Dawning bitch

di Serenity Moon
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo. Good girl gone bad ***
Capitolo 2: *** #1. Hey Jude! ***
Capitolo 3: *** #2. Breakaway ***
Capitolo 4: *** #3. Smile (parte 1) ***
Capitolo 5: *** #3. Smile (parte 2) ***
Capitolo 6: *** #4. You&Me (parte 1) ***
Capitolo 7: *** #4. You&Me (parte 2) ***
Capitolo 8: *** #5. Arms (parte 1) ***
Capitolo 9: *** #5. Arms (parte 2) ***
Capitolo 10: *** #6. Be the one ***
Capitolo 11: *** #7. A drop in the ocean ***
Capitolo 12: *** #8. Girlfriend ***
Capitolo 13: *** #9. Everybody hurts (parte 1) ***
Capitolo 14: *** #9. Everybody hurts (parte 2) ***
Capitolo 15: *** #10. Without you ***
Capitolo 16: *** #11. California king bed ***
Capitolo 17: *** #12. The one that got away ***



Capitolo 1
*** Prologo. Good girl gone bad ***





Dawning bitch

 

 

Prologo

 

Good girl gone bad

 

Capita che le brave ragazze diventino cattive, così, senza accorgersene, senza volerlo realmente.

Capita che una bella mattina si alzino e la loro vita cambi radicalmente, in due minuti, camminando per strada, come se nulla fosse.

Uno sguardo, il tocco di una mano sconosciuta, un brivido diverso.

«Scusa, ero distratto».

Quanto costa un attimo di distrazione!

Da bambina che ero, io sono diventata una donna. Uno schiocco di dita e mi sono ritrovata catapultata in un mondo che non era il mio.

Ho rinunciato al mio sorriso.

Ho rinunciato al mio orgoglio.

Ho mandato a puttane chi, con tanto sforzo, ero diventata per accogliere in cambio una nuova me, diversa, grigia, vittima e carnefice contemporaneamente.

Però, allo stesso tempo, è stato così che ho cominciato a vedere la luce.

L'ora che precede l'alba è sempre quella più nera, ma piano piano, i raggi del sole cominciano a far capolino. Con una lentezza dilaniante, squarciano le nubi e colorano il cielo di infiniti miliardi di sfumature. E' quello lo spettacolo più bello, l'attimo prima dell'alba. L'istante in cui il sole si fa attendere, hai paura che non arrivi più, ma sai che c'è, devi solo dargli il tempo giusto perché sorga e ti abbagli, in tutto il suo splendore.

Ed io ero così. Ero un'alba che aspettava di nascere.

E lui era la Terra che gira. Mi ha dato vita e luce e poi me le ha tolte entrambe.

Adesso c'è solo una nuvola.

Jude, prima, aveva due palle grandi quanto due ville, vista mare, piscina e giardino inclusi.

Jude, adesso, ha solo la forza di amare qualcuno che non la ricambia.

Com'era? Ah, sì. Se tu non ce la fai, tranquillo, io amerò anche per te.

 

 

 

Eccomi finalmente, con il prequel di 'Bitch'.

Non mi sarei mai aspettata così tanto successo da quella storia e vorrei ringraziare tutti coloro che l'hanno seguita e che adesso stanno leggendo come tutto è iniziato.

Amabili resti, Awkward, Bastet_89, cee, Coonfusedd, deliventor0989, elo_minority, FairyLeafy, GottaBeU, layla493, mariaanna, myllyje, pace, straw811, Sweet96, Alan21, artemisialee, Blue Drake, Chica20, claudia15, Emmeti, franceschina94, giangina87, kifki91, lightweight134, lovejero, lysachan91, masa18, michelle82, Miss Caliente, Noctis17, occhidaorientale, sara_89, shekkosa, Stalker_conlaA, Ventitre, veronica1982, bimbic, black fairy86, blair89, Bryce 78, Eve_, Giulietta7, lizz1183, Lollina_, Miss_Granger, nana85, Nian92, nihila, pinkprincess, PrincipessinaDolce, Reaver, RoseAvenged, Selvaggia_Chan, Shinichina, Viking_, _maddy_25, Erica Bortolotto e Dajana.

Grazie a tutti voi, con tutto il cuore.

Avrei così tante cose da dire, ma mi si è svuotata la testa, vi rimando quindi fra 5 giorni esatti per il primo capitolo.

A presto, con tanto affetto,

la vostra Serenity.

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Capitolo 2
*** #1. Hey Jude! ***


A ryanforever per due motivi:

  1. perché mi segue lo stesso,

    anche se ha mille cose da fare;

  2. perché da poco è stato il suo compleanno, quindi Auguri!
     



Dawning bitch

 

# 1

 

Hey Jude!

 

"Ehy Jude, don't make it bad! Take a sad song and make it better!".

Cin, cin!

E giù tutto d'un fiato, svuotammo gli shortini di vodka.

«Un altro giro!» urlai esaltata al cameriere che non se lo fece ripetere due volte. Prese la bottiglia e ricaricò i bicchieri, divertito da quella sorta di spettacolino che stavamo mettendo in scena.

Remember to let her into your heart, then you can start to make it better!”.

A nostra discolpa potevo dire che eravamo già mezzi sbronzi, ma quella sera bisognava festeggiare e poco importava se una volta in piedi, avremmo vomitato anche l'anima dietro al primo angolo buio. Quella sera era la prima di tante vittorie.

«Ehy Jude! Alla tua salute! La, la, la, la, lallallà!».

Uno dei miei amici sollevò il bicchierino in aria, in una sorta di brindisi e poi lo ingoiò. Lo seguimmo a ruota.

Sentivo gli ultimi residui di lucidità piano piano abbandonarmi ma non ci badavo. Era bello per una volta staccare il cervello e lasciarsi andare senza se e senza ma.

Ridevamo e cantavamo come se fossimo dei pazzi e forse lo eravamo un po' per davvero, ma eravamo felici, in quel bar dalle luci soffuse e la musica dei bei vecchi tempi a farci compagnia alle tre del mattino.

 

Hey Jude, don't be afraid,
You were made to go out and get her.
The minute you let her under your skin,
Then you begin to make it better”.

 

Al settimo giro smettemmo di massacrare la stupenda canzone dei Beatles a cui dovevo il mio nome.

Mio padre era un loro fan sfegatato. Li adorava e l'intera collezione di vinili e musicassette nel suo studio ne era la prova. Li spolverava una volta a settimana, li accarezzava uno ad uno e poi li riponeva al loro posto, come se fossero esseri umani, quasi figli suoi. Quanti fratelli e sorelle avevo! Piacevano pure a me, anche se io mai e poi mai mi sarei fatta crescere barba e basettoni come aveva fatto lui durante la sua folle adolescenza.

A conti fatti, c'ero pure andata fortunata. Jude era un bel nome e soprattutto era un nome. Ad una mia lontana cugina era toccato chiamarsi Strawberry, in onore della bella 'Strawberry fields forever'. Lei odiava Lennon e compagnia. E chi poteva darle torto?

«Allora, Jude. Il prossimo traguardo qual'è? Ci presenterai il tuo ragazzo?».

Bevvi la mia vodka ad occhi chiusi, trastullandomi della bella sensazione che la sua calda scia mi lasciava in gola. Quando la sentii raggiungere lo stomaco li riaprii e lanciai un'occhiata che voleva sembrare ironica ma che era solo da ubriaca.

«Certo, credici!» esclamai annuendo. Come no!

Sapevano quanto considerassi stupidi e superflui certi discorsi. Io ero sempre stata l'eterna single del gruppo. Non che mi pesasse quel ruolo, anzi! Io mi ci trovavo benissimo e ne andavo pure fiera. Per me l'amore era un'idiozia. Rinunciare a se stessi, alla propria libertà, al proprio essere, per mettersi nelle mani di qualcuno che in un modo o in un altro, prima o poi avrebbe distrutto tutto lasciando solo lacrime, lamenti e bottiglie di alcol vuote? No, grazie. Ero troppo indipendente e felice di esserlo per cadere in una simile trappola e ridurmi come loro: affettuosi, teneri, innamorati... Puah!

«Prima o poi arriverà» sentenziò catastrofista una delle ragazze.

La guardai di sbieco. Provavo compassione per lei. Poveretta, incastrata nel tunnel dell'amore come una testuggine in un porta lattine di plastica.

«E sta' sicura che quel giorno, se arriverà, io mi girerò dall'altra parte e farò finta di non aver visto nulla. Salute!». E per solennizzare quel mio giuramento, brindai con i ragazzi single del gruppo.

Quel giorno firmai la dichiarazione di guerra col mio Destino.

 

And any time you feel the pain,
Hey Jude, refrain,
Don't carry the world upon your shoulders.
For now you know that it's a fool
Who plays it cool by making his world a little colder.

Hey Jude begin,
You're waiting for someone to perform with.
And don't you know that it's just you.
Hey Jude, you'll do,
The movement you need is on your shoulder.
Da da da da da da da da da da”.


 

Grazie a Lollina_, FairyLeafy e sometimes_strawberry per aver inserito la storia nelle seguite.

Grazie a Euterpe_12, ryanforever, rebeccuori ed amabili resti per aver recensito.

Vi aspetto tutti giorno 20 per il secondo capitolo.

Per qualunque informazione su questa storia, visitate la mia pagina ufficiale su facebook: https://www.facebook.com/oo00SerenityMoon00oo?bookmark_t=page

In più, se non volete perdere un capitolo, mandatemi un'e-mail a serenity_moon@hotmail.it con il vostro indirizzo ed io stessa vi avvertirò in tempo.

Siete fantastici e non smetterò mai di adorarvi,

baci, bacini, bacetti,

Serenity.

 

 

 

 

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Capitolo 3
*** #2. Breakaway ***


Dawning bitch

 

# 2

 

Breakaway

 

Paradossalmente la capacità di stare soli è la condizione prima per la capacità di amare” (E. Fromm – L'arte di amare)

 

Wanted to belong here,

but something felt so wrong here,

so I pray,

I could breakaway”.

 

La mia vita non è mai stata granché. Tutto normale.

Niente bellezza straordinaria, nessun tipo di intelligenza stratosferica, genitori nella norma, un fratello rompiscatole ed iperprotettivo, qualche grande soddisfazione ogni tanto, amici pochi, ma buoni. E soprattutto tanta gente che si ricordava di me solo se aveva bisogno di un favore. Andavano sul sicuro, la buona Jude non avrebbe mai detto di no a nessuno.

A vent'anni si hanno ancora le idee confuse riguardo al proprio futuro. Non si sa cosa fare. Si è troppo grandi per continuare a sognare di essere astronauti o modelle e troppo piccoli per iniziare una vera carriera.

Io avevo solo una mezza idea, la bozza di un progetto che volevo realizzare: volevo andarmene.

Dopo la scuola avevo cominciato a lavorare come commessa. Non era molto, ma ero riuscita a racimolare il denaro necessario a dar vita ad una parte del mio piano. Sei mesi all'estero erano assicurati.

Non mi sentivo a casa mia lì dov'ero. Volevo andare alla ricerca di qualcosa di nuovo, di eccitante che il mio piccolo paesino non poteva darmi. Pensavo di dover volare via per scoprire tutto questo e invece mi cadde ai piedi così, dal nulla.

Dei ragazzi mi importava poco se non addirittura niente. Brevi storielle ed amici improvvisamente scomparsi, inghiottiti dal tunnel dell'amore mi avevano insegnato che era meglio starne alla larga. Meglio star da soli. Io, da sola, ero migliore.

Avevo ancora troppe cose da fare per legarmi a qualcuno che per un motivo o per un altro mi avrebbe inevitabilmente costretta ad accantonarle.

Volevo studiare, costruirmi un futuro, una vita, diventare qualcuno, spiegare le mie ali e prendere finalmente il volo, verso dove non sapevo, ma mi bastava il pensiero di poterlo fare.

Volevo permettermi qualche colpo di testa ed abbandonare tutto quando più mi faceva comodo. Sparire e ricomparire a mio piacimento, senza dover dare conto a nessuno. Tutto ciò era assolutamente incompatibile anche solo con l'idea di un ragazzo. Sarebbe stato solo una palla al piede e poi non avevo bisogno di nessuno che si prendesse cura di me.

Eppure chi mi stava intorno sembrava non capirlo. Ripetevano in continuazione la stessa solfa: 'Ed hai un'età', 'le tue amiche sono già tutte sistemate', 'sei rimasta solo tu' e poi la più tremenda, la profezia catastrofica: 'arriverà'. Mai un verbo mi aveva fatta tremare tanto. Il solo pensiero di ritrovarmi in una situazione del genere mi faceva rabbrividire. Ero abbastanza sicura di me da sapere che non sarebbe stato poi un grande problema, ma di sicuro mi avrebbe portato via tempo e non potevo permettermi di perdere nemmeno un secondo.

Incurante di tutto e di tutti, feci richiesta per accedere all'università, l'ammissione fu proprio una di quelle grandi soddisfazioni che mi facevano dire 'è bella la vita'. Quello era il primo passo verso il compimento della mia grande opera.

Mi sarei realizzata, ne ero certa. Ero disposta a tutto, avrei dato il mille per mille, non avevo paura.

I'll spread my wings and I'll learn how to fly

I'll do what it takes till I touch the sky

and I'll make a wish

take a chance,

make a change,

and breakaway”.

 

E' strano come nella vita, le cose più importanti capitino quando meno ce lo aspettiamo o ancora peggio quando urliamo al mondo che proprio non ne vogliamo sapere.

Credo siano scherzi del Destino. Ce lo fa apposta.

«Sì?» dice, «ora ti faccio vedere io» e si mette all'opera in maniera talmente attenta da lasciarci sconvolti.

Un consiglio: nel bene o nel male il Destino lo si deve lasciar stare in pace, nei suoi angolini bui a ridere da solo delle nostre disgrazie. Mai azzardarsi a chiamarlo in causa. Nella maggior parte delle volte lui stesso fa finta di niente e si gira dall'altra parte, come una belva assonnata che vuole riprendere il suo riposo.

C'è però un'infima percentuale di casi in cui quel bastardo senza onore si sveglia del tutto, infastidito o forse semplicemente incuriosito dalla situazione e da bambino giocherellone qual'è, stuzzicato dai possibili -e per lui divertentissimi- risvolti che potrebbero venirsi a creare, prende in mano i dadi di noi poveri innocenti e si da alla pazza gioia, incurante dei disastri che potrebbe causare.

Tanto a lui che importa? Dopo aver giocato se ne ritorna beatamente a dormire come se nulla fosse successo.

E quando il Destino si sveglia, a noi, cosa resta da fare? Assecondarlo? Sbattergli la porta in faccia? Approfittarne? Seneca diceva: 'il Destino guida chi lo segue, trascina chi si ribella'. Si può fare quel che si vuole, quel che importa è ricordarsi che mai e poi mai si può vincere contro il Destino. Se cerchi di scappare ti inseguirà fino a sfinirti. Ti troverà prima o poi e ti stanerà come una piccola preda indifesa.

Se decidi di approfittarti di lui però sta' attento. C'è una sola ed unica regola d'oro: non oltrepassare i limiti. Perché anche se credi che tutto vada a tuo favore, quando proprio pensi di avercela fatta, ecco che quel misero passo in più segna la tua rovina.

Il Destino è un giocatore astuto ed ogni partita sarà impari. Lui ha un vantaggio. Conosce già tutte le tue mosse, conosce le sue mosse e soprattutto sa dove entrambe porteranno.

Quella mattina, Lui sapeva che sarei uscita. Sapeva dove sarei andata e come ci sarei arrivata. Sapeva che sarei incappata in lui e che da quel momento la mia vita sarebbe cambiata così tanto da rendersi irriconoscibile.

 

 

Salve a tutti e bentrovati con quest'ennesimo noioso capitolo. Dal prossimo aggiornamento in poi, finalmente le cose inizieranno un po' a muoversi.

Appuntamento quindi tra dieci giorni esatti per il terzo capitolo di 'Dawning bitch'.

Ringrazio tutti coloro che mi seguono e recensiscono questa storia. Mi raccomando, fatemi sapere cosa ne pensate. Vi risponderò al più presto tramite messaggio privato.

Vi ricordo anche la mia pagina, con tutte le notizie importanti che riguardano anche questa storia: https://www.facebook.com/oo00SerenityMoon00oo?bookmark_t=page

Ancora grazie mille a tutti e al prossimo aggiornamento,

baci, bacini, bacetti, Serenity

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Capitolo 4
*** #3. Smile (parte 1) ***


Dawning bitch

 

 

# 3

 

Smile (parte 1)

 

You know that I'm a crazy bitch, I do what I want when I feel like it. All I wanna do is lose control”.

 

Camminavo sicura di me per la via principale del centro.

Quella mattina all'università era stata di una noia immensa e per rinfrancarci un po' l'animo, io ed alcune colleghe ci eravamo date appuntamento in un bar. Negli auricolari del lettore mp3, a tutto volume, le mie canzoni preferite mi tenevano compagnia. Ero di buonumore, sarei stata capace di mettermi a ballare in mezzo al marciapiede.

Tirai su la borsa tanto piena che ero costretta a portare alcune scartoffie in mano e la sistemai meglio sulla spalla.

Avevo caldo, nonostante fossimo ormai a settembre inoltrato, le temperature non erano ancora scese e la fretta non mi aiutava. Portavo solo un leggero giubbino di jeans sopra la maglietta gialla. Preferivo le cose semplici. Pantaloni e scarpe da ginnastica per andare a lezione, niente di sofisticato. Ogni tanto potevano scapparci degli stivaletti, ma niente di più. Ero normale.

In quel preciso periodo dell'anno la memoria sms del mio cellulare era impegnata da poco meno di una decina di numeri: Vanessa, l'amica di sempre, cresciute insieme come una coppia di ciliegie, qualche collega conosciuta da poco, un ex tornato dall'oltretomba con cui (forse) potermi divertire un po' e un paio di nuovi spasimanti dalle speranze pressoché nulle.

Mi facevo due risate. Mi piaceva l'idea di essere corteggiata, che ci fosse qualcuno pronto a struggersi per me, che si dannasse la vita per un momento ad una chiamata non risposta. Mi lusingava. Nessuno avrebbe ottenuto niente da me, ma intanto mi divertivo. L'aveva consigliato il dottore: un po' di sano rinvigorimento dell'autostima non nuoce mai a nessuno. Come dargli torto?

'Tonf', 'sdeng', 'puff'.

In realtà non fece nessuno di quegli strani rumori da fumetto che ci si aspetterebbe. Il tempo non si fermò e i petali di ciliegio non inondarono la strada. Semplicemente di punto in bianco, mi ritrovai a terra, il sedere spiaccicato sul cemento sporco del marciapiede.

«Ma che ca...».

«Ahi!» esclamai a scoppio ritardato prendendo a massaggiarmi il fondoschiena.

«Scusa, ero distratto. Ti sei fatta male?».

Alzai gli occhi pronta a prendermela con chiunque fosse stato, ma appena lo vidi i miei propositi sfumarono come la possibilità di mettersi a dieta la Vigilia di Natale.

Vicino a me, anche lui seduto a terra contemplando la sua parte di dolore, c'era un ragazzo. Uno... Eppure già qualcosa mi diceva che non sarebbe stato uno dei tanti.

«No, no, tutto okay» balbettai provando a darmi un contegno. «Questa strada, sempre in mezzo ai piedi» scherzai per sdrammatizzare mentre mi tiravo su. Lui stette al gioco.

«Hai proprio ragione. Che dici si sarà fatta male?».

Feci spallucce. «Ben le sta!» ed entrambi scoppiammo a ridere. Quello sconosciuto saltato fuori dal nulla era come se fosse mio amico da sempre.

Si diede da fare per raccogliere le mie cose rimaste in terra. Lo ringraziai e lui mi sorrise in ricambio. Non potei non ammettere che aveva un sorriso fantastico. Non ne avevo mai visti di così belli.

Mi sistemai la maglietta e battei i palmi sui jeans per togliere la polvere. A parte il viso non lo avevo ancora guardato bene. Cercai di non arrossire mentre, senza farmi scoprire, lo squadravo dalla testa ai piedi. Capelli cortissimi rasati, occhi castani, naso dritto, una cicatrice sul mento, spalle larghe (nuotava?). Maledetta maglietta che non nascondeva gli addominali! Alto, dio quant'era alto... Deglutii ed allontanai lo sguardo.

«Sicura che vada tutto bene?» chiese.

Mi resi conto solo in quel momento che pensando agli spasimanti senza speranze dovevo essergli andata a sbattere contro, travolgendolo. Che figura, solo a me potevano capitare cose del genere.

«Sì, sì, davvero tutto apposto. Scusami se ti sono venuta addosso, avevo la testa fra le nuvole».

«Nessun problema, nemmeno io guardavo dove mettevo i piedi».

Entrambi soffocammo una risata imbarazzata.

«Tieni» mi disse poi porgendomi le mie scartoffie. Le ficcai in borsa fregandomene se ci entravano o no, dovevano stare lì, stop. Mi erano caduti anche alcuni libri. Cercai di sistemare il danno, ma potevo fare poco.

Mi sentivo molto stupida, eppure a mio agio, come se finalmente avessi trovato il mio posto in mezzo a quella strada. Era così naturale parlare con lui. Solo dopo un quarto d'ora di chiacchiere buttate lì e risate mi ricordai che mi stavano aspettando. Feci segno di dover andare. Ci salutammo con un semplice ciao, poi mi allontanai ma mi voltai a guardare almeno tre volte prima di sparire dietro l'angolo.

Al bar mi comportai come sempre. Quattro chiacchiere, qualche presa in giro, programma della settimana che prevedeva estenuanti sessioni di studio e infine salutai le mie colleghe per dirigermi verso casa.

Con l'aiuto dei miei genitori avevo preso un appartamentino vicino all'università così da facilitarmi con gli spostamenti e non trascorrere la maggior parte del mio preziosissimo tempo facendo la spola da un posto all'altro. Per tornarci ripassai dal luogo dello scontro e d'istinto sorrisi ripensando a poche ore prima.

Anche a casa, tornai con la mente più volte a quel momento. Non so, mi sembrava di aver lasciato qualcosa di me dentro il suo sorriso sfavillante e allo stesso tempo di essermi portata qualcosa di lui che a sua volta faceva sorridere me e mi alleggeriva l'anima. Un po' come la marea. Arrivava ad ondate e mi trovava a sospirare.

Chissà chi era? Mi rendeva triste sapere che non lo avrei più rivisto.

E invece mi sbagliavo. Il Destino aveva appena lanciato il suo primo dado.

 

I woke up with a new tatoo

your name was on me

my name was on you.

I would do it all over again”.

 

Ero sempre la stessa, eppure c'era qualcosa di diverso in me. Mi sentivo qualcosa di strano nelle ossa, un fremito particolare. Era una sensazione che però, a quanto pareva, passava inosservata a chi mi stava vicino. Nessuno si era accorto di niente. Eppure ero sicura di non sbagliarmi, perché se mi addormentavo con il sorriso stampato sulle labbra e mi svegliavo ancora più contenta, qualcosa c'era sicuro.

Mi ci volle un bel po' prima di ammettere che quel qualcosa in realtà era un qualcuno, uno sconosciuto peraltro.

Si era insinuato nella mia testa come un chiodo battuto dentro ad un muro e non era più uscito, anzi, aveva messo radici profonde che piano piano si estendevano, fino ad occupare tutto lo spazio disponibile. Una fissa, ecco cos'era, e pure bella pesante. Mi era capitato in passato che mi piacesse qualcuno, ma non in quel modo. Da quando ero andata a sbattere con quel tipo senza nome -ancora- era come se si fosse rotto il filo che teneva in equilibrio la mia vita, mettendo in discussione tutto quello che era e che sarebbe stato.

D'un tratto il mio mondo era stato stravolto. Mi era stato stampato un tatuaggio sulla pelle, che non avrei potuto (e cosa più preoccupante, voluto) togliere.

Sotto sotto quella sensazione mi piaceva. Mi sentivo un po' più piena, quasi fossi tornata a respirare dopo un lungo periodo di apnea.

Avevo deciso che ne avrei parlato a Vanessa.

Era la persona che mi conosceva di più, lei sicuramente mi avrebbe dato un'opinione, un consiglio, mi avrebbe rassicurata, che poi era la cosa di cui più avevo bisogno.

Mi faceva un po' paura scoprire quella parte di me che nemmeno pensavo di avere, sebbene fosse appena accennata. Stava avvenendo una piccola rivoluzione in me che non potevo più nascondere. Lo avevo capito quando camminando, speravo di incontrarlo dovunque andassi e una volta per sbaglio, mi parve davvero di scorgere quelle spalle grandi dall'altra parte della strada. Mi si bloccò la circolazione nelle vene e non ero nemmeno sicura che fosse lui.

Mandai un sms a Vane, dicendole che dovevo parlarle al più presto e le feci venire un colpo. Un'ora dopo era seduta sul divano della mia cucina e mi squadrava con l'aria di chi ha un'accetta nascosta dietro la schiena ed è pronta a punirti in caso tu abbia fatto seri danni.

Con una lentezza che non mi apparteneva preparavo il tè. Aprivo piano gli sportelli e li accompagnavo per chiuderli. Stessa cosa per i cassetti. Ci misi dieci minuti a scegliere il cucchiaino adatto per lo zucchero. Alla fine l'acqua bollì ed io ancora ero indecisa se prendere quelli col bordino bianco o quelli di sempre.

Vanessa si alzò spazientita e mi strappò via tazze e cianfrusaglie varie. In quattro e quattr'otto finì tutto e tornò al suo posto sul divano. Io mi poggiai al bancone della cucina che usavo come tavolo.

«Allora?» mi esortò dopo aver ingoiato un sorso di tè.

Chiusi gli occhi, quasi stessi per confessare un omicidio, che poi non era così diverso dall'idea che mi ero fatta e trassi un respiro profondo.

«Siediti» la invitai.

«Jude, sono già seduta» mi disse lei mostrandomi il divano. Aveva il classico sguardo da 'se non parli, ti ammazzo'.

Mi concentrai per bene, presi tutto il coraggio che avevo in corpo ed infine sputai il rospo.

«Ho una fissa» dissi tutto d'un fiato.

Vanessa restò imbambolata.

«Eh?».

Non aveva capito. Mannaggia pure a lei.

«Vane, ti prego, è già abbastanza difficile così» mi lamentai, ma lei non mi venne per nulla incontro. Si spostò i capelli biondo cenere dietro l'orecchio con un gesto elegante e posò la tazza per terra, di lato, in modo che non si rovesciasse per sbaglio.

«Jude, non capisco davvero cosa vuoi dire».

«Mi piace un ragazzo» chiarii finalmente e il silenzio calò.

Nell'esatto momento in cui lo ammisi a voce alta, la 'cosa' parve prendere vita e manifestarsi in tutta la sua grandezza e pericolosità. Da una parte ne ero terrorizzata, dall'altra mi esaltava.

«Davvero?» chiese Vane per averne conferma e le risposi solo annuendo.

Lei prima mi saltò al collo, poi mi prese le mani e mi guardò. Non la vedevo così felice da quando sua madre le aveva detto che aspettava un bambino.

«Ma è fantastico, Jude!» esultò. «E chi è? Come lo hai conosciuto? E' carino? Quanti anni ha?» iniziò a ricoprirmi di domande, tanto che quasi rischiai di annegarci. La fermai prima che il suo entusiasmo toccasse picchi troppo esagerati.

«Non è per niente fantastico, Vane. E' terribile invece».

Lei restò di sasso e mi guardò quasi avesse davanti una pazza scellerata.

«Come no? Perché?».

«Perché sono io e a me certe cose non devono capitare» le spiegai.

«Ma invece è successo e dovresti esserne felice. Come si chiama?» insistette.

«Non lo so».

Era questa la parte più assurda. Avevo perso la testa per una persona di cui non conoscevo nemmeno il nome. Come poteva esaltarmi un'idea del genere?

«Bene, allora lo scopriremo!» sentenziò decisa battendosi il pugno chiuso sul palmo.

Crollai sfinita sul divano.

Mi ero condannata con le mie stesse mani.

 

 

Bentornati dalla vostra Serenity.

Mi ero dimenticata di aggiornare, okay, siamo messi bene...

Facciamo un piccolo punto della situazione. Non mi piacciono i capitoli chilometrici, quindi per il momento saranno divisi in due parti. Poi diventa stancante leggere, ma così spero non ci siano problemi.

Le canzoni che ho usato finora sono: Good girl gone bad di Rihanna, Hey Jude ovviamente dei Beatles, Breakaway di Kelly Clarkson e Smile di Avril Lavigne. Se me ne ricordo, posterò i link sulla mia pagina facebook, che vi invito a visitare: https://www.facebook.com/oo00SerenityMoon00oo?bookmark_t=page

Qui troverete tutti gli aggiornamenti, news w foto riguardanti questa ed altre mie storie.

Rigrazio tutti coloro che hanno inserito questa storia fra le preferite e le seguite, chi ha recensito: ryanforever, Euterpe_12, anadiomene, niky95 ed amabili resti. Vi risponderò in privato appena posso.

Grazie ancora a tutti, ci rivediamo esattamente fra 10 giorni, cioè il 9 di novembre (mio compleanno).

Vi aspetto. Baci, bacini, bacetti,

vostra Serenity

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Capitolo 5
*** #3. Smile (parte 2) ***


Bentornati!

Spero che anche questo capitolo vi piaccia. Che carini... *_* Non vi svelo niente.

I ringraziamenti alla fine.

 

# 3

 

L'amore è sentirsi cedere le gambe quando quel qualcuno entra in una stanza e ti sorride”.

A. Einstein

Smile (parte 2)

 

That's why I smile

it's been a while

since every day and everything has felt this

right and now you turn it all around

and suddently you're all I need

the reason why I smile”.

 

Vanessa non mi dava più pace. Ogni giorno mi chiedeva se ci fossero novità in merito al ragazzo misterioso ed ogni giorno mi ritrovavo, a malincuore, a dirle che no, non avevo nulla di nuovo da raccontarle. Quella storia mi stava distruggendo.

Ormai la notte mi svegliavo di punto in bianco con un viso ben fisso in mente, capitava spesso che lo sognassi, credevo di incontrarlo dovunque. Stavo diventando paranoica ed ero molto stanca. Ero arrivata pure a saltare qualche lezione per recuperare il sonno mancato.

Due settimane dopo lo scontro mi resi conto che dopotutto avevo davvero lasciato qualcosa di me in quel luogo e non era così romantico come credevo: non trovavo più uno dei miei libri. Ero sicurissima di averlo con me quel giorno perché lo avevo usato durante una lezione e una volta a casa non avevo toccato la borsa. In ogni caso, lì non c'era. Avevo messo a soqquadro tutto l'appartamento ma niente. Nessuna traccia del libro.

Doveva essermi caduto nell'urto. Ma ora chissà dov'era. Era passato troppo tempo perché lo ritrovassi ed era pressoché una disgrazia visto che era colmo di appunti.

Animata da un minimo sprazzo di speranza però, decisi di tornare sulla scena del crimine. Magari per una volta nella vita avevo avuto fortuna e qualcuno lo aveva trovato e messo da parte in attesa che andassero a reclamarlo. Incrociavo le dita, ma in realtà sapevo che era alquanto impossibile.

All'angolo c'era un bar così entrai a chiedere informazioni, forse lo avevano portato lì. Niente da fare. Il proprietario scosse la testa dispiaciuto.

Sospirai e tornai fuori a cercare fra le aiuole. Mi andava bene anche sporco di fango, stracciato e senza copertina. L'importante era trovarlo. A pensarci bene aveva pure piovuto. Mi resi conto che la mia era un'impresa impossibile.

«Ehy, ce ne hai messo di tempo!».

Semplicemente trasalii. Mi rizzai subito in piedi e mi ritrovai davanti l'ultima persona che avrei pensato di incontrare.

«C-ciao» balbettai imbarazzata. Com'era possibile che non ci fosse modo di sembrare decente quando era nei paraggi?

«Ho qualcosa per te» disse. Gli brillavano gli occhi e teneva le braccia nascoste dietro la schiena.

A me invece tremavano le ginocchia e non solo quelle. Non sapevo se fosse per lo spavento o perché dopo tanti sogni finalmente ce lo avevo davanti in carne ed ossa, ma il cuore mi batteva all'impazzata tanto da farmi male. Credetti di svenire entro pochi secondi.

'Insomma Jude, che ti succede?' pensai tra me e me. Era solo uno sconosciuto. Uno sconosciuto col sorriso più bello del mondo e gli occhi che sembravano due pietre preziose, di una lucentezza fuori dal normale. Per un attimo mi tornarono in mente le testuggini e i porta lattine. C'ero vicina?

«Cosa?».

«Ti do un indizio. E' fatto di carta e ti serve».

Spalancai la bocca, lasciando perdere per un attimo i suoi occhi e mi resi conto che mi aveva appena salvato la vita. Quando mi mostrò il libro, stretto fra le mani, ebbi l'insano istinto di saltargli al collo ed abbracciarlo forte.

«Oddio, grazie!» esclamai con tutta la riconoscenza che avevo in corpo. «Non puoi immaginare quanto mi preoccupava il pensiero di averlo perso».

«Mi sono accorto che ti era caduto dopo che sei andata via, così l'ho raccolto. E' da due settimane che vengo qui allo stesso orario dell'altra volta. Ci stavo perdendo le speranze» confessò.

«E' un libro importantissimo. Ti sarò grata a vita».

«Wow, è così importante e ci hai impiegato due settimane per renderti conto che lo avevi perso? Sei messa bene».

Avvampai di colpo per la vergogna. Se avessi potuto, mi sarei volentieri sotterrata.

«Ho avuto un po' di cose a cui pensare» gli dissi imbarazzata affondando la mano fra i capelli. Ovviamente non accennai nemmeno lontanamente al fatto che fosse lui una di queste fantomatiche 'cose'. Anzi, proprio la principale a dirla tutta. Si era portato via un buon settanta per cento del mio tempo, dei miei pensieri e di conseguenza della mia concentrazione.

«Il ragazzo ti tiene così impegnata?» buttò lì. Cos'era, una di quelle stupide domande indirette per capire se ero impegnata o meno? Non ci sarei mai cascata. Su, Jude, rispondi di sì. Rispondi di sì! Mi ordinò il mio cervello.

«No, no, che ragazzo, per carità!». Ecco, appunto. Come non detto.

Lui scoppiò a ridere. A quanto pareva l'espressione di disgusto che mi si era stampata in faccia lo divertiva. E pure parecchio.

«Che hai da ridere?» gli chiesi fingendo di essere seria.

«Sei simpatica».

Mi spiazzò in maniera così genuina che non potei trattenermi dal sorridergli a mia volta. Cavoli se mi piaceva.

«Grazie. Anche alcune tue battute fanno sbellicare dalle risate».

Lui rise di nuovo e lo assecondai. Dio, quanto mi piaceva il modo in cui portava la testa indietro, stringeva gli occhi e si lasciava andare. Sarei potuta restare lì a guardarlo per ore intere, forse giorni se non addirittura anni.

Ma come sempre la realtà irruppe nelle nostre vite. Io dovevo tornare a casa. I miei genitori sarebbero venuti a cena e sembrava che fosse passato un uragano per l'appartamento. Lui aveva sicuramente qualcosa di più importante da fare che stare lì a ridere con una sconosciuta mezza matta che perdeva libri importantissimi e nemmeno se ne accorgeva.

Lo ringraziai ancora per essersi preso cura del mio libro e a malincuore presi la via del ritorno.

«Ehy!».

Quando ero a pochi metri di distanza sentii chiamare.

«Ehy!» ripeté e allora mi voltai. Era proprio lui e si stava rivolgendo a me.

«Ma il nome?» chiese urlando per coprire la distanza.

«Cosa?».

«Il tuo nome. Come ti chiami?» ripeté. Vero, mi ero dimenticata ancora una volta delle presentazioni.

Non ci pensai un attimo prima di dirglielo. Era tutto così bello. Sembrava tanto la scena di un film.

«Jude. E tu?».

«Ryan» disse. «Piacere».

Gli sorrisi di rimando. Il piacere era tutto mio e che bel nome aveva. Da piccola pensavo fosse il nome del principe azzurro. Alto, biondo, occhi azzurri. Gli adattamenti dei manga giapponesi mi avevano un po' plagiata. Lui forse non aveva i capelli del colore del grano e i suoi occhi assomigliavano più a delle praline di cioccolato al latte che a degli zaffiri, ma di sicuro era una favola.

Ripresi il mio cammino, ma un pensiero mi venne in mente. Come avrei fatto per rivederlo? Non potevo sperare che mi aspettasse di nuovo. Allora mi venne un'idea. Totalmente folle, ne ero cosciente, 'ma' mi dissi 'chi ero io per non potermi concedere una pazzia?'. Tornai sui miei passi e lo raggiunsi. Sembrò sorpreso.

«Dimmi Ryan, ti piacciono le feste?» gli chiesi mentre rovistavo nella borsa alla ricerca di qualcosa. Eccola!

«Dipende» rispose lui titubante.

«Bene. Dammi la mano». Mi porse il palmo aperto e (a modo mio) sicura di me, cominciai a scriverci su qualcosa con la biro che avevo trovato.

«Che stai facendo?» chiese. Non lo sapevo nemmeno io.

«Ti lascio il mio numero» risposi quasi fosse la cosa più naturale del mondo. «Dei miei amici ne organizzano una tra qualche giorno. Se ti va di venire fammi uno squillo e ti metto in lista. Ovviamente puoi portare chi vuoi».

Se mi aveva scambiata per una pazza non lo diede a vedere. Osservò la mano con le cifre del mio numero di cellulare e poi chiuse il pugno, divertito.

«Okay» disse soltanto.

Lo salutai di nuovo e tornai sulla mia strada.

Se mi fossi guardata in uno specchio non mi sarei riconosciuta. Ero così felice da sentirmi una stupida, ma non mi sentivo in quel modo da tanto, troppo tempo, forse addirittura da mai.

Ciò che contava però era che il motivo del mio sorriso adesso aveva un nome e pure un numero di telefono.

Per l'ennesima volta in quella giornata incrociai le dita ed aspettai.

Intanto il Destino aveva semiaperto un occhio.

 

Yeah, you said 'Ehy, what's your name'

you took one look and now it's not the same.

Yeah you said 'Ehy' since that day

you stole my heart and you're the one to blame”.

 

 

 

Rieccomi!

Beh, la storia finalmente sta iniziando a svilupparsi.

Tra un impegno e l'altro cerco di andare avanti coi capitoli. Potrebbero esserci dei ritardi a dicembre, ma mi auguro che non accada, io ce la sto mettendo tutta.

Mentre aspetto che la glassa sulla mia torta si rapprenda, ne approfitto per ringraziarvi tutti per il grande supporto che mi date sempre. Non saprei cosa fare senza di voi!

Grazie a: amabili resti, Deeeeeeeeo, Music95, Sophisticity, Anadiomene, FairyLeafy, Lollina_, rebeccuori e sometimes_strawberry.

Grazie anche a Ryanforever, Euterpe_12 e ad Anadiomene (di nuovo) per aver recensito. Vi rispondo in posta appena posso.

Il prossimo aggiornamento sarà giorno 19, non mancate!

Come sempre, mi trovate su Facebook.

Fatemi sapere cosa ne pensate di questa faticata che adoro!

Un bacio a tutti, siete fantastici.

Vado a papparmi la mia torta di compleanno ;)

Baci, bacini, bacetti, la vostra Serenity (adesso un anno più vecchia) <3

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 6
*** #4. You&Me (parte 1) ***


Grazie mille a tutti coloro che mi seguono e per gli auguri. Come sempre, siete fantastici!

 

# 4

 

You&Me (parte 1)

 

Appena arrivata a casa, tolsi il cellulare dalla borsa e lo poggiai sul tavolo basso vicino al televisore, a portata di mano, non poteva mai sapersi.

Mi distesi sul divano ed aprii il libro galeotto. Dentro di me risi. Paolo e Francesca mi facevano un baffo!

Ripensavo a quei pochi minuti trascorsi con lui, al suo sorriso, ai suoi occhi. Ne avevo visti tanti di occhi castani e pure di occhi belli, azzurri, verdi, grigi, ma i suoi avevano qualcosa in più. Erano scuri, però brillavano. Erano quel classico tipo di occhi che non ci si sarebbe mai stancati di guardare. Il brivido che mi procuravano, non l'avevo mai sentito prima.

Immaginai come sarebbe stato toccarlo e a mia volta, farmi sfiorare dalle sue dita. Invidiavo il mio libro. Aveva trascorso due settimane intere con lui, era stato a casa sua, in mezzo alla sua roba, stretto fra le sue dita. Forse lui l'aveva sfogliato, ne aveva annusato le pagine, ci aveva sbirciato dentro, spinto da chissà quale curiosità. Sperai non avesse trovato insulsi i miei scarabocchi, che non si fosse fermato a notare quanto disordinata fosse la mia grafia, che non avesse letto le battute che scambiavo con qualche collega via carta, perché parlare durante una lezione non è cortese. Non è che mi ero lasciata sfuggire qualcosa sui miei presunti spasimanti?

Risi della mia stupidità. Certe cose (forse) le avrei fatte io, non lui. Eppure un po' ci speravo.

Un comportamento del genere poteva ricondursi ad un qualche tipo di interesse nei miei confronti e che lui provasse interesse per me era una delle cose che desideravo di più al momento. Incrociai le dita e accesi la TV, mi avrebbe tenuto compagnia mentre preparavo la cena.

Non avevo mai sofferto la solitudine, ma per la prima volta il mio appartamento mi sembrò troppo grande e soprattutto vuoto.

Un'insalata e una coca dopo mi sentii molto meglio. A quanto pareva l'unico ad essere vuoto era il mio stomaco.

Tornai sul divano a fare zapping.

'Bip'.

Il cellulare si illuminò d'improvviso facendomi prendere un colpo.

Con la coda dell'occhio guardai l'orologio segnare le 21:30. Troppo presto perché fosse la solita buonanotte di Vanessa. Quasi ruzzolai a terra, tanto mi sporsi. Chi cavolo aveva spostato i mobili? Me lo ricordavo più vicino, il tavolo.

Se non fosse stato per il numero sconosciuto che lampeggiava sul display del telefonino avrei ricordato quel momento per la posa assurda che avevo: la parte inferiore del busto sul divano, un braccio a terra per sorreggermi e l'altro che arrancava per colmare la distanza e afferrare il cellulare.

Fu così che lessi il suo primo messaggio.

 

'Numero salvato in un luogo più sicuro. Dalla mano chissà quanti mascalzoni avrebbero potuto appropriarsene'.

 

Restai immobile, pietrificata per la sorpresa. Mi tirai su prima che il braccio cedesse ed arrivassi per terra spaccandomi i denti. Fissai il cellulare per imprimermi bene in mente quelle poche parole. Non me le stavo sognando, erano proprio lì. D'istinto risi e come una sciocca mi portai una mano davanti alla bocca a nascondere la grande O che mi si era stampata. Non ci credevo ancora.

 

'Che cavaliere, la mia privacy ringrazia ;)'.

 

Optai per il solito modo di fare scherzoso. Con lui dopotutto era così facile.

 

'Figurati, dovere. Allora questa festa?'.

 

Già, la festa. Ne sapevo poco e niente. La stavano organizzando alcuni amici che conoscevo bene, ma non mi ero informata perché in realtà non mi importava proprio un accidenti della festa. Sapevo che si sarebbe tenuta poco fuori città, nella villa di uno di loro. Stupenda, c'ero stata una volta.

 

'Solito pre Halloween, poco fuori città. Alcol, piscina, musica...'.

 

Ti prego non chiedermi dettagli! Incrociavo le dita.

 

'Tu ci vai?'.

 

Domandò invece. Non ne avevo proprio l'intenzione. Non era il mio genere. Se dovevo ubriacarmi preferivo farlo in un bar dove almeno sarei stata sicura di bere qualcosa di qualità e non vodka comprata al supermercato a prezzo scontato.

 

'Non credo'.

 

'E mi inviti ad una festa dove non andrai?'.

 

'Eh già, detta così suona davvero strana XD'.

 

Io stessa mi resi conto di quanto fosse ridicola quella cosa.

Me lo immaginai ridere mentre pensava a chissà che ed involontariamente sorrisi anche io.

Continuammo a parlare del più e del meno fino a dopo l'una. Gli argomenti venivano fuori senza sforzo. Infine, con un occhio aperto e l'altro chiuso, gli diedi la buonanotte. Lui ricambiò ed aggiunse due paroline che mi procurarono un brivido per tutta la schiena.

 

'A domani'.

 

Non sarei potuta essere più felice. L'avrei risentito. Non avrei più dovuto temere di non sapere dove trovarlo.

 

'A domani'.

 

Quella fu la prima di tante notti più lunghe della mia vita.

 

What day is it

and in what month

this clock never seemed so alive”.

 

Mia cugina Strawberry (quella che odia i Beatles) era la proprietaria di un negozio di abbigliamento in centro città. Lavoravo con lei nei momenti di calma universitaria e ci davamo una mano a vicenda. Io riuscivo a barcamenarmi fra tutte le spese dello studio mettendo pure qualche risparmio da parte e lei non era costretta a trascorrere la sua giornata con stridule ragazzine che le avrebbero provocato solo emicranie. Il negozio andava bene, i clienti non mancavano, anzi a volte erano pure troppi, ma era divertente guardarli muoversi fra gli scaffali, analizzarli, capire chi erano. C'erano le teenagers tutte tacchi e minigonne, quelle un po' più pienotte che però non rinunciavano ai jeans a vita bassa, madri indaffarate alla ricerca di una mise che non le facesse sembrare vecchie e trascurate, coppie di fidanzatini in cui lei scodinzolava come un cucciolo esaltato di fronte ad un cardigan luccicante e lui bramava la porta con sospiri disperati. Loro erano i miei preferiti. Di solito li prendevo in giro. Non appena mettevano piede in negozio sfoderavo tutte le mie armi migliori. Le mie colleghe, un paio di ragazze apposto senza tante pretese, una volta individuato l'obiettivo, mi sguinzagliavano e nascoste tra un espositore e l'altro se ne facevano tutte risate.

Negli ultimi tempi però, mi ero data una calmata. E purtroppo sapevo anche quale ne era la causa.

«Oh, guardate, Jude è felice!»-.

Non avevo fatto in tempo a salutare le ragazze che già Christie mi aveva stuzzicato.

«Di nuovo» aggiunse Sarah. Feci loro la linguaccia mentre mi dirigevo nel retro a posare borsa e cianfrusaglie varie. Quando mi voltai me le ritrovai davanti a bloccarmi la porta.

«Allora? Chi è?».

«Chi è, chi?».

«Il tipo che ti ha stampato quel sorriso in faccia. O è una tipa? Noi siamo tolleranti, giuro!».

Guardai Sarah con gli occhi sbarrati. Non capivo se erano serie o mi stavano prendendo in giro.

«Chiunque sia, a giudicare dalla sua espressione, scopa da dio».

«Christie!» urlai incredula correndo a tapparle la bocca. La sfacciataggine di quella ragazza era senza misura. Come riusciva a mettermi in imbarazzo lei non ne era capace nessuno.

Mentre cercavo di farla stare zitta, Sarah rideva piegata in due. In un lampo tornammo serie quando sentimmo aprirsi la porta. Erano arrivate delle clienti, grazie al cielo.

Le mandai a compiere il loro dovere e ne approfittai per dare un'occhiata al cellulare che avevo poggiato vicino alla cassa. Appena lo schermo si illuminò, sorrisi. Aveva risposto.

Ci eravamo scambiati il buongiorno quella mattina e non avevamo smesso un attimo di mandarci SMS. Avevamo parlato di tutto, ma mi sembrava ancora di non aver detto nulla. Per lo più le nostre conversazioni erano fatte da battute scherzose, che non avevano nessun fine pratico, se non quello di portarci a conoscerci meglio.

Ero sempre stata dell'opinione che se si può ridere con una persona, allora è degna di avere un posto nella mia vita. E lui a quanto pare quel posto se lo stava guadagnando con tutte le forze, anche se forse non era necessario. Gli era bastato un sorriso per stregarmi. Una curva delle sue labbra ed il mondo come lo conoscevo era scomparso, inghiottito in un lampo di luce.

«La signora paga questo».

Christie mi sbatté sotto gli occhi un maglioncino verde acido e ripartì di fretta. Rivolsi un sorriso alla donna di mezza età che mi stava davanti, sperando con tutto il cuore che l'acquisto non fosse per lei. Battei il prezzo, consegnai lo scontrino e via, il lavoro era cominciato.

Per due ore buone Sarah e Christie furono impegnatissime ed io continuai a messaggiare indisturbata. Non potevo permettermi che mi scoprissero o nessuno le avrebbe più fermate. Mi avrebbero fatto perdere tutta la dignità che avevo addosso ed era davvero tanta.

 

'Ti va di vederci qualche volta? Senza incidenti o scambi di prigionieri, s'intende'.

 

Il cellulare mi cadde dalle mani per la sorpresa. Se fossi stata da sola mi sarei messa a saltellare per la gioia. Lo ripresi e lessi il messaggio di nuovo, sperando di non essermi immaginata tutto. No, era vero.

 

'Certo :)'.

 

Forse avrei dovuto aspettare qualche minuto prima di rispondere, ma era chiedermi troppo. Era troppo bella l'idea di poterlo vedere, con calma, senza limiti di tempo dettati dalla fretta o dall'imbarazzo di trovarsi in mezzo ad una strada trafficata.

 

'Potrei venire da te. Sarebbe un problema?'.

 

'Te l'ho già detto, vivo da sola. Nessun problema ;)'.

 

Mi sedetti, sognante, sullo sgabello dietro il bancone. Era tutto bello, bellissimo, forse anche troppo. Non volevo sbilanciarmi in inutili fantasie. Ogni volta che mi succedeva qualcosa di interessante, finiva poi per trasformarsi in una stupida delusione. Col tempo avevo imparato a fuggire dagli attimi di felicità, ma in quel momento mi importava poco e niente. Non mi ero mai sentita in quel modo ed era una sensazione troppo dolce per allontanarla.

Il mio cellulare emise un altro bip e contemporaneamente la porta del negozio si aprì di nuovo. Come sempre gettai un'occhiata e rimasi di sasso.

Ryan.

No, Ryan al telefono.

Ryan al telefono, abbastanza infastidito, che annuiva e sparava una serie di 'sì' spazientiti al suo interlocutore.

«Okay, okay. Sì, sono qui. Vuoi parlarci tu? Okay, ciao». Riagganciò e si mise a scandagliare la zona. In mano aveva una delle nostre buste. Prima che avesse modo di guardare verso la cassa, mi nascosi. Era stato un gesto istintivo, da idiota, me ne rendevo conto. Non vedevo l'ora di incontrarlo, lui capitava al mio negozio ed io mi nascondevo? Quale assurda logica c'era sotto?

«Devo fare un cambio» lo sentii dire a Sarah che gli si era avvicinata. Provai un impulso di gelosia nei suoi confronti e quando realizzai che avrei dovuto fare io il cambio, entrai nel panico. A gattoni, sgattaiolai fuori dal bancone e mi intrufolai nel retro. C'era una porticina da lì e sarei potuta uscire senza farmi scoprire da nessuno. Giusto in tempo. Sarah arrivò mentre stavo chiudendo la porta. Lasciai solo uno spiraglio per ascoltare cosa avrebbe detto.

«Aspetta qui, ti chiamo subito la responsabile» gli disse e intelligente com'era si avviò anche lei verso il retro. Ero spacciata. Corsi a cercare riparo dietro un espositore pieno di roba ancora da sistemare e trattenni il fiato. Nel frattempo pensavo a quanto fossi stupida e come fosse insensato tutto quello che stavo facendo. Ma ormai non potevo più uscire. Ryan avrebbe capito che ero scappata per causa sua, avrei fatto una gran brutta figura.

«Jude, Jude!».

Sarah continuava a chiamare e a non ricevere risposta. Finalmente tornò in negozio.

«Provo al telefono».

Controllai subito le tasche per togliere la suoneria, ma il cellulare squillò lo stesso, a vuoto, sul bancone.

«Senti, mi dispiace. Puoi tornare domani? Io non ti posso aiutare».

«Il fatto è che oggi è l'ultimo giorno per il cambio».

«Faremo uno strappo. E' colpa nostra, non tua». Accidenti, l'avevo proprio messa nei guai.

«Faccio una chiamata».

Ryan si allontanò ed io sbirciai dalla fessura della porta. Sarah rigirava fra le mani un cardigan rosa acceso tempestato di brillantini che avevo venduto io stessa la settimana prima. Perché ce l'aveva lui?

«Va bene lo stesso?» chiese al suo interlocutore. Attese qualche secondo e poi annuì. «Okay, tesoro. Ciao» salutò. Tornò da Sarah e ripresero a parlare ma ero troppo sconvolta per ascoltare.

Tesoro. Chiunque ci fosse all'altro capo, lui l'aveva chiamata tesoro. Che voleva dire? Cosa stava succedendo? Mi sentii crollare il mondo addosso. Non poteva essere. Stavo viaggiando troppo di fantasia. Magari era sua sorella, sua cognata, una cugina, un'amica a cui era molto legato e basta. O magari era proprio la sua ragazza, per quello che ne sapevo pure sua moglie. Solo nei film Brad Pitt chiama sua sorella 'tesoro'.

Presi un paio di respiri profondi. Dovevo calmarmi. Sentivo il viso in fiamme ed iniziava a far caldo. Mi sventolai con una mano per riprendere fiato. Non avevo alcuna certezza e non potevo distruggere quello che già avevamo creato solo per una parola. Potevo pure aver sentito male!

Tornai in me e mi accorsi che se ne era andato, contai fino a sessanta e poi ricomparii in negozio.

'Va tutto bene' mi ripetevo, 'va tutto bene'.

«Jude! Ma dov'eri finita? Un cliente aveva bisogno di un cambio» mi accolse Sarah.

«Stavo sistemando la lista per il fornitore» mi inventai evitando accuratamente di guardarla in faccia. Lei sembrò credermi e tornò da Christie, impegnata da una coppia di ragazzine indecise.

Presi il cellulare. Oltre alla chiamata persa di Sarah c'era pure un messaggio.

'Stasera?' chiedeva Ryan. Non ci pensai due volte.

 

'Stasera' risposi in fretta. Dovevo chiarire quella storia il più presto possibile.

 

I can't keep up
And I can't back down
I've been losing
So much time”.

 

Ci risentiamo fra 10 giorni! Seguitemi su facebook per tutte le novità che potrebbero interessarvi sulla mia storia: https://www.facebook.com/oo00SerenityMoon00oo

La vostra Serenity.

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Capitolo 7
*** #4. You&Me (parte 2) ***


Volevo dedicare questo capitolo a mio nonno. Domani saranno cinque anni dalla sua scomparsa. Gli devo molto e se esiste Jude, forse, un po' è anche merito suo.

Ti voglio bene.

I ringraziamenti in coda. Buona lettura.

 

Dawning bitch

 

 

# 4

 

Mamihlapinatapai (lessico Yahgan): guardarsi reciprocamente negli occhi sperando che l'altra persona faccia qualcosa che entrambi desiderano ardentemente, ma che nessuno dei due vuole fare per primo.

 

You and me (Parte 2)

 

'Cause it's you and me
And all of the people
With nothing to do
Nothing to lose

And it's you and me
And all of the people
And I don't know why
I can't keep my eyes off of you”.

 


 

Gli diedi le istruzioni per raggiungere casa mia nella maniera più accurata possibile. Non era facile arrivarci, infatti scesi in strada per incontrarlo, all'angolo con la via principale. Trepidavo nell'attesa.

Avevo pensato per tutto il pomeriggio a quello che era successo in negozio e alla fine mi ero convinta a lasciar perdere. C'erano buone, se non ottime possibilità che dietro a quel 'tesoro' si nascondesse davvero la sua ragazza. Non ero mai stata fortunata in certe cose e minuto dopo minuto avevo ricostruito le mie barriere difensive. Qualunque cosa fosse successa quella sera, sicuramente l'indomani sarei stata tutta intera.

Non avevo timore. L'unica cosa che volevo era rivederlo, trascorrere un po' di tempo con lui e provare tutte quelle belle sensazioni che mi trasmetteva con la sua presenza. Volevo ascoltare la sua risata, guardare ancora e ancora i suoi occhi, sentirlo parlare di sciocchezze. Volevo averlo vicino, tutto qui.

Mi ero seduta su un muretto, sotto il fascio di luce di un lampione, ad aspettare. Le gambe penzoloni e le braccia dritte lungo il busto mi davano l'aria di una bambina. Passarono un paio di auto che tirarono dritto. Mi resi conto che non sapevo quale fosse la sua. Se mio padre mi avesse vista, mi avrebbe fatto una bella lavata di capo.

Dieci minuti dopo, infine, si avvicinò una macchina scura, rallentò e si fermò proprio davanti a me. Il finestrino si abbassò e dal lato del guidatore qualcuno si sporse.

«Un passaggio, signorina?».

Il cuore iniziò a battere a mille non appena riconobbe la sua voce. Gli bastava così poco per mandarmi in paradiso, santo cielo, ma come faceva?

«Volentieri, grazie» dissi, scendendo con un salto dal muretto. Aprii lo sportello e montai su.

La prima cosa che mi colpì fu l'odore. Era un profumo che mai avevo sentito. Buono come il bagnoschiuma per bambini e deciso allo stesso tempo. Me ne innamorai all'istante.

Mi voltai e gli sorrisi e lui fece lo stesso. Nella poca luce della sera, intravidi la curva delle sue labbra. Pensai che quel gesto era dedicato solo a me, perché lui era lì, non c'erano 'tesori' che avrebbero tenuto. Eravamo nella stessa macchina, a pochi centimetri di distanza, respiravamo la stessa aria, i nostri vestiti, i nostri capelli si stavano impregnando dello stesso favoloso profumo.

«Sai che è pericoloso salire in macchina con degli sconosciuti?» mi disse. Un lampione illuminò l'abitacolo e vidi la sua espressione scherzosa, in attesa di una delle mie risposte a tema.

«Pazienza. Rischierò» dissi facendo spallucce e lui rise, quasi fosse la cosa più naturale del mondo.

Era questo che adoravo nel nostro rapporto. Tutto era naturale. Non c'era imbarazzo o vergogna, nulla. Era come se ci conoscessimo da una vita. Sentivo quasi ci fosse una corda spessa ed intrecciata a legarci. Era destino che ci incontrassimo, ne ero sicura.

«Svolta a destra» gli indicai ed entrammo nella via dove c'era il mio appartamento. «Altri duecento metri e siamo arrivati. E' lì».

Ryan si sporse a guardare e si fermò proprio sotto il portone. Parcheggiò con sole due manovre e poi spense l'auto.

«Complimenti!» lo presi in giro e lui strinse gli occhi in quel modo che mi piaceva da impazzire. Poi gli feci strada mentre, già con le chiavi in mano, cercavo quella giusta per aprire.

«Sei sicura di volermi fare entrare? I tuoi vicini non penseranno male?».

Finsi di pensarci un po' su.

«Nah, il cadavere l'ho già portato la settimana scorsa, non faranno caso a te».

Ryan prima mi guardò sconvolto, poi scoppiò a ridere.

«Sei un personaggio» disse entrando nell'atrio.

Il mio appartamento era al quinto piano. Gli feci strada ed infine, varcammo la soglia ritrovandoci direttamente in cucina.

Per prima cosa si guardò intorno. Sfiorò il bancone, gli sgabelli, il mobile col piano cottura e dall'altra parte, i divani spalla a spalla. Si sedette su quello rivolto verso il televisore, totalmente a suo agio.

«L'hai sistemato tu?».

Classica domanda da maschio. Una qualunque ragazza si sarebbe sbrodata in una quantità assurda e almeno nel 98 per cento dei casi falsa, di complimenti. Lui, in quanto ragazzo si era buttato sul lato più pratico.

«Già» risposi. «Cosa ti offro?».

«Solo acqua, grazie».

«Non bevi?» gli chiesi riempiendo un bicchierone trasparente e porgendoglielo.

«Non più» disse lui. Aveva uno strano sorriso stampato in faccia e mi fece tanta tenerezza. Ebbi l'istinto di abbracciarlo e consolarlo, senza nemmeno averne motivo.

Mi sedetti accanto a lui che poggiò il bicchiere sul famoso tavolinetto basso, sul quale avevo messo il mio cellulare quando mi aveva inviato il primo SMS, mi voltai verso di lui ed incrociai le gambe, come gli indiani davanti al fuoco. Lui era il mio fuoco.

«Hai studiato?» domandò e da lì iniziammo a parlare senza fine, toccando i più svariati argomenti, senza alcun senso logico. Ridevamo, scherzavamo come ormai eravamo soliti fare. Mi raccontò come da piccolo, gran peste che era, si fosse procurato la cicatrice sul mento che avevo notato la prima volta che ci eravamo scontrati.

Ogni parola ci trovava più vicini. Non sapevo spiegarmelo. Semplicemente come due calamite dalle polarità opposte, ci attraevamo e la distanza diminuiva sempre di più fino a quando ci ritrovammo abbracciati, i nostri nasi che si sfioravano. Potevo sentire il suo alito profumato di menta, osservare le sue ciglia alzarsi ed abbassarsi ad ogni battito. Osai fare scivolare la mano sulla sua guancia in una carezza timida. Era liscia, appena rasata.

Avevo il cuore in gola. Stargli così vicino mi faceva tremare l'anima. Non mi ero mai sentita così al sicuro in tutta la mia vita. Pensai fosse quello che provavano i feti all'interno del grembo della propria madre. Avevo finalmente trovato il mio posto nel mondo e qualcosa mi dava la certezza che anche lui stava provando le stesse emozioni.

Mi accarezzò i capelli mentre bisbigliavamo, pianissimo, a fior di labbra. Dentro urlavo: baciami, baciami, baciami, ti prego. Ero troppo codarda per fare io quel passo. Avevo troppa paura di non piacergli, che se lo avessi fatto, lui poi sarebbe scappato. Intanto continuavamo a parlare, parlare, a non finire. Poi d'un tratto, di colpo, calò il silenzio. Non erano finiti gli argomenti. Ci eravamo solo resi conto che potevamo concederci anche quello, il silenzio. Ma non uno di quei momenti vuoti e imbarazzanti da dover per forza riempire. Il nostro silenzio era pieno, colmo, in procinto di traboccare. Bastava guardarci e ci dicevamo tutto.

Era tutto bellissimo. Forse, finalmente riuscivo a capire cosa ci fosse di così spettacolare nello stare con qualcuno.

D'un tratto però, mi tornò in mente la telefonata con 'tesoro'. Presi un respiro profondo, il colpo di coraggio più grande di tutta la mia vita...

«Lei chi è?».

Ryan trasalì a quella domanda. L'avevo chiesto più per scherzo, che per altro, perché in cuor mio iniziavo a pensare che davvero fosse troppo bello per essere vero, che in tutto quello che stava accadendo non ci fosse il 'ma', il 'però' che rovina tutto. Lo avevo chiesto ma la speranza di sbagliarmi era grande. Volevo, pretendevo che si mettesse a ridere, mi tirasse un buffetto sul naso e mi dicesse che ero una sciocchina, doveva essere così, anche io mi meritavo il mio lieto fine. Volevo il mio 'e vissero felici e contenti' e lo volevo in quell'esatto momento, con lui.

«Come lo sai?».

Mi sentii crollare. Se fossi stata un vaso di cristallo, mi sarei ridotta in mille pezzi, ma feci finta di nulla. Ingoiai il groppo alla gola ed indossai la maschera dell'indifferenza alla quale ero tanto affezionata. Sciolsi l'abbraccio e mi allontanai da lui per guardarlo in faccia.

«L'ho detto tanto per» dissi distogliendo lo sguardo. Non ce la facevo proprio. Il petto mi si era appesantito di colpo. «Esiste davvero una lei?».

«Mi dispiace» sussurrò.

Mi sarei messa volentieri ad urlare, ma il nodo in gola me lo impediva. Mi alzai dal divano e mi appollaiai sul bancone. Dovevo calmarmi. Come diamine era possibile che non fosse nella mia sorte trovare qualcuno totalmente apposto? Cosa avevo potuto fare di tanto orribile nella mia vita precedente per meritarmi un simile destino?

Ryan mi fu davanti in un batter d'occhio, mi poggiò le mani sulle spalle e le fece scivolare fino ai gomiti, dove si fermarono. Avrei dovuto scrollarlo, mandarlo via, ma non ne fui capace. Tutto quello che volevo era che restasse con me, nonostante tutto, nonostante lei. Non potevo dire l'altra. L'altra ero io.

«Ero venuto per dirtelo. Volevo parlartene, ma poi...».

«Poi cosa?» lo invitai a proseguire. A conti fatti non ero arrabbiata, non riuscivo proprio ad esserlo.

«Poi ti ho visto. Ho pensato che se te l'avessi detto, tu te ne saresti andata e non volevo che succedesse».

«Tecnicamente sono a casa mia, non posso andarmene» dissi distogliendo lo sguardo dai suoi occhi.

«Non intendevo in quel senso» disse lui strappandomi un mezzo sorriso. Anche in una situazione del genere riusciva ad illuminarmi. «Ma vedi, è proprio questo che mi piace di te. Noi possiamo parlare, possiamo scherzare, senza costrizioni di nessun tipo. Mi sento libero con te».

«Lo so». Lo sapevo benissimo come si ci sentiva. Erano le stesse sensazioni che provavo io stando con lui.

 

All of the things
That I want to say
Just aren't coming out right
I'm tripping on words
You got my head spinning
I don't know where to go from here”

 

«Non andartene, Jude».

Era così bello il modo in cui pronunciava il mio nome. Nemmeno in bocca al coro di mille angeli avrebbe suonato meglio. Quella supplica così sbagliata non poteva essere più giusta.

«Non lo farò» mi ritrovai a promettere. E come avrei potuto dirgli il contrario? Sarebbe stato uccidere me stessa. All'improvviso anche solo pensare di vivere senza di lui mi sembrava impossibile. Non avevo mai provato il calore di un abbraccio come il suo, i brividi di uno sguardo, la scossa ad un tocco, macché, ad uno sfiorarsi di dita, di nasi, di ciglia. Il suo profumo avvolgente, il dolore per il cuore che batte troppo forte. Non potevo rinunciare a tutto quello.

«Me lo giuri?».

«Lo giuro».

In quel momento mi vincolai a lui, nel bene e nel male. Quelle due piccole, minuscole parole si riempirono di solennità come mai era successo prima e suggellarono un patto quasi di sangue, per la vita.

Sentii che anche volendo, non lo avrei mai rotto.

Osai guardarlo mentre lo dicevo e mi persi nei suoi occhi. Se stava recitando non avrebbe potuto farlo meglio, ma era sincero, tanto quanto lo ero io e lo capimmo entrambi.

D'un tratto, senza che neanche me ne accorgessi, mi prese il viso fra le mani e si avvicinò.

Finalmente mi baciò.

Fu un bacio desiderato fino all'ultimo, violento quasi per la sua impetuosità, ma colmo di una tale tenerezza da commuovermi quasi, per la sua situazione, per il fatto che, per quanto ne sapessi, poteva pure essere l'ultimo, per il trasporto che c'era dentro, la disperazione, la volontà di appartenersi e la consapevolezza di poterlo fare solo a metà.

E fu dolce. Il bacio più dolce della mia vita, come un buongiorno dopo un coma o la buonanotte della mamma al suo bambino appena nato. C'era qualcosa di indescrivibile in quel bacio, un fiocco rosa a stringerlo.

Separarci fu quasi un dolore fisico, insopportabile per tutti e due. Avvampai in volto quando lui fece scivolare il dorso della mano sulla mia guancia e d'istinto nascosi la faccia fra le pieghe della sua felpa stringendolo forte.

«Andrà tutto bene» mi rassicurò. «Non vorrei essere da nessun'altra parte all'infuori di qui, con te».

Annuii convinta che avesse ragione e mi aggrappai più forte a lui. Non poteva essere altrimenti. Era scritto che tutto questo accadesse e doveva essere così. Dentro quella casa era giusto in quel modo.

Ma fuori c'era tutto un altro mondo, fatto di spine e per quello che mi riguardava di tagli, netti e profondi, da disinfettare il più presto possibile.

«Devi dirglielo» sussurrai, la voce rotta dalla paura.

Lui mi guardò e un'ombra scurì i suoi meravigliosi occhi.

«Non posso, Jude, succederebbe un casino. Tu... Tu non la conosci. Non posso dirglielo».

Mi sarei dovuta dispiacere per me, invece provai pietà per lui. L'insano istinto di liberarlo, di proteggerlo, mi portò a stringerlo più forte e a non dire più nulla sull'argomento. Sarebbe stato il nostro segreto. Silenziosamente, stringemmo quell'ulteriore patto.

 

Passammo le ore successive abbracciati, un po' giocando, un po' parlando, un po' ancora in silenzio. Non ci era necessario nient'altro per essere felici che qualche carezza e un bacio rubato.

Ero consapevole che tali sarebbero stati quella sera e le sere in avanti e ciò che mi stupiva di più era che fossi disposta ad accettarlo senza se e senza ma. Lo guardavo negli occhi più che potevo, lui faceva lo stesso, come incantati da chissà quale formula magica. Erano la cosa più bella che avessi mai visto, non li avrei lasciati per nulla al mondo.

'Per lui, pur di avere lui' mi ritrovai a pensare, 'avrei fatto questo e altro'.

Eravamo io e lui, il resto non importava, non aveva alcun senso. La gente fuori poteva fare ciò che più voleva, non ci avrebbe scalfito. Quella casa sarebbe stata il nostro regno, dove nessuno, all'infuori di noi, sarebbe mai entrato. Quei muri avrebbero protetto il nostro segreto e fino a quando ci saremmo stati noi, tutto sarebbe andato bene.

 

'Cause it's you and me
And all of the people
With nothing to do
Nothing to lose

And it's you and me
And all of the people
And I don't know why
I can't keep my eyes off of you”.

 

 

 

Mi hai baciato di nuovo, più a lungo e non è esistito più niente. Era un bacio impregnato di 'non importa', 'andrà bene', 'è il nostro segreto'”.

 

La notte è in fiamme, Carmelita Z.

 

 

Grazie mille a tutti quelli che hanno inserito questa storia fra le seguite, le preferite e le ricordate. Grazie a chi ha letto Bitch e ha deciso di spendere qualche attimo in più per scoprire come è nato tutto. Ce la sto mettendo tutta, spero di riuscire a trasmettervi tutto quello che questa storia ha con sé.

Vi aspetto domenica 9 dicembre per il prossimo capitolo. I ringraziamenti alle recensioni li troverete presto in posta.

Siete fantastici.

Serenity.

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Capitolo 8
*** #5. Arms (parte 1) ***


 

Bentrovati e buona lettura. Ci risentiamo più giù :)

 

Dawning Bitch

 

# 5

 

Forse alcune donne hanno bisogno di restare libere finché non trovano qualcuno di altrettanto selvaggio con cui correre”.

Carrie Bradshaw, Sex and the City

 

Arms (parte 1)

 

"I never thought that you would be the one to hold my heart
You came around and you knocked me off the ground from the start

You put your arms around me
and I believe that it’s easier for you to let me go
You put your arms around me and I’m home".

 

Quando andavo alle medie, mi ero appuntata una frase sul diario. Diceva: “è quando non ti accorgi del tempo che passa che puoi dire di essere davvero felice con qualcuno”. Ai tempi, da scolaretta impudente, avevo commentato che visto che a scuola il tempo non passava mai, voleva dire che non ero felice. Mi ci erano voluti all'incirca dieci anni per capire il vero significato di quella citazione. Dieci anni e Ryan.

Con lui il tempo non esisteva, eccetto quello che passavamo separati. In quel caso i minuti non finivano mai. Ma se stavamo insieme, allora era come se vivessimo in una dimensione parallela, dove niente e nessuno poteva intervenire a rovinare il nostro idillio, né il tempo, né lo spazio, né gli impegni, né lei, la modella.

L'avevo scoperto per caso, sentendo parlare Christie e Sarah in negozio. Ryan era tornato a cambiare il cardigan rosa e mia cugina (che a quanto pare la conosceva) aveva chiesto di lei, scatenando così una buona mezzora piena di pettegolezzi, che le due affidabilissime ragazze mi erano venute a riferire all'istante. Non mi ci era voluto molto a fare due più due.

Nonostante questo, cercavo il più possibile di ignorare l'esistenza di quella piccola pecca che stava rovinando la perfezione del mio rapporto con Ryan, non curante che in realtà ero io a distruggere la sua di relazione con lui, ma inspiegabilmente non me ne importava un accidente. Non volevo sapere nulla di lei, mi bastava conoscere un dettaglio: aveva lui. Non bisognava aggiungere altro per farmela odiare di più. Era la mia nemica e sebbene sapessi per esperienza che i problemi ignorati, mano a mano si ingrandiscono fino ad esplodere, da grande ingenua, decisi che avrei finto che quello in particolare non esisteva proprio, con grande sollievo di Ryan. E ci riuscivamo entrambi molto bene, fino a quando non cominciavano le telefonate, insistenti, interminabili, asfissianti.

'Lascialo in pace' pensavo e nel frattempo immaginavo delle grosse catene che ad ogni chiamata si stringevano sempre di più attorno alle sue spalle e lo soffocavano. Volevo liberarlo, volevo farlo ad ogni costo. Volevo permettergli di tornare a respirare serenamente, farlo dormire tranquillo la notte.

Avevamo trascorso insieme praticamente ogni secondo libero da università e lavoro. Durante la pausa pranzo ci davamo appuntamento in un posto poco frequentato e sgattaiolavamo via senza dare nell'occhio per incontrarci, felici come una pasqua di poterci abbracciare, baciare o semplicemente guardare negli occhi.

Bastava che aprisse le braccia e tutto andava bene. Se la mia era stata una giornata pesante, si sistemava. I problemi, la stanchezza sparivano di colpo, quasi non ci fossero mai stati. Vivevo col sorriso perennemente sulle labbra ed era difficile nascondere la mia euforia, soprattutto perché nessuno sapeva ciò che mi stava capitando.

Non avevo fiatato. Più persone lo avrebbero saputo, più ci sarebbe stato pericolo per noi di essere scoperti. Non lo facevo per me, per paura o chissà cosa, era solo un modo per proteggere lui. A conti fatti ci avrebbe rimesso molto più di me.

Per questo motivo avevo mentito pure a Vanessa, l'unica che sapeva della sua esistenza.

«Come se non fosse successo niente» le dissi una mattina, mentre di corsa, sgranocchiavo una barretta ai cereali. Era andata fuori città per lavoro e non c'era stata l'occasione di vederci, perciò parlavamo per SMS e telefonate.

«Ma sembravi così presa» ribatté lei.

«Che ti avevo detto? Era solo una fissa, è passata».

Mi sentivo un verme a doverle raccontare una simile bugia. La stavo estromettendo dall'esperienza più bella della mia vita e di fatto, mettendo al secondo posto, cosa che una Jude normale non avrebbe mai fatto, però ero certa che fosse la cosa giusta. Per il bene di Ryan, mi dicevo, tutto questo è per il bene di Ryan.

«Devo scappare» dovetti salutarla un istante prima di mettere piede in negozio. Quella mattina avevo pure dovuto saltare le lezioni all'università per aiutare Strawberry con l'inventario, una grandissima, inutile faticata. C'era di buono che almeno avrei pranzato con Ryan.

«Questo è l'ultimo» esclamai infatti circa tre ore e mezzo dopo poggiando a terra l'ultimo scatolone di canottiere rimaste in magazzino, dopo gli sconti estivi.

«L'ultimo della prima serie» mi corresse Strawberry. La guardai con gli occhi di fuori.

«Stai scherzando».

«No» e col mento indicò una serie di espositori pieni zeppi di vestiti ancora imballati. Ci sarebbe voluto l'intero pomeriggio per sistemarli tutti.

«Lo so, Jude, mi dispiace, ma in serata viene il fornitore ed ho bisogno che tutta la merce sia pronta».

Addio pranzo con Ryan, pensai sconsolata.

Gli inviai un sms per chiedergli se potevo chiamarlo e due minuti dopo mi arrivò la sua risposta affermativa. Mentre Strawberry era fuori a comprare dei panini, gli telefonai. Non lo avrei visto, ma almeno avrei sentito la sua voce.

«Perdonami» esordii, «mia cugina mi tiene prigioniera. Non farò in tempo».

Lui mi tranquillizzò. Il lavoro è lavoro, lo capiva, anche perché sapeva che qualunque cosa mi tenesse lontano da lui doveva essere davvero importante.

«Ci vediamo stasera» promise.

Certo, ovvio, nemmeno a dirlo.

«Devo attaccare, è tornato il capo» lo salutai a malincuore.

Il suo ciao fu normale. Non mi aspettavo che sospirasse affranto come un adolescente, non era nel suo stile dopotutto e neanche nel mio. Non eravamo tipi da smancerie e non sapevo se fosse una cosa buona o no.

«Che hai?».

Strawberry mi guardò interrogativa mentre mi porgeva un involucro oleoso. Per un attimo valutai attentamente la possibilità di raccontarle una parte della storia e chiederle un consiglio. Lei se ne intendeva più di me di sentimenti, forse mi sarebbe stata d'aiuto. Ingoiai quel pensiero insieme ad un boccone del mio panino.

«Niente» risposi e il mio tono diceva 'cosa vedi?'. Mangiammo velocemente e ci rimettemmo subito al lavoro.

Tornai a casa alle diciannove passate, stanca morta e più puzzolente di un cadavere. Crollai sul divano, lanciando la borsa sul bancone della cucina e chiusi gli occhi. Non mi sentivo più piedi e spalle ed avevo istantaneamente bisogno di una doccia, di fretta per giunta. Diedi un'occhiata all'orologio: Ryan sarebbe arrivato di lì a poco.

Con un immane sforzo mi alzai e mi diressi in bagno. L'acqua calda e il profumo del bagnoschiuma mi rimisero al mondo. Non vedevo l'ora di sentire quello di Ryan.

Arrivò poco dopo. Avevo appena finito di asciugarmi i capelli quando suonò al campanello e di corsa andai ad aprire. Gli gettai le braccia al collo e lo abbracciai forte. Lo presi alla sprovvista, ma in un attimo la sorpresa scomparve e ricambiò stringendomi a sé.

«Che bell'accoglienza» mi sussurrò posandomi un bacio leggero vicino all'orecchio.

«Mi sei mancato» confessai e lui ridacchiò.

«Anche tu».

Il mio cuore perse un battito sentendogli pronunciare quelle parole. Gli ero mancata, mi aveva pensata. Che felicità!

«Sembri una bambina a cui hanno dato il permesso di scartare in anticipo il regalo di Natale» mi disse spostandomi il ciuffo che mi era scivolato davanti agli occhi. Poi mi baciò con una tenerezza tale da farmi tremare le gambe.

Gli feci la linguaccia sorridendogli. Era tutto così naturale con lui. Con chiunque altro non mi ero mai permessa simili slanci d'affetto, mi vergognavano certi comportamenti, non erano da me. O forse lo erano, ci voleva solo la persona giusta perché lo capissi. Per la prima volta ero fiduciosa, avevo cominciato a credere che quei sentimenti tanto belli, descritti nelle fiabe che ci raccontavano i grandi, esistessero per davvero, che si potessero provare. Tutto stava iniziando in quel momento e il meglio doveva ancora venire.

 

"How many times will let you me change my mind and turn around?
I can’t decide if I’ll let you save my life or if I’ll drown

I hope that you see right through my walls
I hope that you catch me ’cause I’m already falling
I’ll never let our love get so close”.

 

Ci sedemmo sul divano. La tv ci faceva da sottofondo mentre ci raccontavamo la giornata appena trascorsa. Lo stavo ad ascoltare incantata mentre mi parlava del lavoro, della famiglia, del futuro bambino di sua sorella. Avrebbe benissimo potuto continuare in eterno. Raccoglievo ogni sua parola come una preziosissima goccia d'acqua nel deserto. Mi ci dissetavo con il sapore così buono del bisogno.

Mentre parlava mi accarezzava i capelli, le braccia, le guance, mi stringeva forte quasi avesse paura che me ne andassi, quando ero io quella terrorizzata che questo potesse accadere.

'Tranquillo non succederà, io non me ne andrò. Ho giurato' pensavo e nel frattempo giocavo con le sue dita, riempivo gli spazi tra uno e l'altro con le mie, le facevo combaciare, percorrevo le linee sui suoi palmi facendogli il solletico.

Se quello era il paradiso, ero disposta a rinunciare a tutto il resto purché non finisse mai.

Ad un certo punto, qualcosa interruppe la calma. Strizzai gli occhi e feci finta di niente, ma Ryan non fu dello stesso avviso.

«Ti squilla il telefono» disse.

«Lascialo stare, prima o poi finirà» mugugnai infastidita. Non mi cercava mai nessuno, giusto in quel momento dovevano rompermi le scatole?

«E' tua madre» insistette lui, lanciando un'occhiata al display illuminato.

Mi tirai su controvoglia e risposi. Era la classica telefonata per sapere come stavo.

Ryan si mise a giocherellare con i miei capelli. Se li attorcigliava attorno alle dita e poi li stirava. Canticchiava a bassa voce e in faccia gli si era stampata l'espressione di chi sta cercando di ricordare qualcosa, che proprio non gli viene in mente.

Cinque minuti dopo riattaccai e lo guardai curiosa.

«Che c'è?» gli chiesi scrutandolo bene.

«Quella suoneria l'ho già sentita»

«Magari in radio. E' una canzone, si intitola 'Arms'» risposi, tentando ingenuamente di sviare il discorso. Avevo capito dove voleva andare a parare.

«Ed ho pure visto il tuo cellulare» continuò.

Deglutii ripensando a qualche giorno prima, in negozio.

«Non devi dirmi niente?».

Fu lui stavolta a guardare attentamente me. Sorressi il suo sguardo per poco, poi sconfitta, abbassai gli occhi e mi scusai.

«Che sono un'idiota? Forse questo lo avevi già capito...».

«Che era successo?».

«Non lo so. E' stato un istinto. Appena ti ho sentito parlare, mi sono nascosta e quando ho realizzato che stavo facendo una stupidaggine era troppo tardi per uscire. Scusa, davvero, sono andata nel panico. Il fatto è che...». Mi ci volle un gran bel coraggio per completare quella frase, anche se non era niente di che, a me costava fatica ammetterlo a voce alta. «Tu mi piaci e anche tanto, credo che questo si sia capito».

Ryan rimase in silenzio. Poi, improvvisamente, mi mise le braccia attorno alle spalle e mi attirò a sé.

«Non scappare più» mi sussurrò.

«Mai».

 

You put your arms around me and I’m home”

 

Prima di andarsene, Ryan si fermò davanti alla porta. Ogni volta era una sfida varcare quella soglia per uscire, sia per lui che doveva farlo, sia per me che non potevo trattenerlo.

«Domenica, perlomeno sei libera, no?» mi chiese.

Avevamo parlato di quanto ci sarebbe stato da sgobbare nei giorni a venire nel negozio di mia cugina.

«Certo. Per questa settimana ho già fatto abbastanza».

«Bene. Avevo un'idea in mente...».

Mi lasciò in sospeso un attimo, mentre ponderava se quello che gli frullava per la testa era davvero fattibile. Alla fine dovette decidere che non c'erano problemi, perché disse:

«Che ne dici di uscire?».

Sbarrai gli occhi per la sorpresa.

«S-sei sicuro?» balbettai. Sarebbe stato fantastico, ma poi?

«Facciamo una gita. Andiamo da qualche parte, solo io e tu. Potremmo andare in campagna, dai miei nonni».

Mi piacque molto l'idea dei nonni di Ryan. Mi immaginai lui bambino che correva per un campo con i pantaloncini corti e le bretelle. Mi venne quasi da ridere. Era una bella scenetta.

«Mi piace. Prendiamo la mia macchina» esclamai entusiasta.

«Hai una macchina?». La sua espressione mi fece ridere.

«Certo, ovvio».

«E perché vai sempre a piedi allora?».

«Perché fa bene. Pensa un po' se il giorno che ci siamo conosciuti fossi stata in macchina. Ti avrei fatto secco».

«In un certo senso lo hai fatto lo stesso».

D'istinto sorrisi mentre bisbigliava quella frase e si avvicinava per baciarmi. Lo lasciai fare. Il calore delle sue mani sulle mie guance era una sensazione indescrivibile. Chiusi gli occhi per assaporare ogni emozione fino in fondo. Era stupendo.

Se ne andò via dopo l'ennesimo bacio.

Ogni volta ero un po' più felice. Come se salissimo una scala, gradino dopo gradino, mi lasciava in un punto più alto.

E le vertigini aumentavano. Più salivo, più avevo paura di cadere.

 

 

 

Risalve!

Come va? Piaciuto il capitoletto? Ovviamente mi sono dimenticata di dirvi un paio di cose. La canzone del capitolo passato era You and Me dei Lifehouse. Quella di questo capitolo (e del prossimo) è Arms di Christina Perri, ora come ora la mia cantante preferita. Vi avverto che ve la ritroverete dovunque, peggio del prezzemolo nelle polpette. Chiusa parentesi culinaria.

Ringrazio tutti coloro che hanno letto, seguito, ricordato, preferito e recensito questa storia.

Avrei una domandina. Che ne dite se inserisco anche qualche parte dal punto di vista di Ryan?

Fatemi sapere che ne pensate. Per ora vi saluto. Ci rileggiamo tra 10 giorni, cioè il 19 dicembre con la seconda parte di Arms.

Ancora grazie a tutti, un bacio ciascuno e tanti guantini morbidi per riscaldare le vostre manine.

Ciao! 

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Capitolo 9
*** #5. Arms (parte 2) ***


Rieccomi! Scusate il ritardo. Buona lettura, ci leggiamo alla fine :)

 

 

Dawning bitch

 

 

# 5

 

Volevo solo guardarti dormire, la più pura, vera, grande magia che mi accadde fu questa. Seguire per tutta la notte, il ritmo del tuo respiro senza toccarti.

Ti amavo già, me ne accorsi da questo, da questo spietato desiderio. E la paura d’innamorarsi di qualcuno, l’ ho capito in quell’istante, è già un po’ amore silenzioso. Se potessi addormentarmi e risvegliandomi cancellare tutti i miei errori e ricominciare da zero saprei sempre ritrovarti. Ricomincerei dal primo battito nato pensandoti e saresti l’unica cosa che non correggerei, né col rosso né col blu. Se non sei tu l’amore, l’amore non esiste.

La luna blu, Massimo Bisotti

 

Arms (parte 2)

 

The world is coming down on me and I can’t find a reason to be loved
I never wanna leave you but I can’t make you bleed if I’m alone”.

 

Non dormivo da due notti. Quei pochi minuti in cui riuscivo a chiudere gli occhi mi mostravano immagini che non volevo vedere e finivo per girarmi e rigirarmi nel letto come un'indemoniata, fino alle prime luci dell'alba. A quel punto mi alzavo, stanchissima, e ricominciavo da dove avevo concluso.

L'episodio accaduto in negozio mi aveva turbata più di quanto dessi a vedere e cercavo di capirne i motivi alla base, ma più ci pensavo, più mi rendevo conto che era tutto dovuto alla mia stupidaggine.

Ero sempre stata una dura, una di quelle che non chiama il fidanzato per farsi venire a prendere alla stazione se il treno viene cancellato all'ultimo minuto, ma fa la strada a piedi, con gli auricolari nelle orecchie e il sorriso stampato in faccia, mentre pensa: 'il sole c'è. E' ciò che conta'. Le principesse e le romanticherie le lasciavo alle amiche.

Da quando Ryan era entrato nella mia vita però, tutto si era capovolto e questa cosa mi terrorizzava. Non ero più io, ma la nuova me mi piaceva e pure tanto. Il problema era la vecchia me che ogni tanto risorgeva dalle sue ceneri, buttava un'occhiata, qualche ruggito, per poi quietarsi alla minima cosa che, anche solo, mi ricordasse Ryan.

La vecchia Jude però non si arrendeva. Arrancava ferita, metteva in disordine tutto ciò che la nuova Jude aveva sistemato per bene, si lamentava, insinuava spine, punzecchiava il mio orgoglio ormai in coma profondo. A volte faceva il diavolo a quattro, fino a quando non capiva che era tempo perso. Allora si ritirava ad escogitare nuovi piani.

Compariva almeno una volta al giorno, di notte appunto, quando lui non c'era. In quei momenti i dubbi, i perché, le ribellioni si facevano vivi e pretendevano il primo posto.

'Se si comporta così con te, perché non la lascia?'.

'Non ti vuole'.

'Sei solo un passatempo, che credi, lei è una modella'.

'Finirai male, Jude'.

'Cosa prova per te?'.

In quei momenti sentivo lo stomaco attorcigliarsi e un dolore inspiegabile mi dilaniava il petto fino a farmi mancare il respiro. Mi sembrava di essere una stupida.

Volevo chiamare Ryan, stringerlo forte e addormentarmi fra le sue braccia, ma ero consapevole del fatto che mi avrebbe chiesto spiegazioni che non potevo, non sapevo e soprattutto non volevo dargli.

Con che faccia potevo dirgli che, a conti fatti, era lui la causa prima? Lui con le sue non scelte, le sue non parole, i suoi gesti a metà, fermati proprio sul punto di.

Confessargli tutto questo, avrebbe significato ferirlo e stavo già facendo abbastanza, costringendolo a mentire a chi gli stava intorno.

Forse, forse era colpa mia invece. Io che volevo tutto e che ero troppo egoista per lasciarlo andare, consapevole che restando con lui però, in qualche modo gli avrei fatto del male.

Lo stavo distruggendo come persona, mentre tentavo di costruire me stessa.

Stanchissima a causa di quei deliri, la terza notte, finalmente crollai.

Svegliandomi ebbi un'illuminazione. Forse una soluzione c'era, per quanto mi rendessi conto fosse stupida, ma se fosse servita a salvare entrambi, non poteva essere poi così cattiva. Dovevo far sì che il nostro rapporto non si approfondisse troppo. Ecco, dovevo tirare il freno a mano e rallentare, così se fossimo andati a sbattere, l'urto sarebbe stato più sopportabile.

Mi sentivo decisa e pronta ad affrontare tutto in maniera diversa.

Poi il campanello suonò.

Scattai in piedi ed andai ad aprire, le mani che mi tremavano, le guance rosse per la contentezza che fosse arrivato. Avremmo trascorso la giornata insieme, fuori. Lo avrei avuto tutto per me.

La vecchia Jude emise un ruggito e mi tirai un pugno all'altezza della bocca dello stomaco per farla star zitta.

Rallentare, tirare il freno a mano... Certo, come no. Misi la quarta precipitandomi alla porta per aprire.

Ero un caso patologico.

«Buongiorno».

Il suo sorriso era qualcosa di inspiegabilmente spettacolare. Si abbassò, ancora sulla soglia e mi sfiorò le labbra con un leggero bacio. Non c'era modo migliore per iniziare la giornata. Lo tirai dentro e gli allacciai le braccia al collo, continuando a baciarlo, quasi non lo vedessi da un secolo, ma ogni minuto lontano da lui durava almeno quattrocento cinquanta anni, figuriamoci una notte intera.

«Sei pronta?».

Annuii in risposta ed afferrai borsa, giubbotto e chiavi. A lui porsi quelle della macchina.

«A te l'onore» gli dissi.

«Fammi capire, non la usi mai, oggi guido io, ma che la tieni a fare?».

Feci spallucce, accomodandomi sul sedile di destra della mia Nissan.

«Può sempre servire, non si sa mai».

Ryan prese posto al mio fianco ed inserì la chiave nel quadro. La macchina tossì.

«Sicura che cammini?» mi chiese scettico.

«Non offendere la mia piccolina» lo avvertii e finalmente, dopo un secondo sbuffò si mise in moto. Ryan prese subito confidenza col motore e filammo via tranquilli per la superstrada.

Parlammo tanto, tra uno sbadiglio e l'altro. Ogni tanto si lasciava sfuggire qualche particolare della sua vita che ancora non conoscevo. Continuavo a memorizzare ogni dettaglio, mai esausta di sentire la sua voce.

Eravamo in viaggio da un'ora. Non avevo la benché minima idea di dove fossimo. Avevo perso l'orientamento dopo il secondo svincolo.

Guardavo fuori dal finestrino, distese infinite di campi coltivati. Qualche mucca pascolava tranquilla ed alzava la testa al nostro passaggio, masticando dell'erba secca.

Fuori splendeva il sole. Non sembrava nemmeno novembre.

Mi ricordai che nel lettore doveva esserci qualche CD e così accesi la radio.

«Ti dispiace?» chiesi a Ryan temendo di infastidirlo.

Lui scosse la testa e per tutta risposta si mise a ticchettare con le dita sul volante a ritmo della canzone che stavamo ascoltando.

Quando partì Arms, Ryan sorrise.

«Ti piace proprio, eh?» disse ridendo. Ancora una volta annegai guardando i suoi meravigliosi occhi.

«Se vuoi cambio» proposi.

«No, voglio ascoltarla tutta, magari capisco cosa ti colpisce tanto».

Sperai di non avvampare a quelle parole.

Come potevo spiegargli che vivevo quello stesso conflitto, descritto così bene in quelle righe? Il voglio non voglio, la battaglia tra la nuova e la vecchia Jude, indecisa ancora su quale delle due far prevalere.

Sbirciavo di lato, cercando di cogliere ogni sua reazione, un qualcosa che mi facesse capire a cosa stava pensando, ma non vidi nulla. Ryan si limitava a sorridere, prestando attenzione alla strada.

 

You put your arms around me and I'll believe that it's easier for you to let me go”

 

«Siamo arrivati» annunciò infine immettendosi in una stradina laterale in terra battuta. Eravamo in mezzo al nulla più totale, mi resi conto e automaticamente, mi sporsi per dare un'occhiata intorno.

Parcheggiò nei pressi di una casetta bianca, col tetto spiovente e la veranda di legno, come quelle che si vedono nei film. Immaginai due coppie di anziani seduti a giocare a bridge ricordando i vecchi tempi, trascorsi insieme, mentre i loro occhi si perdevano nell'infinita distesa di alberi che delimitava il confine della proprietà.

«Wow!» esclamai esterrefatta. Dov'ero finita?

Ryan si caricò la sua borsa in spalla e mi prese per mano, guidandomi verso l'interno.

«C'è un po' di polvere, non ci viene mai nessuno qui» mi spiegò mentre apriva la porta. Rimasi di nuovo a bocca aperta.

Doveva essere vecchia di almeno settant'anni ma era splendida, con il parquet scuro, i mobili appaiati, i decori alle travi e...

«Un camino!» dissi avvicinandomi. Era intarsiato in marmo e guardando bene, vidi dei piccoli segni in coincidenza con il muro. D'istinto risi indicandoli.

«I giochi miei e dei miei cugini. Ci divertivamo così».

Mi voltai e sul suo volto scorsi un'espressione felice ma malinconica. Ricordava i bei tempi, ormai finiti. Quella casa aveva perso la sua magia da quando era disabitata. Era successo anche a me. Quando i miei nonni erano morti, tutto quello che prima era speciale aveva perso la sua aura.

Lo baciai e lo strinsi forte. Certo, non avrei mai potuto riempire il vuoto che sentiva, ma provarci non mi costava nulla. Anzi, ero lì per lui.

'Sono nata per te' mi ritrovai a pensare senza mezzi termini.

«Facciamo una passeggiata» propose ed io annuii in risposta. Chissà quante altre bellezze c'erano da vedere in quel posto, oltre lui.

Diede un paio di giri di chiave e poi ci incamminammo. Direzione bosco.

«Da piccolo giocavo a nascondino qui dentro» disse.

Sbarrai gli occhi e poi fissai lui.

«Scherzi? E' infinito! Come facevi a non perderti?».

«Ho buon occhio» disse picchiettandosi lo zigomo. Ero strabiliata. Dovevano esserci ad occhio e croce chilometri di bosco e lui ci giocava a nascondino. Io sarei rimasta lì in eterno aspettando che mi ritrovassero.

Mi guidò fra alberi e sterpaglie, facendo attenzione perché nessuno dei due inciampasse. Si muoveva come se avesse da sempre vissuto lì, sicuro di sé e possente come un dio.

Lo ammiravo, come ipnotizzata dalla sua forza, dalla sua bellezza. Mi provocava uno strano effetto. Mi sentivo così piccola in confronto a lui, vuota di esperienza, ma allo stesso tempo ero pronta ad imparare. Non aspettavo altro che iniziasse la sua lezione perché potessi apprendere tutto ciò che c'era da sapere.

Un quarto d'ora dopo, ci fermammo. Eravamo arrivati nei pressi di un muretto basso in pietra, coperto di muschio e foglie. Attaccato, cresceva un albero che si allungava in un numero impressionante di diramazioni. Aveva ancora i rami pieni di foglie e, cosa stranissima, anche alcuni frutti.

«Un pero?» chiesi stranita. «Che ci fa un pero qui?».

Ryan fece spallucce.

«Ah, non lo so. C'è da quando ero bambino. Venivo qui quando litigavo con i miei. Mi sedevo ed aspettavo che si calmassero. Tornavo indietro quando ormai era buio» si confidò mentre ripeteva esattamente gli stessi gesti. Prese posto in un incavo del tronco che sembrava fatto apposta per lui.

«Mi hai portata nel tuo posto speciale» sussurrai incredula ed emozionata.

Lui sporse le mani verso di me. «Vieni qui» mi disse ed allungai le dita per toccare le sue. Mi accoccolai fra le sue gambe. A sua volta, il suo petto era fatto apposta per me.

«Sai, i frutti di quest'albero sono buonissimi. Non ne ho mangiati di uguali da nessun'altra parte».

Si sporse un po' e da un ramo pendente, staccò una pera piccola e verde, lucida, quasi le avessero dato la cera.

«Mi fido sulla parola» dissi allontanandomi d'istinto quando lui me ne allungò un pezzo. Aveva tirato fuori dalla tasca un coltellino svizzero e l'aveva tagliata, dopo essersela sfregata sulla camicia. Mi fissò interrogativo.

«Non mangio frutta. Non ce la faccio» chiarii. Stavolta fu lui a spalancare gli occhi sorpreso.

«Sei seria?».

«Già. Ho smesso quando sono diventata abbastanza grande da impedire a mio padre di imboccarmi a forza».

«E tutto questo perché...».

«Non c'è un vero motivo. Non riesco a mandarla giù, tutto qui».

«E se ci provassi io?».

Mi voltai quel poco necessario perché i nostri nasi si sfiorassero, negli occhi un misto di ansia e perplessità.

«Dai. Non voglio vomitarti addosso» mi lamentai.

«Un pezzetto, piccolo piccolo. Guarda» tagliò un quarto della fetta di prima e me lo mostrò. Era davvero minuscolo. Spostai lo sguardo prima su di lui, poi sulla pera, poi ancora su di lui titubante.

Mi ricordai di quando mia madre mi portava dal medico per fare il vaccino. Riusciva a convincermi solo promettendomi che mi avrebbe comprato il profumo delle bambole. Avevo di nuovo sei anni.

«Chiudi gli occhi» mi sussurrò. Obbedii senza pensarci tanto e qualche secondo dopo sentii il sapore dolce di qualcosa di sconosciuto sulle labbra.

«Fidati» bisbigliò ancora e allora schiusi la bocca, pregando in tutti i modi di non reagire male.

Sentii le dita di Ryan attardarsi un secondo di più e poi accarezzarmi il mento. Masticai ancora ad occhi chiusi. Non trovavo il coraggio di inghiottire.

Poi un altro sapore, molto più dolce, più intenso, fresco, pieno e il mio cuore perse un colpo.

Mi baciò. Delicato, tenero, come tutti i nostri baci, si infranse sulle nostre labbra e ancora una volta diceva tutto.

Ho bisogno di te. Solo adesso inizio a vivere. Non ho mai respirato prima di incontrarti.

Il mio cuore batteva all'impazzata e fu allora che capii che la vecchia Jude poteva lamentarsi, sbuffare e ringhiare quanto più le pareva e piaceva. Ormai aveva perso. Ryan mi avrebbe salvata, anzi, meglio, lo aveva già fatto.

 

I hope that you see right through my walls. I hope that you catch me, 'cause I'm already fallin', I'll never let our love get so close.

You put your arms around me and I'm home”.

 

«Visto? Non è stato poi così orribile» scherzò baciandomi ancora.

«Scemo» gli risposi fingendo di tirargli un pugno che però si perse nell'aria. Abbassai la testa, poggiandola sul suo petto, all'altezza del cuore e rimanemmo in silenzio per un po'. Non ero mai stata meglio in tutta la mia vita. Le sue braccia erano l'unica casa in cui avrei davvero voluto vivere ed ogni suo respiro dava aria anche a me.

Eppure tutto quello, per il resto del mondo era sbagliato. Noi non saremmo dovuti essere lì. Noi non saremmo nemmeno dovuti esistere. C'erano lui e la modella, non Ryan e Jude. Perché una cosa tanto meravigliosa doveva essere sbagliata? Che tipo di giustizia era quella che etichettava un sentimento così bello come errato, sporco, disonesto, immorale?

«A che pensi?».

Ryan mi fece sobbalzare con quella domanda, ma decisi di rispondere lo stesso.

«A quante nuove esperienze che prima mi rifiutavo categoricamente di provare tu mi stai facendo vivere».

«Ed è una cosa bella o no?».

«Non lo so ancora. E' meraviglioso per certi versi, ma vedi, è tutto nuovo e mi fa paura» confessai, stupendo me stessa per prima.

Io volevo che lui sapesse. Tutto.

 

"I tried my best to never let you in to see the truth
And I never opened up I never truly loved, ’till you

Put your arms around me
and I believe that it’s easier for you to let me go

I hope that you see right through my walls
I hope that you catch me ’cause I’m already falling”.

 

Cominciai a parlare senza pensarci più di tanto.

«Vedi Ryan, io non sono come le altre persone. Sono sempre stata... Come dire... Fredda, un po' insensibile quando si tratta di sentimenti. Io gridavo condoglianze alle spose appena uscite dalla chiesa. Coi ragazzi facevo la stronza, semplicemente perché era giusto così, perché quello era l'unico modo che avevo per difendermi: non affezionarmi e prendere tutto alla leggera. Non ho mai goduto di grande autostima ed ho sempre pensato che chi mi si avvicinava, lo facesse per qualche interesse secondario o per prendermi in giro e allora tiravo fuori le spine. Allontanavo tutti, mi sono costruita attorno un muro che pensavo fosse invalicabile. Le bombe degli altri perlomeno non gli facevano un graffio, ma è bastato un tuo soffio per buttarlo giù, e credimi, sono felicissima. Non sono mai stata così felice di sentirmi vulnerabile, perché qualcosa mi dice che ne vale la pena. Ho provato ad impedirti di entrare, mi sono sforzata, ma poi mi sono resa conto che io per prima volevo che tu oltrepassassi quel muro, volevo che lo sfondassi completamente e se non ci fossi riuscito da solo, ti avrei aiutato in tutti i modi che potevo. Però ce l'hai fatta, senza tante pene a dirla tutta. Solo che a volte ho paura, sono terrorizzata, perché tu prima o poi te ne andrai, scomparirai dalla mia vita ed io dovrò ricostruire il muro, con i vecchi cocci e non sarà più lo stesso. Sarà più fragile, più esposto agli attacchi e allora non saprò come fare a difendermi».

Ryan rimase in silenzio. Non avevo il coraggio di girarmi a guardarlo negli occhi. Forse dovevo stare zitta, non dovevo dire nulla di quello che mi frullava in testa. Lo avevo ferito? Se ne sarebbe andato ora? Dentro di me pregavo che le mie paure non prendessero forma, diventando realtà ed interrompendo bruscamente la pace che io già avevo deturpato con il mio discorso infantile.

Poi d'un tratto lui mi strinse. Più forte. Togliendomi il respiro per la sorpresa di quella reazione inaspettata.

«Hai ragione» mi disse, il suo volto affondato fra i miei capelli. La sua voce era quasi un sussurro, ma mi faceva tremare anche l'anima. «E' vero, potrebbe accadere un giorno, forse, ma non è detto. Però Jude, non voglio che tu abbia paura. Non fino a quando sarò con te. Poi il resto si vedrà. Io sono qui adesso».

Abbassai la testa, sentendomi immensamente in colpa per quel pensiero che era spuntato senza che lo volessi. Quell'idea così cattiva che disgustava anche me stessa.

Ryan parve leggermi nel pensiero.

«Dillo» mi invitò, ma rimasi in silenzio.

«Jude» continuò.

«Lascia stare, davvero, non so nemmeno perché siamo arrivati ad affrontare questo discorso».

«Voglio che tu mi dica tutto, sempre, soprattutto certe cose».

Distolsi lo sguardo imbarazzata ed insicura. Lui mi strinse ancora e mi cullò quasi fossi una bambina.

«E' tornata ieri» disse dopo alcuni minuti di silenzio.

Trasalii. Mi voltai appena per incrociare i suoi e vederli così limpidi e sinceri mi provocò un lungo brivido che mischiato alla notizia che mi aveva appena dato mi pietrificò. Lei era tornata. Ma lui...

«Ma tu sei qui... Con me...» mormorai incredula.

«Questo dovrebbe farti capire tante cose» aggiunse soltanto, baciandomi sulla fronte. Le sue dita si perdevano fra i miei capelli gonfi per l'umidità. Chiuse gli occhi e lasciò andare la testa, poggiandola sul tronco dell'albero che aveva assistito silenzioso a tutta la conversazione. Ammirai il suo profilo perfetto. Il naso dritto, le sue labbra, le guance appena scure di barba. Accidenti se era bello. Il suo petto si alzava e si abbassava ritmicamente. Mi accorsi che i nostri cuori battevano all'unisono.

Non saprei dire quale fu il momento esatto, ma se tra tutti avessi dovuto scegliere, credo sarebbe stato quello. Fu guardando il suo ennesimo sorriso appena accennato, frutto di chissà quale pensiero, che capii che la mia non era mai stata una semplice fissa, nemmeno una cotta o un interesse dovuto alla curiosità. Mi era bastato guardarlo qualche volta, ridere con lui, parlarci anche poco perché succedesse. Ero innamorata di lui. Come mai era successo prima.

Cazzo.

La vecchia Jude tirò un ultimo lamento, dopo di ciò emise un suono stridulo e si afflosciò come un palloncino sgonfio, definitivamente sconfitto.

La nuova Jude aveva vinto. Poteva entrare trionfalmente nella sua nuova casa.

Mi accucciai meglio fra le braccia di Ryan e chiusi anch'io gli occhi.

Il sole stava per tramontare e l'aria si faceva via via più fresca e pungente, ma noi eravamo come in un altro mondo dove nemmeno il freddo avrebbe potuto colpirci. Ci proteggevamo l'un l'altra.

 

You put you arms around me and I'm home”.

 

 

 

 

*_* Non so voi, ma a me questo capitolo piace tanto!

Come sempre ringrazio tutti coloro che hanno inserito DB nelle seguite, nelle preferite e nelle ricordate. Chi ha speso un attimo in più per recensire questa storia: grazie di cuore! E chi si è dedicato a Bitch. Ho visto che i numerini stanno salendo anche lì. Davvero, grazie!

Questo sarà l'ultimo capitolo per quest'anno.

Vi chiedo scusa anticipatamente ma in vista delle feste fermerò gli aggiornamenti. Però non dimenticatevi di me, di Jude e di Ryan.

Dawning Bitch riprenderà puntuale da giorno 7 gennaio e gli appuntamenti saranno come sempre, ogni dieci giorni. Io nel frattempo sarò a lavoro per voi, non vado in vacanza ;)

Auguro quindi un serenissimo Natale a tutti voi e il più felice degli anni nuovi!

Vi ricordo che se in questo periodo di stop, volete avere qualche info su di me o sul prosieguo dei lavori, la mia pagina vi attende qui: https://www.facebook.com/oo00SerenityMoon00oo

Ancora grazie mille a tutti! A giorno 7, un abbraccio enorme

Serenity

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Capitolo 10
*** #6. Be the one ***


Bentrovati e buona lettura. Vi avverto, questo capitolo non finisce mai. Non credo di averne mai scritti di così lunghi. Spero vi piaccia. Ci rileggiamo più sotto.

 

Dawning bitch

 

 

# 6

 

Be the one

 

Ero avvolta nelle nuvole.

Mi sentivo galleggiare nel bianco, sommersa da una sensazione di beatitudine che ormai da un po' mi teneva compagnia. Era tutto così chiaro e dolce e armonioso. Forse era davvero il paradiso.

E c'era pure la musica. Un arpeggio di chitarra elettrica che mi faceva pensare al sole che sorge, piano piano e prorompente, inonda la stanza, le città, il mondo intero, colorandolo prima di rosa, poi di giallo.

Una musica trasparente, che lentamente si diradava in un alone e dopo il primo giro, cominciava a pulsare al ritmo della batteria, tum-tum-tum-tum.

Aprii prima un occhio, poi un altro, sbirciando ai lati della mia camera da letto vuota. Ero coricata a pancia in giù, in quella che era una posa del tutto ridicola, il piumone arricciato fino al collo a coprirmi per bene. Il cuscino ben stampato in faccia.

Ryan ed io avevamo fatto le ore piccole ridendo e scherzando. Alla fine ci eravamo addormentati esausti, abbracciati l'uno all'altra. Il battito del suo cuore mi aveva fatto da ninna nanna mentre, con la testa poggiata sul suo petto, gli disegnavo ghirigori con le dita.

Non l'avevo sentito andarsene.

La musica continuava, non la stavo sognando ed alzai la testa per cercare il punto da dove provenisse. Sul comodino al lato opposto al mio, un cellulare che non conoscevo squillava a tutta forza.

Mi sporsi per raggiungerlo, lo fissai per un attimo, provando a decifrare cosa ci fosse scritto e riconobbi all'istante le cifre del numero di Ryan.

«Pronto?» mugugnai con la voce impastata dal sonno.

«Buongiorno piccola».

La sua voce fu una tazza di latte e miele. Non appena la sentii mi parve di ricominciare a vedere tutto a colori.

«Buongiorno anche a te».

«Sei a casa? Ho dimenticato il cellulare, dovrei passare a prenderlo» mi spiegò. Allontanai l'apparecchio per guardarlo e poi ripresi a parlare.

«Quando vuoi. Ma adesso da cosa stai chiamando?».

Ryan rimase per qualche secondo in silenzio, forse valutando se fosse opportuno o meno rispondermi. Parve decidersi che dopotutto poteva farlo.

«Ho due numeri. Quello che ho lasciato da te... Beh, è quello ufficiale» disse titubante.

«Oh» mi lasciai sfuggire sorpresa. Poi aggiunsi per sdrammatizzare: «Ti prego, vienitelo a prendere il più presto possibile, non vorrei che arrivasse la polizia».

Soffocò una risata che udii appena.

«Sei ancora a casa?».

«Certo, perché dove dovrei ess... Oh cazzo!». L'occhio mi era caduto sulla sveglia che segnava le nove e venti passate. Saltai giù dal letto in preda al panico. Dovevo essere all'università alle dieci!

«Ecco, appunto» esclamò Ryan dall'altro capo del telefono.

«Devo correre!» lo salutai.

«Arrivo».

Scappai in bagno gettando il cellulare sul letto e mi fiondai sotto la doccia come un razzo. Mi sarebbe pure toccato prendere la macchina per arrivare in tempo. Che disdetta, come avevo fatto a non sentire la sveglia? Pensandoci bene non l'avevo nemmeno puntata. Stavo perdendo il senno. Dovevo riprendermi.

Okay, ma un altro giorno. Per ora dovevo sbrigarmi e basta. Non avevo nemmeno il tempo di rassettare il letto. Quella casa era un porcile.

Ryan arrivò mentre uscivo dalla doccia.

«Un attimo!» urlai provando a rendermi presentabile.

Mi precipitai ad aprirgli in calze, jeans e reggiseno. Non mi ero nemmeno potuta mettere le scarpe e rischiai seriamente di rompermi l'osso del collo svoltando per andare in cucina.

Lui sgranò gli occhi quando mi vide ed involontariamente avvampai per poi ricordarmi che era tardissimo e ricominciare a correre come un'ossessa.

Gli diedi un bacio veloce e andai alla ricerca di una maglietta.

«Il cellulare è in camera da letto» gli dissi facendo capolino dalla porta del bagno.

Ryan sembrò non sentirmi. Si avvicinò a me invece, mi prese per le spalle e mi disse: «Calmati» con un tono così gentile e comprensivo che il mio cuore davvero si calmò e smise addirittura di battere un paio di volte. Mi baciò e mi dimenticai ogni problema. Addio fretta, università, traffico. Qualunque cosa avrebbe dovuto aspettare.

«Ti sei dimenticata di mettere la sveglia, vero?» disse e il suo sorriso più bello gli curvò le labbra.

«Già».

Mi diede un buffetto prima di baciarmi ancora. Lo lasciai fare incurante dei minuti che passavano. Pensandoci bene potevo anche lasciar perdere l'università per quel giorno. Che danno poteva poi fare un'assenza?

Le sue mani scivolarono lungo la mia schiena e rabbrividii al contatto con le sue dita soprattutto quando percorsero più volte le zona dei fianchi. Gli allacciai le braccia al collo, baciandolo a mia volta con passione. Assaporai le sue labbra carnose con l'intento ben preciso di non lasciarlo andare almeno per la prossima mezzora.

Ryan accennò un movimento verso il basso. Stava per prendermi in braccio, quando il suo telefono squillò.

«E' quello ufficiale» mugugnai riconoscendo la suoneria.

«Che rottura!» fu la sua risposta mentre andava in camera a recuperare il colpevole. Mi appoggiai al lavabo onde evitare che le gambe cedessero ed arrivassi a terra di peso. Aspettandolo, mi dedicai al trucco. Non esageravo mai, solo un po' di fondotinta, cipria, ombretto, matita e mascara, tutto rigorosamente in colori tenui. Odiavo l'effetto maschera, anche se in qualche modo dovevo coprire le occhiaie.

Ryan tornò mentre finivo di passare la matita.

«Sei bellissima anche senza» mi disse, abbracciandomi da dietro. Di colpo avvampai, un po' per il complimento inaspettato, un po' per l'immagine che rifletteva lo specchio. Noi due insieme. Pensai che eravamo perfetti. Non erano solo le nostre menti, le nostre passioni, i nostri desideri ad essere complementari. Anche fisicamente riuscivamo ad amalgamarci, senza costruire uno di quei brutti quadri sproporzionati che avrebbero fatto ridere anche i polli.

Mi voltai e gli diedi un bacio sulla guancia.

«Devo essere alla tua altezza, caro Apollo» gli risposi e lui rise, stringendo gli occhi. Altroché se era bello. Non avevo mai visto nessuno più bello di lui e dubitavo che mai sarebbe successo.

«Ti accompagno io?» si offrì.

Guardai l'orologio. Le dieci meno dieci. Scrollai la testa costringendo la Jude innamorata a sottostare a quella ragionevole.

«Grazie, ma credo sia meglio di no. Non vorrei che qualcuno ci vedesse».

Dovevo pensare prima a lui, anche se morivo dalla voglia di trascorrere tutta la giornata insieme e non un semplice quarto d'ora di macchina. Io non avevo nulla da perdere a conti fatti, lui rischiava di ritrovarsi con le mani totalmente vuote.

No, un attimo, io potevo perdere lui. Lui era il mio tutto. D'un tratto la posta in gioco era diventata enorme.

Mi posò un bacio sulla spalla lasciata scoperta dalla maglietta gialla che avevo appena indossato e mi precedette per la cucina. Annodai un foulard colorato attorno al collo, indossai il giubbotto, le ballerine e mi accinsi a prendere la borsa.

«Menomale che ti ho trovata ancora in casa» disse osservandomi. Sperai mi trovasse un minimo attraente.

Un lampo mi attraversò la testa. Ci avevo pensato un paio di sere prima, ma poi un po' per una cosa, un po' per un'altra, me n'ero dimenticata.

«Fermo lì» gli intimai e tornai indietro. Ormai il danno era fatto. Pazienza, avrei saltato una lezione.

«Dove vai?» urlò lui per farsi sentire.

Non gli risposi. Invece mi misi a rovistare nel cassetto del mio comodino. Avendo ottenuto poco successo dalla mia ricerca, che però aveva ricoperto il pavimento di una quantità assurda di cianfrusaglie, tra le quali i miei pigiama puliti, almeno cinque calzini spaiati e altre cose che mi ero pure dimenticata di avere, cambiai zona. Rivoltai i cassetti superiori dell'armadio, quello del tavolo da toeletta che usavo come scrivania e infine dentro un piccolo porta gioie trovai quello che cercavo.

Ryan comparve nella stanza e sbarrò gli occhi.

«Che stai combinando?» chiese preoccupato.

Mi alzai trionfante, stringendo tra le dita una piccola chiave argentata: il doppione che apriva la porta di casa.

Gliela porsi con un sorriso.

«Sei sicura?» mi domandò strabiliato. Io stessa mi rendevo conto che era una mossa se non azzardata, sicuramente coraggiosa.

«Così puoi venire quando vuoi. E' anche casa tua, adesso».

Mi regalò un sorriso, poi si chinò a prendere qualcosa che giaceva scomposto sul pavimento. Dovevo al più presto dedicare un paio di ore a rassettare la casa.

Mi restituì quello che mi accorsi essere il mio diario segreto. Per la verità era un semplice quaderno rosso a spirale con la copertina di cartone. Niente di così artificioso, ma dentro c'erano tutti i miei segreti e le ultime pagine in particolare, erano piene dei miei pensieri su Ryan. Mi vergognai chiedendomi cosa avrebbe pensato leggendoli, ma forse, di tutti, lui era l'unico a cui avrei permesso di scorrere quei fogli.

Gettai il diario sul letto e presi Ryan per mano.

«Andiamo?» lo invitai e lui mi seguì senza tante storie.

Finalmente aprimmo la porta, ma prima di uscire ci concedemmo un altro bacio. Non ci saremmo rivisti fino a sera, se fosse andato tutto bene e non ero disposta a rinunciare a salutarlo.

«Cos'è quel segno sul calendario» mi chiese d'improvviso. Mi girai a guardarlo a mia volta. Che segno?

«Oh».

Il 23 era cerchiato in rosso e spiccava quasi come la lampadina di un semaforo.

«Nulla di importante» ma lui non si fece convincere e tornò dentro ad osservare meglio. Oltre al cerchio però non c'era scritto nulla.

«Perché è cerchiato?» insistette.

«Amore, dai è tardi!».

«Dimmelo».

«Ti ho già risposto che non è nulla di importante».

«E perché lo avresti cerchiato allora? Su, che c'è il 23?».

Tirai un gran sospiro, alla fine, sconfitta, rivelai l'arcano.

«E' il mio compleanno».

Ryan spalancò gli occhi sorpreso. Chissà che cosa si aspettava.

Lo presi sottobraccio e lo guidai fuori. La luce che gli era apparsa negli occhi non prometteva nulla di buono.

Si lasciò trascinare senza tanti convenevoli e lo accompagnai fino alla sua macchina, parcheggiata poco dopo il cancello. Non disse niente fino a quando non fummo arrivati ma non ci voleva una laurea per capire che il suo adorabile cervellino si era messo a lavoro.

«Qualunque cosa tu stia pensando» gli intimai «lascia perdere».

Mi guardò storto, quasi fossi pazza (vero?). Poi si mise a ridere in quel modo che adoravo.

«Ne parliamo stasera» mi disse. Mi stampò un bacio sulle labbra e salì in macchina. Partì sgommando e le mie raccomandazioni da moglie premurosa si persero nell'aria.

Sospirai facendo spallucce, poi anche io andai a recuperare la mia auto.

La giornata era cominciata in quarta, speravo si sarebbe calmata via via.

 

They're two lovers in the night

waitin' on the sun to rise.

Passing ships into the night

under different skies.

But you just whisper what you said

one last time

I could have sworn I heard you say

that you are mine”.

 

Quando arrivai la prima lezione era ancora a metà. Mi rifiutai di entrare e così mi rifugiai in biblioteca. Non mi piaceva attirare l'attenzione e una porta che si apriva mentre l'aula era nel silenzio più totale avrebbe fatto sì che tutti mi fissassero. Da evitare.

Mi avviai verso il tavolo in fondo alla sala e posai la borsa sul legno pesante. Ne estrassi un libro e mi gettai nello studio profondo. Ultimamente avevo un po' trascurato i miei doveri da universitaria ed ero rimasta indietro col programma che mi ero prefissata ad inizio anno. Mi ci sarebbero voluti un bel po' di tempo e volontà per recuperare e non è che ne avessi poi così tanti. Il tempo lo dedicavo tutto a Ryan, dal primo all'ultimo secondo. Se non lo vedevo, lo pensavo, ne restava ben poco da dedicare alle responsabilità. La volontà... Beh, quella non credo di averne mai avuta molta, in particolar modo da quando lui era entrato nella mia vita. Tutti i progetti che avevo fatto si erano dissolti come neve al sole. Addio viaggi, realizzazione e tutte quelle che adesso mi sembravano vere e proprie sciocchezze in confronto all'immensità di ciò che mi faceva provare Ryan. Se me lo avessero detto non ci avrei creduto, ma adesso che lo stavo provando sulla mia pelle potevo sicuramente affermare che sì, niente era più importante di lui.

Bip.

Saltai in aria per lo spavento e una decina di teste si girò verso di me, a mo' di rimprovero. Afferrai il cellulare e lo nascosi in grembo accovacciandomi, imbarazzatissima. Che vergogna! Per prima cosa tolsi la suoneria, poi corsi a leggere. Ovviamente era lui.

'Cosa posso regalarti?'.

 

Come immaginavo. Soffocai una risata e gli risposi.

 

'Niente. Smettila'.

 

Avevo ragione a pensare che si fosse messo a marchingegnare qualcosa. Il problema era: cosa? Sicuramente non avrebbe fatto nulla di scandalosamente eclatante, ma se già stava pensando a cosa architettare, forse un motivo per preoccuparmi dovevo averlo.

Certo, mi faceva immenso piacere vedere che aveva preso a cuore la cosa, ma non volevo che facesse nulla.

Io e i compleanni non eravamo mai andati molto d'accordo. Le mie aspettative erano sempre state troppo alte e finivano inesorabilmente per venire deluse, quindi col tempo mi ero costretta a non immaginare niente di speciale per quel giorno a cui in realtà tenevo tantissimo.

 

'Non farmi fare di testa mia'.

 

Fu questa la sua risposta/minaccia/sfida. Come potevo non accoglierla?

Gli inviai solo uno smile e curiosa me ne tornai al mio studio.

Nella testa risuonava la sua suoneria. Era carina quella canzone, appena tornata a casa l'avrei cercata. Continuai a sfogliare le pagine, sottolineando qua e là qualche parola importante o un concetto da memorizzare e senza accorgermene finii un intero capitolo. Quella materia non era poi così noiosa come temevo.

Presi le mie cose quando vidi che si era fatto tardi e mi avviai verso l'aula per la seconda lezione del giorno. Dopo me ne sarei potuta tornare a casa. Piuttosto, dovevo mettermi d'accordo con Ryan per la serata.

Mi sedetti al centro, tirai fuori dalla borsa carta e penna ed iniziai a scarabocchiare nomi e cuoricini sul foglio tanto da renderlo impresentabile in pochi minuti.

L'insegnante parlava da solo. Ero presente solo fisicamente. La mia mente vagava e ovviamente la sua meta era solo una: le braccia di Ryan.

Potevo davvero concedermi il lusso di sperare in qualcosa di spettacolare?

Quella sua domanda 'cosa posso regalarti'...

In realtà non lo sapevo nemmeno io. Non c'era niente che mi mancasse in quel preciso istante della mia vita. Niente che io volessi e che già non avessi. Da quando lui era entrato nei miei giorni, questi si erano riempiti, come magicamente. Il senso di vuoto e di inadeguatezza che avevo da sempre provato era scomparso, lasciandomi finalmente libera di poter capire cosa c'era davvero di bello lì fuori. Quella città che tanto avevo odiato si era trasformata in un luogo idilliaco e splendente per il solo fatto che era la sua città, dove lui era nato e cresciuto. Aveva corso per quelle strade da bambino, aveva inciampato nei suoi marciapiedi, ne aveva sfiorato i muri, varcato la soglia dei negozi, respirato l'aria. Non potevo non amare ogni singolo centimetro di quella città ora che amavo anche lui. La sola prospettiva di allontanarmene adesso mi faceva venire i brividi.

Il mio vicino mi passò un foglio, risvegliandomi dalle mie fantasie. Misi una firma e lo passai avanti per poi tornare ai miei scarabocchi. Il professore non aveva smesso di parlare un attimo.

Mi guardai intorno alla ricerca di qualcuno dei miei amici e li vidi seduti in alto, più distratti di me. Eric e Paula, ci avrei scommesso la testa, stavano addirittura giocando. Se stavano continuando la nostra partita a Monopoli senza di me mi sarei incazzata di brutto.

Josh si accorse che li fissavo e alzò la mano in un cenno di saluto. Ricambiai velocemente e mi girai verso lo schermo dove il professore stava proiettando alcune diapositive. Finsi di copiare ciò che c'era scritto, ma tornai di nuovo a rimuginare sulla richiesta di Ryan. Come poteva una semplice domanda ossessionare in quel simile modo?

A fine lezione, presi la mia roba in fretta per sgattaiolare via ed arrivare in orario in negozio, ma i miei buoni propositi furono presto bruciati. Josh mi bloccò prima che potessi oltrepassare la soglia dell'aula.

«Ti sei persa una bella lezione stamattina».

Sospirai in silenzio, uccidendo sul nascere l'istinto di rispondergli male. Chi se ne fregava della lezione, ero stata con Ryan!

«Non ho sentito la sveglia» dissi facendo spallucce. Non avevano nulla di che parlare, si vedeva lontano un miglio che avevo una fretta assurda, perché diamine non si spostava e mi lasciava passare?

«Ehm...».

Cominciammo entrambi contemporaneamente e contemporaneamente ci fermammo.

«No, niente. Cioè, mi chiedevo se...».

Paula mi si catapultò addosso e presto fu raggiunta dal resto della truppa. Ci spinsero fuori e si misero a parlare tutti insieme. Capii solo che c'entravo io nella discussione. E il mio compleanno.

«Allora? Hai già scelto il locale? E la torta? Dove ci porti?».

Arretrai, sommersa da quella serie infinita di domande.

«Wo, calma!» li zittii.

D'un tratto mi venne in mente che tipo di regalo avrei potuto chiedere a Ryan.

«Scusate ragazzi, ma quest'anno niente festa. Ho già preso un impegno per quel giorno».

I loro 'no' risuonarono come degli ululati. Alzai le spalle come per dire mi dispiace, ma non avevo per nulla l'intenzione di barattare una serata con Ryan con una notte folle in giro per locali a bere e dissacrare canzoni.

«Ma dai!» provarono ad insistere, ma fui irremovibile.

«Lavoro fino a tardi e ho promesso ai miei che sarei andata da loro» mentii. Parvero bersela tutti, tranne Josh. Mi squadrò con quei suoi terrificanti occhi grigi come a voler dire che non lo avrei ingannato. Ma che diavolo voleva?

Salutai tutti e tornai alla macchina. Speravo che il pomeriggio volasse.

 

Faded flowers in your hand
The best that I could do
It's the only way i've had
Of reaching you

I never saw it like you did
Didn't know that it was there
You don't see it in your hand
Until the end”.

 

Alle 21 in punto sentii la serratura girare e un piccolo spiraglio del portone di ingresso si aprì.

«Si può?».

La voce di Ryan si sparse per la casa e mi sembrò per un attimo di vedere le pareti scintillare, contente anche loro che fosse arrivato.

«Non avevo mai sentito di un uomo che chiede il permesso di entrare in casa sua».

Lo accolsi con un asciugamani in testa, i capelli bagnati e solo i pantaloni della tuta. Per la seconda volta nello stesso giorno lo vidi soffermarsi sul mio corpo, ma stavolta mi attardai un attimo in più ad analizzare la sua espressione, nonostante sapessi di essere già avvampata in viso.

I suoi occhi percorsero ogni centimetro di pelle. Non capivo se era imbarazzato o altro.

La nostra intimità per il momento consisteva solo in baci, abbracci e carezze. Non eravamo ancora andati oltre. Io non avevo ancora avuto il coraggio di andare oltre e la cosa mi faceva vergognare e mi impauriva allo stesso tempo. Ero follemente innamorata di lui, ma tremavo al solo pensiero di doverci fare l'amore.

Non che non lo desiderassi, anzi! Mai mi era capitato di volere una persona, in tutti i sensi, come succedeva con lui. Semplicemente ero bloccata, spaventata, meglio terrorizzata.

Maledetta modella. Facevo finta di nulla, ma il confronto con lei mi infastidiva eccome!

Passato il suo momento di sconcerto si avvicinò e mi baciò. Quando mi poggiò le mani sui fianchi, una scarica elettrica percorse tutte le mie terminazioni nervose. Ero sensibilissima ad ogni suo tocco.

«Vai a vestirti ed asciugati i capelli» mi ordinò ma non lo stetti a sentire. Mi fiondai sulle sue labbra zittendolo e beandomi della sua presenza in quella casa e nel mondo.

«Fila» ripeté indicando il corridoio e mi spinse in bagno. Gli feci la linguaccia.

Presi il phon e, testa in giù, iniziai a passarlo fra i capelli. Lui si appollaiò allo stipite, si mise a braccia conserte e riprese a guardarmi divertito.

«Allora, la risposta alla mia domanda di stamattina?».

Sbirciai tra le ciocche. Dovevo essere davvero buffa in quella posizione, ma la sua faccia al contrario lo era molto di più.

«Che domanda?».

«Cosa posso regalarti?».

Accidenti.

«Non ho sentito». Avevo sentito più che bene in realtà.

«Cosa posso regalarti?» ripeté un po' più forte.

«Eh? C'è il phon, non sento» e mi misi a far rumore pure io con la bocca.

Ryan capì che lo stavo prendendo in giro e reagì. Si fiondò dentro, mi venne alle spalle e in un attimo mi ritrovai ad un metro da terra, fra le sue braccia, scalciando come un'ossessa mentre lui minacciava vendetta.

«Mettimi giù!» urlai con la voce rotta dalle risate.

«Non sento!» fu la sua risposta e si mise in cammino verso la camera da letto. I suoi occhi brillavano e se poteva essere possibile il suo sorriso era ancora più bello mentre mi lasciava scivolare sul materasso ed iniziava a farmi il solletico.

«No, il solletico no!».

Stavo per piangere per il troppo ridere. Lui si stava divertendo da matti.

Faceva correre le dita instancabilmente. Il collo, le spalle, l'incavo dei gomiti, poi il busto, i fianchi, la pancia. Una rete interminabile di brividi mi percorreva senza freni.

«B-basta» balbettai, ma non c'era verso di farlo smettere. A dirla tutta, non volevo proprio che smettesse.

Riuscivo a malapena a respirare. L'ultima volta che avevo giocato in quel modo avevo sì e no cinque anni, ma non mi ricordavo che il solletico potesse essere così bello, pieno e sensuale.

Di punto in bianco si fermò. Le sue mani si erano posizionate sui miei polsi, ai lati della testa. Avevo attorcigliato le gambe al suo bacino e il fiatone faceva alzare e abbassare il mio petto più velocemente del dovuto.

Incatenò il suo sguardo al mio e per un attimo fui consapevole che ormai non avevo più nemmeno bisogno dell'aria per sopravvivere. Mi bastava che ci fosse lui, solo lui.

«Allora?» ricominciò, «cosa posso regalarti per il tuo compleanno?».

«Te».

Fu poco più di un sussurro. Non riuscii a trattenere quelle due lettere che una volta fuori dalla mia bocca, si gonfiarono a dismisura prima di esplodere in tutta la loro potenza.

Volevo lui, solo ed esclusivamente lui, per il mio compleanno e per il resto dei miei giorni.

Ryan si pietrificò per un istante ed io tremai. L'ombra che per un attimo gli aveva attraversato gli occhi non mi piacque per niente e mi resi conto che non avrei dovuto parlare.

«Jude...».

Lo interruppi subito e cercai di rimediare.

«Passiamo la serata insieme, ti va? Cucino qualcosa e visto che ci tieni tanto festeggiamo, soltanto tu ed io» chiarii.

Lui sembrò rilassarsi e mi sorrise.

Ripromisi a me stessa di non tornare mai più sull'argomento 'futuro insieme'. Dopotutto non avrebbe giovato a nessuno dei due e se io potevo accettare le piccole ferite che quella relazione prima o poi mi avrebbe inferto, era fuori questione che Ryan ne venisse anche solo sfiorato.

Gli sorrisi a mia volta e lo attirai a me. Andava bene così.

 

Erano le 23:59 del 22 novembre. Gli occhi stavano per chiudersi a causa del sonno. Tra poche ore mi sarei dovuta alzare. Ad attendermi c'era una giornata più che piena.

Fuori un campanile scoccò la mezzanotte.

Quasi all'unisono il mio cellulare emise un bip e vibrò.

 

'Volevo essere il primo. Buon compleanno'.

 

Posai il telefono e sorrisi. Una lacrima di felicità mi bagnò gli occhi e si infranse sul cuscino.

'Lo sei, amore mio. In ogni cosa, sei sempre il primo'.

 

 

What if I knew how to yell
What would I pray
What if I knew how to tell
What would I say

I will be the only one
If you say you'll never go
I'll be screaming out your name
From the back of ohhhh”

 

Il 23 arrivò come sempre, annunciato dalla sveglia. Mi tirai su stiracchiandomi e ovviamente il primo pensiero andò a Ryan. Sicuramente stava ancora dormendo. Avrei voluto essere con lui per dargli il buongiorno.

Non avevo mai realizzato quanto fosse bello svegliarsi con qualcuno accanto, soprattutto poi se quel qualcuno era la persona amata. Quante cose non avevo capito, stupida per com'ero. Per fortuna era arrivato lui e il mio mondo si era aperto. Se avessi mai pregato, lui sarebbe stato la realizzazione di ogni mia richiesta a dio.

Mi accontentai di inviargli un SMS e poi corsi in bagno. Una doccia veloce e poi dritta in università a sorbirmi l'ennesima partita a Monopo... ehm, volevo dire lezione.

I miei amici mi aspettavano all'ingresso con una bottiglia di spumante e una confezione di bicchieri di plastica.

«Se Maometto non va alla montagna, la montagna va da Maometto!» mi accolsero prima di cominciare a cantare in modo osceno la classica 'Tanti auguri'. Promisi ad ognuno una morte lenta e dolorosa.

A salvarli fu solo il pensiero che se fossi andata in carcere non avrei potuto trascorrere il mio tempo con Ryan. Fortunati!

Con la coda dell'occhio, intravidi Josh seminascosto dietro ad un albero che ci fissava. La sua espressione era indecifrabile, ma ad essere sincera poco mi importava. Lo salutai con un cenno della testa e poi seguii Paula che mi aveva presa a braccetto e mi stava trascinando verso l'aula. Non vedevo l'ora che la lezione finisse. Avevo un mare di lavoro da fare. Casa da pulire, cena da cucinare e soprattutto testa da liberare da tutti gli altri inutili pensieri per far posto solo a Ryan.

 

Il mio secondo regalo di compleanno fu un altro sms.

Quattro parole che mi fecero quasi saltare di gioia. 'Vengo a prenderti io' e se potevo essere più felice lo sarei stata, ma ero già al culmine della contentezza, o almeno così pensavo.

Uscii dall'aula di corsa. La sua macchina era parcheggiata proprio di fronte all'ingresso. Aprii la portiera e mi infilai dentro senza tanti convenevoli. Avrei tanto voluto buttargli le braccia al collo, ma rischiavamo già tanto in quel modo, figuriamoci se qualcuno ci avesse visto in certi atteggiamenti.

Cauto infatti, mi prese solo per mano e mi sorrise. Voltandosi però, si accigliò.

«C'è un tipo che ti fissa».

Focalizzai il punto che indicava con gli occhi e ancora una volta lo vidi, Josh. Iniziava a darmi sui nervi quel tipo. Cos'era, mi seguiva?

«Lascia perdere» dissi a Ryan ignorandolo. Magari in quel modo sarebbe sparito.

«Lo conosci?».

«Frequenta alcune lezioni del mio corso».

Ryan non rispose. Rimase qualche secondo in più ad analizzare la situazione e poi partì. Non spiccicò una parola per tutto il tragitto. Iniziavo a preoccuparmi.

Entrati in casa, finalmente lo abbracciai. Si capiva lontano un miglio che era nervoso, anche se faceva di tutto per nasconderlo. Resistetti un paio di minuti, alla fine sbuffai.

«Si può sapere che è successo?».

Non capii se fece finta o realmente non si rendeva conto di ciò di cui lo stavo 'accusando'. Fece una faccia talmente strana che quasi scoppiai a ridere.

«Hai messo il muso da quando mi sei venuto a prendere» gli spiegai.

«Stavo pensando ad una cosa» si limitò a dire e per farsi perdonare allargò le braccia. Mi accoccolai sul suo petto e lui mi circondò dapprima più piano del solito, poi parve ritrovare vigore e mi strinse più forte. Non sapevo come mai, ma mi trasmise uno strano senso di angoscia che fece sì che a mia volta lo abbracciassi con tutta la forza che avevo in corpo. Ebbi paura come non mai che potesse abbandonarmi e la luce che per un attimo assunsero i suoi occhi parve confermare il mio terrore. Avrei pagato oro per leggere i suoi pensieri in quel momento.

Ryan si accorse che c'era qualcosa che non andava e subito si riprese, scacciando i demoni che avevano voluto giocargli chissà quale scherzetto.

Prese a baciarmi i capelli e sentii chiaramente i suoi muscoli distendersi mentre si rilassava.

Cominciammo a respirare in sincrono. Il battito del suo cuore divenne una sorta di ninnananna e successe una cosa che mai mi era accaduta prima. Mi addormentai tra le sue braccia. Senza accorgermene, scivolai nel sonno, circondata dalla sicurezza che solo lui era stato capace di darmi dal primo momento in cui ci eravamo conosciuti.

Forse sognai, non lo so, o forse ebbi un assaggio di quello che era il paradiso, in quella sorta di dormiveglia in cui ero scivolata sentivo il suo respiro infrangersi sulle mie guance accaldate ed il calore delle sue braccia diffondersi per il resto del corpo.

'Non andartene mai' pensavo circondata da quel mondo ovattato. 'E' questo il regalo che voglio, che tu stia per sempre qui, con me. Vorrei essere l'unica per te, perché tu per me lo sei. L'ho capito adesso cosa voglia dire amare. Sei stato tu ad insegnarmelo. Sei tu la mia persona giusta. L'unico. Non te ne andare mai, Ryan, ti prego'.

 

Be the one and only, wait for me
Will you be the only one
Will you be, be the one and only
Wait for me, will you be the only one”.

 

«Jude? Piccola?».

Tornai alla realtà mezza frastornata, per non dire del tutto. Ryan, accanto a me, sbatteva anche lui le palpebre. Doveva essersi addormentato pure lui.

«Tutto bene? Che stavi sognando?».

«Non me lo ricordo» risposi stropicciandomi gli occhi. Evidentemente dovevo essermi agitata e lo avevo svegliato.

Gli diedi una carezza e lui baciò il palmo della mia mano.

«Mi sa che dovrò rinunciare ai tuoi manicaretti» scherzò. Guardai l'orologio. Accidenti erano le diciannove passate. Quanto cavolo avevo dormito? Ormai non avevo più il tempo di preparare un bel niente. Mi sentii mortificata. Gli ci volle un istante per capire il mio stato d'animo. Si avvicinò lentamente al mio orecchio e allegro sussurrò:

«In realtà l'ho fatto apposta di farti addormentare. Era tutto studiato. Pensavi davvero che ti avrei messa ai fornelli anche la sera del tuo compleanno?».

Riuscì a farmi sorridere e ancora una volta mi fiondai fra le sue braccia. Come faceva a rendermi così felice?

«Pizza?» proposi alzandomi e tendendogli le mani perché mi imitasse. Aprì bocca ma lo anticipai, ormai conoscevo i suoi gusti. «Doppio formaggio e salame piccante».

«Sei unica» disse ridendo e a quelle cinque lettere risposi solo con un sorriso, fra me e me mi dicevo magari.

La pizza arrivò giusto un attimo prima che diventasse gratis.

La mia cucina quella notte avrebbe fatto un baffo al privé del ristorante più chic del Paese. Seduti uno accanto all'altra piluccavamo la pizza distratti dal cibo da cose più importanti. Per un attimo anche il soffitto sembrò scomparire sopra di noi, lasciando solo il cielo stellato a farci compagnia.

La mia torta fu un cupcake al triplo cioccolato sormontato da una candelina rosa. Non espressi nessun desiderio. Tutto ciò che volevo era proprio davanti a me e mi guardava con lo sguardo più dolce e felice che mi avesse mai rivolto chiunque altro.

«Buon compleanno» mormorò Ryan prima di baciarmi. Mi attirò a sé e mi fece sedere sulle sue gambe. Dalla tasca del giubbotto, appeso alla sedia, tirò fuori un pacchetto blu con un nastro argentato.

Lo fissai incredula.

«Avevo detto niente regali» lo rimproverai dolcemente.

«Avevamo detto che avrei fatto di testa mia» ribatté lui.

Lo presi e curiosa, lo aprii. Ancora una volta restai a bocca aperta.

 

Avevo avuto qualche dubbio, comprando quel piccolo regalo. Non che non le piacesse. Lei era di gusti semplici, le bastava un fiore di campo per renderla felice. I miei dubbi riguardavano ciò che quel semplice braccialetto di oro filigranato potesse significare.

Non volevo illuderla. Non sapevo quanto ancora tutto quello sarebbe durato e ogni giorno che passava, mi rendevo conto che sarebbe stato difficile, se non impossibile dimenticarla, far finta di non averla mai conosciuta. Lei che col suo sorriso, i suoi modi buffi da scalmanata, mi aveva conquistato ancor prima che io stesso lo capissi. Non volevo che Jude uscisse dalla mia vita.

In quel preciso istante, guardava con stupore la scatolina in cui era custodito il bracciale. I suoi occhi brillavano e fui sicuro che avrei potuto portarle pure una treccina di corda comprata in una bancarella qualsiasi e lei l'avrebbe adorata.

«Così puoi portarmi con te anche quando non ci sono» le dissi, consapevole che non avrei dovuto fiatare. Quanto male le avrei fatto un giorno? Forse tanto, forse niente. Jude era forte, me l'aveva ripetuto centinaia di volte e non solo a parole.

«E' bellissimo» disse mentre le allacciavo il braccialetto al polso. La sua voce era poco più di un sussurro.

Nessuno dei due ruppe il silenzio che seguì. Non ce n'era bisogno. Da quando stavo con lei avevo imparato che anche i silenzi potevano essere importanti. Da anni ero abituato alle chiacchiere vuote e senza senso. I silenzi di Jude erano come acqua nel deserto. Mi rinfrancavano dopo mesi e mesi di arsura, ridonavano chiarezza alla mia mente e allontanavano i pensieri stupidi.

Il suo cuore, attaccato al mio, batteva all'impazzata. Anche lei stava pensando. Aveva la classica espressione che assumeva quando ponderava se era il caso di dire una cosa o no. Sapevo cosa. Ce l'aveva stampato in fronte. Due parole. Cinque lettere. Quelle che non aveva mai detto a nessuno, me l'aveva confessato un paio di sere prima imbarazzata, insieme al fatto che era ancora vergine. Quelle che mi diceva ogni volta aprendo la porta o dandomi la buonanotte.

«Ry...».

«Shhh». Le tappai subito le labbra. Non doveva dirle. Non quella sera. Non a me.

La baciai e le mia mani corsero sulla sua schiena. La sentii inarcarsi per la sorpresa e la presi in braccio. Era tardi. Avevamo dormito per tutto il pomeriggio, ma l'indomani avevamo il lavoro e lo studio ad attenderci. La portai in camera e la poggiai sul letto continuando a baciarla. Forse capì male, perché si aggrappò a me e mi tirò per il maglione. Mi lasciai trascinare e mi sdraiai al suo fianco.

Non avremmo fatto l'amore quella sera, anche se era la cosa che più desideravo al mondo. Amarla come meritava, come era giusto che fosse. Volevo farlo davvero. Una parte di me era convintissima e spingeva come non mai perché così fosse, l'altra mi ricordava che non era giusto, non per me, per lei. Le stavo già rubando troppo. Jude non doveva essere mia, eppure non c'era altro che volessi, se non che lo fosse.

Sii l'unica, sii l'unica e la sola,

aspettami, lascia che io sia l'unico per te.

Sarai l'unica e la sola?

Aspettami, lascia che io sia l'unico per te.

 

 

Ce l'avete fatta? Mi sono sbizzarrita un bel po', eh? Spero che vi sia piaciuto tanto :)

Grazie mille a tutti coloro che stanno seguendo questa storia ed hanno anche ritrovato Bitch. I numeretti salgono e mi rendono sempre più felice. Grazie di cuore.

Prima di lasciarvi, le solite informazioni di servizio. Salvo disgrazie, il prossimo aggiornamento sarà per giorno 17 gennaio. E' una data importantissima per me e cercherò di rispettarla al massimo. Lo confesso, sono rimasta un po' indietro, ma sto lavorando talmente tanto... In ogni caso il prossimo capitolo è già a metà e mi impegnerò al massimo per completarlo in tempo e regalarvi qualche altro attimo di magia con queste due adorabili teste di legno.

Se volete seguire gli sviluppi, questo è l'indirizzo della mia pagina facebook: https://www.facebook.com/oo00SerenityMoon00oo?fref=ts

Per qualunque cosa, se avete domande, volete info o quant'altro, vi aspetto lì.

Vi mando un grande abbraccio. Alla prossima, la vostra

Serenity

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Capitolo 11
*** #7. A drop in the ocean ***


Non sarò mai perfetta,

ma ce la metterò tutta

per renderti fiero di me.

Buon compleanno Pu.

 

But I'm holding you closer than most,

'cause you are my heaven'.

 

 

Dawning bitch

 

# 7

 

Una donna si innamora veramente di un uomo quando lui le fa amare se stessa”. Anna Brambilla.

 

A drop in the ocean

 

Quello era stato il compleanno più bello della mia vita.

Mi ero addormentata sul petto di Ryan, felice come mai ero stata prima, il braccialetto che tintinnava al mio polso mentre ricambiavo le sue carezze, i suoi baci, convinta al cento per cento che era lui che stavo aspettando, il famoso principe azzurro che però non era solo un principe, era un dio fatto e finito, bello come solo una creatura divina può essere, perfetto nei suoi piccoli difetti.

I nostri corpi a contatto fremevano. Le sue mani scivolavano sulla mia pelle lasciando una scia di calore quasi fossero infuocate. Non era da me arrivare a tanto, eppure non c'era nulla che mi spaventasse. Nemmeno la consapevolezza che non sapevo cosa aspettarmi ed io odiavo non sapere.

Quando si sdraiò al mio fianco, mi abbracciò e per ennesimo regalo, si addormentò con me.

Alle sei del mattino, lo sentii muoversi.

«Dormi, io devo andare» mi sussurrò accorgendosi che mi ero svegliata.

Mi baciò la tempia, rimboccò le coperte e poi andò via.

Quello era sempre il momento più triste, il vederlo sgattaiolare come un ladro. Allora mi ricordavo che la criminale ero io e non potevo far altro che lasciarlo andare, sperando solo che tornasse da me il più presto possibile.

Cedetti di nuovo al sonno. Non avevo nulla da fare, anzi magari sognando avrei riavuto Ryan vicino. Abbracciai il cuscino sul quale fino a qualche minuto prima lui aveva poggiato la testa e mi lasciai trasportare dal suo magnifico profumo.

Fu Vanessa a svegliarmi stavolta. Non si era lasciata passare che non le avessi detto niente per il mio compleanno e si mise a torturarmi finché non accettai di accompagnarla a fare shopping in un centro commerciale poco fuori città.

Controvoglia mi diedi una sistemata, informai Ryan dei miei piani ed aspettai la mia migliore amica che ovviamente arrivò in ritardo.

Ryan rispose subito. Anche lui avrebbe trascorso la mattinata con un suo amico e poi sarebbe andato a lavoro.

Me ne aveva parlato la sera prima ed ero rimasta stupita: finalmente stava per realizzare il suo sogno più grande. Era riuscito a rilevare un vecchio immobile in periferia e lo stava trasformando in uno studio di fisioterapia, la sua passione.

Gli ero saltata al collo felicissima quando me lo aveva detto. Gli brillavano gli occhi mentre ne parlava. Si vedeva lontano un miglio che era fiero di sé ed io con lui.

Ascoltare le chiacchiere di Vanessa mi costava fatica, ma feci di tutto per non farglielo notare. Parlava, parlava, parlava, senza sosta. Il suo ultimo viaggio, la possibile promozione, i vestiti nuovi, le scarpe da accoppiarci. Rispondevo con cenni e mugolii di assenso, le mani strette a pugno e ben infilate in tasca per non cedere alla tentazione di prendere il telefono. Se mi avesse vista messaggiare, addio pace. Avrebbe cominciato con le domande a non finire. E chi la poteva sopportare? Le volevo bene con tutto il cuore, ma a volte esagerava. Peccava di curiosità. Troppa curiosità.

Per fortuna era tanto curiosa quanto maniaca dello shopping. Nemmeno mettemmo piede al centro commerciale che era già dentro il primo negozio di vestiti. Afferrò qualche maglietta, dei jeans e si infilò in camerino. Era la mia occasione. Inviai un sms a Ryan.

La mattinata trascorse così. Una prova, un sms e se non voleva provare niente, tanto facevo, fino a quando si convinceva e quasi la spingevo dentro, tirando la tendina con forza. Ero diventata davvero una bella amica.

 

Dave come al solito era in ritardo. Ci eravamo dati appuntamento alle dieci al bar di fronte alla metropolitana, erano le dieci e trenta e di lui ancora non c'era traccia. Anche Jude era scomparsa e questo sì che era strano. Solo qualcosa di estremamente serio poteva impedirle di farsi sentire. Per un attimo mi preoccupai. Sapevo che doveva accompagnare una sua amica a fare compere anche se non aveva la benché minima voglia di andarci. Una ragazza, che fa la commessa in un negozio di vestiti e a cui non piace lo shopping, scioccante.

Sorrisi fra me e me al pensiero di lei, sdraiata sul mio petto tranquillamente addormentata. C'era qualcosa in lei che non smetteva mai di stupirmi. Me la immaginai seduta di fronte a me ad osservarmi con quel modo tutto strano che assume quando mi guarda, concentrata e poi d'un tratto sciogliersi in una linguaccia.

Al suo posto invece comparve Dave in tutta la sua baldanza.

«Sei in ritardo» lo rimproverai.

«Sei tu che sei sempre troppo puntuale».

Lasciai perdere. Con lui era una battaglia persa a priori.

Avevo dovuto sbrigare tutto di fretta e furia per andare all'appuntamento con lui. Alle sei avevo lasciato Jude, ero corso a casa a fare la doccia e mi ero precipitato allo studio dove dovevo incontrare l'ingegnere che seguiva i lavori. Quel vecchio magazzino era un disastro. Solo un miracolo mi avrebbe permesso di rimetterlo totalmente a nuovo.

Dave si mise a parlare. Lo ascoltavo con un orecchio solo. Metà del mio cervello era impegnata a pensare a Jude. Non le avevo ancora mostrato lo studio. Ce l'avrei portata quella sera se non ci fossero stati disguidi, cioè, un disguido...

«Perciò... C'è questa tipa... Oh, mi stai ascoltando?».

Dave mi tirò una pedata sotto il tavolo che mi fece trasalire. Mi abbassai a massaggiarmi lo stinco dolorante solo dopo aver ricambiato il favore azzoppando pure lui.

«Coglione» gli dissi e ancora una volta pensai a Jude. Lei mi avrebbe dato uno spintone scherzoso per rimproverarmi. L'altra... beh, lei avrebbe cominciato ad urlare con la sua vocetta stridula quanto fossi volgare e maleducato.

«Ti stavo dicendo una cosa importante! Ma si può sapere che hai? Cazzo, ultimamente sembri un altro. Hai sempre la testa fra le nuvole, sparisci per intere giornate. Che diavolo stai combinando, amico? Ti sarai mica fatto l'amante!».

Ero sempre stato un ottimo attore mio malgrado, ma Dave mi prese talmente alla sprovvista con quell'ultima frase che anche se provai a far finta di nulla, fui sicuro che la verità mi si era stampata in faccia a lettere cubitali.

Eravamo come fratelli io e lui, come diamine pensavo di potergli nascondere una cosa del genere, pretendendo che non se ne accorgesse. Sapevamo tutto l'uno dell'altro, ma questo no, non poteva e non doveva saperlo.

O forse sì.

«Si chiama Jude» confessai di botto. Per poco non mi sputò il suo caffè in faccia per la sorpresa.

«Maddai!».

Lo guardai serio, come poche volte succedeva. Per la precisione solo quando parlavamo di lavoro e della nostra squadra del cuore. Capì all'istante che non stavo scherzando.

«Era ora!» esclamò contento. «E com'è? Racconta!».

«Che vuoi che ti dica. Lei è... è lei. Non ci sono spiegazioni».

«Te la sei...» completò la frase con un fischio e un gesto palese del braccio. Una parte di me si irritò al fatto che lui vedesse Jude solo da quell'aspetto.

«No» risposi orgoglioso. Anche se avrei voluto con tutto il cuore.

Dave spalancò gli occhi.

«E da quant'è che dura?» si informò. Dalla mia risposta avrebbe capito tanto.

«Quasi due mesi».

Stavolta aprì anche la bocca, scioccato.

«Non mi stai prendendo in giro, vero?».

«No» ed accompagnai quel monosillabo con un sospiro che neanche io mi seppi spiegare. Non osai nemmeno guardare Dave negli occhi, perché sapevo cosa ci avrei letto. La risposta a quella domanda che avevo iniziato a pormi dal primo momento in cui avevo baciato Jude: perché.

 

«Sai, questo ragazzo è davvero carino, solo che non ho capito cos'abbia in testa».

Vanessa non aveva smesso un attimo di parlare. Ci eravamo sedute in un bar per sgranocchiare qualcosa e rimetterci in forze dopo il suo shopping compulsivo, ai suoi piedi una quantità infinita di pacchi e pacchetti di tutte le forme.

Io non avevo comprato nulla. L'unica cosa che aveva attirato la mia attenzione era stato un piccolo peluche a forma di panda che in qualcosa mi ricordò Ryan. Mentre lo fissavo estasiata, Vanessa mi aveva raggiunta, con l'ennesima busta e si era messa a ridere.

«Tu. Con un peluche?!».

Lo gettai di nuovo in mezzo alla mischia indistinta degli altri giocattoli.

«Bah, lo stavo solo guardando».

Come avrei potuto spiegarle che mi somigliava al ragazzo di cui ero follemente innamorata e di cui ero l'amante? Mi conosceva come le sue tasche e un po' anche per questo l'avevo evitata in quel periodo in cui tutto era nuovo. Mi ero presa il tempo necessario per adattarmi alla mia nuova condizione di persona con dei sentimenti, così da imparare a nasconderla quando mi sarebbe stato necessario e con Vanessa lo era. Lo era con tutti. Ciò che mi aveva stupita però, era stato che nonostante l'amicizia secolare, quando mi aveva guardata negli occhi, non si era accorta di nulla.

Ci eravamo allontanate dal negozio, ma durante il tragitto, mi ero voltata almeno tre volte ad osservare il panda.

«In che senso?» le chiesi portandomi alle labbra la tazza di fumante tè alla ciliegia che avevo ordinato.

«Beh, ci vediamo spesso, certe volte ho come la certezza che venga in ufficio apposta per me, ma altre invece è così distante! Fa finta di non vedermi o lo becco a scherzare con qualcun'altra. E' strano».

Feci spallucce, incapace di esprimere un giudizio.

«Prova a parlargli. Invitalo ad uscire» proposi e quasi Vanessa si soffocò con la sua cioccolata.

«Stai scherzando?! Non avrei mai il coraggio!».

Sì, giusto, il coraggio. Ripresi ad annuire mentre lei continuava a parlare di qualcosa di indistinto. Il coraggio. Ma per carità! Che ci vorrà mai a chiedere ad un ragazzo di uscire se ti piace davvero. Magari piaci anche a lui, entrambi non dite niente perché vi manca il 'coraggio', vi vergognate e perdete l'occasione della vita. Lui o lei se ne va e che vi resta? Avete mantenuto la faccia, sì, una faccia da imbecille!

Ryan mi aveva insegnato anche quello. Davanti all'amore, quello vero, l'orgoglio, il pensiero della gente, la bella maschera che ogni giorno indossiamo per far felici gli altri possono essere facilmente messi da parte. E per quel che mi riguardava, avevo preso tutto, lo avevo imballato e l'avevo tirato nella parte più profonda del fiume. Non me ne facevo niente del mio orgoglio senza di Ryan. Speravo solo che anche Vanessa prima o poi avrebbe provato una cosa del genere.

 

«Vado un attimo in bagno».

Dopo la pausa Vanessa aveva ricominciato ad andare avanti e indietro per l'immenso corridoio del centro commerciale. Avevamo girato quasi tutti i negozi. Mancavano solo l'alimentare e il negozio di animali, ma ero sicura che anche lì avrebbe trovato qualcosa da comprare. Prima però ci dirigemmo verso le toilette. Passando, incrociammo di nuovo l'espositore con i piccoli peluche. Il panda era ancora lì. Stavolta mi guardava lui e pareva dirmi 'ti prego, portami con te, non voglio nessun altro'. Esattamente le parole che avrei voluto sentirmi dire da qualcun altro.

Aspettai che Vanessa si chiudesse nel bagno e di corsa filai verso il negozio. Arraffai il panda e alla velocità della luce andai alla cassa a pagare. Dovevo sbrigarmi così da non destare sospetti. Consegnai i soldi al commesso, un tipo dagli sfavillanti occhi verdi, troppo gentile per i miei gusti e sgattaiolai via in men che non si dica, col mio tesoro stretto fra le mani. Lo guardai un attimo da vicino. Era carinissimo, anche se aveva un occhio storto e il naso forse un po' sfilacciato. Lo ficcai in borsa scusandomi fra me e me e tornai dietro la porta del water, sicura che Vanessa fosse ancora lì dentro.

Mentre aspettavo che uscisse, mi sentii osservata. Mi voltai automaticamente e mi ritrovai di fronte a Josh, il mio collega dell'università. Qualcosa scattò nel mio cervello malato. Che diamine ci faceva lì, fisso, imbambolato? Lo salutai con un veloce gesto della mano che lui prese come un invito ad avvicinarsi. Accidenti. Mi costrinsi a sorridergli mentre mi raggiungeva.

«Ciao, anche tu a fare spese?».

«Faccio un giro» disse facendo spallucce, come se fosse la cosa più naturale del mondo girovagare per un centro commerciale da solo. I suoi occhi grigi scandagliavano la zona centimetro per centimetro, come se stessero cercando qualcosa o qualcuno.

«Sei da sola?» chiese. La sua voce era indecifrabile. Pareva desiderare un sì, ma al tempo stesso sapeva che avrei risposto il contrario. E infatti gli regalai il più deciso dei no.

«C'è una mia amica, ma credo sia caduta nel water» mi affrettai ad aggiungere, scorgendo un barlume nella sua espressione che non mi piaceva per niente. Poi un flash: mi aveva vista con Ryan all'uscita dell'università. Era lui che cercava.

«Carino il panda».

Trasalii impercettibilmente a quell'affermazione e d'istinto strinsi la borsa, quasi a proteggere quella piccola reliquia, prova della mia fragilità da innamorata. Da quand'era che mi osservava?

Fui io a fare spallucce stavolta. «E' per la mia cuginetta» mentii. Che poi, perché dovevo mentire a Josh? Chi era?

Calò il silenzio mentre per l'ennesima volta mi voltavo sperando di vedere Vanessa uscire da quel maledetto bagno. Ma l'aveva inghiottita davvero? Josh non sembrava dare segnali di voler concludere la conversazione. Restava lì, fermo immobile, in attesa anche lui di qualcosa.

Poi il terremoto.

«Ti ho vista ieri» disse con lo stesso tono con cui avrebbe commentato il tempo. «Con quel tipo, Ryan. Lo conosco».

Feci finta di non sentire e gli diedi le spalle, concentrandomi sul mio cellulare.

Josh mi prese per il braccio e mi tirò verso di sé.

«Lo sai che è fidanzato? Da anni. Jude, ascoltami!». Non aveva alzato la voce, ma era deciso e le sue parole taglienti come rasoi nuovi di zecca.

Nascosi il dolore che quelle sillabe mi avevano procurato e feci affidamento su tutta la bravura che anni di indifferenza mi avevano dato.

«Non so di cosa tu stia parlando» risposi calma e disinteressata.

«Bene, ti sta pure ingannando!».

Mi bloccai presa alla sprovvista, sentendo la necessità impellente di difendere il mio Ryan. Come poteva pensare che fosse un bugiardo? Io sapevo. Io sapevo tutto, lui me l'aveva detto, prima di baciarmi, prima di entrare nella mia vita, sfondando le mie difese, lui mi aveva avvertita, mi aveva detto che alla fine di quel baratro in cui mi stavo lanciando non ci sarebbe stato un materasso di piume ad accogliermi, ma un campo di rovi e pietre appuntite, io lo sapevo. Come osava lui, uno sconosciuto, anche solo insinuare che Ryan fosse un imbroglione?

«In cosa ti sei cacciata?» continuò. Se non fossi stata così accecata dall'amore per Ryan, nei suoi occhi avrei letto una preoccupazione sincera nei miei confronti, ma in quel momento, della preoccupazione di Josh me ne importava meno che nulla.

«Cazzo Josh, basta! Lasciami in pace!» mi ribellai scrollandomelo di dosso.

«Non sceglierà mai te!» sentenziò.

E anche in quel momento avrei voluto rispondere che sì, lo sapevo. Sapevo pure quello e faceva più male di quanto io stessa ammettessi.

«Va' al diavolo!» sussurrai irritata prendendo a braccetto Vanessa che finalmente era ricomparsa dal bagno e trascinandola via da quel grillo parlante della malora senza tanti convenevoli.

 

«Ti sei divertita oggi?».

Roteai gli occhi all'indietro mentre Ryan mi baciava il collo e mi lasciai sfuggire un sospiro. Mi era impossibile controllarmi quando c'era lui nei paraggi, figurarsi se ci spingevamo oltre e baci e carezze si approfondivano.

«No» sussurrai affondando le dita tra i suoi capelli. Stavano crescendo, si faceva ogni giorno più bello. Tra un mese non avrei più potuto guardarlo.

«Come mai?». Mi stringeva un fianco e col pollice disegnava degli archi sulla pancia. Dovetti concentrarmi per rispondergli.

«Ho dovuto starti lontana».

Il suo respiro caldo si infrangeva sulla mia pelle. Capii di avere esagerato quando lo sentii irrigidirsi. Mi corressi all'istante.

«Vanessa ha comprato di tutto. Non ha lasciato un centimetro di quel centro commerciale e in più ho incontrato Josh» lo dissi col tono più infastidito che potevo assumere.

«Il tipo dell'università?». Se ne ricordava?

«Lui» confermai e addio coccole. Ryan si alzò e si sedette al mio fianco. Io rimasi sdraiata, mi alzai semplicemente sui gomiti per studiare la sua espressione che non mi piaceva per niente. Era del tutto identica a quella che aveva assunto quando mi era venuto a prendere e aveva scoperto Josh a fissarci.

«Quella faccia non mi piace» gli dissi stringendo gli occhi, rubando uno dei suoi gesti caratteristici. Mi ero accorta che piano piano stavo acquisendo i suoi modi di fare, di parlare, i suoi atteggiamenti. Stavo diventando una piccola Ryan.

«No, no, pensavo solo alla coincidenza». In realtà gli si leggeva chiaramente che non ci credeva neanche un po' che Josh fosse capitato dove ero io per puro caso.

«Dai, è un centro commerciale!».

Rimase zitto per qualche secondo, il tempo necessario per mettere da parte le sue paranoie. Quella era una delle cose che non mi piaceva di Ryan: doveva pensar male di tutto e di tutti a prescindere. Capivo che era un metodo di difesa, per non farsi cogliere impreparato. Era lo stesso che anche io avevo attuato per anni, ma era stato proprio lui a farmi capire che non deve essere per forza così, che il buono può esserci, basta solo non essere prevenuti e guardare bene.

«Hai ragione», ma ancora una volta i suoi occhi dicevano il contrario delle sue labbra. Sentii uno strano senso di angoscia attanagliarmi le viscere, un presentimento malvagio che avevo cercato di reprimere con tutte le mie forze, ma che nonostante questo ogni tanto tornava a galla tanto per prendersi gioco di me.

Ryan lanciò un'occhiata all'orologio sul mio comodino e si tirò su definitivamente.

«Devo andare».

Nascosi alla bene e meglio la smorfia di dolore che stava per dipingersi sul mio volto mentre Ryan si chinava a baciarmi prima di prendere le sue cose e andare via. Mi gettai a peso morto sul letto, coprendomi gli occhi con l'avambraccio. Non volevo e non dovevo piangere, ma il peso che mi si era posato sul petto era enorme e la porta di casa che si chiudeva sembrò pure amplificarlo.

 

I don't wanna waste the weekend,
If you don't love me, pretend
A few more hours, then it's time to go.
As my train rolls down the East coast,
I wonder how you'll keep warm.
It's too late to cry, too broken to move on.”

 

Non avevo chiuso occhio per tutta la notte. Ero rimasto ore a rigirarmi nel letto nella speranza di addormentarmi, ma ogni volta che ci provavo, nella mia mente comparivano le immagini di quel Josh, immobile, con lo sguardo severo a fissare Jude. Da qualche parte lo avevo già visto, ma non ricordavo dove. Frequentavo così tanti posti che era pressoché impossibile dargli delle coordinate precise, ma non era questo che mi turbava. Ciò che mi faceva ribollire il sangue era come guardasse lei. Era durato per un secondo, ma quegli attimi mi si erano forgiati troppo bene nel cervello. C'era stizza, preoccupazione, fastidio, istinto di protezione in quelle iridi spettrali rivolte verso di lei. E avevo letto odio, disapprovazione, disprezzo quando aveva incrociato me. Non mi era piaciuto. Ancor meno quando avevo saputo che giusto giusto era andato a capitare lì dove Jude aveva passato la giornata.

Lei non c'entrava niente, ne ero certo e se anche avessi avuto qualche dubbio il suo tono di voce mentre me lo diceva, lo avrebbe dissolto all'istante. La seguiva? Che voleva da lei? Lei era mia.

No, Jude non era mia, non doveva esserlo.

Mi piantai un pugno sulla fronte per ragionare. Non potevo pretendere nulla da lei. Ma mi sarei tagliato la testa, se lo avessi detto a lei, non avrebbe esitato a rispondere che invece sì, era mia, al cento per cento.

La mia piccola Jude. Come potevo far così male ad una persona a cui dentro di me, sapevo di tenere così tanto? Perché era così. Non glielo dicevo per il suo bene, ma ci tenevo, tanto, troppo, più di quanto avrei dovuto. E mi costava altrettanto doverglielo nascondere, perché la vedevo, ogni giorno, piano piano, affogare un po' di più nelle sue insicurezze. E io non potevo fare niente. Io che ero l'unica persona in grado di salvarla, continuavo a starmene zitto, accarezzandole i capelli né troppo forte, per non causarle ancora dolore, né troppo piano per non farla del tutto annegare.

Mi sentivo un mostro. Sapevo di ciò che aveva bisogno, che lì fuori c'era un mondo pieno di gente disposta a darglielo quando io non potevo, non del tutto, e invece la legavo a me giorno dopo giorno, privandola della felicità che si meritava.

Dovevo smetterla di essere così egoista e lasciarla andare, libera di vivere la sua vita com'era giusto, tra le braccia di qualcuno che potesse in tutto e per tutto dirsi suo. Forse proprio quel Josh, anche se non mi stava per niente simpatico, ma se l'avesse resa felice davvero, avrei pure potuto accettarlo.

Rimuginando si era fatta l'alba. La luce debole delle prime ore del mattino entrava a sprazzi dai buchi nelle persiane. Un paio di ore e sarei di nuovo stato in piedi, sicuramente pronto ad affrontare le pareti disastrate dello studio. Non potevo dire lo stesso riguardo all'abbandonare Jude.

 


Still I can't let you be,
Most nights I hardly sleep.
Don't take what you don't need from me”.

 

Ryan era impegnatissimo o almeno era quello che speravo. Per l'intera mattinata il mio cellulare si era animato solo due volte e nel pomeriggio solo una, quando mi aveva chiamata per dirmi che non sarebbe potuto venire da me.

Cercai di ingoiare l'angoscia che mi era caduta addosso. Non era niente. Aveva solo lavorato tanto, era stanco, era normale che volesse riposarsi a casa sua. Non avevo alcun motivo di preoccuparmi.

Il saluto della sera prima però mi diceva tutto il contrario. La sua faccia scura, il fastidio alla notizia di Josh, la sua freddezza non presumevano nulla di buono.

Ordinavo a me stessa di non essere paranoica. La mia fantasia aveva sempre galoppato, ma non era quella l'occasione giusta. Mi fidavo di Ryan, non mi avrebbe ferita in quel modo, potevo stare calma.

Il giorno dopo però fu uguale, se non peggio. A stento rispondeva ai miei sms e quando lo faceva non andava oltre a 'sì', 'no' ed 'okay'.

Mi chiesi se per caso non era tornata la sua ragazza, ma scartai velocemente quell'opzione. Mi avrebbe avvertita. C'era di mezzo qualcos'altro.

Il terzo giorno, complice l'incubo che mi aveva svegliata nel cuore della notte, andai nel panico. Avevo provato a riaddormentarmi, ma non c'era stato verso di poter riprendere sonno, così alle cinque del mattino, mi ero messa a fare le pulizie, rischiando di causare l'ira dei miei vicini. Avevo aspettato che si facessero almeno le nove, poi prima di passare l'aspirapolvere lo avevo chiamato. Nulla. Il telefono squillava a vuoto. Cominciai a sudare freddo. Forse non l'aveva sentito. Riprovai. Ancora niente. E così per la terza, la quarta, la quinta, la sesta volta. Alla settima rinunciai. Gettai il cellulare sul letto, nella speranza che sarebbe stato lui a chiamarmi. Ero sicura che quel giovedì sarebbe rimasto per sempre impresso a fuoco nella mia mente.

Vagliai tutti i possibili motivi di una simile reazione. Non avevamo litigato, non era successo nulla di talmente grave da farlo arrivare a sparire in quel modo.

Mi sentii tremendamente vuota, come il guscio di una chiocciola abbandonato in un'aiuola. Chiunque avrebbe potuto calpestarmi e disintegrarmi. Di me non sarebbero rimaste che schegge sporche e appiccicaticce.

Aspettai ore intere. Non passava un secondo senza che lui irrompesse con tutta la sua forza nei miei pensieri ed ogni minuto mi trovava sempre più sconvolta, irritabile, scontrosa. Ogni secondo permetteva un po' alla vecchia Jude di riaffiorare, centimetro dopo centimetro.

Era quasi sera quando finalmente mi decisi. Mi vestii, presi le chiavi della macchina e cominciai a guidare, incrociando le dita. Il braccialetto che tintinnava al mio polso. Avevo bisogno di fortuna. Per una volta nella vita, la dea bendata doveva assolutamente accompagnarmi.

Non ero mai stata allo studio. Ryan doveva portarmici l'ultima sera che ci eravamo visti, ma tra una chiacchiera e l'altra, alla fine ce n'eravamo dimenticati. Il resto del mondo spariva quando eravamo insieme.

Mi armai di coraggio e cercai di orientarmi tra le vie buie della periferia. Mi aveva spiegato dove fosse, ma non ero mai stata brava con le indicazioni. Pregai con tutto il cuore di non perdermi. Chi mi avrebbe ritrovata lì dov'ero? E soprattutto come avrei spiegato cosa ci facevo lì?

Una serie di lampioni illuminava di arancione la strada larga. Sia a destra che a sinistra c'erano un'infinità di auto parcheggiate. Perlomeno non era deserto. Continuai ad andare dritto, poi all'incrocio svoltai a sinistra. Mi aveva parlato di una salita, non molto ripida, con degli alberi ad inframmezzare il marciapiedi. Okay. La salita c'era. Il marciapiedi anche. Ma gli alberi dov'erano? Aguzzai gli occhi, procedendo lentamente e dopo un centinaio di metri, riconobbi le sagome scheletriche di alcune piante. Forse erano quelli. L'inverno aveva spogliato pure loro. Scalai di marcia onde evitare che la macchina si spegnesse. Il numero civico non lo ricordavo, forse non me l'aveva neanche detto, così cercai l'unico indizio che mi permettesse di trovarlo se era lì davvero: la sua auto. Avevo acceso gli abbaglianti per vedere meglio e spostavo instancabilmente lo sguardo da destra a sinistra. Dentro di me pregavo tutti gli dei esistenti in cielo e in terra che per una volta, una sola, qualcosa andasse bene pure a me. Avevo percorso altri trecento metri circa quando finalmente la vidi. Dapprima pensai di essermi sbagliata, ma di macchine come la sua ce n'erano poche nella nostra zona e con la sua targa solo una. Accostai la mia Nissan alla bene e meglio al ciglio della strada e spensi il motore. Lui era lì. D'un tratto fui assalita dalla paura. A cosa stavo andando incontro? Non mi importava. Dovevo vederlo e chiarire tutto. Presi un respiro profondo, afferrai la borsa e scesi. La luce era ancora accesa. Abbassai la maniglia, ma ovviamente la porta era chiusa. Che intelligentona! Cominciai a bussare, tremando un po' per la paura, un po' per il freddo.

'Apri' supplicavo a voce bassa mentre continuavo a battere le nocche sul vetro congelato. Mi scappò uno starnuto. Evvai, mi sarei pure ammalata.

Dopo cinque minuti, finalmente intravidi un'ombra. Una chiave girò nella serratura e la porta si aprì.

Il sollievo nel vederlo quasi mi fece piangere. Lo guardai e sul suo volto lessi stupore misto a... cosa? Cos'era? Dolore?

«Jude» disse soltanto. Doveva ancora elaborare il fatto che fossi spuntata in un luogo che lui credeva non conoscessi, di notte, con un freddo da pinguini.

«Già» e il mio fiato si materializzò in una nuvoletta bianca.

Non so quanto rimanemmo impalati sulla soglia. Per un attimo ebbi davvero il dubbio che dentro ci fosse lei. Tirai un sospiro di sollievo quando si decise a farmi entrare. Quel posto era un disastro, mi resi conto con mezza occhiata. Ora capivo cosa intendeva quando mi aveva detto che solo un miracolo avrebbe potuto aiutarlo.

«Stai bene? Che succede?». Percepii l'allarme nella sua voce.

«E' proprio quello che vorrei sapere io. Che succede, Ryan?».

Mi avevano sempre insegnato ad affrontare le discussioni con calma, niente urla o piagnistei. Perciò, nonostante dentro fossi in pieno tumulto (di idee, pensieri, sensazioni che la vista di Ryan mi stavano provocando), calai la maschera della tranquillità, anche per rasserenare lui. Non ero arrabbiata, quello no, non lo stavo attaccando e volevo che lo capisse.

Lui non rispose. Mi diede le spalle e tornò al suo lavoro. Stava dipingendo un'asse di legno. L'odore della vernice era penetrante e mi stuzzicava le narici, già messe a dura prova dal freddo.

Continuai a guardarmi intorno, provando a farmi un'idea di come, una volta finito, sarebbe diventato quel posto. Ci aveva investito anni di studio, lavoro e sofferenza in quelle quattro pareti scrostate.

Il silenzio non cessava, ma io non avevo intenzione di demordere.

«Bene, allora io mi siedo qui» indicai l'unico punto che pensavo potesse sostenere il mio peso, una scrivania imballata con della plastica trasparente, «fino a quando non mi parlerai. Puoi pure andartene a casa, domattina mi trovi qui» e mi accomodai.

«Jude, è sporco» si lamentò.

«Non me ne frega».

Lui sospirò e mise giù il pennello. Si asciugò le mani su un pezzo di carta e mi degnò di uno sguardo. Non mi ero truccata ed ebbi paura che la mia faccia al naturale non gli piacesse.

Si avvicinò di mezzo passo, poi tornò indietro combattuto.

Saltai giù dalla scrivania e lo raggiunsi io.

«Ti prego, spiegami, perché davvero, non capisco. Cos'ho fatto?».

A quella domanda trasalì e si allontanò da me furioso. Ebbi un moto di paura.

«Niente, non hai fatto niente. Non sei tu, Jude, sono io. Io non posso, non posso tenerti con me. Lo capisci?».

«N-non mi vuoi?» riuscii solo a balbettare, incapace di cogliere il vero senso di quelle parole.

«No! Come ti salta in mente?». Tornò da me e mi prese il viso fra le mani. Erano caldissime in confronto alla mia pelle congelata. Il cuore aveva smesso di pompare sangue a quel 'niente'. «Non ho mai desiderato nessuno come desidero te, ma non posso. Tu devi stare con qualcuno di vero, con qualcuno che ti possa amare totalmente. Che tu non debba dividere con nessun altro».

«Hai bevuto?».

La discussione era seria, ma non riuscivo a trovare altra spiegazione a quelle parole se non che fosse ubriaco. Andava tutto bene, era tutto perfetto, da dove diavolo gli venivano certi pensieri?

Uno dei pochi neuroni che mi erano rimasti fece contatto e capii.

«Josh» sibilai e se avessi potuto ucciderlo, lo avrei fatto solo pronunciando il suo insulso nome. Come aveva osato! «Ti ha parlato? Ti ha detto qualcosa?» chiesi alzando involontariamente il tono della voce.

Ryan scosse la testa. «Non ce n'è stato bisogno».

Affondai le mani tra i capelli in preda ad una disperazione isterica. Era assurdo. Tutto quello che stava accadendo era assolutamente assurdo.

«Ry, non mi importa! Lo vuoi capire? Non mi importa. E' te che voglio, non potrei stare con nessun altro. Sei tu e basta» provai a spiegargli. Era peggio che parlare col muro.

«Avevi dei progetti» insistette. «Li hai accantonati per causa mia. Volevi viaggiare, te lo ricordi?».

«Non volevo viaggiare, volevo scappare. Adesso non ne ho più il motivo. Il mio progetto adesso sei tu!».

«E' questo il punto! Non puoi, non posso essere il tuo progetto, Jude!».

Lo sapevo, lo sapevo fin troppo bene che non lo sarebbe stato. Non c'erano altari, né abiti dagli strascichi bianchi ad aspettare me e lui, ma non era a quello che mi riferivo. Immaginare un futuro con Ryan, sebbene fosse la cosa che più desideravo al mondo, non era possibile. Lo avevo capito, me ne ero convinta, ma stare lontana da lui, escluderlo dalla mia vita era altrettanto inconcepibile. Non sarei sopravvissuta un giorno senza di lui e se avessi avuto qualche dubbio, le giornate appena trascorse mi avevano chiarito tutto. Lui era sì il mio progetto, ma in un altro modo.

«Che diavolo hai capito, Ry? Che credi? Non sono stupida, non mi illudo. So già cosa mi aspetta, ma non oggi. Non così. Il mio progetto sei tu nel senso che voglio realizzarmi per rendere orgoglioso te. Io non posso darti nulla di più del mio impegno nel rendermi una persona migliore. Mi hai permesso di diventare chi davvero volevo essere, mi hai liberata da quella Jude cinica e cattiva che ero, che in fondo non volevo essere e non ho altro modo per ringraziarti se non questo, farmi in quattro e dimostrarti che posso farcela, far sì che un giorno, quando saprai ciò che ho fatto, potrai pensare, cazzo! L'ha fatto per me. Quella lì era innamorata di me ed è arrivata dov'è per me. Lo capisci? Lo capisci? Ma senza di te non posso farlo» sottolineai evitando in tutti i modi che la mia voce incrinata complicasse la situazione.

Presi un paio di respiri profondi per calmarmi. Lui restava immobile, di fronte a me, le mani sui fianchi e lo sguardo perso, in un punto lontano. Lo costrinsi a guardarmi negli occhi. Mi mancava la voce.

«Ti prego, smettila. Se è vero che lo stai facendo per me, smettila. A me non importa di nessun altro. Sei tu. Non mi sto privando di nulla, te lo giuro. Finalmente, per la prima volta nella mia vita sono felice ed è merito tuo. Senza di te non sono niente. Sei tutto quello che voglio. Posso accettare di dividerti con il resto del mondo se non c'è altro modo, non è un peso per me, ciò che conta è che ci sei. Puoi convincertene per favore?».

Ancora silenzio. Avrei pagato oro per leggere i suoi pensieri.

«Guardami» insistetti, «non sei felice con me?».

«Non voglio farti del male» disse quando invece il male lo stava facendo a se stesso.

«Non me ne fai. Rispondimi, non sei felice con me?».

«Lo sono» sussurrò quasi fosse una colpa e forse per lui lo era per davvero.

«Lo sono anche io. Se non lo fossi, non sarei qui adesso. Quindi ti prego, smettila di pensare al mio bene secondo te e accetta il mio bene reale, tu».

Qualcosa scattò dentro di lui, forse lo avevo convinto. Mi prese il viso fra le mani e mi baciò. La disperazione, il dolore, tutto si dissolse nell'esatto istante in cui le sue labbra si infransero sulle mie. Dopo tre giorni di lontananza era tutto più amplificato. Era come se, intrappolata per anni nel deserto pregando perché arrivasse l'acqua, finalmente avesse iniziato a piovere a dirotto, distruggendo argini e ridonando vita alla sabbia secca.

«Ti amo» mi sfuggì.

Non lo avevo calcolato, non era nei miei piani, eppure quelle due piccole, immense parole erano venute fuori nella maniera più naturale possibile. Mi scoppiava il cuore. Quello che provavo per lui era così grande che quel muscolo intorpidito dalle angherie del tempo non riusciva a sopportarlo, però ci provava lo stesso. Ogni giorno acquisiva un centimetro, tendeva le sue fibre per occupare tutto lo spazio a disposizione fino a quando fosse bastato, se fosse bastato. Avevo qualche dubbio.

Ryan si fermò, giusto il tempo di guardarmi. Nei suoi occhi non c'era paura, quella che pensavo lo avrebbe bloccato e fatto fuggire da me. Al contrario ci vidi dentro una strana luce, la stessa che aveva quando mi aveva aspettata per restituirmi il mio libro o la prima sera che era venuto a casa mia, quando mi aveva baciata. Era felice, divertito. Sapeva quanto contassero per me quelle parole. Non le avevo mai dette a nessuno. Lui era il primo. Il mio ragazzo delle prime volte.

Le sue labbra si curvarono in un sorriso e lo imitai. Non mi aveva risposto, ma andava bene. Non era un 'anch'io' che mi aspettavo o che volevo. Lui era lì, era ciò che più contava. C'era il suo profumo, i suoi capelli, le sue guance ruvide di barba, le sue mani calde insinuate sotto il mio maglione. Mi riscaldavo più loro che la lana. C'era il suo desiderio di avermi lì, che anche se non me lo diceva ed io ero ancora troppo analfabeta, riuscivo a leggerlo nelle sue carezze, nei suoi baci, in tutto se stesso.

«Voglio fare l'amore con te» sussurrai. Di nuovo quello sguardo sorpreso. Ancora una volta sapeva. Gli stavo dando tutto. Era a lui che volevo dare tutto. Non sarei mai più stata capace di amare nessuno come lui e doveva saperlo.

«Sei sicura?» chiese. Stavolta tremava a lui la voce per l'emozione. Non se lo aspettava, ma avevo intuito qualcosa su quanto desiderasse giungere a quel punto. Non sapevo se per lui era solo uno sfizio da togliersi, potevo solo sperare di no, che una volta fatto quel passo, ci sarebbe ancora stato. Ma c'era in quel momento, perché uccidermi col pensiero di poi?

«Sì».

«Sei sicura?» ripeté.

«Sì».

«Jude» e il mio nome non era mai stato così bello.

«Sì».

 

Heaven doesn't seem far away anymore,

Heaven doesn't seem far away”.

 

La strinsi più forte che potevo. Amai il suo corpo inesperto, a mia volta incerto. Ero stato con più ragazze, non tantissime, ma sapevo il fatto mio, eppure con lei fra le mani era tutto diverso. Avevo desiderato quel momento con tutte le mie forze, avevo aspettato che fossimo pronti, lei ed io. Qualcosa dentro di me mi diceva già che non sarebbe stato lo stesso.

La baciai, la accarezzai, feci tutto quello che era in mio potere per sciogliere quelle ultime riserve che non capivo bene chi bloccassero, forse più me che lei.

Era la sua prima volta. Era in uno stabile mal messo. Era in una notte gelata. Era accampati alla bene e meglio.

«E' con te» sussurrò e la abbracciai più forte.

Sì, era con me. Lei aveva scelto me. Mi stava dando qualcosa che mi avrebbe reso unico, più di quanto già non fossi ai suoi occhi. Più di quanto io meritassi.

La guardai e la vidi sorridere. Mentre mi abbracciava, le braccia allacciate al mio collo, sorrideva e rideva. Era felice davvero. Sapeva mentire alla perfezione, ma non era quello il caso. Era sincera e mi amava.

E per un attimo, guardandola in quel modo, qualcosa mi scosse dentro, un pugno allo stomaco, ma che non mi fece male.

La guardai e per un attimo lo pensai.

Con tutta la forza che avevo, in quel momento, avrei voluto dirle: 'a modo mio, per come posso, ti amo anch'io'.

 

A drop in the ocean,
A change in the weather,
I was praying that you and me might end up together.
It's like wishing for rain as I stand in the desert,
But I'm holding you closer than most,
'Cause you are my heaven”.

 

 

 

Un altro capitolo interminabile è finito... Fiùùùùùùù

Prima che me lo dimentichi, la canzone di stavolta è A drop in the ocean di Ron Pope, quella del capitolo precedente invece era Be the one dei The Fray.

Salve a tutti, come state? Qui le cose cominciano a prendere una piega interessante eh? Ovviamente spero che il capitolo vi sia piaciuto. Ne approfitto anche per fare gli auguri a Ryanforever per il suo onomastico :P e beh, lo sapete, oggi è pure il compleanno di una persona estremamente importante per me...

Mi scuso in anticipo perché forse i prossimi capitoli potrebbero subire dei ritardi causa esami all'università. Se così fosse sarete adeguatamente avvertiti. Seguite la mia pagina su facebook in ogni caso, lì avrete notizie fresche e certe. Io proverò a non tardare, ma non si sa mai.

Risponderò alle recensioni il più presto possibile.

Non dimenticatevi di me e se vi va, fatemi sapere che ne pensate di questa storia. Tranquilli, la finisco anche se mi direte che fa schifo XD

Beh, vi saluto, a presto (spero).

Baci, bacini, bacetti, con tanto affetto

Serenity Moon

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Capitolo 12
*** #8. Girlfriend ***


Here I am, once again!!

Buona lettura, ci sentiamo sotto per le note.

 

# 8

 

Girlfriend

 

Esiste un'infinità di modi per suicidarsi senza morire. Una era guardarti baciarla”

Chuck Palahniuk

 

Risvegliarmi nel mio letto quella mattina, fu un trauma peggiore che negli altri giorni. Avevo paura che una volta aperti gli occhi, la magia della sera prima sarebbe sfumata nella nuvola di un sogno, lasciandomi addosso quella tristezza tipica di una fantasia troppo bella e per questo irrealizzabile.

Invece addosso mi ritrovai il profumo di Ryan che impregnava ogni centimetro della mia pelle, del lenzuolo, del piumone, della federa del cuscino. Annusai quel tessuto morbido in maniera quasi maniacale, per farne scorta nei momenti di magra in cui sarebbe stato lontano e la sua assenza si fosse fatta troppo pesante da sopportare, come quella mattina.

Ci eravamo scambiati pochi commenti. Mi aveva seguita con la sua macchina fino a casa, mi aveva ancora baciata e poi ci eravamo salutati. Non riuscivo a staccargli gli occhi di dosso e il sorriso che mi curvava le labbra si allargò ancora quando ricevetti un suo messaggio inaspettato.

 

Non avrei mai pensato... E' stato stupendo”.

 

Risi nel cuore della notte, così felice da piangere.

 

E' stata l'esperienza più bella della mia vita. Dopo aver incontrato te”.

 

Ci augurammo la buonanotte, sapendo che, anche se eravamo fisicamente lontani, in realtà mai eravamo stati così vicini.

 

Svegliandomi, trovai un suo sms. 'Buongiorno piccola'. Mai due parole potevano suonare più dolci. Gli risposi subito e recuperammo tutti i secondi passati lontani nei giorni precedenti. Tutte le mie paure erano svanite. Lui c'era, più di prima. Aveva capito quale fosse il mio più grande terrore e stava facendo di tutto per scioglierlo. Era un po' la mia ricompensa. Io gli avevo dato tutto, lui lo stava apprezzando al cento per cento. Andava tutto bene. Finalmente le cose sembravano aver trovato il giusto equilibrio. Ero felice senza se e senza ma.

Mi preparai canticchiando e, cellulare in mano, uscii di casa per andare all'università. Niente avrebbe potuto rovinarmi la giornata. Assolutamente nie...

«Jude!»

Avevo parlato troppo presto. Feci finta di nulla e continuai per la mia strada.

«Jude!».

Sbuffai infastidita. Accelerai il passo, ma Josh correva già e mi raggiunse prima che riuscissi a seminarlo. Mi prese per il braccio e fui costretta a girarmi.

«Che vuoi?» chiesi irritata. Perché non potevo avere un attimo di pace?

«Io... Come stai?». Sembrava volersi scusare per la scenata al centro commerciale. Non me ne importava un fico secco delle sue scuse.

«Bene. Che vuoi?» ripetei oltrepassando e di un bel po' il limite della maleducazione.

Rimase in silenzio squadrandomi con quei suoi odiosi occhi grigi. Rabbrividii ma in maniera diversa rispetto a quando incrociavo le iridi stupende di Ryan. Erano due universi paralleli. Mi chiesi se capitava lo stesso a lui quando guardava me e la sua ragazza e chi delle due gli provocasse le sensazioni che dava a me Josh.

«Volevo scusarmi per l'altra volta» disse. Pareva sincero, profondamente dispiaciuto per essersi intromesso. Sapevo che non potevo far finta di nulla, dovevo approfittare dell'occasione per chiudere quella storia una volta per tutte.

E feci la seconda cosa che più odiavo al mondo: mentii.

Da quando Ryan era entrato nella mia vita avevo provato a disintossicarmi da quella brutta abitudine che in precedenza aveva colorato il mio modo di fare. Adoravo prendere in giro la gente, prima. Adesso invece, forse per l'enorme mole del segreto che mi portavo dentro, agognavo sincerità dovunque fossi, anche se diventavo sempre più una orribile bugiarda ogni giorno che passava. Avevo imparato allora a mascherare. Mezze bugie e mezze verità. Come mezzo amore, mezzo futuro, mezzi sogni. Mezza io senza di lui.

«Josh, non so cosa tu abbia visto, ma non ero io in quella macchina, quindi fammi il favore di non inventarti storie, soprattutto se quel tipo è fidanzato. Non voglio avere problemi».

«Ma...» provò a parlare. Lo interruppi prima che potesse aggiungere altro.

«Non sto scherzando. Non ero io».

Ci squadrammo entrambi, nessuno dei due aveva intenzione di cedere. Strinsi i pugni nervosa, conficcandomi le unghie lunghe nella carne. Alla fine, Josh tirò un sospiro.

«Avrò preso un abbaglio» concluse e in automatico rilassai le spalle. Si vedeva lontano un miglio che non credeva ad una parola, ma se non voleva guai doveva farlo.

«Scusami» aggiunse.

«Va bene» acconsentii e feci per andarmene.

La sua mano scivolò lungo il mio braccio fino a raggiungere la mia. La allontanai di scatto, inorridita che altre dita, diverse da quelle di Ryan potessero toccarmi.

Josh si accorse del mio disagio, abbassò la testa si scusò ancora.

Paula arrivò giusto in tempo per rompere quel momento imbarazzante. Mi saltò addosso, evitando per poco che arrivassi a terra. Io e Josh facemmo finta di nulla e ci dirigemmo verso l'aula. Tra me e me pregai che non mi causasse ulteriori problemi.

 

A parte lo spiacevole episodio con Josh, quell furono due delle settimane più belle della mia vita. Non avrei mai potuto immaginare che tra due persone potesse instaurarsi un legame come quello che si era formato tra Ryan e me. Bastava che ci guardassimo negli occhi per capire di cosa l'altro avesse bisogno. I silenzi non ci pesavano. Avevamo escogitato un nuovo modo di comunicare, fatto di sguardi, di carezze, di abbracci che volevano dire tutto.

Avevamo costruito un piccolo paradiso, lontano da interferenze esterne che potessero contaminarlo con le brutture del mondo. Nel nostro angolo c'eravamo noi e le nostre mani intrecciate. C'erano i baci. I respiri che si confondevano. L'impossibilità di stare lontani. Lo sfiorarsi che diventava toccarsi. I brividi. I gemiti. Le lenzuola. L'amore, di qualunque natura forse.

E poi c'erano le risate, che scoppiavano senza preavviso ed impegnavano ore intere, scaturite da una stupidaggine, da una parola detta con un tono di voce diverso. Risate che si quietavano e poi di botto, tornavano a scuotere i cuori.

Il mio era talmente pieno che sarebbe potuto esplodere da un secondo all'altro. Ero felice.

E spaventata a morte di esserlo.

Ryan c'era. Se non era con me fisicamente, rimediava con un pensiero. Un sms, uno squillo, indifferentemente, ma c'era. Ed in un modo diverso, tutto nuovo che mi faceva capire che si era reso conto di cosa mi si agitava dentro ed era deciso a tutti i costi a tranquillizzarmi. Non ero il suo passatempo. Non mi avrebbe abbandonata ora che avevamo fatto il grande passo.

Eppure la vita, soprattutto la mia, ha la strana tendenza di mandare a puttane le cose quando finalmente sembrano sistemarsi. Non si può essere felici per sempre. Per una qualche assurda legge universale, la felicità deve sempre avere un limite e quel Destino malvagio che già aveva iniziato a giocare con la mia sorte e che si stava divertendo come un matto, decise che io il mio limite lo avevo superato. Forse se non avessi corso così tanto, così velocemente. Se mi fossi limitata a sognarlo, a conoscerlo come amico, se non avessi esasperato la nostra relazione, se non lo avessi legato a me in quel modo, se non avessimo oltrepassato quella soglia su cui altre volte eravamo riusciti a fermarci, giusto in tempo per impedire che tutto crollasse. Se...

Ma non è con i se che si va avanti, anche perché se avessi saputo tanto... No, neanche in quel caso avrei cancellato un solo istante vissuto con Ryan. Qualunque cosa sarebbe successa l'avrei affrontata, potevo farcela. Ero Jude, nemmeno il Destino aveva speranze di battermi. Che illusa!

 

Hey, hey, you, you!

I don't like your girlfriend!

No way, no way,

I think you need a new one.

Hey, hey, you, you!

I could be your girlfriend!”.

 

Una mattina, Ryan mi telefonò di buon'ora. Cercava di essere tranquillo, ma sentivo una nota distorta nella sua voce e capii subito che era successo qualcosa.

«Sta per tornare».

Tre parole e ringraziai tutti gli dei esistenti in cielo e in terra per essere seduta sul mio letto. Mi ero sentita quasi svenire. Eccola di nuovo in giro. Questo significava che non avrei potuto vedere Ryan chissà per quanto tempo.

«Quanto resta?» chiesi, sforzandomi in tutti i modi di apparire calma.

«Non lo so».

Mi rattristai di botto. Come avrei fatto?

«O-okay» balbettai. Respiravo a fondo, ma la voce e le mani mi tremavano. Oltre alla delusione, in me, cresceva la rabbia. Che diritto aveva lei di tornare a suo piacimento e rubarmelo? Dov'era quando lui aveva bisogno di lei? Era ingiusto che lo vivesse a rate. O sempre o niente. La pensavo così. Nella mia mente, mi ero creata un'immagine di lei come una sfruttatrice, che andava e veniva secondo i propri comodi, impedendo a Ryan di vivere una vita vera. Si ricordava di lui solo quando non aveva altro da fare. Non era corretto. Ryan non poteva essere un pensiero secondario ed io che lo amavo, lo amavo davvero, lo sapevo. Lui veniva prima di tutto, anche di me stessa. Per lei invece, non era così. La odiavo e al tempo stesso la invidiavo, perché lei aveva tutto. Doveva essere bella per il mestiere che faceva, di conseguenza se non ricca, comunque con abbastanza denaro per potersi permettere ciò che voleva, poteva viaggiare in lungo e in largo, fare la bella vita, stare con chiunque al mondo e invece si ostinava a stare con lui. Cos'aveva il suo cervello che non andava? Perché rovinare l'esistenza a me? Era una specie di affronto personale, nonostante neanche ci conoscessimo. Fino ad allora.

Il primo giorno senza Ryan lo trascorsi facendo le pulizie. Avevo un po' (tanto) trascurato la casa ed aveva davvero bisogno di essere rassettata. Lavai i pavimenti, spolverai tutti i mobili, rassettai la scrivania e l'armadio che ormai non ne poteva più del disordine. Era un intervento più che necessario, anche perché non riuscivo più a trovare nulla tra la massa informe dei miei vestiti, buttati tra le ante alla bene e meglio. Di conseguenza, caricai più volte la lavatrice e la mia serata passò stirando magliette e camicie che se mia madre avesse visto in che condizioni erano ridotte, come minimo le sarebbe preso un infarto.

Il secondo giorno, sentii già i primi sintomi della follia attanagliarmi, come i tentacoli di un polpo. Ryan si era fatto sentire con qualche sms, sicuramente inviato di nascosto mentre lei non c'era o stava dormendo. Mi chiamò alle 3 del mattino per augurarmi la buonanotte. Risposi con un sonoro sbadiglio del tutto involontario, ma la telefonata non durò molto. Anche lui era stanchissimo. Starle dietro era un'impresa. Desiderai abbracciarlo forte, permettergli di riposarsi e svuotare la mente e mi ritrovai ancora più triste, sapendo che non potevo fare nulla per lui, se non aspettare, aspettare e aspettare.

Il pomeriggio andai in negozio, da mia cugina. Non ero di turno, ma la casa sembrava volermi crollare addosso da un momento all'altro. Le pareti erano diventate claustrofobiche. Dovevo uscire. Non mi andava di chiamare Vanessa, si sarebbe accorta che ero giù di morale ed avrebbe iniziato col terzo grado, lì dove lo aveva lasciato quel giorno al centro commerciale dopo la litigata con Josh.

Bighellonai un po' per la città, infine, disarmata, entrai in negozio. Sarah e Christie mi accolsero con un sorriso.

«Ci hai abbandonata!» si lamentò una.

Feci loro la linguaccia ed abbozzai una scusa credibile che tirava in ballo lo studio. Strawberry fece capolino dal retro e mi salutò con la mano, il cellulare attaccato all'orecchio, in procinto di stilare l'ennesima lista di merce.

C'erano pochi clienti in giro, così ci appoggiammo al bancone a chiacchierare del più e del meno. Mi raccontarono un paio di episodi esilaranti che mi ero persa durante la mia assenza e riuscirono a distrarmi tanto da non pensare a Ryan per un minuto intero, record sensazionale per me. Mi strapparono qualche risata, nonostante l'umore nero. Mi resi conto che fingere non mi stava poi costando così tanto. Pensavo sarebbe stato peggio, invece per fortuna mi sbagliavo.

Mentre Sarah si perdeva nell'imitazione di una cliente che qualche giorno prima le aveva dato qualche gatta da pelare, il campanellino legato alla porta tintinnò, annunciando l'ingresso di qualcuno. Le labbra di Christie si storsero in una smorfia davvero poco elegante.

«E ti pareva» sussurrò tra i denti infastidita. Sarah si voltò e anche io seguii il loro sguardo fino ad intercettare il punto che incrociavano loro: una ragazza, alta, i capelli lunghi fino ai fianchi, attorcigliati in morbidi boccoli, evidentemente tinti di un castano innaturale. Si muoveva accentuando ogni movimento fino al ridicolo, la borsetta stretta nell'incavo del gomito col braccio piegato verso il petto ad imitare malamente chissà quale grande diva. Si tolse gli occhialoni scuri a mosca e si guardò intorno come ad assicurarsi che nessuno le sarebbe saltato addosso.

Sarah, di fronte a me, sbuffò.

«Chi è?» mi azzardai a chiedere. Non l'avessi mai fatto. Due parole e per poco non svenni.

«La modella».

Fu come prendersi un pugno in pieno stomaco, assolutamente inaspettato e per questo più doloroso.

Persi il respiro per un attimo e dovetti concentrarmi per riprendere il controllo. Era lei.

Mi trovavo di fronte ad un bivio: fare assolutamente finta di niente, continuare ad ignorare la sua esistenza nel mondo ed impedirmi di chiedere qualcosa su di lei a Christie e Sarah, che a quanto pare, la conoscevano già oppure farmi del male, restare a guardare tutta la scena e accaparrarmi il numero maggiore possibile di informazioni su di lei. Del tipo conosci il tuo nemico così puoi sconfiggerlo.

Sapevo che un simile comportamento avrebbe solo causato problemi, quindi ingoiai il rospo e feci la brava, sperando in chissà quale ricompensa divina per la mia pazienza e per il dolore sopportato in silenzio.

Qualcuno non fu d'accordo con me.

Ovviamente il Destino dovette metterci lo zampino. Ormai il leone si era risvegliato dal sonno e non aspettava altro che mettersi a ruggire con tutta la sua potenza.

«E' da sola?».

Il sussurro stupito di Sarah attirò quell'attenzione che cercavo in tutti i modi di reprimere. Christie fece pure la sua parte. Si era scelto delle alleate micidiali.

«Macché, starà parcheggiando. Lei da sola non va neanche in bagno».

Mi voltai a guardarla, l'espressione disgustata che aveva stampata in viso la diceva lunga su come la pensasse e forte di tutte le volte che le avevo sentite parlare di quella coppia così strana, mi azzardai a chiedere: «E' geloso?».

«Geloso? Geloso è un eufemismo! Guai a chi gliela tocca. Che ci troverà poi...». Christie stessa non si capacitava si quell'attaccamento morboso.

Guardai la tipa con velocemente, cercando a mia volta di rintracciare qualche tratto che la rendesse unica e particolare. Un lineamento del viso, un qualche modo di fare, una sfumatura nei capelli, negli occhi. Niente. Era la più anonima delle ragazze. Avrei pure aggiunto brutta, ma evitai qualunque tipo di giudizio, consapevole che sarebbe stato alterato dalla mia mancanza di obiettività in quella particolare situazione.

Lei guardava fuori, così non si accorse dei nostri sguardi per nulla amichevoli. Il campanello trillò di nuovo ed il mio inferno personale si materializzò in un istante. Ryan entrò in negozio, l'espressione del volto indecifrabile. Era un misto di fastidio, rabbia e paura. Si voltò automaticamente verso la cassa e quando mi vide appollaiata al bancone, semi coperta dalle mie colleghe, ebbi la sensazione di vederlo sbiancare.

Abbassai il capo colpevole, quasi fosse mio il torto di trovarmi lì, che ne avessi meno diritto di lui e della sua ragazza.

Sussurrò qualcosa all'orecchio di lei e per tutta risposta lei se ne uscì con una risatina ridicola.

«Ho cambiato idea».

La sua voce era pure più stridula di quanto il telefono potesse farmi immaginare.

Christie si sbatté un palmo sulla fronte.

«Gesù, non la sopporto!!» esclamò disperata.

«E' peggio di un'infestazione di cimici» si aggiunse Sarah.

Dentro il mio stomaco qualcosa si mosse, contenta.

L'avevo sentito dire in giro: non c'è niente di più bello quando la gente non sopporta le stesse persone che odi pure tu. Un'autentica goduria.

La tipa schioccò un paio di volte le dita in nostra direzione. Christie e Sarah si scambiarono un'occhiata e in onore della loro amicizia, decisero di affrontare il mostro insieme.

«In bocca al lupo» mormorai. Se solo avessero saputo cosa si agitava nella mia testa, chissà come avrebbero reagito. Probabilmente le avrebbero fatto provare una maglietta intinta nell'acido. Credo che non aspettassero altro che un'occasione per liberarsi di lei.

E non erano le uniche.

Osai alzare lo sguardo e trovai Ryan ad osservarmi in un istante in cui lei era distratta da un paio di jeans luccicanti. Fui certa che ciò che vedeva non gli piaceva per niente.

Mi sforzai di curvare le labbra in un sorriso. Stavo bene, ero ancora tutta intera, non doveva preoccuparsi per me, tentavo di dirgli con gli occhi, ma non voleva proprio saperne di ascoltarmi.

In un lampo rivissi quei giorni lontana da lui, quando aveva deciso di andarsene per il mio bene ed il panico mi bruciò le vene.

Decisi che era abbastanza. Presi la borsa ed andai via. Ryan osservò la scena dal riflesso di uno specchio

Salutai Christie e Sarah ed imboccai l'uscita. Fuori si era fatto buio e l'aria era di nuovo gelida.

Per un attimo pensai che mi avrebbe seguita, magari con la scusa di essersi dimenticato di inserire l'antifurto in macchina, invece nulla. Continuai la mia strada da sola.

Mi strinsi automaticamente le braccia al petto, come se quel semplice gesto potesse impedirmi di sbriciolarmi in tanti piccoli pezzettini, lì, su quel marciapiedi freddo.

Che cosa avevo fatto di male per meritarmi tanto?

La risposta arrivò in men che non si dica, in un ruggito colmo di rimprovero e divertimento.

Hai una relazione con un ragazzo fidanzato, puttana”.

Chiusi gli occhi per impedirmi di piangere.

Che domande stupide.

 

Ero già abbastanza incazzato per i fatti miei. Stavo sprecando l'ennesimo pomeriggio della mia vita e se mi fosse andata bene, sarei tornato a casa con le braccia piene di pacchetti e il serbatoio della macchina vuoto. Se mi fosse andata male... Non volevo pensarci ma sapevo che non potevo aspettarmi una serata senza problemi.

Capii che mi sarei pentito della mia proposta di accompagnarla nell'esatto momento in cui mi disse in che zona voleva andare.

Incrociai le dita. Era da un pezzo che Jude non lavorava con la scusa dello studio. Quante probabilità potevano esserci che fosse al negozio giusto quel pomeriggio?

Avevo parlato poco durante il tragitto da casa sua al centro. Perlopiù annuivo alle sue sciocchezze. Le prossime sfilate, le colleghe antipatiche, quanto fossero stupide alcune, quasi che lei sprizzasse intelligenza da tutti i pori.

«Scendi, vado a cercare posto» le dissi accostando. Lei non se lo fece ripetere due volte e subito si diresse verso quel negozio in particolare. Rimasi di sasso seguendola con lo sguardo.

Trovai un parcheggio poco lontano. Il telefono non ufficiale, come lo chiamava Jude, era in fondo al cruscotto, spento. Mi fidavo di Jude, sapevo che non mi avrebbe cercato. Il problema sarebbe sorto semmai lei si fosse messa a rovistare lì dentro, tra il libretto dell'auto e i vecchi cd pirata. Tenendolo spento mi sarei potuto inventare qualcosa. Magari l'avrei accollata a Dave. Lui sembrava così entusiasta di questa storia con Jude.

Scesi dalla macchina e mi incamminai verso la mia meta guardandomi intorno, alla ricerca della Nissan di Jude. Nei paraggi non c'era, ma non potevo essere sicuro che non ci fosse neanche lei.

Entrai con un sospiro e una volta varcata la soglia del negozio, mi si mozzò il fiato. Eccola lì, appoggiata al bancone, anche lei impietrita.

Non appena i nostri sguardi si incrociarono, abbassò il capo. Ebbi la certezza che si sentisse in colpa per quella situazione tutt'altro che piacevole.

Mi avvicinai a lei e in un sussurro arrabbiato le chiesi:

«Sbaglio o avevi detto che non saresti più tornata qui?».

Lei mi guardò e si fece scappare una risatina.

«Ho cambiato idea» disse come se nulla fosse.

Le ragazze che stavano vicino a Jude si avvicinarono. Riconobbi quella che aveva cercato di aiutarmi col cambio del famoso cardigan, quando Jude, imbarazzata si era nascosta nel magazzino. Nascosi un sorriso pensando a quel periodo e a come da allora la mia vita era cambiata.

La sua attenzione era tutta ad un paio di jeans a dir poco scandalosi, così ne approfittai per lanciare un'occhiata a Jude. Lei mi guardava a sua volta, le labbra curvata in un sorriso timido.

Sapevo cosa stava pensando, ma non volevo che fosse così e non potevo neanche azzardarmi un attimo in più ad osservarla nella sua non rabbia, perché se per sbaglio, lei si fosse girata, avrebbe cominciato con le sue solite scene. Mi sentivo intrappolato in una morsa, ogni secondo più stretta.

Poi, in uno scatto, Jude prese la borsa e se ne andò. Le fui grato per quel gesto.

La osservai da uno specchio, per non farmi scoprire e per un attimo mi parve di vedere una smorfia assurda di dolore stampata sul suo viso, ma non ebbi modo di assicurarmene perché era già sparita.

Passò un'ora prima che anche noi andassimo via da quel negozio. Perlomeno si dichiarò soddisfatta degli acquisti per quella sera e avremmo potuto tornarcene a casa senza dover continuare la ricerca.

Di nuovo rimasi silenzioso, mentre lei parlava quasi senza fermarsi a prendere fiato.

Erano anni che la stavo a sentire, non ne potevo più. D'un tratto sentii la netta nostalgia dei silenzi assorti di Jude e mi chiesi come facessi ad essere attratto da due persone così profondamente diverse l'una dall'altra.

Lei mi piaceva. Avevamo vissuto la nostra vita insieme. In un certo senso ci eravamo amati molto, una volta. Adesso... non sapevo cosa pensare. Era una relazione strana la nostra. Ognuno per i fatti suoi, ma poi morbosamente attaccati l'uno all'altra.

Jude invece era semplicemente Jude. Con le sue smorfie, i suoi sorrisi, altezzosa anche lei, ma in maniera diversa.

Se avessi dovuto descrivere entrambe avrei detto che lei era un DVD mentre Jude un libro, un saggio da intenditori che si rendeva comprensibile a tutti, perché non era giusto essere riservati ad un'elite. Ed io, che intenditore non c'ero stato mai, mi trovavo perfettamente a mio agio sfogliando le sue pagine.

Piccola Jude...

Sentivo una strana morsa attanagliarmi lo stomaco. Un sentimento che non avevo mai provato prima e per questo mi ci volle un po' per capire cosa fosse: sensi di colpa. Maledettissimi sensi di colpa.

Non verso di lei, che mi stava seduta a fianco e continuava a sciorinare stupidaggini, una dopo l'altra, senza sosta. In quel caso lo avrei capito, sarebbe stato giusto. Invece no.

Mi sentivo in colpa nei confronti di Jude. L'avevo ferita, in qualche modo quella sera, le avevo fatto del male e sapevo che anche che non lo avrebbe mai ammesso. Avrebbe continuato a dire che andava tutto bene, che non era successo niente. Si sarebbe preoccupata per me, invece.

Strinsi automaticamente le mani al volante e lei se ne accorse.

«Insomma, ma mi stai ascoltando? Sei impossibile Ryan, io ti parlo dei miei problemi e tu...»

«Vuoi chiudere un po' il becco?!» esclamai incazzato. Non ce la facevo più.

Spalancò gli occhi e si strinse nel sedile, anche lei sorpresa della mia reazione. Forse avevo un po' esagerato, ma davvero ero arrivato al limite. La differenza era troppa.

Si fece assalire dalla rabbia e reagì come mi aspettavo.

«Bene!» disse stizzita. «Non vuoi più sentirmi parlare? Non lo farò».

Incrociò le braccia al petto e si voltò verso il finestrino.

In auto calò il silenzio finalmente.

Arrivati a casa sua, scese senza neanche salutare. In compenso fece sbattere la portiera. Non aspettai nemmeno che entrasse. Partii sgommando e non appena fui lontano abbastanza andai alla ricerca del cellulare nel cruscotto e lo accesi.

Ci mise un'eternità a caricare. Infine, digitai il numero di Jude.

'Ti prego, rispondi'.

Volevo assicurarmi che stesse bene. Speravo di essermi solo immaginato l'espressione sul suo viso mentre andava via dal negozio. Una, due, tre chiamate e niente. Di Jude non c'era traccia.

Iniziai a capire come l'avevo fatta sentire quando ero sparito io.

 

La suoneria del telefono mi svegliò.

Ero tornata a casa e senza pensarci due volte mi ero infilata nella vasca per rilassarmi un po'. Forse la doccia sarebbe stata migliore, ma mi tremavano le gambe e non ero sicura di riuscire a stare in piedi per tutto il tempo necessario a schiarirmi le idee.

Avevo svuotato dentro l'acqua bollente un'intera confezione di bagno schiuma e mi ero immersa col chiaro intento di smetterla per un attimo di pensare a quella e al suo sculettare, ma c'ero riuscita poco.

Chissà cosa aveva pensato Ryan. Dov'era? E soprattutto, era arrabbiato?

Poi mi ero addormentata, ad un pelo dall'acqua.

Mi ci volle un po' per riprendermi dallo stordimento. Ritornando in me rabbrividii. L'acqua era freddissima. Uscii di corsa dalla vasca, mi avvolsi nell'accappatoio e andai in camera a prendere il cellulare.

Sette chiamate perse: Ryan.

Gli scrissi un SMS mentre cercavo qualcosa di caldo da indossare.

 

'Stai bene? Che succede? Mi sono addormentata in vasca'.

 

Si sentiva lontano un miglio che ero preoccupatissima.

Il telefono squillò di nuovo appena finii di infilarmi il pigiama.

«Ehy» risposi all'istante.

«Stai bene?». Non si era perso nei convenevoli. Era preoccupato anche lui. Un moto di affetto nei suoi confronti mi invase. Perché non era lì con me? Sarebbe bastato un abbraccio e si sarebbe calmato.

«Sì» lo rassicurai. «Tu?».

Ci mise un po' prima di rispondere. Soppesava le parole.

«E' stata una giornata pesante» ed in ogni parola sentii l'affanno e il dolore che lo aveva accompagnato.

Calò il silenzio. Neanche per me era stato semplice. Non era successo niente, giusto, ma ritrovarmi di punto e in bianco, faccia a faccia col mio demone personale, vedere realizzato davanti agli occhi il mio incubo peggiore... non c'era stato nulla di divertente in quel pomeriggio.

Ero combattuta. Consolarlo o pretendere per una volta di essere io a venire consolata?

«Vuoi... vuoi venire?». L'esitazione era durata pochi secondi.

«E' meglio se vado a casa».

Parlavamo entrambi in modo sommesso, come due persone che hanno subito una grossa perdita e non sanno se farsi le condoglianze a vicenda o restare in silenzio a contemplare il proprio dolore.

«Okay. Allora notte».

«Notte».

Riattaccò, lasciandomi sprofondare in un abisso di disperazione. Mi misi a letto e mi tirai le coperte fin sugli occhi. Volevo solo dormire tranquillamente. Invece no.

Feci un sogno.

Ero sicura che non fosse la realtà perché c'erano un'infinità di particolari, piccoli dettagli che lo rendevano tale.

Primo fra tutti, indossavo un paio di attillatissimi pantaloncini di jeans che facevano tutto eccetto che vestirmi. A 'coprirmi' le gambe, delle calze a rete nere e poi una maglietta bianca sbrindellata e bagnata, con una scollatura vertiginosa tanto da lasciare intravedere il reggiseno bordeaux. Avevo pancia e schiena nude, per niente nel mio stile.

Altro indizio a conferma della mia teoria: in mano stringevo un microfono e anzi a dirla tutta, cantavo proprio e questo non poteva essere. Ero sempre stata stonatissima, non mi sarei azzardata mai e poi mai. E invece:

 

Hey, hey, you, you, I don't like you girlfriend.

No way, no way, I think you need a new one.

Hey, hey, you, you, I could be your girlfriend”.

 

Sicura di me, sculettavo di qua e di là urlando a squarciagola quella canzone tanto divertente. Doveva esserlo, visto che ridevano tutti.

 

Hey, hey, you, you, I know that you like me.

No way, no way, no it's not a secret.

Hey, hey, you, you, I want to be your girlfriend!”.

 

Guardai di lato e d'un tratto mi vidi circondata da un gruppo di ballerine che mi accompagnavano in quella follia di note.

Era bello, esilarante, da pazzi e ciò che mi esaltava di più era che quella canzone la stavo pure dedicando a qualcuno, una coppietta che a sua volta mi fissava, lei infastidita, lui sconvolto. Lui, destinatario di quel delirio.

 

You're so fine I want you mine, you're so delicious.

I think about you all the time, you're so addictive.

Don't you know ehat I can do to make you feel alright”.

 

Ryan era pietrificato. Mi osservava avvicinarmi, pericolosa, letale, pronta ad infrangere la nostra promessa, a rivelare così quel segreto che avrebbe rovinato entrambi, lui più di me. Io lo ero già irrimediabilmente.

 

Don't pretend, I think you know I'm damn preciuos

and hell yeah, I'm the motherfucking princess.

I can tell you like me too and you knnow I'm right!”

 

Lo avrei fatto? Me lo chiedevo anche io ed ogni passo pareva essere un sì divertito e macabro.

Lei, l'altra, mi lanciava occhiate schifate mentre ancheggiavo, per niente padrona di me, verso di loro. Gli occhi cerchiati dal trucco pesante, quasi allucinati.

 

She's like so whatever and you could do so much better

I think we should get together now.

And that's what veryone's talking about”.

 

Arrivai al loro tavolo, sicura di me come non lo ero mai stata in tutta la mia vita, le ballerine che mi si muovevano accanto avevano compreso il gioco. Ognuna aveva raggiunto una coppia e si strusciava sul ragazzo con fare provocatorio.

 

Hey, hey, you, you, I don't like you girlfriend.

No way, no way, I think you need a new one.

Hey, hey, you, you, I could be your girlfriend

Hey, hey, you, you, I know that you like me.

No way, no way, no it's not a secret.

Hey, hey, you, you, I want to be your girlfriend!”.

 

Ryan mi guardava muovermi incredulo, gli occhi spalancati, stupito da quella parte di me che non gli avevo mai mostrato, per il semplice motivo che non esisteva. Feci scivolare due dita sulla sua guancia madida di sudore. L'atmosfera si stava surriscaldando.

 

I can see the way, I see the way you look at me,

and even when you look away, I know you think of me.

I know you talk about me all the time again and again”.

 

Non me ne accorsi nemmeno. Afferrai uno dei bicchieri di vetro colmi d'acqua e la gettai in faccia a lei. Strizzò gli occhi e aprì la bocca sorpresa, irritata, offesa, ma prima che potesse reagire, presi Ryan per il colletto della camicia e lo trascinai via con me, ridendo sguaiatamente.

 

So come over here and tell me what I wanna hear,

better yet make you girlfriend disappear

I don't want to hear you say her name ever again”.

 

Cantavo ad un centimetro dal suo naso. Le sue labbra estremamente invitanti sfioravano le mie. Deglutì per trattenersi.

 

In a second you'll be wrapped around my finger

'cause I can, 'cause I can do it better,

there's no other so when's it gonna sink in

she's so stupid what the hell where you thinking!”.

 

Ryan non credeva ai suoi occhi. Con uno strattone si allontanò da me. Non mi mossi di un millimetro. Non ci credevo nemmeno io. Non mi avrebbe mai più rivolto la parola. Lo avevo ferito.

Più di tutto il resto, fu questo a convincermi che stavo sognando.

Nella realtà, io non avrei mai fatto nulla consciamente che gli potesse fare del male ed allontanarlo da me. Nella paura mi resi conto di quanto fossi messa male.

Il sogno cambiò, adesso guardavo tutto da una prospettiva diversa. La cantante non ero più io. Me ne stavo in disparte, sul palco, nascosta dal tendone spesso del sipario, vestita sì in maniera oscena, ma non ostentavo quell'abbigliamento vergognoso. Cercavo di coprirmi il più possibile con le mani e col tessuto rosso scarlatto e osservavo la scena intorno.

La cantante rideva, negli occhi, la sfida pura. Ryan tornava verso la sua ragazza, la prendeva per mano e dolcemente l'accompagnava all'uscita, mentre io, intrappolata dalla mia vergogna, non potevo far niente per fermarlo e chiedergli perdono, per qualcosa che alla fine non dipendeva da me.

Mi svegliai di soprassalto, madida di sudore.

Era davvero un sogno, pensai sollevata, ma qualcosa continuava a rimbombarmi in testa.

 

Hey, hey, you, you, I don't like you girlfriend.

No way, no way, I think you need a new one.

Hey, hey, you, you, I could be your girlfriend”.

 

 

Salve! Accidenti, questo capitolo è stato un parto.

Spero vi sia piaciuto e mi scuso immensamente per l'assurdo ritardo con cui è arrivato. Il prossimo è già in fase di stesura, così come i seguenti. In tutto ne mancano 5 alla fine di questa prima parte.

Nel prossimo aggiornamento vi metterò a parte dei miei progetti per il continuo di questa storia. Fatemi sapere cosa ne pensate.

Proprio riguardo al prossimo capitolo, cercherò di finirlo in tempi almeno decenti. Non so dirvi ancora quando sarà pubblicato, avrete notizie sulla mia pagina appena possibile.

Qualche appunto:

La canzone di questo capitolo è 'Girlfriend' di Avril Lavigne.

'Here I am, once again' è l'inizio del ritornello della canzone che sarebbe dovuta essere al posto di questa, per la precisione 'Behind these hazel eyes' di Kelly Clarkson. Ho apportato qualche modifica alla storia.

La frase che trovate nel capitolo precedente “Una donna si innamora veramente di un uomo quando lui le fa amare se stessa” è di Anna Brambilla. L'avevo pubblicata senza autore, perché come sapete, ai tempi di facebook e social network vari, è difficile risalire alla vera fonte di una citazione. Anna è stata molto gentile a farsi riconoscere e ho posto rimedio.

Se vi capita di trovare una 'Ingiusto' di una certa hazel-grace, beh, leggetela. E' ancora agli inizi, ma vi assicuro che promette bene davvero.

Prima o poi arriveranno i ringraziamenti alle recensioni. Intanto ve lo dico qua, grazie di tutto cuore a chi ha lasciato una parola e a chi legge in silenzio. Grazie davvero. Jude non esisterebbe senza di voi.

Bene, vi lascio. Al prossimo aggiornamento, allora!

Baci, S.

 

 

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Capitolo 13
*** #9. Everybody hurts (parte 1) ***


Dawning bitch

 

# 9

 

Il peggior modo di sentire la mancanza di qualcuno è esserci seduto accanto e sapere che non lo avrai mai”.

Garcia Marquez

 

Everybody hurts (parte 1)

 

L'orologio segnava le cinque del mattino. Mi aspettava un'altra giornata senza fine e soprattutto senza Ryan.

Quanto ancora sarebbe rimasta in città quella? La odiavo ogni secondo di più se era possibile e detestavo me stessa perché non mi piaceva la persona che trovavo riflessa nello specchio. Tutti i progressi che avevo fatto stando con Ryan sembravano svanire al pensiero di lei.

Mi faceva sentire marcia.

Provai a riaddormentarmi, ma le immagini del sogno comparivano non appena chiudevo gli occhi e pur di non rivedere l'espressione ferita di Ryan, li tenni aperti, fissando un punto impreciso nel buio, fino a quando anche questo iniziò a diradarsi.

Non volevo alzarmi.

Mi rannicchiai su me stessa, in attesa che il cellulare desse qualche segnale di vita.

Per tutta la mattinata purtroppo, restò in assoluto silenzio.

Alla fine mi tirai in piedi e mi dedicai un po' alla casa -di nuovo-. Ormai era immacolata da un pezzo e pulire non diede i risultati sperati.

Cercai di ricordare cosa facevo della mia vita prima di conoscere Ryan. Nulla. Il vuoto totale.

C'era qualche bevuta, le ricorrenze con la mia famiglia, la scuola e poi l'università, ma era come guardare tutto in una vecchia televisione in bianco e nero. I colori erano comparsi insieme a lui. Era stato lui ad aver dato un senso a tutto.

E ora che non c'era, la corrente si era interrotta e la TV era spenta, guasta.

Mi mancava da impazzire.

Mi sforzavo di trattenere l'istinto di prendere il cellulare e chiamarlo. Non potevo sapere se erano insieme. Se avesse squillato e lei fosse stata nei paraggi? Come lo avrebbe giustificato?

Gli avrei creato dei problemi e non volevo. Non ero la Jude del sogno, grazie al cielo.

Lo poggiai sul tavolo, come la prima sera in cui gli avevo lasciato il mio numero e sdraiata sul divano, lo fissai, quasi che, concentrandomi abbastanza, avessi potuto smuoverlo col pensiero.

Mi appisolai e nel dormiveglia, sentii uno strano rumore. Quando aprii gli occhi, il display era illuminato e il cellulare vibrava.

Lo afferrai con uno scatto e risposi all'istante.

La sua voce fu subito un toccasana.

«Ciao». E di colpo tornarono luci e colori.

«Ehy». Il mio sollievo era palese

«Stavi dormendo?». Smorzò una risatina ed automaticamente sorrisi anche io. Gli bastava così poco per rendermi felice.

«Non ho niente di meglio da fare» biascicai alzandomi. Avevo il collo tutto indolenzito per la posizione strana che avevo assunto.

«Studiare no, vero?».

Già, lo studio. Mi era completamente passato di testa.

«Ehm... La prossima volta».

Lo immaginai scuotere il capo a destra e sinistra ed alzare gli occhi al cielo a quelle parole, un po' divertito per la mia sbadataggine.

«Sei libero?» gli chiesi. Speravo in tutti i modi che mi dicesse di sì.

«Per un po'. E' andata dal parrucchiere».

Meglio di niente.

«E... hai da fare?». Adesso pregavo per un no.

Rimase un po' in silenzio, valutando attentamente le conseguenze di una possibile risposta.

«Devo fare attenzione».

Involontariamente sospirai e lui se ne accorse.

«Piccola...».

Strinsi gli occhi ed ingoiai il groppo che mi aveva bloccato la gola. Non ce la facevo più a stargli lontana. Era un dolore fisico, mi sentivo bruciare letteralmente. Non avevo mai provato nulla del genere e non mi piaceva per niente.

«E' tutto okay» sussurrai.

Qualche altro istante di silenzio e poi parlò di nuovo.

«Cinque minuti» e la linea cadde.

Rimasi col cellulare in mano, senza capire cosa intendesse.

Puntai lo sguardo sulla porta, sicura di aver sentito male, di aver frainteso. Forse era entrato qualcun altro a cui aveva risposto ed aveva dovuto mettere giù per non farsi scoprire.

Forse invece sarebbe venuto davvero...

Mi arrotolai nella coperta, di guardia, sperando di sentire il motore della sua auto, neanche avessi i superpoteri.

Un quarto d'ora dopo ero ancora immobile, in attesa.

Cominciavo a convincermi di essermi davvero sbagliata, quando una chiave girò nella toppa e la maniglia si abbassò.

Un'occhiata veloce al suo volto, poi scattai in piedi e in men che non si dica, mi fiondai fra le sue braccia. Fui immediatamente travolta dal suo profumo, che l'assenza aveva reso più dolce di quanto ricordassi.

Dopo un attimo di sorpresa, anche lui mi strinse. Fece scivolare una mano fra i miei capelli e abbassò il capo sul mio.

In quel momento avrei giurato di essergli mancata in tutto quel tempo.

Sciolse l'abbraccio per baciarmi le labbra, anche se con una certa titubanza.

«C'è qualcosa che non va?» chiesi allarmata.

«Pensavo fossi...» si interruppe, incapace di trovare il modo esatto di esprimersi.

«Va tutto bene» lo rassicurai. «Sei qui».

Mi sorrise rincuorato.

Ci sedemmo sul divano, dalla televisione, in sottofondo, arrivavano gli schiamazzi di un varietà.

«Non posso restare per molto, ma ho due notizie» mi disse biforcando le dita. Gliele afferrai e le intrecciai alle mie.

Guardavo, anzi divoravo il suo viso. Mi sembrava di non vederlo da secoli e la sua bellezza ancora una volta, mi lasciò senza fiato.

«Fammi indovinare, una bella e una brutta».

Mosse la testa come a voler dire 'più o meno'.

«Prima quella bella». Ne avevo proprio bisogno.

«Va via sabato notte».

Dovetti trattenermi per non esultare a quella rivelazione. Mi sarei volentieri messa a saltare e a far le capriole per la contentezza. Sabato notte. Era 'solo' venerdì, potevo farcela, ancora poco più di un giorno e poi il supplizio sarebbe finito.

Ryan notò la scintilla che si era accesa sul mio viso, ma che si spense subito ricordandomi dell'altra notizia, quella più o meno cattiva.

«Vai con lei?» chiesi sentendomi mancare.

«No, no, assolutamente».

Tirai un gran sospiro di sollievo. Quello non avrei proprio potuto sopportarlo.

«La brutta notizia è che devo un favore al mio migliore amico. Domenica devo andare con lui e molto probabilmente non potremo vederci».

Stemperata dalla paura della mia folle ipotesi, non mi sembrò così cattiva. Ci saremmo comunque potuti sentire e già solo il fatto che non sarebbe stato con lei, faceva tanto.

«Pensavo peggio».

Mi sorrise e mi accarezzò i capelli. Chiusi gli occhi al suo tocco, assaporando il calore delle sua mani che pian piano scendevano sulle guance, si fermavano sotto il mento per alzarlo e permettermi di baciare le sue labbra.

Sebbene avessimo una marea di cose da raccontarci, trascorremmo la maggior parte del tempo in silenzio, solo scambiandoci occhiate a volte divertite, altre scherzose. Erano comunque sguardi felici, di quelli che fino a qualche mese prima non avrei mai pensato potessero esistere.

Rimanemmo abbracciati fino a quando il suo cellulare squillò. Non sapevo quanto fosse passato di preciso.

Ryan si portò l'indice sulle labbra ed io annuii. Era lei.

Serrai gli occhi e mi rifugiai sul suo petto mentre parlavano. Poche battute. Aveva finito e aspettava che lui lo andasse a prendere.

«Ma dove sei?».

Sbirciai il volto di Ryan, la sua espressione mentre le raccontava l'ennesima bugia e mi sorpresi constatando che non mi sentivo per niente in colpa.

«Con Dave. Sta sbrigando una commissione. Arrivo».

La sua naturalezza invece mi colpì. Lo aveva detto in maniera così normale che quasi quasi ci avrei creduto anche io.

Riattaccò con un sospiro e fece per alzarsi.

«Devo andare» sussurrò dispiaciuto.

Nascosi il dolore dell'imminente separazione dietro un sorriso.

«E' questo il favore che devi al tuo migliore amico?».

Strinse gli occhi come suo solito per dirmi di sì, poi parve riflettere e si accigliò.

«Ti da fastidio?».

Mi avvicinai a lui e gli allacciai le braccia al collo. La coperta che avevo sulle spalle si era trasformata in un buffo mantello e arrivò a coprire anche un po' delle sue.

Scossi la testa e mi alzai sulle punte per baciarlo.

Non si fece pregare. In un attimo le sue mani mi strinsero i fianchi e i nostri corpi aderirono l'uno all'altro.

In quel bacio furono racchiusi tutti quelli che ci eravamo negati nei giorni precedenti e quelli che non ci saremmo potuti scambiare in quelli a venire. Era un po' un compenso per la sofferenza che il dover stare lontani ci causava. Una promessa che sarebbe finito anche quel periodo e tutto si sarebbe sistemato.

«Ringrazialo anche da parte mia» bisbigliai tornando a poggiare i piedi a terra, in tutti i sensi.

Lui sorrise. Un altro bacio veloce e poi corse via.

 

L'esperienza degli anni mi aveva insegnato che se Vanessa mandava un SMS potevo stare tranquilla. Se chiamava era successo qualcosa che doveva per forza raccontarmi. Se invece si presentava sulla soglia di casa mia col fiatone, la situazione era davvero grave.

Per questo motivo quando sabato mattina me la ritrovai scalpitante sullo zerbino dapprima mi preoccupai.

La fissai stralunata ed ancora assonnata. Aveva le guance rosse ma i capelli biondo miele in perfetto ordine. Si era sicuramente sistemata prima di suonare. Non riuscivo a capire cosa avesse.

Scandagliai il suo viso in cerca di qualche indizio.

'Oh cazzo, mi ha scoperta' pensai. Cos'altro poteva averla portata da me in quel modo?

Entrò in casa come un razzo e si fermò al centro della cucina. La osservai sospettosa. Si attorcigliava le mani un po' nervosa, ma eccitata.

«Ti ricordi quel ragazzo di cui ti avevo parlato?» iniziò senza tanti preamboli.

Nascosi la sorpresa ed il sollievo insieme. Ragazzo? C'era di buono che Ryan ed io eravamo ancora al sicuro.

Feci di sì con la testa anche se non era vero, ma non potevo di certo deluderla. D'un tratto mi resi conto che era davvero su di giri per la contentezza.

«Ti ha invitata ad uscire?» azzardai. Solo una notizia del genere poteva darle quello stato di esaltazione in cui si trovava.

«No, ma ho scoperto una cosa».

Mi mise le mani sulle spalle e mi costrinse a sedermi sul divano. Mi si piazzò di fronte di fronte, le brillavano gli occhi. Brutto segno.

«Ieri stavamo chiacchierando e gli è sfuggito di essere un grande appassionato di hockey. E indovina? La sua squadra del cuore gioca domani, qui, in città».

Terminò la frase con un gridolino, battendo le mani. Per un attimo mi esaltai insieme a lei, poi però, cominciai pian piano ad avere qualche sospetto. Il suo sguardo la diceva lunga sul fatto che voleva fare qualcosa ed io avrei dovuto aiutarla e se c'era di mezzo un ragazzo potevo pure iniziare a confessare tutti i miei peccati, perché difficilmente ne sarei uscita illesa.

«Cos'hai in mente?» chiesi già terrorizzata. Aveva già organizzato tutto nei minimi dettagli, ne ero certa. Probabilmente aveva pure stilato una scaletta con gli orari esatti.

«Niente, dobbiamo solo casualmente trovarci lì anche noi» disse in un sussurro.

Spalancai gli occhi, incredula.

«CHE COSA???».

Vanessa mi intimò di abbassare la voce. Poi mi rivolse il più significativo degli sguardi. Mi strinse le mani e mi fissò come i cuccioli affamati guardano i loro padroni. Mi stava supplicando. Maledetta, glielo avevo insegnato io quel trucco!

«Ti prego, Jude. Mi piace davvero».

La esaminai per un minuto buono, poi mi arresi. Chi ero io per impedirle di coronare il suo grande amore?

«Quando hai detto che è?».

Urlò di nuovo, mi saltò al collo e mi abbracciò fortissimo, contenta come una bambina di cinque anni. Ricambiai l'abbraccio, nonostante tutto, felice di poterle essere utile.

«Passo a prenderti domenica alle 9, puntuale» mi disse alzandosi. Doveva correre a lavoro.

Ci salutammo e andò via, più contenta di quando era entrata, lasciandomi a scuotere la testa, certa che se ci fosse stato di mezzo Ryan, avrei fatto anche peggio.

Il resto della mia giornata trascorse battendo scontrini alla cassa del negozio.

Ogni tanto alzavo gli occhi e mi ricordavo la scena di qualche giorno prima. Allora ingoiavo la disperazione e tornavo al mio lavoro. Amavo quel negozio prima che lei ci mettesse piede, perché doveva distruggere pure quella parte della mia vita? Non le bastava quanto già stesse compromettendo la mia felicità?

Come se poi ci c'entrasse davvero qualcosa! A conti fatti, lei era l'unica che non aveva alcuna responsabilità in tutta quella storia. Ma non riuscivo proprio a non odiarla per il semplice fatto che esisteva.

Mi chiedevo come sarebbe stata la mia vita senza di lei.

Una volta a casa, mi infilai il pigiama ed inserii un dvd a caso nel lettore. Alcuni sprazzi dell'incubo, ogni tanto tornavano a farsi vivi e non avevo per niente voglia di addormentarmi per paura di dover assistere di nuovo a quello spettacolo senza poter far niente per fermarlo.

Alla fine fu la stanchezza a prendere il sopravvento e un attimo dopo aver chiuso gli occhi, li riaprii quando già era giorno. Avevo dormito così profondamente da non sognare nulla e al trillo della sveglia, mi tirai su. Dovevo aiutare Vanessa, ma prima di tutto chiamare Ryan.

La prigionia era finita. Lei se n'era andata, potevo ricominciare a respirare.

La prima boccata d'aria fu il suo 'Buongiorno'. Poche lettere ed uno smile, per chiunque altro insignificanti, ma per me che ci vivevo, quel giorno in particolare, erano più brillanti e più caldi del sole dopo mesi di pioggia. Sorrisi automaticamente e mi misi addirittura a canticchiare sotto la doccia, nonostante la mia avversione per qualunque suono prodotto dalle mie corde vocali.

Alle nove in punto, Vanessa suonò al mio campanello. Era di nuovo agitatissima, ma stavolta le mani le tremavano per il nervosismo, più che per la gioia.

Cercai di tranquillizzarla in tutti i modi in cui potevo, sortendo ben pochi risultati. Alla fine mi arresi, le diedi un cioccolatino e ci mettemmo in viaggio per lo stadio.

A lavoro mi ero fatta spiegare qualcosa sull'hockey da Christie. Suo fratello giocava in una squadretta di città e sicuramente ne sapeva più di me. Vanessa mi aveva messa al corrente del suo piano: io era la grande appassionata e lei mi stava solo facendo compagnia. Mi servivano assolutamente delle informazioni, visto che non sapevo nemmeno come si scrivesse hockey.

In macchina, Vanessa chiarì alcuni aspetti del suo assurdo piano. Si era pure preparata delle frasi da sciorinare al momento giusto come risposte ad ipotetiche domande di lui o per riempire i momenti vuoti.

Ogni tanto scuotevo la testa, consapevole che la mia migliore amica diventava ogni secondo più pazza. Cosa non si fa quando ti piace qualcuno... Ero la prima a sapere benissimo che in certi casi, la razionalità non esiste.

Parcheggiò in un posto isolato, lontanissimo dall'ingresso e dovemmo fare il resto della strada a piedi. Lei correva, impaziente di entrare. Mi chiedevo come avrebbe fatto ad incontrarlo in mezzo alla confusione di tifosi, ma sicuramente era pronta anche ad una simile evenienza.

Entrammo in un atrio totalmente bianco, con inserti in blu elettrico. Sulla sinistra, un mucchio di gente faceva la fila per acquistare i biglietti. Tre sportelli erano aperti ed erano tutti pieni benché mancasse ancora un'ora all'inizio del match.

Vanessa si alzò sulle punte per ispezionare la zona, alla ricerca del suo bello, che a quanto pare non trovava.

«Cavolo, eppure la sua macchina è fuori» la sentii sussurrare in procinto di perdere la calma.

Poi d'un tratto arrestò la sua ricerca, ritornò coi piedi per terra e mi strinse il braccio.

«Eccolo» disse. Seguii il suo sguardo, fino ad incrociare il punto preciso dove si perdeva il suo.

Due ragazzi. Uno normale, anonimo, né carne né pesce.

L'altro bello, bellissimo, castano e con le spalle grandi. Il sorriso luminoso e gli occhi splendenti come due pietre preziose.

Fissai Vanessa, terrorizzata e il cuore perse un colpo, forse due. Cercai di ricordare se mi avesse detto come si chiamava il tipo che le piaceva. Sì, lo aveva fatto, il giorno prima. Com'era? Non Ryan, non Ryan...

«Dave!».

Urlò quel nome fingendosi assolutamente stupita dalla coincidenza di trovarlo lì e il ragazzo normale si voltò verso di lei, sorpreso di incontrarla.

Tirai un gran sospiro di sollievo, prima di rendermi conto che però quel Dave era lo stesso che avevo ringraziato due giorni prima, quello a cui ero grata per avermi concesso alcuni minuti con Ryan, quello che sapeva di lui e me.

E Ryan gli stava proprio a fianco.

Mi avvicinai, titubante e imbarazzata. Non sapevo dove guardare, mentre dentro di me lo stomaco faceva le capriole per la contentezza di vedere Ryan.

Sbirciai la sua espressione. Anche lui era sorpreso e il suo bel sorriso non si era spento. Forse anche lui era felice di vedermi, o forse semplicemente stava facendo finta di nulla, come avrebbe dovuto.

A turno fecero le presentazioni. Dave si fece scappare un sorrisetto malizioso stringendomi la mano. Ryan invece la prese normalmente, ma si trattenne un secondo di più, tanto perché il suo calore non si fermasse solo alle dita.

«Jude adora l'hockey» stava spiegando Vanessa ad un ancora incredulo Dave.

Mi sentii osservata e mimai una specie di esultanza che risultò molto più buffa che convincente. Ryan di fronte a me, soffocò una risata. Ero sicura che avesse già collegato tutti i fili. Forse se gli avessi parlato di Vanessa, avrebbe capito tutto già dal primo secondo, al contrario di me che nonostante avessi già sentito il nome di Dave non avevo fatto caso a niente. Mi sentii in colpa nei confronti della mia migliore amica.

«Vado a prendere i biglietti».

La fila si sfoltiva e presi dalla chiacchierata, nessuno si era ricordato di quel piccolo particolare.

Senza tanti convenevoli, mi aprii un varco per raggiungere il botteghino meno pieno, seguita dallo sguardo di Ryan.

Avevo sentito il bisogno impellente di allontanarmi da Vanessa dopo essermi resa conto del mio comportamento nei suoi confronti. Sovrappensiero, muovevo piccoli passi, in attesa del mio turno e quando finalmente arrivò, chiesi distrattamente quattro tagliandi al tipo dietro il vetro. Mi sembrò che ci mettesse un secolo per darmeli.

«In che settore preferisci?».

Guardai verso il trio poco lontano e mi pentii all'istante della mia intraprendenza. Settore? E che ne sapevo?

«Da dove si vede meglio» risposi incerta.

Il tipo rise, divertito. Poi mi porse quattro biglietti per la seconda fila della tribuna.

«La prima è piena, ma ti assicuro che lì è pure meglio» mi disse facendomi l'occhiolino.

Li presi, pagai e andai via senza voltarmi. Ne diedi uno a Vanessa e gli altri due ai ragazzi che guadarono sbalorditi prima loro e poi me.

«Seconda fila in tribuna? Come hai fatto?».

Feci spallucce. «Li ho chiesti».

«Davvero esperta la tua amica» disse Dave, rivolgendosi a Vanessa che nel frattempo se la rideva sotto i baffi.

Si incamminarono lasciando dietro Ryan e me. Era buffo. Quello che era partito come un blitz si era trasformato in una specie di appuntamento a quattro.

Vanessa e Dave continuavano a parlare. Sembravano entrambi a loro agio e la cosa mi rasserenò molto. Studiavo i comportamenti di lui in modo tale da poterli poi riferire a lei, in un secondo momento, da brava amica.

«Ehi! Ehi!».

Vanessa si fermò di colpo e rischiai di arrivarle addosso.

«Credo stia parlando con te» bisbigliò indicandomi un ragazzo alle nostre spalle che cercava di farsi largo tra la calca. Tutti e quattro ci voltammo verso di lui e riconobbi il tipo del botteghino.

«Hai dimenticato questo» mi disse infatti mostrandomi un orologio pure brutto.

Automaticamente alzai il polsino della maglietta e gli mostrai il mio senza dire una parola. Il tipo mugulò un 'ah' e fece per tornare sui suoi passi. Neanche un metro e ci ripensò. Si voltò di nuovo verso di noi e prese coraggio.

«Lo sapevo che non avrebbe funzionato, era un piano stupido. Senti... Ti andrebbe di uscire con me?».

Rimasi di sasso, incredula di fronte a quello che stava succedendo. Nonostante fossimo a mezzo metro di distanza sentii chiaramente Ryan irrigidirsi e stringere i pugni a quelle parole. Il tipo, che solo allora sembrò rendersi conto della composizione del gruppo fece un passo indietro.

«Sei fidanzata» affermò.

Stavo per rispondergli con un bel 'sì' convinto quando Vanessa si intromise, sancendo la mia condanna.

«No, no, assolutamente no, vero Jude?».

Incenerii Vanessa con lo sguardo, per evitare di ucciderla lì in presenza di troppi testimoni, sicura che dopo me ne sarei pentita.

«Inizia l'incontro, devo andare» dissi al tipo e mi incamminai verso gli spalti.

«E l'appuntamento?» insistette ancora il tipo. «Ti aspetto fuori alla fine del match» urlò.

«Sì, sì» mormorai infastidita.

Vanessa era già un pezzo avanti. La raggiunsi di corsa e l'afferrai per il braccio, incavolata nera.

«Che diavolo ti è saltato in mente? Perché gli hai risposto in quel modo?».

«Perché è la verità. Dai Jude, è pure carino, devi uscire con qualcuno prima o poi».

«Non voglio uscire con nessuno!» sibilai fra i denti.

Vanessa sbuffò alzando gli occhi al cielo. Si divincolò dalla mia presa e aggraziatamente raggiunse Dave, per poi mettersi al suo fianco e camminare tranquilla verso le gradinate con lui.

Per un attimo pensai di girare i tacchi ed andarmene, lasciarla lì a sbrigarsela da sola, poi però Ryan si voltò. Con la coda dell'occhio si accertò che fossi ancora con loro e quando mi vide lontana divenne scuro in viso.

Abbozzai un sorriso e mi incamminai anche io, consapevole che comunque non avrei potuto perderli di vista o non avrei saputo dove andare.

Dave controllò i biglietti con i numeri assegnati fino a trovare i nostri posti. Il tizio del botteghino aveva proprio ragione, si vedeva benissimo da lì.

Mi infilai tra i seggiolini fino al posto più lontano ed attesi che Vanessa arrivasse, ma Dave, impegnato in una coinvolgentissima conversazione con Vanessa, fece un cenno quasi impercettibile a Ryan e fu lui ad intrufolarsi in quello spazio angusto per poi sedersi vicino a me. Subito dopo Dave parve risvegliarsi e prima lui, poi la mia amica, presero posto.

Vanessa mi salutò da lontano. Ero sicurissima che non le importasse granché del fatto che eravamo separate e forse era pure meglio così. Non l'avevo ancora del tutto perdonata.

Mi concentrai sulla presenza di Ryan vicino a me. Trattenere l'impulso di prendergli la mano e stringerla era difficilissimo. Non potevo neanche soffermarmi a guardarlo, come avrei voluto fare. Era pericoloso, troppo perché mi permettessi anche solo un piccolo sgarro. Pure parlargli avrebbe potuto segnare la nostra fine, ma a quello non resistetti.

Fu un semplice sussurro, a voce bassissima, giusto il necessario perché lui sentisse.

«Grazie per esserti casualmente seduto accanto a me».

Le sue labbra si curvarono appena in un sorriso accondiscendente mentre continuava a guardare fisso il campo di ghiaccio ancora vuoto.

Intrecciai le dita e nascosi le mani fra le gambe in attesa che il match iniziasse.

Un enorme cronometro digitale agganciato al tetto proprio di fronte a noi scandiva un conto alla rovescia che sembrava interminabile. Mancava ancora una mezzora buona ed ogni secondo era un piccolo supplizio inflitto al mio autocontrollo.

Mi imponevo di restare calma e tranquilla, ma non c'era verso che dentro di me il sangue smettesse di bollire.

Ryan mi respirava accanto e l'unica cosa che potevo fare era ignorarlo.

Involontariamente sospirai.

«Vado a prendere da bere» esclamai di colpo alzandomi. «Voi volete qualcosa?».

Speravo che mi dicessero di no. Detestavo il pensiero di dover imbracciare quattro lattine e girovagare come un'anima persa per il palasport. Sempre che avessi trovato un distributore automatico o un bar. Però dovevo fingere che quel luogo fosse familiare come casa mia... La giornata delle recite, ecco cos'era quella! Vanessa fingeva di non provare nulla per Dave. Dave fingeva a sua volta che non avesse capito cosa c'eravamo andate a fare io e lei lì e in più manteneva il segreto di Ryan e mio, quindi doppio bugiardo. Ryan fingeva di non sapere chi io fossi ed io ovviamente fingevo, non solo di non conoscere Ryan, ma pure di essere calma, quando invece rischiavo di esplodere ogni secondo di più. Eravamo proprio un bel quartetto.

«No, resta, vado io».

Ryan mi spiazzò. Nei suoi occhi c'era qualcosa di indecifrabile che oltre a sbalordirmi mi impedì di dissentire. Tornai a sedermi, mentre lui raggiungeva le scale.

Guardai le sue spalle allontanarsi e mi tornò in mente l'incubo che mi aveva terrorizzata. Lui che se ne andava.

L'immagine però stavolta era diversa e pure la sensazione che l'accompagnava. Ero sicura che sarebbe tornato e questo mi rasserenava.

Lo seguii con lo sguardo fino a quando incontrai altri occhi, che non mi piacevano per nulla. Mi vennero in mente i brividi freddi che provavo quando Josh era nelle vicinanze. Non c'era però Josh in cima alle scale, bensì ancora il tipo della biglietteria. Le braccia incrociate sul petto, ispezionava lo spazio sotto di lui.

Ryan se ne accorse e gli andò casualmente a sbattere incontro. Abbozzò una scusa poco sincera e poi prese la via della porta, incurante della stizza che aveva provocato nell'altro.

Tornai ad osservare il campo da gioco che pian piano cominciava a popolarsi degli atleti in fase di riscaldamento. L'espressione di Ryan mi balzava alla mente come una palla da ping pong. Volevo capire cosa gli era passato per la testa.

Una vocina stupida, presuntuosa, fece la sua ipotesi: 'e se fosse geloso?'. Di me? Ci teneva così tanto da arrendersi ad un simile sentimento? Forse... Magari...

«Gentile da parte di Ryan andare al bar».

Vanessa mi riportò coi piedi per terra. Si era sporta verso di me per includermi nella sua conversazione con Dave. Non erano stati zitti un secondo.

Mormorai un 'già' poco convinto, sperando che la chiacchierata si fermasse lì, ma mi sbagliavo.

«E' pure carino...» buttò lì ancora.

Strabuzzai gli occhi e sbuffai di fronte alla sua assurda insistenza nel volermi per forza appioppare qualcuno. Anche se per una volta aveva trovato la persona giusta, mi dava lo stesso fastidio.

«Mi sa che si è perso» continuò.

«Ne starà approfittando per chiamare la sua ragazza» ipotizzò Dave e un altro moto di stizza mi fece stringere le dita fino a conficcarmi le unghie nella carne. Dovevo tagliarle.

«E' fidanzato?». La delusione nella voce di Vanessa a quella scoperta fu quasi paragonabile alla mia quando era stato il mio turno di conoscere la verità. Solo che io avrei preferito morire dopo averlo saputo, lei avrebbe continuato la sua vita come se nulla fosse stato.

«Praticamente da sempre».

Ingoiai l'ennesimo rospo.

«Peccato, sarebbe stato benissimo con Jude».

«Vanessa!» esclamai irritata e paonazza in volto per la vergogna.

«Lo pensa pure Dave» si giustificò lei e Dave dal canto suo si mise ad annuire come uno stupido.

Lo incenerii. Lui dopotutto sapeva e da quello che avevo capito era pure accondiscendente visto che si era addirittura prodigato a nostro favore.

Mi morsi la lingua per non rispondere a tono ad entrambi e mi concentrai sulla partita a cui l'arbitro aveva appena dato inizio con un fischio. Vanessa e Dave non la smettevano di confabulare e ridacchiare.

Per fortuna Ryan stava scendendo le scale, tra le braccia un paio di lattine di Coca. I due piccioncini si zittirono all'istante così da farlo insospettire.

«Di che stavate parlando?» chiese colmando il vuoto sul seggiolino e dentro di me. Mi porse una bibita e in quel gesto mi sfiorò le dita, attardandosi un secondo in più del dovuto. Il mio cuore perse qualche battito. Dovetti voltarmi per non far notare agli altri che ero arrossita.

«Di te» rispose Dave con nonchalance, stappando la sua lattina. «Anzi, della tua fidanzata per essere precisi».

«Ragazza, prego» specificò lui, ma il pugno allo stomaco fu inevitabile. Mi affrettai a prendere un sorso di Coca, magari la sua temperatura gelida avrebbe sistemato un po' le cose. Speranza vana.

Dave si avvicinò all'orecchio di Vanessa per farle una confidenza che in realtà sentimmo tutti.

«Fa la modella» disse suscitando lo stupore della mia amica.

«Davvero?» chiese lei spalancando le labbra in una 'o' di sorpresa.

«La modella...» anche io mi finsi stupita. Chiunque sarebbe dovuto esserlo, o almeno credevo.

«Eh già» fu la semplice risposta di Ryan.

«Hai la faccia di uno che sta con una modella in effetti» buttai lì. Un sorriso divertito gli colorò il volto. Continuava a guardare la partita, mentre la conversazione più assurda a cui avessi mai preso parte si svolgeva.

«Davvero?».

«Sì, sì» annuii.

«E lui?».

«Lui chi?».

«Il tuo ragazzo. Lui com'è?».

Lo squadrai un attimo con la coda dell'occhio. Sembrava serio. Dove voleva arrivare?

«Dai per scontato che abbia un ragazzo?».

«Una persona normale, se non avesse un ragazzo, avrebbe accettato un invito così galante e ben posto come quello che hai ricevuto prima».

«Beh, e chi ti dice che io sia normale?».

Ryan rise sommessamente. Facevamo entrambi finta di nulla, ma le occhiate furtive che ci lanciavamo dicevano più del dovuto. Solo un cieco non se ne sarebbe accorto e per fortuna Vanessa sembrava aver perso del tutto la vista.

«Com'è?» insistette Ryan. Speravo fosse consapevole della pericolosità di quel gioco. E se avessi detto una parola in più che a lui non fosse piaciuta? Si sarebbe arrabbiato e avrebbe ricominciato con la storia del 'non posso per il tuo bene'.

«Nah, non vuoi saperlo» provai a sviare, ma non demorse.

«E invece sì, sono un tipo curioso».

Lo squadrai per bene, poi mi dissi che va beh, se era così deciso, tanto valeva rischiare.

«Sicuro?» mi accertai ancora. Quella parola ormai per noi aveva un suono stupendo. Era l'emblema della fiducia. Rappresentava gran parte di ciò che eravamo. Io sicura di amarlo, lui sicuro che avrebbe potuto contare su di me sempre.

«Sicuro» confermò.

Sospirai, rassegnata e pensai a ciò che avrei potuto dirgli e come.

«Lui... è bellissimo. E' il ragazzo più bello dell'universo. Potrebbe perfettamente stare con una modella anche lui, sai?». Ryan ridacchiò.

«E poi?».

«Beh, è fantastico, anche se ha un difetto tremendo». Strinse gli occhi in quel modo che tanto adoravo, curioso di sapere a cosa mi stessi riferendo. Non lo feci attendere molto. «Si crede sempre secondo a tutti, come se gli mancasse qualcosa per essere... degno, ma si sbaglia di grosso. Lui ha tutto e non è secondo a nessuno. Poi i suoi occhi... Dovresti vederli, sono... non so neanche spiegartelo. Brillano. E il suo sorriso. Non ho ma visto niente di più bello. Sarebbe capace di sbriciolare una montagna solo sorridendo. Non ho mai conosciuto una persona del genere».

Rimasi in silenzio, intimorita dal fatto che probabilmente avevo esagerato, ma lui non fece una piega.

«E' una cosa seria?» chiese invece.

Ci pensai giusto un attimo prima di rispondere.

«Sì, almeno per me».

«Per lui no?».

«Non lo so. Non ho mai avuto il coraggio di chiederglielo».

«Perché?». Mi parve di cogliere uno stupore sincero in quelle poche sillabe. 'Come perché Ryan' chiesi tra me e me, 'se lo facessi cosa potresti rispondermi?'.

«Sono troppo codarda per ricevere un 'no', ma va bene così. Lui c'è adesso. Ciò che conta è che sia felice».

«Sono convinto che se sta con te un motivo valido l'avrà. In qualche modo, ti vuole bene pure lui».

Mi voltai in sua direzione, assolutamente stupita per quelle parole. Provai a leggere la sua espressione, ma non riuscii a decifrare ciò che gli passava per la mente. Era così bravo a nascondere i suoi pensieri.

«Chissà...» mi limitai a rispondere.

«Ne sono certo» ripeté. «Ma guarda quello che deficiente! Tira idiota!».

Scoppiai a ridere di fronte a quel cambio repentino.

Per i restanti sessanta minuti restai in silenzio, cercando di capire qualcosa di quel gioco totalmente sconosciuto. Vanessa esultava per ogni minima cosa. Lei e Dave non smettevano un secondo di parlare o ridere. Si stavano divertendo tantissimo e per un attimo li invidiai, loro così liberi di potersi comportare naturalmente, mentre io ero prigioniera di una finzione che diventava realtà solo nascosta tra le quattro mura di casa mia.

Scacciai la nostalgia pensando che dall'indomani avrei rivisto Ryan più frequentemente. Era una piccola consolazione, ma meglio di niente.

Alla fine la squadra di Dave perse e scherzosamente lui ci intimò di non farci più vedere da quelle parti, addossandoci la colpa dell'accaduto.

Uscimmo dal palasport e scoprimmo che il sole era stato offuscato dalle nuvole e un leggero venticello aveva abbassato la temperatura.

L'auto dei ragazzi era parcheggiata lontano dall'ingresso e Ryan ci abbandonò velocemente per andare a prenderla. Mi sentivo un po' a disagio da sola con la felice coppietta che nel frattempo si stava sbellicando dalle risate per qualcosa a me sconosciuto. Mi misi a gironzolare distrattamente in attesa che la mia amica si decidesse e potessimo tornare a casa. Certo, speravo che prima si rifacesse vivo Ryan perlomeno.

«Jude, vado un attimo in bagno e andiamo» mi disse Vanessa.

«Vuoi che ti accompagni?».

«No, no, no, no, torno subito».

Avrei dovuto insospettirmi, invece ingenuamente la lasciai andare, confidando che in quanto mia migliore amica mai mi avrebbe giocato un brutto tiro. La seguii con lo sguardo fino all'ingresso dove, impalato ad uno stipite, il ragazzo della biglietteria aspettava.

Due secondi dopo che Vanessa fu dentro, anche lui sparì.

«NO!» esclamai, facendomi cadere le braccia lungo il busto. Dave, accanto a me si rese conto di quello che stava succedendo. Era l'unico a poter comprendere la gravità della situazione e lo fece in pieno.

 

 

Everybody hurts someday.

It's okay to be afraid.

Everybody hurts, everybody screams,

everybody feels this way

and it's okay...”

 

 

Che ritardo sconcertante! Chiedo perdono a tutti, le scuse non dovrebbero mai finire.

Spero che questo capitolo lungo lungo vi abbia ripagato per l'attesa.

Come vi dicevo l'altra volta la storia sta per finire. Almeno questa parte. Ci saranno altri quattro capitoli e poi dopo una piccola pausa per rimettermi in pari, arriveranno altre due parti, di quello che ormai è diventato un vero e proprio libro.

Ringrazio tutti coloro che mi stanno seguendo nonostante i ritardi e che accolgono ogni capitolo con tanto affetto. Siete meravigliosi!

Fatemi sapere cosa ne pensate, se anche voi siete d'accordo che questa storia continui e si concluda.

Vi ricordo la mia pagina su facebook: https://www.facebook.com/oo00SerenityMoon00oo?fref=ts passate a trovarmi.

Il prossimo aggiornamento arriverà di sicuro dopo giorno 5, ma non so quando di preciso. Vi terrò informati.

Grazie ancora di cuore,

Serenity.

P.S. La canzone di questo e del prossimo capitolo è Everybody hurts di Avril Lavigne ;)

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Capitolo 14
*** #9. Everybody hurts (parte 2) ***


Vi avviso, non finisce mai. Spero possiate perdonare quest'assurdo ritardo. Le note in basso.

 

Dawning Bitch

 

 

# 9

 

Le donne hanno lo strano istinto di aggrapparsi al pugnale che le trafigge”.

 

Jerome

 

Everybody hurts (parte 2)

 

«NO!».

Dovevo fermare Vanessa. Non si rendeva conto del disastro che stava per combinare. Mossi un paio di passi in sua direzione ma Dave mi trattenne per il braccio.

«Se Ryan torna e non ti trova, penserà che sei andata da lui» disse.

Atterrii a quell'eventualità e mi limitai a guardare i vetri, dietro i quali si stava consumando la mia rovina.

Come poteva farmi una cosa del genere? La mia migliore amica, poi! In cuor mio ringraziavo il fatto che fossimo venute con la sua auto, perché se avessimo preso la mia, sarei montata su e l'avrei lasciata lì, senza sensi di colpa.

«Beh, a questo punto deduco due possibilità: o non lo sa, oppure lo sa e non è d'accordo».

Sospirai senza guardarlo e gli bastò quella minima reazione per capire. Era intelligente questo Dave, mi piaceva ogni secondo di più.

«Non lo sa? Davvero? Ma è...».

«La mia migliore amica, lo so» lo interruppi. Mi voltai verso di lui esasperata. «Ma hai visto? E' curiosa e ha la lingua troppo lunga. Spiffererebbe tutto al primo che capita solo per un attimo di distrazione ed io non posso permettermi di perderlo per colpa di qualcun altro, anche se quel qualcuno è la mia migliore amica».

Dave corrucciò la fronte come per valutare il peso di quelle parole che io stessa consideravo orribili e diede voce ad uno dei miei pensieri più brutti, uno di quelli che cercavo di reprimere con tutta la mia forza, giù, in basso, dove il buio lo avrebbe inghiottito e fatto dimenticare.

«Stai rinunciando alla tua migliore amica per lui» constatò.

'E non solo a lei' aggiunsi fra me e me.

Rimanemmo per qualche secondo in silenzio, mentre un'auto blu metallizzato si avvicinava e parcheggiava poco lontano da noi. Ryan chiuse lo sportello con forza e si incamminò nella nostra direzione. Sia io sia Dave lo guardavamo attraversare quel poco spazio che ci divideva, con occhi assolutamente diversi. Per lui non c'era niente di speciale. Io mi sentivo più come un cieco che vede per la prima volta un'alba e viene abbagliato dalla sua immensità, consapevole di essere un miracolato.

Dave, maledettamente perspicace, mi lanciò un'occhiata tanto intensa da farmi quasi tremare.

«Sì, ne vale la pena» risposi alla sua domanda silenziosa, ma che avevo colto in pieno, poco prima che Ryan fosse accanto a me.

Si stava guardando intorno, ispezionando ogni angolo della zona, poi inaspettatamente, mi mise un braccio attorno alla vita e con l'altro mi sollevò il mento fino ad annullare del tutto la distanza tra i nostri visi e poggiare le sue labbra sulle mie.

In un millesimo di secondo avvampai, pur senza motivo. Non c'era nessuno in quel cortile a parte lui, io e Dave, che sapeva e si era già dimostrato nostro complice. Lui, a differenza mia, sembrava molto meno sorpreso per quel gesto. Abbassò la testa e sorrise.

«La vostra amica?» chiese Ryan curioso.

Rimasi zitta, lasciando a Dave l'onere e l'onore di quella risposta, sapendo già che la mia sarebbe stata fin troppo poco educata.

«Ufficialmente è andata al bagno».

«Da sola?».

Sarei volentieri scoppiata a ridere per il tono che aveva usato, un velo di scetticismo dovuto alle tante barzellette sulle ragazze che vanno al bagno sempre in coppia, però il pensiero di cosa stesse combinando quella screanzata mi innervosiva troppo.

«Ha qualcosa a che fare col fatto che l'ho vista parlare col tizio del botteghino?».

Strabuzzai gli occhi, imbalsamata dallo sgomento.

«Io la ammazzo» sussurrai affondando le mani nei capelli. «La ammazzo...».

Ryan mi strinse istintivamente. Non mi ci voleva chissà che per capire cosa gli passava per la testa. La solita lotta tra 'ciò che è giusto per Jude' e 'Jude'. Bastò un attimo. Il tempo di intrecciare le mie dita con le sue e l'ombra sul suo volto sparì.

«Pensi che si tratterrà molto da te?» mi chiese poi.

«Non credo. Ha preso l'auto di suo fratello e deve restituirgliela. Giusto il tempo di raccontarmi cinque volte di oggi».

«Cinque volte?». Dave strabuzzò gli occhi. Di che si sorprendeva? Cinque perché ero stata presente. Se non ci fossi stata sarebbero salite in maniera esorbitante.

«Vorrà sapere se ti ho contato i capelli in testa» gli risposi un po' velenosa.

Il codice delle amiche impediva di svelare trucchetti e segreti, ma visto come si stavano mettendo le cose, perché non farlo? Sapevo già che non avrei avuto altro modo per vendicarmi, dovevo approfittare dell'occasione.

«Senti Dave, fammi un favore. Invitala ad uscire. Tanto le piaci, quindi è inutile tergiversare».

«La gatta ha tirato fuori le unghie!» esclamò Ryan divertito.

«Mai pestarmi la coda» lo assecondai, fingendo una cattiveria che non era più mia da quando stavo con lui.

«Okay, la inviterò». Dave rideva quasi con le lacrime agli occhi. Chi doveva dirlo che la giornata avrebbe preso quella piega!

D'improvviso tornò serio. «Attenti» ci sussurrò e con un movimento fluido Ryan ed io prendemmo le distanze l'uno dall'altra. Vanessa si avvicinava come se nulla fosse, dondolando le braccia avanti ed indietro.

Azzardai un'occhiata verso Dave. Il sorriso che gli si era stampato in faccia la diceva lunga su quello che gli stava passando per la testa. Vanessa gli piaceva davvero. Quel pensiero, in qualche modo, mi rasserenò.

«Che avete così tanto da ridere?» urlò lei che era ancora lontana.

Aggrottai la fronte, le braccia incrociate sul petto e l'espressione più minacciosa che avessi in repertorio.

«Gli stavo raccontando di come ti avrei ammazzata».

«E perché? Che ho fatto?» chiese spalancando gli occhioni da falsa innocente.

Alzai le mani al cielo e girai i tacchi prima di combinare qualche disastro. Dave, divertitissimo, intervenne. Le mise un braccio attorno alle spalle e le bisbigliò qualcosa, talmente piano che non riuscii a sentire.

Ryan si teneva a distanza di sicurezza, osservando la scena di lato e ogni tanto mi lanciava uno sguardo veloce. Era il suo modo di tenermi d'occhio.

Io impazzivo dalla voglia di restare un po' da sola con lui. Non ce la facevo più ad aspettare. I secondi sembravano ore, le ore interi anni, interminabili. Era a meno di un metro da me, eppure allo stesso tempo, lontanissimo, impossibile da raggiungere, se non con un pensiero, ma nemmeno quello era sufficiente.

Dave fece in modo che lui e Vanessa ci dessero le spalle, così da impedirle di sbirciare verso di noi, semmai avessimo voluto fare o dire qualcosa. Entrambi i casi erano impossibili e pericolosissimi. Capivo perfettamente adesso quel modo di dire, stare con due piedi in una scarpa. I piedi in questione in quel momento erano quattro e la scarpa mezza.

Vanessa si portò una mano sulla guancia. Era segno che Dave le aveva chiesto qualcosa di imbarazzante ma che allo stesso tempo, lei desiderava tantissimo.

«Ottimo» mormorai tra me e me mentre lei annuiva vigorosamente. Missione compiuta. Adesso dovevo solo starla a sentire per tutto il tragitto di ritorno. Potevo farcela. O no?

«Ti chiamo appena va via» sussurrai a Ryan anticipandolo di un millesimo di secondo. Fece un cenno col capo in risposta e i commenti finirono lì. Dave e Vanessa erano già di ritorno, lei quasi saltellando, mi prese a braccetto.

«Calmati» le dissi e di botto tornò impassibile. Mi guardò schifata come se l'avessi insultata, ma in realtà sapeva benissimo che, secondo il suo astruso ragionamento, non si sarebbe mai permessa di perdere il controllo davanti a Dave. Se ne sarebbe vergognata a vita.

Chiacchierammo ancora un po'. Infine ci salutammo. Vanessa baciò Dave sulle guance, mi sembrò, con dolcezza, attardandosi un istante più di quanto chiunque altro avrebbe fatto. Si alzò sulle punte mentre Dave le cingeva un fianco, forse automaticamente, forse perché voleva proprio farlo, toccarla, avvicinarla a sé.

I fianchi sono zone delicatissime. Se le mani giuste vi si poggiano, niente sarà più lo stesso.

Sventolai la mano in un ciao generale e facendo forza su tutta la mia volontà, diedi le spalle a Ryan. Sentivo come se fosse qualcosa di estremamente sbagliato andarmene e lasciarlo lì. Qualcosa dentro di me, all'altezza dello stomaco, spingeva prepotentemente verso la direzione opposta a quella in cui stavo camminando e mi trascinava quasi, vincendo la mia debole resistenza, con la forza di un fiume in piena che, superate le ginocchia, impedisce ogni passo in avanti nonostante lo sforzo immane.

Non mi voltai indietro a controllare se fossero ancora lì solo perché Vanessa se ne sarebbe accorta. Lei felice come una pasqua, mi prese a braccetto e mi guidò verso l'auto simulando dei mezzi saltelli allegri. Mi lasciò solo di fronte allo sportello del passeggero, poi premette un pulsante e con un lampeggiare di luci, le serrature si sbloccarono.

«Sai» disse prima di salire, guardandomi dallo spiraglio tra il tettuccio e le sbarre dei portasci montati da suo fratello, «da lontano, sembrava quasi che tu e Ryan foste abbracciati».

Mi divampò dentro il fuoco solo a sentire il suo nome e probabilmente la verità mi si stampò in faccia, più chiara che se l'avessi ammessa io stessa, pronunciandola con la mia bocca, ma feci finta di nulla. Corrucciai la fronte, sorpresa e scossi leggermente il capo.

«Sarà stata la prospettiva» risposi con un'alzata di spalle.

«Eh già, a volte fa degli scherzi». E il discorso cadde lì.

Come avevo immaginato, Vanessa passò ogni secondo del tragitto verso casa parlando di Dave. Volle che le raccontassi ogni minimo dettaglio che, secondo lei, avevo scorto, captato e registrato su di lui, con il solo scopo di capire una volta per tutte se lei gli piaceva o no.

«Ti ha chiesto di uscire. Cosa ti serve ancora?» sbuffai dopo la quinta volta che analizzava il comportamento di lui durante la partita.

Eravamo ferme sotto casa mia da almeno mezzora, chiuse in macchina come delle adolescenti in fuga. Cominciavo a sentir freddo e il cellulare che vibrava in tasca iniziava a mettermi ansia, perché sapevo di chi erano i messaggi che stavano arrivando e non vedevo l'ora di rispondere.

«Non lo so. Non vorrei lo avesse fatto solo per educazione».

La fulminai.

«Vane, i ragazzi non chiedono di uscire per educazione. Dai, è difficile che sappiano pure cosa sia l'educazione, figuriamoci usarla. Vai tranquilla. E' fatta».

Le labbra di Vanessa di allargarono a dismisura in un sorriso contagioso che mi coinvolse. Mi abbracciò, grata per l'aiuto che le avevo dato e rimise in moto.

Scesa dall'auto, la guardai allontanarsi di gran carriera. Aveva fatto tardi, suo fratello gliene avrebbe dette un bel po'.

Mentre infilavo la chiave nella toppa, mi venne in mente il tizio del botteghino. Vanessa mi aveva intontita talmente tanto, da farmi totalmente dimenticare che anche io avevo la mia parte di cose da dirle.

Decisi di lasciar perdere. Probabilmente non aveva combinato nulla e potevo stare tranquilla. O perlomeno era quello che mi auguravo mentre prendevo il cellulare e componevo il numero di Ryan in fretta.

La sua voce meravigliosa non si perse in stupidi preamboli senza senso.

«Cinque minuti e sono lì» disse soltanto.

Contai 289 secondi ed ecco i fari della sua auto illuminare la strada di casa mia. Entrai, lasciando la porta socchiusa. Mi sbottonai il giubbotto e, sfilatomelo, lo poggiai sullo schienale di una sedia. La borsa giaceva a terra, scomposta.

La serratura schioccò nello stesso istante in cui le sue braccia mi cinsero i fianchi e la solita scossa elettrica pervase ogni mia terminazione nervosa.

Le mani giuste... Le mani giuste erano le sue, ne ero certa.

Ci baciammo. Finalmente un bacio vero, disperato e gioioso allo stesso tempo. Un bacio da soldato tornato dal fronte.

«Mi sei mancato» sussurrai. «Ti amo».

E le mie ginocchia di piegarono, i miei piedi si staccarono da terra. Mi ritrovai fra le sue braccia e poi sul letto, circondata da coperte disordinate e peluche immobili, da cuscini in un attimo spiegazzati e lenzuola calde.

In un attimo esplose il noi.

 

Io e la musica avevamo sempre avuto dei problemi. Cioè, io l'adoravo con tutta me stessa, era lei ad avercela a morte con me. Era un altro dei miei amori non corrisposti. Su suo esplicito invito, Madre Natura mi aveva resa una delle creature più stonate di questo mondo e andava bene, poco importava. Bastava chiudere il becco ed impedirmi di emettere il minimo suono che non fosse una parola normale. E' impossibile però evitare di canticchiare quando si è felici. A maggior ragione se si è felici e si sta preparando la colazione.

Quella mattina non riuscivo proprio a trattenermi. Sbattevo le uova con energia mentre mormoravo le note di una canzoncina allegra che avevo sentito chissà dove. Aggiunsi la farina mescolando per bene ed infine gettai un mestolo di impasto nella padella calda. Il composto si mise subito a sfrigolare mentre la cucina si riempiva del profumo dolce dei pancake caldi.

Sotto il mio naso, un altro odore, centinaia di migliaia di volte più buono di qualunque delizia, mi solleticava le narici e mi faceva sorridere. Avevo addosso la camicia di Ryan, ovviamente troppo grande, tanto che avevo dovuto arrotolarne le maniche fino ai gomiti per non macchiarle, ovviamente perfetta per il semplice fatto che era sua. Al mio polso, tintinnava il braccialetto che mi aveva regalato per il mio compleanno.

Con una spatola rivoltai il pancake perché cucinasse anche sull'altro lato e nell'attesa sgranocchiai un po' di cioccolato. Un paio di minuti dopo la frittella era pronta. Ripetei l'operazione per altre tre volte. Preparai il caffè e per la prima volta mi resi conto di quanto fosse poco sana la mia dieta. Non avevo nemmeno un'arancia da spremere per Ryan. Non c'era l'ombra di un frutto o di qualcosa che potesse avere anche solo una parvenza di genuinità in casa mia. La dispensa era piena di merendine al cioccolato, biscotti alla crema, barrette al mou e porcherie varie. Il latte, lo avevo chiesto alla mia vicina. Che vergogna!

Un rumore di passi mi fece voltare.

Ryan, teneramente insonnolito, si era fermato sulla soglia della porta ed osservava la scena con gli occhi non del tutto aperti.

Era una visione celestiale.

Aveva addosso solo i jeans, tenuti su da una cintura nera e l'elastico dei boxer grigi spuntava per almeno un paio di centimetri dall'orlo. Per poco non mi cadde il mestolo a terra.

«Buongiorno» dissi avvampando. Lui se ne accorse e sorrise. Si avvicinò, mi cinse la vita e mi posò un bacio leggero come un soffio, sulla guancia.

«Che stai combinando?» chiese con la voce impastata dal sonno.

Il ripiano della cucina assomigliava ad un campo di battaglia, tra ciotole, padelle e posate sporche.

«Ti preparo la colazione». Fu stupefacente osservare i suoi occhi illuminarsi per un attimo di una scintilla di felice sorpresa. Non se lo aspettava. Non era abituato a ricevere gesti simili?

«Ti sarai svegliata prestissimo...».

Feci spallucce. Per lui avrei fatto quello e altro. Perdere un'ora di sonno non mi sembrava più un gran sacrificio se lo facevo per lui, anzi, sarei rimasta sveglia per tutto il resto della mia vita, se solo avessi avuto in cambio la possibilità di guardarlo, ogni secondo di ogni minuto di ogni giorno, per sempre.

«Le mie occhiaie sono così brutte?» scherzai.

Ryan mi prese il viso fra le mani e mi passò i polpastrelli dei pollici sotto gli occhi, per cancellare quelle ipotetiche macchie nere dovute alla stanchezza. Abbassai le palpebre e mi lasciai trasportare da quel gesto così dolce.

«Sei bellissima» sussurrò e mi mancò il fiato.

Non mi ero mai sentita bella, carina forse, ma dopo ore di preparativi. Altri in passato me lo avevano detto, amiche, amici, fidanzati, ma mai da nessuno mi era sembrato così sincero, vero. Non era neanche la prima volta che me lo diceva, eppure ogni volta era come se non lo avesse mai fatto, come se mi stesse confessando qualcosa che non aveva il coraggio di dire apertamente e che io dovevo capire da sola.

«Se me lo ripeti ancora, finirò per crederci».

«E' la verità».

Non desideravo altro.

 

Sgranocchiavo cereali, seduta sulle gambe di Ryan. Avevo accettato di buon grado i complimenti per i pancake, a suo dire i migliori che avesse mai mangiato e approfittavo di quella mattinata da pubblicità dei biscotti. Un idillio perfetto catapultato nella realtà.

Avevo ancora solo la sua camicia addosso, mise che aveva gradito tanto quanto la colazione e di tanto in tanto lo imboccavo, alternando baci e cereali al miele, felice come una bambina sull'altalena in una giornata di sole.

«Che programmi hai per oggi?» chiese.

«Nulla, pomeriggio vado a lavoro, poi libera, tu?».

«Ho appuntamento con il carpentiere allo studio e poi devo comprare il colore per imbiancare le pareti».

Mi raddrizzai sorpresa. Era già ora di imbiancare? Mi sembrava passato così poco dall'ultima volta che ci ero stata. Avevano fatto in fretta. Tra pochissimo il suo sogno si sarebbe realizzato. Sorrisi entusiasta a quel pensiero.

«Amore, ma è meraviglioso!» esultai.

Teneva una mano sul mio fianco, come ancora di sicurezza semmai fossi caduta e l'altra intrecciata alla mia sulle mie cosce. Col pollice ogni tanto accarezzava i piccoli ciondoli del braccialetto.

Abbassò il capo, concentrandosi del tutto sulla sottile catenina dorata. Se la rigirava tra le dita, la attorcigliava, la annodava e poi snodava, come faceva di solito coi miei capelli. Non mi guardava.

Calò il silenzio. Volevo chiedergli se gli andava che lo aiutassi, ma avevo paura di sembrare troppo soffocante, di volergli rubare quel momento magico in cui si appropriava del tutto del suo sogno. Non volevo che si sentisse obbligato a condividerlo con me. Mi costrinsi a tener chiusa la bocca mentre disegnavo cerchietti sul suo collo.

Di scatto, raddrizzò la testa e mi fissò intensamente.

«Ti va di aiutarmi?» chiese.

Forse avrei dovuto cogliere quella nota di incertezza che colorava la sua voce. Forse me lo stava chiedendo solo perché sapeva che desideravo me lo chiedesse. Forse avrei dovuto dirgli no, grazie e lasciarlo godersi da solo i frutti del suo impegno.

«Mi piacerebbe molto» risposi senza pensarci su.

Il senno di poi è una gran fregatura.

 

Poco dopo andò via. Rassettai casa ed uscii a fare la spesa. Per la prima volta nella mia vita comprai della frutta. Dovetti farmi aiutare dalla commessa, visto che non avevo la più pallida idea di quello che stavo facendo. Matura, acerba, per me quelle cose erano tutte uguali e ugualmente disgustose. Ma a Ryan piacevano...

Feci scorta di quei famosi alimenti genuini che la mamma mi costringeva a mangiare da bambina 'perché facevano bene' e tornai a casa.

Un panino dopo ero già a lavoro, accerchiata da Christie e Sarah che mi aggiornavano sulle ultime novità. A sentir loro mi ero persa delle scene epiche durante la mia assenza per motivi di studio. Non mi ci volle chissà che cosa per essere certa che la scusa dei libri non se l'erano proprio bevuta.

Fortunatamente una frotta di clienti si riversò in negozio, lasciando poco spazio a minacce ed intimidazioni da parte delle mie adorate colleghe. Il lavoro ci sfinì. Passammo l'intero pomeriggio a correre da una parte all'altra del negozio, senza un attimo di riposo, tra adolescenti isteriche alla ricerca della maglietta perfetta per la festa del tizio di cui erano follemente innamorate e finte giovani dagli scandalosi pantaloni a vita bassa.

Mi stavo finalmente allacciando il giubbotto. Avevo imbracciato la borsa ed aspettavo che Strawberry desse tutte le mandate alla porta di vetro ed abbassasse la saracinesca a grata. Le avrei dato io un passaggio fino a casa. Le chiavi della mia auto tintinnavano fra le mie dita mentre digitavo un sms a Ryan. Era stato tutto il giorno in giro ed era esausto. Diceva che sarebbe andato a letto presto, dato che l'indomani la sveglia avrebbe suonato ad un orario a dir poco osceno. Povero tesoro mio.

«Possiamo andare».

Strawberry si alzò con fatica, il palmo della mano appoggiato sulla schiena, neanche avesse novant'anni. Salimmo in macchina e ci avviammo verso casa sua.

Quando squillò il cellulare sul cruscotto, trasalii. Poteva essere Ryan. E se Strawberry lo avesse visto? Si sarebbe insospettita. Avrebbe fatto domande? Cosa mi sarei inventata per giustificare una telefonata del genere? Che nesso poteva mai esistere fra me e Ryan? Lei lo conosceva? Sapeva chi era e come viveva la sua vita?

Le domande mi affollarono la mente ormai nel panico. Cercavo di mantenere l'attenzione sulla strada, onde evitare di andare a sbattere da qualche parte, ma ero troppo preoccupata. E il cellulare continuava a squillare.

«E' Vanessa» disse mia cugina, il volto illuminato dalla luce bluastra del display. In un attimo mi sentii una perfetta imbecille. Ero pronta a scattare in meno di un secondo ed inventare chissà che assurdo film senza capo né coda. Era il classico atteggiamento di chi ha qualcosa da nascondere, ne ero consapevole e non andava per niente bene.

«Metti in vivavoce, per favore?» chiesi.

Strawberry rispose ed attivò l'altoparlante del telefono. La voce entusiasta di Vanessa si sparse per tutto l'abitacolo.

«JUDE!».

«Ehi Vane, c'è anche Strawberry, sono in macchina».

«Ciao Vanessa» disse mia cugina per farsi sentire, un modo carino per avvertirla, 'se devi raccontare cose private, sappi che c'è qualcun altro che ascolta'.

«Ciao Strawberry! Da quanto tempo...» e Vanessa si perse in chiacchiere con mia cugina. Le raccontò un paio di aneddoti divertenti, sentii pure nominare un paio di volte Dave e alla fine, dopo una lunga risata su una certa coppia che entrambe conoscevano e a parer loro era assolutamente inguardabile, Vanessa si ricordò del perché aveva chiamato. Nel frattempo eravamo arrivate a casa di Strawberry.

«Jude, ti va di uscire domani sera? Facciamo un giro e poi ceniamo insieme, che ne dici?».

Ci pensai su un minuto abbondante, incerta se accettare o meno per paura di dover rinunciare ad un eventuale serata con Ryan per stare con lei.

«Non saprei, così su due piedi. Dovrei studiare» balbettai insicura pure della scusa da inventarmi. Per di più se le avessi detto che sarei rimasta a casa, sarebbe pure stata capace di venire lei stessa a controllare che fosse vero.

«Ma dai!» insistette lei e Strawberry accanto a me, fece un gesto eloquente.

«Non farti pregare» sussurrò. Lei era un'altra di quelle del partito 'Vai Jude, trova marito', cosa impossibile da fare restando chiusa in casa, col naso ben ficcato fra i libri.

«Vane, ti faccio sapere più tardi. Dammi il tempo di organizzarmi».

Vanessa sbuffò rumorosamente, alla fine si arrese, emettendo uno sconfortato 'okay', salutò e riagganciò.

Anche Strawberry mi salutò con due sonori baci sulle guance e, chiudendo delicatamente la portiera, entrò nello stabile dove viveva. Aspettai che le luci del suo appartamento si accendessero, dopodiché riavviai il motore e anche io me ne tornai a casa. Una volta in pigiama, passai un'altra buona mezzora al telefono con Ryan, prima che lui crollasse ed infine andai a letto, stanca e speranzosa.

 

E' strano come il tempo condizioni le nostre vite. Ne siamo irrimediabilmente immersi eppure a volte non ce ne accorgiamo neanche, altre invece, il suo peso diventa così insostenibile da soffocarci. Ci sono giornate che volano, altre che sembrano non finire mai. Momenti che tanto più li desideri, quanto più tardano ad arrivare e viceversa, altri che vorresti evitare e che invece ti cadono addosso, con tutta la loro potenza quando meno te lo aspetti, ma sempre troppo presto.

Capita che certe mattine volino, tra una chiacchierata con gli amici, una lezione all'università, una dolce telefonata e che ci si ritrovi a casa, convinti di non aver fatto nulla, quando in realtà, si è già fatto tanto.

Era appunto pomeriggio inoltrato. Stavo facendo il bucato, dopo essere stata in giro per tutta la mattinata. Alla fine, avevo detto a Vanessa che sarei uscita con lei, dopo che Ryan mi aveva comunicato a malincuore che non avrebbe fatto in tempo a venire da me. Aveva dei parenti a cena per quella sera e non poteva mancare o sua madre non glielo avrebbe perdonato. Altra giornata senza di lui, ergo, non poteva prospettarsi nulla di buono all'orizzonte. Fosse una coincidenza o solo opera del caso, se non vedevo Ryan, qualcosa era di sicuro destinato ad andare storto.

Vanessa sarebbe venuta a prendermi verso le 18, così tre quarti d'ora prima cominciai a prepararmi. Solita doccia, trucco leggero, jeans e camicia, fui pronta con ben cinque minuti di anticipo. Ero convinta di dover aspettare chissà quanto Vanessa, ritardataria per natura e invece alle 18 in punto suonò alla mia porta, lasciandomi basita. Ancora sulla soglia, scandagliò la mia mise centimetro per centimetro, dalla punta dei capelli a quella delle ballerine pendant con la cintura e la borsa.

«Non hai niente di meglio da metterti?» se ne uscì. La sua acidità avrebbe benissimo corroso il calcare sul rubinetto del mio bagno.

«Perché, che c'è che non va?» chiesi sospettosa. «Andiamo a farci un giro, mica ad un incontro ufficiale col principe di Monaco».

Vanessa lasciò perdere, mi prese per il polso e mi trascinò via, costringendomi a prendere la sua macchina. A dir la sua, la mia era troppo sporca.

Gironzolammo per strada alla ricerca del parcheggio perfetto almeno per un'ora. Tutti quelli che trovava, avevano qualcosa che non andava. Uno era troppo stretto, il che, per chi guida una Smart è come dire che la luna è marrone. Un altro troppo distante dal posto dove voleva andare, per poi ammettere lei stessa che non aveva la più pallida idea di dove trascorrere la serata.

Qualcosa iniziava a puzzarmi.

Alle 19 passate, camminavamo in centro guardando le vetrine. Vanessa con nonchalance, si dondolava nel suo vestito anni '50, che le donava tantissimo. Aveva i capelli biondi sciolti e leggermente annodati in sottili boccoli. Assomigliava alla protagonista di un film d'epoca. Ogni tanto lanciava un'occhiata all'orologio e alla fine della via, come se stesse aspettando qualcuno.

Ci stavamo avvicinando ad un incrocio illuminato da un altissimo lampione che emetteva un enorme cono di luce gialla. Lì vicino, un paio di negozi, anch'essi con le insegne luminose, accoglievano clienti in vena di spese.

Scorsi Vanessa sorridere. Poco più in là, nascosto da un taxi malamente parcheggiato, c'era Dave. Ben vestito e con le mani in tasca, sembrava aspettare qualcuno. Fui certa che si trattasse di Vanessa, quando lui si girò e a sua volta sorrise in direzione di lei. Sapevano di doversi incontrare. Avevano un appuntamento. Poi Dave vide me e sulla sua faccia si stampò la più interrogativa delle espressioni. La ricambiai in pieno. No, non lo sapevo neanche io cosa ci facessi lì. Cosa ci facessimo lì, tutti e tre.

«Vane, che...».

Ma prima che potessi terminare la frase, vidi la mia amica aguzzare la vista verso un punto imprecisato, poco lontano da noi. Una figura alta e snella che piano piano puntava verso di noi, o forse no, forse sì. Non si capiva.

«Ma guarda chi c'è!» esclamò Vanessa, tutta esaltata. «Lewis, non ci posso credere, che coincidenza!». Sì, puntava proprio verso di noi. Di me.

Il passante era ormai a pochi metri. Nessun particolare mi permetteva di riconoscerlo. Il fatto stesso che Vanessa sapesse il suo nome mi risultava del tutto nuovo. Ma bastò la sua voce, un 'Ehi ciao' imbarazzato e il ricordo affievolito di un fastidio, di una paura esplose. Era il tipo che mi aveva venduto i biglietti per la partita di domenica.

Scambiai uno sguardo veloce con Dave. Il panico stava dilagando sul mio volto. Che diamine aveva combinato Vanessa?

Un appuntamento. Mi aveva combinato un appuntamento.

Impietrii, invasa dal disgusto per quel tradimento inaspettato e acutamente doloroso. La mia migliore amica. La mia migliore amica mi stava condannando a morte certa.

D'un tratto tutte le stranezza di quella serata presero forma e motivazione. I vestiti poco adatti, la macchina, il perder tempo, erano tutti segnali di quello che aveva preparato. Non riuscivo a crederci.

Dave si accorse della mia reazione, di quel passo indietro che avevo fatto istintivamente riconoscendo quel tipo, e a sua volta fulminò Vanessa, che per tutta risposta gli fece l'occhiolino, come per dire che andava tutto perfettamente bene, il suo piano stava funzionando.

Mi venne voglia di strangolarla, lì, in mezzo a quella strada, colma di gente. Mi sarei fatta una trentina d'anni di galera, ma non mi importava, avrei pure detto grazie.

Dovevo tornarmene a casa. Valutai l'eventualità di camminare fino al mio appartamento. Quella strega di amica aveva pensato ad ogni particolare. Se avessimo preso la mia macchina avrei avuto un'ottima via di fuga, altro che troppo sporca. Mi aveva incastrata per bene.

La sorte ci mise il suo zampino. Con un bip, il mio cellulare mi avvertii che era quasi scarico. Avevo dimenticato di caricare la batteria prima di uscire. Con uno scarso dieci per cento di autonomia sarebbe durato poco più di cinque minuti. Abbassai al minimo l'illuminazione dello schermo, impostai il profilo silenzioso, sperando di guadagnare qualche minuto ma servì a ben poco. Anzi, tutto quello smanettare aggravò ulteriormente la situazione. Arrivò un messaggio ed ebbi solo il tempo di leggerlo, poi il cellulare si spense, spingendomi ancora più in fondo a quel baratro di disperazione che Vanessa aveva scavato con le sue stesse mani.

'Dove sei?'.

Dov'ero? In balia di un incubo e non potevo neanche rispondergli, spiegargli quello che stava succedendo e supplicarlo di venirmi a salvare.

Cercai di ricordare se gli avevo detto della serata con Vanessa. Immaginai che Dave gli avesse raccontato che avevano un appuntamento, che Ryan sapesse quindi che dovevano uscire insieme proprio quella sera. Mi maledii per la mia debolezza, per l'assoluta voglia di stare lì ad ascoltarlo per ore e mai prendere l'iniziativa di parlare. Se fossi stata un minimo più egoista, gli avrei detto che io dovevo uscire con Vanessa e lui mi avrebbe detto che no, la mia migliore amica sarebbe uscita col suo migliore amico, avremmo capito che c'era qualcosa che non andava ed io mi sarei risparmiata quel tormento. Sarei rimasta a casa, davvero a studiare, aspettando messaggi inviati di nascosto e con la batteria del cellulare carica.

Tolsi la cover e la batteria del telefonino, sfregai quest'ultima un po' e la inserii nuovamente al suo posto. Provai a riaccendere il dispositivo, ma nulla. Una flebile luce e poi di nuovo buio. Le imprecazioni si infrangevano sui denti stretti. Dovevo chiamare Ryan, spiegargli quello che stava succedendo, dirgli che non ne sapevo niente, che non volevo uscire con quel tizio, Louis, Lennie o come diamine si chiamava, che, con le mani nelle tasche posteriori dei jeans, si guardava intorno come un bambino spaesato. Probabilmente Vanessa non aveva raccontato la verità neanche a lui e ora se ne stava imbambolato, in mezzo alla strada, spettatore di una crisi di cui era l'innocente colpevole.

«Ragazzi, non so voi, ma io ho una fame da lupi. Che ne dite di andare a mangiare qualcosa tutti insieme. Potremmo approfittare di questa fortunatissima coincidenza». Vanessa continuava a giocare la sua parte di marionettista, intenta a muovere i suoi burattini, inconsapevole che rischiava grosso. I fili che aveva in mano erano troppo difficili da maneggiare e un minimo errore sarebbe bastato perché di aggrovigliassero in maniera irreparabile.

«Carina come idea» accordò il tipo. Vanessa mi prese a braccetto e mi trascinò, entusiasta in direzione di un locale poco lontano. Il tipo arrivò disinvoltamente al mio fianco, Dave, preoccupato quanto me, si mise alla sinistra di Vanessa. Lei prese sottobraccio pure il suo accompagnatore ed io mi costrinsi di sorridere al mio. Incrociai le braccia sul petto e camminai piano, come si fa ad un corteo funebre.

Al locale ci appiopparono un tavolo per quattro, fintamente felici per quelle due coppiette alle prime armi che dovevamo sembrare.

Il tipo del botteghino mi scostò la sedia per farmi sedere. Lo ringraziai con un filo di voce e presi posto. Lui si sedette accanto a me. Avevo Dave di fronte e Vanessa, al suo fianco, si era saggiamente scartata il posto più lontano dal mio. Sapeva che altrimenti l'avrei presa a calci per tutta la serata.

Il ristorante perlomeno era carino. La luce soffusa rendeva tutto scuro, sui toni del rosso cupo e del marrone, in un misto di rustico ed elegante, di certo adatto ad un primo appuntamento. Ogni dettaglio mi rendeva consapevole che Vanessa aveva studiato tutto nei minimi particolari. Chissà da quanto aveva prenotato.

Ogni minuto che passava era un supplizio. I camerieri sembravano muoversi con una lentezza agonizzante. Scrivevano sui loro blocchetti così piano da assomigliare a dei tatuatori che incidono la pelle, obbligati a fare attenzione, perché anche la minima sbavatura può rovinare la loro opera d'arte.

Gli altri tre chiacchieravano. Io annuivo e sorridevo come una stupida quando credevo fosse il caso. Fingevo stupore o interesse a seconda della reazione che scorgevo sul viso di Dave. Era il mio gobbo. Facevo ciò che faceva lui. Mi dava il LA ed io abbozzavo la mia musica.

Tre quarti d'ora dopo, le nostre ordinazioni ancora non si vedevano. Il locale era strapieno e questo ritardava le operazioni della cucina. Avevo strappato il tovagliolo di carta lungo tutto il bordo e ora questo assomigliava ad un tappeto contornato di frange. Ero poi passata all'interno, disegnando con le unghie dei ghirigori che ad ogni passaggio si facevano più marcati. Tra poco si sarebbe strappato. Provavo ad accendere il cellulare, nella vana speranza che si fosse ricaricato con la mia rabbia, ma ancora non avevano sperimentato nulla del genere e quell'aggeggio infernale se ne restava sul tavolo, scuro, a segnare la mia rovina.

«Sai Jude, Lewis è un grande fan dei The Fray» buttò lì Vanessa. I suoi tentativi di coinvolgermi nella conversazione finora si erano rivelati tutti inutili.

«Buon gusto» mi limitai infatti a rispondere.

«Stai bene?» chiese lui. Qualcosa nella sua voce mi diede l'impressione che fosse realmente sincero e preoccupato per quel mio nervosismo, esternamente non giustificato. Alla fine era solo una cena tra amici ed io mi stavo comportando come se fossi seduta su un cuscino di aghi. Automaticamente lo paragonai a Josh e tutte le differenze tra i due di manifestarono, chiare come il sole. Josh era assillante, soffocante, sempre convinto di essere nel giusto e che io dovessi essere salvata. Lui, Lewis, sembrava più carino, disponibile. Con amarezza mi resi conto che se non ci fosse stato Ryan nella mia vita, mi sarebbe davvero potuto piacere.

«Sì, è solo che mi sono dimenticata di fare una cosa importantissima» buttai lì.

E' strano come certe volte alcune persone riescano a capirsi con uno sguardo. Normale che capiti tra amici di lunga data, inspiegabile tra due che non si conoscono per niente ma che condividono lo stesso enorme segreto.

Alle mie parole, Dave mi fissò profondamente.

«Ryan?» chiesero i suoi occhi e bastò un movimento impercettibile del mio capo per fargli collegare tutti i fili. Ryan non sapeva dove fossi e non gli rispondevo da più di un'ora. Gli elementi per una catastrofe c'erano tutti.

«Ragazzi, scusatemi un attimo, devo fare una telefonata urgente. Anch'io ho dimenticato di fare una cosa importante».

Dave fu un lampo. Afferrò il suo telefono e prese la via della porta senza che Vanessa avesse il tempo di chiedergli niente. Feci spallucce, non sapendo che dirle ed attesi. Sarei stata grata a Dave per il resto dei miei giorni. Da quel momento in poi sarebbe stato per me come un fratello, catapultato direttamente nei primi posti della lista delle persone da adorare, per le quali non avrei mai esitato a dare la mia vita se fosse stato necessario.

Nel frattempo arrivarono i nostri piatti. Nessuno toccò niente fino a quando anche Dave non fu di ritorno.

«Tanti saluti da Ryan» disse sfregandosi i palmi di fronte alla sua pietanza fumante. Chiusi gli occhi per il sollievo. Forse il pericolo era scampato.

«Ryan? Cosa c'era di così urgente da non poter aspettare di chiamarlo?» si informò Vanessa incuriosita. Tremai di terrore immaginandomi al posto di Dave nel dover inventare una scusa su due piedi, ma a quanto pareva, lui era più preparato di me.

«Dovevo ricordargli l'antibiotico».

Trattenni a stento una risata, coprendomi la bocca con la mano chiusa a pugno. La faccia di Vanessa era tutta uno spettacolo. Finsi un colpo di tosse e tornai alla mia insalata mista. Sulla vetrata, notai il riflesso di Lewis concentrato su di me e in un eccesso di timidezza, avvampai. Abbozzai un sorriso, visibilmente più tranquilla. Non vedevo l'ora che la serata finisse, ma almeno adesso potevo affrontarla più serenamente.

 

Due ore ed un dessert a testa dopo, eravamo nuovamente al punto d'incontro. Dave e Vanessa si erano allontanati un paio di metri per salutarsi ed io e Lewis eravamo rimasti da soli ed imbarazzati ad aspettarli.

«Mi ha fatto piacere rivederti oggi» se ne uscì lui per spezzare il silenzio che era sceso. Abbassai gli occhi non sapendo che rispondergli. Dirgli che anche a me aveva fatto piacere, avrebbe alimentato in lui false speranze. Affermare il contrario lo avrebbe offeso e mi sarebbe dispiaciuto ferirlo. Ryan mi aveva resa una perfetta femminuccia che sta attenta ai sentimenti altrui quando prima ero un corazziere che non badava a nessuno.

«Mi è sembrato di capire che non ti aspettassi questo tipo di serata, ma magari, una prossima volta...».

Era il primo ragazzo insicuro che conoscevo in vita mia e di nuovo, qualcosa mi fece pensare che era davvero un peccato lasciarlo andare. Ma io ero di Ryan e di nessun altro. Non ce la facevo. Un altro tipo di vita, lontano da lui, dal mio amore, non era neanche lontanamente contemplabile.

«Lewis» lo fermai. Un sorriso amaro si dipinse sul suo volto d'un tratto estremamente giovane. Non sapevo neanche quanti anni avesse con certezza. Lo aveva detto? Ero stata io a non ascoltarlo?

«Credo di sapere cosa stai per dire. Non sono il tuo tipo, vero Jude?».

«Non è questo». Mi sentivo tremendamente colpevole. Come potevo addolcirgli la pillola?

«Cosa allora? Posso saperlo?». Quelle che in bocca a chiunque altro sarebbero sembrate parole acide e cattive, dette da Lewis assunsero tutt'altro senso. Non era un'accusa la sua. Voleva semplicemente capire, com'era suo diritto. Lo avrei voluto anch'io al suo posto.

«Sono io a non essere il tipo, capisci? Non sono fatta per queste cose, non per ora» spiegai, consapevole dell'immensa bugia che stavo raccontando a lui e a me stessa. Non ero quel tipo, lo ero diventata da poco tempo però. E sapevo anche che le passeggiate sul molo al chiaro di luna, le cenette a lume di candela in un ristorante carino, i regali per San Valentino e i mesiversari, non avrei snobbato niente di tutto questo se a tenermi per mano, a spostarmi la sedia al tavolo, a chiudermi gli occhi davanti ad una sorpresa fosse stato Ryan. Non era più questione di cosa. Era questione di chi. Ryan.

«Lo capisco» si arrese infine lui, giusto quando Dave e Vanessa tornarono da noi, mano nella mano.

Da galantuomini quali erano, i ragazzi ci scortarono fino all'auto di Vanessa. Attesero fino a quando lei accese il motore e si immise sulla strada. Morivo dalla curiosità di sapere se Dave e Lewis stavano parlando e nel caso, cosa si stessero dicendo.

«Quanto ce l'hai con me?». Vanessa era seria. Guardava dritto davanti a sé, non si era nemmeno voltata.

«Da uno a dieci, almeno cento».

«In fondo un po' ti sei divertita».

«Vane, non è questo il punto. Non voglio che trami contro di me. Sei la mia migliore amica e gradirei che rispettassi quello che ti dico. Se non voglio uscire con un ragazzo è no. Punto».

«Non capisco tutto questo tuo accanimento contro i ragazzi e l'amore, Jude. Ti stai precludendo un mondo. E per cosa? Orgoglio! Fottutissimo orgoglio».

Quasi mi soffocai con la mia stessa saliva. Stavo per tirarle un pugno. Io, orgoglio? Io che mi ero ridotta a fare l'amante? Non sapevo neanche cosa fosse l'orgoglio ormai e lei mi lanciava una simile accusa? Dovetti ricordarmi che lei non sapeva niente e in quel momento mi ripromisi che mai e poi mai lo avrebbe saputo. Quella sera, la mia migliore amica mi stava ferendo più di quanto non avesse fatto in tutti gli anni passati insieme. Aveva proprio ragione Avril Lavigne in quella sua canzone. 'Tutti feriscono', il problema è che non se ne accorgono e pretendono pure che li si ringrazi.

«Ho altri progetti» chiusi lì e anche se lei avesse continuato il discorso, non le avrei risposto, ma Vanessa non disse più nulla al riguardo. Il viaggio andò avanti nel silenzio più assoluto.

Accostò davanti a casa mia e non spense neanche il motore. Era mezzanotte passata e entrambe avevamo da lavorare in mattinata.

«Hai dimenticato la luce della cucina accesa» disse soltanto. Mi sporsi dal finestrino per guardare. Ero assolutamente certa di averla spenta. Avevo controllato prima di chiudere la porta. I fari della Smart illuminavano la strada deserta, ad eccezione di un'altra auto, una Audi nera, parcheggiata in fondo alla via. Guardai di nuovo verso la finestra da cui filtravano i raggi della lampadina.

«Hai ragione, che sbadata» mentii. «E' meglio che vada. Buonanotte».

«Notte» augurò Vanessa.

Scesi dalla macchina con calma, fingendo una naturalezza forse troppo forzata, chiusi la portiera con il solito tonfo ed attesi che Vanessa se ne andasse.

Quando la sua auto sparì dietro l'angolo, mi precipitai su per le scale.

Mi capitava spesso di sognare di avere le gambe pesanti, di voler correre e non poterlo fare perché i muscoli non rispondevano agli impulsi del cervello, o almeno, ci provavano ma non riuscivano, quasi qualcosa tenesse i piedi ben ancorati a terra ed ogni passo si colorava della fatica enorme di un'impresa impossibile. In quel momento, ogni gradino mi sembrava una montagna invalicabile. Stringevo forte la ringhiera e mi aiutavo con le braccia per aiutarmi ad arrivare sino in cima, lì dove mi aspettava Ryan, come non lo sapevo. Intravedere la porta fu un sollievo. In realtà ci avevo messo pochi secondi a salire, ma anche quelli si erano dilatati, sommandosi alle ore precedenti, in uno spaventoso ammucchiarsi gli uni sugli altri.

Mi tremava la mano mentre cercavo di inserire la chiave nella toppa e fui costretta ad immobilizzarmi il polso con l'altra libera per riuscire finalmente a far scattare la serratura. Come in un film dell'orrore, la porta si aprì sulla cucina deserta, ma allagata dalla luce.

Con una rapida occhiata, scandagliai tutta la stanza, ma di Ryan nessuna traccia. Lì non c'era. Gettai a terra la borsa che si afflosciò con un tonfo ed andai verso il corridoio. Le porte erano tutte chiuse, tranne quella della camera da letto, leggermente aperta e dalla quale filtravano appena i fasci di luce della luna. La raggiunsi velocemente. Non mi concessi neanche il tempo di pensare a cosa avrei trovato lì dentro, a come avrei reagito. Aprii e basta.

Sulla sponda del letto, una figura. Ryan era seduto lì, i gomiti poggiati sulle gambe ben piantate per terra e le dita intrecciate, in attesa. Non era l'assenza di luce a rendergli il viso scuro, bensì la sua espressione. La fronte corrucciata, le sopracciglia troppo vicine, la mascella contratta, a formare una maschera di dolore straziante, che mi dilaniò il cuore.

Era colpa mia, soltanto colpa mia se lui adesso stava così. Non me lo sarei mai perdonata. Lo avevo ferito, quando avevo detto e ridetto che non lo avrei mai fatto, e invece, eccomi lì, colta in flagrante, colpevole assoluta del mio misfatto, come in quel sogno di poche sere prima, ma questa era la pura realtà. Quale tipo di mostro ferisce chi ama? Quale?

Corsi da lui.

Avevo paura che mi respingesse, disgustato, arrabbiato per quel dolore che presuntuosamente gli stavo arrecando, che lui non si meritava. Che diritto avevo io di fargli così male?

Invece mi abbracciò. Anzi, mi permise di abbracciarlo, di consolarlo, lui, uomo grande e grosso, sempre sicuro di sé, mi stava concedendo quell'onore di mostrarsi debole ai miei occhi, sicuro che non mi sarei mai approfittata di quella confidenza.

«E' così che ti senti quando sai che sono con lei?» soffiò. La sua voce era così flebile che temetti di essermi immaginata quella domanda, ma poi lo guardai negli occhi, i suoi meravigliosi occhi, quelli che mi avevano fatta morire e resuscitare almeno un centinaio di volte negli ultimi mesi e nel buio, in quello sguardo, rividi me stessa nelle ore di attesa.

«Mi dispiace» sussurrai. Il groppo alla gola mi impediva di parlare normalmente. «Non volevo farti provare nulla del genere». Lo sforzo per trattenere le lacrime era immane.

«Come, come lo sopporti?» chiese a denti stretti.

Dove ti ho pugnalato, amore mio?”

«Ti amo, mi aiuta questo» confessai ad occhi bassi. Quel sentimento, così grande, così pieno, era allo stesso tempo la causa dei miei mali e la mia salvezza. Non sarei mai morta del tutto finché avessi avuto quello spiraglio di speranza che era l'amore per Ryan a cui tenermi avvinghiata, la volontà di vivere ogni giorno, per sapere cosa sarebbe successo con lui.

Ryan impietrì a quelle parole. Gli ci vollero parecchi secondi perché si rilassasse totalmente.

Lo cullai per tutta la notte, restando sveglia per scontare la mia pena, accompagnandolo in chissà quale sogno, magari a vagabondare per una terra nuova, dove il dolore è ancora sconosciuta, migliore di quella in cui ero stata io a fargli del male e dove forse potevo essere pure io a guarirlo.

Per tutta la notte, gli accarezzai i capelli e la nuca. Respiravo piano, perché i movimenti della mia pancia, sulla quale aveva poggiato la testa, non lo svegliassero.

Lo guardavo ed in silenzio piangevo, perché in tutta quella storia, al di là di Dave, di Vanessa, di Lewis, di Josh, della modella, (dei quali, in fin dei conti, realizzavo, non mi importava nulla) era a Ryan che stavo facendo più male. Lo avevo rubato alla sua tranquillità per trasportarlo in un abisso di bugie e tradimento. Convinta di salvarlo, lo stavo invece distruggendo.

 

Everybody hurts some days

It's okay to be afraid

Everybody hurts some days

Yeah, we all feel pain
Everybody feels this way

And it'll be okay

Can't somebody take me away to a better place

Everybody feels this way, it's okay”
 

 

 

Note

Innanzitutto grazie per essere arrivati fino a qui. Forse mi sono lasciata un po' prendere la mano, ma spero che il capitolo vi sia piaciuto. Il ritardo, oltre agli impegni di vita quotidiana è dovuto anche ad una piccola crisi. Ho chiesto ad un mio amico/collega di leggere questa storia e mi ha praticamente distrutta, dicendo che tecnicamente fa schifo ed è noiosa e non invita il lettore ad andare avanti. Potete immaginare come ci si senta a sentir certe cose su una storia a cui si tiene tantissimo. La crisi, a dire il vero, non è stata tanto piccola e non è del tutto passata, ma mi sono convinta che prima di tutto per migliorarsi bisogna andare avanti, quindi mi sono messa d'impegno ed ho finito il capitolo. Non so se noterete dei cambiamenti o se siete d'accordo con il mio amico. Sapete che ogni parere è ben accetto, positivo o negativo che sia. Se avete qualcosa da dire su questa storia, per favore, fatemi sapere. Il miglioramento passa anche da voi.

Spero di non ritardare così tanto anche col prossimo. E' periodo d'esami, ma ce la metterò tutta per essere presente. Come vi dicevo mancano pochi capitoli alla fine di questa prima parte. Altri tre e poi, piccola pausa e si riprende con la seconda. Spero di ritrovarvi tutti.

A presto,

vostra Serenity

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Capitolo 15
*** #10. Without you ***


Volevo dedicarti questo capitolo, ma poi mi sono detta che è meglio di no.

Bisogna davvero chiuderli alcuni cicli.

So bene che quello che porta il tuo nome non lo chiuderò mai,

sarà semplicemente accostato,

in attesa che tu capisca.

I am lost, I am vain, I will never be tha same

Without you.

 

 

# 10

 

Without you

 

Quando ero bambino, caddi dalla bicicletta. Ero da solo. I miei genitori erano entrambi a lavoro e mia sorella troppo occupata con la sua vita per badare a me. Rimasi sul ciglio della strada per almeno un'ora a trattenere le lacrime, mentre con le mani stringevo il ginocchio ferito. Bruciava in un modo sconcertante.

Avevo all'incirca quattro anni e da quel giorno il mio mondo iniziò a sgretolarsi. Cominciai a capire allora che anche le cose belle hanno risvolti negativi e che questi spesso portano ginocchia sbucciate, sangue e croste fastidiose, che non ne vogliono sapere di cadere e che se per caso le strappavo prima del dovuto, oltre a fare ancora più male, macchiavano pure i pantaloni nuovi e facevano urlare mia madre.

Da una stupidaggine come una caduta da bicicletta si scatenava un putiferio e ovviamente la colpa era mia, che non ero stato attento e che “chissà a cosa stavo pensando o cosa stavo guardando”, “perché io non avevo il permesso di uscire fuori in bici quando loro non erano in casa” e via così per un quarto d'ora buono. In definitiva mi stava bene che mi fossi fatto male e per punizione non potevo andare i bicicletta per un mese almeno.

Seconda lezione imparata in un colpo solo: il mondo è assurdamente ingiusto.

Da un po' di tempo credevo di aver ritrovato quell'equilibrio perso all'incirca vent'anni prima e per quanto fosse instabile, era l'unica cosa nella mia vita che per il momento riusciva a rasserenarmi.

Mi ero sempre sentito uno dei tanti, nessuno di speciale, nonostante le avessi provate tutte per mettermi in mostra. L'ombra non mi piaceva ed io volevo lasciare un segno, di più, un solco, spesso e profondo così che un giorno, chiunque mi avesse stretto la mano si ricordasse di me, di Ryan il grande, quello che aveva fatto questo e quest'altro.

Ma in definitiva non avevo concluso niente di buono. Ero stato costretto ad abbandonare la carriera agonistica per un infortunio impossibile da smaltire ed avevo ripiegato sulla fisioterapia. Se non avessi potuto competere io stesso, perlomeno avrei aiutato qualcun altro a coronare il suo sogno. Ma la strada era stata più tortuosa del previsto e la buona volontà non era stata sufficiente. Ci era voluto più impegno di quanto credessi di disporre. Fino a quando ero arrivato alla resa. Avevo lasciato perdere tutto e mi ero tuffato anima e corpo nella mia storia, quella relazione nata senza un perché, da un giorno all'altro, quasi senza che me accorgessi.

Lei era bella, una modella. Chiunque avrebbe voluto stare con una modella e almeno in quello avevo vinto io. Me l'ero accaparrata come un terno durante la tombola di natale e avevo giurato che me la sarei tenuto a qualunque costo, unica cosa di cui fossi mai stato il vero vincitore.

Invece col tempo mi resi conto che anche lì ero arrivato secondo. Non ero Ryan, quello che stava con la modella. Ero quello con cui la modella stava. Sempre un passo indietro. Sempre sconfitto.

Ma poi è arrivata lei. E con lei, pure il resto di quel mondo già sbriciolato fino alle fondamenta era caduto.

Inaspettatamente però, da sotto quelle macerie, non spuntarono né morti, né feriti. C'era oro tra quei resti e zampilli di acqua fresca.

All'inizio, come ogni sfollato, ero rimasto lì, fermo, a contemplare quella distruzione, prima di capire che invece era il simbolo della mia rinascita, che quegli occhi, quelle parole pronunciate piano, quasi sussurrate, erano quello che per anni interi avevo cercato. Ero talmente scoraggiato che sebbene li avessi proprio di fronte, che anzi scavavano dentro di me, non li avevo riconosciuti.

C'è gente che si fa spazio nella vita altrui a picconate. Pur di entrarci, è disposta a tutto. A lei, a Jude, erano bastati un paio di sorrisi per farsi posto nella mia.

E per la prima volta ero il primo in qualcosa, in qualcuno e non c'era che elemosinare da lei, lei sempre pronta ad elargire a piene mani. Lei che se non ha qualcosa, se la inventa e la procura.

Non ci voleva poi chissà cosa, avevo capito. Jude si era permessa di dirmi solo una frase, due parole. Mi aveva sussurrato 'puoi farcela' ed io ci avevo creduto, tanto quanto ci credeva lei.

Il progetto del mio studio di fisioterapia era ripartito e stavolta non mi sarei fermato davanti a niente. Ci voleva così poco. Solo qualcuno che mi sostenesse, qualcuno da rendere fiero. E adesso c'era Jude.

Il suo viso sereno era appena illuminato da un debolissimo raggio di luce che filtrava dalla finestra. Alla fine si era addormentata dopo quella serata da dimenticare per entrambi. Sapevo però che non avrei mai scordato la fitta alla bocca dello stomaco mentre Dave mi raccontava cosa stava succedendo. Di quel tipo, liberissimo di uscire con Jude, mente io ero intrappolato in una squallida cena con i figli dei cugini dei nonni... E la pungente consapevolezza che se anche non fossi stato impegnato, io non avrei mai potuto portare Jude fuori, in un ristorante, al cinema, alla fontana dell'acqua all'angolo della via. Io non potevo niente, se non aspettare che tornasse da me, mentre un sentimento strano mi avvelenava dentro. Non solo gelosia. Invidia. Odio verso me stesso. Perché tutta quella situazione era colpa mia e di nessun altro. Forse me lo meritavo, dopotutto.

Ma lei ancora una volta si era presa la colpa di tutto. Lei che in definitiva non c'entrava niente, si era scusata ed io ero rimasto ad ascoltarla, ammutolito dal dolore, come anni prima, caduto dalla bicicletta.

Le accarezzai i capelli sciolti, lunghi e scompigliati immaginando la sua faccia quando si sarebbe svegliata e li avrebbe trovati tutti ingarbugliati. Si sarebbe messa davanti allo specchio e avrebbe sbuffato, prima di scoppiare a ridere e snodarli con la spazzola rossa posata vicino al lavabo.

Qualcun'altra sarebbe corsa dal parrucchiere scandalizzata, invece.

Mi odiavo per quello che le stavo facendo. Sapevo di doverla lasciare, che se avessi continuato quella storia l'avrei distrutta. Per la prima volta mettevo il bene di qualcun altro davanti al mio e anche se non lo dicevo ad alta voce, a Jude tenevo davvero. Per quanto fosse paradossale, l'unico modo che avevo di amarla come meritava, era quello di lasciarla andare.

Le baciai la fronte. Era tardi e dovevo correre allo studio. Feci per sfilarmi dalle sue braccia, ma in quell'esatto istante le sue dita si strinsero attorno alla mia maglietta. Le sue ciglia tremarono e i suoi occhi assonnati cominciarono ad aprirsi lentamente. In un attimo la paura le dilatò le pupille e sentii distintamente il battito del suo cuore accelerare.

L'idea di neanche un secondo prima svanì all'istante e lasciarla mi sembrò il pensiero più stupido che avessi mai avuto in tutta la mia vita.

«Tranquilla, vado solo allo studio. Ti chiamo più tardi» sussurrai.

Intontita dal sonno, Jude mugolò qualcosa e richiuse gli occhi. Probabilmente stava pure sognando. Recuperai le mie cose e cercando di non fare il minimo rumore andai via.

Ma l'angoscia mi seguì anche sul pianerottolo e per tutto il tragitto verso lo studio, attanagliandomi lo stomaco in una morsa.

 

Disse Richard Bach: “Se la tua felicità dipende da quello che fa qualcun altro, credo proprio tu sia alle prese con un bel problema”.

Beh, io ero proprio fottuta e non ero mai stata così felice di esserlo.

Avevo tanti ricordi confusi, tutti accavallati. Diverse sensazioni, mescolate insieme: dolore, tristezza, speranza, sollievo e paura, soprattutto un'inspiegabile e soffocante paura. Avevo un'immagine distorta di Ryan che andava via, ma non capivo se fosse reale o se invece appartenesse a qualcuno dei miei incubi.

No, era reale. Il resto del letto era vuoto. Diedi una sbirciata alla sveglia. Tutto nella normale prassi di ogni volta. Era già andato a lavoro. Cosa che dovevo fare pure io a dir la verità.

Con fatica mi tirai su. Chissà lui come stava. Io mi sentivo come se mi fosse passato sopra un tir carico di bestiame pesante. Mi facevano male pure le ossa. L'avevo letto da qualche parte, i dolori psicologici ne causano di fisici. Ne avevo avuto la prova.

Lasciai tutto in disordine, feci solo la doccia, mi vestii e partii in direzione del negozio. L'umore era sotto i tacchi, ma dovevo far finta di niente e comportarmi da brava commessa. Indossai un bel sorriso ed entrai. Christie e Sarah mi salutarono con uno sbadiglio.

«Ore piccole?» chiesi loro.

«Veniamo dritte dalla discoteca» mi rispose Sarah accasciandosi sul bancone. Mi venne involontariamente da ridere.

«Vi stimo» dissi scuotendo la testa.

Si prospettava una giornata tranquilla e così fu. L'andirivieni fu costante ma niente di ingestibile. Alle undici sia Sarah sia Christie avevano un po' ripreso conoscenza dopo tre caffè ciascuno. Avevo scommesso che le avrei viste crollare prima di pranzo e stando al modo in cui camminava Christie avevo buone se non ottime probabilità di vincere.

Almeno loro si erano divertite. Vanessa dal canto suo era scomparsa. Se avevo ragione, aspettava che fossi io a cercarla. Possibilmente era pure arrabbiata con me perché non ero stata al suo gioco, recitando la parte che nella sua testa mi aveva affidato senza neanche chiedermi se mi interessasse o meno fare il provino, figurarsi la protagonista.

Per quello che mi riguardava, poteva benissimo continuare ad aspettare.

Avevo deciso di sistemare la vetrina. C'erano gli stessi abiti esposti da almeno due settimane ed era ora di cambiare.

Solerte, mi misi a spogliare i manichini dopo aver deciso cosa far loro indossare di nuovo. Era da poco arrivato un vestitino bellissimo che mi ero pure portata a casa. Non potevo resistere. Avrei esposto quello e qualcos'altro della nuova collezione. La nuova moda prevedeva fiori dappertutto, così avevo chiesto a Strawberry di procurarsi qualche bouquet finto da smembrare per spargerne i petali a terra e dare un po' di colore alla vetrina. Mi piaceva la mia idea.

Stavo svitando il braccio del secondo manichino, quando mi parve di intravedere una faccia conosciuta. Un ragazzo longilineo, non eccessivamente alto, bruno. Mi venne in mente la prima volta che lo avevo visto. Lo avevo definito anonimo. Vicino a Ryan chiunque lo sarebbe stato, ma da solo potevo pure ammettere che faceva la sua figura.

«Dave!» lo chiamai.

Lui si voltò, sorpreso. Camminava con le mani in tasca, nelle orecchie gli auricolari del lettore mp3.

«Ehi Jude».

Tornò indietro per raggiungermi. Sembrava tranquillo. Chissà come era finita la sua serata ieri.

«Non sapevo lavorassi qui. Ci viene spesso...». Lasciò la frase in sospeso per non girare il coltello nella piaga.

«L'ho scoperto a mie spese» sospirai.

Dave fece una smorfia. Ero sicura che avesse compreso a pieno quanto quelle spese fossero state care.

«Tu che fai in giro?».

«Ho preso un giorno di permesso e mi seccava restare a casa» spiegò.

Mi strofinai le mani per pulirle. Era quasi mezzogiorno e non ero ancora andata in pausa.

«Vai di fretta? Ti andrebbe un caffè?» proposi. Almeno mi sarei in parte sdebitata per avermi salvato la vita.

Lui annuì. Comunicai alle ragazze che mi sarei assentata un poco ed insieme a Dave mi avviai verso un locale vicino.

Era uno di quelli con i tavolini sulla strada, coperti da pesanti tendoni che impedivano ai raggi di sole di filtrare e creavano ombra. Sebbene facesse ancora freddo la giornata meteorologicamente era stupenda.

Ci sedemmo proprio fuori, ordinammo due caffè e nell'attesa ci mettemmo a parlare. Inevitabilmente la conversazione andò a parare in un punto ben preciso.

«Come sta? Lo hai visto?» mi chiese Dave. Lo conosceva bene, meglio di quanto lo avrei mai conosciuto io, mi resi conto amaramente e la sua preoccupazione era più che giustificata.

«L'ho trovato a casa mia. Non sprizzava allegria da tutti i pori».

«Lui purtroppo è così. Deve sbatterci la testa prima di capire qualcosa».

Lo guardai stranita. Cosa doveva capire? In quel modo soprattutto. Rabbrividii al solo pensiero di quel che gli passava in mente in questo momento. Ryan che rimuginava mi metteva il terrore.

«Qualunque cosa abbia capito da questa storia, ho paura che non sia buona. Lo ha già fatto una volta, sai? Allontanarsi per il mio bene».

La cameriera ci portò i caffè. Poggiò pure una brocca d'acqua cristallina e due bicchieri di plastica e tornò dentro al suo lavoro, consentendoci di continuare il nostro discorso.

«E com'è andata?».

«Indovina».

Dave sospirò.

«Che situazione!» esclamò e la sua voce si riempì di tutta quell'esasperazione che da mesi ero io a trattenere. «Tu come la vivi?».

Mi lasciai sfuggire una mezza risata nervosa. Per la prima volta avevo la possibilità di essere sincera al cento per cento riguardo a quella storia con una persona che non fossi io. La domanda era: approfittarne o continuare a raccontare bugie? Probabilmente Dave ne avrebbe parlato con Ryan prima o poi, o forse non avrebbe mai fatto parola di quella conversazione con nessuno. Non potevo saperlo, ma il peso di quella relazione diventava ogni giorno più grande per tenermelo tutto dentro.

«E' difficile...» dissi con prudenza. «Quando lui non c'è, è molto difficile. Vivo nella perenne paura di vederlo andare via e non so cosa farò quando succederà, perché succederà, lo so. Certe volte mi sento impazzire. Vorrei controllare tutto di lui, sentirlo ogni secondo, ma poi mi rendo conto che lo soffocherei e allora soffoco me stessa, pur di averlo. Pur di non perderlo, sono disposta a fare del male a me stessa».

«Hai mai pensato di chiedergli di scegliere?».

Inorridii di fronte a quella domanda, più che altro perché in cuor mio lo avevo fatto ed ogni volta la verità era una pugnalata allo stomaco.

«Non lo farò mai».

«Perché?».

«Tu chiederesti a Vanessa di scegliere tra me e te?» chiesi ben consapevole che lui non ne sarebbe stato proprio capace.

Dave si zittì. Era un tipo molto riflessivo. Ci pensava due volte prima di parlare. Mi piaceva pure per quello.

«Non è la stessa cosa, lo so, ma ugualmente non ho il diritto di fare una cosa del genere. Non sono nessuno».

Lui si pietrificò. Avrei tanto voluto che mi dicesse che mi stavo sbagliando. Che lui e Ryan ne avevano parlato e non era vero che non ero nessuno, che Ryan a me ci teneva più di quanto non dimostrasse e dovevo solo pazientare un po', che tra poco tutto si sarebbe risolto. Invece non disse nulla. Rimase in silenzio e rimuginare e sul mio cuore si formò un'altra cicatrice.

«Dovresti parlarne con Vanessa» insistette, come se la spiegazione che gli avevo dato allo stadio sul perché mantenessi il segreto con la mia migliore amica non fosse abbastanza chiara.

«Dave, pensa a cos'ho io e a cosa ha lui. Chi ha di più da perdere?».

«Stai scegliendo lui». Tirò le fila del discorso in men che non si dica.

«Se lei potesse farebbe lo stesso». Stavolta non riuscii a trattenermi.

Dave trasalì a quell'eventualità. «Non lo farebbe» disse deciso.

«Lo ha già fatto invece. Fa sempre così».

Incredulo, il mio nuovo amico, poggiò la tazza da cui stava sorseggiando il suo caffè sul tavolo e mi guardò profondamente cercando di carpire tutti i segreti che mi tenevo dentro, le ferite che negli anni avevo accumulato e che mi avevano rendevano quella che ero. Decisi di intervenire prima che fosse troppo tardi, che andasse troppo a fondo e capisse cose che non era dato sapere a nessuno.

«Comunque, falle del male e ti pesto». Cambiai discorso in quattro e quattr'otto.

«Non lo faresti» rispose ritornando alla realtà.

«Io al posto tuo, il dubbio me lo farei venire».

«Sai, non ero molto convinto dei gusti di Ryan riguardo alle ragazze, ma ammetto che devo ricredermi».

Mi misi a ridere.

Non valeva niente, lo sapevo. Agli occhi del mondo era tutto totalmente sbagliato, ma avere l'approvazione di Dave mi rendeva felice, un po' più giusta.

Un po' meno puttana.

 

Poco dopo tornammo sui nostri passi. Avevo un po' esagerato con la pausa, ma non me ne facevo una colpa così grande. In assenza di Strawberry la titolare ero io, di conseguenza potevo fare quel che volevo, nei limiti del decente ovviamente.

«Posso chiederti una cosa?».

Eravamo arrivati davanti all'ingresso del negozio e d'un tratto la faccia di Dave era diventata scura, come se non gli tornasse qualcosa.

«Certo». Pensavo si trattasse di qualche curiosità su Vanessa e invece mi spiazzò.

«Tu lo ami davvero? Nonostante tutto?».

Mi guardai intorno prima di rispondere. Avevo bisogno di prendere fiato prima di aprire bocca e spiegargli, per quanto fosse incomprensibile, cosa mi spingeva a tanto sacrificio.

«Certo. Anche quel nonostante tutto è parte di lui. Se non lo accettassi, se non lo volessi, sarebbe come rifiutare anche lui ed io sono per il tutto o niente. Di lui voglio tutto».

«Anche il male che ti fa» aggiunse lui sottovoce.

«E quello che io faccio a lui. Non sono innocente, Dave».

Lui sospirò e scosse la testa come davanti ad un bambino capriccioso che non vuole rinunciare alle caramelle sebbene abbia i denti pieni di carie.

«Sei messa male, Jude!» esclamò, in netto contrasto con le parole che avevamo scambiato in precedenza.

«Vero? Non me n'ero accorta!».

Ridemmo entrambi e non solo per l'espressione che mi si era stampata in faccia, ma soprattutto per il tono che avevo usato, quell'inclinazione di voce che tanto amavo e che involontariamente avevo imparato. Anche Dave l'aveva riconosciuta. Lui più di chiunque altro la sentiva più o meno da sempre e quest'altro piccolo pezzo si aggiunse al puzzle che stava creando nella sua testa.

«Sii paziente» mi disse soltanto con tenerezza e presi quel consiglio preziosissimo come un regalo di compleanno da parte di un amico lontano. Abbozzai un sorriso grato.

Il cellulare vibrò tra le mie mani. Sul display illuminato comparve il nome di Ryan ed il sorriso di allargò al solo pensiero di sentire quella voce appena ricordata.

Dave capì all'istante, mi fece l'occhiolino e salutando con la mano andò via.

 

I can't win

I can't reign

I will never win this game

without you

without you

 

I am lost

I am vain

I will never be the same

without you

without you

 

Come stai?”.

Io bene, tu?”.

Sono stanco. E' stata una giornata pesante”.

Pensavo a quelle poche parole, spiccicate a bassa voce da un cellulare surriscaldato mentre immaginavo Jude camminare in tondo ascoltando quello che in realtà non le stavo dicendo, la confusione, lo sforzo, l'angoscia dietro quella piccola enorme richiesta.

Ti dispiace se oggi non ci vediamo?”.

Il suo 'okay' tremante accompagnato da un sospiro soffocato che non avrei dovuto sentire.

Ma non si ribellava, mai, anche se avrebbe dovuto. Anche se qualunque persona sana di mente si sarebbe messa ad urlare, a litigare, lei no. Restava zitta ed accettava quell'ennesima ferita.

Non facevamo che distruggerci a vicenda e distruggere noi stessi nel vano tentativo di proteggere l'altro.

Ma lei me lo aveva detto chiaro e tondo: mai senza di me. E anche se io non glielo dicevo valeva lo stesso per me: mai senza di lei. Forse.

Era quel forse che mi fotteva. Quella stupida possibilità, la consapevolezza che io potevo farcela benissimo. Che sarebbe stata lei quella a farsi più male tra di noi, perché io dopotutto avevo a chi aggrapparmi. Lei no.

Lei non aveva nessuno a parte me.

Ed io dovevo scegliere, cazzo. Quell'altalena non poteva e non doveva continuare. Ne andava della mia sanità fisica e mentale.

La mia fortuna era il nostro vivere separati. Non volevo immaginare cosa sarebbe potuto succedere se per puro caso, una notte, dormendo insieme, dalla bocca fosse venuto fuori il nome di Jude. Probabile, dato che ormai popolava anche i miei pochi sogni.

Sdraiato sul pavimento dello studio, fissavo il soffitto ancora da pitturare e mi immaginavo davanti al bivio a cui ero arrivato.

A destra una strada, facile, conosciuta, ma triste e fatta di bugie.

A sinistra una viuzza in terra battuta circondata da rovi e spine da cui ero certo potevano nascere more e rose con le cure adeguate. Quelle di cui io non ero capace.

Sospirai per l'ennesima volta in quella giornata senza fine.

Il sole stava per calare, finalmente, ed avevo la gola secca.

Mi ero rintanato nello studio, così da sfuggire a tutto e a tutti. Non volevo vedere, sentire o dar retta a nessuno. Mi serviva un po' di tempo per me stesso, per pensare e rimettere un po' in ordine la mia vita una volta per tutte.

Ma ogni tentativo di far chiarezza risultava vano e le domande scritte in verde sulla lavagna magnetica diventavano ogni secondo più sfocate.

'Cosa voglio davvero?'.

'Chi?'.

Lì disteso, un braccio mi faceva da cuscino. Ficcai la mano dell'altro in tasca e tra le dita sentii qualcosa di tondo, piatto e duro. Mi portai davanti agli occhi quel piccolo pezzo di metallo dorato.

Lancia una monetina, dicono, non perché scelga al posto tuo, ma perché nell'esatto momento in cui sarà in aria, capirai cosa vuoi davvero.

Poteva funzionare. Con gli altri metodi non ero stato capace di cavare un ragno dal buco. Cosa mi costava dopotutto? Nel peggiore dei casi avrei rotto una mattonella, ma se era quello il prezzo da pagare per avere chiarezza, avrei volentieri rifatto tutto il pavimento.

Testa o croce. Una o l'altra. Destra o sinistra.

Chiusi gli occhi, presi un respiro profondo e lanciai la monetina.

Tre secondi e si infranse sul pavimento con un rumore cristallino.

A me ne era bastato solo uno per capire cosa volevo davvero.

Adesso mi serviva solo il coraggio.

 

I won't run

I won't fly

I will never make it by

Without you

Without you

 

I can't rest

I can't fight

All I need is you and I

Without you

Without you

 

Non mettevo piede in un bar da anni. Da quando mi ero fidanzato per la precisione. A lei non piaceva che io bevessi. A lei non piaceva che io dicessi le parolacce. A lei non piaceva il mio taglio di capelli, le mie camicie, il mio cronografo. A pensarci bene, per quale motivo stava con me, se non le andava giù niente di me?

Scossi la testa. Che importava ormai? Il tempo cancella tutto. Anche i motivi per cui due adolescenti si mettono insieme.

«Vino rosso, dolce» dissi al barman sedendomi su uno degli sgabelli alti al bancone. Non ne bevevo da un pezzo e non vedevo l'ora di tornare a sentire la gola pizzicare al suo passaggio.

Una volta riuscivo a resistere fino a dieci bicchieri. Ora a quanti sarei arrivato? Lo avrei scoperto tra breve.

Presi il primo bicchiere e lo mandai giù tutto d'un fiato. Il vino arrivò dritto allo stomaco vuoto. Lo sentii attraversare ogni centimetro dell'esofago e lasciare una scia calda. Schioccai la lingua soddisfatto.

«Un altro» ordinai al barista. Questi mi riempì il bicchiere e poi andò da un altro cliente. Stavolta lasciai decantare il vino per un minuto buono e lo divisi in due sorsi per assaporarlo meglio. Era dolce quanto bastava per dare presto alla testa.

Il terzo e quarto bicchiere andarono giù che fu un piacere. Quel vino era buono davvero.

Alla quinta richiesta il barista storse il naso.

«Hai intenzione di sentirti male?» chiese schifato. Forse toccava a lui ripulire il vomito dei clienti.

«So reggerlo» risposi soltanto e alla fine lui cedette, anche perché mi si leggeva in faccia che se non mi avesse servito lui, gli avrei strappato la bottiglia di mano e avrei fatto da me.

Presi dalla tasca posteriore dei jeans il portafogli e ne tirai fuori una banconota da cento.

«Ti basta?» gli dissi allungandogliela, facendo cenno alla bottiglia e alla sua bocca chiusa.

Ci pensò un attimo, poi me la cedette ed intascò i soldi.

«Vacci piano» disse allontanandosi. Annuii in risposta tanto per farlo contento e mi dedicai di nuovo al vino.

Ripensare alle proprie vittorie è sempre facile. Sono gli errori, gli sbagli, quelli difficili da ammettere.

Jude era al tempo stesso la cosa più giusta e più sbagliata che avessi mai fatto.

Ero felice con lei, ma mi odiavo. Perché la ferivo, ogni volta, standole lontano, obbligando lei a stare lontana da me, costringendomi a non amarla come era giusto che fosse, come chiunque altro avrebbe fatto volentieri e forse di più. Come si poteva non amare Jude? Con che coraggio si poteva rifiutare qualcuno come lei?

Ma ormai mancava poco. La decisione era stata presa e tra poco quella storia sarebbe finita, una volta per tutte.

 

I can't erase so I'll take blame

but I can't accept that

we're estranged

without you

without you

 

I can't quit now

this can't be right

I can't take one more sleepless night

without you

without you

 

Erano le due del mattino passate. Mi ero appisolata sul divano, stretta in un plaid colorato, con la televisione come unica fonte di luce a rischiarare la stanza, il volume talmente basso da poterci capire qualcosa solo seguendo il labiale.

Ero triste. La telefonata di Ryan mi aveva rovinato la giornata. Il pensiero di non vederlo aveva offuscato qualunque altro motivo di poter sorridere. Neanche un biglietto vincente della lotteria mi avrebbe restituito il buonumore.

Avevo saltato la cena a causa dello stomaco chiuso per la brutta notizia ma di dormire non se ne parlava. Troppi pensieri mi affollavano la testa. Dubbi e paure che non volevano proprio lasciarmi in pace e tormentavano quelle ore infinite lontano da Ryan.

Ripensavo al consiglio di Dave di portare pazienza. Aveva ragione, ma non c'era nulla di più difficile. Volevo Ryan e lo volevo subito. Per sempre.

In TV passavano le immagini di un film che non avevo mai visto. Lei moriva in un incidente d'auto ma a lui veniva data una seconda possibilità per salvarla. Stava per terminare e avevo già capito come sarebbe andata a finire. Sarebbe morto lui per salvare lei. Che idiozia!

Perché non succede mai che a restare siano i maschi? E' sempre l'uomo a morire e la donna resta a piangere, piangere e piangere in un abisso di disperazione senza eguali. Perché loro, i maschi non soffrono mai? Perché tutto il dolore lo lasciano sopportare a noi?

Il cellulare, poggiato sul solito tavolo, si illumino e cominciò a squillare a tutta potenza. Nel silenzio della stanza, la suoneria sembrava più assordante del normale.

Spaventata lo afferrai e guardai sul display il nome che lampeggiava. In un attimo il panico mi attanagliò lo stomaco.

«Ryan!» risposi senza tanti convenevoli, ma la voce all'altro capo del telefono non era la sua.

«Ciao, non sono Ryan».

Che razza di scherzo era?

«E allora chi sei? Lui sta bene?» le domande partirono a raffica lasciando a malapena il tempo al tizio di rispondere.

«Calma, il tuo amico è qui, solo che si è preso una bella sbronza. Potresti venirlo a prendere?».

Mi diede l'indirizzo di un bar poco lontano dal centro in cui non ero mai stata e mi pregò di fare presto. Secondo lui non stava così male, ma di certo non era un bel vedere.

«Arrivo».

Saltai in piedi, corsi in camera da letto a prendere la borsa, agguantai le chiavi e con indosso un'orribile tuta, mi precipitai in garage.

L'istinto di affondare il piede sull'acceleratore fu fortissimo, ma mi costrinsi a calmarmi. Le strade per fortuna a quell'ora erano quasi del tutto deserte e questo mi permise di filare dritta senza impedimenti fino alla mia meta.

Ero troppo preoccupata. Cosa diamine gli era passato per la testa? Cercai di crearmi qualche spiegazione plausibile mentre tra i fasci di luce dei lampioni attraversavo la città e l'unica che mi venne in mente fu che doveva aver litigato con la sua ragazza. Quale altro motivo poteva spingerlo a tanto?

Un'insegna al neon mi avvertì che ero arrivata. Parcheggiai rischiando di investire un gruppo di adolescenti poco vestite. Il ragazzo di una di loro mi urlò contro. Non gli diedi ascolto e sbattendo la portiera mi precipitai dentro il bar.

Dentro faceva caldo. Mi guardai intorno alla ricerca di Ryan, ma non lo vidi da nessuna parte. Dal bancone un ragazzo alto, i capelli biondissimi, mi fece un cenno ed indicò verso il basso.

Riconobbi subito la sagoma imponente delle spalle di Ryan accasciate sul piano del bar.

Lo raggiunsi di corsa, scartando i vari clienti che a turno mi si ponevano davanti.

Quando fui a portata d'orecchio il ragazzo biondo mi chiamò per nome.

«Jude?».

Annuii in risposta controllando per prima cosa in che condizioni era Ryan.

«Come diamine ha fatto a ridursi così?» chiesi sbalordita e preoccupata al barista.

Lui indicò due bottiglie di vino accanto al gomito di Ryan, di cui una completamente vuota. Dall'altra mancava più di metà del suo contenuto. Nel mio gruppo dovevamo metterci d'impegno almeno in quattro per un risultato del genere.

«Tieni» il ragazzo mi porse un cellulare che riconobbi subito come quello non ufficiale di Ryan. «Eri la prima fra le chiamate in uscita» mi spiegò.

«Hai fatto bene. Ti ringrazio».

Fece un cenno con la mano e se ne andò.

Io diedi un paio di scossoni a Ryan, profondamente addormentato sul bancone come sul letto di casa sua, per svegliarlo.

«Ryan, su, sveglia», ma parlavo da sola. «Amore, per favore» lo supplicai.

Lui aprì prima un occhio, poi un altro. Totalmente stralunato.

«Jude» biascicò sorpreso. Puzzava di vino in maniera assurda.

«Sì, sono io. Su, aiutami, usciamo di qui».

Si tirò in piedi con difficoltà. Lo sostenni per la schiena, facendogli passare il braccio sinistro dietro il mio collo per dargli più stabilità. Girando, con la mano libera, afferrò la bottiglia non del tutto vuota e fece per portarsela dietro.

«No, no, no, no, no, questa resta qua». Gliela strappai di mano e la porsi ad un tizio dai capelli ricci, seduto vicino a noi. Quello ci guardò come se fossimo impazziti e consegnò la bottiglia al cameriere che lo stava servendo.

Con una fatica immane, trascinai Ryan fuori da quel locale. Lo feci appoggiare allo sportello posteriore mentre aprivo quello del passeggero e poi lo aiutai a sedersi, ancorandolo ben bene al sedile con la cintura di sicurezza.

Mi misi al volante, senza perdere un istante di più del necessario e partii filata verso casa mia.

Ogni tanto lo sentivo mugugnare. Le luci gli davano fastidio ed ero certa che le curve della strada non lo aiutassero a non dare di stomaco. Pregavo che non vomitasse solo per risparmiargli quell'umiliazione. Non se lo sarebbe mai perdonato se non avesse resistito.

«Stai guidando» disse all'improvviso. Aveva gli occhi chiusi per metà e non riusciva a tenere ferma la testa.

«Te l'avevo detto che prima o poi mi sarebbe servita» scherzai.

Le sue labbra si curvarono in un sorriso appena accennato. Era stupendo anche da ubriaco. Non disse più niente per tutto il tragitto.

Arrivati sotto casa mia, dieci minuti dopo, sembrava di nuovo essersi addormentato, ma quando lo chiamai rispose al primo tentativo.

Gli aprii lo sportello e di nuovo lo accompagnai per le scale, fino al portone di casa mia.

Barcollando entrò in salotto, trascinandosi accanto al muro. Non aveva per niente una bella cera.

«Mi dai un'aspirina?» biascicò. Si era seduto sul divano e si teneva la testa fra le mani. Sapevo bene come si sentiva. Quello che non sapevo era perché arrivare a tanto. Litigata o no era semplicemente assurdo.

«Adesso? Ti farà male» provai a dissuaderlo.

«Vai, per favore».

Non dissi altro. Andai verso la camera da letto, lasciandolo solo, in preda alla sua sbornia.

Dovevo avere qualche compressa nel primo cassetto del comodino di sinistra, o almeno speravo. In caso contrario sarei uscita a comprarle.

Stavo rovistando tra pigiami e calzette varie e delle aspirine nemmeno l'ombra, ma dalla parte opposta del corridoio un rumore sordo mi fece trasalire di nuovo. Mi precipitai fuori. La porta del bagno era spalancata, sebbene la luce fosse spenta.

Feci per entrare, ma la paura mi bloccò sulla soglia e dovetti appoggiarmi agli stipiti per non crollare a mia volta.

Ryan era inginocchiato, la testa quasi infilata nella tazza del water, a vomitare anche l'anima.

«Ryan!» esclamai e in un attimo fui accanto a lui per sorreggergli la fronte.

A fatica rantolò 'vattene' ma non gli diedi ascolto.

«Vattene» ripeté di nuovo tossendo.

«No!» gli risposi decisa come mai ero stata prima con lui. Da sempre avevo avuto timore di mostrarmi troppo invadente nei suoi confronti, ma quella sera non mi importava. Non lo avrei lasciato solo.

Mi bagnai le mani con dell'acqua fredda e gliele poggiai sul viso e sul collo per ristorarlo un po'.

Traballante, si sedette sul pavimento e lasciò andare la testa contro il mobile del lavandino. Era esausto e pallido come uno spettro.

Gli porsi una salvietta che mi ero premurata di inumidire e lui, grazie al cielo, la accettò senza tante obiezioni.

Rimanemmo lì seduti per un quarto d'ora buono. Non volevo costringerlo a far niente. Semplicemente aspettavo.

Dopo un po', cercò alla bene e meglio di tirarsi su. Lo aiutai e lo sorressi mentre si sciacquava la bocca per mandar via il sapore acido del vomito.

«Ce la fai?» chiesi con un filo di voce.

«Fammi sdraiare».

Gli ciondolava la testa per la stanchezza e la fatica. Lo guidai verso la camera da letto, sostenendo il suo peso nemmeno io sapevo come. Un passo falso e saremmo arrivati entrambi a terra.

Raggiungere il letto fu un sollievo enorme. Lui stesso sembrò capirlo e si lasciò andare sul piumino colorato come un profugo finalmente a casa.

Gli tolsi le scarpe e lo aiutai a stendersi del tutto. Aveva chiuso gli occhi e il respiro affannato si stava piano piano regolarizzando.

Rimasi a guardarlo per un po'. Nella mia testa almeno un centinaio di domande che si affollavano le une sulle altre, alla ricerca spasmodica di una risposta valida, ma sapevo che l'unico modo per averne era chiedere.

«Ryan?» sussurrai incerta.

La sua risposta fu un semplice mugugno.

«So che non è il momento adatto, ma... perché? Voglio dire, perché ti sei ridotto così?».

Lui restò in silenzio. Credetti quasi che si fosse addormentato.

«Ne avevo bisogno» confessò infine lasciandomi spiazzata. «Avevo bisogno di un momento per me. Non ce la faccio più a vivere così, sempre costretto a fare la cosa giusta per gli altri. Per una volta, volevo essere io il padrone della mia vita».

Abbassai il capo, colpevole. Mi resi conto che era principalmente colpa mia se le sue catene cominciavano a stringere troppo e a soffocarlo. Colpa mia e del mio stupido egoismo che non mi permetteva di lasciarlo, sebbene fossi estremamente consapevole del fatto che stargli lontana era l'unico modo per renderlo davvero felice.

Ma come potevo accettare di mandarlo via? Lui era il mio tutto ed io senza di lui ero assolutamente niente. Svuotata e priva di senso come una canzone senza note. Sarei stata un vagabondo cieco, senza cuore e senza respiro, persi in chissà quale angolo di strada terrosa, impossibili da ritrovare, nascosti dietro qualche nuvola di polvere densa.

 

I won't soar

I won't climb

If you're not here I'm paralyzed

Without you

Without you

 

I can't look, I'm so blind

I lost my heart, I lost my mind

Without you

Without you

 

«So che non è abbastanza, ma per quanto possa valere, in questa casa sarai sempre e solo tu il tuo padrone».

Feci per alzarmi e lasciarlo così da solo. Non volevo imporgli ulteriormente la mia presenza.

Lui percepii le mie intenzioni e in uno scatto mi prese per il polso, impedendomi di allontanarmi.

«Dammi solo un po' di tempo, okay? Solo un altro po' di tempo». Non riuscivo a decifrare quella sua richiesta. Tempo? Per cosa? Per capire? Per decidere? Per restare?

«Tutto quello che vuoi» gli risposi.

Gli sfiorai le labbra con un bacio debole, per la prima volta davvero dolorante. Sentivo che sarei potuta scoppiare a piangere da un momento all'altro e non volevo aggravare la situazione già pessima.

Avrei fatto del male a lui ed era una possibilità da neanche prendere in considerazione.

Mi avviai verso la cucina per prendergli dell'acqua. Ne avrebbe avuto bisogno durante la notte.

«Ti amo».

Fu un sussurro. Uno spiffero di vento penetrato dalle fessure di una porta che non si chiude bene, col suono della sua voce.

Mi bloccai sulla porta, basita, col cuore fermo, impaurito di tornare a battere per non turbare quel momento col suo rumore sordo e vuoto in confronto.

La fantasia mi giocava brutti scherzi. Non potevo averlo sentito.

Lui non poteva averlo detto.

Era ubriaco. Dormiva già. Sicuramente stava sognando. Credeva di avere vicino lei.

O forse lo aveva detto davvero. Forse non me l'ero immaginato.

E' questo il bello delle sbronze, sciolgono la lingua e i pensieri.

«Anch'io» bisbigliai a mia volta e socchiusi la porta per impedire alla luce del corridoio di infastidirlo.

Poi, in cucina, lontana dalle sue orecchie, mi accasciai a terra e piansi anche le lacrime che non avevo.

 

I am lost

I am vain

I will never be the same

Without you

Without you

 

Without you

 

 

Non sto molto bene, quindi non mi dilungo.

Volevo ringraziare tutti voi che mi seguite, nonostante i ritardi e le imperfezioni di questa storia. Ho deciso che una volta conclusa la revisionerò totalmente cercando di migliorarla.

Un grosso ringraziamento va ad Oriana che mi ha aiutato con la parte sugli alcolici, visto che per quel che mi riguarda non ne so proprio niente e pure a Dajana per lo stesso motivo. Grazie ragazze.

Un appunto speciale per la mia amica Anadiomene: non scoraggiarti mai, mai, mai! Hai tutte le capacità di questo mondo. Puoi farcela! Io ti sono vicina per quel che vale :)

Vi do appuntamento al prossimo capitolo, il penultimo. Mi metterò a lavoro non appena rimessa. Non dimenticatevi di me!

Serenity

 

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Capitolo 16
*** #11. California king bed ***


Dawning bitch

 

 

# 11

California King Bed
“Il valore di un sentimento è la somma dei sacrifici che si è disposti a fare per esso”.
Galsworthy

Alla fine mi ero addormentata sul divano. Esausta, mi ero accasciata lì, con un braccio sulla bocca per soffocare i singhiozzi. Preferivo non rischiare anche se dubitavo che Ryan avrebbe sentito qualcosa. Così come io non avevo sentito lui alzarsi, prendermi in braccio e portarmi a letto. La sensazione delle dita che scivolavano sulla mia guancia e delle labbra che si posavano sulla mia fronte dovevo essermela sognata, non riuscivo a spiegarlo in altro modo. Ma era stato stupendo e mi bastava così.
Invece aprendo gli occhi, me lo ero ritrovato davanti, sdraiato su un fianco che mi fissava preoccupato. Per la sorpresa sobbalzai.
«Sono così brutto?» chiese, la voce resa roca dal lungo silenzio.
«Mai avuta visione più splendida di questa». La sbornia gli aveva in qualche modo illuminato gli occhi, già meravigliosi, e colorato le guance di un rosa appena accennato che, insieme alla sonnolenza, gli dava un'aria un po' svampita, ma irresistibile.
«E allora cos'è quella faccia?» disse avvicinandosi sino a sfiorarmi il naso col suo. Chiusi gli occhi per godermi di più quel momento. Doveva aver già fatto la doccia. Il suo alito sapeva di menta ed era più lucido di quanto io fossi mai stata dopo una serata come la sua. E soprattutto era nel mio letto, alle otto del mattino e sembrava non aver la minima intenzione di andarsene.
«Non mi aspettavo di trovarti qui» confessai.
Ryan corrucciò la fronte tanto che le sue sopracciglia arrivarono quasi a toccarsi. Puntai l'indice proprio sull'attaccatura del naso e con dei movimenti circolari, sciolsi la ruga che si era formata.
«Ne sono contenta».
Sorrise insieme a me. Un sorriso così dolce che mi si dilaniò il cuore. Quell'amore era così grande che riempiva ogni millimetro del mio essere. Mi scorreva nei capelli, si irradiava nelle unghie, mi riempiva le vene. Mi chiedevo come avessi fatto prima a vivere senza. Forse non vivevo. Vegetavo. Ecco, sì, vegetavo e finalmente mi ero risvegliata. Ogni giorno, ogni minuto passato prima di conoscere Ryan era insulso, assolutamente privo di qualsivoglia senso.
Mi stiracchiai e le ossa del mio collo scrocchiarono sinistramente, neanche fossero quelle di una novantenne.
«Mmm... Massaggino?». Scoppiammo a ridere entrambi ed ancora una volta, ebbi modo di ammirarlo in tutta la sua bellezza. Ormai non facevo altro. Mi rendevo conto che a qualcuno che avesse visto la scena da fuori, sarei potuta sembrare noiosa, monotona, allucinata forse, ma non me ne importava niente. Solo un pazzo non avrebbe passato la sua vita a guardare Ryan.
«Hai fatto la doccia e hai rimesso i vestiti di ieri?» ma più che una domanda la mia era una constatazione.
«Non avevo altro e non volevo andare a casa a cambiarmi».
Non risposi. Ogni volta la paura di fraintendere le sue parole era troppa. In una piccolissima frase poteva starci tutto il mio mondo e una sillaba poteva distruggerlo, accartocciarlo per sempre.
«A cosa stai pensando?» gli chiesi dopo un po'. L'ultima volta che gli avevo visto quell'espressione in faccia era stato per il mio compleanno ed il risultato era stato il meraviglioso braccialetto che anche quella mattina mi tintinnava al polso.
«Che mi serve un cassetto» se ne uscì ed io, come un gatto, rizzai le orecchie. «Che ne pensi?».
Mi tirai su, facendo perno sul gomito e mi poggiai il palmo della mano sul collo per sorreggermi. Finsi di pensarci un attimo, poi modulando l'entusiasmo nella voce risposi.
«Mi pare un'ottima idea».
Trascorremmo il resto della mattinata sistemando la casa. Svuotammo un paio di cassetti, uno grande nel ripiano inferiore dell'armadio e uno più piccolo, per la biancheria, nel mobiletto basso sotto lo specchio. Gli liberai anche uno scaffale in bagno. Ad ogni gesto, finalmente quella casa diventava più sua, più nostra.
Ridevamo come degli scemi, mentre, abbracciati, andavamo da una stanza all'altra, inciampando e tenendoci l'una a l'altra. Sembravamo una coppia di sposini in perlustrazione, facendo progetti meravigliosi. Era tutto così bello, così vero. Per quasi tre ore non era esistito più niente. Nessuna ragazza, nessuna amante, nessuna scelta. E per la prima volta, non c'era neanche la paura che tutto quello potesse finire. C'era pace.
Solo lui ed io. Solo noi.
Cominciavo a pensare che forse quel 'Ti amo' sfuggitogli la notte prima era sincero...
Alla fine del quarto giro, Ryan si sedette sul divano in cucina. Mi mise le mani sui fianchi e mi trascinò sulle sue ginocchia. Era una cosa che adoravo. In men che non si dica, tornavo bambina e mi sentivo protetta. Niente poteva più farmi del male in quel modo.
«Programmi per oggi?» esordì, giocando con i capelli che mi ricoprivano la schiena. Non li avevo così lunghi da anni, ma a lui piacevano e non li avrei tagliati neanche se mi avessero pagata a peso d'oro.
«Ho una lezione nel pomeriggio, per il resto sono tutta tua».
Un sorriso birichino comparve sul viso di Ryan. Mi posò un bacio sulla guancia, poi scese, giù fino al collo, sfiorandomi la pelle col naso. Chiusi gli occhi automaticamente, mentre le sue dita scivolando, mi fecero inarcare la schiena.
«C'è il pericolo di incontrare il tizio con gli occhi di vetro?».
Spalancai gli occhi, confusa. Che stava dicendo? Che tizio?
Lo guardai in modo talmente sconcertato che pure lui si rese conto che non avevo capito.
«Il tuo collega antipatico» mi aiutò.
Ebbi un'illuminazione.
«Josh?» chiesi ancora non del tutto convinta. Ryan annuì in risposta, lasciandomi più basita di quanto già non fossi. Josh... Mi ero pure dimenticata della sua esistenza e lui ci pensava ancora.
«Può darsi» dissi con un'alzata di spalle. «Ma anche se fosse ho un metodo infallibile: mi giro dall'altra parte e faccio finta di non vederlo».
Ryan scoppiò a ridere ed io ne approfittai per baciarlo. Non lo facevo mai. Di solito avevo sempre paura di sembrare troppo presuntuosa anche in quello, ma quella mattina c'era qualcosa di diverso. Lo sentivo più mio, come se adesso niente e nessuno avrebbe più potuto portarmelo via.
«Facciamo allora che, mentre tu sei all'università, io torno a casa a prendere qualcosa per riempire quei cassetti» propose indicando col pollice al di là del corridoio.
«E poi quando torni?» chiesi allarmata. Non volevo stargli lontana fino all'indomani, non avrei resistito così tanto.
Come sempre, Ryan si accorse della vena isterica nella mia voce. Mi regalò una carezza, con la quale mi allontanò i capelli dall'orecchio e si avvicinò per sussurrare qualcosa.
«Quando avrai finito, mi troverai qui».
Ero ufficialmente la persona più felice in tutto l'universo conosciuto e non.

Salutai Ryan con un bacio e la netta sensazione di lasciare buona parte di me in quella casa. Sarei stata lontana solo due ore, ma mi somigliavano tanto all'eternità.
Dalla sera prima c'era qualcosa di strano. Mi pungolava il cuore, come una sorta di allarme che mi avvertiva di stare in guardia. Da cosa però non lo sapevo.
Varcai la soglia dell'aula talmente sovrappensiero da inciampare nel primo gradino e suscitare i risolini divertiti di alcuni colleghi seduti lì davanti. Feci finta di nulla ed andai a sedermi al mio solito posto nella zona centrale. Tirai fuori dalla borsa penna e quaderno e mi misi a scarabocchiare come facevo di consueto. C'erano più ghirigori che appunti tra quelle pagine, studiarle sarebbe stata una vera sfida contro le distrazioni.
Avvertii un colpo sulla spalla mentre coloravo l'ennesimo fiore. I cuori avrebbero rivelato troppo. Dovevo trattenermi pure in quello. Niente nomi o romanticherie che potessero smascherarci.
Mi voltai e trovai Paula e Marcela sporte in avanti, una a destra, l'altra a sinistra. Paula aveva cambiato taglio di capelli dall'ultima volta che ci eravamo viste. Aveva un caschetto castano che le lasciava scoperto il collo, mentre Marcela era sempre la stessa. Capelli biondo cenere lunghi sino alle spalle e occhiali sul naso.
«Che fine hai fatto? Ti sei persa!» esclamò Paula appoggiando il mento sul palmo della mano.
«Ho lavorato» mentii spudoratamente. Ero consapevole che il mio alibi aveva più buchi di un colabrodo. Strawberry sapeva che ero occupata con l'università. I miei amici che a tenermi impegnata era il lavoro. Dovevo solo sperare che non si incontrassero mai.
«Guarda, c'è Josh».
Paula diede una gomitata a Marcela e le indicò la porta. L'altra seguì lo sguardo dell'amica e si drizzò sulle spalle non appena incrociò Josh. La sentii distintamente sospirare mentre si sistemava gli occhiali e si lisciava una ciocca di capelli dietro l'orecchio.
Presi la palla al balzo.
«Mar, se ti piace così tanto, perché non gli chiedi di uscire?» buttai lì, l'innocenza ed il disinteresse incarnati.
Paula soffocò una risata mentre l'altra diventava rossa come un pomodoro.
«Gli piace già un'altra» sospirò di nuovo.
Stupido Josh.
«Che ne sai? Magari gli piaci di più tu» insistetti. Mi sentii un mostro per il modo in cui la stavo sfruttando, ma se mi avesse liberata da Josh, l'avrei adorata per il resto dei miei giorni.
Quasi si fosse sentito chiamare, Josh si mosse verso di noi. Imboccò la fila dov'ero seduta io e mosse i primi passi. Lo guardai tanto storto che pure un idiota si sarebbe accorto che se si fosse avvicinato, lo avrei picchiato lì di fronte a tutti. Ci ripensò infatti, tornò indietro e si fece strada fino a Marcela, per poi sedersi vicino a lei, con suo grande imbarazzo.
Alzai le sopracciglia come per dirle 'visto?' e dedicai la mia attenzione al professore appena arrivato. Questo spense le luci e fece partire un video. Mi lasciai scivolare sul seggiolino ed incrociai le braccia. Alla faccia della lezione importante. Se avessi saputo, me ne sarei benissimo rimasta a casa.
Restai per due ore in quella posizione, muovendomi ogni tanto per evitare che mi si addormentasse il sedere. Sentivo lo sguardo di Josh trapanarmi la schiena. Mi ero voltata un paio di volte e lo avevo trovato intento a fissarmi con un'intensità che mi aveva messo pure paura. Perché doveva fare così?
Mi strinsi ancora di più nelle spalle. Alla fine del filmato, presi le mie cose e in fretta e furia lasciai l'aula. Mi precipitai in cortile per prendere un po' d'aria, ma neanche a dirlo, un attimo dopo, eccolo lì, che veniva verso di me, serio, serissimo mentre si guardava intorno.
«Ciao» salutò quando fu a pochi centimetri di distanza.
«Cosa vuoi?» partii subito in quarta, infastidita per quell'ennesima intrusione. Sarei già dovuta essere sulla via del ritorno, più vicina a Ryan, non a lui.
«Come stai?». La sua voce pareva venire dall'oltretomba tanto era cupa.
«Bene» risposi con tono di sfida, ma per lui non era abbastanza.
«Dove sei stata? Sei sparita».
«Ho lavorato».
Parlavamo entrambi a denti stretti, tutti e due in procinto di perdere la calma.
«Non è vero».
Lo fissai sbalordita, in attesa di una spiegazione che non tardò ad arrivare.
«Sono stato al negozio e non ti ho vista».
Rimasi impietrita. Era stato al negozio di mia cugina? Mi seguiva?
«Josh, lo stalking è un reato punito dalla legge» gli ricordai, ma di quel passo a finire in manette sarei stata io. Tentato omicidio, niente di meno.
«Non sono uno stalker. Sono solo preoccupato per te» si difese lui.
«E, di grazia, per quale motivo dovresti essere preoccupato per me?» chiesi spazientita allargando le braccia. Avevo pure alzato il tono della voce, ora colma del nervosismo che non volevo più nascondere.
«Lo sai» sussurrò lui.
«E tu sai che ti sbagli. Lasciami in pace, Josh».
Feci per andarmene, ma lui mi trattenne per il braccio come aveva fatto al centro commerciale.
«Jude, se vuoi fingere che non stia accadendo niente, okay. Fingerò insieme a te. Ma prima o poi questo gioco finirà. Ti farai male e non voglio che succeda».
Rimasi impietrita per un attimo. Uno solo. Un istante di più e gli avrei confermato che aveva ragione. Mi sarei fatta torturare piuttosto. Nessuno doveva sapere, nessuno.
«Josh, te lo ripeto per l'ennesima volta: ti stai immaginando tutto. Sarai tu mettermi nei guai con questa storia. Per favore, smettila».
Josh sospirò come un padre fa con una bambina testarda che vuole per forza andare sullo scivolo sapendo già che cadrà.
Ci guardammo a lungo, uno più deciso dell'altra a non voler mollare. Eravamo irremovibili ognuno nella sua posizione.
«Devo andare». Misi fine a quella scena da western spazzatura e girai i tacchi.
«Potrai sempre contare su di me».
Lo disse piano, ma le mie orecchie afferrarono quella frase al primo colpo. Non mi voltai come invece avrei dovuto. Proseguii per la mia strada, stringendo le dita attorno al manico della borsa.
Ultimamente i sussurri mi fracassavano i timpani.
 
“Si può stare contemporaneamente con due persone? Sì se non si ama abbastanza nessuna delle due”.
Antonio Curnetta


Girovagavo per casa in attesa che tornasse Jude. Mi sentivo estremamente fiero di me mentre svuotavo il borsone che avevo riempito di vestiti e cianfrusaglie varie. Immaginavo la sua faccia quando avrebbe visto i cassetti con le mie cose, il sorriso che si sarebbe aperto sul suo volto, la luce che le avrebbe illuminato gli occhi.
Jude riusciva ad amarmi anche solo sfiorandomi con le dita. Le bastava un'occhiata per farmi sentire speciale, una cosa che non avevo mai provato prima.
Io invece non ero nemmeno capace di dirle a chiare lettere quanto tenevo a lei. Ero un codardo, ma lei mi amava. Ed io avevo scelto. Finalmente lo avevo fatto.
Ricordavo ben poco di come si fosse conclusa la serata precedente. C'era forte il gusto del vino, il calore che mi dava scendendo fino allo stomaco vuoto. E poi c'era Jude. Preoccupata, spaventata, premurosa nelle sue carezze, nei suoi sguardi terrorizzati. E poi c'era un minuscolo particolare. Una sillaba che riecheggiava in tutto quel caos provocato dalla sbornia. Un 'NO' secco che mi aveva lasciato stupefatto. Jude non mi aveva mai detto no e in quel momento, sentirglielo dire, capire perché era arrivata a dirlo, me l'aveva fatta amare ancora di più e mi aveva reso più sicuro della mia decisione di quanto già non fossi.
Era lei. Lei e basta.
Sentii la chiave girare nella toppa della porta d'ingresso e le andai incontro con un sorrisino soddisfatto. A braccia conserte, mi poggiai allo stipite dell'arco che collegava la cucina al corridoio.
Varcò la soglia a testa bassa, avendo cura di strofinare le scarpe sullo zerbino. Quando la alzò e i suoi occhi incrociarono i miei, ci lessi dentro tutta la sorpresa che contenevano. Come avevo previsto, le sue labbra si curvarono in un sorriso e le guance si colorarono di quel rosa che adoravo.
Lasciò cadere la borsa ai suoi piedi e mi venne incontro per poi allacciare le sue braccia attorno al mio collo. Non ci misi tanto a reagire. Le circondai i fianchi e la baciai. Sentii le sue dita scivolarmi tra i capelli e il suo respiro inciampare più di una volta. Ogni boccata d'aria diventava più lunga e profonda mentre le mie mani scorrevano sulla sua schiena, lentamente. Mi strinse le spalle e i baci si fecero più forti e audaci. Le morsi le labbra prima di scivolare sul suo collo, incontrare la catenina d'argento che non si toglieva mai, baciare pure quella, che era parte di lei ed infine prenderla in braccio. Ci bastò uno sguardo, complici pure in quello, e pochi minuti dopo combattevamo contro zip e bottoni, impazienti di ritrovarci insieme.
Assaporai la sua pelle, ascoltai i suoi gemiti, compresi i suoi sforzi di piccola Atena nel cercare di farsi Venere per essere a quella altezza a cui dovevo essere io invece ad arrivare.
Strinsi le dita attorno alla sua coscia ed automaticamente le sue afferrarono i miei capelli, per poi scivolare giù, sul collo, le spalle, la schiena. Le sue unghie lasciavano timidi segni, lì dove si azzardavano a passare, mai troppo forti, perché anche un graffio sarebbe potuto essere compromettente. Nessun segno sulla pelle però sarebbe mai stato indelebile come le sensazioni che mi scuotevano corpo e mente. I suoi sospiri arrivavano fino ai miei polmoni. La sua lingua, adorabilmente audace, che percorreva l'incavo della gola fino a farmi sentire vulnerabile come forse lo ero stato solo nel ventre di mia madre. I suoi seni, dai quali suggere tutto quell'amore di cui nemmeno conoscevo l'esistenza ed infine lei, in tutta la sua splendida pienezza. Lei che mi accoglieva, che si adattava a me, che stravolgeva gli occhi ed inarcava la schiena quando osavo un po' di più. Lei che si muoveva insieme a me, in un ritmo così facile da trovare, da sembrare l'ennesimo manifesto della nostra indiscussa appartenenza l'uno all'altra.
E poi i suoi 'ti amo', sussurrati timidamente, quasi avesse paura che li sentissi e per punizione decidessi di andarmene via.
Amavo i suoi 'ti amo' e se avessi dovuto pagare per sentirli, avrei venduto pure l'anima pur di permettermeli. Io che 'ti amo' a lei non avevo il coraggio di dirlo.
Per ora...
“Chest to chest, nose to nose
 Palm to palm, we were always just that close
 Wrist to wrist, toe to toe
Lips that felt just like the inside of a rose”.

Se le fiabe esistono, noi ne stavamo vivendo una. Di quelle stupende, senza draghi o streghe cattive, pronte con i loro incantesimi a turbare la magica quiete per cui il principe e la principessa avevano tanto lottato, mano nella mano.
Era bellissimo svegliarsi al mattino e trovarlo al mio fianco, le sue dita intrecciate alle mie, i capelli arruffati e gli occhi pieni di sonno e meraviglia, che si illuminavano di conseguenza a quel sorriso che era più bello di qualsiasi buongiorno.
Doccia e colazione, degna delle migliori pubblicità dei biscotti e poi ognuno al suo lavoro, sicuri di ritrovarsi a sera, di nuovo insieme. Il suo accappatoio riscaldato sul termosifone, l'odore di bagnoschiuma maschile che riempiva la casa, i giochi con l'acqua mentre lavavo i piatti che poi restavano a mollo nel lavandino, mentre noi, tutti zuppi, finivamo per fare l'amore dove ci capitava prima, perché non c'era tempo da perdere per stare insieme. Un posto valeva l'altro, ciò che contava eravamo noi.
Così passavano i nostri giorni. L'anno nuovo era arrivato da un pezzo e mentre lei brindava sotto le luci caleidoscopiche di chissà quale discoteca con i suoi colleghi di lavoro, noi avevamo contato i secondi guardandoci negli occhi e non so né come, né perché, ma in quegli istanti, avrei giurato, che in ogni battito di ciglia che tratteneva, era nascosta una parola, un'emozione che solo io potevo leggere e ascoltare.
Lui mi amava, lo sapevo. Lo capivo dal modo in cui mi accarezzava le guance o mi pettinava i capelli con le dita o puliva le macchie di vernice dal mio naso quando, chiusi nel suo studio, con le serrande aperte giusto quel pochino che serviva a respirare, imbiancavamo alla meno peggio le pareti sporche.
Stavamo dando la seconda mano di pittura alla saletta d'attesa. Ryan, con il rullo intinto nel bianco, passava e ripassava sul soffitto. Ogni tanto qualche gocciolina di vernice cadeva e si infrangeva sugli scatoloni che avevamo appiattito e poggiato sul pavimento per evitare che le mattonelle azzurrine si sporcassero.
«Posso chiederti una cosa?».
Quel giorno era pensieroso. Me ne ero accorta ma non gli avevo detto niente per non appesantirlo con le mie paranoie. Me ne avrebbe parlato se e quando avrebbe voluto lui e forse c'eravamo.
«Certo».
«Se si venisse a sapere di tutto questo...» azzardò senza specificare nulla. Gli lanciai un'occhiata veloce. Era di spalle, apparentemente concentrato sul suo lavoro. Al mio silenzio aggiunse un'altra sillaba, anche questa lasciata in sospeso. «Tu...?».
«Era a questo che pensavi?».
Mugugnò in risposta. Quando c'erano argomenti importanti di cui parlare era sempre di poche, pochissime parole. Quella dei poemi ero io.
«Non dirò mai niente, Ry. Tu ed io non ci siamo mai conosciuti».
«Okay» sussurrò ancora voltato dalla parte opposta rispetto alla mia.
Parlare di spalle è sempre stato più facile, per tutti, senza esclusioni. Guardarsi negli occhi è da coraggiosi, da impavidi e questo mondo ormai vive di codardia. Noi ne eravamo il primo esempio.
«Perché hai pensato ad una cosa del genere?».
Avevo smesso di pitturare ed avevo abbassato le braccia lungo le gambe, in attesa di una sua risposta.
«Niente, davvero».
Ma stava mentendo, ne ero sicura. Rimasi immobile, indecisa se insistere o lasciar correre, ancora, come avevo sempre fatto, pur di non affrettare la nostra fine. In silenzio, lo osservai passare il rullo sul soffitto che diventava più bianco ad ogni movimento.
La nostra storia era un malato terminale. Era nata così, appesa ad un filo di seta. Bellissimo ma pur sempre fragile e da lì a poco si sarebbe spezzato, lo sentivo.
Lui se ne accorse. Poggiò lo strumento nella vaschetta col colore e mi raggiunse. Non disse nulla. Mi prese il viso fra le mani e mi baciò, con un'intensità tale da farmi traballare.
«Andrà tutto bene» mormorò ad un soffio dalle mie labbra ed una bellissima sensazione si insinuò sotto la mia pelle. Percorse ogni millimetro del mio corpo, si impossessò delle mie terminazioni nervose e si installò nello stomaco. Lì, dove di solito c'erano i crampi della preoccupazione, arrivò la felicità e la certezza che era vero, che le mie paure non avevano senso e lui aveva ragione.
Sarebbe andato tutto bene, perché era così che dovevano andare le cose.
Noi avremmo vinto su tutto, pure su noi stessi.
“So how come when I reach out my finger
 It feels like more than distance between us?
In this California king bed
We're ten thousand miles apart
 I've been California wishing on these stars
For your heart on me, my California king”.

Bastava davvero poco per far spaventare Jude, anche una domanda. Io non mi ero rivolto a lei con l'intenzione di terrorizzarla. Volevo solo sapere, avere l'ennesima prova che potevo fidarmi di lei e lei, del tutto innocentemente me l'aveva fornita senza tante preghiere.
Non ne avrebbe mai fatto parola con nessuno. Cosa potevo volere di più? Un pizzico di coraggio.
Un pizzico di coraggio e poi si sarebbe sistemato tutto. Avevo deciso ormai. Lo avevo pure detto a Dave. Qualche giorno dopo la domanda a Jude, io e lui ci eravamo dati appuntamento per pranzare insieme. Gli era bastata un'occhiata per capire che c'erano novità ed aveva subito tirato ad indovinare.
«Nessuna delle due è incinta, sei troppo contento. Che è successo, amico?».
Lo avevo guardato, orgoglioso di me come mai ero stato prima, la testa ben ritta, nessun peso sulle spalle.
«Ho deciso» e dopo un attimo di pausa gli avevo rivelato tutto. «Io resto con Jude».
Le pupille di Dave si erano allargate a dismisura. Si era sporto verso di me e mi aveva piantato il palmo aperto davanti alla faccia con un sorriso degno di quello dello Stregatto.
«Grande amico!» aveva esultato. «E Jude lo sa?».
Avevo scosso la testa. «Voglio che sia speciale».
«E cosa stai aspettando?».
«Solo che lei torni. Voglio parlarle di presenza, almeno questo glielo devo».
«Ah, va beh». L'entusiasmo di Dave si era smorzato in men che non si dica. Lo avevo guardato, scettico e desideroso di spiegazioni.
«Non ti incazzare, eh, ma a queste condizioni non lo farai mai. Ti conosco troppo bene».
«Lo farò» avevo insistito, sicuro di me come mai prima d'allora.
Dave allora mi aveva rivolto lo sguardo più serio che gli avessi mai visto in faccia da quando lo conoscevo. Non c'era remissione di peccato.
«Lo spero. Sei felice con Jude, non perdere questa occasione».
E non avevo proprio intenzione di perderla.
Le giornate però passavano senza che ci fossero tutti quei cambiamenti che mi aspettavo e che desideravo arrivassero il prima possibile.
Era impressionante come stavolta attendessi con una smania febbrile la sua telefonata in cui mi diceva che stava per tornare.
Un mese dopo la mia dichiarazione ufficiale di intenti, finalmente la chiamata arrivò. Una settimana. Un'altra settimana e tutto sarebbe definitivamente cambiato. Io e Jude saremmo stati felici insieme. Lei mi avrebbe amato ed io non l'avrei più ferita con il mio doppio gioco.
Avvertii Jude dell'imminente ritorno. La rassicurai che la separazione stavolta non sarebbe stata né duratura, né drastica come la volta passata. C'era solo da avere un po' di pazienza e per questo, lei poteva benissimo essere incoronata santa. Anche per questo ero sicuro che la mia scelta era giusta.
Andai a prenderla in aeroporto come sempre, per non destare sospetti. Come al solito, appena mi vide mi gettò le braccia al collo, prorompente come una tempesta. Mi baciò le labbra e stetti ben attento a non farmi inebriare dal sapore di quel lucidalabbra che aveva accompagnato ogni contatto della nostra relazione. Niente ricordi, niente nostalgia, niente rimpianti. Era finita, in fondo già da un pezzo.
L'accompagnai a casa. Era stanca a causa del viaggio. L'indomani le avrei parlato.
Ma passò un giorno, ne passarono due, tre, poi quattro. Ci vedevamo poco, lei impegnata in chissà quale progetto di cui mi aveva sicuramente parlato ma che altrettanto sicuramente non avevo ascoltato ed io con la testa altrove, pronto a scappare e rifugiarmi da Jude appena possibile.
La prima settimana volò senza che neanche ce ne accorgessimo. Noi stavamo ancora insieme e la mia storia con Jude attendeva dietro l'angolo che la smettessi di fare il codardo.
La notte avevo gli incubi. Sognavo Dave scuotere la testa deluso, esclamando il suo micidiale “te l'avevo detto” e vedevo Jude, seduta a terra, con le ginocchia strette al petto, lo sguardo gentile, paziente, a consolarmi. Pareva dire “puoi farcela. Credo in te”, ma malamente nascosti dall'ombra apparivano gli occhi di vetro del suo collega, pronto ad avventarsi su di lei, che prima o poi, se non mi fossi deciso, avrebbe ceduto, nonostante tutto, nonostante il suo amore e questo non doveva succedere. Jude era mia! Ed io dovevo rompere quella stupida relazione senza amore e senza senso.
"Eye to eye, cheek to cheek
Side by side, you were sleeping next to me
Arm in arm, dusk to dawn with the curtains drawn
 And a little last night on these sheets
So how come when I reach out my fingers
 It seems like more than distance between us?
In this California king bed
 We're ten thousand miles apart
 I've been California wishing on these stars
For your heart on me, my California king”

Volenti o nolenti, il tempo passa. I giorni, i mesi si susseguono senza fine, tra una carezza, un abbraccio, la pazienza che piano piano si arrotola attorno alle dita come un nastro senza colore che stringe sempre più, fino a bloccare la circolazione del sangue. Le unghie diventano viola e per uno strano scherzo fisiologico, comincia pure a mancarti il respiro. Senti di essere lì lì per crollare, però resisti.
Un'altra ora, un altro minuto, ancora un secondo. Che sarà mai?
Così era giunto marzo. Un altro mese era passato. Ancora nascosti, ma eravamo insieme. Mi trascinavo per i giorni, sempre più stanca di quella situazione che iniziava a pesare più che mai. Qualunque mio tentativo di ribellione, però, era assolutamente inutile. Forte e decisa davanti allo specchio, non appena mi ritrovavo Ryan davanti, l'unica cosa che sapessi fare era gettarmi fra le sue braccia ed ascoltare il suo cuore. Lui mi accoglieva benevolo, incosciente di quello che mi si agitava dentro, della mia voglia di urlare quanto fossi esausta, che non ce la facevo più. Lui mi stringeva, mi cullava e poi facevamo l'amore, ogni volta come se fosse l'ultima, celando quella disperazione che ormai era diventata il retrogusto di ogni nostro bacio.
C'eravamo, ma eravamo fantasmi. Ci sentivo naufragare verso qualcosa di sconosciuto, probabilmente la fine, non riuscivo a definire in altra maniera quella specie di foschia che mi annebbiava i pensieri. Il futuro cos'era? Com'era? Non ne avevo idea.
Lui era tranquillo. Mi sorrideva, mi carezzava le guance e baciava i miei capelli. Per lui era tutto chiaro. Io mi sentivo naufragare ed arrancavo verso un'ancora che si sporgeva verso di me, ma non era abbastanza lunga perché la raggiungessi. Le mie dita erano sempre ad un soffio dall'afferrarla, ma appena ne sfioravano la superficie umida e fredda, ecco che scivolavano ed io tornavo in balia delle onde.
"Just when I felt like giving up on us
You turned around and gave me one last touch
 That made everything feel better
 And even then my eyes got wetter
So confused wanna ask you if you love me
 But I don't wanna seem so weak
Maybe I've been California dreaming”.

Quella sera avevo preparato tutto. Una bella cenetta, la casa immacolata, le lenzuola fresche. Nessun motivo particolare se non quello di vederlo e poter stare qualche ora con lui.
“Mi libero e arrivo”. Lessi l'SMS con un sorriso e poggiai il cellulare sul comodino della camera da letto per tornare in cucina a sistemare gli ultimi dettagli. Lei era tornata da una settimana e se l'era ripreso, sebbene Ryan facesse di tutto per essere il più presente possibile e non farmi pesare la sua vita normale, ordinaria, giusta.
Scacciai i cattivi pensieri dalla testa ed accesi la televisione per farmi un po' di compagnia. Trovai un film visto e rivisto e mi dissi che per ammazzare il tempo sarebbe andato bene, tanto non sarei arrivata neanche a metà. Invece due ore dopo vidi scorrere i titoli di coda. Guardai l'orologio, incredula. Che fine aveva fatto? Andai in camera a controllare il cellulare. Niente. Nessun messaggio, né telefonate. Che fosse ancora con lei? Sperai con tutto il cuore di no, sedendomi sul materasso. Ogni volta che lo sapevo con lei mi sentivo male. Lo stomaco si attorcigliava, faticavo a respirare e mi tremavano le mani mentre la gola si chiudeva per trattenere i singhiozzi. Quella stronza, quella strega, quella... quella... No, la puttana ero io. Se dovevo prendermela con qualcuno, dovevo farlo con me stessa, troppo codarda per andare da Ryan e costringerlo una volta per tutte a definire quella situazione. Fino a quando non avessi preso il coraggio a quattro mani e reagito, non avevo voce in capitolo.
Attesi ancora. A mezzanotte e cinque spensi le luci e andai a dormire. Ormai non sarebbe più venuto. Mi arrotolai nelle coperte e serrai gli occhi, pregando di addormentarmi il più presto possibile. Ogni secondo passato sveglia non avrebbe fatto altro che aumentare la sofferenza per quell'ennesima delusione.
Nel sonno udii un rumore e mi svegliai. Restai sdraiata, gli occhi semichiusi mentre la porta della mia camera si apriva ed uno spiraglio di luce si insinuava dalla fessura via via più grande. Qualcuno entrò e senza esitazioni si diresse verso il letto, si tolse le scarpe e si sdraiò accanto a me.
«Jude» sussurrò piano e la sua voce mi riscaldò l'animo intirizzito dal dolore.
Rimasi di spalle ma la mia mano corse a cercare la sua. Ryan mi abbracciò e mi baciò il collo. Rabbrividii al suo contatto e anche senza guardarlo in faccia, capii che era successo qualcosa. Probabilmente avevano litigato. Per colpa mia? Mi si strinse il cuore nell'esatto momento in cui me ne resi conto e come per dare conferma a quel mio pensiero silenzioso, Ryan mi avvicinò ancora di più a sé.
“Mi dispiace. Non volevo. Non è giusto”.
Ma dalle mie labbra uscì fuori solo un “Ti amo”.
Come sempre non rispose. Nascose il viso fra i miei capelli e si addormentò. Lo imitai poco dopo, trasportata dal suo respiro regolare. Non sognai nulla, ma durante la notte, la sensazione di non poter afferrare l'ancora si fece più forte che mai.
Lo capii più tardi, svegliandomi ancora una volta sola: nella nostra fiaba, la strega cattiva ero io.
"In this California king bed
We're ten thousand miles apart
 California wishing on these stars
For your heart on me, my California king
My California king”.

Altre due sere, altre due occasioni sprecate. Lei civettava irrefrenabile. Ancora una volta non sopportavo più la sua voce, più stridula ad ogni parola. Jude mi aspettava a casa. Le avevo promesso che sarei andato da lei. Non potevo mancare.
Lei continuava a parlare, mentre nella mia testa un solo pensiero svolazzava, impaziente di uscire fuori a scatenare la tempesta.
“Adesso la lascio. Ora glielo dico. E' il momento”, ma il resto del corpo non collaborava. Le labbra non si muovevano. I polmoni si erano svuotati. La lingua non articolava nessuna parola sensata.
Presi un paio di respiri profondi. Dovevo concentrarmi. Chiusi gli occhi e schiarii la gola.
«Senti...».
Lei si voltò, sconcertata dal fatto che l'avessi interrotta. Come potevo avere qualcosa di così importante da dire da impedirle di finire il suo discorso?
«Sì?». Ma quanto era stridula la sua voce?
«Io... Io...». Lei continuava a guardare, gli occhi sgranati, circondati dalle ciglia appesantite dal mascara. Avrebbe pianto. Il trucco le sarebbe colato per le guance ed avrebbe trasformato il suo viso in una maschera orripilante.
«Tu?».
«Sono stanco. Torniamo a casa».
Non ce l'avevo fatta. Aveva ragione Dave. Non c'ero riuscito quella sera e non ci sarei riuscito mai. La lasciai a casa e corsi da Jude. I sensi di colpa mi tormentavano.
Le luci erano tutte spente. Aprii la porta cercando di ridurre il rumore al minimo. In cucina non c'era. In compenso la tavola era ancora apparecchiata per due. Le candele, con le punte sciolte, avevano un qualcosa di sinistro così com'erano rimaste, sospese in un tempo senza fine.
Percorsi il corridoio fino alla camera da letto. I passi rimbombavano a causa del silenzio. Sbirciai dentro e lei era lì, raggomitolata nelle coperte. La raggiunsi e mi coricai accanto a lei.
«Jude». Non avevo più nemmeno il diritto di chiamarla 'piccola' o con qualunque altro dolce soprannome come si fa tra innamorati. Ero un codardo, nessuna remissione di peccato.
Lei sembrò accorgersene e la strinsi più forte. Neanche il suo 'Ti amo' appena sussurrato riuscì a rasserenarmi. Non me lo meritavo. Non meritavo nemmeno lei. Era quella la verità. Ma era lì lo stesso, in qualche modo mi amava e mi avrebbe reso migliore. Solo questo pensiero mi calmò e, nascosta la faccia tra i suoi capelli, mi addormentai.
Alle prime luci dell'alba sgattaiolai via, dopo averle posato un bacio sulla fronte. Non doveva vedermi nessuno.
Arrivato in centro, mi fermai in un bar a prendere un caffè. Avevo la faccia pesta e mi sentivo uno straccio. Nell'attesa, qualcuno mi tirò una pacca sulla spalla. Voltandomi, mi trovai davanti un vecchio amico della palestra. Non lo vedevo da un pezzo. Era straordinariamente sveglio. Come diavolo faceva a quell'ora?
Si mise a parlare del più e del meno. Rispondevo a cenni, il minimo indispensabile per sembrare educato. Poi la bomba.
«Ehy, a proposito, carina la tua nuova ragazza!».
Lo guardai con l'aria più interrogativa che il sonno mi permettesse.
«Che nuova ragazza?».
«La brunetta, quella che è venuta a raccoglierti quella sera al bar».
Cazzo.
“In this California king bed
we're ten thousand miles apart”.


Chiedo scusa per il ritardo. Il prossimo capitolo sarà l'ultimo di questa seconda parte. Sto già lavorando ai prossimi. Spero di ritrovarvi tutti e di tornare prima di Natale da voi.
Un abbraccio grande a tutti!
S.

P.S. Mi sono appena accorta che hanno cambiato il programma per l'html. Di conseguenza devo discolparmi da qualunque castroneria di impaginazione troverete. Baci!

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Capitolo 17
*** #12. The one that got away ***


Dawning bitch

 

 

# 12

 

The one that got away

 

Non lo sai mai, quando ti svegli, che tipo di giornata ti aspetta. Non c'è una spia sulla testiera del letto che ti anticipi a cosa stai andando incontro. Devi alzarti, indossare le ciabatte e mettere il caffè sul fuoco, ma nemmeno ascoltando il gorgoglio dell'acqua che bolle lo capisci.

Le belle giornate non lasciano sentore di sé. Ancor meno quelle brutte.

Non te l'aspetti mai una giornata brutta, soprattutto quando sei felice. Forse allora è per questo che fa più male. Un dolore inaspettato nuoce di più di uno atteso, saputo.

Eppure anche quelli che si sa prima o poi dovranno arrivare, se ti prendono alla sprovvista ti uccidono, ti mutilano nel peggiore dei casi. Non c'è niente di peggio che andare in giro con pezzi mancanti, come degli zombie allucinati, senza meta, distrutti. Odi perdere le gambe quando sei abituato a correre. Rinunciare alle braccia quando non hai fatto che scrivere per tutta la vita. Vederti strappato il cuore proprio quando hai iniziato a capire che ce l'hai.

Dopo mesi di presentimenti, quando il giorno arrivò, non me ne resi conto. Non subito.

Il telefono che non squillava, all'inizio, non aveva portato il panico che pensavo. I messaggi senza risposta erano solo il segnale che per il momento lui non poteva, che era impegnato a lavoro, con gli amici, con lei. Non aveva importanza. Sarebbe tornato. Il display si sarebbe illuminato, la suoneria avrebbe riecheggiato tra i muri di casa e la sua voce mi avrebbe detto 'ciao' come aveva sempre fatto. La chiave avrebbe girato nella toppa e in men che non si dica mi sarei ritrovata fra le sue braccia.

Certo, sarebbe andata esattamente in questo modo. Un finale diverso per quella giornata non poteva esserci.

E invece non fu così.

Quel silenzio piano piano cominciò ad insinuarsi nella mia pelle, arrivando a lambire e a corrodere le ossa. A romperlo erano soltanto gli squilli infiniti che sfociavano nella voce meccanica dell'operatore che annunciava l'attivazione della segreteria.

Poi di colpo nemmeno più quelli. Spento.

Per giorni interi, non ebbi nessun segnale da parte sua. Era sparito, inghiottito da quel nulla che da sempre incombeva su di noi.

Dentro di me, la vocina dell'istinto, che sin dall'inizio mi aveva guidata in quella storia, si era spaccata in due. Da una parte c'era quella forte che urlava dolore per l'abbandono, ringhiava ribelle e rabbiosa ma rassegnata alla fine. Dall'altra, un sussurro debolissimo mi incitava a continuare a sperare. 'Tornerà' ripeteva piano, 'Tornerà' e seppure fosse pressoché inudibile, la sua sola presenza, mi teneva in piedi e mi permetteva di affrontare quelle giornate interminabili.

 

"Summer after high school when we first met

We make out in your Mustang to Radio head

And on my 18th birthday we got that chain tattoos

Used to steal your parents' liquor and climb to the roof

Talk about our future like we had a clue

Never plan that one day I'd be losing you”.

 

A fatica, trascorse una settimana senza che avessi sue notizie. Mi sforzavo di fingere che tutto andasse bene, ma dentro bruciavo a causa del dolore. Non poteva essere finita così. Mi meritavo almeno un 'ciao', anche un semplice 'addio'. Ero così poco importante da non essere degna nemmeno di un ultimo saluto?

No, lo sapevo che non era così. Dovevo solo aspettare e allora pregavo il tempo perché accelerasse. Imploravo i tramonti e le albe di corrersi incontro il più velocemente possibile, ma anche loro complottavano contro di me. Le ore si erano dilatate fino a sembrare mesi. Ad ogni occhiata al quadrante dell'orologio, le lancette si erano spostate così poco da sembrare ferme.

Avevo smesso di rispondere al telefono per non far trovare a Ryan la linea occupata nel caso in cui avesse chiamato. Dimenticavo di mangiare. Le mie funzioni avevano rallentato per adeguarsi allo scorrere di quei secondi anormali.

A volte mi sembrava di sentire il cellulare squillare. Allora mi fiondavo a prenderlo, ma quando il display si illuminava, compariva solo l'immagine dei due panda abbracciati che avevo come sfondo. La mia mente mi giocava pessimi scherzi. Forse anche Ryan era stato uno scherzo. Forse in realtà, lui non era mai esistito. Quei mesi bellissimi erano stati solo il frutto della mia follia, un sogno dal quale mi ero bruscamente risvegliata.

Dopotutto, dov'erano le prove? Non c'erano foto che potessero dimostrare che era tutto accaduto veramente. Nessuno a parte me e Dave era a conoscenza della mia storia con Ryan e nulla vietava che pure lui facesse parte della fantasia.

Però una cosa c'era. Il braccialetto che mi tintinnava al polso era reale. Il ricordo dei suoi baci, delle sue carezze era più vivo che mai. Non avevo fatto l'amore con una fantasia. Non era un sogno che avevo stretto tra le braccia. Le sue mani che mi pettinavano i capelli erano di carne ed ossa. Era tutto vero. Bisognava soltanto risvegliarlo.

Il problema era come fare. Ryan era già sparito una volta. Allora ero riuscita a salvare la nostra storia, ero andata a cercarlo fin nel suo studio, guidata solo da delle indicazioni approssimative. Stavolta come avrei fatto?

Potevo chiedere a Dave, ma coinvolgerlo senza destare sospetti in Vanessa mi sembrava impossibile. La mia migliore amica, anche lei inghiottita dal nulla negli ultimi mesi, avrebbe complicato tutto. Chiamare Ryan a casa e farmi trovare sotto il suo portone? Infattibile.

In quel momento mi resi conto che non sapevo dove abitava. Non glielo avevo mai chiesto e lui non me l'aveva mai detto. Ebbi una piccola illuminazione: non si fidava abbastanza di me per rivelarmi quell'informazione.

E allora che senso aveva? A lui di me non importava, era questa la realtà. Non mi voleva. Perché impuntarsi? Perché combattere?

Lui se n'era andato.

 

"I was dreaming you were my Johnny Cash

Never one, we got the other, we made a pact

Sometimes when I miss you, I put those records on, whoa

Someone said you had your tattoo removed

Saw you downtown singing the blues

It's time to face the music, I'm longer your muse”.

 

Il nono giorno uscii di casa di buon'ora per recarmi all'università. Avevo bisogno di allontanarmi un po' da quel posto. Ancora un'ora e le pareti mi sarebbero crollate addosso. Non una cattiva idea, a dirla tutta. Ormai nulla aveva più senso. Nemmeno io. Avevo perso tutto. Avevo scommesso tutta me stessa in una storia che sapevo già sarebbe finita male, ma qualunque presentimento non si sarebbe mai neanche lontanamente avvicinato alla realtà.

Un addio me lo meritavo.

Provai a studiare, nel senso che aprii il libro e mi misi a fissarne le pagine. La penna scarabocchiava cose senza senso, tanto per sprecare inchiostro e piano piano pure le lettere stampate cominciarono ad offuscarsi, fino a perdere i contorni chiari che le contraddistinguevano.

'Che senso ha? Che senso ha avuto?'. Mi ripetevo come un mantra quelle domande, impossibilitata a trovare una qualunque risposta plausibile. Per cosa avevo combattuto? Per chi mi ero fatta dilaniare il cuore e l'esistenza in quella simile maniera?

Senza accorgermene, avevo cominciato a piangere. Le lacrime si infransero su una delle pagine, macchiandola al centro ed accartocciandone un angolo. Le asciugai con il palmo, arrabbiandomi con me stessa per la mia stupida debolezza. Chiusi il libro con un colpo secco, mi alzai e me ne andai, percorrendo a grandi falcate il corridoio desolato.

Si era già fatto buio. Il suono dei passi che rimbombavano tra le pareti alte e scrostate e le ombre deformi che le luci gialle proiettavano su di essi, davano al tutto un'atmosfera sinistra. Stupidamente, mi voltai più volte per assicurarmi che dietro di me non ci fosse nessuno. Stavo già abbastanza male di mio, la paura era gentilmente pregata di farsi da parte.

Girai l'angolo ed imboccai la prima rampa di scale. Il cervello premeva perché accelerassi l'andatura, ma le gambe non ne volevano sapere. Mi trascinavo come uno zombie, giù per i gradini consumati e scivolosi. Misi il piede sull'ultimo scalino e diedi un'occhiata fuori dal portone.

La foschia di metà aprile avvolgeva gli alberi e i palazzi tutt'intorno. Sembrava quasi avesse una consistenza ben precisa, tanto pesante da scurire il pomeriggio, già diventato notte. Era umido, si stava bene in felpa, eppure io morivo dal freddo.

Qualcuno mi sfrecciò accanto e varcò il portone mastodontico per immettersi fuori. Mi voltai a guardare quel luogo spettrale che di solito mi piaceva con le sue colonnette, i sedili ricavati nei muri, il silenzio. Quella sera però, mi rendeva solo più nervosa di quanto già non fossi e ne aveva tutti i motivi.

«Jude».

La sua voce.

Pensai di essermela ancora una volta immaginata come mi succedeva col trillo del telefono, invece, girandomi di scatto, trasalii.

Dietro una delle colonne, in cima alle scale, la sua riconoscibilissima sagoma si stagliava contro le luci.

Di colpo tutto si svuotò. Non rimase più niente di quello che c'era. Fu come ritrovarsi in un'altra dimensione, a galleggiare senza alcun appiglio, di nuovo naufraghi in balìa del mare in tempesta, ma stavolta nessuno dei due porgeva la mano all'altro per salvarlo, io impietrita dal timore, lui... Lui non lo sapevo.

Non fui nemmeno capace di pronunciare il suo nome. La voce mi era morta nel petto, ancor prima che arrivasse in gola. Provai a muovere un passo verso di lui, ma con un gesto della mano, mi fece rimanere dov'ero. Il suo 'no' secco fu una pugnalata al cuore.

«Cosa è successo?».

Mi ci volle tutta la forza che avevo per pronunciare quella semplice frase. Non sapevo cos'altro dire. Il cervello mi si era inceppato. Avrei dovuto corrergli incontro e prenderlo a pugni, urlargli tutte gli insulti che conoscevo e rimproverargli la preoccupazione che mi aveva provocato in quei giorni. Avrei dovuto abbracciarlo per il sollievo, perché era lì e stava bene, non gli era successo nulla. Mi aveva annientata, ma lui stava bene...

«Mi dispiace» cominciò. Il suo viso era una smorfia indecifrabile. Non molto differente dal mio, deformato dalla certezza di quel che stava per accadere. Nemmeno questo però lo fermò dal suo intento. La stangata finale arrivò come il colpo d'ascia di un boia. «Ho sbagliato a sparire così, lo so, ma non ho avuto altra scelta. Non possiamo andare avanti così Jude. Non è giusto per lei, per te e neanche per me».

Ecco, aveva usato l'unico argomento contro cui non mi sarei mai potuta battere. Cosa era giusto per lui. Era vero, lo avevo sempre saputo. Il male peggiore, in tutta quella storia, lo aveva e lo avrebbe sofferto lui, diviso in due, costretto a mentire a tutti, per cosa? Per una come me. Una per cui non vale la pena.

Fissavo a terra, le lastre di marmo consumate, inconsapevoli testimoni di quella sceneggiata degna da film di serie B.

«Mi dispiace. E' la cosa giusta» continuò.

La cosa giusta. Certo. Ovvio. Chi poteva avere il coraggio di dargli torto? Lo era davvero. Sin dal primo istante, sapevamo entrambi che prima o poi sarebbe andata così. Lo sapevamo, era inevitabile. E il momento era arrivato. Come un proiettile sparato da un fucile con il silenziatore. A premere il grilletto, il miglior cecchino del mondo: il Destino. E proprio come un proiettile ben mirato, aveva colpito la zona giusta. L'addio mi aveva dilaniato quel che mi restava del busto, già seriamente compromesso durante i giorni di attesa.

«Non avrei dovuto metterti in questa situazione».

Ancora parole sussurrate, mentre io volevo solo mettermi ad urlare e distruggere tutto quello che mi capitava tra le mani. Non potevo infliggerli anche il dolore di vedermi crollare, quando sapevo bene che se fosse successo non sarei stata capace di rialzarmi. Così come non ero capace di guardarlo non negli occhi, ma neanche in faccia. Eppure dovevo farlo. Dovevo imprimermi nella mente l'ultima immagine del suo bellissimo viso, perché solo quella mi sarebbe rimasta da lì in poi, solo il ricordo, ogni giorno più sbiadito di quei lineamenti che avevo amato tanto, resi grotteschi dall'illuminazione notturna. Invece continuavo a fissare, inerme, il pavimento sotto i miei piedi, sicura che da un momento all'altro, una voragine si sarebbe aperta, proprio lì dove stavo io e con mio grande sollievo, mi avrebbe inghiottita, risparmiandomi tutta quella sofferenza.

«Tu... Io...» farfugliai come una stupida. Non ce la facevo. Era più forte di me. Ci aveo pensato tanto, ma non ero pronta. Non lo sarei mai stata. E allora mi comportai da vigliacca. «Buona fortuna» sussurrai ed andai via, abbandonando quel set cinematografico.

Ma se fosse stato un film, lui mi avrebbe rincorsa.

Se fosse stato un film, mi avrebbe chiamata, fermata, abbracciata. Mi avrebbe implorata, anzi no, mi avrebbe ordinato di restare, restare con lui perché noi ci amavamo e quella era la vera scelta giusta. Restare noi, contro tutto e contro tutti.

Ma un film non era ed io continuai a camminare, ogni passo che faceva male come una pugnalata a quel cuore che non avevo più. Ecco, il mio cuore sì che aveva fatto la scelta giusta. Lui era rimasto.

Automaticamente, mentre attraversavo il cortile, all'improvviso popolato di ogni sorta di gente, strinsi le braccia al petto. Magari in quel modo, avrei evitato di sbriciolarmi e per transizione, avrei impedito alle gambe di cedere e crollare a terra, come un muro abbattuto, lì in mezzo ad una strada piena di sconosciuti che ridevano, correvano, passeggiavano, litigavano, parlavano, amavano, odiavano, si accorgevano di me, solo dopo che gli ero andata a sbattere contro, si scansavano e tornavano alle loro vite, mentre la mia smetteva di avere un senso.

 

"And in another life I would be your girl

We keep all our promises, be us against the world.

And in other life I would make you stay

So I don't have to say you were the one that got away

The one that got away”.

 

Non so come, riuscii a raggiungere casa. Mi sentivo come una bomba in procinto di esplodere, eppure ritardavo con tutte le mie forze la fine del countdown. Intontita ma razionale allo stesso momento. Vagavo senza pace ed ero presente in quel mondo che piano piano si sbriciolava senza che io potessi fare niente, se non pregarlo che si sbrigasse, perché non avrei potuto sopportare un attimo in più. Restava intatto però e allora cambiavo richiesta.

'Ancora un attimo, ancora un attimo. Fatemi nascondere prima, per favore' ripetevo a me stessa, al mondo e al peso che mi gravava sulle spalle, quella sensazione di essere perseguitata, che da sempre mi portavo dietro. Sapevo a chi apparteneva quell'ombra. Al leone sempre in agguato. Al mostro che Ryan ed io avevamo risvegliato: il Destino, onnipotente ed onnipresente.

Mi sembrava di sentirlo ridere, quel bastardo mentre mi allontanavo, sghignazzava soddisfatto del suo sporco lavoro. «Te l'avevo detto» ruggiva, «ti avevo avvertita, adesso piangi e crolla. Sbriciolati. Hai voluto combattere, ma ho vinto io. Vinco sempre io!» e con i suoi artigli mi graffiava la schiena per spingermi in avanti, come a voler dire che fermarsi e morire lì sarebbe stato troppo facile. Dovevo soffrire ancora e ancora e ancora.

 

"And in another life I would be your girl

We keep all our promises, be us against the world

And in another life, I would make you stay

So I don't have to say you were the one that got away”.

 

Lo avrei fatto. Avrei sofferto fino ad annullare quel poco di me che rimaneva, senza il bisogno che lui infierisse più di quanto non avesse già fatto, perché era stato lui a controllare tutti i giochi, sin dall'inizio. Era stato lui a farci scontrare. Lui mi aveva fatto perdere il libro. Lui aveva convinto Ryan a raccoglierlo e ad aspettarmi per ridarmelo. Lui mi aveva fatto inventare la scusa della festa, lui mi aveva spinto a lasciargli il mio numero, ad invitarlo da me. Lui aveva fatto sì che Ryan accettasse, che venisse da me, che mi abbracciasse, che mi baciasse.

Lui, quel maledetto bastardo del Destino aveva mosso tutte le pedine. Mi aveva fatto innamorare per la prima volta di un uomo che non avrei mai potuto avere. Lui, lui, LUI! Era tutta colpa sua! Ed io ne avrei pagato tutte le conseguenze!

 

"All these money can't buy me a time machine, no

Can't replace you with a million rings, no

I should've told you what you meant to me, whoa'

Cause now I pay the price”.

 

 

Allora esplosi.

Come una furia, entrai in camera mia, afferrai le prime cose che mi capitarono sotto mano e le scagliai per terra. L'abat-jour, lo specchio, il mobile da toeletta, le tende, i cuscini, i vetri della portafinestra, i quadri. Non si salvò niente.

Urlando e piangendo, distrussi tutto quello che mi stava intorno. Il bicchiere dell'acqua che tenevo sul comodino si sfracellò su una parete. Il contenuto dei cassetti ed i cassetti stessi si sparsero sul pavimento, il rumore degli oggetti che divenivano cocci copriva quello del pianto. Nell'impeto, mi ferii le mani, ma in confronto a quello che già provavo, quel dolore era talmente insignificante che nemmeno lo sentii.

Caddi sulle ginocchia. Avrei potuto sfracellarmele, ma neanche di quello mi importava. Chi voleva più camminare?

I singhiozzi mi mozzavano il respiro. Mi tenevo la gola, tremando convulsamente, come in preda ad un demone. Con le unghie, mi graffiai la faccia fino a sanguinare.

Bruciavo e mi consumavo. Speravo solo che di me non restasse più nulla. Soltanto il pensiero che ci sarebbero stati dei giorni a venire mi disgustava. Non sarei sopravvissuta un secondo di più. Non volevo sopravvivere un secondo di più.

Esausta, mi trascinai sopra al letto, coperto di piume e spugna. I cuscini si erano squarciati rivelando il loro contenuto ed il piumone si era stracciato in più punti.

Ancora col petto scosso dai singulti, nascosi la testa sotto le coperte e chiusi gli occhi.

Non avevo più ragioni per respirare.

La mia storia finiva lì.

 

E si spengono le luci. Il sipario cala. Ma dietro le quinte, il dramma non ha mai fine...

 

In another life...

 

E' una brutta cosa cliccare sulla casellina 'completa'. Mi son venuti i brividi ed il magone.

Grazie a tutti quelli che hanno seguito questa avventura. AngeM, bad_girlxx, Deeeeeeeeo (ho contato le e u.u), El_, Euterpe_12, milly97, Miss Demy, mygirl, Sophisticity, Thunder_light, vallinda, WakingDream, _vannie_, Brunette_, ally99, Anadiomene, April_Elle, bimbic, Bryce 78, elisa nico, Enif, FairyLeafy, immarell4, Maya89, pinkpricess, rebeccuori, Smjley_, sometimes_strawberry, Teatime, ryanforever e a tutti gli altri che hanno recensito o letto questa storia in silenzio, a voi va tutta la mia gratitudine.

Jude tornerà presto con Rising, la terza parte di questa interminabile storia. Spero di ritrovarvi tutti e anche qualcuno di nuovo. Per tenervi aggiornati, se volete, questa è la mia pagina: https://www.facebook.com/oo00SerenityMoon00oo?ref=hl

Ancora grazie di cuore a tutti voi.

A presto, la vostra Serenity.

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