Underground

di bibersell
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Freddo dentro ***
Capitolo 3: *** Un ospite o un nuovo amico? ***
Capitolo 4: *** "La Casa Di Tutti" ***
Capitolo 5: *** "Let Her Go". Passenger. ***
Capitolo 6: *** Nove euro o due tazze di cioccolata? ***
Capitolo 7: *** Saranno i nostri primi ricirdi insieme? ***
Capitolo 8: *** Tequila, la mia fidata amica ***
Capitolo 9: *** Acido e rullini ***
Capitolo 10: *** Le tenebre di Cupido ***
Capitolo 11: *** Intonaco ***
Capitolo 12: *** Il freddo, lei, non lo voleva ***
Capitolo 13: *** Nuovo inizio: lunedì dopo le vacanze ***



Capitolo 1
*** Prologo ***





Underground


Annabelle's point of view.

Il marmo sotto di me era freddo come sempre.
Il vento di dicembre colpiva il mio volto.

Natale si stava avvicinando.

Tutto di quel posto mi era familiare, anche quelle scale in marmo bianco liscio.
Ormai trascorrevo più tempo in quella stazione che a casa, sempre se quel luogo si potesse definire tale.
Perfino la sigaretta che avevo in mano mi era più familiare.

Espirai ed una nuvoletta di fumo uscì dalle mie labbra.
Una nuvola di fumo e di condensa.

Mi avvolsi nel mio sciarpone di lana nero.

Quel giorno faceva particolarmente freddo.
Ma io sentivo freddo dentro, nell'anima.

Mi portai la sigaretta alle labbra ed inspirai.

Lasciai che la nicotina inebriasse i miei polmoni.

Amavo passare le ore della giornata alla stazione; guardare tante persone entrare ed uscire dal treno e pensare alla loro storia: ecco una coppia di innamorati che litiga, più in là una ragazza che cerca disperatamente qualcosa, forse l’amore, l’amicizia, la felicità … dietro l’angolo un bambino con un signore anziano, probabilmente il nonno.
Adoro pensare alle vita degli altri lasciando che la mia mi scivoli addosso.
Ma c'erano anche molti volti conosciuti: il ragazzo che vendeva i biglietti, la ragazza al casello che controlla i movimenti di coloro che popolavono la stazione. ..poi c'era chi cercava di tirare avanti vendendo tutto ciò che trovava.
Vendevano ombrelli, cose di bigiotteria, borse false e tutto quello che riuscivano a trovare.
Le persone che dormivano in quella stazione era davvero tante. Si stendevano vicino alle porte d'ingresso cercandosi di farsi calore con i cartoni.

Presi la borsa nera e portati la tracolla alla spalla, mi alzai sistemando i jeans scuri lungo le gambe e mi incamminai verso una strada che di familiare non aveva nulla.
Camminavo verso quel luogo in cui avrei dovuto trovare conforto e calore.
Un posto straboccante di amore.
Ma non era così.

Allargai il nodo della sciarpa.

Camminando il mio corpo si era riscaldato, ma non la mia anima.

Il cielo era scuro nonostante fossero solo le sei del pomeriggio.
Si poteva già scorgere la luna. Quella sera aveva alcune zone scure causate dalle nuvole.
Domani avrebbe piovuto o nevicato.
A Chicago il tempo era così rigido, soprattutto nel periodo natalizio in cui nevicava sempre.

Passai davanti un negozio che vendeva alberi di natale.
C’erano tanti pini verdi, erano così belli. Qualcuno aveva anche qualche punta schizzata di bianco.
Il mio sguardo si soffermò su una bambina che saltellava gridando a gran voce il nome del padre.
Indossava un delizioso cappottino rosso da cui uscivano una paio di piccole gambine fasciate da calzamaglie panna.
I biondi ricci svolazzavano da ogni parte a causa del vendo e i suoi saltelli gioiosi. Voleva che suo padre comprasse l’albero che le piaceva.
Il Natale era un periodo così bello. Sapeva di famiglia.
Era il periodo in cui la mia anima sentiva più freddo.
Era il periodo in cui sentivo la mancanza di quel sapore che aromatizzava ogni piatto, che c’era in ogni ricetta.


Bussai al citofono di casa e dopo qualche minuto il cancello si aprì.
Non c’era bisogno di chiedere chi fosse, i domestici lo vedevano dalle telecamere.
Varcai il cancello e mi incamminai lungo il viale.

In sottofondo si sentiva il rumore degli irrigatori nel giardino.
Sulla porta c’era un’enorme ghirlanda decorata con delle palline natalizie rosse.
Era di dimensioni esorbitanti, ogni anno una ghirlanda nuova e ogni anno sempre più grande.
Salii i gradini che mi separavano dall’ingresso, mi pulii le scarpe sul tappetino anch’esso natalizio e rigorosamente rosso.
Il disegno di un vecchio signore che sarebbe dovuto essere Babbo Natale ricopriva i tre quarti del tappeto.

Entrai in casa.

Maria, la domestica, stava decorando casa con i nuovi addobbi.
Sarebbe stata sicuramente una casa stupenda con tutti i decori e sarebbe stata più fredda del solito.
Agli occhi degli altolocati amici dei miei genitori sarebbe stata anche quest’anno la casa dei sogni che tutti dovrebbero avere.

-Maria, io vado in camera mia- urlai salendo le scale che portavano al piano di sopra e alla mia stanza.
Girai il pomello dorato ed entrai in camera.
Quelle pareti bianche adornate con poster di band rock che nemmeno conoscevo, che avevo messo solo per far somigliare la mia stanza ad una camera normale, mi rassicurarono.
Posai la borsa sul letto rifatto da Maria, mi levai le scarpe con un gesto deciso e le gettai alla rinfusa nella stanza.
Mi stesi sul letto a petto in su e chiusi gli occhi.
Nemmeno quel giorno i miei erano a casa.
Probabilmente si erano intrattenuti in azienda. I miei genitori erano i proprietari di una delle aziende più conosciute di Chicago.
Il lavoro era tutto la loro vita, anche quando stavano a casa lavoravano.
Erano brave persone, ma non erano riusciti a creare una vera famiglia.
Sono cresciuta con tate diverse, in paesi diversi.
I primi otto anni della mia vita li ho trascorsi a Chicago. Fino a quattordici anni siamo stati in Cina, poi due anni e mezzo a Berlino e da qualche mese siamo ritornati nel paese natale anche se non lo sento come mio.
Credo che siano le persone e i ricordi a rendere una città tua e qui non avevo nessuno.
L'unica persona che lavorava per i miei da quando ero piccola era Maria.
Per me era come una madre e io ero la figlia che non aveva mai avuto.
Bussarono alla porta e una donna dai capelli scuri legati in una coda e con un vestito blu entrò:
- Annabelle quante volte ti devo dire che devi posare le scarpe fuori la porta?-.
-Lo so Maria, scusami-. Risposi alzandomi dal letto. -I miei tra quanto tornano?-.
- Hanno avuto un contrattempo in azienda, credo che torneranno stasera quando tu già dovresti dormire-. Rispose prendendo le scarpe e portandole all'esterno della camera.
- Si cena tra mezz'ora-. Continuò Maria uscendo dalla stanza.
-E anche stasera si mangia da sola-. Sussurrai una volta che la porta fu richiusa.
Infilai le pantofole ai piedi ed uscii dalla stanza ed entrai in bagno.
Mi levai i vestiti e li posai nella cesta per il bucato.
Feci scorrere le ante della doccia ed aprii l'acqua calda. Mi lavai lasciandomi riscaldate dal getto d'acqua.
Uscendo mi avvolsi nell'accappatoio di panno giallo.
Non mi era mai piaciuto quel colore e faceva a pugni con il colorito chiaro della mia carnagione.
Non amavo i colori forti ed accesi, quelli erano per persone allegre e non vuote come me.
Asciugai i lunghi capelli neri ed applicai delle gocce per capelli sfibrati sulla frangetta.
Tornai in camera da letto richiudendomi la porta alle spalle e aprendo l'armadio.
Tirai fuori un pigiama in cotone; il mio preferito.
Il pantalone era bianco e con delle righe rosse mentre la maglia era sempre rossa e con un gattino in lana bianca.
Legai i capelli in una coda di cavallo e scesi in cucina.
Non c'era nessuno.
Il tavolo rotondo in vetro era apparecchiato con in fumante piatto di pasta al forno.
La specialità di Maria.
Mi sedetti e fissai davanti a me. Notai che una piccola campanellina bianca con una stella di natale disegnata era stata postata sulla mensola del camino.
L'avevo fatto alle elementari, era stato uno dei miei primi lavoretti scolastici.
Maria entrò in sala.
Questa volta indossava un paio di pantaloni neri ed una camicia verde scuro.
- Annabelle io vado a casa. Stasera rimane Paolo qui. I tuoi non hanno chiamato ma torneranno dopo mezza notte. Mangia tutta la pasta e vai a dormire, non rimanere sveglia fino a tardi-. Disse con tono estremamente premuroso.
-Va bene Maria. Ci vediamo domani-.
Uscì dalla stanza e dopo qualche minuto sentii il rumore della porta di casa che si richiudeva.
Il silenzio era piombato intorno a me.
In casa c'eravamo solo io e Paolo o come lo chiamavo io Nick.
Era il guardiano della villa, come la guardia del corpo di quell'enorme casa in cui non c'era mai nessuno.
Solo nelle festività straboccava di gente.
Finii il pasto ed andai in camera al piano di sopra.
Controllai l'orario e vidi che erano le otto di sera.
Mi stesi sul letto ed accesi la televisione.
Vidi qualche programma da quattro soldi e poi un film.
Ricontrollai l'ora.
L'orologio digitale sul comodino segnava le 23:34.
Mi rigirai nel letto alla ricerca del sonno che non arrivava.
Il giorno dopo sarei andata a scuola. Mi aspettavano due ore di greco. Probabilmente avrebbe anche portato i compiti in classe che avevamo fatto circa una settimana e mezzo prima.
L'orologio segnava le 00:08.
Presi il cellulare e giocai con quei pochi giochi che avevo.
Soltanto quando sentii il rumore della porta aprirsi e poi richiudersi potei addormentarmi.
I miei genitori erano arrivati e l'orologio segnava le 01:47.


 
Salve.
Ed eccomi qui con la mia seconda fanfiction, sono ritornata ad annoiarvi con le mie storie che fanno letteralmente pena.
Nonostante ciò spero che qualcuno le apprezi lo stesso.
E' inutile dire che mi farebbe piace qualche recensione.
Cercherò di aggiornare il prima possibile la storia e di fare i capitoli più lunghi possibili.
In questo capitolo c'è solo la nostra protagonista Annabelle che ci parla della sua storia.
Forse l'inizio può sembrare quello di una qualsiasi storia, ma credetemi, il ruolo di Justin sarà spettacolare. Almeno io non ho mai letto nulla di simile.
Spero con tutto il cuore che vi piaccia, ma se non è così non fa nulla. Io mi sono divertita a scrivere questo capitolo.
Se avete qualche critica da fare, fatela, senza problemi. Le critiche sono solo costruttive, non fanno mai male.
Adesso vi lascio.
Un bacio
-bibersell

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Capitolo 2
*** Freddo dentro ***


                                                                                              Freddo dentro

I banchi di scuola mi erano sempre stati stretti.
Non avevo mai amato particolarmente la scuola nonostante non mi potessi lamentare dei miei voti. Ero sempre stata una studentessa modello, una tra le più promettenti della classe.
Avevo frequentato le scuole migliori, fin dall’asilo.
I miei genitori erano molto rigidi su questo argomento.
Parlavano chiaro. Io avrei dovuto seguire le loro orme e senza cultura non si arrivava da nessuna parte.
La scuola e i voti erano gli unici argomenti di cui parlavamo.
Ritenevano le altre cose superflue.
I sentimenti erano superflui.
L’amore, l’amicizia, il dolore, la gioia con il tempo passavano; mentre la carriera lavorativa rimaneva.
Ed eccomi qui, in un liceo classico, con l’ennesimo voto alto all’ennesimo compito di greco.
Loro” sarebbero stati contenti di saperlo, di incorniciare ed appendere al muro l’ennesima pagelle con il massimo dei voti. Sarebbe stata una soddisfazione per loro vantarsene con gli amici.

-Professoressa posso andare in bagno?-. Chiesi alzando il braccio dal quale si intravedevano i tanti braccialetti.
Quelli erano i miei tatuaggi. Ognuno significava qualcosa.
Erano un pezzo fondamentale, senza di quelli non mi sarei sentite me stessa.
-Certo Grigori. Anche questo compito è stato uno spettacolo-. Rispose l’anziana signora che insegnava greco nella mia classe.
Quella mattina aveva più trucco del solito.
Probabilmente voleva dimostrare meno anni, ma non capiva che assomigliava ad un clown truccata a quel modo.
Mi alzai dalla sedia ed uscii dalla classe.
Tirai un sospiro di sollievo.
Finalmente era fuori da quella galera.
E bene si, la mia classe per me era come un carcere.
Contavo i minuti che mancavano alla fine dell’ora, assaporando il momento in cui sarei arrivare alla mia amata stazione.
Mi incamminai verso i bagni della scuola.
Era l’ultima ora e i corridoi erano deserti. Mancavano solo una ventina di minuti alla fine di quella giornata.
Aprii la porta rossa sulla quale c’era una targhetta blu con una donna disegnata.
La varcai e la richiusi alle mie spalle appoggiandomi su di essa.
Abbassai la testa con la sguardo rivolta alle mie converse nere e distesi le gambe.
Mi portai le mani alla nuca scompigliandomi i capelli e rilasciando un respiro di frustrazione.
Sbattei i piedi per terra come una bambina capricciosa.
-Fanculo tutto-
Rialzai la testa lasciando che i capelli ricadessero sulle spalle.
Aggiustai la salopette in vita e risistemai la magliettina in cotone bianco che era uscita dal pantalone.
Mi raddrizzai con la schiena e cercai di avere un portamento più naturale possibile.
Ero pronta per affrontare gli ultimi pochi minuti di scuola.
Riaprii la porta e rientrai in classe.
Zoe, la mia compagna di banco, era alla lavagna.
La Vertido, la professoressa di greco, la odiava.Non c’era un giorno in cui non la interrogava.
A sua volta la povera Zoe non sapeva mai niente, si arrampicava sugli specchi scatenando l’ira dell’anziana.
Questa volta fu salvata dalla campanella.
Chiusi il libro e riposai le penne nell’astuccio.
-Brutta stronza te l’ho fatta anche questa volta-. Esordì la mia compagna di banco.
- Ma la prossima volta non sarai così fortunata-. Le risposi posando il diario in cartella.
- Sempre a fare l’uccello del male augurio tu, eh?-. Si mise il giubbotto e si sistemò i capelli.
- Se fossi in te farei meno la spiritosa e studierei un po’ in più. Quest’anno lo rischi-. Presi lo zaino e mi tirai le maniche del cardigan cercando di riscaldare le mani.
- Ma senti un po’ tu Miss Perfettina Ho Bei Voti In Tutte Le Materie vorrebbe dare dei consigli a me. Pensa a te mia cara-. Si girò e se ne andò.
La imitai, uscii anche io da quella scuola che avrei dovuto vedere solo per un altro anno e mezzo.
Forse mi ero comportata da stronza con Zoe, ma le mie compagne di classe cacciavano il lato peggiore di me.
Quando le vedevo era come se la positività abbandonasse il mio corpo.
Gli unici pensieri che facevo erano negativi.
Presi la sciarpa dalla borsa.
Con quella avrei dovuto sentire meno freddo.
La avvolsi al collo.
Niente.
Nulla.

Il freddo non era diminuito.
Ma quando lo si sente dentro ci vuole più di una misera sciarpa di lana per eliminarlo.
Tirai fuori il cellulare dalla tasca della salopette di jeans.
Erano le due meno un quarto.
Ormai Maria sapeva che a pranzo non mangiavo a casa. Erano anni, forse da quando avevo iniziato il liceo che non tornavo a casa per l’ora di pranzo.
Riposai il cellulare nella tasca.
La stazione non distava molto dalla scuola. A piedi erano solo una decina di minuti.
Mi piaceva camminare. Respirare l’aria fresca. Assaporare ogni cosa di quella città.
Ogni posto aveva il suo odore. Si distingue per un ricordo o per una persona.
Adoravo pensare alla storia di tutto ciò che mi circondava.
Misi le mani nelle tasche del cardigan.
Sul muretto di fronte a me, probabilmente due ragazzi avevano litigato e poi avevano sigillato la loro pace con un bacio.
O una bambina aspettava che la madre la venisse a prendere.
Quello potrebbe essere stato il luogo in cui un gruppo di amici si davano appuntamento o si erano seduti per riposarsi.
Quel posto era testimone di così tanti avvenimenti.
Spostai il peso dello zaino sull’altra spalla.
Arrivai alla stazione e mi sedetti sulla scalinata in marmo.
Il freddo gradino mi procurò brividi lungo la schiena.
Mi strinsi la sciarpa al collo.
Il treno era appena arrivato.
Alcune persone scesero mentre altre salirono. Poi ripartì come faceva sempre.
Lo vidi allontanarsi sempre di più.
L’alta velocità faceva alzare leggermente i capelli ai passanti.
Il treno si rimpicciolì fino a diventare un punto.
Mi strinsi le gambe al petto.
Ero sempre rimasta affascinata dalla contemporaneità.
Un termine che mi faceva riflettere molto.
Tante persone vivevamo contemporaneamente in parti diverse del mondo e con orari diversi.
Mentre io sono qui a pensare seduta su una scalinata, contemporaneamente qualcuno sta nascendo e altri stanno lasciando questo mondo.
Alcuni stanno dormendo, altri sono a scuola.
C’era chi piangeva e chi viveva il momento più bello della sua vita.
Presi una sigaretta e la porti alle labbra.
Il cielo si stava annuvolando.
Amavo guardare le nuvole e ritrovarci le forme più bizzarre.
Accesi la sigaretta.
Inspirai ed espirai.
Vidi una luce, come un flash e poi sentii un rumore.
Il primo tuono della giornata.
Dopo pochi minti iniziò a piovere.
Mi alzai e presi lo zaino.
Casa mia distava troppo dalla stazione, non ce l’avrei mai fatto ad arrivare prima che la pioggia aumentasse.
Mi guardai attorno alla ricerca di una soluzione.
Di fronte a me era steso per terra un lenzuola bianco con alcune macchinine per bambini appoggiate sopra.
Un uomo di mezza età le stava riposando in una busta trasparente.
-Le serve un ombrello signorina? Costa solo tre euro..-
Mi girai e vidi un ragazzo giovane dai capelli biondo scuro scompigliati dal vento.
Portava con se un ombrello nero aperto e al manico erano appesi gli altri ombrelli.
- Che colore volete?-. Continuò il ragazzo.
- Lo comprerei volentieri, ma non ho soldi con me. Mi dispiace-. Risposi amareggiata e una nuvoletta di fumo uscì dalle labbra.
- Bella signorina, se mi offre una sigaretta, glielo regalo -. Il ragazzo afferrò un ombrello giallo.
- Oh.. non so che dire-. Sentii le guance surriscaldarsi. Stavo arrossendo.
- Non dovete dire niente signorì -. Mi porse l’ombrello, lo aprì e mi coprì.
Presi il pacchetto di sigarette dalla borsa e glielo porsi.
-Una sola, non sono abituato all’abbondanza-. Ne cacciò una e se la portò alle labbra. – Avete mica da accendere?-. Chiese con la sigarette in bocca che gli fece uscire una voce strana. Da bambino.
- Certo-. Presi l’accendino.
Mi fece segno di accendere la sigaretta, gliela dovevo accendere io.
Mi avvicinai e lasciai che la fiamma compiesse il suo lavoro.
Il fumo mi colpì in pieno viso.
- Grazie-. Inspirò il fumo e chiuse gli occhi. – Solo il Signore sa da quanto tempo non vedevo una di queste -.
- Tieni, prendine un’altra. Per stasera-. Ne sfilai un’altra dal pacchetto e gliela poggiai sull’orecchio.
- Non stasera, domani. Domani signorì-.
Aveva un tremendo accento del Sud.
Annuii con il mento.
- Grazie ancora per l’ombrello-. Dissi sistemandomi lo zaino in spalla.
- Nulla-. Rispose accompagnando la voce che un cenno del capo.
Mi allontanai e mi incamminai lungo la strada di casa.
Questa volta sentivo meno freddo.
Meno freddo dentro.
Pensavo e ripensavo al volto di quel ragazzo di cui non sapevo nemmeno il nome e che probabilmente non avrei mai più rivisto.
Vedevo il suo volto a flash, come immagini di una fotografia.
Aveva delle labbra rosse e carnose, sembrava quasi che avesse il lucidalabbra.
Gli occhi erano dello stesso colore del giaccone che indossava; di un colore che andava tra il nocciola e il verde.
I capelli scompigliati dal vento gli davano un aspetto un po’ trasandato che era accentuato dal filo di barbetta.
Aveva quell’accento del Sud che era terribile ma contemporaneamente adorabile.
Eccola la parola che mi perseguitava: contemporaneamente.
Arrivai a casa e svolsi le normali faccende: mangiai, mi lavai e feci i compiti per il giorno dopo.
Andai a dormire, ma questa sera non aspettai in ritorno dei miei genitori, mi addormentai ripensando alla stazione.


 
Salve!
Spero che il capitolo vi sia piaciuto.
Mi farebbe molto piacere ricevere delle recensione per sapere cosa ne pensate.
Come ho gia detto precedentemente ci tengo molto e anche qualche consiglio mi farebbe piacere c:
Non so cosa altro dirvi.
Un bacio e alla prossima, si spera
bibersell

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Capitolo 3
*** Un ospite o un nuovo amico? ***


Quando arrivai a casa gli ospiti si erano già accomodati a tavola.
La cena si era spostata diventando pranzo.
Per quello che avevo potuto capire, sembrare proprio che il fornitore di New York gli avesse dato buca, cosi erano tornati prima a casa insieme ai loro amici pronti a passate un intero sabato a parlare di lavoro.
I miei genitori erano seduti sul divano in pelle color avorio.
Due signori, che non avevo mai visto prima di allora, erano seduti di fronte ai miei.
Sulla poltrona, sulla quale eri solita sedermi, c'era un giovane ragazzo dalla carnagione chiara ed il viso ovale con la fronte sporgente coperta da ciuffetti scuri, in contrasto con due occhi dello stesso colore dello smeraldo.
-Oh tesoro, finalmente sei arrivata.
Disse mia madre passandosi una mano tra i capelli.
- Stavamo aspettando solo te per mangiare-.
Continuò mio padre alzandosi dal divano.
-Che ne dite di accomodarci in sala pranzo?-.
-E' un' ottima idea Richard. Clare?-. Disse l' 'amico' di mio padre rivolgendosi alla moglie.
In tutta risposta lei si alzò sistemandosi la gonna per poi affiancare il marito.
Mia madre fece strada entrando per prima in sala.
La usavamo solo quando c'erano ospiti o durante le festività, ma anche allora la casa traboccava di invitati.
La lunga tavola era coperta da una tovaglia bianca decorata con stelle natalizie.
Al centro, un enorme candelabro illuminava la stanza.
Maria aveva pensato a tutto nei mini particolari; in ogni piatto c'era il suo rispettivo tovagliolo piegato, creando le forme più varie.
L'odore di pollo unito a quello del detersivo al gelsomino riempiva l'intera sala procurandoti un leggero languore alla bocca dello stomaco.
Mio padre e l'altro signore di cui non sapevo ancora il nome si sedettero agli estremi del tavolo, l'uno di fronte all'altro.
Le rispettive mogli sulla destra del proprio marito. Io ed il giovane ragazzo ci sedemmo dei restanti posti.
Il pranzo iniziò e cominciai subito a mangiare non badando ai discorsi politici ed economici che aleggiavano nella stanza. Quando arrivò il dolce pensai che il pranzo stava per finire, nel giro di mezz'ora sarei stata libera, magari mi sarei scusata incolpando una forte emicrania con la quale mi ero svegliata.
Ci accomodammo il salotto e Maria servì una fetta di panettone ciascuno.
Con la forchetta scostai i canditi e ne mangiai un pezzo.
-Nemmeno io vado pazzo per i canditi-.
Alzai lo sguardo e vidi che il giovane ragazzo nostro ospite mi stava guardando.
Gli sorrisi.
-Si potrebbe dire che non sono la cosa che preferisco in assoluto-.
Il giovane ricambiò il sorriso.
Sembrava un tipo simpatico.
Si pulì le mani con il tovagliolo e si schiarì la gola.
-Comunque piacere, mi chiamo Travis-
-Annabelle-
-Come la regina?-. Chiese sporgendosi col petto sul tavolo.
-Mh.. Non saprei. C'era una regina che si chiamava così?-.Chiedo corrucciando la fronte.
-Non lo so, ma sembra un nome reale Annabelle -. Spiegò gesticolando.
-Oh..-. Dissi in un sospiro.
Mai nessuno mi aveva paragonata ad una regina e onestamente non ci tenevo nemmeno ad esserlo.
Non mi piaceva la gente che frequentavano i miei, non mi piaceva il modo in cui si sentissero superiori rispetto agli altri.
I miei genitori avrebbero potuto avere tutti i soldi che volevano, ma non mi sarei mai comportata da principessina.
Il mio pensiero corse a Maria.
Una donna così amorevole, che meritava tutto l'amore del mondo, che era sveglia ed intelligente come nessun altro e che aveva un' anima buona come il pane.
Nessuno poteva solamente pensare di essere migliore della mia cara Maria, solo perché aveva un conto in banca più prospero.
Il tempo era scaduto, era ora di mettere in atto il mio piano.
-Scusami Travis, l'emicrania mi tormenta da questa mattina e preferirei andare al piano di sopra a riposare.
-Okay, messaggio ricevuto. Sembra che la battuta non abbia avuto l'effetto desiderato.
Battuta? Paragonare il mio nome a quelli di una regina secondo lui era divertente?
-No, davvero. E' per questo mal di testa..- . Ma mi interruppe alzandosi dalla sedia e venendo verso di me.
-Il vostro giardino è splendido e oggi è proprio una bella giornata. Magari un pò d'aria frasca potrebbe aiutare. Che ne dici?-.
Di certo non era quello che volevo, ma avevo come l'impressione che questo Travis non fosse un asso facile.
Assecondarlo sarebbe stata la scelta migliore.
E poi una boccata d'ari fresca non ha mai fatto male a nessuno,no?
-Dico che sarebbe un'ottima idea .
Mi accostai all'orecchio di mia madre e le disse che sarei uscita a fare quattro passi in giardino .
Prima di uscire, mi infilai il cappottino appeso all'attaccapanni in salotto e il cappellino che mi aveva regalato l'anno prima Maria per Natale.
Uscimmo all'esterno e lasciai che la porta si chiudesse alle nostre spalle.
-Brr-. Si lamentò Travis. -Ogni anno mi stupisco di quanto freddo possa fare in questa città.-
-Già-. Ero d’accordo con lui, ma non sapevo cos’altro aggiungere.
Infilai le mani nelle tasche del cappotto ed abbassai con vigore la testa in modo che il cappellino mi ricadesse maggiormente sulla testa.
Ci inoltrammo nel giardino, verso una delle mie zone preferite.
C'era un albero a forma di salice piangente. Un tronco forte e vecchio. Antico come i ricordi che conservava quell'albero. C'era sempre stato, fin da prima che la casa ( o forse dovrei dire villa se non reggia) venisse costruita da mio nonno.
Era stato il suo regalo di nozze per il matrimonio dei miei genitori. L'aveva costruita proprio intorno a quell'albero.
Questa storia mi ricordava un po' l'Odissea; Ulisse che costruisce il letto nuziale per la sua amata Penelope intorno ad un albero.
Ero sempre rimasta affascinata da quella storia, d’altronde sono sempre stata un'amante dei miti greci.
Pensai a quante persone sono passate sotto quest'albero, magari due innamorati, sotto questi rami verdi che ricadevano sul terreno e quasi lo sfioravano, si erano scambiati il loro primo bacio.
Forse, un ragazzo si era accovacciato alla base dell'albero ed era rimasto ad osservare il panorama e, magari, dopo l'aveva disegnato.
Spesso mi capitava di pensare alla storia di questo albero.
-Sembra molto antico-. Disse Travis allungando il braccio verso il tronco dell'albero e toccando la sua corteccia.
- Lo è-. Risposi affondando maggiormente il viso nel bavero del cappotto.
-Dovrebbe avere più di duecento anni-. Continuai.
-E' bellissimo-. Travis alzò lo sguardo per ammirare i lunghi rami.
-Già. Sai, molto spesso vengo qui e mi siedo sulle radici. Per pensare e' un posto perfetto.
-Immagino. Deve essere bello avere una cosa così splendida nel proprio giardino-. Travis infilò le mani nelle tasche del giubbotto.
-Basta palare di quest'albero. Che mi dici di te. Studi,lavori, sei fidanzato?.
-Direttamente al sodo vai eh?. Disse scherzando e accompagnando le parole con una leggera risata. - Comunque ho terminato gli studi quest'anno e prima di andare all'università faccio un po’ di gavetta aiutando mio padre. E no, non sono fidanzato. La fila di ragazze alle mie spalle non è molto lunga.
-Dai, non ci credo. Un ragazzo così carino e gentile come te non può non avere una ragazza.
-Credici invece. E tu, studi ancora?-. Cacciò le mani dalle tasche e se le portò alla bocca cercando di riscaldarle .
- Ahimè studio ancora e mi mancano ancora due anni per finire le superiori.
-E poi hai intenzione di seguire le orme di tuo padre?-
- In realtà vorrei studiare fotografia,seguire un corso all'estero, ma non credo che lo farò. Sai sono figlia unica e qualcuno dovrà pur guidare l'azienda quando mio padre non ci sarà più.
-La rogna di essere figli unici-. Disse Travis cercando di smorzare l'aria seria che si era formata.
-Già. Hai casa libera quando i tuoi non ci sono, però dopo ti tocca essere a capo dell'azienda-. Stetti al gioco e risi.
- E così quando i tuoi non ci sono dai i party. Ah Annabella la furbetta.
Risi di cuore e gli diede un leggero schiaffo in petto.
Anche lui si unì al coro di risate.
Potevamo sembrare due pazzi agli occhi di chi guardava dall'esterno.
Due ragazzi che ridono sotto un albero con la temperatura che sfiora i zero gradi.
-Mi sa che è meglio rientrare, altrimenti diventeremo due polaretti, come quelli che si vedono in tv-. Dichiarò Travis avviandosi all’ingresso.
Sulla porta trovammo i suoi genitori che salutavano i miei .
-Annabelle saluta gli ospiti che se ne stanno andando-.Disse mia madre.
Strinsi la mano ad entrambi e gli rivolsi un cordiale saluto.
Travis si avvicinò baciandomi la guancia
-Ciao Annabelle come la regina. Ti aspetto in azienda. Sto là tutti i pomeriggi.
-A presto-.


 
Ehilà!
Scusatemi se non sto aggiornando velocemente, era da un pò che non pubblicavo un capitolo; ma tra gli impegni scolastici e non, non so quando scrivere.
Fortunatamente ci sono state queste vacanze natalizie.
Alleluia (?)
Spero che il capitolo vi sia piaciuto e mi farebbe piacere sapere cosa ne pensate nel nuovo personaggio e del capitolo.
Un bacio e al prossimo, sperando che riesca a scriverlo il prima possibile c:

-bibersell

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Capitolo 4
*** "La Casa Di Tutti" ***


                                                       "LA CASA DI TUTTI"


Annabelle's point of view

Allungai il braccio per spegnere la sveglia che stava suonando da cinque minuti buoni.
Era sabato e la voglio di alzarmi non c'era.
Un fascio di luce filtrava all'interno della stanza attraverso le tende illuminando i piedi del letto.
Quella mattina non sarei andata a scuola, come tutti gli altri sabati da quattro anni a questa parte.
Mi strofinai gli occhi.
Spostai le coperte dal mio corpo e il freddo mi avvolse.
Mi alzai, indossai le pantofole e scesi al piano di sotto.
L'immagine di Maria che spazzava il pavimento era cosi familiare che mi rassicurò.
-Buongiorno-. Esordii scoccandole un bacio sulla guancia.
- Giorno anche a te. Sempre di buon ora-. Rispose di rimando guardando l’orologio.
Erano le otto del mattino.
-Lo sai che non mi piace perdere tempo. Le prime ore del mattino sono quelle più preziose -. Risposi avvicinandomi al frigo.
- Ho preparato la torta, tra 5 minuti dovrebbe essere cotta-. Smise mi spazzare e si avvicinò al forno.
- Ecco perché sentivo questo odorino-. Socchiusi gli occhi e respirai l’aria.
Presi un bicchiere di vetro dalla credenza e ci versai del latte freddo.
-Che dolce è?-. Chiesi puntando gli occhi sul forno.
- Caprese-
- No, davvero?-. Esultai posando il bicchiere sul marmo della cucina.
Corsi incontro a Maria e le gettai le braccia al collo e la riempii di baci sulla guancia.
Ripetei la parola ‘grazie’ per ogni bacio.
Adoravo la caprese ed era davvero tanto tempo che non la mangiavo.
Non ricordo nemmeno l’ultima volta che le mia labbra assaggiarono una tale delizia, ma ne ricordavo bene il sapore.
- Cos’è tutta questa confusione?-
Quella era la voce di mio padre.
Mi voltai e vidi che i miei genitori stavano in piedi sulla soglia della cucina.
Mi allontanai da Maria e gli sorrisi.
-Ho preparato la torta che ad Annabelle piace tanto e stava esultando dalla felicità-. Spiegò Maria.
- Va bene-. Rispose mio padre.
- Tesoro come va? La scuola?-. Chiese mia madre venendomi incontro.
- Tutto bene mamma. Ieri ho avuto il risultato del compito di greco. La professoressa si è complimentata per l’ennesimo nove-.
- Brava figlia mia. Sempre meglio la nostra bambina-. Disse mia madre accarezzandomi i capelli.
- Brava Annabelle. Amore dobbiamo andare, altrimenti faremo tardi. Stamattina ci aspetta il fornitore di New York -. Si intromise mio padre controllando l’ora con l’orologio che aveva al polso.
- Quasi dimenticavo..- Mia madre si passò una mano sulla fronte – Maria stasera verranno dei nostri amici a cena-.
- Ho capito signora. Conto due posti in più?- Si informò la domestica.
- In realtà ci sarà anche il loro figlio. Quindi tre Maria –
- Va bene signora-
- Ciao Bella, ci vediamo stasera. Torneremo verso le sette-. Disse mia madre abbracciandomi.
I miei genitori erano soliti chiamarmi con il diminutivo di Bella.
- A stasera-Ricambiai l’abbraccio e salutai mio padre con un gesto della mano.
I miei uscirono dalla cucina lasciandomi sola con Maria che si avvicinò al forno e ne tirò fuori un fumante ruoto.
Il profumo della caprese impregnò l’aria.
Mangiai una fetta di torta ancora calda per poi salire al piano di sopra e vestirmi.
Quando riscesi vidi la tavola imbandita di mangiare: c’è ne era davvero tanto.
-Prepari la cena?-. Chiesi sedendomi su una delle sedie che circondavano il tavolo.
- Si, sto preparando gli antipasti-. Rispose Maria togliendo la crosta dal pane.
Su un lato del tavolo c’era del mangiare.
-E quello a cosa serva?- Chiesi indicandolo con la mano.
- Quelli sono gli avanzi. Quanto buon cibo sprecato-. Osservò Maria.
- Infatti..- Risposi soprapensiero.
Una così tale quantità di cibo non poteva andare sprecata.
Una bizzarra idea mi passo per la mente. Perché buttare quella roba quando si poteva usarla per fare del bene?
-Maria puoi incartare quelle cose? Ho un’idea su come poterle usarle-. Disse alzandomi dalla sedia.
- Che vuoi fare?-. Rispose distogliendo lo sguardo dal pane.
- Tu fammelo trovare incartato per quando scendo-.
Andai in camera, presi il piumino, il cappello e riscesi.
- Allora? Fatto?-. Chiesi.
- Fatto-. Maria si girò e mi porse una busta.
- Grazie, ci vediamo oggi pomeriggio-.
Uscii di corsa da casa e mi incamminai verso quella struttura che vedevo tutti i giorni quando andavo a scuola.
In quel luogo si faceva del bene e si cercava di migliorare la società.
Era lì che venivano ospitati i senzatetto e veniva dato loro un posto in cui poter dormire.
Era lì che stavo portando tutto quel mangiare.
Forse non avrei fatto la differenza nel mondo con quel gesto, ma avrei reso il posto di quelle persone sfortunate migliore.

Mezz’ora dopo arrivai.
Di fronte a me c’era un alto palazzo in mattoncini scuri.
La struttura era imponente.
Sulla facciata principale c’era una grande targhetta in marmo con incise delle lettere che formavano queste parole: “La casa di tutti”.
Mi feci coraggio ed entrai.
Il portone in ferro era aperto.
Mi ritrovai in un piccolo giardino quadrangolare.
Mi guardai attorno e vidi che un lato del giardino era prolungato prendendo la forma di un vicoletto.
Avvicinandomi vidi che alla fine c’era una porta.
Cominciai a camminare fermandomi solo nel momento in cui ero dinanzi ad essa.
Poggiai la mono sulla maniglia e tirai un lungo respiro.
Aprii la porta e la confusione mi travolse.
C’erano tantissime persone, più di quante ne immaginassi.
La stanza non era molto grande.
Lungo un lato c’erano dei banconi dietro ai quali delle signori con tanto di cuffietta sulla testa distribuivano il mangiare.
Una lunga fila formata da uomini, donne, bambini ed anziani aspettavano il loro turno.
Al centro della stanza era posti i tipici tavolini da pic-nic in legno.
Scrutai le poche persone che erano in piedi e l’occhio cadde su un giovane ragazzo con un giaccone verde scuro.
Quel ragazzo era lui.
Cosa ci faceva lì?


Justin's point of view

Era lì, sulla soglia della porta che perlustrava la stanza con lo sguardo.
A differenza mia indossava dei vestiti puliti e diversi da quelli del giorno prima.
Quella felpa blu e quel paio di jeans le davano un’aria da ragazzina.
Ormai erano mesi che la osservavo tutti i giorni alla stazione.
Passavo ore a guardarla, ma le non si era mai resa conta del mio sguardo.
Questa volta però mi aveva visto, mi stava guardando.
Le sorrisi e la salutai con la mano.
Lei rispose con un sorriso e sulle guance comparvero delle chiazze rosse.
Iniziai a camminare nelle sua direzione fino ad arrivarle di fronte.
- Hey, cosa ci fai qui? -. Le chiesi sorridendole di nuovo.
Mi mostrò la busta che aveva in mano che prima non avevo notato.
- Sono venuta a portare del mangiare -. Rispose sorridendomi a sua volta.– Sai a chi posso rivolgermi? -
- Anche a me se vuoi. Lo porterò in cucina-. Allunai le braccia verso la busta che lei cortesemente mi porse.
- Grazie.. – Disse mentre si formavano delle rughe d’espressione sulla fronte, come se avesse dimenticato qualcosa.
- Giusto, non mi sono presentato. Io sono Justin, ma puoi chiamarmi Manny - Le porsi la mano.
- Piacere, Annabelle; ma puoi chiamarmi Bella se vuoi-.
Mi strinse la mano.
Era così fredda che sobbalzai al contatta con la mia mano calda.
Notai che indossava un leggero piumini e delle scarpette di tela.
Abbigliamento del tutto sbagliato per il rigido inverno di Chicago.
- Starai congelando - Osservai.
- Non preoccuparti -. Rispose sistemandosi il cappellino di lana sulla testa.
- Insisto. Guarda, lì infondo c’è un caminetto. Io porto questo in cucina e poi ti raggiungo -.
Le indicai l’angolo della stanza con l’indice destro.
- Va bene. Grazie -
- Non ringraziarmi -
La vidi allontanarsi e mi incamminai verso la cucina.
Quando vi entrai esordii:
- Dee una ragazza ha fatto la spesa -
- Che cosa? La spesa?- Chiese Denise, l’anziana cuoca che lavorava già in quel posto quando io ero arrivato più di quattro anni fa.
- Una ragazza ha postato del mangiare -. Spiegai posando la busta sul tavolo di plastica bianco.
- Sia ringraziano il Cielo. Con i tempi che corrono, le offerte sono quello di cui abbiamo bisogno -. Dee alzò gli occhi e congiunse le mani.
Notai che sul tavolo c’era una tazza fumante.
- Dee posso prenderla?- Chiesi con la tazza già in mano.
Sospirò.
– Prendila, vorrà dire che la rifarò per me -
- Grazie Dee, lo sai che di adoro? -
- Justin, non fare lo sbruffone -. Rispose dandomi dei leggeri schiaffetti sulla schiena.
- Va bene, va bene. Ci vediamo dopo amore mio -. Le dissi uscendo dalla cucina e mandandole un bacio volante.
Adoravo scherzare con Denise.
Mi avvicinai al caminetto e vidi che Annabelle si era seduta ed aveva avvicinato le mani al fuoco per riscaldarsi.
- Tieni ti ho portato una bevanda calda -. Dissi sedendomi sulla sedia affianco a lei.
- Grazie-. Bevve il primo sorso. – E’ davvero molto buona -
- Tutto merito di Dee-
-Dee?-
- Si, Dee. La cuoca -
- Ah, la cuoca. Ricevuto -. Bevve un altro sorso di tisana.
- Non mi hai ancora detto cosa ci fai qui -. Esordì qualche minuto dopo.
- Io ci “vivo”- Risposi facendo le virgolette con le dita.
- Come ci vivi?- Chiese.
- Beh si. Passo tutta la giornata alla stazione vendendo ombrelli e rimediando sigarette, poi mangio e dormo qui -. Risposi sorridendole.
- Oh..- abbassò lo sguardo.
-Non essere dispiaciuta per me. Io sto bene così, per ora -.
- Per ora? Cosa vuol dire? -
- Finché non trovo un lavoro stabile e riesco a mettere qualcosa da parte, questo è il meglio che posso avere -. Risposi indicando lo spazio circostante. – Dai, non parliamo di queste cose in questo momento. Che mi dici di te? Quanti anni hai? Diciannove, venti?-
- No, sono più piccolina. Ne ho diciassette-
- Alla faccia. Io potrei essere tuo padre-
- Perché quanti anni hai?-
- Ventidue-
Si sentì una canzoncina.
-Scusami, il telefono-. Annabelle frugò nella borsa estraendone un piccolo cellulare nero.
- Fai pure-
Rispose al telefono e cercò di parlare il più silenziosamente possibile.
Aveva diciassette anni.
Era più piccola di cinque anni.
Sembrava molto più grande con quell’adorabile visino.
La carnagione era molto chiara al contrario dei capelli che erano di un nero brillante.
Ma la cosa più bella erano gli occhi.
Erono marroni, di nessun colore particolare, ma profondi, espressivi e..malinconici; come se fossero spenti, ma si intravedeva una scintilla che aveva solo bisogno di essere accesa.
Qualche minuto dopo posò il telefono.
- Scusami, era mia madre -. Disse alzandosi dalla sedia e posando la tazza sul caminetto.
- Non preoccuparti. Devi andare? -. Le chiesi alzandomi a mia volta.
- Si, c’è stato un contrattempo e devo raggiungerla -. Spiegò infilandosi il piumino.
- Va bene. Dai ti accompagno alla porta -
- Grazie -
Mi sorrise.
L’ accompagnai dove era entrata.
Aprendo la porta il vento mi colpì in pieno viso e sentii i lamenti dalle persone che erano sedute vicino la porta.
-Ci si vede in giro -. Dissi salutandola con un cenno della testa.
-Ci si vede-
Si girò e se andò.



 
Salve!
Questo è il secondo capitolo e spero che vi sia piaciuto.
Ci sono dei nuovi personaggi: i genitori di Bella e Denise, la cuoca.
Io amo il personaggio di Denise, non so il perchè, e spero che lo amerete anche voi.
Si è anche chiarito il ruolo che svolgerà Justin in questa storia, ma non si sa ancora come sia arrivato a Chicago.
Spero che non vi siate annoiati e che continuerete a seguire questa storia e sopratutto a recensirla.
Un bacio
bibersell

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Capitolo 5
*** "Let Her Go". Passenger. ***


"LET HER GO" -PASSENGER-


Justin’s point of view


Stavo seduto sul ripiano in ferro dell’isolotto sul quale erano appoggiate le pentole che Dee aveva appena finito di lavare. Affianco a me, c’era ancora il tagliere di legno che aveva usato poco prima per sminuzzare la cipolla.
Il loro odore aleggiava ancora intorno a noi.
Presi una mala che faceva da punta alla montagna di frutta nel cesto di paglia al centro del tavolo in ferro.
La presi con la mano destra, poi la spostai nella sinistra, e di nuovo nella destra.
-Scendi dal tavolo che me lo sporchi. E posa quella mela, che a furia di giocarci me la ammacchi.- Mi rimproverò Dee passando il panno semi bagnato ed imbevuto di detersivo al limone sul tavolo lasciando un alone opaco.
- Ma che ti ammacco. Questa finisce dritta nel mio stomaco-. Per rafforzare le mie parole mi portai la mela alle labbra e la morsi.
- Fai come vuoi. Che c’è, oggi non c’è nessuna bella guagliuncella che ti ronza attorno? Ti ha appeso, né?-. Dee era anche una brava donna, ma quando si trattava di farsi i fatti degli altri, non sapeva tenere bocca chiusa.
- Ma quale guagliuncella, ma di che parli?-. Risposi dando un altro morso alla mela.
- Che c’è adesso fai pure finta di non capire, eh?-. Insistette, lavando la pezza che aveva usato per pulire il tavolo.
- Ma quale guagliuncella, chi mi ha appeso? Faccio finta di non capire cosa?-. Risposi saltando giù dal tavolo.
- E si, vabbè, siamo tutti bravi a fare gli stralunati. Sarò pure vecchia, ma ci vedo ancora. Quello che non vede mi sa che sei proprio tu; stai attendo, quella è più piccola di te-. Concluse posando il panno sul tavole e voltandosi verso di me.
- Ma quale vecchia, se ti svegli all’alba tutte le mattine per cucinare. Vorrei arrivarci io alla tua età così-. Risposi prendendo un’altra mela dal mucchio.
- Se vabbè, sempre sbruffone tu, eh?-. Aprì il frigo per prendere una busta piene di melanzane.
- Uh, buone le melanzane, stasera parmigiana?-. Chiesi avvicinandomi a Dee e schioccandole un bacio sulla guancia.
Non attesi nemmeno la sua risposta e continuai.- Fammene andare và, altrimenti si fa tardi. Magari trovo ancora qualcuno che si compra un ombrello-.
Mi avvicinai alla porta e prima di uscire farfugliai tra me e me. -Ma poi, quella chi? Ma bah, chi le capisce le donne è bravo-. Ed uscii richiudendomi la porta alle spalle e lasciando Dee con un tremendo dubbio.
Chi era il pazzo che avrebbe comprato un ombrello in una giornata di pieno sole?



Annabelle’s point of view

Ed anche quella mattina, come tutte le altre del resto, ero a scuola.
La Vertido, la mia professoressa di greco, anche quella mattina, aveva iniziato la sua lezione con il solito rituale: l’interrogazione di Zoe.
Per la mia compagna, che si abbracciava la croce ogni volta, quella era una tortura che l’accompagnava fin dall’anno prima e probabilmente se la sarebbe portata fino agli esami di maturità.
Una volta avevo provato a dirle di cambiare classe, ma lai niente, aveva detto che non gliela dava quella soddisfazione a quella brutta stregaccia della Vertido.
Non abbiamo più toccato l’argomento.
-Bene, o meglio male, dato che le tue risposte non sono esaurienti, parlami di Carneade-. La voce della professoressa interruppe il ricordo.
Mi concentrai sulla lezione e sulla risposta di Zoe che stava alzata al mio fianco.
- Allora professoressa, Carneade era un filosofo greco della corrente scettica, noto per la sua eloquenza, che ebbe modo di mostrare anche a Roma, nel 156 a.C., come membro di una famosa ambasciata…-
Mi ricordai che il nome di quel filosofo era presente anche nei Promessi Sposi, romanzo che avevo studiato al secondo anno.Il suo nome, pronunciato da Don Abbondio, apriva l’ottavo capitolo.
La professoressa terminò l’interrogazione di Zoe ed iniziò a spiegare.
Zoe si sedette e non rinunciò a qualche imprecazione, e così, le ore scolastiche terminarono.
All’uscita, alcune ragazze della mia classe, stavano parlando di una festa che si sarebbe data in un locale al centro, per il diciottesimo compleanno di Arrianne, una mia compagna di classe.
Ovviamente io non ci sarei andata, ma credo che questo non dispiacerà a nessuno, probabilmente non si accorgeranno nemmeno della mia assenza.

Superai il cancello della scuola e mi incamminai.
Portai lo zaino, dalla spalla sinistra, a quella destra e mi sistemai il giubbotto.
Quel giorno sarei tornata a casa e non sarei andata alla stazione.
Maria non c’era, ma stamattina aveva cucinato, dovevo solo riscaldare il pranzo.
Era arrivato il biglietto per visitare un museo e Maria aspettava quel momento da settimane, ma sperava che ci potesse andare in qualunque giorno una volta che era arrivato il biglietto.
Avrebbe scelto il suo giorno libero per fare questa gita.
Ma insieme al biglietto c’era una busta con dentro un foglio che comunicava l’ora ed il giorno. Il giorno in cui avrebbe lavorato.
Lei voleva rinunciare alla gita, avrebbe regalato il biglietto a sua sorella, ma io avevo insistito, dicendolo che aspettava da troppo tempo quel giorno e che se lo meritava.
Non sarei di certo monta se per un una volta mi scaldavo del cibo e rimanevo da sola in casa per poche ora, no?
Mangiai e salii il camera da letto.
Mi levai le scarpe, mi spogliai ed indossai una tuta grigia.
Accesi il computer e scrissi “facebook” nel motore di ricerca.
Aprii il link, scrissi il mio nickname ed inserii la password.
C’era una richiesta di amicizia da parte di Travis Helston.
Accettai ed aprii una nuova finestra.
YouTube.
Ascoltai “Let her go” dei Passenger.
Notai che c’era un messaggio da parte di Travis.

Ciao, mi aveva scritto lui.

Ehi, gli risposi.

Come stai Annabelle come la regina?

Mi chiamerai sempre così?

Credo, non ti piace ?


Attesi qualche minuto prima di rispondere.

Non in modo particolare, scusa..

Oh.. ma a me piace, quindi non si fa nulla Annabelle come la regina.

Come vuoi..


Non mi hai risposto.  Scrisse lui.

Davvero?

Si, non mi hai detto come stai.

Normale, come tutti i giorni. Tu, invece?

Benone. Oggi non vado a lavora con mio padre, rimango a casa da solo. Mamma è dal parrucchiere.

Capito.

Non sei in vena di parlare, vero?

No, non è questo. Senti, vado a riposarmi. Ci sentiamo, va bene?

A dopo, Bella.


Spensi in computer e mi sdraiai sul letto.
Osservai il soffitto per ore prima di decidermi ad alzarmi ed andare a studiare.

Finii i compiti quando oramai il cielo era di una tonalità di blu intenso.
Spensi la luce e rimasi al buio.




Justin's point of view

Di ombrelli non ne avevo venduto nemmeno uno, come previsto.
Ma meglio così, meglio una giornata di sole che quella pioggia che solo a vederla mi metteva di cattivo umore.
Speravo di rivederla, e invece alla stazione lei non c’era.
Dee aveva ragione, mi aveva appeso.
Mi aveva proprio appeso al tram.
Ah, l’ironia della sorte.
Quanta ragione aveva la mia cara Dee.
Ma mi rimaneva ancora la sua parmigiana di melanzane.
Era meglio affrettansi a tornare, prima che gli altri finissero il mio piatto preferito.




Ehilà!
Che ne pensate? Vi piace?
Io spero in un bel si, onestamente.
In questo capitolo c'è Justin, ma i due non si incontrano.
Abbiamo visto un pò com'è la loro giornata tipo e abbiamo sentito un pò di dialetto uscire dalle labbra di Justin e Dee, spero che non abbia infastidito nessuno e che lo abbiate capito.
Un bacio e ringrazio le ragazze che sono così gentili da sciare una recensione
-bibersell

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Capitolo 6
*** Nove euro o due tazze di cioccolata? ***


Nove euro o due cioccolate?



Annabelle’s point of view


Finalmente ero tornata nel posto in cui amavo stare, in cui potevo essere me stessa senza riserve.
Potrà sembrare una banalità, ma vedere persone normali scendere da un treno e compiere azioni abituali era una sensazione stupenda.
Era come leggere un libro.
Avevi i personaggi a tua disposizione, dovevi solo scrivere la trama.
La trama di un libro è un po’ come una scalata: dura da compiere, ma con un panorama stupendo.
Amavo fantasticare, pensare alle storie più strambe, colorate con tantissime sfumature, sfumature che rappresentavano i sentimenti.
Scattavo delle foto, le sviluppavo e le riponevo in scatole custodite nell’armadio.
Le foto racchiudevano delle sfumature per ognuno di noi.
Una delle mie foto preferite, rappresentava una goccia d’acqua.
L’acqua, uno degli elementi chimici più conosciuti.
H2O
Uno dei primi che si studiano durante la lezione di chimica.
Acqua, molto spesso è sinonimo di semplicità.
Ma in una goccia d’acqua, io, non ci trovo nulla di semplice.
L’acqua stessa è un elemento infinito, ci sarà sempre anche quando noi non vivremo più sulla terra, quando ce ne saremo andati; il qualche posto, da qualche fontana, scorrerà una goccia d’acqua.
Una goccia mi faceva pensare alla solitudine, scendeva dal rubinetto da sola…
Ma i miei pensieri stanno divagando, è tutto questo è nato da una semplice goccia d’acqua, ma nulla è semplice.
Qualsiasi cosa può farci riflettere, anche una banalità.
Le nostre riflessioni sono strettamente legate a come “vediamo”.
Una stesso oggetto può avere diversi significati per più persone.
Ha diverse sfumature.
Infilai la tracolla della macchina fotografica attraverso la testa in modo che non mi cadesse ed iniziai a scattare.
Il treno stava arrivando.
Le persone stavano aspettando da più di cinque minuti.
Iniziai a scattare.
Zoomai e misi a fuoco un fazzoletto di carta gettato a terra circondato a diverse paia di scarpe di tutti i colori, e con il treno, in movimento, che stava arrivando.
Uno scatto perfetto.
Mi voltai alla mia destra e misi a fuoco.
Gli scatti più belli erano quelli fatti a caso, ammesso che questo termine sia adatto.
Strizzai l’occhio e cercai di vedere meglio.
Ma c’era solo un’enorme macchia rossa.
Diminuii lo zoom e tutto mi fu più chiaro.
Justin era di fronte a me.
Scattai velocemente.
Lui chiuse gli occhi e sorrise.
Avevo dimenticato di togliere il flash.
Sorrisi.
-Scusa..- Dissi indicando la macchina fotografica.
- Spero che le foto che hai fatto prima siano migliori dell’ultimo scatto. Non credo di essere venuto molto bene-Rispose toccandosi i capelli.
- Non ci giurerei-. Mi sfilai la macchina dal collo e la poggiai sulle gambe.
Justin, che stava seduto affianco a me sui gradini in marmo, si scostò leggermente, in modo da far passare un gruppo di ragazzini che erano appena scesi dal treno e che ridevano allegramente.
-Allora, come va?-. Chiesi.
- Le solite cose. Si vende un ombrello a uno, se ne riceve uno a presso da chi hai prezzi più alti-.*1

Sorrise.
Notai che era molto socievole, nonostante l’avessi visto così poche volta, aveva sempre un sorriso sul volto.
La cosa più bella del suo sorriso era che ti metteva di buon umore.
Risi.
-Lo so, lo so. Ho un dialetto particolare. Ma, ehi, dalle mie parti si parla così-. Fece spallucce.
Aveva gli occhi buoni, la faccia pulita.
Era un bravo ragazzo.
-Dalle tue parti,eh? E quali sarebbero?-. Chiesi incuriosita.
-Io sono del Sud, nelle mie vede c’è sangue caldo-. Rispose con il suo solito sorrisetto ingenuo.
- Sangue caldo-. Ripetei e non potei nascondere un sorriso.
Questo Justin metteva proprio di buon umore.
- Ma prendi pure in giro tu, non ti preoccupare. Senti qua che mano calda, senti va, che è meglio-.
Allungò la sua mano verso di me.
Era una mano grande e piena di contrasti.
La pelle tirata era quella di un giovane ragazzo, ma era piena di graffi e screpolata per il freddo come quella di un anziano. Mi levai il guanto e gli accarezzai il palmo della mano.
Era morbida.
E calda.

-Visto? Che ti dicevo?-. Disse, ma questa volta non sorrise.
- Sei un termosifone umano-. Osservai.
- Non me lo aveva mai detto nessuno, ma credo che lo prenderò come un complimento-. Questa volta sorrise.
- Che ne dici, ce la fumiamo una sigaretta?-. Chiesi.
- Ma si, fumiamocela-. Rispose alzandosi.
Mi alzai a mia volta e ci incamminammo all’ingresso della stazione.


Justin’s point of view

Era in momenti come questo, che rimpiangevo di non avere un lavoro fisso.
Da stamattina avevo venduto solo due ombrelli e nelle mie tasche c’erano solo sei euro.
Avrei voluto offrirle una cioccolata calda, in un bar al chiuso.
Ci saremmo seduti e avremmo chiacchierano e l’avrei fatta ridere.
Con sei euro, in un bar economico, forse me le sarei potute permettere due tazze di cioccolata, ma vestito così dove andavo? Con questo cappotto verde che era tre taglie in più della mia, con queste scarpette da ginnastica bianche piene di buchi e con gli ombrelli che mi portavo sempre dietro e che cercavo di vendere in tutti i modi, non sarei potuto entrare in nessun locale.
E poi che figura ci faceva una giovane bella ragazza per bene con uno come me?
Come minimo di avrebbero preso per un pedofilo.
Mi appoggiai alla porta di vetro e presi la sigaretta che Annabelle mi stava offrendo.
-Grazie-. Disse a bassa voce.
Per tutta risposta, lei mi sorrise.
Rimanemmo in silenzio, ogni uno con i propri pensieri.
Finimmo di fumare.
Aprii la porta e il vento gelido entrò in stazione.
Il tipico freddo di Dicembre.
Natale si avvicinava.
Notai che Annabelle si strinse nelle sciarpa di lana.
Mi affrettai a gettare la cicca per terra e richiusi velocemente le porta.
-Beh Bella, mi sa che è arrivato il momento di rimettersi a lavoro. Gli ombrelli mi chiamano-. Dissi sorridendole.
- Spero che ci rivedremo, magari domani-. Mi rispose.
Aveva degli occhi enormi che si illuminavano ogni volta che sorrideva. -Magari stesso qui, alla stazione-. Continuò lei. -Certo. Mi sa che è meglio se vado, altrimenti la concorrenza mi ruba i clienti-.
-Va bene, buona vendita-. Mi augurò gentilmente lei.
Speriamo che saperi riuscito almeno a vendere un altro ombrello.
Sarei tornato con nove euro in tasca e tre ombrelli in meno.
Uscii dalla stazione e cominciai a camminare.


Annabelle’s point of view

Ero seduta al tavolo della cucina mentre i miei genitori parlavano di lavoro, di un contratto che avevano firmato in mattinata.
Erano passate diverse ore da quando avevo lasciato la stazione.
Ero ritornata a casa ed avevo finito i compiti per il giorno dopo.
-L’unico problema di questa fusione è che è aumentato il numero di dipendenti nel settore informatico. Dovremmo comprare altre attrezzature e il lavoro negli uffici di posta aumenterà, ci serve dell’altro personale-. Disse mio padre a mia madre tagliano un pezzo di bistecca.
-Non ti preoccupare caro-. Rispose lei posando la sua mano su quella di mio padre.
-Certo, ma dobbiamo metterci a lavoro, non possiamo permetterci nessuna dimenticanza-. Ribadì lui portandosi alla bocca la forchetta.
-Domani risolveremo tutto, mettiamo un annuncio in cui richiediamo del nuovo personale-. Rispose tranquilla mia madre.- Tesoro, come va? Non mi hai ancora raccontato cosa hai fatto oggi? Hai studiato?-. Continuò.
-Certo mamma, oggi ho studiato tutto il pomeriggio-. Risposi semplicemente.
-Brava, lo sai quanto è importante lo studio. Agli esami di maturità manca solo un anno e..-. Si passò una mano tra i capelli. -Come passa velocemente il tempo, mi sembra ieri che giocavi con le bambole-. Continuò mio padre assorto nella sua memoria.
-Oh, è vero. Tuo padre ha proprio ragione Annabelle-.
E la cena proseguì così.
Parlando del passato e del futuro, di quando avrei preso il posto di mio padre.
Quando finimmo di mangiare ritornammo nelle stanze da notte.
Prima di sdraiarmi nel letto, mi avvicinai al balcone e scostai la tenda.
Quella sera c’era la luna piena.


Quella stessa notte, all’insaputa dell’uno e dell’altra, Justin e Annabelle videro la stessa luna.



*1Senso della frase: chi vende a prezzi più alti gli da un'ambrellata in testa perchè perchè non riesce a vendere.

 
Ehilà!
E anche questo capitolo è stato scritto.
Finalmente si sono incontrati di nuovo. Alleluia.
Che ne dite? Vi piace il modo in cui si sono visti?
Io sono abbastanza contenta del loro incintro, certamente avrei potuto fare di meglio.
Spero che l'inizio del capitolo l'abbiate capito, probabilmente non mi sono spiegata molto bene.
Ho pubblicato abbastanza velocemente in questi giorni, ma credo che non potrò dire lo stesso per gli altri, i giorni di vacanza sono finiti e la scuola rinizia.
Un bacio e un grazie profondo a tutte le ragazze di hanno recensito e sono state molto gentili.
-bibersell

 

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Capitolo 7
*** Saranno i nostri primi ricirdi insieme? ***


                              
                                             "Saranno i nostri primi ricordi insieme?"



Annabelle's point of view
.

Da quando avevo scattato quella fotografia a Justin erano passate circa tre settimane.
Andavo alla stazione tutti i giorni, dopo scuola.
Mi sedevo su una panchina di fronte all'ingresso della stazione, dove lui si metteva dall'ultima volta che ci siamo visti.
Stendeva il suo telo bianco e ci poggiava alcuni ombrelli e delle borse che si portava sempre dietro.
Io mi sedevo sulla panchina e studiavo mentre lui cercava di convincere i passanti a comprare un ombrello anche se c'era un sole quasi accecante.
E devo dire che era abbastanza bravo, le sapeva convincere le persone.
Sarà per il suo accento del Sud o per il suo sorriso amichevole che appena lo vedevi ti faceva sentire a casa o per le sue battute che facevano ridere un po’ tutti o perché con quello sguardo carico di amore, di gioia e voglia di vivere, faceva pena, c’era chi comparava qualcosa.
Erano state tagliate le ali a questo ragazzo prima ancora che potesse aprirle e cercavano di aiutarlo anche solo con tre euro, il prezzo di un ombrello.
Era bello alzare gli occhi dai libri e trovare Justin che ti sorrideva.
Ti faceva sentire meno sola e forse, da quando lo conoscevo, sentivo anche meno freddo.

Uno di quei pomeriggi trovai la panchina occupata da tre nonnini.
Avevano tutti e tre i capelli bianchi, le guance paffute e leggermente rosee.
Parlottavano tra loro.
-Oggi ho mangiato un panino con la mortadella-. Disse il signore che stava seduto in mezzo.
- Che cosa? Ti sei fidanzato con una modella? E come è successo?-.
- Le modelle? O le mortadelle? Tua figlia si è sposata?-. Chiese l'altro.

-Fanno sempre così. Vengono qui ogni mattina, si siedono su questa panchina e iniziano a parlare ma ognuno capisce quello che dice l’altro-. Mi spiegò Justin.
Annuii e riportai la mia attenzione sui tre anziani.
- Ma ti sei fatto quattro salti in padella?-. Chiese quello al centro.
- No, non ho fatto nessun giro in bicicletta-. Rispose quello sulla destra.
- Si è rotta la motorella, ma io te lo dicevo che non durava quella vespa-.
-C'e' una vespa o è passato Bruno Vespa? -.
- Una modella e' stata punta da una vespa? Oh madonna mia e a desso come fa quella poveretta-.

- C'e' una vaporetta? E dal 90 che non ne vedo una. Quante conquiste che facevo in quegli anni-.
-Hai fatto acquisti? Meno male, non ce la facevo più a vederti sempre con lo stesso maglione-.
- Dov'e' il mirmidone?-.
- Hai perso un bottone?-.

Non ce la facevo più a trattenere le risate.
Justin già le aveva lasciate andare da diversi minuti, ma a me non andava di deridere la vecchiaia, prima o poi anche noi non avremmo avuto più un udito impeccabile. Era solo questione di tempo.
Ciò nonostante un sorriso mi spuntò.
-Credo che nella testa di ognuno di loro stia avvenendo un preciso discorso. Alla fine sono contenti-. Disse Justin allontanandosi dalla panchina.
Per tutto il resto del pomeriggio parlammo di quei tre signori.
Mi disse che erano vedovi tutti e tre.
Una volta glia avevano raccontato la storia di quando erano giovani.
Gli piaceva ascoltare le storie degli altri, sentirli parlare della loro epoca e fare dei paragoni con il tempo in cui vivevamo noi.
Ma alla fine arrivava sempre alla stessa conclusione, eravamo nati nell’epoca sbagliata.
Ed io ero d’accordo con lui.
Mi sarebbe piaciuto vivere in altri tempi, in cui non esistevano i computer e le conversazioni non erano digitali ma epistolari.
Si scrivevano quelle lettere chilometriche di proprio pugno creando qualcosa.
Creando le proprie parole.
Avevamo un dono e non lo sapevamo sfruttare.
Eravamo nel dodicesimo secolo, con una tecnologia avanzatissima, ma non sapevamo sfruttare il dono più semplice: creare.
Con le lettere si potevano creare parole, creare discorsi, pensieri.
Avevamo la libertà di pensiero, di parola.
Di creare.
Sarebbe stato bello vivere in un’altra epoca e mandare al tuo amato una lettere con parole che avevi creato tu. Di un tempo passato erano belli anche i corteggiamenti. Quel “posso chiedervi la mano di vostra figlia” era così romantico, così rispettoso.
Al giorno d’oggi si prendo diritti e possessi sul corpo di una donna che nessuno dovrebbe avere.
I tempi “antichi” erano così belli.
Li sentivo quasi miei.
Ma la realtà in cui vivo è questa e mi devo adattare ad essa.

Un altro giorno, alla stazione, io e Justin, vedemmo comparire da dietro le porte del treno una bambina.
Era molto piccola.
Aveva i capelli biondi con dei lunghi ricci che le cadevano delicati sulle spalle.
Indossava un cappottino in velluto blu ed un cappellino dello stesso tessuto.
Camminava mano nella mano col padre.
Era felice.
Era raggiante, il suo sorriso esprimeva gioia e i suoi occhi meraviglia.
-Papà, papà-. Chiamava tirandogli la mano per richiamare la sua attenzione.
Il padre abbassò lo sguardo e le sorrise.
- Hai visto che sul treno gli alberi ci seguivano?-. Continuò la bambina.
Il padre le sorrise di nuovo, questa volta con trasporto.
-E anche le nuvole ci seguivano. Erano grandi e bianche-. Continuò a parlare di tutte le cose che aveva visto.

Era la prima volta che aveva preso il treno ed era rimasta meravigliata da tutto ciò che aveva visto.
Anche in questo momento, osservava quello che la circondava con occhi curiosi, vogliosi di sapere, di scoprire il mondo.
Solo due occhi stavano osservando la piccola bimba bionda. Gli occhi del padre. Occhi fieri di quello che vedevano.
Mi ero portata la mia macchina fotografica agli occhi e avevo scattato una foto nel momento in cui la bambina si guardava intorno meravigliata stretta nella mano del padre, mentre lui aveva occhi solo per lei.

In quelle tre settimane avevo fatto molte foto.
A tutto. Alla strada, alle persone che camminavano, agli zaini e agli ombrelli di Justin, ma mai a lui.
E adesso, non so come, mi trovo di nuovo alla “casa di tutti”, questa volta in cucina.
L’ultimo treno era passato e Justin doveva ritornare nel luogo in cui avrebbe passato la notte e dove la passava da anni.
Avevamo continuato a parlare mentre camminavamo.
Io lo seguivo e non badavo alla strada.
Quando eravamo arrivati al portone di ingresso, mi ero voltata verso Justin e gli avevo detto che ci saremmo rivisti il pomeriggio seguente, ma lui aveva alzato lo sguardo alcune gocce d’acqua erano scese dal cielo.
Gli avevo detto che con uno dei suoi ombrelli sarei riuscita a tornare a casa.
Ma le gocce erano aumentate, diventando vera pioggia.
Vidi i capelli di Justin bagnarsi, farsi di un colore più scuro per poi ricadergli sulla fronte.
Erano diventati lisci e non più arruffati.
Probabilmente i miei erano simili ai suoi.
Mi sentii nuda.
Non avevo più i miei capelli che mi proteggevano, che facevano da maschera.
Cercai di coprirmi il volto con le mani, facendo finta di strizzarmi gli occhi, ma lui me le prese, mi guardò negli occhi e mi disse:
- Entra altrimenti prenderai un malanno-. In quel momento capii quanto fredde fossero le mie mani.
Il minimo contatto mi aveva riscaldata, non mi aveva fatto più sentire quel freddo che ad un certo punto non capisci più se lo senti dentro, se è il tuo corpo ad avvertirlo o è il tuo cuore ad esserlo.


Justin’s point of view.

Eravamo nella cucina, avevo preso degli asciugamani per asciugarci anche ce non servì a molto.
I capelli erano completamente bagnati e non c’erano phon per asciugarli.
Qui, c’erano quelli a parete che si potevano usare fino alle sei di pomeriggio.
Pochi minuti dopo era arrivata Dee e vedendo Annabella con i vestiti zuppi d’acqua le aveva prestato uno dei suoi maglioni.
La bontà di quella donna mi stupiva sempre.
Quando era entrata aveva detto:
-Oh Signore, cosa vi è successo?-.
- Eh Dee abbiamo fatto un bagno, ci andava di fare così. Non credevo che l’acqua dell’oceano fosse così fredda a Dicembre-. Scherzai io.
- Sempre sarcastico tu, eh? Oh figlia mia, se starai un altro secondo con quei vestiti bagnati addosso ti verrà un accidente-. Si preoccupò Dee andando incontro a Bella.
- Vieni con me, ti presto qualcosa-. Disse prendendole la mano e portandola fuori dalle cucina.
–E caro mio- disse voltandosi verso di me –ti converrà fare lo stesso-.
- Sissignora-. Mi portai l’indice alla fronte come facevano i militari, o almeno così avevo visto fare in un film ad uno di loro una volta.
- Che Dio mi aiuti. Una di queste sere con tutto il suo buon umore verrò sovrastata da una valanga di felicità-. Si lamentò Dee in tono scherzoso.
Ero andato a cambiarmi anch’io.
Mi aro levato il cappotto e lo avevo appeso alla maniglia della finestra della stanza in cui dormivo, della mia stanza.
Avevo gettato alla rinfusa le scarpe sul pavimento e mi ero tolto i pantaloni indossando quelli di riserva. Una tuta grigio chiara di felpa.
La t-shirt non la cambiai, era ancora asciutta. Era di color bordeaux.
Presi una felpa marrone e la indossai.
Mi passai di nuovo l’asciugamano tra i capelli causando un effetto scombinato-bagnato.
Prima di uscire mi guardai allo specchio e sorrisi.


Annabella’s point of view.

La signora che era entrata in cucina mi aveva portata in una stanza molto piccolo con le parati dipinte di un colore che una volta probabilmente era il bianco.
Aprì un piccolo armadietto e ne tirò fuori un pantalone di una vecchia tuta nero ed un maglione di lana rosso. -Dovrebbero starti, il pantalone era di quando andavo ancora a ballare il sabato sera. Ah, tieni. Prendi anche questi calzettoni. Levati le scarpette di tela e mettiti questi. I piedi devono essere la prima cosa a stare al caldo-. Era gentile e premurosa. Mi ricordava Maria.
- Grazie mille signora-. La ringraziai.
- Ma quale signora e signora, chiamami Dee. Quel farfallone di Justin non ha nemmeno fatto le presentazioni. Io sono la cuoca di questo posto-. Mi spiegò.
- Allora, grazie Dee. Io comunque mi chiamo Annabella-.
- Nome lungo e sofisticato-.
- Un po’-. Risi. –Ma puoi chiamarmi Bella-. Starnutii.
- Bella, figlia mia, sarà meglio se ti sbrighi a cambiarti. Nell’ultimo cassetto ci sono altri asciugamani se te ne serve uno asciutto-. Disse gentilmente prima di uscire dalla stanza.
- Questo andrà più che bene-. Risposi indicando l’asciugamano che avevo in mano.
Dee mi sorrise ed uscì dalla stanzetta lasciandomi un po’ di privaci.
Mi spogliai e indossai i panni che stavano sul letto.
Misi i calzettoni grigi e rimasi a piedi nudi.
Mi passai l’asciugamano tra i capelli, e cercai di ravvivarli con le mani.
Feci tre giri alle maniche del maglione che era troppo grande per me e mi arrivava a metà coscia.
Il pantalone della tuta era largo nonostante l’avessi stretto in vita.
Presi i miei vestiti, le scarpe ed uscii senza guardarmi allo specchio.


Justin’s point of view.

La vidi un cucina, di fianco al frigo con i sui vestiti in mano ed altri indosso che le stavano larghi.
Era a piedi scalzi, con i capelli bagnati ed il nasino leggermente arrossato.
Sembrava una bambina.
Faceva tenerezza.

Entrai e notai Dee che stava lavando alcuni piatti.
-Finalmente sei arrivato, convincila tu la tua amica, che non mi serve una mano. Mi vuole per forza aiutare-. Disse Dee.
-Lascia stare Bella, ormai è un caso perso. Non si fa aiutare da nessuno-. Risposi sedendomi sul tavolo in ferro.
- Volevo aiutarla. Lei è stata così gentile con me e mi dispiace non fare nulla per lei-. Rispose realmente affranta.
- Nah. Dai, consolati mangiando una mela-. Risposi porgendogliene una.
-Giusto, dicevo io che mancava qualcosa. Ti fermi qui a mangiare Bella? Fuori sta ancora piovendo e non mi sembra il caso di uscire, ti ammalerai di sicuro-. Disse Dee.
- Mi piacerebbe molto, ma i miei staranno in pensiero, è meglio che tolga il disturbo-. Rispose Annabelle scostandosi dal frigo.
-Dee se non è un problema, i vestiti te li porto domani, va bene?-. Continuò.
- Per me non ci sono problemi, ma sono ancora le sette, tra dieci minuti inizierà la cena. Mangi un piatto caldo e poi torni a casa, non è meglio?-. Rispose Dee smettendo di lavare i piatti e voltandosi a guardare me e Annabelle.
- Magari smette anche di piovere-. Risposi facendo spallucce.
- Ma non creo disturbo? Non è un problema?-. Chiese con una certa nota di insicurezza nella voce.
- Non preoccuparti-. Concluse Dee e io sorrisi.


Annabella’s point of view.

Ero rimasta a cena e avevo mangiato la deliziosa zuppa al pomodoro di Dee, la migliore a dire di Justin.
Io, lui e Dee avevamo mangiato in cucina.
Lei mi aveva raccontato di quanto fosse esasperante e di come si comportasse da bambino in certe occasioni. Quando si impuntava su una cosa, nessuno lo smuoveva.
Aveva detto che era “capa tosta”.
Verso le otto il tempo era migliorato, ma non aveva smesso di piovere definitivamente.
Quando arrivai a casa, Maria mi chiese dove fossi stata fino a quell’ora, che aveva provato a chiamarmi ma il cellulare squillava a vuoto.
Era preoccupata.
La rassicurai dicendolo che ero stata alla stazione, come tutti i pomeriggi e che quando aveva iniziato a piovere mi ero riparata all’interno della stazione aspettando che spiovesse. Le avevo detto che avevo mangiato una pizzetta lì e per questo adesso non avevo fame.
Non mi levai il piumino finché non arrivai nella mia stanza, avevo messo i miei vestiti nello zaino in modo che non potesse notare il cambiamento d’abito.
Mi feci una doccia calda, ma nulla di riscaldo come il tocco della sua mano.
Misi il pigiama pulito che sapeva di detersivo alla lavanda.
Ripiegai gli abiti che mi aveva dato Dee e li sistemai in una busta che misi nello zaino. Il giorno dopo l’avrei data a Justin e gli avrei detto di ringraziare nuovamente Denise da parte mia.
Misi nella cesta per i panni sporchi i miei vestiti completamente bagnati e sudati dopo una giornata trascorsa fuori casa.
Mi stesi sul letto e mi addormentai pensando al movimento che facevano le sue mani mentre si asciugava i capelli.
Era così decisa e, allo stesso tempo, così delicata.
Ripensai a quando le prime goccioline di pioggia gli avevano bagnato il viso, a quando aveva alzato la sguardo al cielo e a quando aveva preso la mia mano per portarmi dentro.
Ripensai a quando gli avevo scattato quella fato tre settimane prima.
Non l’avevo mai vista, ma mi ripromisi di farlo al più presto.



Ehilà,
allora cosa ne pensate di questo capitolo? Vi piace?
Ho cercato di farlo un pò più lungo rispetto agli altri.
Ho raccontato cosa è successo, per sommi capi, in queste tre settimane tra Bella e Justin.
Hanno parlato e si stanno conoscendo meglio e quello che accadrà saranno cose normali. Però più tempo passerà e maggiormente la storia si interecciarà con eventi particolari.

Spero che continuerete a seguire la storia e che avrete un pò di pazienza.
Mi farebbe molto piacere ricevere qualche recensione e se avete qualche critica, fatela. E' un modo come un altro per crescere.
Un bacio e grazie mille a tutte le ragazze che recensiscono, seguono la storia o che la visualizzano solamente.
A presto, si spera,
-bibersell








Foto di Annabelle alla stazione:



 

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Capitolo 8
*** Tequila, la mia fidata amica ***


Underground

Tequila, la mia fidata amica



-Annabelle, il vestito l’ho riposto nell’armadio stamattina. Cerca di fare il più veloce possibile, lo sai che ai tuoi non piace che arrivi in ritardo-.
Queste erano le parole che Maria mi aveva detto circa dieci minuti fa.
Trovai facilmente il vestito, quello blu di cotone che mi piaceva tanto.
Era semplice, senza fantasie o merletti, a giro maniche e lungo fino al ginocchio.
I piedi erano avvolti in delle ballerine bianche, senza tacco e con un piccolo fiocco sulla punta in vernice.
I capelli scendevano lungo la schiena in morbide onde scure mentre gli occhi erano leggermente scuriti da un velo di matita grigia.
Era il 22 Dicembre, primo giorno delle vacanze natalizie, primo giorno senza scuola e primo giorno di festa in casa mia. Riuscivo quasi a sentire chiaramente le voci provenienti dal piano di sotto.
I miei genitori avevano deciso di invitare le famiglie più facoltose di Chicago per festeggiare la fusione dell’azienda di mio padre con un’altra di minor importanza. D’altra parte questo era il lavoro di mio padre; comprare azioni e gestirle nel migliore dei modi per farle fruttare a suo piacimento.
Non capivo molto di politica o di economia, per me erano come due grandi infiniti buchi neri da cui non sarei mai riuscita a trarre la parola "fine".
I miei genitori hanno sempre dato feste, specialmente nei periodi di festa ed ero totalmente consapevole che quella di oggi sarebbe stata solo la prima di tante altre.
In genere me ne stavo in un angolo a fissare l’orologio o a contare fino a sessanta.
Sorridevo quando era necessario e mi avvicinavo ai miei quando capivo che era il momento di alzare il sipario e fingere di essere felice che tutte quelle persone occupassero il mio salotto.
Ma quella sera sarebbe stata diversa.
Avrei dovuto affiancare mio padre per tutto il tempo, secondo lui era giunto il momento di entrare nell’alta società e di partecipare ai loro barbosi sermoni politici.

Inspirai più aria che potei, mi avvicinai alla porta della mia cameretta per poi richiudermela alle spalle.
Cacciai l’aria che fino a quel momento avevo trattenuto e mi affrettai a scendere. Prima sarei arrivata da mio padre e prima avrei potuto fingermi malata e ritornare nella mia stanza.
Il soggiorno era più bello del solito.
Maria e gli altri camerieri si erano dati da fare.
La stanza era semplicemente stupenda.
Un enorme albero di natale, decorato con palle di vetro bianche e d’arate, era posizionato alla fine della sala.
Un lungo tappeto rosso era stato srotolato lungo le bianche scale di marmo e tante ghirlande erano state appese alle pareti.
I grandi lampadari a goccia illuminavano la stanza dandole un’aria accogliente e amorevole. Il chiacchiericcio degli ospiti sovrastava di poco la delicata melodia del pianoforte suonato da un giovane ragazzo con i capelli tirati indietro con l’aiuto della gelatina.
Notai i miei genitori intenti a parlare con un anziano signore.
Quella sera mia madre era più bella del solito.
Indossava un semplice abito rosso che non la rendeva affatto volgare.
Le scendeva morbido sui fianchi evidenziando quel corpo curato e per niente imbruttito dagli anni.
I biondi capelli erano raccolti in un morbido chignon che lasciava in bella vista quel collo magro e signorile.
Lei e mio padre sono sempre stati una coppia stupende. Non erano affatto cattivi genitori, anzi.
Nel mio cuore sono custoditi tanti bei momenti legati all’infanzia.
Ma si sa, quando si è piccoli, basta poco per essere contenti.
Un giorno al parco giochi con i propri genitori basta a compensare un mese trascorso con i domestici e non tra le loro braccia.
Ma quando si è grandi questo non basta. Le bambole, le biciclette o i quaderni per disegnare non bastano più.
I grandi pretendono non si accontentano.
I miei pretendono che diventi come loro, anzi, come mio padre.
Vogliono che frequenti le famiglie per bene di Chicago e che prenda buoni voti a scuola. Pretendono sempre di più e io sento la gabbia che mi circonda rimpicciolirsi sempre di più. Avrei voluto essere un uccello e spiccare il volo.

-Sei pensierosa stasera, bambolina?-.
Sentii una mano poggiarsi sul mio fianco mente qualcuno soffiava quelle parole al mio orecchio. Mi scostai levando quella mano dal mio corpo e voltandomi per vedere in faccia quel villano.
- Uh.. direi più che siamo arrabbiate, che succede piccola Grigori?-Un sorriso sornione spuntò sulle labbra dell’imbecille che mi stava davanti.
Rilassai i muscoli della mascella e risposi con cono pacato.
-Sei un deficiente Travis-
-Ma cosa sono queste brutte parole, una che hai il nome di una regina non dovrebbe nemmeno sapere il significato di certi termini-. Ribattè sorridendomi e prendendo un bicchiere di non so chè, probabilmente una bevanda alcolica che doveva avere anche un pessimo sapere data la sua espressione di puro ribrezzo.
-Non dovresti bere questa roba-. Lo ripresi togliendogli il bicchiere dalle mani e osservando il fondo del bicchiere. C’era solo un velo di liquore dal coloro strano, forse era arancione o marrone, non saprei dire.
-Tequila. Dovresti provare sai, ti farebbe bene-. Mi fece l’occhiolino e si avvicinò al cameriere con un vassoio in mano, per poi ritornare con due bicchieri pieni di liquido alcolico.
Me ne porse uno.
-No grazie, io passo-. Risposi rifiutando il bicchiere con un gesto della mano.
-Dai non fare la fifona. Se non fosse per questa qui- disse indicando i bicchieri –non sarei mai resistito a queste feste.- Concluse sorridendomi e portandosi il bicchiere alle labbra.
Mi guardò attraverso il vetro doppio come se volesse sfidarmi e butto giù tutto il liquido con un'unica sorsata.
L’espressione corrucciata di prima tirornò nuovamente sul suo volto, ma meno accentuata. La sua gola si stava abituando al sapere della tequila, altri due bicchieri e quella roba sarebbe stata come dell’acqua per il suo fegato.
Provai una certa malsana curiosità.
Non avevo mai bevuto in vita mia.
Una sola volta provai a bere della birra, ma la sputai dopo nemmeno due secondi.
Persino il gusto del caffè trovavo disgustoso, figuriamoci quello dell’alcol.
-Allora che ne dici, la piccola principessa di casa vuole fare la ribelle e trasgredire per una volta nella sua vita?-. Chiese Travis tentandomi.
Probabilmente già era brillo e qualcosa mi faceva pensare che quei due bicchieri non erano i primi di quella serata.
-Grazie, ma rifiuto la sua gentile offerta, mio caro tentatore-. Risposi incrociando le braccia sotto il seno.
-Fa come vuoi-. Rispose tracannando anche il terzo bicchiere.
La musica si fermò e con essa anche il brusio che fino ad allora mi aveva circondata.
Vidi i miei genitori alla fine delle scale e gli occhi di tutti i nostri ospiti erano puntati su di loro.
Mi padre prese parola con mia madre al suo fianco.
-Io e mia moglie siamo immensamente grati della vostra presenza qui stasera. Ci tenevamo a festeggiare un memento così importante per la mia famiglia e per la mia azienda con i nostri amici più cari. Quello raggiunto è un traguardo fondamentale e spero che il futuro sia solo prospero per me, per la mia azienda, per la mia famiglia e soprattutto per Annabelle, mia figlia, che mi sostituirà non appena finirà i suoi studi e avrà susseguito una laurea a Yale. - Disse guardandomi. Mi sembrò di scorgere una certa fierezza nei suoi occhi.
-Vi auguro un buon proseguimento di serata. Tra poco verranno serviti gli antipasti.-
E con questo mio padre terminò il suo discorso.
Mi voltai, alla ricerca di Travis, ma l’uomo che stava al m io fianco non era di certo lui.
I capelli erano troppo bianchi e la pelle troppo raggrinzita per essere paragonata a quella del mio amico.
Andai in cucina alla ricerca mi un po’ di tranquillità.
Tutta quella gente e i loro modi altezzosi mi avevano stufato.
Attraversai il salone per arrivare alla cucina, ma quel lato della casa era off-limits.
Gli chef del servizio catering stavano cucinando e nessuno poteva accedervi.
Non mi persi d’animo.
Mi avvicinai alla porta di casa e la varcai per poi incamminarmi verso il giardino.
Il sole era calato lasciano la scena alla luna e alle stelle.
Quella sera faceva particolarmente freddo ed io ero uscita senza nemmeno prendere il giubbotto.
Le possibilità di svegliarmi domini mattina con la febbre erano molto alte, ma in quel momento non m’importava.
Avevo solo bisogno di cambiare aria, poi sarei rientrata.
Mi portai le mani alle braccia ed iniziai ad accarezzarle cercando di riscaldarmi.
Era stata una cattiva idea uscire in giardino con solo un vestitino di cotone di 22 di Dicembre.
Stavo per tornare indietro e rientrare in casa quando sentii una voce.
-Lo sai, questa qui, non tiene solo compagnia durante una serata noiosa, ma può anche riscaldarti. Credo sia una pozione magica-.
Mi voltai e vidi un Travis in preda alle risate e con la camicia leggermente sbottonata.
Chissà dove aveva lasciato la giacca e la cravatta.
- Ne vuoi un po’ anche tu? Vieni a divertirti con me-. Continuò prima che potessi far uscire un qualsiasi tipo di suono dalle mia labbra.
-Travis sei ubriaco fradicio, lascia quella bottiglia e datti una sistemata. Se ti vedessero così..- ma non mi vece terminare la frase che subito rispose.
-Se mi vedesse chi? I miei genitori? A loro non frega un cazzo di me. Lo sai cosa mi hanno detto o-oggi? Ma certo che non lo sai. Tu non puoi saperlo. A loro fa schifo avere un figlio come me. Dicono che non sono degno di portare il loro nome.- Sputò tutto d’un fiato gesticolando con le mani.
Mi avvicinai e gli presi la bottiglia dalle mani.
Barcollò leggermente.
Gli presi un braccio e me lo portai alle spalle.
- Forza, ti porto dentro. Ti dai una sistemata e..-
- Ma io voglio bere. La tequila mi aiuta a dimenticare.- Si lamentò.
In quel momento sembrava proprio un bambino al quale erano state rubate le caramelle. Iniziai a camminare con il suo peso sulle spalle.
- T-ti rendi conto Bella, io che ho sempre fatto tutto per loro, c-che ho rinunciato ai miei sogni per realizzare i loro, devo sentirmi dire che faccio.. che faccio sc-chi-fo-.
L’ultima parola non riusciva nemmeno a dirla.
Io non feci domande.
Lo lascia farneticare non prestando molta attenzione.
Ero troppo concentrata a non farci vedere.
Passammo per la scala esterna.
Da piccola la usavo spesso.
Era una scalinata di legno che portava nella mia camera.
Quando entrammo dalla finestra, Travis tentò subito di stendersi sul letto dicendo di essere stanco.
Dovetti usare tutta la forza che mi era rimasta per tirarlo giù dal mio materasso e spedirlo direttamente in bagno dove vomitò per una decina di minuti.
Gli presi degli asciugamani puliti e gli dissi di lavarsi e darsi una sistemata.
Io andai nella mia camera.
Mentre aspettavo che Travis mi raggiungesse mi misi comoda ai piedi del letto, mi levai le scarpette basse e mi legai i capelli con un elastico che portavo sempre al polso.
Presi a massaggiarmi la testa.
Una forte emicrania si era impossessata della mia mente e non voleva saperne nulla di andarsene.
Quando gli invitati se ne sarebbero andati sarei scesa in cucina e avrei preso un’aspirina. Nel frattempo non mi rimaneva che il vecchio metodo: massaggiarmi le tempie.

Dopo una mezz’oretta la porta della stanza si aprì ed un Travis più pulito e profumato entrò nella stanza.
Si buttò, senza chiedere il permesso, a peso morto sul letto sussurrando un semplice “mi sa male la testa”.
Io non dissi nulla.
Restammo per non so quanto tempo sul letto fino a quando Travis non si alzò.
-Si è fatto tordi. Tra poco gli invitati se ne andranno, è meglio che scenda prima che mi diano per disperso-.
Disse avvicinandosi alla porta.
Io annuii.
Posò una mano sulla maniglia.
Vidi le sue spalle tendersi per poi rilassarsi subito dopo.
Si voltò e vidi un sorriso malizioso nascere sulle sue labbra.
-Grazie Annabelle come la regina-.
Detto questo, si voltò e se ne andò lasciandomi sola con la mia stanchezza.




*NOTE*

Finalmente ho pubblicato un capitolo dopo non so quanto tempo.
Chiedo scusa a tutte le ragazze che seguono la storia, chiedo venia.
Lo so, sono pessima, ma non avevo -ho- un briciolo di fantasia. Niente. Nothing. Nada.
Oggi, non so come, ho deciso di ritornare su efp e vedere se avevo qualche messaggio e ho trovato tantissime recensioni non lette.
E allora mi sono detta: Rossella(sono io) ora ti metti e scrivi questo fattuttissimo capitolo, okay? anche se viene la merda delle merda, tu devi scrivere qualcosa.
Ed ecco come sono arrivata a questo punto. Il capitolo è pubblicato e spero che vi piaccia anche se sono un pò arrugginita, era tanto che non scrivevo.. e se si conta anche il fatto che non sono mai stata brava a farlo il risultata è pessimo. Ma, a me non importa.
E bene si.
Sai che vi dico, io mi sono divertita a scriverlo e spero che a qualcuno piaccia e se non è così fa nulla.
Passando alla storia.
Lo so, Justin non c'è e tutte voi aspettavate solo lui, ma vi assicurò che ci sarà nel prossimo capitolo, quindi se vorrete vederlo continuate a leggere la storia e magari lasciate anche qualche recensione, così saprò se il capitolo vi sia piaciuto.
Spero che le ragazze che prima seguivano la storia continueranno a seguirla.

Un bacio e spero di leggere tante tante recensioni.
-bibersell

P.S. se volete chiedermi qualcosa, farmi domande sulla storia o sapere quando aggiornerò, questo è il mio profilo di twitter:
https://twitter.com/bibersell

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Capitolo 9
*** Acido e rullini ***


Underground

Acido e rullini




Annabelle's point of view

Quella mattina mi svegliai con un lacerante dolere alla testa.
Avevo provato tutte le posizioni pur di trovare un po’ di tranquillità, ma nulla.
Il dolore ritornava più prepotente che mai.
Dopo mezz’ora mi arresi.
Scrollai le coperte di dosso e cercai il cellulare a tastoni sul comodino.
Appena lo trovai, lo afferrai per poi riporre il braccio sotto le coperte.
Vidi l’ora.
Erano le otto del mattino.
Di domenica.
Era inconcepibile svegliarsi così presto dopo aver trascorso una serata pessima come quella di ieri. Sprofondai la testa nel cuscino ed urali.
Un urlo inudibile a qualsiasi orecchio umano, a meno ché Edward Cullen non mi stesse osservando da vero stalker professionista dietro la finestra.
Si, sicuramente lui avrebbe udito quell’urlo con i suoi “super poterei Vampireschi”.
La testa pulsava sempre di più.
Il dolore era incessante.
Dovevo correre immediatamente in cucina e prendere assolutamente un’aspirina se non avrei voluto morire in quel letto.
Ed io ero troppo giovane per abbandonare questo mondo e poi dovevo ancora vedere la foto che avevo scattato a Justin tempo fa.
In quei pensieri trovai le forze sufficienti a farmi scendere dal letto, ma non appena lo feci un giramento di testa mi travolse in pieno.
Poggiai i palmi sul materasso avvolto da morbide e profumate lenzuola di Cenerentola.
Chi aveva mai detto che a 17 anni compiuti non si potesse dormire nelle lenzuola delle principesse Disney? Nessuno.
Feci forza sulle ginocchia, le flettei leggermente per poi raddrizzarmi con la schiena.
Indossai le mie splendide pantofole di lana e scesi in cucina.
Mi catapultai verso il mobile delle medicine per cercare come una forsennata una stramaledetta pastiglia. Non appena la vidi mi sentii più leggera. Sembrava quasi che il mal di testa fosse diminuito nel sol vedere la sua medicina.
Presi dell’acqua fresca dal frigo e in una sola sorsata mandai giù la pillola.
-Ah, ora si che va meglio.- Pensai a voce alta.
Sarei ritornata nella mia camera e avrei cercato di riposare più serenamente, ma prima avrei mangiato una merendina.
Ieri sera non avevo toccato cibo e questo, non era passato inosservato al mio stomaco. Aprii il mobile il alto a sinistra dove sapevo che Maria conservava il necessario per la colazione.
Presi una Kinder Brios, la scartai e gettai l’involucro di plastica nella pattumiera per poi addentare la merendina.
Mi avviai alle scale intenta a ritornare nella mia stanza, quando una voce mi bloccò.
-Signorina, dove credi di andare?-. Mi voltai e vidi una Maria con le braccia sui fianchi e un’espressione interrogativa stampata sul volto.
-A dormire Maria, emicrania permettendo ovviamente-. Le risposi come se fosse la cosa più ovvia del mondo. -Povera ragazza, questi mal di testa non ti permettono nemmeno di fare un buon riposo. Vuoi che ti prepari una tazza fumante di camomilla, ti aiuterà a rilassanti-. Propose gentilmente Maria.
Ah, cosa avrei fatto senza di lei, sempre pronta ad aiutarmi, ad ascoltarmi.
Per me rapresentava un vero e proprio sostegno.
Era la colonna portante di quella casa. Senza di lei sarebbe crollato tutto.
Eppure, mi vergognavo di certi pensieri.
Ero egoista, pensavo solo al mio bene e al fatto che senza di lei non sarei resistita nemmeno una settimana. Dovevo pensare a cosa era meglio per lei se le volevo bene.
Maria avrebbe potuto aspirare a molto di più e non accontentarsi di lavorare per una famiglia.
Una volta avevo provato a dirglielo mai lei aveva sorriso dicendo che era felice di lavorare per noi.
Che il Signor Grigori -alias mio padre- le dava uno stipendio più che abbondante.
Mi aveva abbracciata e mi aveva detto: “ e poi chi prenderebbe ad una vecchia come me?”
Eravamo scoppiate a ridere e non avevamo più ripreso quell’argomento.
-No, Maria lascia stare. Lo sai, la camomilla mi fa girare lo stomaco-. Le risposi portandomi una mano sulla pancia per dare maggior valore alle mie parole.
-Fai come vuoi, tesero mio-. Rispose con un affetto quasi materno.
Le sorrisi lievemente e un capogiro fece capolinea nuovamente su di me.
Mi poggiai alla parete e portai una mano alla testa.
Avevo il respiro accelerato e il cuore batteva più veloce de solito.
-Maria, io e mio marito usciamo per..-. Sentii la voce tranquilla e pacata di mia madre bloccarsi.
–Tesero, ti senti bene?- Chiese ed avvertii una lieve nota di preoccupazione.
Mi voltai e la vidi in tutto il suo splendore.
Quella mattina i capelli erano sciolti, solo il ciuffo era legato con semplici forcine in modo che non coprissero quel volto dai lineamenti greci, perché si, mai madre assomigliava davvero ad una dea.
-Non preoccuparti mamma, è solo un capogiro. Mi vado a stendere un po’ sul letto-. Dissi salendo un gradino della scala.
-Riguardati tesero. Io e tuo padre abbiamo un’importante riunione. Torneremo stasera. Più tardi ti chiamo per sapere come stai.- Disse avvicinandosi e scoccandomi un bacio sulla fronte.
-Bambina mia, ma tua hai la frante caldissima. Mettiti immediatamente a letto, ti raggiungo subito con il termometro-. Mi diede dei leggeri colpetti sulla schiena per incoraggiarmi a salire le scale e andare nella mia stanza.
-Su,su-. Mi incalzò quando non mi vide muovere.
La accontentai e sparii nella mia stanza.
Era raro che avessi la febbre, ma quando capitava mia madre mi trattava come una bambina, mi riempiva addirittura di dolciumi dicendo che così la sua bimba si sarebbe ripresa più in fretta.
Mi misi nel letto coprendomi con il piumone.
Mia madre fu fedele, nemmeno cinque minuti dopo entrò nella mia stanza con il termometro il mano. -Mettilo sotto al braccio e..-. La interruppi sbuffando.
-Mamma lo so come si usa un termometro-. Risposi inacidita.
Mia madre sorrise tristemente passandomi l’aggeggio in plastica.
Qualche minuto dopo il termometro elettrico suonò e lo lavai dalla presa salda del mio braccio che lo aveva stretto quasi convulsamente.
37.5
Era quello che c’era scritto sullo schermo.
Mia madre prese il termometro dalle mie mani.
La sua espressione non cambiò, quel velo di tristezza e malinconia rimasi imperterrito a guastare quei bellissimi lineamenti.
Si passo una mano tra i capelli, caricò i polmoni d’aria e poi parlò.
-Dico a tuo padre di andare da solo all’incontro e poi avverto Maria di portarti qualcosa per farti scendere la temperatura. Io rimarrò a casa per..-
Non la lascia finire.
-Dai mamma, è inutile che resti qui. Hai un’importante riunione e papà ha bisogno di te al suo fianco. Specialmente adesso che aveva ingrandito, c’è bisogno di te. E poi stamattina ho preso un’aspirina per l’emicrania e mi sento già meglio. Sono sicura che con un po’ di riposo e un bel brodo caldo starò meglio. Non c’è bisogno che resti qui-. Dissi tutto d’un fiato.
-Ma tu non hai bisogno di me? Della tua mamma? Non vuoi che ti racconti una favola?- Chiese sedendosi sul bordo del letto.
-Mamma quello accadeva quando avevo cinque anni, adesso ne ho diciassette e so badare a me stessa. E poi, per qualsiasi cosa, c’è Maria -. Le risposi cercando di rassicurarla.
-Adesso vai o farai tardi. Ti chiamo all’ora di pranzo-. Continuai sorridendole.
-Sicura tesoro?- Chiese alzandosi dal letto.
-Certo-.
Ma aveva sentito cosa le avevo detto? Era ovvio che fossi sicura.
Si avvicino al mio volto e mi bacio le guance.
-Riguardati Annabelle-.
Uscì dalla stanza e caddi in un sonno profondo.

 

*****


Non ne potevo più di quel letto.
Erano le tre del pomeriggio, fuori c’era un sole che spaccava le pietre ed io ero costretta a stare a letto il giorno prima della Vigilia di Natale.
Tirai giù le coperte e mi alzai di botto.
Infilai la vestaglia e camminai per la camera.
Dovevo trovare assolutamente qualcosa per impegnare il mio tempo.
Ad uscire non se ne parlava proprio.
Maria era come un cane da guardia, se solo avessi pensato di mettere il naso fuori la porta mi sarebbe saltata addosso.
Letteralmente.
Avevo già letto tutti i libri che c’erano in casa e avevo anche finito l’unico gioco che ero in grado di fare sul cellulare.
Adesso era arrivato il momento di andare nella camera oscura e sviluppare le foto che avevo scattato in quei giorni alla stazione.
Presi il rullino della macchina fotografica e mi defilai nell’ultima stanza infondo al corridoio.
Il mio rifugio.
Non appena richiusi la porta alle mie spalle il buio mi avvolse.
Con la mano cercai l’interruttore e pigiai sul tasto per accendere la luce a infrarossi, l’unica luce che era permessa tenere accesa per lo sviluppo del rullino.
Preparai le varie bacinelle con i diversi acidi per poi srotolarci i rullini e bagnarli in quel liquido.
Non so quanto tempo rimasi in quella stanza, ma quando ne uscii con in mano un pacchetto strapieno di fotografie, il buio avvolgeva la casa.
Il tempo era cambiato.
Il sole e la tranquillità mattutina erano stati sostituiti da un vento talmente forte da far tremare i vetri.
Non pioveva, ma il cielo era visibilmente nuvoloso nonostante fosse buio pesto.
Scesi in cucina per controllare l’ora.
Erano le nove di sera.
Ero stata davvero tutto quel tempo nella camera oscura?
A me sembravano passate a male pena un paio d’ore.
Bevvi un bicchiere di latte e poi ritornai nella mia stanza.
Controllai la temperatura e notai con piacevole sollievo che era scesa fino a arrivare ad un normale 35.8 .
Mi stesi nel letto e presi in mano una delle fotografie che avevo sviluppato quel pomeriggio.
Finalmente potevo vedere lo scatto “rubato” che avevo fatto a Justin un pomeriggio.
Dovevo ammettere che era venuta bene.
Era proprio bello in quella foto.
Sorrideva così tanto e così genuinamente che ti metteva di buon umore.
Era uno di quei sorrisi che non coinvolgevano solo le labbra ma anche gli occhi che vivevano di luce propria. Ti abbagliavano quasi.
Era uno si quei sorrisi che quando lo guardavi, diventava inevitabile per le tue labbra tendersi.
Il giorno dopo sarei andata da lui e gli avrei portato quella foto.
Infondo tra quarantotto ore sarebbe stato Natale e tutti avrebbero ricevuto un regalo.



Justin’s point of vew.

-Justin, spostalo più a sinistra-. Mi ripeté la voce di Dee per la milionesima volta.
Quella mattina mi aveva letteralmente buttato giù dal letto urlandomi che dovevo alzarmi ed andarla ad aiutare a montare l’albero di Natale.
-Adesso va bene?-. Le risposi dopo aver fatto come mi aveva detto.
-No, Justin. Ora è troppo a sinistra. Vabbé lascia stare, buono a nulla sei tu. Un buono a nulla.- Mi venne incontro e spostò l’albero di un millimetro.
-Vedi, adesso si che va bene-. Disse Dee con voce fiera ed osservando quello che sarebbe dovuto essere un albero, ma che a parer mio erano solo due rami secchi attaccati ad un tronco altrettanto secco e marcio.
Ma non era il caso mi lamentarsi.
Erano anni che non festeggiavo il Natale.
Quasi mi mancava il collegio.
Da quando ero arrivato alla “casa di tutti”, trascorrevo quei giorni con Dee e con gli altri senza tetto e dovevo ammettere che erano i più tristi dell’anno.

Non mi piaceva camminare per le vie della grande Chicago vedendo uomini di mezza età travestirsi da un anziano signore vestito di rosso e con la barba bianca mentre cantavano canzoni natalizie.

Non mi piaceva vedere tutti quei genitori comprare regali per i propri figli. Non mi piaceva vedere tutte quelle lucette colorate che addobbavano la città.

Non mi piaceva il Natale.

Non mi piaceva perché non l’avevo mai vissuto.

Da piccolo, l’unico regalo che ricevevo il 25 di Dicembre era una porzione in più di zuppa di pomodoro.
E io odio la zuppa di pomodoro.
Per diciotto anni avevo ricevuto sempre lo stesso regalo ed ogni anno un po’ si speranza svaniva dal suo cuore.

La speranza che qualcuno sarebbe venuto a prenderlo.

La speranza che quell’anno avrebbero fatto l’albero.

La speranza che quell’anno avrei ricevuto una macchina giocattolo.

Una macchinina che avrei conservato come se fosse la cosa più importante di questo mondo.
Una macchinina che avrei venerato e custodito con gelosia.
Ma quel giorno non era mai arrivato e ormai ero cresciuto per credere in quelle stupidaggini.
Da quando avevo conosciuto gli altri “ospiti” della casa di tutti, mi ero reso conto che anche loro avevano perso la speranza.
In quel periodo eravamo un po’ tutti malinconici.
Ma quell’anno Dee avevo deciso che le cose sarebbero cambiate.
Si era intestardita.
Voleva fare le cose per bene.
Quella mattina, il giorno della Vigilia, era uscita ed era tornata con quell’albero che sembrava più un pulcino spennato che un abete.
-Guagliù*, ma ti fossi incantato. Ti ho detto di andarmi a prendere le caramelle nel mobile che sai tu-. Dee e il suo dialetto che mi ricordava tanto casa, mi ridestò dai miei pensieri.
-E che ci devi fare cò ‘ste caramelle?-. Risposi alzando un sopracciglio.
-E tu vammele a prendere e poi vede. Ah ‘sti jovann d’oggi e quant’ domand k’fann*-. Borbottò Dee.
Mi avviai in cucina per prendere un pacco di caramelle e quando tornai trovai Dee nella stessa posizione il cui l’avevo lasciata.
Le porsi le caramelle.
Le afferrò subito e le aprì.
Un odore di menta riempì la stanza.
Dio, quanto mi piaceva la menta.
Provai a prendere una caramella ma Dee mi diede uno schiaffetto sulla mano.
-Auch, mi hai fatto male-. Mi lamentai come un bambini di cinque anni dopo averle prese dalla madre.
-Leva le tue manacce da qua. Queste non si mangiano.- Rispose prontamente Dee, ma non mi lasciò controbattere che subito riprese a parlare.
- Devi sapere che quando io ero piccola, i soldi non c’erano e le famiglie erano numerose. Io sono la quinta di sette figli. A mia madre la facevamo impazzire. Le mamme erano sole con i loro figli, mentre i padri uscivano presto di casa per cercare di mettere un po’ di pane in tavola. Le signore del mio palazzo si riunivano e insieme badavano ai loro figli. Così era tutto più semplice.-
Dee era totalmente persa nei suoi ricordi.
Non accennava quasi mai al so passano. Non sapevo che la sua famiglia fosse così numerosa.
-Un anno, il padre del ragazzo della porta accanto, tornò a casa un grande abete verde. Quello fu il mio primo vero Natele. Il più bello. Avevo otto anni. Le mamme addobbarono il grande albero con delle caramelle o dei cioccolatini. L'addobbarono stesso con i regali. Ti sembrerà strano, ma all’epoca, era raro mangiare un pezzo di cioccolata e vedere tutti quei dolciumi sull’albero era come toccare il cielo con un dito. Non portò mai dimenticare la gioia che c’era sui volti dei miei fratelli. E voglio rivedere quella stessa gioia anche sui vostri volti. Quest’albero non sarà il più bello, ma è nostro e lo addobberemo con tutti ciò che più ci piace. Sarà un anno speciale.- Concluse sorridente il discorso.
Presi una caramella della busta, mi avvicinai all’albero e la poggiai su uno dei suoi rami.
In quel gesto c’era tutto l’affetto e la riconoscenza che provavo per Dee.
Quell’anno sarebbe stato davvero particolare.



Era l’ora di pranzo.
Avevamo da poco finito di decorare l’albero.
Ci avevano aiutato anche gli altri.
Perfino Jack, che era il più restio, alla fine era venuto ad aiutarci.
Ma la cosa più bella della giornata era quella che il quel momento mi stava davanti.
Lei.
Annabelle.
Mi ero voltato e l’avevo vista in tutta la sua bellezza, impacciata sulla porta.
Subito le ero andato incontro.
Le avevo sorriso e le sue guance avevo immediatamente acquistato colore.
Il sorriso sulle mie labbra si era allargato di più e le sue gote rischiarono di andare a fuoco.
Dio, ma cos’era quella ragazza.
Le braccia incominciarono a fremere.
Volevano avvolgerla e stringerla al petto.
Invece dissi: -Ehi, che ci fai qui?-.
-B-bhe… domani è Natale e, i-io… ecco, volevo darti questa-. Rispose impacciata e diventando, se possibile, ancora più rossa di prima.
Mi porse una bustina bianca, una di quelle che in genere contenevano le lettere.
-L’ho scattata un giorno alla stazione. È venuta davvero bene e ci tenevo a dartela.- Disse tutto d’un fiato.
I miei occhi erano fissi sulla busta.
La aprii e vidi che conteneva una fotografia.
Un sorriso, il mio sorriso.
Sorriso che spuntò inevitabilmente anche in quel momento.
-E’ per me?-. Dissi alzando lo sguardo e fissandolo nel suo.
- Si, ecco, questo sarebbe il m-mio regalo di Natale. Per te-.Concluse abbassando lo sguardo e in quel momento fu inevitabile trattenere i miei impulsi.
L’abbracciai d’impeto.
Mi aveva fatto un regalo.
Di Natale.
Solo per me.
Era tutto mio.
Mio.
Era la cosa più bella che potessi desiderare.
Capii all’istante che non si aspettava un gesto simile da me.
Non aveva calcolato un abbraccio.
La strapazzai leggermente e Bella si riprese allontanando le sue esili braccia dai fianchi e portandole vicino al mio corpo, avvolgendolo in quello che poteva sembrare un abbraccio.

Ma non lo era.

Era la riconoscenza, la gratitudine, l’imbarazzo e il bene che in quel mese avevo iniziato a nutrire nei suoi confronti.

Quell’unione era la rappresentazione fisica dei sentimenti che provavamo.

Sapeva anche di disperazione.

Tristezza.

Malinconia.

Dolore.

Ma quel Natale sarebbe stato diverso, e il caro buon vecchio Babbo Natale non avrebbe lasciato i soliti vecchi regali sotto l’albero.

Avrebbe portato qualcosa di più raro e prezioso.

Qualcosa che neanche il presidente degli Stati Uniti d’America sarebbe riuscito a comprare con tutti i soldi del mondo.

Qualcosa che è più raro dell’acqua nel deserto.

Qualcosa che è più pregiato dell’ambra.

Qualcosa che al giorno d’oggi non si cerca.

Qualcosa che è difficile da trovare.

Qualcosa che perfino Jack Sparo desiderava più delle monete d’oro.

Quel qualcosa che caratterizza tutti i film degni della Disney.

Quel qualcosa che se viene cercato sul dizionario troveremo scritto “empatia tra due persone” come descrizione.

Quel qualcosa che più comunemente viene chiamato
Amore.



 
*Ragazzo, in napoletano.
*Questi ragazzi d'oggi porgono troppi quesiti.
 
*NOTE*
Sono tornata con un nuovo capitolo.
E cosa più importante non ho aspettato mesi per aggiornare.
Spero che il capitolo vi sia piaciuto e soprattutto che non vi abbia deluso.
Ho cercato di renderlo il più lungo possibile e come "speravate" c'è anche Justin.
La prima parte è dedicata ad Annabelle, spero che non l'abbiate trovata noiosa e non siate state tentate dal chiudere la pagina. Spero davvero di NO!
La seconda parte è tutta per il nostro Justin.
Un Justin che accenna ad un Collegio. Cosa avrà voluto dirci? Forse è un "accenno" al suo passato?
Bho...
E non dimentichiamoci di Dee e del suo mini racconto.
Ah, quasi dimenticavo.
Mi scuso per non assere scesa nei dettagli nella parte dello sviluppo delle foto.
Da piccola vidi farlo da mio parde, ma i ricordi non sono molto chiari perciò ho "descritto" la scena per sommi capi.
Credo di aver detto tutto.
Spero che lascerete - in tante- una recensione in cui mi direte cosa ne pensate.
Cercherò di aggionare il prima possibile.
Un grazie di cuore alle ragazze che hanno letto e recensito il capitolo precedente. Ma un grazie più forte a quelle che hanno continuato a seguirla nonostante i "tardivi" aggiornamenti.

Un bacio
-bibersell

 

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Capitolo 10
*** Le tenebre di Cupido ***




                       
 


Underground

Le tenebre di Cupido


 



Justin's point of view


Annabelle mi seguì in quella che sarebbe dovuta essere la mia camera, ma che di mio non aveva nulla.
Nessuna foto di quando ero piccolo.

Di mia nonna.

Non ricordavo nemmeno il suo volto. Forse aveva gli occhi chiari come quelli di mia madre. Forse era bionda come me o forse aveva semplicemente i capelli del colore della vecchiaia. Ma il suo odore lo ricordo.

Quel profumo indimenticabile.

Sapeva di biscotti appena sfornati, di fiabe raccontate prima di addormentarmi, di bagnoschiuma alla vaniglia, di gelato a lampone.
Della menta che metteva nelle fragole. Di casa.

In quella stanza non c'era nulla di tutto ciò.

Le pareti erano bianche.
Bianche come il mio futuro e come le pagine di un libro. Tutto da scrivere.

Le lenzuola erano bianche.
Bianche come il colore che riflettevano le mie lacrime.
Bianco era il luogo in cui si trovava mia madre.

Era tutto Bianco.
Bianco come tutto.

Forse quella camera rappresentava tutto.
O niente.

Niente perché io non ero niente.
Niente nella società.
Niente per la mia inesistente famiglia.
Niente per mio padre.

O tutto.
Perché un foglio bianco poteva rappresentare tutto ciò che la mente desiderava.
Tutto perché se riguardavo indietro vedevo tanta Bianca sofferenza.

Chissà Annabelle cosa pensava della mia pseudo camera.
Chissà se anche per lei il colore bianco era tutto e niente.
Chissà com'era la sua di camera.
O deve abitava.
Alla fin fine di lei non sapevo nulla. Non sapevamo nulla dell'uno e dell'altro.

Nei suoi occhi si leggeva un vuoto. Nero.
E Bianco.
Avrei voluto sapere chi o che cosa le avesse fatto tanto male da provocare quella voragine.

Lei si era seduta sul letto con la compostezza di una principessa fatta di cristallo.
Il materasso si era abbassato sotto il suo peso e lei aveva poggiato le mani in grembo, quasi come se non volesse toccare nulla.
Non per paura. Non perché pensasse che quel poste fosse sporco.
No, non era per quello.
Era per rispetto, quasi come se non volesse invadere lo spazio altrui.
Io mi sedetti per terra ed incrociai le gambe in perfetto stile Budda.

Espirai.
"Ti va di fare un gioco?" Chiesi.
Annabelle sollevò le sopracciglia, guardò prima me e poi il pavimento.
"Quello della bottiglia?" Chiese sarcastica.
"Tipo, ma senza la bottiglia". Le risposi sorridendole. "Io ti faccio una domanda e poi ne fai una tu a me. Puoi chiedermi tutto ciò che ti passa per la testa" Continuai spiegandole quelle che sarebbero dovute essere le 'regole' del gioco.
"E se io non volessi rispondere alla tua domanda?" Chiese assottigliando lo sguardo.

Sembrava un gatto.
Uno di quelli che si vedono per strada.
Sembrano così rozzi e selvaggi con il loro sporco aspetto, ma alla fine sono i più tereni e innocui.

"Bisogna pagare pegno, piccola gattina. Pegno che deciderò io ovviamente". Risposi risoluto sollevando le spalle.

Non aveva mai fatto quel tipo di gioco alle feste.
Persino io lo conoscevo.
Era il gioco preferito di Fabrizio, il mio migliore amico.
Quando stavo là, in collegio, io e Fabrizio eravamo inseparabili.
Tutti lo prendevano in giro solo perchè era paffutello e con il viso pieno di efelidi. Ma io sapevo che un giorno, quelle stesse efelidi e qui capelli rossi, avrebbero conquistato il cuore di molte ragazze.

"Non mi piace questo gioco" Sussurrò Annabelle.
"A me si, e anche tanto. Quindi non si discute. E poi domani è Natale è tutti siamo più buoni a Natale". Ribadii con tono la cucciolo bastonato.
"Okay, mi arrendo. Però la faccio io la prima domanda". Annabelle cedette.
"Accomodati pure". Risposi tranquillamente.
Non avevo nulla da nascondere io.
"Okay" Annabelle si zitì.
Si portò una mano sotto al mento, sembrava che stesse pensando.
"Ce l'ho. Colore preferito". Disse infine.
Risi.
"Questa serebbe la tua domanda? E hai anche dovuto pensarci?" Chiesi scettico.
Con tutte le domande di questo mondo, perchè proprio quella? 
"Beh, che c'è che non va, è una domanda come tutte le altre" Rispose facendo spallucce e chinando il capo.
Sembrava di fosse offesa.
Che coglione che ero.
"Bianco, il mio colore preferito è il bianco". Risposi semplicemente.
Ora toccava a me fare una domanda.
Cosa avrei potuto chiederle?
Quale era il suo numero di telefono, così avrei potuto mandarle dei messaggi. Si, sarebbe stata un'attima mossa se solo avessi avuto un telefono.
Magari avrei potuto chiederle dove abitasse, ma sarebbe stato imbarazzante.
Non potevo presentarmi a casa sua vestito così male.
"Adesso è il mio turno. Allora, sei figlia unica?" Domanda semplice alla quale rispondere e che mi avrebbe permesso di conoscere qualcosa in più di quella misteriosa ragazza che mi stava di fronte.
"Si, sono figlia unica. Mia madre già aveva avuto problemi a restare incinta di me, così non hanno proprio provato ad avere altri figli". Rispose Bella.
Rimase immobile, guardava un punto fisso. Sembrava quasi che il suo sguardo avesse perforato la parete e stesse vedendo qualcosa che distava mille miglia da quella stanza.
"Ehilà, c'è qualcono in casa?" Chiesi agitando il braccio sulla testa.
Lei si riprese da quello stato di trance e sbiascicò un semplice 'scusa'.
"A chi tocca?" Chiese.
Sembrava fosse appena tornata da un viaggio su Marte.
La indigai semplicemente.
"Io, bhe..si, e-ecco la mia domanda è: sei mai stato innamorato?" Smattè più volte le palpebre e vidi una strana luce.
Quella si che era una bella domanda. Una domanda che mi ponevo spesso.
"C'e stata qualche ragazza in passato, forse anche qualche relazione importante, però non so se sono mai stato innamorato. Probabilmente no". Risposi con tutta l'onestà di cui ero capace. E visto che eravamo in tema "amore" ora toccava a me fare una bella domanda.
" Hai mai fatto sesso con qualcuno?" Le sue guance acquisirono immediatamente colore. Rossore che occupò in poco tempo tutto il volto per poi scendere fino al collo.
Ero cosciente, sapevo che con quella domanda l'avrei messa in imbarazzo.
Ma la curiosità sie ra impossessata di me segnando tutti i colpi contro la "gentilezza"
Forse non mi avrebbe nemmeno risposto.
Ma se lo avesse fatto, sarebbero state parole affermative le sue?
Al sol pensiero una strana sensazione mi attanagliò lo stomaco.
Una sensazione che pesava come un erorme macigno.
Una sensazione che non aveva nulla a che vedere con la fame.
Non era di certo una bella sensazione.
Ma cosa ancora più brutta, era nuova.
Se sole avesse detto di si, non avrei di certo aspettato il mio turno per farle la prossima domanda.
Avrei voluto sapere immediatamente il nome di quel bastardo.
Le aveva fatto del male? Aveva sofferto per lui?
Avevo letto in un libro qualcosa sulla "gelosia".
Forse era proprio quello che provavo io in quel momento. Ma non si provava solo per le persone a cui tenevi, a cui volevi bene?
Forse mi stavo legando a quella ragazza e nemmeno me ne rendevo conto.
Era così naturale per me parlare con lei.
Non avevo paura di mostrarmi per quello che ero.
Un senza netto, un senza nulla.
Un senza futuro e con nulla da offrire.

Furono le parole di Annabella a ridestarmi da quei pensieri.
"Obbligo".
Una parola.
Un colpo dritto al cuore.
Un colpo inflitto dalla spada più potente.
Quella risposta era più dolorosa di un "si".
Il "si" sarebbe stato una certa.
L' "obbligo" era una parola che mi avrebbe torturato quella sera.

"Non puoi, devi rispondermi" Provai a ribbadire.
"Eh no, le regole sono regole. Lo hai detto tu che se non volevo rispondere potevo chiedere l'obbligo". Rispose tranquillamente.
Gliela avrei fatta pagare. Non poteva lasciarmi con il dubbio.
Avevo solo una certezza, ma a me bastava.
Almeno in quel momento così mi sembrava.
L'avrebbe pagata cara.
"Sei sicura di non voler rispondere alla mia domanda?" Chiesi sorridendo.
Lo sopevo. Sulle mie labbra si leggeva un sorriso sadico, da puro calcolatore.
"Sicurissima. Puoi chiedermi tutto ciò che vuoi. Io lo farò".Sorrise anche lei.
Un sorriso malizioso e diabolico.

Sembrava che le ombre di Satana fossero scese si di noi e avessero plaggiato i nostri cuori.

"Senza protestare?" Dissi accompagnando il sorriso con uno sguardo ammaliatore.
"Non protestrò". Risoluta. Decisa. Donna.
"Baciami".
Ecco lo avevo detto.
E non me ne pentivo minimamente.
Annabelle non arrossi.
Non balbettò e non chiuse gli occhi nemmeno per un secondo.
Scese dal letto, si raddrizzò con la schiena e si avvvicinò lentamente alla mia figura.
Si fermò davanti a me. Mi guardava dall'altro mentre io facevo lo stesso dal basso.
Quando i nostri occhi si incontrarono lei si mosse.
Si sedette alla mia sinestra.
Osservavo ogni suo minimo movimento ammaliato come un bambino allo zoo.
Incantato come un bambino davanti al suo cartone animato preferito.
Eccitato come un vampiro davanti alla sua preda.

Annabelle si avvicino maggiormente e i nostri nasi si sfiorarono.
Uno sfioramente appena percettibile ma che fece sussultare entrambi.
I nostri visi non erano mai stati così vicini.

Il cuore iniziò la sua maratona e io come un corridore non avevo più fiato.

Con la mano destra accarezzai la guancia di Bella.
La sua pelle era così soffice e delicata.
Sembrava stessi toccando la neve.

Fredda.

Ghiacciata.


Ma si scioglieva non appena la prendevi in mano.

Annabelle dischiuse le sue labbra.
Labbra piene e rosse.

Piene di morsi e pellicine strappate.

Rosse per il freddo.

Rosse come il sangue che esce dal labbro rotto.

E rosse come la passione.

Si avvicinò ancora di più.

E fu un attimo.

Un attimo in cui le sue labbra mi sfiorarono e vennero a contatto con la mia pelle.

Fu quell'attimo in cui tutto sembrò perfetto.

Fu quell'attimo in cui le sue labbra toccarono la mia guancia.

Fu proprio in quell'attimo che capii.

Io non ero il vampito.
Io non ero l'addomesticatore.
Io ero la preda.

Mi ero sbagliato.

Quelle che erano scese su di noi non erano le ombre di Satana, ma la passione di Cupido.

Non ero solo io la preda.
Lo era anche Annabella.
Allora chi era il cacciatore?

Noi, io e lei, eravamo in-preda alle tenebre di Cupido.



 
Hola! 
Come va? Spero bene.
Probabilmente vi aspettavate un capitolo più lungo, ma non avuto davvero tempo. 
Mi ero ripromessa di aggiornare entro domenica, e così e stato.
Forse il capitolo non è il massimo, ma ce l'ho messa tutta e speso che siate rimaste contente lo stesso.
Non mi dilungo in inutili dettagli vista l'ora.
Vi dico solo che adesso, abbene si al decimo capitolo, la storia sta prendendo forma. D'ora in poi accadranno molte cose "speciali". Non solo tra Annabelle e Justin, ma anche per altri personaggi che verdere entrare a far parte di questa stupida storia.
Un bacio e sogni d'oro -anche non credo che quando leggerete il capitolo sia sera- 
-bibersell

 

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Capitolo 11
*** Intonaco ***


 





Underground.



Intonaco.




Annabelle’s point of view.

Avete presente quando guardate una cosa ma non la vedere davvero?
Avete presente le ragazze sedute ad una tavola calda mente osservano il fondo della tazza del caffè armai finito?
O quelle che fissano un punto ben definito ma la loro mente dista chilometri da dove si trovano?

Bene.

Non era per niente quello che stava accadendo a me.
Fissavo il soffitto intonacato di bianco che me fosse una scatola piena di tarocchi.
Lo guardavo come se davvero potessi trovare una risposta in quel poco di pittura.
In quel bianco.

Era buio.

La Luce era spenta e l'unica illuminazione veniva dal bollino rosso della televisione.
Ma io sapevo di che colore fosse il soffitto e non avevo bisogno di luce.

Era bianco.

Come il suo colore preferito.
Aveva detto che la mia domanda era stupida, e forse lo era davvero, ma di certo non lo era la risposta.
Quale persona avrebbe detto che il bianco era il suo colore preferito?
Alcuni credevano che il bianco non fosse nemmeno un colore.
Perfino i bambini "discriminavano" il bianco.
Voi avete mai visto un bambino disegnare con la matita bianca?
Usano il verde per il prato, il rosa per i fiori e il giallo per il polline. Marrone per il tronco dell'albero e la casetta. E quelli che avevano più fantasia usavano il grigio per fare il fumo che usciva dalla canna fumaria.
Ma mai il bianco.
I pastelli finivano, ma il bianco rimaneva sempre là. Nessuno lo usava.

Una volta avevo pensato di tingermi i capelli di bianco. Maria aveva detto che il bianco non era un colore.
Era un qualcosa di indeciso e passeggero.
Una transizione.
Come il Purgatorio che era il ponte tra Inferno e Paradiso.
Ma il Purgatorio non era un'invenzione di Dante? Non esisteva veramente.
Qualsiasi persona sana di mente avrebbe risposto che nemmeno il Paradiso o l'Inferno esistono.
Ma io ci credo.
Credo che esista un posto in cui andare dopo la morte.
Un posto tutto bianco, appunto, in cui ci ricongiungeremo con i nostri cari.
Un posto fatto di gloria e beatitudine e non di angeli e demoni.

E nell'Inferno? Ci credevo Nell'Inferno.
No, non credevo nel Diavolo e nelle fiamme.
Che poi Dante descrive l'inferno come un posto freddo, più il cerchio si restringeva più la temperatura scendeva. E allora perché abbiamo un'immagine dell'Inferno totalmente diversa? Fiamme e calore?

No, non credevo in queste cose.
Ma credevo in Satana concepito come male fisico e nell'inferno recepito come tortura.
E se penso ad entrambe, un unico luogo mi viene in mente: la Terra.

La terra é il nostro inferno e le persone, intese come corpi di carne travolti da istinti, sono il male. La nostra coscienza, più comunemente detta anima, é il bene.

Molto spesso penso che l'essere umano sia la rappresentazione fisica dello Yin e dello Yang.
Come lotta continua tra bene e male.
Quante volte ci fermiamo a riflettere, ci chiediamo se seguire l'istinto o la ragione? Il male o il bene?


E tutti questi pensieri erano nati solo per una semplice risposta.

Bianco.
Il mio colore preferito é il bianco.


E l'intonaco bianco era ancora lì.
Pronto a darmi le risposte che cercavo.
Mi rigirai su un fianco.

La finestra era coperta da pesanti tende, ma immaginare il cielo notturno non mi era per nulla difficile.
Come recita quella canzone:

Di notte il mondo é giusto perché sta dormendo

E ancora

Di notte le emozioni sembrano più dense.

Ed é vero.
Di notte i pensieri invadono la tua mente come mai prima. Tutto si fa più vero e difficile da affrontare.
Come quel bacio sulla guancia che avevo dato a Justin.

Di notte un bacio vola verso l'infinito

Non potevo che non essere d'accordo anche su questo verso di quella splendida canzone di cui potrei drogarmi all'infinito.
Il ricordo di quel bacio diventava sempre più vivido nella mia mente.
Ero furiosa e stupita, e probabilmente anche un pò delusa.

Delusa del suo comportamento.
Non mi sarei mai aspettata una simile domanda pronunciata da quelle labbra e con quella voce che ara sempre stata così gentile.
Delusa per la sua richiesta.

Sorpresa per il mio comportamento.
Quella sera avevo scoperto un lato del mio carattere che non conoscevo.
Quello che non si scandalizzava davanti a certe proposte, quello disinvolto e femminile.

Quel lato che non avrei mai più voluto vedere.

Quel lato che mi destabilizzava.

Quel lato che sembrava alimentarsi del suo profumo. Che sembrava crescere ad ogni suo respiro.

Quel lato che mi faceva sentire bella sotto quello sguardo.

Quel lato che mi faceva sentire viva.

Quel lato che mi faceva entrare un'altra dimensione.

Quel lato che usciva solo con lui. Con Justin.



Mi rigirai sull'altro fianco, dando le spalle alla finestra e quel cielo sicuramente strapieno di stelle.
I miei occhi incrociarono dei numeri scritti in rosso.
Sembravano bruciare in tutto quel nero.
I numeri segnavano l'ora sulla radiosveglia.

Erano le undici e cinquantanove del 24 di Dicembre.
I numeri cambiarono.

00:00

Buon Natale Annabelle.

Buon Natale a te.






Justin's point of view.

Sentivo freddo al naso.
Quella lastra di vetro era congelata e stavo prendendo freddo.
Il naso e la fronte erano schiacciate contro la vetrina di una pasticceria.

L'ultima volta che ero entrato in un laboratorio di dolci, avevo cinque anni.
La mia mano era avvolta da quella di mia nonna.
Era Natale.
Il suo ultimo Natale.

I ricordi sono confusi. Sono come tante scene slegate. Ognuno segue il proprio corso.
Un vassoio pieno di paste da mangiare.
Babbà, barchette al cioccolato o con gli smartis. Frutta di zucchero e mandorle. Tanta pasta di mandorle.
Erano anni che non la mangiavo.

Ricordi.

I ricordi erano tutto quello che mi era rimasto.

Quei pezzi di vita che rifiutano di perdersi. Sorrisi malinconici,attimi di tristezza. Ricordi di attimi passati talmente vivi da sembrare ancora qui.


Quella mattina mi ero svegliato all'alba.
Avevo visto nascere quella meravigliosa stella che era il sole.
Avevo visto arrivare l'ennesima mattina di Natale.
Dee aveva preparato la colazione con spremuta d'arancia.
Tanti bicchierini di carta erano posti sui tavoli.

Tutti erano felici.

Felici per quel poco di succo.

Felici di iniziare una giornata di modo diverso dal solito bicchiere d'acqua.

Felici di sperare in qualcosa di diverso, in un cambiamento.

Felici di sperare in quel "a Natale siamo tutti più buoni".

Quella mattina Dee ci aveva costretti a sederci attorno all'albero e a cantare canzoni natalizie e a pregare.
Ci aveva trattato come dei bimbi.
Quel giorno anche la solita zuppa di pomodoro sembrava diversa.
Jack aveva detto che era più saporita.
Roland gli aveva risposto che era il Natale che rendeva tutto più buono.
Io non credevo nella magia del Natale, infondo era un giorno come un'altro.
Il miracolo non accadeva a Natale. Il miracolo, se doveva accadere, accadeva.
Che fosse stato il 25 di dicembre o il 2 luglio.

Dopo il 'pranzo' ero uscito.
Meglio dire vagabondare per la città. Per ore.

Erano le nove di sera.
Il cielo era completamente buio, illuminato dalle stelle poco visibili a causa della luce dei lampioni. Tutta Chicago era piena di luminarie e di elfi canterini.
Bambini felici che cantavano e giocavano con la neve.

Il mio vagabondare mi aveva portato fuori a quella pasticceria ormai chiusa.
Riuscivo ancora a sentire il profumo della cioccolata alle nocciole e quello che caldarroste.

Mi costrinsi ad allontanarmi dalla vetrina e disegnai un pupazzetto di neve nella zona appannata dal mio respiro.

- Io disegnavo delle stelline. O dei cuori.

Mi voltai e vidi una giovane donna avvolta in un lungo cappotto marrone.
Poche ciocche scure sfuggivano alla presa del cappello di lana nero calato sulla testa. Copriva quasi gli occhi.
Le labbra erano nascoste in uno sciarpone rosso. Si vedeva solo il nasino rosso per il freddo.

Annabelle.

-Non sono mai stato bravo a fare le stelle. E disegnare i cuori é roba da ragazzina innamorata-. Risposi con un accenno di sorriso.
Sentivo le labbra paralizzate dal freddo.
Pizzicavano.

Lei fece qualche passo avvicinandosi alla vetrina della pasticceria.
Scostò la sciarpa dalla bocca e dischiuse le labbra.
Una nuvoletta di fumo uscì e il vetro di appannò.
Cacciò una mano dal cappotto e sfilò il guanto.
Con la mano destra tracciò una linea obliqua. Poi ne fece un'altra e un'altra ancora.
Aveva disegnato una stella.

-Vedi? É facile. Prova tu-. Sorridendo si voltò verso di me.

Mi voltai ed alitai sul vetro.
Presi a fare delle linee oblique. Cercai di farle il più simile possibile alle sue.
Il risultato non si poteva definire soddisfacente ma era la cosa più simile al una stella che avessi mai fatto.

-Basta fare un pò di pratica. Vedrai che migliorerai-. Disse gentilmente.
Sembrava una bambina.
Una di quelle che cercano di essere brave e dolci nel loro primo giorno di scuola.
Ma io ero cresciuto.


Sarà stato per la situazione, per il tono garbato della sua voce.
Forse era anche colpa di quel bacio o del fatto che era Natale.
Forse sarà stata colpa mia.
Fatto sta che la mia risposta fu tutt'altro che gentile.

- A ventidue anni e senza un tetto sulla testa non mi metto a disegnare stelline sui vetri appannati. Non é il mio obbiettivo diventare il miglior disegnatore di stelle di tutta Chicago-.

Mi sarei pentito a breve delle mie parole, ma il quel momento non capivo nulla.
Le parole che avrei dovuto dire furono pronunciate da Bella.
-Scusa, non volevo offenderti.- Disse guardando ovunque tranne che me.
Con lei sembrava che tutto fosse più interessante di me.
-Ma io non mi sono affatto offeso. Ho semplicemente detto che disegnare stelline é l'ultimo dei miei pensieri-. Constatai con un tono di voce un pò troppo alto.
-E io ho detto che mi dispiace. Okay? Forse non so cosa significhi vagare per la città senza un tetto a proteggerti dalla tempesta. Forse non avrò i tuoi stessi problemi, ma non c' é bisogno di scaldarsi tanto.- Anche lei aveva alzato la voce.

Stavamo litigando? Per cosa, una stella?
La nostra stella.

-Infatti tu non sai cosa voglia dire. Te ne stai là nel tuo bel cappotto caldo e la tua sciarpa rossa mentre i miei denti non smettono di battere per il freddo. Tu non conosci l'angoscia che provo ogni cazzo di Natale. Non sai quanto invidio la gente con qualche spicciolo in tasca e che possono permettersi una tazza di cioccolata. Dio, non so nemmeno da quanto tempo non bevo della cioccolata-.
Le inveii contro sputando tutta la rabbia che avevo dentro.
Tutto il risentimento, i sensi di colpa accumulati negli anni.
Tutto l'odio che mi cadeva addosso come un uragano la mattina di Natale e mi abbandonava solo dopo le feste. Ma era pronto a ritornare anno dopo anno, sempre più prepotente ed iroso.

-I-io.. i-io.. Non l-lo sapevo. Mi dispiace..-. Cercò di ribattere lei. Ma non c'era nulla da dire.
Solo silenzi. Silenzi su silenzi.

-Non devi dire niente. Non c'è niente da dire-. La bloccai portandomi una mano ai capelli e tirando il ciuffo troppo lungo.
Avrei avuto bisogno di una bella spuntatina. Di un barbiere che se ne prendesse cura.

-Invece c'é, da dire. E anche molto.- Si bloccò.
Le bocca era aperta ma nessun suono usciva da essa.
Sembrava che qualcuno avesse levato il volume e avesse schiacciato il tasto pausa.
Mi sentivo in uno di quei film scadenti tratti dai romanzetti per ragazze.
Annabelle parlò di nuovo.
-Permettimi di aiutarti. Lascia che ti aiuti. Che mi prenda cura di te-.



Hola!
Come state bellezze? Spero benone.
Fianlmente è finita la scuola. Alleluia.
Ora potrò concentrarmi sulla storia e su ogni singolo capitolo.
Come sempre spero che quello che avete letto sopra vi sia piaciuto e che ne siete soddisfatte, almeno un pochino.
Ci tento a ringraziare ogniuna di voi, che legge, che segue, che recensisce questa storia.
Voglio ringraziare WERETOGETHER, JAZZY99, _LIGHT IN THE DARKNESS_ che sono sempre state gentilissimi e hanno seguito la storia dall'ininizio nonostante tutto.
Ma soprattutto un grazie di cuore a _JUSTINHUGSME che mi ha sempre sostenuta in tutte le storie.
Un bacione

-bibersell

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Capitolo 12
*** Il freddo, lei, non lo voleva ***



Sorpresa nelle note, passate sotto!





Underground


Il freddo, lei, non lo voleva



Annabelle's point of view.


-Permettimi di aiutarti. Lascia che ti aiuti. Che mi prenda cura di te-

Quelle parole mi rimbombavano ancora in testa.
Cosa mi era preso? Avevo davvero intenzione di dirglielo? Volevo davvero che lui sapesse? Volevo davvero chiederlo a mio padre? Portarlo da loro?
A quanto sembrava la risposta fu affermativa.

Lo volevo.
Volevo aiutarlo.
Volevo prendermi cura di lui. Come una mamma del proprio bimbo. Come un'aquila dei propri cuccioli. Come una sorella, come un fratello, come un'amica.

-Come?- Justin aveva gli occhi troppo allargati per la sorpresa. E per il freddo.
Le labbra, quasi violacee, sembravano immobilizzate a tal punto che le parole uscivano poco chiare.
Per il freddo.
Il suo corpo tremava. Per la rabbia. Per l'agitazione. Per lo shock. Per il freddo.
E io volevo che lui non sentisse mai più freddo.

- Si, m-mio padre ha un'azienda. H-ha rinnovato. S-si é unito... C-con il padre di T-Travis... Perciò.. A loro serviva del personale.. I-io, i-io potrei chiedergli se.. Ecco. Se tu sei d'accordo.. Potrei- Justin mi bloccò.
Poggiò una mano sulla mia spalla per calmarmi.
Le sue gambe cedettero. Sembrò un attimo. Il calore del mio cappotto di pelliccia era talmente tanto che la sua epidermide fredda ne aveva risentito al minimo contatto.

Lui.

Che diceva di avere sangue caldo. Sangue del Sud.
Lui rabbrividiva al solo contatto con qualcosa di caldo.

-Rallenta e spiegami cosa succede. Cosa c'entra tuo padre in questa storia?-. Continuò levando la mano dalla mia spalla e allontanandosi di qualche passo.
Non potei non notare il suo successivo gesto.

Si abbracciò.

Passò le braccia attorno alla sua stessa vita e strinse. Come in un abbraccio.
Avrei voluto togliermi il cappotto e riscaldarlo col mio stesso calore.
Avrei voluto che quelle braccia circondassero la mia di vita e non la sua. Ma in quel momento dovevano discutere di cose molto più importanti.
Però una cosa la poteva fare.
Mi avvicinai e gli tesi una mano.
-Questo posto non é adatto per parlare. Vieni con me-.

E lui mi seguì.
Non si aggrappò alla mia mano, ma mi seguì.




Lo portai alla stazione.
Lì dove tutto era iniziato.


All'ingresso c'era una stanza, una volta del custode, che era sempre vuota.
C'era una brandina che faceva da letto e una piccola finestra. Ma la cosa più importante era stare al caldo. Anche se quelle quattro mura non erano riscaldate, rimanevano pur sempre un posto chiuso e sicuro.
Lontano dalla rigida temperatura della metropoli.
Di Chicago.

-Perché mi hai portato qui? Per ricordarmi quello che faccio per mettermi qualche centesimo in tasca?-. Disse appoggiandosi con tutta la forza che possedeva al muro, quasi a volerlo sostenere...o era lui che cercava di essere sostenuto da quel poco di intonaco?

-Non dire così. Lasciati aiutare. Da me. Per piacere-.
Lui tacque e lo presi come un invito a continuare.
Mi sedette sulla branda e ripresi a parlare.
-Come ho detto prima, mio padre ha un'azienda. Si occupa di vini. Ora non saprei dirti molto sul suo funzionamento, non me ne intendo molto...- mi stavo lasciando trasportare dal corso delle parole.
-Fatto sta, che qualche settimana fa ha concluso un grande affare. Ha comprato molte azioni di prestigiose aziende ed é diventato socio del signor Helston, il padre di Travis. Ora l'azienda si é ingrandita e con essa anche il numero di dipendenti che servirebbero a portarla avanti. I miei stanno cercando del personale di ottima fiducia e io potrei mettere una buona parola per te. Diamine é mio padre. Non potrà dirmi di no-. Conclusi sbuffando.

L'angoscia stava prendendo il sopravvento.
Quella non era affatto una situazione facile. Dovevo essere il più calma ed accondiscendente possibile.
Dovevo convincerlo.
Quella era la sua possibilità e non potevo permettergli di buttarla al vento.
Avrebbe stipulato un contratto e ricevuto un mensile che sarebbe arrivato puntuale.
Magri avrebbe potuto conservare qualcosa per..
Ma i miei pensieri furono bloccati dalla voce di Justin.
-Mi stai offrendo un lavoro? Nell'azienda vinicola di tuo padre? A me, che non ne capisco un cazzo di vino e che nemmeno mi piace?-. Rispose lui ridendo amaramente.
Se ne stava li, apparentemente quasi tranquillo, come se non stessimo parlando di una prospicua opportunità lavorativa.
-Ma mica dovrai fare il degustatore-. Risposi alzandomi dal letto.
-E cosa allora?- Justin mi sfidò con lo sguardo.
-E che ne so. Farai qualcosa di basso conto, per iniziare. Magari il magaziniere, o farai l'inventario o smisterai la posta. E' solo un inizio. Un gradino da cui partire. La scalata sta a te. Io ti sto solo dando un punto di partenza. Poi vedrai tu dove andate-.
Mi sistemai una ciocca di capelli dietro l'orecchio. Solo in quel momento mi ricordai di avere ancora il cappello calato sul capo.
Justin indurì la mascella ma non parlò.
Io continuai. -Riceveresti uno stipendio tutti i mesi, il lavoro sarebbe retribuito, e avresti dei turni prestabiliti e un giorno a settimana festivo. Domenica esclusa. L'azienda é chiusa quel giorno-. Dissi come se stessi presentando un'opera a dei visitatori di un museo.
-E tuo padre farebbe lavorare uno come me nella sua azienda. Parliamoci chiaro. Sono un poveraccio. Non ho una casa e tantomeno un cappotto per coprirmi dal freddo. Non so da quando tempo non faccio una doccia con l'acqua calda e una barba con un vero rasoio. Indosso sempre gli stessi abiti e le scarpe sono talmente consumate che la suola é piena di buchi. E tu vorresti offrire un posto di lavoro a me. Ti ringrazio per la generosa offerta ma non mi sembra il caso-. Concluse allontanandosi dalla parete e avvicinandosi alla porta.
-Se é questo il problema, non te ne devi preoccupare. Ti aiuterò. Potresti venire da me e fare tutte le docce che vuoi e in soffitta ci dovrebbero essere dei vestiti che mio padre non usa più. Ad occhio e croce direi che portate la stessa taglia. Più o meno-.
-Annabelle smettila. Ho detto di no. Il discorso termina qua-. Justin era di spalle con una mano sulla maniglia.
Non volevo che se ne andasse.
Era troppo orgoglioso per capire che quella era l'occasione della sua vita.

Non ci pensai due volte e lo feci.
Mi scagliai contro la sua schiena e mi aggrappai ad essa.
Con le braccia gli circondai il collo e con le gambe la vita.
Piagnucolai al suo orecchio.
-Ti prego. Non te ne andare. Lasciati aiutare. Non c'é niente di male. Almeno provaci. Per favore. É Natale-.




Justin's point of view.

Quella ragazza non mollava mai.

Perché non capiva?

Non capiva che avrei voluto accettare con tutto il mio cuore. Avrebbe voluto urlare con tutta l'anima quel si.

Aveva ragione.

Era un'opportunità da non lasciarsi scappare. L'opportunità che cercava.

Se solo gliela avesse offerta qualcun altro.

Perché non capita che non voleva chiedere aiuto proprio a lei. Ad una ragazzina.
Alla sua Annabelle.

Sarebbe stato umiliante.
L'orgoglio mi diceva di negarmi, di andarmene.
Ma come potevo ora che lei era sulla mia schiena?
Ora che lei mi stava abbracciando?
Ora che le mi stava riscaldando?
Ora che lei mi stava mandando in fiamme con quello sguardo?
Con quegli occhi lucidi.

Non petevo.
Non potevo e non volevo.


Come avrei fatto a dirle di no ora che quello sguardo stava eliminando anche l'ultimo briciolo di dignità e di orgoglio?

Non potevo.
Non potevo e non volevo.


Le sorrisi.
Uno di quei sorrisi caldi. Che sanno ti tropicale. Uno di quei sorrisi di assenso.
Uno di quei sorrisi che diceva si, si,si, e si, accetto.
Si, mi lascerò aiutare.

Si, voglio lavorare nell' azienda di tuo padre.

Si, voglio quel giorno festivo settimanale.

Si, voglio una vera busta paga.

Si, ti voglio.

Lei scese dalle mie spalle e mi abbracciò.

Non c'era bisogno di parole.
I gesti parlavano per noi.




Hola!
Eccomi qui, anche oggi con un nuovo aggiornamento.
Spero come sempre che il capitolo vi sia piaciuto. L'avevo pronto già da un bel pò.
Ho deciso di aggiornare in anticipo perchè già so che per il prossimo capitolo dovrete aspettare una settimana, sarà difficilotto per me scriverlo.

Passando alla sorpresaaa..
Ho in mente una storia nuova. Trama, come tutte le mie storia, leggermente fuori dal comune. Non so bene quando la metterò su carta, vorrei prima arrivare a buon punto con questa storia... vi farò sapere meglio nei prossimi aggiornamente. Spero che seguirete anche questa storia-che sicuramente uscirà uno schifo-.

AGGIORNAMENTO!
Sono contentissima di tutte le ragazze che seguono, leggono e recensiscono la storia, ma mi farebbe piacere ricevere più recensiooni. Sarebbero un incipit per me e aggiornei molto più frequentemente.
Potrei addirittura postare un capitolo un giorno si e uno no.
Se mi invoglierete portei addirittura completarla il prima possibile.

RECENSIONI!
Ringrazio tutte le ragazze che si sermano e che dedicano 5 minuti del loro tempo per lasciarmi una recensione.
Non importa se facciate i complimenti o meno, l'importante è che esponiate la vostra opinione.
Sono del parere che solo con le critiche si possa migliorare.

Detto questo vi saluto.
Un bacio e spero che non vi stanchiate mai di me e delle mie storia.
Vi adoro tutte
-bibersell


 

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Capitolo 13
*** Nuovo inizio: lunedì dopo le vacanze ***


                                                            Lo so che questo ragazzo non centra nulla con la storia, ma non la trovate stupenda questa foto?
E non so perchè, ma secondo me è azzeccata-passatemi il termine- per il capitolo

                                                           


Underground

Nuovo inizio: lunedì dopo le vacanze




Dee's point of view.

Stava là, steso sul letto.
Il suo corpo sarebbe potuto passate per una carcassa morta se non fosse stato per l'addome che si alzava e si abbastanza ad intervalli regolari.
Il braccio dietro la nuca ad accarezzare i capelli. Come se fosse solo e l'unica persona che avrebbe potuto prendersi cura di lui fosse se stesso.

-Dai Justin, alzati. Ti ha dato un’opportunità di lavoro mica ti ha puntato una pistola alle tempie- gli dissi cercando di farlo ragionare. - Perché non capisci che questa é una vera e propria botta di culo? Tutti, qui dentro, avrebbero corso nudi per l'intera Chicago solo per sentirsi dire quello che Annabelle avevo detto a te- continuai.

-Lo so, e le sono grato per questo. Ma non avrebbe potuto chiedermelo qualcun'altro?- chiese sfoderando una faccia da bambino capriccioso.

Mi sedetti sul bordo del letto e lui si portò a sedere.

Parlai con un tono pacato e delicato, al contrario delle miei parole che furono dirette.
-Justin, ma chi offrirebbe un'opportunità di lavoro ad un senzatetto? Lei ti conosce, ha visto l'uomo responsabile che si nasconde dietro quel cappotto logoro e si è fidata di te.-

Lui non disse nulle. Accusò il colpo e la sua mente assorbì quelle parole.
Io continuai. -Su non fare Il bambino che sei cresciuto da un pezzo. Hai ventidue anni, diamine. É ora di sistemarti. Mica é una pensione questa, eh?-. Scherzai nella speranza di veder comparire un sorriso sul quel volto che aveva un'espressione malinconica che non gli si addiceva per niente.

Le sue labbra si stesero in un sorriso forzato. Non mi potevo ritenere soddisfatta, ma era un inizio.

-Non é il momento di scherzare- rispose lui tornando serio e fedele a quell'espressione triste.

-No, hai ragione. Pensa solo che se accetterai e ti farai aiutare potrai mettere da parte qualche soldo. Volendo potresti ritornare dove sei nato e rivedere tua nonna. Sarebbe carino portarle un saluto. Oppure potresti provare a cercarlo. Magari troveresti una solida spalla- gli spiegai cercando di essere il più delicata possibile, ma allo stesso tempo, di fare breccia in quel dannato orgoglio.

-Dee non lo nominate nemmeno. Non voglio avere niente a che fare con quello. Preferirei passare una notte in gabbia in compagnia di una dolce leonessa affamata che cercare aiuto da lui.- rispose facendosi prendere dalla rabbia.
Il viso aveva acquistato colore e le mani erano chiuse a pugno lungo i fianchi.

-Va bene, come vuoi. Non lo nominerò più. Però pensaci, okay? Non sprecare la tua unica opportunità. - gli dissi mentre mi alzavo dal letto ed uscivo dalla stanza.

Richiusi la porta alle mie spalle e mi sembrò di sentire la voce di Justin dire: l'ho già fatto. Le ho detto di si.




Annabelle's point of view.


Ero tornata a casa verso le dieci di sera.
I miei erano stesi sul divano mentre guardavano un film alla tv.

Quella mattina, il giorno di Natale, mi ero svegliata presto ed ero scesa in cucina. Avevo trovato i miei genitori nel salotto intenti a parlare a telefono. Molte carte era sparpagliate sul tavolino vicino al camino.

Lavoro.

Con loro era sempre la stessa storia. Non cambiavano mai.
Nemmeno la mattina di Natale.

All'una avevamo pranzato. Un pranzo lunghissimo, come ogni anno. Fatto da discorsi lavorativi, seguiti dall'interessamento al mio rendimento scolastico.
Dopo mangiato ci eravamo riuniti intorno all'albero e avevamo scartato i regali.

Alle sei ero uscita.
Non ce la face più a respirare quell'aria.
E ora li trovavo stesi sul divano mentre guardavano un film natalizio?
Mi sarei aspettata di tutti, anche trovare un biglietto da parte loro in cui si scusavano per non essere a casa ma c'era stato un inconveniente in azienda.

Mia madre si voltò verso di me sorridendomi. -Finalmente sei tornata. Ci stavamo preoccupando. Dove sei stata tutto questo tempo?- aveva chiesto.

-Ho fatto un giro al cento- risposi alzando le spalle.

-Tu sola?- era stato mio padre questa volta a parlare.

-Con amici- mentii mente mi toglievo il cappotto.

I miei avevano annuito per poi riportare la loro attenzione al film.
Già lo avevi visto, il film. Lo davano ogni anno la notte di Natale.
Era uno dei miei preferiti.

Sembravano tranquilli.
Quello era il momento giusto per lanciare la bomba.
Mi avvicinai alle loro figure ed iniziai a parlare con disinvoltura. -Sapete mi chiedevo come andassero le cose in azienda. Sapevo che sareste stati impegnati nel cercare nuovi impiegati-

Fu mia madre a parlare. -Si tesoro, non sai quanto sia stancante. Al giorno d'oggi é difficile trovare persone oneste e competenti-

-Ecco, era proprio di questo che volevo parlarvi- dissi abbassando la testa e prendendo ad osservare le mani.

-Credo che questo sia davvero un miracolo natalizio. Mia figlia che vuole parlare di lavoro- disse mio padre passando un braccio intorno la vita di mia madre e tirandola a sé.

-Si, ci sarebbe questo mio a-amico che avrebbe bisogno di un lavoro e mi chiedevo se gli potreste dare un'opportunità-. Ecco ci ero riuscita.
L'avevo detto.
Mi sembrava quasi irreale.

-Ma certo tesoro. Non appena finiscono le vacanze di Natale, fallo venire in azienda che lo incontro per un colloquio-. Mio padre aveva risposto con tutta calma.

-in realtà speravo che lo assumesse direttamente essendo mio amico-. Avevo ribattuto non mollando.

-Cara, ma non possiamo assumere qualcuno senza nemmeno averci parlato o aver visto il suo curriculum- aveva risposta mio padre con tranquillità. Come se stessimo parlando di come cucinare il tacchino.

-Ecco, questo mio amico non ha nessuna esperienza in campo lavorativo- dissi abbassando nuovamente lo sguardo.

-Annabelle ma.- aveva iniziato a controbattere mio padre, ma mia madre lo aveva fermato.

-Non preoccuparti cara. Fallo venire lunedì in azienda. Vedremo cosa possiamo fare. Ora và a dormire-. Era stata risoluta.

Gli avevo augurato la buonanotte ed ero salita nella mia stanza.


Un'ora dopo, lavata e col pigiama indosso, mi ero stesa nel letto.
Le braccia mi Morfeo mi avevano accolta immediatamente senza darmi il tempo di riflettere su quello che era accaduto in poche ore.

Dal mio incontro con Justin, allo scontro coi miei genitori.

*****
14 giorni dopo...

Dal giorno di Natale erano passate due settimane precise.
Il giorno dopo, il 16 Dicembre avevo parlato con mia madre e lei aveva ribadito che il mio amico avrebbe potuto fare un colloqui di lavoro il primo lunedì dopo le feste.
Stesso quel pomeriggio ero andata alla stazione nella speranza di trovare Justin.
Speranza vana.
Ero andata alla casa di tutti, dove l’avevo trovato.
Avevamo parlato.

Il ricordo di quella conversazione di tormentava da giorni.
Anche adesso si stava impossessando prepotentemente della mia mente.


 

-Ehi, come sati?- gli avevo chiesto per smorzare la tensione che si era creata.
Ci trovavamo in cucina. Dee stava pelando le patate facendo finta di non ascoltare la nostra conversazione.

-Annabelle saltiamo i convenevoli e dimmi perché sei qui?- aveva risposto.

Sembrava arrabbiato. Quasi come se la mia sola presenza gli desse fastidio.
Non lo capivo. Il suo atteggiamento era strano. Non mi meritavo quel comportamento freddo e distaccato.

-Ieri ho parlato con mio padre. Hai detto che se vuoi un posto di lavoro nella sua azienda, dovrai presentarti per un colloquio il primo lunedì dopo le vacanze di Natale. Quindi come puoi vedere, il posto te lo devi guadagnare. Non ti ho raccomandato o cose simili. Ti sto solo mostrando la porta, ora sta a te aprirla e, soprattutto, trovare un modo per farlo- gli avevo risposto il tono placido.

Ma con quelle parole avevo cercato di tirar fuori tutto quello che provavo.
Non capivo davvero perché si stesso comportando in quel modo.

Lui assottigliò lo sguardo e poi parlò. -Per un colloquio..mmh. Forse è meglio se non mi presento proprio-

A quel punto non ce la feci più e parlai. -Senti, ma cos’hai? Non vuoi essere aiutato? Vuoi davvero passare tutta la tua vita e vendere ombrelli e mangiare zuppa di pomodoro? Giuro che non ti capisco. Ti ho detto che io voglio aiutarti. Per i vestiti non c’è problema. Puoi darti una ripulita. Ti aiuterei. Non capisci ch- ma lui mi interruppe con un gesto della mano.

-Perché mi vuoi aiutare? Ti faccio pena? No, grazie. Non voglio la tua compassione- rispose alzando la voce.

-Justin, ma non lo capisci, davvero? Io ti conosco. Ho conosciuto la persona che sei veramente e ti meriti tutto l’aiuto del mondo se questo servirà a tirarti fuori da qui. Perché non mi piace pensarti un questo posto freddo mentre io dormo in un bel letto caldo. Perché non mi piace vederti rabbrividire. Perché vorrei che avessi quegli spiccioli nelle tasche per comprarti tutti i dolci che vorrai la notte di Natale. Perché, perché i-io ci tengo a te. E perché non c’è un perché. I-io lo voglio fare per t-te- conclusi portandomi una mano alla testa e sbuffando sonoramente.

Justin non disse nulla. Mi guardava immobile. Sembrava congelato. E lo sguardo, era qualcosa di spaventoso. Non sembrava vivo. Quasi vitreo.

-Io me ne vado. Quello che dovevo dirti te l’ho detto. Arrivederci Dee.- Presi la borsa ed uscii.

Qualche minuto dopo, quando ero fuori e intenta ad incamminarmi verso casa, sentii una mano prendermi il polso e bloccarmi.
Non mi ero voltata.
Ero rimasta immobile, pietrificata.
Avevo sentito dei passi poi un petto toccarmi la schiena. La presa sul polso si era alleggerita mentre sentivo un’altra mano circondarmi il bacino.

-Scusa- mi disse all’orecchio, quasi come se fosse un segreto. Come quando i bambini devono confessare qualche marachella che hanno combinato.
Io non risposi.

Si era allontanato di qualche centimetro, ma la mia schiena toccava ancora il suo petto.

-Non volevo farti arrabbiare. Mi dispiace. Non so cosa mi sia preso. Non sai quante volte, in questi anni,  ho provato a cercare un lavoro e non sai quanti colloqui ho fatto, ma mi dicevano tutti la stessa cosa: "Lei non può lavorare adesso, in queste condizioni, per noi. Ci dispiace".
Mi sbattevano una porta in faccia e se ne andavano. E ogni volta mi chiedevo sempre la stessa cosa: se nessuno mi da un’opportunità, come faccio a sistemarmi i trovare un lavoro decente?
Così ho iniziato ad andare alla stazione.
Ho mollato.
Ho rinunciato.
Mi sono arreso.
Mi sono lasciato trasportare dalla corrente.
Questo non è vivere, ma sopravvivere.
E p-poi sei arrivata tu e la tua proposta.
Non sopporterei di sentirmi dire di nuovo le stesse cose. Di essere osservato con quello sguardo disgustato e derisorio. Non da tuo padre.- disse a voce bassa.

Io mi voltai e lo vidi in tutta la sua fragilità. Era proprio come un bambino.
Gli accarezzai una guancia.
Riportai immediatamente la mano in tasca e parlai. -Questa volta non andrà così se ti lascerai aiutare da me. Mi padre, al colloquio vedrà il tuo vero essere se mi permetterai di levarti di dosso questi panni e se ne accetterai di nuovi-.
Lo sguardo era basso.

In quel momento quella a sentirsi in imbarazzo ero io e non lui.
Justin rimase in silenzio per qualche secondo, forse minuto.

Poi sorrise e disse semplicemente. -Hai detto il primo lunedì dopo le vacanze, no?-


 
Dopo quel 26 di Dicembre non ci eravamo più visti. Ero andata alla stazione qualche volte, ma non l’avevo mai incontrato. La maggior parte del tempo l'avevo trascorsa in casa a studiare per il compito di latino.
Uno dei più importanti. Domani sarebbe ricominciata la scuola e sarebbero finite definitivamente le vacanze di Natale. Mancava poco a quel famoso lunedì in cui tutto sarebbe cambiato.
Mancavano ancora quattro giorni.
Domani era venerdì.
Poi sarebbe venuto sabato seguito dalla domenica.

Mancava poco.





CHIARIMENTI!
Okay, in questo capitolo ho ripetuto più volte il concetto dei vestiti. In sontanza tutti giudicano Justin dall'apparenza. E' vestito come uno straccione, non ha una casa e tanto meno un lavoro, risultato un fallito della società.
Annabelle gli propone di fare un cambio d'abito, se così possiamo definirlo. La cosa vi sembrerà frivola e senza senso o una frivolezza. Ma non lo è affatto. Ho valuto ribbadirlo più volte nel capitolo proprio perchè al giorno d'oggi si tende troppo a giudicare dalle apparenzesenza cononoscere nemmeno la persona. Ma un libro non si giudica dalla copertina e tantomeno l'abito non fa il monaco, no?
Un justin, senza tetto può valere molto di più di un giovane ragazzo proveniente da una buona famiglia.

Passando alla storia, all'inizio del capitolo viene nominato un LUI, chi sarà mai?
Siete curiose? Secondo voi chi potrebbe essere?

Spero che il capitolo vi sia piaciuto e ringrazio tutte quelle che seguono, leggono e recensiscono.
Un bacione
-bibersell

p.s. AGGIORNAMENTO! come vedete ho aggiornato prima del previsto, io e i tempi non andiamo d'accordo. Non so ancora quando pubblicherò il prossimo capitolo. Baci baci e alla prossima
:)


Quasi dimenticavo. Ecco una gif di Justin. Salutate!


 

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