Don’t think that I’m yours just because we kissed once

di Nichigin
(/viewuser.php?uid=244865)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Tazze di tè e palline da baseball ***
Capitolo 2: *** Viaggio all'inferno - ovvero al MacDonald ***
Capitolo 3: *** Nervi made in USA ***
Capitolo 4: *** Usciresti con me? ***
Capitolo 5: *** Questo non è un appuntamento ***
Capitolo 6: *** Tutti i cappellini della regina ***
Capitolo 7: *** Ci pensa Francis! ***
Capitolo 8: *** Un piano degno di un Gal Game ***
Capitolo 9: *** Rose gialle ***



Capitolo 1
*** Tazze di tè e palline da baseball ***


Capitolo 1

Arthur portò lentamente alle labbra la tazza di fine porcellana e prese un piccolo sorso di tea. Annuì compiaciuto; Earl Grey della migliore qualità, delizioso come sempre. Aaah, com'era bello dopo una giornata di duro lavoro godersi qualche istante di tranquillit---SBAMMM.
- Bloody hell! - imprecò Arthur, facendo un salto per la sorpresa e rovesciandosi metà tea sulla camicia. Si girò verso la finestra, fumante di rabbia. I vetri ancora vibravano per il forte colpo che avevano ricevuto. Si alzò e marciò fino alla finestra, determinato a dirne quattro all'idiota che giocava al tiro a segno con i suoi vetri. Non ebbe neanche il tempo di affacciarsi che sentì una voce fin troppo nota urlare da sotto - Ehi Art, amico! Sbrigati a scendere, non vorrai mica far aspettare l'eroe? -
Prese un profondo respiro. Il maledetto Yankee stava sotto casa sua. Con una palla da baseball in mano. E invece di citofonare, come una qualsiasi persona sana di mente avrebbe fatto, aveva… - COME OSI TIRARE LA TUA MALEDETTA PALLA CONTRO LA MIA FINESTRA, BLOODY YANK? - sbraitò Arthur, agitando il pugno in direzione dell'americano, che si limitò a ghignare.
- Stai calmo, mica l'ho rotta no? - disse noncurante, passandosi la palla da una mano all'altra. - E comunque dovresti essermene grato. Intendo, chi altro passerebbe il suo tempo con un vecchio noioso come te? Solo un eroe come me può farlo. 
Arthur strinse i pugni fino a conficcare le unghie nel palmo. Doveva trattenersi, era un gentiluomo rispettabile e non avrebbe perso la calma per colpa di quello stupido yankee. Che tra l'altro sembrava avere come obiettivo il farlo andare fuori dai gangheri.
- Allora, scendi sì o no? - insistette quello.
- Arrivo, sì… - mugugnò Arthur. S’infilò la prima giacca che riuscì a trovare, tentando di coprire la macchia di tea fin troppo visibile sulla sua camicia, e scese le scale. Quando aprì la porta, la prima cosa che vide fu l'improbabile giubbotto di pelle dell'americano. - Ciao, Alfred - Lo salutò, gelido.
L'altro fece un enorme sorriso e replicò allegramente - Ehilà, Art, amico! Come va? -
- Bene, prima che arrivassi tu. - replicò Arthur irritato. - E ti ho già detto mille volte di non chiamarmi Art. Odio i diminutivi. -
- Ed è proprio per quello che ti chiamo così. - ridacchiò Alfred. - Avanti, andiamo. -
- Ma dove? Non avevamo nessun appuntamento, se non sbaglio. Che ci fai qui? - Arthur stava iniziando a irritarsi seriamente. La camicia bagnata gli si era attaccata alla pelle e la voce assurda dell'americano gli faceva venire il mal di testa. Il pomeriggio non doveva andare così; erano previsti solo lui e il suo tea. Magari qualche unicorno di passaggio, al massimo, ma NON Alfred! - Il mio istinto di eroe mi diceva che un vecchio inglese stava facendo la muffa nel suo appartamento, solo col suo tea, e aveva bisogno di un po' di aria fresca. Quindi eccomi qui.
- Uno. Ho ventitré anni, non sono vecchio.
Due. Non volevo affatto compagnia, soprattutto non la TUA.
Tre. Fila immediatamente e lasciami tornare al mio tea! - la voce di Arthur si alzò progressivamente mentre parlava, e le ultime parole furono dette così forte da essere probabilmente sentite da tutto il vicinato.
Quando Arthur si fermò per riprendere fiato Alfred lo prese per un braccio e iniziò a tirarselo dietro, dicendo: - Avanti, avanti. Tu hai bisogno di una vita sociale, vecchietto, o finirai per iniziare a vedere strane creature e impazzire.
Arthur deglutì. Lui non vedeva strane creature! Loro erano reali! Stava per dirlo ad Alfred, ma si trattenne. Ci mancava che lo ritenesse anche pazzo.
- Andiamo a farci un giro in centro, ok? E poi ti offro qualcosa da McDonald, oggi mi sento generoso. - continuò Alfred.
- Non lo voglio il tuo cibo spazzatura! - replicò Arthur, liberando con uno strattone il braccio dalla presa dell'americano.
- Ma perché devi essere sempre così intrattabile? Cosa c'è di così strano a uscire per una volta, siamo amici no? - Alfred fissò l’inglese con aria seccata.
- Diciamo conoscenti. - minimizzò Arthur, incrociando le braccia. Purtroppo, lui e il bloody yank erano amici d'infanzia. Alfred era di un paio d'anni più giovane di lui, ma i loro genitori si conoscevano e l'avevano obbligato a frequentare quell'odioso marmocchio che andava in giro con una coperta sulle spalle chiamandola "il suo mantello da supereroe". E il peggio era che nonostante adesso avesse quasi vent'anni, si comportava nello stesso identico modo. E continuava a presentarsi davanti a casa sua quando meno se l'aspettava, in nome della loro "grande amicizia".
- E allora oggi saremo due conoscenti che vanno a mangiare al McDonald, contento?
Arthur avrebbe voluto replicare, ma notò che uno dei suoi vicini si era affacciato alla finestra e li stava guardando, e si accorse solo allora di star gridando addosso ad Alfred sul vialetto di casa dove chiunque poteva sentire. Un comportamento poco rispettabile e per nulla inglese. "Maledetti americani" pensò rassegnandosi a seguire Alfred al McDonald "Devono essere contagiosi."
 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Viaggio all'inferno - ovvero al MacDonald ***


Capitolo due
 
Arthur maledì, per qualcosa come la miliardesima volta nella sua vita, il dannato giorno in cui i suoi genitori aveva deciso di trasferirsi in America.
Si trovava all'inferno (doveva essere per forza l'inferno, perché non trovava nessun altro termine adatto a descrivere quell'orrore) e quel che era peggio, Alfred sembrava essere perfettamente a suo agio. Tentò di scacciare le prepotenti immagini di Alfred in versione diavolo che gli venivano alla mente, e si fece strada tra la gente seguendolo.
Si trovava effettivamente in un maledetto McDonald. Uno di quei locali così schifosamente americani, che in quanto gentiluomo inglese rispettabile si era impegnato ad evitare come la peste. E invece no, eccolo lì a prendersi nello stomaco le gomitate di clienti che reggevano cibi talmente unti e pieni di schifezze che avrebbero potuto stendere un toro. Per non parlare dell'odore di fritto che minacciava di fargli vomitare gli scones che aveva mangiato poco prima.
- Non vorrai davvero farmi mangiare una di queste armi di distruzione di massa? - chiese preoccupato ad Alfred, che sembrava impaziente di ordinare.
- Certo. Ti piaceranno tantissimo, vedrai. - rispose lui, ridendo. God, quella maledetta risata gli avrebbe fatto saltare i nervi.
- Non credo proprio. - disse, ma Alfred era troppo occupato a sciorinare una quantità incredibile di schifezze fritte a una cameriera lievemente esasperata. Intendeva davvero mangiare tutta quella roba da solo? Avrebbe fatto meglio a chiamare in anticipo il becchino perché lo venisse a prendere…
- E lei, signore? - la cameriera si rivolse a lui, sperando che non fosse vorace come il suo amico.
Arthur scorse velocemente la lista di panini appesa alla parete. Orrore. Non avrebbe mai mangiato quelle schifezze. La cosa più commestibile sembrava l’insalata. Ordinò quella. Con un tea, perché il suo solito tea delle cinque era sulla sua camicia – ed era un po’ difficile berlo così.
- Certo. Ve li porto tra un attimo. - sorrise la ragazza.
Alfred trascinò Arthur fino a uno dei tavolini e lo fece sedere. - Allora, come ti sembra? -
- Cosa, questo posto? - Arthur storse il naso, disgustato. - Un vero incubo. -
- Come sei noioso. Dovresti prendere esempio da un eroe come me.
- Certo. E chi saresti, fatman? - ghignò Arthur sarcastico. - Una sola delle cose che hai ordinato ha più grassi di quello che ho mangiato in una settimana.
- Tutti anticorpi. Ti rinforzano. - ribatté Alfred facendo spallucce.
- Certo, quello che non ti uccide ti rende più forte. - disse Arthur, alzando un sopracciglio con aria di disapprovazione. - Ma penso che perfino tu finirai per morire, se continui a mangiare quella roba. -
- Morirò felice, allora! - rispose Alfred, scoppiando in una rumorosa risata.
Ma perchè doveva essere così maledettamente americano in tutto quello che faceva? Se solo fosse stato un po' meno caotico ed egocentrico e irritante, avrebbe potuto anche sopportarlo… ma evidentemente chiedeva troppo.
I suoi ragionamenti vennero interrotti dall’arrivo della cameriera, che stava per soccombere sotto il peso di tutta la roba ordinata da Alfred. Ad Arthur venne servita un’insalatina che aveva visto tempi migliori, e il tanto sospirato tea. No, fermi.
Cosa ci faceva il suo tea in un bicchiere di carta della Coca Cola?
Fece scorrere uno sguardo panicato dal tea alla faccia di Alfred, che si stava ingozzando di hamburger. Aveva perfino un po’ di ketchup che gli colava dal canino, neanche fosse stato un vampiro. Beh, di sicuro non era un vampiro figo.
- Il tea. – articolò Arthur con una voce da oltretomba.
- Cosha…? – mugugnò Alfred con la bocca piena, smettendo per un secondo di strafogarsi.
- Il tea è… è in un bicchiere! – sbottò l’inglese, additando la bevanda come se fosse una bomba sul punto di esplodere.
- E allora? – si limitò a dire Alfred, per nulla impressionato.
- Come allora, è un… un sacrilegio! –
- Mah, se lo dici tu… perché non lo bevi? Così non sarà più nel bicchiere. –
Che razza di ragionamento cretino. Però Arthur dovette ammettere che non era privo di una certa logica. Portò con estrema cautela il bicchiere alle labbra e prese un sorsetto di tea.
Per poco non lo sputò in faccia ad Alfred. – M-ma è FREDDO! – boccheggiò disgustato.
- Perché non l’hai chiesto caldo. – commentò tranquillo Alfred.
- Pensavo fosse ovvio!
- Ovvio lo sarà per te, che sei vecchio e non conosci il tea freddo. – rispose Alfred, facendogli la linguaccia.
La sopportazione di Arthur raggiunse il limite massimo. Scattò in piedi e puntato un dito contro l’americano, esplose: - Come osi, maledetto yankee obeso? Fino ad ora ho cercato di sopportarti, ma adesso hai passato il limite. Forse non te ne sei ancora accorto, quindi probabilmente dovrò dirtelo chiaro e tondo: io ti detesto!
Alfred lo fissava con gli occhi spalancati, e per un attimo Arthur credette di leggere del dispiacere nella sua espressione, ma si convinse di aver sbagliato quando l’altro rispose, con una voce più gelida di un iceberg: - Beh, la cosa è del tutto reciproca, stupido bevitea.
Senza dire un’altra parola, Alfred si alzò e uscì. Arthur si lasciò cadere sulla sua sedia, scioccato. Questa non era una reazione da Alfred. Non da quell’idiota infantile che conosceva lui, che si sarebbe fatto una risata e lo avrebbe ignorato. Era quello che doveva succedere. Non questo.
Lasciò cadere lo sguardo sul tavolo e venne colpito da una rivelazione sconvolgente: Alfred aveva lasciato a metà il suo hamburger. Era una cosa impossibile, quasi come se la Terra avesse smesso di girare intorno al Sole per andarsene a spasso nello spazio… ok, forse questa era un’esagerazione, ma rendeva l’idea. Il problema era grave. Molto grave. Ma la cosa più assurda del litigio era il motivo.
Uno stupido bicchiere di tea freddo.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Nervi made in USA ***


Capitolo tre
 
Alfred sferrò un calcio a una lattina che gli era capitata davanti mentre camminava, spedendola dritta contro il parabrezza di un’auto parcheggiata lì vicino. Il parabrezza emise un crack inquietante. Oops. Meglio filare.
Che giornata pessima. Tutta colpa di quello stupido inglese. Che si strozzasse, con quel tea freddo.
E dire che lui aveva le migliori intenzioni. Ma come gli era venuto in mente, tra l’altro, di scegliere di invitare proprio lui. Maledetta festa di San Valentino.
Colpa del proprietario della discoteca. - Avanti, Al. Sei il dj, devi dare il buon esempio. Porta qui la tua ragazza per la serata a tema San Valentino. - Aveva detto. Ovviamente rispondergli che non aveva una ragazza non era servito a granché. E allora, aveva pensato Alfred, si sarebbe pentito di averglielo chiesto. Voleva la ragazza? L’avrebbe avuta. Oh, se l’avrebbe avuta. Forse, un po’ più… mascolina del previsto?
L’idea gli piaceva, era una trovata di stile. Degna di un eroe come lui. E l’idea di prendere due piccioni con una fava e far venire un infarto sia al suo capo sia ad Arthur gli piaceva ancora di più. Ebbene sì, la “ragazza” che aveva scelto era proprio il bevitea.
L’unico problema rimasto da risolvere era… come invitare Arthur?
Pensava che non sarebbe stato molto difficile. E comunque, un rifiuto non avrebbe dovuto interessargli poi tanto.
Almeno, questo era ciò che continuava a ripetersi. Forse perché ammettere anche solo a se stesso di essersi innamorato di quell’irritante inglese era troppo umiliante. E invece forse era ora di farla finita e accettarlo. Del resto, un vero eroe deve confrontarsi con le più terribili umiliazioni e sconfitte, e avere il coraggio di affrontarle e uscirne con onore.
Però dopo aver fatto simile eroico passo, come poteva la sua già molto ridimensionata dignità sopportare anche gli insulti di Arthur? Ne aveva avuto davvero abbastanza. Che aspettasse pure il suo invito per i prossimi cento anni, quello stupido inglese. Alla serata ci sarebbe andato da solo, e al diavolo pure quello schiavista del suo capo.

***
 
Arthur era incavolato nero. Non solo Alfred l’aveva piantato in asso in quell’incubo di MacDonald, ma aveva pure dovuto pagare lui per tutta la roba che aveva ordinato. Risultato: aveva il portafoglio vuoto, il morale sotto i tacchi e la strana e immotivata sensazione di aver sbagliato qualcosa.
Forse… dovrei scusarmi con Alfred?” l’idea balenò nella sua mente solo per un istante, e la scartò subito. “Ma neanche per sogno, ho una dignità, io!”
Però era curioso. Doveva esserci un motivo per cui Alfred se l’era presa in quel modo. Che l’avesse invitato al MacDonald per un altro motivo oltre che per infastidirlo? Mentre rimuginava sulle infinite ipotesi che gli venivano in mente – una più improbabile dell’altra – raggiunse finalmente casa sua.  Per prima cosa andò a cambiarsi la camicia bagnata, e una volta tornato perfettamente in ordine tirò un sospiro di sollievo. Ecco, molto meglio, aveva riacquistato il suo solito aspetto di gentiluomo impeccabile.
Adesso aveva seriamente bisogno di qualcosa per tirarsi su. E cosa meglio di un tea, visto che tra l’altro quel giorno non l’aveva ancora bevuto?
Si sedette sulla sua poltrona preferita sorseggiando il tanto sospirato tea, e cercò di mettere ordine nei fatti di quella mattina.
Come punto di partenza, era ovvio che lui non avesse nessuna colpa. La colpa era tutta di Alfred, come al solito. Stabilito questo, si sentì già più sollevato; visto che la colpa era di Alfred, bastava aspettare che quello stupido americano tornasse da lui strisciando e chiedendo perdono. E magari invitandolo pure fuori, visto che l’aveva lasciato da solo a pagare per tutti e due. Del resto, sapeva fin troppo bene che il maledetto yankee non riusciva a resistere per più di un paio di giorni senza il piacere di tormentarlo. 
***
 
- Cavolo! – esclamò Alfred, bloccandosi di colpo mentre camminava e ricevendo una scarica d’insulti dal tizio dietro di lui che gli era finito addosso, e che ignorò completamente. Gli era appena venuta in mente una cosa terribile… come accidenti avrebbe fatto a sopravvivere senza il suo abituale sfogo (torturare Arthur)? Lo stress della sua vita da eroe lo avrebbe ucciso!
C’era una sola soluzione, per quanto improponibile; tornare a casa di Arthur subito, e chiedergli scusa. E poi tirargli in faccia la palla da baseball, perché c’era un limite alla gentilezza.
Stava per fare dietrofront e andare a casa dell’inglese, quando il suo cellulare vibrò, annunciando l’arrivo di un messaggio.
Controllò velocemente lo schermo, e quasi gli prese un colpo quando vide il numero di Arthur. “Che quell’idiota si sia deciso a scusarsi?”
Scelse l’opzione “leggi messaggio” con dita un po’ tremanti. Se Arthur si fosse davvero scusato, la fine del mondo non sarebbe più stata solo una previsione dei Maya. 
Sullo schermo del cellulare comparvero solo quattro parole, lapidarie: - Mi devi venti dollari.
Alfred strinse talmente tanto la mano attorno al telefono che pensò che l’avrebbe rotto. – Fuck ya, Arthur. – borbottò, - Ti sei bruciato l’ultima possibilità che avevi con me.
Digitò velocemente una risposta e premette il tasto d’invio con un’energia che sarebbe bastata a distruggere il cellulare. Fortunatamente era un modello di quelli resistenti, cento percento made in USA. “Anche i miei nervi sono made in USA, ma quell’inglese è sulla buona strada per distruggerli”, sbuffò, ficcando le mani nelle tasche del giubbotto e continuando a camminare.
***

Arthur afferrò il cellulare e controllò la risposta di Alfred – era sicuro che fosse lui, non aspettava altri messaggi.
Beh. Non era proprio quello che si aspettava.
– Mettiteli sai dv, i 20$. No, si aspettava una risposta minimamente civile, magari scritta decentemente senza abbreviazioni, ma Alfred non era proprio quel genere di persona. E nonostante Arthur lo sapesse benissimo, continuava a sperare come in idiota in un miracoloso cambiamento.
Ma quanto era stupido. Continuare a sperare che Alfred non lo frequentasse solo per il piacere di irritarlo. Continuare a vederlo come una sorta di ventata di novità nella sua vita che era, per quanto tentasse di negarlo, effettivamente noiosa. Continuare ad aspettare che lo invitasse in un posto un po’ più decente di un MacDonald, e magari non come amic… che cavolo stava dicendo?
“Dev’essere l’effetto del cibo spazzatura”, pensò Arthur, scuotendo energicamente la testa per scacciare tutti i pensieri stupidi. “È insopportabile, è americano, e io lo odio.”
Continuò a ripeterselo per calmarsi, camminando su e giù per il salotto con la tazza da tea ancora in mano. Si rese conto dopo qualche minuto che era riuscito solo a irritarsi ancora di più.
- Una distrazione, accidenti, mi serve una distrazione! – sbottò, posando la tazzina sul tavolo con un po’ troppa foga. Un pezzo di ceramica si staccò dal bordo e cadde sul pavimento con un leggero tintinnio. Oh, fantastico. La sua tazza preferita rovinata. Poteva la giornata andare peggio?
Come a dargli una risposta, in quell’istante suonò il campanello.
- E adesso che diavolo c’è ancora? – mugugnò andando ad aprire la porta.
- Arthùr, mon cherie! Erano secoli che non sci vedevamo! – disse una voce con un pesantissimo accento francese. Arthur chiuse gli occhi. Doveva essere un incubo. Purtroppo quando si arrischiò a riaprirli constatò che non era così.
- Francis. Vorrei tanto poter dire che è un piacere vederti, ma purtroppo non è così. – ringhiò, facendo attenzione a frapporsi tra lo spiraglio della porta e il suo pervertito ex francese.
- Così mi ferisci, Arthùr. Io sono venuto a trovarti nonostante tutti i miei impegni… - Francis finse un’espressione dispiaciuta, poi si sistemò con una mano i lunghi capelli biondi. Non aveva perso il suo modo di fare da prima donna, pensò sarcastico Arthur.
- Avresti potuto benissimo farne a meno, grazie. – commentò con un tono più gelido di un cubetto di ghiaccio. – Avrei da fare, quindi puoi dirmi, velocemente, cosa accidenti sei venuto a fare qui? –
- Facile a dirsi, - rispose Francis sfoderando un sorriso affascinante. – Che ne diresti di uscire con me?

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Usciresti con me? ***


Capitolo quattro
 
- Stai scherzando vero? – urlò Arthur puntando un dito contro Francis, che se ne stava elegantemente seduto sulla sua poltrona preferita con le gambe accavallate e il mento posato sulla mano.
- Niente affatto, cher. È una proposta del tutto ragionevole.
- Uscire con te e il tuo ragazzo ti sembra una proposta ragionevole? – ribatté l’inglese, alzando la voce fino a rompere il muro del suono.
- Non con me e il mio ragazzo, cher. Con me, il mio ragazzo e il fratello del mio ragazzo. Che guarda caso è single. – disse Francis senza battere ciglio.
- Io ho bisogno di tranquillità, non di un ragazzo! – borbottò Arthur, incrociando le braccia.
- Hai bisogno di uscire da questo buco e farti una vita sociale, ecco di cosa hai bisogno.
- Non iniziare anche tu, per pietà!
- Avanti, è solo per una sera… e poi tra poco è San Valentino, non vorrai passarlo di nuovo solo soletto come l’anno scorso? – insistette Francis, mettendo a segno un bel colpo basso. Arthur aveva sempre detestato la festa di San Valentino. Forse perché finiva sempre per passarla da solo, chiuso in casa per non incontrare nessuna coppietta sdolcinata in giro per la città. Forse perché l’unico con cui avrebbe voluto passarla era troppo stupido per accorgersi che aspettava un invito.
- Allora, che ne dici? Verrai? – chiese Francis, riscuotendolo dai suoi pensieri. Arthur fissò il francese per un attimo, indeciso. Poi sbuffò e si arrese, alzando le spalle.
- Al diavolo. Dove si va?
***
 
Arthur osservò soddisfatto l’ambiente che lo circondava. Francis aveva sicuramente un sacco di difetti, ma in quanto a scelta dei ristoranti, beh… niente da ridire. Era quel genere di locale con i camerieri che scivolavano impettiti sul pavimento lucido nei loro completi da pinguino, le posate d’argento, i calici di cristallo e i clienti impeccabili nei lori vestiti da sera. Insomma, ad Arthur un posto così non dispiaceva affatto. Di sicuro Alfred non sarebbe entrato lì dentro neanche sotto tortura, pensò con una smorfia. “Smettila di pensare a quel bloody yank, sei qui per distrarti!”
Francis gli fece segno di seguirlo. Si era cambiato per la serata e indossava una camicia di seta azzurra, una giacca bianca e dei pantaloni dello stesso colore, e aveva legato i capelli in una coda. Arthur dovette ammettere che faceva la sua figura, se non altro perchè tutte le donne presenti in sala si erano girate a guardarlo. Lui dispensava ampi sorrisi e occhiolini a tutte, felice di quelle attenzioni come un bambino il giorno di Natale. “Insopportabile” sbuffò Arthur, ricordando che quel suo modo di comportarsi era uno degli innumerevoli motivi per cui lo aveva lasciato. “Chissà come fa il suo ragazzo… da quello che so stanno insieme da parecchio tempo.”
- Ecco, quello è il nostro tavolo. – disse Francis, dirigendosi a passi svelti verso un tavolo a cui era seduto un tizio biondo con gli occhiali e i capelli lunghi, che sembrava piuttosto a disagio. – Mathieu, mon amour! – salutò il francese appena lo ebbe raggiunto. Lui arrossì leggermente. – Francis, ti ho detto mille volte di non chiamarmi così quando siamo in mezzo alla gente… - mormorò, talmente piano che Arthur si chiese se avesse davvero parlato o fosse solo una sua impressione. Francis sembrò aver sentito benissimo, e sfoggiò il sorriso più affascinante del suo repertorio rispondendo – Ma come farei a resistere più di scinque minuti senza esprimerti tutto il mio amore, cherie?
L’altro alzò gli occhi al cielo e si rivolse ad Arthur, tendendogli la mano. – Matthew Williams, piacere di conoscerti.
- Arthur. Arthur Kirkland. – rispose l’inglese stringendogliela.
- Mio fratello ci raggiungerà tra un attimo. – aggiunse Matthew sorridendo.
Francis si chinò verso di lui per sussurrargli all’orecchio con aria complice: - Vedrai Arthùr, Alfred ti piacerà. Ha un culo niente male, e se lo dico io puoi fidarti.
Arthur sgranò gli occhi. – Come hai detto che si chia…?
- L’eroe è arrivato, gente! – esclamò in quel momento alle sue spalle una voce che conosceva fin troppo bene. Arthur si immobilizzò. “No, no, no, questa serata doveva servire a distrarmi cavolo!”
– Tu sei l’amico di Francis? – gli chiese Alfred. Quell’idiota non riusciva neanche a riconoscerlo.
Arthur si girò, preparandosi a lanciargli un’occhiata assassina. – Ciao, Alfred---oh. –
Sì, il piano iniziale era di guardarlo il peggio possibile e magari insultarlo, ma aveva trovato un ostacolo parecchio insormontabile… si era trovato davanti un figo assurdo. Alfred si era pettinato in modo decente e portava dei vestiti eleganti – giacca e pantaloni neri, e una camicia con decisamente troppi bottoni aperti per i suoi gusti… God, quel ragazzo voleva farlo morire…?
Alfred per un attimo sembrò disorientato, poi il suo sguardo si indurì. – Arthur. Cosa ci fai tu qui?
- Ma vi conoscete già? – intervenne Francis, mettendo una mano sulla spalla di entrambi. – Merveilleux!
- Meraviglioso un c… - iniziò a dire Alfred, ma Arthur posò “per sbaglio” il piede sopra a quello dell’americano. Con molta energia.
- Sì, davvero una bella coincidenza… - disse, sorridendo a Francis e lanciando ad Alfred un’occhiata che significava “prova a farmi fare una figura di merda anche qui e sei morto”.
Alfred mugolò per il dolore, ma si limitò a lanciargli un’occhiata assassina e tacere.
Si sedettero. Arthur avrebbe voluto sistemarsi il più lontano possibile da Alfred, ma Francis con uno scatto felino occupò quel posto e lo costrinse a sedersi accanto all’americano. Maledetta rana francese. 
Quel pinguino di cameriere non si decideva ad arrivare, quindi dopo aver fissato con grande attenzione il menu – perfetto per nascondere la sua faccia ormai tendente al rosso pomodoro – per alcuni lunghissimi minuti, Arthur si trovò costretto a cercare di prendere parte alla conversazione. La prima cosa che notò alzando gli occhi dal menu fu che Francis si stava mangiando con gli occhi Matthew. Per un attimo provò un pizzico d’invidia: il francese non l’aveva mai guardato in quel modo, quando stavano insieme. In effetti, nessuno l’aveva mai guardato in quel modo… quasi inconsciamente lanciò un’occhiatina di sbieco ad Alfred, e lo scoprì a ricambiare lo sguardo. Si affrettò a guardare altrove, sperando di non essere diventato ancora più rosso di quanto non fosse già.
- A-Alfred! Non mi avevi mai detto di avere un fratello! – esclamò, rivolgendosi all’americano ma guardando da tutt’altra parte. Aveva bisogno di parlare, di uscire da quella situazione imbarazzante.
- Eh? Ah giusto, me n’ero dimenticato. Scusa se mi sono dimenticato un’altra volta di te, Matthew! – rispose Alfred, ridendo rumorosamente.
Matthew sbuffò e fece un sorriso stanco, come se fosse abituato al comportamento dell’americano. – Figurati.
- Vergognati, Alfred. Dimenticarti di parlare ad Arthùr del mio amour. Sei un insensibile. – sbuffò Francis incrociando le braccia.
- Non sapevo nemmeno che vi conosceste… - Alfred alzò le spalle, rivolgendo ad Arthur un’occhiatina irritata del tipo “non mi racconti mai niente” a cui Arthur ribatté non una smorfia. “Neanche tu mi racconti nulla di te, il nostro non è quel genere di rapporto” pensò con un certo dispiacere “Io non sono importante per te e tu non lo sei per me, e non fingere che ti dispiaccia…”
- Ma come, Arthùr non ti ha mai parlato di quando stavamo insieme? – disse candidamente Francis. Arthur strinse convulsamente il menu e si trattenne dal lanciargli una posata. Alfred sembrò prendere l’informazione con il massimo dell’indifferenza, e borbottò solo un – Pare di no – con l’aria di essere completamente assorto nel tentativo di far ruotare il suo coltello tra l’indice e il medio.
- Non fare queste cose infantili, i tizi dell’altro tavolo ti fissano… - mormorò Matthew agitato.
- Almeno io mi faccio notare, a differenza di te. – ribatté Alfred.
- Non è detto che sia una cosa positiva! –
Arthur provò un istintivo moto di pietà e comprensione per Matthew. Dopotutto lui era stato costretto a sopportare Alfred per molto più tempo dell’inglese, e Arthur sapeva quanto potesse essere difficile.
I due fratelli cominciarono a litigare – o meglio, Alfred conduceva la discussione e Matthew non faceva molto più che agitarsi e dire al fratello di parlare più piano.  Francis li osservava con l’aria di trovarlo un intermezzo divertente, mentre Arthur stava seriamente prendendo in considerazione l’idea di alzarsi e scappare da quella gabbia di matti. Che razza di giornata.
Fortunatamente il pinguino-cameriere arrivò a risolvere la questione. Per i pochi minuti che impiegarono a ordinare i quattro ebbero l’aria di persone normali e civili, ma appena il tizio se ne fu andato Francis attaccò con le sue battute sconce e Arthur sentì l’urgenza di alzarsi e passare qualche minuto di solitudine e tranquillità.
Si chiuse alle spalle la porta della toilette con un sospiro di sollievo, e andò a sciacquarsi il viso. Sentiva un gran caldo, e non riusciva a capire se fosse colpa della rabbia per il comportamento così ranocchiesco di Francis o dei bottoni lasciati aperti della camicia di Alfred… preferiva pensare fosse la prima opzione. L’acqua gelida sulla fronte e sul collo gli diede un po’ di sollievo, ma continuava a sentirsi terribilmente imbarazzato. Non poteva semplicemente chiudersi in bagno e restarci finché non se ne fossero andati tutti?
Diede un’occhiata allo specchio per assicurarsi di non avere un’aria troppo sconvolta, e quasi gli venne un infarto quando vide il riflesso di Alfred alle spalle del suo.
- A-Alfred! N-non ti avevo sentito arrivare! – esclamò, girandosi di scatto. L’americano non rispose: sembrava essere particolarmente concentrato sulla punta delle proprie scarpe. Arthur stava iniziando a credere che quell’intera serata fosse un complotto contro di lui… forse aveva offeso qualche misteriosa entità soprannaturale?
- Quindi tu e Francis stavate insieme. – borbottò finalmente Alfred, senza guardarlo in faccia.
Sarebbe un problema…?” fu l’unica cosa che pensò Arthur, leggermente confuso. Perché Alfred avrebbe dovuto interessarsene? – Beh, sì. Hai qualcosa da ridire anche su questo?
- Proprio niente. Non m’interessa affatto con chi esci.
- E sei venuto qui solo per dirmi questo? Era una questione di vita o di morte? – disse acido Arthur, incrociando le braccia e guardandolo con aria seccata.
- Certo che non volevo dirti solo questo, razza d’idiota. – rispose Alfred. Arthur scelse di ignorare l’insulto. – Ecco. Sai che… domani è San Valentino, no?
- E quindi? Vuoi rinfacciarmi il fatto che non andrò da nessuna parte? N-non è perché nessuno mi ha invitato! È che io sto bene da so…
- …Usciresti con me…? – esclamò Alfred tutto d’un fiato.
- …lo e comunque… aspetta cosa? – Arthur fissò l’americano con tanto d’occhi, convinto di aver sentito male.
- U-usciresti… con me…? – ripeté Alfred più piano, evitando di guardare Arthur negli occhi. L’inglese notò che era arrossito leggermente… quant’era carino.
- È uno scherzo, vero?
- Sì. – rispose Alfred, poi sembrò ripensarci. – Cioè, no. Cioè, io vorrei davvero uscire con te però all’inizio l’idea era che fosse uno scherzo e poi devo vendicarmi del mio capo e… insomma esci con me o no? – adesso Alfred era pericolosamente vicino e Arthur fu costretto ad arretrare, andando a sbattere con la schiena contro il lavandino.
- …s-specifico che non è che tu mi piaccia o altre cose strane è solo che comunque non avevo nulla da fare e poi devi essere davvero messo male per invitare me quindi prendilo come un gesto di beneficenza e… - iniziò a blaterare, sentendo la sua faccia diventare più calda e rossa a ogni nuova parola, mentre l’espressione di Alfred virava pericolosamente verso l’istinto omicida.
- Se non vuoi venire fai pure a meno! – sbottò infine, dando le spalle ad Arthur e dirigendosi verso la porta. Arthur allungò una mano e afferrò Alfred per la manica della giacca, costringendolo a fermarsi, e si rese conto di averlo fatto solo quando Alfred lo stava già fissando con un’espressione a metà tra l’arrabbiato e lo speranzoso.
- Ecco, io… - mormorò, cercando disperatamente qualcosa d’intelligente da dire e chiedendosi perché accidenti avesse deciso di trattenere Alfred. - …non è che non voglio venire, ecco. – e qui sentì il bisogno di dire qualcosa di scortese, perché la faccia del bloody yank era troppo felice per i suoi gusti. - Ma non esserne troppo contento. Posso ancora cambiare idea.
- Certo, certo. – rispose Alfred, con l’aria di non aver nemmeno sentito le ultime parole. – Domani sera. Alle nove. Vengo a prenderti io.
- A-aspetta un secondo! Dove mi vuoi portare?
- Segreto! – rise Alfred, facendogli l’occhiolino, per poi uscire dalla toilette senza che Arthur potesse chiedergli nient’altro.
Arthur fissò per un attimo il suo riflesso nello specchio - scoprendosi troppo rosso e troppo panicato per i suoi gusti – quasi sperando che potesse improvvisamente prendere vita e dirgli cosa fosse meglio fare in quella situazione. Non successe.
- My God. Che accidenti ho combinato?

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Questo non è un appuntamento ***


Capitolo cinque
 
- Cioè, lasciami capire… ti ha chiesto di uscire? – chiese la voce di Francis, resa leggermente metallica dal microfono del telefono di Arthur. L’inglese sbuffò, cercando di bilanciare il telefono tra il mento e la spalla mentre pestava nevroticamente sui tasti del suo portatile, tentando di completare il suo articolo. La data di consegna era fissata per il giorno dopo, e la telefonata del ranocchio francese non lo aiutava certo a concentrarsi.
- Beh, cosa c’è di tanto strano?
- Tutto! Insomma, stiamo parlando di te! – ribatté Francis. Arthur digrignò i denti, ripetendosi di rimanere calmo.
- Non è nulla di così fantastico. Siamo già usciti insieme molte altre volte. – borbottò, sperando che Francis lo lasciasse in pace in fretta.
- …a San Valentino?
- Ok, magari non proprio a San Valentino, ma…
- Vedi che non è come i vostri soliti appuntamenti? Dovresti ringraziarmi, Arthùr… se non sci fossi stato io a farti da Cupido… - la voce del francese assunse un tono fastidiosamente soddisfatto.
- …avrei avuto il tempo di completare il mio articolo e non avrei rischiato il posto di lavoro. Grazie, Francis. – completò Arthur con tono acido.
- Come puoi mettere il lavoro sopra all’amour? – esclamò Francis scandalizzato. – Quest’appuntamento potrebbe cambiarti la vita!
- Adesso non esagerare, frog. Non ho mai nemmeno detto di amare Alfred. – e non solo non l’aveva mai detto, non l’aveva neanche mai pensato. Ma allora perché cavolo aveva accettato di uscire con lui…?
- Ma io l’ho letto nei tuoi occhi, cher. – ridacchiò Francis. God, ma quanto riusciva a essere omosessuale quel tipo? – Devo as-so-lu-ta-men-te essere io a scegliere il vestito che metterai!
- Scordatelo. – disse Arthur lapidario. Nella migliore delle ipotesi si sarebbe ritrovato conciato come una soubrette. – E poi non so nemmeno dove accidenti mi voglia portare.
- Posso trovarti un outfit adatto a ogni occasione… - borbottò Francis con aria assorta. Arthur poteva quasi vedere le rotelline rosa shocking nel suo cervello girare freneticamente e la sua mente visionare tutte le ultime collezioni autunno-inverno. Rabbrividì. - Francis, ho detto di no.
- Tu hai troppa poca fiducia nelle mie capacità, Arthùr. Non ti è piaciuto com’era vestito Alfred ieri sera?
- …abbastanza. – borbottò Arthur, mentre un’immagine di Alfred gli appariva a flash nel cervello facendolo arrossire come un idiota.
- L’avevo accompagnato io a fare shopping! – gorgheggiò Francis con l’aria di essere particolarmente fiero di se stesso.
- Avrei dovuto immaginarlo… - mugugnò Arthur chiarendo finalmente il mistero della camicia mezza sbottonata.
- Era carino vero? Avanti, lascia che scelga io cosa metterti…
- Per l’ultima volta… HELL NO! – urlò Arthur, chiudendo la telefonata. Non aveva alcuna voglia di preoccuparsi per quel maledetto appuntamento. Tanto sapeva già che sarebbe stata l’ennesima delusione, quindi perché sforzarsi tanto per presentarsi al meglio? Piuttosto avrebbe fatto bene a darsi una mossa e a finire quel maledetto articolo. Mancavano solo tre ore…
***
 
Alfred ricontrollò per la centesima volta che i suoi capelli fossero spettinati nel modo giusto, la felpa fosse abbastanza stropicciata e che tutto il suo aspetto fosse trasandato abbastanza da essere cool, ma non troppo. Quella sera doveva assolutamente apparire perfetto, più eroico del solito. Non per Arthur, chiaro, era solo la particolare circostanza…
Lanciò un’occhiatina all’orologio. Otto e mezzo. Meglio darsi una mossa, la casa di Art era abbastanza lontana e non voleva assolutamente arrivare in ritardo al loro primo appuntamento.
Forse stava prendendo la cosa troppo sul serio, pensò mentre accendeva il motore della sua macchina. Dopotutto Arthur non sembrava essere stato molto felice dell’invito. Sembrava che avesse accettato più per fare un piacere a lui che perché gli interessasse davvero, quindi valeva la pena sforzarsi tanto di essere puntuale, eroico e perfetto? Decisamente no. – Tanto appena vedrà la discoteca scapperà a gambe levate… - sospirò, facendo retromarcia per uscire dal garage e imboccando il vialetto.
Alle nove spaccate stava suonando il campanello della casa di Arthur. Si meravigliò di sé stesso; un’entrata spettacolare sfondando la porta o balzando in casa dalla finestra gli si addiceva molto di più. Stava decisamente prendendo una cattiva strada, per colpa di quell’inglese. Arthur aprì la porta con un’espressione scocciata, e lo accolse con un gelido - Ah, sei tu. Stavo lavorando.
- Beh, ti avevo detto che sarei venuto a prenderti a quest’ora.
- Giusto… scusami, me n’ero proprio dimenticato. – rispose Arthur con un sorrisino tirato, sperando di riuscire a mentire in maniera credibile. Altro che dimenticato, aveva passato l’ultima mezzora fissando la lancetta dei secondi dell’orologio e desiderando che girasse più in fretta.
Alfred cercò di non mostrarsi deluso. La sua supposizione era stata confermata: ad Arthur il loro appuntamento non interessava affatto. Beh, allora tanto valeva sbrigarsi e farla finita con questa ridicola farsa. – Andiamo.
- Non mi hai nemmeno detto dove mi porti. – esitò Arthur, con l’aria di sospettare fortemente della sanità mentale di Alfred.
- Sai che lavoro faccio? – gli chiese Alfred, dandogli le spalle e incamminandosi verso la sua macchina, anche se sapeva perfettamente che l’inglese non conosceva la risposta.
- Veramente no, non me l’hai detto. – rispose Arthur accelerando il passo per seguirlo.
- Faccio il dj. In una discoteca. Stiamo andando lì.
Arthur si immobilizzò con la mano sulla maniglia della portiera. Una discoteca. No, Dio santo, una discoteca no. Una discoteca significava luci stroboscopiche, un sacco di gente e quell’atmosfera claustrofobica che lo faceva sentire come se fosse sul punto di vomitare. Non avrebbe mai sopportato un appuntamento in un posto del genere.
- Cosa c’è? Va tutto bene? – gli chiese Alfred, che si era già messo al volante.
- C-certo, va tutto perfettamente… - borbottò Arthur abbozzando un sorrisetto preoccupato. Ormai era tardi per tirarsi indietro, considerato anche da quanto tempo aspettava quell’invito. Era sopravvissuto a un McDonald, una discoteca sarebbe stata uno scherzo. Fece un respiro profondo e si sedette sul sedile del passeggero. Ebbe appena il tempo di allacciare la cintura che Alfred partì in quinta, facendolo sbattere la nuca sul sedile… si prospettava una serata difficile.
 
***
 
Alfred entrò nella discoteca con l’aria di chi sa perfettamente di essere il capo, salutando il personale e venendo riconosciuto dai clienti con cenni del capo o saluti alla “ehi, Al, come butta?” che fecero storcere il naso ad Arthur.
All’improvviso però Alfred si immobilizzò e sussurrò all’orecchio dell’inglese – C’è il capo, reggimi il gioco.
Si avvicinò a loro un tizio robusto in giacca, cravatta e occhiali a specchio, che stonava parecchio con l’ambiente. Salutò Alfred con una pacca sulla spalla e lanciò ad Arthur una breve occhiata indifferente. – Alfred, Alfred, non ti avevo detto di portare la tua ragazza? È San Valentino!
- Ti ho già detto che non ce l’ho la ragazza, boss. – ribatté Alfred con una risata, poi afferrò Arthur per un braccio. – Il mio ragazzo qui va bene lo stesso?
Sia il capo sia Arthur lo guardarono come se fosse stato un alieno appena giunto da Marte.
- Non sapevo che avessi un ragazzo. – borbottò il capo, abbassando un po’ gli occhiali per lanciargli un’occhiatina sospettosa.
- Non me l’hai mai chiesto, quindi non te l’ho detto. – ribatté tranquillo Alfred alzando le spalle.
- Come ti chiami ragazzo? –
Arthur sentendosi chiamare in causa sobbalzò, non sapendo bene come reagire a quella situazione surreale. Un’occhiata supplice di Alfred lo convinse a reggere lo scherzo, almeno per un po’. – Arthur, Arthur Kirkland.
- Beh, sei fortunato ragazzo. Non se ne trovano molti come il nostro amico Al, in giro. – disse l’uomo, scoppiando in una grassa risata e scompigliando i capelli di Alfred. – E adesso fila, ragazzo mio, c’è una pista che aspetta solo te per scatenarsi! – e detto questo il tizio sparì tra la folla.
- Da quando in qua sarei il tuo ragazzo, eh? – sbottò Arthur, puntando un dito contro il petto di Alfred.
- Eddai Art, non prendertela, era solo un piccolo scherzo. – ridacchiò l’americano. – Comunque io ora devo andare a lavorare. Vieni con me, ti porto in un posto dove puoi aspettarmi. – dopo averlo trascinato fino al bar della discoteca, anche Alfred sparì, lasciandolo solo. Arthur respirò a fondo, tentando di non perdere la testa. Cercare di seguire Al era fuori questione, sarebbe sicuramente riuscito a perdersi in quel caos e di ballare ovviamente non se ne parlava, che gli restava da fare? In quell’attimo lo sguardo gli cadde sulle bottiglie di alcolici del bar. Beh, meglio di niente.
- Ehi, amico… - disse per attirare l’attenzione del barista – ce l’hai un whisky?
 
***
 
Alfred si fece spazio nella calca che riempiva la discoteca, cercando di ignorare la sensazione di cadere che gli provocavano le luci stroboscopiche, anche se avrebbe dovuto esserci ormai abituato.
Doveva trovare Arthur, e subito. Invitarlo lì era stata una pessima idea, e se ne rendeva pienamente conto solo ora. Quello non era affatto il suo ambiente, e lui l'aveva lasciato da solo davanti al bar… sperava solo che non gli fosse saltato in testa di mettersi a bere. Quando finalmente raggiunse il posto in cui l'aveva visto l'ultima volta, di Arthur non c'era nemmeno l'ombra. Chiese informazioni al barista. - Quel tizio era fuori, amico. Si è imbottito di alcol. Sarà andato in cesso a vomitare.
Alfred si diede dello stupido, ringraziò il barista e corse verso il bagno, sperando di trovare Arthur lì, e possibilmente non troppo ubriaco.
Il suo desiderio venne esaudito per metà. Arthur era lì. Ma era talmente brillo che non riusciva nemmeno a reggersi in piedi. Se ne stava rannicchiato per terra in un angolo, e ogni tanto il suo corpo era scosso da singhiozzi, che Alfred non sapeva se attribuire all'alcol o alla tristezza.
- Ehi, Art… - mormorò, accucciandosi per riuscire a guardarlo in faccia.
- Al… hic! C-cosa ci fai qui? Hic! - borbottò Arthur fissandolo con aria assente.
- Sono venuto a cercarti razza di idiota. - ribatté Alfred, tentando di far alzare in piedi l'inglese tirandolo per un braccio, con scarsi risultati.
- Non serviva, potevi lasciarmi qui… hic!
- Non dirlo neanche per scherzo! Mi vuoi spiegare perchè ti sei messo a bere?
- Sono cazzi miei! Bloody yank! - quasi strillò Arthur, strappando il braccio alla stretta di Alfred.
"Fantastico, è pure lunatico… di bene in meglio."
- Avanti, tirati su!
- Non voglio. Lasciami qui. Tanto a te che… ti… hic… - Arthur sbatté un paio di volte le palpebre, come se avesse perso coscienza di dove si trovasse. -…importa… hic!
- Non dire cretinate. Adesso vieni con me e andiamo a casa.
- No no no. Adesso io e te dobbiamo pa… r… parlare, e tu mi ascolterai, che tu lo voglia… hic! O no. - biascicò Arthur, puntando contro Alfred un dito tremolante.
- Sì, sì. Quando saremo a casa. - rispose Alfred, cercando di nuovo di farlo alzare.
- Come osi parlarmi in questo modo traditore della Regina? Ti darò in pasto agli squali! Una colonia come l'America non sarebbe mai dovuta diventare indipendente…
Alfred scosse la testa, esasperato. Ci mancava solo questa. Che razza di appuntamento orrendo.
- Voi americani non capite niente di appuntamenti, ecco…
- Cosa…?
- …mi hai lasciato lì da solo e non sapevo che fare… allora ho provato il succo fucsia… e poi quello verde… e poi c'erano tanti colori, li ho provati tutti e adesso non mi sento tanto bene… - Arthur gli rivolse uno sguardo colpevole, come un bambino scoperto a rubare le caramelle. "Certo che da ubriaco ha un carattere del tutto diverso dal solito…" pensò Alfred, scuotendo la testa. "Succhi colorati… come no."
- Mi sono sentito solo… - borbottò Arthur. - …sei davvero cattivo, io ho aspettato tanto tempo perchè mi chiedessi di uscire… e mi lasci solo così… Al sei cattivo…
- C-cosa…?  
- Ho detto che sei cattivo. Cattivo. E non capisci mai niente. Quindi sei anche stupido.
- Non quello, prima! Che hai detto prima? - chiese Alfred, posando le mani sulle spalle di Arthur, che lo guardava spaesato. - Tu… volevi che ti chiedessi di uscire…?
- Vedi perchè dico… hic… che sei stupido? Non capisci mai nie--- oh cavolo.
- Cosa c'è? - sussurrò Alfred.
- Sei… davvero vicino Al… - sussurrò di rimando Arthur, fissandolo, e Alfred ebbe appena il tempo di pensare che probabilmente stava facendo la più grande cazzata della sua vita che le sue labbra erano già su quelle di Arthur, le loro lingue si intrecciavano frenetiche, le sue mani andavano a toccare l'altro, mentre quelle di Arthur si posavano sulle sue guance. La bocca di Arthur era bollente. Aveva un retrogusto dolciastro di alcol.
Per un attimo ad Alfred sembrò di essere entrato in un mondo a parte, dove non c’era nessuna discoteca e la serata non era stata un completo fallimento e Arthur voleva quel bacio almeno un decimo di quanto lo voleva lui. Invece non c'era niente di voluto, niente di romantico. Un angolo del cervello di Alfred continuava ad urlare "smettila, lui non sa che sta facendo, sei impazzito?" ma il ragazzo non poteva che ignorarlo, perchè le labbra di Arthur erano una droga e adesso che le aveva assaporate non voleva più staccarsene.
Fu Arthur ad allontanarlo, spingendolo per le spalle quasi con rabbia, poi si alzò e corse fuori, senza nemmeno concedergli uno sguardo. Alfred ci mise qualche secondo a riprendersi, e quando uscì Arthur non c'era più. E neanche la sua macchina.
- Fantastico - borbottò tra i denti. - Mi toccherà tornare a casa a piedi, e forse quell'inglese ubriaco farà un incidente con la mia auto. Può andare peggio di così?
In quell'istante si mise a piovere.
 

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Tutti i cappellini della regina ***


Capitolo sei
 
Arthur si svegliò con la testa che doleva come se fosse passata sotto una pressa. Non sapeva come, ma era riuscito ad arrivare fino al letto prima di crollare addormentato. Ricordava di aver preso in prestito la macchina di Alfred - quell'idiota aveva dimenticato le chiavi inserite - ma per quanto riguardava il tragitto fino a casa… buio totale. A tutto ciò che era successo prima, si rifiutava categoricamente di pensare. Quanto diavolo aveva bevuto…?
Stropicciandosi gli occhi, andò in bagno a sciacquarsi il viso. Quando si guardò allo specchio gli venne la nausea; aveva un aspetto orripilante.
- Non dovresti sconvolgerti così per una tale sciocchezza… - disse alla sua immagine riflessa, cercando di convincersi che l'Arthur Kirkland dall'aria distrutta, con la camicia stropicciata e che puzzava di alcol fosse solo quello nello specchio, mentre quello reale fosse ancora il solito gentleman inglese impeccabile. Una vana consolazione. Aveva baciato un bloody yankee. Lo aveva fatto sul serio, e nonostante tutto quell'alcol riusciva a ricordarlo perfettamente. - Per tutti i cappellini della regina, ho baciato un maledetto yankee! - borbottò. Dopo una sbornia tendeva a fare esclamazioni particolarmente creative. - E per tutte le maledettissime bustine di tea, non mi è nemmeno dispiaciuto! -  tirò un pugno allo specchio dalla frustrazione, facendo tremare il vetro. Posò la fronte su quella superficie fredda, sentendo le ultime vibrazioni spegnersi contro la sua pelle. Se almeno quel maledetto mal di testa fosse passato…
 
***
 
Alfred non sapeva se essere più preoccupato per gli sviluppi negativi che poteva prendere il suo rapporto con Arthur o per la sorte toccata alla sua macchina. Per entrambe le preoccupazioni la soluzione era solo una: andare a casa dell'inglese. Era ben conscio di rischiare grosso… Arthur avrebbe potuto scagliargli contro un intero servizio da tea, se fosse stato di cattivo umore - e in questo caso aveva tutti i motivi per esserlo - ma doveva prendersi il rischio, se non altro per amore della sua auto.
Suonò al citofono dell'inglese con un filino d'ansia: continuava a chiedersi se sarebbe sopravvissuto alla sua furia o meno. Il tono di voce di Arthur, quando rispose, lo fece preoccupare ancora di più. Era visibilmente sull'orlo di una crisi di nervi. - Sono io. Volevo sapere se posso riprendermi la mia macchina.
- È in garage. - rispose Arthur. Alfred capì al volo che non aveva intenzione di aprirgli.
- Non mi fai entrare?
- No.
Alfred fece un profondo respiro. Aveva bisogno di essere preparato psicologicamente. - Arthur. Vorrei parlare con te di quello che è successo ieri.
- Non c'è nulla di cui parlare.
- Arthur. Per favore. Lo sai anche tu quello che è successo.
Arthur aprì la porta e si girò per andare in salotto senza nemmeno guardare Alfred in faccia, ma all'americano bastò uno sguardo per accorgersi che l'altro aveva un aspetto orribile. Conosceva abbastanza Arthur da sapere che su di lui i postumi di una sbornia duravano parecchio, e lo facevano diventare ancora più irritabile del solito. Ma questo discorso non poteva aspettare fino a che Arthur fosse stato meglio.
- Beh, vedi di parlare in fretta. Ho da fare. - disse Arthur, lasciandosi cadere su una poltrona.
- Noi ieri ci siamo baciati. - Alfred decise di andare dritto al punto, tanto girarci attorno era inutile.
- Non serve che lo ripeti. Lo so. - ringhiò Arthur. Pessimo inizio.
- Vorrei che tu ti mettessi con me, Arthur.
Arthur spalancò gli occhi e guardò l’americano come se fosse stato un fantasma. - Scordatelo! -
- Cosa?
- Io ero ubriaco! U-bri-a-co. Chiaro il concetto?  - Alfred avrebbe voluto morire, scomparire nelle viscere della terra. Ma Arthur non aveva ancora finito: - Non pensare che solo perchè ti ho baciato una volta significa che ti amo!
Alfred strinse i pugni fino a far sbiancare le nocche delle dita. Allora era così che era andata. Quel bacio per Arthur non significava nulla, mentre per lui…
- E allora perché…? - mormorò, con gli occhi bassi.
- Perché cosa?
- Perché l'hai fatto. Perché mi hai dato una speranza, quando in realtà non te ne frega nulla di me? Per te sono solo un ragazzino? Solo un giocattolo?
Arthur lo fissava senza riuscire a dire nulla.
- Mi vuoi spiegare perché mi hai baciato Arthur? - Alfred avrebbe voluto apparire calmo, ma il suo tono di voce si era alzato da solo. - Io l'ho fatto perché ti amo! Ma a quanto pare per te non è lo stesso, giusto? Giusto? - il modo in cui Arthur lo stava guardando… non riusciva più a sopportarlo. Cos'era? Pietà? Compatimento? Ne aveva abbastanza. - Sai, c'è una cosa che si chiama coscienza. Penso che tu dovresti dare una bella controllata alla tua, se ne hai una! - e detto questo, uscì sbattendo la porta.
 
***
 
Arthur rimase a fissare la porta per un periodo indefinito. Non poteva e non voleva credere a quello che era appena successo.
Non era vero che non sapeva quello che stava facendo quando aveva baciato Alfred. Se aveva parlato così era stato solo per paura. Paura che Alfred non stesse prendendo la cosa sul serio quanto lui, o più semplicemente che le cose tra loro potessero non funzionare. Quella era la prima volta che si innamorava seriamente di qualcuno dopo la storia con Francis, che era stata abbastanza tempo prima, ma era finita così male che Arthur aveva promesso a sé stesso di non fare mai più un errore simile. E ora Alfred gli stava chiedendo di rischiare di nuovo, ma lui non ne aveva il coraggio.
Si trascinò di nuovo fino in camera sua e si lasciò cadere sul letto, dove rimase immobile a fissare il soffitto. "L'ho perso." Non riusciva a pensare nient'altro. "Mi sono comportato da stronzo e ora l'ho perso, ed è quello che merito."
In quel momento il suo cellulare, che era posato sul comodino, iniziò a vibrare. Arthur allungò un braccio e afferrò l’apparecchio per controllare il numero. Francis. Evviva.
- Pronto? - borbottò, stupendosi lui stesso di quanto la sua voce fosse roca e il tono distrutto.
- Bonjour, Arthùr. Ti ho chiamato per sapere com'è andata ieri sera.
- Non è successo niente, Francis, lasciami in pace.
- Non mentirmi! Non dovevi uscire?
- Sì, infatti, sono andato a… a prendere un tea... -  disse, cercando di tirare fuori una bugia credibile. In quel momento gli vennero in mente le parole di Alfred: "Sai, esiste una cosa chiamata coscienza…" - Sono andato a prendere un tea con la mia coscienza.
 

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Ci pensa Francis! ***


Capitolo sette
 
Francis mise giù la cornetta del telefono e fece un profondo sospiro di delusione. Ah, che seccatura. Lui si faceva in quattro perchè Arthur trovasse finalmente l'amore della sua vita, e quell'idiota di un inglese come lo ripagava? Rovinando tutto. E ora a chi sarebbe toccato sistemare le cose, da bravo Cupido protettore dell'amour? A lui, ovviamente.
Sospirò di nuovo. Aveva bisogno di un piano, e in fretta. Doveva ammettere di non essere mai stato un grande esperto nel campo della vita di coppia, il suo terreno erano le tecniche di conquista… che non usava nemmeno più, da quando si era messo con Matthew.
- Francis, stai proprio invecchiando… - borbottò tra sé, alzandosi dalla poltrona su cui era stato seduto fino a quel momento e dirigendosi verso la stanza da letto.
Matthew gli comparve alle spalle all'improvviso, facendogli prendere un mezzo infarto. Era appena uscito dal bagno e indossava solo un accappatoio. - Chi stavi chiamando? - chiese mentre si frizionava i capelli con un asciugamano.
- Arthùr. Sapevi che tuo fratello lo aveva invitato a uscire per San Valentino? - disse Francis, posando con disinvoltura una mano sul fianco di Matthew e attirandolo a sé.
- In realtà no… - rispose il canadese. - …ora lasciami andare, Francis, devo ancora finire di asciugarmi...
- Non ci penso proprio, mon amour… - ribatté il francese, posandogli un leggero bacio alla base del collo. - …conosci benissimo i rischi che corri presentandoti davanti a me in questo stato.
- Appunto per questo ho messo l'accappatoio e non l'asciugamano… comunque, mi parlavi di Arthur e mio fratello, giusto?
- Ah, oui. - disse Francis, tentando con un certo sforzo di spostare la sua attenzione da quanto poco quell'accappatoio coprisse Mathieu ai problemi sentimentali dell'inglese. - Da quello che ho capito l'appuntamento è stato un completo disastro. E quei due hanno litigato di nuovo. - Matthew annuì, con l'aria di capire perfettamente i motivi per cui fosse così facile litigare con Alfred.
- Ora dovrei risolvere il problema, vero? Dopotutto sono stato io a tentare di farli mettere insieme… -
- Beh, non devi sentirti in obbligo. Tu con l'appuntamento non c'entravi nulla, se è andato male è solo colpa loro… "cioè di Alfred." terminò con il pensiero.
- Lo faccio solo perchè so che quei due sarebbero perfetti assieme. Insomma, non li hai visti al ristorante?
- Veramente… no. - disse Matthew, cercando di ripensare a quella serata. L'unica cosa che ricordava era Alfred che tentava di far ruotare una forchetta… meglio rimuovere anche quel particolare. A essere sincero, la parte piacevole della serata era arrivata solo quando lui e Francis erano tornati a casa.
- Non facevano altro che lanciarsi occhiatine. Poi sono spariti in bagno, e quando sono usciti Arthur aveva un'aria sconvolta. Mi pare ovvio che ci siano tutti i requisiti per una relazione duratura.
- Forse Arthur era solo sconvolto dalla stupidità di mio fratello. - commentò il canadese. Aveva qualche riserva a fidarsi dei giudizi di Francis in fatto di relazioni durature.
- Oh, non dire così. Anche tu avevi un'aria sconvolta la prima volta che ci siamo incontrati, eppure tra noi va tutto a meraviglia. - ribatté il francese, dandogli un appassionato bacio sulle labbra per rafforzare l'affermazione.
- Ovvio che ero sconvolto. Non avevi fatto altro che provarci con me per tutta la sera.
- C'è qualcosa di sbagliato? Ero innamorato perso. - disse Francis alzando le spalle.
- Oh, avanti. Mi conoscevi da un quarto d'ora.
- Amore a prima vista. La mia ragione di vita era improvvisamente diventata portarti a letto.
- Questo è davvero poco carino sai? - borbottò Matthew. Aveva avuto parecchi problemi a dimenticare che i fidanzati di Francis non duravano mai più di una settimana; e nonostante il francese gli avesse ormai dimostrato che poteva fidarsi completamente di lui, quegli accenni al fatto che all'inizio della loro relazione Francis lo considerasse come uno dei suoi soliti passatempi lo irritavano ancora.
Francis se ne accorse subito, e lo attirò in un abbraccio che ebbe l'immediato potere di tranquillizzarlo. - Ehi. Lo sai che tu per me significhi molto più di quello.
- Allora smetti di fare quei commenti stupidi… - Matthew cercò di mantenere un tono offeso, ma la sua arrabbiatura si sciolse come neve al sole quando il francese lo strinse più forte a sé.
- La smetterò, te lo prometto. Perché adesso la mia ragione di vita è farti felice…
- Non so se siano peggio quei commenti da playboy o queste frasi da film romantico anni trenta. - ironizzò Matthew.
- Sei perfido, sai? Stavo solo cercando di essere sincero.
- Temo che dovrai fare ancora molto esercizio…
Francis sbuffò e si affrettò a cambiare argomento. - Insomma, vorrei fare qualcosa per Arthùr e Alfred, ma non ho idee.
- Non conosci nessuno esperto in queste cose che potrebbe aiutarti?
- Fammici pensare… - borbottò il francese accarezzandosi il mento. All'improvviso s’illuminò e schioccò le dita, esclamando: - Honda!
- Chi? Il giapponese?
- Lui. Non sembra, ma quel ragazzo ha una mente diabolica.
- …È un bene? - chiese Matthew, confuso.
- Direi proprio di sì. Ed è amico di Arthùr, il che semplifica le cose. Tu aspetta qui, gli telefono immediatamente. Non ti muovere!
E prima che Matthew potesse obiettare che lui sarebbe dovuto andare in camera a vestirsi, Francis era già sparito in salotto e borbottava in francese che Honda avrebbe fatto meglio a rispondere, o avrebbe dovuto inviargli la richiesta di aiuto via piccione viaggiatore. Matthew sospirò, ricordando l'ultima volta che Francis aveva cercato di mandargli un messaggio tramite Pierre. Aveva dovuto usare la candeggina, per ripulire il parabrezza. Anche quello era un episodio da rimuovere…
 

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Un piano degno di un Gal Game ***


Capitolo otto

- Arrivo… un attimo… - mormorò tra sé Kiku mentre attraversava la camera cercando di fare il meno rumore possibile, per raggiungere il telefono che vibrava come se ne andasse della sua esistenza, facendo tremare la scrivania.
Yao dormiva ancora, abbracciato come un bambino al cuscino che il giapponese gli aveva messo tra le braccia per scendere dal letto senza che lui si accorgesse della sua assenza; e sarebbe stato meglio se non si fosse svegliato.
- Pronto, parla Honda. – disse portandosi il cellulare all’orecchio e cercando di usare un tono di voce ancora più basso del solito, mentre azzardava qualche altro passo in direzione del salotto, dove sperava di poter parlare liberamente.
- Mon ami Kiku grazie al cielo hai risposto! – esclamò la voce di Francis, esageratamente alta contro il suo orecchio. Kiku sobbalzò, ricordandosi improvvisamente di aver lasciato il vivavoce attivato. Il telefono gli sfuggì dalle mani, e il giapponese tentò uno scatto in avanti per afferrarlo, ma mancò la presa, e l’apparecchio cadde sul pavimento con un suono preoccupante. Raccattò il cellulare da terra immediatamente, costatando con un certo sollievo che era ancora funzionante e spense il vivavoce che continuava a far echeggiare la voce confusa del francese dall’altra parte del filo, che gli chiedeva se tutto andasse bene.
- È tutto a posto Francis-san, mi era solo caduto il telefono… - rispose velocemente, affrettandosi a uscire dalla camera, quando un mugolio soffocato e uno sbadiglio proveniente dal letto lo fecero immobilizzare.
- Kiku dove sei? Voglio le coccole! – esclamò la voce di Yao, improvvisamente molto vitale. Kiku alzò gli occhi al soffitto e posò una mano sul microfono del cellulare perché Francis non sentisse la conversazione – probabilmente imbarazzante – che stava per seguire.
- Ni-ni, sono al telefono.
- Metti giù, allora. Voglio le coccole. Quelle che mi hai fatto stanotte non bastano. – ribatté Yao con la sua miglior voce da bambino viziato, tirandosi a sedere sul letto. Kiku si sedette sul bordo del materasso, sospirando, e il cinese rotolò su un fianco per avvicinarsi a lui, per poi posare la testa sulle sue ginocchia.
- Sembri un gatto… - mormorò il giapponese, accarezzandogli piano i capelli. Yao si esibì in un’espressione beata che sarebbe sicuramente stata a pennello sul musetto di un gatto mentre faceva le fusa, e mugolò un “miao”. – Sì, sì, adesso fai il bravo gattino e lascia che il tuo padrone parli al telefono. Poi giocherò di nuovo con te. Dicevi Francis-san?
- Era la voce di Wang quella?
- Quale voce? Devi essertela immaginata. – rispose senza scomporsi Kiku, con un sorriso serafico stampato sul volto.
- Sì, sì, sarà come dici tu. – borbottò velocemente Francis con aria poco convinta, per poi cambiare argomento: - Ti ricordi di Jones, vero? Alfred Jones.
- Certo. Gli avrò prestato una ventina di videogiochi horror… che ha combinato?
Francis prese un respiro profondo e fece una pausa tragica, prima di rivelare il misfatto: - È uscito con Arthùr.
Kiku non ebbe una reazione sufficientemente sconvolta. - …oh. Sono felice per loro.
- Aspetta che finisca di parlare. Pare che l’appuntamento sia stato un disastro completo. E ora i due non si vogliono più vedere.
- …caratteri incompatibili? – suggerì Kiku. Conosceva entrambi abbastanza bene da poter affermare che una relazione tra quei due avrebbe significato una catena interminabile di litigi.
- No, no. Sono sicuro che siano fatti l’uno per l’altro. E poi Arthùr è palesemente innamorato perso, mi pare un vero spreco lasciare la situazione com’è ora.
- Ti rendo conto di cosa accadrebbe se tu ti stessi sbagliando?
- Perfettamente. È per questo che mi sto rivolgendo a te Kiku, perché sono sicuro che non fallirai. Mi serve un piano per rimetterli insieme; ora, tu sai che io non sono un esperto in queste cose… e qui entri in gioco tu. Io darò una mano a mettere in atto il piano.
Kiku ci rimuginò sopra per qualche secondo. Certo, non aveva molte esperienze pratiche in quel campo, ma con tutti i dati sulla situazione e creando i flag giusti…
- Sono a tua disposizione, Francis-san. Ora dimmi tutto quello che sai sulla situazione.
Dopo una decina di minuti Kiku chiuse la telefonata e si lasciò cadere all’indietro sul letto.
- Che succede? – chiese Yao, alquanto confuso.
- Nulla di diverso dal solito. Arthur-san ha un problema e Francis-san mi chiama per risolverlo.
- Ma uffa. Perché devi essere tu a pensarci? – sbuffò il cinese, prevedendo che quel “problema” gli avrebbe portato via il fidanzato per un tempo indefinito.
- Perché sono l’unico ad avere una certa esperienza di Gal Games nel giro di conoscenze di Francis. Lui è abilissimo a capire i problemi sentimentali di chiunque, ma più di lì non va.
- …esperienza di cosa…?
Kiku fece una risatina. Quel suo particolare hobby era una delle cose che Yao non doveva venire a sapere. – Niente, niente, Ni-ni. Ora lasciami andare, avrei un “malefico piano” da progettare.
- Scordatelo. Mi hai promesso che avresti giocato con me, ricordi? – ribatté Yao, bloccandogli i polsi sopra la testa con uno scatto felino. – Mister Oppio può aspettare.
- Dovresti smetterla con questo razzismo verso gli inglesi, sai.
- Non è colpa mia se m’ispirano un odio naturale. – ribatté il cinese alzando le spalle. – Ma passiamo ad argomenti più interessanti… - aggiunse, abbassandosi per mordicchiare un punto alla base del collo di Kiku che, come aveva imparato durante la loro relazione, era particolarmente sensibile.
- Yao… avrei delle cose da fare…
- Sono più importanti di me…? – mugolò il cinese con un’aria dispiaciuta e i suoi migliori occhi da cucciolo abbandonato.
- …ah, al diavolo, lo sai che quando fai così non resisto… - borbottò Kiku, liberandosi dalla stretta dell’altro per invertire le posizioni.
Dopotutto i problemi di Arthur potevano aspettare per qualche ora, giusto…?
 
***
 
Kiku suonò il campanello dell'appartamento di Alfred, stampandosi sul volto un sorriso amichevole e sperando che tutto andasse come previsto - convincere l'americano a collaborare era una parte fondamentale del piano. Poteva presupporre che in quel momento anche Francis si stesse lavorando Arthur.
Alfred aprì la porta e gli rivolse una smorfia che poteva essere paragonata a un fantasma del suo solito sorriso allegro.
- Kiku. Che ci fai qui?
- Sono venuto a vedere come te la stai cavando, dopo… beh, lo sai.
- Abbastanza bene, direi. Ho passato momenti peggiori. Vuoi entrare?
- Se posso. - il giapponese si sfilò velocemente le scarpe ed entrò nell'appartamento. La prima sensazione fu di essere entrato in una grotta. Di quelle buie e piccole in cui devi farti largo a fatica. Solo che in quel caso Kiku non doveva districarsi tra stalattiti e simili, ma tra pile di scatole di pizza vuote e confezioni giganti di gelato finite.
Alfred attraversò l'ingresso con l'aria di aver fatto quella strada centinaia di volte, senza sfiorare nemmeno uno degli oggetti sparpagliati a terra, per poi sparire in una porta laterale, che Kiku dedusse fosse la cucina dal fatto che l'americano ne uscì con in mano un enorme barattolo di gelato e un cucchiaio.
- Vieni. - borbottò Alfred, e condusse Kiku in salotto. Il giapponese si sedette con una certa circospezione sul divano, e Alfred si lasciò cadere accanto a lui.
Il giapponese si schiarì la voce, cercando di elaborare un buon modo per iniziare il discorso. - Quindi… come stai?
- Benisshimo. - biascicò Alfred con la bocca piena di gelato.
- Perché è vero o per il gelato?
- …per entrambi i motivi.
- Alfred! - lo ammonì Kiku puntandogli un dito contro. - Non puoi stare lì a struggerti e mangiare gelato come una versione moderna di Winnie the Pooh col vaso di miele.
- …non posso?
- No. Devi reagire. Arthur non è l'unico ragazzo al mondo, sai.
- Ma non ce ne sono altri come lui. Lui è così… - fece una pausa, corrugando la fronte come se si stesse sforzando di trovare una definizione adatta. - …irritante. - concluse infine. A Kiku sarebbe potuto venire da ridere, se Alfred non avesse pronunciato quella parola come se fosse la sintesi perfetta del motivo per cui non potesse amare nessun altro.
- Non è propriamente una caratteristica positiva, lo sai vero?
- Hai una definizione migliore?
- …no, in effetti no.
Alfred si limitò a prendere un'altra enorme cucchiaiata di gelato. Kiku si chiese come facesse a mettere in bocca tutta quella roba senza slogarsi la mascella.
- Cosa ho sbagliato? - chiese infine l'americano.
- Beh, non vorrei risultare privo di tatto, ma… circa tutto.
- Non dovevo portarlo in discoteca, eh?
Kiku annuì. - Non è proprio il tipo.
- …l'ho anche baciato, sai. Credo sia stata la cazzata più grande che ho combinato.
Il giapponese decise di rimanere in silenzio, aspettando che Alfred finisse di sfogarsi.
- Gli ha fatto schifo. Me l'ha detto, ti rendi conto, me l'ha detto in faccia e io ci sono rimasto così male. Non è da me restarci male. Io sono l'eroe, maledizione! - Alfred tirò su col naso.
- Ma sei innamorato. - intervenne cautamente Kiku. Alfred annuì.
- Non ho nessuna speranza, vero?
Kiku pensò a quello che gli aveva detto Francis, che Arthur stava male quanto Alfred, e si chiese se dovesse dirlo. Ma del resto, non era quello il suo compito.
- Forse dovresti provare a dimenticarti di lui.
- Non so se ce la posso fare.
- Posso permettermi di darti un consiglio?
- Spara.
- Datti una sistemata ed esci di qui. Se ti distrai starai meglio.
Alfred sbuffò e si strinse al petto il barattolo di gelato con aria possessiva. - Sto bene qui.
- No tu non stai bene. - ribatté Kiku con un tono che non ammetteva repliche. - Ora mi dai quel gelato e vieni con me.
- Piuttosto la morte!
Kiku dovette combattere per qualche secondo nel tentativo di strappargli il barattolo dalle mani, ma infine riuscì a spuntarla.
- Bene! - esclamò trionfante portando il gelato fuori dalla portata dell'americano. - E ora vatti a cambiare!
- E che diavolo dovrei mettermi?!
- Questo! - rispose Kiku piazzandogli in mano una borsa di carta che si era portato dietro per tutto il tempo.
- E cos'è? - borbottò Alfred sbirciandone il contenuto.
- Qualcosa di adatto al posto dove voglio portarti. Tu hai bisogno di divertirti un po', ecco la verità. - concluse il giapponese spingendo Alfred in bagno e chiudendo la porta. - E vedi di darti un aspetto presentabile.
Riuscito anche in quell'impresa, Kiku appoggiò la schiena alla porta e sospirò. Era fatta - beh, quasi fatta. La riuscita del piano dipendeva solo dagli unici due che ne erano all'oscuro, alla fine.

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Rose gialle ***


Capitolo dieci
 
Alfred aveva indossato il completo che Kiku gli aveva dato - che era pochissimo nel suo stile e sembrava uscito dal guardaroba di Francis - e aveva seguito il giapponese fino alla sua macchina. Durante il tragitto in auto non avevano praticamente aperto bocca. Del resto, cos'altro si poteva dire? 
Alla fine Kiku aveva parcheggiato davanti a un locale parecchio alla moda in centro. Da quello che ne sapeva Alfred era un posto elegante. Inglese. Quel genere di cosa che sarebbe piaciuta ad Arthur. Ecco, stava pensando di nuovo a lui. Cosa diavolo saltava in testa a Kiku?! Se voleva distrarlo quella non era proprio una buona idea!
- Avanti, entriamo. - aveva detto Kiku con uno dei suoi soliti sorrisi educati. - C'è questa terrazza sul tetto che è davvero carina.
E Alfred si era ritrovato in un ascensore diretto verso quella maledetta terrazza prima di riuscire anche solo a dire "ah".
Non si aspettava però che appena le porte dell'ascensore si aprirono Kiku lo spingesse fuori e premesse il pulsante del piano terra, lasciandolo solo.
Ora sì che iniziava a preoccuparsi. Si diede un'occhiata intorno. La terrazza era deserta, non fosse per un tizio che se ne stava dalla parte opposta rispetto a lui e stava osservando con aria critica un vaso di rose gialle.
Alfred si stropicciò gli occhi. Li chiuse. Li riaprì. Il tizio era ancora lì, e o lui stava davvero impazzendo o quello era Arthur.
Alfred non riuscì a trattenere un'esclamazione, e sentendo la sua voce l'inglese si girò verso di lui. Arthur spalancò gli occhi e lo guardò come se avesse visto un alieno. Fece un passo avanti, poi sembrò ripensarci e si ritrasse. Sembrava agitato.
Quanto ad Alfred, non riusciva a sentire altro che il battito furioso del suo cuore nelle orecchie. Si passò la lingua sulle labbra, sentendo l'urgenza di dire qualcosa, qualsiasi cosa, e scoprendosi incapace di aprire bocca. Gli tremavano le mani.
- A-Arthur. - riuscì ad articolare con un grosso sforzo. - No, la regina d'Inghilterra. - borbottò l'inglese in risposta. - Che diavolo ci fai qui?
- Mi ci ha portato Kiku. - rispose Alfred, rendendosi conto improvvisamente che il giapponese aveva organizzato tutto per farli incontrare.
- Quel bastardo traditore! - sibilò Arthur. - Me ne vado.
- No, aspetta! - esclamò Alfred quasi senza rendersene conto, e si lanciò in avanti per afferrare Arthur per un braccio. - Io e te abbiamo bisogno di parlare.
- Cosa vuoi dirmi? Altri insulti come quelli che mi hai detto l'ultima volta che ci siamo visti? - il tono di Arthur era freddo, ma Alfred riuscì a cogliervi una sfumatura di tristezza che lo spinse a continuare.
- No. Mi dispiace per come ti ho trattato quella volta. Ma anche tu non sei stato clemente con me.
- Clemente?! Cosa dovevo dire?!
- Non lo so. Ma c'è modo e modo di rifiutare una dichiarazione. Il tuo è stato l'equivalente di buttare il mio cuore in un frullatore e selezionare l'opzione "high speed". - Alfred non sapeva perché stesse dicendo queste cose ad Arthur. Stava cercando un altro rifiuto? L'inglese era già stato sufficientemente chiaro. E lui era solo un povero idiota, se continuava a sperare.
- Era l'unico modo che mi è venuto in mente. - rispose Arthur. - Forse volevo farti male, ci hai pensato?
Un idiota, appunto. - Direi che è l'unica cosa a cui ho pensato. Quello che non capisco è perché volessi farlo. Sai essere un piccolo stronzo quando vuoi, ma non sei così.
Arthur si morse il labbro inferiore, a disagio. Sembrava che stesse valutando quanto potesse essere sincera la sua risposta. - Perché volevo che te ne andassi. - fece una pausa, poi aggiunse velocemente - È meglio così, Alfred, è meglio per te.
- Meglio per me?! Come può essere meglio se tutto ciò che chiedo è poter stare con te!
Arthur scosse la testa. - Non capisci…
- No, non capisco. Se mi avessi detto che mi odi, avrei capito. Ma così…
- Io non ti odio. Non è quello il punto.
- Invece è proprio quello. - Alfred fece un passo avanti, avvicinandosi all'altro. - Se non mi odi, cosa ti impedisce di amarmi?
Arthur aprì la bocca, ma non trovò le parole adatte per rispondere. Fissò per un attimo Alfred con aria persa, poi mormorò. - Nulla.
- Allora perché?
- Ho paura, va bene?! - sbottò Arthur, liberandosi con uno strattone dalla presa di Alfred.
L'americano sembrava confuso. - …di cosa?
- Che vada male. Come tutte le altre volte. - Arthur distolse lo sguardo. - Mi dispiace. Io non posso rischiare, io…
Alfred non lo lasciò finire la frase. Gli prese il viso tra le mani e lo costrinse a guardarlo in faccia.
- Arthur, io ti amo. - l'altro si limitò a sbattere un paio di volte gli occhi, incredulo, quindi Alfred decise di ripeterlo. - Ti amo. E non mi interessa se puoi aver incontrato degli stronzi che ti hanno fatto del male, o ti hanno usato, io non sono così. E penso davvero che tra noi due possa funzionare, se solo tu mi lasciassi tentare. Dammi una possibilità di dimostrarti che tengo a te. So di aver sbagliato tutto finora, ma beh, questo significa che le cose possono solo migliorare, no?
Arthur fece un suono a metà tra un sospiro e un singhiozzo. - Alfred, non… non credo che…
- Adesso smettila con queste scuse inutili, per favore. Dimmi solo una cosa. - Alfred prese un respiro profondo e si buttò. - Mi ami? O pensi che potrai mai farlo?
Arthur si sentì arrossire fino alle orecchie. Cosa poteva dire…? "La verità", pensò, "del resto cos'altro ho da perdere?"
- Sì.
Un enorme sorriso apparve sul viso di Alfred. - Sì cosa, Artie?
- N-non dirò un'altra parola! Accontentati! - balbettò l'inglese, arrossendo ancora di più.
Alfred rise e gli diede un pizzicotto sulla guancia. - Perché non me l'hai detto subito, stupido inglese. 
- Mollami, mi fai male! - biascicò Arthur schiaffeggiandogli la mano.
- Allora, perché? - insistette Alfred.
- Perché volevo darti l'opportunità di capire che stavi facendo una cazzata. Ma a quanto pare sei convinto.
- Non sto facendo una cazzata. Perché dici così?
- Ti meriti qualcosa di meglio di me. - Arthur abbassò lo sguardo. Ah. Allora il problema era tutto lì.
- Non m'interessa cosa mi merito. M'interessa cosa voglio. E io voglio te.
Arthur lo guardò con aria piuttosto scettica. Alfred sbuffò. Alla fine doveva farglielo capire con i fatti, a quanto pareva. Gli si avvicinò lentamente, un millimetro alla volta, gli occhi bene aperti per godersi l'espressione stupefatta e imbarazzata di Arthur, le sue guance che si tingevano di rosa. All'ultimo istante l'inglese chiuse gli occhi. Poi le loro labbra si sfiorarono. Fu un soffio, una scintilla, un uragano, tutto insieme. E stavolta Arthur si strinse ad Alfred, lasciò che assaporasse lentamente le sue labbra per poi approfondire il bacio. Era una sensazione dolce, totalmente diversa da quel bacio rubato nel bagno di una discoteca. Non c'era nessuna fretta, stavolta, nessun ripensamento. Solo un desiderio di scoprire che forse, solo forse, loro due erano davvero fatti per stare insieme. Forse erano la persona che l'altro stava cercando.
- Ti amo. - ripetè un'ultima volta Alfred all'orecchio di Arthur, sfiorandogli appena la pelle con le labbra. Avrebbe dovuto dirlo ancora molte volte prima che l'inglese gli credesse davvero, lo sapeva. Ma quello era un compito che non gli pesava affatto.
Arthur non pronunciò quelle due fondamentali parole. Semplicemente, non sentiva ancora di potersi fidare del tutto, non voleva mettersi in gioco fino a quel punto. Ma poteva lasciare che Alfred lo convincesse a farlo. Posò la fronte contro il petto dell'americano, aspettando che i battiti del suo cuore si calmassero. Alfred gli circondò la vita con le braccia, stringendolo a sé. E per un volta, non ci fu davvero bisogno di dire altro.
 
- E quindi, mon ami Kiku, che ne dici? Siamo stati bravi? - chiese Francis, mentre osservava con un binocolo tutto quello che accadeva sulla terrazza.
- Direi che i risultati sono più che soddisfacenti, Francis-san. - rispose il giapponese, abbassando la sua macchina fotografica per controllare se le foto che aveva scattato ai due piccioncini fossero abbastanza a fuoco. Lo erano.
- Missione compiuta, quindi.
- Missione compiuta. - confermò Kiku, e alzò una mano per battere il cinque a Francis.
Un attimo dopo i due videro Arthur e Alfred uscire dall'edificio e dirigersi verso la casa dell'inglese.
- Ah-ah, prima volta in vista~ - gongolò il francese. - Seguiamoli!
- Francis-san!! Non è per nulla appropriato---- Francis-san! Fermati!
 
 
 
NdA
Vi ho risparmiato le note per ben otto capitoli, potevo trattenermi proprio ora? Ovviamente no! :'D
Ok, sarò breve. *srotola foglio lungo un metro* Scherzavo u.u
Intanto ringrazio tantissimo tutti quelli che hanno letto fin qui, vi adoro, anzi, adoro anche quelli che hanno solo dato un'occhiata e hanno chiuso schifati (spero non siate tantissimi, eh :'D)
Un ringraziamento speciale va ai miei mitici diciassette lettori, siete fantastici <3
E poi come potrei dimenticare le mie virgi_chan_12 e Tay66, che con le loro recensioni adorabili mi hanno illuminato le giornate? Grazie :3
E beh, last but not least, un abbraccio alla mia Hollyhock (anche se lei li odia). Non avrei mai pubblicato senza di te, cherie <3 Grazie di supportarmi - e sopportarmi - ogni giorno :D
Bene, ora ho proprio finito, spero che quest'ultimo capitolo vi sia piaciuto nonostante la quantità di fluff da diabete e...
arrivederci alla prossima fic XD
 


 
 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=2176919