Felce argentata

di MadAka
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I ***
Capitolo 2: *** II ***
Capitolo 3: *** III ***
Capitolo 4: *** IV ***
Capitolo 5: *** V ***
Capitolo 6: *** VI ***
Capitolo 7: *** VII ***



Capitolo 1
*** I ***


Salve a tutti!
Faccio una piccola premessa perché questa storia ne ha bisogno:
si tratta di un racconto a capitoli che avevo cominciato a scrivere per partecipare ad un contest a pacchetti in cui il protagonista/la protagonista doveva ritrovare la sua memoria dopo averla persa per qualche motivo.
L’ idea mi piaceva un sacco così avevo deciso di partecipare, ma ogni volta rientravo in sezioni che la promotrice del contest non voleva…
Ho deciso però di continuare e pubblicare il mio lavoro perché ormai mi ero buttata a capofitto nello scrivere una storia con un tema incentrato su qualcosa di inconsueto come un’amnesia.
Premetto anche che si tratta di un omaggio al mondo del rugby, sport che personalmente apprezzo tantissimo!
Buona lettura a tutti. 
 ;)

 
 
Riaprì gli occhi lentamente, ma richiudendoli più volte nella speranza di riuscire ad abituarsi all’ intensa luce bianca. Intorno a lui il silenzio regnava sovrano, interrotto solo dal suono regolare della macchina alla sua sinistra, che misurava il suo battito cardiaco.
Sean Darren cercò di mettere a fuoco gli oggetti intorno a lui, di interpretare i rumori che lo circondavano, ma non riuscì a distinguere nulla di famigliare.
Non aveva idea di dove fosse, non sapeva come fosse arrivato lì; sentiva un forte dolore alla testa e male in ogni punto del suo corpo. Quando finalmente capì di trovarsi in una stanza d’ospedale il monitor accelerò i suoni.
Riuscì a fatica a mettersi seduto e a passarsi una mano sulla fronte umida. Proprio non capiva cosa ci facesse nel letto di quella stanza, anche se il dolore poteva in qualche modo aiutarlo ad averne un’ idea.
Ma non ricordava nulla. Guardandosi non riusciva a capire a cosa fossero dovuti i graffi sulle sue mani, le macchie di sangue rappreso sul braccio; non sapeva a cosa fosse dovuto tutto il male che sentiva in quel momento alla testa, fasciata con della garza.
Non appena si stancò di continuare a guardarsi intorno decise di scendere dal letto ed avviarsi per cercare qualcuno, convinto che tutto fosse solo un grande sbaglio, ma venne preceduto dall’infermiera, che entrò nella stanza con la sua cartella clinica in mano:
-Signor Darren, vedo che si è svegliato- esordì lei.
-Che cosa?- chiese lui con voce impastata.
-Dovrebbe restare seduto, ha subito un trauma cranico che sarebbe meglio non sottovalutare-
-Un trauma cranico?- ripeté, sempre più confuso.
La donna si voltò a guardarlo, leggermente sorpresa.
-Sì, durante la partita-
-Quale partita?-
Una risata nervosa anticipò la risposta di lei: -Come sarebbe? Davvero non ricorda nulla?-
Lui rimase a guardarla, inebetito. No, non ricordava niente, non aveva idea di che partita stesse parlando l’infermiera ed era sempre più convinto che tutto fosse solo un madornale errore.
Fece per alzarsi mentre diceva:
-Senta, dev’esserci uno sbaglio…-
La donna lo fermò con un cenno e uno sguardo serio:
-Lei deve rimanere qui. Se non ricorda niente di quello che è successo vuol dire che è più grave di quanto si possa immaginare. Vado a chiamare il medico-
Scomparve dalla porta prima che Sean potesse fare qualcosa.
L’uomo sbuffò, si staccò gli elettrodi dal petto e si avviò verso l’uscita, esasperato. Si sentiva confuso, preso in giro, c’era qualcosa di assurdo in quello che gli stava accadendo e non voleva sapere come sarebbe andata a finire.
Percorse i corridoi dell’ospedale imboccandoli a caso, incapace di sapere dove stesse andando; le persone si voltavano a guardarlo incuriosite, alcuni si sussurravano cose al suo passaggio, altre lo indicavano e lui non riusciva assolutamente a capire perché.
Dopo l’ennesimo corridoio preso per caso si trovò nuovamente davanti all’infermiera, stavolta con accanto il medico:
-Dove crede di andare?- gli urlò contro la donna.
Lui alzò le mani in segno di resa, consapevole che da solo non sarebbe mai potuto uscire da quel labirinto e acconsentì a seguire il dottore nella speranza di riuscire a capire qualcosa di quello che gli stava succedendo.
 
-La TAC non rileva niente di anomalo- disse il medico abbassando la lastra su cui era raffigurata la testa di Sean.
-Eppure, lei deve avere per forza subito un trauma che le ha causato questa amnesia- concluse infine, guardando il suo paziente.
Quest’ultimo si mosse nervosamente sul lettino su cui era seduto:
-Mi sta dicendo che ho perso la memoria?-
-Devo per forza dirglielo? Credo che lo abbia capito anche da solo dato che ricorda solo il suo nome-
Sean sospirò passandosi le mani sul viso:
-Non ha senso- disse esasperato.
Il dottore lo guardò seriamente:
-Lo ha eccome, signor Darren. Lei è un giocatore di rugby ed è stato portato qui dopo un placcaggio, durante la partita, che l’ha lasciata svenuto sul campo da gioco-
L’altro alzò gli occhi, sorpreso e incredulo:
-Io sono cosa?-
-Ha capito benissimo, lei gioca a rugby-
A Sean venne da ridere prima di rispondere:
-No, questo è impossibile-
Il medico alzò un sopracciglio:
-Lei trova?-
L’altro non rispose, incapace di trovare le parole appropriate per esprimersi. Non sapeva cosa stava succedendo, anche se ora cominciava a capire per quale motivo non ricordasse niente. Tuttavia, anche nella sua amnesia, lui era certo che ci fosse un equivoco, che lui non potesse essere uno sportivo, soprattutto un giocatore di rugby.
-Devo parlare con qualcuno- disse alla fine il paziente, rimettendosi in piedi.
-Con chi, se posso chiederglielo?-
L’uomo sospirò, passandosi una mano fra i corti capelli castano chiaro. Non sapeva a chi rivolgersi, non ne aveva idea. Avrebbe potuto parlare con chiunque, sentire la versione di milioni di persone ed era certo che non sarebbe servito a niente.
-Senta- chiese poi al dottore: -Crede che mi tornerà prima o poi la memoria?-
Il medico annuì con la testa:
-È plausibile. Ma ovviamente deve farsi aiutare. Abbiamo avvisato uno dei medici del vostro staff del suo risveglio e sta arrivando-
-Staff? Ma di cosa sta parlando?-
-Suvvia, la smetta. Lei è un rugbista, che ci creda o no e quando arriverà il suo medico forse si deciderà a darmi ragione-
Detto questo l’uomo uscì dalla stanza, lasciando Sean solo con i suoi caotici e interrotti pensieri.
 
-Lui è qui?- la voce arrivò da dietro al porta della stanza in cui Sean si era da poco appisolato. Dopo che gli avevano detto che aveva perso la memoria si era trovato più confuso che mai e la testa aveva cominciato a girargli in maniera impressionate. Si era disteso sul letto e aveva preso sonno immediatamente, sperando di svegliarsi e rendersi conto che aveva sognato tutto, ma così non era stato.
Quando la porta si aprì, insieme al medico che ormai era l’unico di cui Sean si ricordava, comparve una ragazza. Aveva capelli neri lunghi fino a metà della schiena, mossi e leggeri. Quando lei si fu avvicinata abbastanza al paziente e lui poté guardarla negli occhi rimase spaesato un momento. Conosceva quello sguardo, non aveva assolutamente idea del nome di quella donna, né perché le sembrasse famigliare, eppure nei suoi occhi c’era una luce che lui conosceva fin troppo bene.
Lei lo analizzò dalla testa ai piedi, per poi sorridergli e salutarlo:
-Vedo che sei vivo- disse.
Lui inclinò la testa leggermente di lato prima di chiederle:
-Ci conosciamo?-
-Certo che ci conosciamo- il suo tono era deciso, indubbiamente sapeva come comportarsi con quell’uomo.
Sean rimase ad osservarla per un po’, cercando di decifrarne lo sguardo nella speranza di ricordarsi di lei; sapeva di averla già incontrata, se lo sentiva, ma non riusciva assolutamente a ricordarsi in che circostanze.
Il medico dell’ospedale uscì lasciando i due soli nella stanza.
-Siediti pure- lo invitò lei e lui eseguì senza fare domande, accomodandosi sul lettino.
Lei gli si sedette accanto e lo guardò negli occhi mentre si spostava indietro alcuni ciuffi scuri.
-Come ti chiami?- le chiese lui quasi subito, sperando di ricordare.
-Samantha Barkley-
L’uomo ripeté il suo nome muovendo solamente le labbra, pesando le sue parole. Quel nome gli suonava famigliare, anche se non riusciva bene ad inserirlo in un punto preciso della sua vita.
-Quindi noi due ci conosciamo?- domandò nuovamente, come in cerca di conferme.
Lei annuì:
-Lavoro nello staff medico per la nazionale neozelandese di rugby, di cui tu sei un giocatore- lo disse con tono dolce e pacato, come se stesse parlando ad un bambino.
-La nazionale? Aspetta un secondo, anche tu vorresti farmi credere che sono un giocatore di rugby?!-
Si alzò di scattò dal lettino e guardò Samantha incredulo:
-Si può sapere che vi prende a tutti? Avrò anche perso la memoria ma sono sicuro di non essere un giocatore!- esclamò esasperato.
Anche la donna si alzò e indicò l’uomo con un gesto:
-Spiegami cosa ti può far credere una cosa del genere? Basta guardare la tua stazza per capire che sei un rugbista. Sei alto un metro e ottantotto e pesi centoquattro chili, tutti di muscoli-
Lui assunse un’espressione sorpresa, come se non si fosse mai guardato allo specchio:
-E tu come le sai tutte queste cose?- le chiese sperando di metterla alle strette, convinto che si stesse inventando tutto.
-Te l’ho detto, lavoro per gli All Blacks, la squadra per cui giochi-
-Io… io non gioco-
Samantha sbuffò, senza neanche tentare di attenuare la sua esasperazione.  Anche se sapeva che Sean era confuso non riusciva a capire la sua testardaggine.
-Spiegami perché nei sei così convinto allora- lo spronò lei.
L’uomo si guardò intorno, spaesato. Non lo sapeva, non aveva idea del perché fosse così sicuro di quello che andava dicendo dal momento in cui si era risvegliato, semplicemente sentiva di avere ragione.
Non riuscì a dire nulla e lei si avvicinò per guardarlo meglio in viso.
-Tu sei Sean Darren, terza linea degli All Blacks. Sei un vanto per la nazionale e sei considerato uno dei migliori dieci giocatori al mondo- gli diede quelle informazioni guardandolo negli occhi, anche se era notevolmente più bassa e minuta di lui. Sean si perse nello sguardo acquamarina della ragazza finché non riuscì ad assimilare le parole, in ritardo.
-Ci deve essere uno sbaglio- le sussurrò e lei, di tutta risposta sbottò sonoramente.
-Non c’è nessuno sbaglio Sean! Perché non mi vuoi credere?!-
-Perché no, fine. Sono sicuro che mi avete scambiato per qualcun altro. O forse è tutto una gran messinscena; chi mi dice che non mi avete colpito in testa e poi mi avete portato qui per farmi credere che sono il miglior giocatore di rugby del mondo?-
-Non ho detto che sei il migliore-
-Sì invece, prima-
Lei rimase a guardarlo perplessa. Conosceva perfettamente Sean, sapeva quanto fosse testardo, soprattutto se si convinceva di qualcosa; tuttavia non riusciva proprio a capirlo in quel momento, non riusciva a spiegarsi perché si stesse comportando così. Sospettò che la botta che aveva preso alla testa gli avesse provocato un’ inspiegabile ed involontaria paura per lo sport che tanto amava.
Respirò a fondo un paio di volte, si ricompose e abbassò il tono della voce:
-Credo che tu abbia bisogno di un po’ di tempo per pensarci su. Leggi i giornali, guarda la televisione, informati. Ma sappi che nessuno qui sta cercando di fregarti, ti sto dicendo la verità e tu ti sei sempre fidato di me, proprio come io mi sono sempre fidata di te…- lasciò cadere la frase e alzò lo sguardo per guardare l’uomo negli occhi:
-Appena ti dimetteranno vieni alla sede degli All Blacks, poi mi dirai se non sei un rugbista-
Cercò nella borsa un biglietto e lo allungò a Sean, per poi avviarsi all’uscita dopo averlo salutato con un “Ci vediamo”.
L’uomo rimase ad osservare il biglietto per un po’, soffermandosi maggiormente sulla felce argentata che vi era impressa sopra. Ancora stentava a credere a quello che gli stava accadendo. Non solo aveva perso la memoria, ma l’unica persona incontrata fino a quel momento che credeva di conoscere gli aveva garantito che il suo ruolo nella vita fosse giocare a rugby. Scosse la testa e abbandonò il pezzo di carta sul lettino, senza dargli importanza. Avrebbe cercato le risposte da solo, avrebbe scoperto lui come aveva perso la memoria e avrebbe ricostruito tutto, senza l’aiuto di nessuno. Nonostante la sua corporatura, in quel momento, si sentiva debole e vulnerabile, perché chiunque avrebbe potuto fargli credere quello che voleva. 

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Capitolo 2
*** II ***


Il giornale venne lanciato sul tavolo aperto alla pagina sportiva. Il famigliare viso di Sean Darren riempiva entrambe le facciate mentre scritte in grassetto parlavano del suo stato confusionale e del suo continuo negare di essere un rugbista.
-La situazione è questa- disse uno dei dirigenti della squadra nazionale di rugby neozelandese, con la sua voce possente, muovendosi sulla sedia.
Nella sala non si udì un suono finché l’uomo non riprese a parlare dopo essersi passato un fazzoletto sulla testa calva:
-Sean verrà dimesso dall’ospedale questo pomeriggio e per quanto ci riguarda il fatto che si ostini a negare di essere un giocatore di rugby è un bel problema-
Nuovamente calò il silenzio. L’uomo tossi un paio di volte e poi osservò i suoi interlocutori uno ad uno.
Samantha era ferma in piedi, dietro al coach degli All Blacks. L’avevano chiamata perché era l’unico membro dello staff della nazionale ad aver incontrato Sean dopo l’incidente e, in quanto medico, il suo parere era di fondamentale importanza.
L’allenatore della squadra si voltò a guardarla e interruppe il silenzio:
-Tu cosa ne pensi, Samantha?-
Lei respirò un momento prima di rispondere, facendo attenzione a non guardare verso Scott Berry, il pelato scorbutico:
-Darren sta attraversando un momento di confusione dovuto alla perdita della memoria. Credo abbia bisogno dell’aiuto della squadra. Secondo il medico dell’ospedale è probabile che riacquisti la memoria se fa attività inerenti a quelle abituali. Ciò significa che se vogliamo aiutarlo dobbiamo farlo giocare a rugby-
Berry batté violentemente un pugno sul tavolo in legno:
-Non se ne parla!- sbottò e tutti si voltarono a guardarlo.
Non si ricompose nemmeno prima di ricominciare a parlare, guardando alternatamente Samantha e l’head coach:
-Questa settimana dobbiamo disputare la partita contro gli Springboks, non possiamo permetterci di perdere tempo per uno come Darren, soprattutto se consideriamo il fatto che lui va in giro a dire di non essere un giocatore di rugby-
-Quello è dovuto al fatto che è confuso. Non sa cosa gli sta succedendo ed è in uno stato di caos- rispose la donna dall’altro lato del tavolo.
L’uomo si sistemò sulla sedia:
-Stato di caos o no, non possiamo focalizzarci solo su di lui-
-Ma è il mio miglior giocatore e lei sa benissimo quanto gli Springboks…- attaccò l’allenatore, ma venne interrotto:
-Sarà anche il migliore, ma non è l’unico. Dovete escluderlo per questo match, non abbiamo tempo e denaro da spendere su un personaggio del genere-
-Ma…- fecero all’unisono Samantha e il coach.
-Non me ne faccio niente dei vostri “Ma”! Darren è fuori. Se la dottoressa qui presente vuole tentare di recuperarlo è libera di fare quello che vuole, ma per quanto mi riguarda, lei…- indicò l’allenatore:
-Deve concentrarsi esclusivamente sul resto dei ragazzi. Se Sean Darren vuole ricominciare a giocare a rugby allora dovrà essere lui a cercarci- tossì nuovamente e si alzò, sistemandosi la cravatta bordeaux  che sporgeva per colpa del suo pancione:
-Ora se scusate, mi attendono ad una conferenza stampa. Ritorneremo prossimamente sulla questione, ma la mia posizione è questa e rimarrà tale- detto ciò uscì, lasciando i presenti ammutoliti.
Samantha si strinse con forza il braccio per cercare un possibile modo di sfogare la sua rabbia. Detestava Scott Berry, odiava il fatto che lui ricoprisse una posizione tanto importante nonostante non avesse minimamente a cuore la squadra degli All Blacks. L’allenatore si alzò e la guardò in viso:
-Posso contare su di te?- le chiese.
Lei, che sapeva già cosa intendesse l’uomo con quelle parole, annuì con un cenno della testa:
-Ci penso io-
L’altro di tutta risposta le strinse gentilmente la spalla e si allontanò preoccupato.
 
Quando finalmente poté uscire dall’ospedale, Sean Darren si passò una mano sulla fronte, sentendosi un peso in meno. Non sapeva dove andare anche se gli avevano comunicato il suo indirizzo di casa, che, con sua sorpresa, ricordava perfettamente. Tuttavia non se la sentiva di rincasare, anche se quello significava rimanere in balia dei giornalisti che negli ultimi tre giorni lo avevano perseguitato, sempre sostenendo che lui fosse un rugbista di fama mondiale. Ancora non credeva a quella storia, ecco perché non sarebbe andato nemmeno alla sede della nazionale di rugby neozelandese come Samantha gli aveva chiesto di fare.
Camminò per un po’ seguendo il suo istinto, cercando di non degnare di un’occhiata le persone intorno a lui, alcune delle quali lo indicavano e pronunciavano il suo nome. Cominciava ad essere stanco di quella situazione e voleva risolverla il più in fretta possibile, dimostrando a se stesso e al mondo che non era un rugbista, ma solo uno che era stato scambiato per qualcun altro. Dopo più di un quarto d’ora di vagabondaggio si fermò, sollevò lo sguardo e si accorse di aver raggiunto un posto dannatamente famigliare.
Era una birreria, o meglio, la birreria dove andava sempre lui. Era incredibile che si ricordasse di quel posto, dato che non ricordava praticamente niente, ma se aveva memoria di quel luogo significava che per lui era importante. Varcò la soglia con rinnovato ottimismo, trovando il locale vuoto e in penombra. Si accorse che se lo ricordava perfettamente; ricordava il legno scuro dei banconi, delle pareti, dei tavoli; ricordava l’infinità di bottiglie di alcolici dietro al bancone e le botti di birra vuote usate come tavolini;  ricordava le foto, gli articoli di giornale appesi alle pareti, ricordava tutto, incluso il suo gestore Nick, il barbone tatuato.
Questo si voltò a guardare la porta nel momento in cui Sean entrò e rimase sorpreso di vederlo lì.
Scoppiò a ridere, però, prima di aprire bocca:
-Sean Darren, che cosa ci fai tu qui?-
L’altro si avvicinò al bancone e si sedette su uno degli alti sgabelli, spettinandosi i capelli:
-Ci sono arrivato senza accorgermene…- disse guardandosi intorno.
Il barista si mise l’asciugamano su una spalla e posò il boccale, per poi appoggiarsi al bancone con i gomiti e guardare in faccia il suo interlocutore:
-Dicono che non ricordi più chi sei, è vero?-
Sean alzò lo sguardo:
-Direi di non ricordare proprio tutto, ma di te sì, Nick, mi ricordo perfettamente-
Nick scoppiò nuovamente a ridere mentre i lunghi capelli biondi uscivano leggermente dalla coda troppo morbida:
-Devo considerarlo un onore, allora. Da quello che si legge in giro sei piuttosto confuso- disse e gli gettò un giornale in cui Sean poté vedere la sua faccia e il titolo “Non sono un rugbista”.
Lesse quelle parole un paio di volte, poi guardò la sua faccia su quel giornale, incredulo. Avrebbe davvero voluto sapere cosa stava succedendo, ma non riusciva a ricordare niente. Perché c’era la sua faccia su quel giornale, perché continuavano a perseguitarlo con gli All Blacks? Lui non era un giocatore di rugby, ne era certo, se lo sentiva, anche se cominciava a dubitare perfino di sé e delle proprie sensazioni.
-Vorrei veramente sapere che ti sta succedendo- disse il barista guardandolo.
-Vorrei saperlo anche io…- rispose l’altro a voce bassa.
-Insomma Sean, se hai perso la memoria perché ti ostini tanto a dire di non essere quello che sei, ossia un rugbista. Perché non ti fidi di nessuno?-
-Io… non lo so. È che è tutto assurdo, anche se ho questo fisico mi sembra ridicolo pensare che io sia chi dicono che sono-
-Cioè chi? Sean Darren?-
-No, quello è il mio nome e lo so perfettamente-
-Bè, allora non ti capisco. Basta che ti guardi intorno per capire che sei lo stesso Sean Darren che gioca nei Blues e nella nazionale neozelandese. Sei lo stesso Sean Darren idolo di centinaia di ragazzi che iniziano a giocare a rugby sperando di diventare come te, lo stesso Sean Darren a cui basterebbe schioccare le dita per ritrovarsi il letto pieno di donne bellissime-
L’altro guardò Nick appena quello schioccò le dita per mimare le sue parole:
-Non credo di essere il tipo da fare una cosa del genere-
-Ah, no di certo. Tu hai occhi solo per una donna-
Sean assunse un’aria sorpresa:
-Ho una fidanzata?-
-No, sei innamorato. Anche se non ho idea di chi, non me lo hai mai fatto capire-
-Fantastico…- sbottò, trovandosi piuttosto infastidito dalla notizia.
Calò uno strano silenzio che Sean era certo di non aver mai fatto calare fra lui e il suo amico Nick, tuttavia non sapeva che altro aggiungere, si era appena reso conto che tutta quella situazione lo stava frustrando e non poco.
Respirò profondamente prima di riprendere parola:
-Quindi tu, che sei l’unico di cui mi ricordo veramente bene, mi stai dicendo che io sono davvero un rugbista?-
L’altro annuì con la testa, energicamente. Sean riprese a parlare:
-E quindi dovrei credere a quello che tutti mi dicono?-
-Se tutti te lo dicono forse dovevi crederci prima che te lo dicessi io-
L’uomo scosse la testa: -Non lo so, non so cosa pensare-
-Senti, posso immaginare che tu sia confuso, ma comportandoti così non risolverai mai niente. Devi ascoltare le persone, farti aiutare-
-È che mi sembra assurdo che io sia un giocatore di rugby. Se davvero ho perso la memoria perché mi hanno fatto solo un placcaggio forse non è lo sport per me-
Nick scoppiò sonoramente a ridere:
-Cazzate! Tu ami il rugby e il placcaggio che ti hanno fatto avrebbe ammazzato perfino un toro ma tu sei ancora vivo e hai solo qualche graffio-
-Qualche graffio?! Non mi ricordo niente come fai a dire che ho solo qualche graffio?-
-Se tu accettassi di ascoltare la gente l’avresti già riacquistata la memoria, invece no. Sei troppo testardo, lo sei sempre stato. Scommetto che te ne stai andando in giro a dire a tutti “Guardate che c’è uno sbaglio”. Scommetto che stai facendo la prima donna come tuo solito-
Sean aprì bocca ma non riuscì a controbattere. Si sentì punto nel vivo perché si rese conto che si stava comportando proprio così. Conosceva Nick molto bene, ora ne aveva la certezza, e se lui gli diceva che effettivamente il suo “lavoro” era quello del rugbista forse aveva ragione. Tuttavia stentava ancora ad esserne sicuro, qualcosa gli impediva di crederci totalmente.
Guardò da un’altra parte e Nick riprese parola:
-Allora? Ho ragione o no?-
Sean alzò lo sguardo e lo guardò negli occhi, poi sorrise:
-Forse. Ho intenzione di farmi tornare la memoria, senza che alcuni mi dicano cose e altri me ne dicano altre, ce la farò da solo-
Il barista alzò un sopracciglio:
-Credi di farcela davvero? Bè, in questo caso ti faccio i miei auguri, ma sai già che ho ragione, che tutti abbiamo ragione sul tuo conto- fece un verso esasperato e a Sean venne da ridere, poi si chinò per prendere qualcosa sotto il bancone.
Posò una birra ghiacciata davanti agli occhi dell’altro uomo e gliela aprì:
-Offre la casa, Sean Darren. Ora prenditi questo maledetto giornale e esci, perché noi saremmo chiusi. Quando poi ti sarai reso conto che ho ragione, dovrai venire da me e chiedermi scusa- ridacchiò.
Sean afferrò la birra ed il giornale e gli strinse la mano con forza, dicendo:
-Ci sto-
Poi uscì dal locale bevendo il primo sorso di quella birra ghiacciata, che sapeva essere della sua marca preferita. L’incontro con Nick gli aveva dato nuove informazioni su quanto già tutti gli andavano dicendo di essere; tuttavia avrebbe veramente cercato le risposte da solo, per evitare di farsi influenzare da altre persone, visto che si sentiva ancora confuso e facilmente manipolabile. 

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Capitolo 3
*** III ***


Seduto sul bordo del marciapiede, proprio di fronte al pub di Nick che aveva appena tirato giù la serranda,  Sean si mise ad analizzare il giornale che l’amico gli aveva dato, cercando di concentrarsi su ciò che c’era scritto nella speranza di trovare delle risposte. Fece scorrere gli occhi sulle parole presenti sotto il titolo, poi sempre più in basso, concentrandosi su qualche sporadico passaggio.
 
“Il giocatore verrà dimesso dall’ospedale questo pomeriggio, dopo essere stato ricoverato per quattro giorni e tenuto sotto osservazione dall’ equipe medica”
 
 Questo lo sapeva perfettamente, che altro c’era? Saltò diverse righe di testo prima di riprendere la lettura.
 
“-Stiamo facendo il possibile per sostenere Darren- dichiara Scott Berry, uno dei maggiori membri del consiglio: -Il nostro impegno è costante e finalizzato al recupero totale del giocatore e della sua memoria-. Alla domanda –Quando potremo rivedere Darren in campo?- Berry risponde: -Questo non possiamo saperlo con assoluta certezza. Il placcaggio che ha subito è stato un duro colpo e dobbiamo tenerlo assolutamente in considerazione. Tuttavia la conseguenza maggiore che ha avuto da quel fallo è stata la perdita della memoria, altro dato che non si può in alcun modo ignorare. Temo che non potremo vederlo in campo nella partita contro gli Springboks di sabato pomeriggio, ma confido che lo rivedremo giocare molto presto-”
 
Rimase ad osservare quelle parole più del previsto: si sentiva confuso. Chi diavolo era questo Scott Berry? Perché diceva che “stavano facendo il possibile per” se lui non aveva incontrato nessun altro, oltre a Samantha, che si era presentato come staff degli All Blacks? Non riusciva a capirlo e fu infastidito da quelle affermazioni. Proprio ora che cominciava a sospettare di essere veramente il Sean Darren di cui tutti andavano cianciando, leggeva parole che lo rendevano più dubbioso di quanto già non fosse. Provò a dare un’occhiata anche al resto dell’articolo, nella speranza di trovare qualche altra informazione utile, ma il testo continuava con descrizioni sugli Springboks, i sudafricani, e sulla partita tanto attesa di sabato pomeriggio, che avrebbe visto le due eterne rivali faccia a faccia ancora una volta.
-Ah, vedo che ti sei deciso ad ascoltarmi-
La voce provenne alle sue spalle e appena lui sollevò lo sguardo per vedere chi gli stava parlando, si trovò davanti Samantha. Lei si sedette accanto a lui, scostandosi i lunghi capelli neri:
-Stai leggendo un giornale e cercando delle risposte- concluse e lo guardò in faccia.
-Chi è Scott Berry?- le chiese senza nemmeno salutarla, sperando di ottenere delle risposte immediate.
La donna fece un verso di stizza prima di rispondergli:
-Uno stronzo-
-Bene- concluse Sean sorpreso dalla reazione di Samantha.
-Perché lo vuoi sapere?- gli chiese lei poco dopo.
L’uomo le passò il giornale e le indicò il punto in cui si parlava di Berry:
-Dice che mi state aiutando, ma a me non sembra, eccezione per te che invece sei fin troppo insistente dato che mi hai seguito fin qui-
Lei lo guardò di sbieco:
-Tu mi avevi portata in questo posto, tempo fa. Conoscendoti sapevo che ti saresti rintanato qui, soprattutto perché non ti ho visto arrivare alle sede degli All Blacks come ti avevo chiesto-
Sean fece spallucce e puntò un dito sull’articolo, spiegazzandone leggermente la carta:
-A giudicare da quello che c’è scritto avete fra le mani un Sean Darren e state facendo il possibile per aiutarlo-
-Sono cazzate. Berry ti ha tagliato fuori, tutto quello che ha detto ai giornali sono solo un mucchio di balle-
-Che intendi dire?-
Lei scosse la testa e restituì il giornale all’uomo prima di rispondere:
-Ti ritengono inutile ora come ora. Dicono che se continui a sostenere di non essere un rugbista allora non ha senso perdere tempo con te. Ti considerano una spesa di soldi superflua e sostengono che se vuoi veramente ricominciare a giocare a rugby allora dovrai essere tu a cercarli- lo guardò negli occhi mentre rispondeva, scandendo accuratamente ogni singola parola.
-Quindi vuoi dire che ha mentito ai giornali?-
Lei annuì con la testa:
-I tifosi vogliono essere rassicurati, Sean. Hanno bisogno di continuare a credere che il loro miglior giocatore tornerà sui campi da gioco con i tutti neri, prima o poi. Il consiglio degli All Blacks non vuole fare brutta figura e deve tranquillizzare gli spettatori, anche mentendo. Tuttavia mi fa incazzare il fatto che non abbiano intenzione di aiutarti, a meno che non sia tu a chiederglielo-
Lui ci pensò un momento:
-Scommetto di essere antipatico a questo Berry-
-Forse, se lo sei io non ne sono al corrente-
Sean provò a ricordare qualcosa a riguardo ma non gli venne in mente niente. Samantha riprese parola prima di lui:
-Senti, se vuoi che ti aiutino devi venire con me alla sede degli All Blacks, non potranno dirti di no dopo aver varcato la soglia-
Lui la guardò sorpreso:
-Perché dovrei farlo? A giudicare da quello che mi hai detto ai vostri capi non frega un cazzo di me-
-No, solo a quello stronzo di Berry non importa niente! Il problema è che è lui a portare avanti tutto-
-Allora cosa ti fa pensare che se vengo con te improvvisamente gli possa importare qualcosa?-
-Perché hanno bisogno di te-
-Samantha, ascoltami, non so perché stai insistendo tanto, ma voglio sistemare questa cosa da solo. Voglio essere io a scoprire cosa mi è successo, a ricordarmi del mio passato, di quello che faccio, eccetera-
-Sean, sto cercando di aiutarti. È inutile che fai finta di niente, se vuoi trovare delle risposte devi tornare in squadra e se non vieni con me non riuscirai mai a tornare in campo, non hai scelta-
-Sì che ce l’ho la scelta. Trovare le risposte da solo e poi venire alla sede degli All Blacks, se veramente sono un giocatore degli All Blacks, a chiedere di tornare in squadra. Che cosa ti fa credere che se venissi con te, Berry non tenterebbe di fermarmi?-
Lei assunse un’espressione sorpresa:
-E perché dovrebbe?-
-Non lo so, magari mi odia davvero molto- disse lui con disinvoltura.
Samantha fece una risata nervosa prima di riprendere parola:
-Non ha senso. Sto cercando di aiutarti, perché non lo vuoi capire?-
-No, questo l’ho capito, anche troppo bene, credimi. Ma quello che non capisco è perché insisti tanto anche dopo che ti ho detto che sono intenzionato a risolvere la faccenda da solo. Tanto se Berry ha detto che sono fuori per la partita contro gli Springboks direi che non c’è fretta, sbaglio?-
Si voltò a guardare la donna che di tutta risposta resse al suo sguardo. Quest’ultima respirò profondamente prima di rispondergli:
-Sono in debito con te, per questo sto insistendo tanto-
La sua affermazione colse alla sprovvista Sean che non aveva la minima idea di che tipo di debito parlasse Samantha.
-In debito per cosa, scusa?- le chiese.
Lei abbassò lo sguardo e accennò un sorriso, che parve più malinconico che divertito:
-Non ricordi neanche questo, vero?- domandò all’uomo alzando lo sguardo, si era improvvisamente rabbuiata.
Sean si sentì attraversare da un senso di colpa, incapace di afferrare quello che stava succedendo. Non ricordava nemmeno cosa lo legasse a quella donna, non ricordava niente che ruotasse intorno a lei prima del loro incontro in ospedale, giorni fa, e ne fu dispiaciuto, perché continuava a sentire di essere unito a lei da qualcosa.
-Mi dispiace- disse poi in un sussurro, sperando di non aver in alcun modo ferito i suoi sentimenti a causa della sua irritante amnesia e del suo fastidioso carattere.
Samantha rimase in silenzio per un po’ prima di strofinare nervosamente le mani fra loro, in cerca delle parole più adatte per rispondere a Sean e cercare di ricordargli qualcosa.
Osservò la strada di fronte a lei mentre gli rispondeva:
-Sei mesi fa mio fratello è morto in un incidente d’auto e tu sei l’unico che ha sempre continuato a starmi accanto- la sua voce era bassa, come se stesse per spezzarsi da un momento all’altro.
L’uomo non riuscì a credere a quello che le aveva appena rivelato la donna, ma si sentì uno stupido per non ricordarsi una cosa di tale importanza e fu profondamente dispiaciuto di non poterlo fare.
-Non te ne ricordi?- gli chiese lei dopo svariati attimi di silenzio da parte di entrambi.
Lui scosse la testa senza guardarla negli occhi. Avrebbe voluto ricordarselo per concludere lì l’argomento, evitando di far tornare alla mente brutti momenti a Samantha, ma si rese conto che non rammentava assolutamente niente di quella storia.
-Mi dispiace- disse per la seconda volta in breve tempo.
Lei si voltò a guardarlo, ma questa volta non incrociò il suo sguardo:
-Bè, è la verità. Tu mi sei stato accanto più di chiunque altro durante quel periodo, ogni singolo giorno. Mi hai aiutata quando ne avevo più bisogno e te ne sono grata. È per questo che mi sento in debito con te-
Sean alzò lo sguardo:
-Non credo di averlo fatto perché volessi qualcosa in cambio-
Lei gli sorrise:
-Lo so anche io, ma è più forte di me-
Calò nuovamente il silenzio, Sean si voltò ad osservare il profilo raffinato di Samantha, intenta a vagare con il pensiero osservando la strada.
-Come si chiamava?- chiese infine lui, sperando di ricordarsene.
-Simon- gli rispose la donna, caricando di dolcezza il suo nome, poi continuò:
-Giocava anche lui a rugby, nella nazionale under 21. Tu eri il suo idolo. Diceva sempre che non vedeva l’ora di entrare nella nazionale maggiore, se mai ci fosse riuscito, per poter finalmente giocare fianco a fianco con Sean Darren. Lo conoscevi, abbiamo parlato di lui più volte, tempo addietro…-
Anche sentendola parlare, Sean si rese conto che il nome di Simon Barkley non gli diceva niente e la cosa lo fece sentire una persona orrenda. Perché non rammentava niente di lui? Niente di quello che ruotava attorno al rugby, attorno agli All Blacks? Perché gli stava succedendo tutto quello?
Guardò nella direzione di Samantha e vide che aveva lo sguardo basso, perso sulle sue scarpe, teneva una mano stretta a pugno sulla gamba; l’uomo si era accorto che mentre lei gli parlava del fratello la sua voce aveva cominciato a tremare, sopraffatta dalle emozioni. Decise di posare delicatamente la sua mano su quella della donna; non appena lo fece lei alzò lo sguardo e lo guardò. Accadde tutto in un attimo, i suoi occhi lo trafissero come uno sparo e si rese conto che la donna di cui parlava Nick, quella di cui lui era innamorato, non era altri che Samantha.
 
Quando finalmente si decise a rincasare, Sean si rese conto che sapeva perfettamente dove fosse casa sua e che colore avessero gli interni: celeste. Quel pomeriggio aveva ottenuto delle informazioni che lo avevano in qualche modo spronato a credere a tutti quelli che andavano dicendo che lui era un rugbista, doveva solo trovare un modo per confermare o smentire quelle parole a se stesso. Non si trattava solo di quello, aveva anche capito per quale motivo aveva trovato Samantha famigliare la prima volta che l’aveva vista, o meglio rivista, in ospedale giorni prima e la scoperto lo aveva lasciato alquanto di stucco; tuttavia lo infastidiva notevolmente il fatto che, anche se aveva capito di provare dei sentimenti per lei, non ricordava perché li provasse.
Si infilò sotto le coperte senza cenare, sentendosi più stanco del dovuto dopo quella giornata quasi inconcludente. Samantha aveva accettato di lasciarlo proseguire nella sua ricerca della memoria da solo, convinta però che non avrebbe mai trovato le risposte, ma lui sapeva esattamente cosa doveva fare e con chi doveva parlare. Aveva finalmente trovato un nome che poteva aiutarlo più di tutti gli altri, quello dell’uomo che lo aveva placcato costringendolo ad inseguire i suoi ricordi: Paul McBrian. Sarebbe andato a cercarlo e gli avrebbe parlato.
Ma prima, c’era una cosa che doveva assolutamente fare.

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Capitolo 4
*** IV ***


Il mattino seguente Sean si svegliò presto, in preda ad una gran fame. Fece colazione con quello che riuscì a trovare nella sua dispensa, evitando la frutta che per via della sua assenza era più marcia che altro. Si scoprì piacevolmente sorpreso dopo essersi reso conto che non aveva dimenticato gli avvenimenti del giorno prima, significava che ciò che gli tornava in mente, in mente gli restava.
Mentre era sotto la doccia ne approfittò per stendere il programma della giornata. I responsabili della nazionale neozelandese lo avevano escluso a priori dalla partita contro gli Springboks, questo significava che andare ad incontrare Paul McBrian quel giorno o quello successivo era irrilevante; anche se si fosse ricordato di essere davvero il giocatore di rugby che, a quanto pareva, era, non avrebbe comunque potuto giocare la partita di sabato. Avrebbe utilizzato quella mattina per rammentarsi di una persona.
Uscì di casa sentendosi fresco e riposato e prese la sua bicicletta. Sapeva perfettamente che era meglio servirsi di quel mezzo per muoversi nel caos di Auckland, inoltre era ottima per mantenersi in forma e priva di spese di manutenzione. Gli venne da ridere pensandoci, mentre vi saliva sopra e si avviava fuori dal vialetto di casa.
Il posto che doveva raggiungere era piuttosto distante da casa sua, si ricordava come arrivarci ma ne aveva avuto la conferma grazie alla mappa sul suo smartphone. Gli ci volle quasi mezz’ora per raggiungerlo, anche pedalando a pieno regime, ma il luogo era situato appena fuori città, lontano dalla costa.
Scese dalla bicicletta e l’appoggiò al grande muro in pietra che cingeva quel luogo: il cimitero di Auckland.
Non era di certo il posto più bello e allegro del mondo da cui cominciare una ricerca, ma aveva deciso di andarci in cerca della tomba di Simon Barkley, nella più totale speranza di ricordarsi del fratello di Samantha, dato che non riusciva a sopportare di non rammentare niente di lui.
Il problema maggiore tuttavia era quello di riuscire a trovare la lapide. Nella grande distesa che era il parco del cimitero le tombe non si riuscivano a contare, tanto erano numerose, e lui non aveva idea di dove poter andare. Pensò anche di chiedere aiuto al custode, ma si rese conto che era improbabile che un singolo uomo ricordasse la collocazione esatta di tutti i defunti lì presenti. Sospirò decidendo di incamminarsi, anche se vagare senza meta non era la cosa che più gli andava di fare, magari qualche vecchietta lo avrebbe scambiato per un ladro di cadaveri.
Non sapeva da quanto tempo stava camminando senza la più pallida idea di dove andare, ma venne attraversato da un ricordo rapido come una folgorazione. Accelerò il passo rendendosi conto che finalmente sapeva dove dirigersi e arrivò a destinazione in pochissimi istanti. 
Una lapide grigio chiaro, del tutto identica a quelle che la circondavano, con il nome scritto a lettere dorate: Simon Barkley. Analizzò la foto, in cui un ragazzetto sorrideva sinceramente all’obiettivo, con la barba incolta di un paio di giorni e gli stessi occhi di Samantha. Indossava la maglia degli All Blacks il giorno in cui fu scattata la foto, Sean la riconobbe dalla felce argentata che sbucava appena, sul limite della cornice.
Ripeté il suo nome un paio di volte mentre continuava a guardare la sua foto, sperando di ricordarsi di lui, di qualcosa che lo riguardasse. Poi, come avvolto da una strana e anomala nebbia, comparve un ricordo.
 
-Cavolo, Sean Darren! È un onore incontrarti, dico davvero- Simon aveva una voce entusiasta quando aveva pronunciato quelle parole, allungando la mano a lui che gliela aveva stretta sorridendo.
-Un giorno spero di poter giocare nella tua stessa squadra-
-Non vedo perché no. Hai del talento, credimi. Secondo me accadrà molto presto- aveva concluso Sean con quelle parole e si era allontanato per cominciare l’allenamento con i compagni della nazionale maggiore.
 
Poi non gli venne in mente altro, ma quello era sufficiente per capire che Samantha non gli aveva mentito, mai, su niente.  Forse era ora che si decidesse a credere realmente a quello che gli andavano dicendo, era ora che accettasse di farsi aiutare. Aiutare da chi, però? Berry lo odiava, di questo ormai era certo e di sicuro non lo avrebbe considerato anche una volta tornato con gli All Blacks, la sfida contro il Sudafrica era più importante perfino di lui. D’altro canto Sean non ne voleva sapere di rimanere senza ricordi fino a data da destinarsi, perciò optò per l’opzione migliore, ossia ricercare la memoria da solo e poi farsi vivo davanti al suo coach con le idee ben chiare, opzione che era anche la stessa che aveva deciso di seguire fin dall’inizio. Nuovamente l’unica soluzione possibile era rivolgersi a Paul McBrian anche se prima bisognava trovarlo, cosa assai complicata in quella città e nelle sue condizioni.  Ma prima ancora di McBrian, Sean voleva parlare con qualcuno che gli potesse dare altre informazioni su Simon, perché sentiva di voler sapere altre cose su quel ragazzo.
 
Impiegò tutto il resto della mattina per raccogliere informazioni su Simon e sul suo fatale incidente, avvenuto per colpa di un ubriaco al volante, che non era lui. Cercare notizie riguardo alla sua vita si rivelò più complicato del previsto e Sean trovava insopportabile quella situazione: se non avesse perso la memoria avrebbe risparmiato parecchio tempo. Alla fine però riuscì a scoprire il corso che seguiva all’università di Auckland, in cui era iscritto da un anno.
Ed era proprio lì che era diretto Sean, in sella alla sua bicicletta.
Grazie a Facebook aveva rintracciato un suo compagno di corso, che a quanto pareva era anche un suo caro amico ed era intenzionato a parlare con lui per cercare notizie aggiuntive su Simon. Non aveva idea del perché fosse così smanioso di ottenere informazioni su quel ragazzo, le voleva e basta.
Arrivò alla facoltà di scienze della Auckland University e raggiunse il centralino.
Spiegò rapidamente che aveva bisogno di parlare con Matt Williams e che voleva incontrarlo, se possibile. La donna, che non aveva smesso un secondo di divorarlo con gli occhi, acconsentì spiegandogli dove trovarlo. Lui era sicuramente riuscito così bene nel suo intento solo grazie ai suoi centoquattro chili di muscoli, lo sapeva, ma la cosa lo fece comunque ghignare di gusto.
Cercò fra la gente chiedendo a chiunque gli passasse accanto se era Matt Williams e, in caso contrario, se sapesse dove trovarlo. Continuò per un po’, finché una ragazza non gli indicò un giovane biondo e spettinato con un paio di occhiali da sole calati sul naso, dall’altra parte del cortile. Lo raggiunse a grandi passi finché non gli fu davanti.
-Matt?- gli chiese Sean senza tanti preamboli.
L’altro lo guardò e sul suo viso si disegnò un’espressione incredula:
-Oh mio, Dio!- esclamò portandosi le mani alla bocca:
-Ma tu sei Sean Darren! Cazzo, non ci credo!- si voltò in cerca di sostegno dalle persone che gli passavano accanto ma nessuno parve fargli caso.
Sean alzò un sopracciglio aspettando che l’altro si calmasse.
-È vero quello che si dice?- domandò immediatamente Matt, ancora eccitato.
-Cioè?- chiese Sean diffidente.
-Che hai perso la memoria-
-Sì, è vero. Ma credo di essere sulla buona strada per farmela tornare-
-Pazzesco, non mi era mai successa una cosa del genere, voglio dire, di imbattermi in qualcuno che non ricordasse più nulla. E poi tu, cavolo, sei Sean Darren, il rugbista, se non si è capito io amo il rugby e, wow, è assurdo- ricominciò a parlare a sproposito.
Quando finalmente Matt smise di pronunciare frasi sconclusionate l’altro prese parola:
-Vorrei parlarti se possibile-
-Assurdo, dici davvero?-
Sean si limitò ad annuire con la testa.
-Ok, spara, che cosa vuoi sapere?- chiese infine il ragazzo.
-Vorrei che tu mi parlassi un po’ di Simon-
Matt si rabbuiò immediatamente a sentire il nome dell’amico:
-Barkley?- chiese più per temporeggiare che per avere una conferma.
Nuovamente Sean annuì con la testa.
Il ragazzo più giovane abbassò la testa e sospirò prima di riprendere parola:
-D’accordo. Esattamente però cosa vuoi che ti dica?-
-Qualunque cosa lo riguarda-
-Non ricordi nemmeno lui?-
Sean scosse la testa, imbarazzato:
-Qualcosa mi ricordo. So che giocava nella nazionale under 21, so che ci conoscevamo, so cosa gli è successo-
-Bè, allora sai già abbastanza cose, ti pare?- chiese l’altro, era come se volesse evitare in alcun modo di toccare l’argomento. Sei mesi non erano sufficienti per superare la morte di un amico.
-No, non ne so abbastanza- attaccò Sean che cominciava a spazientirsi: -Sono cose che chiunque può leggere da qualche parte, non è per sapere quelle cose che sono venuto a cercarti. Sono sicuro che Simon fosse una persone incredibile-
-Lo era- lo interruppe Matt, lasciando nuovamente la parola all’altro:
-Appunto e tu non hai idea di quanto mi infastidisca non poter ricordare niente di lui-
Matt rimase immobile a guardare l’altro, poi disse:
-Ok, ma andiamo a sederci da qualche parte-
 
Prima di sedersi su una delle panchine del campus, Sean ne approfittò per prendersi un caffè. Rimase in silenzio ad ascoltare quello che Matt aveva da dirgli riguardo all’amico, sorseggiando la bevanda. Questo non gli parlò mai del suo ingresso nella nazionale neozelandese, ne tantomeno dell’incidente che gli costò la vita. Gli parlò semplicemente di lui, di ciò che gli piaceva fare, della musica che gli piaceva ascoltare, della via che aveva scelto di seguire. Sean cercò di assimilare ogni singola parola pronunciata dal ragazzo, cercando il più possibile di collegarvi i suoi pensieri, i suoi ricordi, ma non ci riuscì. Si sentì profondamente frustrato nel rendersi conto che anche se ora sapeva di conoscere Simon, non ricordava molto di lui.
Matt smise di parlare, senza sapere che altro aggiungere:
-Spero di esserti stato d’aiuto- concluse.
Sean annuì con la testa:
-Sì, lo sei stato. Ti ringrazio-
Calò un momento di silenzio, nuovamente riempito dalla voce del ragazzo più giovane:
-Posso farti una domanda?-
-Del tipo?-
-Perché sei venuto fin qui per chiedermi di Simon? Voglio dire, non è prioritaria la tua ricerca della memoria? Ho letto sui giornali che…-
Sean lo interruppe:
-So cosa dicono i giornali, ma faresti meglio a non crederci. Se sono venuto fin qui è perché per me era importante cercare in un qualche modo di ricordarmi di Simon-
-Perché?-
L’altro scosse la testa:
-Non lo so. Sentivo solo di volerlo fare-
Matt rimase perplesso a guardarlo, poi fece spallucce:
-D’accordo, come vuoi tu, signor Darren. Ora che pensi di fare?-
-Cerco McBrian-
-Paul McBrian? Quello che ti ha placcato?-
Sean si alzò dalla panchina e si posizionò davanti al giovane in tutta la sua statura:
-Proprio lui-
-E poi che fai?-
-Ci parlo. Di’ un po’, mi stai facendo il terzo grado?-
-No, affatto. Solo vorrei sapere come può comportarsi  uno in una situazione del genere, tutto qui-
L’altro non disse niente e Matt riprese a parlare:
-Se Simon fosse qui ora starebbe sicuramente facendo il possibile per aiutarti, tu eri il suo idolo-
-Immagino- si limitò a dire Sean, che poi aggiunse: -Credo sia anche per questo che voglio darmi una mossa a ritrovare la memoria-
-Per cosa, scusa?-
-Per Simon. Hai detto che se lui fosse qui cercherebbe di aiutarmi, no? E io voglio ritrovare la mia memoria per lui-
Matt esplose in un sorriso:
-E per te no?-
-Anche-
Sean alzò una mano in segno di saluto:
-Ora devo andare, ci vediamo prossimamente, ragazzo. Spero sarai presente per la partita contro gli Springboks-
-Cosa? Ma è fra due giorni, credi davvero di riuscire a giocare?-
-Non vedo perché no- rispose Darren, rendendosi conto che giocare, ora, era quello che più voleva fare.
-E come pensi di fare?-
-Hei, non sono infortunato, semplicemente non mi ricordo niente, sai che roba. Parlerò con McBrian e poi sono sicuro che tutto mi tornerà chiarissimo-
-Ok, ma McBrian…- venne interrotto.
-Non preoccuparti, ho tutto sotto controllo, credo. Ora devo andare a parlare con una persona. Ti ringrazio di tutto Matt, dico davvero-
Il giovane alzò le mani e non disse nulla, limitandosi a sorridere.
Dopo averlo salutato, Sean si diresse verso l’ingresso del campus per recuperare la sua bici, fu allora che un altro piccolo frammento di passato gli tornò in mente.
 
-Sai, Sean, se c’è una cosa che invidio veramente di te è la tua determinazione- gli aveva detto Simon, un giorno, fuori dallo stadio di Auckland.
-Non è determinazione, chiamala pure testardaggine-
Il ragazzo era scoppiato a ridere e aveva ripreso parola subito:
-Chiamala come vuoi, ma è una cosa che mi piace molto di te-
 
Darren sorrise ricordando quel frangente. Si rese conto che voleva tornare a ricordare più di ogni altra cosa al mondo e c’era un solo uomo che poteva aiutarlo in quel momento. Salì sulla sua bicicletta e si diresse in fretta verso il centro della città.
 
 

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Capitolo 5
*** V ***


Sean arrivò al pub di Nick verso le tre del pomeriggio. Si era fermato a prendere qualcosa da mangiare lungo la strada ma non aveva perso più tempo del dovuto, aveva fretta di ottenere nuove informazioni. Dopo aver parlato con Matt riguardo a Simon si era deciso come non mai a riacquistare in fretta la memoria e a sorprendere tutti tornando in campo sabato, contro gli Springboks. Gli parve assurdo come tutto fosse cambiato in brevissimo tempo.
Prima era convinto di non essere un rugbista, poiché non ne era sicuro e non se ne ricordava, poi l’incontro con Samantha gli aveva fatto capire che invece lui era proprio un giocatore degli All Blacks, ma era comunque convinto di non potere e volere giocare la partita contro i sudafricani. Ora, invece, voleva più che mai scendere in campo per partecipare a quel match e per farlo doveva ricordarsi tutto quanto il più in fretta possibile.
La saracinesca leggermente abbassata del pub non gli impedì di entrare non appena ebbe lasciato la sua bicicletta legata ad un palo lì accanto.
Appena varcò la soglia il famigliare volto di Nick si esibì in un’espressione corrucciata:
-Di’ un po’ Darren, ma tu il cartello “Siamo chiusi” non lo caghi proprio mai?-
A Sean venne da ridere a quelle parole e non ne face mistero. Si avvicinò al bancone e si sedette, in attesa che l’amico riprendesse parola.
-Allora cosa ci fai qui?-
Il rugbista alzò le mani:
-Avevi ragione tu-
Nick capì immediatamente a cosa si riferisse l’altro e lo guardò con un’espressione vincente sul viso, affermando:
-Ah, alla fine allora ti tocca ammettere la verità! Di chi è il merito? Della tua amata?-
L’altro alzò gli occhi e scosse la testa:
-Di Simon-
-Simon?-
-Sì, Barkley, hai presente?-
Nick annuì tristemente con la testa:
-Sì, ho presente quel ragazzo. Com’è possibile che lui ti abbia convinto?-
-Mi è tornato alla mente qualche sporadico momento che lo riguardava e che mi ha convinto del fatto che sono un rugbista-
-E come è successo?-
-Sono andato a parlare con un suo amico, per cercare di ricordarmi di lui-
-Come mai lo hai fatto?-
Sean non disse a Nick che aveva sentito di doverlo fare per Samantha, si limitò a rispondergli:
-Non lo so, solo sentivo di doverlo fare-
-Ho capito. Quindi ora che hai intenzione di fare?-
-Voglio parlare con Paul McBrian-
Il barista scoppiò a ridere:
-Parli sul serio? Vuoi andare direttamente nella tana del lupo, Darren?-
-Se questo significa riacquistare completamente la mia memoria, allora sì-
Nick lo guardò di traverso:
-Aspetta un secondo, mi stai dicendo che anche se ora sai di essere un rugbista, non ne sei convinto?-
-Non totalmente, in effetti-
-Ricordi almeno le regole?-
-Ovviamente no- rispose Sean senza esitazione.
-E il tuo ruolo? Quello lo sai?-
-So di essere una terza linea-
-Cosa fa una terza linea?- chiese l’uomo biondo incrociando le braccia:
-Non…non lo so, forse ha a che vedere con l’essere terzi….da qualche parte-
Nick si portò le mani in testa:
-Non posso crederci, ancora non ricordi niente!-
-Te l’ho detto, Nick, niente! Ma devo parlare con McBrian se voglio risolvere la situazione e devo farlo in fretta se sabato voglio giocare-
-Cosa vuoi fare sabato?- esclamò incredibilmente sorpreso l’altro.
-Voglio giocare-
-Devi essere impazzito-
-Probabile, ma mi serve il tuo aiuto-
-Per fare che?- chiese perplesso.
-Devo sapere dove si trova McBrian in modo che possa parlare con lui, sono sicuro che se lo incontro ricorderò tutto-
Nick fece un verso indecifrabile e guardò Sean perplesso:
-Ci credo che non ricordi niente- disse infine.
-Che intendi dire?- domandò l’altro.
Il primo sospirò ed estrasse un giornale da una massa di quotidiani abbandonata su un tavolo, la data riportata si riferiva a tre giorni prima.
-Cerchiamo di ordinare le cose- esordì.
Sean annuì e rimase in ascolto:
-Il placcaggio che McBrian ti ha fatto è avvenuto durante la partita All Blacks- Australia, mi segui?-
-Sì-
-Fai un po’ tu i conti-
-Cioè?-
Nick sospirò ancora una volta. Non avrebbe mai immaginato di trovarsi in quella situazione, di solito era Sean a correggere i suoi errori riguardanti il mondo della palla ovale:
-McBrian è australiano, Sean, vive in Australia!- esclamò infine, quasi esasperato.
Darren rimase sorpreso e confuso per un momento, poi capì a cosa si riferisse l’amico. Ora come faceva?
-Mi stai dicendo che se voglio parlare con lui devo andare fino in Australia?-
L’altro fece spallucce:
-A quanto pare-
-Cosa? No, non è possibile e io come faccio? Sento che se non parlo con lui non mi ricorderò mai niente!-
Il gestore del pub rimase a guardare l’uomo che imprecava e si agitava spettinandosi i capelli castani, poi decise di svuotare il sacco e scoppiò a ridere.
-Cosa ci trovi di divertente?- chiese Sean scorbutico.
-Su, rilassati, ti stavo solo prendendo in giro!-
-Come?-
Nick annuì con la testa, energicamente:
-Tu hai un gran culo Darren, sicuramente. McBrian è australiano, certo, ma si trova ancora ad Auckland-
-Che vuoi dire?- chiese lui, sempre più confuso.
Il gestore del locale appoggiò entrambe le mani al bancone dietro il quale si trovava e guardò Sean negli occhi:
-McBrian verrà giudicato dalla commissione di Auckland venerdì pomeriggio-
-Giudicato per cosa?-
L’altro sospirò nuovamente, sempre più infastidito dalla situazione:
-È davvero orrendo vedere che non ricordi proprio nulla!- esclamò.
Afferrò un altro giornale dalla pila e lo aprì alla pagina che più gli interessava, lesse rapidamente alcuni paragrafi fino a quello giusto, poi indicò un punto con un gesto e riprese a parlare:
-Dunque, ascoltami bene perché non lo ripeterò-
Sean annuì.
-Il placcaggio che Paul McBrian ti ha fatto gli ha regalato un bel cartellino rosso, diretto. Era un placcaggio proibito dal regolamento, oltre che molto pericoloso. Ciò significa che, come vogliono le regole, lui verrà giudicato da una commissione e sarà espulso dai giochi per un po’-
Incrociò le braccia:
-Non so per quanto verrà espulso, ma sicuramente per almeno quattro, cinque mesi-
-Per questo si trova ancora in città?- chiese Sean, che cominciava a capirci qualcosa.
Nick annuì con la testa e l’altro riprese parola:
-Quindi mi basta sapere in quale albergo alloggia, poi potrò incontrarlo- stava ritrovando gran parte dell’ottimismo che aveva perso nei minuti precedenti. Alzò gli occhi sull’amico e gli disse:
-Tu sai dove si trova?-
Questo nuovamente fece sì con la testa:
-Per tua fortuna i giornalisti hanno poco rispetto per la privacy della gente- estrasse l’ennesimo quotidiano dalla pila e lo analizzò con assoluta attenzione, infine puntò ancora una volta il dito su una sola parola. Sean si avvicinò e la lesse:
-Alloggia all’Hilton-
-Esattamente, ora ci sono solo lui e pochi altri membri dello staff australiano, rimasti in attesa della sentenza-
Sul viso di Darren si fece largo un gigantesco sorriso:
-È fatta!- esclamò.
-Fatta che cosa, Sean? Ti rendi conto di non ricordarti le regole basilari del tuo sport? Pensi sul serio che soltanto vedendo McBrian in faccia allora tutto ti torni chiaro?- domandò Nick preoccupato.
-Non ho altra scelta, non so che altro potrei fare. Fidati di me, andrà tutto come deve andare-
Non aspettò nessuna replica da parte del gestore, corse fuori dal locale ringraziando Nick con un urlo.
 
Arrivò all’Hilton impiegandoci più tempo del previsto. Sperò con tutto se stesso di incontrare McBrian senza altre complicazioni. Da quando si era deciso a giocare la partita di sabato, ossia da quella mattina, si era reso conto che non poteva assolutamente sprecare altro tempo. Tuttavia sentiva davvero che una volta incontrato il giocatore australiano tutto sarebbe stato in discesa, anche se non riusciva a spiegarsi per quale motivo avesse quella sensazione.
Entrò nella hall e si diresse a grandi passi verso la reception, dietro la quale un giovanotto impomatato e ben vestito stava lavorando a computer. Questo alzò gli occhi non appena Sean si fermò:
-Benvenuto all’Hilton, signore, posso fare qualcosa per lei?- gli chiese in tono eccessivamente educato.
-Sì, per favore, vorrei parlare con Paul McBrian-
Il giovane afferrò il ricevitore:
-Solo un momento- disse e cominciò a digitare un numero. Sollevò gli occhi su Sean e domandò:
-Lei è?-
-Sean Darren-
Il giovane annuì e prese parola, stavolta rivolto al ricevitore:
-Signor McBrian scusi il disturbo, c’è qui Sean Darren che chiede di parlare con lei-
Pochi istanti e il ragazzo fece un cenno con la testa per poi ringraziare e salutare l’uomo al telefono.
-Può salire, stanza 214, l’ascensore è da quella parte- fece, indicando un punto.
Darren lo ringraziò e si diresse in gran fretta alle scale, che salì due a due.
Più si avvicinava alla stanza più sentiva la sua ansia crescere. Non gli era ancora accaduto, da quando si era risvegliato in ospedale, di provare una tale preoccupazione, eppure sentiva che l’incontro con quell’uomo era di importanza fondamentale per avere certezze, o smentite, su quello che gli era successo.
Lesse il numero 214 impresso sulla porta e si fermò. Respirò a fondo prima di bussare e, come un flash, gli tornò alla mente un piccolo frangente passato.
 
Il respiro gli si condensava ogniqualvolta usciva dalla sua bocca, in quelle terre per lui così fredde del nord Europa.
 
Scosse la testa sentendosi sotto pressione come non mai, come si sentiva solo prima di scendere in campo o, almeno, così credeva.
Si decise a bussare alla porta per evitare di sprecare tempo inutilmente. Passò qualche secondo prima che la porta si aprì. Sean si trovò davanti ad uomo poco più basso di lui, massiccio e dalle spalle larghe; i capelli neri erano freschi di rasatura e gli occhi scuri sembravano non provare alcuna emozione.
Darren fece per dire qualcosa ma vedendo quell’uomo la sua mente lo riportò indietro.
 
Aveva il fiato corto e le gambe stanche, ma ancora tanta voglia di giocare. La palla era stretta fra le sue mani, come se fosse stata la cosa più preziosa che avesse; doveva difenderla, a qualunque costo. Poi fra le maglie giallo-verdi era sbucato lui, Paul McBrian, a tutta velocità. Il contatto era stato tremendo, la palla era sfuggita alla sua presa mentre veniva portato in alto dal pilone avversario. Il cielo si era poi allontanato di colpo, fra le urla della gente e dei suoi compagni di squadra. La sua schiena aveva colpito con forza il prato rovinato dalle mischie precedenti, i suoi occhi avevano guardato fissi in quelli di McBrian. Infine la sua testa aveva colpito l’erba, il calore delle prime gocce di sangue aveva cominciato ad affiorare e tutto era diventato nero. 

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Capitolo 6
*** VI ***


Sean cercò di riprendersi il più in fretta possibile dopo essersi estraniato ripensando a quell’incontro con Paul McBrian. Non si era sbagliato, si era realmente ricordato di quell’uomo e di quello che era esattamente successo fra loro due, il giorno dell’incidente, ma non fu abbastanza, perché non gli tornò alla mente altro.
-Darren. Devo ammettere che vederti qui mi ha piuttosto sorpreso-
Aveva una voce bassa e un tona grave che pareva minaccioso per natura.
-Volevo solo parlarti di quello che è successo- esordì Sean, senza sapere esattamente da che parte cominciare.
McBrian scattò sulla difensiva, Sean lo notò dal mutamento di espressione:
-Senti, non ho nessuna intenzione di parlare dell’accaduto. Domani pomeriggio mi giudicheranno per quel fallo e sarò sicuramente espulso per un bel po’, perché non dovrebbe bastarti?-
L’altro cominciò a fare segni con le mani:
-No, no, aspetta non intendevo questo! Ok, sono qui perché voglio parlare con te dell’incidente, ma non voglio assolutamente accusarti di niente. Ho bisogno del tuo aiuto-
L’espressione di Paul cambiò nuovamente, divenendo sorpresa:
-In che senso ti serve il mio aiuto?-
-Per cercare di ritrovare la memoria-
McBrian rimase fermo ad osservare Sean per svariati secondi, poi si scostò dall’ingresso e lo invitò ad entrare.
Appena Sean fu dentro la suite e la porta venne chiusa, l’australiano riprese parola:
-Allora è vero quello che scrivono i giornali…-
-Sei la terza persona che mi ripete la stessa cosa. Sì, è vero. Ecco perché sono qui-
-E come pensi che io possa aiutarti?-
Darren fece spallucce:
-Non lo so. Ma intento mi è bastato rivederti per ricordare il placcaggio che mi hai fatto-
-Solo quello? Nient’altro?-
Sean scosse la testa:
-Ora che mi ci fai riflettere… purtroppo no-
Paul McBrian si guardò in giro, si portò le mani in testa e disse:
-Non sono sicuro di poterti aiutare oltre, allora. A meno che tu non fossi venuto qui solo per ricordarti quello che è successo nel momento del nostro scontro-
L’altro scosse nuovamente la testa, leggermente deluso:
-No, non solo, almeno. Non ricordo più niente di tutto quello che ruota attorno al rugby, non ricordo le regole, non ricordo il campionato, ricordo a malapena i compagni di squadra-
-Non ricordi le regole?- esclamò sorpreso l’australiano.
-Purtroppo è così. Speravo che incontrandoti mi sarebbe tornato tutto più chiaro, ma a parte quel poco che mi è tornato in mente prima non ricordo altro e, pensandoci ora, ammetto che è frustrante-
Si sedette istintivamente sul letto e si passò le mani sul viso:
-E pensare che volevo giocare sabato…-
Paul non disse niente, ma si avvicinò a lui:
-Se non hai idea di quali sono le regole come puoi sperare di giocare dopodomani?-
-Non lo so. Il problema principale è che non so che altro fare, a chi altri rivolgermi-
-E la tua squadra? Hai pensato ad andare a parlare con loro?-
Sean fece di no la testa:
-Finché c’è il campionato in corso Berry non mi considererà mai e io non voglio rimanere senza memoria per tutto questo tempo-
Dopo altri momenti di silenzio, in cui Darren si domandava che altro avrebbe potuto fare ora che si era reso conto che il suo ultimo piano aveva ottenuto scarsi risultati, McBrian disse:
-Forse so come aiutarti-
Gli allungò una piccola borsa nera, con sopra impresso un canguro dorato e la scritta Wallabies:
-Il pallone è l’unica cosa che può esserti utile. Se non ricordi niente che ruota attorno al rugby come sport, non devi parlare con le persone, devi giocare-
Quando Sean alzò gli occhi sul giocatore notò che lo stava guardando con aria di sfida, come se volesse metterlo alla prova. Afferrò la borsa e vi guardò dentro, riconoscendo la forma ovale di quel pallone consumato dal tempo, dalla terra e dai calci.
-Spero ti possa aiutare e se sabato sarai in campo spero che me ne darai in parte merito-
Darren si alzò:
-Posso prenderla?-
-Devi prenderla, noi australiani giocheremo ancora contro voi neozelandesi e mi dispiacerebbe molto sapere che Sean Darren è assente per causa mia-
All’altro venne da ridere e ringraziò McBrian con un gesto del capo che si trasformò immediatamente in un abbraccio da compagni di squadra.
 
Fermo al centro del prato, un campo da gioco poco distante dalla sua casa, in cui i ragazzini si ritrovavano solo a tarda sera per qualche tiro, Sean Darren respirava profondamente, tenendo ancora fra le mani la piccola borsa nera con la scritta Wallabies, ossia il pallone che Paul McBrian gli aveva appena dato. Erano da poco passate le sei del pomeriggio, in cerca del suo passato Sean aveva deciso di seguire il consiglio di McBrian subito, cioè prendere in mano un pallone e tornare a giocare, correre su un prato e provare a ricordare. Tuttavia si sentiva sottopressione, o forse era solo preoccupato di vedere un altro tentativo fallire miseramente, come del resto era avvenuto per i precedenti.
Teneva gli occhi chiusi quando sentì qualcosa sul braccio, probabilmente si trattava di un insetto. Istintivamente colpì il punto con la mano, per scacciare la bestiolina,  e un lampo gli attraversò la mente.
Quel gesto, quell’unico gesto gli ricordò tutti gli altri che dovevano seguirlo nel momento in cui lui e gli altri All Blacks ballavano la Haka davanti al pubblico e agli avversari, prima di ogni partita. L’antica danza tribale dei Maori, così ricca di significato, d’intensità. Gli tornò alla mente il giorno in cui il suo capitano di allora gli aveva parlato, dopo che lui aveva ballato interamente la Haka per la prima volta insieme alla nazionale.
 
Gli aveva posato le mani sulle spalle, ed aveva sorriso:
-Felice di vedere che ora anche tu sei un nostro fratello- aveva detto.
Spettava al suo capitano guidare i compagni con i suoi comandi, come voleva la tradizione, poiché era il giocatore di sangue maori più anziano.
-Se ora anche tu, pakea, la puoi ballare con noi è perché sei pronto- ed aveva concluso abbracciandolo.
 
A Sean tornò in mente quel momento perché per lui aveva rappresentato una svolta. Era sempre stato il pakea, il bianco, per moltissimo tempo, ma dopo aver dimostrato di essere un neozelandese nell’anima, quel termine, usato per schernirlo, aveva cominciato a considerarlo quasi piacevole. Per lui era un onore giocare negli All Blacks, ora ne aveva la certezza.
Iniziò a sospettare che Paul McBrian avesse ragione. Non doveva costringere solo la sua mente a ricordare, ma anche il suo fisico. Per il suo sport, per il rugby, i ricordi più preziosi erano racchiusi nel suo corpo.
Estrasse il pallone e lo prese in mano, in una sola mano. Le dita scorsero fino ai punti giusti, afferrando l’ovale con incredibile famigliarità.
Sean sorrise e chiuse nuovamente  gli occhi, immaginando di essere al centro del prato del campo di Auckland. Respirò profondamente una prima volta, poi una seconda, rilassò i muscoli, immaginò la folla sugli spalti, i suoi avversari difronte a lui.
Strinse ancora più forte la palla, rilassò ancora di più i muscoli e finalmente, tutto gli tornò chiaro.
Le corse, i passaggi, i placcaggi, i voli per concludere una meta al limite, la delusione per la sconfitta, la gioia per la vittoria. Nella sua mente ogni tassello ritornava al suo posto, inondandolo di ricordi e di emozioni, come se questi volessero punire Sean per averli tenuti sepolti negli ultimi giorni.
L’uomo aprì gli occhi e scagliò il pallone più lontano che poté, con un passaggio perfetto, un gesto ritrovato che lo lasciò più soddisfatto che mai.
Gli venne inevitabilmente da ridere. Si sedette sul prato e poi ci si sdraiò, pervaso da un’incredibile felicità.
Certo che lui giocava a rugby, certo che era Sean Darren, il numero sette. Sapeva quale era il suo ruolo, cosa avrebbe dovuto fare e lo avrebbe fatto perfettamente sabato.
Sì, sabato sarebbe tornato in campo, ora più che mai lo voleva. Ma anche se era finalmente riuscito a ricordare tutto non sapeva come fare per entrare in campo contro gli Springboks, non glielo avrebbero permesso. Aveva bisogno di aiuto e, finalmente, sapeva il nome della persona a cui poteva rivolgersi.
 
Keith Noomu era in ritardo per l’allenamento, ma non era riuscito ad evitarlo. Lungo la strada aveva incontrato vecchi amici, arrivati ad Auckland per la partita di sabato fra All Blacks e Springboks e lo avevano invitato a fermarsi con loro per bere un caffè, non aveva potuto rifiutare. Mentre si allacciava frettolosamente le scarpe da gioco, prossime ad essere sostituite con un paio nuovo, il suo telefono cominciò a suonare da dentro la sua borsa.  Frugò in mezzo ai vestiti, intenzionato a rifiutare la chiamata, finché non trovò il cellulare e lesse il nome che lampeggiava sul display: stentava a crederci.
-Pronto?- disse, avvicinando frettolosamente il telefono all’orecchio.
Dall’altra parte una voce che non aveva più sentito negli ultimi giorni lo salutò:
-Ciao Noomu, come stai?-
-Sean, che significa? Perché non sei più venuto agli allenamenti?-
Darren non disse nulla, aspettando che l’amico superasse la sorpresa. Keith infatti riprese subito parola:
-Si può sapere che cosa sta succedendo?-
-Mi è tornata la memoria-
-Sul serio? Bè è un’ottima notizia, ma allora perché non sei qui ad allenarti?-
-Berry non mi vuole per la partita di sabato, se venissi non mi considererebbe-
-Cosa? Ma se la società sta dicendo in giro che ti stanno aiutando? Vuoi dire che sono cazzate?-
-A quanto pare…-
-E quindi cosa vorresti fare?- chiese Noomu dopo secondi di silenzio da parte di entrambi.
Sean non ebbe bisogno di pensarci:
-Sabato giochi vero? Hai la maglia numero sette?-
-Sì, sono il sette-
Keith fece due rapidi conti mentali e capì immediatamente l’idea del compagno di squadra:
-Aspetta un secondo, non vorrai dirmi che…-
-Solo stavolta, mi serve il tuo aiuto, ti prego!-
-Sean non funzionerà, non appena chiederai il permesso te lo impediranno, dopo tutto quello che ti è successo-
-Basta evitare di dirlo-
-Che cosa?! Devi essere uscito di testa, altro che perdita della memoria, sei impazzito te lo dico io!-
Darren scoppiò a ridere, ma si ricompose in fretta:
-Noomu ti prego. Per me è davvero importante. Sei come un fratello e ti sto chiedendo di aiutarmi-
Sulla soglia dello spogliatoio comparve un altro giocatore della squadra che chiamo Keith:
-Hei, sbrigati. Il coach non aspetta ancora-
L’altro gli fece un cenno con la mano, per fargli capire che lo avrebbe raggiunto subito e riprese la conversazione con Sean:
-D’accordo, Darren, ti aiuterò. Ma sappi che sei in debito con me-
Sean non riuscì a celare il suo entusiasmo:
-Grazie infinite Noomu! Non hai idea di quanto te ne sia grato-
-Sì, sì, d’accordo. Vieni a casa mia questa sera che ne discutiamo, va bene? Ma, Darren, niente cazzate sabato-
-Tranquillo-
Dal tono usato per quella parola, Noomu capì che Sean stava ridendo, ma soprattutto che era dannatamente sicuro di quello che stava facendo.

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Capitolo 7
*** VII ***


Le grida dei tifosi arrivavano fino al corridoio più interno del grande stadio di Auckland, il corridoio bianco e luminoso, quello in cui si affacciavano gli ingressi degli spogliatoi. Eden Park era gremita di gente, tutti i 60000 posti erano occupati da altrettanti tifosi, in quel pomeriggio mite e soleggiato. I cori che si facevano largo fra la folla, fino all’interno delle strutture dello stadio, incitavano prima gli Springboks poi gli All Blacks, in attesa della loro discesa in campo.
Samantha Barkley era irrequieta, non pronunciava una parola da diverse ore, più o meno dal sul arrivo allo stadio, in vista della partita. Si trovava nel corridoio, proprio di fronte alla porta dietro la quale i giocatori tutti neri si stavano preparando per la partita, in compagnia dei suoi colleghi dello staff medico. Indosso portavano tutti la pettorina celeste con scritto Doctor e una volta raggiunto il campo avrebbero recuperato il loro borsone nero contenente tutta l’attrezzatura in caso di infortunio dei giocatori.
-Samantha, stai bene? Mi sembri tesa- le disse un suo collega, un giovane alto e sempre sorridente.
-No, sto… sto bene, sono solo sovrappensiero- si limitò a rispondere lei.
Era vero, aveva la testa da un’altra parte. Continuava a pensare a Sean, continuava a chiedersi che fine avesse fatto. Non lo vedeva più dal giorno del loro incontro al pub di Nick, il giorno in cui lei gli aveva raccontato di Simon. Aveva accettato contro voglia di lasciare che sistemasse la situazione da solo, ma non era riuscita ad opporsi alla sua richiesta e non era riuscita a controbattere quando lui le aveva detto “Fidati di me.” e le aveva fatto battere il cuore più forte che mai.
Sospirò, chissà dov’era finito Sean Darren.
-Ci siamo- disse il giovane sempre sorridente.
Lei alzò gli occhi sulla porta, che si stava aprendo mostrando le prime maglie nere subito oltre la soglia: i giocatori stavano uscendo.
Come da tempo immemore erano abituati a fare, i membri dello staff si spostarono e li lasciarono passare posando una mano sul petto a ciascun giocatore quando passava loro davanti, in segno di augurio per la partita imminente.
Anche Samantha stava compiendo quel gesto, toccava il petto di tutti i giocatori, dal primo all’ultimo e quando questi finirono e gli altri membri dello staff iniziarono a seguirli verso il campo, lei rimase indietro.
Erano ventidue, li aveva contati, come faceva sempre. Ventidue giocatori con indosso la maglia nera, ventidue su ventitré: ne mancava uno. Il rumore dei passi si stava allontanando lungo  il corridoio e lei rimase ancora immobile a domandarsi che cosa stesse succedendo, finché dietro non comparve Keith Noomu. La superò come se non l’avesse notata e lei lo fermò:
-Noomu, perché non sei vestito? Non devi giocare oggi?!- domandò confusa.
Il ragazzo balbettò qualcosa di insensato e poi riprese subito sicurezza:
-No, c’è stato un cambio all’ultimo. Scusami ma devo muovermi ad andare in campo-
Scomparve prima che lei potesse dire qualcosa. Ma quella spiegazione non la convinceva, affatto; c’era qualcosa di strano in quello che stava succedendo e prima ancora che il sospetto potesse insinuarsi nella sua mente una voce che conosceva bene le diede la conferma:
-Che ci fai ancora qui?-
Lei si girò di scatto, presa alla sprovvista. Si trovò davanti Sean Darren, con indosso la divisa nera degli All Blacks. Le mani posate sui fianchi, la maglia che metteva in evidenza il suo fisico che non aveva risentito dell’ultimo infortunio, la fasciatura alla testa che gli spettinava ulteriormente i capelli e il sorriso di chi è deciso ad andare fino in fondo nelle sue azioni.
-Sean…-  il suo nome le uscì con un filo di voce a causa dell’incredulità.
L’uomo si avvicinò e la guardò negli occhi, sempre sorridendo. Finalmente lui era tornato a ricordarsi tutto di lei e il perché dei sentimenti che provava nei suoi confronti.
-Che cosa significa tutto questo?- gli chiese infine la donna, dopo essersi ripresa dallo stupore.
Non attese una risposta, afferrò l’uomo per la spalla e lo costrinse a girarsi in modo da poter vedere il numero sette stampato in bianco sulla sua schiena.
Lui la lasciò fare poi si voltò e disse:
-Ho riacquistato la mia memoria, ecco che significa-
Lei alzò lo sguardo, sorpresa:
-Come? E quando?-
-Giovedì sera-
-Perché non me lo hai detto?-
Sean fece spallucce:
-Volevo fare una sorpresa a tutti, solo Noomu lo sa-
Samantha ci mise poco a fare i suoi conti, guardò l’uomo sempre più stupefatta ed esclamò:
-Sei impazzito, non è vero?! Come pensi di poter giocare dopo tutto quello che ti è successo?-
-I medici dell’ospedale mi hanno visitato ieri pomeriggio, hanno detto che posso giocare- il tono di lui continuava ad essere calmo e pacato.
-E per te questo è abbastanza?-
-Perché non dovrebbe esserlo? Sono fisioterapisti proprio come te-
Lei si appoggiò di peso alla parete del corridoio, alcune ciocche di capelli le ricaddero stancamente sul viso.
Lui le si avvicinò:
-Io devo giocare, solo così potrò dimostrare di essere veramente guarito-
Lei posò i suoi occhi su quelli nocciola dell’uomo:
-Sean tu non devi dimostrare niente a nessuno-
-Felice di sapere che la pensi così, ma non sono d’accordo. Voglio dimostrare a Berry che è un vero pezzo di merda-
-È per questo che vorresti giocare oggi?-
Alzò le spalle:
-Più o meno-  
Appoggiò una mano al muro, accanto a Samantha e si abbassò per poterla vedere bene in volto:
-Ascoltami, dopo quello che mi hai detto quel giorno, davanti al pub di Nick, ho fatto tutto il possibile per ritrovare la mia memoria in fretta-
-Perché lo avresti fatto?- gli chiese, reggendo a stento il suo sguardo, così vicino.
-L’ho fatto per Simon- rispose Sean senza esitazione e la donna ebbe un tuffo al cuore.
Lui riprese subito parola, avvicinando ancora un po’ il suo viso a quello di Samantha e sussurrandole:
-E lo fatto per te-
Samantha non riuscì a controbattere, non riuscì a fare nulla, si stava solo domandando che cosa intendesse Sean con quelle parole, ma non gli importava, non più.
La voce di Noomu la costrinse a voltarsi:
-Hei, Sean! Vedi di muovere il culo, non ti ho lasciato giocare al mio posto perché tu perdessi tempo in questo modo!-
Darren si allontanò da Samantha e scoppiò a ridere:
-Arrivo, arrivo- poi si rivolse alla donna: -Mi conviene muovermi, ci vediamo più tardi-
Si avviò lungo il corridoio, verso l’ingresso del campo, per poi voltarsi e rivolgersi nuovamente a Samantha:
-Ah, giusto. Mi piacerebbe portarti a cena una sera, cosa ne pensi?-
Lei sorrise, presa alla sprovvista, ma non poté ignorare il suo cuore che le stava facendo capire, martellando a tutta velocità, che quella richiesta la stava rendendo felice. Ma non avrebbe mai dato una simile soddisfazione a uno come Sean Darren.
-Direi che si può fare- si limitò a rispondergli, con finta noncuranza.
Lui le simulò un inchino:
-Perfetto allora, ci vediamo dopo-
E si affrettò a raggiungere il campo.
 
Era passata solo una settimana, ma appena posò il primo passo sul prato di Eden Park non riuscì a fare a meno di emozionarsi. Scendere su quel campo, quel giorno, per lui significava tutto. Sean si riempì i polmoni con l’aria di quello stadio, che profumava di birra, erba e gomma. Si inebriò completamente di quella sensazione che lo faceva sentire vivo, quell’ansia che precedeva la partita, quando il suo corpo preparava l’adrenalina da portare in circolo dopo il fischio d’inizio. Sentì il suo nome sussurrato fra gli spalti, la sua presenza, inattesa, aveva sorpreso tutti quanti.
-Darren!- l’urlo arrivò dal suo coach e Sean si voltò per guardarlo.
L’allenatore lo raggiunse a grandi passi, con un’espressione visibilmente contrariata:
-Cosa significa tutto questo?-
-Questo cosa?- chiese Sean facendo finta di niente.
Noomu raggiunse i due e il coach riprese parola:
-Questo, Darren, questo!- indicò con un gesto l’uomo: -Perché indossi la divisa di Keith, oggi tu non dovresti giocare, non dovresti neanche essere in campo!- il suo tono era alterato, innervosito, ma Sean riuscì a leggervi anche una leggera nota di sorpresa e puntò su quello:
-Coach, sono guarito, mi è tornata la memoria. La prego, mi faccia giocare-
-Perché dovrei dopo quello che ti è successo? Sarebbe da irresponsabili farti scendere in campo ora, nelle tue condizioni-
-Quali condizioni?- chiesero all’unisono Sean e Noomu.
-Le tue! Hai battuto la testa e hai perso la memoria, non puoi giocare-
-Le ho appena detto che la memoria mi è tornata. Senta, ho parlato con i medici dell’ospedale di Auckland e mi hanno detto che posso giocare, che dal punto di vista fisico sto più che bene, si fida di loro, no?-
L’allenatore non seppe come ribattere e Noomu andò in sostegno di Darren:
-Sta dicendo la verità, c’ero anche io. Senta, non era lei che rivoleva Sean in campo per la partita contro gli Springboks? È riuscito a ristabilirsi in tempo, perché non farlo giocare?-
L’ head coach, nuovamente, non riuscì a controbattere, rendendosi conto che Noomu aveva ragione. Voleva Sean Darren in campo per quella partita ma non aveva potuto schierarlo a causa dell’infortunio. Ora invece poteva farlo giocare, fingendo un cambio all’ultimo momento dovuto al ritorno in piena forma del numero sette.
Si passò le mani sul volto e sospirò, sentendosi alle strette: se Sean non avesse giocato al suo meglio ne avrebbero pagato le conseguenze entrambi. Tuttavia la determinazione di Darren era impossibile da ignorare, così come era impossibile fare finta di non vedere la luce che brillava nei suoi occhi.
-Stammi a sentire, Sean, ti farò giocare, ma guai a te, guai a te, se sbagli qualcosa!-
Il giocatore sorrise, determinato e soddisfatto e il suo coach riprese parola:
-Lo faccio solo perché voglio dimostrare a Berry che è uno stronzo, d’accordo? Ma tu dovrai giocare come non hai mai fatto prima, altrimenti ti sostituisco, Smith non vede l’ora di scendere in campo, oggi-
Sean rise e ringraziò l’allenatore:
-Conti su di me-
Prima che si potesse allontanare il suo head coach lo richiamò:
-Lo schema è il quattro, dimostrami ora che ti ricordi di cosa sto parlando-
-Schema quattro? Portare pressione, gioco veloce e calci di spostamento-  lo disse tutto d’un fiato, dimostrando all’altro che sapeva esattamente quello che stava facendo.
L’allenatore sospirò, come se si fosse salvato da un’orrenda situazione:
-Meno male, allora è vero- poi diede una pacca sulla spalla al numero sette che di tutta risposta scoppiò a ridere.
-Ora muoviti e vai in campo- disse infine e Sean si avviò a grandi passi verso i compagni di squadra.
Questi abbracciarono il compagno ritrovato, lo salutarono calorosamente e lo tempestarono di domande a cui lui rispose con semplici frasi tipo: “È tutto a posto”, “Vi spiegherò poi”.
Al termine di entrambi gli inni nazionali, che Darren cantò ad occhi chiusi, come per assaporare fin nel profondo quel momento, i tutti neri si riunirono al centro del campo, per prepararsi a ballare l’antica danza maori.
Sean si piazzò al solito posto, in prima fila, davanti a tutti, si sistemò la fasciatura al polso e quella alla testa, mentre il suo cuore martellava come non mai nel petto, facendolo sentire ancora più vivo e ancora più innamorato della vita che aveva scelto di seguire, praticando lo sport che aveva da sempre adorato.
-Hei, almeno la Haka te la ricordi, vero?- gli chiese il suo compagno di squadra, in piedi accanto a lui.
Sean Darren si voltò e si limitò a sorridergli, certo che ricordava la Haka, ricordava tutto.
Rilassò i muscoli e chiuse gli occhi, pronto a seguire i comandi del suo leader nella danza che, in piedi in mezzo ai compagni, guardava fisso negli occhi i sudafricani, schierati difronte a loro, e cominciava ad urlare le prime parole di quell’antica danza.
Ka Mate! 

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