And now, what?

di mysterious
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Parte prima ***
Capitolo 2: *** Parte seconda ***
Capitolo 3: *** Parte terza ***
Capitolo 4: *** Parte quarta ***
Capitolo 5: *** Parte quinta ***
Capitolo 6: *** Parte sesta ***
Capitolo 7: *** Parte settima ***



Capitolo 1
*** Parte prima ***


PARTE PRIMA


Da quando ho messo la parola fine sul caso Red John, tutti non hanno fatto che chiedermi come mi senta.
Ho cercato di glissare la domanda, abbozzando un sorriso che capivo non essere la reazione che gli altri si sarebbero aspettati. Il fatto è che... sinceramente... non so come mi sento.
Mi sono rintanato in una camera d'albergo e ho gettato via il cellulare. Nessuno sa dove sono. Voglio passare un po' di tempo con me stesso.
La testa fa ancora confusione tra il “prima” e l'“adesso”: ogni volta che mi ridesto da qualche raro momento di torpore, per un attimo sono ancora il Patrick che attende pazientemente la sua vendetta, che vive per sistemare, uno dopo l'altro, tutti i tasselli di quel puzzle che gli consentirà di dare un volto a Red John; ma, l'istante successivo, realizzo improvvisamente che due giorni fa ho finalmente terminato quel puzzle, ho incastrato l'ultima tessera e... ho potuto guardare negli occhi il mio nemico.
Poi ho dato sfogo alla mia rabbia: Red John è morto... con una sola mano aperta, ho spazzato via le fatiche e gli sforzi di dieci anni e ho mandato il puzzle di nuovo in mille pezzi: ora devo soltanto riuscire a frantumare anche dentro di me l'immagine di quel mostro, a disperdere disordinatamente negli infiniti cassetti della memoria i tratti del suo volto, ma questa sarà la parte più difficile.
Probabilmente impossibile.
Non so come mi sento.
Felice? No. Non si può essere felici quando capisci che non potrai riavere ciò che hai perso, pur avendo ottenuto la tua vendetta.
Svuotato? Non renderebbe l'idea di quel turbinio di pensieri che affollano la mia mente senza posa. E' come se non riuscissi a smettere di pensare. Non riesco a rilassarmi, a staccare la spina, a trovare quella pace in cui speravo.
Forse... l'aggettivo più giusto per esprimere come mi sento è... “solo”. Sì, solo.
Si stenta a credere quanto il desiderio di vendetta e l'odio possano riempire la vita. Erano diventati i miei inseparabili compagni ed ora... all'improvviso... è come se avessi perso tutto, ancora una volta.
E' assurdo, lo so, continuo a ripetermi che non è razionale, ma non riesco a non sentirmi così.
Mi sovviene l'immagine di Charlotte, della Charlotte adolescente, quella che aveva “trascorso un po' di tempo con me”, quando ero sotto gli effetti della Belladonna.
Ora mi rendo conto che era il mio subconscio a parlare attraverso di lei, quando mi rimproverava l'eccessivo ardore con cui cercavo il suo assassino, quando cercava di farmi capire quanto poco interessasse la sorte di Red John a lei e a sua madre: “... noi siamo morte...” aveva detto, “... non lo fai per noi”.
Aveva... avevo ragione.
Con la pretesa convinzione di farlo per loro, lo facevo soprattutto per me. Per cancellare quel senso di colpa che mi sentivo dentro per aver causato la loro morte, per aver giocato col fuoco ed aver scatenato un incendio, per aver anche soltanto pensato di poter dare una vita felice alla mia famiglia sfruttando l'ingenuità del prossimo ed interpretando in TV il ruolo del saccente arrogante. Era chiaro che la morte di Red John non avrebbe cancellato nulla di ciò che era stato...

Ma come si può chiedere perdono a chi non c'è più...?
 

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Capitolo 2
*** Parte seconda ***


E' trascorsa una settimana da quando ho preso in affitto questa camera d'albergo nella periferia di Sacramento. Non ho mangiato quasi nulla, non mi sono mai rasato e indosso sempre gli stessi vestiti.

L'uomo che vedo riflesso nello specchio del bagno non sono io, non voglio neppure guardarlo. Con un pugno violento lo infrango.

Il sangue sgorga copioso dalla ferita che mi sono procurato e tinge di rosso il lavabo. Un insopprimibile senso di nausea mi costringe a vomitare nel water.

 

Come ti stai riducendo, Patrick Jane...

 

Mi lascio scivolare lentamente lungo la parete del bagno e mi ritrovo rannicchiato, la testa affondata tra le braccia, i gomiti sulle ginocchia...

E d'un tratto inizio a piangere, in silenzio, di un pianto che non riesco a controllare, come non si può fare con un'ondata di piena.

Non mi succedeva da molto tempo.

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Capitolo 3
*** Parte terza ***


Non so quanto tempo sono rimasto sul pavimento del bagno. Devo essermi addormentato, perché fuori è quasi buio. Mi costringo a reagire. Trovo la forza di farmi una doccia e di radermi alla meglio, ma non ho neppure un cambio d'abiti. Il sangue continua a scendere lungo le dita: il dorso della mano pulsa, procurandomi un dolore fisico del quale forse avevo bisogno. Devo uscire, procurarmi qualcosa per medicarmi e dei vestiti puliti.

Impiego poco più di mezz'ora e sono di nuovo in albergo.

Ho già disinfettato la ferita e l'ho bendata. Mi sono tolto i vecchi abiti e li ho gettati in un angolo. Indosso quelli nuovi, un paio di jeans e una camicia bianca, le prime cose che ho trovato in un piccolo negozio qui accanto. Le maniche sono lunghe e le arrotolo una o due volte.

Fuori è buio pesto. Accosto le tende e mi lascio sedere sul letto: le gambe incrociate, mi passo inconsapevolmente le mani più volte tra i capelli arruffati.

La confusione dei primi giorni sta gradatamente lasciando il posto ad un senso di inutilità e di vuoto. Se prima pensavo troppo, ora non riesco a concentrarmi su nulla.

Mi stendo, con le mani incrociate sul petto, lo sguardo rivolto verso un soffitto un po' scrostato e attraversato da una miriade di crepe sottili, che si insinuano e si incrociano a formare una ragnatela appena percettibile.

Chiudo gli occhi e... senza rendermene conto... scivolo nel sonno.

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Capitolo 4
*** Parte quarta ***


I raggi di sole che penetrano attraverso le trame delle tende tirate mi svegliano quando ormai è giorno fatto. Sbadiglio e mi sgranchisco le braccia tendendole verso l'alto, le mani chiuse a pugno. Dovrei alzarmi, ma il non avere uno scopo, un qualsiasi impegno, mi rende pigro e svogliato.

Incrocio le mani dietro la testa, restando sdraiato sul letto, e mi ritrovo a guardare quello stesso intrico di venature del soffitto che la sera precedente, quasi avesse un effetto ipnotico, mi aveva conciliato il sonno.

La sveglia segna le 11.40, ma non ho fame. Credo di aver perso tre o quattro chili da quando sono qui, non che ne avessi bisogno. Il fatto è che non ho voglia di vedere nessuno, tanto meno di sedermi in qualche locale affollato a mangiare qualcosa. Ho fatto scorta di scatolette e di muffin; mi mancano le uova, però. E anche il resto comincia a scarseggiare.

Prima o poi dovrò decidermi a tornare alla vita. Ma oggi no, non ancora.

Accendo la TV e faccio zapping. Le stazioni televisive americane sono oltre milleduecento: forse il “salto” da un canale all'altro dovrebbe essere promosso a sport nazionale!

Documentari e messaggi promozionali la fanno da padrone. Cogliere all'improvviso il nome di “Red John” mi fa trasalire. Mi fermo sulla CNN. Evidentemente, la morte del noto serial killer fa ancora notizia. Nello studio televisivo stanno ripercorrendo le fasi dell'operazione che ha portato alla sua individuazione. Il mio nome viene citato insieme con quello dei membri della squadra del CBI che ha portato ufficialmente a termine il caso. Sentire il nome di Lisbon mi procura un leggero brivido lungo la schiena, al quale preferisco non attribuire alcun significato.

Mentre alle spalle del giornalista scorrono le foto di ***, il mio cuore batte all'impazzata. L'istinto mi suggerirebbe di scagliare il telecomando contro lo schermo, ma... ho già fracassato uno specchio e non è il caso di insistere!

Forse è meglio spegnere. Non possono dir nulla che io già non sappia, anzi...

Toc-toc.

La porta. Chi può essere? Mi alzo controvoglia dal letto, passandomi rappidamente una mano tra i capelli ed entrambe sulla camicia un po' spiegazzata, per rendermi quanto meno presentabile. Scalzo, mi dirigo verso la porta.

Toc-toc.

Guardo attraverso lo spioncino. E' … il portiere dell'albergo. Mi chiedo che diavolo voglia, mentre in silenzio, ad occhi chiusi e crollando il capo, rimprovero a me stesso quel leggero ma insinuante senso di delusione che mi rendo conto di provare.

Apro la porta di pochi centimetri, abbastanza da non sembrare scortese, ma non tanto da permettergli di entrare.

“...giorno, Mr. Jane”, esordisce. “Mi... mi dispiace disturbarla, ma...”

Non fa in tempo a terminare la frase, che la porta, colpita con una certa forza si spalanca prima che io possa rendermi conto di ciò che sta accadendo. Indietreggiando per la sorpresa e per non essere colpito dal battente, incespico nello scendiletto e cado, urtando la testa contro il comodino. Le immagini si fanno indistinte... voci lontane e confuse... ci sono più persone in camera... sento chiamare il mio nome, ma non riesco a distinguere, a capire...

Poi, il buio...

 

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Capitolo 5
*** Parte quinta ***


 (P.o.v. Lisbon)

 

Decisamente, Cho è stato troppo irruento, visti i risultati...

D'altra parte, temevo che, se Jane ci avesse notato fuori della porta, non avrebbe neppure aperto, oppure avrebbe richiuso subito, senza darci la possibilità di entrare. Per questo abbiamo chiesto al portiere di precederci e di porsi in bella vista dinanzi allo spioncino, mentre io e Cho ci siamo tenuti nella zona “cieca”, in attesa che Jane venisse ad aprire.

La spinta che Cho ha dato al battente deve averlo colto di sorpresa. Di certo, non si aspettava la nostra visita. Probabilmente, non se ne aspettava alcuna.

Mi affaccio sulla porta in tempo per vederlo battere la testa sul bordo del comodino:

“Jane!”, urlo precipitandomi verso di lui, ma realizzo immediatamente che dovrò attendere un po' per ottenere una risposta articolata!

Dopo un rapido controllo per verificare l'entità del danno, mi rivolgo al portiere:

“Non è nulla. Se la caverà con un bernoccolo e un leggero cerchio alla testa! Vada pure...”, aggiungo “... ci pensiamo noi, ora, grazie!”

Alquanto perplesso, l'uomo chiude la porta dietro di sé, lasciando me e Cho a prenderci cura del suo cliente.

Lo issiamo sul letto, che sembra disfatto da giorni, e probabilmente non sono lontana dal vero.

La stanza è molto piccola e semplice, come possono esserlo quelle dei piccoli alberghi di periferia. Niente fronzoli o arredamento in eccesso. Alle pareti, neppure una stampa. Le tende sono ancora tirate, ma le lascio così. Tutto ciò che volevo vedere è qui davanti a me, e non ho bisogno di altra luce.

Vorrei sedermi accanto a Jane, ma la presenza di Cho mi induce a mantenere un atteggiamento più “professionale”, per cui resto lì, in piedi, le braccia incrociate sul petto, a guardarlo un po' di sottecchi mentre sembra dormire il sonno innocente di un bambino. La rasatura non è perfetta e i capelli sono arruffati, ma, non so perché, trovo che il suo fascino ci guadagni.

I minuti sembrano eterni.

E' Cho a rompere il silenzio: “Se qui non ci sono problemi, io andrei.”

E' chiaro che lo fa per lasciarci soli. Lui è così: sa sempre che cosa fare e quando.

“Sì, certo, Cho. Vai pure, se hai da fare”, dico, assumendo un tono di voce quanto più apatico, sperando di riuscire a dissimulare il sollievo che la sua decisione mi sta procurando.

Saluta con un semplice cenno e con un cenno identico gli rispondo, ma giurerei di cogliere sul suo volto, mentre esce, un abbozzo di... sorrisetto compiaciuto.

Ora siamo soli, io e Jane. Non ho più motivo di perseverare nel mio ruolo di “agente-severa-e-tutta-d'un-pezzo”: mi levo la giacca e gli stivaletti e mi siedo all'indiana sul letto, al suo fianco, in attesa che riprenda i sensi.

Ha cambiato look. E' la prima volta che lo vedo in jeans e camicia e, a dire il vero, spero non sia l'ultima! Faccio scivolare lo sguardo su di lui e noto la fasciatura alla mano... che avrà combinato? Non posso lasciarlo solo un attimo che subito ne combina una delle sue!

E poi... sparire così, da un giorno all'altro, senza dir nulla... neppure a me. E' stato chiaro fin dal primo momento dopo la morte di Red John che avrebbe avuto bisogno d'aiuto: anziché sentirsi liberato da un fardello pesante, è apparso subito come stranito, disorientato, quasi più angosciato di prima. Quando l'ho visto indietreggiare davanti al cadavere del suo nemico, con quello sguardo tra il disgustato e lo smarrito, ho capito che il suo dramma non era ancora terminato. Avrebbe dovuto parlarne con qualcuno, confidare le sue emozioni... ma lui no, lui non vuole mai appoggiarsi a nessuno, deve sempre affrontare tutto da solo .. Che testa dura! Sono sicura che il danno maggiore se lo sia procurato il comodino, poco fa!

“Uhmm...”

Jane sta rinvenendo. Mi chiedo che reazione avrà, vedendomi.

 

 

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Capitolo 6
*** Parte sesta ***


(P.o.v. Jane)

 

Una fitta lancinante alla nuca, alla quale istintivamente porto la mano fasciata, mi suggerisce che questo non è sicuramente il mio periodo fortunato.
Ad occhi ancora chiusi, esploro con le dita la parte ammaccata. Niente escoriazioni, solo un discreto gonfiore, per il quale basterà un po' di ghiaccio.
D'un tratto, realizzo quant'era successo: ricordo la porta che si spalancava, la mia caduta all'indietro, le voci e le sagome annebbiate di qualcuno che entrava... e spalanco gli occhi.

“Hey, Jane. Bentornato!”

Metto a fuoco l'immagine china su di me: “Lisbon...”

Faccio per mettermi a sedere sul letto, ma è come se la mia testa pesasse una tonnellata. La lascio ricadere sul cuscino, strizzando gli occhi in una smorfia di dolore. La stanza è in penombra, ma la poca luce che filtra mi procura già fastidio. Con il dorso di una mano poggiato sulla fronte a guisa di schermo, articolo qualche parola: “Come avete fatto a...”. Ma non termino la domanda. Improvvisamente, la risposta mi appare chiara come il sole, per cui continuo, sorridendo mestamente per l'errore commesso il giorno prima: “I vestiti... la carta di credito, vero?”
Lo sguardo sottilmente divertito di Lisbon è una conferma più che sufficiente.
“Ok, in fondo ero solo un consulente, non un agente addestrato.”
“Perché dici ero?”, fa lei. “Nessuno ti ha licenziato, finora, anche se il tuo comportamento meriterebbe di peggio!”
Lo dice con un tono indispettito. Capisco che ha preso la faccenda molto sul personale.
“Lisbon... ascolta... “ Un po' a fatica, mi volto su un fianco e sollevo un po' il busto appoggiandomi su un gomito. I nostri volti, ora, sono più vicini e lei sembra sentirsi a disagio.
“Senti, Jane”, mi anticipa con quel tono da maestrina severa che adotta ogni volta che deve redarguirmi per qualcosa: “Non cominciare a propinarmi le tue solite spiegazioni, del tipo Non volevo coinvolgerti oppure Dovevo riflettere o Volevo starmene un po' da solo... Sono stanca di questo atteggiamento: ogni volta che qualcuno sta per tenderti una mano, tu lo eviti e sparisci. Come credi che ci sentiamo noi? Giù al dipartimento ci siamo preoccupati tutti appena ci siamo resi conto che avevi fatto perdere le tue tracce. Abbiamo pensato al peggio, abbiamo allertato ospedali, pattuglie... abbiamo provato a chiamarti milioni di volte... Perché, Jane?”
“Ho gettato il cellulare... non volevo essere rintracciato. Van Pelt sa fare miracoli con il suo computer e io... non volevo darle la possibilità di seguire i miei movimenti. So che non vuoi sentirtelo dire, ma... davvero, Lisbon... avevo bisogno di restare solo.”
Mi guarda con aria di rimprovero. Sembra sul punto di dire qualcosa, ma le sue labbra restano dischiuse senza emettere alcun suono. Con un sospiro crolla il capo, cerca dentro di sé il coraggio di parlare, finché, evitando di guardarmi, tira fuori il suo peso:
“Ricordi la sera in cui convocasti a casa tua i cinque sospetti rimasti? Ti fermasti a guardare il tramonto, dicesti tu: mi imbambolasti con un sacco di ringraziamenti, e frasi gentili, e quell'abbraccio stranamente prolungato, del tutto inatteso da uno come te... Era tutta una messinscena, vero? Una messinscena da bravo mentalista, che sa come prendersi gioco dei sentimenti degli altri, … di me. Non devi aver faticato molto a mettere su un discorso che sapesse toccarmi il cuore, ammettilo. Dev'essere facile con una povera illusa come me. E l'abbraccio?” a quel punto mi rivolge uno sguardo infuocato: “Soltanto un espediente per arrivare al cellulare che portavo in tasca e...”
Le poso un dito sulle labbra per farla tacere.
“Non dire altro, Lisbon. Certo, non posso negare di aver architettato un piano per non coinvolgerti : sai benissimo quali fossero le mie intenzioni, se avessi scoperto l'identità di Red John, e non potevo rischiare che tu fossi accusata di favoreggiamento o, peggio ancora, che restassi ferita. Tuttavia... avrei potuto ingannarti in un sacco di altri modi, pensaci. Se ho agito così è perché non volevo ferirti più di quanto fosse necessario e l'unica maniera possibile per non lasciarti furiosa sul bordo della strada era confessarti qualcosa che sentivo... che sento veramente. Ho impiegato un attimo a rubarti il cellulare... avrei potuto sciogliere quell'abbraccio immediatamente, come altre volte, ma non l'ho fatto...”

Lei mi scruta per alcuni, interminabili istanti, tentando di capire se sto dicendo o meno la verità. Sta pensando che vorrebbe tanto possedere il mio stesso dono, ma sa che le toccherà fare affidamento solo sul suo istinto.

“Lisbon... te lo giuro... tu rappresenti davvero molto per me. Come potrebbe essere altrimenti? Mi sei sempre stata accanto, hai coperto i miei passi falsi, hai giustificato con i tuoi superiori il mio modus operandi poco ortodosso; sei l'unica alla quale abbia confessato certi episodi della mia vita di cui non vado particolarmente fiero... insomma, ci sei sempre stata. ”
“Sì, certo. Quando ti faceva comodo per pararti...” e con uno sbuffo ruota il capo dall'altra parte, per non spingersi oltre. “Non è così che credevo si sarebbe evoluta la nostra... amicizia, nel momento in cui tutto fosse finalmente finito.”
Le costa molto ammetterlo... Forse, mentre lo dice, è già pentita di averlo fatto. Da tempo so che la sua amicizia per me si è trasformata in qualcosa di più profondo – e d'altronde mentirei a me stesso se non riconoscessi che anch'io non guardo più a lei come ad una semplice, per quanto cara, amica – ma io non... non riesco a dare questa svolta alla mia vita.
“Lisbon... hai mai perso qualcuno per il quale ritieni di non aver fatto tutto quello che potevi... che dovevi?”
“No”, risponde continuando ad evitare il mio sguardo.
Ma sta già iniziando a capire dove intendo arrivare, perché, fissando d'un tratto i suoi occhi nei miei, aggiunge sommessamente: “Jane, non puoi restare ancorato in un porto che non esiste più. Hai avuto la tua vendetta, hai dato un volto all'assassino di tua moglie e di tua figlia, hai dedicato alla tua famiglia undici anni della tua vita... della tua vita, capisci? Quanti, al posto tuo, l'avrebbero fatto? Quante sono state le vittime di Red John? Quanti dei loro congiunti o parenti o compagni hanno fatto la tua stessa scelta? quanti hanno votato la propria esistenza ad una causa che sembrava persa in partenza? Se qualcosa o qualcuno lassù esiste, sa che non potevi fare di più. Per quanto tempo ancora continuerai a tormentarti?”+Si accorge che le sue parole hanno colpito nel segno: “Scrivi la parola “fine”, Jane. Torna a vivere. Loro non vorrebbero vederti così.”
Ma io non la ascolto più. Ho rimesso la testa sul cuscino e mi sono voltato verso la finestra. Le tende ancora tirate fanno da schermo alle immagini in movimento di una bambina bionda seduta al pianoforte, e di una donna bellissima, vestita di bianco, che mi abbraccia ridendo, mentre insieme ascoltiamo la melodia insicura che quelle piccole dita compongono danzando sui tasti.

Ti piace, papà?”
Non è bravissima, Patrick?”

Voci che si perdono nel tempo, che riaffiorano alla mia memoria come un'eco fievole, rimbalzata già più volte tra le vette dei monti...
Chiudo gli occhi e una lacrima scende lungo lo zigomo fino ad assorbirsi nel cuscino. Scrivi la parola fine, ha detto Lisbon, loro non vorrebbero vederti così... ma allora perché ho continuamente l'impressione di tradirle, anche solo pensando alla possibilità di ricostruirmi una vita, una nuova famiglia? Potrò mai liberarmi da questo insopprimibile senso di colpa?

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Capitolo 7
*** Parte settima ***


(p.o.v. Jane)

 

Un groppo in gola mi impedisce di parlare e non voglio farmi vedere così da Lisbon. Dandole le spalle, mi alzo dal letto e mi dirigo con falsa indifferenza verso la finestra. Con una mano scosto le tende e cerco all'esterno qualsiasi cosa che possa distrarmi: un'auto, un passante, un cartellone pubblicitario...Ma non ne ho il tempo. Una mano mi afferra dolcemente il mento e mi costringe a voltarmi.
Scalza, Lisbon mi era arrivata da dietro senza fare rumore.
“Jane... è finita. Non è colpa tua se Red John uccise la tua famiglia: ho ascoltato mille volte la dichiarazione che tu facesti su di lui quella sera in TV... non c'è nulla che potesse giustificare un simile gesto. Era una mente malata, Jane. Nessuno avrebbe potuto prevedere una reazione di quel genere. Ma ora è finita, per sempre. Hai finalmente vendicato tua moglie e Charlotte. Lasciale andare. Loro sono in pace, Jane, e anche tu, francamente, ti meriti una tregua.”

Resto lì, in silenzio, le mani nelle tasche dei jeans, lo sguardo di nuovo perso nel vuoto, oltre quei vetri un po' sporchi, un po' appannati dal mio respiro caldo.

“Forse ho sbagliato a venire qui”, prorompe Lisbon, ruotando su se stessa e dirigendosi con ritrovata determinazione verso il letto. Seguo in silenzio i suoi movimenti mentre nervosamente indossa gli stivaletti; noto la tensione nei suoi gesti, il disagio misto a rabbia e delusione nella sua voce. Ha fretta di andar via, la fretta di chi ha fallito un tentativo e non vuole restare a considerarne gli effetti.
“Forse sono stata egoista”, aggiunge. “Ho pensato a me stessa prima che a te. Dovevo aspettare, capire che, se e quando fossi stato pronto, saresti riapparso tu dal nulla. E' solo che...” esita un secondo di troppo “... temevo che non ti avrei più rivisto e... non riuscivo a sopportarlo ... perdonami.”
Quando afferra la giacca e si volta verso la porta, “Lisbon...” – la chiamo – “...resta, ti prego.”

 

 

(p.o.v. Lisbon)

 

“Sei... sicuro?”, gli chiedo.
“Come mai prima d'ora.”
Si allontana dalla finestra e viene a sedersi sul bordo del letto, dove, con qualche tentennamento, lo raggiungo, sedendomi accanto a lui. Dal primo giorno in cui lo incontrai, nuove rughe sono spuntate sul suo volto, ma il suo fascino non ne ha affatto risentito. Semmai, il contrario. L'ho conosciuto poco più che trentaquattrenne ed ora è uno splendido quarantacinquenne con nulla da invidiare a tanti più giovani di lui. Lo guardo mentre, chino, i gomiti sulle ginocchia e le mani incrociate tra le gambe leggermente divaricate, sembra voler radunare i suoi pensieri. Infine, restando così, inizia a parlare:

“Il giorno in cui conobbi Angela, mia moglie, per me non fu soltanto l'inizio di una storia d'amore. Fu l'inizio di una nuova vita, che in breve mi permise di lasciarmi alle spalle un'infanzia e un'adolescenza tormentate, piene di episodi da dimenticare. Con l'arrivo di Charlotte, poi, ritenevo davvero di aver toccato il cielo con un dito. Non potevo credere che tutta quella felicità fosse toccata a me, a me, che in fondo ero soltanto un ignobile manipolatore di menti, un profittatore di persone ingenue o bisognose di aggrapparsi a qualcosa che non c'è. Quando Red John me le ha portate via, per me è stata davvero la fine di tutto... non so se riesco a farti capire... come se la terra si fosse aperta sotto i miei piedi senza lasciarmi un appiglio a cui aggrapparmi, come una caduta libera in un baratro di cui non si vede la fine.”

“Jane, lo capisco. Non devi giustificarti. E io non dovevo venire a...”

Ma lui continua, senza badare alle mie parole.

“Quando ti ho conosciuta, quel giorno al dipartimento, ero da poco uscito da un istituto di igiene mentale. La dottoressa Miller aveva detto che ero pronto a tornare ad una vita normale... normale... come se fosse possibile! Per alcuni giorni mi comportai come ho fatto in quest'ultima settimana. Rifiutando l'idea di tornare nella casa dove... beh, lo sai... presi in affitto una camera in un motel di Malibù e, quando la custode ebbe chiuso la porta dietro di sé lasciandomi solo, in quell'istante realizzai che non avevo più nulla: casa, moglie, figlia, lavoro... tutto era come svanito, polverizzato, spazzato via in un attimo da un turbine di vento. Non nego di aver pensato di farla finita, ma c'era una cosa che mi premeva più che morire: farla pagare a chi mi aveva fatto questo. Ho fatto di tutto per poter accedere ai vostri incartamenti, persino farmi dare un pugno – ricordi? – per costringervi, sentendovi in debito, ad offrirmi qualcosa in cambio: la possibilità di esaminare la documentazione su Red John. Il resto è una storia che tu conosci fin troppo bene. Sono rimasto con la tua squadra per dieci lunghi anni, finché ho raggiunto il mio obiettivo.”

“Quindi siamo stati solo questo, per, te, Jane? Un mezzo per perseguire un fine?”

“No, non dico questo. Ma io dovevo raggiungere il mio scopo.”
“Ed ora che l'hai raggiunto... è cambiato qualcosa, Jane?”
“Sì... e no. Sì, perché ho vendicato mia moglie e mia figlia – insieme con tutte le altre vittime del serial killer – e no, perché non riesco a lasciarmi tutto alle spalle, come pensavo di poter fare.”
Si passa le mani tra i capelli, dalla fronte verso la nuca, restando chino, ripiegato su se stesso.
“Capisco”, dico io, “dev'essere difficile, ma...”
“... ma devo andare avanti, lo so, Teresa”, mi interrompe.
Sentirlo pronunciare il mio nome al posto del solito “Lisbon” mi procura un brivido lungo la schiena. Non erano state molte, in quegli anni, le occasioni in cui mi aveva chiamata così e in una di quelle era sotto l'effetto della Belladonna, per cui ho sempre pensato che... non valesse!
“Se dovessi rifarmi una vita, Teresa, sarebbe con te, e tu lo sai. Inutile girarci intorno. Che mentalista sarei se non mi fossi accorto, ormai da anni, di quello che provi?”
Se... dovessi rifarti una vita, Jane? Perché, hai forse intenzione di restare qui a piangerti addosso per il resto dei tuoi anni? Credi che tua moglie e tua figlia sarebbero contente di vederti ridotto così?”
“Io... non lo so... non riesco a vedere le cose lucidamente.” Si lascia ricadere di schiena sul letto, le mani incrociate dietro la nuca. “Quando “giocavo” a fare il sensitivo, in un caso del genere avrei assunto un'espressione assorta e, in cambio di un generoso assegno, avrei semplicemente detto al mio cliente che la sua defunta moglie gli stava dando il suo consenso attraverso di me... Sposatevi e siate felici, avrei concluso, mettendo l'assegno nel taschino! Ma ora che in quella situazione ci sono io...?”
Mi stendo anch'io sul letto, di schiena, al suo fianco. Entrambi guardiamo il soffitto.
“Sai, Jane...” gli dico, “se c'è una cosa che ho imparato in tutti questi anni, lavorando a stretto contatto con te, è a fare la mentalista!”
Mi volto verso di lui e lo vedo sorridere. Era come se il sole fosse improvvisamente entrato a rischiarare la stanza!
“Lisbon, tu non sei mai stata capace di leggere neppure la mente di un topolino preso in trappola!”
“Questo lo pensi tu! Ho avuto un ottimo maestro. Quindi, ora, te ne darò dimostrazione. Guardami e stammi a sentire!”
Senza perdere il sorriso, si volta verso di me, in attesa della mia performance.

“Mr. Jane. Lei è un uomo che è stato messo a dura prova dalla vita”, inizio con una voce bassa e suadente, entrando nel mio nuovo ruolo di “sensitiva”. “Quella ruga che dalla radice del suo naso sale verso la fronte è segno di concentrazione, ma anche di risentimento e di rabbia (l'avevo letto su qualche rivista femminile!)...”
Lui chiude gli occhi, scuotendo il capo; il suo sorriso si allarga, divertito, mentre io continuo:
“Ma io vedo anche che lei ha... dei bellissimi denti e due bellissime labbra e due bellissimi occhi e... qualcuno, di lassù, mi sta dicendo che è un vero peccato sprecare tutto questo!”
Jane apre gli occhi, mi rivolge uno sguardo vagamente interrogativo...
“Charlotte mi trovava simpatica... me lo raccontasti tu, quando la Belladonna ebbe cessato di fare effetto...”

Temo di aver esagerato. Avrei dovuto starmene zitta.
“Scusa, Jane...”
Ma lui ruota sul fianco, poggia la testa su una mano e con l'altra, quella bendata, mi cinge alla vita e mi avvicina a sé.
“Che cosa... hai fatto alla mano?”, dico, sperando di mascherare in qualche modo il mio turbamento.
“Non ha alcuna importanza, adesso...”
E passandomi la mano dietro il collo, avvicina le mie labbra alle sue, le sue alle mie e...
… E per un attimo è come se al mondo esistessimo solo io e lui. Quella stanza angusta e in disordine diventa un paradiso e i rumori in sottofondo che giungono dalla strada sono suoni di arpe e di sistri. Ci fondiamo in un bacio che un'attesa di anni trasforma in una passione dolce e sconvolgente nello stesso tempo... Ci abbracciamo e ci stringiamo come non vedevo l'ora accadesse. Senza staccare le labbra, ci leviamo i vestiti e, per la prima volta, assaporiamo il contatto dei nostri corpi. I suoi muscoli fremono ed io mi abbandono totalmente a sensazioni che mi travolgono, lasciandomi senza respiro.
La notte ci coglie spossati, ma felici. Restiamo per ore abbracciati, in silenzio, perché ogni parola sarebbe superflua, ogni commento inutile. Credo si sia addormentato: alla fioca luce della lampada, la testa appoggiata sul cuscino, scivolo con lo sguardo sul suo profilo, mi soffermo sui suoi lineamenti senza tralasciare alcun particolare e mi chiedo come avessi potuto resistere fino ad ora. Vorrei svegliarlo e baciarlo ancora e ancora, ma è così sereno che non oso neppure sfiorarlo.

 

(p.o.v.. Jane)

 

Lei crede che stia dormendo. Sento il suo sguardo su di me e, in un certo senso, ne sono lusingato.
Da molto tempo non mi sentivo così: avevo soffocato l'uomo che è dentro di me per trasformarmi in un cacciatore implacabile. Ma ora è davvero un capitolo chiuso. Forse Teresa non lo saprà mai, ma a convincermi è stato proprio il ricordo di Charlotte, quando, seduta sull'ambulanza, accanto a me, vedendo Lisbon aveva esclamato “Simpatica!”, chiedendomi poi, con l'innocenza tipica delle adolescenti, se tra me e lei ci fosse del tenero. Sì, lo so, probabilmente quella era solo una proiezione di Charlotte prodotta dalla mia mente drogata, ma... per una volta almeno, voglio credere che there's such things as psychics e tornare alla vita.

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