mia psiche non ha mai avuto bisogno di difendersi da qualcosa. - sbottai.
"Forse se dicessi la verità ti servirebbe a qualcosa venire qui." mi rimproverò la mia coscienza, risvegliandosi dal coma nella quale era precipitata nell'ultimo periodo. 
La ignorai, anche perché mi infastidiva doverle dare, come sempre, ragione.
Un po' mi sentivo in colpa nei confronti dello psicologo, ma sapevo che mentire era l'unica cosa che potessi fare: più a lungo dici una menzogna, più ti convinci che è la verità.
Il ticchettio snervante dell'orologio da parete mi irritava, ma mi preannunciava anche l'imminente fine della seduta.
Quando finalmente misi piede fuori dallo studio respirai a profonde boccate l'aria libera.
Tutto sommato non mi pesava così tanto recarmi dallo strizzacervelli, ma non ero mai stata una che amasse parlare di sé e durante quel paio d'ore non facevo, logicamente, altro.
Sbuffai e finalmente mi liberai del fastidioso odore di sigaro che permeava lo studio dello psicologo.
Presi un ultimo respiro, poi mi rassegnai a tornare a casa; la cosa che odiavo di più dell'essere tornata a scuola (passino pure i professori e le loro menate) era che i compiti mi toglievano troppo tempo che avrei potuto passare a scrivere.
Tanto più che ultimamente avevo cominciato ad abbozzare un progetto serio.
Cominciai a pensare a quella nuova storia, ma il mio viaggio mentale fu rovinato dalla mia coscienza, che insistette a ricordarmi che la matematica non aveva ancora acquisito la capacità di farsi da sola.
Mi incamminai sulla via di casa e i miei pensieri si rivolsero alla progettazione dei più diabolici piani di fuga.
"Forse potrei emigrare in Messico e vendere tacos..." pensai mentre svoltavo in Forthlin Road.
La mia coscienza, però, bocciò anche quest'idea.
- Sto cominciando a odiarti. - le dissi.
- Che cosa ho fatto?- chiese Paul alle mie spalle, facendomi lanciare un urlo.
- Mi hai fatto prendere un infarto! - esclamai e gli tirai uno scappellotto. - Non farlo mai più. -
- Allora mi dici perché mi odi? - insistette il ragazzo guardandomi con gli occhi verdi spalancati come quelli di Frency quando il cane implorava un po' di coccole; tuttavia il suo tono lasciava intuire con fin troppa facilità che Paul riteneva impossibile che io potessi odiarlo.
- Stavo parlando con la mia coscienza. - borbottai; ricominciai ad avvicinarmi verso casa e dopo pochissimi passi Frency cominciò ad abbaiare e riuscì ad evadere dal giardino passando sotto lo steccato, poi ci corse in contro scodinziolando.
Una volta tanto, io e la mia coscienza fummo d'accordo nel convenire che non era il caso di chiedersi come e quando il bobtail fosse riuscito ad aquisire quel potere soprannaturale.
- E' vero che tu sei quella che ha bisogno dello psicologo! - replicò Paul mentre si chinava ad accarezzare il mio cucciolo.
Anche se sapevo che stava scherzando, dovetti trattenermi per non mandarlo a quel paese.
Mi limitai a prendere in braccio Frency e dirigermi dritta verso casa.
Paul, però, mi afferrò per i fianchi, ridendo.
- Lo sai che non volevo offenderti. -
Gli tirai un'altro scappellotto.
- Va bene, me lo meritavo. - bofonchiò massaggiandosi la nuca.
Sorrisi soddisfatta posando Frency a terra: stava crescendo rapidamente e ben presto non sarei più stata in grado di prenderlo in braccio senza spezzarmi la schiena.
- In ogni caso, non sono venuto qui solo per prenderti in giro. - ricominciò il mio amico - Ho bisogno di un favore piccolo piccolo.-
Batté le ciglia più volte, assumendo un'espressione implorante.
- Lo sai che farei di tutto per il mio Paulie. - risposi con un tono mellifluo e calcai bene il nomignolo che sapevo non piacere affatto al ragazzo, il quale, però, mi tolse tutta la soddisfazione facendo finta di niente.
- Posso farti ascoltare una canzone che vorrei proporre a John, una volta che l'avrò finita? - chiese con entusiasmo. - Per favore...?-
Sarei stata più che felice di accontentarlo, ma c'erano la mia coscienza e gli esercizi di matematica che si erano alleati e facevano terrorismo psicologico.
- Devo fare ancora tutti i compiti...- risposi dispiaciuta.
- Oh, non c'è problema allora! - esclamò Paul; mi prese sotto braccio e mi trascinò con sé - Tu fai i compiti e io suono! -
Mi portò sino al cancelletto di casa mia, poi si fermò. - Tu stai ferma qui: tra due secondi sarò di ritorno. -
Mi piantò lì e andò verso casa sua saltellando seguito da Frency che credeva che volesse giocare con lui.
Scoppiai a ridere e alzai gli occhi al cielo, ma non feci in tempo a tirare fuori il quaderno dalla borsa, poiché effettivamente Paul tornò dopo poco con la sua Zenith in mano.
Ben presto la mia risata contagiò anche lui, anche se ansimava e faceva fatica a respirare, quindi entrammo in casa, con ancora Frency che abbaiava esaltato;  Paul salutò Elisabeth, poi, finalmente, salimmo in camera mia.
Il ragazzo, senza far troppi complimenti, si sedette sul letto e il bobtail si sdraiò ai suo i piedi.
Tirai fuori dalla libreria il volume di aritmetica e lo appoggiai pesantemente sulla scrivania, sbuffando. - Non fare i salti di gioia ché rischi di romperti una gamba. - commentò sarcastico Paul.
- Se sei così impaziente di offrirti volontario, chi sono io per impedirtelo? - replicai.
Cercai di concentrarmi mentre il mio amico accordava la chitarra e riuscii persino a risolvere le prime due chilometriche espressioni, ma quando lui cominciò a suonare presi la saggia decisione di chiudere il quaderno.
- Ci hai già rinunciato?- mi punzecchiò smettendo per un attimo di suonare.
- Sta' zitto e fammi sentire questa canzone. - gli ordinai.
Paul fece un sorriso scaltro e ricominciò daccapo.
Presi un blocco da disegno e una matita e andai a sedermi sui cuscini che di nuovo invadevano la parte centrale della stanza, poi, una volta trovata una posizione comoda, cominciai a ritrarre il ragazzo.
Ero talmente concentrata a cogliere ogni frammento di espressione che si tracciava su ogni lineamento di Paul, che alla fine non riuscii nemmeno a sentire la musica.
Quando finì la canzone, Paul dovette chiamarmi tre o quattro volte prima di riuscire a distogliere la mia attenzione dallo schizzo.
- Non hai ascoltato una sola nota, non è vero?- chiese retoricamente.
Guardai il cuscino su cui ero seduta e mormorai qualche scusa a bassa voce, poi, lentamente, rischiai ad alzare lo sguardo sul ragazzo.
Lui raccolse un cuscino e se lo rigirò tra le mani.
- Certo che non servi proprio a niente! - commentò e me lo lanciò contro, colpendomi in viso.  Io non mi lasciai certo sfuggire l'occasione e ricambiai; come c'era da aspettarsi, la cosa si trasformò in una vera e propria lotta. Alla fine stramazzammo tutti e due sul pavimento.
- Ho vinto io. - affermai senza fiato mentre Frency veniva a sdraiarsi con noi, appoggiando la testa sul mio ventre.
Paul mi rispose grugnendo, poi, con enorme fatica, si girò fino a trovarsi sdraiato bocconi.
Mi guardò negli occhi e la sua espressione seria mi mise a disagio.
- Cosa c'è tra te e Stuart?- chiese a bruciapelo.
Rimasi a lungo in silenzio, spiazzata da quella domanda che proprio non mi aspettavo.Cosa voleva che ci fosse tra me e Stu?!
- In che senso?- cercai di prendere tempo.
- Lo sai. - rispose semplicemente. Non voleva mettermi in imbarazzo e cercò di farmelo capire con l'espressione dei suoi occhi.
Guardai il soffitto e respirai profondamente.
- Tu, Stu e Cyn siete i miei migliori amici. - risposi infine, ma subito dopo trovai il modi di sfuggire quella situazione. - Perché me lo chiedi? Sei forse geloso?! -
Paul ridacchiò:- No! Ma ho sentito da qualche parte che l'informazione è potere... -
Gli schiacciai un cuscino contro il viso, ridendo e riuscendo a lasciarmi alle spalle il disagio di poco prima.
- Tu sei matto! - esclamai.
- Senti chi parla. - replicò Paul. Si mise a sedere e si guardò intorno. - Per lo meno mi fai vedere il disegno che mi hai fatto? -
Annuii e mi allungai per prendere il blocco da disegno che nella lotta con i cuscini era finito sotto il letto.
- Spero sia venuto bene. - mormorai - Perché sarà l'unica cosa che potrò presentare al professore di matematica domani mattina. -
Paul prese il blocco e studiò il suo ritratto.
- Non è ancora finito, ma se vuoi puoi tenerlo. - gli dissi.
Paul sorrise, strappò il foglio dal blocco e se lo mise nella tasca dei pantaloni, quindi mi abbracciò.
Il tempismo di Elisabeth, che era ormai passato alla Storia, colpì ancora.
La donna entrò nella stanza subito dopo aver bussato e non diede a me e a Paul il tempo materiale per sciogliere l'abbraccio.
Non che fossi imbarazzata all'idea che mia madre mi vedesse stretta al mio migliore amico, o che quella fosse la prima manifestazione d'affetto di cui lei era testimone, ma fece comunque uno strano effetto e mi ritrovai con il cuore che batteva velocissimo, come fossi una bambina che era appena stata scoperta a mangiare cioccolata di nascosto.
Dall'espressione che Paul assunse compresi che anche lui condivideva il mio imbarazzo, tuttavia Elisabeth sembrò non accorgersene.
- Ti fermi a cena da noi?- chiese sorridendo al ragazzo, ma lui scosse la testa e si alzò.
- La ringrazio, ma tra poco arriverà mio padre e ho lasciato Mike sa solo; devo proprio tornare a casa. -
Una volta che Paul se ne fu andato, Elisabeth mi rivolse un'occhiata sorniona.
La cosa mi mise addosso una certa inquietudine, poiché i piani di mia madre erano almeno dieci volte più diabolici dei miei.

Mi girai un'ennesima volta nel letto, non riuscendo a trovare una posizione comoda per riaddormentarmi dopo essermi svegliata come al solito per gli incubi, anche se essi, grazie a sonniferi e ansiolitici, erano diventati meno spaventosi.
La mia mente era particolarmente irrequieta quella sera.
La domanda che Paul mi aveva rivolta nel pomeriggio continuava a tonarmi alla mente, anche se non ne sapevo il motivo.
"Non ne dovresti essere felice?" mi dissi" Finalmente sei tormentata dalle stesse cose che affliggono le adolescenti normali!"
Che ben misera consolazione...
Come se non bastasse, avevo ricordi sfocati di quello che era successo durante la mia permanenza in ospedale, ma ero quasi sicura di non essermi solo sognata lo sguardo di Stu cui continuavo a pensare: qualcosa indefinibile e intenso, a metà fra la dolcezza e l'ardore. 
Ben presto, tuttavia, i miei pensieri presero una strada diversa e senza che me ne accorgessi mi ritrovai a sostituire l'espressione di Stuart con quella che, per un secondo solo, mi era parso di scorgere negli occhi di Lennon.
Non potevo credere di stare di nuovo pensando a lui: ultimamente non facevo altro!
La mia mente era tutta un Lennon qui, Lennon là; Lennon, Lennon, Lennon...
Cristo santo, quel ragazzo mi perseguitava!   
__________________________________
 
Dopo due settimane sono riuscita a trovare il coraggio di abbandonare il cantuccio accogliente nel quale io e la coscienza di Anna abbiamo condiviso un breve periodo di letargo. (Tra l'altro, ci siamo conosciute meglio e ora posso con gioia annunciare che è diventata la mia seconda migliore amica immaginaria, anche se non so quanto possiate ritenere quest'informazione indispensabile per la vostra sopravvivenza. Comunque ve la do lo stesso perché informazione è potere, no? )
Bene, dopo questa posso tranquillamente emigrare in Burkina Faso. Ci vediamo lì, ok? 
In ogni caso, per la vostra gioia (sì, certo: come no...) ecco qui il nuovo capitolo.
Esso, come credo si capisca abbastanza, costituisce un passaggio a una parte di storia che comporterà numerosi cambiamenti; ma poiché non posso anticiparvi niente e la voglia di spoilerare a tutto spiano comincia a farsi sentire, mi dileguo e torno nel mio cantuccio accogliente e invaso dalle noccioline che ho diligentemente messo da parte in attesa che arrivi l'inverno.
Okay, adesso sto per lanciarmi in un discorso filosofico sulla bella vita che fanno gli scoiattoli grigi di Central Park, quindi è meglio per la salute mentale di tutti i lettori se vado a fare queste discussioni altrove. (magari in Burkina Faso.)


Cherry Blues : Ebbene sì, ultimamente alla povera Anna sono successe un sacco di cose (le ho dato ufficialmente il permesso morale per vendicarsi su di me) e, purtroppo per lei, non siamo che più o meno a metà della storia!
Se dovesse venire a farmi fuori prima che riesca a finire la ff, ho dato disposizioni a mia sorella e alla mia "agente" affinché la terminino al posto mio!!!
 
Peace n Love. 
 
 

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Capitolo 19
*** 18. - We can work It out. ***


We can work it out.
 

Appoggiai la testa contro il braccio, scarabocchiando distrattamente qualcosa sul bordo della pagina del libro di chimica.                                                                                                                                              Gli occhi mi si chiudevano e il chiacchiericcio dei miei compagni durante il cambio d'ora mi stordiva; possibile che ogni volta che non c'era un professore in classe dovessero comportarsi come dei bambini dell'asilo?                                                                                                                                              "Fate un po' di silenzio..." implorai mentalmente passandomi le mani sugli occhi arrossati. Trascorrere le notti in bianco e buttarsi giù dal letto alle sei era davvero poco salutare.                                          Come se non bastasse, poi, nelle ultime mattine il mio cervello ero in uno stato di catatonia totale, da cui non riusciva ad uscire prima che le lezioni finissero, a causa del quale non si poteva certo dire che fossi molto attenta alle spiegazioni.                                                                                                                                       Con grande sollievo, tuttavia, constatai che il chiasso prodotto da quella mandria di buoi che erano i miei compagni era finito in fretta, dal momento che pochi minuti dopo il suono della campanella era entrato nell'aula il professore di lettere.                                                                                                                      Non facemmo neanche in tempo ad alzarci in piedi per salutarlo che egli, con un ghigno sadico, ci ordinò di separare i banchi; dopo il consueto trambusto provocato dai banchi e dalle sedie trascinati, tutti i ragazzi all'interno dell'aula sprofondarono in un silenzio angosciato.                                                             Io, da parte mia, cercavo di immaginarmi non senza una certa apprensione quale potesse essere la traccia che l'insegnante aveva deciso di rifilarci quella volta. Fra tutti, quell'uomo era il più odioso e il mio sentimento d'odio incondizionato era ricambiato; in effetti, era da parecchio che avevo cominciato a chiedermi se le orribili tracce fossero scelte apposta per farmi un dispetto.                                                 Un volontario pescato a caso fra i miei compagni cominciò a girare per l'aula distribuendo i foglietti rettangolari preparati per l'occasione.                                                                                                               Strano, in genere il professore scriveva le tracce direttamente sulla lavagna...                                                                                    Rigirai il mio foglio fra le mani, attingendo a tutte le mie fonti di coraggio: fosse stato per me, non avrei mai guardato la traccia, ma i miei compagni avevano già iniziato a scrivere e il professore mi fissava con uno sguardo di sfida.                                                                                                                      Alla fine, posai gli occhi sulla scritta.                                                                                                                 La condanna morale, religiosa, sociale e penale dell'omicidio e del suicidio.                                                 Alzai la testa di scatto, con un'espressione scioccata e gli occhi spalancati; incontrai il sorriso trionfante del professore, che fece scattare in me una reazione che nemmeno lui si aspettava.                      Con gli occhi ormai ridotti a due fessure aprii il foglio protocollo, mentre la sorpresa si trasformava velocemente in furia.                                                                                                                           Se fossi stata in condizione di trovare un po' di autocontrollo, avrei cominciato quel tema e avrei tirato fuori delle tesi che avrebbero fatto diventare quel bastardo alto come un nanetto da giardino, ma la mia mente era completamente stordita dalla rabbia.                                                                              Scrissi un gigantesco  "fottiti!" che occupava entrambe le pagine, quindi mi alzai dalla sedia e afferrai il foglio. Mi diressi verso la cattedra, travolgendo nel frattempo alcuni dei banchi dei miei compagni, facendo spargere sul pavimento numerose penne; sbattei il foglio sulla cattedra e guardai il professore negli occhi.                                                                                                                                                                      - Vada a fare in culo. - ringhiai e feci trasparire in quelle poche parole tutta la mia ira e il mio odio. Uscii dalla classe facendo sbattere la porta e il rumore produsse un'eco impressionante nei corridoi silenziosi.                                                                                                                                     Cominciai a correre a testa bassa, senza nemmeno guardare dove stessi andando.                                                In ogni caso, ormai conoscevo i corridoi a memoria e non fu affatto difficile trovare l'uscita della scuola.                                                                                                                                                          Quando mi ritrovai in strada non mi fermai, ma continuai a correre, sebbene fossi già esausta: volevo allontanarmi il più possibile da quel posto.                                                                                      Accennai a rallentare  soltanto quando vidi intorno a me il paesaggio familiare dei campi da golf.                    Alla fine, mi fermai vicino ad un albero cui mi appoggiai per riprendere fiato. Ero piegata in due dal dolore alla milza, per cui non mi accorsi che qualcuno si era avvicinato senza far particolare rumore e ora mi guardava con un sopracciglio alzato.                                                                                                       - Ti senti bene?- chiese la voce sprezzante di Lennon.                                                                                                      Mi rialzai di scatto, riuscendo a ignorare le fitte, e lo fulminai con lo sguardo.                                                                                                       Non ero dell’umore adatto per sopportare anche lui; tuttavia, una volta che lo ebbi guardato in viso, una piccola parte del mio cervello colse l’occasione per ricordarmi che se ora ero lì a maledire la sua presenza, incazzata nera, ansimante e attaccata al tronco di un albero, era solo grazie a lui.                    - Sì.- risposi allontanandomi di un passo dall’albero.                                                                                         - Come mai qui? Non ti credevo certo tipo da marinare le lezioni.- osservò.                                                     - Ci sono molte cose di me che non sai, Lennon. - replicai.  Il ragazzo rimase in silenzio e io abbassai lo sguardo; sapevo che stava aspettando che lo ringraziassi e io, d’altra parte, non vedevo l’ora di sistemare la questione una volta per tutte.                                                                                    - Senti, Lennon…- mormorai; mi avvicinai di nuovo al tronco dell’albero, come potesse difendermi e aiutarmi a fuggire quella trappola - Voglio che tu sappia che ti sono grata per… quello che hai fatto. -                                                                                                                                                                   Lui scrollò le spalle:- Siamo entrambi abbastanza intelligenti per andare oltre le ipocrisie sociali. E’ inutile che mi ringrazi solo perché ti senti in dovere di farlo. -                                                                           - Io volevo farlo. - replicai di getto, senza stare troppo a pensare a le parole che mi uscivano dalle labbra. Lennon fece un mezzo sorriso.                                                                                                                 - Bene - esordii di nuovo - è ora che io vada. -                                                                                              Non aspettai che il ragazzo aggiungesse altro: avevo troppo timore che riprendesse il suo solito modo di atteggiarsi perché, ora come ora, avrei potuto tirargli un pugno.                                                                                                                          Mi allontanai di qualche passo e cominciai già a pensare a come avrei spiegato ai miei genitori la situazione. - Ehi, Mitchell. - mi chiamò Lennon.                                                                                                Mi fermai e mi voltai; evidentemente, l’insulto che avevo aspettato da quando io e il ragazzo avevamo cominciato a parlare stava per giungere.                                                                                             Invece, Lennon mi lanciò qualcosa che tracciò una parabola in aria producendo uno strano fruscio. Solo quando lo afferrai al volo mi accorsi che era il mio quaderno.                                                        Accarezzai la copertina e lo strinsi al petto.                                                                                                   Ero perfettamente conscia del fatto che Lennon non si sarebbe mai scusato per quello che aveva fatto, quindi decisi che era inutile aspettare che aggiungesse qualcosa al suo gesto.                                           - Grazie. - dissi mentre sentivo il familiare odore delle pagine e dell’inchiostro.                                        Lennon scrollò di nuovo le spalle.                                                                                                                    Stavo già per andarmene quando, finalmente, si decise a dire qualcosa:- Non l’ho mai letto. -                                                                                                                                              Sgranai gli occhi e lo fissai come se non l’avessi mai visto, stupita.                                                                - Grazie.- ripetei, questa volta con maggiore convinzione.                                                                           Sapevo di avere le lacrime agli occhi, ma per una volta non mi vergognai di mostrare al ragazzo la mia gratitudine. Lennon mi rivolse uno sguardo strano, che non riuscii a decifrare, poi fece un gesto della mano e si allontanò.                                                                                                                           Rimasi ferma qualche attimo, stordita da quel colloquio, ma poi ritornò la consapevolezza di quello che era successo meno di un’ora prima.                                                                                                                    Mentre prendevo la strada di casa sentii la rabbia montare di nuovo.                                                        Avrei voluto sfogarmi su qualcuno, ma la mia coscienza si mise in mezzo e mi ricordò che ero una ragazza di buona famiglia e in quanto tale non potevo essere convolta in risse da taverna.                        La ringraziai per avermelo ricordato mentre cominciavo ad accelerare il passo: prima tornavo a casa meglio era.                                                                                                                                                         Mi ritrovai di nuovo a correre fino a che non mi ritrovai in Forthlin Road.                                                Entrai in casa facendo sbattere la porta, ma non feci in tempo a muovere un passo che mi ritrovai Elisabeth davanti.                                                                                                                                         - Ma che…- cominciò. - Io là dentro non ci torno!- gridai, cominciando a fare avanti e indietro per la stanza; mi giunsero i guaiti di Frency, spaventato dalle mie urla e mi passai entrambe le mani tra i capelli.                                                                                                                                                          La furia stava trasformandosi in lacrime di rabbia e odio.                                                          Elisabeth, esasperata, mi prese per le spalle, obbligandomi a fermarmi e a guardarla negli occhi.                - Datti una calmata. - ordinò, pur senza alzare la voce.                                                                                       Cercai di rallentare il respiro mentre mia madre mi portava in salotto e mi faceva sedere sul divano. Afferrai un cuscino e lo abbracciai, sfogando su di esso tutto il nervoso.                                                    Frency si era nascosto sotto il tavolino del giradischi e uscì dal suo rifugio guardandosi intorno con circospezione, poi saltò sul divano e si accoccolò sulle mie ginocchia dopo che ebbe tirato via il cuscino a forza di musate.                                                                                                                                      Gli accarezzai la schiena mentre lui si sedeva e mi guardava preoccupato, percependo il mio disagio. Avvicinò il muso alla mia guancia e mi diede un colpetto con il naso umido.                                     - Mi vuoi spiegare quello che è successo?- chiese Elisabeth quando mi ebbe vista più calma.                                                       Strinsi Frency al petto e lasciai che la rabbia sbollisse ancora prima di cominciare a raccontarle gli eventi di quella mattina; man mano che parlavo vidi il volto di mia madre incupirsi sempre di più e lei, sebbene avesse cercato di controllarsi, strinse i pugni al punto che le nocche le diventarono bianche.                                                                                                                                                                   - Se non vuoi più mettere piede in quella scuola, non sarò certo io ad impedirtelo. - disse con il tono più duro che le avessi mai sentito usare. - Ma dobbiamo aspettare che tuo padre rientri. Nel frattempo, perché non vai a fare un giro con Frency? -                                                                                   Avrei voluto dirle che in quel momento mi sarei sparata all’idea di uscire di nuovo di casa, ma il suo inusuale umore mi convinse a non fiatare.                                                                                                                                    - Forza, palla di pelo: hai sentito il capo. - mormorai al cucciolo sospingendolo giù dalle mie ginocchia.
 Una volta che fui uscita di casa, però, mi resi conto che quella non era stata affatto una brutta idea: non avevo mai visto Elisabeth tanto arrabbiata e non osavo immaginare la reazione che avrebbe avuto James, quando fosse tornato dal lavoro; odiavo trovarmi in mezzo alla gente infuriata, quindi era molto meglio per me godermi l’aria frizzante di quella mattina di fine settembre.                                          Mi lasciai guidare da Frency perché non avevo voglia di pensare alla strada e mi ritrovai a Calderstones Park. Nell’ultimo periodo passavo più tempo in quel parco che a casa, e non avevo mai fatto alcun “incontro spiacevole”, per cui rimasi sorpresa quando Lennon mi si parò davanti all’improvviso.                                                                                                                                                     - Mi stai seguendo, Lennon? - chiesi scansandomi e continuando a camminare.                                                 - No.- rispose tenendomi il passo.                                                                                                             Mi voltai verso di lui: - A me sembra proprio di sì, invece. -                                                                              - Non devo rendere conto a te di quanto faccio. - replicò.                                                                                       - Bene, perché il fatto che tu mi abbia aiutata una volta non significa che adesso sopporterò in silenzio tutto quello che fai! - esclamai perdendo il controllo sia sui miei sentimenti che sulle mie parole.                                                                                                                                                              Lennon mi guardò negli occhi e io mi sentii scrutata nel profondo da quell’intenso sguardo color nocciola.                                                                                                                                                              - Non ti ho mai chiesto di farlo. -                                                                                                                           Quella frase calmò la mia veemenza; non riuscendo più a reggere lo sguardo del ragazzo abbassai gli occhi e osservai Frency mentre annusava la gamba di Lennon e lo implorava di coccolarlo un po’. All’inizio il ragazzo guardò il cucciolo abbastanza freddamente, ma in qualche minuto sospirò e si chinò sul bobtail, che da parte sua ci mise persino meno tempo a sdraiarsi a pancia in su.                         Mentre li guardavo, sentii il bisogno di dire qualcosa, per non restarmene lì impalata come una stupida.                                                                                                                                                                  - Come va il gruppo?- dissi la prima cosa che mi era venuta in mente, ma dopo poco me ne pentii. Lennon spostò lo sguardo su di me:- Bene, anche se non abbiamo trovato un batterista stabile. -  Perfetto: e ora come facevo a trovare qualcosa da replicare?! Dopo una breve, disperata ricerca, parlai di nuovo: - Non conosco nessuno che abbia una batteria, ma se dovessi sentire qualcosa, ti farò sapere. -  Stavo facendo la figura dell’idiota. Lennon, tuttavia, accennò ad un sorriso, poi spostò la sua attenzione di nuovo su Frency.                                                                                                    Avrebbe almeno potuto degnarsi di ringraziare…                                                                                          Quando glielo feci notare senza nascondere un certo disappunto, il ragazzo rimase a lungo a fissarmi negli occhi.                                                                                                                                           - Grazie, Anna. - disse, serio. Era la prima volta che mi chiamava per nome e mi fece correre dei brividi lungo la colonna vertebrale.                                                                                                             Di nuovo fra noi calò il silenzio.                                                                                                                         - Paul mi ha detto che state provando una canzone di Little Richard. - mi curai di distogliere l’attenzione di entrambi (ma in particolar modo la mia) dall’ultimo scambio di battute.                                 Mi sedetti sull’erba e accarezzai la testa di Frency, che ora era l’unica “barriera” che divideva me e Lennon.                                                                                                                                                                 - E’ così, infatti. - rispose Lennon. - Slippin' and Slidin'.-                                                                                                                       Sorrisi perché sapevo che avremmo passato la mattinata a parlare di musica. E infatti la mia previsione si rivelò esatta: passammo delle ore intere a discutere di rock n roll.                                           Ad un certo punto, Lennon tirò fuori un pacchetto di sigarette e se ne accese una.                                         Tirò un paio di boccate, poi si ricordò delle regole della buona educazione e mi porse il pacchetto aperto.                                                                                                                                                                      -No, grazie. - dissi - Non fumo. -                                                                                                                        - Oh, avanti! Sei l’unica ragazza di tutta Liverpool che ancora non fuma. - osservò lui. - Guarda che non ti uccide.-                                                                                                                                            Quella frase non avrebbe fatto in nascere in me una particolare reazione se non fosse stata detta con un tono che la faceva assomigliare in modo impressionante a una sfida, che il mio stramaledetto orgoglio non mi fece rifiutare.                                                                                                                     Presi una sigaretta e la accostai alle labbra mentre Lennon si avvicinava per accenderla, poi il ragazzo tornò a fumare semi-sdraiato sull’erba.                                                                                               Feci un primo, timoroso tiro, ma quando il fumo invase la mia bocca mi sentii quasi soffocare.                                                                                               Mi imposi di non tossire e impiegai tutta la mia forza per perseguire quell’obiettivo, ma mi ritrovai con le lacrime agli occhi. Buttai fuori il fumo fingendo nonchalance, tuttavia aspettai qualche minuti prima di fare il secondo tiro.                                                                                                                    - Non è poi tanto male. - dissi accorgendomi che Lennon si aspettava che facessi un commento.                 Lui sorrise, poi prese da una tasca della giacca un’armonica a bocca.                                                             Mi chiesi quante cose ci stessero in quelle tasche, ma poi il ragazzo cominciò a suonare un motivo che non riconobbi.                                                                                                                                                 Lo ascoltai in silenzio, accarezzando distrattamente Frency, fino al momento in cui, come un fulmine a ciel sereno, mi ricordai per quale motivo ero lì a fumare invece che a scuola.                                   Scattai in piedi di colpo:- Scusa, devo proprio andare. -                                                                             Salutai velocemente il ragazzo e mi allontanai ancor più rapidamente, sebbene Frency si lamentasse dell’andatura troppo sostenuta cui lo spingevo; non ero nella condizione adatta per stare a curarmi della pigrizia intrinseca nel carattere del mio cane.                                                                                            Se soltanto quella mattina qualcuno fosse venuto a dirmi che dopo tanto tempo avrei fatto pace con Lennon, gli avrei riso in faccia ma ancora una volta il ragazzo aveva trovato il modo di ribaltare le mie aspettative.
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Finalmente, dopo aver dovuto fare numerosi riti voodoo per far funzionare il computer che aveva deciso di andare in vacanza, sono riuscita ad aggiornare.
Che dire di questo capitolo? Avevo bisogno di cambiamenti (era da un po’ che veramente ci pensavo) ma prima di iniziare una nuova fase della storia ho sentito la necessità di chiudere alcune cose rimaste in sospeso.
Forse la riappacificazione di Anna e Lennon è stata troppo improvvisa e affrettata, ma non ne potevo più di averli in contrasto. Magari è stato un azzardo, ma devo dire che ne sono molto soddisfatta.
Weasleywalrus93 : non ti preoccupare, anzi, ti ringrazio per aver trovato il tempo di recensire lo scorso!  In effetti, quando ho cominciato a scrivere Getting Better non avevo programmato l’ultimo dialogo fra Paul e Anna: è comparso da solo e non so nemmeno bene come.
Però mi sento in dovere di confessare che mi sto divertendo tantissimo a gettare confusione sui sentimenti di Anna * risata diabolica
Chissà come si evolverà la cosa? ( In verità non ne sono sicura nemmeno io, e la cosa mi preoccupa non poco!!!!)
 
Peace n Love.
Appoggiai la testa contro il braccio, scarabocchiando distrattamente qualcosa sul bordo della pagina del libro di chimica.                                                                                                                                              Gli occhi mi si chiudevano e il chiacchiericcio dei miei compagni durante il cambio d'ora mi stordiva; possibile che ogni volta che non c'era un professore in classe dovessero comportarsi come dei bambini dell'asilo?                                                                                                                                              "Fate un po' di silenzio..." implorai mentalmente passandomi le mani sugli occhi arrossati. Trascorrere le notti in bianco e buttarsi giù dal letto alle sei era davvero poco salutare.                                          Come se non bastasse, poi, nelle ultime mattine il mio cervello ero in uno stato di catatonia totale, da cui non riusciva ad uscire prima che le lezioni finissero, a causa del quale non si poteva certo dire che fossi molto attenta alle spiegazioni.                                                                                                                                       Con grande sollievo, tuttavia, constatai che il chiasso prodotto da quella mandria di buoi che erano i miei compagni era finito in fretta, dal momento che pochi minuti dopo il suono della campanella era entrato nell'aula il professore di lettere.                                                                                                                      Non facemmo neanche in tempo ad alzarci in piedi per salutarlo che egli, con un ghigno sadico, ci ordinò di separare i banchi; dopo il consueto trambusto provocato dai banchi e dalle sedie trascinati, tutti i ragazzi all'interno dell'aula sprofondarono in un silenzio angosciato.                                                             Io, da parte mia, cercavo di immaginarmi non senza una certa apprensione quale potesse essere la traccia che l'insegnante aveva deciso di rifilarci quella volta. Fra tutti, quell'uomo era il più odioso e il mio sentimento d'odio incondizionato era ricambiato; in effetti, era da parecchio che avevo cominciato a chiedermi se le orribili tracce fossero scelte apposta per farmi un dispetto.                                                 Un volontario pescato a caso fra i miei compagni cominciò a girare per l'aula distribuendo i foglietti rettangolari preparati per l'occasione.                                                                                                               Strano, in genere il professore scriveva le tracce direttamente sulla lavagna...                                                                                    Rigirai il mio foglio fra le mani, attingendo a tutte le mie fonti di coraggio: fosse stato per me, non avrei mai guardato la traccia, ma i miei compagni avevano già iniziato a scrivere e il professore mi fissava con uno sguardo di sfida.                                                                                                                      Alla fine, posai gli occhi sulla scritta.                                                                                                                 La condanna morale, religiosa, sociale e penale dell'omicidio e del suicidio.                                                 Alzai la testa di scatto, con un'espressione scioccata e gli occhi spalancati; incontrai il sorriso trionfante del professore, che fece scattare in me una reazione che nemmeno lui si aspettava.                      Con gli occhi ormai ridotti a due fessure aprii il foglio protocollo, mentre la sorpresa si trasformava velocemente in furia.                                                                                                                           Se fossi stata in condizione di trovare un po' di autocontrollo, avrei cominciato quel tema e avrei tirato fuori delle tesi che avrebbero fatto diventare quel bastardo alto come un nanetto da giardino, ma la mia mente era completamente stordita dalla rabbia.                                                                              Scrissi un gigantesco  "fottiti!" che occupava entrambe le pagine, quindi mi alzai dalla sedia e afferrai il foglio. Mi diressi verso la cattedra, travolgendo nel frattempo alcuni dei banchi dei miei compagni, facendo spargere sul pavimento numerose penne; sbattei il foglio sulla cattedra e guardai il professore negli occhi.                                                                                                                                                                      - Vada a fare in culo. - ringhiai e feci trasparire in quelle poche parole tutta la mia ira e il mio odio. Uscii dalla classe facendo sbattere la porta e il rumore produsse un'eco impressionante nei corridoi silenziosi.                                                                                                                                     Cominciai a correre a testa bassa, senza nemmeno guardare dove stessi andando.                                                In ogni caso, ormai conoscevo i corridoi a memoria e non fu affatto difficile trovare l'uscita della scuola.                                                                                                                                                          Quando mi ritrovai in strada non mi fermai, ma continuai a correre, sebbene fossi già esausta: volevo allontanarmi il più possibile da quel posto.                                                                                      Accennai a rallentare  soltanto quando vidi intorno a me il paesaggio familiare dei campi da golf.                    Alla fine, mi fermai vicino ad un albero cui mi appoggiai per riprendere fiato. Ero piegata in due dal dolore alla milza, per cui non mi accorsi che qualcuno si era avvicinato senza far particolare rumore e ora mi guardava con un sopracciglio alzato.                                                                                                       - Ti senti bene?- chiese la voce sprezzante di Lennon.                                                                                                      Mi rialzai di scatto, riuscendo a ignorare le fitte, e lo fulminai con lo sguardo.                                                                                                       Non ero dell’umore adatto per sopportare anche lui; tuttavia, una volta che lo ebbi guardato in viso, una piccola parte del mio cervello colse l’occasione per ricordarmi che se ora ero lì a maledire la sua presenza, incazzata nera, ansimante e attaccata al tronco di un albero, era solo grazie a lui.                    - Sì.- risposi allontanandomi di un passo dall’albero.                                                                                         - Come mai qui? Non ti credevo certo tipo da marinare le lezioni.- osservò.                                                     - Ci sono molte cose di me che non sai, Lennon. - replicai.  Il ragazzo rimase in silenzio e io abbassai lo sguardo; sapevo che stava aspettando che lo ringraziassi e io, d’altra parte, non vedevo l’ora di sistemare la questione una volta per tutte.                                                                                    - Senti, Lennon…- mormorai; mi avvicinai di nuovo al tronco dell’albero, come potesse difendermi e aiutarmi a fuggire quella trappola - Voglio che tu sappia che ti sono grata per… quello che hai fatto. -                                                                                                                                                                   Lui scrollò le spalle:- Siamo entrambi abbastanza intelligenti per andare oltre le ipocrisie sociali. E’ inutile che mi ringrazi solo perché ti senti in dovere di farlo. -                                                                           - Io volevo farlo. - replicai di getto, senza stare troppo a pensare a le parole che mi uscivano dalle labbra. Lennon fece un mezzo sorriso.                                                                                                                 - Bene - esordii di nuovo - è ora che io vada. -                                                                                              Non aspettai che il ragazzo aggiungesse altro: avevo troppo timore che riprendesse il suo solito modo di atteggiarsi perché, ora come ora, avrei potuto tirargli un pugno.                                                                                                                          Mi allontanai di qualche passo e cominciai già a pensare a come avrei spiegato ai miei genitori la situazione. - Ehi, Mitchell. - mi chiamò Lennon.                                                                                                Mi fermai e mi voltai; evidentemente, l’insulto che avevo aspettato da quando io e il ragazzo avevamo cominciato a parlare stava per giungere.                                                                                             Invece, Lennon mi lanciò qualcosa che tracciò una parabola in aria producendo uno strano fruscio. Solo quando lo afferrai al volo mi accorsi che era il mio quaderno.                                                        Accarezzai la copertina e lo strinsi al petto.                                                                                                   Ero perfettamente conscia del fatto che Lennon non si sarebbe mai scusato per quello che aveva fatto, quindi decisi che era inutile aspettare che aggiungesse qualcosa al suo gesto.                                           - Grazie. - dissi mentre sentivo il familiare odore delle pagine e dell’inchiostro.                                        Lennon scrollò di nuovo le spalle.                                                                                                                    Stavo già per andarmene quando, finalmente, si decise a dire qualcosa:- Non l’ho mai letto. -                                                                                                                                              Sgranai gli occhi e lo fissai come se non l’avessi mai visto, stupita.                                                                - Grazie.- ripetei, questa volta con maggiore convinzione.                                                                           Sapevo di avere le lacrime agli occhi, ma per una volta non mi vergognai di mostrare al ragazzo la mia gratitudine. Lennon mi rivolse uno sguardo strano, che non riuscii a decifrare, poi fece un gesto della mano e si allontanò.                                                                                                                           Rimasi ferma qualche attimo, stordita da quel colloquio, ma poi ritornò la consapevolezza di quello che era successo meno di un’ora prima.                                                                                                                    Mentre prendevo la strada di casa sentii la rabbia montare di nuovo.                                                        Avrei voluto sfogarmi su qualcuno, ma la mia coscienza si mise in mezzo e mi ricordò che ero una ragazza di buona famiglia e in quanto tale non potevo essere convolta in risse da taverna.                        La ringraziai per avermelo ricordato mentre cominciavo ad accelerare il passo: prima tornavo a casa meglio era.                                                                                                                                                         Mi ritrovai di nuovo a correre fino a che non mi ritrovai in Forthlin Road.                                                Entrai in casa facendo sbattere la porta, ma non feci in tempo a muovere un passo che mi ritrovai Elisabeth davanti.                                                                                                                                         - Ma che…- cominciò. - Io là dentro non ci torno!- gridai, cominciando a fare avanti e indietro per la stanza; mi giunsero i guaiti di Frency, spaventato dalle mie urla e mi passai entrambe le mani tra i capelli.                                                                                                                                                          La furia stava trasformandosi in lacrime di rabbia e odio.                                                          Elisabeth, esasperata, mi prese per le spalle, obbligandomi a fermarmi e a guardarla negli occhi.                - Datti una calmata. - ordinò, pur senza alzare la voce.                                                                                       Cercai di rallentare il respiro mentre mia madre mi portava in salotto e mi faceva sedere sul divano. Afferrai un cuscino e lo abbracciai, sfogando su di esso tutto il nervoso.                                                    Frency si era nascosto sotto il tavolino del giradischi e uscì dal suo rifugio guardandosi intorno con circospezione, poi saltò sul divano e si accoccolò sulle mie ginocchia dopo che ebbe tirato via il cuscino a forza di musate.                                                                                                                                      Gli accarezzai la schiena mentre lui si sedeva e mi guardava preoccupato, percependo il mio disagio. Avvicinò il muso alla mia guancia e mi diede un colpetto con il naso umido.                                     - Mi vuoi spiegare quello che è successo?- chiese Elisabeth quando mi ebbe vista più calma.                                                       Strinsi Frency al petto e lasciai che la rabbia sbollisse ancora prima di cominciare a raccontarle gli eventi di quella mattina; man mano che parlavo vidi il volto di mia madre incupirsi sempre di più e lei, sebbene avesse cercato di controllarsi, strinse i pugni al punto che le nocche le diventarono bianche.                                                                                                                                                                   - Se non vuoi più mettere piede in quella scuola, non sarò certo io ad impedirtelo. - disse con il tono più duro che le avessi mai sentito usare. - Ma dobbiamo aspettare che tuo padre rientri. Nel frattempo, perché non vai a fare un giro con Frency? -                                                                                   Avrei voluto dirle che in quel momento mi sarei sparata all’idea di uscire di nuovo di casa, ma il suo inusuale umore mi convinse a non fiatare.                                                                                                                                    - Forza, palla di pelo: hai sentito il capo. - mormorai al cucciolo sospingendolo giù dalle mie ginocchia.
 Una volta che fui uscita di casa, però, mi resi conto che quella non era stata affatto una brutta idea: non avevo mai visto Elisabeth tanto arrabbiata e non osavo immaginare la reazione che avrebbe avuto James, quando fosse tornato dal lavoro; odiavo trovarmi in mezzo alla gente infuriata, quindi era molto meglio per me godermi l’aria frizzante di quella mattina di fine settembre.                                          Mi lasciai guidare da Frency perché non avevo voglia di pensare alla strada e mi ritrovai a Calderstones Park. Nell’ultimo periodo passavo più tempo in quel parco che a casa, e non avevo mai fatto alcun “incontro spiacevole”, per cui rimasi sorpresa quando Lennon mi si parò davanti all’improvviso.                                                                                                                                                     - Mi stai seguendo, Lennon? - chiesi scansandomi e continuando a camminare.                                                 - No.- rispose tenendomi il passo.                                                                                                             Mi voltai verso di lui: - A me sembra proprio di sì, invece. -                                                                              - Non devo rendere conto a te di quanto faccio. - replicò.                                                                                       - Bene, perché il fatto che tu mi abbia aiutata una volta non significa che adesso sopporterò in silenzio tutto quello che fai! - esclamai perdendo il controllo sia sui miei sentimenti che sulle mie parole.                                                                                                                                                              Lennon mi guardò negli occhi e io mi sentii scrutata nel profondo da quell’intenso sguardo color nocciola.                                                                                                                                                              - Non ti ho mai chiesto di farlo. -                                                                                                                           Quella frase calmò la mia veemenza; non riuscendo più a reggere lo sguardo del ragazzo abbassai gli occhi e osservai Frency mentre annusava la gamba di Lennon e lo implorava di coccolarlo un po’. All’inizio il ragazzo guardò il cucciolo abbastanza freddamente, ma in qualche minuto sospirò e si chinò sul bobtail, che da parte sua ci mise persino meno tempo a sdraiarsi a pancia in su.                         Mentre li guardavo, sentii il bisogno di dire qualcosa, per non restarmene lì impalata come una stupida.                                                                                                                                                                  - Come va il gruppo?- dissi la prima cosa che mi era venuta in mente, ma dopo poco me ne pentii. Lennon spostò lo sguardo su di me:- Bene, anche se non abbiamo trovato un batterista stabile. -  Perfetto: e ora come facevo a trovare qualcosa da replicare?! Dopo una breve, disperata ricerca, parlai di nuovo: - Non conosco nessuno che abbia una batteria, ma se dovessi sentire qualcosa, ti farò sapere. -  Stavo facendo la figura dell’idiota. Lennon, tuttavia, accennò ad un sorriso, poi spostò la sua attenzione di nuovo su Frency.                                                                                                    Avrebbe almeno potuto degnarsi di ringraziare…                                                                                          Quando glielo feci notare senza nascondere un certo disappunto, il ragazzo rimase a lungo a fissarmi negli occhi.                                                                                                                                           - Grazie, Anna. - disse, serio. Era la prima volta che mi chiamava per nome e mi fece correre dei brividi lungo la colonna vertebrale.                                                                                                             Di nuovo fra noi calò il silenzio.                                                                                                                         - Paul mi ha detto che state provando una canzone di Little Richard. - mi curai di distogliere l’attenzione di entrambi (ma in particolar modo la mia) dall’ultimo scambio di battute.                                 Mi sedetti sull’erba e accarezzai la testa di Frency, che ora era l’unica “barriera” che divideva me e Lennon.                                                                                                                                                                 - E’ così, infatti. - rispose Lennon. - Slippin' and Slidin'.-                                                                                                                       Sorrisi perché sapevo che avremmo passato la mattinata a parlare di musica. E infatti la mia previsione si rivelò esatta: passammo delle ore intere a discutere di rock n roll.                                           Ad un certo punto, Lennon tirò fuori un pacchetto di sigarette e se ne accese una.                                         Tirò un paio di boccate, poi si ricordò delle regole della buona educazione e mi porse il pacchetto aperto.                                                                                                                                                                      -No, grazie. - dissi - Non fumo. -                                                                                                                        - Oh, avanti! Sei l’unica ragazza di tutta Liverpool che ancora non fuma. - osservò lui. - Guarda che non ti uccide.-                                                                                                                                            Quella frase non avrebbe fatto in nascere in me una particolare reazione se non fosse stata detta con un tono che la faceva assomigliare in modo impressionante a una sfida, che il mio stramaledetto orgoglio non mi fece rifiutare.                                                                                                                     Presi una sigaretta e la accostai alle labbra mentre Lennon si avvicinava per accenderla, poi il ragazzo tornò a fumare semi-sdraiato sull’erba.                                                                                               Feci un primo, timoroso tiro, ma quando il fumo invase la mia bocca mi sentii quasi soffocare.                                                                                               Mi imposi di non tossire e impiegai tutta la mia forza per perseguire quell’obiettivo, ma mi ritrovai con le lacrime agli occhi. Buttai fuori il fumo fingendo nonchalance, tuttavia aspettai qualche minuti prima di fare il secondo tiro.                                                                                                                    - Non è poi tanto male. - dissi accorgendomi che Lennon si aspettava che facessi un commento.                 Lui sorrise, poi prese da una tasca della giacca un’armonica a bocca.                                                             Mi chiesi quante cose ci stessero in quelle tasche, ma poi il ragazzo cominciò a suonare un motivo che non riconobbi.                                                                                                                                                 Lo ascoltai in silenzio, accarezzando distrattamente Frency, fino al momento in cui, come un fulmine a ciel sereno, mi ricordai per quale motivo ero lì a fumare invece che a scuola.                                   Scattai in piedi di colpo:- Scusa, devo proprio andare. -                                                                             Salutai velocemente il ragazzo e mi allontanai ancor più rapidamente, sebbene Frency si lamentasse dell’andatura troppo sostenuta cui lo spingevo; non ero nella condizione adatta per stare a curarmi della pigrizia intrinseca nel carattere del mio cane.                                                                                            Se soltanto quella mattina qualcuno fosse venuto a dirmi che dopo tanto tempo avrei fatto pace con Lennon, gli avrei riso in faccia ma ancora una volta il ragazzo aveva trovato il modo di ribaltare le mie aspettative.
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Finalmente, dopo aver dovuto fare numerosi riti voodoo per far funzionare il computer che aveva deciso di andare in vacanza, sono riuscita ad aggiornare.
Che dire di questo capitolo? Avevo bisogno di cambiamenti (era da un po’ che veramente ci pensavo) ma prima di iniziare una nuova fase della storia ho sentito la necessità di chiudere alcune cose rimaste in sospeso.
Forse la riappacificazione di Anna e Lennon è stata troppo improvvisa e affrettata, ma non ne potevo più di averli in contrasto. Magari è stato un azzardo, ma devo dire che ne sono molto soddisfatta.
Weasleywalrus93 : non ti preoccupare, anzi, ti ringrazio per aver trovato il tempo di recensire lo scorso!  In effetti, quando ho cominciato a scrivere Getting Better non avevo programmato l’ultimo dialogo fra Paul e Anna: è comparso da solo e non so nemmeno bene come.
Però mi sento in dovere di confessare che mi sto divertendo tantissimo a gettare confusione sui sentimenti di Anna * risata diabolica
Chissà come si evolverà la cosa? ( In verità non ne sono sicura nemmeno io, e la cosa mi preoccupa non poco!!!!)
 
Peac
Appoggiai la testa contro il braccio, scarabocchiando distrattamente qualcosa sul bordo della pagina del libro di chimica.
Gli occhi mi si chiudevano e il chiacchiericcio dei miei compagni durante il cambio d'ora mi stordiva; possibile che ogni volta che non c'era un professore in classe dovessero comportarsi come dei bambini dell'asilo?  
"Fate un po' di silenzio..." implorai mentalmente passandomi le mani sugli occhi arrossati.
Trascorrere le notti in bianco e buttarsi giù dal letto alle sei era davvero poco salutare.
Come se non bastasse, poi, nelle ultime mattine il mio cervello ero in uno stato di catatonia totale, da cui non riusciva ad uscire prima che le lezioni finissero, a causa del quale non si poteva certo dire che fossi molto attenta alle spiegazioni.
Con grande sollievo, tuttavia, constatai che il chiasso prodotto da quella mandria di buoi che erano i miei compagni era finito in fretta, dal momento che pochi minuti dopo il suono della campanella era entrato nell'aula il professore di lettere.
Non facemmo neanche in tempo ad alzarci in piedi per salutarlo che egli, con un ghigno sadico, ci ordinò di separare i banchi; dopo il consueto trambusto provocato dai banchi e dalle sedie trascinati, tutti i ragazzi all'interno dell'aula sprofondarono in un silenzio angosciato.
Io, da parte mia, cercavo di immaginarmi non senza una certa apprensione quale potesse essere la traccia che l'insegnante aveva deciso di rifilarci quella volta. Fra tutti, quell'uomo era il più odioso e il mio sentimento d'odio incondizionato era ricambiato; in effetti, era da parecchio che avevo cominciato a chiedermi se le orribili tracce fossero scelte apposta per farmi un dispetto.
Un volontario pescato a caso fra i miei compagni cominciò a girare per l'aula distribuendo i foglietti rettangolari preparati per l'occasione.
Strano, in genere il professore scriveva le tracce direttamente sulla lavagna...
Rigirai il mio foglio fra le mani, attingendo a tutte le mie fonti di coraggio: fosse stato per me, non avrei mai guardato la traccia, ma i miei compagni avevano già iniziato a scrivere e il professore mi fissava con uno sguardo di sfida.
Alla fine, posai gli occhi sulla scritta.
La condanna morale, religiosa, sociale e penale dell'omicidio e del suicidio.
Alzai la testa di scatto, con un'espressione scioccata e gli occhi spalancati; incontrai il sorriso trionfante del professore, che fece scattare in me una reazione che nemmeno lui si aspettava.
Con gli occhi ormai ridotti a due fessure aprii il foglio protocollo, mentre la sorpresa si trasformava velocemente in furia. 
Se fossi stata in condizione di trovare un po' di autocontrollo, avrei cominciato quel tema e avrei tirato fuori delle tesi che avrebbero fatto diventare quel bastardo alto come un nanetto da giardino, ma la mia mente era completamente stordita dalla rabbia.
Scrissi un gigantesco  "fottiti!" che occupava entrambe le pagine, quindi mi alzai dalla sedia e afferrai il mio tema.
Mi diressi verso la cattedra, travolgendo nel frattempo alcuni dei banchi dei miei compagni, facendo spargere sul pavimento numerose penne; sbattei il foglio sulla cattedra e guardai il professore negli occhi.
- Vada a fare in culo. - ringhiai e feci trasparire in quelle poche parole tutta la mia ira e il mio odio. Uscii dalla classe facendo sbattere la porta e il rumore produsse un'eco impressionante nei corridoi silenziosi.
Cominciai a correre a testa bassa, senza nemmeno guardare dove stessi andando.
In ogni caso, ormai conoscevo i corridoi a memoria e non fu affatto difficile trovare l'uscita della scuola.
Quando mi ritrovai in strada non mi fermai, ma continuai a correre, sebbene fossi già esausta: volevo allontanarmi il più possibile da quel posto.
Accennai a rallentare  soltanto quando vidi intorno a me il paesaggio familiare dei campi da golf.
Alla fine, mi fermai vicino ad un albero cui mi appoggiai per riprendere fiato. Ero piegata in due dal dolore alla milza, per cui non mi accorsi che qualcuno si era avvicinato senza far particolare rumore e ora mi guardava con un sopracciglio alzato.
- Ti senti bene?- chiese la voce sprezzante di Lennon.
Mi rialzai di scatto, riuscendo a ignorare le fitte, e lo fulminai con lo sguardo.
Non ero dell’umore adatto per sopportare anche lui; tuttavia, una volta che lo ebbi guardato in viso, una piccola parte del mio cervello colse l’occasione per ricordarmi che se ora ero lì a maledire la sua presenza, incazzata nera, ansimante e attaccata al tronco di un albero, era solo grazie a lui.
- Sì.- risposi allontanandomi di un passo dall’albero.
- Come mai qui? Non ti credevo certo tipo da marinare le lezioni.- osservò.
- Ci sono molte cose di me che non sai, Lennon. - replicai.  Il ragazzo rimase in silenzio e io abbassai lo sguardo; sapevo che stava aspettando che lo ringraziassi e io, d’altra parte, non vedevo l’ora di sistemare la questione una volta per tutte.
- Senti, Lennon…- mormorai; mi avvicinai di nuovo al tronco dell’albero, come potesse difendermi e aiutarmi a fuggire quella trappola - Voglio che tu sappia che ti sono grata per… quello che hai fatto. -
Lui scrollò le spalle:- Siamo entrambi abbastanza intelligenti per andare oltre le ipocrisie sociali. E’ inutile che mi ringrazi solo perché ti senti in dovere di farlo. -
- Io volevo farlo. - replicai di getto, senza stare troppo a pensare a le parole che mi uscivano dalle labbra. Lennon fece un mezzo sorriso.
- Bene - esordii di nuovo - è ora che io vada. - 
Non aspettai che il ragazzo aggiungesse altro: avevo troppo timore che riprendesse il suo solito modo di atteggiarsi perché, ora come ora, avrei potuto tirargli un pugno.
Mi allontanai di qualche passo e cominciai già a pensare a come avrei spiegato ai miei genitori la situazione.
- Ehi, Mitchell. - mi chiamò Lennon.
Mi fermai e mi voltai; evidentemente, l’insulto che avevo aspettato da quando io e il ragazzo avevamo cominciato a parlare stava per giungere.
Invece, Lennon mi lanciò qualcosa che tracciò una parabola in aria producendo uno strano fruscio. Solo quando lo afferrai al volo mi accorsi che era il mio quaderno.
Accarezzai la copertina e lo strinsi al petto.
Ero perfettamente conscente del fatto che Lennon non si sarebbe mai scusato per quello che aveva fatto, quindi decisi che era inutile aspettare che aggiungesse qualcosa al suo gesto.
- Grazie. - dissi mentre sentivo il familiare odore delle pagine e dell’inchiostro.
Lennon scrollò di nuovo le spalle.
Stavo già per andarmene quando, finalmente, si decise a dire qualcosa:- Non l’ho mai letto. -
Sgranai gli occhi e lo fissai come se non l’avessi mai visto, oltremodo stupita.
- Grazie.- ripetei, questa volta con maggiore convinzione.
Sapevo di avere le lacrime agli occhi, ma per una volta non mi vergognai di mostrare al ragazzo la mia gratitudine.
Lennon mi rivolse uno sguardo strano, che non riuscii a decifrare, poi fece un gesto della mano e si allontanò.
Rimasi ferma qualche attimo, stordita da quel colloquio, ma poi ritornò la consapevolezza di quello che era successo meno di un’ora prima.
Mentre prendevo la strada di casa sentii la rabbia montare di nuovo.
Avrei voluto sfogarmi su qualcuno, ma la mia coscienza si mise in mezzo e mi ricordò che ero una ragazza di buona famiglia e in quanto tale non potevo essere convolta in risse da osteria.
La ringraziai per avermelo ricordato mentre cominciavo ad accelerare il passo: prima fossi tornata a casa meglio sarebbe stato.
Mi ritrovai di nuovo a correre fino a che non mi ritrovai in Forthlin Road.
Entrai in casa facendo sbattere la porta, ma non feci in tempo a muovere un passo che mi ritrovai Elisabeth davanti.
- Ma che…- cominciò.
- Io là dentro non ci torno!- gridai, cominciando a fare avanti e indietro per la stanza; mi giunsero i guaiti di Frency, spaventato dalle mie urla e mi passai entrambe le mani tra i capelli.
La furia stava trasformandosi in lacrime di rabbia e odio.
Elisabeth, esasperata, mi prese per le spalle, obbligandomi a fermarmi e a guardarla negli occhi.
- Datti una calmata. - ordinò, pur senza alzare la voce. 
Cercai di rallentare il respiro mentre mia madre mi portava in salotto e mi faceva sedere sul divano. Afferrai un cuscino e lo abbracciai, sfogando su di esso tutto il nervoso.
Frency si era nascosto sotto il tavolino del giradischi e uscì dal suo rifugio guardandosi intorno con circospezione, poi saltò sul divano e si accoccolò sulle mie ginocchia dopo che ebbe tirato via il cuscino a forza di musate.
Gli accarezzai la schiena mentre lui si sedeva e mi guardava preoccupato, percependo il mio disagio. Avvicinò il muso alla mia guancia e mi diede un colpetto con il naso umido.
- Mi vuoi spiegare quello che è successo?- chiese Elisabeth quando mi ebbe vista più calma.
Strinsi Frency al petto e lasciai che la rabbia sbollisse ancora prima di cominciare a raccontarle gli eventi di quella mattina; man mano che parlavo vidi il volto di mia madre incupirsi sempre di più e lei, sebbene avesse cercato di controllarsi, strinse i pugni al punto che le nocche le diventarono bianche.
- Se non vuoi più mettere piede in quella scuola, non sarò certo io ad impedirtelo. - disse con il tono più duro che le avessi mai sentito usare. - Ma dobbiamo aspettare che tuo padre rientri. Nel frattempo, perché non vai a fare un giro con Frency? -
Avrei voluto dirle che in quel momento mi sarei sparata all’idea di uscire di nuovo di casa, ma il suo inusuale umore mi convinse a non fiatare.
- Forza, palla di pelo: hai sentito il capo. - mormorai al cucciolo sospingendolo giù dalle mie ginocchia.

Una volta che fui uscita di casa, però, mi resi conto che quella non era stata affatto una brutta idea: non avevo mai visto Elisabeth tanto arrabbiata e non osavo immaginare la reazione che avrebbe avuto James, quando fosse tornato dal lavoro; odiavo trovarmi in mezzo alla gente infuriata, quindi era molto meglio per me godermi l’aria frizzante di quella mattina di fine settembre.
Mi lasciai guidare da Frency perché non avevo voglia di pensare alla strada e mi ritrovai a Calderstones Park.
Nell’ultimo periodo passavo più tempo in quel parco che a casa, e non avevo mai fatto alcun “incontro spiacevole”, per cui rimasi sorpresa quando Lennon mi si parò davanti all’improvviso senza che io riuscissi a capire da dove fosse sbucato o se fosse stato già lì quando ero entrata nel parco.
- Mi stai seguendo, Lennon? - chiesi scansandomi e continuando a camminare.
- No.- rispose tenendomi il passo.
Mi voltai verso di lui: - A me sembra proprio di sì, invece. -
- Non devo rendere conto a te di quanto faccio. - replicò.
- Bene, perché il fatto che tu mi abbia aiutata una volta non significa che adesso sopporterò in silenzio tutto quello che fai! - esclamai perdendo il controllo sia sui miei sentimenti che sulle mie parole.
Lennon mi guardò negli occhi e io mi sentii scrutata nel profondo da quell’intenso sguardo color nocciola.
- Non ti ho mai chiesto di farlo. -
Quella frase calmò la mia veemenza; non riuscendo più a reggere lo sguardo del ragazzo abbassai gli occhi e osservai Frency mentre annusava la gamba di Lennon e lo implorava di coccolarlo un po’. All’inizio il ragazzo guardò il cucciolo abbastanza freddamente, ma in qualche minuto sospirò e si chinò sul bobtail, che da parte sua ci mise persino meno tempo a sdraiarsi a pancia in su.
Mentre li guardavo, sentii il bisogno di dire qualcosa, per non restarmene lì impalata come una stupida.
- Come va il gruppo?- dissi la prima cosa che mi era venuta in mente, ma dopo poco me ne pentii.
Lennon spostò lo sguardo su di me:- Bene, anche se non abbiamo trovato un batterista stabile. - 
Perfetto: e ora come facevo a trovare qualcosa da replicare?!
Dopo una breve, disperata ricerca, parlai di nuovo: - Non conosco nessuno che abbia una batteria, ma se dovessi sentire qualcosa, ti farò sapere. -
Stavo facendo la figura dell’idiota.
Lennon, tuttavia, accennò ad un sorriso, poi spostò la sua attenzione di nuovo su Frency.
Avrebbe almeno potuto degnarsi di ringraziare…
Quando glielo feci notare senza nascondere un certo disappunto, il ragazzo rimase a lungo a fissarmi negli occhi.
- Grazie, Anna. - disse, serio.
Era la prima volta che mi chiamava per nome e mi fece correre dei brividi lungo la colonna vertebrale.
Di nuovo fra noi calò il silenzio.
- Paul mi ha detto che state provando una canzone di Little Richard. - mi curai di distogliere l’attenzione di entrambi (ma in particolar modo la mia) dall’ultimo scambio di battute.
Mi sedetti sull’erba e accarezzai la testa di Frency, che ora era l’unica “barriera” che divideva me e Lennon.
- E’ così, infatti. - rispose Lennon. - Slippin' and Slidin'.-
Sorrisi perché sapevo che avremmo passato la mattinata a parlare di musica.
E infatti la mia previsione si rivelò esatta: passammo delle ore intere a discutere di rock 'n' roll.
Ad un certo punto, Lennon tirò fuori un pacchetto di sigarette e se ne accese una. Tirò un paio di boccate, poi si ricordò delle regole della buona educazione e mi porse il pacchetto aperto.
-No, grazie. - dissi - Non fumo. -
- Oh, avanti! Sei l’unica ragazza di tutta Liverpool che ancora non fuma. - osservò lui. - Guarda che non ti uccide.-
Quella frase non avrebbe fatto in nascere in me una particolare reazione se non fosse stata detta con un tono che la faceva assomigliare in modo impressionante a una sfida, che il mio stramaledetto orgoglio non mi fece rifiutare.
Presi una sigaretta e la accostai alle labbra mentre Lennon si avvicinava per accenderla, poi il ragazzo tornò a fumare semi-sdraiato sull’erba.
Feci un primo, timoroso tiro, ma quando il fumo invase la mia bocca mi sentii quasi soffocare.
Mi imposi di non tossire e impiegai tutta la mia forza per perseguire quell’obiettivo, ma mi ritrovai con le lacrime agli occhi.
Buttai fuori il fumo fingendo nonchalance, tuttavia aspettai qualche minuti prima di fare il secondo tiro.
- Non è poi tanto male. - dissi accorgendomi che Lennon si aspettava che facessi un commento.
Lui sorrise, poi prese da una tasca della giacca un’armonica a bocca.
Mi chiesi quante cose ci stessero in quelle tasche, ma poi il ragazzo cominciò a suonare un motivo che non riconobbi.
Lo ascoltai in silenzio, accarezzando distrattamente Frency, fino al momento in cui, come un fulmine a ciel sereno, mi ricordai per quale motivo ero lì a fumare invece che a scuola.
Scattai in piedi di colpo:- Scusa, devo proprio andare. -
Salutai velocemente il ragazzo e mi allontanai ancor più rapidamente, sebbene Frency si lamentasse dell’andatura troppo sostenuta cui lo spingevo; non ero nella condizione adatta per stare a curarmi della pigrizia intrinseca nel carattere del mio cane.
Se soltanto quella mattina qualcuno fosse venuto a dirmi che dopo tanto tempo avrei fatto pace con Lennon, gli avrei riso in faccia ma ancora una volta il ragazzo aveva trovato il modo di ribaltare le mie aspettative.

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Finalmente, dopo aver dovuto fare numerosi riti voodoo per far funzionare il computer che aveva deciso di andare in vacanza, sono riuscita ad aggiornare.
Che dire di questo capitolo? Avevo bisogno di cambiamenti (era da un po’ che veramente ci pensavo) ma prima di iniziare una nuova fase della storia ho sentito la necessità di chiudere alcune cose rimaste in sospeso.
Forse la riappacificazione di Anna e Lennon è stata troppo improvvisa e affrettata, ma non ne potevo più di averli in contrasto. Magari è stato un azzardo, ma devo dire che ne sono molto soddisfatta.


Weasleywalrus93 : non ti preoccupare, anzi, ti ringrazio per aver trovato il tempo di recensire lo scorso!  In effetti, quando ho cominciato a scrivere Getting Better non avevo programmato l’ultimo dialogo fra Paul e Anna: è comparso da solo e non so nemmeno bene come.
Però mi sento in dovere di confessare che mi sto divertendo tantissimo a gettare confusione sui sentimenti di Anna * risata diabolica
Chissà come si evolverà la cosa? ( In verità non ne sono sicura nemmeno io, e la cosa mi preoccupa non poco!!!!)

 
Peace n Love.

 

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Capitolo 20
*** 19. - Help! ***


Help!
 



Sistemai alcuni boccali appena lavati e asciugati sul bancone; era già da un paio di settimane che lavoravo allo Ye Cracke come cameriera e pian piano stavo imparando ad abituarmi al fumo delle sigarette e alla presenza di tutta quella gente nella stessa stanza, e la musica che usciva quasi senza mai fermarsi dal juke-box mi aiutava molto a mantenere la calma necessaria per svolgere le mie mansioni.
Se poi mi sentivo male, potevo sparire per qualche minuto sul retro, aprire una delle piccole finestre e respirare un po' d'aria pulita.
I turni non erano molto pesanti e in genere i clienti erano gentili e beneducati, quindi quell'impiego non mi dispiaceva affatto e, come aveva detto James, "mi aiutava a migliorare la mia capacità di rapportarmi con le persone".
E in effetti mio padre non aveva tutti i torti, dal momento che ero riuscita in poco tempo a instaurare una relazione quasi amichevole con i miei due colleghi.
Quando ero tornata a casa dopo quell'assurda mattinata trascorsa insieme a Lennon, avevo scoperto che non solo James era tornato dal lavoro, ma anche che era già andato a scuola a parlare con i miei, ormai ex, professori.
L'avevo trovato seduto in salotto che discuteva ad alta voce con Elisabeth rigirandosi la pipa d'osso tra le mani.
Nonostante le mie insistenti domande non  mi aveva voluto dare spiegazioni riguardo al suo colloquio a scuola e alla fine avevo desistito dal proposito di sapere i particolari: quello che mi importava era che avevo ricevuto il permesso di smettere di studiare.
Avevo quindi assicurato ai miei che non sarei rimasta a casa a far niente e già quel pomeriggio avevo fatto il giro di tutti i negozi di Liverpool alla ricerca di un posto di lavoro, che il proprietario dello Ye Cracke mi aveva offerto quasi subito.
Servii un boccale di birra ad un cliente, poi andai nel retro per sbrigare alcune faccende che avevo lasciato in sospeso. Sentii vagamente che la porta del locale si apriva, ma non me ne preoccupai perché ero sicura che i colleghi fossero più in grado di occuparsi dei nuovi clienti.
Tuttavia, quando il juke-box cominciò a suonare una canzone di Elvis, istintivamente immaginai che Lennon fosse entrato, magari insieme a Stu.
I miei sospetti furono confermati quando sentii la voce di Cyn cinguettare un'ordinazione.
Mi recai di nuovo nel locale principale e preparai alla mia amica il tè che aveva chiesto, poi salutai lei e Stuart con un bacio sulla guancia e Lennon con un cenno del capo.                                                       Ancora non ero sicura di quanto in là potessi spingermi con il ragazzo.
- Voi volete qualcosa?- chiesi a John e Stu, ma tutti e due declinarono l'offerta.
- Fa ancora impressione vederti dall'altra parte del bancone di un locale come questo, considerando che la prima volta che ci sei entrata hai rischiato il collasso. - osservò Stuart sorridendo.
- Dimmi un posto in cui non lo abbia fatto. - replicò Lennon con il suo solito tono sarcastico ma privo della tagliente cattiveria con la quale di solito si rivolgeva a me.
Per questo motivo, mi ritrovai a ridacchiare alla sua battuta:- In realtà ho scoperto che non è poi così male. -
- E poi il fumo non dovrebbe più darti fastidio, no?- continuò il ragazzo.
- Be', vedi, qualcuno mi ha fatto notare che tutti gli esemplari di essere umano che possono dirsi  purosangue liverpooliani debbono per forza fumare un minimo di un pacchetto di sigarette al giorno, quindi mi sono adeguata allo standard. - replicai sulla stessa falsariga.
Mentre servivo il tè a Cyn, la quale stava ridendo come una matta, incontrai lo sguardo interdetto di Stuart, che evidentemente non riusciva a capacitarsi dello strano scambio di battute fra me e il suo migliore amico.
- Stu, tutto bene?- lo chiamai sfiorandogli la spalla per risvegliarlo da quello stato di stupore.
- Sì. - mi rispose lui sorridendo. - Solo che quando Cyn mi ha detto che tu e John avevate fatto pace non sono riuscito a crederci. -
- Più che aver fatto pace, abbiamo firmato un trattato di non belligeranza. - commentai, ma poi dovetti andare a servire un altro cliente e mi allontanai dal gruppetto dei miei amici.
Con la coda dell'occhio vidi che Cynthia e John andavano a sedersi ad un tavolo abbastanza appartato, mentre Stu rimaneva appoggiato al bancone e appena ebbi svolto il mio lavoro mi riaccostai a lui.
- Non vai a sederti insieme agli altri?- gli chiesi.
- Non tengo molto a fare il terzo incomodo per tutto il pomeriggio. - rispose scrollando le spalle. - E poi John mi ha chiesto di invitarti alla sua festa di compleanno di questo sabato. -
Aggrottai le sopracciglia:- Perché non è venuto a chiedermelo di persona?-
- Non lo so, dovresti chiederlo a lui. -
- Ricordami di farlo, la prossima volta che ci vediamo, allora. -
- Vuol dire che verrai?- domandò il ragazzo guardandomi negli occhi con una delle sue espressioni indecifrabili che mi mettevano tanto a disagio.
- Non lo so...- risposi arrossendo violentemente, nonostante non ce ne fosse motivo. - Non è tanto tempo che io e Lennon siamo... in rapporti amichevoli. Non vorrei finire per tornare indietro. -
- Non credo che tu corra questo rischio. Penso che anche John, in fondo, fosse stufo della situazione. -
Quel commento non produsse alcun effetto su di me, che continuai ad esitare riguardo all'idea di andare al compleanno di Lennon.
Non era esattamente la cosa più prudente da fare.
- Avanti, - insistette Stuart - ci saremo tutti: io, Cyn, tutti i Quarrymen, McCartney... Mancheresti davvero soltanto tu. -

Com'è ovvio, alla fine cedetti agli sforzi combinati di Cynthia, Stuart e Paul e mi lasciai convincere ad andare alla festa.
Come al solito, non impiegai ore e ore per prepararmi, limitandomi semplicemente ad indossare l'abito verde che avevo indossato la prima e l'ultima volta che ero andata al Cavern (1) , ma questa volta decisi di lasciare i capelli sciolti, invece che legarli come facevo quando uscivo di casa.
Mentre aspettavo che Paul passasse a prendermi, per poi andare insieme a casa della mamma di Lennon, mi sedetti sul divano.
Frency ci mise pochissimo tempo per captare la mia presenza e a saltellare allegramente fino alla sala. In un primo momento fui tentata dal cercare di allontanarlo per salvare la gonna del vestito, ma poi, vedendo gli occhioni del cucciolo, ci rinunciai e lo lasciai salire sulle mie ginocchia.
- Tesoro, puoi venire un secondo? - mi chiamò Elisabeth poco dopo.
La raggiunsi in cucina.
- Sì?- le chiesi. Mi squadrò per qualche secondo.
- Sei bellissima. - disse, ma capii subito che quello non era ciò di cui mi voleva parlare. Infatti, mi si avvicinò e mi prese una mano.
- Anna - mormorò a bassa voce. - L'ultima volta che ti ho lasciata uscire da quella porta per andare a una festa mi sono ritrovata in ospedale in piena notte senza sapere se la mia bambina si sarebbe salvata o no... -
Mi abbracciò, forse per non farmi vedere che stava ricacciando indietro le lacrime.
- Questa volta ritorna a casa, per favore. -
Il suono del campanello mi fece quasi sussultare e sciolsi di colpo l'abbraccio; sorrisi ad Elisabeth.
- Ci vediamo presto, ok?- le dissi stringendole la mano.
Le baciai la guancia, poi mi decisi ad andare ad aprire a Paul, che nel frattempo mi stava aspettando fuori.
- Finalmente, stavo cominciando a darti per dispersa!- esclamò il ragazzo appena aprii la porta, ma io ero ancora emotivamente provata dallo sprazzo di conversazione appena avuto con mia madre per ridere della sua battuta.
Dallo sguardo che mi rivolse, Paul capì il mio stato d'animo, ma non mi fece domande e cercò di risollevare il mio morale prendendomi per mano e facendomi fare una piroetta.
- Ti sei messa in tiro questa sera!- esclamò mentre mi fermavo, poi si chinò, come al suo solito, per baciarmi la mano. - Non avrei potuto desiderare accompagnatrice più bella. -
Appena lasciò la mia mano gli tirai una gomitata: - Smettila di fare il cretino. -
L'allegra risata del mio amico mi rassicurò sul fatto che fosse stato tutto uno scherzo.
Mi prese sottobraccio e insieme ci dirigemmo verso la festa di John, la quale era, come c'era d'aspettarsi, molto... rock 'n' roll.
Quando arrivammo a casa Dickins la festa doveva essere già iniziata da un po', perché le stanze erano già affollate all'inverosimile e, se si escludevano i pochi amici che avevo, erano ben pochi i volti a me noti.
Si sarebbe prospettata una lunga serata, ma almeno ero sicura che la musica sarebbe stata ottima.
- Vieni, cerchiamo gli altri. - mi disse Paul e mi prese per mano, per poi buttarsi in mezzo alla folla. Mi aggrappai alla sua mano con tutte le mie forze, come se fosse l'unica cosa che evitasse di farmi trascinare via dal mare di gente.
Per fortuna non fu difficile trovare John, Cyn e Stu, che stavano chiacchierando fra loro accanto al giradischi.
Feci gli auguri a John, poi lui, Paul e Pete Shotton, che nel frattempo si era unito a noi, cominciarono a discutere qualcosa riguardante il gruppo.
- Allora, che ne pensi della festa?- mi chiese Cynthia avvicinandosi per farsi sentire sopra la musica senza dover urlare.
- Direi che è molto affollata. - risposi guardandomi intorno e cercando di individuare eventuali porte che dessero sull'esterno.
- Credi di poter sopravvivere fino alla fine?- domandò Lennon con tono di sfida, distogliendo l'attenzione dalla sua conversazione.
Alzai il mento e ricambiai il suo sguardo con un'espressione orgogliosa:- Senza alcun dubbio. - 
Il giradischi cominciò a suonare Maybellene  di Chuck Berry.
Lennon distolse lo sguardo, prese Cyn per mano e si spostò in mezzo alla stanza per ballare, mentre Paul riprendeva a parlare con Shotton.
Stu, invece, si avvicinò, mi sorrise e si chinò appena.
- Balli?- mi chiese sottovoce all'orecchio, come se quella domanda fosse un segreto che solo io e lui avremmo mai dovuto conoscere.
Era così vicino che sentivo suo respiro sulla pelle del collo.
 Sentii il volto avvampare e annuii appena.
Mi prese delicatamente la mano e mi portò vicino a dove c'erano anche Lennon e Cyn.
Trascorsi gran parte della serata a ballare sia con Stu che con Paul, ma ogni volta che ero con quest'ultimo e alzavo gli occhi da lui incontravo lo sguardo di Stuart, che mi faceva arrossire e accelerava il mio battito cardiaco.
Nonostante questa sensazione di disagio, dovetti riconoscere che fu una delle serate più divertenti della mia vita, e ogni volta che si affacciava il problema della claustrofobia c'era sempre qualcuno pronto a farmene dimenticare.
Dopo parecchie canzoni ci ritrovammo di nuovo tutti e cinque insieme in un angolo un po' più appartato, vicino ad un tavolo su cui svettavano parecchie bottiglie di birra, alcune piene, altre vuote per metà o completamente svuotate.
John, Stu e Paul si gettarono su di esse come se stessero per morire di disidratazione e anche la mia migliore amica prese una bottiglia.
Dopo aver stappato la propria, Lennon si accorse che io non accennavo ad allungare il braccio verso il tavolo, così fu lui a pormene una.
- No, grazie. - cercai di rifiutare, ma il ragazzo non mi diede retta.
- Dopo avermela fatta fumare, adesso vuoi anche che beva! - esclamò Cyn ridendo. - Stai cercando di traviare la mia migliore amica, per caso?-
Ancora una volta mi lasciai convincere dalle insistenze dei miei amici e afferrai la bottiglia di birra.
Bevvi a piccoli sorsi, ma trovai subito molto gradevole il gusto amaro della bevanda.
Lennon sorrise soddisfatto e svuotò la bottiglia, poi lui e Paul si allontanarono di nuovo.
Io, Stu e Cyn rientrammo nei ritmi frenetici della festa e ben presto cominciai a non capire più niente.
Non sapevo esattamente quanta birra avessi bevuto, ma forse bastò solo quella prima bottiglia per farmi girare la testa.
Mi sentivo risucchiata da un vortice, ma all'improvviso mi ritrovai da sola in mezzo alla marea di sconosciuti.
Andai nel panico.
Chiamai più e più volte Paul e Stu e Cyn, ma nessuno mi rispondeva.
Arrancai fino ai lati della stanza e mi appoggiai al muro per percorrere il breve tratto che mi separava dalla porta esterna.
Uscii in cortile e mi sedetti in mezzo al prato; fu un sollievo respirare l'aria pungente della notte, che da sola riuscì a calmare parecchio il capogiro.
- Tu sei Anna Mitchell, vero?- chiese una voce femminile alle mie spalle.
- Sì. - risposi mentre mi alzavo di scatto e mi giravo.
Davanti a me c'era la mamma di Lennon, che il ragazzo mi aveva presentata durante la festa, uscita per fumare la sigaretta che si stava accendendo in quel momento.
- Ho sentito di tua madre. Mi dispiace per quello che le è successo. - continuò la donna.
Strinsi i pugni e respirai profondamente per placare la reazione che quelle parole avevano scatenato.
- Non vorrei offenderla, signora - sibilai - ma stento a crederlo. -
Julia sembrò mortificata:- Sono io quella che non avrebbe voluto offendere, ma credo che la tua reazione sia più che comprensibile. -
Le sue scuse mi permisero di allentare un po' la tensione, ma rimasi comunque sul chi vive.
- Ho conosciuto tua mamma. - spiegò la donna. - Tanto tempo fa, prima che tu nascessi; eravamo molto legate. -
Sgranai gli occhi, letteralmente sconvolta da quelle parole.
Per lungo tempo avevo sopportato il disprezzo della gente che le era più vicina e ora scoprivo che una perfetta sconosciuta era una sua amica.
Potevo davvero credere a una cosa del genere?
Qualcosa dentro di me mi faceva continuare a dire di no.
Julia si sedette sul bordo del patio e fece un profondo tiro.
- Lo sai, mentre era incinta continuava a ripetermi che saresti stata il dono più grande della sua vita, nonostante la sua famiglia credesse che il tuo concepimento fosse stato... un errore. - disse la donna - E giurava in continuazione che sarebbe stata disposta a scendere a piedi nudi nell'Inferno... -
-... pur di trascinarmici fuori .- conclusi io al posto suo.
Chiusi gli occhi cercando disperatamente la forza per rimanere impassibile.
Julia si alzò di nuovo.
- Io torno dentro. - mi informò , ma io la sentii a malapena.
Strinsi le braccia sul ventre, mentre sentivo la nausea aumentare.
Sarei mai stata capace di voltare pagina e andare avanti? Superare quello che era successo?
Sì, certo, superare quello che era successo... Ma se non avevo nemmeno il coraggio di chiamarlo con il suo nome!
Qualcuno uscì dalla casa.
- Anna, dov'eri finita? e' da un po' che ti stiamo cercando. - disse Stuart.
Non mossi un muscolo.
Stu si avvicinò e disse qualcosa che non udii. Sentii però che mi abbracciava e mi stringeva al suo petto.
- Stai bene?- chiese con un tono quasi tremolante.
Mi voltai verso di lui e nascosi il viso tra le mani, ma poi mi resi conto di quanto fosse ingiusto ed egoista comportarmi in quel modo durante una serata che avrebbe dovuto essere divertente per tutti.
- Sì. - risposi scostandomi il minimo indispensabile per cercare di sistemarmi.
Sperai solo che gli occhi non fossero troppo gonfi.
Stu, però, mi prese entrambe le mani e mi fece avvicinare di nuovo.
- Senti, Anna...- incominciò; sembrava timido, quasi impacciato, ed era una cosa cui non ero abituata e che contribuì a farmi battere il cuore alla velocità della luce.
- E' da un po' che ci penso, che vorrei parlarti... - continuò, ma fu subito interrotto da Cyn che chiamava gridando il mio nome.
E poiché nell'ultimo periodo la mia politica era stata quella di evitare ogni situazione che creasse qualche emozione strana, colsi la palla al balzo per rientrare in casa.
Appena al di là dell'uscio trovai la mia amica ad aspettarmi.
- Anna, stai bene?- mi chiese Cyn immediatamente.
Nella lista delle cose che le persone mi dicevano più spesso, quelle due o tre parole troneggiavano al primo posto, ma oramai ci stavo facendo l'abitudine e la cosa non mi seccava nemmeno più di tanto.
- Non molto, in effetti.- risposi.
Vedendo lo sguardo preoccupato della ragazza mi ero resa conto che sarebbe stato inutile mentirle, perché avrebbe comunque capito la verità.
La breve conversazione con la madre di Lennon mi aveva distrutta emotivamente, e dopo ch'ero entrata in casa la testa aveva ripreso a girare.
Era la prima volta che bevevo e non sapevo dire se fossi ubriaca, tuttavia ero cosciente del fatto che avevo bevuto un po' troppo.
- Adesso cerchiamo un posto tranquillo, okay?- disse la mia amica prendendomi per mano e accompagnandomi su e giù per le stanze, faticando ad aprirci la strada fra i ragazzi.
Cynthia mi condusse verso la porta di un piccolo salotto lontano dal rumore della festa.
Mi fece accomodare sul divano e io appoggiai la testa sul bracciolo.
- Torno subito, Anna, tu non ti muovere.- mi ordinò, poi uscì e richiuse la porta.
Mi accoccolai sul divano meglio che potevo, mentre le palpebre si chiudevano da sole e scivolavo nel sonno.                                                                     

Mi trovavo in una stanza senza finestre. Le pareti erano spoglie e l'intonaco scrostato.
L'ambiente era pieno di scatole di cartone e oggetti inutili.
Una luce tremolante illuminava appena il centro della stanza, ma non era abbastanza forte per raggiungere l'angolo in cui ero sdraiata.
Avevo paura e sentivo che stavo sanguinando. Decine di piccoli tagli mi coprivano la pelle.
Il silenzio che regnava nella stanza era surreale.
Strinsi le gambe al petto, mentre i capelli biondi coprivano in parte il mio corpo nudo e seviziato.
Da quanto tempo mi trovavo lì sotto?
Avevo freddo.
Provai a strisciare fino a sotto la luce, ma appena mossi un muscolo, tutto il mio corpo cominciò a contorcersi in preda ad un dolore atroce.
Gridai.
-Cattiva.- disse la Voce.
Una porta si aprì dalla parete in fondo alla stanza.
Alzai lo sguardo, ma non vidi alcuna figura comparire dalla porta.
-Non avresti dovuto provare a scappare.- continuò la Voce.
Dopo qualche attimo di agonia, la luce si spense definitivamente e la stanza piombò nell'oscurità.
Davanti a me comparvero due occhi del colore del ghiaccio, freddi, maligni, spietati.
- Ti avevo detto quello che sarebbe successo se avessi provato a fuggire.- continuò la voce.
Il dolore si fece più acuto, al di là di ogni capacità di sopportazione.
Guardai le mie braccia e mi accorsi che stavano comparendo nuovi tagli, più profondi di quelli precedenti e così in tutto il mio corpo: sulle gambe, sulle cosce, sul ventre, sui seni, sulla schiena, sul collo, sul viso...
Il sangue colava sul pavimento e si mescolava in parte alle mie lacrime.
- Basta! Non farmi del male, ti prego!- urlai disperata, ma la voce rise.
Il dolore aumentò ancora.

- Basta! Fermati! - gridai con tutto il fiato che avevo nei polmoni.
Il mio corpo era sconvolto da tremiti, mentre lacrime di terrore scivolavano sulle guancie.
Mi accorsi che delle braccia mi cingevano e mi tenevano intrappolata.
Cercai di liberarmi, terrorizzata.
-Ti prego, non  farmi del male!- implorai.
Quel qualcuno che mi teneva premuta contro il suo petto mi prese il volto fra le mani, costringendomi a guardarlo negli occhi.
Ma invece di un paio di occhi color del ghiaccio, ve ne trovai uno nocciola, sconvolto dalla mia crisi.
- Anna, guardami!- gridò - Sono io, John! Non ti voglio fare del male! Sei al sicuro qui.-
Gemetti, guardando gli occhi di Lennon, senza riuscire a vederlo veramente.
Riuscivo ancora a percepire il dolore dilaniarmi il corpo.
Posai la mia mano tremolante sulla sua guancia, per accertarmi che fosse reale e non un'altra tortura che l'uomo dagli occhi di ghiaccio voleva infliggermi.
- John...- ripetei il suo nome con la voce tremante.
Il mio sguardo cadde sulle braccia: non c'era nessun piccolo ma profondo taglio su di esse.
Mi passai una mano tra i capelli sudati e respirai a fondo.
- Stai bene?- chiese John.
Ingoiai le mie lacrime e cercai di impormi di non mostrarmi a Lennon in quello stato.
Nonostante i tremiti che mi sconvolgevano e il terrore che si leggeva chiaramente nei miei occhi, mi sforzai di rivolgergli un debole sorriso :- Sì, non ti preoccupare. Era soltanto un brutto sogno. Adesso mi passa. -
Lui sembrò poco convinto.
-Ne sei sicura?-
-Sì, mi dispiace averti spaventato. Mi capita sempre e ormai io ci sono abituata. -
- Non fa niente. Vuoi qualcosa da bere?- mi chiese.
Io annuii in silenzio, temendo che se avessi aperto ancora le labbra sarei scoppiata piangere.
John mi aiutò ad alzarmi perché tremavo ancora e mi girava la testa.
Forse l'effetto dell'alcol non era ancora svanito.
Il ragazzo mi accompagnò in cucina e mi passò un bicchiere d'acqua, ma io gli rivolsi uno sguardo che non ebbe difficoltà a decifrare.
Sorrise e tirò fuori dal frigo due birre.
Mi sedetti sul tavolo e cominciai a bere a piccoli sorsi.
- Non pensavo che avresti davvero cominciato a bere birra.- osservò John, poi ammutolì di nuovo.
Improvvisamente realizzai il fatto che mi trovavo in piena notte con accanto John Lennon.
- Ma che ore sono? E che cosa ci faccio io con te?- domandai scattando in piedi.
-Sono le quattro del mattino. -rispose John - Ieri ti sei ubriacata e ti sei sentita male, così Cyn ti ha portata qui. Poi ti sei addormentata e Cyn mi ha chiesto di lasciarti dormire, dal momento che le sembrava che stessi dormendo tranquillamente. Ma si sbagliava, evidentemente.-
Io annuii :- Ti ringrazio. E scusa se ti ho svegliato. -
Dopo che ebbi pronunciato quella frase mi risedetti sul tavolo, poi entrambi sprofondammo di nuovo nel silenzio.
Nessuno dei due parlava e la cosa si stava facendo imbarazzante e cominciavo a sentirmi oppressa.
Ero ancora sconvolta e la mia tensione era palpabile nell'aria, insieme alle domande che John non aveva il coraggio di pormi.
Mi alzai e appoggiai al bottiglia ormai quasi vuota sul tavolo; non riuscivo a convincere i miei muscoli a stare fermi.
- Sono ricordi.- affermai ad un tratto. John mi guardò sorpreso. - I miei incubi sono ricordi, più o meno.-
-Non sei costretta a parlarne se non vuoi.- disse lui.
- No, non ce la faccio più. - risposi - Deve saperlo anche qualcun'altro, oltre a me. -
Diedi le spalle a Lennon; non ce l'avrei fatta a raccontargli quelle cose guardandolo negli occhi.
- Ti sei mai chiesto perché mia madre ha ucciso mio padre?- dissi infine.
Non aspettai che parlasse, perché sapevo già la risposta.
- Lui... - esitai.
Non potevo parlargliene, non potevo davvero dirlo ad alta voce …
Dopo aver pronunciato quelle parole ad alta voce non avrei più potuto far finta che non fosse mai successo a me.
Sapevo che dovevo farlo, ma faceva maledettamente male.
- Lui … mi violentava.- strinsi una mano nei capelli, cercando di rimanere calma.
Era più difficile di quanto avessi mai osato immaginare, ma ne sentivo l'impellente bisogno: non potevo più andare avanti così.
-Ti violentava...- ripeté John, sconvolto - In... in che senso?-
Mi voltai e lo fulminai con lo sguardo.
- Nell'unico senso che c'è, cazzo!- esclamai in un momento di isteria, tirando un pugno al tavolo, ma immediatamente riuscii a riprendere il controllo sul mio tono di voce.
Mi tremavano le labbra.
- Mi stuprava.-
Mi interruppi per cercare di reprimere le lacrime.
- Quando mamma andava a lavorare, lui mi chiudeva in cantina e mi lasciava lì delle ore, al buio e al freddo, prima di scendere e - cominciai a piangere - dedicarmi la sua attenzione. -
Strinsi i pugni finché sentii male alle dita.
- Non si curava nemmeno di nascondere i lividi che mi lasciava … -
Lennon rimaneva in silenzio, sconvolto quasi quanto me.
- Mamma aveva cominciato a insospettirsi per quel motivo. Poi, il giorno del mio compleanno, per farmi sorpresa era uscita dal lavoro prima ed era andata a comprarmi una torta. Quando era tornata a casa... lo aveva colto mentre mi... - non riuscii a pronunciare quella parola una seconda volta - Così prese la prima cosa che aveva trovato sottomano e lo colpì. Non mi ricordo cosa fosse, ma non ha molta importanza, no? L’ha fatto per proteggermi e le sono sempre stata grata per aver fatto fuori quel bastardo.-
Mi appoggiai al bordo del tavolo, incapace di sostenere ancora il mio peso.
Pronunciare quelle parole mi aveva privata di ogni energia e se prima ero riuscita a mantenere quel minimo di calma necessaria per parlare e contemporaneamente rimanere in piedi , in quel momento ricominciai a piangere, mentre sentivo che le gambe mi tremavano.
John si avvicinò e mi sostenne quando le mie ginocchia cedettero.
Mi aggrappai alle sue spalle per cercare di non rovinare a terra.
Lui si chinò su di me e mi abbracciò, accarezzandomi i capelli.
Nascosi il viso contro il suo petto e scoppiai in singhiozzi.
Era mio padre l'uomo dagli occhi color del ghiaccio che mi tormentava di notte.
Era lui quello che avrebbe dovuto amarmi e proteggermi e che era diventato il mio peggiore incubo.
-Ti prego, John, aiutami... Non ce la faccio più. Lui sta tornando. Sta tornando per vendicarsi. -
-No, Anna. Lui non tornerà più e non ti farà più del male. Andrà tutto bene, vedrai. Ci sono io qui.-
Lasciò che mi sfogassi, poi mi sollevò il volto e mi asciugò le lacrime con la punta delle dita.
Chiusi la mano posata sul suo petto, stringendo la maglietta di lui, e mi protesi fino a sfiorare la sua bocca con le mie labbra.
Lui si scostò.
- Anna, sei sconvolta.- sussurrò, a mo'  di spiegazione - E sei pure un po' brilla. Non proveresti mai a baciarmi con la mente lucida, lo sai benissimo anche tu. -
Mi guardò per un secondo, attendendo una reazione da parte mia, che però non giunse.
Aveva ragione lui: quella sera non ero capace di intendere né di volere.
- Torna a dormire, Mitchell - mormorò dolcemente - Domani spiegheremo la situazione ai tuoi genitori adottivi, va bene?-
Mi prese per mano e mi riaccompagnò sul divano sul quale mi ero addormentata quella sera.
Attese che mi fossi sdraiata, poi mi coprì.
- John. - lo fermai prendendogli il polso prima che si allontanasse - Perché mi hai respinta prima?-
Nello stato confusionale in cui ero, non ero neanche più capace di capire quali fossero davvero le cose importanti, e una cosa stupida come quella era il mio pensiero principale.
John si sedette al mio fianco, accarezzandomi i capelli, poi si chinò appena.
- Tu mi piaci, Anna. Ti desidero più di qualsiasi altra cosa, ma voglio che anche tu desideri me e sono disposto ad aspettarti.-
Mi baciò la fronte, poi si alzò.
- Buonanotte, Mitchell.-
- Buonanotte, Lennon.-
Alzai la coperta sino al viso, come se potesse fare da scudo contro il male che mi assaliva ogni notte.
Mi addormentai subito, spossata dall'incubo e dalla conversazione che avevo sostenuto con John, e riuscii a dormire tranquillamente, almeno per ciò che restava della notte.

Mi svegliai quando il sole cominciò a filtrare dalle persiane e mi alzai massaggiandomi il collo dolorante a causa della scomoda posizione che avevo assunto per dormire.
Piegai accuratamente la coperta e risistemai i cuscini del divano.
Non volevo essere un ulteriore peso per Julia e la sua famiglia, che avevano avuto la gentilezza di lasciarmi dormire lì.
Qualcuno bussò alla porta. Julia aprì lentamente la porta, sorridendo quando mi vide sveglia.
- Buongiorno, cara!- mi salutò.
- Salve, signora Dykins. - dissi cercando di condividere un po' del suo entusiasmo.
- Oh, ti prego, chiamami Julia!- cinguettò lei.
Io sorrisi, ma abbassai lo sguardo.
Mi sentivo terribilmente di peso e mi sentivo un mostro al pensiero di come avevo trattato la donna la sera prima, ma quando cercai di porle le mie scuse, lei mi disse di lasciar perdere.
- Vieni, è pronta la colazione!- mi invitò invece.
Istintivamente mi chiesi come faceva ad essere così allegra ed energica di mattina presto.
- Julia, l'ho già disturbata a sufficienza. Io...-
-Non ci provare! - esclamò lei sorridendo - Non ho intenzione di accettare un no come risposta. Sei nostra ospite, no?-
Scrollai le spalle e le sorrisi, poi la seguii sino in sala da pranzo, dove la tavola era apparecchiata e le due figlie di Julia avevano già iniziato a mangiare.
Accanto a Jacqueline c'era un posto vuoto. Julia me lo indicò facendo cenno di sedermi, poi andò verso la cucina. Mi morsi il labbro inferiore, esitando.
- Io la ringrazio, Julia, ma non vorrei disturbavi ancora...- mormorai.
- Non ti preoccupare, cara! - cinguettò la madre di John tornando con un vassoio di biscotti.
- Io e le bambine siamo molto contente di avere un po' di compagnia femminile, finalmente! Non è vero, ragazze?-
Le due bambine annuirono e incoraggiata dalle parole gentili di Julia mi sedetti, mentre la donna si accomodò al mio fianco.
- Però mi deve promettere che mi lascerà lavare i piatti. - dissi cominciando a consumare la colazione.
Julia, pur continuando a sorridere, mi guardò di sottecchi:- Non farai tardi a scuola?-
Sostenni senza difficoltà il suo sguardo:- Non vado più a scuola, lavoro allo Ye Cracke. Oggi è il mio giorno libero.-
Julia rise:- Allora non potrei mai permettere che sprechi il tuo tempo a lavare i miei piatti.-
- Non è un problema per me - replicai - E devo in qualche modo ripagare la vostra gentilezza.-
La donna sbuffò.
- Certo che non ti dai mai per vinta! Non come John, che si lascia persuadere così facilmente! E va bene, cara: mi arrendo!-
Mentre ridevamo il mio sguardo si posò sull'orologio: erano già le sette e mezza.
- John non viene a fare colazione?- chiesi, anche se non riuscii a capire il motivo per cui posi quella domanda.
- No, John ci mette troppo tempo a prepararsi.- rispose Jacqueline.
Julia mi rivolse uno sguardo eloquente che interpretai con: si sta riprendendo dal dopo-sbronza.
Ridacchiai e presi un biscotto dal vassoio.
Passai il resto della colazione chiacchierando e ridendo con Julia e le sue figlie.
C'era davvero tanta gioia nella mamma di John.
Alle otto passate Julia si alzò da tavola e disse alle bambine di fare altrettanto.
- E' ora di andare a scuola!- disse loro, poi si rivolse a me - Sicura di voler lavare i piatti? Non sentirti obbligata.-
Io annuii, sorridendole:- Sicuro, Julia, non si preoccupi!-
Lei scrollò le spalle:- Ti ringrazio, allora! Forza, bambine, a scuola!-
Attesi che uscissero di casa e salutai con la mano sia Julia che Jacqueline, mentre rivolsi un cenno del capo alla loro mamma.
Raccolsi i piatti e li portai in cucina, dove cominciai a lavarli. Non ci misi molto tempo, poiché le stoviglie non erano molte e poi mi voltai per cercare uno strofinaccio con cui asciugarle.
Mi accorsi che John era appoggiato contro lo stipite della porta e sussultai, poiché non mi aspettavo di vederlo così all'improvviso.
- Ti do una mano. - disse il ragazzo prima che potessi aprire la bocca.
Non sapendo cosa rispondergli, mi limitai ad annuire e afferrai lo strofinaccio appoggiato su uno dei banconi della cucina.
Iniziai ad asciugare i piatti, mentre Lennon li riponeva una volta asciutti.
- Senti, John...- mormorai dopo che anche l'ultimo piatto fu messo al suo posto. Evitai accuratamente di girarmi verso di lui e guardarlo negli occhi. - Le cose che ti ho detto questa mattina, riguardo a mio padre... non le sanno nemmeno i miei genitori adottivi, quindi ti sarei grata se non ne parlassi con nessuno.-
Il ragazzo mi guardò, stupito, quindi fece cenno di sì con la testa.
-Cosa ti ricordi della nostra conversazione?- mi chiese, anche se quella domanda mi sembrò in un primo momento priva di senso. Poi compresi ciò cui si riferiva.
-Tutto. Avevo bevuto, ma non al punto tale di non ricordarmi qualcosa.- risposi - Mi rendo conto che avevi ragione a dire che non ero in me e ti ringrazio per... non aver approfittato della situazione.-
Sentii le dita di John stringere la mia mano.
Il ragazzo mi fece voltare, così da potermi guardare negli occhi. Il suo volto era a qualche centimetro dal mio, talmente vicino che i nostri nasi arrivavano quasi a sfiorarsi. Il mio cuore cominciò a battere tre,quattro volte più veloce del normale. Che mi stava succedendo? Per quale motivo mi sentivo in quel modo semplicemente guardando gli occhi nocciola di John?
Il ragazzo mi accarezzò la guancia con la punta delle dita, poi mi prese la mano e se la portò alle labbra, senza dire una parola.
Mi baciò la mano, ma le sue labbra indugiarono a lungo sul dorso della mia mano, rendendo quel gesto molto più romantico e dolce rispetto a quello galante che caratterizzava il comportamento di Paul. Abbassai lo sguardo cercando di mascherare l'imbarazzo.
- Devo tornare a casa. - dissi, sfilando la mano da quella di Lennon.
- Ti accompagno. - rispose lui con un tono che non ammetteva repliche.

Camminavamo in silenzio, ma per una volta non percepii il bisogno di spezzarlo.
- Com'è possibile che nemmeno i tuoi genitori adottivi sappiano quello che faceva tuo padre? - chiese John tirando un calcio ad un sassolino.
Mi aspettavo che prima o poi mi avrebbe posto quella domanda e mi ero mentalmente già preparata la risposta.
- Mia mamma non ha mai voluto parlarne con nessuno, nemmeno al processo; non che abbia mentito, ma semplicemente non le hanno posto le domande giuste. Ho sempre fatto in modo di rispettare la sua scelta - mi interruppi per respirare a fondo; quell'argomento era meno spinoso di quello della sera precedente, ma mi faceva comunque male - anche se a volte ho creduto che non ce l'avrei fatta a portare tutto quanto da sola. -
Mi dava una strana sensazione parlare di quelle cose proprio con Lennon, ma ora che avevo iniziato non sarei riuscita a fermarmi, almeno fino a quando non mi fossi riuscita a liberare di tutti quei demoni. - Non credevo fossi così forte. - disse John a bassa voce.
- Non lo sono. - replicai con semplicità. - Faccio finta di esserlo, ma non lo sono. E questo si è visto chiaramente.-
Chinai il capo e lasciai che le ciocche di capelli ricadessero sul viso, come una barriera contro il mondo esterno.
Per dieci anni ero rimasta in silenzio e ora avevo detto tutto nel giro di poche ore. Mi sentivo completamente vuota, e non riuscivo a capire se ciò fosse un bene o meno.
Sentii le dita di John sfiorarmi appena la mano, ma quando cercai quel contatto, esso era già svanito.
John si fermò: non mi occorse guardarmi intorno per capire che eravamo davanti al cancelletto della mia casa.
- John... - iniziai, titubante. - mi dispiace averti detto quelle cose, io... -
- Te ne stai pentendo? - mi interruppe, scrutandomi attentamente.
Riflettei qualche secondo, ma sapevo già come avrei risposto.
- No; l'unica cosa che non vorrei aver fatto è scaricare addosso a te tutta quanta questa merda..-
Probabilmente sarei andata avanti all'infinito a snocciolare scuse se un altro, lieve contatto fra le mie dita e quelle di John non mi avesse fermato.
In quel momento, però, Elisabeth corse fuori di casa, dopo averci probabilmente visti dalla finestra.
- Dove diavolo eri finita, Anna Mitchell? - gridò - Stavamo per chiamare la polizia! Hai idea della paura che ci hai fatto prendere?! -
Feci per aprire la bocca, ma Lennon mi precedette e le raccontò, omettendo come gli avevo chiesto alcuni insignificanti particolari, ciò che era successo.
Elisabeth sembrò molto sorpresa nell'apprendere che avevo messo al corrente un mio quasi coetaneo di alcuni avvenimenti del mio passato, e finse di accettare la spiegazione, ma prima di sparire dietro la porta mi rivolse uno sguardo gelido e un "ti aspetto dentro" che mi fecero capire che questa volta non  mi avrebbe perdonata molto facilmente.
- Allora ci si vede in giro. - mormorai a John - Non appena avrò scontato la punizione. -
Lennon sorrise per un secondo, poi tornò serio e mi guardò negli occhi.
- Dimmi che ci penserai, a quello che ti ho detto. -
Sperai invano che il ragazzo non notasse che il mio viso era diventato più o meno del colore della sua chitarra.
- Te lo prometto. - risposi a bassa voce, quasi bisbigliando.
John mi guardò per un altro istante, sorrise di nuovo e si voltò, mentre io rimanevo ancora per qualche minuto a guardarlo mentre se ne andava.


(1) Vedi capitolo 4. - I don't want to spoil the party.
 
_________________________________

Ciao!!!
Innanzitutto, scusatemi per il ritardo, ma queste due settimane sono state infernali e ho avuto pochissimo tempo per scrivere.
Detto questo (e spero che mi perdonerete) veniamo al capitolo.
Era da molto tempo che non vedevo l'ora di arrivare a questo punto della storia, che costituisce una svolta! Non solo perché finalmente Anna riesce a liberarsi almeno in parte dallecatene che la tenevano legata al suo passato, ma anche perché finalmente sembra (dico sembra perché non si sa mai) prendere una scelta.
La seconda parte è stata la prima che ho terminato, proprio perché era da settimane che mi facevo viaggi mentali al riguardo,mentre completare la prima è stato decisamente più arduo.
Comunque credo che il risultato nel suo complesso sia abbastanza soddisfacente.
    

weasleywalrus93: ah, ah, ah! Ti ringrazio per le tue recensioni, perché riescono a mettermi sempre di buon umore. Comunque, credo di aver preso una decisione riguardo alla vita sentimentale di Anna, perché anche io, effettivamente, la vedo benissimo con John!! Alla prossima, allora!

Peace n love.      
                                        
 

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Capitolo 21
*** 20. - If I Fell. ***


If I Fell.
 




Stesa sul letto nella penombra, guardavo il soffitto con la testa piena di pensieri.
Cominciavo a farmi delle domande su quella folle notte; avevo paura riguardo a ciò che Lennon avrebbe potuto fare di ciò che gli avevo detto.
In realtà, dopo il suo compleanno non ne avevamo più parlato, né di mio padre né... del resto.
Ti desidero più di qualsiasi altra cosa.
Quelle parole continuavano a risuonarmi nella mente e non sapevo come comportarmi nei loro confronti. La cosa giusta da fare sarebbe stata dirlo immediatamente a Cyn, e in un primo momento avevo preso seriamente in considerazione questa idea, ma quando mi ero ritrovata faccia a faccia con la mia amica non ero riuscita a proferire parola.
Ciò era maledettamente inquietante, perché quel gesto di lealtà nei confronti della ragazza era la prima cosa che avrei fatto fino a qualche tempo prima.
Mi stavo accorgendo che stavo cambiando in fretta, e mentre il mio corpo era ancora intrappolato nell'adolescenza, dentro di me stavo diventando adulta prima del tempo.
A questa situazione di confusione totale si aggiungeva il fatto che ero ancora in punizione, e potevo uscire di casa solo per andare al lavoro o per portare Frency a fare delle brevi passeggiate, letteralmente cronometrate da Elisabeth; e la cosa peggiore era proprio che la mia madre adottiva era ancora arrabbiata con me. Le avevo chiesto scura e avevo cercato di spiegarmi solo quando ero entrata in casa dopo aver salutato John, perché sapevo che più avessi insistito più lei si sarebbe indisposta.
Sbuffai: non ne potevo più di quella situazione. Era venuto il momento di prendere l'iniziativa.
Scesi le scale e andai alla ricerca di mia madre, che trovai in salotto che leggeva un libro ascoltando un disco di musica classica in compagnia di James.
Quando mi vide entrare, mio padre si alzò dalla poltrona e mi venne incontro, poi mi strinse una spalla per manifestarmi la sua solidarietà e mi incoraggiò con un sorriso, poi uscì dalla stanza.
Mi aveva già perdonata da un po', mentre sua moglie mi era ancora a dir poco ostile.
- Hai bisogno di qualcosa, Anna?- mi chiese Elisabeth freddamente, senza nemmeno alzare gli occhi dal libro. Mi avvicinai e mi sedetti di fronte a lei, sul bracciolo del divano.
- Vorrei parlare con te. - mormorai.
Il mio tono esasperato la convinse a chiudere il libro. Accavallò le gambe e mi guardò freddamente:- Parla, allora. -
Mi morsi un labbro:- Non ne posso più di questa situazione; non del castigo, ma del fatto che sei così arrabbiata con me. Io mi rendo conto di aver sbagliato: mi sono comportata come un'egoista e ti chiedo scusa. -
Quando finii di parlare quasi ansimavo, poiché avevo a malapena preso fiato tra una parola e l'altra. Guardai Elisabeth, che nel frattempo continuava a rimanere in silenzio.
- Il problema, Anna, è che ora non so più se fidarmi di te. - disse infine.
Il distacco che ostentava copriva a malapena la rabbia che ancora provava, e sebbene sapessi che scaturiva dalla preoccupazione e dalla paura, essa mi colpì come un pugno.
- Lo so!- esclamai, sull'orlo delle lacrime per la frustrazione - Ma non ho la più pallida idea di cosa fare per dimostrarti che puoi ancora darmi la tua fiducia. -
La guardai negli occhi per un momento.
- Mi dispiace.- sussurrai abbassando di nuovo lo sguardo - Credimi: mi dispiace davvero tanto. -
Mi ero scusata, avevo provato a far pace ma non aveva funzionato. Basta, fine dei giochi.
Mi alzai e mi diressi verso la porta, avvilita, ma Elisabeth mi fermò prima che potessi oltrepassarla.
- Buonanotte, tesoro. - mi disse con un tono che fece rinascere in me la speranza che mi avesse perdonata.
Mi voltai di nuovo e incontrai il sorriso e lo sguardo dolce di Elisabeth, che si avvicinò e mi abbracciò. Per mia fortuna mia madre non era tipo da covare rancore più di tanto.
- Se lo fai ancora una volta giuro che ti uccido io. - mormorò.
Annuii con convinzione, mentre dentro di me tiravo un enorme sospiro di sollievo.

Il giorno dopo mi recai allo Ye Cracke, ma insolitamente per arrivarci feci il giro che passava davanti al College of Art; a causa della punizione era dalla festa di John che non passavo un po' di tempo con i miei amici, tranne qualche mezzoretta passata con Paul mentre facevo fare a Frency le sue passeggiate, ma ogni tanto li vedevo perché venivano nel locale in cui lavoravo.
Quella mattina, però, non si vide quasi nessuno e le ore trascorsero molto lentamente.
Quando finii il turno era ormai quasi ora di pranzo, ma ero talmente stanca di stare continuamente al chiuso che decisi di non tornare a casa ma di andare un po' al parco, ma prima cercai una cabina telefonica per avvertire Elisabeth, così da evitare di finire di nuovo in castigo dopo meno di un giorno che ne ero uscita.
Nonostante l'aria ormai quasi invernale fosse molto fredda c'era un bel sole limpido che rendeva piacevole starsene all'aria aperta.
Inoltre, il parco era estremamente tranquillo, poiché non c'era molta gente, se si escludeva qualche anziano che portava a spasso cani dalle dimensioni tanto piccole che Frency avrebbe potuto mangiarseli molto facilmente; e vista la fama che il bobtail dimostrava sempre, non era completamente escluso che prima o poi l'avrebbe fatto.
Proprio perché il parco era praticamente deserto, non mi fu affatto difficile scorgere Stu, in piedi nelle prossimità del laghetto. Aveva le braccia incrociate sul petto e tamburellava un piede guardandosi intorno, come se stesse aspettando qualcuno.
Lo chiamai e mi sbracciai per attirare la sua attenzione, anche se non sarebbe stato necessario perché il mio amico mi aveva già vista e mi stava correndo incontro.
- Come mai qui? Non dovresti essere al college? - chiesi dopo che ci fummo salutati con affetto.
- Ho bucato. - rispose sorridendo - Ti stavo cercando. -
- E immagino che tu abbia la capacità della preveggenza, per essere riuscito a sapere che mi sarei trovata qui a quest'ora. - osservai con ironia cercando di mascherare l'improvvisa agitazione.
- No, però ti conosco bene. Sono passato prima dallo Ye Cracke, ma mi hanno detto che eri già andata via, e visto che ho incontrato Cyn ieri sera e mi ha detto che eri di nuovo a piede libero, ho immaginato che saresti venuta qui per festeggiare.- spiegò Stu ridendo.
- Sono davvero così prevedibile?- chiesi, cercando di distogliere la sua attenzione dal motivo per il quale aveva avuto bisogno di venirmi a cercare.
Pur non riuscendo ad immaginarmelo, infatti, avevo l'impressione che non mi sarebbe piaciuto.
- Ho bisogno di parlarti. - disse il ragazzo con una serietà che fece prendere il sopravvento al lato più codardo di me.
- Scusa, ma se faccio tardi mia mamma non mi lascia uscire per un mese... -
Indietreggiai di un passo, tuttavia Stu mi prese una mano.
- Anna, per favore... - mormorò.
Non avevo vie di fuga, poiché non potevo allontanarmi senza sembrare scortese, quindi assunsi un sorriso forzato e mi accostai di nuovo a lui.
Stuart mi prese anche l'altra mano e abbassò lo sguardo a fissare i miei palmi, sui quali tracciava dei disegni immaginari con il pollice.
- Io... credo che tu te ne sia già accorta da tempo... Le mie azioni sono state troppo esplicite perché tu... - cominciò, ma poi si interruppe, arrossendo.
Non l'avevo mai visto così agitato e il suo stato d'animo si riflesse su di me.
- Io... non capisco cosa intendi... -mormorai incerta.
- Tu mi piaci. - disse Stuart di getto, ma poi abbassò la voce e tornò a mormorare. - Da morire. -
Ammutolii, allibita; non avevo idea di cosa pensare.
Brava scema, Anna!
In tutto quel tempo non mi ero resa conto che i sentimenti di Stu andassero al di là della semplice amicizia e ora la sua dichiarazione mi coglieva del tutto impreparata.
Ci misi tantissimo prima di trovare il coraggio per semplicemente alzare gli occhi e incrociare quelli di Stu.
- Oh, ti prego, dì qualcosa!- esclamò il ragazzo, esasperato dal mio silenzio.
Abbassai di nuovo lo sguardo:- Io non so che cosa dire...-
- Allora non dire niente.-
Stuart mi fece avvicinare ancora di un passo; istintivamente alzai una seconda volta gli occhi su di lui ed egli si chinò su di me.
Socchiusi gli occhi mentre le sue labbra si accostavano sempre di più alle mie.
Sarebbe stato così facile...
Mi scostai, ingoiando quel nodo alla gola che mi era venuto quando mi ero resa conto di ciò che quella decisione avrebbe comportato.
Anche Stuart si ritrasse, come se si fosse proteso troppo verso il fuoco e fosse stato bruciato.
- Stu, scusa... - balbettai- Io ti voglio tantissimo bene, ma... come amico. -
Mi si strinse il cuore quando vidi la sua espressione ferita. Abbassai lo sguardo, mortificata.
Mi sentivo un'egoista, ma allo stesso tempo non potevo negare i miei sentimenti. Sarebbe stato ancora peggio se l'avessi preso in giro. E poi...
- Ti stai innamorando di lui, vero?- chiese Stuart all'improvviso - Di John. -
Rimasi qualche secondo interdetta, ma mi ripresi e intervenni con veemenza in mia difesa:- Che cosa?! Ma è assurdo! -
- Ma è così. - replicò il ragazzo amaramente.
- No!- esclamai - Voglio dire: io e John ci saremmo scannati a vicenda fino all'altro ieri! Ora stiamo recuperando il nostro rapporto ma... Come puoi pensare una cosa del genere?!-
- E' vero, Anna. - insistette, con molta malinconia nell'inflessione e gli occhi lucidi. - Forse lo stai negando anche a te stessa, ma è vero; si vede dal tuo sguardo. Ma non importa: è giusto così. Non possiamo decidere noi quali saranno i nostri sentimenti. -
- Non voglio perderti. - mormorai.
Stu si sforzò di sorridere, con scarsi risultati:- Non mi perderai. -
- Davvero?-
- Sì, ma ora devi andare a casa o tua mamma si arrabbierà. - concluse sbrigativamente.
Mi salutò con un gesto della mano e si allontanò velocemente.
Mi incamminai verso casa con la morte nel cuore perché sapevo che, nonostante le sue parole di incoraggiamento, tra noi si era spezzato qualcosa che non si sarebbe più potuto rimettere al suo posto.

Tornai a casa di malumore e subito dopo aver pranzato uscii di nuovo: sentivo la necessità di parlare di quello che era successo con qualcuno e l'unica cosa che mi venne in mente di fare fu aspettare Cyn fuori da scuola.
Era molto presto, quindi ebbi molto tempo per pensare a me e a Stu e al nostro rapporto.
Ero stata una sciocca a non cogliere tutti i segnali che il ragazzo mi aveva lanciato e che solo ora che le sue intenzioni erano manifeste riuscivo a interpretarle nel modo giusto.
Se l'avessi capito prima non avrei cambiato la mia risposta, ma per lo meno gli avrei detto quello che sentivo e non gli avrei dato l'impressione di prenderlo in giro, o ancor peggio, di stare usandolo per tirarmi fuori dai miei casini ...
Era inutile tormentarsi con tutti quei se; le cose erano andate in quel modo e non potevano essere cambiate, perciò non rimaneva che affrontarne le conseguenze.
Auguravo a Stu tutto il bene possibile, ma più ci rimuginavo sopra più mi rendevo conto che non avrei potuto fare diversamente, ma questo non mi dispensava dal sentirmi così in colpa nei suoi confronti.
Prima che Cyn uscisse avevo il morale talmente a terra che la mia amica quasi si spaventò quando mi vide, ma non ne sembrò affatto sorpresa. Infatti, la prima cosa che fece, ancor prima di salutarmi, fu abbracciarmi.
- Stu...- cominciai, ma lei mi interruppe
- Non qui. - disse imperiosa - L'unico posto in cui si può parlare di problemi di cuore è davanti a una cioccolata calda. -
Mi prese per mano e prima che avessi il tempo di reagire mi trascinò verso il caffè più vicino.
E, in effetti, quando fui seduta ed ebbi avuto una tazza fumante tra le mani mi sentii già meglio.
- Come mai non sei rimasta sorpresa nel vedermi?- chiesi dopo un sorso di cioccolata.
- Stu è arrivato in ritardo questa mattina e aveva una faccia che faceva a dir poco impressione. - rispose Cyn - Ho dovuto torturarlo per riuscire a cavargli due parole su quello che è successo; ora voglio i dettagli.-
Dato che aveva espresso quell'ultima frase in un modo scherzosamente (ma nemmeno troppo) minaccioso, arrivai alla conclusione che fosse meglio accontentarla. Ci misi più di mezz'ora per raccontarle tutto perché ero interrotta ora da un suo commento ora da un mio.
Quando finalmente ebbi terminato appoggiai la fronte sulle mani e sbuffai.
Cazzo, ma perché tutte le cose dovevano necessariamente complicarsi?
- Mi dispiace così tanto... Anche perché tutti, guardandovi, abbiamo pensato che tu ricambiassi i suoi sentimenti... -
- Lo so, ed è stato proprio questo il mio errore: ma davvero non sono riuscita a rendermene conto. -
- E' una cosa normale: spesso non riusciamo a cogliere l'interezza delle situazioni in cui ci troviamo in prima persona. - commentò Cyn.
Annuii nel silenzio che seguì, perché non avevo idea di cosa poter replicare. Infine, oppressa dall'atmosfera grave di quella conversazione, provai a sdrammatizzare:- Da dove viene tutta questa profondità? Ti stai per caso facendo dare ripetizioni di filosofia? Mi avevi detto che il tuo professore era un bell'uomo, ma... -
- No, niente ripetizioni: sto solo cercando di aiutare quella deficiente della mia migliore amica! - replicò Cyn ridacchiando e tirandomi un pugno sul braccio.
- Ti spiace se non ti accompagno a casa? Devo uscire con John. - mi chiese poi.
- Tranquilla. - risposi sorridendo e mascherando in tal modo i nuovi sensi di colpa, di tutt'altro genere rispetto ai precedenti, che mi erano venuti. - So come arrivare a casa: non mi perderò! -
Ci alzammo, pagammo il conto e uscimmo dal caffè.
- Chiamami, 'sta sera! - mi gridò Cynthia appena prima che entrambe girassimo agli angoli opposti della strada.
La mia testa era nuovamente in subbuglio: il pomeriggio passato con la mia amica, invece che tranquillizzarmi, mi aveva riempito di nuovi dubbi.
Cyn aveva detto che tutti pensavano che a me piacesse Stu e questo significava che anche John lo credeva, senza contare che di sicuro Stuart aveva parlato con lui riguardo ai propri sentimenti.
E allora perché John mi aveva detto quelle cose? Se davvero Stu era il suo migliore amico, non avrebbe fare un passo indietro e "lasciarmi" a lui?
Il mio cervello si rifiutò di prendere seriamente in considerazione l'eventualità che Lennon  potesse pensare che fossi una facile, e che dopo esserci stata con Stu, sarebbe toccato a lui; sebbene cercassi di convincermi da sola del contrario, era quello il timore più grande che avessi.
Grazie al Cielo, il tragitto verso casa fu (o mi sembrò) molto più corto del solito e non ebbi il tempo di fare altre assurde congetture; appena fui entrata tra le accoglienti mura domestiche tirai un sospiro di sollievo: finché fossi stata lì dentro, non mi sarebbe capitato nient'altro.
Nemmeno le feste che Frency mi fece riuscirono a scuotermi dall'umore meditabondo e, diciamo le cose come stanno, fondamentalmente depresso nel quale sprofondai quella sera; a Elisabeth, già attenta di suo, non occorse molto tempo per capire che la causa di quello stato d'animo era un ragazzo e non mi fece domande, ma non mancò di esprimermi il suo appoggio morale con alcune occhiate lanciatemi durante la cena, dopo la quale misi su un disco di Chuck Berry e mi lanciai, stravolta, sul divano. Frency si avvicinò e appoggiò la testa sul divano: finalmente aveva capito che era troppo grande ormai per salirmi sulle ginocchia o perché lo prendessi in braccio, ma ciò non faceva altro che aumentare la sua voglia di essere coccolato.
Gli grattai la testa, mentre mi arrivavano le voci dei miei genitori adottivi, nonostante Chuck Berry stesse cantando a squarcia gola nel mio salotto.
- Ma è successo qualcosa che mi sono perso? - chiese James preoccupato.
- No, mio caro, - rispose Elisabeth per rassicurarlo - ma tua figlia sta combattendo contro l'adolescenza.
Gran bell'affare, l'adolescenza! Non vedevo l'ora di uscirne e di riprendermi il mio equilibrio ormonale ed emotivo, sempre che l'avessi mai avuto.
Canticchiai sotto voce una canzone o due, sino a che fui raggiunta da Elisabeth e James; tolsi il disco, per fare in modo che si avesse l'opportunità per parlare un po'; noi tre chiacchierammo per lungo tempo, e scherzammo come non facevamo da prima che finissi all'ospedale.
Ma, a quanto pareva, il Fato aveva altri progetti per me, ben diversi dalla tranquillità che tanto agognavo.
Qualcuno bussò furiosamente.
Io, Elisabeth e James ci guardammo, sorpresi sia dall'ora sia dall'insistenza con cui quel qualcuno continuava a colpire la porta. Mio padre si alzò dalla sua poltrona e andò ad aprire. Rimase nell'ingresso per qualche minuto, quindi tornò in salotto e mi rivolse uno sguardo a metà tra l'accigliato e il preoccupato.
- C'è un ragazzo alla porta che dice di essere tuo amico, ma sembra piuttosto arrabbiato. - mi informò - Devo mandarlo via? -
Non faticai a immaginare di chi stesse parlando.
Possibile che non potessi avere un attimo di tregua?!
- No, vado a parlargli. - risposi alzandomi controvoglia dal divano.
- Non stare fuori troppo. - si raccomandò Elisabeth; feci un gesto di assenso poco convinto con la testa, poi mi affacciai alla porta.
Come avevo previsto, c'era Lennon in mezzo al vialetto. Come mi vide, il ragazzo mi rivolse uno sguardo furente.
- Ti sembra appropriato piombare a quest'ora in casa mia?!- lo rimproverai, ma lui non cambiò atteggiamento.
Chiusi la porta alle mie spalle e quando vidi che John non accennava a dire niente mi allontanai dalla casa, uscendo in strada, e invitai Lennon a seguirmi, poiché sapevo che Elisabeth avrebbe seguito la scena dalla finestra del soggiorno.
Per fortuna, l'oscurità della sera ci permise di sparire alla sua vista con pochi passi.
- Mi spieghi che ti prende?- chiesi a Lennon.
Lui strinse gli occhi, che si ridussero a due fessure.
- Che cos'è successo oggi con Stu?- sibilò ignorando la mia domanda.
Alzai un sopracciglio; se lui si impuntava in quell'atteggiamento l'avrei fatto anche io.
- Niente che ti riguardi. -
- Puttanate. - replicò con durezza. - Cyn mi ha detto che lui ti ha confessato i suoi sentimenti, ma non ha fatto commenti riguardo a quello che hai fatto tu. -
- Bel modo che hai di chiederlo. - commentai. - E comunque, non sono affari tuoi. -
- Dimmelo, Anna!- esclamò Lennon perdendo la pazienza.
- Gli ho detto la verità: cioè che gli voglio bene come se fosse un fratello! - gli gridai di rimando.
Dopo quella risposta, John sembrò calmarsi un poco e così feci pure io, respirando a fondo per reprimere l'irritazione, ma poi il ragazzo tornò all'attacco.
- Hai deciso, allora?- chiese.
- Che cosa? -
Cominciava a farmi male la testa, a causa di tutte le emozioni di quella giornata e avrei voluto essere lasciata un po' in pace.
- Riguardo a quello che ti ho detto. - disse.
Nonostante la sua criptica frase, intesi all'istante a cosa si stesse riferendo.
- Non ancora. - risposi portandomi una mano alle tempie.
- Avresti dovuto farlo. - ringhiò Lennon.
Me ne uscii con un sogghigno tra il sarcastico e l'incredulo:- Ma non mi avevi detto che mi avresti aspettata? -
John si avvicinò di un passo e mi guardò negli occhi.
- La mia pazienza ha un limite. -
- Oh, me ne sono accorta, e anche piuttosto breve, direi! - esclamai. - O forse hai paura che io mi guardi attorno e mi accorga che a questo mondo ci sono tanti ragazzi migliori di te, Stuart per primo?! -
Per un momento parve che la rabbia abbandonasse lo sguardo di John e si trasformasse in un'espressione che non gli avevo mai visto prima di allora.
- Sì. - rispose a bassa voce, come se il solo ammettere che potesse esistere quell'eventualità gli provocasse un dolore fisico.
Quel fugace attimo bastò per sciogliere la tensione che si era creata tra di noi.
- John, tu sei il ragazzo della mia migliore amica, la decisione che debbo prendere è una sola. - mormorai lentamente. Era più difficile del previsto.
- Non è una questione su quello che devi o non devi fare, ma su quello che tutti e due vogliamo. - rispose John, mentre il tono della sua voce si faceva via via sempre più suadente. - Lasciati andare, per una volta. So che provi qualcosa per me; non puoi nascondermelo. -
Mi prese le mani, ma mi scostai e gli diedi le spalle. Stavo lottando contro me stessa per mantenere il controllo sui miei sentimenti.
- Non posso farlo, John...- mormorai - non è giusto nei confronti di Cyn. -
- Non ti ho mica chiesto di venire a letto con me, cazzo!- sbottò il ragazzo.
Mi voltai e lo fulminai con lo sguardo.
John si addolcì di nuovo. Mi sfiorò il palmo della mano sinistra con la punta delle dita, poi la accostò alle proprie labbra, baciandola delicatamente.
La sua bocca scivolò sul polso e andò a posarsi sulla cicatrice rosea con i segni dei punti di sutura. Una scarica elettrica attraversò il mio corpo mentre le sue labbra indugiavano sui segni della mia follia. Era una delle sensazioni più intense che avessi mai provato.
Cominciò a darmi dei piccolo baci, risalendo piano piano lungo il braccio.
- Se vuoi che smetta, basta che me lo chiedi.- sussurrò fra un bacio e l'altro.
Sentire il suo respiro sulla pelle del braccio mi fece venire dei piccolo brividi allo stomaco.
Non sentivo altro che il battito del mio cuore.
Non aveva senso, era sbagliato, completamente sbagliato!
- Dimmi che vuoi che io smetta e ti obbedirò. - ripeté baciandomi la spalla.
Il mio cuore stava impazzendo.
-Smettila, John - mormorai. Dove diavolo era finita la mia capacità di parlare?!
John staccò le labbra dal mio braccio e mi guardò negli occhi.
- Lo vuoi davvero?- chiese sottovoce.
Ero intrappolata dal suo sguardo e sentii le mie guancie arrossire violentemente.
Dovevo continuare a pensare che lui era il ragazzo di Cyn, dovevo visualizzare l'immagine di loro due mano nella mano e non levarmela più dalla testa.
-Sì...- risposi, ma quella piccola parola, all'apparenza così semplice da pronunciare, risultò poco convincente perfino alle mie orecchie.
John sorrise appena, poi, senza staccare lo sguardo dal mio, posò una mano sul mio cuore.
Cristo santo, così non era leale!
- Il tuo cuore dice il contrario.-
Mi morsi un labbro e cercai in tutti i modi di abbassare gli occhi, ma senza molto successo.
Mi resi conto che non sarei mai riuscita a resistere ancora a quello sguardo. Anche John se ne accorse e sorrise di nuovo.
Mi accarezzò la guancia con il dorso della mano, poi mi strinse il delicatamente il mento, alzandomi leggermente il volto.
Si chinò lentamente su di me, senza staccare i suoi occhi dai miei.
Alla fine chiusi gli occhi e mi protesi verso di lui quel poco che bastava per annullare la piccola distanza che mi divideva da John.
Le sue labbra si posarono delicatamente sulle mie.
Le mani di John scivolarono lungo la mia schiena e si posarono sui miei fianchi, per stringermi al suo corpo.
Il bacio si fece via via sempre più pieno di desiderio: perso ogni controllo, il mio corpo faceva quello che l'istinto gli diceva di fare, come se avvinghiarmi a lui fosse un bisogno primario.
E non era del tutto scontato che non lo fosse.
Affondai le mani nei suoi capelli e gli accarezzai la nuca.
Riacquistai quel briciolo di lucidità che mi permise di riprendere il controllo.
- No, John!- esclamai allontanandomi da lui.
Gli diedi di nuovo le spalle per paura che se l'avessi negli occhi sarei di nuovo crollata. Mi portai una mano alla bocca, sfiorando le labbra che John Lennon aveva appena baciate.
- Non è giusto...- continuai - Cyn è la mia migliore amica.-
Sentii il ragazzo avvicinarsi.
- Non pensare a lei - sussurrò al mio orecchio - ora ci siamo solo io e te. -
Prima che potessi replicare, mi scostò i capelli, così da potermi baciare il collo e la nuca.
 Non sarei riuscita a oppormi di nuovo, nemmeno appellandomi alla mia forza di volontà: essa era svanita, il mio cervello si era liquefatto ed io ero completamente impazzita.
Ma non mi ero mai sentita in quel modo in tutta la mia vita. Forse ero davvero una stronza egoista: pur sapendo che era sbagliato, io ero completamente appagata, felice, e non potevo più fingere e impormi di non esserlo.
Sorrisi e scossi la testa, poi mi voltai e guardai John.
- Tu devi solo ringraziare il fatto che il mio autocontrollo sia in ferie.-
-Per quanto mi riguarda, può pure andare in pensione anticipata.- replicò.
Io ridacchiai, ma lui mi tappò la bocca con un bacio.
Mi baciò a lungo, poi cominciò a mordicchiarmi il labbro inferiore.
Sapevo che se avesse continuato in quel modo mi avrebbe completamente fatta impazzire, così mi staccai. Nascosi il volto nell'incavo del suo collo e appoggiai le mani sul suo petto. Respirai il suo profumo inebriante.
John mi cinse delicatamente i fianchi, facendomi avvicinare ancora di più a lui, poi appoggiò la fronte sulla mia testa, baciandomi piano i capelli.
- Cosa succederà ora?- chiesi. John sciolse l'abbraccio, così da potermi guardare negli occhi
- Non lo so- rispose - So semplicemente che mi piaci molto e che, a meno che tu non lo voglia, non ti lascerò più andare via.-
Mi baciò di nuovo.
- Devo rientrare. - dissi quando mi lasciò per permettermi di respirare - E' da tanto che siamo qui fuori ed Elisabeth ci starà sicuramente guardando dalla finestra. -
- E se io non ti dessi il permesso e ti portassi via con me?- replicò John facendo scorrere le labbra sul mio collo.
- Ti potrei denunciare per sequestro di persona.- risposi con sarcasmo staccandomi da lui.
Feci per aprire il cancello,ma John mi fermò prendendomi la mano.
- Devo andare. - sussurrai, pur avendo il segreto desiderio che quella sera durasse in eterno.
John mi tirò gentilmente verso di sé, cingendomi nel suo abbraccio.
- Non crederai che io ti lasci andare senza che tu mi abbia ringraziato!- disse al mio orecchio.
Scossi la testa e alzai gli occhi al cielo.
- Ringraziato per cosa?! - esclamai ridendo.
- Per averti permesso di dormire a casa mia, o per averti salvato la vita; usa quello che preferisci, per me è uguale. -
Sebbene non credessi che fosse possibile, riuscì a trovare un modo per far aderire ancora di più il suo corpo al mio.
- Ma è stato un sacco di tempo fa!- replicai - E comunque ti ho già ringraziato.-
-Avanti, sono sicuro che non pensi davvero che ciò possa bastarmi...- mormorò con un tono provocante e mi diede un piccolo bacio sul collo, sufficiente per farmi uscire di testa.
- Che bastardo.- dissi sottovoce.
John staccò le labbra dal mio collo e mi guardò negli occhi.
Quella volta, però, fui più veloce di lui.
Prima che potesse dire o fare qualsiasi cosa, mi protesi verso di lui e gli stampai sulle labbra un bacio minuscolo, talmente rapido che John non fece in tempo ad accorgersi che gliel'avevo dato e a ricambiare che già mi ero allontanata da lui.
- Contento?- chiesi, anche se sapevo già la risposta.
Sorridendo, John scosse la testa. Mi scostò una ciocca di capelli dal viso e mi accarezzò la guancia. Mi baciò lentamente, ma non ci volle molto perché perdessi il controllo sulle mie emozioni.
Posai le mani sul collo di John e lo strinsi a me, mentre il bacio si faceva sempre più appassionato.
Sentii la lingua di John sfiorarmi i denti. Inebriata da quel bacio e dal profumo del ragazzo, schiusi le labbra e lasciai che le nostre lingue si toccassero.
Mi parve che quel bacio durasse ore e quando le labbra di John si allontanarono dalle mie ero senza fiato.
- Perché domani non vieni a vedere le prove? Siamo da Paul. - chiese John sottovoce.
Io annuii, ma poi abbassai lo sguardo:- C'è anche Cyn?-
John sorrise dolcemente:- No, ha un impegno.-
Mi strinse il mento e mi fece alzare il volto mi diede un altro piccolo bacio, poi mi lasciò andare.
- Ci vediamo domani.-
-Ciao, Johnny. -
Percorsi velocemente il vialetto che attraversava il piccolo giardino davanti alla casa, ma prima di chiudere la porta alle mie spalle rivolsi un ultimo sguardo al ragazzo, ancora in piedi vicino al cancello.Piegò leggermente il capo e mi fece l'occhiolino. Gli sorrisi, poi chiusi la porta, appoggiando la testa contro il legno massiccio.
Non riuscivo a riprendere il controllo sui miei sentimenti: ero troppo esaltata per riuscire a calmarmi, anche se la mia felicità era velata da un pensiero che non riuscivo a togliermi dalla testa: come avrei fatto a guardare di nuovo Cyn in faccia e fingere che il suo ragazzo non la stesse tradendo con me?


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Buona sera, gente!

So che sembra difficile crederlo, ma questo capitolo è stato scritto in due giorni, completamente di getto, sulla scia di molte emozioni che sono nate nell'ultimo periodo, ma non sono riuscita a pubblicarlo prima perché quel gentilissimo creaturo che è il mio computer ha deciso che il suo orientamento politico è l'anarchia, perciò fa quello che vuole.
In ogni caso, gli sono grata per avermi concesso questi tre giorni per fare il mio lavoro! (Scusate se non mi dilungo, ma sono di corsa: mia mamma mi sta urlando dietro perché domani mi tocca l'entusiasmante interrogazione di greco!!)


AlexaZoso_Lennon: Be', non sarò certo io a dirti di non farlo! Anch'io mi sono esaltata come una scema quando sono arrivata alla decisione finale, dopo qualche notte e qualche ora di contemplazione passata a cercare di capire che cosa volessi da questa storia. Grazie mille per la recensione!

weasleywalrus93: oh, sì, ti prego!!!!! Mi stai rendendo felice!!!  Eh sì, anche io, in fondo in fondo, ho sempre saputo che Anna e John erano destinati a piacersi a vicenda (anche se ho dovuto fare un lungo e contorto percorso per arrivarci), ma ora devo prendere la ancora più difficile decisione su che cosa accadrà tra loro due in futuro, perché sono fondamentalmente troppo sadica per far finire tutto così!!! * risata diabolica.


Peace n Love.

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Capitolo 22
*** 21. - She Loves You ***


She Loves You.
 



Ero su un letto, legata da catene talmente strette che mi ferivano i polsi e le caviglie. Non riuscivo a respirare, avevo la bocca tappata da un bavaglio. Non potevo muovermi.
Una luce fredda si accese nell'oscurità. Mi trovavo nella camera di una bambina. Una fila di bambole mi guardava sinistramente dall'alto di una mensola, con gli occhi spiritati iniettati di sangue.
Sentii dei passi, che piano si avvicinavano. Il loro incedere lento era regolare, inesorabile, e il battito del mio cuore si adeguò ben presto ad esso.
Un passo...qualche secondo...un altro passo.
La porta si aprì cigolando. L'Uomo entrò, rivolgendomi una sorriso che mi fece venire i brividi. Ora riuscivo a vedere il suo volto, ma avrei preferito non conoscere i tratti del mio carceriere.
Lui e i suoi occhi di ghiaccio si avvicinarono; sentii la sua mano accarezzarmi la guancia e poi scendere lungo il collo fino a stringere il seno.
Non potevo urlare, quindi cominciai a piangere.
- No, amore mio, non piangere...- mormorò asciugandomi le lacrime con le dita, al cui passaggio sulla mia pelle comparivano innumerevoli piccoli tagli, dolorosi come lame di coltelli infitti nella carne.
- Non piangere... Ti ho portato un amichetto con cui giocare.-
Guardai la porta; comparve il volto del Ragazzo dagli Occhi Nocciola.
Gli rivolsi uno sguardo che implorava aiuto, ma il sorriso compassionevole che avrei voluto vedere apparire sul suo viso non apparve, sostituito da un ghigno malvagio.
Emisi un gemito soffocato quando capii che nessuno mi avrebbe salvata da quello che stava per accadere.
L'Uomo dagli Occhi di Ghiaccio fece riecheggiare la sua risata e io chiusi gli occhi, appena in tempo per non vedere l'Uomo e il Ragazzo che si gettavano su di me e mi strappavano con violenza i vestiti di dosso.


Qualcosa di ruvido, caldo e bagnato si strofinò ripetutamente sulle mie guancie, svegliandomi. Frency, seduto in modo traballante su un angolino di letto, mi stava leccando via le lacrime.
Era ancora buio, ma dalla finestra entrava la luce dei lampioni.
Mi misi a sedere, ma il mio movimento brusco sbilanciò il cane, che sarebbe caduto se non l'avessi abbracciato. Affondai il viso nel suo pelo morbido, scoppiando in singhiozzi. Lui appoggiò la testa sulla mia dandomi dei piccoli colpetti con il muso.
- Oh, Frency...- mormorai mentre il cucciolo, leccandomi la guancia, riusciva a calmarmi.
Gli incubi in cui compariva anche John erano terribili. Non riuscivo a reagire contro di essi, non possedevo alcuna difesa. Avevo l'insensato terrore che potessero diventare veri.
Erano iniziati quando John aveva cominciato a chiedermi di andare a letto con lui; ormai ci provava quasi tutte le volte che ci incontravamo e quell'insistenza, insieme agli incubi, rovinava quell'idillio che per i primi tempi mi era sembrato di vivere, una relazione fatta soltanto di occhiate furtive e carezze nascoste, sospiri soffocati e baci rubati al poco tempo di cui io e John disponevamo.
Ma era davvero possibile che non capisse che, oltre a non volerlo, non potevo esaudire la sua richiesta?!
Non erano nemmeno le quattro del mattino, ma, dopo aver ringraziato Frency con una più che abbondante dose di carezze, mi alzai e andai a farmi un bagno, per poi tornare e mettermi a fare un ritratto di Frency, uno dei tanti attraverso i quali stavo documentando ogni momento della sua crescita.

Nel pomeriggio mi recai da Paul circa un'ora prima rispetto all'inizio delle prove dei Quarrymen. Passavo molto tempo con il ragazzo, perché era l'unico, oltre a Stu, a sapere di me e di John, ed era l'unico con cui mi sentissi veramente libera di parlare.
Fu tuttavia Mike ad aprirmi e mi disse che suo fratello stava suonando con un suo amico, ma mi rassicurò del fatto che non disturbavo affatto e che potevo salire tranquillamente.
Man mano che mi avvicinavo alla stanza di Paul sentivo sempre più distintamente una chitarra che suonava. Mi fermai ad ascoltare, ma non ci misi molto a capire che quello non era il modo di suonare tipico di Paul. Il suono si spense, ma subito dopo una chitarra ricominciò a suonare, e quella volta sapevo per certo che si trattava del mio amico.Bussai, ma nessuno mi rispose perché la chitarra copriva ogni altro rumore, quindi entrai senza aspettare ulteriormente.
Paul era sul letto, con la sua chitarra imbracciata al contrario e, sorridendo, mi fece un cenno del capo senza interrompere la canzone. Di fronte a lui, che mi dava le spalle, c'era un ragazzino alto e magro, con i capelli scuri. Si voltò verso di me e mi porse un piatto colmo all'inverosimile di biscotti.
- Biscotto?- chiese con la bocca piena.
Rimasi interdetta a quella domanda, ma alla fine riuscii a rispondere con un cortese rifiuto, subito interrotto da Paul: - Ti conviene approfittarne, non ti capiterà mai più questa opportunità!-
- Confermo. - disse il ragazzo, cacciandosi in bocca un altro dolce.
- Grazie comunque, ma sono a posto. - risposi sedendomi per terra al suo fianco. Lui scrollò le spalle e continuò a mangiare tranquillamente.
- Anna, lui è George. - me lo presentò Paul.
- Piacere. - disse il ragazzino con un tono storpiato che fece ridere me e Paul, ma anche lui stesso.
George se ne andò poco prima dell'inizio delle prove, così io e Paul potemmo rimanere un po' da soli.
Mi buttai sul divano e sospirai, già stravolta, chiedendomi come avrei fatto ad arrivare a sera senza addormentarmi prima. Cominciavo a risentire di tutte quelle notti insonni.
- Ancora incubi?- chiese Paul accomodandosi accanto a me. 
- Sì. - rabbrividii improvvisamente e cambiai subito argomento. -Secondo te sto sbagliando? Con John, intendo. -
Non fece in tempo a rispondermi, perché Lennon arrivò e appena l'ebbe fatto entrare, Paul trovò una scusa per allontanarsi e lasciarci soli.
John fece una specie di sorriso e si avvicinò, cercando subito il contatto fisico.
- Ciao...- sussurrò suadente.
- Ciao. - risposi atona.
Mi baciò, ma feci fatica a trattenere il gemito che mi stava sfuggendo e mi scostai non appena ne ebbi l'occasione.
- Che c'è? -
- Non voglio che ci vedano. - risposi, anche se mi rendevo conto che non poteva reggere.
- Non c'è nessuno che possa vederci. - sibilò il ragazzo cercando il mio sguardo.
- Per favore, John, non litighiamo...-
- Ma se non fai niente per impedirlo! - esclamò alzando la voce.
- Non c'è bisogno di urlare. - dissi quasi sussurrando, per non farmi scappare qualche parola di troppo. - Non voglio litigare con te. -
- A me pare proprio di sì, invece. - rispose.
- Fa' come credi. - dissi. Il mio tono tradiva la mia crescente irritazione, ma riuscii a darmi un contegno. -Dì a Paul che me ne sono andata nell'attesa che ti passasse il giramento di coglioni. -
Ero già nel vialetto di casa McCartney, quando John mi raggiunse e mi afferrò per il polso, tirandomi verso di lui.
- Sei tu quella che ha il giramento di coglioni!- gridò - Quindi ora mi dici che cazzo ti è successo, chiaro?! -
Mi divincolai terrorizzata e gli diedi le spalle, cercando di scindere le immagini dell'incubo dalla realtà. Respirai qualche momento, poi mi voltai di nuovo.
- Non ce la faccio più continuare in questo modo. Non posso più andare avanti così. - mormorai, sperando che la mia voce bassa avrebbe contribuito a calmare John almeno un poco. Ma lo conoscevo, ormai, e sapevo che si sarebbe infuriato una volta ascoltato quello che avevo da dire. Era inutile girarci tanto intorno.
- Deve finire qui.- affermai.
- E da quando hai preso questa saggia  decisione? -
- Non puoi chiedermi di tradire così l'unica persona che mi sia mai stata vicina. - dissi. - Cyn è terrorizzata dall'idea che tu possa lasciarla per un'altra. Riesci a capirlo? Lei ti ama, John, ti ama. Non le posso fare questo. -
- Sempre con questo "non puoi qui, non devi lì"! - abbaiò Lennon perdendo le staffe. - Perché per una volta non parliamo di quello che voglio? -
- Allora decidi quale di noi due vuoi. -
- E se vi volessi entrambe?! -
- La vita è fatta di scelte. - replicai, ostentando una calma che non avevo - O me o lei. -
- Cristo, quando sei ipocrita! - osservò stringendo gli occhi. - In realtà non te ne frega assolutamente niente di quello che voglio io. Tu hai già deciso. -
- Sì. - ammisi.
- Ma fottiti, Anna! - ringhiò con un tono che trasudava disprezzo. - Oh, non ne sei capace, non è vero? Sei solo una cazzo di verginella frigida! -                                                                                                  Con un ultimo, feroce sguardo si girò e si allontanò a grandi passi, lasciandomi ancora una volta lì a guardarlo andare via.


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Salve a tutti!
Ebbene sì, sono viva, anche se scommetto che cominciavate a dubitarne, e sono uscita dal mio sonno catatonico per postarvi un capitolo corto e - diciamocelo francamente- piuttosto insipido.
 In questo periodo sono entrata in crisi con la storia, e spero che ne uscirò presto, in modo da scrivere più velocemente di quanto non abbia fatto ora.
Alla prossima, quindi.


Quella che ama i Beatles: Mi sento davvero onorata, allora! Ti ringrazio per la bellissima recensione! La storia fra Anna e John, per quanto abbia potuto sembrare scontata, non lo è stata affatto: infatti ho deciso quasi all'ultimo momento come sarebbero andate a finire le cose. Che tuttavia non sono affatto finite...

Peace n Love. 

 

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Capitolo 23
*** 22. - For No One ***


For No One.



- Devi star fermo, altrimenti non riuscirò a finire il disegno! - esclamai facendo uno schizzo con il carboncino. Distesi le gambe, perché era da troppo che le tenevo incrociate e cominciavano ad intorpidirsi; cercai contemporaneamente una posizione con la quale stare più comoda sul pavimento del salotto di casa McCartney e ritrarre il mio amico sdraiato sul divano. Paul tossì violentemente.
- Non è giusto che tu mi faccia un ritratto mentre ho la febbre a trentotto! - protestò, ma io scrollai le spalle: - Perché no? - abbassai la voce e mi avvicinai al suo volto - Sei così sexy in pigiama! -
Come avevo previsto, da lì ad un secondo mi arrivò in testa un cuscino.
Pur ridendo, mi alzai a fatica.
- Se non mi vuoi, guarda che me ne vado! - lo minacciai, ma Paul mi prese la mano e mi trascinò di nuovo per terra.
- Ma no, dai. - disse - E comunque, so per certo che non te ne andresti mai! -
- E chi te lo dice?- Paul finse di pensarci un po' sopra, poi, tra la tosse e le risate, riuscì a darmi una risposta:- Forse il fatto che passi qui più tempo che a casa tua! -
Lasciai cadere blocco da disegno e carboncino, incrociando le braccia.
- Sembra proprio che non riesca più ad averla vinta con te. Dovrò cercarmi un nuovo amico, allora, uno che non mi conosca così bene. -
Il ragazzo mi fece la linguaccia, ma le nostre risa furono interrotte da un altro attacco di tosse.
-Tu stai bene? - chiese con voce rauca.
- Sì. - risposi con un sorriso - Sana come un pesce! -
Ero davvero grata a Paul per non aver mai sfiorato l'argomento John. Sapeva che parlarne non avrebbe fatto che peggiorare la situazione.
- Comunque - esordì il ragazzo distogliendo la mia mente da quei pensieri. - sono contento che tu abbia conosciuto George. Era da un po' che volevo presentartelo: è davvero un bravo chitarrista. -
- Sì, ho sentito. E' impressionante per la sua età. - commentai.
- Be', non fa altro che suonare dalla mattina alla sera! -
- Se è per quello anche tu - replicai - ma George rimane comunque più bravo di te. -
Un altro cuscino piovve magicamente sulla mia testa.
- Ehi, grazie, miss simpatia! - esclamò Paul - Sei venuta qui per abbassare la mia autostima ai livelli più bassi dal 1941?! -
Mise il broncio e si girò sul divano, dandomi le spalle. Lo abbracciai, noncurante del fatto che probabilmente mi avrebbe attaccato la febbre: - Lo sai che scherzo! Sei il migliore! -
- Ah, perché, lo mettevi anche in dubbio?! -
 - E sei anche il più stupido! -
- Non vorrei mai deludere le aspettative del mio fan-club. - replicò con un sorriso sornione.
Questa volta fu a lui che arrivò il cuscino in testa.
- Ehi, non vale colpire gli invalidi! - protestò.
Scossi la testa:- Se fossimo nel Medioevo avresti avuto un successone. -
- Come cavaliere? -
Lo guardai di sottecchi.
- Come giullare di corte. - risposi ridendo, mentre Paul mimava degli inchini a destra e a manca.
Mi alzai di nuovo: - Bene, messer giullare, io devo andare o arriverò tardi al lavoro. -
- Vi accompagno alla porta, mia signora. -
Non feci in tempo a dirgli che non ce n'era bisogno, che sapevo la strada e che sarebbe stato meglio per lui rimanere sdraiato, che già si era alzato, mi aveva preso la mano e mi stava conducendo nell'ingresso.
Aprii la porta e uscii di qualche passo.
- Riguardati, okay? - gli raccomandai.
- Tranquilla, lo so che non puoi sopravvivere a lungo con me in convalescenza! -
Alzai gli occhi al cielo, sorridendo.
- Sei uno-
- scemo, lo so. - concluse Paul per me. Mi fece l'occhiolino - Ma è per questo che mi vuoi bene. -
Lo abbracciai e gli diedi un bacio sulla guancia.
- Ci vediamo domani. - gli dissi ancora stretta a lui.
- Posso imbucarmi anche io al vostro festino? - disse gelido Lennon dietro di noi.
Sussultai e mi voltai immediatamente. Il ragazzo era in piedi di fronte a noi e ci fissava ferocemente.
- John, che ci fai qui? - domandai istintivamente.
- E davvero molto strano: mi stavo facendo esattamente la stessa domanda. - commentò - Ero venuto a sapere quale scusa avesse McCartney per aver saltato le prove di oggi, ed immagina la mia sorpresa nello scoprire che anche tu avevi avuto la mia stessa idea!-
Abbassai lo sguardo e arretrai di un passo:- Ascolta, John... -
Il ragazzo, però, mi ignorò e continuò il suo monologo.
- Sai, Anna, in generale mi piacciono le cose a tre, ma da parte tua non è poco coerente? -
Paul tentò di intervenire, ma un attacco di tosse lo fece piegare in due.
- Paul ha la febbre. - dissi - Sono venuta a vedere come stava e a fargli compagnia. -
- E da quando hai assunto il ruolo di infermiera sexy? -
- John, non è come sembra. - mormorò Paul tra un colpo di tosse e l'altro.
Lennon si avvicinò a grandi passi:- Certo, lo immaginavo. E allora com'è? Spiegatemelo avanti. -
- Te l'ho già detto. - risposi secca.
- E ti aspetti anche che io ci creda? - mi fulminò con lo sguardo. - Avanti, Anna, inventatene una migliore. Questa non regge il confronto con "la vita è fatta di scelte, o me o lei, non posso più andare avanti così" e tutte quelle cazzate che hai sparato l'ultima volta che ci siamo visti. -
- Puoi credere quello che vuoi, io so qual è la verità! - replicai.
- Sono problemi tuoi, okay? Non me ne frega un accidente! Se tu preferisci fartela con un ragazzino sono problemi tuoi. - disse John, ma era ovvio che non la pensava affatto così. Era furioso. Mi afferrò la mano. - Puoi fare la puttana con tutti quelli che vuoi, per quanto mi riguarda. -
Paul prontamente si frappose fra me e lui:- Stai esagerando, adesso basta. -
- E tu non metterti in mezzo! - gridò John e gli sferrò un pugno che l'avrebbe fatto cadere se non l'avessi sostenuto.
Lennon mi inchiodò di nuovo con lo sguardo, poi sputò a terra:- Ti disprezzo. -
Quel commento mi portò a reagire.
- Strano, non mi sembravi di questo parere quando hai deciso di tradire la tua ragazza per me. Mi accusi di contraddirmi, ma a me pare che sia tu quello incoerente. - sibilai tagliente.
Prendendo per mano Paul arretrai in casa e gli chiusi la porta in faccia.
- Ricordami di non farti mai incazzare sul serio. - commentò il mio amico massaggiandosi la guancia.     

Ero furiosa. Erano passati tre giorni dall'ultimo litigio con John e la rabbia non accennava a diminuire. Mi venivano alla mente altre mille risposte che avrei potuto dargli, ma che sul momento non ero riuscita a trovare.
La cosa che mi irritava di più era il pugno tirato a Paul: insomma, che c'entrava lui con i nostri problemi! E il bello era che non gli aveva nemmeno chiesto scusa!
Allo stesso tempo, tuttavia, sapevo che le cose sarebbero dovute essere chiarite, e l'unico modo per farlo era parlarne io stessa con Lennon : non volevo che l'amicizia fra John e Paul fosse rovinata perché  lui aveva equivocato la situazione.
La mia mente inquieta non mi dava pace, nemmeno mentre provavo a scrivere. Tamburellavo furiosamente la penna schizzando inchiostro dovunque senza riuscire a buttar giù una riga che fosse nemmeno lontanamente decente.
Elisabeth si era accorta del mio malumore e si era resa conto che qualcosa non andava per il verso giusto, ma non aveva ancora fatto domande, almeno fino a quel momento.
- E' per un ragazzo, vero? - chiese infatti prendendo una sedia e mettendosi al mio fianco vicino al tavolo della cucina.
Annuii, appoggiando con uno sbuffo la penna sul foglio macchiato.
- Avete litigato? - continuò mia madre. O era vero che le mamme hanno un sesto senso, oppure era la mia che aveva i superpoteri.
Rimasi in silenzio, che fu prontamente interpretato da Elisabeth come un assenso; la donna sospirò e mi accarezzò i capelli: - Non c'è modo di risolvere la cosa? Se ti fa star male, allora litigare non è la soluzione giusta. -
- Ci ho provato - risposi. - ma una volta che si arrabbia (e lui si arrabbia sempre quando non ottiene quello che vuole) comincia ad urlare e non la smette più. -
- Da quel che mi dici, forse questo ragazzo non merita né il tuo affetto né tutte le pene che ti dai per lui. -
- Lo so. - mormorai avvilita. Era esattamente quello di cui stavo tentando in tutti i modi di convincermi, ma la mia immaginazione continuava imperterrita ad andare per i fatti suoi e a pensare a quella manciata di settimane che io e John avevamo trascorse insieme. Mi mancava, e soffrivo come un cane per quei continui litigi, anche se era lui che continuava a comportarsi come un bambino. Forse, solo forse, avrei potuto passare sopra al suo comportamento e...
No! Non sarei mai andata da lui strisciando a implorare perdono per una colpa che lui aveva commesso!
- Ne vale la pena, tesoro? - chiese Elisabeth dopo un lungo silenzio. Mi guardò negli occhi.
- In verità, non lo so. Credo... di sì. -
Mia mamma sorrise e mi diede due colpetti sulla spalla. Sbuffai, afferrai la giacca e uscii alla ricerca di John.
"Per intimargli di chiedere scusa a Paul." ,mi dissi per giustificare quel gesto fuori da ogni logica.
"Ecco a voi Anna Mitchell, la paladina della giustizia, colei che difende gli oppressi e castiga i prepotenti!" mi stroncò subito la mia Coscienza.
La ignorai e cominciai la mia missione, che si rivelò sin dal principio più difficile del previsto: John si era come volatilizzato.
Quel pomeriggio girai mezza Liverpool alla sua ricerca, e chiesi a tutti quelli che conoscevo se l'avevano visto, ma aveva fatto sparire le sue tracce.
"Ma sentiti: stai parlando come se fossi un detective di Scotland Yard!" commentò sarcastica la Coscienza.
Fu per un caso fortuito che riuscii ad incrociare Stuart mentre usciva dallo Ye Cracke. Il saluto, com'era da prevedersi, fu piuttosto imbarazzato, ma al momento avevo cose più importanti a cui pensare.
- Sai per caso dov'è John? - gli chiesi.
- L'ho visto un paio d'ore fa. - rispose. - Mi ha chiesto se poteva andare nel mio appartamento. -
Aggrottò le sopracciglia e mi fissò.
- Che succede? -
- In realtà - mormorò. - pensavo fosse con te. -
- No, non lo vedo da un paio di giorni. - affermai, con la mente troppo occupata per accorgermi della sua ultima affermazione.
Lo salutai frettolosamente, poi mi diressi quasi correndo in Percy Street.
Probabilmente feci la figura della maleducata, ma stavo cominciando a farmi viaggi mentali sul mio prossimo incontro con John e mentre salivo due piani di scale la mia agitazione aumentava.
Non avevo idea di quello che gli avrei detto, né di come il ragazzo avrebbe reagito, e avevo paura che avrei peggiorato le cose se mi fossi arrabbiata a mia volta.
Arrivata sul pianerottolo esitai; potevo ancora tornare indietro, se avessi voluto.
"Forza e coraggio, Anna." mi dissi.
Respirai profondamente, alzai un braccio e lo accostai alla porta. Sentii dei rumori, che in un primo momento non distinsi, ma che poi si fecero più chiari. Gemiti e ansiti osceni provenivano dall'interno dell'appartamento.
"Questo è l'appartamento di Stu, quindi è Stu quello là dentro!" pensai in preda all'ansia, anche se la parte razionale di me sapeva che non era possibile. "Per forza deve esserlo!"
Gli ansiti divennero grida con il sopraggiungere dell'estasi e il sussurro di una donna sconosciuta spezzò quel volgare concerto: - Oh, Lennon. -
Boccheggiai e ritrassi la mano dalla porta come se fosse stata incandescente.
Fuggii verso le scale il più velocemente che potevo, ma dopo un paio di gradini scivolai e rotolai sulle scale fino al primo pianerottolo. Il rumore della mia scomposta caduta e i gemiti di dolore che vi seguirono rimbombarono nella tromba delle scale.
Mi rialzai immediatamente anche se con fatica e imprecai. Non riuscivo ad appoggiare il piede per terra senza che fitte lancinanti mi passassero per la caviglia. Mi feci forza e appoggiandomi al corrimano scesi l'altro piano di scale.
Sentii degli altri suoni, forse di una porta che sbatteva, ma non mi fermai. Anche nel remoto caso che Lennon si fosse distolto dalla sua occupazione, non avrei voluto vederlo. Mi diressi alla porta, zoppicante ma decisa, e uscii dall'edificio. Tuttavia non riuscii ad allontanarmi di quanto avrei voluto prima che John mi raggiungesse.
- Che ci fai qui?! - chiese furioso. Lui era furioso!
- E' tutto quello che hai da dirmi?! - gli gridai contro. - Ti ho appena sorpreso che ti scopavi un'altra e tu mi dici "che ci fai qui"?! Ma vaffanculo, stronzo!-
Per fortuna, data l'ora tarda, la strada era deserta.
Gli diedi e strinsi una mano tra i capelli, mentre il mio volto veniva bagnato da alcune lacrime, non solo di rabbia, questa volta.
- Perché l'hai fatto? - sussurrai senza guardarlo in faccia.
Sebbene fosse nel torto più completo, Lennon non abbandonò il suo atteggiamento da spaccone menefreghista.
- Be', piccola, un ragazzo ha i suoi bisogni. E tu non ti decidevi ad aprire le gambe, quindi sono andato a cercare da qualche altra parte. -
E no, diamine. Avrei potuto accettare di tutto, ma non quello.
Mi voltai fulminea e gli tirai uno schiaffo con tutte le mie forze. John si ritrasse e si portò una mano alla guancia. Forse avrebbe reagito, ma anche io feci un passo indietro.
- E con questo sono due. - dissi acida. - Vuoi fare la collezione, Lennon? -
Cominciai ad allontanarmi.
 - Se continui così - esordii - allontanerai tutti quelli che ti vogliono bene. Rimarrai miseramente solo. -
Camminai alla velocità più alta che la mia caviglia potesse sostenere e presto (ma non abbastanza) mi lasciai alle spalle Percy Street. 
C'era solo una persona da cui potevo andare in quel momento.
Paul venne ad aprirmi la porta di casa sua e, prima che potesse fare domande, sprofondai nel suo abbraccio, piangendo tutte le lacrime che avevo da piangere.
 

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Eccomi qui con il nuovo capitolo! Abbiamo fatto progressi rispetto allo scorso!
Devo dire che era da un po’ che mi girava in mente l’idea di un “tradimento del tradimento” (?) da parte di John e mi sono divertita molto a scriverlo.

Vi assicuro che farò di tutto per aggiornare con regolarità, anche se sto per cominciare un nuovo progetto, sebbene mi fossi ripromessa di non portare avanti due storie contemporaneamente.


Quella che ama i Beatles: come vedi, non c’è limite alla stronzaggine (?) di Lennon!!!!!!  Ma le sorprese non sono finite…

Cherry Blues: Fin da quando ho ideato la storia mi sono messa in testa un’idea precisa di come sarebbe stata Anna e a quella mi attengo. Sono felice che ci sia chi la trova interessante!
Constance: Oh, fidati che ho fatto un versetto peggiore quando ho letto la tua recensione!!! E come vedi, forse (e sottolineo bene il forse) siamo giunti ad una risoluzione definitiva della storia tra Anna e John, ma, come si dice, chi vivrà vedrà. (Grazie mille per i complimenti)

Weasleywalrus93: Sto condividendo il loro dolore, anche se in questo momento sto provando una grande rabbia contro Lennon (il bello è che faccio tutto da sola!). Forse con questo nuovo capitolo ho esagerato, ma mi sto sforzando il più possibile di rendere il personaggio di John verosimile.


(P.S. Scusate i commenti brevissimi, ma vado di corsa!)

Grazie di cuore a tutti quelli che continuano a leggere!

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Capitolo 24
*** 23. - Raunchy ***


Raunchy.
 




- Calmati, adesso. - mormorò piano Paul, senza sciogliere l'abbraccio, anche se le sue parole non sortirono effetto alcuno.
Mi sentivo una stupida per essermi presa una cotta per uno come Lennon e per aver creduto che potesse davvero ricambiare, stupida per essermi fidata di lui e avergli permesso di avvicinarsi così tanto al nucleo più segreto della mia anima.
Tirai su con il naso e mi asciugai le lacrime.
- Me lo sono meritata. - sussurrai. - Non avrei dovuto mettermi con lui, e questa è la giusta punizione. -
- Ma non dire cazzate! - esclamò Paul infervorandosi - Si è comportato da bastardo, a dir poco. Ma aspetta che gli parli...-
- Non farlo. - lo interruppi, pur senza incrociare il suo sguardo. Guardai fuori dalla finestra. - Non ha più importanza ormai.-

Più passava il tempo, più mi accorgevo che la disastrosa rottura con Lennon era stata un bene; non avendo più niente da nasconderle, trascorrevo pomeriggi insieme a Cyn molto più volentieri, anche se con minor frequenza, dal momento che mi ero progressivamente allontanata da tutti i suoi amici. Al contrario, passavo sempre più tempo con Paul e George, la cui compagnia apprezzavo molto, nonostante mi fossero giunte voci che qualcuno avesse commentato che adesso frequentassi  l'asilo.
"Meglio l'asilo che il riformatorio." avevo ribattuto tra me e me, ma non avevo detto nulla perché non mi importava più di ciò che lui pensava, né aveva alcun senso l'atto stesso di pensare a lui. Quando incontravo John per strada facevo semplicemente finta di non vederlo. Non volevo che suscitasse più alcuna sensazione in me, né tristezza né rabbia, anche se il più delle volte il mio cuore non poteva evitare di sussultare; io mi dicevo che era perché ero ancora infuriata con lui, ma era una balla colossale.
- Da quanto tempo è che non esci di sera, ragazza? - mi chiese Paul un pomeriggio che ero a casa sua. George, seduto sul letto, smise di colpo di suonare, quasi l'altro mi avesse domandato chissà che.
- Da un po'.- risposi, continuando a scrivere velocemente.
- Dovresti venire a vederci, 'sta sera. - propose Paul.
Lo guardai come se fosse impazzito:- Stai scherzando?! -
- No. -
- Tu sei matto! Non vengo a vedervi suonare! -
Non sarei andata a vedere John suonare!
- Avanti, Anna! Ci sarò anche io con te. - intervenne George avventandosi sull'ultimo biscotto rimasto.
- Pensaci, non è una cattiva idea: per prima cosa, mi vedresti suonare in modo serio, e non è una possibilità che hanno tutte le ragazze - continuò Paul - e secondo, dimostreresti di essere superiore rispetto a noi comuni mortali. -
- Se vieni ti do un biscotto. - aggiunse l'altro.
- Certo che fate schifo nell'arte coercitiva. - commentai con un sopracciglio alzato.
- E' un sì? - chiese speranzoso McCartney.
Mugugnai:- E va bene...- 

E fu così che mi ritrovai in un locale di sera, in mezzo ad una folla che si dimenava a ritmo di rock'n'roll, tra George, che osservava ogni mossa di ciascun membro dei Quarrymen come se si stesse facendo una radiocronaca mentale, e Cyn, la quale lanciava occhiate adoranti e innamorate al suo ragazzo, mentre questi tirava fuori tutte le sue doti musicali su una canzone di Elvis.
"Abbastanza monomaniaco il ragazzo." pensai, anche se dovevo ammettere che era dannatamente bravo.
Erano incredibili, lui e Paul; anche gli altri se la cavavano, ma i due era completamente su un'altra lunghezza d'onda. L'affinità che c'era tra loro sul palco era impressionante: sembravano fatti per suonare insieme. L'unica cosa che mancava loro era un chitarrista abbastanza abile da fare da solista.
E, improvvisamente, fui illuminata dalla Luce divina e capii la ragione della presenza di George. Sorrisi al mio amico e gli diedi una pacca sulla spalla, che lo risvegliò dallo stato di trance in cui era sprofondato all'inizio della serata; ero sicura che ce l'avrebbe fatta.
La serata continuò con numerosi canzoni e riuscii a godermela e ad apprezzare il talento sia di John che di Paul; certo che faceva un altro effetto sentire il mio amico che suonava in modo serio.
Dopo che i ragazzi ebbero finito di suonare, Cyn si fiondò tra le braccia di Lennon per ricompensarlo delle fatiche artistiche di quella sera e cominciò a baciarlo.
Rimasi lì impettita a fissarli, irritata e confusa da quello spettacolo indesiderato che pure avrebbe dovuto essere la normalità; non credevo che mi ci sarei mai abituata.
- Vieni fuori con me, guardona. - mormorò Paul, e mi prese per mano trascinandomi con sé velocemente e con molta nonchalance, così che quando Lennon si fosse staccato dalle labbra della sua ragazza avesse l'impressione che ce ne fossimo andati insieme senza degnarlo di uno sguardo.
Uscimmo dal locale e tirai una boccata d'aria.
- Stai bene? - domandò Paul, prendendo una sigaretta dal pacchetto. Gliene rubai una e aspettai che il mio amico le accendesse entrambe.
- Non devi continuare a preoccuparti per me. - dissi.
- Sei una mia amica, è ovvio che mi preoccupo per te. - replicò il ragazzo.
Sbuffai, buttando  fuori il fumo della sigaretta.
- Lo sai che è perché ti voglio bene. -
Sorrisi e scrollai le spalle, fingendo che non mi importasse della sua ultima affermazione. Paul mi tirò una gomitata ed io scoppiai a ridere.
- Comunque, tanto per la cronaca, siete bravini. - dissi, riferendomi alla loro esibizione.
- Solo bravini?! - esclamò il ragazzo, come se avessi detto una bestemmia. - Per questo insulto la pagherai cara, tesoro mio! -
Sapendo che non lo sopportavo, cominciò a farmi il solletico. Implorai pietà, ma Paul in risposta mi prese per i fianchi e mi caricò sulle spalle.
- Mamma, se sei pesante! - osservò subito dopo.
- Nessuno ti ha ordinato di fare il cretino in questo modo. - replicai - Sarà meglio che tu mi metta giù, James Paul McCartney, o scatenerai la mia Ira Funesta! -
Mentre ridevamo a crepapelle, Paul mi fece scivolare di nuovo a terra ed io mi ritrovai nel suo abbraccio.
Improvvisamente serio, il ragazzo mi accarezzò il volto: - Non voglio più vedere una sola lacrima su queste belle guance, siamo intesi? -
Lo disse con una dolcezza che mi lasciò senza parole, quindi mi limitai ad annuire, senza accorgermi che quel gesto portò il mio volto più vicino a quello di Paul. I nostri occhi, che prima erano incatenati gli uni negli altri, si chiusero nello stesso momento e le labbra si sfiorarono appena.
Non ci fu il tempo di approfondire quel bacio abbozzato, perché entrambi facemmo di colpo un passo indietro, contemporaneamente, quasi trasalendo.
Arrossii violentemente mentre il cuore pulsava impazzito; non osavo alzare lo sguardo per paura di vedere quale fosse la reazione di Paul.
Cristo, che idiota ero stata...
Ero sicura che quel gesto avrebbe rovinato la nostra meravigliosa amicizia come era successo con Stu, e avevo il timore che ora Paul si aspettasse da me qualcosa che non potevo dargli.
Gettando una fugace occhiata verso di lui mi accorsi che anche lui guardava fisso a terra. Ciò mi diede il coraggio di alzare gli occhi, che si incrociarono subito con quelli di lui, che aveva evidentemente avuto la mia stessa sensazione. Rimanemmo immobili senza proferir parola per lunghi secondi, poi, nello stesso momento, scoppiammo a ridere, sciogliendo ogni tensione.
Tirai un enorme sospiro di sollievo nell'accorgermi che nulla tra noi era cambiato.
- Torniamo dagli altri. - disse Paul prendendomi per mano. La liberai e gli tirai uno scappellotto:- Vedi di non saltarmi addosso, ragazzino arrapato! -
Tornammo davanti all'ingresso e trovammo tutti ad aspettarci.
- Eccovi, finalmente! - esclamò George - Stavamo per mandare i cani da ricerca! -
- Siamo qui. - mormorai, cercando di ignorare l'occhiata di fuoco che Lennon mi aveva rivolto dopo che ero ricomparsa insieme a Paul. Aveva persino la faccia tosta di essere geloso!
Il rombo di un motore si stava avvicinando e ben presto un autobus si fermò davanti a noi. I primi a salire furono Len e Pete, seguiti da Cyn.
All'idea di salire su un autobus, anche se vuoto, ebbi un tremito.
- Io vado a piedi, ci vediamo domani. - dissi annaspando.
John mi guardò malissimo, mentre sia Paul sia George mi prendevano per le spalle.
- Tu non torni a casa da sola, a piedi, di notte! - commentò il primo.
Contemporaneamente, George mi fece gli occhi dolci: - Dai, non puoi abbandonarmi adesso che devo suonare per cercare di entrare nei Quarrymen! Ho bisogno del tuo sostegno psicologico. -
- Ci sbrighiamo? - ringhiò Lennon salendo sul mezzo e prendendo posto.
Sospirai e guardai le porte dell'autobus come se fossero i cancelli dell'Inferno dantesco.
- Non accadrà niente, te lo prometto. - sussurrò Paul al mio orecchio.
Mentre George raggiungeva gli altri, mi aggrappai alla mano di Paul, poi, finalmente, mi decisi a salire, appena prima che le porte si chiudessero e l'autobus ripartisse.
- Dimmi di nuovo quanti anni hai, ragazzino. - disse John poco educatamente.
- Quindici. - rispose George imbracciando la chitarra di Paul.
Un abbozzo di risata sarcastica uscì dalle labbra di Lennon.
- Paul dice che sei bravo, quindi facci vedere quello di cui sei capace, prima che venga troppo tardi e la mamma ti mandi a letto. -
Sorrisi a George, invitandolo a lasciar perdere John e far finta di niente. Lui mi fece un cenno del capo, sfiorò appena le corde, poi cominciò.
I primi suoni uscirono dalla cassa della chitarra, riempiendo il silenzio dell'autobus vuoto.
Chiusi gli occhi e appoggiai la testa sulla spalla di Paul.
Le note scivolavano via, perfette e veloci, una dopo l'altra, in un susseguirsi armonioso ed incalzante: Raunchy.

Dopo quell'esecuzione impeccabile, all'inizio del luglio 1958, John accettò George nei Quarrymen.           
               

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Uhm, sono un po' in ritardo, lo so, ma più di così io non riesco a fare, perdonatemi!!!!
Comunque, questo capitolo è breve e non costituisce nulla di particolare: semplicemente, è un capitolo di passaggio ai due che costituiranno la fine della seconda parte della storia.
Come credo si noti (o forse no) ha molte affinità con il capitolo XII - Twenty Flight Rock, a partire innanzitutto dal titolo, che non è tratto da una canzone dei Beatles, ma da una che viene suonata all'interno della vicenda. Anche la frase finale è quasi identica a quella del suddetto capitolo, come a sottolineare che in entrambi l'evento principale è suppergiù lo stesso. Non so se tutto questo sproloquio vi possa interessare, ma boh... l'ho scritto lo stesso!


Quella che Ama i Beatles: Okay, il tuo tempismo è stato perfetto!! Infatti, avevo già da un po' deciso che tra Anna e Paul ci sarebbe stato un mezzo bacio (giuro che è stata un'idea spontanea, anche se la coincidenza è stupefacente) E sì, il nostro amato Lennon è di malumore in questo periodo...

Alla prossima!
Peace n Love.

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Capitolo 25
*** 24. - Julia ***


Julia.



L'estate giunse di nuovo, lenta e inesorabile, investendo Liverpool con un'ondata di afa che rese la città stanca e sonnacchiosa. Nemmeno i frequenti temporali riuscivano a riscuoterci da quel torpore, né potevamo immaginare che quei rovesci atmosferici precedessero una tempesta ben più grande.
Fu Cyn a venire da me, il quindici luglio, e dirmi che Julia era morta.
Quella notizia, giunta inattesa, sconvolse tutti quelli che avevano conosciuto la madre di John e riportò me e Paul in un vortice di sentimenti che conoscevamo fin troppo bene.
Era così ingiusto... Nessuno avrebbe dovuto esser privato della propria mamma, ma nella nostra vita sembrava essere diventata la normalità.

E così, un'altra volta, ci ritrovammo in un pomeriggio assolato dentro una casa affollata, vestiti di nero e con la morte nel cuore.
Mi guardavo intorno, osservando i disegni della tappezzeria, scrutando i volti delle persone che mi circondavano, senza riuscire a mettere a fuoco niente, come se un muro d'acqua mi separasse da loro, o un vetro appannato.
Eravamo tutti stretti in un angolo appartato del salotto, nel silenzio più totale. Io, Paul, George, Cyn, Stu,  tutti gli amici più stretti di John. Non osavamo che scambiarci di tanto in tanto qualche occhiata mortificata. Nessuno aveva il coraggio di proferir parola, figuriamoci andare da John e da Mimi. Cyn, appoggiata al muro, piangeva nascondendosi il volto tra le mani e Paul aveva lo sguardo vacuo, appannato quanto doveva esserlo il mio, smarrito in ricordi terribili e dolorosi. Fissai per lungo tempo il bordo della finestra, e sospirai in paio di volte, mi passai una mano tra i capelli, poi mi avvicinai a John e a sua zia, cui feci le mie condoglianze.
Quella fu una delle cose più difficili che feci nella mia vita, più arduo che recarmi al funerale della mia stessa madre; John era distrutto e quando gli rivolsi la parola fissò su di me il suo sguardo, senza vedermi per davvero. Potevo facilmente immaginare ciò che provava in quel momento.
Le persone che gli sfilavano davanti pronunciando parole vuote e di ben poco conforto, tutti che gli dicevano di essere forte e di non piangere... Ma come è possibile che la gente si aspettasse davvero che un ragazzo avesse la forza di mandare giù tutto senza battere ciglio? E soffocare le emozioni non faceva che peggiorare le cose, lo si vedeva chiaramente dal volto di John: era l'ombra di sé stesso ed era insopportabile vederlo in quello stato.
Ritornai dagli altri e presi la mano di Cyn, cercando di confortarla almeno un poco, anche se io ero la prima che lottava per trattenere le lacrime. Lentamente, uno dopo l'altro, gli amici di Lennon si alzarono e andarono da lui: prima i suoi amici di scuola, poi Stu, George, Cynthia ed infine Paul.
- Mi dispiace, Johnny. - sentii mormorare al ragazzo.
John esplose.
-  Sta' zitto! - gridò; si avvicinò a grandi passi all'angolo discosto in cui noi ci eravamo riuniti
Allarmati da quel momento di rabbia ci stringemmo intorno a lui.
- Non venite a dirmi che vi dispiace e altre cazzate, perché in realtà non sapete un cazzo di come ci si sente! -
Io e Paul ci guardammo; entrambi sapevamo che la situazione sarebbe peggiorata di lì a pochi minuti.
John, lo sai che non è così... - Cyn cercò di calmarlo, ma lui le rivolse un'occhiata che la convinse a tacere.
- Siete solo degli stronzi ipocriti! -
- Basta, John. - disse Paul; non c'era rabbia nella sua voce, e nemmeno il desiderio di rimproverarlo o di provocarlo ulteriormente, ma nello stato in cui era, John non se ne accorse.
Lo vidi sferrare un pugno, e un secondo dopo Paul si sbilanciò indietro portandosi una mano al naso sanguinante, ma fu sorretto da George e Stu. John ci rivolse un ultimo, furente sguardo, poi si allontanò con un gesto di stizza.
Guardai Cyn, per capire se aveva intenzione di seguirlo, ma lei era troppo sconvolta per fare qualsiasi gesto, tanto più per calmare il suo ragazzo. Non sapevo che cosa dovessi fare.
Mi voltai verso Paul per assicurarmi se stesse bene, ma lui mi rivolse un'occhiata per spingermi ad uscire a mia volta. Non me lo feci ripetere e corsi fuori.
- John! - lo chiamai una volta che fui in giardino.
Il ragazzo era in piedi in mezzo al prato, con i pugni talmente serrati che le nocche gli erano diventate bianche. A testa bassa fissava la terra e sembrò non accorgersi che l'avevo raggiunto.
Lo chiamai più volte, ma non mosse un muscolo. Lentamente cominciai ad avvicinarmi.
- John. -
Gli sfiorai una spalla con la punta delle dita, e quando vidi che non si ritraeva lo abbracciai. John cominciò a tremare violentemente e le sue ginocchia cedettero. Sebbene avessi cercato di sostenerlo, non ero abbastanza forte per tenerci su entrambi; ci accasciammo entrambi sul prato. Continuai a tenerlo abbracciato mentre lui si spostava leggermente, abbastanza da appoggiare la testa sul mio seno, come un bambino che si fa consolare dalla madre. Scoppiò in un pianto convulso.
- L'avevo appena ritrovata... - mormorò - Cristo! Già mi manca, Anna... -
Mi sentivo impotente davanti al suo dolore. Non sapevo cosa dire per consolarlo e sapevo che in ogni caso nessuna parola avrebbe potuto lenire la sua sofferenza. Sentivo le lacrime tornare a pungermi gli occhi. Perché dovevamo per forza soffrire in quel modo? Cominciai ad accarezzargli dolcemente i capelli, nel disperato tentativo di dargli conforto e di calmarlo almeno un poco.
- John... - sussurrai al suo orecchio, mentre le mie lacrime bagnavano i suoi capelli.
- Non ce la faccio, Anna. Non ce la faccio a sopportare tutto questo dolore. -
Trattenni a fatica il gemito che mi stava per uscire dalla gola e lo strinsi a me come se fosse la creatura più fragile dell'universo.
- Lei... non smetterà mai di mancarti; tutti i giorni tu starai vicino alla porta e la fisserai aspettando che torni da te. - dissi sottovoce - Ma posso dirti questo, John, e parlo per esperienza: il dolore passerà. Con il tempo si affievolirà e un giorno finalmente ti sveglierai e ti accorgerai che quel male talmente acuto da lacerarti l'anima se ne sarà andato. -
Nascosi il viso fra i suoi capelli e soffocai i singhiozzi.
- Non fare cose stupide, John! - lo pregai fra le lacrime - Non fare quello che stavo per fare io, ti prego. Lo so che ti sembra di essere da solo in balia del dolore, ma sei circondato di persone che ti vogliono bene... ti prego! Pensa a loro, a Cyn, a Paul, a Stu, a George... cosa farebbero senza di te? -
- Perché mi dici queste cose? - mormorò lui.
Non riusciva a calmare né il tremore né il pianto e stava diventando sempre più pallido. Cominciavo dentro di me ad essere davvero impaurita.
- Forse non sono la persona più adatta, in effetti. - risposi, ed il mio cuore si riempì di sollievo quando vidi che gli angoli della bocca del ragazzo, per un secondo, si erano leggermente incurvati. - Ma non posso lasciartelo fare, John. Non puoi chiedermi di rimanere sa guardare mentre ti spegni. -
- Perché no?! -
Respirai profondamente, sentendo il profumo dei suoi capelli, e cercai di calmare il pianto quanto bastava per rispondergli.
- Perché non importa quello che hai fatto o quello che farai: io ti amo, John Winston Lennon. -
 
______________________________

Sì, il titolo non è dei più originali, ma a mio parere è l'unico adatto per un capitolo del genere.
E' piuttosto corto, lo so, ma mentre lo scrivevo mi stavo deprimendo, così ho deciso di tagliare un po' di cose, per non renderlo troppo pesante da leggere. Spero di essere riuscita nel mio intento.


Cherry Blues: Quanto darei per essere stata lì a vivere gli anni della vera musica e del rock n roll! Hai proprio ragione quando dici che il pre-successo dei Beatles ha un'atmosfera magica, io la vedo fatta di locali semi bui, appestati dal fumo delle sigarette, loro che si sgolano per sovrastare il casino che c'è nel locale … Semplicemente magico! Ti ringrazio per i complimenti!!

Quella che ama i Beatles: come vedi, mi sto impegnando per essere regolare! (lo faccio per te, sappilo). Ebbene, in questo periodo Lennon mi sta facendo arrabbiare con il suo comportamento, ma chissà che forse adesso non si calmi. Comunque, devi spiegarmi come hai fatto a prendere più di 9 in matematica, perché il mio voto massimo è stato 6 e mezzo (non a caso sono andata al Classico … xD )

ImNialler: Be', ne sono orgogliosa, allora! E sì, John è fatto così (almeno nella mia storia): un giorno ama una cosa, il giorno dopo la odia, si incazza subito con la stessa velocità con cui si appassiona. Insomma, una specie di bipolare! Alla prossima!


Peace n Love.
 

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Capitolo 26
*** 25. - Anna (go to him) ***


 

Anna (go to him).
 




Erano passati tre giorni dal funerale di Julia, ma di John non si era vista nemmeno l'ombra.
Per quanto ne sapevamo noi, da allora non era uscito di casa né permetteva a chi cercava di andarlo a trovare di entrare in casa. Sia Paul, sia Cyn, sia Stu ci avevano provato, ma il loro insistere era stato vano.
Ero così preoccupata per lui; giravo per la casa, senza riuscire a fermarmi nello stesso porto per più di cinque minuti. Ero tormentata dalle parole che John aveva pronunciato nel giardino il giorno del funerale e non potevo trovare pace.
"Perché ti comporti così, stupido?" pensavo nel frattempo.
Mi appoggiai contro il vetro della finestra del salotto, guardando fuori. Era calato il buio e la luce dei lampioni illuminava la notte uggiosa.
E perché diavolo Mimi lo lasciava comportarsi così?!
Scossi la testa, affranta. Di certo ero l'ultima persona ad avere il diritto di criticare il comportamento di John.
- Tesoro - mi chiamò Elisabeth alle mie spalle. - Che cosa c'è?-
Mi voltai e la guardai negli occhi.
- C'è che non si fa più vedere né sentire da giorni ormai.- risposi.
- Chi, John?- mi chiese ed io annuii abbassando lo sguardo. - Cara, ha appena perduto la mamma, dagli tempo. Ognuno ha il suo modo di reagire al dolore e forse questo è il suo.-
- Non è il tipo da chiudersi in casa, Elisabeth. E' il tipo che quando soffre si ubriaca e va a fare il cazzone in giro. - dissi con franchezza; non c'erano altre parole per descrivere il comportamento di John quando beveva troppo.
La mia mente si affollò di pensieri. Rialzai gli occhi, rivolgendo a Elisabeth  uno sguardo pieno di terrore :-E se gli fosse capitato qualcosa? Se stesse pensando di...-
Rabbrividii e mi portai una mano a coprirmi le labbra. La mia madre adottiva mi abbracciò.
- Sono sicura che sta bene. Da quello che mi racconti non è il tipo da fare certi pensieri. Ma se sei così preoccupata per lui, perché non vai da lui? -
Io scossi la testa: -Ha rifiutato di vedere Paul! Paul, capisci? Non accetterà mai di vedermi.-
-Tesoro, io non posso decidere né per te né posso prevedere quello che farà lui, ma cos'hai tu da perdere? -
Mi sorrise, poi si allontanò. Tornai a guardare fuori dalla finestra.
"E se mi scacciasse?" pensai. Mi morsi un labbro "Cristo! Ma da quand'è che ti fai tutti questi problemi quando si tratta di aiutare un amico, me lo dici?!"
Guardai l'orologio appeso in cucina. Era troppo tardi perché ci fosse ancora un autobus che potesse portarmi fino a Mendips.
- Fanculo! -imprecai sottovoce, poi alzai il tono, in modo che Elisabeth e James mi sentissero - Io esco!-
Senza prendere neanche il cappotto, uscii e nella foga del momento sbattei la porta di casa alle mie spalle. Cominciai a correre.
Non ero brava nella corsa, non lo ero mai stata: mi stancavo dopo un minuto e non ero nemmeno veloce, tuttavia quella sera, sebbene fossi sfinita e mi bruciassero i polmoni ancora prima di arrivare a metà strada, continuai a correre più veloce che potevo.
Quando vidi Mendips rallentai, ma non mi fermai finché fui davanti alla porta della casa di John.
Mi appoggiai allo stipite della porta e mi piegai leggermente per respirare meglio.Stavo ancora ansimando parecchio quando Mimi venne ad aprirmi. La donna mi guardò di sbieco, aggrottando le sopracciglia, ma io non le diedi il tempo di parlare.
- Scusi per l'ora. - dissi - Ma la prego, Mimi, mi permetta di vedere John. -
Stavo per piangere e di certo non perché ero sfinita. La zia di John se ne accorse e annuì lentamente, scostandosi dall'uscio e facendomi cenno di entrare.
- E' in camera sua.- mi informò indicandomi le scale.
Sebbene fosse la prima volta che mettevo piede in quella casa, non fu difficile ritrovare la camera di John.
Bussai lentamente.
-Vattene, Mimi. Voglio stare solo.- mi rispose la voce del ragazzo.
Non potei impedire al mio cuore di tirare un enorme sospiro di sollievo: John stava bene, almeno fisicamente.
 Appoggiai la mano sulla maniglia e lentamente aprii la porta quel minimo indispensabile per sgattaiolare dentro la stanza, poi la richiusi alle mie spalle. John era rannicchiato in un angolo della stanza, con la sua amata chitarra appoggiata davanti a sé. La fissava in un modo strano.
-Ti ho detto che voglio rimanere solo!- esclamò alzando lo sguardo.
Quando mi vide sgranò gli occhi nocciola e rimase per un secondo con la bocca semi-aperta. Ma fu solo per un momento.
- Che cazzo ci fai tu qui?-
- Ciao, John. Anche io sono contenta di rivederti.- risposi e lui mi guardò furente.
Ignorai il suo sguardo e mi avvicinai, sedendomi di fronte a lui.
-Vattene, Anna. -
Presi la sua chitarra e sfiorai le corde.
- Fino alla settimana scorsa saresti inorridito al solo pensiero di vedere la tua chitarra trattata in questo modo. E' completamente scordata.-
- Sei sorda? Ti ho detto di andartene! - John cominciava ad alzare la voce, ma almeno, dal momento che non era uscito di casa, ero sicura che non fosse ubriaco.
-Non posso, John. - replicai tranquillamente mentre riaccordavo la chitarra.
- Perché? Dimmi quel cazzo di motivo che ti impedisce di lasciarmi in pace. Non so se l'hai capito, ma io non ti voglio qui!- mi urlò contro.
- Voglio assicurarmi che tu stia bene. Siamo tutti così preoccupati per te. - dissi.
Mi alzai per appoggiare la chitarra dall'altra parte della stanza, poi mi riavvicinai a John, pur rimanendo in piedi.
- Perché non potete lasciarmi in pace per una volta nella mia vita!- si alzò a sua volta.
Stava cominciando a irritarmi.
- Perché con il tuo comportamento ci stai facendo dannare tutti quanti, stronzo egocentrico che non sei altro!- replicai, alzando il tono. - Ti sembra questo il modo di reagire?!-
- Oh, ma da che pulpito! - gridò John.
Fece per allontanarsi, ma io gli bloccai il passaggio. Lo vidi furente e mi accorsi che stava alzando un braccio, pronto a colpirmi, ma io fui più veloce, gli afferrai le spalle e lo spinsi leggermente. Colto alla sprovvista, indietreggiò fino a toccare la parete. Prima che potesse reagire gli misi entrambe le mani sulle guance e lo guardai negli occhi.
- Guardami! - gli ordinai. - E' proprio per questo che sono io a dirti queste cose, non lo capisci?  Dio, John! Sono terrorizzata dall'idea che tu possa reagire nel modo più sbagliato, come ho fatto io! Il mondo è un bel posto;  so che a volte non lo sembra, ma lo è. E sei stato tu a farmelo capire, quindi è ora che ti ficchi questo concetto in quel cervello sottosviluppato! -
Stavo piangendo e facevo fatica a respirare; anche se John sembrava essersi calmato, ero disperata. Sentimenti troppo contrastanti si combattevano nel mio cuore. Mi allontanai da lui e gli diedi le spalle.
- Vuoi che me ne vada? - mormorai asciugandomi le lacrime.- Me ne vado. -
Mi voltai di nuovo e lo guardai.
- Ma tornerò. Domani, e il giorno dopo, e il giorno dopo ancora, finché non ti deciderai a riscuoterti da questa autocommiserazione che ti sei imposto con la forza. Te l'ho detto e te lo ripeto: non starò a guardare.-
John mi guardava, con gli occhi spalancati e il labbro inferiore che tremava. Stavo per girarmi, ma all'ultimo lui mi prese per il polso.
- Anna - mormorò senza staccare gli occhi dai miei. Lo sguardo che mi rivolse mi sciolse il cuore. In quel momento mi stava permettendo di guardare la sua anima.
Mi avvicinai e lo abbracciai.
In quel momento aveva accettato di togliersi l'armatura dietro la quale celava il suo vero se stesso. Ripeté ancora il mio nome, poi ricambiò la stretta.
In quel momento non era che un ragazzo che aveva un disperato bisogno d'amore.
- Non abbandonarmi anche tu, Anna...- sussurrò John al mio orecchio. Io lo guardai negli occhi, lasciando che la mia anima affiorasse in quello sguardo in modo che lui potesse vederla.
- Non lo farò, John. Non ti abbandonerò mai, te lo prometto. -
Mi accarezzò lentamente la guancia , poi si chinò leggermente su di me, sfiorando il mio naso con il suo. Mi strinse appena il volto fra le mani, poi posò le sue labbra sulle mie.
Intrecciai le mie dita nei suoi capelli, mentre le sue mani scendevano dal volto alla schiena e mi stringevano a lui. Fu un bacio disperato e bagnato dalle lacrime, le mie e le sue, che si mescolavano laddove le nostre bocche si univano. Ci separammo solo  per riprendere fiato e lui mi asciugò le lacrime.
- Questo ti basta per convincerti che voglio riscuotermi "da quest'autocommiserazione che mi sono imposto con la forza"?- chiese facendomi il verso e riprendendo il suo solito atteggiamento strafottente e dannatamente sexy, che mi faceva impazzire.
- Stupido.- sussurrai tirandogli una pacca sulla spalla.
- Allora, mi rispondi?- insistette lui.
- Sta' zitto.- gli ordinai e per farlo tacere gli presi il volto tra le mani e lo baciai. Lui ricambiò con trasporto e quel bacio si fece via via sempre più appassionato. Sentii la lingua di John insinuarsi fra i miei denti e iniziare con la mia una danza sensuale che non faceva altro che accrescere il mio desiderio di stringere John a me.
Sorrisi involontariamente.
- Che c'è?- chiese lui guardandomi ridere.
-Niente, stavo solo paragonando questo al nostro "primo" bacio.- mormorai; stranamente, mi era tornata in mente quella festa alla quale ci eravamo conosciuti, che ora sembrava lontana anni luce.
Sorrise a sua volta :- All'epoca ero un coglione. -
-Perché, adesso non lo sei più?- lo stuzzicai appoggiando le mani sulle sue spalle.
Lui mi guardò per un secondo, con un'espressione divertita. Trattenni il fiato: era di una bellezza sconvolgente.
Cingendomi per i fianchi mi spinse dolcemente contro la parete. Le nostre labbra si unirono in un terzo bacio, molto più sensuale rispetto ai precedenti. Non mi ero mai sentita in quel modo in vita mia.
John cominciò a darmi dei piccoli baci sul viso, poi scese sul collo, sfiorando la mia pelle con i denti. Le sue mani scivolarono sotto la maglietta e cominciarono ad accarezzarmi il ventre provocandomi dei brividi di piacere; iniziava a mancarmi il respiro.
- John...- mormorai socchiudendo gli occhi mentre lui stava per sfilarmi la t-shirt. Il ragazzo si allontanò subito da me.
-Merda! Scusa, Anna. Io non volevo... cioè sì ... non so perché l'ho fatto.-  tentò di scusarsi.
Io lo guardai, senza riuscire a reprimere un sorriso. Era la prima volta che lo vedevo così impacciato ed era una visione davvero spettacolare.
Mi avvicinai a lui, ma non dissi niente. Gli accarezzai la guancia con il dorso della mano, poi presi le sue mani nelle mie, le avvicinai al mio corpo e feci loro stringere la maglietta. Lo guardai negli occhi, mentre lo guidavo per farmi sfilare la t-shirt.
- Anna, cosa stai facendo?- chiese lasciando cadere la maglietta sul pavimento.
Io abbassai lo sguardo. Ora che ero in reggiseno davanti a John toccava a me essere in imbarazzo.
- Io... io so che non sono vergine... insomma, non fisiologicamente. - mormorai mentre il mio volto assumeva una colorazione della tonalità più accesa del porpora - Ma... è come se lo fossi no? Io voglio che sia tu a... Al diavolo: sono una scrittrice e per una volta che mi servono , non riesco a trovare delle parole che...-
Lui mi tappò la bocca con un dito e mi accarezzò le labbra. Poi scese con la bocca a baciarmi il collo, mentre una mano scorreva ad accarezzarmi la nuca e l'altra mi accarezzava il seno. Io mi strinsi a lui più che potevo. Mi accarezzò la schiena, poi slacciò i gancetti del reggiseno. Lo prese e me lo sfilò delicatamente, poi si fermò a guardarmi, ma pur essendo mezza nuda sotto il suo sguardo, mi sentivo perfettamente a mio agio. Decisi di prendere l'iniziativa e gli sfilai a mia volta la maglietta, poi gli diedi dei piccoli baci sul petto nudo, provocandogli dei brividi. Mi baciò di nuovo e le sue mani cominciarono a esplorare il mio corpo. Indietreggiai di qualche passo e lui, senza smettere di baciarmi, mi condusse verso il letto, facendomi sdraiare sotto di lui. Ci spogliammo degli ultimi vestiti che separavano i nostri corpi e lui si fermò ad osservarmi. Sfiorò una ad una le mie cicatrici e le baciò: prima quella piccola sopra l'occhio, quella sul collo, sui seni, sul ventre e infine quelle sulle cosce e sulle gambe.
- Sei bellissima, Anna. -
Io sorrisi, accarezzando il suo volto . Era splendido.
Gli passai una mano tra i capelli, poi gli feci abbassare la testa e lo strinsi a me.
Mentre John mi mordicchiava con dolcezza i seni sentii la sua mano scendere lungo le cosce e insinuarsi fra le mie gambe. Cominciai a sospirare e inarcai leggermente la schiena. In quel momento, tra le sue braccia, mi sentivo davvero felice.
Tuttavia, quando sentii il desiderio del ragazzo avvicinarsi al mio corpo, chiusi gli occhi e strinsi i pugni, sopraffatta per un attimo dai ricordi, che si stavano sovrapponendo alla realtà.
- Anna... non sei obbligata a farlo.- sussurrò John al mio orecchio, vedendomi in quell'attimo di paura. Io riaprii gli occhi.Mi sentivo una stupida: non volevo rovinare quel momento, non per colpa di quell'uomo.
Incrociare il suo sguardo pieno di dolcezza, di amore,  bastò a calmarmi.
- Tu ti sei già preso il mio cuore, John. Ora voglio donarti la mia anima.-
- Ti farà male.-
Io risi in un modo malinconico :- Non più male di quanto mi facesse lui.-
Scacciai in fretta quei pensieri e per evitare che John replicasse ancora  lo baciai.Mi accarezzò ancora per qualche minuto, come per assicurarsi che io mi fossi calmata, poi, finalmente, ci unimmo.

Quella notte mi addormentai fra le sue braccia.
Mi svegliai soltanto quando sentii la sua mano accarezzarmi la schiena e scoppiai a ridere. Lui rimase sorpreso e mi guardò per un attimo, senza sapere che stessi facendo.
-Soffro il solletico!- esclamai contorcendomi, cercando di allontanarmi dalla mano di lui. A quel punto John rise a sua volta, e cominciò a farmi il solletico ovunque.
- Basta, John, per favore!- lo implorai. Lui si fermò e sorridendo mi fece sdraiare al suo fianco. Mi accarezzò il volto. Io gli baciai gli angoli della bocca.
-Te ne sei accorta?- mi chiese sottovoce - Niente incubi 'sta notte.-
Io annuii :- Tutto merito tuo.-
Appoggiai la testa sul suo petto e mi lasciai cullare dal suo respiro regolare, accarezzandogli il petto.
- John, io lo so che non lascerai mai Cyn per me. - mormorai.
Mi guardò sorpreso che volessi affrontare quell'argomento in quel momento.
- Ma non mi importa, a me basta che tu mi lasci rimanere al tuo fianco. - continuai.
Lui alzò il busto e si chinò su di me ma io mi scostai un poco. I nostri volti erano vicini, ma non permisi che le labbra si incontrassero.
-L'unica cosa che ti chiedo, John è... per favore, non andare con nessun'altra oltre a Cyn e a me. -
Lui sorrise per un momento, poi si fece di nuovo serio :- E tu accetteresti di diventare la mia amante? Vuoi troppo bene a Cyn e sei troppo orgogliosa per farlo.-
Mi morsi il labbro. - Io non so come andranno le cose, però ieri sera ti ho fatto una promessa, e voglio almeno provare a mantenerla. -
Richiusi gli occhi, ma un attimo prima di riaddormentarmi mi resi conto che svegliarmi nuda, tra le braccia di John, infilata nel suo letto non era esattamente la normalità.
Mi misi a sedere, badando bene di coprirmi con la trapunta.
- Ma che ore sono? E... oh, cazzo... Mimi! - esclamai.
John si tirò su a sua volta e mi accarezzò le spalle:- Rilassati, è domenica. A Mimi ci penso io, anche se credo che d'ora in poi sarai bandita da questa casa. Pensi di riuscire a sopravvivere? -
Mi strinse a sé e mi baciò il collo.
- Ti lascio rivestire, poi ti riaccompagno a casa. - disse in seguito.
Fece per alzarsi, ma lo fermai e lo costrinsi di nuovo sul letto. Gli salii sulle ginocchia e lo baciai con passione. Un secondo dopo ci ritrovammo di nuovo avvinghiati l'uno all'altra.                                              Ci ero ricascata.
Ero una folle, ma non potevo farne a meno. Ero tornata in quel vortice di amore e segretezza, passione e sotterfugi, sapendo che ora non sarei più riuscita ad uscirne. Ero una peccatrice drogata del suo peccato, e non avevo alcuna intenzione di redimermi.

______________________

Salve. Eccomi tornata solo per voi!
Come già anticipato, questo capitolo conclude la prima parte della storia, e nel prossimo vi dico già che ci sarà un grande salto temporale...
(Scusatemi, vado di corsa, e non ho il tempo materiale per soffermarmi sul commento)


SlowDownLiz: Non ho nient'altro da dirti se non che sono davvero onorata e commossa dalle tue parole. Senz'altro uno dei più bei complimenti che mi siano mai stati rivolti, anche se io per prima ammetto che ho tantissime cose ancora da imparare. Sappi che mi hai resa felice J

Cherry Blues : Be', in realtà, mi sono sempre immaginata uno scoppio d'ira di John in questo frangente, poiché nella mia testa questo è il modo in cui lui reagisce ai dolori intensi. In ogni caso, questo capitolo è davvero vecchio, tanto che l'avevo già scritto alla fine di giugno ( ho il brutto vizio di scrivere scene che sono distanti anni luce l'una dall'altra) e all'epoca non avevo ancora visto Nowhere Boy J

Quella che ama i Beatles: Sì, è la prima volta che Anna glielo dice, perché quello è il momento in cui lei si accorge che il sentimento che prova per John va ben al di là del semplice piacersi. Infatti, nelle mie storie cerco sempre di distinguere tra l'amore e una semplice cotta da adolescenti, poiché confesso che mi dà un po' fastidio quando si esagera con i "ti amo". (Comunque, neanche John le ha ancora detto esplicitamente che la ama)

ImNialler: Grazie mille per le tue recensioni e i tuoi complimenti, e sono contenta che i miei scritti abbiano sugli altri lo stesso effetto che hanno su di me! Alla prossima!


Peace n Love.
 

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Capitolo 27
*** 26. - Rock n Roll Music ***


Rock n Roll Music.

 

1960.

 
L'aria fresca che tirava sul mare faceva agitare le onde. Sospirai appoggiandomi al parapetto del traghetto e guardai l'orizzonte. Non ero mai stata così lontano da casa, né mi ero mai trovata in mare tanto aperto, e ne ero affascinata. Eravamo a metà della traversata della Manica e non si vedeva niente, se non acqua, da qualsiasi parte si guardasse. Non ci sarebbe voluto ancora molto prima che sbarcassimo e cercavo di godermi la tranquillità del mare finché potevo.
Ero un po' preoccupata riguardo al fatto che non avevo idea di cosa mi aspettasse una volta arrivati a destinazione, dal momento che nessuno mi aveva dato dettagli precisi.
Ancora non sapevo in che modo mi fossi fatta trascinare in quel viaggio, ma probabilmente la cosa era da imputarsi agli occhi dolci di Paul, a una decina di biscotti della mamma di George, e al solito stronzo di John che mi aveva sfidato ad andare con loro. Non altrettanto facile era stato convincere James ed Elisabeth a lasciarmi partire.
- Conoscete i ragazzi, lo sapete che sono tipi a posto. - avevo replicato ai loro dubbi - Io starò bene, e vi telefonerò tutte le settimane! -
I miei genitori erano stati alquanto scettici, così avevo dovuto insistere per oltre un mese.
- E poi la mamma di George ha detto che se non vado io non lo lascia andare, e il gruppo non può fare a meno del chitarrista solista. - avevo aggiunto. Infatti, anche se mi illudevo che mi avessero proposto di andare con loro perché apprezzavano la mia compagnia e volevano rendermi partecipe di questa importante esperienza, lo scopo della mia presenza era essenzialmente quello di fare da babysitter.
Alla fine, avevo lavorato sodo per settimane, fatto un sacco di straordinari e risparmiato ogni centesimo, così da potermi pagare il viaggio e avere un po' di soldi da portarmi dietro per ogni evenienza.
- La tua anima romantica non può fare a meno di godersi lo spettacolo, non è vero? - chiese Stu affiancandomi e spostando anche lui lo sguardo sull'orizzonte.
- Ti sei preparato mentalmente? Tra poche ore saremo a destinazione. -
Stu sorrise:- Ho dei buoni presentimenti riguardo a questo viaggio. -
- Sono contenta che ci sia anche tu. - gli rivelai con sincerità.
Nei due anni precedenti Stuart ed io avevamo avuto modo di riavvicinarci nuovamente, e ora il nostro rapporto era stretto come lo era stato all'inizio della nostra amicizia. Ne erano successe di cose, in quei due anni, e il fatto che ci stavamo dirigendo praticamente al buio nella tana del nemico (come diceva sempre John) ne era la prova. Il gruppo aveva subito molte trasformazioni, perso quasi tutti i membri e per un certo periodo si era ridotto ai solo John, George e Paul; poi, poco prima di partire, i ragazzi avevano preso Stuart come bassista e un certo Pete Best come batterista. Quest'ultimo era l'unico membro della band che non conoscessi bene e per quanto cercassi di essere gentile con lui, non si poteva certo dire che stessimo legando.
La mia storia con John era tanto instabile come quella del gruppo: entrambi avevamo un carattere forte e pieno di orgoglio ed era a causa di questo che litigavamo:  la nostra relazione non era certo una di quelle tutte cuoricini rosa e zuccherini; io e John passavamo il tempo assieme a punzecchiarci a vicenda e a scherzare, ma qualche volta uno di noi, punto sul vivo e con l'orgoglio ferito, si offendeva a morte con l'altro. Quando ciò accadeva né io né lui volevamo abbassarci a chiedere scusa, anche se quasi sempre, alla fine, uno dei due cedeva e ci riappacificavamo. Un paio volte avevamo litigato davvero e avevamo serbato rancore l'uno per l'altra per mesi, e ne eravamo venuti fuori a stento.
- Raggiungiamo gli altri? - propose Stu.
- Volentieri. - risposi.
Meno di un'ora dopo sbarcammo e cominciammo il viaggio sul furgoncino scassato che il nuovo manager dei ragazzi (Allan Williams)  aveva fornito loro, con destinazione Amburgo.

Eravamo in auto da parecchio tempo e l'iniziale euforia cominciava a diminuire lentamente. Stu guidava mentre Pete, che gli era accanto, reggeva la cartina. Io e John, Paul e George eravamo dietro, seduti per terra fra gli strumenti perché il furgone non aveva i sedili.
- Sei preparata per quello che ci aspetta? - chiese John.
Corrucciai le sopracciglia:- In che senso? -
- Non staremo esattamente nel quartiere più lussuoso di tutta Amburgo.-
- E...?- domandai,cercando di capire dalla sua espressione che cosa intendesse dire, anche se probabilmente non avrei voluto saperlo davvero.
- Staremo nel quartiere a luci rosse. - disse Paul come se fosse la cosa più naturale del mondo.
Una risata incredula uscì dalle mie labbra:- Avreste potuto aspettare ancora un po' a dirmelo! Questo James non dovrà venire a saperlo. -
- Non vuoi che scopra che ragazzaccia è sua figlia? - mormorò John al mio orecchio.
- No, è meglio che non sappia che mi stai traviando in questo modo, o dovrai cominciare a guardarti le spalle. -
- Oh, Geo, sei proprio un cattivo ragazzo: finirai per rovinarmi la reputazione! - esclamò Paul in falsetto, abbracciando l'altro con gesti teatrali.
- Paulie, non preoccuparti! Affronterei ogni pericolo per te, anche una banda di crucchi inferociti. - continuò George sulla stessa falsariga.
- Che bambini... - commentai fra l'ilarità generale cercando di dissimulare l'imbarazzo. John, ridendo, mi circondò le spalle con un braccio e mi strinse a sé.
Il viaggio procedette tranquillo, tanto che dopo un po' quasi tutti si addormentarono.Mi appoggiai al finestrino e guardai il panorama scorrere velocemente intorno a me.                                                       
Giungemmo ad Amburgo che era notte. L'asfalto era bagnato e la luce dei lampioni e dei fari delle auto si rifletteva sulla strada creando un'atmosfera irreale. C'erano ancora parecchie persone per strada e man mano che ci avvicinavamo alla nostra meta il loro numero aumentava sempre di più; nella nostra fantasia d'inglesi, ci immaginavamo la Germania come un paese di edifici tristi e squadrati con soldati ad ogni angolo della strada, mentre Amburgo -per lo meno alla prima occhiata- sembrava pulsare di vita. Entrammo in una strada illuminata a giorno, il cuore del quartiere a luci rosse, ma svoltammo subito in una traversa e poco dopo Stu si fermò davanti ad un locale chiuso.
- Secondo le indicazioni del signor Williams dovrebbe essere questo il locale. - disse Stu.
- Non mi aspettavo di certo una festa di benvenuto, ma almeno un tizio ad aspettarci... - commentò George.
- Andiamo a cercare il crucco, allora. - sentenziò John, poi si rivolse a me - Tu che fai, vieni con noi o resti qui? -
- Rimango qui di fianco al furgone. - risposi scendendo dal veicolo.
 John mi diede un bacio sulla guancia, poi lui e gli altri cominciarono a studiare il locale. Avendo appurato che dentro non c'era nessuno, sparirono nel locale affianco.
Sospirai e mi guardai intorno. La via, il cui nome avevo rinunciato a pronunciare , era affollata da ogni genere di individui: c'erano quelli che sembravano marinai in licenza, con la pelle bruciata dal sole e le mani segnate dal duro lavoro nei cantieri navali, alcuni dei quali potevano persino essere inglesi; gruppi di tedeschi ubriachi venivano respinti all'entrata dei locali da giganteschi buttafuori, uomini che aderivano perfettamente alla nostra idea di crucchi. In mezzo alla strada drappelli di giovani che non potevano avere più di trent'anni camminavano fra facce losche, travestiti e puttane. La folla, il rumore e le luci facevano sì che guardassi quella scena senza prendervi parte: era come osservare i pesci di un acquario tropicale pieno di coralli e rocce colorate.
Socchiusi gli occhi; alla lunga quella confusione stordiva.
Forse era quella la fonte del fascino del quartiere: era una sorta di limbo al neon, un vortice di luci e donne mezze nude, un parco divertimenti per mangiatori di loto.
Passarono parecchi minuti prima che i miei amici tornassero, preceduti da un tedesco basso e dalla mascella squadrata, che aveva dipinta sul volto un'espressione molto seccata, che si fece ancora più evidente quando si accorse di me.
- Quella chi è?- chiese con un forte accento.
- Un'amica. - rispose sbrigativamente John, la cui espressione non era meno truce di quella dell'uomo. Questi sollevò un sopracciglio e borbottò qualcosa in tedesco, poi aprì il locale e ci fece entrare. Guardai confusa Paul, il quale mi bisbigliò che avremmo passato la notte lì.
- Che meraviglia... - mormorai sarcastica quando vidi lo squallido interno del locale.
Di fronte a noi c'era un piccolo palco, davanti al quale erano sparsi in modo confuso una decina di tavolini; da un lato, invece, c'era il bancone del bar, dietro cui erano attaccate al muro numerose mensole con sopra delle bottiglie, mentre alla parete opposta erano addossati dei divanetti con il rivestimento di pelle logora laccata di rosso. Non erano niente di speciale, ma almeno erano qualcosa su cui sedersi.
Il padrone del locale uscì e ci chiuse dentro.
- Che mostro di simpatia. - osservai ironica.
- Che mostro e basta! - ribatté George.
- Voleva essere filologico e darci un vero benvenuto crucco. - aggiunse Paul lasciandosi cadere su uno dei divanetti.
- E pensare che ha un nome così simpatico...- disse John.
- Perché, come si chiama? - chiesi incuriosita.
- Bruno! - rispose il ragazzo facendo una vocina effemminata
- Non è che sia così simpatico, come nome... - replicò Stu. 
Ridemmo tutti insieme, e perfino Pete si unì a noi nel prendere in giro il crucco, nonostante dovesse essere molto dura inserirsi in un gruppo di amici tanto legati come lo erano George, Paul, John e Stu.
Sparammo qualche altra cavolata, poi, stravolti, ci accasciammo sui divanetti.
Non so bene quello che sognai né quello che successe, sta di fatto che quando mi svegliai sentivo male al collo e alla schiena. Aprii gli occhi e mi accorsi che senz'alcun dubbio non ero più sul divanetto.
- Ma dove...- mormorai ancora assonnata.
Feci per tastare con una mano il pavimento che mi era intorno, ma ad un certo punto incontrai il vuoto. Mi sbilanciai da un lato e, impegnata com'ero a cercare di non cadere, non mi accorsi di Paul, che dall'altra parte del locale annunciava a tutti che mi ero svegliata. Il rischio di precipitare mi svegliò definitivamente, e finalmente presi coscienza del fatto che mi trovavo sopra il bancone del bar.
- Ah, ah... la nostra Anna è una sonnambula e ha approfittato della notte per svaligiare la fornitura di alcolici del bar... - mi prese in giro Stu.
- Certo, come no. - dissi.
- E' inutile che neghi la verità, ti abbiamo colta in flagrante. - continuò George.
Scrollai le spalle e scesi dal bancone, stiracchiandomi.
- Vorrei sapere come sono finita lì sopra. - borbottai.
Tutti guardarono da un'altra parte, tranne George che non riuscì a trattenersi dal lanciare una fugace occhiata a John.
 Mi rivolsi verso il mio ragazzo:- Sei stato tu! -
- E Paul. - si affrettò a precisare  mentre gli tiravo un pugno indispettito contro la spalla.
- Volevamo vedere se ti saresti svegliata. - spiegò il più giovane dei due, poi fece una pausa molto enfatica. - Non ti sei svegliata. -
- Avete l'età mentale di due bambini di due anni! - esclamai.
- Tu invece sei molto più matura!- replicò John con ironia. In risposta gli feci una linguaccia.

Proprio quando cominciavo a credere che saremmo stati segregati in quel locale in eterno, arrivò il tedesco della sera ad aprirci; era di umore un pochino migliore e ci salutò persino.
- Da questa sera alloggerete al Bambi Kino. - ci annunciò, poi diede a John un foglietto. - Questo è l'indirizzo.-
Quando il crucco se ne fu andato decidemmo di fare un giro per la città. Ora che c'era il sole riuscii a leggere sui cartelli il nome della via; di giorno la  Reepherbann era completamente diversa: sembrava una semplice via cittadina, non diversa da tutte le altre. La percorremmo per intero come se stessimo passeggiando per le vie di Liverpool, poi cominciammo ad andare a zonzo per la città. Alla prima cabina telefonica che vidi mi fermai, suscitando le lamentele di George e Paul, che volevano andare direttamente a fare colazione, ma ricordai loro che i miei genitori mi avevano permesso di andare ad Amburgo solo con la promessa che li avrei chiamati molto spesso. Dopo che ebbi assicurato James di stare bene ed essermi scusata per non averli chiamati la sera prima, ci precipitammo in una panetteria per comprarci qualcosa da metterci sotto i denti, quindi per mangiare ci sedemmo in una panchina in un parco.
Mentre eravamo lì al sole sembrava di essere in una gita scolastica, anche se avevo la sensazione che non sarebbe durata ancora a lungo in quella maniera. I ragazzi erano venuti lì per lavorare, e anche io avevo intenzione di trovare un impiego temporaneo. Inoltre, ero curiosa a quel Bambi Kino.
- Non mi suona bene. - osservai.
- Anche se non è un albergo extra lusso, che importanza ha? - disse John.
- Giusto, tanto dovremmo solo passarci una manciata di mesi! - sembrava che fossi l'unica a preoccuparsi del posto nel quale avremmo alloggiato.
- Tanto passeremo la maggior parte del tempo all'Indra. - era la loro giustificazione.
Passammo buona parte del pomeriggio a zonzo, ma quando cominciò ad avvicinarsi l'ora in cui i ragazzi avrebbero dovuto iniziare a suonare ci accorgemmo di esserci completamente persi. 
Tutte le indicazioni erano in tedesco, quindi erano totalmente inutili per noi.
- Qualcuno sa per caso utilizzare le stelle per orientarsi? - chiese Stu con ironia.
- Non credo, ma comunque ora che venisse notte saremmo in ritardo e il signor Koshmider si vendicherebbe. - osservò George.
- Conoscendolo potrebbe far sedere uno dei sui crucchi “tutti muscoli-niente cervello” su di noi fino a farci rompere le ossa. - disse John con un'ostentata enfasi.
- E' un peccato che tu l'abbia incontrato per la prima volta meno di ventiquattro ore fa e non possa dire che lo conosci. - lo stuzzicai. - Chiediamo a qualcuno. -
Mi guardai intorno, ma ovviamente eravamo finiti in una stradina solitaria e deserta, in cui l'unica presenza umana erano due anziane signore sedute su due seggiole a ricamare e a spettegolare.
John e Paul si guardarono se sogghignarono. Insieme si avvicinarono alle due vecchie e le salutarono.
- Non voglio vedere... - mormorai coprendomi gli occhi con una mano mentre cercavo di trattenere le risate.
- Tranquilla, ti faccio la radiocronaca in tempo reale. - mi rassicurò George. - I due esemplari di cazzoni inglesi si avvicinano alle vecchie autoctone, e il McCartney sfodera il suo sorriso scogli-ghiaccio, mentre il Lennon colpisce con la sua parlantina stordente. -
- Smettila... - gli sussurrai con una gomitata.
- Ma lo sai che avrei voluto fare il cronista da grande... -
In quel momento i due ragazzi tornarono dalla loro missione ridacchiando spudoratamente.
- Allora? - chiese Pete.
- Dicono che si rammaricano molto... - iniziò Paul.
- … ma temono di non poterci aiutare. - concluse John.
- Troveremo un altro essere umano. - disse ancora Pete.
- Di sicuro non se rimaniamo in questa strada. - commentai.
Ce ne andammo ridendo, accompagnati dagli sguardi feroci delle due vecchie, ma alla fine della strada sbucammo in un viale molto trafficato. Era strano come in due passi fossimo passati dal silenzio alla totale confusione. Trovammo un gruppo di ragazzi che gentilmente ci diedero le informazioni che ci servivano, grazie alle quali riuscimmo ad arrivare all'Indra due minuti esatti prima dell'orario stabilito.
Tutti e cinque salirono sul palco e cominciarono a suonare. Sebbene non ci fosse praticamente nessuno ci diedero dentro come se fossero stati davanti ad una grande folla e tirarono fuori i loro pezzi migliori. Quando cominciarono a rallentare si fecero due o tre giri di birra. Io li guardai per tutta la serata e non bevvi granché, poiché ero troppo presa dalla musica per fare altro; anche il signor Koshmider sembrava contento della loro performance. Alla fine della serata erano tutti un po' brilli, ma troppo stanchi per desiderare altro se non di andare a dormire.
- Come siamo andati? - mi chiese Stu appena ebbero finito la serata.
- Molto bene, peccato che non ci fosse molta gente.
- Aspetta che giri la voce che siamo qui. - disse Paul mentre metteva la chitarra nella custodia.
- Andiamo a cercare questo Bambi Kino. - proposi con gli occhi le lacrimavano per la stanchezza.
Percorremmo la Reepherbann in lungo e in largo alla ricerca dell'indirizzo segnato dal tedesco finché ci ritrovammo di fronte ad un vecchio cinema a luci rosse. Entrammo e nell'ingresso semi vuoto vedemmo solo quella che doveva essere la bigliettaia, che stava leggendo una rivista di moda.
- Voi dovete essere i ragazzi del signor Koshmider. - disse senza nemmeno alzare gli occhi. - In fondo al corridoio, le ultime tre stanze a sinistra prima dei bagni.-
Accennai un ringraziamento, ma lei non sentì; seguimmo le sue indicazioni e ci ritrovammo in un corridoio stretto e poco illuminato che sembrava non dover finire mai.
-Ho un brutto presentimento. - mormorai con un nodo alla gola. John mi prese una mano e Paul l'altra.
- Forza e coraggio che la vita è un massaggio. - mormorò il secondo; lo guardai per chiedere una spiegazione, ma lui si limitò a fare un sorrisetto.
- La tizia ha detto che ci sono tre stanze: una è per Anna, quindi nelle altre due dovremmo in qualche modo starci in cinque. - osservò Stu quando ci fermammo di fronte a tre porte chiuse.
- Benvenuti nelle suite reali. - commentò John aprendo la porta della stanza centrale, che era la più grande di tutte e aveva un letto singolo, un letto a castello e un divano semi-distrutto.
- Questi tedeschi non badano a spese. - aggiunse Pete entrando nella prima delle due stanzette rimanenti.
Con un sospiro mi accinsi all'ultima porta, la aprii ed essa si aprì cigolando, rivelando un cubicolo tanto piccolo che a malapena c'era lo spazio per muoversi; le pareti spoglie erano macchiate dall'alone lasciato da vecchie locandine ormai scomparse, se se ne escludeva una raffigurante una donna seminuda, posizionata nel punto in cui in una camera normale ci sarebbe stata una finestra. Una luce fredda e tremolante rendeva il tutto troppo simile ad una cantina.
Mi si gelò il sangue nelle vene e mi si fermò il respiro. Mi voltai di scatto, ma mi ritrovai davanti John.
- Cosa c'è? - chiese,ma non gli risposi. Mi scostai e mossi qualche passo nella direzione del corridoio, quando il ragazzo mi prese una mano e mi fermò.
- Non puoi andartene fuori. - disse.
- Tu non capisci! - esclamai al limite dell'isteria. – Io non posso andare lì dentro! -
- E dove vorresti stare? - ribatté John. - Sotto un ponte? -
- Sarebbe comunque un miglioramento.  - sbottai stizzita nell'accorgermi che aveva ragione lui.
John entrò nella stanza e allargò le braccia:- Vedi, non succede niente. - Si sdraiò sul letto reggendosi su un braccio, mentre io, esitante, provavo a raggiungerlo.
Mi sedetti al suo fianco, tesa come una corda di violino, con i pugni stretti e il cuore che batteva in gola.
- Frency sarà triste che te ne stai lontana per così tanto tempo. - esordì il ragazzo.
- Sì. - risposi, confusa da quell'inattesa osservazione.
Accorgendosi che non avevo niente da aggiungere, John cercò un altro argomento: - Ti sei portata dietro tanti libri?-
- No, non molti. Solo quelli cui non ho potuto rinunciare. -
- Il che vorrebbe dire più o meno tutti. - replicò John.
Ridacchiai:- No, questa volta davvero solo quelli che mi piacciono di più. -
- Parlamene. - mi invitò lui. Cominciai a raccontargli dei miei romanzi preferiti, e delle poesie che amavo di più, e mano a mano che discorrevamo su quell'argomento mi rilassavo sempre di più, finché mi sdraiai anche io, appoggiando la testa contro il suo petto.
Continuammo a parlare, fino a che, mentre ormai il sole si stava alzando, chiusi gli occhi e mi addormentai.

Aprii lentamente gli occhi; di fianco a me John respirava piano. Gli accarezzai la guancia facendo attenzione a non svegliarlo.
- Anna. - un sussurro spezzò il silenzio totale e mi fece venire i brividi, come se fosse stato un alito di vento. Mi misi a sedere e la coperta scivolò di lato.
- Anna. -
Scesi dal letto, rabbrividendo quando i miei piedi nudi toccarono il pavimento gelato. Mossi qualche passo, un orologio ticchettava da qualche parte. Tic, tac.
- Anna. -
Tic, tac.
Aprii lentamente la porta della stanza. Il corridoio era deserto e buio.
- Anna. -
- Chi sei?- chiesi rivolta a nessuno. - Fatti a vedere! -
Avrei voluto fermarmi, ma qualcosa in quel sussurro mi attirava a sé costringendomi a seguirlo. Avanzai ancora e l'oscurità mi avvolse in un abbraccio rassicurante.
- Anna. - Ci fu un rumore violento come quello di una bomba che esplodesse. Mi ritrovai a terra tra le fiamme che mi bruciavano senza che riuscissi a vederle. Erano ovunque e non riuscivo a liberarmene. L'odore di carne bruciata riempì l'aria in pochi secondi. Ci fu un altro rumore che sovrastò i miei lamenti, uno stridio metallico. Mi spostai strisciando tentando di divincolarmi dalle lingue di fuoco che mi avvolgevano, ma  le mie mani incontrarono qualcosa di freddo: sbarre di metallo che ben presto divennero roventi. Improvvisamente riuscii a vedere le fiamme che mi divoravano, come se una lampada si fosse accesa al loro interno e mi resi conto di dove fossi. Ero intrappolata in una gabbia.
- Voglio proprio vedere come riuscirai a fuggire, questa volta! - esclamò la Voce, mentre le fiamme si facevano più incandescenti e tutto di nuovo sprofondava nell'oscurità.


John mi svegliò scuotendomi più volte. Aprii gli occhi e me lo ritrovai sdraiato di fianco, che mi guardava. Inspirai profondamente e mi misi a sedere, sfuggendo così il suo sguardo. Strinsi le braccia al petto, mentre il ragazzo mi abbracciava.
- Pensavo che non ne avessi più di incubi. - disse.
 - Lo pensavo anche io.- mormorai cercando disperatamente di calmarmi. Non volevo che lui mi vedesse ancora una volta in quello stato. Era da quasi un anno che le mie notti erano tranquille, e ad avermi angosciata non era tanto l'incubo in sé, quanto l'idea che forse non ne ero affatto uscita.
- Va tutto bene. - dissi a John. - Non è successo niente.-
Lui annuì, forse più per farmi contenta che perché ci credesse, poi sentimmo degli schiamazzi nella stanza vicina e delle risate, così mi imposi di bandire la paura e di raggiungere gli altri.


_____________________________________________
 
Salve a tutti! Ebbene sì, sono tornata alla vita dopo mesi di assenza. Spero possiate perdonare il mio ritardo, anche se è talmente grande che non si può nemmeno definire un ritardo: è più un regalo di Natale anticipato (o forse no?) Comunque, onde evitare di cominciare a delirare, vi voglio dire quelle due o tre cose che ho da dirvi. Primo, avrei voluto aggiornare molto prima, ma ho passato questi mesi letteralmente a fissare una pagina vuota, senza che mi venisse nessuna idea brillante con cui continuare la storia (non che quelle che ho adesso siano definibili “brillanti”, ma almeno sono meglio di niente. ) Secondo, d’ora in poi mi impegnerò ad aggiornare con regolarità fino alla fine della storia, anche perché nel giro di una notte ho già praticamente finito tutta la parte di Amburgo.   Okay, altro dirvi non vo’, per cui: alla prossima.

Saradepp: Innanzitutto grazie mille per i complimenti, ma soprattutto per l’esortazione a continuare a scrivere, perché sono proprio recensioni come la tua che mi hanno sostenuta in questo periodaccio per la mia capacità di trovare nuove idee.

Quella che ama i Beatles: No, purtroppo niente di così eclatante (forse sono io che ho un concetto esageratamente piccolo per “grande”. - Sì, lo so che questa frase non ha un senso…-) Comunque, spero che questo piccolo… anzi, medio salto temporale non ti abbia deluso!

SlowDownLiz: Okay, mi sento troppo in colpa per aver aggiornato così tardi… Mi perdoni? *faccina cucciolosa che tenta di suscitare pietà. (Okay, forse sarebbe stato meglio se me la fossi risparmiata) Grazie, grazie mille volte per i complimenti!

Weasleywalrus93: Non sono certo la persona adatta per rimproverarti il ritardo, non credi? Non posso fare altro che dirti: grazie milleee!!!!!

 
Peace n Love.

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Capitolo 28
*** 27. - Savoy Truffle. ***


Savoy Truffle.


Le prime settimane in Germania passarono alla velocità della luce, e ben presto cominciai ad abituarmi ai nuovi ritmi che la nostra vita aveva preso, tant'è vero che presto non risentii più nemmeno della mancanza di sonno.
Nonostante ciò, non c'erano consuetudini fisse: ogni giorno poteva accadere qualsiasi cosa, ed era questa, per assurdo, l'unica abitudine che avevamo. Lì ad Amburgo ci trovavamo ad affrontare situazioni che mai ci eravamo immaginati, nel bene e nel male, Tutto accadeva e cambiava velocemente come un fiume in piena in cui turbinavano situazioni quasi normali (la colazione al bar tutti insieme, le serate all'Indra) e scherzi, divertimenti, a volte risse con i crucchi, cazzate urlate alle quattro del mattino in mezzo alla strada.
Di certo non si poteva dire che non ci stessimo godendo i nostri vent'anni.
In quel vortice surreale imparai, meno lentamente di quanto mi fossi aspettata, ad accettare tutto quello che mi capitava, dal tugurio in cui vivevamo agli spettacoli osceni che si presentavano davanti ai miei occhi tutti i giorni e ben presto niente poté più scandalizzarmi. Anche perché la mia presenza non inibiva certo i miei compagni di viaggio, che, se si presentava l'occasione, non la rifiutavano di certo.
C'era soltanto una cosa di cui proprio non riuscivo a capacitarmi: ogni giorno che passava si accumulavano nelle stanze dei ragazzi cumuli di cose fetide su cui non volevo indagare ulteriormente, senza contare il disordine che regnava sovrano in quegli ambienti che già erano messi male di loro. Era vero che passavamo lì dentro soltanto le poche ore in cui dormivamo, ma così si superava ogni limite umanamente sopportabile!
 - Ogni giorno che passa, questo posto assomiglia sempre di più ad un porcile. - osservai una sera, dopo che fummo tornati dall'Indra.
Finsi di non vedere una fetta di pizza buttata in un angolo chissà quanto tempo prima.
- Che ci vuoi fare, siamo cinque maschi che vivono insieme. - replicò Stu buttandosi sul divanaccio.
- Sei tu quella fuori posto. - gli fece eco George. - Aliena! -
Sbuffai:- Certo che dare una pulita ogni tanto non farebbe male né all'ambiente né a voi. -
- Be', ma noi lavoriamo tutti i giorni. - disse Pete.
- Fare le pulizie non è  tutta questa gran fatica, né mentale né fisica. -
- Allora potresti farle tu. - propose  Paul dopo essersi scolato quello che restava di una bottiglia di birra.
Lo fulminai con lo sguardo, ma lui scrollò le spalle divertito.
- In fondo stai vivendo completamente a scrocco. Pulire è il minimo che potresti fare per guadagnarti il pane.  - rincarò John, che entrava in quel momento nella stanza, ma che a quanto pareva non si era perso la conversazione. Il suo tono, però, era tutto tranne che un tono di scherzo.
Trattenendo a stento l'irritazione, mi voltai verso di lui e gli rivolsi un sorriso languido .
- John, lo sai che farei qualsiasi cosa per te. - dissi e gli appoggiai le mani sul petto, poi avvicinai le labbra al suo orecchio, ma tenni la voce abbastanza alta perché anche gli altri mi sentissero. - ma non sono venuta qui per farvi da serva, quindi muovi le manine sante e rimboccati le maniche. -
Gli diedi le spalle con un sorriso soddisfatto dipinto sulle labbra, mentre una parte di me si chiedeva se avessi esagerato.
No, se l'era decisamente meritato.
Gli altri infatti, cominciarono ad applaudire ridendo e mi comunicarono la loro approvazione. Feci una riverenza, poi ne approfittai per raccogliere un pacchetto di patatine che George, in preda all'ilarità, aveva fatto cadere da sopra il suo letto a castello.
- E comunque, per quanto riguarda il lavoro, domani ho un colloquio con il signor Koshmider. -
Un secondo dopo erano tutti immobili e mi guardavano con occhi spalancati; persino George aveva smesso di mangiare.
Arrossii violentemente quando mi resi conto della gaffe.
- Vuoi farti assumere come ballerina? - ci scherzò su Paul dando voce ai pensieri di tutti e guadagnandosi così la seconda occhiataccia in meno di cinque minuti.
- No, idiota! - esclamai diventando ancora più rossa. - come cameriera al Kaiserkeller, che per giunta è anche più bello dell'Indra! -
 John, al quale era evidentemente passato il malumore, si sdraiò sul suo letto e mi guardò di sottecchi: - Sarà, ma non sono del tutto convinto... -
- Ti piacerebbe, eh? - lo sfidai, ma un secondo dopo mi ritrovai a fare uno sbadiglio molto poco fine. - Va be', io vado a letto, che domani ho una giornata importante. -
- Quindi il discorso pulizie è sospeso. - disse John mentre cominciavo ad uscire dalla stanza.
- Fate quello che volete. - risposi - Ma sappiate che se non fate un po' d'ordine io non metterò più piede qui dentro. -
- Ragazzi, fuori lo champagne: abbiamo finalmente trovato il modo di liberarci di lei! - esclamò John balzando improvvisamente in piedi.
- Ma quanto sei simpatico... - mormorai sarcastica.
- Lo so. - replicò lui e mi fece un occhiolino che fece svanire ogni voglia che avevo di fare ironia.
Il ragazzo lo percepì e sorrise compiaciuto. Si accostò allo stipite della porta e vi si appoggiò. Avrei voluto avvicinarmi e cercare un contatto fisico, ma lui mi precedette.
- Va' a dormire, Mitchell, che domani hai una giornata importante. -
Chiuse la porta e mi piantò lì due a zero. Rimasi qualche secondo immobile, in preda all'incredulità, cercando di capire se fosse uno scherzo.
- Sei uno stronzo, Lennon. - commentai quando riuscii a riprendermi.
- So anche questo, grazie per il complimento! - rispose lui allegro dall'altra parte della porta.
- Quando vuoi. - mi ritrovai a rispondere ridacchiando.
Mi chiesi cosa avessi fatto di male per meritarmi un ragazzo simile, poi mi rassegnai e andai a dormire.

Il giorno dopo il colloquio con il signor Koshmider andò bene, e il tedesco mi assunse. Il che fu una fortuna, perché ormai conoscevo bene il lavoro di cameriera, e quindi potevo svolgere le mie mansioni senza difficoltà, e inoltre mi diede un po' di solitudine. Per quanto volessi bene a tutti i miei amici, infatti, stare con loro ventiquattro ore su ventiquattro cominciava ad essere pesante.
Avevo bisogno dei miei spazi e finalmente potevo pensare ad altro. Per tutte quelle settimane ero stata talmente assorbita dagli eventi legati ai ragazzi che non avevo più pensato a tutte quelle cose senza le quali prima non potevo passare una giornata: le storie e i disegni. Servendo ai clienti del Kaiserkeller osservavo i volti di ciascuno di loro e mi immaginavo come dovesse essere la loro vita, sforando tutte le volte nel fantastico e nell'assurdo.
Nonostante la mia difficoltà nei rapporti sociali, in breve tempo feci amicizia con una mia collega, Karla, una ragazza tedesca della mia età, altissima e stupenda, con i capelli castani e gli occhi azzurri.
Il suo carattere solare mi impediva di chiudermi in me stessa, sebbene fosse un po' superficiale, e poi avere un po' di compagnia femminile mi faceva un gran bene, anche perché Karla mi fece visitare la Amburgo per bene e mi portò a fare shopping. O ci provò, almeno.
- Avanti, devi comprare qualcosa! - esclamò lei mentre passavamo davanti ad una fila di negozi.
Sospirai : - Non ho soldi da sprecare in vestiti. -
La tedesca mi guardò scandalizzata: - Ma soldi investiti in abiti o scarpe non sono sprecati! -
- Mah...- mormorai scettica, quando un negozio all'improvviso attirò la mia attenzione.
Era una vecchi libreria e in vetrina, accanto ad alcuni libri dai titoli in tedesco c'era un taccuino molto spesso, che sembrava anche piuttosto antico, dal momento che aveva le pagine ingiallite e la copertina di cuoio un po' rovinata. Sopra erano incise alcune parole.
- Cosa c'è scritto? - chiesi alla tedesca.
- La citazione di Shakespeare, quella che fa “tutto il mondo è un palcoscenico” eccetera eccetera. -
- E' assurdo citare Shakespeare in tedesco! - esclamai.
- Ti faccio notare che siamo in Germania...- ribatté lei.
- Aspettami qui un secondo. - le dissi, appena prima di entrare nella libreria; ovviamente ne uscii con il taccuino sottobraccio.
- Meno male che non avevi soldi da buttare! - mi rimbeccò Karla.
Feci spallucce: - Ognuno ha le sue priorità, che ci vuoi fare. -
Lei scosse la testa sorridendo. Passeggiammo un po' per le strade di Amburgo, godendoci la giornata.
- Comunque, ieri sera sono andata a vedere il gruppo dei tuoi amici. - disse ad un tratto, come se se ne fosse ricordata in quel momento.
- E cosa ne pensi? - le chiesi, concentrando tutta l'attenzione su di lei.
- Sono davvero bravi, anche se fanno un rock poco duro per la Germania. Si vede che voi in Inghilterra avete le orecchie delicate. - rispose, poi scrollò le spalle. - Comunque vale la pena solo per vederli! Voglio dire... non ne vedi tanti di tedeschi così! -
Sorrisi, constatando che effettivamente di tizi vestiti da teddy boy non ce n'erano molti, anche se probabilmente la ragazza si riferiva ad altro.
- Prima o poi devi presentarmeli. - mi ordinò quindi.

Karla non dovette aspettare molto prima che si presentasse l'occasione di soddisfare la sua richiesta.Poco tempo dopo, infatti, l'Indra fu fatto chiudere per disturbo della quiete pubblica, e i Beatles vennero trasferiti dal signor Koshmider al Kaiserkeller.
Alla fine non ne fui affatto scontenta, perché mi piaceva la loro musica, e ogni tanto mi incantavo a guardarli. Miglioravano di giorno in giorno.
Karla fu entusiasta di conoscere i membri del gruppo, e qualche giorno più tardi mi rivelò di essersi presa una cotta per Pete, e nemmeno lui sembrava disinteressato.
Alla fine del mese Karla propose di andare ad una fiera che si sarebbe tenuta qualche giorno dopo, e fummo tutti entusiasti dell'idea.
Ci andammo di domenica, e fortunatamente il giorno era soleggiato, ma ventilato, cosicché non era troppo caldo per stare in giro parecchie ore di fila.
C'erano giostre e banchetti colorati pieni di dolciumi, e ovunque si vedevano gruppi di ragazzi che si divertivano e bambini che ridevano. Solo entrare nell'area della fiera ti riempiva di buonumore. La confusione era davvero molta e ciascuno di noi voleva fare una cosa diversa.
- Abbiamo tutta la giornata, riusciremo a fare tutto. - disse Paul con fare tranquillo, mentre Pete prendeva per mano Karla e si allontanava con lei. Sul momento, però, nessuno ci badò.
- Cominciamo da lì. - dissero Paul, John e Stu contemporaneamente e si diressero ciascuno in una direzione diversa, scomparendo nella folla prima che io e George potessimo cercare di fermarli.
-Che facciamo? - chiese il ragazzo quando ci rendemmo conto di essere rimasti da soli. - Li cerchiamo? -
- Nah, sono tutti maggiorenni e vaccinati. - replicai io.
- Bene, allora andiamo ai banchetti dei dolci! - esclamò contento George.
Mi afferrò per il braccio e mi trascinò con sé. C'erano dolci di tutti i tipi, di tutte le forme e di tutti i colori, e se ben presto il mio amico ebbe in mano un sacchetto di caramelle stra-pieno, il mio non era tanto più piccolo.
- Ehi, ma dov'è la tua amica? - chiese ad un certo punto George.
Lo guardai sbigottita:- Karla? Con Pete, credo: per lo meno, si sono allontanati insieme. -
- Peccato, ma del resto è lui quello bello del gruppo... - commentò, poi emise un sospiro esagerato e mi circondò le spalle con un braccio. - Ah, cara la mia Anna, ci sono uomini che sprofondano nell'alcol dopo simili delusioni amorose, ma io sarò più maturo e mi getterò sui biscotti di quel banco là in fondo. -
- Ma se hai già speso una fortuna in caramelle. - gli feci notare ridendo.
- Giusto. - disse lui, poi sorrise. - Vuol dire che me li offrirai tu! -
Alzai gli occhi al cielo, ma poi lo accontentai, a patto che li condividessimo.
- Consideralo il mio regalo di Natale anticipato. - disse lui.
- Vorrei farti notare che sono biscotti comprati con i miei risparmi! - esclamai.
- Vero, questa volta ti do ragione. Ti devo un favore. -  ammise George.
- Andiamo a provare qualche giostra, prima che tu mi riduca all'osso spillandomi anche gli ultimi centesimi per comprarti cibo? - proposi.
Il ragazzo grugnì tutta la sua disapprovazione, ma poi accettò.
Girammo un po' a vuoto, poi svoltammo un angolo e ci ritrovammo davanti Karla e Pete, avvinghiati l'uno all'altro appoggiati contro un lampione.
- Forse è meglio se facciamo un altro giro... - sussurrai e ritornai sui miei passi, subito seguita dal mio amico.
- Pazienza. - mormorò con un finto tono sconsolato. - Melody era meglio. -
- Stai scherzando? Melody?! Sembra un nome da cartone animato! - esclamai stupefatta.
- Lei ha detto di chiamarsi così, anche se effettivamente, ora che mi ci fai pensare... tanto non è che abbiamo parlato granché. -
Lo guardai scandalizzata e lui ridacchiò :- Te ne sei persa di cose, amica mia!-
- Non fare tanto il figo, adesso, perché non vorremmo mai che Melody sapesse che sei ancora minorenne, vero? - replicai.
George fece finta di non aver sentito e cambiò argomento:- Senti, ma tu e John non avete mai... -
- Ma queste cose non dovresti chiederle a lui?! - replicai imbarazzata.
- Sì, ma non è che dica sempre la verità, soprattutto su questi argomenti. -
- Immagino; sì, comunque sì. -

- Ma non qui ad Amburgo. -
- No. - risposi mentre mi chiedevo come fossimo arrivati a parlare della mia vita sessuale.
- Perché? -
Maledissi George e la sua curiosità :- Perché no. -
 - Non è una risposta. -
- Sì che lo è, fidati. -
- No. -
- Sì.-
Saremmo andati così all'infinito se per un caso fortuito non avessimo incontrato Paul, John e Stu, che nel frattempo si erano ritrovati.
- Avete notizie di Pete? - chiese Stu.
- E' leggermente impegnato, ma ben accudito. Non dobbiamo preoccuparci della sua salute. - rispose George prontamente.
- Hai capito il solitario! - commentò Paul. - Voi vi siete abbuffati? Ma che bravi. -
George scrollò le spalle: - Figurati, con questa qui... non ho visto una persona più golosa. -
- Ha parlato! - replicai.
Ridendo facemmo ancora qualche giro in giostra tutti insieme, poi ci rendemmo conto  che avevamo speso abbastanza soldi per un giorno solo e pensammo che fosse meglio tornare al Bambi.

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Salve a tutti!!!
Non ve lo aspettavate l’aggiornamento così presto, vero? Vi ho sorpresi, eh??
Comunque, non è che abbia molto da dire riguardo a questo capitolo, se non che mi sto togliendo la voglia di scrivere qualcosa di divertente (almeno per me), dopo secoli e secoli di paturnie mentali. Spero che ciò sia di vostro gradimento. 
Ci vediamo alla prossima.

 

Weasleywalrus93:  Hai visto che sono riuscita ad aggiornare in tempi accettabili? Yeeeh, che brava!! (Okay, no, basta!) Anche io ho adorato backbeat, e anche io odio i francesi. (queste somiglianze si fanno inquietanti…) Ti dirò, l’incubo mi sembrava davvero poco ispirato, ma sono contenta che abbia fatto effetto comunque… e sì, George è tenerissimo!

_mclennon_ : Oddio, grazie!!! Non so cosa dirti oltre a questo! Se ti può consolare anche io scrivo di notte, e in genere non comincio prima di mezzanotte. ( Sì, questa risposta fa schifo, ma i tuoi commenti mi hanno mandato in uno stato di esaltazione-cervello in pappa. )

Blackbjrd: Anche a me piace da matti quella scena ( “Non bisognerebbe farsi complimenti da soli!” “ Sta’ zitta, Voce della Coscienza, non ho richiesto il tuo consiglio.”) Comunque… in questa parte di Amburgo ho cercato di distogliere l’attenzione dalle pippe mentali di Anna (anche perché stanno passando) e concentrarmi su questi sei ragazzi di vent’anni in una città completamente diversa e ho provato ad immaginare cosa avrei fatto io al loro posto. Be’, lieta che il risultato ti sia piaciuto!

Come sempre, un gigantesco grazie a tutti i lettori.

Peace n Love.

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Capitolo 29
*** 28. - With a little Help from my Friends. ***


With a little help from my friends.



Non passò molto tempo prima che diventasse evidente che Pete e Karla avevano una relazione. In genere non me ne sarebbe importato molto della loro vita privata, ma dal giorno della fiera in poi, il batterista cominciò ad allontanarsi sempre di più dagli altri membri del gruppo; appena finivano di suonare scompariva, e faceva di nuovo la sua apparizione appena prima di iniziare di nuovo a lavorare.
Ciò creava qualche problema agli altri, che non sapevano mai se il loro batterista sarebbe arrivato in tempo; più di una volta, infatti, avevano dovuto cominciare senza di lui. John era ovviamente andato a lamentarsene con il diretto interessato, ma lui aveva risposto con un'alzata di spalle e aveva continuato a comportarsi nello stesso modo. E per quanto riguarda me e Karla, la nostra amicizia finì rapidamente com'era cominciata, non già perché avessimo litigato, ma perché non c'era mai, e quando eravamo insieme al Kaiserkeller non faceva che parlare della sua storia con Pete.
Mi faceva piacere per lei, ma non ritenevo che la sua felicità fosse un buon motivo per urlare le cose ai quattro venti.
Quella, tuttavia, non fu l'unica novità. Infatti in quel periodo arrivò da Liverpool un altro complesso, che si sarebbe dovuto alternare con i Beatles; quando arrivammo scoprimmo che erano nientemeno che Rory Storm and the Hurricanes, ovvero uno dei migliori gruppi che ci fossero nella nostra città.
- Sei preoccupato? - chiesi una sera a John mentre camminavamo in un parco, riferendomi agli Hurricanes.
- No. - rispose lui.
- Non fare l'esibizionista con me. - gli dissi. - Tanto non mi freghi. -
- Ma è vero, questa volta. - mi assicurò. - Voglio dire, ogni giorno che passa diventiamo sempre più bravi. Stare qui ad Amburgo ci costringe a tirare fuori il meglio e a dare tutto quello che abbiamo. -
- Però loro sono più esperti, e hanno una divisa. - osservai, godendomi la soddisfazione di guastargli la festa.
- Touché. Ma alla fine quello che conta  è la musica. E ormai siamo al loro livello, se non li abbiamo già superati. -
Alzai un sopracciglio.
- Cos'è tutto questo scetticismo? - esclamò lui fermandosi - Non è che tra due giorni passi dalla parte del nemico? -
Io continuai a camminare, lasciandomelo alle spalle.
- Potrei anche. - dissi. - A meno che qualcuno  non mi dia un buon motivo per non farlo . -
Sentii John sogghignare, poi il ragazzo mi raggiunse e mi cinse i fianchi.
- E' meglio se non ti trovo a fraternizzare con il nemico. - sussurrò, prima di baciarmi.


Il giorno seguente, mentre lavoravo, rimasi concentrata ad ascoltare gli Hurricanes, tanto che sbagliai a servire ai tavoli.
- Mi scusi tanto. - dissi al cliente, un ragazzo tedesco piuttosto strano, vestito completamente di nero. Da che ero lì avevo imparato quel poco di tedesco (frasi fatte per lo più) che mi era utile durante le serate.
- Nessun problema. - replicò lui sorridendo e tornò ad ascoltare la musica con attenzione.
Dopo un po' gli Hurricanes smisero di suonare e fu il turno dei Beatles. Non li avevo mai visti tanto carichi; dire che ci diedero dentro al massimo era un eufemismo, ma ogni volta che i due gruppi si alternavano alzavano l'asticella sempre di più.
Tuttavia, sorprendentemente, i rapporti fra i due complessi erano molto amichevoli, come scoprii alla fine della serata, quando servii loro un giro di birre; mi resi conto solo allora di quanto l'esperienza in Germania ci aveva e ci stava ancora cambiando. Se si fossero trovati di fronte gli Hurricanes a Liverpool, probabilmente i miei amici sarebbero stati un intimoriti dalla loro fama e dal loro modo di fare , mentre adesso ci scherzavano senza alcun problema e facevano commenti tipicamente “da inglesi” nei confronti di ogni tedesco che passava davanti all'entrata del locale.
Da quel giorno in poi, fra i due complessi si instaurò una sorta di competizione musicale, che da una parte li esaltava e dall'altra li prosciugava. Nemmeno la birra bastava più. Arrivavano a fine serata ubriachi fradici e distrutti, tanto che per tornare al Bambi Kino barcollavano inciampando l'uno sull'altro. Fu allora che cominciarono a girare le pastiglie. All'inizio sembrava che non facessero altro che ricaricare l'energia dei musicisti, ma con il passare del tempo mi accorsi che li rendeva anche molto più irascibili. In ogni caso, esse erano l'unico modo con cui loro riuscissero a sostenere i ritmi ai quali erano sottoposti, perciò continuarono a prenderle senza farsi problemi, tutti tranne Paul, che per il momento si limitava ancora all'alcol.
- Ehi, sai dov'è Karla? - mi chiese un'altra cameriera distogliendomi dai miei pensieri. - Doveva darmi il cambio un quarto d'ora fa. -
- No, non l'ho vista per tutto il giorno. - risposi.
Oh, no” pensai “se Karla non c'è, non ci sarà neppure...
- Dove diavolo è Pete?! - gridò John infuriato dall'altra parte del locale.
Fissai lo sguardo su di loro, in apprensione, vedendo quanto il ragazzo era fuori di sé.
- Calma, John. - cercò di tranquillizzarlo Paul. - Ci aggiustiamo come al solito; suono io la batteria, non è un problema. -
- Sì, che c'è. Eppure glielo avevo detto: o viene in orario o se ne torna in Inghilterra a calci in culo! -
In quel momento entrarono gli Hurricanes, venuti prima nonostante loro iniziassero per secondi.
- Ehi, qualche problema? - chiese Rory.
- Pete non si è presentato. Ancora una volta.- spiegò Stu mentre accordava il basso.
- Lo sostituisco io. - si offrì il batterista degli Hurricanes, Ringo Starr.
- Davvero? - chiese Paul sorpreso.
- Sì, nessun problema. - lo assicurò l'altro.
- Grazie mille, ci tiri fuori da un grande casino. - disse John. - Dopo ti offro un giro di birra. -
Così, alla fine, la serata fu salva, anzi, mi parve che tutti si divertissero molto a suonare con Ringo, il cui sound era davvero molto particolare, e modificava quello dell'intero gruppo.
Dopo che ebbero finito il loro ultimo brano, gli Hurricanes se ne andarono, ma ai Beatles dovevano suonare ancora per un po'.
A quell'ora non c'era più praticamente nessuno, quindi dopo aver servito le due o tre persone che ancora erano lì ad ascoltare, mi sedetti ad un tavolino in disparte e mi misi a guardare. Mi piaceva la pace di quell'ora tarda. Rimasi incantata fino a quando il silenzio mi risvegliò; mi alzai, andai a riempire cinque boccali di birra e li portai ai miei amici mentre smontavano.
John, che ormai era ubriaco fradicio, alzò il boccale:- Un brindisi al mio amico Ringo, che 'sta sera ci ha fatto vedere come si suona la batteria! -
Buttò giù quasi mezzo boccale tutto d'un fiato, subito imitato dagli altri ragazzi, poi riprese:- Un brindisi anche a quel coglione d'un Pete Best, che appena lo vedo gli faccio il culo a striscie! -
Si alzò in piedi barcollando e mi venne incontro; mi accarezzò il viso nel modo più delicato che lo stato in cui era gli permetteva:- E un brindisi alla nostra Anna, che gentilmente tutte le sere ci porta un barile di birra.
- A me non da nessun problema, finché sei tu a pagarlo. - replicai.
Con un sorrisetto gli diedi un bacio sull'angolo della bocca, che lui trasformò subito in qualcosa di ben più appassionato, mentre gli altri ridevano e fischiavano.
- Ragazzi, devo cacciarvi fuori: è orario di chiusura. - comunicai loro dopo un po'.
La mia affermazione fu accolta dai lamenti generali, così dovetti prendere per le braccia John e Ringo (che erano quelli che avevo più vicino) e trascinarli di peso fino all'uscita del locale. Gli altri, per fortuna, li seguirono di loro spontanea volontà.
- E tu non vieni? - chiese Paul mentre gli altri già se ne stavano andando.
- Devo pulire. Vi raggiungo appena finisco. Voi andate al Bambi? - risposi.
Il mio amico annuì, mi salutò e raggiunse gli altri. Sospirai e mi misi al lavoro. Come al solito, qualcuno aveva rovesciato della birra per terra e molti avevano lasciato i tavoli sporchi, ma tutto sommato io e le mie due colleghe di turno quella sera non ci mettemmo molto prima di poter chiudere il locale.
Arrivai al Bambi che ero stanca morta e non desideravo altro che andare a dormire, ma come passai davanti alla porta della stanza centrale sentii ridere.
- Ehi, deve essere Anna! - esclamò la voce di George. - Andate a chiamarla prima che se la svigni! -
Provai a sgattaiolare fino alla mia porta, ma Stu uscì di corsa e mi intercettò.
- Non provare a scappare, Mitchell. - mi disse.
- Ma ho sonno! - protestai.
- Dai, è troppo da sfigati andare a letto così presto! - ribatté, anche se quello che disse non era molto sensato, visto che erano le tre del mattino.
Stu mi prese per mano, spingendomi fino alla stanza. Scoprii che Ringo era ancora con loro, e che avevano spostato il divano da un lato; erano tutti seduti a terra in cerchio, con al centro cinque o sei bottiglie di alcolici, di cui evidentemente si erano riforniti mentre io pulivo il Kaiserkeller.
- Visto che avete bevuto poco... - commentai.
Stu mi fece sedere tra John e Paul, poi andò a sedersi accanto a Ringo.
- Cosa si fa? - chiesi.
- Le regole sono queste - cominciò Paul. - Chi comincia sceglie uno di noi, che può decidere se rispondere ad una domanda o eseguire un ordine; non ci si può rifiutare di dire o fare qualcosa, a meno che non si mandi giù uno shottino di... questa roba qui. Tutto chiaro? - 
- E se io non volessi giocare? - domandai, presagendo che la cosa sarebbe finita male.
- Non puoi. - replicò secco John.
- Okay, era solo per sapere... -
Ma chi mi ci aveva trascinato in quel viaggio ad Amburgo?!
- Domande un po' più intelligenti di quella proposta da Anna? - chiese nuovamente Paul.
- Chi comincia? - chiese George.
- Siamo gentiluomini. Inizia la nostra fanciulla. -
Mi scervellai cercando una domanda interessante da fare, ma come al solito quando avevo bisogno di lei, la mia testa era vuota. Non c'era traccia nemmeno della mia Coscienza, il che era preoccupante.
- Dunque... Ringo. - dissi.
- Domanda. - scelse lui.
- Il tuo vero nome qual è? - chiesi. Ma che domanda stupida! Mi pentii subito di avere posto un quesito così banale.
- Non andiamo troppo sul personale, mi raccomando. - John non si lasciò scappare l'occasione per commentare, e io gli diedi una gomitata.
- Richard Parkin Starkey. - rispose Ringo. - John. -
- Domanda. -
- La tua prima volta? -
- La prima volta per cosa? La prima volta in cui ho mangiato fish and chips, o ho raccolto lamponi? In cui ho visto due uccelli accoppiarsi? - scherzò lui.
- No, in cui ti sei accoppiato tu! - precisò Ringo.
- Quindici anni, nei bagni pubblici.  - disse lui senza scomporsi.
Dopo toccò a George, il quale malauguratamente scelse l'obbligo.
- Vai di là e indossa gli abiti di Anna. - ordinò John.
- Ehi, no! Mi oppongo! - protestai, anche se l'immagine di George vestito da donna mi faceva ridere.
- Se la proprietaria non vuole, non posso disobbedirle!- disse lui.
Paul stappò una bottiglia e versò un po' del contenuto in un bicchiere.
- A goccia. - precisò il ragazzo passando il bicchiere a George, il quale tracannò l'alcolico in un sorso, poi scelse Stu.
- Tu, con la tua aura di fascino e mistero, sei mai stato rifiutato da una gentil donzella? - gli chiese.
Stu rimase un secondo in silenzio. Mi si strinse il cuore.
- Ho sete. - disse poi, dissimulando il suo stato d'animo con un sorriso. - Fatemi bere. -
Il giro seguente ci ritrovammo tutti a bere, persino io, perché John mi aveva proposto di togliermi la maglietta e io mi ero naturalmente rifiutata. Mi bastò un solo shottino per sentirmi girare la testa. Certo che lo reggevo proprio male, l'alcol!
- Posto più strano in cui hai scopato. - chiese Paul a John.
- Il cimitero di Liverpool. - rispose lui, come se fosse la cosa più naturale del mondo.
- Probabilmente la tizia era una fan di Bram Stoker. - borbottai.
- Quando torniamo ti ci porto, promesso. - sussurrò lui al mio orecchio, ma io gli diedi uno spintone. Toccò di nuovo a Ringo, poi a Paul, che volle fare una domanda a me.
- Hai mai fatto sesso con qualcuno che non fosse John? -
Mi portai una mano alla testa, che pulsava per effetto dell'alcol... o della domanda? Scossi la testa e allungai la mano per chiedere che mi fosse servito da bere. Mandai giù quella che forse era vodka in silenzio.
- Ah, la cosa è sospetta! - commentò George ridendo.
Subito dopo Ringo fu costretto ad inscenare un balletto con in sottofondo un brano de Il lago dei Cigni cantato (in modo stonato, per di più) da John, mentre Paul, in boxer e calzini, fu costretto ad andare nell’atrio del cinema per provare a rimorchiare la bigliettaia che ci aveva accolti tanto calorosamente, seguito a ruota da George che controllava se davvero stesse assolvendo all’obbligo.
Quando furono rientrati sghignazzando, Paul scelse me per vendicarsi.
- Quante mutande ti sei portata dietro per il viaggio? -
- Ma che razza di domanda è? Non lo so, un po’! - esclamai, ma i ragazzi non furono soddisfatti della risposta e mi costrinsero a bere un altro bicchiere.
Dopo un paio di altri obblighi, Stu volle portmi una domanda.
- Ehi, ma è una cospirazione! - esclamai completamente ubriaca, tanto da non essermi accorta che l'umore di Stuart era completamente cambiato.
 - Ti senti mai in colpa nei confronti di Cyn? - chiese lui.
Lo fissai. Voleva davvero togliersi la soddisfazione di vedermi in difficoltà come lo era stato lui poco tempo prima? Afferrai di nuovo il bicchiere; che traesse le sue conclusioni da solo
.
- John, ti sei mai fatto fantasie su un uomo? - chiesi al mio ragazzo, e scoppiai a ridere mentre nella mia testa mi immaginavo la scena, dimenticandomi subito del mio disagio.
- No! - si affrettò ad esclamare John, poi pose la sua domanda prima che si potessero fare commenti  - Paul, sentiamo: qual'è la tua fantasia più selvaggia? -
Andammo avanti così per un po', mentre le domande diventavano sempre più esplicite e gli obblighi sempre più assurdi, e alla fine mi ritrovai a giocare di fronte a loro in biancheria, mentre  i miei pantaloni e la mia camicia furono requisiti da Paul che obbligò George a vestirsene e ad andare in strada urlando "Hitler è morto, e c'era anche una vodka!" . Nonostante la mia sbronza colossale, però, riuscii a trattenermi ( a stento) dall'assolvere altri obblighi ben più imbarazzanti .
Il gioco finì solo quando finì anche l'alcol, ovvero non molto lentamente.
Mi alzai barcollando; m i sembrava di essere dentro una nave che navigava su un mare mosso. I ragazzi si misero a fumare, ma io rifiutai le sigarette che mi offrirono.
Non li salutai nemmeno e mi appoggiai al muro per cercare di raggiungere la mia stanza, ridendo a più non posso per nessun motivo. Alla fine inciampai e caddi di sbieco sul letto, con le gambe a penzoloni, e mi addormentai come un sasso..

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Buon pomeriggio a tutti, come va?
Qui si muore di caldo, e probabilmente è a ciò che deve imputarsi la questo capitolo.  Per inciso, non so nemmeno se negli anni '60 esistesse il gioco "obbligo-verità", ma mi è venuta fuori quest'idea e sono stata tanto pazza da seguirla, nonostante sfiorasse l'assurdo.  Spero che nei prossimi giorni mi riesca di scrivere qualcosa di meno demenziale, davvero. (anche perché più demenziale di così non si può…)

Weasleywalrus93: be’, però, alla lunga anche  l’amore di Georgie per il cibo potrebbe rivelarsi diabetico, in senso letterale però. (Okay, questa battuta è tristissimerrima e potevo benissimo risparmiartela, ma non sono riuscita a trattenermi.) Ti invidio tanto perché vai a Liverpool, e ti capisco riguardo agli esami. Ora vado prima di rovinarti irrimediabilmente la giornata con un’altra battuta tristissimerrima. (p.s. Spero che gli esami ti vadano bene!!)

Cagiu_Dida: Ciaoo!!! Grazie mille per aver avuto la voglia di leggermi e recensirmi la storia, mi ha fatto un piacere immenso!!!! Sono felicissima che la storia di piaccia, che ti piacciano i protagonisti e tutte le loro particolarità. Spero che capitolo dopo capitolo continui ad appassionarti sempre di più. Alla prossima (scusa la risposta orrenda…)

Peace n Love.

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Capitolo 30
*** 29. - Baby's in Black ***


Baby's in Black.


Il giorno dopo nessuno si ricordava più niente di quello che era successo, se non alcuni momenti particolari, e io mi ripromisi che non avrei più toccato un alcolico che fosse uno.
- A che ora stacchi? - mi chiese Karla dopo aver riempito un boccale di birra.
- All'una, anche se come al solito aspetto che i ragazzi finiscano di suonare. - risposi.
Molto spesso mi ritrovavo a doverli ascoltare per le ultime ore in cui il locale stava aperto, anche se non sempre ero da sola. Ogni tanto, infatti, Karla mi faceva compagnia, ma dopo un po' smettevo di ascoltarla, perché andava avanti per un'eternità a parlare di stupidaggini. Mi piaceva molto di più quando anche Ringo si fermava ad ascoltare i ragazzi, con cui nell'ultimo periodo aveva stretto una solida amicizia.
- Ti fermi anche tu? - chiesi alla mia collega per gentilezza.
- No, vado a casa subito. Poi viene Pete da me. - mi disse eccitata.
Non avevo dubbi.” pensai, ma mi tenni quel momento per me.
Andai a servire ad un tavolo, poi tornai dietro il bancone e sbuffai. Le serate si stavano susseguendo sempre uguali, lì al Kaiserkeller, e cominciavano ad annoiarmi; in ogni caso, avevo messo da parte una discreta somma, che avevo la sensazione mi sarebbe servita molto presto.
Quando finii il turno rimasi a lungo in piedi di fianco al bancone, meditando se fosse meglio tornare subito al Bambi o aspettare gli altri.
Seduto ad un tavolo scorsi Ringo, che mi salutò con la mano, perciò lo raggiunsi e mi sedetti con lui. In un primo tempo chiacchierammo allegramente e il ragazzo mi offrì una birra, che alla fine mi ritrovai ad accettare; e tanti saluti al voto che avevo fatto appena qualche ora prima.
Fu soltanto dopo che il locale si fu svuotato praticamente del tutto e la musica si fu fatta più malinconica che io e Ringo cominciammo ad ascoltarla per davvero. Lui adorava il blues, e come il suo solito, chiese a John di suonare " Three-Thirty Blues". Capivo perfettamente perché a Ringo piacesse venire così tardi, quando la musica si faceva meno violenta e scoccava "l'ora dei lati B." - Da quanto tu e John state insieme? - chiese strascicando le parole.
- All'incirca due anni. -
- E la sua ragazza non ha mai sospettato nulla? -
- No. - risposi secca, , sperando che la conversazione finisse lì. Ringo, sebbene ubriaco, comprese il mio stato d'animo e tornò ad ascoltare il blues.
Provai a concentrarmi di nuovo sulla musica, estraniandomi dal resto, ma quando mi accorsi che non ci sarei riuscita mi alzai trascinando la sedia e uscii dal locale senza salutare nessuno, accompagnata dalle occhiatacce di Paul e John, che la mia uscita rumorosa aveva disturbato.
“Che le loro maestà mi perdonino...” commentai seccata.
Corsi al Bambi a testa bassa, rischiando di sbattere contro quelle poche persone che giravano ancora per la Reeperbahn e sospirai di sollievo quando finalmente arrivai al mio stanzino.
Era davvero strano: in quel momento quel locale angusto era diventato l'unico riparo dal giudizio della gente. Era come se ogni parola detta sull'argomento, ogni sguardo che si posava su me e John esprimesse una critica, e la cosa cominciava a snervarmi.
"Chi è senza peccato scagli la prima pietra." pensai stizzita.
Mi spogliai e gettai i vestiti in un angolo, poi mi infilai il pigiama e mi sedetti sulla branda. Tirai da sotto il letto la borsa con i libri e presi "Il Rosso e il Nero" di Stendhal, ma appena arrivai al primo momento di rimorso della signora de Renal e ripiegai sull'unico autore che riusciva davvero a catapultarmi fuori dalla realtà: Keats. Mi immersi nella lettura delle poesie dell'autore inglese e non mi accorsi che i ragazzi erano rientrati finché John non fu entrato bussando nella stanza.
- Sei ancora sveglia. - osservò avvicinandosi e sedendosi sulla branda mentre posavo il libro a terra.
- Scusa se sono andata via in quel modo, prima. - dissi.
Lui cominciò ad accarezzarmi le gambe:- Sei molto carina in pigiama. - si protese verso di me per darmi un bacio e con una mano mi sollevò la maglietta - ma ti preferisco comunque senza. -
Mi mordicchiò l'orecchio, poi scese a baciarmi il collo e le spalle.
Io rimasi immobile, fino a quando sentii la sua mano risalire lungo la colonna vertebrale per finire sul gancetto del reggiseno. Mi ritrassi.
- Che ti prende?- chiese lui, meravigliato.
- John, non me la sento... non con tutti gli altri nella stanza a fianco, che ci sentono e potrebbero entrare da un momento all'altro. Non chiedermi di farlo, per favore. - mormorai, rossa in viso.
- Come vuoi. - disse John, gelido. - Ma poi non venire a lamentarti con me. -
Se ne andò, nonostante lo stessi chiamando. Sospirai, ma non lo seguii, poiché tanto sapevo che sarebbe stato del tutto inutile e l'avrebbe fatto infuriare ancora di più.
Mi stesi sul letto, anche se non riuscii ad addormentarmi. Continuai a rigirarmi da una parte all'altra, finché dalla camera adiacente cominciarono a giungere dei gemiti osceni. Fra le numerose voci che si stavano sovrapponendo, ne distinsi una fin troppo chiaramente; probabilmente lo stava facendo apposta, ma la voce di John era quella che fra tutte risuonava più alta.
Cercai di tapparmi le orecchie con il cuscino, ma non servì a granché. Mi imposi di addormentarmi: ovviamente non ottenni alcun risultato. Cominciavo a sentire i muri della camera che mi si stavano stringendo addosso. Gettai il cuscino con rabbia, mi alzai, mi rivestii in fretta furia, presi il libro di poesie che stavo leggendo poco prima ed uscii facendo sbattere la porta più che potevo. Soltanto quando fui fuori dal Bambi mi accorsi di essere scalza e poiché non volevo rientrare per infilarmi le scarpe, vagai a piedi nudi lungo la Reeperbahn; arrivai alla fine della strada e continuai a camminare, sebbene non avessi idea molto precisa di dove stessi andando.
Dopo un tempo indefinito mi ritrovai in un parco poco distante dal fiume e mi fermai su una panchina sotto un lampione; aprii il libro ma fissai inutilmente le pagine scritte.
"Avrei dovuto prendere un romanzo." pensai, anche se probabilmente non sarei riuscita a leggere comunque nulla, libro difficile o meno.
Sospirai e cominciai ad accarezzare assorta le pagine.
Forse era ora di farla finita; dopotutto. Non aveva più alcun senso continuare in questo modo, né per me, né per John: era più il tempo che passavamo litigando che non quello in cui stavamo bene insieme, senza contare che era assai difficile capirci a vicenda. Forse eravamo troppo simili, ed era proprio questo il problema. Ci stavo male, ma immaginavo che fosse normale dopo due anni di rapporto.
Il suono di una voce che diceva qualcosa mi strappò improvvisamente dai miei pensieri, facendomi letteralmente fare un salto altro tre metri quando mi resi conto di essere da sola in un parco in chissà quale punto della città alle quattro del mattino. Alzai gli occhi, con il cuore che batteva freneticamente, mentre maledicevo le mie brillanti idee, tuttavia mi tranquillizzai un po' quando vidi che la persona che aveva parlato era una giovane donna.
Come se non ci fossero serial-killer fra le donne.” commentò la mia Coscienza, che come al solito aveva scelto il momento meno opportuno di tornare a farsi sentire.
La misi rapidamente a tacere, poi mi ricordai che la ragazza stava ancora aspettano.
- Mi spiace, non parlo tedesco. - dissi a bassa voce, sperando che lei invece sapesse l'inglese.
Lei sembrò parecchio sorpresa, poi impiegò qualche minuto per pensare, prima di parlare di nuovo.
- Stai bene? - chiese in un inglese un po' stentato, ma comunque comprensibile.
- Sì, grazie. - risposi, anche se non riuscii a convincere nemmeno me stessa.
La ragazza si sedette a fianco a me in silenzio, e io ne approfittai per osservarla. Aveva i capelli biondi tagliati cortissimi e un viso dai tratti delicati; era minuta e molto graziosa, ma era vestita completamente di nero.
- E' per un ragazzo, vero? -
Annuii e abbassai gli occhi, mentre con la coda dell'occhio continuavo ad osservarla.
- Posso chiederti cosa ci fai qui? Voglio dire, a quest'ora della notte...- iniziai un po' imbarazzata.
- Avevo bisogno di schiarirmi le idee... Un po' come te, in somma. - disse lei sorridendo appena. - Io sono Astrid. -
- Senti, è possibile che ci fosse stato qualcuno vestito in modo simile a te al Kaiserkeller qualche tempo fa? - le domandai dopo essermi presentata a mia volta, ricordandomi del ragazzo cui avevo servito l'ordinazione sbagliata.
Lei ci pensò un po' su:- Doveva essere Klaus, un mio amico. E' andato lì, ed è tornato a casa entusiasta del gruppo che aveva sentito suonare. Credo fossero inglesi anche loro. -
- Sì, forse sono proprio i ragazzi con cui sono venuta da Liverpool. - dissi, contenta che i miei amici fossero apprezzati.
Quando sentii le campane suonare in lontananza mi accorsi che stavo sbadigliando.- Okay, forse è meglio che torni al Bambi Kino. -
- Al Bambi Kino?! - chiese Astrid incredula.
- Alloggio lì, purtroppo. -
- Ma quel posto cade a pezzi! -
- Non dirlo a me... - mormorai. - Be', è stato un piacere conoscerti, Astrid. Spero ci incontreremo qualche volta al Kaiserkeller. -
- Vuoi un passaggio? - si offrì lei.
- No, grazie, vado a piedi. - declinai l'invito pensando che più tardi fossi arrivata al Bambi meglio sarebbe stato.
In realtà la passeggiata riuscì a farmi venire di nuovo il malumore. Me la presi con comodo e ci misi più di un ora a ritornare alla Reepherbann, ma comunque era abbastanza presto perché potessi scongiurare di incontrare John. Quando giunsi al nostro alloggio, infatti, non avvertii alcun segno di vita proveniente da una delle altre stanze, segno che tutti stavano ancora dormendo, così mi infilai nel letto vestita e mi assopii.
Mi svegliai verso mezzogiorno, e con somma gioia non trovai nessuno, anche se mentre io uscivo dal cinema, il gruppo dei miei amici stava tornando indietro.
Feci finta di niente e mi diressi dalla parte opposta della strada, sperando di passare inosservata, ma poi Paul mi chiamò e mi trovai costretta a raggiungerli.
- Ti abbiamo preso qualcosa da mangiare. - mi comunicò George passandomi il sacchetto di una panetteria con dentro due brioches.
- Queste non bastano per estinguere il debito accumulato alla fiera. - replicai sorridendo.
- Be', è comunque un passo avanti nella direzione giusta, no? E se non le vuoi puoi sempre ridarmele! - esclamò il ragazzo.
Il brontolio del mio stomaco, però, mi fece divorare uno dei due dolci in mezzo secondo.
- E' molto buona, grazie, George. - dissi con ancora la bocca piena.
- Ringrazia il Macca, è lui che ha pagato. -
- Dove sei stata ieri notte? - chiese John a bruciapelo.
Il suo intervento fece ovviamente svanire ogni traccia di allegria che ci fosse nel gruppo, poiché il ragazzo doveva aver informato gli altri del nostro litigio, oppure loro se ne erano accorti da soli. Più probabile era la seconda ipotesi.
- A differenza tua, non a puttane. - ribattei glaciale.
Il silenzio che seguì fu interrotto solo da qualche imbarazzato colpo di tosse, mentre io sostenevo infuriata lo sguardo di John. Nessuno dei due voleva distoglierlo per primo, ma poi Paul disse qualcosa di non meglio identificato sul fatto che anche lui aveva cominciato a prendere le pastiglie di eccitanti che richiamò la mia attenzione.
Dopo un breve giro, decisi di tornare alla mia stanzetta, poiché una mezza idea mi era venuta in mente. Tirai fuori dalla borsa il mio portafogli e cominciai a contare tutti i soldi che avevo, rimanendo piuttosto soddisfatta dal risultato. Mi annotai la cifra sul dorso della mano, poi nascosi nuovamente il denaro, prima di andare a lavorare.
Verso mezza notte vidi entrare al Kaiserkeller un volto che conoscevo.
- Astrid!- la salutai allegramente e lei ricambiò. Mi accorsi che era in compagnia del ragazzo che riconobbi essere quello di cui le avevo parlato.
- Lui è Klaus. - me lo presentò la ragazza.
- Piacere. - disse Klaus.
- Vi porto qualcosa da bere? - chiesi loro.
Ordinarono due birre e gliele portai, poi andai a sedermi con loro una volta finito il turno. Klaus mi fece una miriade di domande su Liverpool, l'Inghilterra e sopratutto sui Beatles, mentre Astrid non parlava molto, ma era impegnata ad osservare i ragazzi che suonavano ed in particolare Stu.
Sorrisi, mentre rispondevo all'altro tedesco, poi, dopo parecchie canzoni, mi decisi ad attuare la mia risoluzione.
- Astrid, ti andrebbe di mostrarmi qualche hotel qui intorno? -

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Buona sera a tutti! Sono tornata con il nuovo (e spero atteso capitolo). Molto diverso da quello dell'altra volta, lo so, ma è un periodo in cui sono lunatica e ho continui sbalzi d'umore, e questo ovviamente si riflette sulla mia scrittura. Ve lo aspettavate così l'incontro con Astrid? Be', prima o poi doveva per forza succedere! Spero vi piaccia.

JennyWren: grazie mille per la recensione, mi ha fatto davvero piacere sapere che la storia continui a piacerti: è un periodo in cui mi sento un po' stufa, penso che si stia protraendo un po' troppo, ma il tuo commento mi ha davvero tirato su il morale, perciò te ne sono davvero grata!

Alla prossima.

Peace n Love.

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Capitolo 31
*** 30. - Fixing a Hole ***


Fixing a Hole.


Sprofondai nella vasca immergendomi nella schiuma profumata, assaporando finalmente la bella sensazione dell'acqua calda che mi avvolgeva. Per tutto il tempo passato al Bambi, infatti, avevo fatto tutti i giorni le contorsioni per riuscire a mantenere un minimo di igiene personale, e avevo agognato a farmi un bagno che si potesse definire tale. Sospirai pensando a quanto stessi meglio in quel piccolo hotel che in realtà era poco più che una bettola, ma che almeno era pulito, fornito di un letto decente e di un vero bagno. Ero davvero grata ad Astrid per l'aiuto che mi aveva fornito nel trovare una nuova sistemazione.
Uscii dalla vasca mezz'ora dopo e mi resi conto che il tempo mi era sfuggito di mano e che ero in ritardo per l'uscita che io, Astrid e Klaus avevamo in mente di fare.
Mi raccolsi velocemente i capelli bagnati in una treccia e mi infilai i pantaloni saltellando per la stanza alla ricerca delle scarpe e della borsa. Appena fui pronta mi precipitai fuori dall'hotel e mi diressi quasi correndo al punto di ritrovo che avevamo fissato, dove trovai  Astrid ad aspettarmi.
- Scusa il ritardo. - le dissi recuperando il fiato.
- Nessun problema, sono qui da cinque minuti. - mi rassicurò la tedesca.
- Klaus? - chiesi notando la sua assenza.
- Ha dovuto fermarsi a scuola per discutere qualcosa con uno dei nostri professori. - mi spiegò. - Forse viene 'sta sera. -
- Che programmi abbiamo? -
- Un pomeriggio tra ragazze. Sarà estenuante stare fra tutti quei maschi! -
- Basta che non mi porti a fare shopping...- la implorai.
- Non ti piace? -
Scossi la testa:- Dipende; se è shopping di libri sono assolutamente a favore. -
Astrid rise allegramente.
- Effettivamente, è proprio da te dire una cosa del genere. - commentò. - Comunque non preoccuparti, pensavo ad un pomeriggio sul fiume a prendere il sole. -
La ragazza mi indicò un'auto parcheggiata a bordo della strada che non avevo nemmeno notato, e quando fummo salite cominciò a guidare sulla strada che procedeva parallela al fiume per un po' di tempo, abbastanza per uscire dalla città e ritrovarci nella campagna tedesca. Raggiungemmo un'area verde in mezzo agli alberi, poi raggiungemmo la sponda del fiume e ci sedemmo lì.
- Che pace... - mormorai con gli occhi socchiusi, ascoltando il rumore dell'acqua e il canto degli uccelli.
Astrid annuì e si sdraiò di fianco a me:- Mi piace tantissimo questo posto. Quando ero piccola i miei genitori mi ci portavano sempre. -
Rimanemmo un po' in silenzio, godendoci la quiete del luogo, e nel frattempo tirai fuori dalla borsa il blocco da disegno che mi portavo sempre dietro e cominciai a fare uno schizzo del paesaggio.
- E' molto bello. - disse Astrid, la quale, senza che me ne accorgessi, si era messa a sedere e mi stava osservando.
- Grazie, ma lo stai dicendo per gentilezza. Dovresti vedere le opere di Stuart, lui è l'artista del gruppo. -
- Stuart? -
- Il bassista. - precisai.
- Oh, quello che suona girato di spalle? -
- Sì, lui.- risposi. - A Liverpool frequenta la scuola d'arte e ha persino venduto un quadro ad un gallerista. -
- Vi conoscete da tanto tempo, voi due? - chiese ancora Astrid.
Annuii:- Sì, anche se per un certo periodo abbiamo avuto qualche problema, ma ora sembra che li stiamo superando -
- Capisco. Be', ne vale la pena per uno così. -
Rimasi assorta per un attimo, cercando di capire se ero io a fraintendere il senso delle sue parole o se invece lo stesse facendo lei.
- No, guarda, io e Stu non stiamo insieme! - esclamai.
Lei sgranò gli occhi e rimase con le labbra schiuse in un “oh” di sorpresa.
- Io sto con John. - le dissi. - O almeno era così fino alla sera in cui ci siamo conosciute. -
Non lasciai che la negatività di quel pensiero intaccasse il mio umore, così ridacchiai del malinteso, e anche Astrid fece lo stesso.
- Stuart è single. - le rivelai a bassa voce. - Per il momento. -
Lei, per quanto fosse una persona controllata, non poté evitare di lasciarsi sfuggire un lampo di gioia che le attraversò il volto ed io sorrisi, perché già me li immaginavo benissimo insieme.
Di buon umore, tornai a guardare il fiume, su cui il sole si rifletteva donando all'acqua una sfumatura dorata. E come sempre, guardando quel paesaggio meraviglioso mi persi ancora una volta nei miei pensieri. Il sorriso scomparve dalle mie labbra quando finii con il pensare a John, ma non potevo evitarlo: anche se cercavo di fingere che non fosse vero, cominciava a mancarmi.
Assorta com'ero non mi accorsi dei continui click in sottofondo, fino a quando fui costretta a distogliere lo sguardo dall'acqua iridescente perché mi facevano male gli occhi.
Astrid non era più seduta al mio fianco, ma al contrario era accucciata a qualche metro di distanza, con una macchina fotografica in mano. Una lacrima, dovuta al fatto che i miei occhi erano irritati, mi scivolò sulla guancia proprio mentre lei scattava un'altra foto.
- Questo è tradimento! - esclamai.
- Ma se vieni benissimo. - replicò lei. - Ho fatto delle foto piuttosto carine. -
- Cioè meravigliose. - commentai.
Lei scrollò le spalle sorridendo, poi, visto che il sole si stava abbassando sempre di più sull'orizzonte, decidemmo di tornare in città.
- 'Sta sera ti va di venire con me e Klaus in un locale, dopo che hai finito li lavorare? - propose Astrid mentre stavamo tornando a casa.
- Sì, molto volentieri. Se prima vieni al Kaiserkeller ti presento Stuart. -
- Be', chi sono io per rifiutare...- disse la tedesca, facendoci ridere entrambe.

Il locale in cui Astrid e Klaus ci avevano trascinati era molto particolare e non aveva niente a che vedere con quelli che fino a quel momento avevo visto nella Reepherbann. Era molto più moderno e aveva delle luci particolari che mi stordivano.
- Tanto peggio di come sei di solito...- commentò Paul quando lo dissi ad alta voce.
- Taci, o la prossima volta non ti invito a venire con me. - ribattei prendendolo in giro.
Alla fine, dopo che io e Klaus avevamo presentato ad Astrid John, George, Stu e Paul ( Pete si era di nuovo volatilizzato subito dopo la fine della serata), lei aveva chiesto a tutti quanti se volevano unirsi a noi. E ovviamente tutti avevano accettato con entusiasmo.
Stu e John in quel momento erano già al bancone ad ordinare una birra.
Quando il secondo se ne fu andato, Astrid raggiunse Stuart e cominciò a parlargli, mentre Klaus discorreva con gli altri membri del gruppo. Mi sentivo una sorta di terzo incomodo, così comunicai loro che sarei andata a fumare, e uscii dal locale senza accertarmi che qualcuno avesse recepito il messaggio.
Alla fine, stavo sempre meglio all'aria aperta.
Feci qualche tiro, rabbrividendo appena quando cominciò a soffiare una brezza fresca. Avevo indosso un abito azzurro che arrivava al ginocchio e lasciava scoperte le braccia, ma al di là del vento la temperatura era molto piacevole. Stavo morendo di sonno, ma mi spiaceva andarmene così presto, visto che eravamo arrivati da poco. Era anche vero, però, che tutti erano in compagnia, e non avrebbero sofferto la mia mancanza. Sospirai e mi dissi che se volevo tornare all'hotel, dovevo almeno avvertire Astrid.
Finii la sigaretta e la spensi sull'asfalto, poi appoggiai con una spalla al lampione posto quasi di fronte al locale in cui erano i miei amici.
- Ehi, bellezza, cerchi compagnia? - chiese una voce alle mie spalle
Trasalii e mi voltai di scatto, trovandomi davanti quello che sembrava un marinaio palesemente ubriaco.
Lavorando io al Kaiserkeller era capitato che qualche cliente ci provasse con me, anche insistentemente, ma lì ero circondata da persone che conoscevo e avevo mille scuse per allontanarmi.
- No, mi spiace. - risposi cercando di nascondere l'ansia nella cortesia. - Dovrà cercare altrove. -
Il marinaio rise:- Come siamo formali. -
Cercai di capire se sarei riuscita a raggiungere la porta del locale, ma il nerboruto mi bloccava il passaggio; provai ad aggirarlo, ma peggiorai la situazione, perché lui mi afferrò il polso.
- Dove scappi? - Mi tirò verso di sé mentre io cercavo di liberarmi.
- Mi lasci andare! - gridai dibattendomi, ottenendo come risultato l'effetto contrario.
Sentii dei rumori provenienti dal locale, e sperai con tutte le mie forze che qualcuno si accorgesse di quello che stava succedendo.
- Ehi, tu, lasciala immediatamente! - ordinò John furioso.
Il marinaio non fece in tempo a girarsi che un pugno del ragazzo lo colpì in pieno volto.
Troppo ubriaco per reagire in fretta, l'altro si limitò a chiedere:- E tu chi saresti? -
John mi prese per i fianchi e mi spinse dietro i sé.
- Il suo ragazzo, ma comunque non sono affari tuoi, stronzo. -
Vidi il marinaio fremere di rabbia, ma a quel punto  anche Paul, George, Stu e Klaus uscirono di corsa dal locale e si avvicinarono, e lui si accorse di essere cinque contro uno.
- Non ne vale la pena. - ringhiò , poi si girò e si allontanò.
Dopo che il marinaio se ne fu andato ci raggiunse anche Astrid, che era rimasta sulla porta del locale, mentre per un momento John continuò a guardarlo con il volto trasfigurato dall'ira, ed io ebbi paura che da lì a poco avrebbe cominciato a inveire contro la mia stupidità. Rimase immobile mentre io rassicuravo gli altri sul fatto che stessi bene, poi emise un ringhio furioso e mi rivolse un'occhiata in tralice, ma non disse niente.  
Tuttavia la rabbia scomparve dal suo volto. Si girò, scostò da me Paul e George, mi prese per i fianchi e mi strinse in un abbraccio quasi soffocante, tanto era stretto.
- Possibile che tu debba sempre cacciarti nei guai? - disse poi.
- La vita sarebbe troppo noiosa altrimenti. - replicai sorridendo, anche se cominciavo a tremare a causa della tensione.
- Scusami. - sussurrò il mio ragazzo, forse sperando di parlare a voce troppo bassa perché gli altri sentissero.
- John Lennon si è scusato. Domani piove! - esclamò invece George.
- Dì pure che ci sarà un'alluvione. - lo corresse Stuart.
 - O un tornado. - aggiunse Paul.
- O un terremoto. - continuò il più giovane dei tre.
- O un'eruzione vulcanica. -
Com'era prevedibile, andarono avanti per tutto il resto della serata a nominare catastrofi ambientali.


__________________________________

Hola, come va? Ebbene sì, ce l'ho fatta ad aggiornare, so che aspettavate con impazienza (sì, Meg, continua a sperare...)
Comunque, ho poco da dire riguardo a questo capitolo, se non che la facevo proprio a tenere Anna e John separati a lungo... Spero che il capitolo vi piaccia.
(P.S., so che il titolo non c'entra un'accidenti, ma ero a corto di idee!)


Cherry Blues: Be', fin da quando ho cominciato a scrivere questa fan fiction ho cercato il più possibile di mantenere il più possibile il corso degli eventi reali, ma comunque di avere un personaggi a sé stanti, che non facessero semplicemente la radiocronaca della vita dei Beatles dei primi tempi... e sono felicissima di essere riuscita nel mio intento!!!! Grazie mille per la recensione!

Cagiu_Dida: Grazie per il saggio consiglio, ma purtroppo oltre che lunatica sono anche molto, molto emotiva, per cui non riesco a non dare un peso enorme ai miei sentimenti, ma comunque ci provo :)  Sempre più felice che la storia ti appassioni!!!! Alla prossima!


Peace n Love.

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Capitolo 32
*** 31. - Magical Mistery Tour ***


Magical Mistery Tour.
 



- No, tu non hai capito bene, cara!- esclamò Astrid gesticolando - Non ti puoi rifiutare di venire, non puoi proprio! -
- Astrid, da quando ti conosco non hai fatto altro che trascinarmi in giro per locali, e feste; se anche dovessi passare per una volta, sono sicura che non ne morirei... - replicai mentre davo una pulita ad un tavolo che si era liberato da poco.
- Sì, ma questa sarà la migliore in assoluto! E poi vengono tutti, anche John. -
- Solo perché abbiamo fatto pace, non vuol dire che adesso io abbia il dovere di seguirlo ovunque io vada! -
- Ma sei proprio antipatica, sai? -
- Tanto, anche se venissi, non te ne accorgeresti nemmeno, impegnata come sarai con Stu. - dissi.
Al solo sentire quel nome, lo sguardo di Astrid si addolcì e si fece sognante. Guardandoli si vedeva chiaramente quanto fossero innamorati l'uno dell'altra, ed era facile perdonare a Stuart il fatto che stesse trascurando la band; anche io l'avrei fatto, al posto loro, ma con John non c'era pericolo. C'era da dire, però, che non tutti erano della mia opinione riguardo ai due piccioncini (ed era comprensibile dal momento che stava creando qualche piccolo problema al gruppo), ma in particolare Paul era il più incazzato e cercava in tutti i modi di creare astio nei confronti del bassista. Il perché si comportasse così mi era ignoto, ma probabilmente la cosa era da imputarsi a quegli stra-maledetti eccitanti, a causa dei quali il Macca se ne veniva fuori, ogni tanto, con delle sfuriate assurde, oppure rispondeva male, o accusava John di preferire Stu a tutti gli altri, perché se fosse stato un altro a comportarsi in quel modo, diceva, l'avrebbe già cacciato fuori da un pezzo. A quel punto, ovviamente, anche John si arrabbiava e gli rispondeva a tono, e così la cosa degenerava in lite.
Insomma, il clima era piuttosto teso ultimamente, e cominciai a pensare che distrarmi con la festa di Astrid poteva farmi solo che bene.

- Sì che me ne accorgerei! - stava continuando intato la ragazza.
Sbuffai:- Vado a servire ai tavoli. -
- Lo sai che non te la caverai così in fretta. -
- Ci penserò su, soddisfatta? - le dissi mentre già mi stavo allontanando.
- Neanche un po'. - replicò lei ridendo.

Neanche a dirlo, nel fatidico giorno x, Astrid mi implorò di andare a casa sua dal tardo pomeriggio per aiutarla a finire i preparativi, i quali, come scoprii a mie spese, erano principalmente incentrati sull'agghindamento di lei e di me.
"Ti fai convincere troppo facilmente, mia cara Anna..."pensai mentre mi raccoglievo i capelli in una treccia.
- Anna, sei pronta? - mi chiese Astrid da oltre la porta del bagno.
- Sì, arrivo subito! - le risposi raggiungendola.
All'inizio, prima di vedere casa sua, avevo pensato che fosse una pazza ad ospitare una festa con tutti quegli invitati, ma poi mi ero accorta che non c'era ambientazione migliore per un evento tanto particolare. I colori che predominavano erano il bianco e soprattutto il nero, come c'era da aspettarsi conoscendo Astrid e i suoi amici, per questo ero un po' preoccupata riguardo al mio vestito rosso ciliegia.
- Come al solito, sono inadatta come un ippopotamo in tutù. - commentai fra me e me.
- Sciocchezze! - ribatté Astrid, cui il mio commento non era sfuggito. - Sei un incanto: a John verrà un colpo. -
- Be', anche a Stu, fidati. - risposi e lei abbassò impercettibilmente lo sguardo, poi cambiò argomento:- Dobbiamo ancora mettere a posto la musica! -
Andammo in soggiorno e sitemammo le ultime cose appena in tempo, perché subito dopo arrivarono i primi ospiti.
Astrid mi presentò a tutti, e i suoi amici furono molto cortesi con me, cosa che contribuì a rilassarmi parecchio.

- Sono in ritardo. - osservò la tedesca scrutando la strada.
- Che ti aspettavi, che arrivassero con un quarto d'ora d'anticipo? - ribattei. - Se va bene saranno qui tra quarantacinque minuti. -
Le dissi che era assolutamente inutile aspettarli fuori sul portico, così tornammo nel soggiorno, dove la musica aveva cominciato a suonare.
Klaus mi invitò a ballare e visto che la canzone che era partita mi piaceva da matti, accettai di buon grado.
Alla fine, John, George, Paul, Stu e Ringo fecero il loro ingresso. Fu Astrid ad indicarmeli, così la raggiunsi e guardai l'ora, poi scossi la testa, contrariata.
La mia previsione si era rivelata inesatta: non erano in ritardo di quarantacinque minuti, ma di quarantasette.

- 'Sta notte, mentre dormirete, vi punterò tutti gli orologi avanti di un'ora, lo giuro. - li minacciai.
- Dimentichi un minuscolo particolare, piccola. - replicò John.
- E sarebbe?-
- Che non abbiamo orologi. -
Astrid rise, poi andò a salutare Stu gettandogli le braccia al collo.
- Balliamo? - propose il mio ragazzo porgendomi una mano.
- No. - risposi, ma subito scoppiai a ridere vedendo l'espressione che lui assunse al mio rifiuto.
- Sei antipatica , a volte. - sussurrò John, poi mi prese per mano e mi trascinò volente o nolente in mezzo alla pista.
Dopo un paio di canzoni, notai con la coda dell'occhio che Stu e Astrid stavano ballando di fianco a noi stretti l'uno all'altra.
Lui le sussurrò qualcosa all'orecchio che la fece arrossire leggermente, e quando il brano finì la tedesca prese il bassista per mano e lo condusse fino ad una porticina che si affacciava ad un angolo del salotto, dietro la quale scomparvero.

- Sembri una di quelle vecchiette guardone che si fanno gli affari di tutto il vicinato. - mormorò John mentre partiva un'altra canzone. Mi finsi offesa a morte e lasciai la presa sulle sue spalle.
- Vorrà dire che la vecchietta andrà a ballare con qualche giovanotto più educato. - replicai e mi voltai per raggiungere George, Paul e Ringo che se ne stavano in disparte con dei bicchieri pieni in mano.
Il Macca bevve in un sorso il contenuto del suo, poi mi guardò implorante:- Me ne andresti a prendere un altro? -

- Perché, a te si sono atrofizzate le gambe? - risposi sarcastica.
- Per favore...- continuò lui con una vocina da bambino, poi mi indicò un tavolo su cui erano sistemate file di alcolici.
Buffai, presi il suo bicchiere e lo andai a riempire con la prima bottiglia che mi capitò sotto tiro. Quando tornai indietro Paul mi strappò letteralmente il bicchiere dalla mano biascicando un "graaazie", poi notai che Ringo si stava mettendo in bocca qualcosa di non meglio identificato.
- Cos’è?- chiesi titubante.
- Caramella! - rispose George un po’ troppo velocemente per i miei gusti.
Guardai Ringo che nel frattempo si stava godendo quella cosa. Dire che erano già tutti ubriachi era superfluo.
- La vuoi anche tu? - chiese John, che nel frattempo si era unito a noi.
- Dov’è la fregatura? -
- Non c’è nessuna fregatura, davvero!- ribatté Paul.
Li guardai scettica.
- Non avrai mica paura, vero? - mi stuzzicò John, puntando come il suo solito sul tasto sensibile dell'orgoglio.
- No, certo che no! - risposi contrariata.
Paul mi allungò la "caramella". Era strana, trasparente e con una consistenza gelatinosa.
- Se mi succede qualcosa di brutto, giuro che vi ammazzo tutti! - dissi.
- Fidati di noi, Anna! Abbiamo mai fatto qualcosa di sconsiderato?- intervenne George.
- Non peggiorare la vostra situazione. - lo ammonii.
Sospirai.
"Ti fai convincere troppo facilmente, mia cara Anna..." mi ripeté la voce della mia Coscienza.

All'inizio non percepii alcuna differenza, ma dopo qualche tempo le pareti cominciarono ad ondeggiare.
-
Che sta succedendo? - chiesi a bassa voce, confusa.
Appena finii di parlare, il mondo mutò: la musica smise di suonare e si trasformò nel palpito fortissimo di mille cuori che battevano insieme, in sincrono con il quale le persone intorno a me ballavano.
Le pareti della piccola stanza si aprirono come i lati di una scatola di cartone che venisse schiacciata e ci ritrovammo sopra l'arco dell'arcobaleno.
Intorno a noi il cielo era di un porpora scuro, simile al colore della marmellata di more. Guardai estasiata il panorama intorno a me, che non consisteva in altro che cielo, quando mi accorsi che accanto a me c'era un ragazzo. Guardai il suo viso, illuminato dal sole e dalla luna che splendevano insieme senza che tuttavia riuscissi a capire dopo fossero. Gli posai una mano sulla guancia, e la mia pelle cominciò a pulsare, come se si fosse creata una connessione fra le mie cellule e quelle del ragazzo. Lo osservai ancora, in silenzio, poi lo attirai a me e lo baciai.
Dopo quel bacio lungo al sapore di limone e lavanda, che interrompemmo solo per respirare, presi il ragazzo per mano e lo condussi in mezzo alle persone che ancora ballavano e parlavano senza produrre alcun suono, sino alla striscia verde dell'arcobaleno, dove subito assumemmo quella stessa tonalità di colore. Scoppiai a ridere, e gettai la testa all'indietro. La mia risata risuonò tutt'intorno come una campanella d'argento.
Felice ed eccitata come non lo ero mai stata cominciai a ballare una danza concitata, tribale; i miei piedi ruotavano veloci facendomi ondeggiare, e mentre ruotavo su me stessa, io e il ragazzo ci ritrovammo soli, in una radura rischiarata dalla luna. Continuai a danzare, sprofondando fino alle caviglie nell'erba soffice e dorata.
Il ragazzo dal viso opalescente mi guardava senza dire nulla, con gli occhi che brillavano, poi, all'improvviso, mi afferrò per i fianchi e mi strinse a sé: mi spinse contro il tronco di un albero e cominciò a baciarmi con passione.

-J ohn...- mormorai, sempre più ebbra, mentre un forte calore si irradiava dal basso, calore che divenne sempre più intenso, fino a far male.
Guardai le mie gambe e gridai: stavo bruiciando viva. Le lingue di fiamma mi lambivano ormai fino al bacino, e sebbene cercassi di divincolarmi muovendomi isterica, continuavano a salire.
John mi strinse per le spalle, cercando di tenermi ferma.

- Anna, calmati: non stai andando a fuoco.- continuò a ripetermi.
Mi sollevò il mento e mi costrinse a guardarlo negli occhi, che racchiudevano dentro di sé tutte le sfumature d'azzurro e di blui che si potessero immaginare. Il solo specchiarmi in quell'oceano bastò a spegnere le fiamme.- Vieni, raggiungiamo gli altri. - disse il ragazzo e mi prese per mano, trascinandomi al limite della radura.
M
i chiesi chi fossero questi "altri" di cui aveva parlato, ma poi scrollai le spalle e non ci pensai più.
Mi condusse verso un'enorme quercia che troneggiava fra gli altri alberi. Avvicinandomi, mi accorsi che nel tronco erano incisi degli strani simboli ed era scavato un portale.
John mi sorrise, poi oltrepassammo il portale insieme. Ci ritrovammo in una strada deserta, senza case ai lati, che non finiva mai, ma si estendeva fino all'orizzonte estremo, procedendo tortuosa, illuminata da un unico lambione che tuttavia bastava riempire ogni centimetro di luce argentata. Proprio sotto di esso c'erano tre ragazzi che mi parve di riconoscere.
I loro nomi affiorarono alla mia memoria: erano Paul, George e Ringo. Avevano dei volti strani, deformati un po' dal loro continuo starnazzare come galline in un pollaio, un po' dalle strane ombre che il lampione creava sul loro viso.

Ringo era seduto in disparte, sul grosso corn-flake che costituiva il marciapiede. Lo raggiunsi e lo salutai.
- Sto aspettando l'autobus.- disse lui semplicemente. A
nnuii e mi sdraiai di fianco a lui. Da lì non riuscivo a capire se quello che era sopra di noi fosse cielo o se fosse la superficie del mare; sopra la nostra testa si muovevano pesci lampeggianti.

- Magari siamo in un acquario. - osservò Ringo facendo eco ai miei pensieri.
- Ho sempre sognato di essere un tricheco. - gli confidai.
-
 Io un polpo. E vorrei vivere in uno chalet con un giardino enorme pieno di carmelie e di viole, e magari qualche stella alpina. -
- Mi piacciono le stelle. - dissi guardando in su.
A quelle parole i puntini luminosi che vedevo in lontanaza cominciarono a pulsare e a vibrare, fino a creare un vortice che discese su di me e sul ragazzo e ci avvolse.
Mi misi a sedere e lo guardai. Sul suo volto si alternavano visi di persone che conoscevo, prima gli occhi di uno e poi gli occhi di un altro. Confusa, non capivo più chi fosse quello che mi stava davanti. Era Ringo... o forse era John? No, era decisamente John.

- Ti amo, Johnny. - gli dissi prima di baciarlo, mi sdraiai di nuovo sull'asfalto, trascinandolo com me. Continuammo a baciarci, mentre distrattamente sentivo qualcuno sghignazzare.
Mi avvinghiai a lui, le nostre lingue altrettanto avvinte, finché qualcuno non afferrò John per le spalle e me lo strappò di dosso. Mugugnai contrariata e mi alzai in piedi barcollando appena. Poco distante John stava gridando qualcosa contro Ringo, tenendolo per il bavero della giacca. Li raggiunsi e abbracciai il mio ragazzo, incrociando le braccia sul suo petto.

- Lascialo stare, amore: che cosa ti ha fatto?- gli dissi e lui lasciò la presa sull'altro, mentre con la coda dell'occhio vedi Paul e George piegati in due.
Non feci in tempo a chiedere che cosa fosse loro accaduto, che John mi prese per mano e disse:- Torniamo dentro. -
Mi condusse in una casa che prima non c'era, che aveva le pareti storte e i mobili sul soffitto invece che sul pavimento. La musica era molto alta e nelle stanze centinaia di persone con la pelle blu ballavano e cantavano.
- Ho sete. - dissi a John.
Lui scomparve lasciandomi lì in mezzo alla folla e ritornò pèoco dopo con due bicchieri in mano, riempiti con del liquido gelatinoso fluorescente. Mandai giù il mio bicchiere a goccia, ma non fece che aumentare l'arsura nella mia gola, così afferrai quello di John e lo bevvi prima che lui avesse il tempo di protestare. Quando lo finii, magicamente, entrambi i bicchieri si riempirono nuovamente, cosaì non dovetti preoccuparmi di rimanere senza bevanda. Dal pavimento cominciò a levarsi una strana nebbia grigia che si alzava sempre di più man mano che buttavo giù bicchieri.
Il ritmo di ciò che succedeva divenne sempre più concitato e turbinante e alla fine mi stordì.
Quando John disse:- Torniamo a casa. - non riuscivo a stare nemmeno in piedi, così lui mi riportò indietro a cavallo di un unicorno giallo con il corno luminoso.
Arrivammo ad un enorme edificio splendente, illuminato da lunghe file di torce multicolori.
- Che posto è questo? Un castello? - chiesi a John estasiata, mentre entravamo nell'ampio salone.
Lui mi condusse per caloni e corridoi sfarzosi, che facevano assomigliare quel luogo incantato a una Versaille in miniatura, fino a fermarsi davanti ad un'enorme porta decorata da bassorilievi.

La stanza dietro di essa era piena di colore e la luce era tanto intensa che dovetti schermarmi gli occhi con una mano. Non avevo mai visto una stanza così bella. C'era un'enorme letto esattamente al centro, decorato con ampie volute e scene mitologiche, e sopra di esso una finestra faceva entrare la luce rossa del sole che tramontava.
Guardai John; la sua pelle iridescente brillava più forte di qualsiasi altra luce.

- Ti amo, John. - dissi e lo baciai.
Chiusi gli occhi, ma continuavo a vedere immagini colorate che mi stavano facendo uscire di testa. Il profumo di John riempiva l'aria e mi inebriava. Gli accarezzai la schiena e lo strinsi a me più che potevo.
Quando mi staccai per respirare lo guardai negli occhi. Le sue iridi rilucevano. Lo sospinsi verso l'enorme letto e lui si sdraiò, forse sorpreso dalla mia audacia.

Gli salii sopra in modo che non potesse muoversi e lo baciai di nuovo, mentre le mie mani cominciavano a sbottonargli la camicia, scoprendo un pezzo alla volta quella pelle dai colori brillanti.
G
li baciai il petto, poi mi fermai di nuovo a guardarlo. Non era mai stato così bello.
Sentii dei rumori lontani, ma non vi diedi peso. L'unica cosa che desideravo era che lui mi toccasse.
Intorno a noi la stanza era improvvisamente scomparsa, lasciando il posto ad un prato con e fiori alti quasi come un uomo che sembravano disegnati da un fumettista. Gli alberi di carta velina si piegavano sotto il vento, che era provocato da una nuvola che in lontananza soffiava.

Fissai gli occhi di John a lungo.
- Spogliami.- dissi.
Il ragazzo rimase immobile, con la bocca semi-aperta.
- Come?- chiese.
Di certo non si aspettava che gli facessi una richiesta del genere. Ridendo, mi allontanai da lui e andai a sedermi a qualche passo di distanza, appoggiando la schiena contro un albero.
Tirai fuori una sigaretta e cominciai a fumarla mentre John si alzava sui gomiti per non interrompere il contatto visivo. Il fumo si alzava in evanescenti volute violacee che si protendevano verso la luna palpitante.
Aspettai che la sigaretta si consumasse, feci un ultimo tiro e la lasciai cadere sul prato trasparente.
Mi avvicinai a John imitando le movenze di un felino e gli salii di nuovo sopra. Scesi a baciargli il collo, lasciando uscire un po’ alla volta il fumo.
- John Lennon che si deve far ripetere un invito come quello... - mormorai al suo orecchio, prima di mordicchiargli il lobo.
La mia mano scivolò lungo il suo petto e gli slacciò il bottone dei pantaloni scuri, poi si insinuò sotto i boxer.
Cominciai a sentire una musica strana e delle risate, ma erano suoni ovattati, coperti dall'incessante battere del mio cuore e dai sospiri di John.
Mi sfilai la maglietta e la gettai sul prato d'erba azzurra; slacciai con facilità il reggiseno e lo lasciai scivolare di lato. Mi chinai per baciargli il ventre, poi risalii sul petto e infine sul collo.

John mi prese per i fianchi e mi impedì di rialzare il busto, poi cominciò ad accarezzarmi con una mano il seno, mentre l'altra scivolava su e giù per la mia coscia.
Improvvisamente, senza che me ne rendessi conto, le posizioni si ribaltarono e mi trovai sotto di lui.

Gli tolsi definitivamente la camicia, mentre lui mi sfilava velocemente i jeans e gli slip. Mi baciò i seni. Socchiusi gli occhi, mentre guidavo la sua mano fra le mie gambe.
Mi sentivo euforica: percepivo ogni sensazione amplificata, tuttavia non riuscivo ad esserne sazia. Mi strinsi a lui, cominciando ad ansimare e gli graffiai la schiena a la nuca.
Mormorai più volte il suo nome, completamente inebriata.
La luce della luna, così simile a quella del sole, che illuminava il prato si fece sempre più intensa e il grande letto scomparve. Galleggiavamo su uno specchio d'acqua liscio e immobile. Guardai in alto.
Riuscivo a vedere tutto l'universo ed esso scorreva sul mio corpo e su quello di John. Poi eravamo di nuovo io e lui, nell'erba, sotto una cortina di pioggia.
Percepii vagamente che il ragazzo sopra di me si scostava per sfilarsi i pantaloni e i boxer, ma fu così rapido che faticai ad accorgermene.
Lo baciai con passione e lo strinsi a me. Entrambi ansimavamo, bramosi l'uno dell'altra. Ci unimmo mentre intorno a noi si levava di nuovo il vento che strappava via ogni cosa tranne noi, che ci ritrovammo a fluttuare nel bianco assoluto.
Cominciammo a muoverci al ritmo del nostro battito cardiaco accelerato.
Le mie mani si aggrapparono ai suoi fianchi. John mi baciò quasi con violenza.
E un attimo dopo fu un'esplosione di luci, colori e di suoni.

Non mi ero mai sentita così frastornata in vita mia, nemmeno la mattina dopo la mia sbronza colossale.
 Non avevo idea di dove fossi e nella mia memoria c'era un buco nero di parecchie ore. Mi ricordavo le immagini, i suoni e i colori della sera precedente, ma solo fino ad un certo punto. L'ultimo mio ricordo era il sapore distorto degli alcolici e dei baci di John.

Aprii lentamente gli occhi. Vidi a pochi centimetri dal mio viso il volto di John. I suoi occhi nocciola si aprirono e mi guardarono.
- Buongiorno. - mormorò stringendo le dita intorno ai miei fianchi.
- Buongiorno.- lo salutai sorridendo. Mi strinsi contro il suo petto, godendomi la piacevole sensazione di essere fra le sue braccia.
Un momento: io ero fra le sue braccia? Come diavolo ci ero arrivata io lì?!
Mi misi a sedere di scatto, ma sbattei la testa contro la parte inferiore del letto posto sopra quello di John. Imprecai a voce alta.
- Che cosa ci faccio io qui?- esclamai poi, portandomi una mano alla testa. Mi scoppiavano le tempie.
- Che cavolo succede?- chiese George affacciandosi dal letto sopra di noi, svegliato dalla botta che avevo preso e dal mio successivo grido.ù
- Ben svegliata, principessa.- commentò Paul.
Lui, Stu e Pete erano seduti dall'altra parte della stanza a giocare a poker. Gli occhi di tutti e tre (tutti e quattro contando George) si posarono su di me e io mi affrettai a coprirmi con il lenzuolo che quando mi ero alzata era scivolata a coprirmi soltanto le gambe. John si mise faticosamente a sedere e mi mise una mano sulla spalla, ma non fece di più.
- Voi.. non siete rimasti qui tutta la notte, vero?- domandai con la voce che tremava appena.
- Fa sempre piacere guardare un po' di porno gratis. - commentò George ridendosela.
- Taci, minorenne! O ti faccio rispedire a casa da tua madre!- ringhiai.
Non ci trovavo niente di divertente in quella situazione, sebbene tutti tranne John stessero ridendo.
Sentii George tornare a sdraiarsi con un tonfo. Scandagliai la stanza con lo sguardo.
- John, dove sono i miei vestiti?- chiesi in un sussurro.
Lui scollò le spalle:- Mi sono svegliato cinque minuti fa, non ne so niente.-
G
uardai Paul, con uno sguardo che significava: " falli saltare fuori o ti uccido". Lui sostenne senza problemi il mio sguardo, e socchiusi la bocca quando mi accorsi della freddezza che c'era nei suoi occhi.
Sorrise, ma quel sorriso mi fece venire i brividi.
Scrollò le spalle:- Ti sei sempre lamentata che teniamo la stanza in disordine, no? Quindi questa mattina ne abbiamo approfittato per dare una sistemata.-
Impallidii.

- Dove sono i miei vestiti?- ripetei con un ringhio.
- Li abbiamo portati al loro posto, in quella che era camera tua.- rispose con semplicità il mio amico.
- Valli a riprendere!- gridai, con un tono al limite dell'isteria.
- Non vedo perché dovrei andare fino alla tua stanza, per prendere i tuoi vestiti quando sono qui che faccio gli affari miei.-
L
o guardai, scioccata. Era uno scherzo, doveva esserlo: non poteva davvero trattarmi in quel modo.
Stavo aspettando il momento in cui lui, o John, o chiunque altro, fosse scoppiato a ridere e avrebbe messo fine a quella tortura. Quel momento non venne.
Mi guardai intorno, in cerca dell'appoggio degli altri, ma George non dava segni di vita e Pete e Stu erano tornati al loro gioco, facendo ben attenzione a non incrociare il mio sguardo.

Paul, invece, mi fissava con aria di sfida. Non riuscivo a capire per quale motivo mi stesse facendo quello. Avrei voluto alzarmi, incurante del fatto di essere nuda, e tirargli uno schiaffo che ricordasse per tutto il resto della sua vita. Ma non mossi un muscolo.
Alla fine, abbassai lo sguardo per cercare di nascondere le lacrime che per l'imbarazzo avevano appannato i miei occhi.

Non ero mai stata umiliata tanto in vita mia. Facevo fatica a respirare. John si alzò e andò a recuperare un paio di boxer che si infilò.
Lo guardai, completamente spaesata.
- Certo che siete proprio degli stronzi. - disse lui ad alta voce, così che tutti quanti lo potessero sentire. Mi mise un braccio intorno alle spalle e un altro sotto le ginocchia e mi sollevò, coperte comprese. Nascosi il viso contro il suo petto nella speranza che Paul non si accorgesse che stavo piangendo.
Mi trasportò fino nella stanzetta laterale e lì mi depose a terra. Mi tenni stretta a lui.
-
 Giuro che come torno di là ammazzo qualcuno.- ringhiai. Non ci misi molto a calmare le lacrime di rabbia che scendevano sulle guance.
- Vacci piano: ti ricordo che abbiamo un contratto da rispettare e senza musicisti sarebbe un bel problema.-
Guardai John negli occhi e riuscii quasi a sorridere :- Tanto siete in tre a suonare la chitarra; uno in più o uno in meno non farà differenza!- replicai. John ridacchiò.

- Ti aspetto qui fuori.- sussurrò, poi uscì dalla stanza e si richiuse la porta alle spalle. Mi rivestii in fretta, mentre fremevo dalla rabbia.
Io e John tornammo dagli altri e spalancai la porta facendola sbattere. Sentii vagamente un "oh, cazzo" mormorato forse da George.
Fissai Paul, che a sua volta mi guardava. Avevo sperato che quando fossi tornata sarebbe tornato tutto alla normalità, ma negli occhi del ragazzo lessi la stessa freddezza di poco prima, insieme anche al disprezzo.

Attraversai come una furia la stanza e lo presi per il braccio, tanto forte che probabilmente gli feci male. Lo costrinsi ad alzarsi, lasciando le carte da parte.
- Tu adesso vieni con me. - gli ringhiai contro e lo trascinai in corridoio e poi nella stanza che occupavo io . Avrebbe potuto benissimo rifiutarsi e a quel punto io non sarei stata capace di farmi seguire con la forza, ma non protestò. Una volta giunti nella stanzetta laterale, però, si liberò dalla mia stretta.
- Mi spieghi che cosa ti prende?- esclamai. Paul su stravaccò sul letto, ignorandomi completamente.
Dovetti gridare più volte il suo nome prima che si degnasse di guardarmi. Alzò un sopracciglio.
- Hai dato spettacolo, questa notte. Complimenti davvero. La prossima volta fatti pagare il biglietto, ne varrebbe la pena .-
Ero scioccata e furente allo stesso tempo.

- E questo cosa significa? Che sei geloso?!-
Paul sogghignò, poi si alzò in piedi di nuovo.

- Di chi? Di John? E per cosa? Per il fatto che può scoparti ogni volta che schiocca le dita? -
- Ma ti senti quando parli? Dimmi perché hai cominciato a trattarmi in questo modo!- gridai - Questo non sei tu, non è il Paul che conoscevo. -
- Be', nemmeno tu sei più la Anna che conoscevo. - rispose il ragazzo scrollando le spalle. Mi si avvicinò, fissandomi.
- Dimmi, Anna: da quanto tempo tu e John state insieme? Ah, giusto, voi non state insieme, tu sei solo la sua puttana segreta.-
Aprii le labbra, ma poi le richiusi, mortificata. Non riuscivo a credere a ciò che sentivo.

- Come diavolo fai? - chiese Paul senza aver cura di celare il disprezzo che provava in quel momento. - Come diavolo fai a sopportare la compagnia di Cyn, a professarti sua amica, quando ti vedi con il suo ragazzo da due anni, o forse di più? - Strinsi i pugni.
- Quello che faccio io non ti deve riguardare minimamente!- gli urlai contro.- Chi cazzo sei tu per venire a rimproverare il mio comportamento?! Non si può dire che tu sia un modello di fedeltà nei confronti della tua ragazza!-
- Almeno io non mi faccio la ragazza del mio migliore amico!-
- E questo dovrebbe renderti migliore di me?! -
- Sì. - disse Paul in tono piatto.
Persi il controllo. Gli tirai uno schiaffo con tutta la forza che avevo.

- Fottiti, James Paul McCartney!- gridai.
Lui mi guardò con un'espressione piena di scherno. Sollevò un sopracciglio:- Potresti farlo tu, no? Ormai stai diventando una professionista del mestiere. -
Mi trattenni dal colpirlo di nuovo. Facendo appello a tutta la mia forza di volontà abbassai la voce.

- Esci da qui. Vattene.-
Me ne fregai delle buone maniere e lo spinsi con violenza fuori dalla stanzetta e gli sbattei la porta in faccia.

Serrai i pugni tanto che le nocche diventarono bianche.
- Che c'è? - chiesi rabbiosa quando sentii qualcuno entrare nella stanza.
- Ti accompagno all'hotel. - rispose John.
- Ci posso arrivare anche sa sola. - replicai e uscii a grandi passi dalla stanzetta avviandomi lungo il corridoio.
Nonostante le mie parole, John continuò a seguirmi anche quando fummo in strada, anche se non l'avevo degnato di uno sguardo.

Quando fummo più o meno a metà strada il ragazzo si affiancò a me e mi prese la mano nella sua; gliela strinsi più che potevo, perando che così finalmente avrei fatto sbollire la frustrazione.
- Ahi! - esclamò John. - Mi fai male così! -
- Scusa. - dissi e gli lasciai la mano, ma lui la riprese subito.
- Cerca di trovare una via di mezzo, ok? -
Si portò la mano alle labbra e ne baciò il dorso, mentre io mi ritrovai mio malgrado a sorridere.
Entrammo nella hall dell'hotel, ma John non sembrava intenzionato a lasciarmi andare.
- Vuoi davvero accompagnarmi fino alla stanza? - gli chiesi, ricevendo un assenso come risposta.
- Sia mai che un malintenzionato mi colga mentre sono sulle scale in pieno giorno! - borbottai sarcastica.
- Conoscendo la tua propensione a cacciarti nei guai... - commentò lui.
Scrollai le spalle, quindi mi incamminai verso il mio alloggio.
- Che bel letto. - osservò John una volta entrati nella stanza - Se fosse più grande sarebbe ancora meglio, ma comunque sembra sempre più comodo delle nostre brande. -
Vi si buttò sopra ricordandosi a malapena di torgliere le scarpe, poi incrociò le mani sotto la testa.
- Fai pure come fossi a casa tua... - gli dissi scuotendo la testa, poi diressi verso il bagno con l'intenzione di infilarmi nella vasca per eliminare definitibamente il ricordo delle allucinazioni, la puzza di alcol e l'incazzatura. Non potevo ancora credere che mi avessero davvero fatto prendere dell'LSD! Immersa nell'acqua calda, cominciai a pensare al modo di vendicarmi dello scherzetto.
Ci misi mezz'ora buona ad uscire dalla vasca, quindi mi diedi un'asciugata e mi avvolsi in un asciugamano.
Tornai nella stanza a piedi nudi, con i capelli che ancora gocciolavano e scoprii che John si era addormentato.

"Mi sembrava strano che non mi avesse seguita!" pensai guardandolo dormire come un bambino.
Mi avvicinai al letto e mi chinai su di lui fino a sfiorare il suo orecchio con le labbra.

- SVEGLIA!- urlai con tutto il fiato che avevo.
Il ragazzo si destò con un salto mentre io scoppiavo a ridere. Quando si rese conto di quello che era successo, lui mi afferrò per i fianchi e cominciò a farmi il solletico.
- John Wiston Lennon, lasciami! - gli ordinai.
- Te lo puoi scordare.- disse.
Mi trascinò sul letto e mi fece sdraiare sotto di lui, poi mi sfilò l'asciugamano.

______________________

'Sera, gente!
Sì, lo so, non fate commenti. Non ho la minima idea di dove mi sia uscito questo folle, inverosimile, anacronistico capitolo. Mi è venuto così all'improvviso, qualche sera fa (giuro solennemente di non aver fatto uso di sostanze strane!) e boh, mi sono detta: ma sì, propiniamolo a quelle povere anime che si sorbiscono la mia storia!! (Mi sono ripromessa - per tutelare la mia e la vostra salute mentale - che d'ora in poi di notte dormirò)
Il capitolo, oltre ad essere, come già detto, un anacronismo totale, contiene anche un sacco di riferimenti a tutte quelle canzoni che sono state la colonna sonora mentre scrivevo ( quindi potete benissimo immaginare perché sia uscito così.)
Va be', vi lascio, alla prossima!

saradepp : grazie mille dei complimenti! Spero di soddifare sempre le tue aspettative.

weasleywalrus93: non potevo tenere separati quei due per molto, ne hanno passate (e ne passeranno -mhuaaaaa, mi sento diabolica.-) molte, quindi per il momento... peace n love.
Non devi dirlo neanche per scherzo, le tue recensioni mi fanno sempre piacere, mi illuminano la giornata, mi rendono felicissima... insomma, capito no?

JennyWren: ma figurati! questa recensione, comunque, vale doppio!! Anchio adoro Astrid e Stuart ( e ti dirò, sto facendo un pensierino per un altra storia) e comunque sono d'accordo con te: ci vorrebbero più John in questo mondo Più Lennon per tutti!!!!!!! (?) Non so come ringraziarti per i complimenti e per la recensione!

Judee: fidati, non sembra affatto che te la tiri! Grazie mille per i commenti accurati ( non è contorto, e anche se lo fosse... adoro le cose contorte! Non si era capito, vero? Proverò a continuare su questa strada, lo prometto!

Peace n Love.

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Capitolo 33
*** 32 - I'll Be Back ***


I'll be back.
 

- Oh, ti prego, fa’ che non sia vero … - gemetti. Strinsi le ginocchia al petto e cominciai a dondolarmi nervosamente.
- Non è possibile, non ci posso credere … - continuavo a ripetermi abbandonata sulla panca di legno.
- Cerca di calmarti, non è la fine del mondo. - mi esortò Stu battendomi una mano sulla spalla.
- Non è la fine del mondo?! - esclamai sull’orlo di una crisi di nervi - Ci hanno appena arrestati! -
Misi la testa fra le ginocchia.
- Adesso aprono i gas. - piagnucolai. - Non rivedrò mai più il mio cucciolone … -
- Qualcuno la faccia smettere… - sbuffò John, poi si alzò e andò a picchiare contro la porta sprangata. - Non è che si potrebbe metterla da qualche altra parte? No? Peccato … -                 
Quando tornò a sedersi gli tirai una gomitata, quindi mi sforzai di calmarmi: il massimo che poteva capitarmi era che mi rimpatriassero ( prospettiva che tutto sommato non era così deprimente) così come era capitato a George, visto che io non c’entravo niente con il preservativo cui Paul e Pete avevano dato fuoco.
- Ma come si fa ad essere così deficienti? - borbottai.
- Dai, Anna, l’hanno fatto per ridere … - commentò Stu.
- Infatti ci stiamo tutti sbellicando dalle risate! - esclamai arrabbiata; era facile per loro, che non erano lì lì per avere un attacco di panico, non avevano la tachicardia né la voce della loro Coscienza che non faceva altro che insultarli.
Passarono ore prima che ci scagionassero, e quando finalmente ci lasciarono andare ero talmente sollevata che cominciai a saltellare per la strada, ridendo come una matta.
- La ragazza soffre di sbalzi d’umore. - commentò John sotto i baffi.
Lo zitti con un bacio, poi abbracciai Stu, che mi strinse i fianchi ridendo e mi fece fare una piroetta. Appena toccai terra, John mi prese per mano e mi cinse le spalle, tirandomi verso di sé.
- Non sarai mica geloso? - lo stuzzicai, ma lui aveva già la risposta pronta: - Be’, ti ho sorpresa a limonare con Ringo. -
- Non è stata colpa mia! - protestai, poi, mentre camminavamo di nuovo verso la Reepherbann cominciai a cantare una canzone di Elvis, subito imitata dai miei due amici.
 
Quella sera la passammo insieme ad Astrid e Klaus, perché il giorno dopo io e John saremmo tornati in Inghilterra, mentre Paul e Pete erano stati rimpatriati immediatamente dopo l’arresto. Stu, invece, sarebbe rimasto ancora qualche tempo insieme ad Astrid.
- Peccato che sia successo questa cosa. - commentai, bevendo un po’ di birra.
- Pensavi davvero che il nostro soggiorno qui sarebbe potuto finire in modo normale? - replicò John.
 - No, in effetti no. - concordai.
- Mi dispiace, però. - mormorò Astrid guardando Stuart.
- Tutta colpa di quel bastardo di Koshmider. - asserì John dopo un lungo sorso dal suo bicchiere. - Comunque pazienza, con tutta probabilità torneremo qui fra meno di un anno. -
Stu finì il contenuto del suo boccale, poi lo lasciò sul bancone del bar, prese Astrid per mano e la condusse al centro della pista per ballare un lento. La tedesca arrossì impercettibilmente, perché non c’era nessun altro che ballava, ma poi Stuart cominciò a baciarla e lei se ne dimenticò.
Come c’era da aspettarsi, John proruppe in una valanga di fischi e applausi. 
- Non puoi lasciarli in pace, almeno ‘sta sera? -
- No. - rispose lui con non-chalance.
Scrollai le spalle e alzai gli occhi al cielo: era assolutamente incorreggibile.
 
- John, perdiamo il treno! - lo ammonii mentre io e lui, accompagnati da Stu e i nostri amici tedeschi correvamo verso il binario. - Ti avevo detto di svegliarti prima! -
- Non è colpa mia se mi hai fatto fare le ore piccole. - mi provocò lui in risposta.
Non arrossii nemmeno, concentrata com’ero nell’individuare il nostro binario, mentre i nostri accompagnatori ridevano sotto i baffi.
- Toh, siamo in anticipo! - mi fece osservare, non con poca soddisfazione , il mio ragazzo. 
Ansimando troppo per potergli rispondere, mi limitai a scoccargli un’occhiataccia. Ormai Stu, Astrid e Klaus si stavano rotolando dal ridere.
Quando il capotreno fischiò annunciando l’approssimarsi della partenza abbracciai i tre ragazzi uno ad uno, con un sorriso un po' malinconico.
 - Ci vediamo presto, ragazzi. - li salutò John, dando tre baci sulla guancia ad Astrid e stringendo la mano agli altri due.
Rimanemmo in silenzio a guardarci qualche altro secondo, poi John mi toccò la spalla per esortarmi a salire sul treno.
Avevamo appena trovato uno scompartimento quando il treno cominciò a muoversi.
Mi affacciai al finestrino e salutai Klaus, Astrid e Stu con la mano. Dopo che fummo usciti dalla stazione mi lasciai cadere sul sedile.
- Sembra impossibile che stiamo davvero tornando a casa. -
Socchiusi gli occhi e appoggiai la testa sulla spalla di John.
 - Tanto torneremo. - mi stroncò lui subito.
- Senza di me. - lo informai.
- Meglio, così mi dai campo libero. - rispose con un sorriso malizioso.
- Lo so che Koshmider ti arrapava, ma non preoccuparti: hai la mia benedizione. -
- Sei ancora arrabbiata con il Macca? - chiese John all’improvviso.
- No. - risposi. Era la verità: non ero più arrabbiata con Paul da quando, il giorno seguente lo scherzo dell’LSD, era venuto a chiedermi scusa, con un occhio nero e l’altro pieno di lacrime per il rimorso; e anche se non l’avevo perdonato ufficialmente, man mano che i giorni passavano il mio comportamento verso di lui era stato sempre meno ostile.
- Sono contenta di tornare alla normalità. - dissi, cambiando argomento. 
- Io no. Non sono fatto per la normalità. -
- Oh, me ne sono accorta! - ridacchiai, poi guardai il paesaggio fuori dal treno finché non chiusi gli occhi e mi addormentai.

______________________________

Eccomi qui! Sono tornata dopo un periodo frenetico che fra scuola e altri casini non mi ha lasciato molto tempo né voglia per scrivere molto, come sicuramente si nota da questo capitolo corto e assolutamente di passaggio. ( l’ho scritto solo perché mi serviva concludere la parte dedicata ad Amburgo.)
Sappiate solo questo: stiamo arrivando alla fine. ( Sembra impossibile, lo so), ma prima di allora ho ancora qualche sorpresa per voi. (Mhuaaaaaa!)
Alla prossima, quindi!


saradepp: Oh, sono lungi dal pensare che quello che scrivo sia perfetto, ma grazie comunque! Mi hai riempita di felicità (confesso che Magical Mistery Tour è anche uno dei miei capitoli preferiti!)
 
weasleywalrus93: no, mi In realtà ho pensato che  Revolution 9 fosse inadatta a questo capitolo, poiché l’ho sempre ascoltata mentre scrivevo gli incubi e mi sembrava un po’ troppo cupa per il trip di Anna. ( che è una sorta di alterego buono degli incubi).
Eh, no spiace, John è mio!!!!! (scherzo, ovviamente, possiamo fare un po’ a testa: ti va bene se te lo lascio il 30 febbraio??! )  
 
Cagiu_Dida: grazie mille, davvero! Sono contentissima nel sapere di soddisfarti sempre!

 
Peace n Love.

 

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Capitolo 34
*** 33. - She's leaving Home. ***


She's Leaving Home.





1962

Guardai rapita il panorama. La notte era rischiarata dalle luci arancioni di Londra che brillavano sotto di me e che si avvicinavano sempre di più man mano che l’aereo atterrava.
Una volta all’aeroporto mi fermai a sbocconcellare distrattamente un panino accompagnato da una birra, poi presi il primo taxi che riuscii a trovare, senza neppure notare la quantità di gente che affollava le strade persino a quell’ora; mi feci portare alla stazione, dove riuscii appena in tempo a prendere l’ultimo treno per Liverpool. Non mi fu difficile trovare uno scompartimento vuoto, illuminato a stento.
Sospirai, stravolta dal viaggio e dalle emozioni.
Ero contenta di essere andata in Italia per visitare Verona, la città in cui era nata mia mamma. Avevo conosciuto e frequentato alcuni dei miei parenti, soprattutto i miei nonni e i miei cugini, che non erano male come avevo creduto. In particolare Ettore si era dimostrato amichevole, mi aveva presentata ai suoi amici, mi aveva insegnato qualche parola d’italiano e mi aveva mostrato la città, che era una delle più belle che avessi mai visto.Avrei voluto fermarmi ancora qualche tempo, ma ero stata costretta a tornare a casa.
Ingoiai un groppo alla gola e decisi di distrarmi leggendo qualche poesia di Budelaire.
Aprii la borsa per prendere il libro, ma, mentre rovistavo tra una quantità di cianfrusaglie ( tra cui c’era anche mezza bottiglia di birra avanzata dalla cena all’aeroporto),  le mie dita incontrarono per primo un foglietto di carta stropicciata.

Lo tirai fuori e lo rigirai fra le mani, mentre i miei occhi si riempivano di lacrime. Era stata quella la ragione del mio ritorno anticipato dall’Italia: una lettera che John mi aveva scritto da Liverpool. Ci misi un po’ prima di decidermi ad aprirla e a leggera un’altra volta.

Cara Anna,
tre giorni fa siamo arrivati da Amburgo e ho trovato solo ora il tempo di scriverti, scusa.
Quando siamo andati là come puoi immaginarti eravamo tutti esaltati all’idea di tornare in Germania.
Quando siamo arrivati alla stazione, però, c’era solo Astrid ad aspettarci.

Dopo averla salutata le ho chiesto dove fosse Stuart.
Lei mi ha risposto: “ Non c’è. E’ morto, John.”
Pensavo fosse uno scherzo, doveva per forza essere uno scherzo; così mi sono messo a ridacchiare.
Ma poi l’ho guardata negli occhi …
Il funerale sarà a Liverpool, tra due giorni, il tempo di trasportare il … Stu in Inghilterra.
Ti prego, torna a casa prima che puoi, ho bisogno di te.
Ti amo, ti amo, ti amo, e voglio passare la mia vita con te.
Tuo,
John.


Un’ennesima lacrima scivolò dalla mia guancia al foglio di carta, facendo sbavare l’inchiostro, unendosi a tutte quelle che io, e John prima di me, avevamo versato.
La asciugai in fretta e ripiegai la lettera ricacciandola in borsa in fretta e furia. La cosa peggiore era che non avevo potuto andare al funerale: la lettera era stata consegnata solo due settimane dopo la sua spedizione, e anche se appena letta mi ero precipitata in aeroporto, era ormai troppo tardi. Scossi la testa, come per scacciare quei pensieri,e aprii il libro di Boudelaire.
Arrivai a Liverpool che non era ancora giorno, e la prima cosa che feci fu andare al cimitero. Il cancello era chiuso, ma non mi scoraggiai. Lasciai la valigia in un angolo, poi mi arrampicai sul muro e lo scavalcai. Fu facile trovare la tomba di Stu, perché,  alla debole luce dei lampioni arancioni, spiccava un cumulo di terra smossa da poco.
Mi  sedetti lì di fianco, senza dire una parola, poi tirai fuori dalla borsa mezza bottiglia di birra; la alzai come per brindare e la feci sbattere delicatamente contro la pietra infissa nella terra.

- Alla tua, Sutcliffe. - dissi con un sorriso, poi bevvi un sorso e guardai il sole che sorgeva.

 

 
Mi tolsi le scarpe e mi sedetti sul molo di legno, lasciando che i piedi sfiorassero l’acqua del mare, giocando con gli spruzzi bianchi.
Io e Cynthia eravamo andate a farci un giro a Blackpool per festeggiare il mio compleanno e dopo un pomeriggio di giri per la città, avevamo deciso di fare un salto in spiaggia.
La mia amica si sedette di fianco a me e guardò avanti, assorta.

- Va tutto bene? - le chiesi - E’ da quando ci siamo incontrate che sei strana. -
Era la prima volta che uscivamo insieme da quando ero tornata, e non mi era sfuggito lo strano comportamento della ragazza.
- Io … sì, sto bene. - rispose lei, anche se era palese che pensava tutto il contrario.
- Avanti, vuota il sacco. - insistetti. - Lo sai che puoi dirmi tutto. -
Cyn abbassò lo sguardo e fissò le proprie mani strette sul grembo:- Sono incinta. -
SBAM! Pugno nello stomaco.
 - Ed è … di John? - boccheggiai.
- Secondo te? Certo che  è suo! - esclamò la ragazza scoppiando a piangere.
- Oddio, scusa, non volevo; è che … non me l’aspettavo. - mi affrettai a scusarmi. - E lui … -
Cyn trovò il coraggio di guardarmi negli occhi e di sorridere debolmente:- Ha detto che si assumerà le sue responsabilità. Ad agosto ci sposiamo. -
SBAM! Pugnalata in pieno petto.
Con le labbra che tremavano, abbracciai la mia amica, per non farle vedere la mia espressione.
- Sono così felice, Anna! - mormorò lei, ancora piangente, contro la mia spalla.
- Anche io. - mentii spudoratamente. - Davvero tanto. -
Non so come feci a mantenere il controllo su me stessa per il resto della giornata; probabilmente, man mano che crescevo diventavo sempre meno emotiva.
Durante il tragitto Cyn cominciò a raccontarmi
dei preparativi per il matrimonio e mi strappò la promessa che le avrei fatto da damigella; la accompagnai a casa, poi, invece di recarmi a Forthlin Road, andai da John. Bussai alla porta talmente forsennatamente che poco ci mancò che la sfondassi.
Quando John venne ad aprirmi sembrava sorpreso, ma mi sorrise.

- Ehi, non ti aspettavo. - disse tranquillamente, poi mi fece entrare.
- C’è qualche novità? - gli chiesi ostentando non-chalance ( cosa, peraltro, che mi riuscì proprio male). John però non se ne accorse o finse di non accorgersene.
- No, nessuna. - rispose.
Nella mia testa cominciai a formulare una serie di epiteti trai quali “bugiardo” era di gran lunga il migliore.
- Ne sei proprio sicuro? - domandai ancora, sedendomi rigidamente sul divano mezzo scassato.
- No, a parte quelle sul gruppo che ti ho già raccontato … Ehi, piccola, va tutto bene? -
Mi baciò il collo, ma mi scostai, imperturbabile.
- Sai, è molto strano. Ho parlato con Cynthia questo pomeriggio. -
- Oh … - mormorò lui sorpreso e io potei leggere chiaramente la colpa nei suoi occhi.
Mi alzai furente: - Congratulazioni, Lennon. -
- Aspetta! - mi fermò lui prima che potessi raggiungere la porta.
- Aspettare che cosa? - gridai. - Che tu abbia il tempo di raccontarmi qualche altra balla?! Ti amo, e voglio passare la mia vita con te … Ma vaffanculo! -
- E che cosa dovrei fare, secondo te? Sentiamo! - replicò John infervorandosi a sua volta. - Lasciare Cyn e il mio bambino a sé stessi? -
- Non ho mai detto questo. - ribattei. - Hai avuto sei giorni, John: sei fottutissimi giorni per venire a dirmi la verità e invece ho dovuto saperlo da lei; perciò adesso non venirmi a dire che sei un modello di responsabilità. -
Ci guardammo in cagnesco per qualche secondo, che diede ad entrambi l’occasione di sbollire un po’.
John si coprì gli occhi con una mano e si sedette di nuovo. Sembrava molto stanco e molto più vecchio.
- Senti, per favore, se solo noi … -
- Non c’è nessun noi, John, e non c'è mai stato, non è vero? Ci sei sempre stato solamente tu, e la tua puttanella personale. - dissi, senza tuttavia alzare la voce.
Lui mi fissò. 
Un’amara risata uscì dalle mie labbra:- Cosa c'è? Hai pensato davvero che dopo questo le cose fra noi avrebbero potuto continuare indisturbate per altri tre, quattro anni? -
- Ci ho sperato. -
- E ciò dimostra che sei un egoista.- dissi in tono piatto, poi mi voltai e uscii.
Facevo fatica a respirare, avevo il petto come schiacciato da un grosso macigno, e ciononostante cominciai a correre attraverso i campi da golf fino ad arrivare a Forthlin Road.
Superai la casa di Paul e fui sfiorata dall’idea di fermarmi da lui, ma, come c’era da aspettarsi conoscendo il mio amico, lui era già davanti al cancelletto di casa mia.
Come mi vide mi corse incontro e senza dire una parola mi prese tra le braccia.

 

 
I mesi trascorsero velocemente e agosto arrivò prima di quanto mi aspettassi. Più il tempo passava più riuscivo ad essere sinceramente felice per Cyn, che sembrava sbocciare come un fiore.
Mi era piuttosto facile, in realtà:  non vedevo John praticamente mai, con la scusa che lui era impegnato insieme agli altri a preparare il successo dei Beatles, e quelle rare volte in cui dovevamo passare del tempo insieme c’era anche la sua promessa sposa, e le nostre conversazioni si riducevano al minimo, anche perché facevo di tutto per evitare il ragazzo.

Più si avvicinava il matrimonio, tuttavia, si avvicinava anche il momento di mettere in pratica ciò che avevo deciso. Era stato difficile, ma ne avevo parlato sia con James che con Elisabeth ed entrambi, se pur da una parte addolorati, dall’altra erano felici per me.
Quando arrivò la notte prima delle nozze, non riuscivo a rendermi conto di quello che sarebbe successo da lì a dodici ore.
Avrei dovuto essere all’addio al nubilato di Cyn, ma avevo finto di stare male: non avevo la benché minima voglia di sopportare lei e le sue amiche petulanti che ogni due per tre si lanciavano in gridolini estasiati. La mia amica era stata dispiaciuta, ma alla fine non me ne importava granché.

Osservavo la stanza del mio piccolo appartamento nel quale mi ero trasferita da qualche anno, senza riuscire ad addormentarmi. Sotto il mio letto Frency russava debolmente.
Avrei voluto avere l’impulso di piangere, gridare, prendere a pugni un cuscino, ma non sentivo niente.

Devi dirglielo, Anna” pensavo tra me e me, ma subito mi rispondevo: No, non devi; non gli devi nulla.
Guardai fuori dalla finestra; la strada era deserta e le fronde degli alberi erano leggermente scosse dal vento.
Cominciavo a sentirmi agitata. Scommettevo che non fosse stato un caso se Paul si era lasciato scappare alcune informazioni su quali sarebbero stati i loro piani per quella sera.
Sbuffai e guardai la sveglia. Erano le due del mattino.
Mi alzai dal letto e cominciai a vestirmi. Frency si svegliò subito e cominciò a scodinzolare, sperando in una passeggiata in notturna.
- Scusami, bello, ma vado da sola. -
Uscii dall’appartamento e chiusi la porta a chiave, quindi scesi in strada.
Era davvero una notte piacevole: la luna era alta e piena e la sua luce proiettava giochi di ombre sull’asfalto.
Camminai in silenzio, percorrendo una strada che i miei piedi conoscevano molto bene.
Che cosa gli avrei detto? Come avrebbe reagito?

Arrivai a casa di John e indugiai davanti alla porta. Qualcuno stava suonando la chitarra; riconobbi lo stile di Paul. Avrei potuto ancora tornare indietro, se avessi voluto.
Devi dirglielo.” continuavo a ripetermi. “Prima lo fai e meglio è.
Bussai lentamente alla porta. John venne ad aprirmi.
- Posso entrare? - chiesi prima che lui potesse dire una parola.
Si scostò dall’uscio ed entrai nel salotto, pieno di fumo di sigaretta. Paul era seduto sul divano e strimpellava un blues con la chitarra di John.

Questi mi guardava, sorpreso.
- Che ci fai qui?- mi chiese.
Il Macca  si schiarì la voce:- Bene, io devo andare. Ci vediamo, John. -
Mi passò a fianco e mi posò la mano sulla spalla, sorridendo dolcemente. Poi, un secondo dopo, raggiunse la porta e uscì.
John stava per dire qualcosa, ma lo precedetti.
- Sono venuta solo a salutarti. - dissi. - Subito dopo il matrimonio me ne vado. -
Il ragazzo era ancora più confuso di prima:- Che significa?-
- Che mi trasferisco. In Italia. - risposi d'un fiato.
- Perché?-
Scoppiai in una risata isterica:- Ho vent'anni ormai, sono senza un titolo di studio e non ho idea di quello che farò nella mia vita. -
- Ma perché proprio l'Italia?- esclamò John - Perché non ti va bene Liverpool, o Londra? -
- Mi piace l’Italia, Verona è bellissima e voglio conoscere meglio i miei parenti. Non credo che tornerò in Inghilterra. -
Il ragazzo emise una specie di ringhio:- Cos'è tutta quest'improvvisa voglia di riscoprire le tue radici italiane?-
- Pensavo avessimo chiarito questo punto. - sbottai.
John mi guardò, con il volto trasfigurato dalla rabbia e dallo sconcerto.
- Stai rompendo con me? -
- E secondo te che cosa ho fatto il giorno del mio compleanno?! - replicai.
- Sicura che sia questo che vuoi davvero, piccola Anna? Un distacco che potrebbe essere definitivo?-
- Spero proprio che lo sia! - ringhiai. - Non ne posso più di vederti e di sopportarti. Devo allontanarmi da te. -
- Mi avevi promesso che non mi avresti lasciato! - esclamò, tirando un pugno contro la parete.
- Ma ti rendi conto di quello che stai dicendo, di quanto sei egoista? C'è solo John Lennon nella tua vita, vero? John, John, John! E' stato quattro anni fa ! Quattro anni fa. Cristo! E' da quattro anni che sono costretta ad amarti in segreto, senza poter correre dalla mia migliore amica per dirle quanto sono felice quando sono con te. Hai idea di quello che ho provato durante questi anni per stare dietro al tuo ego?-
- Non ti ho mai chiesto di farlo, fino a prova contraria! - gridò serrando i pugni tanto che le nocche gli diventarono bianche. Non riuscii a capire se si stesse trattenendo dal tirare un altro pugno alla parete o a me. La cosa mi fece infuriare.
- No, ma non mi hai nemmeno mai detto di starti lontano! - urlai a mia volta. - Devo andarmene, il più lontano che posso. -
- E questo che significa? - chiese il ragazzo stringendomi il braccio.
- Che sono stanca! Stanca di fingere, stanca di non poter mai abbassare la guardia... stanca di te!-
Mi strinse contro il suo petto e cercai in tutti i modi di divincolarmi, ma non ci riuscii. Cominciai a colpirgli la spalla.
- Lasciami, Lennon! Sei solo un bastardo egoista! Lasciami, ho detto! Io ti odio, ti odio! -
Scoppiai in un pianto isterico e mi aggrappai alle sue spalle con tutte le mie forze.
John lasciò che mi sfogassi, tenendomi stretta a lui, poi cominciò ad accarezzarmi la schiena, per cercare di calmarmi. Mi baciò i capelli, sussurrando piano il mio nome.
Quando ebbi calmato i singhiozzi, sollevò il mio mento e sorrise dolcemente.
Si chinò su di me e baciò via le mie lacrime.

- Ti amo. - sussurrai.
- Sbaglio o siamo poco coerenti, questa sera?- disse lui.
Sorrisi e chiusi gli occhi mentre lui mi baciava.
Trascorremmo la nottata insieme, stretti l’una all’altra, in silenzio, perché ogni parola sembrava superflua; ci unimmo, appena prima dell’alba, con la disperazione di due corpi e di due anime che sapevano che probabilmente non ci sarebbe stata una prossima volta.
Infine, quando ormai il sole stava per sorgere, John si addormentò.
Rimasi a lungo a guardarlo mentre dormiva. Sembrava un bambino, con le palpebre abbassate e la bocca socchiusa che gli conferiva un'espressione angelica. Pareva così indifeso, come se la parte più nascosta della sua anima fosse riuscita ad aprirsi un varco sino alla superficie.

Mi morsi un labbro: mi ero ripromessa di non piangere. No, non avrei pianto mai più per John Lennon.
Delicatamente, spostai il braccio che ancora mi cingeva il fianco e lo appoggiai tra le lenzuola. Gli baciai la fronte.
- Ti amo, Johnny.- sussurrai, poi mi alzai e mi rivestii in fretta, senza far rumore.

 

 

___________________________________

Hola, gente! Lo so, questo capitolo è una mazzata psicologica …
Però andava fatto: insomma, non potevo tagliare la morte di Stu, e in qualche modo dovevo fare in modo che Anna se ne andasse … il perché lo scoprirete presto
.

Weasleywalrus93: guarda, ormai ci ho rinunciato, a non dare segni di squilibrio mentale … In effetti avevo pensato di inserire la scena del preservativo, poi però mi sono accorta di non essere molto ispirata, così ho lasciato perdere. (Però, magari, in futuro … non si sa mai)

Cagiu_Dida: Sì, forse sono stata un tantino crudele ad annunciarvi l’imminente fine così... Spero di farmi perdonare con i prossimi capitoli!

Saradepp: purtroppo sì, le vicende si sono avviate al termine, però non è ancora finita, quindi alla prossima!


Peace n Love.

 

 

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Capitolo 35
*** 34. - Hello, Little Girl. ***


Hello, Little Girl.
 
 
1965.

- Mamma, mamma, guadda! -
Una voce risuonò in tutto il parco, seguita dal latrato di un cane. Mi voltai nella direzione in cui proveniva e repressi una risata. Frency stava trotterellando, con in groppa una bambina di tre anni, bionda e solare, che mi salutava con entusiasmo.
- Martha, scendi: il povero Frency non è più un giovanotto. - la esortai sorridendo.
Lei protestò, ma alla fine obbedì e cominciò a giocare con il cane il modo più tradizionale. Quando vidi che la situazione si era calmata, spostai di nuovo l’attenzione al giovane uomo che era seduto al mio fianco sulla panchina. Si chiamava Rocco, ed era uno degli amici di Ettore che avevo conosciuto durante il mio primo viaggio a Verona, e dopo che ero tornata mi aveva aiutata a sopportare il primo, critico periodo, quando, ancora scossa per quello che era successo in Inghilterra, mi ero trovata completamente sola in un Paese del quale non capivo nemmeno la lingua. Ora i suoi occhi castani erano puntati su di me e mi scrutavano.
- Ne sei proprio sicura?- chiese in italiano.
- Sì.- risposi secca, intuendo facilmente l’argomento cui si riferiva.
- Ma… -
- Pensavo ne avessimo già discusso a sufficienza. - sbottai.
- Non puoi portarla lì: è una follia! - replicò Rocco.
- Basta, ho preso la mia decisione. -
- E io non ho voce in capitolo al riguardo? -
Trattenni a stento il “no!” che stava per scapparmi, per non offendere l’uomo.
- Senti, non ho voglia di litigare con te. - dissi, abbassando la voce e imponendomi di stare calma.
- Sarà uno shock per lei, ma se tu vuoi proprio andare, vai da sola e lasciala qui con me e Frency.-
- Voglio che venga anche lei. - risposi mentre guardavo la mia bambina che rideva allegramente.
- Perché? -
Scossi la testa; ovviamente, nessuno riusciva a capire il mio desiderio di andare a quel concerto e ancor meno il mio bisogno che Martha venisse con me. Ciò era anche comprensibile: nessuno dei miei amici o dei miei parenti aveva conosciuto John, Paul, George e Ringo, e molti pochi sapevano che i “Fab Four” erano stati i miei migliori amici, anche perché non ero certo la fan più sfegatata del loro gruppo, anzi, ascoltavo le loro canzoni soltanto quando passavano per radio.
Martha e Frency, entrambi ansimanti, si avvicinarono alla panchina, e la bambina si arrampicò sulle mie ginocchia, per poi fissarmi con i suoi occhi castani, così simili a quelli di suo padre.
- Non vedo l’ova che andiamo al concetto. - asserì; faceva fatica a pronunciare la “r”, così aveva trovato la soluzione di sostituirla con lettere che variavano da momento a momento.
- Sei sicura di voler andare, piccola? - insistette Rocco.
Lo fulminai con lo sguardo, ma non ce ne fu bisogno, perché mia figlia disse: - Non pleoccupatti, va tutto bene. -
Disse metà della frase in italiano e l’altra metà in inglese, cosa che le succedeva spesso. Sorrisi e la baciai sulla fronte.
- Andiamo a casa? - chiesi e lei annuì energicamente.
La feci scendere dalle mie ginocchia per mettere il guinzaglio a Frency.
- Sì, direi che è ora. - disse Rocco e Martha cominciò ad insistere per farsi prendere sulle spalle.
Attraversammo uno dei tanti ponti sull’Adige e proseguimmo a piedi lungo una riva, per poi tagliare all’interno fino a trovarci sulla piazza su cui si affacciava la chiesa di San Zeno. In un angolo della piazza, nascosta dietro una fila di alberi, c’era il nostro appartamento.
Rocco ci accompagnò fino alla porta di casa e mentre io l’aprivo fece scendere Martha.
- Ciao! - cinguettò lei entrando in casa inseguendo Frency.
Feci per seguirla, ma l’uomo mi trattenne sull’uscio.
- Puoi ancora ripensarci…-
- Basta. - lo interruppi bruscamente. Gli rivolsi uno sguardo astioso - Smettila di dirmi come devo occuparmi di lei. Martha non è tua figlia! -
Lui se ne andò, ferito, senza nemmeno salutare, e io entrai in casa evitando a stendo di sbattere la porta.
- Tutto bene? - chiese Martha raggiungendomi con un peluche di un panda fra le braccia.
Le scompigliai i capelli d’oro: - Certo. Andiamo a fare le valigie, ti va? -
 
Il teatro era pieno di gente, ma io e Martha eravamo sedute in galleria, quasi di fronte al palco. Centinaia di ragazzi urlanti riempivano il teatro.
 Sistemai meglio mia figlia sulle mie braccia. Anche Martha era impaziente e si agitava, rendendomi difficile tenerla in braccio.
-Sei contenta, tesoro?- le chiesi alzando la voce per farmi sentire.
Martha annuì energicamente mostrando il suo sorriso capace di smuovere le montagne.
-Tanto, mamma. E tu?-
-Anche io. - risposi sorridendo. Li avrei rivisti, finalmente.
Dopo tre anni, avrei rivisto quelli che erano stati, anzi erano tuttora, i miei migliori amici. Probabilmente loro non avrebbero visto me, ma poco mi importava.
- Li salutiamo, dopo?- chiese Martha nella sua ingenuità.
-No, piccola. Temo che non sia così semplice.-
- Triste.- mormorò lei delusa.
Io scossi la testa. Anche nel caso (improbabile, per non dire impossibile) in cui mi avessero riconosciuta fra tutte quelle adolescenti urlanti con gli ormoni impazziti che riempivano il teatro, cosa avremmo potuto dirci? Non erano più soltanto i quattro ragazzi che avevo conosciuto a Liverpool; loro erano i Beatles e io facevo ormai parte del loro passato, come loro del mio. In quei tre anni ero cresciuta, ero diventata un'adulta, avevo dato alla luce la mia bambina e avevo sputato sangue per far quadrare i conti a fine mese. Le responsabilità, soprattutto nei confronti di mia figlia, avevano relegato al passato le emozioni quasi ingenue della mia adolescenza.
Ma nonostante questo, era bello, almeno per una volta,poter guardare indietro.
La delusione di Martha non poté durare a lungo, perché qualche attimo dopo il palco si illuminò e i Beatles fecero la loro entrata fra le urla impazzite dei fan.
Prima Ringo e George, poi Paul e infine John.
Erano meravigliosi nei loro vestiti neri e nei caschetti pettinati in modo impeccabile.
Vederli lì sul palco, pochi metri davanti a me, risvegliò quelle emozioni che avevo sopite da tempo.  Li guardai a lungo, uno ad uno, sovrapponendo le loro figure a quelle degli adolescenti che avevano deciso di fare rock 'n' roll, in un ormai lontanissimo 1957. Un George quattordicenne che suonava Raunchy su un autobus, Paul che mi chiedeva di mia madre anche se non mi aveva mai vista prima, Ringo che mi confessava i suoi problemi di autostima ad Amburgo e John che mi stringeva fra le sue braccia, quando sembrava che nell'universo esistessimo soltanto io e lui.
Trattenni il fiato per l'emozione.
Solo fino a pochi momenti prima mi era sembrato che fossero passati secoli dall’ultima volta che li avevo visi, mentre ora mi pareva che fosse trascorso meno di un battito di ciglia.
Non prestai molta attenzione al succedersi delle canzoni, concentrata com’ero a non perdermi neanche una delle loro mosse, e anche se il frastuono delle fan rendeva difficoltoso sentire le note, riuscivo ad immaginarmi perfettamente il modo in cui dovevano star suonando momento dopo momento. Li conoscevo troppo bene, e non avevo dimenticato il loro stile.
Ad un certo punto vidi che Paul e John si scambiarono un'occhiata di intesa.
Dopo tutti gli anni che avevamo trascorso insieme, ancora mi stupiva il modo in cui quei due erano in grado di comunicare.
Ci fu un attimo di silenzio, poi la voce dolce e chiara di Paul risuonò nel teatro, rinforzata da quella decisamente più sensuale di John.
One day you'll look
To see I've gone
For tomorrow may rain
So I'll follow the sun



Someday you'll know
I was the one
But tomorrow may rain
So I'll follow the sun


And now the time has come
And so my love I must go
And though I lose a friend
In the end you will know


Sentii gli occhi riempirsi di lacrime. Che mi servisse da lezione: mai permettersi di giocare con il fuoco, o pensare di poter avere il controllo totale sulle proprie emozioni.
Ero andata al concerto essenzialmente per avere una prova che avevo definitivamente voltato pagina, e avevo essenzialmente avuto la conferma di essere un’idiota colossale.

One day you'll find
That I have gone
But tomorrow may rain
So I'll follow the sun

But tomorrow may rain
So I'll follow the sun

And now the time has come
And so my love I must go
And though I lose a friend
In the end you will know

One day you'll find
That I have gone
But tomorrow may rain
So I'll follow the sun


Il pubblico proruppe in un applauso che a momenti faceva tremare le pareti del teatro.
La parola "bis" cominciò ad essere scandita all'unanimità da tutto il pubblico.
 John sorrise e lasciò che il pubblico invocasse a lungo un'altra canzone, godendosi appieno quel momento, poi attaccò un arpeggio più allegro rispetto al precedente.

Anna, you come and ask me girl
To set you free, girl
You say he loves you more than me
So I will set you free
Go with him.
Go with him.

Anna, girl, before go now
I want you to know, now
That I still love you so,
But if he loves you more,
Go with him

All of my life
I've been searching for a girl
To love me like I love you
Oh now
But every girl I ever had
Breaks my heart and leaves me sad,
What am I, what am I supposed to do


 Sgranai gli occhi, assolutamente esterrefatta. Sapevo perfettamente che quella canzone non era stata scritta da John e che faceva parte del loro repertorio sin dal loro primo album, ma non mi sarei mai immaginata di sentirla cantata dal vivo, con John che scrutava la platea su un palco così vicino a me.

Anna, just one more thing girl
You give back your ring to me
And I will set you free,
Go with him

All of my life
I've been searching for a girl
To love me like I love you
But let me tell you now
But every girl I ever had
Breaks my heart and leaves me sad,
What am I, what am I supposed to do

Anna, just one more thing girl
You give back your ring to me
And I will set you free,
Go with him
Go with him
You can go with him girl
Go with him


Quando la canzone terminò rimasi a lungo immobile, con le labbra schiuse a disegnare un muto "oh" di stupore.
Mi riscossi solo quando i Beatles scomparvero nel backstage e le luci del teatro si accesero, segnale definitivo che il concerto era finito.
La metà delle ragazzine venute ad assistere all'esibizione si accalcarono intorno al palco, con la speranza di intravvedere più da vicino i loro idoli, mentre l'altra metà si precipitò fuori, nel tentativo di intercettare i Fab Four prima che si allontanassero dal teatro.
Io mi alzai, ma poi rimasi immobile, con Martha in braccio. Ero combattuta. Una parte di me voleva correre verso il palco, chiamare i miei amici e abbracciarli, mentre l'altra mi diceva che era la cosa peggiore che avrei potuto fare: era stato bello rivederli per una sera, ma ora era tempo di ritornare alla mia vita reale.
-Mamma, che facciamo?- mi chiese Martha accorgendosi che non accennavo a muovermi.
-Non lo so, amore.-
Del personale cominciò a far allontanare le ragazzine ancora urlanti con maniere non propriamente gentili.
Un addetto alla sicurezza mi si avvicinò.
- Signora, il concerto è finito. Mi spiace, ma devo chiederle di uscire.- mi disse.
Attribuii la sua gentilezza al fatto che di sicuro aveva notato Martha e aveva compreso che non ero una delle solite fan dei Beatles.
Annuii e lanciai un ultimo sguardo al palco e alle quinte. Mi sembrò di scorgere un paio di occhi che guardavano nella mia direzione, ma poi scossi la testa.
"Devo essermeli sognata" mi dissi voltandomi verso l'uscita della sala. Alla fine, mi convinsi che andarmene era la cosa giusta.
Misi a terra Martha perché cominciavano a dolermi le braccia e la presi per mano, conducendola nell'atrio del teatro, ma lì fui costretta a fermarmi.
- Mi è slacciata una scappa.- osservò Martha.
Mi spostai su un lato, in modo da non correre il rischio di intralciare le persone che avrebbero potuto entrare o uscire dal teatro, quindi mi chinai e riallacciai la scarpa di mia figlia.
Quando mi rialzai mi accorsi del suo sguardo implorante e la ripresi in braccio. Lei appoggiò la testa sulla mia spalla e socchiuse gli occhi, stravolta.
Feci per allontanarmi in direzione dell'uscita. Improvvisamente una porta alle mie spalle si aprì e due mani mi afferrarono per i fianchi e mi trascinarono in un corridoio laterale. Una mano si staccò dal mio fianco e mi tappò la bocca prima ancora che potessi aprirla.
-Ti prego, non urlare. Potrebbe rivelare la mia posizione alle fan impazzite.- disse una voce fin troppo familiare.
- Porca puttana, Paul! Mi hai fatto prendere un infarto!- esclamai liberandomi dalla sua presa.
Sperai che Martha non si fosse accorta dell'imprecazione che mi era sfuggita.
- Stai tranquilla, piccola. Va tutto bene. - mormorai all'orecchio di mia figlia per rassicurarla, anche se per fortuna era troppo stanca per essersi accorta di quello che era successo.
- Così impari a cercare di andartene senza salutare!- sbottò Paul fingendosi arrabbiato.
Guardandolo mi lasciai sfuggire un sorriso.
- E' così bello rivederti, Paul. - mormorai e lui abbracciò sia me che Martha. Guardò la mia bambina per qualche secondo e il suo sguardo si illuminò di una dolcezza che non vi avevo mai scorto.
- Martha, lui è Paul McCartney .- dissi all'orecchio della piccola. Lei si riscosse dalla stanchezza e scrutò l'uomo da cima a fondo.
- Ciao Martha. - disse Paul sorridendole. La bambina fece semplicemente un cenno del capo.
- Quanti anni hai?- chiese ancora il mio amico. Colsi facilmente il doppio significato che quella domanda aveva.
- Due.- rispose sbrigativamente Martha - Tu sei quello che suona il basso?-
Paul rise:- Ha due anni e sa riconoscere la differenza fra un basso e una chitarra? La stai tirando su bene!-
Sorrisi, ma poi un rumore attrasse la mia attenzione.
Vidi sbucare dal fondo del corridoio George e Ringo, anche se loro non sembrarono accorgersi subito di me.
Posai a terra Martha, anche se la bambina in un primo momento protestò, poi mi spostai in modo da dare le spalle ai due Beatles, i quali, nel frattempo, avevano notato la presenza di Paul e si stavano avvicinando.
Cominciai a frugare nella borsa, alla ricerca del bacchettino rosso e bianco comprato per mia figlia sul treno.
- Ma che stai facendo?- chiese Paul.
Gli feci l'occhiolino:- Lo vedrai.-
George e Ringo ci avevano ormai quasi raggiunti.
- Certo che non ti smentisci mai, vero, Macca?- chiese il chitarrista ridendo.
Non mi aveva riconosciuto né si era accorto di Martha. Probabilmente pensava che io fossi una delle tante adolescenti italiane che aveva scorto in platea.
- Certo che questa volta hai superato te stesso, al momento di scegliere. Sembra proprio figa! Facciamo un po' a turno, questa volta? - continuò George.
Io e Paul ci guardammo, cercando in tutti i modi di reprimere le risate. Vidi con la coda dell'occhio che i due Beatles si erano ormai avvicinati a sufficienza.
Mi voltai all'improvviso, tenendo uno dei biscotti del pacchettino davanti a me.
- Biscotto?- chiesi guardando George negli occhi, mentre Paul scoppiava a ridere. Credo che se ne avesse avuto la possibilità si sarebbe messo a rotolare per terra. Dovetti fare appello a tutto il mio autocontrollo per non imitarlo, dopo che ebbi visto l'espressione che si dipinse sui volti di George e di Ringo. Quando il chitarrista si riprese dalla sorpresa sorrise e si chinò per prendere il biscotto direttamente con i denti, poi mi sfilò dalle mani tutto il pacchetto.
- Maleducato.- sussurrai sorridendo e lui mi fece l'occhiolino.
Sentii la mano di Martha tirarmi i jeans.
- Anche io lo voglio.- mormorò con tono implorante.
George si chinò e la guardò con dolcezza.
- La tua mamma cattiva non ti fa mangiare i biscotti?- chiese e io scoppiai a ridere quando vidi Martha annuire. Il chitarrista la prese in braccio.
-Vieni da George e insieme mangeremo tutti i biscotti del mondo.-
-Io sono Martha.- si presentò la mia bambina, poi indicò Ringo. - E tu chi sei?-
- Non si indicano le persone. - la rimproverai, più per abitudine che per altro.
Il batterista si presentò, poi si rivolse a me:- Non essere troppo severa con lei, o verrà su scompensata quanto te! -
Lo fulminai con lo sguardo, ma lui mi cinse i fianchi e cominciò a farmi il solletico.
- Dai, non arrabbiarti, lo sai che sei la mia tricheca preferita!- esclamò ridendo.
 Ancora con quella storia. Erano passati cinque anni, e ancora giravano il coltello nella piaga.
- Parla quello che vorrebbe andare a vivere nel giardino di un polipo!- replicai riuscendo a liberarmi e ad allontanarmi da lui.
- Avanti, ragazzi. Non avevamo forse decretato che ciò che è accaduto ad Amburgo dovesse restare ad Amburgo?- intervenne Paul.
Ridemmo tutti insieme sotto lo sguardo stupido di Martha.
- Va tutto bene, amore. - le dissi baciandole la guancia e lei mi sorrise.
Mi voltai di nuovo verso i miei tre amici.
- Sono così felice di rivedervi, ragazzi.- mormorai.
Loro mi abbracciarono, anche se George dovette limitarsi ad avvicinarsi a me, poiché aveva ancora mia figlia in braccio.
- Mi siete mancati.- continuai.
- Anche tu, Anna, da morire. - disse Paul - Perché credi che abbiamo fatto questo tour in Italia? John era sicurissimo del fatto che saresti venuta ad uno dei concerti e che noi ti avremmo riconosciuta in mezzo alla folla. -
Li guardai negli occhi uno ad uno, ma poi abbassai lo sguardo.
- Seconda porta a sinistra - disse Paul intuendo i miei pensieri - E' già in camerino.-
Sorrisi e gli rivolsi uno sguardo pieno di gratitudine.
-Posso lasciare Martha con voi?- chiesi.
-Ma certo! Io e lei dobbiamo ancora finire il pacco di biscotti! Non è vero, piccola?- esclamò George.
- Grazie mille, ragazzi.- mormorai - Ci vediamo dopo.-
Ero così felice che in tutti quegli anni fra noi non fosse cambiato nulla.
Aprii la porta del camerino quel tanto che bastava per sgattaiolarci dentro, ma non la richiusi.
John era in mezzo alla stanza, chino sulla custodia della sua chitarra. Mi dava le spalle.  Trattenni il respiro, in attesa che mi venisse in mente qualcosa di intelligente da dirti.
 - Immagino che ora ti debba ringraziare per la dedica, anche se non l'hai scritta tu, quella canzone.- dissi d'un fiato, ma poi mi accorsi della stupidità di quella frase e desiderai rimangiarmela.
Lui si bloccò. Si alzò lentamente e si girò sgranando gli occhi quando vide che ero davvero lì davanti a lui. Aveva forse creduto di essersi sognato la mia voce?
- Anna - mormorò senza osare avvicinarsi
-Ciao, Johnny. - lo salutai dolcemente.
Ci guardammo a lungo senza che nessuno dei due riuscisse a trovare il coraggio per parlare.
La porta si aprì completamente sbattendo ed io sussultai a causa di quel rumore improvviso.
Martha mi si avvicinò stringendo un lembo della maglietta, mentre Paul, George e Ringo rimanevano fuori ridendo allegramente.
-Mamma, zio Paul chiede se vado a vedele il suo basso e la chitalla di zio George e la battelia di zio Bingo. Posso?- mi chiese mia figlia sfoderando uno dei suoi sorrisi più convincenti.
Scoppiai a ridere per come aveva storpiato il nome di Ringo:- Li conosci da cinque minuti e già li chiami zii?-
Martha mi guardò stringendo gli occhi
- Pel favole? - chiese implorante.
Le baciai la fronte e la sospinsi dolcemente verso "zio Paul".
-Su, vai, piccola.-
Aspettai sullo stipite della porta e guardai mia figlia allontanarsi con i tre Beatles finché non furono scomparsi alla mia vista, poi richiusi la porta del camerino.
Mi voltai verso John, ma non riuscii a guardarlo negli occhi. Rimanemmo in un silenzio imbarazzato per minuti che sembrarono durare ore.
- Chi... chi è il padre?- mi chiese infine l'uomo.
Respirai profondamente.
Alzai gli occhi, incrociandoli con i suoi. Lo sguardo che gli rivolsi era troppo eloquente per poter essere frainteso. I suoi occhi si riempirono di sgomento.
- Avresti...- mormorò, in difficoltà - avresti dovuto farmelo sapere. -
Io sorrisi sarcastica:- E poi tu cosa avresti fatto? Saresti andato da Cyn e le avresti detto che mi  avevi messo incinta scopandomi la notte prima che tu la sposassi? Non so perché, ma non riesco a crederci, John. -
-Almeno avrei saputo che esiste, cazzo!- gridò e si voltò per tirare un pugno contro la parete.
Gli ci vollero un paio di secondi prima di riuscire a calmarsi.
-Come si chiama?- mi chiese.
- Martha.- risposi cercando di mantenere un tono distaccato.
- Martha. - ripeté lentamente lui, come per vedere l'effetto che faceva sentire il nome di mia figlia pronunciato dalle sue labbra.
Un brivido mi corse lungo la schiena. Morivo dalla voglia di stringerlo a me e sentire di nuovo il suo cuore battere contro il mio, ma era tardi, troppo tardi. Lui ora era sposato, aveva un figlio, era diventato ricco e famoso; entrambi avevamo fatto le nostre scelte, e ora eravamo alla resa dei conti. Mi morsi il labbro con talmente tanta forza che non sarei stata sorpresa di sentire il sapore del sangue.
Anche se, mio malgrado, l'avevo sognato molte volte, non ero preparata per quell'incontro.
John mi guardò e io mi persi nei suoi occhi.
Cercò di avvicinarsi, ma mi ritrassi subito, prima che superasse la mia barriera.
- Come sta Julian? - dissi ostentando freddezza, in risposta alla domanda contenuta nel suo sguardo.
- Anna, ti prego...- mormorò.
C’era qualcosa nel suo tono o nei suoi occhi che fece sì che quando lui fece un passo avanti, io non mi allontanassi più.
John mi prese il volto fra le mani, spingendomi contro la porta chiusa. Le sue labbra scesero sulle mie e mi baciò con la foga e la disperazione di due bocche che si sognano da anni. Affondai le mani tra i suoi capelli castani e lo strinsi a me.
- Mi sei mancato, John Winston Lennon. - mormorai quando si staccò da me per permettermi di respirare.
- Ti amo, Anna Mitchell.-
Gli accarezzai i capelli mentre lui si chinava per baciarmi il collo.
Mi accarezzò il ventre insinuando le mani sotto la maglietta.
- Pensavo ti saresti vestita più elegante, almeno per il nostro concerto.- sussurrò mordicchiando il mio orecchio.
Io risi scuotendo la testa:- Con una bambina di due anni non ho molto tempo per curare il mio guardaroba.-
Mi baciò ancora, ma poi realizzai quello che stava per succedere.
Prima di perdere la testa, mi scostai e gli diedi le spalle, come ero solita fare quando avevo bisogno di ritrovare la lucidità necessaria a darmi un contegno.
- Che succede?- mi chiese John, allarmato dal mio repentino cambiamento.
 -Se dovesse tornare la bambina...-
Percepii che John stava facendo uno dei suoi soliti mezzi sorrisi:- Non ti preoccupare, sono sicuro che Paul, George e Ringo si siano presi per tempo e si siano fatti parecchie fantasie su quello che sarebbe successo se io e te ci fossimo rivisti. La terranno lontana per un po'.-
Sentii la sua mano sfiorarmi la coscia mentre lui mi dava dei piccoli baci sul collo e sulle spalle.
Brividi di piacere cominciarono a percorrere il mio corpo.
La mia risoluzione a lasciarmelo definitivamente alle spalle era già andata ad andarsi benedire insieme alla mia Coscienza. Erano durate davvero poco, questa volta.
Dovrò licenziarla e trovarmi una Coscienza più diligente.” pensai, poi mi voltai e lo baciai con ardore, stringendolo a me il più possibile. John ricambiò la stretta, poi mi sospinse di nuovo verso la porta.
Senza smettere di baciarlo cominciai a sbottonargli la camicia bianca e gliela sfilai.
John l'afferrò e la lanciò su uno dei divanetti di pelle addossati contro la parete.
Gli accarezzai il petto e le spalle mentre i nostri baci cominciavano a farsi sempre più sensuali.
Rabbrividii quando scese a baciarmi il seno, mordicchiandomi la pelle abbronzata. Strinsi le mani nei suoi capelli e gli graffiai la nuca, poi gli accarezzai la schiena con la punta delle dita facendolo rabbrividire.
Iniziavo ad avere il fiato corto.
John aprì il bottone dei miei jeans e io me li tolsi, anche se fu piuttosto complicato perché John non sembrava intenzionato a smettere di baciarmi.
Slacciò velocemente il gancetto del reggiseno e lo sfilò, poi si chinò di nuovo per baciarmi i capezzoli, sfiorandoli con i denti.
Il cuore mi pulsava nelle orecchie.
Senza allontanare le labbra dal mio seno, John mi accarezzò le cosce.
Strinse la presa e mi sollevò facilmente, mentre io dovetti incrociare le gambe intorno al suo bacino per non perdere l'equilibrio.
- Ehi, ma che fai?- esclamai ridendo - Mettimi giù, Lennon!-
-Come vuoi. - replicò lui con malizia.
Mi depose sui divanetti di pelle e mi salì sopra, bloccandomi in modo che non potessi muovermi.
- Sei un grandissimo stronzo.- gli dissi.
- Perché tutte le volte che arriviamo al dunque, o sei fatta di LSD oppure mi insulti? - chiese lui provocatorio.
Ebbi un moto di protesta e cercai di scrollarmelo di dosso, ma un bacio bloccò ogni mio tentativo. Mi accarezzò la guancia, poi scese sul collo, sui seni e sul ventre.
Una mano si insinuò fra le mie gambe.
 Appoggiai la testa contro la sua spalla e mormorai più volte il suo nome.
John mi sfilò gli slip, quindi posò le sue labbra all'interno della mia coscia e cominciò a succhiare lentamente.
Mi strinsi a lui, graffiandogli la schiena, poi le mie mano scivolarono lungo la sua colonna vertebrale e gli scesero sul ventre, dove incontrarono la fibbia della cintura che faticai a slacciare a causa dei tremiti che sconvolgevano il mio corpo.
Infine lo liberai dei pantaloni, ormai diventati stretti, e i nostri corpi nudi furono in grado di toccarsi. John si fermò a guardarmi negli occhi  e io ricambiai, in silenzio.
Mi scostò una ciocca di capelli ricaduta sul viso e mi sfiorò appena l'orecchio.
- Ti amo, John. - sussurrai.
Lui non mi rispose e si chinò a baciarmi ancora una volta, stringendomi il volto delicatamente, come avesse paura che avrebbe potuto spezzarsi sotto una stretta più forte.
Ricambiai il bacio con ardore, facendogli capire che ero pronta ad accoglierlo dentro di me.
 
Perché, perché non riuscivo a lasciarmi quel maledetto alle spalle? Ogni volta che lo vedevo non potevo fare altro che cadere ai suoi piedi, come tutte quelle ragazzine con gli ormoni alle stelle.
Cristo, che stupida che ero.
- Vorrei passare un po’ di tempo con voi due. - disse John mentre si rivestiva.
- Possiamo sempre andare in giro per Roma braccati da fotografi e fan. - replicai sorridendo. - Ho sempre voluto allenarmi per la maratona. -
- Pensavo fossi una schiappa nel correre. - mi rimbeccò lui.
- Sai, quando si tratta di aver salva la vita… - replicai mentre recuperavo i miei vestiti sparsi un po’ ovunque. Sentii i suoi occhi su di me tutto il tempo.
- Cosa c’è? - gli chiesi.
Lui si accese una sigaretta e scrollò le spalle, poi mi tese il pacchetto, ma rifiutai.
- Ho smesso mentre ero incinta, e non ho alcuna intenzione di iniziare di nuovo. - spiegai.
- Mamma, mamma, mamma! - sentii che Martha mi chiamava dal corridoio e intimai a John di finire di vestirsi. Lui svogliatamente si infilò una maglietta un momento prima che la bambina spalancasse la porta ed entrasse correndo. Cominciò a parlarmi di quanto si fosse divertita troppo velocemente perché io riuscissi ad afferrare qualcosa. Qualche minuto dopo arrivarono anche Paul, George e Ringo, spossati e ansimanti. Il Macca si appoggiò allo stipite della porta, piegato in due dal fiatone.
- Ma l’hai caricata con la molla? - mi chiese quando riuscì ad articolare un suono.
Io rivolsi a mia figlia l’imitazione di uno sguardo severo:- Non hai dato fastidio agli zii, vero? -
- Cosa? No! - rispose George in fretta. - Abbiamo solo mangiato un po’ di biscotti, vero, piccola? -
Lei fece la sua migliore esibizione di una faccina angelica.
- Se continua a dimostrare queste capacità di manipolazione, mia figlia diventerà la padrona del mondo intero. - commentai tra me e me, a voce talmente bassa che non credevo che qualcuno potesse sentirmi. Invece John ci riuscì e scoppiò a ridere.
L’intera attenzione di Martha si spostò su suo padre. I due rimasero a guardarsi in silenzio, gli occhi della bimba che erano lo specchio di quelli dell’uomo. Mentre li guardavo mi chiesi che cosa si stessero dicendo.
Qualcuno bussò alla porta del camerino spezzando il silenzio. Martha sussultò e venne a nascondersi dietro la mia gamba; la presi in braccio e la rassicurai, mentre la voce di Brian Epstein avvertiva i quattro ragazzi che se non si fossero sbrigati avrebbero perso l’aereo.
- Arriviamo! - gli rispose urlando Ringo.
- E’ stato bello, ragazzi. - mormorai. Misi Martha a terra e la presi per mano, per poi andare ad abbracciare i miei amici uno ad uno.
- Ci vedremo ancora, è una promessa. - replicò Paul.
- O una minaccia? -
- Tutte e due. - rispose.
- Scrivici ogni tanto. - disse George. - Però dovremmo concordare un modo per distinguere la tua lettera da quelle delle fan, tipo la scritta “vi ucciderò tutti”, o qualche simbolo satanico… -
- Ma non facciamo prima a darle i nostri indirizzi? - lo interruppe Ringo.
- Perché tu hai carta e penna, vero? -
- Ce le ho io. - li rassicurai ridendo.
- Guarda che è roba top secret. - mi avvertì il batterista. - Ne va della nostra vita. -
Dissi loro che avrei protetto quelle informazioni con il sacrificio estremo, se fosse stato necessario, poi ci furono altri abbracci.
- Dite a Brian che io mi fermo un altro giorno. - affermò John.
Lo guardai sorpresa, ma a quanto pare gli altri se lo aspettavano, perché risposero con sguardi d’intesa e un “okay” carico di doppi sensi.
- C’è la bambina! - esclamai indignata.
I tre ragazzi ridacchiarono e se ne andarono salutandoci, anche se non mi sfuggì il fatto che Paul allungò la mano per farsi dare dei soldi (la sua vincita) sia da George che da Ringo.
Quando rimanemmo soli Martha mi rivolse uno sguardo spaesato, ma io sapevo quanto lei quello che stava succedendo.
- Cos’hai intenzione di fare? - chiesi a John.
- Tutto quello che volete voi due. - rispose con semplicità. - Ma proporrei di iniziare uscendo da qui. -
Le sue labbra si allargarono in un sorriso rivolto più che a me a Martha, e anche lei dovette capirlo, perché con la mano libera prese quella di John, che ci accompagnò fuori dal teatro.
 
John scostò una ciocca di capelli color miele dalla fronte di Martha, addormentata fra me e lui sul sedile posteriore del taxi che ci stava portando in un agriturismo fuori da Roma che ci era stato consigliato dallo stesso autista. Dopo aver tempestato l’inglese di domande per una buona mezz’ora, la bambina era improvvisamente crollata.
Il chitarrista portò la mano lungo il fianco e guardò fuori dal finestrino.
- Te ne sei andata senza dire nulla. - mormorò piano per non svegliare Martha.
Sospirai: sapevo che prima o poi avrebbe tirato fuori l’argomento.
- Non mi piacciono gli addii. - dissi, a mo’ di spiegazione. - Rendono tutto più difficile e fanno dimenticare alle persone perché sono necessari. -
Lui annuì poco convinto, poi ritornò immobile. Il silenzio era rotto solo dal leggero russare di Martha. Era davvero strano che l’imbarazzo fosse nato solo in quel momento, mentre solo un’oretta prima ci eravamo comportati come se non ci fossimo mai allontanati.
Cercai di trovare un argomento neutro con cui intavolare una conversazione, ma la mia bocca si spalancò in uno sbadiglio enorme, che solo all’ultimo mi ricordai di coprire con una mano.
- Ehi, trattieni il tuo ruggito, o sveglierai la leoncina. - commentò John ridacchiando.
Gli lanciai un’occhiataccia e appoggiai la testa contro la sua spalla.
Il taxi si fermò davanti ad un grazioso agriturismo-fattoria. Ormai era sera e l’edificio centrale, su cui spiccava il contrasto tra mattoni rossi e intonaco color panna, era illuminato da luci esterne posizionate in un cortile acciottolato; adiacente ad esso c’era una grossa scuderia, dalla quale provenivano rumori di animali.
- Tesoro, siamo arrivati. - sussurrai a Martha scuotendola per svegliarla.
Lei mugugnò qualcosa di indefinito e strizzò gli occhi.
Feci per prenderla in braccio, ma John mi precedette.
Entrammo nell’agriturismo, dove chiedemmo un tavolo per la cena e una stanza per la notte.
- Avete una prenotazione? - chiese un uomo all’ingresso, forse il proprietario della fattoria.
- No, insomma… non era previsto… noi…- risposi. Ma come avevo fatto a non pensarci? L’uomo ci pensò su un attimo, spostando lo sguardo da me a John a Martha, poi sorrise.
- Nessun problema, signora. - mi rassicurò cordiale. - Ho solo bisogno del suo nome. -
- Ho, sì, certo. Mitchell; Anna e … Leonard Mitchell.-
L’uomo li annotò, poi ci guidò verso il ristorante.
- Allora siete inglesi, eh? Sono stato giù in città oggi, e c’era il concerto di un gruppo di vostri connazionali… c’era una tale ressa! Adolescenti urlanti dappertutto. Parola mia, mai visto una cosa del genere.-
Lanciai un’occhiata complice a John, che tuttavia, poiché non aveva capito una sola parola, mi restituì uno sguardo curioso.
L’interno del locale era molto accogliente, con il soffitto a volta e luci soffuse. Alcuni dei tavoli di legno erano occupati, ma non c’era molta ressa; in ogni caso fui sollevata quando l’italiano ci condusse fino ad un tavolo in disparte, come se alle parole magiche “ehi, ma quello è John Lennon” dovessero sbucare stuoli di fan e giornalisti impazziti.
- E così adesso sarei Leonard Mitchell? - chiese ironico il giovane uomo quando rimanemmo finalmente soli.
- Non sapevo cosa inventarmi. - mi giustificai cominciando a scorrere il menù.
- Sì, si era notato. - replicò John.
Martha rise alla battuta, poi tornò seria.
- Pecché tu sei limasto e gli atti no? - chiese puntando i suoi occhi indagatori sul ragazzo.
Lui si limitò a scrollare le spalle:- Avevano un impegno, e io volevo passare un po’ di tempo con voi due. Sei dispiaciuta?-
Lei si affrettò a scuotere la testa, come inorridita dall’idea:- No, no, zio John. -
Le sorrisi per incoraggiarla mentre John le dava un buffetto sulla guancia.
Dopo cena salimmo nella stanza, che era in realtà una sorta di mini appartamento. Oltre alla stanza vera e propria, infatti, ce n’era anche una più piccola con un divano e una poltrona, con affianco un bagno. Nella stanza principale c’era un letto enorme di legno chiaro, di cui erano fatti anche i comodini e un tavolino posto di fronte al letto su cui c’era una piccola televisione.
Quando entrammo Martha corse incontro al letto e vi saltò sopra.
- Martha…- cominciai, ma dovetti smettere perché un secondo dopo John fece la stessa cosa, poi cominciò a farle il solletico.
- Guardiamo la TV? - mi chiese la bambina.
Mentre io accendevo l’apparecchio e facendo zapping trovavo per caso un canale su cui trasmettevano “Biancaneve e i sette nani”, Martha si sistemò al centro del letto, con accanto suo padre. Quando mi sedetti anche io, la bambina si appoggiò contro il mio petto, pur continuando a tenere la mano di John.
In un primo momento cercai di fare a John la traduzione simultanea di quello che veniva detto, in italiano, nel cartone, ma poi fui interrotta da un’indignata Martha che mi impose il silenzio.
- Tanto non ti perdi molto. - sussurrai al ragazzo. In effetti, ogni volta che vedevo Biancaneve venire salvata in extremis sa un principe che (guarda caso) passava proprio dì lì al momento opportuno, meno mi piaceva; però mia figlia adorava le canzoni dei nani, quindi mi dovevo sorbire tutta la storia ogni volta che passava in televisione.
Per fortuna, poco tempo dopo la scena della mela avvelenata, Martha si addormentò, così potei andare a spegnere la TV e porre fine alla tortura.
Tornai a letto e mi sdraiai di fianco alla bambina, mentre John, piano piano, la copriva con le lenzuola, poi cominciò a fissarmi.
Gli rivolsi uno sguardo interrogativo, e lui mi prese la mano sinistra. Facendo attenzione a non disturbare Martha, la girò con il palmo all’insù per poi baciarmi la cicatrice biancastra, così come aveva fatto tanti anni prima.
Non mi importava che quello fosse solamente un’ illusione.
Non mi importava che il giorno seguente lui sarebbe dovuto tornare in Inghilterra ed io alla realtà.
Era un sogno, un bellissimo sogno, e per una volta  (solamente una) avevo intenzione di sprofondarci dentro.
John sorrise e i suoi occhi mi comunicarono ciò che le parole non avrebbero mai potuto fare; sorrisi, chiusi gli occhi e, dolcemente, scivolai nel sonno.
 
_______________________________________
Sera, popolo!!!
Lo so, questo capitolo è orrendamente fluff, ma mi sentivo in vena di tenerezza.
Ci sono parecchie osservazioni da fare:
1) Ovviamente il (banale) nome di Martha viene dalla canzone Martha my dear.
2) So che la bambina dovrebbe essere un genio per parlare così a due anni, ma che ci volete fare, essere la creatrice di una storia ti permette di piegare le leggi della Natura (sì, ci si sente onnipotenti)
3) L’intero capitolo è basato su una situazione pressoché surreale, ma volevo fare le cose in grane, per questo capitolo, ragion per cui è anche parecchio lungo. Ho pensato anche di spezzarlo, ma poi mi sono resa conto che sarebbe stato peggio.
5) E’ l’ultimo capitolo vero e proprio (non preoccupatevi, c’è ancora l’epilogo)
Ve l’ho detto così possiamo prepararci psicologicamente tutti insieme. (Mi fa venire l’angoscia pensarci ora…) Comunque, abbiamo ancora tempo… (poco, ma pur sempre tempo.)
Alla prossima (e ultima) volta!


Weasleywalrus93: Okay, giuro che l’errore non l’avevo proprio visto!!! Chiedo umilmente venia (devo smetterla di scrivere dalle 2 alle 4 del mattino!) Non avrei saputo descrivere John in modo più efficace: è proprio un marpione, ma è per quello che lo amiamo, no?

Cagiu_Dida: Sì, diciamo che è stata una sorta di rivoluzione nella vita di Anna, che però, come vedi, non sa starsene tranquilla neanche per tre anni, e va a cercarsi guai. Comunque, se ti può consolare, io stessa avevo il magone mentre lo scrivevo.


Peace n Love.

P.S. (Non so perché io ‘sta sera mi senta  così diabolica/depressa da ricordare ogni tre parole che è l’ultimo capitolo… Scusate la mia psiche instabile)

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Capitolo 36
*** Epilogo. - Nowhere Man. ***


Nowhere Man.


1980.
Rabbrividii, alzando la sciarpa di lana fin sopra il naso arrossato dalla gelida aria invernale.
- Ti invidio, sai. - dissi al cane al mio fianco. - Con quel pelo lungo potresti andare a fare una spedizione in Alaska senza patir freddo. -
Il bobtail alzò la testa e cominciò a scodinzolare. Quando Frency era morto, qualche anno prima, ci aveva prima lasciato una cucciolata, e alla fine Martha era riuscita a convincermi ad adottare uno dei suoi figli.
Il cane mi saltò addosso, festante.
- Sì, Lily, ti voglio bene, ma adesso giù, o finiamo per terra tutte e due. -
Lei abbaiò, ma poi si rassegnò al fatto che quel momento non era adatto alle coccole e mi obbedì.
Percorremmo le vie nebbiose di Londra, ancora quasi deserte a quell’ora del mattino, finché svoltammo in una via; sarebbe stata una normalissima strada cittadina, con i palazzi e i negozi allineati sul bordo del marciapiede, se non fosse stato per un locale, posto quasi al centro della via, le cui serrande ancora abbassate erano dipinte di colori vivaci; sopra di esse c’era un’insegna luminosa che recitava la scritta Neverland a caratteri distorti.
A vederlo lì, incastonato nella normalità degli edifici adiacenti, sembrava un pezzo di anni ’60 sopravvissuto e nascostosi in un luogo sicuro, dove nessuno sarebbe venuto a cercarlo.
Ero davvero orgogliosa del mio negozio. L’avevo aperto quasi otto anni prima, realizzando così il sogno condiviso da me e dal mio compagno, Wesley.

uando ero finalmente riuscita a pubblicare un romanzo, che per un certo periodo aveva avuto un discreto successo, Martha ed io avevamo cominciato a pensare e a discutere l’idea di partire. Mi ero trovata molto bene in Italia, tuttavia non ero mai riuscita a sentirla davvero come casa mia, anche se prima di considerare un trasferimento, avevo voluto accertarmi che per mia figlia non ci sarebbero state conseguenze negative. Alla fine ero tornata in Inghilterra, ma non a Liverpool, bensì a Londra. Anche Elisabeth e James si erano trasferiti già da qualche anno nella capitale, così avevano avuto l’occasione di intensificare i rapporti con la loro nipotina.
Dopo un anno avevamo deciso di passare l’estate girando per l’Europa, e io avevo insistito affinché venisse anche la mia mamma adottiva, poiché aveva sempre sperato di riuscire a vedere la Francia e volevo che finalmente realizzasse quel sogno, condividendolo con me e con Martha, mentre James aveva preferito lasciarci fare quel “viaggio tra ragazze”.
Dopo tre settimane passate tra Normandia, Parigi e Provenza, ci eravamo spostate ad Amsterdam, dove, per un caso fortunato, avevo incontrato Wesley.
Era successo durante uno dei primi giorni dopo il nostro arrivo; dopo una giornata di pioggia torrenziale, passata chiuse nell’albergo, solamente verso sera aveva cominciato a schiarirsi; non ne potevo più di stare al chiuso, così, essendo troppo tardi per far uscire anche Martha, avevo lasciato mia figlia in compagnia di Elisabeth, che le aveva promesso di raccontarle tutte le fiabe di Perrault, ed ero uscita un po’ per conto mio.
Avevo vagato senza meta per un po’, osservando la città, con le case dalle silhouette slanciate allineate lungo i canali, su cui si riflettevano le luci dei lampioni. Ero appena giunta in una piazza sulla quale si affacciavano numerosi caffè con i tavolini di ferro battuto quando aveva ripreso a piovere. Seguendo il mio istinto, che come sempre mi stava dicendo “Se non sai come uscire da una situazione difficile, entra in una libreria e troverai la soluzione!”, mi ero rifugiata nel primo negozio adatto che ero riuscita a trovare.
Si trattava di una libreria piccola, con gli scaffali alti fino al soffitto e il pavimento di legno, un’aria accogliente profumata di inchiostro e carta. Avevo cominciato a guardarmi intorno, pur sapendo che non avrei mai potuto capire una sola parola di qualunque libro, accarezzando con le dita il dorso dei volumi. Alla fine, quando trovai “Urlo” di Allen Ginsberg con il testo in lingua originale a fronte, non resistetti alla tentazione e cominciai a sfogliarlo, articolando senza produrre alcun suono i miei passi preferiti. Persa nella mia contemplazione, non mi ero accorta di aver destato la curiosità di un altro cliente della libreria.
- E’ davvero strano trovare qualcuno che legga Ginsberg da queste parti, e soprattutto che lo faccia in lingua originale. - aveva detto.
Ridestandomi di colpo da quella specie di trance in cui ero caduta, avevo alzato lo sguardo e mi ero ritrovata davanti un giovane uomo alto e slanciato, dai capelli talmente biondi da sembrare quasi tinti e gli occhi azzurri, dai quali traspariva un’espressione estremamente gentile. Parlando con lui, quella sera in libreria e anche in seguito, avevo appreso che Wesley era uno scrittore e un poeta.
E le tre settimane che avremmo dovuto passare in Olanda erano diventate mesi, e infine i mesi erano diventati anni.
Avevamo avuto un figlio insieme, Jaime, che ora aveva sette anni, avevamo aperto Neverland, e vivevamo felicemente insieme da quasi dieci anni, anche se non ci eravamo mai sposati.

Neverland era un negozio piuttosto strano, tanto che non si sarebbe potuto definire in modo esatto. Era una sorta di ibrido fra un caffè, una libreria, un negozio di dischi e uno di articoli musicali, ed era articolato in più ambienti, ciascuno dei quali, pur essendo simile agli altri, aveva una funzione diversa. Il primo di essi, dal quale si entrava, era caratterizzato da un bancone e alcuni tavolini di legno chiaro; sulle pareti c’erano alcune mensole dello stesso materiale su cui erano appoggiati dei libri dalle copertine colorate, mentre i muri erano dipinti a volute e spirali multicolori. C’erano due archi, su due pareti opposte, ciascuno dei quali permetteva l’accesso a una stanza; una delle due aveva il pavimento coperto con un tappeto su cui erano appoggiati numerosi cuscini dalle dimensioni e disegni diversi, mentre le librerie addossate contro le pareti erano intervallate da bassi e chitarre elettriche e scaffali con sopra dei dischi, oltre che da vari poster di gruppi rock e da quadri psichedelici. In un angolo dell’ambiente, di fronte a una finestra c’era persino una batteria. Infine, nell’ultima stanza troneggiavano due divanetti, posti di fronte ad un caminetto che era lì più per bellezza che per altro, sopra il quale era appesa una bellissima Martin. Se si escludeva quella chitarra, per il resto gli altri lati della stanza erano completamente rivestiti di librerie che arrivavano fino al soffitto; dal lato opposto rispetto ai divanetti, invece, c’erano due cavalletti da pittore con appoggiate delle tele bianche, in mezzo ai quali c’era il tavolino su cui erano appoggiati pennelli e colori dentro barattoli di vetro colorato.
L’intento mio e di Wesley era stato quello di creare un luogo di ritrovo per i giovani, dove questi potessero confrontare le proprie idee artistiche, parlare di musica e letterature, ascoltando dischi o sfogliando libri, senza dover necessariamente comprare qualcosa. Neverland era una sorta di oasi artistica, che a una prima occhiata sembrava troppo caotica e psichedelica, ma una volta che ci si abituava, diventava un rifugio le cui porte erano aperte a tutti. Io lo sentivo come una seconda casa, ed era per quello che ci passavo più tempo possibile, arrivandovi molto prima dell’apertura e uscendone il più tardi possibile.
Quando entrai accesi le luci e sganciai il guinzaglio di Lily, la quale subito, come il suo solito, andò a sdraiarsi sui cuscini della stanza adiacente.
- Quelli veramente sarebbero per i clienti. - borbottai mentre lanciavo le chiavi del negozio in un cestino di vimini sul bancone.
Feci un caffè così come avevo imparato in Italia, perché non ero mai più riuscita a bere quella schifezza che propinavano nei Paesi anglofoni, poi cominciai a spolverare le stanze e a mettere in ordine i due scatoloni di libri che erano arrivati il giorno prima.
Quando sentii i campanelli attaccati alla maniglia della porta tintinnare andai subito a vedere chi fosse, perché era ancora presto e il negozio non era ancora presto, ma non appena Lily si alzò dai cuscini abbaiando e scodinzolando come una pazza intuii di chi si trattasse.
- Ehi, Wes, non ti aspettavo! - esclamai andando ad abbracciarlo, poi gli diedi un bacio.
- Ti ho fatto una sorpresa. - rispose il mio compagno sorridendo. - Ma se vuoi me ne vado e ritorno oggi pomeriggio come da programma. -
Alzai gli occhi al cielo e scrollai le spalle:- Martha e Jaime sono andati a scuola?-
L’olandese annuì:- Serve una mano in qualcosa?-
- No, ho appena finito di sistemare i libri appena arrivati. - risposi. - Perciò il tuo intento di arrivare qui al momento giusto per evitare tutta la fatica è assolutamente riuscito. -
Lui ridacchiò: - Mi farò perdonare.-
- Questo è tutto da vedere. - replicai prendendolo in giro. - Cambiando argomento, come procede il tuo romanzo? -
- Bene, è quasi terminato. - mi informò lui sorridendo.
- Meno male, perché se il tuo agente telefona ancora una volta sul numero di casa, giuro che mi sente. -
Wesley mi cinse i fianchi e mi diede un bacio sul collo:- Lo avvertirò di guardarsi le spalle, d’ora in poi. -
Il mio compagno andò a dare un’occhiata ai libri nuovi, e io pensai di mettere su un po’ di musica, ma poiché quella mattina non riuscivo a scegliere alcun disco, decisi di accendere la radio.
La prima stazione che fu ricevuta sembrava quella di un notiziario, così feci per cambiarla, ma, poi, improvvisamente, distinsi delle parole che mi bloccarono sul colpo.

- ... e così è stato confermato il decesso di John Lennon, il quale, ieri sera ... -

Non sentii il resto della frase. In effetti, non riuscivo a sentire, né percepire, né distinguere alcunché.
Ero lì, perfettamente immobile, ghiacciata in quella posizione senza poter muovere in muscolo. Cominciai persino a dubitare di averne ancora, di muscoli.
- Anna, stai bene? - udii Wesley, ma sembrava lontano, come se io fossi stata prigioniera di una bolla che ovattava tutti i suoni.
Il mio compagno mi guardò apprensivo e si mise in ascolto nel notiziario, che evidentemente dovette chiarirgli che cosa fosse successo, perché lo sentii vagamente sfiorarmi la mano e poi abbracciarmi.
- Mi dispiace. - sussurrò.
Se fossi stata ancora quella ragazzina di Liverpool che ero tanti anni prima, avrei cominciato ad urlare, a sottrarmi alla sua stretta, a dire che non era vero, che non poteva dispiacergli, che mi stava mentendo, e che anche la radio mentiva perché John, John non poteva essere morto.
E invece rimasi ferma, senza provare rabbia, e nemmeno dolore.
Solamente vuoto.
Un enorme, indefinito senso di vuoto che aveva risucchiato l’aria dai miei polmoni e i pensieri dalla mia testa.
Passò un tempo indeterminato prima che riuscissi ad articolare dei movimenti.
- Io... ho bisogno di una boccata d’aria. - gemetti. Wes lasciò la presa intorno alle mie spalle.
- Vuoi che venga con te? - si offrì.
- No. - risposi. - Ho bisogno di stare un po’ da sola. -
Lui annuì, ma continuò a rivolgermi uno sguardo preoccupato mentre mi accingevo a uscire dal negozio.
- Ti amo, Anna. - disse appena prima che varcassi la soglia.
Io non gli risposi “anche io ti amo”. Mi sarei fatta troppo schifo se l’avessi fatto.
Cominciai a camminare in silenzio, lungo le vie ammantate di nebbia, come se anche la città avesse voluto indossare il velo del lutto.
Il tempo rispecchiava esattamente il modo in cui mi sentivo. Vagavo confusa, senza curarmi di dove stessi andando, guardando i pezzi di marciapiede che si svelavano dopo ogni mio passo e subito venivano inghiottiti dalla caligine.
Portai una mano a coprirmi la bocca.
John era morto.
Erano passati anni dall’ultima volta che ci eravamo parlati, quando ci eravamo incontrati davanti agli studi di Abbey Road, e tuttavia c’era una parte di me che credeva che non se ne sarebbe mai andato del tutto dalla mia vita. Era quella parte che adesso sanguinava e agonizzava, relegata in un angolo della mia mente, la quale cercava in tutti modi di velocizzarle il trapasso, così che tacesse.
Perché ora John se n’era andato, era partito per un viaggio dal quale non sarebbe più tornato.
Senza nemmeno accorgermene, mi ritrovai tra gli alberi familiari di Hyde Park. Percorsi i viali a testa bassa, stropicciando gli occhi che bruciavano senza trovare sollievo. Non mi accorsi che c’era qualcun altro che camminava nel parco, altrettanto velocemente, altrettanto a testa bassa, finché non ci urtammo a vicenda.
- Mi scusi, signore, non l’avevo vista...- farfugliai, ma mi interruppi quando alzai lo sguardo.
Di fronte a me c’era un volto pallido e tirato; i tratti erano incavati e segnati, gli occhi arrossati e lividi, come se non avessero trovato pace per molto tempo.
E nonostante questo, li riconobbi.
- Paul?- sussurrai, forse temendo che se avessi parlato con un tono troppo alto, lui si sarebbe spaventato e sarebbe fuggito.
L’uomo ebbe un moto di sorpresa quando a sua volta mi identificò.
- Anna... - si limitò a mormorare in risposta.
Ci guardammo negli occhi per una manciata di minuti, i suoi, sbiaditi, nei miei, altrettanto stravolti.
E poi, finalmente, giunsero le lacrime. Cominciarono a scorrere con la stessa violenza di un fiume in piena che rompe la diga che lo sbarra, scesero lungo le guance e mi finirono nella bocca, che si riempì del loro sapore di sale.
Anche Paul era in lacrime; ci abbracciammo, e io nascosi il volto contro il suo collo, singhiozzando.
Il mondo intero sarebbe stato in lutto, quello era certo. Ma tutti avrebbero pianto Lennon, e avrebbero sentito la mancanza del suo carisma, della sua musica e dei suoi ideali.
E poi c’eravamo Paul ed io, abbracciati al centro di Hyde Park,lui che piangeva il suo migliore amico, ed io l’uomo che avevo amato più di ogni altro.
Piangevamo John, il nostro John, mentre cominciavamo a capire che quello non era uno dei suoi soliti scherzi.
No, invece lo era davvero, uno scherzo, ed era quello che gli era riuscito meglio.
A quell’idea un malinconico sorriso mi incurvò gli angoli della bocca, ed ebbi l’impressione che anche Paul avesse pensato la stessa cosa.
Socchiusi gli occhi; io e Paul non eravamo più nel parco.
Intorno a noi erano comparse molte persone, persone che conoscevo.
C’erano Pete Shotton, Rod Davis e tutti i membri dei vecchi Quarrymen, c’era Pete Best e c’era Cyn; Astrid e Stu si tenevano per mano, mentre Klaus mi salutava con la mano accanto a Ringo e a George.
Mi sciolsi dall’abbraccio di Paul, ma continuai a tenerlo per mano, chiedendomi se anche lui condividesse quella visione, o se essa fosse un delirio solamente mio.
Non feci in tempo a darmi una risposta, perché guardando in avanti lo vidi, con la giacca di pelle e i capelli tirati su come quando eravamo in Germania.

John era lì, proprio di fronte a me.
E sorrideva.
He’s a real nowhere man,
sitting in his nowhere land,
making all his nowhere plans for nobody.
(The Beatles, Nowhere Man.)


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Eccoci qui, dunque, siamo arrivati alla fine.
Sembra impossibile, davvero, non riesco a capacitarmene.
E’ passato ben più di un anno da quando ho pensato “ma sì, dai, perché non fare una storia sui Beatles?”, è stato un processo lungo, e spesso faticoso, perché tra impegni scolastici, computer poco collaborativi e grane familiari ci sono state delle volte in cui credevo di non riuscire ad arrivare al termine, di lasciare la storia a metà come tante altre che ho cominciato a scrivere.
E invece ce l’ho fatta, anzi, ce l’abbiamo fatta, perché è stato soprattutto grazie al vostro sostegno e ai vostri incoraggiamenti che sono riuscita a passare i momenti di blocco creativo.


Weasleywalrus93: se vuoi ti mando per messaggio il mio indirizzo, così puoi venire in tutta comodità e uccidermi; però, purtroppo, era ora di finirla, questa storia, altrimenti si sarebbe protratta troppo a lungo, e sarebbe peggiorata. Certo, avrei potuto farla finire bene, ma boh, sentivo che era così che doveva finire. (Non mi odi, vero? Ti preeego, dimmi di no.)

Cagiu_Dida: come al solito non posso fare che ringraziarti! Il fatto che dopo tutti questi capitoli continui a pensare che non sia noiosa è uno dei motivi che mi ha spinto a scriverla. Vorrei dirti di più, ma ormai avrai capito che sono una frana con le risposte, quindi... scusa!

JennyWren: figurati, io adoro il nonsense (praticamente il mio cervello è il manifesto del nonsense), e la tua recensione mi ha fatto davvero piacere. Scrivendo lo scorso capitolo avevo il timore che fosse un po’ troppo fluff (ma in realtà era tutto per prepararvi alla botta di questo - non è vero, ma fa figo sembrare diabolici, di questi tempi-) e sono davvero, davvero felice che ti sia piaciuto.


Ringrazio StreetsOfLove, BohemianScarmouche, Melpomene Black, Jane across the universe, CheccaWeasley, Cherry Blues, Axe Vikernes, otrop, binsane, BibiGreenEyes, EggWomen, weasleywalrus93, Nice_, Quella che ama i Beatles, parabatears, Meli123T, SlowDownLiz, saradepp, _mclennon_, Cagiu_Dida, JennyWren, Judee per le recensioni che mi hanno lasciato, che hanno riempito di gioia e soddisfazione anche le giornate più depresse.
Un ringraziamento particolare a Youcanbemyhero, che è stata la mia consulente durante tutto il percorso, dall’ideazione della prima parola all’ultimo punto di questo capitolo.
Infine, un grosso, gigantesco grazie a tutti i lettori, che hanno seguito la storia per intero, o anche solo per una parte: grazie, grazie, grazie!

Ora non mi resta che salutarvi, per l'ultima volta nello spazio autrice di questa storia, e darvi appuntamento alla prossima! ;P

Peace n Love,
Meg.


PS. (Mi mancherete, ragazzi/e!!!!!!!!!!!)

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