Hortus larvarum

di marguerite_murcielago
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Giappone ***
Capitolo 2: *** Inghilterra ***
Capitolo 3: *** Polonia ***
Capitolo 4: *** Egitto ***
Capitolo 5: *** Cina ***
Capitolo 6: *** Scozia ***
Capitolo 7: *** Germania ***
Capitolo 8: *** Italia ***
Capitolo 9: *** Grecia ***



Capitolo 1
*** Giappone ***


Giappone

 

(cliccami!)

 

- Hideo-san, dovreste...
- Chi c’è dietro lo shoji, Daisuke?
Il servo sospira, attraversa la stanza e fa scorrere la porta sulle guide. - Nessuno, Hideo-san.
Oltre c’è prima un ballatoio vuoto e poi un giardino su cui si riversa la luce della luna.
Hideo-san fa un sorriso furtivo. - Lasciami solo - ordina con dolcezza - e non chiudere. La luna è molto bella, stanotte. 
Daisuke gli si inchina, esce dalla camera; il rumore dei suoi passi si perde nel ventre scuro della casa. Ora, nella notte azzurrina, il vecchio ode un altro suono: un ticchettio di alti geta sul ballatoio; rimane inginocchiato sui tatami, seguendo con gli occhi il profilo di donna che si muove, lento e lieve, dietro gli schermi.
- Tsuki-to-mizu - chiama piano, per non svegliare gli altri occupanti della casa che, nonostante sia bella e piuttosto grande, non è un palazzo; le pareti sono di carta sottilissima e tutto è talmente silenzioso che ogni parola che non sia un bisbiglio riecheggerebbe come un grido. Tsuki-to-mizu, luna e acqua... pensa Hideo-san e ascolta il fruscio del canneto e il gorgoglio della cascatella, in fondo al giardino.
Ricorda la sua giovinezza.
Tsuki-to-mizu ha il viso stretto, gli zigomi levigati, le sopracciglia fini come una maschera di geisha. Hideo-san la invita ad entrare, per poterla vedere al fioco lucore del braciere nell’angolo più lontano dalla soglia.
- Venite con me, danna-sama.
- Mia cara, la notte è fredda: perché non entri a scaldarti?
Prova vergogna di se stesso: una volta il suo viso era piacente, i suoi muscoli gonfi, mentre la bella Tsuki-to-mizu ha ora davanti un povero vecchio con il petto incavato. Lei gli volta le spalle, scende dal ballatoio e muove qualche passo tra le pietre e i muschi del giardino; lui ne guarda il collo d’avorio pallido.
Le pareti della stanza, i tatami e gli alberi fruscianti svaniscono quando Tsuki-to-mizu si volge a guardarlo.
- State sognando, Hideo-san.
Poiché sa che la donna ha ragione, Hideo-san pensa di svegliarsi.

 

La luna splende sull’acqua calma.
Lui, il giovane Hideo, ha accompagnato una coppia di sposi sull’altra sponda della laguna e ora sta tornando alla sua casupola; rema stancamente, il capo che dondola a destra e a sinistra. La sua barchetta lascia dietro di sé una scia arruffata.
Vede qualcosa di bianco muoversi sulla riva.
- Buon uomo! - sente gridare - Potreste trasportarmi sull’altra sponda?
Si avvicina con la sua barchetta e scopre che quella cosa bianca è una donna; la fa salire e sedere: non è superstizioso come altri pescatori, anche le donne sono ben accette sulla sua barca. Nella testa assonnata ha la voce della sua vecchia madre: Se incontri una donna sola, di notte, non può che essere una kitsune.
Non che ci creda: questa ragazza, che indossa un kimono azzurro e grigio, ha solo smarrito la strada di casa; la osserva di sottecchi mentre guarda la luna con le palpebre abbassate. - Il mio nome - dice d’un tratto - è Tsuki-to-mizu.
- Il mio, invece, è Hideo - le risponde in fretta, arrossendo. 
Tsuki-to-mizu china il capo, come ad accogliere le sue parole, poi ricade in un silenzio solenne.
Hideo la guarda, la stanchezza che gli annebbia la mente si dirada come la nebbia mattutina: per un breve istante, quando due anitre volano via sbatacchiando le ali e Tsuki-to-mizu, guardandole, si passa sulle labbra la lingua rosea, sogna di presentarla ai suoi vecchi genitori e chiedere loro il permesso di farne la sua onorevole moglie.
- Potete lasciarmi qui, Hideo-san.
Vivrebbero in una casetta dignitosa, anche se modesta, ben diversa dalla casupola nera a cui sta tornando. La donna lo ringrazia con un basso mormorio, guardandolo appena; lui sente un profondo terrore, terrore di averla spaventata. L’ha forse guardata troppo? Il suo viso ha forse lasciato trasparire più di quanto lui stesso credesse?
Si umetta le labbra, la gola secca.
Lei si allontana tra le fronde degli alberi, seguendo un sentiero illuminato dalla luna; Hideo non riesce a distogliere lo sguardo dal suo collo molto nudo, sottile come quello di un cigno, ma ha quasi l’impressione che Tsuki-to-mizu si faccia sempre più piccola. Il suo bel kimono ondeggia come se fosse vuoto.
Più tardi, disteso sul suo futon, sogna che il profumo di sale di cui sono impregnate le assi sia quello di Tsuki-to-mizu, che si sta chinando sul suo giaciglio. Nuda.

 

Fukanuma Hideo ha sposato Asahashi Junko, la sola figlia del ricco commerciante Asahashi Iwao, ed è stato nominato suo erede. Disteso accanto alla sua giovane moglie, dopo aver compiuto il proprio dovere di uomo e marito, già per metà addormentato, sente frusciare i fusuma. Due volte. Pensa che sia il signor Asahashi che vuole spiegarli altro sugli affari, anche se è notte fonda; volta la testa sul cuscino e posa gli occhi sui fogli di carta di riso che ha dimenticato su un basso tavolino: stanno scivolando sui tatami, uno alla volta, i kanji sembrano lacrime e segni ghignanti.
La luce rossastra di un braciere dipinge sulla parete l’ombra di un animale gigantesco ma, quando Hideo abbassa lo sguardo, scopre che Tsuki-to-mizu è inginocchiata lì accanto, con un’espressione tristissima sul viso. Perché mi hai abbandonato? sembra voler dire.
- Odoma bon-giri bon-giri,bon kara sakya oran-do, bon ga hayo kurya, hayo modoru - canta a bassa voce.
L’uomo scosta il lenzuolo e le si para davanti; la sovrasta, ma la donna non sembra neppure intimorita.
- Non ti ho più visto, Tsuki-to-mizu. L’onorevole signor Asahashi mi ha concesso di sposare sua figlia Junko; come avrei potuto sposare te, se non ti ho più visto, da quella notte? - domanda, triste. L’ha solo sognata, nelle notti in cui il vento soffiava il sale fin sul suo futon e in quelle in cui la neve cadeva attraverso le finestrelle. - Ho sognato che tu fossi una donna delle nevi, ma non mi hai mai fatto visita.
- Vi ho fatto visita stanotte, perché non vi dimentichiate di me, danna-sama.
Lui le scioglie il nodo dell’obi dorato, scosta i lembi del suo kimono rosso: - È per il vostro matrimonio, danna-sama - e la bacia sul petto, mentre Tsuki-to-mizu gli fa scivolare l’hanten dalle spalle. Le prende i seni tra le mani, facendola mugolare, la fa distendere sotto di sé. Non può persuadersi ad amare la povera Junko, pur avendola sposata, così i suoi gesti prendono un’urgenza tutta nuova: le sue mani annaspano tra la stoffa, la graffia, ma lei non emette un suono.
Spingendola giù la sua pettinatura si è disfatta e ora i capelli di Tsuki-to-mizu sono sparsi sul tatami; Hideo indugia per un attimo, nel notare che in quella penombra assumono riflessi rossi come il sangue, ma non ha la forza di fermarsi.
Ha sempre pensato che giacere con una donna assomigli al salire su una collina e sia egualmente faticoso, invece, se ne rende conto solo ora, si sente una goccia in procinto di cadere nel vuoto.

 

Il suo destino è rimanere solo. Sua moglie Junko è una kitsunetsuki; la sente muoversi nella sua stanza proprio come un animale selvaggio, fuggire non appena la porta si apre e la luce del corridoio si riversa sui tatami sciupati. Non vuole che lui la tocchi.
L’hanno condotta da un sacerdote, in un tempio dedicato al dio Inari, ma non è servito a nulla. Junko sgattaiola davanti a lui per prendere la ciotola di riso e fagioli rossi che le ha lasciato, comincia a mangiarla con le dita, come una selvaggia o una bambina.
- Assicurati che si metta a letto - ordina ad una serva.
Ogni volta che la guarda, sente una tristezza infinita: non la ama, non l’ha mai amata, ma è la donna con cui ha giaciuto per anni. Ora che lui sta invecchiando e lei non gli si concede più, sa che non avrà figli, nessuna Fukanuma Megumi o Fukanuma Ichiro. La volpe che è entrata in sua moglie non la abbandonerà mai.

 

È sempre stata minuta, Junko. Così piccola e umile che a volte, per scherzare, le diceva che avrebbe dovuto chiamarsi Suzume, “passerotto”. Il suo volto è livido e composto, lo yukata indossato al rovescio per il viaggio. Hideo prova ad immaginare cosa direbbe il suo onorevole suocero, il ferreo signor Asahashi: sicuramente proverebbe una profonda vergogna nel sapere che sua figlia è morta scioccamente, cadendo attraverso un fusuma, battendo la testa sul legno.
Ordina a Daisuke di far riparare la parete e arieggiare la stanza, alle donne di pulire la casa da cima a fondo e di comprare dell’incenso per il suo altare. Si ritira nella propria camera con l’intenzione di scrivere una lettera ai suoi fornitori, ma il pennello rimane sospeso sul foglio.
Lo lascia cadere.
Lo sente rotolare sul tavolo e cadere sui tatami con un tonfo lieve; Hideo si alza: sulla soglia c’è Tsuki-to-mizu, che indossa un kimono bianco come la neve. - Vi siete dimenticato di me, danna-sama? No, non credo. Ho saputo che vostra moglie è morta.
- Era una donna buona, ma per molti anni è stata malata.
Tsuki-to-mizu non risponde: sembra impegnata a versare il tè in una tazza, in religioso silenzio. Lui non si era accorto della presenza della teiera, ma, arrossendo, non si stupisce: ha ancora il sapore del saké sulla lingua. Accetta la tazza fumante che la donna gli porge senza fiatare, lo sguardo basso.
- Chi sei tu? - chiede d’un tratto, in tono vivace.
- Cosa vi sembro? - replica Tsuki-to-mizu. Hideo la guarda meglio: dall’acconciatura lucida ed elaborata, ai fermagli d’argento e seta che la adornano, dal viso attraente all’ottima fattura del kimono, dall’obi blu notte agli zori bianchi. - Siete forse... una geisha?
La sua risata, che non ha mai udito prima d’allora, gli ricorda una cascata di perle; si nasconde la bocca dietro la mano. Ha le unghie lunghe.
- Forse. Danna-sama ne sarebbe offeso, se così fosse? - gli si avvicina così tanto che può sentire il suo fiato caldo sulla bocca. Vede la sua bocca incurvarsi in un sorriso malizioso. - Sono venuta per non andarmene mai.

 

Hideo vede la sua vita passata srotolarsi dietro di sé come un nastro scolorito. La sua giovinezza, la sua bellezza sbiadiscono nel termine “dignitosa”: sì, la sua vita è stata dignitosa. Quella di un figlio obbediente, un buon marito, un commerciante accorto. Dalla morte di Junko, che coincide con il ritorno di Tsuki-to-mizu, è certo di aver provato una gioia piena, fluida, simile ad un fiume carico di acque.
È felice che la sua vita non sia mai stata vuota.
Mentre segue Tsuki-to-mizu lungo la strada silente con il suo passo incerto e il fiato corto, ripensa ai giorni in cui lei ha vissuto con lui. Ricorda le notti in cui l’ha portata sulla laguna, quando il cielo era limpido e il clima già tiepido, e le lunghe, tristi notti nevose: la luce delle candele si stendeva fiacca sui tatami, Tsuki-to-mizu suonava lo shamisen. Cantava per lui. A volte passeggiava nel giardino imbiancato, facendo roteare un ombrellino laccato.
- Fermati, ti supplico - geme.
Tsuki-to-mizu ha ancora il viso della donna che ha conosciuto in quella notte lontana; potrebbe essere pacifico come quello di Buddha, ma c’è sempre una fiamma lontana in lei, come se avessero mescolato al bianco della sua pelle una goccia di fuoco.
- Avete scoperto tutto, Hideo-san - dice con durezza.
I suoi lineamenti si trasfigurano lentamente, si fanno appuntiti e sfuggenti. Lui pensa solo che non poteva farle sapere che lui sapeva. - È stato uno sbaglio... dovuto alla febbre... - sospira; tutte le ossa tremano.
- Non si sfugge al destino. Ora che voi sapete, danna-sama, devo abbandonarvi.
Tsuki-to-mizu allunga la mano e gli carezza la guancia, dalla tempia al mento; Hideo chiude gli occhi: non ha pianto per la morte di sua madre e di suo padre, né per quella di Junko. Piange adesso, nel sentire le labbra tenere come boccioli di Tsuki-to-mizu premere sulle proprie.
- Addio, Hideo-san.
Quando riapre gli occhi, il suo kimono è sporco e lacero. Alberi scuri e antichi protendono i loro rami sopra la sua testa. Si guarda intorno, dopo essersi asciugato gli occhi con le mani chiazzate dall’età: sa che la strada di casa è quella che va incontro alla luna, ma indugia ancora per un attimo.
Vede gli occhi luccicanti della volpe nel sottobosco, prima che lei svanisca per sempre.
Comincia a camminare, ma la strada si snoda sinuosa fino all’orizzonte, e il freddo dell’inverno gli cala nelle ossa. Casa sua è terribilmente lontana.

 

 

 

 

 

 

 

 

Note:

[sperando di non aver scritto delle oscenità]

Tsuki-to-mizu: Luna e acqua

Hideo: Splendido uomo

Daisuke: Grande aiutante

Junko: Bambino obbediente

Fukanuma: Profonda palude

Asahashi: Basso ponte 

Iwao: Uomo di pietra

Megumi: Benedizione

Ichiro: Primo figlio

La ninnananna che canta Tsuki-to-mizu è la cosiddetta “Ninnananna di Itsuki”, il cui testo potete trovare qui.

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Capitolo 2
*** Inghilterra ***


Inghilterra

 

 

Sono rimasta sveglia per notti intere, fredde e interminabili notti d’inverno. Ho sperato che ci fosse qualcosa nella mia pancia, una vita che mi sarebbe stata ben più cara dei gioielli e delle stoffe che mio marito mi ha regalato.
Non mi ci è voluto molto per comprendere che non ero incinta - e la disperazione ha preso il rosso sanguigno dei granati che indossavo il giorno del mio matrimonio.
Il sonno è tornato, ma ho sognato la Torre. Ho sognato le pareti spesse e viscide, il puzzo del Tamigi che entra dalle feritoie. Ho sognato mio marito che dorme sul pavimento e i ratti che gli mordono le dita e le caviglie. Ho sognato che la notte nella prigione - incubo nell’incubo: i due principi gridano e battono le mani di scheletro sulla pietra, i passi della Regina Anna svaniscono in lontananza. Tiene la testa sottobraccio, capelli lunghi strisciano sul pavimento.

 

- Ellen - ha del sangue rappreso intorno alle unghie, mi accarezza il viso.
Penso ai capelli della Regina Anna che spazzano la pietra fredda.
- Chi è stato? Chi è stato a farti processare?
Lui chiude gli occhi, scuote la testa. - Non ha più importanza, ormai...
Gli prendo una mano tra le mie, mi fanno male gli occhi e la testa, si gela anche sotto la pelliccia e lui indossa solo una camiciola stracciata: da vicino si vede che ha la pelle d’oca sul collo e sulle braccia, le labbra blu.
- Chi è stato? - ripeto, affondandogli le unghie nella carne.
Quando risponde, sento le labbra di un fantasma sulla bocca e respirare il mio fiato gelido, la mia vita e... ogni cosa. Stringo la mano di mio marito, che è per Dio la mano di un morto, con la nebbia del fiume che mi entra nel cuore, perché il nome che pronuncia è quello di mia sorella.
- Margery - sospira - è stata lei... era al processo, ha testimoniato anche davanti a me. Le hanno chiesto: “Lady Margery Bossomblower, siete al corrente della condotta viziosa di vostro cognato, ma sapete se anche vostra sorella è una seguace dell’eresia luterana? Per Dio, per la Regina e per questa corte, se così è, adesso siete sotto giuramento e dovete riferircelo” ma lei li ha guardati con una faccia totalmente ingenua e ha detto che neppure fra cent’anni dubiterebbe di te.
- No - rispondo con una voce che non riconosco - lei è fedele a Maria. Se sapesse che io sono una protestante come voi, avrebbe fatto il mio nome, perciò non sa nulla di me. Daniel, se ti uccidono...
È la voce del fantasma, penso. In fondo al corridoio c’è il connestabile che mi attende con uno sguardo mesto. - Daniel, un’ultima cosa, prima che vada - appoggio la bocca alle sbarre - tu hai mai visto niente di strano qui?
Lui mi sfiora le labbra con le dita sporche di sangue. - Vai a casa, Ellen, o qualcuno potrebbe decidere di chiuderti qui.
Mi stringe la mano con forza e io so, come se qualcuno me l’avesse sussurrato, che ha paura di morire e mi ama, come se fossi un’apparizione o uno spirito benigno. Non me lo dice: mi stringe la mano per un attimo lunghissimo, poi chiude gli occhi e abbassa il braccio.
- Vi ringrazio - lascio il denaro nelle mani del connestabile.
C’è una figura goffa, con un fagotto sottobraccio. È bassa, quasi una nana, e ha uno strano passo barcollante. Mi segue attraverso i corridoi stretti, sulle scale scivolose e nelle gallerie buie. Penso che potrebbe essere una guardia con l’ordine di arrestarmi e non riesco più ad andare avanti; mi fermo al limite del cerchio di luce di una lanterna.
La figura mi passa accanto, evitando la luce.
Guardo in basso, il velo di capelli neri che mi scivola sul piede come un serpente e sento una risata gorgogliante, prima che la porta davanti a me si chiuda con uno schianto.

 

Ho sognato mio marito. Era chino accanto al letto, mi vegliava. Ho allungato le mani e gli ho preso il viso per poterlo baciare. Ero fuori di me per il desiderio. Volevo che giacesse con me, ma, mentre lo coprivo di baci e carezze, ho sentito la sua testa leggera tra le braccia. Ho guardato e ne ho visto la gola recisa, gli occhi sbarrati e il sangue coagulato in bocca.

 

Nello specchio fumoso vedo me stessa, il rosso sangue dei miei capelli e il celeste dei miei occhi brillano come stelle sopra l’abito nero.
So che stanotte impazzirò: le ombre escono dai loro angoli e camminano per la stanza come se ne fossero padrone.
Daniel mi guarda. Ha una linea sanguinolenta sul collo, la camicia appiccicata alle spalle; ripenso ai capelli della Regina Anna che mi sfiorano il piede, poi al corpo di mio marito, quando lo hanno gettato nella cassa.
Il pensiero che mia sorella lo abbia denunciato perché ha sposato me anziché lui mi assilla, mi tiene sveglia la notte. Perché i tendaggi non mi cadano addosso e non mi soffochino con l’odore di vecchio e di sangue, immagino il momento in cui la farò arrestare.
- Non guardarmi così - grido alla notte; mio marito abbassa le palpebre e piange lacrime di brace.

 

È arrivata la primavera e poi l’estate: nelle notti calde nessun fantasma ha bussato alla mia porta, nessun’ombra mi ha avvinto il collo mentre indossavo la collana di granati, nessun viso caro è emerso dalla polvere.
Ho sognato di tagliare la testa a mia sorella con le mie mani. Ho sognato Maria - mai Regina, mai - che non giace con suo marito perché lo spagnolo preferisce la figlia del mugnaio. Ho sognato la mia Signora e le ho scritto, le ho chiesto di tornare al suo servizio non appena il lutto fosse finito.

 

Ho lavorato con delicatezza e dedizione infinita a questo momento. Il vino nei calici è nero, la neve si appoggia con mille dita alle finestre; vedo mia sorella - con i suoi sbiaditi occhi azzurri - stretta nel mio inganno. Non può salvarsi.
- Ellen, che cosa hai fatto? - mi chiede. Teme per me, che non riesco a nascondere la rabbia e la gioia che provo nel distruggerla. - Che cosa hai fatto tu! Ho saputo tutto, ho visto tutto. Sono stata alla Torre, ma non... come hai potuto fare questo a me? Dovevi essere la mia buona sorella, non quella di Maria. Maria ha già una sorella! - le rovescio tutto addosso, prima che le guardie vengano ad arrestarla.
Cerca di toccarmi, ma mi scosto, mi unisco alle ombre di cenere e brace. Mi dirigo verso la porta con la scusa di volere più luce - la realtà, Margery, è che nessuna accusa ti avrebbe ferito più del vedere che non voglio essere toccata da te.
Le braci nel camino si spengono e vedo Daniel fissarmi da lontano.

 

Sono rimasta sveglia per notti intere, fredde e interminabili notti d’inverno, dopo la morte di mia sorella. Sulle labbra si è presentato il sorriso di cometa che le ho rivolto quando l’ho messa davanti alla verità, a ciò che mi aveva spinto a volerla morta.
Daniel si è avvicinato al mio letto, si è retto la testa con una mano e mi ha baciato sulla fronte. Era così vicino che ho visto le macchie livide attorno alla sua bocca e la polvere di brace nelle sue palpebre.
Il suo fiato freddo mi ha fatto addormentare, ma ho sentito che diceva: - Addio.
Ho sognato la Regina Anna che porta la sua testa sottobraccio - con i capelli che spazzano il pavimento - e i passi di mio marito che la seguono e non arrivano mai.

 

 

 

 

 

 

 

 

Note:

L’immagine del capitolo mi piace tantissimo, anche se una bambola moderna poco c’azzecca con il periodo Tudor. L’ho trovata qui.

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Capitolo 3
*** Polonia ***


Polonia

 

(cliccami!)

 

Il mio nome è Ryszard Ostrowski, figlio di Nadzieja Ostrowska e padre ignoto. Queste sono le mie memorie - ti prego di non gettarle senza leggere - non limitarti a scorgere un mio inquieto segreto: la pena che ho provato nel rivivere i miei ricordi mi ha lasciato prostrato, il mio spirito è colpito a morte. Il mio tempo è ormai scaduto e i nascondigli preclusi, da qui alla fine della Terra, ma spero che questa sofferenza non sia stata vana.
Prego che queste mie parole non fuggano dalla carta o non sarà esistito un uomo di nome Ryszard Ostrowski che ha visto la śmierć camminare sulla pelle del mondo come una livida stella.

                      

Nelle notti invernali i lupi scendevano dai boschi e si avventuravano fin nei cortili, ululando sotto le finestre. Spesso i genitori sbarravano gli scuri, affinché i bambini non cedessero alla tentazione di aprirli. Kazimierz, il figlio più piccino del fornaio, era riuscito a far cedere il catenaccio, e al mattino la madre aveva trovato la stanza vuota, la finestra aperta e, fuori, la neve macchiata di rosso e una camiciola sbrindellata.
Io non avevo un padre che facesse lavori di falegnameria, ma la mia stanza era al primo piano e non fui mai tentato di uscire in quelle ore.
Una notte, quando avevo dodici anni, mi svegliai senza sapere perché; mezzo intontito, passai qualche minuto a fissare il soffitto, poi sentii gli ululati: pareva che i lupi stessero morendo - quando avevo quattro anni i cacciatori portarono in paese un lupo catturato in una tagliola. Ululava alla stessa maniera.
Corsi ad aprire la finestra e nella luce grigia delle notti nevose vidi i lupi fuggire verso la foresta. Non avevo mai visto i lupi fuggire davanti a nulla; rimasi a guardare, meravigliato, senza curarmi del freddo intenso.
Vidi le schiene irsute degli animali scartare attorno a un punto bianco, li udii guaire.
Quella macchia di chiarore si avvicinò al villaggio e io mi strofinai gli occhi, incredulo.
I vecchi ci insegnavano a riconoscere la śmierć, anche se probabilmente nessuno l’aveva mai vista davvero - o era vissuto abbastanza a lungo da parlarne - perciò la riconobbi, e fui preso dal terrore. Pensavo che avrei dovuto allontanarmi dalla finestra, ma non riuscivo a muovermi: prima fui paralizzato dalla paura, poi dall’amore.
In mano aveva una luce verde, che le si spargeva sul petto e sul viso come una cascata al contrario. Bianco di neve, di luna, di foschia e cristalli ghiacciati, disegnata con linee di nuvola, passo di spettro. Come se fosse stata partorita dalla terra innevata.
Lei, la śmierć, infiammò da subito la mia immaginazione. Ora la pelle mi si ricopre di un sudore gelido nel pensarci, ma allora mi sentii pazzo di lei. Corsi al letto, indossai gli abiti più pesanti che avessi e uscii di casa.
Ci incontrammo davanti alla casa del vecchio Jakub: lei reggeva alta la sua fiammella - che, come mi resi conto avvicinandomi, si produceva da un ramoscello di agrifoglio - e mi guardò con gli occhi pallidi, grigioblu. - Vai via, bambino - disse con una specie di mormorio sommesso.
Io sussultai come se mi avesse punto con uno spillo, tremando dalla testa ai piedi. La śmierć entrò nella casa buia; vidi il bagliore verde spettrale attraverso le fessure delle finestre. Aspettai finché non sentii le ossa gelate, ma lei non uscì.

La vecchia Krystyna gridava come un’ossessa in mezzo alla piazza; fui svegliato dai suoi lamenti. In un primo momento pensai che i lupi avessero divorato suo figlio, ma mentre la mente mi si schiariva ricordai che era ormai grande e che i lupi erano fuggiti.
Seppi che gridava per colpa della śmierć.
- Me l’ha portato via! Ieri sera ha mangiato, pan Jakub, con appetito come un giovane di vent’anni e stanotte la śmierć maledetta è entrata nel nostro letto! - e si strappava i capelli grigi con le mani mentre quattro uomini portavano fuori suo marito con i piedi in avanti.                             

                                                      

Accadde di sera, mentre il crepuscolo estivo si insinuava nella cucina.
- Voglio sposarla, nemmeno i suoi genitori si oppongono!
- Rifletti, Ryszard, ha una dote così modesta che potrei eguagliarla in un solo giorno di lavoro! - gridò mia madre, il viso rosso e lucido di sudore, e si asciugò la fronte con il grembiule. Attesi, ma quando lo abbassò vidi l’inflessibilità nei suoi occhi azzurri. - Tu non la sposerai - sillabò a voce molto più bassa e strinse le labbra, come se non volesse aggiungere nulla.

Vorrei che tu morissi, pensai con le braccia che mi tremavano contro i fianchi.
Senza pronunciare una sola parola - sapevo benissimo che non avrebbe sortito alcun effetto - uscii e presi la strada che scendeva verso il mare, incurante della procella e dei richiami ansiosi di mia madre. Mi sentivo male, avevo un sapore acre in bocca e il mio passo era insolitamente molle.
- Wanessa! - urlai.
Venticinque anni, una costa battuta dal vento, il mare nero e la tempesta verde sopra le nostre teste. Lei si voltò a guardarmi da lontano, i capelli le si alzavano sulle spalle come se qualcuno li stesse respirando. Una nuvola di vapore. - Ciao, Ryszard! - la sentii gridare per superare l’ululato del vento.
Era bella, caldamente bella, con quella sfumatura di fuoco nei capelli bruni. Sapevo che l’avrei sposata e mi faceva girare la testa il pensiero di potermi tuffare in lei e cercare il suo fuoco nascosto.
Quando fummo vicini le presi entrambe le mani e me le portai alle labbra, baciandole la punta delle dita. Lei rise.
 - Ryszard, che cosa ti prende oggi?
Mi immobilizzai con la testa china, vedevo i miei capelli biondi e sottili dondolarmi davanti agli occhi. - Dirò a mia madre che voglio sposarti - risposi con durezza; Wanessa mi si accostò, mi sfiorò il braccio con il seno, appena velato dall’abito. - Io ti amo, Wanessa Sobolewska - le dissi, solenne.
I tuoni coprirono le parole della donna che amavo, ma lessi dalle sue labbra che anche lei mi amava. Tornai a casa con le mani affondate nelle tasche e il cuore che smaniava per uscirmi dal petto e prendere il posto della tempesta; mai avevo provato una felicità del genere... e mai più l’ho provata, da quella notte fatale.
Tutti sapevano che amavo mia madre - la rispettavano per avermi cresciuto dopo la morte di mio padre - nessuno mi raccontò mai come fosse morto, né come si chiamasse. Nadzieja Ostrowska fece del suo meglio per proteggermi e crescermi al meglio: non ho alcun dubbio che così sarebbe stato, se non fossi stato messo al mondo con un occhio dannato.
Mia madre era nel cortiletto, il vestito che ondeggiava come uno straccio: aveva cominciato a piovere, sferzate di acqua fredda sul suo corpo esile, ma quando la chiamai non si mosse. Solo dopo il mio secondo richiamo alzò la testa, fissandomi distratta.
- Vieni dentro! Piove, non vedi? - le dissi dalla porta della cucina.
Lei si scostò una ciocca bagnata dalla fronte, scuotendo la testa come se stesse cercando di svegliarsi da un brutto sogno, quindi si appoggiò ad una betulla sottile. Colsi, sorpreso, la regalità della sua mano... dico sorpreso perché non avevo mai pensato a mia madre come a una donna di intensa grazia.
Pensai di serbare quel complimento e riferirglielo non appena fosse stata al coperto. Un gesto rapido attrasse il mio sguardo - simile a una coltellata, o a un’altra azione di quel tipo violento. La śmierć che tredici anni prima mi era parsa timida neve ora era del bianco sfolgorante delle saette. Spalancai la bocca e gridai, continuando anche dopo che i timpani mi si furono rotti con uno schiocco terribile e non fui più in grado di udirmi, finché qualcuno accorse e mi portò via.
Intravidi in un pezzo di vetro la mia faccia stravolta, gli occhi spiritati e il sangue che mi colava dalle orecchie, prima di essere ottenebrati dalla febbre. Fui in bilico tra la vita e la morte per due settimane.
Da allora la śmierć non mi abbandonò più.            

 

Wanessa morì di parto.
Ero accanto a lei quando il sangue le ruscellò tra le gambe, costringendola a buttare indietro la gola sussultante. Le stringevo la mano livida e sudata, la levatrice infilò senza paura le mani in quello schifo e mormorò una preghiera. - Deve spingere, signora. Si liberi del fardello.
- Ce la stai facendo, amore mio - le sussurrai - manca poco.
Venne fuori un bambino lungo due spanne, con un faccino viola e grinzoso e un ciuffo di capelli neri. La levatrice lo lavò e lo avvolse nelle fasce con i gesti frettolosi di chi ha una grande esperienza; Wanessa era orribilmente pallida, accasciata tra le lenzuola zuppe di sudore. Le scostai i capelli dalla fronte, sorridendole, anche se lei mi rivolse un’occhiata palpitante e angosciata. Mosse le labbra, ma non ne uscì alcun suono - così mi chinai e la pregai di stare tranquilla e riposare.
La levatrice le spinse degli stracci tra le gambe, aggrondata, si fece il segno della croce e ripeté la preghiera accorata di poco prima. Fingendo che nulla di preoccupante stesse accadendo, tornai a parlare a Wanessa in tono caldo, fiducioso.
Guardai la levatrice con la coda dell’occhio: ora se ne stava ritta in fondo al letto, le mani insanguinate poggiate in grembo, su un grembiule già sporco; mi chiesi perché mi stesse guardando con un’espressione infinitamente triste, ma non osai pronunciare la domanda ad alta voce.
- Esci - le ordinai, duro. Per un attimo la stretta delle dita di Wanessa si fece convulsa.
- Ryszard, è un bambino? Un maschio? - ansimò, gli occhi febbricitanti. Non lo avevo notato, ma sentivo che era un maschio e glielo dissi. Lei fece un sorriso tremulo e bellissimo, che mi si incise dentro e affondò come una lama. - Ho le gambe che vanno a fuoco, puoi togliermi la coperta? - domandò innocentemente.
Ma non aveva le gambe coperte: era il calore insano del sangue.
Quella volta sapevo che sarebbe giunta e quando, alzando lo sguardo, la vidi dall’altra parte del letto non ne fui sconvolto. Addolorato, raggelato, ma non sorpreso. La śmierć aveva il ventre rotondo e il seno gonfio di latte come una donna incinta, il viso morbido.
- Ci incontriamo ancora - disse lei, con una nota ironica che mi terrorizzò.
- Non portarmela via - mormorai, ma la śmierć scosse la testa; allungò il braccio e sfiorò Wanessa con il suo rametto sempreverde... e in un istante finì tutto.

 

La mia vita fu una fuga infinita: foreste, brughiere, città, fiumi che superai in una corsa continua, guardandomi sempre alle spalle, sentendola giungere in ogni posto che toccassi. Feci crescere il bambino alla levatrice, chiedendole solo di dargli nome Szymon - il nome che Wanessa voleva per lui - perché avevo troppa paura che la śmierć si prendesse anche lui, sapendolo sempre accanto a me.
Vidi morire uomini, donne, bambini e di notte ero ossessionato da incubi da cui mi svegliavo in un bagno di sudore: sognavo di donne bianche, mia madre, Wanessa e la śmierć che mi seguivano come spettri lungo strade senza luna. Non c’era rimedio, né nella religione, né nelle sollecitazioni della carne.
Negli inverni infiniti del Nord ripensavo al nostro primo incontro, riesumavo un desiderio ormai stinto e ridotto in cenere e mi chiedevo come avessi potuto trovarla bella
C’erano i suoi occhi grigioblu, smodatamente affascinanti, negli stagni che si aprivano in mezzo ai campi innevati. La mia peregrinazione assunse i tratti di una rotta, una corsa angosciosa fino alla fine del mondo dalle porte della città di Warszawa, laddove la śmierć mi indicò con il suo ramo spettrale e mi disse: - Presto sarò da te.
Non sarei diventato vecchio, dunque. Quel pensiero mi spinse a nascondermi in questa vecchia chiesa, con una candela sola, a ripercorrere la mia vita maledetta: questo sforzo mi ha accorciato la vita, e so che se vi fosse uno specchio in questo luogo dimenticato dal mondo vi troverei un uomo abbruttito e invecchiato dalla paura.
Forse, se non avessi insistito per scrivere queste memorie sarei vissuto ancora, ma mai avrei dimenticato che la śmierć era prossima a prendermi. Ora, lascerò questo folio dove tu, Lettore, potrai trovarlo e farne tesoro.  
La mia vita è finita, lontana da me da molto tempo a questa parte.

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Capitolo 4
*** Egitto ***


Egitto

 

Nut si inarca sulle teste dei mortali – sulla testa degli scribi e degli schiavi, dei ladri e del Faraone nel suo palazzo colorato di sabbia e fuoco. Ora donna stellata, ora scrofa con i suoi maialini, ora vacca gigantesca, Nut è la grande porta su cui dipingono stelle per allontanare la Morte.
Di notte cammina sulle rive del fiume: il fiato umido e rivoltante dei coccodrilli le sfiora le gambe nude, lo schiocco delle loro mascelle la spinge come vento in una corsa cieca. La luna – una sacca piena di miele, il sole morto – a volte scompare e la lascia sola.
Non sa se i suoi fratelli o le sue sorelle pensino mai alla fine di tutte le cose: non solo quella dei loro corpi, perché non è una bambina sciocca. Pensa alla fine della loro terra, al giorno in cui le case crolleranno e la sabbia rapace gratterà via il colore dalle bellissime colonne fiorite. È sorprendente che gli altri non sentano il deserto che sibila e guaisce – a seconda del vento – ai bordi delle città, come uno sciacallo o un infido serpente.
Le notti d’Egitto hanno un profumo caldo, come pane appena sfornato.
A volte sembra che ci sia un’altra bambina che la chiama, molto più avanti sull’erba polverosa – lei vi guarda attraverso e vede il cielo stellato, il sorriso rovescio e imperscrutabile di Nut dietro i punti neri delle sue pupille.
Così c’è questo riflesso distante, una bambina con gli occhi blu, che cammina in avanti ma va indietro: cercano di avvicinarsi, lei e la bambina di Nut, ma si allontanano trascinate da fili invisibili.
Così guarda la terra addormentata come se fosse alla fine dei tempi. Ho abbandonato la mia casa e ora il deserto l’ha mangiata. Non posso più ricostruirla. Sente un canto dolce nelle orecchie, che le dice di tornare a casa.

 

- Ho conosciuto la figlia di Nut - biascica alla mano di sua madre, che corre fresca e leggera sulla sua fronte.
- Sei uscita ancora dalla casa, bambina mia - non c’è rimprovero nella sua voce.
- Madre, oh... madre, mi chiamano sempre al calare del sole... come se Ra chiedesse il mio aiuto.

 

Non è che tutte le colonne cadano, alcune restano in piedi, ma sono scrostate dalle tempeste.
I nubiani con la pelle nera, di una bellezza sgradevole e imperiosa, sono soliti stringere le spalle e non curarsi della bellezza dell’Egitto che si spegne, non se ne curano: se hanno allenato l’occhio al gusto, non lo dimostrano.
- Oh, figlia di Nut! Aspettami!
Il suo passo è lieve, non turba le anitre che dormono tra i canneti, il grido di Atum – la scrofetta di Nut le parla insinuante di un popolo di schiavi che fugge, il mare si apre. Non capisce, allora le dice di immaginare la concubina del Faraone che schiude le gambe per accoglierne la virilità divina. Poi ecco guerrieri uscire dal mare, ammantati di cuoio e una strana corazza, come non se ne sono mai vedute.
Tende l’orecchio per origliare dietro un velo tirato... una donna rotola fuori da un tappeto, ma nessuno ride: ha viticci di henné sul corpo di ambra, veli sontuosi e impalpabili attorno alle forme tornite. La sua parrucca è adorna di pietre, perline e mirra odorosa, il kohl è denso come le ombre di mezzogiorno, ma nel suo viso qualcosa le dice che è straniera, una donna d’Egitto fuori d’Egitto.
È bellissima, ma i suoi seni sono acri come fiele.

 

- La fine di tutti i tempi! Una donna che non è egizia – una goccia di terra in latte d’asina – e popoli! Popoli lontani... che strappano le vesti dai corpi delle nostre donne... abbandonano gli strumenti nei campi fertili e ci lasciano, ci lasciano!

 

- Sta soffrendo... la morte sarà una liberazione... febbricitante... è il dolore che distorce... vede... vede... reale...? - infine una domanda si libera nella notte, insieme al fumo delle candele.

 

Parla per visioni perché non conosce altro – non conosce il significato misterioso dei geroglifici: i sacerdoti le hanno detto che non si possono sfiorare. Alla luce delle stelle passa le dita brune sui dipinti ed è consapevole che sta lasciando fuggire un pesce dalle verdi acque del Nilo. Con le mani di febbre sfiora il corpo arcuato di Nut e si domanda se così l’abbia fatta fuggire o cadere su Geb.
Non sa fare altro che quello, che parlare delle cose che vede a sua madre, nella speranza di toglierle il pianto dalla faccia di cotto.
Sale su una barca di legno indorato, tra donne che portano lapislazzuli sul petto e tra i capelli; la barca fende le acque limacciose e le piante di papiro. La signora della nave libera a poppa quattro oche, poi si mette a camminare e a stringersi addosso il mantello di piume. Chiede che le si portino il sistro e l’ankh.
Pelle verde e tagli puliti dal sangue. Tornando a riva, pensa che sarà impossibile dire a sua madre che cosa ha fatto per avere le unghie sporche – parlerà di aprire gli occhi seccati di una mamma. È quel che ha visto, perché non quello che significa non lo sa spiegare.

 

- Bambina mia, lasciati andare. Tutta la tua sofferenza in questa terra sarà minore di quella che patirai al cospetto di Maat. So che il tuo cuore è lieve, nulla di male potrà accaderti. Lasciaci in pace, ora.

 

Le pareti sono dipinte fin dove il suo sguardo si spinge, il soffitto è intessuto di ombre più profonde della notte. Fuori da lì ode un gorgoglio di acque profonde – lei è ancora nella stanza, con la bambina di Nut lasciata finalmente alle spalle, nella notte immensa; Ammut fa schioccare le fauci fetide davanti al suo cuore sanguinante – ora sa, ora vede il coccodrillo che nel buio le ha divorato le gambe.
Anubi posa la piuma sul piatto della bilancia: scende, scende, il suo cuore è alto, altissimo.

 

 

 

 

 

Note:

Vaghi accenni alla cultura egizia come: la fine della civiltà egizia e le rovine odierne; partecipazione degli Ebrei, dei Romani e di Cleopatra. La barca rappresenta quella sacra/funeraria e la donna ovviamente è Iside, che cerca di ricomporre il marito fatto a pezzi.

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Capitolo 5
*** Cina ***


Cina

 

 

 

– Nella regione di Guizhou – cominciò la vecchia Li – esisteva in tempi molto antichi un villaggio, costruito ai piedi di una collina. Ma si dice che gli uomini lo abbandonarono a causa di una grande inondazione e ne fondarono un altro, più in alto. Poi tornarono, ma da allora si parla del “villaggio di sotto” e del “villaggio di sopra”.
Quando mia madre era molto piccola, viveva nel villaggio di sopra un uomo chiamato Cheng Yao. Era molto conosciuto, anche nel villaggio di sotto: aveva perso la moglie per l’attacco di una tigre e per rabbia e sete di vendetta si era trasformato nel cacciatore più abile tra quelle montagne.
Una notte – si era appena entrati nell’anno della Tigre – gli abitanti del villaggio di sotto si svegliarono alla luce dei falò accesi su tutto il fianco della collina. Si udivano pianti e richiami alzarsi verso il cielo scuro, così gli uomini presero le armi e salirono al villaggio di sopra.
Mia madre mi disse che le nuvole erano tinte di rosso e che i bambini stettero col naso all’insù, curiosi, finché un ragazzo non tornò correndo a rotta di collo. – Il nian – spiegò con il fiatone – stavolta ha rapito Qiang...
– Qiang? – domandò Wu Yu, confusa. 
Il ragazzo scosse la testa: – Il figlio di Cheng Yao.
Subito vi fu una grande confusione: le madri corsero a stringere i figli, addossandosi le une alle altre. Il nian dormiva in una tana segreta, forse sulla cima di un monte o in fondo al mare, e usciva soltanto per i festeggiamenti di Capodanno per divorare i bambini del villaggio. I cacciatori tendono trappole, altre volte seguono le sue orme, ma il nian è un demone e come tutti i demoni non si lascia catturare.
Gli uomini tornarono poco prima dell’alba. Mio nonno di certo non voleva che i suoi figli udissero cos’era accaduto, ma mia madre aveva un udito molto fine. Cheng Yao era inginocchiato davanti alla propria casa, dondolando con la testa fra le mani. – Mi ha preso Qiang, quell’infame. Come ho potuto lasciarlo solo? Come ho potuto lasciare che lo prendesse? Aveva mangiato degli shuijiao, mi ha detto che non vedeva l’ora di mangiare il tangyuan, perché non l’aveva mai assaggiato.
Mio nonno e altri entrarono nella stanza del bambino, trattenendo il fiato. Per terra c’erano impronte grosse quanto la testa di un uomo ed erano rosse. Il letto era stato rovesciato e sventrato. C’era sangue ovunque. Per terra era mischiato alla neve. Sulle pareti c’era uno spruzzo vermiglio. Le coperte erano scure e collose.
Il nian aveva sfondato la parete con una zampata.
A quel punto mio nonno si azzittì. Mia nonna, curiosa, gli chiese: – Tutto qui?
– No – rispose lui sospirando – abbiamo seguito le tracce del nian fino al fiume...
– E poi?
– Poi le abbiamo perse. Ma abbiamo trovato Qiang. Se di lui si poteva ancora parlare. Li Zhou è l’uomo più coraggioso che conosca ed era verde in faccia. Abbiamo pensato di portar via il bambino senza che Yao lo vedesse... ma lui ci aveva seguiti in silenzio.
– Come si è sentito?
Mio nonno si mise a piangere.
– Yao è andato a cercare il nian. Io non so... non so se piuttosto non sia fuggito per darsi la morte, perché di quel povero bimbo rimaneva solo il tronco, con le braccia ancora attaccate. Non aveva più le gambe!
– Oh, caro...
– Non aveva più la testa, Mei! Ha visto suo figlio... senza gambe... e senza testa!
Mia madre non udì più nulla, perché prese una tale paura che non volle ascoltare altro.

 

– E poi che accadde, onorevole Li?
– Mia madre, in effetti, mi raccontò un altro pezzo di storia, ma non so se fosse piuttosto un sogno che fece, piuttosto che il racconto che fece Cheng Yao.
– Ma questo vuol dire che tornò!
– Certo che tornò! Altrimenti perché avrei raccontato questa storia?

 

Il suo spirito fugge da lui e cerca di ricongiungersi con le paludi e con il fiume. Quest’anno sarà governato dall’acqua, che accende il suo dolore e lo fa galleggiare sulla lordura della morte. Qiang, chiama senza parlare, so che sei con me. Da prima che nascesse ha sentito il gorgoglio della sua piccola vita, ha sempre percepito la loro affinità.
Ora, pensa chinandosi e appoggiando la mano su un’orma fresca, guardate Cheng Yao, senza moglie e senza figlio. È un uomo distrutto, ma quest’uomo distrutto impedirà che il nian torni a uccidere.
Corre sulla neve e i suoi passi sono leggeri come zampe d’uccello. Si odono ancora i clamori e i bagliori del villaggio messo in allarme. Yao vorrebbe che smettessero. Zitti, pensa, il cacciatore ha teso la trappola.
Alle grosse impronte si mescola un solco rosso.
Prenderà il nian davanti alla sua grotta, se non sarà troppo lento.
Si fa più veloce e silenzioso, finché tra gli arbusti non appare l’ombra massiccia del demone.
Ti ho in pugno, sussurra Cheng Yao. Sente il nian sgranocchiare e rompere qualcosa con gusto. Forse, la sua determinazione cede per un istante, sono le gambe di suo figlio. Ma è appunto solo un attimo: come farfalle, spontanee, le scintille prendono il volo dalle sue mani.
La notte è giorno.
Yao salta nella radura. Vede gli occhi del nian, sono grandi, rossi, tondi e stolidi; ha arrotolato la coda pelosa attorno al corpo, e appiattito le orecchie contro il cranio. Ha già la spada in mano, illuminato dagli scoppi intermittenti sulla neve, ma non riesce a vibrare il colpo fatale.
Il nian mugola e lacrime grosse come il suo pugno gli scendono dagli occhi.
Finiscilo! Punta la lama alla sua fronte, un colpo secco e arriverà fino al cervello. È un cucciolo, capisce d’un tratto, spaventato dalla luce e dai botti intensi. Suo figlio... comincia a piangere quando la spada gli cade dalle mani, affondando con uno sbuffo.
Non può uccidere un cucciolo, neanche se è quel demone che ha divorato Qiang.
E – spiriti ricchi di acqua, lui e suo figlio – sente come un sussurro e una mano lieve, di spirito, che gli dice Caccialo con il fragore e Yao sa che è Qiang. Se lui ti ha perdonato, dice al nian spaventato, dovrò perdonarti anche io.
Raccoglie la spada, tira fuori dalla bisaccia altri petardi e riempie i polmoni di aria.
Battendo la lama sulle pietre, accendendo tutti i fuochi, gridando spinge il demone in un angolo, avvicinandosi finché quello, con un ululato da cane ferito, non si arrotola su se stesso e svanisce nel cielo buio.
Cheng Yao si lascia cadere in ginocchio e piange.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Note dell’autore: tangyuan e shuijiao sono rispettivamente: un dolce di riso e i famosi ravioli bolliti. Il tangyuan si mangia l’ultimo giorno dei festeggiamenti di Capodanno, per quello Qiang non lo ha ancora assaggiato (ponendo che la storia si svolga nell’arco delle feste).

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Capitolo 6
*** Scozia ***


Scozia

 

 

C’erano Duncan e Lily, i fratelli McSheon, Coira, il piccolo Sorley, Finn, Rhona e Gormlaith.
Lui – Dalzell – era seduto in mezzo all’erba alta, fingendo di riposare. In realtà stava cercando un bel fiore da donare a Gormlaith – l’aveva fatto altre volte: bastava passarle accanto mentre gli altri erano assorti in un gioco e infilarglielo dietro l’orecchio, o tra i lacci del vestito.
Si sentiva sfortunato: tutto il fianco della collina era al sole e gli steli erano tutti dorati, ma non poteva tagliare la luce e donargliela. Un giorno, forse, più grande. Si rigirò il coltellino tra le mani.
Gli altri erano scesi al fiume e giocavano a schizzarsi dove l’acqua era più bassa.

 

Ci sono sogni che si dimenticano, sogni che spaventano e ingrigiscono tutto un giorno, poi c’è quel sogno che è un ricordo. Dalzell lo storpio si rigira nel sonno, gemendo, stringendo con una mano il mantello bucherellato – se glielo rubassero morirebbe di freddo, quindi lo stringe con tanta forza che al mattino, per staccarsi, piange dal dolore.
Il Sogno continua, anche se il freddo gli morde il corpo.

 

Uno splendido animale scendeva dalla collina opposta. Aveva le zampe lunghe e forti, il corpo enorme e muscoloso, un bellissimo e lucido manto nero. Camminava nell’acqua, davanti a loro, senza timore, muovendo la coda.
Qualcuno propose di montarlo. Fergus McSheon andò ad accarezzarlo e quello chinò la testa: era mansueto. Sciamarono tutti attorno al cavallo, litigandosi il diritto di montarlo per primi. Lui si chinò a raccogliere una giunchiglia, lieto, poi la tenne in mano insieme al coltello.
In groppa al cavallo c’erano Duncan, Fergus McSheon, Rhona, Coira, il piccolo Sorley, Lily, Finn, Wallace McSheon e Gormlaith, in quest’ordine. Dalzell si chiese come potessero tanti bambini stare in groppa a un cavallo solo, ma Gormlaith si girò e gli sorrise e allora anche lui salì.

 

Piange: le lacrime si ghiacciano nel guscio delle palpebre, sono dolorose. Per un attimo mugola e fa per aprire gli occhi; i cristalli si rompono e il dolore si attenua, come se le mani che lo graffiavano fossero sparite.

 

Capirono che qualcosa non andava quando il cavallo nitrì – e fu un nitrito che somigliava terribilmente a una risata cattiva – e partì di gran carriera, sollevando spruzzi di acqua man mano che correva verso monte, laddove l’acqua era più fonda e la corrente più forte.
Duncan tentò di liberarsi, ma la sua mano era incollata alla criniera; la mano di Fergus McSheon era incollata alla schiena di Duncan; la mano di Rhona era incollata alla schiena di Fergus; la mano di Coira era incollata alla schiena di Rhona; la manina di Sorley era incollata alla schiena di Coira; la mano di Lily era incollata alla schiena di Sorley; la mano di Finn era incollata alla schiena di Lily; la mano di Wallace McSheon era incollata alla schiena di Finn; la mano di Gormlaith era incollata alla schiena di Wallace; e la sua mano era incollata alla schiena di Gormlaith.
Nella mano libera aveva ancora la giunchiglia e il coltellino. Il cavallo nitriva e sbuffava e correva all’impazzata verso l’acqua che ribolliva tra le rocce. Piangendo lasciò cadere il fiore e strinse forte il manico del coltellino.
Colpì una volta. Due volte. Tre volte. Arrivò a sette volte e perse il conto: voleva solo staccarsi prima che fosse troppo tardi, così continuò a infierire con la lama sulla giuntura tra il polso e la mano. Era tutto sporco di sangue e faceva malissimo tagliare i fili bianchi dei nervi. Affondò tutto il coltello nella ferita e andò su e giù con la mano, su e giù finché non riuscì a separare le ossa.
Gormlaith gridava e piangeva con il viso tutto rosso – lo chiamava, ma lui era già caduto da quella bestia infernale. Sentì una roccia appuntita contro il ginocchio e altro dolore, altro sangue.

 

Distende la gamba zoppa sotto il mantello e le ossa scrocchiano, le une sulle altre, fa male anche quello – inutilmente, perché poi i muscoli deboli raggrinziscono e la gamba torna a piegarsi. Sa che il Sogno è quasi finito, ma non riesce a sfruttare il dormiveglia per svegliarsi del tutto.

 

Gridava e si stringeva il moncherino sanguinante nell’altra mano.
Gridava per l’orrore del sangue e dell’osso spaccato e dei nervi scoperti.
Gridava per il dolore della scheggia di pietra acuminata in mezzo al ginocchio.
Gridava per la paura e per il terrore e per il desiderio di essere cieco o di fuggire e per il sangue che veniva giù da dove il cavallo nero si era inabissato e per la giunchiglia rossa e flaccida e per gli intestini e i cuori piccoli come pugni e i fegati e tutti i pezzi che galleggiavano e si urtavano con un rumore molle e viscido.

 

Venti anni e diciassette villaggi dopo, Dalzell lo storpio chiede l’elemosina davanti alla chiesa. Anche stanotte, pensa tendendo l’unica mano rattrappita, ha fatto quel Sogno. Ieri quattro ragazzacci gli hanno lanciato una mezza pagnotta ammuffita – che ha mangiato davanti ai loro occhi, senza batter ciglio davanti alle loro risate crudeli – e oggi non andrà meglio.
Poiché non ha più niente, ha sviluppato un’immaginazione fervida. Nei giorni freddi e bui come questo, ad esempio, riesce a evocare Gormlaith – riesce a vederla, a immaginarla come una donna, a parlarle nel silenzio della neve. Se per esempio le dice “Come stai oggi?”, lei gli risponde “Molto meglio, ora che ti vedo”.
Gli occhi gli si riempiono di lacrime.
Poiché Gormlaith non c’è più – forse c’è ancora il suo teschio in fondo al fiume, che rotola qui e lì con la corrente e fa clic-cloc contro i ciottoli – la veste come una dama ricca, con begli abiti scuri che fanno risaltare la sua pelle di panna. Le ha allungato i capelli di oro bruno, le ha dato ciglia folte e lunghissime. – Ti amo – dice nell’aria rarefatta – ho amato solo te, Gormlaith.
Davvero, se il kelpie non si fosse portato via quei nove bambini... o se lui avesse tagliato la mano a lei... sarebbero cresciuti insieme e si sarebbero sposati. Non è crudele il desiderio di averti tagliato la mano, dice alla Gormlaith dei suoi pensieri, avrei dato qualunque cosa per salvarti.
Piange per un po’, ignorato da tutti, ma adesso che è giorno e nessuno può rubargli il mantello si asciuga le lacrime prima che ghiaccino e feriscano.
– Fate la carità: un pezzo di pane per Dalzell lo storpio!

 

Prima dell’alba, il cielo si annacqua – il nero diventa verde, e azzurro, e bianco. Dalzell guarda in alto: la fortezza è stata espugnata. Sulla torre più alta, a una delle finestre, penzola il corpo senza vita di una dama; i suoi capelli dovrebbero essere biondi, ma nella luce dell’aurora sono grigio argento, striati di sangue.
– Ehi, storpio! Sei venuto a combattere anche tu? – lo apostrofa un soldato ubriaco – Guarda che la battaglia è finita da ore.
– Sì, ho visto – replica lui, fissando il fumo che sale dai resti di una stalla.
Il soldato tuffa il viso in un secchio ricolmo di acqua piovana e, quando risolleva la testa, sembra più sveglio e lucido: – Cosa ci fai qui, allora? Sul mio onore, in tanti anni di guerra non ho mai visto un mendicante che osasse passare sulle rovine fumanti di una battaglia.
Dalzell si stringe nelle spalle.
– Di che clan sei? – continua il soldato, raccattando le sue cose.
– Clan? Nessun clan. Mi chiamo Dalzell. Dalzell lo storpio per gli intimi – risponde con voce piana.
Il soldato rimane in silenzio. – È piuttosto crudele come nome – osserva, con una vaga incertezza. Lui si stringe di nuovo nelle spalle. – È la verità – osserva.
Alza ancora lo sguardo per osservare ancora la donna morta alla finestra: ora vede meglio anche le sue mani, abbandonate sulla pietra. Il soldato segue i suoi occhi e commenta: – Scommetto che non hai mai visto nulla del genere.
– In realtà ho visto di peggio.
Riprende la via delle colline, verso Sud, piegato sotto il mantello. Il mattino è limpido, lavato dalla pioggia; una nuvola sfilacciata gli sorride ironica, prima di essere dispersa dalla brezza.

 

Dalle parti di Edinburgh incontra un kelpie.
Non è – di certo – quello che ha ucciso Duncan, Lily, i McSheon, Rhona... e tutti gli altri. C’è molta acqua in Scozia, molti demoni per tutta quell’acqua. Tutto ciò che sa, quando vede quell’uomo alto, bello e distinto, è che si tratta di un kelpie.

Potrei ucciderlo, si dice, potrei. Ne sono in grado.
È molto giovane – Gormlaith dice “senza tempo” e svanisce nella foschia – con la pelle chiara, le ossa fini. I suoi occhi sono verdeazzurri, i suoi capelli – lo sa grazie al vento che soffia – sono molto leggeri.
– Io so chi sei – dice con rabbia – so cosa sei.
Ha i capelli neri, l’uomo-kelpie, ma non si cura di ripararsi dal vento – è così che lui, Dalzell, ha visto le alghe che gli crescono sulla pelle, le erbe lacustri verdi tra il nero. Infila la mano sotto le vesti, in una tasca segreta a contatto con la pelle.
Tira fuori il coltello, la lama rivestita d’argento è macchiata e ossidata, ma non importa.
Con gli occhi vede l’uomo-kelpie a pochi passi, longilineo e sicuro di sé, ma l’immagine si deforma sulla strada per il cervello.
Ed è ancora un bambino, con il sole che splende come oro su di lui e sul prato...

 

Colpì una volta. Due volte. Tre volte. Arrivò a sette volte e perse il conto.

 

Venti anni e diciassette villaggi dopo il kelpie, Dalzell lo storpio decide di aver vissuto abbastanza. Si lascia alle spalle un cavallo sgozzato, il proprio mantello e Gormlaith, che non è più una dama, ma una bambina radiosa che gli prende le mani – tutte e due – e lo guida verso il cielo.
– Ho perso il coltello – dice lui con un lieve dolore al petto, ma Gormlaith scuote la testa.

 

– Forse non era così importante.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Note dell’autore:
Sì, be’, uh. Questa ossessione per vendetta/rimpianto/nostalgia è un po’ strana.
Foto da weheartit, il kelpie è un demone acquatico scozzese – nel caso non si fosse capito.

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Capitolo 7
*** Germania ***


Germania

 
(cliccami!)

 

 

 

Registrazione n°0738-bis, in data 26.08.1943. Interrogatorio Häftlinge n°0877.
Caso assegnato all’Obersturmbannführer Reinhard Groll.

 

[Passi. Stridio di metallo strisciato sulla pietra.]
Groll: «Lei è la signorina Weisback Gitte, nata a Grosskreutzstadt...»
Häftlinge n°0877 [interrompe]: «Per carità, cosa ci faccio qui? Sono innocente!»
Groll [imperturbabile]: «L’otto Febbraio millenovecentoventitré?»
Häftlinge n°0877: «Sì.»
Groll: «Sa perché si trova qui?»
Häftlinge n°0877 [titubante]: «No.»
Groll: «Signora Weisback, lei si trova qui perché è accusata di aver ucciso un ufficiale delle ss, e più precisamente lo Standortälteste Otto Kaufmann.»
Häftlinge n°0877: «Non l’ho ucciso io!»
Groll: «Mi permetta di ricordarle, signorina Weisback, che al momento dell’arresto era ancora accanto al cadavere, in un locale chiuso a chiave. Come lo spiega?»
Häftlinge n°0877 [dopo una lunga pausa]: «Non so se la porta fosse chiusa dall’interno.»
Groll: «Mi sta dicendo che un terzo individuo – di cui non conosciamo l’identità – potrebbe aver commesso il crimine, essere fuggito e averla chiusa nella stanza assieme al cadavere, per incolparla o per timore di essere inseguito da lei?»
Häftlinge n°0877: [incomprensibile]
Groll: «Mi faccia capire. È questo che intendeva? Che la porta può essere stata chiusa da una terza persona?»
Häftlinge n°0877: «Sì.»
Groll: «Però non c’erano altre persone nella stanza?»
Häftlinge n°0877: «Può aver atteso in corridoio, o...»
Groll [interrompe]: «Risponda alla domanda. C’erano altre persone nella stanza?»
Häftlinge n°0877 [riluttante]: «No.»
Groll: «Converrà con me che questo è molto strano! Il sottotenente Müller è sicuro di averla vista entrare nell’ufficio del comandante Kaufmann con il medesimo. Perciò, è entrato in quella stanza ancora in vita, in sua compagnia. Vuol forse dirmi che è morto mentre lei era distratta!»
Häftlinge n°0877: «Non so come spiegarlo.»
Groll: «Lasci che glielo spieghi io, allora. Siete entrati nel suo ufficio. Avete parlato. Le sembra plausibile?»
Häftlinge n°0877: «Non solo plausibile. È la verità. Abbiamo parlato...»
Groll: «Mi lasci finire. Avete parlato, ma poiché lei è una mela marcia – mi passi il termine – una disfattista o peggio ancora un’amica dei giudei, ha pensato di rendere un servizio a quelle potenze infernali e ha accoltellato il comandante Kaufmann.»
Häftlinge n°0877 [dopo una lunga pausa]: «Apra la finestra, mi sento svenire. Le dirò la verità.»

[Stridio di metallo strisciato sulla pietra. Passi. Cigolio. Lontano canto di cicale.]
Häftlinge n°0877: «Neppure voi della Gestapo potete fingere di non sapere... come fate a cenare insieme, e ballare insieme e lavarvi insieme quando sapete che alcuni di voi... che alcuni di voi... e delle ss sono dei veri e propri depravati
Groll: [incomprensibile]
Häftlinge n°0877: «Nelle campagne attorno a Grosskreutzstadt viveva una povera donna, una pazza che non ha fatto male a nessuno e che voi avete portato via, con uno dei vostri orribili furgoni. Diceva che sua figlia era stata scambiata nella culla con...»
Groll [freddamente]: « Signorina, non sono qui per ascoltare i deliri di una demente.»
Häftlinge n°0877: «Eppure sono importanti, glielo giuro. Odiava questa bimba, una bimba bella e sana, perciò la abbandonò. La crebbi io! Ha compiuto cinque anni quando hanno creato il presidio e le voci hanno cominciato a diffondersi...»
Groll: «Quali voci?»
Häftlinge n°0877 [dopo una pausa]: «Voci sporche. Voci orribili. I bambini del Dachrinne – il Tombino, il quartiere povero – dovettero riunirsi in una palestra. Tutti. Il comandante Kaufmann li esaminò personalmente. Quando riaprirono le porte e le famiglie li rividero, ne mancavano alcuni. Bambini piccoli. Bambini... [con voce quasi impercettibile] belli.
– Gitte – mi dissero – se ti è cara Margarete nascondila, dove non possono trovarla.
Dopo il Tombino, il quartiere degli stranieri. E poi un altro. Riunivano i bambini e alcuni sparivano. Non solo i malati – oh, credete che non sappiamo delle porcherie che combinate? – ma anche bambini normali. Alle famiglie che avevano il coraggio di chiedere, rispondevano che erano “stati scelti per prestare un grande servizio al Reich”.

[Singhiozzi. Forte canto di cicale.]
Häftlinge n°0877: «Un giorno hanno chiamato i bambini del nostro quartiere. Lei non sa perché viene dalla città, ma sceglievano un quartiere a caso. Non sai mai qual è il prossimo e non puoi certo seppellire i tuoi figli. Ci volevano cogliere di sorpresa. E ci riuscivano.
Io stavo svuotando la tinozza nel prato, quando ho sentito piedini minuscoli sulla schiena – piccoli e leggeri come fagiolini – e una voce flebile mi ha detto: – Nascondi Margarete, la mia bambina!
La povera pazza di Grosskreutzstadt diceva che le fate avevano sostituito la sua neonata con una delle loro... e se lei sentisse quello che sento io, mi crederebbe! Ho pensato a Kaufmann, a quel porco che godeva a mettere il suo pisello schifoso dentro a dei bambini e ho pensato a Margarete, alla sua bellezza infantile. Sono corsa da lei gridando, l’ho presa e l’ho ficcata nel cesto dei panni.
Così è scampata alla morte – perché che altro poteva aspettarla, dopo che gli ufficiali si erano divertiti con lei? Le fate si nascondevano fuori dalla caserma e hanno visto... e mi hanno raccontato...»

[Singhiozzi.]
Groll: «Questo interrogatorio finisce qui.»
[Passi. Porta che si chiude. Chiave che gira nella toppa.]

 

 

Stralcio della chiamata tra Reinhard Groll e Willem Buch, dipendente del Kaiser Wilhelm Institut:
«Sì, la ragazza dice di parlare con le fate o qualche altra creatura fatata, che cazzo ne so... però è un buon esemplare di donna ariana.»
«Grazie, Groll. Sono proprio curioso di vedere questa povera pazza, potrebbe essere un eccellente campione per la ricerca.»

 

 

Dal diario di Gitte Weisback:

Grosskreutzstadt, 14.08.43

 

Io e Margarete ci siamo nascoste nei campi di mais. Il giorno è stato nuvoloso ma afoso e pesante. L’ho abbracciata e ho sentito il profumo di sapone nei suoi capelli. Ho dovuto nasconderla nel cesto dei panni lavati, sono venuti gli uomini di Kaufmann e hanno tirato giù i nomi di tutti i bambini del quartiere.
Le cicale piangono ovunque: mi trema la mano anche se Margarete è salva; ci sono altri bambini, altre bambine regalati dalle fate agli uomini. Bambini e bambine che non sono state salvati. Le fate piangono, hanno regalato i loro figli a noi perché li crescessimo e questi maiali li usano!
Ho paura.
Non per me, perché sono la custode di Margarete, ma per tutti gli altri: per le famiglie che hanno perso – incautamente – i figli delle fate, per i soldati. Anche per Kaufmann. Incredibile che io possa provare compassione per un essere così spregevole, ma la sorte che attende coloro che fanno infuriare le fate è orribile.
Devo fare qualcosa.
Domani andrò a parlare con lui.

 

 

Registrazione n°0738-ter, in data 27.08.1943. Interrogatorio Häftlinge n°0877.
Caso assegnato all’Obersturmbannführer Reinhard Groll.

 

Groll: «Venga al dunque. Mi dica com’è morto Kaufmann.»
Häftlinge n°0877: «Il giorno successivo, dunque, andai da lui. Gli chiesi un appuntamento, diciamo. Se lei mi guarda, non direbbe mai che ho vent’anni, ma molti di meno. Il comandante vide in me un simulacro di bambine – glielo lessi negli occhi. Entrai nel suo ufficio. Lo supplicai, mi inginocchiai, veramente, mi privai di ogni dignità per chiedergli di lasciare in pace Grosskreutzstadt.
– Signorina, lei mi sta chiedendo di privarmi di un piacere innocente – mi disse lui, nel suo tono più untuoso. – E tutto questo senza propormi nulla in cambio – e così dicendo mise una mano ai pantaloni e li sbottonò.
Se li calò e si calò anche le mutande, quel... quel...
Io ero lì, in una stanza chiusa a chiave, ancora inginocchiata, quando vidi quel suo... e me lo avvicinò alla bocca. Un istante prima che potesse premermelo dentro – avevo le labbra serrate – ha lanciato un grido ed è caduto su un fianco. Chieda a quelli che aprirono la porta se non trovarono una cicala che cantava sul manico del coltello! Furono le fate...»
Groll [ridendo]: «E lei si aspetta che io creda a queste fandonie! Sa quello che la attende? Nel migliore dei casi, verrà eliminata con un farmaco – la via più dolce, se si prende per vera la sua infermità mentale. Altrimenti sarà spedita a Ravensbrück, o fucilata sul primo muro libero.»

[Fortissimo canto di cicale.]
Häftlinge n°0877 [freddamente]: «Io non credo. Io penso che sarò libera.»
[Tonfo. Lieve gemito.]
Groll: «Tu non puoi permetterti di parlarmi così. Neppure nei tuoi luridi sogni. Anzi, tenerti per i capelli mi ha dato una bella idea. Visto che eri così propensa a prenderlo in bocca a Kaufmann – le fate! Ridicola! Adesso apri la bocca, da brava... e potrei essere clemente...»
[Fortissimo canto di cicale. Un grido. Un gorgoglio. Silenzio improvviso. Passi di corsa.]

 

 

Dal rapporto del Sturmmann von Meier.
“... il corpo di Groll era riverso sul tavolo di metallo, prono. Le braccia erano aperte sui lati del tavolo; nella mano sinistra sono stati rinvenuti capelli castani, di media lunghezza. I pantaloni e le mutande erano calati alle caviglie, le gambe erano piegate. Riscontrata sul collo una quantità di minuscole ferite equiparabili a morsi. Grandi quantità di sangue sulla parte superiore del corpo. Il dottor...”

 

 

Gitte intreccia margherite gialle nei ricci scuri di Margarete.
– Perché siamo andate così lontane, Gitte? – domanda la bambina, alzando gli occhi castani. Lei la guarda: la pelle dorata, il nasino all’insù. Adorabile. Le dà un buffetto sulla guancia, poi un bacio.
– Per stare meglio – le risponde.
Le cicale cantano dolcemente in mezzo ai pioppi.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Note:

Stavolta tocca alle fate. Il Piccolo Popolo, diciamo, in un racconto più cupo degli altri, temo; avevo paura di spaziare nell’horror, così mi sono trattenuta. L’ambientazione è facilmente intuibile: non so se veramente le SS fossero composte di depravati (le stime sono incerte, le leggende... leggende). Personalmente propendo per il sì.

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Capitolo 8
*** Italia ***


Italia

 

(cliccami!)

 

Perché celebriamo i defunti?
Il fiato le sfugge dalle labbra, la mano che fruga nelle pieghe della camicetta è ricoperta di sudore gelido, le gambe non la sostengono. La chiesa in cui si è rifugiata è deserta, e fredda. Il vecchio prete – quello che ha impartito tutti i Comandamenti a tre generazioni di De Arcoli – è rimasto ucciso da un colpo di mortaio.
Lei stessa ha visto la ferita che ha tagliato, come una crepa in un vaso, il suo viso asciutto e rugoso. Con un sussulto, Nives ricorda di essersi stretta ad Arturo, cinguettando la sua incapacità di reggere un simile spettacolo – in realtà, la parte di sé che ancora rammenta di essere nata contadina è relegata in un posto tanto profondo che la vista del cadavere non le ha provocato alcun turbamento.
Nell’aria permea odore di incenso e di cera. Il parroco che ha celebrato il funerale è stato sbrigativo, forse per disinteresse, forse per paura.

Oh, paura.
Si inginocchia sul pavimento, la fronte premuta sulla panca. Comincia a parlare con foga, nella speranza di suscitare compassione in Dio. Non ha mai desiderato con tanta urgenza di potersi confessare – da quando, poco più che bambina, ha omesso di aver rubato un ninnolo alla vicina di casa e non è stata punita.

Perché preghiamo per i morti?
Ode un ticchettio lungo le pareti, come se qualcuno vi tamburellasse le dita. Nives raggela. È cosciente di cosa si tratta, anche se non ha capito chi sia. Prima – non sa più se siano passati pochi minuti o intere ore – ha intravisto quella creatura nel giardino; nonostante la fioca luce, è riuscita a distinguere, dall’intrico di ombre sul suo corpo, unghie lunghe e acuminate come artigli.
– Come osi?! Ti prendi gioco di me... ti diverti a spaventarmi! – ringhia tra sé, stringendo il polso sinistro in una morsa ferrea. Il sudore le scorre sulle tempie e sulla nuca, incollandole i riccioli appena rifatti alla pelle. Se Arturo... se fosse Arturo? I racconti spaventosi della sua infanzia sono ricchi di spettri adirati con coloro che li hanno tormentati. Lei ha ucciso Arturo, quindi lui è tornato a vendicarsi?
Nives si lascia sfuggire uno squittio, prima di tapparsi la bocca con le mani. È impossibile che sia il suo spirito: è stato sepolto con tutti i crismi. Il che la riporta alla terribile domanda.

Perché ci sono cimiteri per i morti, perché portiamo loro fiori il 2 di Novembre?
...
Perché la voce che pronuncia quelle domande le sembra familiare?
Nives si alza, le ginocchia rigide per il contatto con il pavimento freddo, e si trascina al centro della navata, prima di accasciarsi di nuovo tra le due file di panche. Batte i denti senza controllo, le orecchie ronzano. – Non ho fatto nulla di male – piagnucola, ma nel tono più basso possibile, per non farsi udire.
Non ha mai provato una simile angoscia: la sua mano, che non ha tremato nel momento di ficcare la terza pallottola nel corpo di Arturo, adesso si chiude e si apre in preda agli spasmi, le vene gonfie e in rilievo.
Persino la sua cagnetta, Eva, si è messa a uggiolare con la coda tra le gambe, quando quella creatura è apparsa tra gli alberi. Si porta le mani alla gola, come per liberarsi di un cappio invisibile: è in trappola, le manca il coraggio di affrontare ciò che continua a camminare, lentamente, attorno alla chiesa. Si mette carponi – una foglia le si incolla al palmo, lascito di una delle corone funebri – e fissa febbrile la porta. Non le sono rimaste abbastanza energie per preoccuparsi del proprio aspetto, perciò rimane rannicchiata come un animale, la gonna sporca di polvere, la camicetta appiccicata al corpo dal sudore, la pettinatura sfatta.
Tremante, si mette in piedi. Sente una nuova determinazione: deve andarsene, deve scoprire chi la sta tormentando. Corre verso la porta, la spalanca con una spinta e comincia a correre, senza guardarsi indietro, lungo la strada dissestata.

Perché si costruiscono cimiteri?
Circondata dalla nebbia, accecata, inciampa due volte in una tomba rialzata e rovescia con il ginocchio un vaso di bronzo; l’acqua fredda e i fiori le cadono sulla gamba, il vaso rotola rumorosamente sulla ghiaia, emettendo il rumore di un gong. Nives lo afferra, anche se il danno è fatto, e si guarda attorno, ma non un altro suono turba la quiete del camposanto.
Si fa guidare dalla luce funerea e rossastra dei lumini fino alla parete e comincia a percorrerla, tastando le lettere in rilievo sul marmo. Alcuni nomi li conosce, ma li scarta con moti di rabbia, e allunga il passo.

Arturo. Finalmente, sente quel nome sotto le dita e sospira di sollievo: apre bene le mani, nonostante sia scossa dai brividi quando le appoggia alla lastra di marmo. La percorre rapidamente, ma con perizia, poi lascia ricadere le braccia lungo i fianchi, attonita – non c’è una crepa, un segno, nulla che indichi che l’occupante della bara ne sia uscito.
– Perché? – sussurra, spaventata – Non c’è limite alla paura che posso provare stanotte? – si chiede. Ripensa al momento in cui è apparsa ad Arturo – lui disteso a terra, già due fori sanguinolenti nell’addome – e lui ha sgranato gli occhi, quasi ferito, prima che lei sparasse. È caduto senza un grido, la testa di lato. Il terreno si è arrossato in fretta.
È in quel momento che sente il canto.

In questa casa ho qualche problema
Non so bene cosa devo fare
I miei fantasmi mi daranno consiglio
Quel bimbo pessimo... son proprio io!

Si alza da un punto impreciso, nella nebbia, e per quanto lei faccia roteare gli occhi, non riesce a capire da dove arrivi. Sa, però, chi sta cantando. – No, oh no... non lei... no... – pigola, stringendo gli occhi pieni di lacrime. Non può fare altro che riprendere a correre, anche a costo di caderle tra le braccia; deve controllare, deve sapere se è lei la creatura che la sta inseguendo.
Si infila in una strettoia tra due file di lapidi, scivolando sull’erba: c’è uno spiazzo minuscolo, in fondo al cimitero, in cui le tombe sono poche e vecchie. Rimane lì in piedi, frugando con gli occhi in mezzo a quella fluorescenza infernale, finché non riconosce la tomba che sta cercando. Si inginocchia, allunga le mani e la tasta, come ha fatto con quella di Arturo. Bianca Zin... numeri... Per coloro che amo non morirò mai.
– Per coloro che amo non morirò mai – ripete.
Qualcosa sfiora i lembi della sua coscienza, ma non riesce ad afferrarlo, perché di nuovo il sangue le si gela nelle vene. Si affloscia sulla tomba, i battiti del cuore incerti, con le dita che percorrono incessanti la crepa – è sottilissima, superficialissima, eppure c’è – sulla lastra. – Per coloro che amo non morirò mai – ripete Nives.

Non è una frase per consolare, pensa, è una promessa.
Aveva dimenticato Bianca, tanto poca era la considerazione che aveva di lei: ha gettato due, tre foglie di timorina venefica nel bicchiere di latte che lei ha bevuto. Tutti hanno pensato a un suicidio, lei si è affrettata a consolare Arturo – solo quel ragazzino di cui non le interessa il nome l’ha guardata con sospetto – e al funerale si è presentata vestita sì di nero, ma con della biancheria succinta e bianchissima. Nives si alza e indietreggia fino al muro scalcinato. Riesce a udire lo sciacquio del canale che scorre dall’altra parte, ma la sua mente è occupata da un altro suono, molto più spaventoso: lo stesso ticchettio che l’ha tormentata nella chiesa, ripetuto sulle tombe. Adesso, però, riesce a udire anche lo scricchiolio della ghiaia sotto i passi di... della... di lei.
– Perché sei tornata, Bianca? – grida, stringendosi le ginocchia al petto. Fatela finire, per Dio, fatela finire.
Lentamente, una forma emerge dalla nebbia: sembra un essere umano, ma il suo corpo è nero e nervoso, quasi fosse fatto di rovi intrecciati. Il cuore di Nives lotta per sfondarle le costole, perciò lei si chiude su se stessa, pur continuando a fissare ciò che si avvicina.
Quando l’hanno trovata, era distesa sul letto, gli occhi ben spalancati, due fondi di bottiglia. È morta, pensa con rabbia, non può trattarsi di lei.
Eppure la creatura si avvicina – con lentezza inumana, come se sapesse che lei non può più scappare. È perché ha ucciso Arturo: è tornata per questo, come se lei stessa – in barba alle parole della tata – avesse strappato il suo sudario con le sue stesse mani.
Mentre dalla foschia emergono due occhi verdi, vuoti come pezzi di vetro, in mezzo a un fitto reticolo di vene viola. Nives batte la testa contro il muro. – No, no – geme. – Mi spiace non averti rispettato abbastanza, alla tua morte.

Perché celebriamo i defunti, Nives?
Perché non tornino.

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Capitolo 9
*** Grecia ***


Grecia

 

Era un giovane sensibile, basso e scuro. Avevo udito che la sua famiglia era in realtà originaria del bacino mediterraneo, e in effetti Oswald – che era in realtà una persona riservata e contegnosa – si trasfigurava solo quando s’aveva da studiare la storia antica. I suoi occhi, solitamente così remissivi, si accendevano di nuova luce; tutta la sua persona si protendeva verso il professore, la sua fronte si increspava come un mare burrascoso.
Oso pensare che lo sforzo di comprendere ciò che veniva svelato durante quelle lezioni fosse di gran lunga superiore a quello che potevano fare gli studenti più incerti.
Quel cambiamento era talmente radicale da essere evidente non solo a me, ma a parecchi altri studenti.
Oswald l’Ilota, come lo chiamavano alcuni tra i più crudeli, per denigrarlo due volte: la prima, per l’assonanza con il termine idiota, e la seconda, per strattonarlo – nella mente – e ridurlo nella polvere come un povero schiavo. Suppongo che rispetto a lui si sentissero Spartiati, uomini duri e temprati.
Io stentavo a unirmi ai loro giochi. Per me, Oswald possedeva un fascino ineffabile, ed era alquanto seducente nel suo fervore. Ciò nonostante, mai avrei osato fare il primo passo con lui: temevo che per il suo retaggio, così diverso dal mio, fosse disdicevole essere scelto da una donna.
Mi rassegnai quindi a convivere con lui in maniera discreta, sfruttando le relazioni dinamiche e variabili dell’università per avvicinarlo. Mi ritiravo, quindi, e aspettavo con trepidazione il giorno in cui Oswald si sarebbe accorto di me.
Un giorno, alla fine di una lezione, sostai sulla soglia per guardarlo: era riverso sul banco, molto pallido; reggeva ancora la matita nella mano destra, con la sinistra si sosteneva la fronte. L’avevo visto prendere appunti con un impeto quasi furioso, con una foga che non si limitava alla riproduzione, quanto alla creazione.
Lo studiai a lungo, persa nell’ammirazione dei suoi lineamenti – oh, i nostri compagni non volevano comprendere la realtà della sua bellezza, fine e intensa. Solleticava la mia immaginazione, nutrita di fotografie e letture, con sogni del Mediterraneo, di quel mare antico e bello. Nella chioma sottile di Oswald avrei potuto trovare tracce di sole e misteri passati?
Quando mi resi conto che la mia presenza non era passata inosservata, arrossii furiosamente e abbandonai l’aula di corsa.

 

Fu lui stesso ad avvicinarmi, durante una pausa, a prendermi per mano e a condurmi un poco in disparte. Con voce sognante, mentre andava a chiudere la mia mano tra le sue, mi disse: – Sei bella come Atena. Non mi vergogno di dirti che laddove tu passi, l’aria trema come la corda di una cetra. Più di ogni altra cosa, desidero che i tuoi begli occhi grigi si posino su di me.
Parlò con gentilezza estrema, e io sentivo ardere il viso, eppure continuai a fissarlo, per instillargli il goffo potere del mio sguardo. Dalla trama delle sue parole usciva, in grandi sbuffi, il profumo del mare.

 

Il dì in cui il professore ci propose di partire alla volta dell’Egeo, allungai alla cieca la mano, per conoscere i sentimenti di Oswald. Lui rispose alla mia stretta, ma non tardai a sentire le sue dita ricoprirsi di sudore e un piccolo verso di orrore uscire dalle sue labbra.
– Che ti prende? – gli chiesi più tardi, scostandogli una ciocca bruna dalla fronte aggrottata. Lui non volle che sciogliessimo la stretta, e in quella vicinanza si confidò, per la prima volta. Udii una storia incredibile uscire dalle sue labbra tremule.

 

– Sognai, anni fa, di camminare in un tempio abbandonato. Le mie mani erano scure, indossavo abiti da esploratore. In questo tempio lanciai un grido e una voce mi rispose. Non conoscevo la sua lingua, ma sentivo di conoscere colui che parlava. Sogni di questo genere mi tormentarono da allora. Scelsi di studiare le cose dell’antichità, nella speranza di risolvere il rompicapo.
Non potevo immaginare che cosa sarebbe accaduto! Vi sono parole che mi sono familiari, poesie che completo prima del professore, quasi le conoscessi a memoria. E non le pronuncio nella nostra lingua, ma nell’idioma antico... e quel giorno in cui mi guardasti a lungo e con tanta tenerezza, ero sconvolto dalle sensazioni che mi avevano preso nel vedere, tra le copie proposte dal professore, un oggetto funebre... un pezzo di coccio, nulla più: ma fu come se lo avessi avuto tra le mani fino a quell’istante. Fissai la fotografia, spaesato, con la sensazione che quell’oggetto mi fosse appena stato strappato.
E ora sento che mi si sta conducendo verso il centro oscuro di queste sensazioni. So che con questo viaggio scoprirò... sarà la fine della vita che ho condotto finora. Accadrà, ne sono certo.

 

Avrei potuto, in tutta sincerità, nonostante tutto l’amore, la fiducia, l’abbandono con cui mi diedi a lui, credere e fidarmi di ciò che mi aveva raccontato?

 

Ricordo che, durante quel viaggio, la trasfigurazione di Oswald fu totale e inattesa. Durante il giorno, vestito sobriamente, ci distanziava sui sentieri di montagna, apparentemente indifferente al caldo rovente che ci faceva boccheggiare e alla ghiaia che accecava con il suo biancore.
Sul suo viso si alternavano l’entusiasmo dello studioso e, specie quando rimanevamo soli, un’angoscia tormentosa. Allora il suo vigore svaniva e lui si sedeva sull’erba secca, lamentando vertigini e nausea.
Di sera, le mie compagne di stanza mi facevano il favore di andare altrove, per lasciarci in intimità. Scoprii il nuovo corpo di Oswald: asciugato ma, allo stesso tempo, rinvigorito dall’aria e dal sole, con i capelli schiariti, la pelle calda. Pareva quasi – ero influenzata anche io dall’atmosfera – che qualche dio avesse infuso la vita nella statua che era prima.
Alla mattina, mi prendeva in disparte per dirmi cosa aveva sognato. Diceva di prevedere cosa avremmo fatto quel giorno, si vantava di conoscere le strade e così faceva, ma sempre più spesso doveva tornare sui suoi passi, mortalmente pallido. Si rifiutava, però, di tornare in albergo.
– Oggi vedremo una tomba... – mi disse la quarta mattina, rivolgendo lo sguardo alla superficie del mare. Quel giorno anticipò la guida e poi ci litigò. Disse che avremmo dovuto prendere un sentiero molto esile che conduceva nella macchia, quasi impraticabile. Alla fine fui io a corrergli accanto e a chiedere alla guida di provare, perché era molto turbato.
Oswald mi prese per mano e mi costrinse a tenere il suo passo; in poco tempo, distanziammo la comitiva. Lui mi parlava in fretta, inframmezzando alla nostra lingua parole a me oscure, ma che ricordavano, almeno nel suono, il greco che studiavamo.
– Eccoci – disse alla fine, lasciandomi andare.

 

Io vidi solo un cumulo di pietre rovesciate. Oswald tremava.

 

La guida e il professore, che ci avevano raggiunti, ci superarono con un grido di stupore. Sentii che avrei dovuto ricordare quel momento, perché sarebbe stato importante. Fissai per sempre il luccichio lontano del mare, la luce che ondeggiava morbida tra le foglie, il sapore dell’aria e, soprattutto, Oswald.
Il suo viso non mi era mai parso tanto sfuggente, i lineamenti quasi indefiniti.
Lui avvicinò le labbra e mi sussurrò all’orecchio: – S'agapó
̱ , Athi̱ná mou.
Impressi a fuoco quelle parole che non conoscevo, e che tradussi più tardi, insieme alla guida. Ti amo, mia Atena. In seguito, lui negò di averle pronunciate, e non seppe tradurle.

 

In quell’attimo, i due uomini scostarono due pietre, rivelando un’apertura di due piedi di lato. Ci avvicinammo tutti, incuriositi. Vidi, grazie alla luce che filtrava tra le pietre, pezzi di coccio, altra pietra e, con mia grande meraviglia, qualcosa di lucente, nel punto a noi più lontano.
Oswald barcollò in avanti, mortalmente pallido, guardò nell’apertura.
Si rialzò, gridò: – È la mia tomba! È la mia tomba!
E cadde sul terreno sassoso.

 

 

 

 

 

 

 

Note dell'autore:
Oggi si parla di reincarnazione. Oswald è inglese (mezzosangue) e il resto si comprende. Spero.

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