Primari - Rosso, Blu, Giallo.

di Val_Ser
(/viewuser.php?uid=176750)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Rosso - Pantone 192 ***
Capitolo 2: *** Blu - Pantone 541 ***
Capitolo 3: *** Giallo - Pantone 121 ***



Capitolo 1
*** Rosso - Pantone 192 ***


 
"I colori sono azioni della luce, azioni e passioni. 
In questo senso possiamo attenderci da essi chiarimenti intorno alla luce.
Colori e luce stanno anzi in rapporto strettissimo, ma dobbiamo rappresentarci l'una e gli altri
come appartenenti all'intera natura:
poiché è proprio essa che, tramite loro, si svela per intero
in particolar modo al senso della vista."

Della teoria dei colori, Johann Wolfgang von Goethe.




Rosso
Pantone 192
 
                  Il vento si abbatteva sul paesaggio del Wisconsin, impietoso. Robin guardava oltre l’orizzonte, pensando ai boschi della Northern Highland State Forest, diverse miglia più a nord. Tra casa sua e quell’oceano di alberi purpurei c’erano strade, pick-up, cartonati di taglialegna a dimensioni gigantesche, e dalla grande finestra a giorno del suo studio non si poteva godere che di una vaga, stagnante imitazione fatta di betulle sparute che lo separavano dall’autostrada.
            Quella casa era appartenuta a sua nonna. Quando era morta, l’anno prima, i suoi genitori l’avevano ristrutturata completamente, mettendogli a disposizione duecento metri quadri di bianco, linoleum e soffitti segnati da travi di legno. L’odore di medicine e di cibo precotto ormai era sparito, ma con loro anche il vecchio profumo nelle boccette dai tappi sferici e l’aroma di cannella dei corridoi.
            Robin strinse la tazza tra le dita, seduto ad un centimetro dalla finestra. Aveva acceso il riscaldamento al massimo, rimanendo con una vecchia maglietta stinta e sporca, mentre fuori la pioggia cominciava a scendere.
            Fuori o dentro, non faceva differenza.
            Dentro Robin pioveva così spesso, e così forte, che non se ne accorgeva più da anni. L’odore di trementina ormai gli bruciava nei polmoni più della nicotina o di qualsiasi sostanza avesse mai provato, le dita erano graffiate dalla punta secca e dal tagliabalze, la pelle arrossata per i frequenti sfregamenti nel tentativo di togliere le macchie secche di olio; che piovesse o meno, che importava?
            Posò la tazza per terra. La tisana ai frutti di bosco, non sapeva perché l’avesse fatta. Perché l’aveva fatta?
            No, non si ricordava, però in quel momento non voleva altro calore in corpo. Era autunno, i gradi si abbassavano sempre più, ma era come se stesse bruciando. Più il calore veniva a mancare, più bruciava, come le stelle: tanto più freddo è il colore dell’astro, tanto è più forte la sua temperatura.
            Robin pensò ad Harriet, ai suoi capelli rossi, al capellino grigio e al giorno in cui l’aveva incontrata. Nella sua tasca, il telefono continuava a vibrare. Significava solo una cosa: lei. Stava tornando. Si passò una mano sugli occhi, sfregandoseli fino a farsi male.
            Un brivido gli percorse la schiena.
            Non ci sarebbe stato più bisogno di farsi male.
 
 
*
 
 

            Harriet studiava  architettura, sei anni prima. Mancavano pochi esami alla laurea. Era carina, durante la Welcome Week, nella sua felpa con una grande W rossa. Robin pensava che fosse un accostamento mortificante nei confronti dei suoi capelli: lunghissimi, rossi, quasi infiammati, dalle sfumature simili ai tramonti sui Grandi Laghi.
            Lui aveva già terminato la Scuola d’Arte, cercava in qualche modo di organizzare mostre ed eventi insieme ad un paio di amici. Erano loro, Clare ed Emil, ad averlo trascinato all’università, lontano dalle sue amate tele. Non aveva protestato: gli serviva un po’ di aria fresca. Emil avrebbe dovuto esporre delle fotografie insieme a Robin, e se lui non si era ancora preoccupato era tutto a posto, un giorno di vacanza poteva permetterselo.
            Clare era una matricola di Lettere e stava con Emil da tempo immemore. Robin aveva sempre pensato che il suo amico doveva essere pazzo ad uscire con una ragazza così giovane, ma ormai erano entrambi maggiorenni e, insomma, erano pur affari loro.
            C’era tanta, tantissima gente. Robin si divertiva a guardare i ragazzini freschi di diploma, saltellanti e pieni di vita: tirava ad indovinare se si sarebbero laureati, in cosa, chi si sarebbe sposato, chi no, chi avrebbe fatto successo, chi sarebbe stato il prossimo Presidente.
            Avevano passato la mattinata a girovagare tra gli stand delle varie facoltà, quando Harriet irruppe nella sua vita. Anzi, nella vita di Clare per prima.
            Harriet si piazzò davanti a lei, allungandole un volantino.
            «Università del Wisconsin, ottima scelta se vuoi diventare un architetto o lavorare nel settore del design.»
            Aveva una voce entusiasta, ma non squillante o fastidiosa come la maggior parte delle ragazze bionde in felpa e pantaloncini degli altri stand. Harriet però non era come la maggior parte delle ragazze. Non era neanche bionda, e non aveva nemmeno dei pantaloncini.
            Robin la squadrò in pochi secondi. Non guardò le sue forme o il suo sorriso, che era in ogni caso il più bell’insieme di labbra, denti e pelle che si potesse immaginare. Era quel cappellino grigio che gli fece aggrottare le sopracciglia. Perché nascondere quella cascata di fili dorati e vermigli? Era un colore talmente strabiliante che avrebbe voluto usarlo per dipingere la sua stanza, la sua casa, il mondo intero.
            «Oh, io non saprei mettere insieme quattro linee, figuriamoci fare l’architetto!» Clare rise, e Harriet con lei. Clare aveva la strana abilità di farsi amici semplicemente con una frase ironica e un trillo della voce.
            «Hai scelto già il tuo corso di studi?» chiese Harriet. Sembrava sinceramente interessata alla risposta.
            «Lettere» rispose Clare. «Antropologia e Sviluppo dei beni culturali come materie supplementari.»
            «Buona fortuna, allora!» Harriet sorrise, rivolgendosi poi verso Robin ed Emil: «E voi, ragazzi?»
            «Ti sembriamo forse dei bambinetti?» chiese Emil, beccandosi una gomitata da Clare, che odiava quando il suo ragazzo non metteva in pratica i suoi ideali di eterna gentilezza e simpatia indiscriminata.
            «Scuola d’Arte» rispose Robin.  «Usciti da poco.»
            Harriet si voltò verso di lui. I suoi occhi blu, blu di Prussia, blu reale, incontrarono gli occhi di Robin, neri, nero fumo, nero di Marte.
            «Carino!» Harriet si aprì in un sorriso ancora più raggiante. «Siete fortunati, eh? Io dovrei finire quest’anno e non vedo l’ora.»
            «Sì, be’, tanti auguri per i tuoi studi.» Emil la liquidò con un sorriso, trascinando via Clare. Robin rimase fermo per un secondo.
            «Ehi, se esponete qualcosa vi vengo a vedere» continuò Harriet, incurante del comportamento di Emil. «Mia madre lavora in un museo, se ne intende, diciamo. Piacerebbe anche a me imparare qualcosa dell’argomento: al di là di planimetrie e colonnati, non sono una cima in arte.»
            «Fra tre settimane, all’Overture Center, Madison.» Robin rispose senza riflettere.  Stava studiando la linea del suo naso, ed era così carino con quelle lentiggini leggere.
            Harriet arcuò le sopracciglia, schiudendo le labbra in un’espressione sorpresa. «Wow, non pensavo foste così avanti!» Si scostò una ciocca di capelli dal viso, infilandola sotto il cappello con un gesto rapido. «Allora ci vediamo lì. È stato un piacere!»
            Pochi metri più avanti, Emil e Clare, basiti, avevano assistito alla scena. Quando Robin li raggiunse, si beccò uno schiaffo sulla nuca.
            «Ma sei impazzito? L’Overture Center?» Emil era impallidito e inviperito al tempo stesso. «Bello, se volevi fare colpo su una ragazza le proponevi il body painting, non l’Overture Center. Non riusciamo ad esporre al centro commerciale, figurati in una galleria d’arte!»
            «Sei stato un po’ avventato» disse Clare, mordendosi un labbro. «Pensi davvero di farlo?»
            Robin alzò le spalle, continuando a camminare. «In qualche modo si farà.»
            La risposta fece imprecare Emil in un tono di voce non proprio smorzato, ma Robin non lo sentiva. Camminava tra la folla con gli occhi pieni, ricolmi, traboccanti di rosso, sapendo che in tre settimane avrebbe fatto tutto, sarebbe stato disposto ad uccidere, pur di riempirseli di nuovo di quel colore.
 
 
*
 
 
          Harriet era venuta.
          Harriet aveva visto i quadri di Robin.
          Harriet aveva baciato Robin.
          Robin e Harriet avevano fatto l’amore.
          Era successo troppo in fretta, in maniera troppo casuale, le ultime tre settimane erano state folli. Robin aveva falsificato una lettera di raccomandazione del rettore della Scuola d’Arte, si era presentato all’Overture Center ed era stato tutto facile, incredibilmente facile.

            Emil aveva cominciato a stampare le fotografie migliori, a correre da un fotografo all’altro per avere consigli su quanto saturare qui e quanto sgranare là.
            Robin aveva dipinto. Aveva usato, soprusato, abusato dei colori e dei pennelli: alla fine della prima settimana aveva realizzato quattro tele, buttato due barattoli vuoti di acqua ragia e tre pennelli. La seconda settimana ne aveva realizzate altre due. Avevano tutti soggetti diversi: figure umane, animali, paesaggi, copie reinterpretate di quadri celebri. Tutti erano accomunati da un particolare rosso. Robin aveva mescolato i colori furiosamente, sulla tavolozza e su se stesso: quando dimenticava di usare un supporto, spremeva il tubetto sui suoi jeans da pittura e mescolava le tinte lì, finché la trementina non trapassava il tessuto e gli bruciava la pelle. Non aveva pensato, non aveva riflettuto: ogni quadro gli era venuto automatico, quasi surreale.
            Robin non pensava mai quando dipingeva. Forse era proprio quel dettaglio a rendere ogni suo quadro un’opera irripetibile. Sei tele non erano abbastanza: aveva preso vecchi disegni e con acrilici e acquerelli aveva aggiunto rosso, rosso dovunque. Era persino riuscito a convincere Emil a trattare alcune foto con filtri rossastri. Sembrava che qualche pazzo si fosse svenato sopra le loro opere.
            «Mi piace quel quadro.» Harriet fumava con leggerezza, come una vera donna di classe, apparendo più grande della sua età. La luce della lampada sul comodino le regalava un’ombra morbida che scendeva sul viso, le spalle curve, i seni nascosti dalle gambe raccolte vicino al petto.
            «Mh.» Robin, disteso, la guardava come se la stesse guardando per la prima volta. Forse era davvero la prima volta, a pensarci bene. Seguì il suo sguardo fino al quadro appeso dal lato opposto al letto. Era una copia della Venere allo specchio. «L’ha fatto una mia ex. Primo anno, grande talento. Grandissimo, tanto che dopo la laurea è completamente sparita. Credo sia in Europa, adesso.»
            Harriet non si scompose minimamente al sentire nominare un’altra ragazza. Anzi, sorrise. Teneramente o distrattamente, però sorrise. «Ti deve piacere molto il rosso.»
            «Non lo so» ammise Robin. «È un colore come un altro. Sto imparando a conoscerlo.»
            «Ma i quadri di oggi erano tutti rossi.» Harriet gli porse la sigaretta, Robin la gettò in un bicchiere con un fondo d’acqua.
            «Infatti: sto imparando a conoscerlo.» Robin guardava le coperte, osservando sovrappensiero i tenui chiaroscuri delle pieghe. «Vorrei conoscere te.»
            Harriet si voltò come illuminata, scoppiando in una risata sommessa. Qualche stanza più in là, i genitori di Robin dormivano senza sapere nulla della sua presenza. «Mi hai portata a letto, credi di non conoscermi?»
            «No, ovviamente.»
            «Si può capire molto di una persona da come fa sesso.»
            «Abbiamo fatto sesso?»
            «Non lo so, dimmelo tu.»
            Harriet si chinò su Robin, la cascata di capelli ricadde sul suo petto. Robin ne afferrò una ciocca, rigirandosela tra le dita, un’onda di Mar Rosso scappata dalle acque.
            Si guardarono a lungo, si sorrisero, si diedero un bacio a fior di labbra, fin troppo casto in confronto alla maniera forte, impetuosa, quasi selvaggia con cui si erano uniti un’ora prima.
            «Quindi io sono rosso» decretò Harriet. Si mise a sedere a gambe incrociate, svelando senza misteri il fiore della sua giovinezza.
            «Sei infinitamente rosso.» Robin sorrise, accarezzando con i polpastrelli la linea del suo polpaccio. Si issò su un gomito, sporgendosi verso di lei. «Rosso, rosso, rosso.»
            Harriet si avvicinò al suo viso. Odorava di menta e nicotina, di shampoo e sudore. «Che tipo di rosso?»
            Robin si ritrasse appena. Sentiva il suo sesso indurirsi contro il cotone delle lenzuola. «Rosso…» disse con voce tremante. Le dita salirono dalla gamba al fianco, alla pancia, al seno, alla clavicola, ai capelli. «Rosso borgogna. Rosso amaranto.»
            Harriet gli si avvicinò. Gli baciò il petto, il collo. Robin ansimò.
            «Rosso cardinale, rosso veneziano, rosso di Persia.»
            «Mh.»
            «Rosso… ah!»
            Harriet tolse di scattò le lenzuola, scendendo giù, sulla pancia, ancora più sotto.
            «Rosso corallo… mhh… scarlatto…»
            Il respiro si fece più affannoso. Il rosso vorticava nelle vene, sotto forma di sangue, nel cervello, nelle venature del suo pene. Il rosso era ovunque, sulle labbra di Harriet, sulle proprie labbra.
            «Cremisi.»
            Sospiro.
            «Ruggine.»
            Ancora un sospiro. Una pausa. Gli occhi chiusi per godere appieno di quel piacere che le labbra dolci di Harriet sapevano dargli come mai nessun’altra prima d’ora.
            «Cadmio-ah! Oh, Dio!»
            Strinse le labbra, la lingua attaccata al palato, la mascella serrata. Prima di venire, riuscì a mormorare qualcosa. Harriet lo sentì bene, gli occhi chiusi e i sensi amplificati: «Rosso porpora.»
 
 
*
 
 
          Robin si guardò le mani. Tremavano. Tremavano forte. Stava cominciando. Era una questione di minuti, presto sarebbe finita.

            Non avrebbe staccato gli occhi dalla finestra, non fintanto che poteva ricordare. Era un modo come un altro per ignorare i cavalletti rovesciati, le macchie di vernice che si allargavano sul tappeto etnico che a Harriet era piaciuto tanto.              E allora compriamolo, questo tappeto, che male ci sarà, starà qui spesso, facciamola diventare casa nostra.
            Gli dispiaceva aver combinato tutto quel casino. Era una morsa che stringeva il cuore, scuoteva le spalle e inumidiva gli occhi. Voleva chiederle scusa un’ultima volta, e piangere tutte le sue lacrime e prometterle una vita di amore e meraviglie, una vita che non le avrebbe mai dato se non in quel modo.
            Pessima modalità per una promessa così felice.
            Robin doveva scomparire per lasciare ad Harriet tutta la serenità e la gioia del mondo. Una gioia che nasceva da lei, viveva in lei e sarebbe, probabilmente, morta con lei.
            La pioggia aumentava e dilaniava le fronde degli alberi. Gli uccelli volavano bassi, saltando temerari da un ramo all’altro.
            Sì, Harriet era la gioia del mondo.
 
 
*
 
 

            Robin si chiedeva se Harriet fosse poco dotata, poco intelligente, senza senso di competizione o semplicemente se fosse solo sfortunata: sembrava non ce la facesse e basta. Non aveva detto nulla ai suoi genitori, così si era ritrovata a vivere da Robin, con altri genitori, altri fratelli.
            Christie, la sorella di Robin, la trovava dolce, bella, simpatica. Tutte qualità che Harriet dimostrava sinceramente e costantemente di avere. I genitori  di Robin non ne erano tanto convinti. Erano ormai sei mesi che viveva con loro, senza aprire il portafoglio neanche una volta. Era una persona cortese ed educata, troppo per dirle di andarsene, ma sembrava che ogni suo curriculum o ogni suo progetto non funzionasse mai, non andasse bene, mancasse sempre di qualcosa di fondamentale.
            Robin vendeva. Non molto, ma vendeva. Usciva di casa e ritornava in orari totalmente casuali –le tre di notte, le cinque di pomeriggio, le dieci di sera– e ogni tanto portava Harriet con sé. Erano, in qualche modo, felici. Facevano spesso l’amore, imparavano a conoscersi, litigavano e mangiavano i dolci di Christie la domenica sera, sul divano.
            Di tanto in tanto uscivano con Clare ed Emil, ma le visite e le telefonate si fecero sempre più scarse.
Passarono due anni.

            La nonna di Robin si ammalò di cancro, la casa improvvisamente si svuotò. Christie aveva dato fondo agli ultimi risparmi frequentando l’università in un altro Stato, ma aveva trovato un lavoretto lì e viveva di quello che riusciva a racimolare.
            Robin e Harriet si trovarono soli.
            Senza adulti a cui dare spiegazioni, si trovavano sempre più distanti. Harriet stava a casa, di fronte alla televisione, sfogliava libri di architettura svogliatamente, di tanto in tanto provava qualche colloquio. Robin non avrebbe mai voluto che rinunciasse ai suoi sogni, ma quando tornava a casa la sera, dopo aver dipinto tutto il giorno in un garage immerso nell’odore soffocante dei prodotti chimici, avrebbe voluto trovarla sveglia, per amarla, farci l’amore, oberarsi di tutti i suoi problemi e risolverli, quantomeno provarci.
            Harriet era clinicamente depressa. Più rifiuti otteneva, meno lavorava. Robin l’aveva trascinata a fatica da un terapeuta, avevano preso la prescrizione delle pillole insieme, e insieme erano andate ad acquistarle in farmacia. Harriet non le prese mai.
            Il rosso di Robin era morto, insieme al rosso di Harriet. Era così bella e stupenda e promettente ed esplosiva qualche anno prima e in poco tempo era stata recisa, era appassita.
            Robin cominciò a chiedersi se non fosse stata colpa sua. Troppo lavoro, troppa distrazione. Avrebbe dovuto dedicarle tutta la propria anima, dedicare ogni momento della propria esistenza claudicante al rinvigorimento della sua, al limite della vita degna di essere vissuta.
            Passarono ancora i mesi.
            Ancora un anno.
            La fortuna girò.
            Harriet ce la fece. Era una compagnia minore, era un progetto di gruppo, era un lavoro finalmente. Quando ricevette la lettera d’assunzione, Harriet la lasciò cadere sul pavimento, crollando insieme a lei, gli occhi improvvisamente animati da un’elettricità nuova. Robin guardò la lettera. Si inginocchiò accanto a lei.
            Nell’ingresso di casa, con addosso i vestiti e il viso abbigliato di lacrime di gioia e di sollievo, fecero l’amore in maniera sconsiderata. Robin non ricordava di averla mai sentita così. Era bastata la combinazione di ventisei lettere a darle quell’infusione di vitalità, che neanche il più sentito dei suoi ‘ti amo’ era riuscito ad ottenere.
            A Robin non importava. Era Harriet che voleva. La bellezza bruciante di Harriet. L’avrebbe avuta, ancora, a lungo.             Ma nella sua testa si fece strada un pensiero: non sarebbe mai riuscito a salvare Harriet da solo. Aveva avuto bisogno di qualcosa che fosse diverso da lui, ed era comprensibile. Harriet non poteva vivere di solo amore, come lui non viveva di sola arte.
            Ma, alla fine, Robin creava le tele, vendeva le tele, abbandonava le tele. Harriet, in qualche modo, era sua. Non la creava, non la vendeva, meno che mai l’avrebbe abbandonata: Harriet era l’unica cosa che fosse mai stata realmente, sentitamente sua.
            Era lo stesso per lei?
 
 
*
 
 

            «Robin!»
            Harriet bussava alla porta e suonava il campanello contemporaneamente. Robin sapeva che si era tagliata i capelli da poco. L’aveva presa male: si era chiuso in bagno e aveva pianto. Lei non lo sapeva, e non l’avrebbe mai saputo.
 
            «Rob, ho dimenticato le chiavi, aprimi!»
            Robin sentiva il suo corpo fuso con il pavimento. Fuori pioveva ancora. Harriet almeno era sotto il portico. Forse non si stava bagnando troppo. Ma perché l’aveva chiamata?  No, non era affatto giusto. Non doveva vederlo in quello stato.                    Non doveva vedere il tappeto. Il tappeto. Sarebbe stata infinitamente triste, lo poteva immaginare benissimo.
            «Robin, ho visto le tue chiamate, dài! Non farmi preoccupare!»
            Robin inspirò a lungo, contrasse il diaframma. «La porta sul retro!»
            La voce gli uscì troppo forte, vibrante, con una nota strana. Il suo riflesso alla finestra sfumava la forma del suo viso, le occhiaie pesanti, la sua magrezza estrema. Avrebbe voluto una sigaretta, forse.
            Sentì la porta secondaria aprirsi.
            Trattenne il respiro.
 
 
*
 
 

            «Cosa significa?»
            Harriet posò il mestolo, spense il fornello. Guardava dritta davanti a sé. La televisione mandava in onda le repliche di qualche assurdo talk show, riempiendo il silenzio che si era venuto a creare.
            «Guardami, Hattie.»
            «Non chiamarmi Hattie.»
            «Guardami.»
            Harriet si voltò. Robin stava seduto, col capo chino, una bustina di plastica contenente della polvere marroncina davanti a se.
            «Sono due settimane che sto cercando di evitare. Però è dura. Ho bisogno di te.»
            Harriet era accigliata. Aprì un cassetto, prese un fiammifero, una sigaretta, l’accese, si sedette. La stanza si colmò presto dell’odore di fumo. I suoi capelli sapevano sempre più di catrame e nicotina, ma a Robin non era mai dispiaciuto.
            «E quando hai iniziato di chi avevi bisogno?»
            «Di te, Harriet.»
            «E io dov’ero?»
            «Qui, Harriet.»
            «Allora perché?»
            Robin alzò lo sguardo. Si vergognava, come vai in vita sua. Si vergognava di se stesso per tutto, per gli anni precedenti, per aver intristito Harriet. Si chiedeva come avesse potuto, ma non aveva una risposta. Lei era tutto ciò che aveva e tutto ciò che gli sfuggiva. La dipendenza lo stava attanagliando da mesi ed era ora di smetterla. Per lei. Era durata troppo: troppo poco per lui, troppo a lungo per nasconderlo ad Harriet.
            «Ho finito i soldi delle ultime tele. Forse col tuo stipendio potremmo pagare l’affitto per un mese o due.»
            Harriet battè un pugno sul tavolo, furiosa. «Che cazzo dici, Robin? Mi prendi in giro? Sei sempre chiuso nel tuo garage di merda a fare cosa? Da quanto non dipingi, Robin?»
            Lui non disse nulla. La guardò. Pianse, forse. Non era sicuro di quello che stava succedendo dentro di lui. Aveva freddo.
            Harriet capì.
            «I tuoi genitori?»
            «No. Sono troppo impegnati con la nonna.»
            «Christie.»
            «Mai. Non lo deve sapere.»
            «Robin» sospirò Harriet. Si portò le mani ai capelli, scuotendoli, stringendoseli. La cenere della sigaretta cadde sul tavolo bianco immacolato. «Io… io non so cosa fare.»
            «Pensavo…» Robin si fermò. Si passò una mano sulla barba incolta. Non l’aveva mai portata, adesso era già tanto se si guardava allo specchio la mattina.
            «Pensavi che avrei risolto tutto? Che avessi una bacchetta magica? Abbiamo mai avuto qualcosa di garantito, noi due, Robin?»
            Robin poggiò la testa sulle braccia incrociate sul tavolo. «No.»
            L’orologio ticchettava i secondi. Robin ne contò tredici prima di rialzare il capo: «Ho rivisto Emil, qualche mese fa.      Lui e Clare si sono lasciati. Mi ha fatto provare e… sembrava la cosa giusta da fare.»
            «Emil» ripetè Harriet.
            «Già.»
            Altri tredici secondi.
            «Io ti amo da impazzire, Harriet» disse di colpo Robin. «Ti amo follemente. Ti amo come ho amato il rosso, come ti ho amato a ventitrè anni quando ne avevo venticinque. Ti ho amato e ti amo adesso. Proprio perché ti amo ti chiedo, ti supplico di aiutarmi.»
            Harriet sorrise appena. Ritornò subito seria, scosse la testa. «Non puoi dormire qui, stasera. Ho bisogno di schiarirmi le idee.»
            «No…» Robin si alzò, corse accanto a lei e si buttò in ginocchio ai suoi piedi. «Harriet. No. Non farmi andare via.»
Harriet si ritrasse, gentilmente. Si alzò, sfregandosi la fronte sovrappensiero.

            «Ti prego, Harriet…»
            «Dormo fuori io. Ho una collega che vive qui vicino. Domani mattina vedremo il da farsi.»
            La mattina dopo non successe niente. Passò una settimana prima che Harriet tornasse a casa.
            Aveva due condizioni molto semplici: che lui entrasse in un centro di recupero e che ricominciasse a lavorare. Qualsiasi cosa facesse, disegni, incisioni, dipinti, sculture, fotografie, qualsiasi cosa l’avrebbe data ad Harriet. Forse tramite sua madre sarebbe riuscita a contattare qualcuno, magari avrebbero fatto più soldi di quanto pensassero.
            Robin fece entrambe le cose. La sua dipendenza non l’aveva mangiato dall’interno come le altre persone alla riabilitazione, ed aveva ancora qualche idea. I suoi dipinti erano cambiati. Non c’era rosso. Non c’era felicità. Non c’era neanche tristezza.
            Erano corpi vuoti, paesaggi vuoti, la morte di ogni evoluzione artistica. Sarebbe dovuto essere nel pieno della sua produzione. Aveva trent’anni e lo sguardo di un uomo anziano sul punto di morire. Aveva trent’anni di scelleratezza e amore senza confini: se da una parte alcune scelte lo avevano straziato e dilaniato, lo avevano umiliato e colpevolizzato, dall’altra l’amore per Harriet era totalitario, non ammetteva ulteriori errori.
            Voleva sposarla, voleva amarla. Voleva condividere ogni sfumatura della vita con lei.
            Guardava i propri quadri in silenzio.
            Quello che voleva dividere con Harriet, tuttavia, sembrava essersi spento.
            Il rosso era sbiadito in arancione, poi in giallo, poi in bianco. Era diventato trasparente. Davanti ad una tela bianca, ormai, vedeva troppo e vedeva poco. Non c’era nulla da narrare perché tutto era stato già narrato. Si era esaurito in fretta? C’erano ancora tonalità da scoprire, interpretare? Una volta gli era piaciuto giocare col colore. Aveva amato le forme e le dimensioni, la prospettiva, tutto ciò che rendeva un quadro tale.
            Ora amava solo Harriet: allora come mai non aveva più niente da dipingere?
 
 
*
 
 

            «Robin. Robin. Cristo, ROBIN!»
            Harriet lanciò via la borsa, non si tolse neanche il cappotto. Il corpo di Robin era riverso per terra, ancora caldo. La stanza era torrida. Harriet si scivolò sulla vernice versata sul tappeto. Non lo notò nemmeno. Non notò il caos dilagante, non notò la tisana rovesciata sul pavimento. Le labbra di Robin erano pallide, tutto il corpo era diafano, quasi trasparente.             Lo sollevò come una Madonna durante una Deposizione, lo strinse a sè.
          Il suo corpo era scosso da tremiti e singulti. Doveva immaginarlo. Avrebbe
dovuto. Era Robin, come aveva fatto a non capirlo? Era Robin. Era. Robin. Robin.
       «Robin, amore mio, devi svegliarti, devi svegliarti, hai capito?»
       Aveva la tragica sensazione di parlare a se stessa. Prese il telefono dalla tasca di Robin e compose con dita tremanti il numero d’emergenza. Diede le indicazioni per raggiungere la casa. Temeva un’overdose. In cuor suo, lo sapeva già.
       Gettò via il telefono, strinse a se il corpo dell’uomo che l’aveva resa una donna. La sua verginità era stata presa da qualcun altro. Aveva amato prima di lui, ma mai quanto lui. Robin era rosso, era silenzio, era frastuono, era ‘vattene!’ ed era ‘resta con me, sei l’unico che può rimanere’.
       Robin.
       Robin.
       «Dobbiamo stare insieme, amore mio» sussurrava mentre gli baciava i capelli. «Stiamo ricominciando, sono passati sei anni, ne possono passare altri sessanta. Insieme, amore mio, insieme.»
       Le lacrime le appannavano gli occhi. A tentoni cercò la sua mano. Era fredda, immobile. La strinse, la riscaldò nel suo palmo, la sfregò fino a farsi male. «Robin, Robin, Robin.»
       «Scusa…»
       Harriet sobbalzò. Prese tra le mani il volto di Robin. Gli occhi erano chiusi ma le labbra erano appena dischiuse.
       «Scusa per il tappeto…»
       Harriet scoppiò in un pianto disperato. «No…» gemette, mentre premeva le labbra sulle sue. Il rumore di una sirena si avvicinava sempre di più. Harriet si distese accanto a Robin. L’odore di trementina le fece bruciare il naso. Chiuse gli occhi, si strinse al corpo immobile.
       Rossa. La luce della sirena era rossa.
 
 
*
 
 
            Harriet,
amore mio. Spero di essere morto, quando leggerai questa lettera. Avrò almeno raggiunto il mio scopo.
            Non piangere per me. Sono stato la causa di troppe lacrime in questi sei, splendidi anni. Ti ho amata come Dio ha amato il mondo al momento della creazione, se un Dio esiste.
            Vorrei non esistesse, ad essere sincero: vivere ancora, come spirito, come anima, è l’ultimo dei miei desideri. Perché quest’anima è marcia, Harriet. Sei stata tu a tenerla in vita. Tu me l’hai donata da principio. Ma se un Dio esiste, allora vivrei mille purgatori per rivederti alla fine. Patirei l’inferno per riunirmi a te.
            Forse è questo il mio inferno, il mio atto finale.
            Scusami la melodrammaticità, le pillole iniziano a fare effetto. Sonniferi e gin, se te lo stessi chiedendo o se ancora i medici non ti hanno detto niente. Sono un codardo anche nella morte: avrei potuto spararmi, gettarmi da un ponte, morire soffrendo. Forse dentro di me sono convinto di aver sofferto abbastanza.
            Sono stato un codardo tutta la mia vita. Non mi sono mai impegnato abbastanza nell’arte, tranne nel momento in cui ho deciso che ti avrei rivista, in qualche modo; non ho saputo amarti come avrei voluto mentre non riuscivi nei tuoi obiettivi. Ho preferito una dose ad un giorno con te, e sono state molte le dosi e molti i giorni persi. Me ne pento fino nel profondo dell’anima, se ne ho una.
            Sei la donna della mia vita, Harriet, e lo sarai sempre. Io non sono l’uomo per te. Ho trentun anni e non ho saputo fare altro che amarti tantissimo, dimostrandoti solo la metà di quello che avresti meritato. Non piangere per me. So che lo farai, ma dopo un po’ –ti prego– chiudi gli occhi quando pensi a me. Ignorami. O amami ancora. Ma vivi l’amore che non ti ho saputo dare. Da qualche parte c’è un uomo pronto ad innamorarsi del tuo rosso. Rosso corallo, rosso cremisi, rosso porpora.
            Fatti ricrescere i capelli per me: è l’unica cosa che ti chiedo.
            Credevo che il tuo rosso fosse finito. In realtà ero io a non vederlo più. Che stupido sono stato. So che c’è del rosso sotto i tuoi occhi blu, sotto il tuo cappello grigio, sotto la vecchia felpa dell’università che usi per dormire. C’è del rosso sulle tue labbra, c’è la perfezione del tuo amore e del tuo desiderio. Vorrei esserne ancora accecato, come sei anni fa.
            Sei perfetta, amore mio. Ti ho amata in ogni tua espressione, in ogni centimetro della tua pelle. Ti amo, Harriet.
                                                          Disperatamente tuo,
                                                                                   Robin








N/A:  Dopo tanti anni di 'no no no io su efp non ci pubblico più, non scrivo più!' sono tornata. Spero che nessuno si ricordi del mio vecchio account (tale DarkPandora, credo/temo) e della mia fallimentare prima storia. Mi sono decisa a scrivere di nuovo principalmente grazie a due mie amiche, babyjenks e Kaite. In queste settimane sono lentamente rientrata nel mondo delle fic originali e avevo bisogno di uno svago dal mio 'progetto principale'.
Volevo scrivere già da tempo una storia sui colori. Sia 'Primari' che 'Complementari' sono a buon punto, mancano solo Giallo -che è a metà- e Arancione -ancora tutto da definire. Rosso è uscito fuori spontaneamente. Raramente delle storie mi sono suonate naturali e 'vere' come in questo caso. L'idea di scrivere 'Primari' e 'Complementari', poi, è stata consequenziale.
Essendo entrambe raccolte di one-shot, le storie singole saranno totalmente slegate tra loro tranne che per il logico filo conduttore. Non escludo però approfondimenti, spin off o cose simili. 
Via la maschera dell'educazione e risultiamo più simpatiche: apprezzo tantissimo le recensioni (nonostante io sia una marrana millantatrice ed infingarda che promette recensioni a destra e manca e poi si ritrova a fangirlare in silenzio, mea culpa, flagellatemi) e qualsiasi tipo di critiche, commenti, quello che vi capita, non vi verrò a tirare le uova sotto casa in caso di feedback negativo... credo. *w* Qui trovate il quadro citato, Vergine allo specchio di Tiziano!
Entrambe le raccolte dovrebbero essere tutte pubblicate per fine Novembre, Accademia permettendo. Grazie mille per essere arrivati fino a questo punto, il mio cuore si scioglie già come una noce di burro sulla piastra!

Alla prossima <3

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Blu - Pantone 541 ***


Blu
      Pantone 541      




            Lèo e Hugo erano soli nella cella. Non avevano una gran voglia di parlarsi. Lèo era seduto sulla cuccetta in alto a sinistra, silenzioso nel gettare sguardi obliqui a Hugo, disteso in quella in basso a sinistra.
            «A che ora verrà quella lì?» chiese Lèo.
            «Non lo so.»
            «Ma verrà?»
            «Non lo so.»
            «Come hai detto che si chiama? Ana? Anita?»
            Hugo guardò il materasso del letto sopra di lui. «Anaïs» rispose con un sospiro. Si concentrò sul ritmico grattare della matita di Lèo contro il temperino. Non capiva perché dovesse disegnare sempre. Sapeva che dall’alto del suo letto lanciava i trucioli per terra. Lo detestava. Sporcava. Quel posto era già abbastanza lercio senza il suo contributo, poi lui ci avrebbe messo sopra i piedi, e grazie tante Lèo, non voglio che sia chissà quale pezzo di gran casa, ma cazzo, un po’ di rispetto, ci vivo anche io qua.
            Lèo si mise a fischiettare tranquillamente. Hugo si voltò verso di lui.
            «Che canti?»
            «Come, non la riconosci?»
            «Ti ho chiesto che canti.»
            «La Marsigliese. Sai, l’inno di questo paese.»
            «Ma sentiti…»
            «Che?»
            «Sei in prigione e canti la Marsigliese. Sei scemo o cosa?»
            «Fatti gli affari tuoi, Hugo.»
            «E tu smettila di cantare.»
            Hugo si rigirò nel letto. Gli diede le spalle per un minuto, poi si girò di nuovo. Non riusciva a stare troppo tempo senza parlargli. E poi, in prigione ci erano finiti insieme. Lèo non era suo amico, ma erano legati. Dopo tutto quel tempo passato insieme, fuori e dentro, era inutile prendersela per quelle stronzate infantili.
            Lèo era più giovane di lui. Aveva quarant’anni. Hugo ne aveva cinquantatré.  Era da un po’ che sentiva di doverlo incontrare, quando un giorno era successo e basta. Si era presentato a casa sua. Erano diventati amici, per così dire.
            Hugo sapeva che non sarebbero mai stati amici. Come essere amici di un tipo come lui. E poi, forse, se non l’avesse mai incontrato, sarebbe stato fuori in quel momento. Hugo non voleva uscire. O sì, non ne era sicuro. Alla fine, mangiava, dormiva, pisciava, e fare l’amore era qualcosa di cui sentiva la mancanza.
            Lèo era stato con lui, non si era più tolto dai piedi. Hugo l’aveva accolto da subito, forse troppo in fretta. Però c’erano giorni in cui stavano bene insieme. Altri giorni Lèo spariva. Hugo non sentiva la sua mancanza. Anaïs, lei si che gli mancava. Era tanto dolce, era tanto buona. Anaïs entrava in lui dove Lèo non sarebbe mai arrivato, grazie a Dio.
            «Credi in Dio, Lèo?»
            «Boh. Che m’importa. Ma sì, dài, credo di sì.»
            «Sì o no?»
            «Sì. E tu?»
            «Sì. Anaïs no, però.»
            «Non mi piace, quella.»
            «Sta’ un po’ zitto.»
            «Non mi piace e basta.»
            «Non deve piacere a te.»
            «E allora che ne parliamo a fare?»
            Hugo si mise a sedere. Lèo posò il suo blocco da schizzi e la sua matita. Lèo disegnava molto bene. Aveva permesso a Hugo di vedere i suoi disegni di tanto in tanto. I tratti erano duri e un po’ infantili, però c’era qualcosa sotto le sue forme che attiravano l’attenzione di chiunque le vedesse.
            «Che hai disegnato?»
            «Non t’interessa.»
            Hugo si mise in piedi e rubò dalle mani di Lèo il blocco. Erano solo due occhi e una bocca, calcati profondamente sulla carta. Hugo sorrise appena.
            «Sembra Anaïs.»
            «Tutto ti ricorda Anaïs, Hugo.»
            «No, sembra proprio lei.»
            «Che cazzo, potevo fare meglio allora.»
            «Però non è lei.»
            «Deciditi, una buona volta.»
            «Anaïs ha un nastro per capelli. È blu.»
            «Cosa vuoi che mi importi?»
            «Importa a te tanto quanto importa a me.»
            «Invece no.»
            «Invece sì.»
            «Sei un vero stronzo, Hugo.»
            Hugo lanciò il blocco sul letto di Lèo e tornò a distendersi sul letto. Il silenzio era assoluto. Erano solo le tre del pomeriggio, alle quattro si sarebbe aperto l’orario di visita. Forse suo fratello sarebbe passato. Però voleva vedere Anaïs.
            Era bella, Anaïs. Quando c’era lei, improvvisamente il mondo gli appariva sotto un’altra luce. Era arrivata dopo la sentenza del giudice. Era comparsa anche lei, come Lèo. Solo che lei gli tendeva di tanto in tanto la mano attraverso le sbarre, gli suggeriva qualcosa da fare. Non era sicuro di ricordarlo alla perfezione, ma era abbastanza sicuro di averla scopata su quel letto dove ora si riposava.
            Anaïs non assomigliava affatto alla sua ex moglie. Ex perché l’aveva uccisa. Almeno, così dicevano i giudici, gli avvocati, tutti. Se solo fossero stati presenti, avrebbero capito che lui voleva difenderla. L’aveva trovata a litigare con Xavier. Lui e Xavier si conoscevano da tempo ma non erano mai andati davvero d’accordo. Xavier voleva violentare sua moglie. Era entrato in casa sua, forse, lui li aveva trovati lì. Marion piangeva, sanguinava, urlava. La porta di casa era spalancata. Urlava a Hugo di farlo smettere. Hugo si era ritrovato in prigione, coperto di contusioni e graffi. Di Xavier, nemmeno l’ombra.
            Anaïs probabilmente era abbastanza forte da sopraffare un uomo senza problemi. Era formosa e alta, aveva le mani grandi, forse avrebbe potuto addirittura strangolare un uomo. E portava un nastro per capelli blu.
            Di tanto in tanto, con Anaïs si presentava un bambino. Lucas, dieci anni tondi. Era silenzioso e tranquillo, non parlava molto con la gente. A Hugo non piaceva. Lui preferiva i bambini festosi, irrequieti, pronti a giocare in ogni momento. Bambini totalmente ignari di dover crescere, di dover diventare adulti.
            Hugo avrebbe voluto avere quell’innocenza. Talvolta credeva di averla ancora. La sentiva dentro di sé quando guardava Anaïs.
            «Voglio uscire, Hugo.»
            «Io invece voglio invecchiare e morire qui.»
            «Non sei divertente.»
            «Non intendevo esserlo.»
            «Voglio vedere altra gente. Vedere gli altri carcerati. Sono otto mesi che parlo solo con te, e che diamine.»
            Hugo rispose col silenzio.
            «Hugo?»
            «Mh?»
            «Secondo te perché non possiamo vedere altra gente?»
            «Non lo so, Lèo.»
            «Così vecchio e saggio e non sai niente.»
            «Non è vero che non so niente.»
            «In che città siamo?»
            Hugo corrucciò le sopracciglia. Che domanda inutile e scema. Certo che lo sapeva. Era dove aveva sempre vissuto. Si girò verso Lèo. Lo vide con i piedi penzoloni, un sorriso beffardo sul volto. Aveva quarant’anni e si comportava come un bambino.
            «Non lo sai.»
            «Lo so.»
            «No, non lo sai. Tolosa, Hugo. Tolosa.»
            «E allora? Che importa. Non vivo mica a Tolosa, sono solo in questa cella di merda.»
            «Non sei solo. Ci sono io.»
            «Lo so benissimo che ci sei.»
            «Martin, stai ancora parlando?» La guardia che faceva il giro delle celle si fermò davanti alla loro porta. Dalla finestra, Hugo vide solo i suoi occhi scuri e penetranti.
            «È Lèo che mi dà da parlare.»
            «Martin, smettila o chiamo qualcuno.»
            «Al diavolo!» urlò Hugo. «Sono sempre io, vero? A Lèo non dite mai niente!»
            «Non c’è niente da dire, Martin. Torna a dormire. Fra un’oretta tocca a te.»
            La guardia se ne andò. Hugo seguì il suono dei suoi passi finché il proprio respiro non fu più forte del loro flebile sfumarsi nel silenzio.
            «Martin è un bel cognome.»
            «Un cognome come un altro.»
            «I cognomi fanno la differenza. E anche i nomi.»
            «Io non so il tuo cognome.»
            «Non importa, il mio cognome.»
            «Sei indisponente, Lèo.»
            «Uh, che paroloni!»
            «Dico sul serio: vaffanculo.»
            «Dovresti cominciare a pulire il tuo linguaggio, grand’uomo. Ormai hai una certa età.»
            Hugo si alzò in piedi. Era scalzo. Fece qualche passo verso Lèo ma pestò i trucioli di matita. Si fermò. Indietreggiò, tremante, si sedette sul letto di nuovo. Guardava le piante dei propri piedi alle quali erano appiccicate quelle spirali di legno e grafite. Cominciò a spazzarle via furiosamente, il respiro corto, continuò fin quando tutti i piedi diventarono rossi.
            Lèo non si era minimamente scomposto. «Volevi dirmi qualcosa?»       
            «Fottiti.»
            «No, dico sul serio. Che volevi dirmi?»
            «Ti credi tanto migliore di me, vero?» urlò Hugo. «Ti senti questo gran pezzo di persona, ma sei solo una testa di cazzo. In prigione ci sei finito anche tu, quindi smettila di dire queste puttanate.»
            «Perché non me lo vieni a dire qui in faccia?» Lèo scese dal letto con un salto, pestando a sua volta i trucioli. «Forza, Hugo.»
            «Non posso scendere.» Hugo si rannicchiò contro la parete.
            Lèo rise. «E sarei io il pezzo di merda.»
            «Vaffanculo, Lèo.»
            «A te, mio vecchio amico.»
            Hugo lo osservò torvo, mentre l’uomo risaliva sul materasso con la stessa agilità con cui ne era sceso. Si cinse le gambe con le braccia e cercò un po’ di conforto nel proprio calore.
            «Noi due non siamo amici.»
            «Ah no?»
            «No.»
            «Però siamo sempre insieme. Da quanto ci conosciamo, Hugo?»
            Hugo non avrebbe saputo dirlo. «Tanto. Troppo.»
            «Ecco. Non puoi non essere amico mio.»
            «Non sei amico mio. Tu sei come Xavier.»
            «Non ti ucciderò nel sonno, Hugo, non temere. Non ti violenterò. E non ti porterò via Anaïs. Io non la conosco. Non mi piace, ma non la conosco. Credimi quando ti dico che siamo amici.»
            «Non posso essere amico di un maiale stronzo come te.»
            «Invece lo sei. Io c’ero quando hai sposato Marion, c’ero quando hai incontrato Xavier, e quando è spuntata Anaïs con quel bambinetto. Abbiamo passato tante cose insieme.»
            «Ho sposato Marion a vent’anni.»
            «E quindi?»
            «Quindi tu avevi sette anni all’epoca.»
            «Credi che non ci fossi, Hugo?»
            Hugo stette in silenzio per un attimo. Non ricordava Lèo al suo matrimonio. Non ricordava molti dettagli, a dirla tutta, c’era solo Marion nel suo vestito dalle pieghe infinite e bianchissime. Bella come poche persone al mondo, più bella di Anaïs sicuramente. Ma Lèo dov’era? Sì, probabilmente c’era Lèo. Da solo, vicino a lui, in un posto all’ombra ma a pochi passi dal sole. Lèo c’era.
            Hugo ebbe un tremito alle spalle, gli parse di udire il miagolio di un gatto. Si prese la testa, spalancò gli occhi. Attese un momento. No, sembrava di no.
            «Ci sono gatti qui?»
            «No, Hugo, non possiamo avere gatti.»
            «Mi pareva di averlo sentito.»
            Lèo alzò le spalle. «È la prima volta?»
            «Che sento un gatto?»
            «Sì.» 
            «No, non è la prima volta. Ti piacciono i gatti?»
            «A te piacciono?»
            «No, li detesto. Sono animali terribili.»
            «E allora neanche a me piacciono.»
            «Non siamo la stessa persona, Lèo.»
            «Chi lo dice? Non possiamo avere qualcosa in comune? Siamo amici, no?»
            «Le persone non diventano amiche perché odiano i gatti.»
            «Ma potrebbero, se odiassero i gatti insieme.»
            Un altro miagolio. Hugo rantolò, infilando la testa sotto il cuscino. Al solo pensiero di una sagoma di un gatto, aveva brividi di freddo e spasmi. Odiava, odiava, odiava quei sacchi di pulci dagli occhi troppo grandi. Erano terrificanti.
            «Togli la testa da lì, prima che ripassi la guardia. Penserà che ti stai uccidendo.»
            «Non voglio.»
            «Forza, Hugo.»
            «No.»
            Lèo gli tirò il temperino, colpendogli il gomito. Hugo si ritrasse di scatto, appiattendosi contro il muro, togliendo tuttavia la testa da sotto il cuscino.
            «Non voglio neanche uccidermi.»
            «Se non l’hai fatto quando è morta Marion, non vedo perché farlo ora.»
            «Ma non posso più stare qui. Mi manca la luce del sole, Lèo. Anche se qui ne abbiamo a sufficienza. Mi mancano i supermercati e il traffico e le gite in campagna la domenica.»
            «Tuo fratello potrebbe portartici, appena esci.»
            «Mio fratello non viene da un mese.»
            «Magari al posto di Anaïs verrà lui.»
            «Non voglio che qualcuno venga al suo posto.»
            «Se lei fosse qui, adesso, te la scoperesti?»
            Hugo portò istintivamente la mano al cavallo dei pantaloni elasticizzati. Nessuna reazione dal suo sistema circolatorio. «Vorrei farlo. Mi manca. Vorrei scopare Anaïs con la stessa felicità con cui scopavo Marion. Sembrava volessimo fare quanti più figli possibili e invece non ne è venuto fuori nemmeno uno.»
            «Magari con Anaïs sarà diverso.»
            «Se uscirò, vorrei che diventasse mia moglie.»
            «E se Xavier tornasse?»
            «Lo ucciderei.»
            «Finiresti di nuovo in prigione.»
            «Ma Xavier ha ucciso Marion. Xavier ha ucciso Marion» ripetè Hugo.
            Dalla finestra, qualche uccellino si cimentò in un canto breve, prima di tornare a volare nel cielo. Diversi metri più sotto, un giardino fiorito mostrava le proprie bellezze di fine inverno. Le fronde germogliate erano appena visibili dalla finestra. Hugo le guardava con la coda dell’occhio.
            «Tu hai ucciso Marion.»
            Hugo si voltò lentamente verso Lèo. Sembrava pensoso, assorto. Guardava il pavimento come se contenesse le risposte ai grandi dilemmi del genere umano.
            «Come hai detto?»
            «È molto semplice, Hugo. Tu hai ucciso Marion. Xavier non è esiste. Xavier è morto nel momento stesso in cui Marion è morta. Sei tu che l’hai assassinata però ancora non lo sai.»
            «Che cazzo stai dicendo, Lèo?»
            Hugo si alzò di scatto, afferrò una gamba di Lèo e lo fece cadere sul pavimento. Lèo non reagì. Hugo lo picchiò forte, lo picchiò a sangue. La sua pelle era fredda e dura come il pavimento sotto di lui.
            «Io non ho ucciso Marion, io non ho ucciso Marion!»
            Lèo rideva sguaiatamente, il labbro inferiore spaccato. «Stai diventando pazzo, Hugo, completamente pazzo!»
            Hugo si alzò, stagliandosi sopra di lui come un titano. Urlò, urlò a lungo, ruggì dal profondo del cuore, sputò i polmoni in quel grido diabolico. Non era vero non era vero non era vero non era vero
            Non era così Marion non era così vero Marion perdonami Marion
            E Anaïs Anaïs Anaïs lei lo sapeva certo che lo sapeva sapeva che Marion l’aveva amata e Xavier e quegli errori e Lèo non se ne sarebbe andato e Lucas mandalo via non mi piace Lucas che bambino strano non mi piace no portalo via Anaïs ti prego portalo via
            Anaïs quanto ci metti a venire è tardi ti prego Anaïs vieni vieni sopra di me e facciamo l’amore mi manchi voglio strapparti quel nastro blu dai capelli con i denti e morderti e baciarti Anaïs portami via io non ti conosco ma portami via
            Anaïs quanti anni hai picchia Lèo per me lo sai fare lui mente non sa non sa niente non sa come sono dice che è amico mio ma non è vero sei forte Anaïs sei la donna più forte che io conosca Anaïs Anaïs Anaïs non Ana non Anita il tuo nome è Anaïs ed è perfetto ma vieni qui che non resisto più
            Dal cielo o dall’inferno cosa importa Baudelaire Anaïs che mi importa vieni vieni vieni vieni senza di te non funziona nulla qua soffoco qua muoio qua non ce la faccio tu la sai la verità Anaïs e mi ami perché sai che io Marion non l’ho uccisa mi ami per questo vero mi ami per questo e perché anche io ti amo Marion ti amo e ti sposerò Marion Marion Marion Anaïs
 
 
*
 
 
            «Martin. Martin, mi senti?»
            Il dottor Leclair aveva degli occhiali dorati e un camice bianco. Era un uomo rispettabile, era un uomo strano.
            Hugo aprì gli occhi lentamente. Lentamente. Li aprì di colpo. La bocca era asciutta. Al braccio destro era attaccata una flebo di una sostanza trasparente che precipitava velocemente.
            «Hai avuto una crisi, Martin, ora va meglio?»
            Hugo annuì, lentamente. Aveva un leggero senso di nausea, la testa pesante, le membra intorpidite.

            «Come ti chiami?»
            «Dottore, lei…»
            «Come ti chiami?» ripeté il dottore.
            «Hugo Martin.»
            «Quando sei nato?»
            «Quattordici luglio 1960.»
            «Come si chiama tuo fratello?»
            «Bastien Martin.»
            «Bene.» Il dottore si raddrizzò. Hugo non aveva nemmeno notato che era piegato verso di lui. La stanza dove si trovavano era quella della terapia psichiatrica. Hugo ricordò. Ricordò di aver picchiato Lèo. Ma non poteva stare là, Anaïs stava per arrivare da un momento all’altro, forse avrebbe portato Lucas con sé. Doveva stringere un qualche legame con quel ragazzino, sentiva di doverlo ad Anaïs. Ma quella nebbia confusa davanti agli occhi, perché non voleva andarsene via?
            «Dottore…» Hugo si umettò le labbra. Si sentiva sul punto di svenire. «Dottore, ho un appuntamento tra poco. Anaïs verrà qui, è l’orario delle visite.»
            «Chi è Anaïs?» chiese il dottore.
            Hugo scosse la testa. Non avrebbe saputo spiegarlo, non aveva voglia di raccontare come fosse apparsa per salvarlo dalla solitudine e dalla disperazione di una condanna per omicidio.
            Il dottore, vedendo la sua riluttanza, fece un cenno con la mano come per lasciar perdere. Prese una sedia, si posizionò davanti a lui e sorrise dolcemente.
            «Anaïs ti è mai venuto a trovare, Hugo?»
            «Non nella sala visite. Qualche volta era di fronte alla mia cella. Qualche volta è entrata.»
            «Ma non si può entrare nella tua cella, Hugo. È la cella di isolamento. E non ci sono donne nel personale di quella parte del carcere.»
            La voce del dottore era così calma e melodiosa che Hugo si sentiva pronto per addormentarsi. Non sognava da tantissimo tempo. Non dormiva tranquillamente da ancora più tempo.
            «Volevo chiacchierare un po’, se te la senti.»
            Hugo annuì.
            «Mi hai parlato di diverse persone negli ultimi mesi. Lèo, Anaïs, Lucas, Marion e anche un certo Xavier. Ho parlato con tuo fratello. Sembra che tu non conosca nessuno con questi nomi.»
            «Mio fratello non sa niente…» mormorò flebilmente Hugo.
            «Hai vissuto con tuo fratello per tutta la vita, Hugo. Non ricordi?»
            Hugo strinse le labbra, cercando di ricordare. «No, non è vero. Ho sposato Marion. Ho sposato Marion a vent’anni.»
            «Hugo.» Il dottore inspirò a lungo. «Hai sempre vissuto con tuo fratello Bastien. Abbiamo i documenti che lo riportano, i tuoi moduli per l’invalidità mentale. L’anno scorso…» Il dottore sembro esitare. Si schiarì la voce. «Hai violentato e ucciso una donna, Emma Richard. Te lo ricordi?»
            Hugo sentì i suoi muscoli contrarsi, per quanto quella sostanza che scorreva nelle sue vene glielo permettesse. «No. Xavier ha ucciso Marion. Ero sposato con Marion. Marion Perrot.»
            «Abbiamo controllato, Hugo.» Il dottore sorrise un po’ di meno. Con la coda dell’occhio, Hugo lo vide aumentare la velocità di somministrazione della flebo. «Non sei mai stato sposato. Non hai mai conosciuto Marion Perrot.»
            «È una bugia…» sussurrò Hugo. Perché voleva dormire? Non doveva dormire. Certo che aveva sposato Marion. L’amava. L’amava tantissimo, avevano una famiglia, insieme.
            Il dottore non rispose. Sembrava confuso. Hugo lo era altrettanto. «Questa Anaïs di cui parli, chi è? L’hai nominata solo di recente, chi è?»
            «Esistono. Tutti loro esistono. Lèo è in cella con me. Lèo è vero.»
            «Chi è Anaïs?» ripeté il dottore.
            «Anaïs ha un nastro blu tra i capelli.»
            Il dottore cercò di estrapolare qualche frase sensata dai suoi discorsi sconclusionati. Hugo non riusciva a smettere di ripetere il nome di Anaïs. Il suo nastro blu era vividissimo nella sua memoria. Si confondeva tra i lunghi capelli lisci e neri. Anaïs esisteva. Amava il blu. Le stava così bene.
            Anaïs.
            Mentre perdeva conoscenza, poteva vedere il suo sorriso, le sue mani grandi, il suo seno abbondante. Anaïs era la verità assoluta, lei esisteva.
            Anaïs.
            Anaïs.
            Anaïs.
 
 
*
 
 
            «Signora Martin, è tardi per gli amici immaginari. Io credo che Hugo abbia bisogno di parlare con qualcuno. Non vorrei allarmarla ma può capitare che i bambini, talvolta, necessitino di un aiuto di tipo… psichiatrico. Non è così poco comune come si potrebbe pensare, a dir la verità questo genere di… cose, passa spesso inosservato, soprattutto nei pazienti più giovani. Però, insomma, è evidente che qualcosa non va. Probabilmente l’ha notato anche lei.»
            Anaïs Martin si voltò verso suo figlio. Il suo bambino guardava in aria, agitava le mani, parlava con qualche invisibile presenza davanti a lui. Sussurrava così piano, ma sua madre l’aveva tenuto in grembo per nove mesi, l’aveva cresciuto: avrebbe sentito i suoi sussurri rimbombare come campane fino all’altro lato del mondo. Chiamava qualcuno. Chiamava Lèo. Hugo non conosceva nessun Lèo.
            «Capisco, signorina» rispose Anaïs, ricacciando indietro le lacrime. «Ha picchiato spesso i suoi compagni?»
            «Non spesso, però è successo. Fino alla settimana scorsa. Io non voglio emarginare suo figlio per questo, non credo ci sia bisogno di un insegnante speciale, almeno fino ad adesso. Però è innegabile che se le cose stessero così, necessiterebbe un aiuto in più. È un bambino molto intelligente, ma questi… momenti di perdizione, chiamiamoli così, sono più frequenti di quelli di lucidità. A casa non ha notato niente?»
            La madre e l’insegnante si guardarono per un secondo. Anaïs si vergognava profondamente. Come non farlo: il padre dei suoi figli se ne era andato ormai da tempo, e il suo figlio minore aveva reclamato –fino a quel momento– molte più attenzioni del maggiore.
            Cosa fare con Hugo? E Bastien? Cosa significava tutto quel discorso? Psichiatri, analisi, diagnosi, pillole. Quella era la pazzia, allora? Era entrata nel corpo di suo figlio come una mosca entra dentro una casa? Le mosche sembrano ignorare la finestra dalla quale sono entrate.
            Hugo. Hugo. Hugo.
            Piccolo, dolce, grande Hugo.
            Anaïs si legò i capelli con un nastro blu. Non era una bella donna: i suoi capelli erano l’unico vanto. Curarli era  per lei un momento di raccoglimento. Strinse il nodo molto lentamente. Non sentiva il bisogno di rispondere alla domanda dell’insegnante.
            «La ringrazio, signorina.»
            Anaïs si alzò, si diresse verso suo figlio e lo guardò a lungo. Hugo continuava a sussurrare parole incomprensibili a bassa voce.
            «Vieni, Hugo» sussurrò lei. «È ora di andare a casa.»
            «Andiamo a casa?» chiese Hugo.
            «Sì, amore mio.»
            Hugo rise. Gli occhi brillarono, avvamparono. Sussurrò qualche parola all’aria, coprendosi la bocca con una mano, poi prese la cartella e strinse la mano di sua madre.
            Anaïs e Hugo uscirono dalla classe sotto lo sguardo triste della maestra.
            Era un pomeriggio di fine inverno.








 
A/N: Nota tecnica in arrivo. Dunque, dovrei precisare due o tre cose.
1) Questa storia non era prevista per Blu. Avevo pensato di scrivere qualcosa sulla malattia mentale ma non pensavo di fare una one-shot di Primari a riguardo. Si è infilata con prepotenza e io ho lasciato fare -al mio solito-. Per di più, volevo scrivere una storia che avesse come elemento centrale il dialogo, quindi possiamo considerarla anche un esperimento stilistico.
2) Nonostante potessi documentari molto di più sulla patologia di Hugo (che si potrebbe definire, penso, disturbo dissociativo di personalità o schizofrenia, non ne sono sicura), ho deciso di mantenermi più libera e lasciare che la storia fluisse. Volevo fosse verosimile, ma non estremamente accurata, spero che questo non disturbi nessuno. Se qualcuno se lo stesse chiedendo, ho più o meno cercato di dare un senso alle personalità di Hugo. Lèo è il primissimo sintomo della malattia, Anaïs la trasposizione di sua madre, Marion la donna che ha ucciso, Xavier la sua parte omicida, Lucas il bambino che non era mai stato. Non immagino quanto possa risultare scientificamente scorretto tutto ciò, ma immagino molto *mea culpa*.
Non si tratta della stessa tipologia di Rosso, anzi, non potrebbe esserne più lontana. Chi leggerà, vedrà anche con Giallo. Spero vi sia piaciuta, grazie per essere arrivati fin qui :) 
A presto <3

Ps: se qualcuno volesse trovarmi su FB, sempre a disposizione: here!

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Giallo - Pantone 121 ***


Giallo 
Pantone 121

            A tredici anni, gli erano successe tre cose: una curiosa, una terribile e una inimmaginabile.
            Era nel cortile della sua scuola. I suoi amici avevano indossato la divisa sportiva e si stavano rincorrendo in palestra, lanciandosi una palla da basket senza troppa coordinazione. Hiro non aveva i vestiti adatti. “Dimenticati”. Bene, forse aveva preferito scordarli e rimanere fuori dal fabbricato di mattoni gialli. Si era seduto per terra, le spalle contro il muro, sperando di non sporcarsi i pantaloni neri. Aveva tirato fuori dallo zaino un libro e l’aveva aperto. Dopo mezz’ora, non aveva letto ancora una parola.
            Pochi metri avanti c’era l’istituto femminile Yukimura, separato dalla sua scuola solamente da aiuole basse ben potate e una rete metallica ormai tutta arrugginita.
            I ragazzi più grandi solitamente si appoggiavano con leggerezza a quel reticolato di metallo scrostato, parlando con le ragazze dall’altra parte e mandando loro, attraverso le fessure, bigliettini ripiegati. Hiro non aveva intenzione di alzarsi e fare qualcosa del genere, anche perché Aimi era intenta a parlare con le sue amiche.
            Le ragazze dello Yukimura erano strane. Era il periodo in cui cominciava a capire qualcosa del sesso, con qualche compagno avevano sfogliato delle riviste nei bagni, e anche se non gli era ancora ben chiaro tutto, sapeva che c’era bisogno di un uomo e di una donna. Però quando guardava quelle studentesse non poteva che storcere il naso. Dalla più piccola alla più grande, sembravano solo interessate a parlare tra loro, ridacchiare, ammiccare un po’ ai ragazzi della sua scuola e lanciare di tanto in tanto dei gridolini eccitati.
            Aimi l’aveva incrociata una volta alla fermata della metro, dopo l’uscita da scuola. Era intenta a sistemarsi le calze bianche che continuavano a scivolare. Cosa gliene importava, poi: le lezioni erano finite, poteva anche lasciare che cedessero per un paio di centimetri.
            Aimi si era accorta di essere guardata. Alcuni uomini in giacca e cravatta le rivolgevano sguardi brevi e all’apparenza freddi, ma lei si era voltata con grande naturalezza verso Hiro, come se lo conoscesse da sempre.
            «Ce l’hai una spilla da balia?»
            Hiro l’aveva guardata per un attimo senza capire. «Una spilla?»
            «Non vedi? Mi sa che si sono scucite.»
            Aimi continuava a tirarsi su le calze, senza prestare la minima attenzione agli sguardi allibiti che stava attirando. Non era molto educato fare una cosa del genere in pubblico. Hiro si era chiesto se sedendosi davanti a lei, in tutti quegli sbuffi di gonne e di calze, le avrebbe visto le mutande. La sua sorellastra leggeva un manga con una ragazza dalle mutande stampate a fragoline.
            Aimi si era alzata improvvisamente quando un vagone si era fermato davanti a lei, raccogliendo lo zaino da terra.
            «Ah, be’, ci penserò a casa.» Si era voltata verso Hiro, sorridendo. «Io sono Kimura Aimi.»
            «Tsukuda Hiroshi.» Hiro aveva balbettato ed era arrossito in maniera imbarazzante. Era una grande sfacciata, quella Kimura.
            «Lo so chi sei. Ci vediamo a scuola, Tsukuda!»
            Hiro l’aveva guardata salire sul vagone all’ultimo momento e scomparire. Scomparsa lei, scomparse le calze. Sospiro di sollievo.
            Da quel giorno, qualcuno disse a qualcun altro che disse ancora a qualcun altro che piaceva ad Aimi. Hiro, in un primo momento, era stato contento, poi non aveva avuto più occasione di parlarle. Era sempre per i fatti suoi o con le sue amiche. Non avrebbe saputo cosa dirle, figurarsi interrompere il corso della sua vita.
            Quella mattina, però, sembrava che Aimi fosse fatta per lui. Indossava degli scaldamuscoli rosa che le tracciavano il contorno sottilissimo dei polpacci. Nelle riviste, le donne che Hiro aveva visto avevano tutte un seno prorompente. Aimi aveva quasi le stesse forme di un ragazzo, ma ad Hiro non dispiaceva.
            «Sei in estasi da Shakespeare, Tsukuda?»
            Hiro alzò la testa verso Saito. Era un suo compagno di scuola, più grande di un paio d’anni. Uno di quelli che con le ragazze ci andava a parlare. Era amico della sua sorellastra e spesso veniva a trovarla a casa. Era simpatico, Saito, ma terribilmente imprevedibile.
            Saito si sedette accanto ad Hiro, tamponandosi i capelli con un asciugamano. Evidentemente la sua classe e quella di Hiro stavano improvvisando  una partita.
            «Non mi andava di fare ginnastica» disse Hiro brevemente, continuando a seguire Aimi con gli occhi, dimenticandosi di Amleto. Di tanto in tanto lei si girava verso di lui, sembrava volergli dire di avvicinarsi, poi una sua compagna la faceva ridere e lei continuava ad ignorarlo.
            «È per Kimura?» Era stato Saito uno dei primi a far circolare delle voci su di lei.
            Hiro scrollò le spalle, chiudendo il libro. «È carina.»
            «Tutte quelle dello Yukimura sono carine. Essendo solo femmine si influenzano tra loro, no? Quel genere di cose: vestiti, trucchi…»
            «A me non sembrano tutte uguali» mormorò Hiro, gli occhi bassi.
            «Perché ti piace Kimura. Hai occhi solo per lei, Tsukuda?»
            Hiro alzò le spalle di nuovo. «È un po’ strana. Qualche settimana fa era quasi mezza nuda in metro.»
            Saito rise di gusto e gli battè una mano sulla spalla. «Siamo già a questo punto? Non bisogna perdere tempo, allora. Vuoi che vada a parlarci?»
            Hiro lo guardò, indeciso sul da farsi. Ma sì, che male poteva fare. «Cosa le vuoi dire?»
            «Nulla, solo di parlare con te e che sei un ragazzo tanto carino.» Gli occhi di Saito brillavano e Hiro sorrise di riconoscenza. «Come hai detto che si chiama?»
            «Aimi, si chiama Aimi.»
            Saito si diresse verso la rete. Hiro sentiva il proprio cuore battere all’impazzata. Sarebbe stato bello parlare con Aimi di qualcosa. Era strana, ma non del tutto. Aveva i capelli liscissimi e setosi, ci avrebbe passato volentieri la mano per tutto un pomeriggio.
            Preso da queste considerazioni, ignorò quasi del tutto Saito ed Aimi che parlavano. Ad un certo punto Saito lo chiamò con ampi gesti delle braccia, mentre Aimi era totalmente nascosta da un cerchio di amiche. Il cuore di Hiro saltò un battito. Lasciò il libro a ridosso dei mattoni gialli e si diresse verso la rete.
            «Hiroshi!» esordì Aimi. Non l’aveva mai chiamato per nome, prima. In effetti, non si erano mai parlati per più di tre secondi, prima. Aveva le braccia dietro la schiena, sembrava così carina, una ragazzina degli anime che guardava la sera.
            «A-aimi» balbettò Hiro.
            «Saito mi ha detto tutto!»
            «Davvero?»
            «Certo. Quindi ti piace pensarmi nuda?»
            Saito e Hiro si guardarono. Impallidirono entrambi. Cosa? La bocca di Hiro era improvvisamente asciutta. Aimi sorrideva con gli occhi spalancati. Faceva quasi paura. Le sue amiche erano immobili dietro di lei, le braccia conserte.
            Hiro non sapeva cosa dire. Non aveva detto questo. Non… Saito? Perché l’aveva detto? «Aimi io… non… non so cosa…»
            «Per te, sono Kimura.»
            Improvvisamente, Aimi gli lanciò qualcosa che passò attraverso i grandi buchi della rete. Hiro sentì di colpo il contatto con qualcosa di  morbido e caldo. Si portò le mani al viso, togliendosi quella cosa dalla faccia. Un gruppetto di ragazzi si era radunato dietro di lui e rideva senza fermarsi.
            Hiro spalancò gli occhi quando si rese conto di cosa aveva in mano. Era un paio di mutande. Erano ancora calde.
            Aimi era pazza. Alzò lo sguardo verso di lei. Sembrava trionfante, la regina dello Yukimura. Riluceva anche nel gesto osceno che aveva appena compiuto.
            «Così ti puoi divertire la sera pensando a me, pervertito.»
            Saito sembrò sul punto di dire qualcosa alla ragazza ma dovette fare del suo meglio per non crollare a terra. Hiro gli aveva appena tirato un gancio nello stomaco, lasciandolo senza fiato. La mano sinistra stringeva ancora le mutandine. Non ebbe il coraggio di fare qualcosa, lanciargliele indietro, sorridere e vantarsi di quella sorta di conquista deviata; non fece niente se non correre via.
            Pregò affinché un dio potesse ucciderlo in quel momento.
            Le mutande erano ancora nella tasca della sua divisa quando, dopo cena, rientrò a casa.
            Non disse niente, non salutò suo padre e la sua matrigna. Salì le scale rapidamente, senza neanche togliersi le scarpe all’ingresso, ma sulla soglia della sua camera lo aspettava la sua sorellastra.
            Nanami lo squadrò velocemente, l’accappatoio addosso e un asciugamano avvolto intorno ai capelli. «Fermo lì, Hiroshi.»
            Hiro la oltrepassò e si infilò nella stanza, chiudendo la porta a chiave.
            «Non voglio parlare con te!» urlò da oltre la porta. Se fosse stato possibile morire di vergogna, in quel momento sarebbe stato più che cadavere. Per tutta la giornata aveva tenuto le lacrime nascoste, ma ora, seduto sul tatami, poteva sfogarsi finché ne avesse avuto voglia. E questo, probabilmente, significava per sempre.
            «Saito mi ha chiamato al cellulare» disse Nanami a bassa voce. La porta era talmente sottile che poteva udirla benissimo. «Non urlare, o ci sentiranno. Sono di sotto.»
            «Vattene» disse Hiro. Aveva la voce disperata del ragazzino in lacrime qual era. «Il tuo amico è uno stupido.»
            «Ci sarà stato un malinteso, Hiro.» Nanami non stava molto in casa, però sapeva come prenderlo. «Secondo me dovreste parlarvi.»
            «Non parlo né con te né con Saito.»
            «Come vuoi, ma dovrai uscire da lì.»
            «Non lo farò mai, preferisco morire qui!» Hiro terminò la frase in un singhiozzo. Nanami non replicò. Dopo poco, sentì i suoi passi allontanarsi lungo il corridoio.
            Hiro fece un profondo respiro. Che stupido che era stato. E che merda era stato Saito. E Aimi… le ragazze facevano proprio schifo. Sembravano tutte carine e delicate, poi ti umiliavano come se ti avessero in pugno. Non capiva perché avesse dovuto farlo. L’aveva ridicolizzato davanti a tutti. Tutti i suoi compagni avevano riso. Probabilmente poteva cambiare scuola. Forse poteva andare a lavorare in una fattoria in Hokkaido. Era abbastanza freddo e abbastanza a nord che nessuno l’avrebbe trovato lì. Sicuramente lì ad Osaka non l’avrebbe visto più nessuno.  Forse poteva tirare un paio di sue mutande ad Aimi.
            Forse.
            Forse.
            Hiro si gettò sopra il futon. Appena steso, si ricordò di avere ancora le scarpe. Le tolse. A quel punto, era meglio spogliarsi, aprire la finestra e sperare di morire di freddo durante la notte. Non era una brutta idea.
            Si alzò di nuovo, si tolse la giacca, la camicia, la cravatta. Aveva uno specchio a parete molto grande, e guardò ogni movimento speculare che stava compiendo. Erano azioni di tutti i giorni e lui si vedeva per la prima volta. Si avvicinò un po’ allo specchio, si spettinò i capelli. Quando si sbottonò i pantaloni, nello sfilarseli sentì il bozzo nella tasca.
            Tirò fuori le mutandine di Aimi e le lasciò cadere per terra. Non le guardò nemmeno. Si tolse i pantaloni, restò in mutande. Con un calcio, spostò via i vestiti. Davanti allo specchio restavano lui, le sue mutande, quelle di Aimi.
            Le prese, le dispiegò, le guardò. Erano delle normalissime mutande, color crema, un fiocchetto in mezzo, forse un po’ strette sul retro. Ora che le guardava meglio, erano molto strette dietro. Si imbarazzò al solo pensiero che una quindicenne portasse della biancheria simile.
            Si imbarazzò ma… erano belle. C’era qualcosa di estremamente raffinato in quelle mutande, e qualcos’altro di volgare. Non sapeva decidersi. Ponderò per un momento l’idea di ‘divertirsi’, come aveva detto Aimi, ma l’umiliazione della mattina era stata abbastanza. Non le avrebbe dato questa soddisfazione. Lei non l’avrebbe saputo, ma Hiro preferiva avere la coscienza pulita. Sapeva che comunque avrebbero detto cose su di lui.
            Aimi non l’avrebbe avuta vinta.
            Senza neanche rendersene conto, però, Hiro fece qualcosa di assolutamente singolare. Lentamente, sfilò le sue, di mutande. Rimase nudo davanti allo specchio. Solo due anni prima, il suo era quello di un bambino. C’erano ancora molti, troppi tratti infantili in quell’involucro di carne. Hiro guardò con disprezzo il volto ancora tondetto, le spalle piccole, il busto magro, le gambe sottili, e quel pene che non era quello di un uomo, non ancora.
            Da seduto, ad occhi chiusi, infilò le mutande di Aimi. Sentì il cotone scorrergli sui polpacci, le cosce, toccargli poi i testicoli e coprire le sue nudità. Si alzò e le tirò su totalmente. Prima di aprire gli occhi, le senti un po’ strette. Non erano comodissime. Chissà come faceva Aimi a stare seduta su quel poco tessuto per tutte le ore scolastiche.
             Si guardò allo specchio. Stringevano leggermente sui fianchi ma, al di là di quello, erano perfette. Erano davvero belle. Erano mutande da donna, avevano un colore tenue, un fiocco, un taglio così diverso dalle proprie.
            Hiro si mise di lato, osservo la sua silhouette. Con quella roba addosso, non aveva più l’aspetto spaventato di un adolescente qualsiasi. Il suo corpo aveva un senso diverso. Era quasi bello. Gli stavano bene, ma non era tutto. Lo rendevano, in qualche modo, dolce e sensuale.
            Un momento, Hiro. No, sensuale no. Sei un uomo. Sei un uomo. Non va così, indossi abiti da uomo. Questa è perversione.
            Hiro quasi se le strappò di dosso, nella veemenza cadde per terra.
            Non disse niente, non battè ciglio, non si azzardò a piangere, no, neanche per scherzo.
            Gli uomini non piangono, Hiro. Gli uomini non piangono.
 
 
*
            Era quel brivido prima di farlo che lo lasciava senza fiato e pieno di aspettative. Non aveva mai dimenticato come si era sentito con le mutande di Aimi addosso. Ora lui, a sedici anni, non poteva più farne a meno, e lei non si vedeva in giro da un po’. Aveva lasciato la scuola.
            Hiro non riusciva davvero a trattenersi. Quando vedeva le ragazze vestite secondo la moda Lolita per strada, provava un’invidia fortissima. Doveva tornare a casa. Doveva vestirsi in quel modo. Aveva cercato su internet. Si chiamava crossdressing, quello che faceva lui, e che nella sua mente era solo ‘il piccolo segreto’.
            Nanami frequentava l’università a Tokyo, ma aveva lasciato qualche vestito a casa. Per l’esattezza, Hiro aveva potuto godere di due vestiti estivi, diverse gonne, una camicetta rossa e quasi tutte le sue scarpe con il tacco.
            Hiro aveva provato tutte le combinazioni, ma ce n’era una che lo faceva stare bene, ma bene davvero. Le decolleté nere, la gonna plissettata, il maglione azzurro. Da quando si era svegliato, quel giorno, aveva desiderato indossarli.
In punta di piedi, alle undici in punto, quando suo padre e la sua matrigna erano già a letto da ore, si recò nella stanza della sorellastra, facendo attenzione a non urtare niente, a non accendere le luci del corridoio e, soprattutto, a chiudersi a chiave nella camera. Quando sentiva scattare la serratura, il gioco iniziava.
            Era un gioco, sì, ma era un gioco bellissimo ed estremamente serio. Era qualcosa di profondo dentro di lui. Quando metteva quei vestiti si sentiva un’altra persona. Si diventava di se stesso. Non era più Hiro, il ragazzo tranquillo e bravo a scuola, con pochi buoni amici e nessuna parvenza di relazione amorosa.
            Era Hiro. Splendidamente Hiro. Solo Hiro. Hiro e basta.
            Aveva i capelli corti, sì, ma un aspetto talmente androgino che rasentava i limiti di un erotismo di cui era l’unico usufruitore.
            Hiro ricordava cosa nascondevano i vestiti. Non si era scordato dei fianchi stretti, dei primi peli. Non si sentiva fuori luogo in determinati abiti o in altri. Riusciva ad essere entrambe le cose: uno studente di liceo e un crossdresser, ma quest’ultima opzione era la migliore.
            Rimaneva lì, a specchiarsi, ad accennare qualche movimento sexy. Non aveva inibizioni e non si poneva domande: sono gay? Ho qualche problema? Che diavolo farò di tutto questo fra cinque, dieci, vent’anni?
            Perché farsi domande quando il tessuto gli cadeva così morbido, così bello, unico sui suoi fianchi? Era la stessa stoffa a rendere Hiro altrettanto morbido e bello e unico.
 
 
*
 
 
            Le domande arrivarono. E furono diverse.
            Non gli bastava più il guardaroba scarso di Nanami. Non si azzardava a toccare quello della sua matrigna. Non per paura o per rispetto, semplicemente avrebbe significato andare oltre una certa linea. Hiro non avrebbe saputo definirla con chiarezza, ma non poteva più comportarsi come un ladro.
            Allora aveva deciso di comprare. Non c’era bisogno di tante scuse o di inventarsi storie troppo bizzarre: una fidanzata, una sorella, una madre. Era tutto estremamente plausibile. Hiro non faceva caso a quelle bugie. Non poteva dire che fossero per lui e ne aveva davvero bisogno, si trattava dell’unica soluzione.
            A casa, nascondere gli acquisti era relativamente semplice. In vecchie scatole di fumetti che non venivano mai spolverate, in fondo agli armadi,  qualche indumento intimo appallottolato nei cassetti: c’era sempre uno spazio nascosto pronto ad accogliere il suo segreto, e volersi responsabilizzare nel fare il bucato da solo era un’ottima copertura.
            Nessuno gli faceva domande. Aveva ottimi voti e buoni rapporti con i suo i compagni, parlava poco ma era sempre educato. Non si poteva pretendere niente di meglio da un ragazzo di sedici anni.
            Prima della fine dell’anno scolastico, si trovò una ragazza. Lo Yukimura era fuori discussione mentre Yuuko rimaneva nel territorio confortevole della sua classe. Una ragazza normale, forse mediocre, nessuna dote particolare se non la sua gentilezza estrema. Sembrava fosse quasi estranea a quello che era successo con Aimi, così avevano cominciato a studiare insieme per gli esami, unendosi quasi spontaneamente, e si erano ritrovati a baciarsi fuori dai grandi magazzini Daimaru, dopo un pomeriggio di svago.
            Hiro non pensava di dirlo a Yuuko. Non fece nemmeno un vago accenno. Un giorno successe di agosto successe, e basta.
 
 
*
 
 
            Nanami era tornata da poco, la casa era intrisa di una nuova vitalità. Hiro aveva cercato di riporre i suoi vestiti nello stesso identico modo in cui li aveva trovati e lei sembrava non essersi accorta di niente.
            Mentre di sotto si svolgevano amabili e ridondanti conversazioni, Hiro e Yuuko erano distesi sul letto, la porta chiusa. Yuuko aveva il capo reclinato sul cuscino, lo sguardo volto alla finestra. Hiro le accarezzava le braccia, meccanicamente.
            «Si vedono troppi palazzi da qui…» mormorò Yuuko a bassa voce.
            Hiro non rispose, si limitò ad annuire.
            Erano strani i silenzi con Yuuko. Nessuno dei due era appassionato di chiacchiere ma c’erano troppi giorni di stallo. Erano ormai tre mesi che stavano insieme. Hiro non l’aveva toccata. Yuuko non si era fatta toccare. Era una routine inquietante di silenzi, baci e teste chinate. Forse era una relazione un po’ strana, dall’aria troppo stantia anche per due sedicenni, ma cosa avrebbero dovuto aggiungere?
            Hiro non pensava di starle nascondendo qualcosa. Perché dirglielo, poi? Non avrebbe aggiunto nulla di particolare a loro due, al loro stare insieme. Lo aveva capito e accettato lentamente, non sentiva il bisogno di catapultare qualcuno nel suo mondo. Era confusionario, era difficile da spiegare. Anche se, neanche a dirlo, era gratificante e perfetto.
            «Hiro.»
            «Sì?»
            Gli occhi luminosi di Yuuko incontrarono i suoi. Hiro sollevò un angolo della bocca a formare un sorriso.
            «I tuoi non si offendono se stiamo chiusi qua? C’è anche tua sorella…»
            «Non importa» disse Hiro. «Ti conoscono ormai.»
            Yuuko annuì, tornando a guardare la finestra, al di là del vetro, al di là dei palazzi.
            «C’è qualcosa che mi vuoi dire, Hiro?»
            Il sangue si gelò nelle vene. Hiro sentì i muscoli tendersi sotto la pelle ma si impose un autocontrollo degno di un monaco buddhista.
            «Cosa intendi?»
            «Lo sai cosa intendo.»
            Hiro si mise a sedere. Yuuko guardò i suoi movimenti improvvisi, corrucciando le sopracciglia.
            «Perché ti stai agitando? Non ho detto niente.»
            «Non hai detto niente ancora» precisò Hiro. Storse la bocca in una smorfia. Non era possibile che sapesse. E se fosse stato quello il caso, perché lo tirava fuori così? Perché voleva tirare fuori la sua felicità più segreta in quella maniera?
            Yuuko sbuffò. «Almeno fammi parlare.»
            «Non ti capisco, Yuuko.»
            «Posso provare a spiegarti.»
            Yuuko si puntellò sui gomiti, giocando distrattamente con i bottoni della giacchetta che indossava. Poi disse qualcosa che spiazzò Hiro.
            «Non credi che tra noi manchi qualcosa?»
            Sì, credo che una cosa dovresti saperla ma è meglio di no, perché è mia, solo mia, tu non capiresti –o forse sì– e, per favore, non intendo ripetere l’umiliazione di tre anni fa.
            «Cosa credi che manchi?» chiese Hiro, lentamente.
            Yuuko si strinse nelle spalle. «A me piaci, ma ti sento distante.»
            Hiro meditò qualche secondo su quelle parole. «Distante… in che senso?»
            «Hiro!»
            «Sto solo cercando di capire.»
            Yuuko si raddrizzò, guardandolo dritto negli occhi. «Mi sfugge qualcosa di te, Hiro. Forse è una mia sensazione e basta, però sei sempre un passo distante da tutto e tutti. C’è qualcosa che non va? È per questo che fai così?»
            Hiro la guardò, senza capire.
            Cosa voleva? Dimostrazioni di felicità immensa in una vita monotona? Erano quei colori accesi, quei tagli provocanti. I reggiseni imbottiti, le calze autoreggenti, i rossetti dai toni opachi. Erano quelli la felicità. Erano i colori che Hiro non trovava da nessun’altra parte, non in un libro o in un’amicizia, nemmeno in Yuuko, a dirla tutta.
            Hiro rimase in silenzio.
            Yuuko vestiva in quella maniera, sempre. Yuuko usciva di casa e lasciava che le sue gonne le svolazzassero intorno al ginocchio e sembrava non onorare abbastanza quella fortuna. Hiro non sapeva se si sarebbe mai avventurato oltre la camera di Nanami o la propria, vestito da donna.
Sapeva quanto la sua estetica nascosta gli desse piacere.
Sapeva anche quanto non fosse accettabile, all’esterno.
Hiro era nella vastissima media di gente che conduce le proprie vite in silenzio, sorridendo, giostrandosi tra lunghi obblighi e svaghi brevi. In quei vestiti, Hiro si elevava. Hiro diventava speciale. Nei panni di una donna, Hiro era morbosamente e distintamente se stesso. Tornato nei pantaloni maschili e nelle camicie dai toni neutri, avveniva il processo inverso, un’involuzione.
Yuuko non lo voleva sapere davvero.
Hiro ne era sicuro.
Yuuko si guardava le mani, impaziente. Alzò le spalle, scendendo dal letto. «Se c’è qualcosa che non va, vorrei saperlo. Dimmelo quando ti senti a tuo agio.»
Hiro sospirò, all’interno del suo cuore. Non si mosse minimamente. Rimandare questioni inesistenti lo lasciò sollevato, per il tempo di una frazione di secondo. Poi la vide.
C’era una scatola, piccola, che spuntava da sotto il letto. Maledisse il giorno in cui aveva preferito uno stile occidentale per la sua stanza, rinunciando al futon. Maledisse il foulard giallo, splendente come il sole, che aveva comprato due settimane prima. E maledisse se stesso per averlo lasciato lì, nascosto a malapena, strabordante, l’evidenza di se stesso. Perché non l’aveva notato prima?  
            Yuuko ci inciampò su. Non cadde, ma il cuore di Hiro ebbe un tuffo, come se l’avessero lanciato giù da una scogliera a strapiombo sul mare. Il coperchio volò via. Il foulard si distese sul pavimento, vergognosamente semplice e lì, immobile, ad indicare tutto.
            Yuuko lo guardò per un attimo, l’espressione stupita.
            Hiro attese.
            Yuuko alzò gli occhi ad incrociare i suoi.
            Hiro attese ancora.
            «Perché tieni un foulard in una scatola sotto il letto?»
            Era quello il momento. Il momento di mentire spudoratamente, senza ritegno, senza scomporsi, non un solo rossore sul viso, la voce sicura, nascondere, nascondere, nascondere senza esitare.
            «È mio.»
            Aspetta, Hiro. Quella è la verità. Hiro. Hiro.
            «Cosa?»
            «È mio» ripetè Hiro. Qualcosa si era appena rotto dentro di lui. Era come se le ossa e l’epidermide avessero deciso di fare l’amore, e le prime spingevano verso l’esterno, la seconda si assottigliava sempre più sui muscoli, cercando di trapassarli. Era un’esplosione mentale ed emotiva. Era liberazione e condanna. Perché, Hiro? Perché.
            Yuuko si sedette per terra, nello stesso punto dove lui aveva scoperto se stesso, qualche anno prima. Voleva quasi dirglielo. La lingua bramava le parole, una forza superiore la castigava al silenzio.
            «Vorresti spiegarmi?»
            La voce di Yuuko era irraggiungibile.
            Hiro doveva farlo. Si mosse, guidato dalla forma primitiva di quella mania, lentamente, accuratamente. Si sentiva di nuovo un tredicenne con niente più che un paio di mutande, uno specchio e l’orgoglio ferito. Prese tutto. Ogni cosa. Ogni vestito. Anche le scarpe. Gli accessori. Svuotò ogni cassetto.
            Nessuna fretta. Yuuko guardava in basso. Quel silenzio era confortante come due mani che lo reggessero sopra un baratro. Hiro sapeva che le dita si sarebbero presto dischiuse. Che lei capisse o meno, era importante: erano sue, quelle mani. Si fidava di Yuuko, ma ancora più si fidava di se stesso. In quella logica annebbiata, sembrava la cosa giusta da fare.
            Si mise a nudo. Si svelò nel profondo, mostrando quello che lo copriva di notte, quando nessuno poteva vederlo, protetto da quattro mura e una chiave girata.
            La sua mente era priva di considerazioni o pensieri.
            Il suo corpo fremeva e, in qualche modo, giaceva inerme, nonostante fosse ancora in piedi.
            Yuuko non disse niente. Accarezzò qualcosa, distrattamente, come se si trovasse dinanzi ad una svendita di vestiti. Hiro le prese una mano.
            «Io sono così, Yuuko.»
            Yuuko rimase ancora in silenzio. Non pianse. Non mosse un muscolo.
            C’erano solo  le loro mani, chiuse tra loro, e tutta la felicità di Hiro, lì, sul pavimento.
            C’era confusione e chiarezza estrema. C’era tutto quello che, per un motivo o per un altro, non era mai venuto fuori. Era incerto su Yuuko, ma non si aspettava nulla in particolare. Lei, in un gesto di comprensione o arrendendosi all’evidenza, non scostò la mano da quella di Hiro.
            Rimasero così per un po’.
            Da sotto, giungevano le risate di Nanami.
 
 
*
 
 
            Era entrato da un cancelletto laterale.
            Era tornato lì.
            Hiro si sedette, appoggiando la schiena al muro di mattoni gialli. Erano caldi dall’esposizione al sole della giornata. Il sole era già tramontato. Il giallo lo sostituiva.
            Voltò lo sguardo, diversi metri a sinistra. La rete con i buchi. Lo Yukimura era lì, così serio in confronto al colore sgargiante della propria scuola. Allora le cose belle, le cose allegre, la luce può confondersi, vivere e respirare nel mondo esterno?
            In fondo, non faceva del male a nessuno.
            Forse a Yuuko.
            Forse alla sua famiglia.
            Forse a se stesso.
            Ma no. No, Hiro. Non c’è nulla di male. Non hai commesso un reato, se non quello di trovare un modo per essere felice. Solo la gente crudele disprezza chi riesce ad essere felice senza far male a qualcuno.
            Puoi essere felice, Hiro.
            Fallo.
            Sei venuto qui, abbi il coraggio.
            Non riusciva a staccare lo sguardo dall’istituto femminile. E forse era meglio così. Era l’inizio di ogni cosa. Si chiese come sarebbe stata la sua vita se avesse avuto una spilla da balia e meno pensieri per la testa. Diversa, o forse uguale. Oltre il suo travestirsi, il suo mascherarsi, il suo diventare, la vita scorreva come sempre.
Dallo zaino, lentamente, senza guardare, estrasse il foulard. Odorava di Yuuko, lo sentì subito. Se lo pose intorno al collo, le dita strinsero appena un fiocco elegante. Il tessuto leggero gli riscaldò la pelle. Solleticava appena. Inspirò a fondo.
            Era lì.
            Nella sua umiliazione precedente. Nella sua estrema sincerità. Hiro, hai avuto il coraggio. Dove ti porterà, forse non lo sai ancora. Non negarti, Hiro.
            Questo è un mondo che nega, un mondo che strazia e un mondo che ti vuole felice nella tristezza collettiva.
            Hiro non voleva rinunciare ad una vita comune e, in fondo, non c’era nulla di anormale in lui. Poteva prendersi con gioia il fardello della mediocrità, cullarlo e farlo suo, vivere sempre un po’ più lontano, un po’ più distante, ma sempre in mezzo alla gente, in mezzo a tutti, come tutti.
            L’avrebbe fatto senza pensarci due volte, se non avesse saputo quanto e come poteva splendere.
Hiro voleva splendere. Voleva essere il sole. Giallo su giallo, seta su mattoni. Avrebbe avuto anni per piegarsi. A trenta, quarant’anni, avrebbe chinato la testa, avrebbe accettato i compromessi. Probabilmente si sarebbe scordato di tutto quello.
L’avrebbe ricordato con amore, nostalgia, pentimento. No, non c’era una reale possibilità di scordare qualcosa.
Perché pensare al futuro, poi? Non l’aveva mai preso in considerazione, prima di allora, e sapeva che c’erano molti più angoli bui di quanti ne potesse immaginare. Gli ultimi raggi del tramonto sembravano dirgli che quegli angoli sarebbero spuntati fuori, sì, ma non era ancora il momento di preoccuparsene. Poteva gioire della semplicità di qualcosa di complesso ancora per un po’.
            Tra il freddo vento della prima sera, non c’erano mezzi termini, non c’erano battaglie da portare avanti, né contro la gente, l’opinione altrui o contro se stesso.
            Appoggiato a quel muro, Hiro era sole.










A/N: E Giallo è finito. Deo Gratias. Questa storia è stata un parto, semplicemente perchè mi è venuta in mente senza troppi dettagli, senza niente se non l'idea di un 'doppio' giallo. Seta e mattoni. Volevo parlare di un adolescente crossdresser e lo volevo fare in Giappone, dove c'è un codice rigido di società ma allo stesso tempo si trovano le più forti contraddizioni possibili.
Non volevo fare qualcosa che avesse quasi un'impronta documentaristica (i giovani fanno questo, gli adulti quest'altro, poi mangiano sushi tutti insieme e blablabla) così ho deciso di prendere solo il punto di vista di Hiro, la sua vita, la sua adolescenza.
Spero vi piaccia. É la storia che ha richiesto più impegno, forse la meno spontanea di Primari ma anche per questo la più ragionata.
Grazie per essere arrivati fin qui, e grazie alle mie amiche di tastiera e dysagioh, Aika, babyjenks e Kaite, che stanno contribuendo a Primari e Complementari (più alla stesura di nuove cose) fornendomi il supporto psicologico di cui ho disperato bisogno, perchè  sono pazzah e piena di fisime.
Vale atque vale, dudes <3

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=2257197