Hortus larvarum di marguerite_murcielago (/viewuser.php?uid=54789)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Giappone ***
Capitolo 2: *** Inghilterra ***
Capitolo 3: *** Polonia ***
Capitolo 4: *** Egitto ***
Capitolo 5: *** Cina ***
Capitolo 6: *** Scozia ***
Capitolo 7: *** Germania ***
Capitolo 8: *** Italia ***
Capitolo 9: *** Grecia ***
Capitolo 1 *** Giappone ***
Giappone
(cliccami!)
- Hideo-san,
dovreste...
- Chi c’è dietro lo shoji,
Daisuke?
Il servo sospira,
attraversa la stanza e fa scorrere la porta sulle guide. - Nessuno,
Hideo-san.
Oltre c’è prima un
ballatoio vuoto e poi un giardino su cui si riversa la luce della luna.
Hideo-san fa un sorriso
furtivo. - Lasciami solo - ordina con dolcezza - e non chiudere. La
luna è
molto bella, stanotte.
Daisuke gli si inchina,
esce dalla camera; il rumore dei suoi passi si perde nel ventre scuro
della
casa. Ora, nella notte azzurrina, il vecchio ode un altro suono: un
ticchettio
di alti geta sul ballatoio; rimane
inginocchiato sui tatami, seguendo
con gli occhi il profilo di donna che si muove, lento e lieve, dietro
gli
schermi.
- Tsuki-to-mizu -
chiama piano, per non svegliare gli altri occupanti della casa che,
nonostante
sia bella e piuttosto grande, non è un palazzo; le pareti
sono di carta
sottilissima e tutto è talmente silenzioso che ogni parola
che non sia un
bisbiglio riecheggerebbe come un grido. Tsuki-to-mizu,
luna e acqua... pensa Hideo-san e ascolta il fruscio del
canneto e il
gorgoglio della cascatella, in fondo al giardino.
Ricorda la sua
giovinezza.
Tsuki-to-mizu ha il
viso stretto, gli zigomi levigati, le sopracciglia fini come una
maschera di geisha. Hideo-san la
invita ad entrare,
per poterla vedere al fioco lucore del braciere nell’angolo
più lontano dalla
soglia.
- Venite con me, danna-sama.
- Mia cara, la notte è
fredda: perché non entri a scaldarti?
Prova vergogna di se stesso:
una volta il suo
viso era piacente, i suoi muscoli gonfi, mentre la bella Tsuki-to-mizu
ha ora
davanti un povero vecchio con il petto incavato. Lei gli volta le
spalle,
scende dal ballatoio e muove qualche passo tra le pietre e i muschi del
giardino; lui ne guarda il collo d’avorio pallido.
Le pareti della stanza,
i tatami e gli alberi fruscianti
svaniscono
quando Tsuki-to-mizu si volge a guardarlo.
- State sognando,
Hideo-san.
Poiché sa che la donna
ha ragione, Hideo-san pensa di svegliarsi.
La luna splende
sull’acqua calma.
Lui, il giovane Hideo,
ha accompagnato una coppia di sposi sull’altra sponda della
laguna e ora sta
tornando alla sua casupola; rema stancamente, il capo che dondola a
destra e a
sinistra. La sua barchetta lascia dietro di sé una scia
arruffata.
Vede qualcosa di bianco
muoversi sulla riva.
- Buon uomo! - sente
gridare - Potreste trasportarmi sull’altra sponda?
Si avvicina con la sua
barchetta e scopre che quella cosa bianca è una donna; la fa
salire e sedere:
non è superstizioso come altri pescatori, anche le donne
sono ben accette sulla
sua barca. Nella testa assonnata ha la voce della sua vecchia madre: Se incontri una donna sola,
di notte, non può che essere una kitsune.
Non che ci creda:
questa ragazza, che indossa un kimono azzurro e grigio, ha solo
smarrito la
strada di casa; la osserva di sottecchi mentre guarda la luna con le
palpebre
abbassate. - Il mio nome - dice d’un tratto - è
Tsuki-to-mizu.
- Il mio, invece, è
Hideo - le risponde in fretta, arrossendo.
Tsuki-to-mizu china il
capo, come ad accogliere le sue parole, poi ricade in un silenzio
solenne.
Hideo la guarda, la
stanchezza che gli annebbia la mente si dirada come la nebbia
mattutina: per un
breve istante, quando due anitre volano via sbatacchiando le ali e
Tsuki-to-mizu, guardandole, si passa sulle labbra la lingua rosea,
sogna di
presentarla ai suoi vecchi genitori e chiedere loro il permesso di
farne la sua
onorevole moglie.
- Potete lasciarmi qui,
Hideo-san.
Vivrebbero in una
casetta dignitosa, anche se modesta, ben diversa dalla casupola nera a
cui sta
tornando. La donna lo ringrazia con un basso mormorio, guardandolo
appena; lui
sente un profondo terrore, terrore di averla spaventata. L’ha
forse guardata
troppo? Il suo viso ha forse lasciato trasparire più di
quanto lui stesso
credesse?
Si umetta le labbra, la
gola secca.
Lei si allontana tra le
fronde degli alberi, seguendo un sentiero illuminato dalla luna; Hideo
non
riesce a distogliere lo sguardo dal suo collo molto nudo, sottile come
quello
di un cigno, ma ha quasi l’impressione che Tsuki-to-mizu si
faccia sempre più
piccola. Il suo bel kimono ondeggia come se fosse vuoto.
Più tardi, disteso sul
suo futon, sogna che il profumo di
sale di cui sono impregnate le assi sia quello di Tsuki-to-mizu, che si
sta
chinando sul suo giaciglio. Nuda.
Fukanuma Hideo
ha
sposato Asahashi Junko, la sola figlia del ricco commerciante Asahashi
Iwao, ed
è stato nominato suo erede. Disteso accanto alla sua giovane
moglie, dopo aver
compiuto il proprio dovere di uomo e marito, già per
metà addormentato, sente
frusciare i fusuma. Due volte.
Pensa
che sia il signor Asahashi che vuole spiegarli altro sugli affari,
anche se è
notte fonda; volta la testa sul cuscino e posa gli occhi sui fogli di
carta di
riso che ha dimenticato su un basso tavolino: stanno scivolando sui tatami, uno alla volta, i kanji
sembrano lacrime e segni
ghignanti.
La luce rossastra di un
braciere dipinge sulla parete l’ombra di un animale
gigantesco ma, quando Hideo
abbassa lo sguardo, scopre che Tsuki-to-mizu è inginocchiata
lì accanto, con
un’espressione tristissima sul viso. Perché
mi hai abbandonato? sembra voler dire.
- Odoma bon-giri bon-giri,bon kara
sakya oran-do, bon ga hayo kurya,
hayo modoru - canta a bassa voce.
L’uomo scosta il
lenzuolo e le si para davanti; la sovrasta, ma la donna non sembra
neppure
intimorita.
- Non ti ho più visto,
Tsuki-to-mizu. L’onorevole signor Asahashi mi ha concesso di
sposare sua figlia
Junko; come avrei potuto sposare te,
se non ti ho più visto, da quella notte? - domanda, triste.
L’ha solo sognata,
nelle notti in cui il vento soffiava il sale fin sul suo futon
e in quelle in cui la neve cadeva attraverso le finestrelle.
- Ho sognato che tu fossi una donna delle nevi, ma non mi hai mai fatto
visita.
- Vi ho fatto visita
stanotte, perché non vi dimentichiate di me, danna-sama.
Lui le scioglie il nodo dell’obi
dorato, scosta i lembi del suo kimono rosso: - È per il
vostro
matrimonio, danna-sama - e la bacia
sul petto, mentre Tsuki-to-mizu gli fa scivolare l’hanten dalle spalle. Le prende i seni
tra le mani, facendola
mugolare, la fa distendere sotto di sé. Non può
persuadersi ad amare la povera
Junko, pur avendola sposata, così i suoi gesti prendono
un’urgenza tutta nuova:
le sue mani annaspano tra la stoffa, la graffia, ma lei non emette un
suono.
Spingendola giù la sua pettinatura si è disfatta
e
ora i capelli di Tsuki-to-mizu sono sparsi sul tatami;
Hideo indugia per un attimo, nel notare che in quella
penombra assumono riflessi rossi come il sangue, ma non ha la forza di
fermarsi.
Ha sempre pensato che
giacere con una donna assomigli al salire su una collina e sia
egualmente
faticoso, invece, se ne rende conto solo ora, si sente una goccia in
procinto
di cadere nel vuoto.
Il suo destino
è
rimanere solo. Sua moglie Junko è una kitsunetsuki;
la sente muoversi nella sua stanza proprio come un animale selvaggio,
fuggire
non appena la porta si apre e la luce del corridoio si riversa sui tatami sciupati. Non vuole che lui la
tocchi.
L’hanno condotta da un
sacerdote, in un tempio dedicato al dio Inari, ma non è
servito a nulla. Junko
sgattaiola davanti a lui per prendere la ciotola di riso e fagioli
rossi che le
ha lasciato, comincia a mangiarla con le dita, come una selvaggia o una
bambina.
- Assicurati che si
metta a letto - ordina ad una serva.
Ogni volta che la
guarda, sente una tristezza infinita: non la ama, non l’ha
mai amata, ma è la
donna con cui ha giaciuto per anni. Ora che lui sta invecchiando e lei
non gli
si concede più, sa che non avrà figli, nessuna
Fukanuma Megumi o Fukanuma
Ichiro. La volpe che è entrata in sua moglie non la
abbandonerà mai.
È
sempre stata minuta,
Junko. Così piccola e umile che a volte, per scherzare, le
diceva che avrebbe
dovuto chiamarsi Suzume, “passerotto”. Il suo volto
è livido e composto, lo yukata indossato
al rovescio per il
viaggio. Hideo prova ad immaginare cosa direbbe il suo onorevole
suocero, il
ferreo signor Asahashi: sicuramente proverebbe una profonda vergogna
nel sapere
che sua figlia è morta scioccamente, cadendo attraverso un fusuma, battendo la testa sul legno.
Ordina a Daisuke di far
riparare la parete e arieggiare la stanza, alle donne di pulire la casa
da cima
a fondo e di comprare dell’incenso per il suo altare. Si
ritira nella propria
camera con l’intenzione di scrivere una lettera ai suoi
fornitori, ma il
pennello rimane sospeso sul foglio.
Lo lascia cadere.
Lo sente rotolare sul
tavolo e cadere sui tatami con un
tonfo lieve; Hideo si alza: sulla soglia c’è
Tsuki-to-mizu, che indossa un
kimono bianco come la neve. - Vi siete dimenticato di me, danna-sama? No, non credo. Ho saputo che
vostra moglie è morta.
- Era una donna buona,
ma per molti anni è stata malata.
Tsuki-to-mizu
non risponde: sembra impegnata a versare il tè in una tazza,
in religioso
silenzio. Lui non si era accorto della presenza della teiera, ma,
arrossendo,
non si stupisce: ha ancora il sapore del saké
sulla lingua. Accetta la tazza fumante che la donna gli porge senza
fiatare, lo
sguardo basso.
-
Chi sei tu? - chiede d’un tratto, in tono vivace.
-
Cosa vi sembro? - replica Tsuki-to-mizu. Hideo la guarda meglio:
dall’acconciatura
lucida ed elaborata, ai fermagli d’argento e seta che la
adornano, dal viso
attraente all’ottima fattura del kimono, dall’obi
blu notte agli zori bianchi. -
Siete forse... una geisha?
La
sua risata, che non ha mai udito prima d’allora, gli ricorda
una cascata di
perle; si nasconde la bocca dietro la mano. Ha le unghie lunghe.
-
Forse. Danna-sama ne sarebbe
offeso,
se così fosse? - gli si avvicina così tanto che
può sentire il suo fiato caldo
sulla bocca. Vede la sua bocca incurvarsi in un sorriso malizioso. -
Sono
venuta per non andarmene mai.
Hideo vede la
sua vita
passata srotolarsi dietro di sé come un nastro scolorito. La
sua giovinezza, la
sua bellezza sbiadiscono nel termine “dignitosa”:
sì, la sua vita è stata
dignitosa. Quella di un figlio obbediente, un buon marito, un
commerciante
accorto. Dalla morte di Junko, che coincide con il ritorno di
Tsuki-to-mizu, è
certo di aver provato una gioia piena, fluida, simile ad un fiume
carico di
acque.
È felice che la sua vita
non sia mai stata vuota.
Mentre segue
Tsuki-to-mizu lungo la strada silente con il suo passo incerto e il
fiato
corto, ripensa ai giorni in cui lei ha vissuto con lui. Ricorda le
notti in cui
l’ha portata sulla laguna, quando il cielo era limpido e il
clima già tiepido,
e le lunghe, tristi notti nevose: la luce delle candele si stendeva
fiacca sui tatami, Tsuki-to-mizu
suonava lo shamisen. Cantava per
lui. A volte
passeggiava nel giardino imbiancato, facendo roteare un ombrellino
laccato.
- Fermati, ti supplico
- geme.
Tsuki-to-mizu ha ancora
il viso della donna che ha conosciuto in quella notte lontana; potrebbe
essere
pacifico come quello di Buddha, ma c’è sempre una
fiamma lontana in lei, come
se avessero mescolato al bianco della sua pelle una goccia di fuoco.
- Avete scoperto tutto,
Hideo-san - dice con durezza.
I suoi lineamenti si
trasfigurano lentamente, si fanno appuntiti e sfuggenti. Lui pensa solo
che non
poteva farle sapere che lui sapeva. - È stato uno sbaglio...
dovuto alla febbre...
- sospira; tutte le ossa tremano.
- Non si sfugge al
destino. Ora che voi sapete, danna-sama,
devo abbandonarvi.
Tsuki-to-mizu allunga
la mano e gli carezza la guancia, dalla tempia al mento; Hideo chiude
gli
occhi: non ha pianto per la morte di sua madre e di suo padre,
né per quella di
Junko. Piange adesso, nel sentire le labbra tenere come boccioli di
Tsuki-to-mizu
premere sulle proprie.
- Addio, Hideo-san.
Quando riapre gli
occhi, il suo kimono è sporco e lacero. Alberi scuri e
antichi protendono i
loro rami sopra la sua testa. Si guarda intorno, dopo essersi asciugato
gli
occhi con le mani chiazzate dall’età: sa che la
strada di casa è quella che va
incontro alla luna, ma indugia ancora per un attimo.
Vede gli occhi
luccicanti della volpe nel sottobosco, prima che lei svanisca per
sempre.
Comincia a camminare,
ma la strada si snoda sinuosa fino all’orizzonte, e il freddo
dell’inverno gli
cala nelle ossa. Casa sua è terribilmente lontana.
Note:
[sperando di non
aver
scritto delle oscenità]
Tsuki-to-mizu:
Luna
e acqua
Hideo:
Splendido
uomo
Daisuke:
Grande
aiutante
Junko:
Bambino
obbediente
Fukanuma:
Profonda palude
Asahashi:
Basso
ponte
Iwao:
Uomo
di pietra
Megumi:
Benedizione
Ichiro:
Primo
figlio
La
ninnananna che canta
Tsuki-to-mizu è la cosiddetta “Ninnananna di
Itsuki”, il cui testo potete
trovare qui.
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Capitolo 2 *** Inghilterra ***
Inghilterra
Sono rimasta
sveglia
per notti intere, fredde e interminabili notti d’inverno. Ho
sperato che ci
fosse qualcosa nella mia pancia, una vita che mi sarebbe stata ben
più cara dei
gioielli e delle stoffe che mio marito mi ha regalato.
Non mi ci è voluto molto
per comprendere che non ero incinta - e la disperazione ha preso il
rosso
sanguigno dei granati che indossavo il giorno del mio matrimonio.
Il sonno è tornato, ma
ho sognato la Torre. Ho sognato le pareti spesse e viscide, il puzzo
del Tamigi
che entra dalle feritoie. Ho sognato mio marito che dorme sul pavimento
e i
ratti che gli mordono le dita e le caviglie. Ho sognato che la notte
nella
prigione - incubo nell’incubo: i due principi gridano e
battono le mani di
scheletro sulla pietra, i passi della Regina Anna svaniscono in
lontananza.
Tiene la testa sottobraccio, capelli lunghi strisciano sul pavimento.
-
Ellen - ha del sangue rappreso intorno alle unghie, mi accarezza il
viso.
Penso
ai capelli della Regina Anna che spazzano la pietra fredda.
-
Chi è stato? Chi è stato a farti processare?
Lui
chiude gli occhi, scuote la testa. - Non ha più importanza,
ormai...
Gli
prendo una mano tra le mie, mi fanno male gli occhi e la testa, si gela
anche
sotto la pelliccia e lui indossa solo una camiciola stracciata: da
vicino si
vede che ha la pelle d’oca sul collo e sulle braccia, le
labbra blu.
-
Chi è stato? - ripeto, affondandogli le unghie nella carne.
Quando
risponde, sento le labbra di un fantasma sulla bocca e respirare il mio
fiato
gelido, la mia vita e... ogni cosa. Stringo la mano di mio marito, che
è per
Dio la mano di un morto, con la nebbia del fiume che mi entra nel
cuore, perché
il nome che pronuncia è quello di mia sorella.
-
Margery - sospira - è stata lei... era al processo, ha
testimoniato anche
davanti a me. Le hanno chiesto: “Lady Margery Bossomblower,
siete al corrente
della condotta viziosa di vostro cognato, ma sapete se anche vostra
sorella è
una seguace dell’eresia luterana? Per Dio, per la Regina e
per questa corte, se
così è, adesso siete sotto giuramento e dovete
riferircelo” ma lei li ha
guardati con una faccia totalmente ingenua e ha detto che neppure fra
cent’anni
dubiterebbe di te.
-
No - rispondo con una voce che non riconosco - lei è fedele
a Maria. Se sapesse
che io sono una protestante come voi, avrebbe fatto il mio nome,
perciò non sa
nulla di me. Daniel, se ti uccidono...
È
la voce del fantasma, penso. In fondo al corridoio
c’è il connestabile che mi
attende con uno sguardo mesto. - Daniel, un’ultima cosa,
prima che vada -
appoggio la bocca alle sbarre - tu hai mai visto niente di strano qui?
Lui
mi sfiora le labbra con le dita sporche di sangue. - Vai a casa, Ellen,
o
qualcuno potrebbe decidere di chiuderti qui.
Mi
stringe la mano con forza e io so, come se qualcuno me
l’avesse sussurrato, che
ha paura di morire e mi ama, come se fossi un’apparizione o
uno spirito
benigno. Non me lo dice: mi stringe la mano per un attimo lunghissimo,
poi
chiude gli occhi e abbassa il braccio.
-
Vi ringrazio - lascio il denaro nelle mani del connestabile.
C’è
una figura goffa, con un fagotto sottobraccio. È bassa,
quasi una nana, e ha
uno strano passo barcollante. Mi segue attraverso i corridoi stretti,
sulle
scale scivolose e nelle gallerie buie. Penso che potrebbe essere una
guardia con
l’ordine di arrestarmi e non riesco più ad andare
avanti; mi fermo al limite
del cerchio di luce di una lanterna.
La
figura mi passa accanto, evitando la luce.
Guardo
in basso, il velo di capelli neri che mi scivola sul piede come un
serpente e
sento una risata gorgogliante, prima che la porta davanti a me si
chiuda con
uno schianto.
Ho
sognato mio marito. Era chino accanto al letto, mi vegliava. Ho
allungato le
mani e gli ho preso il viso per poterlo baciare. Ero fuori di me per il
desiderio. Volevo che giacesse con me, ma, mentre lo coprivo di baci e
carezze,
ho sentito la sua testa leggera tra le braccia. Ho guardato e ne ho
visto la
gola recisa, gli occhi sbarrati e il sangue coagulato in bocca.
Nello
specchio fumoso vedo me stessa, il rosso sangue dei miei capelli e il
celeste
dei miei occhi brillano come stelle sopra l’abito nero.
So
che stanotte impazzirò: le ombre escono dai loro angoli e
camminano per la
stanza come se ne fossero padrone.
Daniel
mi guarda. Ha una linea sanguinolenta sul collo, la camicia appiccicata
alle
spalle; ripenso ai capelli della Regina Anna che mi sfiorano il piede,
poi al
corpo di mio marito, quando lo hanno gettato nella cassa.
Il
pensiero che mia sorella lo abbia denunciato perché ha
sposato me anziché lui
mi assilla, mi tiene sveglia la notte. Perché i tendaggi non
mi cadano addosso
e non mi soffochino con l’odore di vecchio e di sangue,
immagino il momento in
cui la farò arrestare.
-
Non guardarmi così - grido alla notte; mio marito abbassa le
palpebre e piange
lacrime di brace.
È
arrivata la primavera e poi l’estate: nelle notti calde
nessun fantasma ha
bussato alla mia porta, nessun’ombra mi ha avvinto il collo
mentre indossavo la
collana di granati, nessun viso caro è emerso dalla polvere.
Ho
sognato di tagliare la testa a mia sorella con le mie mani. Ho sognato
Maria -
mai Regina, mai - che non giace con suo marito perché lo
spagnolo preferisce la
figlia del mugnaio. Ho sognato la mia Signora e le ho scritto, le ho
chiesto di
tornare al suo servizio non appena il lutto fosse finito.
Ho
lavorato con delicatezza e dedizione infinita a questo momento. Il vino
nei
calici è nero, la neve si appoggia con mille dita alle
finestre; vedo mia
sorella - con i suoi sbiaditi occhi azzurri - stretta nel mio inganno.
Non può
salvarsi.
-
Ellen, che cosa hai fatto? - mi chiede. Teme per me, che non riesco a
nascondere la rabbia e la gioia che provo nel distruggerla. - Che cosa
hai
fatto tu! Ho saputo tutto, ho visto
tutto. Sono stata alla Torre, ma non... come hai potuto fare questo a me?
Dovevi essere la mia buona sorella, non quella di Maria. Maria ha
già una
sorella! - le rovescio tutto addosso, prima che le guardie vengano ad
arrestarla.
Cerca
di toccarmi, ma mi scosto, mi unisco alle ombre di cenere e brace. Mi
dirigo
verso la porta con la scusa di volere più luce - la
realtà, Margery, è che
nessuna accusa ti avrebbe ferito più del vedere che non
voglio essere toccata
da te.
Le
braci nel camino si spengono e vedo Daniel fissarmi da lontano.
Sono
rimasta sveglia per notti intere, fredde e interminabili notti
d’inverno, dopo
la morte di mia sorella. Sulle labbra si è presentato il
sorriso di cometa che
le ho rivolto quando l’ho messa davanti alla
verità, a ciò che mi aveva spinto
a volerla morta.
Daniel
si è avvicinato al mio letto, si è retto la testa
con una mano e mi ha baciato
sulla fronte. Era così vicino che ho visto le macchie livide
attorno alla sua
bocca e la polvere di brace nelle sue palpebre.
Il
suo fiato freddo mi ha fatto addormentare, ma ho sentito che diceva: -
Addio.
Ho
sognato la Regina Anna che porta la sua testa sottobraccio - con i
capelli che
spazzano il pavimento - e i passi di mio marito che la seguono e non
arrivano
mai.
Note:
L’immagine
del capitolo mi piace tantissimo, anche se una bambola moderna poco
c’azzecca
con il periodo Tudor. L’ho trovata qui.
|
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Capitolo 3 *** Polonia ***
Polonia
(cliccami!)
Il
mio nome è Ryszard Ostrowski, figlio di Nadzieja Ostrowska e
padre ignoto.
Queste sono le mie memorie - ti prego di non gettarle senza leggere -
non
limitarti a scorgere un mio inquieto segreto: la pena che ho provato
nel
rivivere i miei ricordi mi ha lasciato prostrato, il mio spirito
è colpito a
morte. Il mio tempo è ormai scaduto e i nascondigli
preclusi, da qui alla fine
della Terra, ma spero che questa sofferenza non sia stata vana.
Prego
che queste mie parole non fuggano dalla carta o non sarà
esistito un uomo di
nome Ryszard Ostrowski che ha visto la śmierć
camminare sulla pelle del mondo come una livida stella.
Nelle
notti invernali i lupi scendevano dai boschi e si avventuravano fin nei
cortili, ululando sotto le finestre. Spesso i genitori sbarravano gli
scuri,
affinché i bambini non cedessero alla tentazione di aprirli.
Kazimierz, il
figlio più piccino del fornaio, era riuscito a far cedere il
catenaccio, e al
mattino la madre aveva trovato la stanza vuota, la finestra aperta e,
fuori, la
neve macchiata di rosso e una camiciola sbrindellata.
Io
non avevo un padre che facesse lavori di falegnameria, ma la mia stanza
era al
primo piano e non fui mai tentato di uscire in quelle ore.
Una
notte, quando avevo dodici anni, mi svegliai senza sapere
perché; mezzo
intontito, passai qualche minuto a fissare il soffitto, poi sentii gli
ululati:
pareva che i lupi stessero morendo - quando avevo quattro anni i
cacciatori
portarono in paese un lupo catturato in una tagliola. Ululava alla
stessa
maniera.
Corsi
ad aprire la finestra e nella luce grigia delle notti nevose vidi i
lupi
fuggire verso la foresta. Non avevo mai visto i lupi fuggire davanti a
nulla;
rimasi a guardare, meravigliato, senza curarmi del freddo intenso.
Vidi
le schiene irsute degli animali scartare attorno a un punto bianco, li
udii
guaire.
Quella
macchia di chiarore si avvicinò al villaggio e io mi
strofinai gli occhi,
incredulo.
I
vecchi ci insegnavano a riconoscere la śmierć,
anche se probabilmente nessuno l’aveva mai vista davvero - o
era vissuto
abbastanza a lungo da parlarne - perciò la riconobbi, e fui
preso dal terrore.
Pensavo che avrei dovuto allontanarmi dalla finestra, ma non riuscivo a
muovermi: prima fui paralizzato dalla paura, poi dall’amore.
In
mano aveva una luce verde, che le si spargeva sul petto e sul viso come
una
cascata al contrario. Bianco di neve, di luna, di foschia e cristalli
ghiacciati, disegnata con linee di nuvola, passo di spettro. Come se
fosse
stata partorita dalla terra innevata.
Lei,
la śmierć, infiammò da
subito la mia
immaginazione. Ora la pelle mi si ricopre di un sudore gelido nel
pensarci, ma
allora mi sentii pazzo di lei. Corsi al letto, indossai gli abiti
più pesanti
che avessi e uscii di casa.
Ci
incontrammo davanti alla casa del vecchio Jakub: lei reggeva alta la
sua
fiammella - che, come mi resi conto avvicinandomi, si produceva da un
ramoscello di agrifoglio - e mi guardò con gli occhi
pallidi, grigioblu. - Vai
via, bambino - disse con una specie di mormorio sommesso.
Io
sussultai come se mi avesse punto con uno spillo, tremando dalla testa
ai
piedi. La śmierć entrò
nella casa
buia; vidi il bagliore verde spettrale attraverso le fessure delle
finestre.
Aspettai finché non sentii le ossa gelate, ma lei non
uscì.
La
vecchia Krystyna gridava come un’ossessa in mezzo alla
piazza; fui svegliato
dai suoi lamenti. In un primo momento pensai che i lupi avessero
divorato suo
figlio, ma mentre la mente mi si schiariva ricordai che era ormai
grande e che
i lupi erano fuggiti.
Seppi
che gridava per colpa della śmierć.
-
Me l’ha portato via! Ieri sera ha mangiato, pan
Jakub, con appetito come un giovane di vent’anni e
stanotte la śmierć maledetta
è entrata nel nostro
letto! - e si strappava i capelli grigi con le mani mentre quattro
uomini
portavano fuori suo marito con i piedi in avanti.
Accadde
di sera, mentre il crepuscolo estivo si insinuava nella cucina.
-
Voglio sposarla, nemmeno i suoi genitori si oppongono!
-
Rifletti, Ryszard, ha una dote così modesta che potrei
eguagliarla in un solo
giorno di lavoro! - gridò mia madre, il viso rosso e lucido
di sudore, e si
asciugò la fronte con il grembiule. Attesi, ma quando lo
abbassò vidi
l’inflessibilità nei suoi occhi azzurri. - Tu non
la sposerai - sillabò a voce
molto più bassa e strinse le labbra, come se non volesse
aggiungere nulla.
Vorrei che tu
morissi,
pensai con le braccia che mi tremavano contro i fianchi.
Senza
pronunciare una sola parola - sapevo benissimo che non avrebbe sortito
alcun
effetto - uscii e presi la strada che scendeva verso il mare, incurante
della
procella e dei richiami ansiosi di mia madre. Mi sentivo male, avevo un
sapore
acre in bocca e il mio passo era insolitamente molle.
-
Wanessa! - urlai.
Venticinque
anni, una costa battuta dal vento, il mare nero e la tempesta verde
sopra le
nostre teste. Lei si voltò a guardarmi da lontano, i capelli
le si alzavano
sulle spalle come se qualcuno li stesse respirando. Una nuvola di
vapore. -
Ciao, Ryszard! - la sentii gridare per superare l’ululato del
vento.
Era
bella, caldamente bella, con quella sfumatura di fuoco nei capelli
bruni.
Sapevo che l’avrei sposata e mi faceva girare la testa il
pensiero di potermi
tuffare in lei e cercare il suo fuoco nascosto.
Quando
fummo vicini le presi entrambe le mani e me le portai alle labbra,
baciandole
la punta delle dita. Lei rise.
- Ryszard, che cosa
ti prende oggi?
Mi
immobilizzai con la testa china, vedevo i miei capelli biondi e sottili
dondolarmi davanti agli occhi. - Dirò a mia madre che voglio
sposarti - risposi
con durezza; Wanessa mi si accostò, mi sfiorò il
braccio con il seno, appena
velato dall’abito. - Io ti amo, Wanessa Sobolewska - le
dissi, solenne.
I
tuoni coprirono le parole della donna che amavo, ma lessi dalle sue
labbra che
anche lei mi amava. Tornai a casa con le mani affondate nelle tasche e
il cuore
che smaniava per uscirmi dal petto e prendere il posto della tempesta;
mai
avevo provato una felicità del genere... e mai
più l’ho provata, da quella
notte fatale.
Tutti
sapevano che amavo mia madre - la rispettavano per avermi cresciuto
dopo la
morte di mio padre - nessuno mi raccontò mai come fosse
morto, né come si
chiamasse. Nadzieja Ostrowska fece del suo meglio per proteggermi e
crescermi
al meglio: non ho alcun dubbio che così sarebbe stato, se
non fossi stato messo
al mondo con un occhio dannato.
Mia
madre era nel cortiletto, il vestito che ondeggiava come uno straccio:
aveva
cominciato a piovere, sferzate di acqua fredda sul suo corpo esile, ma
quando
la chiamai non si mosse. Solo dopo il mio secondo richiamo
alzò la testa,
fissandomi distratta.
-
Vieni dentro! Piove, non vedi? - le dissi dalla porta della cucina.
Lei
si scostò una ciocca bagnata dalla fronte, scuotendo la
testa come se stesse
cercando di svegliarsi da un brutto sogno, quindi si
appoggiò ad una betulla
sottile. Colsi, sorpreso, la regalità della sua mano... dico
sorpreso perché
non avevo mai pensato a mia madre come a una donna di intensa grazia.
Pensai
di serbare quel complimento e riferirglielo non appena fosse stata al
coperto.
Un gesto rapido attrasse il mio sguardo - simile a una coltellata, o a
un’altra
azione di quel tipo violento. La śmierć
che tredici anni prima mi era parsa timida neve ora era del bianco
sfolgorante
delle saette. Spalancai la bocca e gridai, continuando anche dopo che i
timpani
mi si furono rotti con uno schiocco terribile e non fui più
in grado di udirmi,
finché qualcuno accorse e mi portò via.
Intravidi
in un pezzo di vetro la mia faccia stravolta, gli occhi spiritati e il
sangue
che mi colava dalle orecchie, prima di essere ottenebrati dalla febbre.
Fui in
bilico tra la vita e la morte per due settimane.
Da
allora la śmierć non mi
abbandonò
più.
Wanessa
morì di parto.
Ero
accanto a lei quando il sangue le ruscellò tra le gambe,
costringendola a
buttare indietro la gola sussultante. Le stringevo la mano livida e
sudata, la
levatrice infilò senza paura le mani in quello schifo e
mormorò una preghiera.
- Deve spingere, signora. Si liberi del fardello.
-
Ce la stai facendo, amore mio - le sussurrai - manca poco.
Venne
fuori un bambino lungo due spanne, con un faccino viola e grinzoso e un
ciuffo
di capelli neri. La levatrice lo lavò e lo avvolse nelle
fasce con i gesti
frettolosi di chi ha una grande esperienza; Wanessa era orribilmente
pallida,
accasciata tra le lenzuola zuppe di sudore. Le scostai i capelli dalla
fronte,
sorridendole, anche se lei mi rivolse un’occhiata palpitante
e angosciata. Mosse
le labbra, ma non ne uscì alcun suono - così mi
chinai e la pregai di stare
tranquilla e riposare.
La
levatrice le spinse degli stracci tra le gambe, aggrondata, si fece il
segno
della croce e ripeté la preghiera accorata di poco prima.
Fingendo che nulla di
preoccupante stesse accadendo, tornai a parlare a Wanessa in tono
caldo,
fiducioso.
Guardai
la levatrice con la coda dell’occhio: ora se ne stava ritta
in fondo al letto,
le mani insanguinate poggiate in grembo, su un grembiule già
sporco; mi chiesi
perché mi stesse guardando con un’espressione
infinitamente triste, ma non osai
pronunciare la domanda ad alta voce.
-
Esci - le ordinai, duro. Per un attimo la stretta delle dita di Wanessa
si fece
convulsa.
-
Ryszard, è un bambino? Un maschio? - ansimò, gli
occhi febbricitanti. Non lo
avevo notato, ma sentivo che era un maschio e glielo dissi. Lei fece un
sorriso
tremulo e bellissimo, che mi si incise dentro e affondò come
una lama. - Ho le
gambe che vanno a fuoco, puoi togliermi la coperta? -
domandò innocentemente.
Ma
non aveva le gambe coperte: era il calore insano del sangue.
Quella
volta sapevo che sarebbe giunta e quando, alzando lo sguardo, la vidi
dall’altra
parte del letto non ne fui sconvolto. Addolorato, raggelato, ma non
sorpreso. La
śmierć aveva il ventre rotondo e il
seno gonfio di latte come una donna incinta, il viso morbido.
-
Ci incontriamo ancora - disse lei, con una nota ironica che mi
terrorizzò.
-
Non portarmela via - mormorai, ma la śmierć
scosse la testa; allungò il braccio e sfiorò
Wanessa con il suo rametto
sempreverde... e in un istante finì tutto.
La
mia vita fu una fuga infinita: foreste, brughiere, città,
fiumi che superai in
una corsa continua, guardandomi sempre alle spalle, sentendola giungere
in ogni
posto che toccassi. Feci crescere il bambino alla levatrice,
chiedendole solo
di dargli nome Szymon - il nome che Wanessa voleva per lui -
perché avevo
troppa paura che la śmierć si
prendesse anche lui, sapendolo sempre accanto a me.
Vidi
morire uomini, donne, bambini e di notte ero ossessionato da incubi da
cui mi
svegliavo in un bagno di sudore: sognavo di donne bianche, mia madre,
Wanessa e
la śmierć che mi
seguivano come spettri
lungo strade senza luna. Non c’era rimedio, né
nella religione, né nelle
sollecitazioni della carne.
Negli
inverni infiniti del Nord ripensavo al nostro primo incontro, riesumavo
un
desiderio ormai stinto e ridotto in cenere e mi chiedevo come avessi
potuto
trovarla bella
C’erano
i suoi occhi grigioblu, smodatamente affascinanti, negli stagni che si
aprivano
in mezzo ai campi innevati. La mia peregrinazione assunse i tratti di
una
rotta, una corsa angosciosa fino alla fine del mondo dalle porte della
città di
Warszawa, laddove la śmierć mi
indicò
con il suo ramo spettrale e mi disse: - Presto sarò da te.
Non
sarei diventato vecchio, dunque. Quel pensiero mi spinse a nascondermi
in
questa vecchia chiesa, con una candela sola, a ripercorrere la mia vita
maledetta: questo sforzo mi ha accorciato la vita, e so che se vi fosse
uno
specchio in questo luogo dimenticato dal mondo vi troverei un uomo
abbruttito e
invecchiato dalla paura.
Forse,
se non avessi insistito per scrivere queste memorie sarei vissuto
ancora, ma
mai avrei dimenticato che la śmierć era
prossima a prendermi. Ora, lascerò questo folio
dove tu, Lettore, potrai trovarlo e farne tesoro.
La
mia vita è finita, lontana da me da molto tempo a questa
parte.
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Capitolo 4 *** Egitto ***
Egitto
Nut
si inarca sulle teste dei mortali – sulla testa degli scribi
e degli schiavi,
dei ladri e del Faraone nel suo palazzo colorato di sabbia e fuoco. Ora
donna
stellata, ora scrofa con i suoi maialini, ora vacca gigantesca, Nut
è la grande
porta su cui dipingono stelle per allontanare la Morte.
Di
notte cammina sulle rive del fiume: il fiato umido e rivoltante dei
coccodrilli
le sfiora le gambe nude, lo schiocco delle loro mascelle la spinge come
vento
in una corsa cieca. La luna – una sacca piena di miele, il
sole morto – a volte
scompare e la lascia sola.
Non
sa se i suoi fratelli o le sue sorelle pensino mai alla fine di tutte
le cose:
non solo quella dei loro corpi, perché non è una
bambina sciocca. Pensa alla
fine della loro terra, al giorno in cui le case crolleranno e la sabbia
rapace
gratterà via il colore dalle bellissime colonne fiorite.
È sorprendente che gli
altri non sentano il deserto che sibila e guaisce – a seconda
del vento – ai
bordi delle città, come uno sciacallo o un infido serpente.
Le
notti d’Egitto hanno un profumo caldo, come pane appena
sfornato.
A
volte sembra che ci sia un’altra bambina che la chiama, molto
più avanti
sull’erba polverosa – lei vi guarda attraverso e
vede il cielo stellato, il
sorriso rovescio e imperscrutabile di Nut dietro i punti neri delle sue
pupille.
Così
c’è questo riflesso distante, una bambina con gli
occhi blu, che cammina in
avanti ma va indietro: cercano di avvicinarsi, lei e la bambina di Nut,
ma si
allontanano trascinate da fili invisibili.
Così
guarda la terra addormentata come se fosse alla fine dei tempi. Ho abbandonato la mia casa e ora il deserto
l’ha mangiata. Non posso più ricostruirla.
Sente un canto dolce nelle
orecchie, che le dice di tornare a casa.
-
Ho conosciuto la figlia di Nut - biascica alla mano di sua madre, che
corre
fresca e leggera sulla sua fronte.
-
Sei uscita ancora dalla casa, bambina mia - non
c’è rimprovero nella sua voce.
-
Madre, oh... madre, mi chiamano sempre al calare del sole... come se Ra
chiedesse il mio aiuto.
Non
è che tutte le colonne cadano, alcune restano in piedi, ma
sono scrostate dalle
tempeste.
I
nubiani con la pelle nera, di una bellezza sgradevole e imperiosa, sono
soliti
stringere le spalle e non curarsi della bellezza dell’Egitto
che si spegne, non
se ne curano: se hanno allenato l’occhio al gusto, non lo
dimostrano.
-
Oh, figlia di Nut! Aspettami!
Il
suo passo è lieve, non turba le anitre che dormono tra i
canneti, il grido di
Atum – la scrofetta di Nut le parla insinuante di un popolo
di schiavi che
fugge, il mare si apre. Non capisce, allora le dice di immaginare la
concubina
del Faraone che schiude le gambe per accoglierne la virilità
divina. Poi ecco
guerrieri uscire dal mare, ammantati di cuoio e una strana corazza,
come non se
ne sono mai vedute.
Tende
l’orecchio per origliare dietro un velo tirato... una donna
rotola fuori da un
tappeto, ma nessuno ride: ha viticci di henné sul corpo di
ambra, veli sontuosi
e impalpabili attorno alle forme tornite. La sua parrucca è
adorna di pietre,
perline e mirra odorosa, il kohl
è
denso come le ombre di mezzogiorno, ma nel suo viso qualcosa le dice
che è
straniera, una donna d’Egitto fuori d’Egitto.
È
bellissima, ma i suoi seni sono acri come fiele.
-
La fine di tutti i tempi! Una donna che non è egizia
– una goccia di terra in
latte d’asina – e popoli! Popoli lontani... che
strappano le vesti dai corpi
delle nostre donne... abbandonano gli strumenti nei campi fertili e ci
lasciano, ci lasciano!
-
Sta soffrendo... la morte sarà una liberazione...
febbricitante... è il dolore
che distorce... vede... vede... reale...? - infine una domanda si
libera nella
notte, insieme al fumo delle candele.
Parla
per visioni perché non conosce altro – non conosce
il significato misterioso
dei geroglifici: i sacerdoti le hanno detto che non si possono
sfiorare. Alla
luce delle stelle passa le dita brune sui dipinti ed è
consapevole che sta
lasciando fuggire un pesce dalle verdi acque del Nilo. Con le mani di
febbre
sfiora il corpo arcuato di Nut e si domanda se così
l’abbia fatta fuggire o
cadere su Geb.
Non
sa fare altro che quello, che parlare delle cose che vede a sua madre,
nella
speranza di toglierle il pianto dalla faccia di cotto.
Sale
su una barca di legno indorato, tra donne che portano lapislazzuli sul
petto e
tra i capelli; la barca fende le acque limacciose e le piante di
papiro. La signora
della nave libera a poppa quattro oche, poi si mette a camminare e a
stringersi
addosso il mantello di piume. Chiede che le si portino il sistro e
l’ankh.
Pelle
verde e tagli puliti dal sangue. Tornando a riva, pensa che
sarà impossibile
dire a sua madre che cosa ha fatto per avere le unghie sporche
– parlerà di
aprire gli occhi seccati di una mamma. È quel che ha visto,
perché non quello
che significa non lo sa spiegare.
-
Bambina mia, lasciati andare. Tutta la tua sofferenza in questa terra
sarà
minore di quella che patirai al cospetto di Maat. So che il tuo cuore
è lieve,
nulla di male potrà accaderti. Lasciaci in pace, ora.
Le
pareti sono dipinte fin dove il suo sguardo si spinge, il soffitto
è intessuto
di ombre più profonde della notte. Fuori da lì
ode un gorgoglio di acque
profonde – lei è ancora nella stanza, con la
bambina di Nut lasciata finalmente
alle spalle, nella notte immensa; Ammut fa schioccare le fauci fetide
davanti
al suo cuore sanguinante – ora sa,
ora vede il coccodrillo che nel buio le ha divorato le gambe.
Anubi
posa la piuma sul piatto della bilancia: scende, scende, il suo cuore
è alto,
altissimo.
Note:
Vaghi
accenni alla cultura egizia come: la fine della civiltà
egizia e le rovine
odierne; partecipazione degli Ebrei, dei Romani e di Cleopatra. La
barca
rappresenta quella sacra/funeraria e la donna ovviamente è
Iside, che cerca di
ricomporre il marito fatto a pezzi.
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Capitolo 5 *** Cina ***
Cina
–
Nella regione di
Guizhou – cominciò la
vecchia Li –
esisteva in tempi molto antichi un villaggio, costruito ai piedi di una
collina. Ma si dice che gli uomini lo abbandonarono a causa di una
grande
inondazione e ne fondarono un altro, più in alto. Poi
tornarono, ma da allora
si parla del “villaggio di sotto” e del
“villaggio di sopra”.
Quando mia madre era
molto piccola, viveva nel villaggio di sopra un uomo chiamato Cheng
Yao. Era
molto conosciuto, anche nel villaggio di sotto: aveva perso la moglie
per
l’attacco di una tigre e per rabbia e sete di vendetta si era
trasformato nel
cacciatore più abile tra quelle montagne.
Una notte – si era
appena entrati nell’anno della Tigre – gli abitanti
del villaggio di sotto si
svegliarono alla luce dei falò accesi su tutto il fianco
della collina. Si
udivano pianti e richiami alzarsi verso il cielo scuro, così
gli uomini presero
le armi e salirono al villaggio di sopra.
Mia madre mi disse che
le nuvole erano tinte di rosso e che i bambini stettero col naso
all’insù,
curiosi, finché un ragazzo non tornò correndo a
rotta di collo. – Il nian
– spiegò con il fiatone – stavolta
ha rapito Qiang...
– Qiang? – domandò Wu
Yu, confusa.
Il ragazzo scosse la
testa: – Il figlio di Cheng Yao.
Subito vi fu una grande
confusione: le madri corsero a stringere i figli, addossandosi le une
alle
altre. Il nian dormiva in una tana
segreta, forse sulla cima di un monte o in fondo al mare, e usciva
soltanto per
i festeggiamenti di Capodanno per divorare i bambini del villaggio. I
cacciatori tendono trappole, altre volte seguono le sue orme, ma il nian è un demone e come tutti
i demoni
non si lascia catturare.
Gli uomini tornarono
poco prima dell’alba. Mio nonno di certo non voleva che i
suoi figli udissero
cos’era accaduto, ma mia madre aveva un udito molto fine.
Cheng Yao era
inginocchiato davanti alla propria casa, dondolando con la testa fra le
mani. –
Mi ha preso Qiang, quell’infame. Come ho potuto lasciarlo
solo? Come ho potuto
lasciare che lo prendesse? Aveva mangiato degli shuijiao,
mi ha detto che non vedeva l’ora di mangiare il tangyuan, perché non
l’aveva mai
assaggiato.
Mio nonno e altri
entrarono nella stanza del bambino, trattenendo il fiato. Per terra
c’erano
impronte grosse quanto la testa di un uomo ed erano rosse. Il letto era
stato
rovesciato e sventrato. C’era sangue ovunque. Per terra era
mischiato alla
neve. Sulle pareti c’era uno spruzzo vermiglio. Le coperte
erano scure e
collose.
Il nian aveva sfondato la parete
con una zampata.
A quel punto mio nonno
si azzittì. Mia nonna, curiosa, gli chiese: –
Tutto qui?
– No – rispose lui
sospirando – abbiamo seguito le tracce del nian
fino al fiume...
– E poi?
– Poi le abbiamo perse.
Ma abbiamo trovato Qiang. Se di lui si poteva ancora parlare. Li Zhou
è l’uomo
più coraggioso che conosca ed era verde in faccia. Abbiamo
pensato di portar
via il bambino senza che Yao lo vedesse... ma lui ci aveva seguiti in
silenzio.
– Come si è sentito?
Mio nonno si mise a
piangere.
– Yao è andato a
cercare il nian. Io non so... non
so
se piuttosto non sia fuggito per darsi la morte, perché di
quel povero bimbo
rimaneva solo il tronco, con le braccia ancora attaccate. Non aveva
più le
gambe!
– Oh, caro...
– Non aveva più la
testa, Mei! Ha visto suo figlio... senza gambe... e senza testa!
Mia madre non udì più
nulla, perché prese una tale paura che non volle ascoltare
altro.
–
E poi che accadde, onorevole Li?
–
Mia madre, in effetti, mi raccontò un altro pezzo di storia,
ma non so se fosse
piuttosto un sogno che fece, piuttosto che il racconto che fece Cheng
Yao.
–
Ma questo vuol dire che tornò!
–
Certo che tornò! Altrimenti perché avrei
raccontato questa storia?
Il suo spirito
fugge da
lui e cerca di ricongiungersi con le paludi e con il fiume.
Quest’anno sarà governato
dall’acqua, che accende il suo dolore e lo fa galleggiare
sulla lordura della
morte. Qiang, chiama senza parlare, so che sei con me. Da prima che
nascesse ha
sentito il gorgoglio della sua piccola vita, ha sempre percepito la
loro
affinità.
Ora, pensa chinandosi e
appoggiando la mano su un’orma fresca, guardate Cheng Yao,
senza moglie e senza
figlio. È un uomo distrutto, ma quest’uomo
distrutto impedirà che il nian
torni a uccidere.
Corre sulla neve e i
suoi passi sono leggeri come zampe d’uccello. Si odono ancora
i clamori e i
bagliori del villaggio messo in allarme. Yao vorrebbe che smettessero.
Zitti,
pensa, il cacciatore ha teso la trappola.
Alle grosse impronte si
mescola un solco rosso.
Prenderà il nian davanti
alla sua grotta, se non
sarà troppo lento.
Si fa più veloce e
silenzioso, finché tra gli arbusti non appare
l’ombra massiccia del demone.
Ti ho in pugno,
sussurra Cheng Yao. Sente il nian
sgranocchiare e rompere qualcosa con gusto. Forse, la sua
determinazione cede
per un istante, sono le gambe di suo figlio. Ma è appunto
solo un attimo: come
farfalle, spontanee, le scintille prendono il volo dalle sue mani.
La notte è giorno.
Yao salta nella radura.
Vede gli occhi del nian, sono
grandi,
rossi, tondi e stolidi; ha arrotolato la coda pelosa attorno al corpo,
e
appiattito le orecchie contro il cranio. Ha già la spada in
mano, illuminato
dagli scoppi intermittenti sulla neve, ma non riesce a vibrare il colpo
fatale.
Il nian mugola e lacrime grosse
come il suo pugno gli scendono dagli
occhi.
Finiscilo! Punta la
lama alla sua fronte, un colpo secco e arriverà fino al
cervello. È un
cucciolo, capisce d’un tratto, spaventato dalla luce e dai
botti intensi. Suo figlio...
comincia a piangere quando la spada gli cade dalle mani, affondando con
uno
sbuffo.
Non può uccidere un
cucciolo, neanche se è quel demone che ha divorato Qiang.
E – spiriti ricchi di
acqua, lui e suo figlio – sente come un sussurro e una mano
lieve, di spirito,
che gli dice Caccialo con il fragore e Yao sa che è Qiang.
Se lui ti ha
perdonato, dice al nian spaventato,
dovrò perdonarti anche io.
Raccoglie la spada,
tira fuori dalla bisaccia altri petardi e riempie i polmoni di aria.
Battendo la lama sulle
pietre, accendendo tutti i fuochi, gridando spinge il demone in un
angolo,
avvicinandosi finché quello, con un ululato da cane ferito,
non si arrotola su
se stesso e svanisce nel cielo buio.
Cheng Yao si lascia
cadere in ginocchio e piange.
Note
dell’autore: tangyuan e
shuijiao
sono rispettivamente: un dolce di riso e i famosi ravioli bolliti. Il tangyuan si mangia l’ultimo
giorno dei
festeggiamenti di Capodanno, per quello Qiang non lo ha ancora
assaggiato
(ponendo che la storia si svolga nell’arco delle feste).
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Capitolo 6 *** Scozia ***
Scozia
C’erano
Duncan e Lily, i fratelli
McSheon, Coira, il piccolo Sorley, Finn, Rhona e Gormlaith.
Lui – Dalzell – era seduto in mezzo
all’erba alta, fingendo di riposare. In realtà
stava cercando un bel fiore da
donare a Gormlaith – l’aveva fatto altre volte:
bastava passarle accanto mentre
gli altri erano assorti in un gioco e infilarglielo dietro
l’orecchio, o tra i
lacci del vestito.
Si sentiva sfortunato: tutto il
fianco della collina era al sole e gli steli erano tutti dorati, ma non
poteva
tagliare la luce e donargliela. Un giorno, forse, più
grande. Si rigirò il
coltellino tra le mani.
Gli altri erano scesi al fiume e
giocavano a schizzarsi dove l’acqua era più bassa.
Ci
sono sogni che si dimenticano, sogni che spaventano e ingrigiscono
tutto un
giorno, poi c’è quel
sogno che è un
ricordo. Dalzell lo storpio si rigira nel sonno, gemendo, stringendo
con una
mano il mantello bucherellato – se glielo rubassero morirebbe
di freddo, quindi
lo stringe con tanta forza che al mattino, per staccarsi, piange dal
dolore.
Il
Sogno continua, anche se il freddo gli morde il corpo.
Uno
splendido animale scendeva
dalla collina opposta. Aveva le zampe lunghe e forti, il corpo enorme e
muscoloso, un bellissimo e lucido manto nero. Camminava
nell’acqua, davanti a
loro, senza timore, muovendo la coda.
Qualcuno propose di montarlo.
Fergus McSheon andò ad accarezzarlo e quello
chinò la testa: era mansueto.
Sciamarono tutti attorno al cavallo, litigandosi il diritto di montarlo
per
primi. Lui si chinò a raccogliere una giunchiglia, lieto,
poi la tenne in mano
insieme al coltello.
In groppa al cavallo c’erano
Duncan, Fergus McSheon, Rhona, Coira, il piccolo Sorley, Lily, Finn,
Wallace
McSheon e Gormlaith, in quest’ordine. Dalzell si chiese come
potessero tanti
bambini stare in groppa a un cavallo solo, ma Gormlaith si
girò e gli sorrise e
allora anche lui salì.
Piange:
le lacrime si ghiacciano nel guscio delle palpebre, sono dolorose. Per
un
attimo mugola e fa per aprire gli occhi; i cristalli si rompono e il
dolore si
attenua, come se le mani che lo graffiavano fossero sparite.
Capirono
che qualcosa non andava
quando il cavallo nitrì – e fu un nitrito che
somigliava terribilmente a una risata cattiva – e
partì di gran
carriera, sollevando spruzzi di acqua man mano che correva verso monte,
laddove
l’acqua era più fonda e la corrente più
forte.
Duncan
tentò di liberarsi, ma la
sua mano era incollata alla criniera; la mano di Fergus McSheon era
incollata
alla schiena di Duncan; la mano di Rhona era incollata alla schiena di
Fergus;
la mano di Coira era incollata alla schiena di Rhona; la manina di
Sorley era
incollata alla schiena di Coira; la mano di Lily era incollata alla
schiena di
Sorley; la mano di Finn era incollata alla schiena di Lily; la mano di
Wallace
McSheon era incollata alla schiena di Finn; la mano di Gormlaith era
incollata
alla schiena di Wallace; e la sua mano era incollata alla schiena di
Gormlaith.
Nella mano libera aveva ancora la
giunchiglia e il coltellino. Il cavallo nitriva e sbuffava e correva
all’impazzata
verso l’acqua che ribolliva tra le rocce. Piangendo
lasciò cadere il fiore e
strinse forte il manico del coltellino.
Colpì una volta. Due volte. Tre
volte. Arrivò a sette volte e perse il conto: voleva solo
staccarsi prima che
fosse troppo tardi, così continuò a infierire con
la lama sulla giuntura tra il
polso e la mano. Era tutto sporco di sangue e faceva malissimo tagliare
i fili
bianchi dei nervi. Affondò tutto il coltello nella ferita e
andò su e giù con
la mano, su e giù finché non riuscì a
separare le ossa.
Gormlaith gridava e piangeva con il
viso tutto rosso – lo chiamava, ma lui era già
caduto da quella bestia
infernale. Sentì una roccia appuntita contro il ginocchio e
altro dolore, altro
sangue.
Distende
la gamba zoppa sotto il mantello e le ossa scrocchiano, le une sulle
altre, fa
male anche quello – inutilmente, perché poi i
muscoli deboli raggrinziscono e
la gamba torna a piegarsi. Sa che il Sogno è quasi finito,
ma non riesce a
sfruttare il dormiveglia per svegliarsi del tutto.
Gridava
e si stringeva il
moncherino sanguinante nell’altra mano.
Gridava per l’orrore del sangue e
dell’osso spaccato e dei nervi scoperti.
Gridava per il dolore della
scheggia di pietra acuminata in mezzo al ginocchio.
Gridava per la paura e per il
terrore e per il desiderio di essere cieco o di fuggire e per il sangue
che
veniva giù da dove il cavallo nero si era inabissato e per
la giunchiglia rossa
e flaccida e per gli intestini e i cuori piccoli come pugni e i fegati
e tutti
i pezzi che galleggiavano e si urtavano con un rumore molle e viscido.
Venti
anni e diciassette villaggi dopo, Dalzell lo storpio chiede
l’elemosina davanti
alla chiesa. Anche stanotte, pensa tendendo l’unica mano
rattrappita, ha fatto
quel Sogno. Ieri quattro ragazzacci gli hanno lanciato una mezza
pagnotta
ammuffita – che ha mangiato davanti ai loro occhi, senza
batter ciglio davanti
alle loro risate crudeli – e oggi non andrà
meglio.
Poiché
non ha più niente, ha sviluppato un’immaginazione
fervida. Nei giorni freddi e
bui come questo, ad esempio, riesce a evocare Gormlaith –
riesce a vederla, a
immaginarla come una donna, a parlarle nel silenzio della neve. Se per
esempio
le dice “Come stai oggi?”,
lei gli
risponde “Molto meglio, ora che ti
vedo”.
Gli
occhi gli si riempiono di lacrime.
Poiché
Gormlaith non c’è più – forse
c’è ancora il suo teschio in fondo al fiume, che
rotola qui e lì con la corrente e fa clic-cloc
contro i ciottoli – la veste come una dama ricca,
con begli abiti scuri che
fanno risaltare la sua pelle di panna. Le ha allungato i capelli di oro
bruno,
le ha dato ciglia folte e lunghissime. – Ti amo –
dice nell’aria rarefatta – ho
amato solo te, Gormlaith.
Davvero,
se il kelpie non si fosse portato
via
quei nove bambini... o se lui avesse tagliato la mano a lei...
sarebbero cresciuti insieme e si sarebbero sposati. Non è
crudele il desiderio di averti tagliato la mano, dice alla Gormlaith
dei suoi
pensieri, avrei dato qualunque cosa per salvarti.
Piange
per un po’, ignorato da tutti, ma adesso che è
giorno e nessuno può rubargli il
mantello si asciuga le lacrime prima che ghiaccino e feriscano.
–
Fate la carità: un pezzo di pane per Dalzell lo storpio!
Prima
dell’alba, il cielo si annacqua – il nero diventa
verde, e azzurro, e bianco. Dalzell
guarda in alto: la fortezza è stata espugnata. Sulla torre
più alta, a una
delle finestre, penzola il corpo senza vita di una dama; i suoi capelli
dovrebbero essere biondi, ma nella luce dell’aurora sono
grigio argento,
striati di sangue.
–
Ehi, storpio! Sei venuto a combattere anche tu? – lo
apostrofa un soldato
ubriaco – Guarda che la battaglia è finita da ore.
–
Sì, ho visto – replica lui, fissando il fumo che
sale dai resti di una stalla.
Il
soldato tuffa il viso in un secchio ricolmo di acqua piovana e, quando
risolleva
la testa, sembra più sveglio e lucido: – Cosa ci
fai qui, allora? Sul mio
onore, in tanti anni di guerra non ho mai visto un mendicante che
osasse
passare sulle rovine fumanti di una battaglia.
Dalzell
si stringe nelle spalle.
–
Di che clan sei? – continua il soldato, raccattando le sue
cose.
–
Clan? Nessun clan. Mi chiamo Dalzell. Dalzell lo
storpio per gli intimi – risponde con voce piana.
Il
soldato rimane in silenzio. – È piuttosto crudele
come nome – osserva, con una
vaga incertezza. Lui si stringe di nuovo nelle spalle. –
È la verità – osserva.
Alza
ancora lo sguardo per osservare ancora la donna morta alla finestra:
ora vede
meglio anche le sue mani, abbandonate sulla pietra. Il soldato segue i
suoi
occhi e commenta: – Scommetto che non hai mai visto nulla del
genere.
–
In realtà ho visto di peggio.
Riprende
la via delle colline, verso Sud, piegato sotto il mantello. Il mattino
è
limpido, lavato dalla pioggia; una nuvola sfilacciata gli sorride
ironica,
prima di essere dispersa dalla brezza.
Dalle
parti di Edinburgh incontra un kelpie.
Non
è – di certo – quello che ha ucciso
Duncan, Lily, i McSheon, Rhona... e tutti gli
altri. C’è molta acqua in
Scozia, molti demoni per tutta quell’acqua. Tutto
ciò che sa, quando vede quell’uomo
alto, bello e distinto, è che si tratta di un kelpie.
Potrei ucciderlo,
si dice, potrei. Ne sono in grado.
È
molto giovane – Gormlaith dice “senza
tempo” e svanisce nella foschia – con la
pelle chiara, le ossa fini. I suoi
occhi sono verdeazzurri, i suoi capelli – lo sa grazie al
vento che soffia –
sono molto leggeri.
–
Io so chi sei – dice con rabbia – so cosa
sei.
Ha
i capelli neri, l’uomo-kelpie,
ma non
si cura di ripararsi dal vento – è così
che lui, Dalzell, ha visto le alghe che
gli crescono sulla pelle, le erbe lacustri verdi tra il nero. Infila la
mano
sotto le vesti, in una tasca segreta a contatto con la pelle.
Tira
fuori il coltello, la lama rivestita d’argento è
macchiata e ossidata, ma non
importa.
Con
gli occhi vede l’uomo-kelpie
a pochi
passi, longilineo e sicuro di sé, ma l’immagine si
deforma sulla strada per il
cervello.
Ed
è ancora un bambino, con il sole che splende come oro su di
lui e sul prato...
Colpì
una volta. Due volte. Tre
volte. Arrivò a sette volte e perse il conto.
Venti
anni e diciassette villaggi dopo il kelpie,
Dalzell lo storpio decide di aver vissuto abbastanza. Si lascia alle
spalle un
cavallo sgozzato, il proprio mantello e Gormlaith, che non è
più una dama, ma una
bambina radiosa che gli prende le mani – tutte
e due – e lo guida verso il cielo.
–
Ho perso il coltello – dice lui con un lieve dolore al petto,
ma Gormlaith
scuote la testa.
–
Forse non era così importante.
Note
dell’autore:
Sì,
be’, uh. Questa ossessione per vendetta/rimpianto/nostalgia
è un
po’ strana.
Foto
da weheartit,
il kelpie
è un demone acquatico
scozzese – nel caso non si fosse capito.
|
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Capitolo 7 *** Germania ***
Germania
(cliccami!)
Registrazione
n°0738-bis, in data 26.08.1943. Interrogatorio Häftlinge
n°0877.
Caso
assegnato all’Obersturmbannführer
Reinhard Groll.
[Passi.
Stridio di metallo
strisciato sulla pietra.]
Groll:
«Lei è la signorina Weisback Gitte, nata a
Grosskreutzstadt...»
Häftlinge
n°0877 [interrompe]:
«Per carità,
cosa ci faccio qui? Sono innocente!»
Groll
[imperturbabile]:
«L’otto Febbraio
millenovecentoventitré?»
Häftlinge
n°0877: «Sì.»
Groll:
«Sa perché si trova qui?»
Häftlinge
n°0877 [titubante]:
«No.»
Groll:
«Signora Weisback, lei si trova qui perché
è accusata di aver ucciso un
ufficiale delle ss,
e più
precisamente lo Standortälteste
Otto
Kaufmann.»
Häftlinge
n°0877: «Non l’ho ucciso io!»
Groll:
«Mi permetta di ricordarle, signorina Weisback, che al
momento dell’arresto era
ancora accanto al cadavere, in un locale chiuso a chiave. Come lo
spiega?»
Häftlinge
n°0877 [dopo una lunga pausa]:
«Non
so se la porta fosse chiusa dall’interno.»
Groll:
«Mi sta dicendo che un terzo individuo – di cui non
conosciamo l’identità –
potrebbe aver commesso il crimine, essere fuggito e averla chiusa nella
stanza
assieme al cadavere, per incolparla o per timore di essere inseguito da
lei?»
Häftlinge
n°0877: [incomprensibile]
Groll:
«Mi faccia capire. È questo che intendeva? Che la
porta può essere stata chiusa
da una terza persona?»
Häftlinge
n°0877: «Sì.»
Groll:
«Però non c’erano altre persone nella
stanza?»
Häftlinge
n°0877: «Può aver atteso in corridoio,
o...»
Groll
[interrompe]: «Risponda
alla domanda.
C’erano altre persone nella stanza?»
Häftlinge
n°0877 [riluttante]:
«No.»
Groll:
«Converrà con me che questo è molto
strano! Il sottotenente Müller è sicuro di
averla vista entrare nell’ufficio del comandante Kaufmann con
il medesimo.
Perciò, è entrato in quella stanza ancora in
vita, in sua compagnia. Vuol forse
dirmi che è morto mentre lei era distratta!»
Häftlinge
n°0877: «Non so come spiegarlo.»
Groll:
«Lasci che glielo spieghi io, allora. Siete entrati nel suo
ufficio. Avete
parlato. Le sembra plausibile?»
Häftlinge
n°0877: «Non solo plausibile. È la
verità. Abbiamo parlato...»
Groll:
«Mi lasci finire. Avete parlato, ma poiché lei
è una mela marcia – mi passi il
termine – una disfattista o peggio ancora un’amica
dei giudei, ha pensato di
rendere un servizio a quelle potenze infernali e ha accoltellato il
comandante
Kaufmann.»
Häftlinge
n°0877 [dopo una lunga pausa]:
«Apra
la finestra, mi sento svenire. Le dirò la
verità.»
[Stridio di
metallo strisciato
sulla pietra. Passi. Cigolio. Lontano canto di cicale.]
Häftlinge
n°0877: «Neppure voi della Gestapo potete fingere di
non sapere... come fate a
cenare insieme, e ballare insieme e lavarvi insieme quando sapete che
alcuni di
voi... che alcuni di voi... e delle ss
sono dei veri e propri depravati!»
Groll:
[incomprensibile]
Häftlinge
n°0877: «Nelle campagne attorno a Grosskreutzstadt
viveva una povera donna, una
pazza che non ha fatto male a nessuno e che voi avete portato via, con
uno dei
vostri orribili furgoni. Diceva che sua figlia era stata scambiata
nella culla
con...»
Groll [freddamente]: «
Signorina, non sono
qui per ascoltare i deliri di una demente.»
Häftlinge
n°0877: «Eppure sono importanti, glielo giuro. Odiava
questa bimba, una bimba
bella e sana, perciò la abbandonò. La crebbi io!
Ha compiuto cinque anni quando
hanno creato il presidio e le voci hanno cominciato a
diffondersi...»
Groll:
«Quali voci?»
Häftlinge
n°0877 [dopo una pausa]:
«Voci
sporche. Voci orribili. I bambini del Dachrinne
– il Tombino, il quartiere povero – dovettero
riunirsi in una palestra. Tutti.
Il comandante Kaufmann li esaminò personalmente.
Quando riaprirono le porte e le famiglie li rividero, ne mancavano
alcuni. Bambini
piccoli. Bambini... [con voce quasi
impercettibile] belli.
–
Gitte – mi dissero – se ti è cara
Margarete nascondila, dove non possono
trovarla.
Dopo
il Tombino, il quartiere degli stranieri. E poi un altro. Riunivano i
bambini e
alcuni sparivano. Non solo i malati – oh, credete che non
sappiamo delle porcherie che
combinate? – ma anche
bambini normali. Alle famiglie che avevano il coraggio di chiedere,
rispondevano che erano “stati scelti per prestare un grande
servizio al Reich”.
[Singhiozzi.
Forte canto di cicale.]
Häftlinge
n°0877: «Un giorno hanno chiamato i bambini del
nostro quartiere. Lei non sa
perché viene dalla città, ma sceglievano un
quartiere a caso. Non sai mai qual
è il prossimo e non puoi certo seppellire i tuoi figli. Ci
volevano cogliere di
sorpresa. E ci riuscivano.
Io
stavo svuotando la tinozza nel prato, quando ho sentito piedini
minuscoli sulla
schiena – piccoli e leggeri come fagiolini – e una
voce flebile mi ha detto: –
Nascondi Margarete, la mia bambina!
La
povera pazza di Grosskreutzstadt diceva che le fate avevano sostituito
la sua
neonata con una delle loro... e se lei sentisse quello che sento io, mi
crederebbe! Ho pensato a Kaufmann, a quel porco che godeva a mettere il
suo
pisello schifoso dentro a dei bambini
e ho pensato a Margarete, alla sua bellezza infantile. Sono corsa da
lei
gridando, l’ho presa e l’ho ficcata nel cesto dei
panni.
Così
è scampata alla morte – perché che
altro poteva aspettarla, dopo che gli
ufficiali si erano divertiti con lei? Le fate si nascondevano fuori
dalla
caserma e hanno visto... e mi hanno raccontato...»
[Singhiozzi.]
Groll:
«Questo interrogatorio finisce qui.»
[Passi. Porta
che si chiude. Chiave
che gira nella toppa.]
Stralcio
della chiamata tra Reinhard Groll e Willem Buch, dipendente del Kaiser Wilhelm Institut:
«Sì,
la ragazza dice di parlare con le fate o qualche altra creatura fatata,
che
cazzo ne so... però è un buon esemplare di donna
ariana.»
«Grazie,
Groll. Sono proprio curioso di vedere questa povera pazza, potrebbe
essere un
eccellente campione per la ricerca.»
Dal
diario di Gitte Weisback:
Grosskreutzstadt,
14.08.43
Io
e Margarete ci siamo nascoste nei campi di mais. Il giorno è
stato nuvoloso ma
afoso e pesante. L’ho abbracciata e ho sentito il profumo di
sapone nei suoi
capelli. Ho dovuto nasconderla nel cesto dei panni lavati, sono venuti
gli
uomini di Kaufmann e hanno tirato giù i nomi di tutti i
bambini del quartiere.
Le
cicale piangono ovunque: mi trema la mano anche se Margarete
è salva; ci sono
altri bambini, altre bambine regalati dalle fate agli uomini. Bambini e
bambine
che non sono state salvati. Le fate piangono, hanno regalato i loro
figli a noi
perché li crescessimo e questi maiali li
usano!
Ho
paura.
Non
per me, perché sono la custode di Margarete, ma per tutti
gli altri: per le
famiglie che hanno perso – incautamente – i figli
delle fate, per i soldati. Anche
per Kaufmann. Incredibile che io possa provare compassione per un
essere così
spregevole, ma la sorte che attende coloro che fanno infuriare le fate
è orribile.
Devo
fare qualcosa.
Domani
andrò a parlare con lui.
Registrazione
n°0738-ter, in data 27.08.1943. Interrogatorio Häftlinge
n°0877.
Caso
assegnato all’Obersturmbannführer
Reinhard Groll.
Groll:
«Venga al dunque. Mi dica com’è morto
Kaufmann.»
Häftlinge
n°0877: «Il giorno successivo, dunque, andai da lui.
Gli chiesi un
appuntamento, diciamo. Se lei mi guarda, non direbbe mai che ho
vent’anni, ma
molti di meno. Il comandante vide in me un simulacro di bambine
– glielo lessi
negli occhi. Entrai nel suo ufficio. Lo supplicai, mi inginocchiai,
veramente,
mi privai di ogni dignità per chiedergli di lasciare in pace
Grosskreutzstadt.
–
Signorina, lei mi sta chiedendo di privarmi di un piacere innocente
– mi disse
lui, nel suo tono più untuoso. – E tutto questo
senza propormi nulla in cambio
– e così dicendo mise una mano ai pantaloni e li
sbottonò.
Se
li calò e si calò anche le mutande, quel...
quel...
Io
ero lì, in una stanza chiusa a chiave, ancora inginocchiata,
quando vidi quel
suo... e me lo avvicinò alla bocca. Un istante prima che
potesse premermelo
dentro – avevo le labbra serrate – ha lanciato un
grido ed è caduto su un
fianco. Chieda a quelli che aprirono la porta se non trovarono una
cicala che
cantava sul manico del coltello! Furono le fate...»
Groll
[ridendo]: «E lei si
aspetta che io
creda a queste fandonie! Sa quello che la attende? Nel migliore dei
casi, verrà
eliminata con un farmaco – la via più dolce, se si
prende per vera la sua
infermità mentale. Altrimenti sarà spedita a
Ravensbrück, o fucilata sul primo
muro libero.»
[Fortissimo
canto di cicale.]
Häftlinge
n°0877 [freddamente]:
«Io non credo. Io
penso che sarò libera.»
[Tonfo. Lieve
gemito.]
Groll:
«Tu non puoi permetterti di parlarmi così. Neppure
nei tuoi luridi sogni. Anzi,
tenerti per i capelli mi ha dato una bella idea. Visto che eri
così propensa a
prenderlo in bocca a Kaufmann – le fate! Ridicola! Adesso
apri la bocca, da
brava... e potrei essere clemente...»
[Fortissimo
canto di cicale. Un grido.
Un gorgoglio. Silenzio improvviso. Passi di corsa.]
Dal
rapporto del Sturmmann von Meier.
“...
il corpo di Groll era riverso sul tavolo di metallo, prono. Le braccia
erano
aperte sui lati del tavolo; nella mano sinistra sono stati rinvenuti
capelli
castani, di media lunghezza. I pantaloni e le mutande erano calati alle
caviglie, le gambe erano piegate. Riscontrata sul collo una
quantità di
minuscole ferite equiparabili a morsi. Grandi quantità di
sangue sulla parte
superiore del corpo. Il dottor...”
Gitte
intreccia margherite gialle nei ricci scuri di Margarete.
–
Perché siamo andate così lontane, Gitte?
– domanda la bambina, alzando gli
occhi castani. Lei la guarda: la pelle dorata, il nasino
all’insù. Adorabile. Le
dà un buffetto sulla
guancia, poi un bacio.
–
Per stare meglio – le risponde.
Le
cicale cantano dolcemente in mezzo ai pioppi.
Note:
Stavolta
tocca alle fate. Il Piccolo Popolo, diciamo, in un racconto
più cupo degli
altri, temo; avevo paura di spaziare nell’horror,
così mi sono trattenuta. L’ambientazione
è facilmente intuibile: non so se veramente le SS fossero
composte di depravati
(le stime sono incerte, le leggende... leggende). Personalmente
propendo per il
sì.
|
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Capitolo 8 *** Italia ***
Italia
(cliccami!)
Perché
celebriamo i defunti?
Il
fiato le sfugge dalle labbra, la mano che fruga nelle pieghe della
camicetta è
ricoperta di sudore gelido, le gambe non la sostengono. La chiesa in
cui si è
rifugiata è deserta, e fredda. Il vecchio prete –
quello che ha impartito tutti
i Comandamenti a tre generazioni di De Arcoli – è
rimasto ucciso da un colpo di
mortaio.
Lei
stessa ha visto la ferita che ha tagliato, come una crepa in un vaso,
il suo
viso asciutto e rugoso. Con un sussulto, Nives ricorda di essersi
stretta ad
Arturo, cinguettando la sua incapacità di reggere un simile
spettacolo – in
realtà, la parte di sé che ancora rammenta di
essere nata contadina è relegata
in un posto tanto profondo che la vista del cadavere non le ha
provocato alcun
turbamento.
Nell’aria
permea odore di incenso e di cera. Il parroco che ha celebrato il
funerale è
stato sbrigativo, forse per disinteresse, forse per paura.
Oh, paura.
Si
inginocchia sul pavimento, la fronte premuta sulla panca. Comincia a
parlare
con foga, nella speranza di suscitare compassione in Dio. Non ha mai
desiderato
con tanta urgenza di potersi confessare – da quando, poco
più che bambina, ha
omesso di aver rubato un ninnolo alla vicina di casa e non è
stata punita.
Perché
preghiamo per i morti?
Ode
un ticchettio lungo le pareti, come se qualcuno vi tamburellasse le
dita. Nives
raggela. È cosciente di cosa si
tratta, anche se non ha capito chi
sia. Prima – non sa più se siano passati pochi
minuti o intere ore – ha
intravisto quella creatura nel
giardino; nonostante la fioca luce, è riuscita a
distinguere, dall’intrico di
ombre sul suo corpo, unghie lunghe e acuminate come artigli.
–
Come osi?! Ti prendi gioco di me... ti diverti a spaventarmi!
– ringhia tra sé,
stringendo il polso sinistro in una morsa ferrea. Il sudore le scorre
sulle
tempie e sulla nuca, incollandole i riccioli appena rifatti alla pelle.
Se
Arturo... se fosse Arturo? I racconti spaventosi della sua infanzia
sono ricchi
di spettri adirati con coloro che li hanno tormentati. Lei ha ucciso Arturo, quindi lui è
tornato a
vendicarsi?
Nives
si lascia sfuggire uno squittio, prima di tapparsi la bocca con le
mani. È
impossibile che sia il suo spirito:
è
stato sepolto con tutti i crismi. Il che la riporta alla terribile
domanda.
Perché
ci sono cimiteri per i
morti, perché portiamo loro fiori il 2 di Novembre?
...
Perché
la voce che pronuncia quelle domande le sembra familiare?
Nives
si alza, le ginocchia rigide per il contatto con il pavimento freddo, e
si
trascina al centro della navata, prima di accasciarsi di nuovo tra le
due file
di panche. Batte i denti senza controllo, le orecchie ronzano.
– Non ho fatto
nulla di male – piagnucola, ma nel tono più basso
possibile, per non farsi
udire.
Non
ha mai provato una simile angoscia: la sua mano, che non ha tremato nel
momento
di ficcare la terza pallottola nel corpo di Arturo, adesso si chiude e
si apre
in preda agli spasmi, le vene gonfie e in rilievo.
Persino
la sua cagnetta, Eva, si è messa a uggiolare con la coda tra
le gambe, quando
quella creatura è
apparsa tra gli
alberi. Si porta le mani alla gola, come per liberarsi di un cappio
invisibile:
è in trappola, le manca il coraggio di affrontare
ciò che continua a camminare,
lentamente, attorno alla chiesa. Si mette carponi – una
foglia le si incolla al
palmo, lascito di una delle corone funebri – e fissa febbrile
la porta. Non le
sono rimaste abbastanza energie per preoccuparsi del proprio aspetto,
perciò
rimane rannicchiata come un animale, la gonna sporca di polvere, la
camicetta
appiccicata al corpo dal sudore, la pettinatura sfatta.
Tremante,
si mette in piedi. Sente una nuova determinazione: deve andarsene, deve
scoprire chi la sta tormentando.
Corre
verso la porta, la spalanca con una spinta e comincia a correre, senza
guardarsi indietro, lungo la strada dissestata.
Perché
si costruiscono cimiteri?
Circondata
dalla nebbia, accecata, inciampa due volte in una tomba rialzata e
rovescia con
il ginocchio un vaso di bronzo; l’acqua fredda e i fiori le
cadono sulla gamba,
il vaso rotola rumorosamente sulla ghiaia, emettendo il rumore di un
gong. Nives
lo afferra, anche se il danno è fatto, e si guarda attorno,
ma non un altro
suono turba la quiete del camposanto.
Si
fa guidare dalla luce funerea e rossastra dei lumini fino alla parete e
comincia a percorrerla, tastando le lettere in rilievo sul marmo.
Alcuni nomi
li conosce, ma li scarta con moti di rabbia, e allunga il passo.
Arturo.
Finalmente, sente quel nome sotto
le
dita e sospira di sollievo: apre bene le mani, nonostante sia scossa
dai
brividi quando le appoggia alla lastra di marmo. La percorre
rapidamente, ma
con perizia, poi lascia ricadere le braccia lungo i fianchi, attonita
– non c’è
una crepa, un segno, nulla che indichi che l’occupante della
bara ne sia uscito.
–
Perché? – sussurra, spaventata – Non
c’è limite alla paura che posso provare
stanotte? – si chiede. Ripensa al momento in cui è
apparsa ad Arturo – lui disteso
a terra, già due fori sanguinolenti nell’addome
– e lui ha sgranato gli occhi,
quasi ferito, prima che lei
sparasse.
È caduto senza un grido, la testa di lato. Il terreno si
è arrossato in fretta.
È
in quel momento che sente il canto.
In questa casa
ho qualche problema
Non so bene cosa devo fare
I miei fantasmi mi daranno
consiglio
Quel bimbo pessimo... son proprio
io!
Si
alza da un punto impreciso, nella nebbia, e per quanto lei faccia
roteare gli
occhi, non riesce a capire da dove arrivi. Sa, però, chi sta cantando. – No, oh
no... non lei... no... –
pigola, stringendo gli occhi pieni di lacrime. Non può
fare altro che riprendere a correre, anche a costo di caderle tra le
braccia; deve controllare, deve sapere se è lei la
creatura che la sta inseguendo.
Si
infila in una strettoia tra due file di lapidi, scivolando
sull’erba: c’è uno
spiazzo minuscolo, in fondo al cimitero, in cui le tombe sono poche e
vecchie. Rimane
lì in piedi, frugando con gli occhi in mezzo a quella
fluorescenza infernale,
finché non riconosce la tomba che sta cercando. Si
inginocchia, allunga le mani
e la tasta, come ha fatto con quella di Arturo. Bianca
Zin... numeri... Per coloro che amo non morirò mai.
–
Per coloro che amo non morirò mai – ripete.
Qualcosa
sfiora i lembi della sua coscienza, ma non riesce ad afferrarlo,
perché di
nuovo il sangue le si gela nelle vene. Si affloscia sulla tomba, i
battiti del
cuore incerti, con le dita che percorrono incessanti la crepa
– è sottilissima,
superficialissima, eppure c’è
– sulla
lastra. – Per coloro che amo non morirò mai
– ripete Nives.
Non è
una frase per consolare,
pensa, è una promessa.
Aveva
dimenticato Bianca, tanto poca era la considerazione che aveva di lei:
ha
gettato due, tre foglie di timorina
venefica nel bicchiere di latte che lei ha bevuto. Tutti
hanno pensato a un
suicidio, lei si è affrettata a consolare
Arturo – solo quel ragazzino di cui non le interessa il nome
l’ha guardata con
sospetto – e al funerale si è presentata vestita
sì di nero, ma con della
biancheria succinta e bianchissima. Nives si alza e indietreggia fino
al muro scalcinato.
Riesce a udire lo sciacquio del canale che scorre dall’altra
parte, ma la sua
mente è occupata da un altro suono, molto più
spaventoso: lo stesso ticchettio
che l’ha tormentata nella chiesa, ripetuto sulle tombe.
Adesso, però, riesce a
udire anche lo scricchiolio della ghiaia sotto i passi di... della...
di lei.
–
Perché sei tornata, Bianca? – grida, stringendosi
le ginocchia al petto. Fatela finire, per
Dio, fatela finire.
Lentamente,
una forma emerge dalla nebbia: sembra un essere umano, ma il suo corpo
è nero e
nervoso, quasi fosse fatto di rovi intrecciati. Il cuore di Nives lotta
per
sfondarle le costole, perciò lei si chiude su se stessa, pur
continuando a
fissare ciò che si avvicina.
Quando
l’hanno trovata, era distesa sul letto, gli occhi ben
spalancati, due fondi di
bottiglia. È morta,
pensa con rabbia, non può trattarsi
di lei.
Eppure
la creatura si avvicina – con lentezza inumana, come se
sapesse che lei non può
più scappare. È perché ha ucciso
Arturo: è tornata per questo, come se lei
stessa – in barba alle parole della tata – avesse
strappato il suo sudario con
le sue stesse mani.
Mentre
dalla foschia emergono due occhi verdi, vuoti come pezzi di vetro, in
mezzo a
un fitto reticolo di vene viola. Nives batte la testa contro il muro.
– No, no
– geme. – Mi spiace non averti rispettato
abbastanza, alla tua morte.
Perché
celebriamo i defunti, Nives?
Perché
non tornino.
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Capitolo 9 *** Grecia ***
Grecia
Era
un giovane sensibile, basso e scuro. Avevo udito che la sua famiglia
era in
realtà originaria del bacino mediterraneo, e in effetti
Oswald – che era in
realtà una persona riservata e contegnosa – si
trasfigurava solo quando s’aveva
da studiare la storia antica. I suoi occhi, solitamente così
remissivi, si
accendevano di nuova luce; tutta la sua persona si protendeva verso il
professore, la sua fronte si increspava come un mare burrascoso.
Oso
pensare che lo sforzo di comprendere ciò che veniva svelato
durante quelle
lezioni fosse di gran lunga superiore a quello che potevano fare gli
studenti
più incerti.
Quel
cambiamento era talmente radicale da essere evidente non solo a me, ma
a
parecchi altri studenti.
Oswald
l’Ilota, come lo
chiamavano alcuni
tra i più crudeli, per denigrarlo due volte: la prima, per
l’assonanza con il
termine idiota, e la seconda, per
strattonarlo – nella mente – e ridurlo nella
polvere come un povero schiavo.
Suppongo che rispetto a lui si sentissero Spartiati, uomini duri e
temprati.
Io
stentavo a unirmi ai loro giochi. Per me, Oswald possedeva un fascino
ineffabile,
ed era alquanto seducente nel suo fervore. Ciò nonostante,
mai avrei osato fare
il primo passo con lui: temevo che per il suo retaggio, così
diverso dal mio, fosse
disdicevole essere scelto da una
donna.
Mi
rassegnai quindi a convivere con lui in maniera discreta, sfruttando le
relazioni dinamiche e variabili dell’università
per avvicinarlo. Mi ritiravo,
quindi, e aspettavo con trepidazione il giorno in cui Oswald si sarebbe
accorto
di me.
Un
giorno, alla fine di una lezione, sostai sulla soglia per guardarlo:
era
riverso sul banco, molto pallido; reggeva ancora la matita nella mano
destra,
con la sinistra si sosteneva la fronte. L’avevo visto
prendere appunti con un
impeto quasi furioso, con una foga che non si limitava alla
riproduzione,
quanto alla creazione.
Lo
studiai a lungo, persa nell’ammirazione dei suoi lineamenti
– oh, i nostri
compagni non volevano comprendere la realtà della sua
bellezza, fine e intensa.
Solleticava la mia immaginazione, nutrita di fotografie e letture, con
sogni
del Mediterraneo, di quel mare antico e bello. Nella chioma sottile di
Oswald
avrei potuto trovare tracce di sole e misteri passati?
Quando
mi resi conto che la mia presenza non era passata inosservata, arrossii
furiosamente e abbandonai l’aula di corsa.
Fu
lui stesso ad avvicinarmi, durante una pausa, a prendermi per mano e a
condurmi
un poco in disparte. Con voce sognante, mentre andava a chiudere la mia
mano
tra le sue, mi disse: – Sei bella come Atena. Non mi vergogno
di dirti che
laddove tu passi, l’aria trema come la corda di una cetra.
Più di ogni altra
cosa, desidero che i tuoi begli occhi grigi si posino su di me.
Parlò
con gentilezza estrema, e io sentivo ardere il viso, eppure continuai a
fissarlo, per instillargli il goffo potere del mio sguardo. Dalla trama
delle
sue parole usciva, in grandi sbuffi, il profumo del mare.
Il
dì in cui il professore ci propose di partire alla volta
dell’Egeo, allungai alla
cieca la mano, per conoscere i sentimenti di Oswald. Lui rispose alla
mia
stretta, ma non tardai a sentire le sue dita ricoprirsi di sudore e un
piccolo
verso di orrore uscire dalle sue labbra.
–
Che ti prende? – gli chiesi più tardi,
scostandogli una ciocca bruna dalla
fronte aggrottata. Lui non volle che sciogliessimo la stretta, e in
quella
vicinanza si confidò, per la prima volta. Udii una storia
incredibile uscire
dalle sue labbra tremule.
–
Sognai, anni fa, di camminare in un tempio abbandonato. Le mie mani
erano
scure, indossavo abiti da esploratore. In questo tempio lanciai un
grido e una
voce mi rispose. Non conoscevo la sua lingua, ma sentivo di conoscere
colui che
parlava. Sogni di questo genere mi tormentarono da allora. Scelsi di
studiare
le cose dell’antichità, nella speranza di
risolvere il rompicapo.
Non
potevo immaginare che cosa sarebbe accaduto! Vi sono parole che mi sono
familiari, poesie che completo prima del professore, quasi le
conoscessi a
memoria. E non le pronuncio nella nostra lingua, ma
nell’idioma antico... e
quel giorno in cui mi guardasti a lungo e con tanta tenerezza, ero
sconvolto
dalle sensazioni che mi avevano preso nel vedere, tra le copie proposte
dal
professore, un oggetto funebre... un pezzo di coccio, nulla
più: ma fu come se
lo avessi avuto tra le mani fino a quell’istante. Fissai la
fotografia,
spaesato, con la sensazione che quell’oggetto mi fosse appena
stato strappato.
E
ora sento che mi si sta conducendo verso il centro oscuro di queste
sensazioni.
So che con questo viaggio scoprirò... sarà la
fine della vita che ho condotto
finora. Accadrà, ne sono certo.
Avrei
potuto, in tutta sincerità, nonostante tutto
l’amore, la fiducia, l’abbandono
con cui mi diedi a lui, credere e fidarmi di ciò che mi
aveva raccontato?
Ricordo
che, durante quel viaggio, la trasfigurazione di Oswald fu totale e
inattesa. Durante
il giorno, vestito sobriamente, ci distanziava sui sentieri di
montagna,
apparentemente indifferente al caldo rovente che ci faceva boccheggiare
e alla
ghiaia che accecava con il suo biancore.
Sul
suo viso si alternavano l’entusiasmo dello studioso e, specie
quando rimanevamo
soli, un’angoscia tormentosa. Allora il suo vigore svaniva e
lui si sedeva sull’erba
secca, lamentando vertigini e nausea.
Di
sera, le mie compagne di stanza mi facevano il favore di andare
altrove, per
lasciarci in intimità. Scoprii il nuovo corpo di Oswald:
asciugato ma, allo
stesso tempo, rinvigorito dall’aria e dal sole, con i capelli
schiariti, la
pelle calda. Pareva quasi – ero influenzata anche io
dall’atmosfera – che
qualche dio avesse infuso la vita nella statua che era prima.
Alla
mattina, mi prendeva in disparte per dirmi cosa aveva sognato. Diceva
di
prevedere cosa avremmo fatto quel giorno, si vantava di conoscere le
strade e
così faceva, ma sempre più spesso doveva tornare
sui suoi passi, mortalmente
pallido. Si rifiutava, però, di tornare in albergo.
–
Oggi vedremo una tomba... – mi disse la quarta mattina,
rivolgendo lo sguardo
alla superficie del mare. Quel giorno anticipò la guida e
poi ci litigò. Disse che
avremmo dovuto prendere un sentiero molto esile che conduceva nella
macchia,
quasi impraticabile. Alla fine fui io a corrergli accanto e a chiedere
alla
guida di provare, perché era molto turbato.
Oswald
mi prese per mano e mi costrinse a tenere il suo passo; in poco tempo,
distanziammo la comitiva. Lui mi parlava in fretta, inframmezzando alla
nostra
lingua parole a me oscure, ma che ricordavano, almeno nel suono, il
greco che
studiavamo.
–
Eccoci – disse alla fine, lasciandomi andare.
Io
vidi solo un cumulo di pietre rovesciate. Oswald tremava.
La
guida e il professore, che ci avevano raggiunti, ci superarono con un
grido di
stupore. Sentii che avrei dovuto ricordare quel momento,
perché sarebbe stato
importante. Fissai per sempre il luccichio lontano del mare, la luce
che
ondeggiava morbida tra le foglie, il sapore dell’aria e,
soprattutto, Oswald.
Il
suo viso non mi era mai parso tanto sfuggente, i lineamenti quasi
indefiniti.
Lui
avvicinò le labbra e mi sussurrò
all’orecchio: – S'agapó̱
, Athi̱ná
mou.
Impressi
a fuoco quelle parole che non conoscevo, e che tradussi più
tardi, insieme alla
guida. Ti amo, mia Atena. In
seguito,
lui negò di averle pronunciate, e non seppe tradurle.
In
quell’attimo, i due uomini scostarono due pietre, rivelando
un’apertura di due
piedi di lato. Ci avvicinammo tutti, incuriositi. Vidi, grazie alla
luce che
filtrava tra le pietre, pezzi di coccio, altra pietra e, con mia grande
meraviglia, qualcosa di lucente, nel punto a noi più
lontano.
Oswald
barcollò in avanti, mortalmente pallido, guardò
nell’apertura.
Si
rialzò, gridò: – È
la mia tomba! È la mia
tomba!
E
cadde sul terreno sassoso.
Note dell'autore:
Oggi
si parla di reincarnazione.
Oswald è inglese (mezzosangue) e il resto si comprende.
Spero.
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