Crimson Heart

di Ceci Princessofbooks
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Assulae tempi -Schegge di tempo ***
Capitolo 3: *** Cantus vigiliae - La melodia della veglia ***
Capitolo 4: *** Cineracea regina - La principessa grigia ***
Capitolo 5: *** Imbris fletus - Il pianto della pioggia ***



Capitolo 1
*** Prologo ***



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Immagine da DeviantArt, Meredith Dillman


Salve a tutti! Crimson Heart è la mia prima fanfiction su Twilight, ma spero possa soddisfare appassionati e non. Attendo con ansia e piacere i vostri commenti: secondo voi vale la pena continuare? Vale la pena dare una possibilità al parto della mia mente contorta? Grazie a tutti i lettori...


Prologo


Nessuno mi ha mai concesso di avere un'anima.

Il mio costruttore, perché non potrò mai chiamarlo mio padre, si è preoccupato di conferire una certa bellezza ai miei lineamenti: tratti fini, carnagione pallida, un'ombra rosea sulle gote, boccoli color mogano e grandi occhi scuri dalle ciglia folte come lame nere. Mi ha chiamato Isabella, un nome da regina. Ha intrappolato, tra i circuiti che mi animano al posto del cuore, intelligenza e conoscenza, grazie alla tenebrosa sapienza dell'alchimia; ha infuso in me, una macchina dalla crisalide di fanciulla, sensibilità e ragione, e tutti i sentimenti infiniti e sfumati come le variazioni di una melodia di cui sono capaci gli uomini; ma non mi ha mai permesso di usarli davvero, e di lasciarmi trascinare dal loro flusso spaventoso e dolce. Mi ha creata per uno scopo, e uno solo, essere una buona compagna per sua figlia Catherine: una creatura timida e delicata, che io amo come una sorella; ma in cui non brucia alcun fuoco, e che non mi potrà perciò mai comprendere; perchè dentro di me, anche se sono fatta di vapore e porcellana e ingranaggi, c'è una luce, una piccola luce che pulsa e preme, ardendo nei miei pensieri, balenando nelle mie parole come polvere di stelle. E da quando è arrivato Edward, la luce ha premuto più forte.

Fino a quando il giovane pupillo del Maestro non è venuto ad abitare tra le ombre e gli argenti del nostro maniero, non mi ero resa conto di quanto vuota fosse la mia esistenza; quanto le mie giornate, divise tra lo studio e l'assistenza di Catherine, fossero prive di un vero scopo. Io ero nata per diventare una dama di compagnia, un'alleata fidata, mai un'amica. Il Maestro mi insegnava i difficili segreti della sua scienza solo per avere qualcuno con cui discutere, la mia compagna era spesso troppo malata o troppo atterrita dal mondo anche per una semplice passeggiata in giardino. Ma, se non ero felice, non ero neanche tormentata: per me quella vita, senza infanzia, senza profondità, senza un fine era la normalità. Ma nel momento in cui quello straniero mi ha rivolto il suo sguardo, solido e dorato come le gonfie nocciole del parco, è stato come spalancare gli occhi per la prima volta e sentire il mio petto schiudersi ad accogliere tutto il piacere e tutto il dolore dell'uomo. Ricordo tutto, come se fosse inciso nel cristallo: il vento mite d'aprile che gonfiava le tende di cinz bianco, il suono della sua risata, il doppiopetto grigio che fasciava la sua figura snella. Io, in piedi accanto al mio creatore e a sua figlia, indossavo un semplice abito di cotone nero, il colletto alto e candido come i polsini; ricordo addirittura il piccolo cammeo che mi brillava sulla gola, intagliato con un profilo di Atena. Sono dettagli di poco conto, lo so, ma per qualcuno che non possiede altro senso che la vista e l'udito, rappresentano l'unico strumento per richiamare indietro il passato: come altro potrei rievocare le mie memorie, se non sento caldo o freddo, se non posso gustare un sapore, se mi si può solo descrivere una fragranza? Eppure, in quell'incontro per la prima volta conobbi in me il calore: un calore guizzante e vivo e trascinante che mi lasciò ubriacata. Quasi non udii Edward quando si inchinò di fronte a me, sussurrando:-É un piacere conoscerla, Miss Isabella.- Nessuno mi si era mai rivolto con tanta cortesia: nessuno, tranne nelle lezioni del Maestro, si era rivolto a me come ad una persona vera. Piano, senza fretta, si portò la mia mano alle labbra, sfiorandola in un rapido bacio.

Mai ho desiderato così tanto di poter sentire un tocco.

Spiego tutto questo per un motivo molto semplice: perché voglio comprendiate che cosa mi abbia spinto ad agire come mi è accaduto, e perché, nonostante tutto il dolore e la rabbia e la paura che ne sarebbero derivate, non cambierei nulla.

Spiego tutto questo per cominciare a raccontare, e lasciare prova della mia esistenza con una magia più antica e forse più potente dell'alchimia: la magia delle parole.

Questa è la storia di Bella, la bambola meccanica, e del giorno in cui scoprì di avere un cuore.

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Capitolo 2
*** Assulae tempi -Schegge di tempo ***



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Prima pars - Parte prima

Mercurius aut de cogitatione – Mercurio o del pensiero


Assulae tempi – Schegge di tempo


17 settembre 1867


Oggi è una di quelle mattine di Settembre che amo tanto: la luce è una carezza eterea, il cielo e la terra un mosaico di oro e di azzurro. Non appena il Maestro ha caricato la mia chiave, le sfumature delicate del giardino mi hanno salutato con il loro vento di fruscii e sussurri.

Come sempre, ho trascorso le mie prime due ore di veglia a studiare con Mr.Silvergear, nella grande biblioteca di legno scuro: il chiarore dell'alba traluceva dalle alte vetrate istoriate, infrangendosi sul pavimento in un tappeto di scaglie variopinte. La casa era ancora silenziosa, a parte i bisbigli e il lieve scalpiccio delle poche cameriere già sveglie: di fronte a me, seduto sulla massiccia sedia di ontano, il mio creatore leggeva da uno dei volumi poggiati sullo scrittoio, il quinto capitolo della Moderna Alchimia del Fuoco di John Fitzbrigit. Nonostante abbia più di settant'anni, il Maestro conserva l'aspetto di un giovane uomo: capelli corti di un biondo pallidissimo, viso ambrato, una figura eretta e forte sotto la finanziera. La magia l'ha preservato dal tempo, ma non ha potuto impedire ai suoi occhi di invecchiare: il suo sguardo è grigio e antico, pieno d'ombre e di luci da tempo scomparse. Io ero di fronte a lui, e prendevo appunti sul mio largo quaderno di cuoio rosso. Come osservare il mondo, anche dedicarmi allo studio mi preserva dall'amarezza che mi ispira la mia condizione: tutto ciò che mi porta in altri mondi, che mi conduce in luoghi in cui è il mio spirito a contare e non il fatto che la mia pelle sia di porcellana, mi reca piacere. Per questo, mentre la casa è addormentata e la mia carica non si è esaurita, trascorro le ore della notte tra i filari della libreria, immergendomi nelle avventure di Stevenson, di Dickens, delle maschere potenti e insanguinate di Shakespeare. Ma la mia inclinazione per la lettura non oscura quella per le terre di calcoli e limpida ragione dell'Alchimia: anzi, dedicarmi a tracciare un nuovo Disegno, un arabesco per evocare una nuova forza, e vedere il volto del mio maestro accendersi di orgoglio costituisce una delle mie gioie più grandi.

-Molto bene- ha commentato oggi, annuendo -Molto bene. Mi sembra che ormai tu padroneggi piuttosto abilmente la Quarta Evocazione. Domani lavoreremo sulle variazioni. Ma ora vai; non voglio che Cathy si svegli da sola.-

Le due ore sono trascorse in fretta, ed era arrivato il momento di dedicarmi ai miei veri compiti.

Quando scivolai nella camera, Catherine era ancora un gomitolo di lenzuola rannicchiato nel letto a baldacchino, quasi perduto tra i pesanti drappeggi di damasco verde.

Sperando che il mio sorriso fosse abbastanza caldo, mi avviai a passi silenziosi fino alla finestra, e spalancai le tende: una lama di luce gentile guizzò nella camera, rivelando la mia compagna.

Cathy sarebbe assai bella, se la malattia e la paura non la bruciassero: la carnagione è tanto sottile e candida da lasciar intuire le ossa al di sotto, le guance ardono di un rossore malsano, i capelli sono un groviglio selvaggio di riccioli scuri. La camicia da notte, in cui trascorre buona parte del suo tempo, è troppo ampia per il suo fisico minuto, e nasconde la grazia titubante dei suoi gesti. D'istinto, mi avvicinai a lei mentre gemeva nel sonno, ravviandole delicatamente una ciocca: ora, come ogni giorno, l'avrei svegliata piano, le avrei portato il catino dell'acqua e l'avrei aiutata ad acconciare i suoi boccoli in una treccia ordinata. È questo il mio ruolo: essere al tempo stesso una dama di compagnia e una confidente, una cameriera e un'amica. Ma non mi pesano, non davvero. Sono cresciuta insieme a Catherine, se non nel corpo, almeno nello spirito: ricordo ancora che, quando per la prima volta mi sono svegliata, il suo è stato il secondo viso, dopo quello del mio creatore, che io abbia incontrato. E al contrario, sono stata io a farle da madre: sono stata io ad accompagnarla nelle sue esplorazioni in soffitta, a curarle le ginocchia sbucciate, a leggerle le favole prima di dormire. Molti potrebbero dire, e hanno bisbigliato quando pensavano non stessi ascoltando, che ci sia qualcosa di perverso, addirittura di immorale ad affidare una ragazzina ad un'Alba, ad una bambola meccanica. Nonostante siano passati secoli dalla costruzione del primo androide, un corposo numero di uomini e donne continuano a provare un certo disagio, se non vero e proprio disgusto, verso di noi. Altri, e sono i più, ci considerano con l'indulgenza distaccata che riservano ai propri animali: utili, servizievoli, ma certamente incapaci di pensare. E, forse, sono loro a fare più male del disgusto.

Cathy ha mugolato, riparandosi gli occhi con una mano: i suoi occhi, i suoi bellissimi occhi azzurri, erano pozze d'acqua limpida nel mezzo delle occhiaie. Non credo di averla mai vista in piena luce: dai suoi tredici anni, da quando questa malattia misteriosa l'ha colpita, ha sempre rifuggito il sole, ha sempre protetto il suo sguardo e il suo corpo dal pieno bagliore del giorno. Intorno a lei l'ombra sembra danzare, leggera, sempre presente, come un ricordo, o una maledizione. Immersi una mano in quelle ombre, scuotendola con attenzione. -Cat, sono io, Bella. Forza, svegliati: non vorrai far aspettare tuo padre per la colazione, vero?-.

Un altro gemito. -Oh, no, ti prego, Bella. Lasciami riposare. Sono così stanca...-.

Dentro di me, qualcosa guizzò e bruciò. Serrai le labbra e, se avessi potuto, sarei avvampata di indignazione.

Il sangue le pulsa nelle vene, le sue mani possono accarezzare, le sue narici sentire tutti gli odori complessi ed intensi di cui raccontano i romanzi: come può preferire rimanere qui, tra le coperte, in un limbo così simile alla morte?

-Non dire così, Cat. È una bellissima giornata, vedrai che ti sentirai subito più in forze. Coraggio, ti aiuto a vestirti.-

Mi guardò, e fu uno sguardo colmo di un terrore profondo e sordo che, per quanto mi dilani, non posso guarire. -D'accordo, Bella. Se proprio lo ritieni necessario, lo farò.-

L'ho sostenuta mentre si alzava, il corpo magro e fragile come gesso; le ho districato i nodi dei capelli, e le ho fatto indossare l'abito di velluto blu, quello coi polsini di pizzo che suo padre ama tanto, lasciando tra noi il gradevole silenzio di un'intimità antica.

Quando siamo entrate nella luminosa sala da pranzo, i bovindi colmi di luce chiara, il Maestro ha sollevato il viso, e vi ho visto sussultare un lampo di tenerezza e di dolore, come ogni volta che posa gli occhi su sua figlia. -Ah, cara- esclamò, la voce di solito decisa improvvisamente ovattata -che piacere che tu ci abbia raggiunto. Stavo proprio dicendo con Edward che è il tempo perfetto per una passeggiata in giardino.-

Fu solo allora che mi concessi di voltarmi verso l'uomo che ha risvegliato il mio cuore.

Se Cathy somiglia ad uno schizzo a matita, armonioso ma sbiadito, Edward è un dipinto ad olio: intenso, brillante, ricco. Oggi i suoi occhi nocciola scintillavano di intelligenza, le labbra erano rosse e sensuali, i capelli e le basette una zazzera bionda dai riflessi di miele. Portava, sopra la camicia inamidata, un morbido completo di tweed color senape, coordinato con la cravatta di seta azzurra. Come sempre, la sua vista schiuse qualcosa dentro di me, un bagliore forte e fiero che non conosco ancora. -Buongiorno, Maestro- salutai, abbassando il viso -buongiorno, Edward.-

-Buongiorno, Isabella- rispose con un sorriso; si rivolse a Cathy. -Buongiorno, Catherine-.

-Buongiorno- mormorò la mia amica, accasciandosi su una sedia al tavolo coperto d'organza.

Tutti presero posto, cominciando a servirsi delle pietanze fumanti raccolte sulla tovaglia: salsicce, uova strapazzate, latte e tè in bricchi d'argento, piccoli dolci dorati e tempestati di uvetta. Io mi sistemai alla sinistra di Cat, ma il mio piatto restò vuoto: non ho bisogno di cibo, ciò che mi sostiene è la carica nella mia schiena. -Allora, Edward- cominciò il mio creatore -che cosa pensi delle dichiarazioni del Primo Ministro sul Times? Che ne dici dell'impiego bellico degli Albi?-

-Penso che, come ogni uomo, dovrebbero essere loro a decidere. In fondo, li abbiamo creati per essere come uomini alle nostre dipendenze: perciò è solo logico che possano anche compiere le scelte degli uomini...-

L'allievo e il maestro continuarono a parlare, mentre io assistevo Cathy che, coi gesti lenti di una donna immersa nell'acqua, si portava alla bocca i cucchiai di porridge. I suoi occhi vagavano per la sala, perduti in lontananze fredde e nebbiose che non avrebbe potuto descrivermi. Io le raccontavo sottovoce ciò che avevo appreso con suo padre, lo scricciolo che avevo intravisto dalla finestra del corridoio, il colore del sole al mattino e il fatto che sarebbe andato molto bene per un acquerello. A quell'accenno, una parte di lei tornò indietro: la pittura è sempre stata la sua passione, l'unico strumento con cui sembra riconciliarsi col mondo. Ma anche mentre chiacchieravo, la mia mente sentiva la presenza di Edward, lo schiocco della sua risata, le sue parole equilibrate e pungenti.

Quando arrivarono le cameriere per sparecchiare e il mio creatore si levò dalla sedia, lo studente si alzò, sfiorando il piccolo cammeo d'onice che fermava la cravatta. -Bene, credo che dopo questa colazione pantagruelica andrò a fare una piccola passeggiata; sempre che il Signor Silvergear non richieda subito la mia presenza.-

Il Maestro scosse la mano:-Oh, no, Edward: oggi non ho impegni, perciò potremo studiare dopo che sarai tornato. Vai pure.-

L'allievo si rivolse a noi:-Le signore vogliono per caso unirsi a me? È una mattinata splendida, e forse la signorina Catherine vorrà offrirci il piacere di uno schizzo.-

La mia amica scosse la testa, e sembrò che già questo prosciugasse ancora le sue energie. -No, mi dispiace, signor Edward. Ora sono molto stanca; magari più tardi.-

-Oh, certo, capisco- mormorò Edward: il suo sguardo si appuntò su di me. -E lei, signorina Isabella?-.

Non so perché lo feci. Non sono da me le risposte avventate, e sapevo che il mio dovere sarebbe stato quello di restare con Cathy e tenerle compagnia. Ma erano così poche le occasioni in cui mi si rivolgeva come ad una persona, ed erano così poche le volte in cui potevo parlare davvero con qualcuno. -Sì- sbottai -sarei felice di venire, signore.-. Non mi sfuggì l'ombra di rimprovero che oscurò per un attimo i tratti del mio creatore, ma non me ne curai.

Edward sorrise, e quel sorriso mi ripagò di tutto. -Molto bene, allora. Andiamo pure.-

Salutammo padre e figlia, avviandoci verso la porta a vetri dell'entrata: il cinguettio sonnolento degli uccelli si riversava nella stanza dalle finestre aperte. Mentre uscivamo, inspirò a fondo l'aria, senza abbandonare il sorriso.

Chinai un poco la testa:-L'aria sa davvero di terra e di rugiada, signor Edward?- chiesi, e un istante dopo mi zittii, sconvolta: perché mi mettevo a dare voce a pensieri che di solito nascondo con tanta attenzione? Era qualcosa nel vento leggero, nella dolcezza trasognata di Settembre, o semplicemente nella sua presenza?

Mi osservò a lungo, iniziando ad avviarsi con me lungo il sentiero di ghiaia che si snoda per il parco. -Esattamente, profuma proprio così. Credevo che gli Albi non potessero percepire odori.-

-Infatti- mormorai. -Ma ho letto molti romanzi, e ormai credo di essermi fatta un'idea degli odori e i sapori del mondo...o almeno della città.-

-Bè, vi assicuro che, per ciò che riguarda la città non dovete proprio rammaricarsene. Londra è confusionaria e brutale come uno scaricatore di porto, e puzza altrettanto.- rispose, alzando comicamente le sopracciglia. Non potei impedirmi di ridere, e seppi, d'improvviso, che quello sarebbe stato uno degli istanti che avrei portato sempre con me. -Comunque, voi siete davvero una creatura particolare: accanita lettrice, apprendista dell'Alchimia...penso che ne sappiate, tra l'altro, molto più di me. Credo ci sia molto da scoprire, in voi.-

Mi strinsi tra le braccia. -Io non sono una creatura.-

-Oh, ma certo che lo siete- ribatté, agitando le mani magre e sensibili – non è solo il respiro o il battito di un cuore a fare una vita. Una creatura è tutto ciò che può soffrire e agire, e una creatura umana tutto ciò che può anche pensare ed amare. E mi sembra che voi rientrate completamente nella definizione.-

Mi voltai verso di lui. Ora eravamo nel profondo del giardino, sotto il pergolato del roseto; i rami scuri oscillavano, gravati dalle grandi rose mature. Improvvisamente mi resi conto di quanto fossimo vicini, e di quanto sarebbe stato facile sfiorarci. Così facile. -Voi...voi credete?-.

-Certamente- annuì lui – in questi mesi ho avuto modo di conoscervi, Isabella. E in nessun modo potrei considerarvi una cosa.-

Mi sorrise. Io risposi piano al sorriso, e il momento, qualunque esso fosse, passò. Continuammo a camminare, semplicemente felici della reciproca compagnia e della bellezza di porcellana di quel paesaggio. -Ditemi, anche voi dipingete come la vostra amica?-

-No- risposi, ravviandomi un ricciolo sfuggito al fermaglio -Non so minimamente come muovermi tra colori e pennelli. Credo di preferire le geometrie e le carte dell'Alchimia.-

-Anch'io, anche perchè in campo artistico sono di un'ignoranza imbarazzante- mi lanciò uno sguardo – e devo ammettere di trovarmi molto più a mio agio con qualcuno che condivida le mie passioni, no?-

-Io...- sussurrai -...io credo di sì.-.

Camminammo ancora, sotto le ombre frastagliate del roseto, così simili a quelle di una cattedrale dai pilastri spinosi. Il silenzio con lui era denso, ma in qualche modo vivo: sembrava nascere da un'intimità diversa da quella che condividevo con Cathy, un'intesa che poggiava non su rassegnazione e conoscenza, ma su altri pilastri, sulla deflagrazione di stelle di due anime che si sfiorano. D'improvviso, si fermò, voltandosi verso di me. Con lentezza, posò un braccio sul mio, gli occhi dorati e seri. -Isabella, ho da darvi una cosa.- cominciò, mentre la mia mente guizzava tra le possibilità. Che cosa poteva mai darmi?

-Mr.Silvergear mi ha detto che oggi è l'anniversario del giorno in cui...bè...in cui vi ha dato la vita. Quindi ho pensato che è un po' come se fosse il vostro compleanno, e perciò fosse opportuno un regalo.-

Cercò nella tasca del panciotto, fino a trarne un piccolo involto di carta velina azzurra. Io mi limitai a fissarlo, troppo esterrefatta per parlare. -Non avevo molto a disposizione, e forse non è adatto ad una fanciulla, ma appena l'ho visto nel negozio ho subito pensato a voi. In ogni caso...- continuò, spingendolo nella mia mano -...Buon compleanno.-

Lentamente, dischiusi il pacchetto: dentro c'era un orologio, un orologio da taschino d'argento, con un cuore inciso sul coperchio. Lo aprii: al posto delle ore, le lancette indicavano i simboli astrali dei pianeti, intagliati in un rame cangiante. -Si tratta di un Astromante- spiegò -è uno degli ultimi ritrovati scientifici: a quanto sembra recepisce gli influssi dei diversi corpi celesti e ne indica la forza. Ho pensato che forse vi sarebbe stato utile per gli studi.-

Rimasi immobile, le labbra serrate. Edward si chinò in avanti, preoccupato. -Non vi piace? Mi dispiace, sapevo che non dovevo prenderlo, ma...-

-No, non è questo- mi affrettai a spiegare -è che...nessuno mi aveva mai donato nulla per il mio compleanno. Grazie.-

E in quell'unica parola tentai di riversare tuta la gratitudine e tutto il bisogno che mi stringevano il petto.

Edward sorrise, e fu un'altra stilettata e un'altra goccia di piacere. -Ne sono davvero lieto.-

Lui tese la mano, sfiorando un istante la mia. Le sue labbra erano così rosse, così vive e morbide di fronte a me. Per un attimo, pensai a cosa sarebbe accaduto se le avessi toccate, e se le mie mani potessero sentire. L'incanto svanì, ma un suo frammento scivolò nell'orologio che continuavo a stringere.

Dopo, siamo rientrati in casa, e ognuno di noi ha ripreso il comune sentiero della propria vita. Ora è sera, e io sono sola alla mia scrivania, a scrivere su questo vecchio quaderno verde, ad aspettare che anche oggi la carica si esaurisca e io piombi nel nulla. Sfioro l'orologio, appoggiato al tavolo. Ho paura, come ogni volta che smetto di esistere, ma toccarlo mi infonde forza. Forse il buio sarà meno profondo, se lo affronterò con questa piccola scaglia di magia.

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Capitolo 3
*** Cantus vigiliae - La melodia della veglia ***



Cantus vigiliae – La melodia della veglia


19 Settembre 1867


Ecco, è accaduto di nuovo. Ogni volta mi ripeto che sarà l'ultima, che non è degno né del mio spirito né del suo, che è solo il gioco perverso di una sciocca. Ma ogni volta mi ritrovo di fronte a quella porta, nelle ore profonde e senza sonno della notte, e non mi posso fermare.

Ma forse è meglio che tenti di calmarmi, e di raccontare con ordine gli eventi di questa sera. Per liberarmi delle ultime ombre del mio gesto, e del fantasma di quelle labbra.

Dopo cena, come sempre, ci siamo raccolti tutti nel grande salotto fasciato di broccato verde, a conversare mentre il crepuscolo si schiudeva piano intorno a noi. La luce che scivolava dal giardino era leggera, e danzava eterea sul volto di Catherine, trasformandola in una fata di nebbia e cenere. Seduta accanto a lei sul divano di velluto, osservavo Edward conversare con il Maestro delle ultime dichiarazioni del Ministro delle Scienze Alchemiche. D'improvviso, il suo sguardo ha incontrato il mio, e vi ho scorto una scintilla che avrebbe potuto essere divertimento, o curiosità.

Poco dopo si è scusato con il mio creatore, e, con un sussulto che non ho saputo comprendere, l'ho visto raggiungerci. L'Astromante pendeva dai bottoni del mio giacchino grigio.

-Vedo con piacere che avete apprezzato il mio regalo- esclamò con un cenno del capo.

-Molto- risposi, sperando che la mia voce non tremasse troppo.

-Ma ora vorrei che voi ripagaste la mia gentilezza.-

Quella richiesta mi colse così alla sprovvista da lasciarmi attonita. -Solitamente un regalo non richiede un pagamento. E di cosa si tratterebbe?-

Edward rise, una risata musicale e viva come un fruscio di foglie. -Voi sapete bene come difendermi, signorina Isabella; ma la curiosità rovina la vostra fierezza.-

-Non avete risposto alla mia domanda.-

-Ebbene, direi che il mio è stato solo un maldestro tentativo di chiedervi di suonarci qualcosa al pianoforte- spiegò -giacché ho saputo dal Signor Silvergear che siete molto versata in quest'arte.-

Voltai lo sguardo sul mio creatore, in cerca di aiuto; ma i suoi occhi mi guardavano solo con una posata mescolanza di soddisfazione e tolleranza, come di fronte ad un giocattolo ben riuscito. Come, in fondo, sono.

-Ecco, io non so se sia il caso...- mormorai, chinando il volto; d'istinto, nascosi le mani tra le falde della gonna.

-Avanti- mi esortò Edward -è da molto che non ascolto della buona musica, e sarebbe per me un vero piacere.-

-Io, io non posso...-

-...Perchè non potete? Coraggio, solo un brano e starò bravo, ve lo prometto.-

-Io...no- balbettai, sfuggendo il suo sguardo- io...mi vergogno.-

-Vi vergognate? E di cosa?-

-Delle mie...delle mie mani.-

Era la verità: le mie dita sono di porcellana, segmentate come quelle di un burattino; per questo indosso così spesso i guanti: per me sono un continuo ricordo della mia condizione, una perenne conferma di ciò che sono, o non sono.

E allora Edward compì l'unico gesto che non mi aspettavo, e che riuscì ad allontanare un poco il gelo. Si chinò in avanti, ispezionando le mie mani con attenzione. -A me sembrano solo le mani di una brava pianista. Non vorrete che cominci a dubitarne?-

Mi sorrise, e senza accorgermene, mi ritrovai a sorridere a mia volta. -E va bene, mi avete convinta. Non posso deludervi così, no?-.

-Certamente.- con una comica riverenza mi aiutò ad alzarmi, e mi sedetti al pianoforte. È un pianoforte antico, il legno lucido di uso e di anni, ma mi assicuro io stessa della sua pulizia; potevo quasi sentire il profumo dorato della cera. Chiusi un istante le palpebre, concentrandomi, e il mio corpo, magicamente, semplicemente, non fu più quello di una bambola o di una donna, ma lo strumento che racchiudeva e riverberava la musica, irradiandola nel mondo in sussulti di luce, come cerchi nell'acqua. Mi lasciai travolgere dalle note, le dita, quelle dita orrende e rigide, che volavano sulla tastiera e diventavano misteriosamente belle, perché nulla che intrecciasse l'incanto della melodia poteva essere orribile. Come sempre, la mia mente danzava tra distanze scintillanti, tra le geometrie candide che sono comuni alla scienza e al suono, e che guardano ogni anima con la stessa sublime imparzialità. Per un attimo, per un lungo attimo terrificante e meraviglioso, fui solo una mente, e provai il brivido dell'infinito. Poi il brano finì, e io tornai nella sera di Settembre. Il Maestro e Cathy applaudirono, gentilmente, riprendendo poi a conversare piano. Ma Edward rimase immobile, fissandomi. E per tutta la sera, il suo sguardo fu come una carezza sul collo.


Dopo aver aiutato Catherine a lavarsi il volto e a mettersi a letto, ho vagato un poco tra i corridoi della casa, godendo del silenzio pensoso delle notti d'Autunno. La luna splendeva alta nel cielo, circonfusa da uno sciame di stelle: il parco era un arazzo di nero e d'argento. Amo il giardino a quest'ora: le ombre ingentiliscono gli orli, trasformano i dettagli. Le mele del frutteto balenavano di riflessi ramati; sull'acqua dello stagno tremolavano pulviscoli di luce. Tutto era così vivo, così naturale, così semplice. Esattamente ciò che io non sono. Sopraffatta dal peso di quella certezza, ho deciso di uscire a passeggiare, sperando che la bellezza degli alberi e delle rose mi risollevasse. Ho preso il sentiero più lungo, lo stesso su cui Edward mi ha donato l'Astromante; d'istinto, ho sollevato lo sguardo fino alla sua finestra, affacciata proprio sul viale e sulla facciata divorata dall'edera. La lampada era spenta: dietro il vetro, solo buio. Senza volerlo, immaginai il suo viso, il sorriso bianco e immacolato che sa rivolgermi, come se ogni volta nascesse in quell'istante. Forse potevo, potevo ancora una volta. Solo stasera. Solo per scacciare il freddo.

Senza rumore scivolai in casa, salendo le scale di noce scuro, i piedi che seguivano da soli il sentiero: conosco troppo bene queste stanze, conosco troppo bene la sua camera.

Ecco, ora ero davanti alla sua porta: la seconda a sinistra, accanto a quella del mio creatore. Per un attimo, immagino cosa accadrebbe se il Maestro mi scoprisse, e fossi costretta a rivelare la dolce piaga che mi tormenta e mi riempie di vita dal giorno in cui ho incontrato Edward. Non deve accadere; non perchè io tema la sua ira o la sua indignazione. Ho paura di una forza molto più sottile, e molto più potente; il suo sguardo da scienziato che mi seziona e mi trafigge, iniettandosi nella mia anima come un siero: distaccato, limpido, e tuttavia più doloroso della rabbia e delle maledizioni. Scacciai il pensiero, e spinsi piano l'uscio. Con un crepitio sommesso, la porta si schiuse sull'oscurità. Da dentro, leggerissimo, sentii un respiro costante e profondo, imbevuto di sonno. Sono sempre stata affascinata dal sonno degli esseri umani: mi chiedo sempre, quando osservo Catherine scivolarvi la sera, quali incredibili storie vivano in sogno, quali lontananze inimmaginabili possano toccare. Senza quasi volerlo, mi ritrovai a sfiorare l'Astromante appuntato al corpetto.

A passi lenti mi avvicinai al letto, superando affascinata il disordine di oggetti accatastato intorno a me: un quaderno di appunti ingarbugliati gettato negligentemente su una sedia, un panciotto verde sul tappeto persiano, una tazza di tè abbandonata sullo scrittoio. Piccoli stralci di vita, scampoli della trama della sua esistenza. Giunta di fronte al baldacchino, tesi la mano, piano, molto piano, e con estrema attenzione tirai indietro la tenda. E apparve Edward.

Come le altre sere in cui sono venuta qui, rimasi meravigliata dall'incanto inconsapevole che si compie in lui nel sonno: i tratti vivaci del giovane studioso svaniscono, tramutandosi nei piani pallidi e nobili di un cavaliere, di un principe delle fiabe addormentato da un maleficio. Le ciglia, folte e scure, si arcuavano sulle guance come tratti di bistro; la luna ricamava ombre azzurre sulla sua fronte ampia. E le labbra erano rosse, rosse come rose ormai sfatte, come l'incendio di un tramonto, una goccia di sangue sulla neve. Tesi una mano, delicatamente, fino a toccare quella bocca, premendo le dita sulla loro curva cedevole, seguendone l'orlo.

So che non dovrei. So che non è permesso, che non è neanche concepibile: un'unione tra un uomo e un'Alba. Assurdo. Perverso. Contro natura. Sposarsi con uno strumento animato da ingranaggi e magia, che vive e sussulta solo per i riflessi di veri sentimenti. Innamorarsi di un utile accessorio per la propria casa. Ma loro non conoscono ciò che è davvero racchiuso nel mio petto e nella mia mente, non sanno che dentro di me vi è abbastanza passione da bruciare il mondo, o salvarlo.

Così, fu per questo, per rassicurarmi di poter davvero sentire, per dimostrarmi di poter amare come le eroine dei miei romanzi, che mi chinai su Edward, e gli sfiorai le labbra con la mia fredda bocca di porcellana, senza percepire nulla, sentendo tutto.

Per un momento, per un lungo attimo d'eternità, rimanemmo così, come scolpiti nel cristallo, sull'orlo di una grande luce o di un grande baratro.

Sotto di me, lui si agitò improvvisamente, le sopracciglia che si aggrottavano; mi rialzai di scatto: mi voltai, ubriaca di pensieri, ubriaca di vita, e corsi fuori, chiudendomi silenziosamente la porta alle spalle. Era stato così dolce, così straziante, come tutte le volte in cui avevo ripetuto quel rito nelle settimane precedenti. E come sempre, mi lasciava ancora più affamata e ancora più sola di prima. Mi sono avviata alla mia camera, e ho preso in mano il diario: dovevo una spiegazione alla mia mente; dovevo tentare di tracciare un Disegno, un'alchimia, anche di questo intreccio proibito. Ma le linee sono intricate, le cifre confuse, e si muovono, come se le vedessi al di là di un abisso profondo; un abisso in cui, forse, prima o poi dovrò gettarmi.


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Capitolo 4
*** Cineracea regina - La principessa grigia ***


Cineracea regina -La principessa grigia

 

 

21 Settembre 1867

 

Credo che oggi sia stato uno dei giorni più felici della mia vita. In pochi momenti mi sono sentita più protetta e più appagata: la sera in cui ho ricevuto il mio quaderno, e il Maestro mi ha promesso che mi avrebbe insegnato i segreti dell'alchimia; certi pomeriggi trascorsi con Cathy da bambina, mentre giocavamo ad indossare gli abiti fragranti di tempo e di lavanda di sua madre; le notti nella torretta, con la città splendente di sciami di luci sotto di me. Ma in questa gioia vi è un riflesso di inquietudine, una goccia scura e avvolgente come miele; e tuttavia, è proprio questo che la rende così preziosa.

Stamattina l'aria era luminosa e dolce, quasi azzurrata; tramava il giardino di ombre tenere, tra i cespugli di sorbo, le chiome gialle delle rose, le scure sagome dei castagni. La brina brillava come madreperla. Stavo passeggiando per il viale, da sola: dopo colazione Cathy aveva detto di sentirsi stanca, e aveva preferito non accompagnarmi nella solita passeggiata. Camminavo lenta, osservando gli alberi riscuotersi intorno a me dalle nebbie notturne; il mio abito di cotone azzurro si stagliava contro l'erba dorata come una nube di nontiscordardimé. Amo molto l'autunno: amo il modo in cui le foglie bruciano di bagliori ramati, trasformandosi in scaglie d'ambra; amo i cieli polverosi sopra l'incendio dei boschi. Per me, quel momento era perfetto: solo io, i fruscii del primo mattino, e un tappeto di rossi e ori sotto i piedi. Un soffio di vento sollevò un turbine di foglie, avvolgendomi in un intarsio di gialli, e io risi, godendo di quell'istante di bellezza.

-Mi fa piacere vedere che vi divertite, signorina Isabella.-

Mi voltai, colta di sorpresa: di fronte a me c'era Edward, i capelli biondi che avvampavano nel sole, il sorriso che ingentiliva i piani del volto. Portava le mani infilate nelle tasche del completo grigio, una spessa sciarpa bianca intorno al collo. -In teoria dovrei studiare, ma la giornata era troppo bella e sono riuscito a sgusciare via per un po'. È uno spettacolo incredibile, vero?-

-Verissimo- risposi, prima ancora di rendermene conto; parlare con lui diventava di volta in volta più facile, più naturale, come riprendere un'abitudine amata dopo molto tempo. E l'energia delle radici e della foresta mi imbevevano ancora, facendomi sentire sicura, e orgogliosa. -Adoro questa stagione, queste mattine sospese tra luce e ombra, passato e futuro. Sembra quasi che tutto sia possibile, e che da un momento all'altro appaia dietro un fungo un drappello di folletti.-

-Avete davvero una bella immaginazione- commentò lui, sfilandosi la giaccia e gettandosela negligentemente sulla spalla. -Ho ascoltato per caso qualcuna delle storie che raccontate alla vostra amica, e le ho trovate veramente splendide.-

Ammutolii, troppo stupefatta per parlare: davvero Edward aveva ascoltato i miei racconti? E li considerava belli? Quell'aggettivo mi turbò e mi deliziò ad un tempo: bello viene definito un tramonto, un bacio, una donna; vi è in questo aggettivo qualcosa di concreto, di fieramente intimo. Ed ora, qualcosa di bello ci legava. -Oh, sono solo piccole invenzioni- farfugliai, torcendomi le mani -cose di poco conto.-

-Io non direi; se doveste chiedere a me, saprei al massimo descrivere male le avventure che mi hanno narrato da piccolo, o le ponderose biografie di Paracelso e dei grandi alchimisti. Voi, invece, avete molti mondi racchiusi in quella testa, vero?-

-Bè- risposi -sapete, non sono mai uscita da Rosefield Manor, quindi ho avuto molto tempo per inventare da sola i miei viaggi. Quando Cathy era più giovane avevamo una scatola di bamboline meccaniche, e in soffitta facevamo loro vivere qualunque impresa, dall'esplorazione delle Piramidi ai misteri della Giungla Nera...- mi fermai, distogliendo lo sguardo -Perdonatemi. Non so perché vi stia annoiando con queste vecchie storie.-

-No, non vi dovete scusare- replicò subito, la voce delicata come il vento che danzava tra i rami -mi piace sentirvi parlare.-

Per qualche attimo, le sue parole fluttuarono tra di noi, molto più intime di quanto avrebbero dovuto essere;

continuai a guardare gli alberi tremolare, i sussulti ramati delle cortecce. Finché non fui investita da una cascata di foglie gialle.

Mi voltai di scatto, presa alla sprovvista: sul volto di Edward campeggiava un'espressione innocente, e palesemente fittizia. -Perché l'avete fatto?- chiesi, inarcando un sopracciglio.

Lui spalancò gli occhi. -Io? Io non ho fatto nulla. Saranno stati i folletti.-

-Ah, d'accordo...- Non so perché agii in quel modo: so solo che in quel momento mi sembrò la reazione più ovvia, quasi un riflesso inscritto nell'anima. Mi chinai, raccolsi una manciata di foglie, e gliela gettai contro.

Il suo stupore, quando si ritrovò coperto di rosso e arancio, mi ripagò di tutto.

Ma in breve si trasformò in un sorriso obliquo. -Allora cercate la guerra...- mormorò, inginocchiandosi ancora.

Scappai prima che potesse scagliare il suo colpo, ridendo; continuammo a inseguirci, gridando come ragazzini e disturbando il sonno di tutti i piccoli animali del parco. Non ricordo di essermi mai sentita così padrona di me stessa, così umana. Il Maestro mi aveva donato la vita; Edward mi donava la libertà.

Alla fine ci fermammo, sotto l'ombra di un'immensa quercia; io guardai il suo viso acceso dalla corsa, le labbra scarlatte e ben definite, le basette in disordine, e volli solo poter allungare una mano e sentire la sua pelle, la mia carne contro la sua carne. Ma per ora, mi bastava incontrare il suo sguardo. -Grazie- mormorai, e lo pensavo davvero.

Di nuovo quel sorriso. -Ogni volta che volete, signorina Isabella. Il folletto è sempre a vostra disposizione.-

 

Questa notte Catherine ha avuto un incubo. Come tutte le sere io l'avevo accompagnata in camera, e l'avevo aiutata a prepararsi per la notte: le ho sfilato l'abito di batista turchese, ho dischiuso la sottogonna, le ho pettinato pazientemente i capelli scuri in una spessa treccia. Infine, sono rimasta al suo fianco fino a quando non si è addormentata, narrandole le storie che invento per lei da quando era una bambina.

A mezzanotte, però, ho sentito risuonare un grido nel buio, il mio nome invocato con il terrore e l'abbandono di chi stia precipitando in un abisso. Mi sono alzata subito dal davanzale della finestra, accendendo rapidamente la lampada ad olio sulla scrivania: nel lucore incerto della fiamma, gli occhi spalancati e pallidi di Cathy mi hanno fissato, senza vedermi, ancora perduti in qualche terribile distanza. -Bella!- ha urlato ancora, tendendo le mani, fragili e sottili come ossa d'uccello. -Bella!-.

-Sono qui, Cat- ho sussurrato, sedendomi al suo fianco sulla coperta -Sono qui, non devi temere.-

Si aggrappò alle mie braccia, le spalle scosse dai singhiozzi. -Oh, Bella. È stato così orribile, così orribile...-.

-Shh...- mormorai, accarezzandole piano la fronte -...è stato un sogno, solo un sogno, Cat. Qualunque cosa fosse, non c'è più.-

-Era così vero...ho avuto tanta paura. Tu e papà non c'eravate, e io ero da sola, e non sapevo cosa fare e...- si fermò, il respiro spezzato -...ed ero fuori.-

Sebbene continuassi a stringerla, il mio sguardo si indurì, e una fiammella familiare e oscura crepitò in un angolo della mia mente. Fuori. È da quando aveva tredici anni che Catherine rifiuta di mettere piede al di fuori della proprietà di Rosefield Manor, e fatica a spingersi anche sui sentieri che ne bordano il perimetro. Lentamente, inesorabilmente, in lei è cresciuto il timore del mondo, degli uomini e delle ferite che entrambi avrebbero potuto infliggerle: iniziò a compiere meno visite, a riceverne poche, a sfilacciare i legami con il resto dell'umanità, fino alla solitudine completa. Nulla è riuscito a distoglierla dalla sua paura; nessun rimprovero, nessuna parola, nessuna preghiera furono in grado di estirpare quell'orrore della vita che la consumava. È per questo che sono stata creata: per darle una compagna fidata e paziente, vincolata a lei e alla sua benevolenza da un laccio più stretto di quello della semplice amicizia. Ed è ciò che sono stata finora. Ma a fianco della premura e dell'attenzione, a fianco dell'affetto di madre, di sorella, di amica che provo per lei, è cresciuto in me anche un sentimento più torbido, sfuggente come fumo: un rancore sordo, una rabbia bruciante per tutto ciò che Cathy potrebbe avere, e non vuole. Perché non corre per i boschi, inspirando il profumo ricco della terra e del muschio? Perché non danza nei balli scintillanti di luce, fino ad avere le guance arrossate e il respiro affannato? Perché non girovaga per musei e concerti, godendo della semplice gioia di essere umano? Ancora una volta, mentre la calmavo con bisbigli rassicuranti, mi posi quelle domande, e pulsarono come ferite.

Catherine sollevò lo sguardo, le palpebre chiare e ricamate di vene azzurre:-Raccontami una storia, Bella, ti prego. Una storia della Principessa Grigia.-

La abbracciai, stendendomi accanto a lei sul letto. La Principessa Grigia era uno dei personaggi che avevo creato per lei, ed uno dei miei preferiti: capelli d'argento leggeri come veli, una mente vasta e limpida, un regno di sapienti e guaritori, la mia principessa aveva lottato contro draghi, cavalieri malvagi, temibili maghi e fantasmi sanguinari; aveva viaggiato in terre nebbiose, conosciuto popoli meravigliosi e terribili, appreso arti e scienze incredibili. Solo una cosa non aveva mai conosciuto, ed era l'amore.

Per un momento pensai di raccontarle una delle vecchie storie, o una comune avventura; ma le parole mi vennero alle labbra, come profumi nel vento, e non potei che trasformarli in voce.

“C'era una volta, nel paese di Grimmevea, un bellissimo principe di nome Soledoro; era gentile e premuroso, e tutto il suo popolo lo amava, ma un mago malvagio, per vendicarsi della forza e del coraggio del principe, l'aveva trasformato in una statua d'oro. Così Soledoro non poteva più piangere o sentire un profumo, non poteva più sfiorare il pelo dei suoi cavalli o gustare il sapore salmastro delle onde del mare; e ciò gli faceva più male di ogni colpo di spada.

Un giorno, durante una battuta di caccia, il principe vide un bellissimo cervo, e iniziò ad inseguirlo; lanciò il cavallo con tanta foga che ben presto lasciò indietro i suoi uomini e, senza accorgersene, penetrò nei rigogliosi boschi della Principessa Grigia. Stava per catturare il cervo, quando improvvisamente sbucò in una radura ombrosa, e il suo cuore si fermò.

Di fronte a lui, seduta in mezzo a un cerchio di piccoli funghi argentei, stava Grigia, con una pergamena e una boccetta d'inchiostro verde accanto. La fanciulla sollevò lo sguardo, uno sguardo gentile, colmo di saggezza, e gli disse:-Salve, straniero. Io sono Grigia, la principessa di questa terra, e ti offro il mio benvenuto.-

Soledoro rispose, e parlarono ancora molto; ma bastò l'incontro dei loro occhi, ed entrambi seppero che non avrebbero più potuto vivere senza l'altro.

Fu l'inizio di giorni felici, di cavalcate, di giochi, di baci rubati all'ombra profumata dei roseti; uno solo era il loro dolore, ed era che Soledoro non potesse sentire le carezze di Grigia, e che il suo abbraccio fosse così freddo. Così, un giorno, la nutrice della principessa, vedendo la tristezza nebbiosa dello sguardo della sua signora, la avvolse tra le sue braccia calde, e le disse:-Anima mia, mio piccolo uccellino, esiste una soluzione al vostro dilemma: dovete recarvi dall'Oracolo Bianco, che vive nel profondo delle rocce, che non è né uomo né donna, e che tutto può e nulla davvero vuole. Ma per raggiungerlo dovrete affrontare mostri, e cose orribili; cose antiche e potenti che dormono dal giorno in cui sono nati gli uomini.-

-Non sono spaventata, se so cosa devo combattere- rispose Grigia – e se so perché devo farlo.-

Così la principessa versò sugli occhi del suo amore una polvere soporifera, perché dormisse durante la sua impresa, e partì per la casa dell'Oracolo Bianco.

Dopo aver lasciato il castello, si ritrovò in un buio bosco, fitto di tenebre violette: e lì apparve d'improvviso un lupo immenso, dal pelo irto e grigio come la tempesta e gli occhi gialli. Il lupo disse: -Perché sei qui, regina degli uomini? Che cosa cerchi?-. E Grigia rispose:-Vengo qui per salvare il mio amato; lasciami passare, perché tu conosci quanto sia prezioso il legame di un branco.-.

Così il lupo abbassò la testa, e liberò il sentiero per lei.

La principessa continuò per la sua strada, e giunse sulla riva di un lago brumoso; e lì d'un tratto calò un gufo, dalle penne setose e il grido angoscioso. Il gufo disse:-Perché sei qui, regina degli uomini? Che cosa cerchi?-. E Grigia rispose:-Vengo qui per salvare il mio amato; lasciami passare, perché tu conosci quanto valga la solitudine e la compagnia con cui intesserla.-

Così il gufo sbatté le ali, e Grigia poté attraversare il lago.

Infine, si trovò di fronte ai picchi argentei e affilati di un monte smisurato, e in un soffio apparve un serpente, dalle scaglie d'oro lucente e le spire complesse come ricami. Il serpente disse:-Perché sei qui, regina degli uomini? Che cosa cerchi?-. E Grigia rispose:-Vengo qui per salvare il mio amato; lasciami passare, perché tu conosci l'arte di cambiare, e di abbandonare la propria forma.-

Così il serpente la fissò sibilando, e scivolò via in un pertugio oscuro.

Grigia proseguì, e vide di fronte a sé un palazzo dalle mura perlacee, che si elevava tra le vette come una perla intagliata. Allora attraversò il portale tempestato d'opali, e di fronte a sé trovò l'Oracolo Bianco.

È difficile descriverlo: non è né bello né tremendo, ma entrambi; non è giovane né vecchio, ma entrambi; non è né pietoso né crudele, ma entrambi. L'Oracolo sollevò una mano, e sembrava un osso e un ramo e una ragnatela. -Sei riuscita a superare molti ostacoli, figlia degli uomini; dimmi, per cosa mi hai cercato?-.

-Sono qui per chiederti di sciogliere una maledizione- rispose la principessa -Sono qui per chiederti di liberare il mio amato.-

-Vuoi che gli dia la felicità, fanciulla?- chiese l'Oracolo.

Grigia scosse la testa. -No, signora. Voglio che voi gliene diate la possibilità.-

L'Oracolo la fissò, e annuì. -Molto bene, figlia degli uomini. Che il tuo desiderio sia realizzato, e che tu possa tentare il difficile cammino della felicità.-

Così l'Oracolo soffiò il suo respiro dorato, e, a molte leghe di distanza, Soledoro si svegliò, e la sua pelle era di carne e il suo cuore batteva e le sue mani sentivano la fresca carezza dell'alba.

E quando Grigia tornò al castello, poté finalmente abbracciarla.

Cathy rimase in silenzio; era piuttosto inusuale, considerato che solitamente commentava con passione le mie invenzioni. Quando abbassai lo sguardo, vidi che aveva la fronte aggrottata. Nei suoi occhi, scorsi un'ombra indecifrabile.-è una strana storia, Bella. Non ne avevi mai raccontate di simili.- Nel suo tono mi parve di cogliere una sfumatura di perplessità, l'ombra di un rimprovero. Per qualche motivo, mi sentii improvvisamente indifesa, come se avessi appena rivelato un segreto intrecciato a corde troppo profonde e troppo sensibili per diventare parole. -Forse hai ragione- risposi in fretta -non dovevo raccontarla. È una brutta storia. Domani cercherò di inventarne una più bella, va bene?-

Catherine non rispose, la testa poggiata di nuovo sul mio petto; esitò, come se stesse per replicare qualcosa. Alla fine, bisbigliò solo:-Va bene.-

Mentre il suo respiro diveniva più lento, continuai a stringere quel corpo così sottile e delicato, così simile al mio; ma il suo avrebbe potuto dare calore, e piacere e vita. Il mio era solo un simulacro, una replica di resina e porcellana; e il mio abbraccio sarebbe sempre stato freddo.

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Capitolo 5
*** Imbris fletus - Il pianto della pioggia ***


Imbris fletus – Il pianto della pioggia

 

24 Settembre 1867

 

Oggi ha piovuto per gran parte della giornata; quando stamattina mi sono svegliata ho trovato la casa immersa nel mormorio della pioggia, le gocce che premevano contro le finestre come i capelli argentei di una fata. C'è qualcosa di confortante nei temporali; un'urgenza di compagnia e di unità che porta gli uomini a stringersi tra di loro, e che appiana i contrasti e le antipatie di fronte all'immensità indifferente della natura: allora anche gli Albi diventano dei veri compagni, e i nostri occhi e le nostre parole hanno il potere di portare conforto quanto quelli degli esseri umani.

Come ogni mattina mi sono recata in biblioteca per la mia lezione, dopo aver scelto un semplice abito di cotone color malva, il cammeo di Atena che mi brillava sulla gola. L'Astromante era al sicuro tra le pieghe della gonna.

Il Maestro era seduto nella sua poltrona di cuoio, la pipa accesa, sulle labbra il suo sorriso. Quel sorriso è l'arma più potente a sua disposizione, perché farà sempre tremare in me qualche corda profonda, sepolta dal tempo e dalla ragione: è stata la prima cosa che abbia vista quando ho aperto gli occhi, la prima tessera di mondo a me destinata. Di fronte a quel sorriso, ritorno ad essere la confusa bambola racchiusa nel guscio criogenico, ancora incapace di parlare, di sentire, di vivere; non c'è nulla che mi faccia sentire tanto protetta, e tanto vulnerabile ad un tempo.

Mi sono fermata di fronte a lui, sugli arabeschi d'oro e nero del tappeto persiano. -Buongiorno, Maestro- ho salutato, piegandomi in un rapido inchino -spero stiate bene questa mattina.-

Il mio creatore mi ha guardata a lungo, e un dettaglio, un'ombra sottile come carta, mi ha colpito in una goccia di ghiaccio. -Bene, grazie Isabella- ha risposto, la voce piatta -vieni pure qui vicino.-

Ho ubbidito, prendendo posto sul divanetto di velluto accanto a lui.

-Oh, che stupido- esclamò -stavo quasi per dimenticarmene. Volgimi la schiena, cara, per favore. È meglio occuparsi della carica, no?-

Serrai le labbra. Odiavo il rituale della carica: odiavo la sensazione di impotenza che in quei momenti mi sopraffaceva, e che mi ricordava amaramente che non avrei mai potuto partire per le terre selvagge di cui leggevo, senza quella chiave che mi dava la vita ogni settimana. Il Maestro la estrasse dal cassetto del tavolino, e rivelò il foro che porto sulla schiena. La chiave girò una, due, tre volte, mentre io sedevo immobile. Sebbene non volessi, una parte di me fu travolta dal piacere artificiale della magia che tornava a scorrere in me, dal sollievo di sentire tutti i meccanismi tornare a muoversi armoniosamente.

Aspettai finché non finì, e io potei dimenticarla di nuovo.

-Bene- decise il Maestro – direi che ora possiamo cominciare, no?-.

-Sicuramente.-Vedendo il massiccio volume rosso ormai familiare, lo sollevai, aprendomelo sulle ginocchia: -Allora, l'ultima volta siamo arrivati all'Evocazione delle Salamandre...-

-In realtà non continueremo.-

Alzai lo sguardo, stupefatta. -Come?-.

Di nuovo mi rivolse il suo sorriso; ma gli occhi rimasero freddi, polle di mercurio. -Oggi volevo affrontare con te un altro testo, se non ti dispiace.-

Annuii, cauta: la lettura, e una certa naturale intuizione, mi hanno portato ad essere abbastanza abile a decifrare le anime, e a seguirne i sentieri. E quello in cui mi stava conducendo il Maestro mi inquietava. -Certo, se lo ritenete opportuno...-

Battè le mani, voltandosi per stringere un libro dalla ruvida copertina di cuoio giallo; quando lo spalancò, scorsi il titolo: “Costituzione e analisi degli Albi”.

-Credo sia arrivato il momento di affrontare la questione della tua natura- cominciò -vedi, finora ti ho cresciuta come una figlia, istruendoti, vestendoti, offrendoti tutti i divertimenti che hai sempre condiviso con Catherine-.

“Mi avete cresciuta come un'ombra di Cathy” pensai “non come una figlia”.

-Ora, però, penso che sarebbe meglio se tu imparassi qualcosa su di te e sui tuoi simili.-

Quelle parole furono una stilettata nel petto: i tuoi simili. Avevo sempre saputo che il Maestro non mi aveva mai considerato una di loro, un vero individuo con propri sentimenti e propri pensieri; ironia della sorte, proprio colui che mi aveva creato non comprendeva gli universi che si celavano nella sua creatura. Ma sentirlo così palesemente fu comunque doloroso, come un marchio inciso nella mente. Ma obbedii, perché non ho altra casa, perché non conosco altro modo. -Certo, Maestro. Cosa volete che apprenda?-

-Mi interessa particolarmente questo capitolo.- battè il dito su una pagina ingiallita. -”Natura e bisogni dell'Albus”. Te ne leggerò uno stralcio.-

Inforcò i suoi tondi occhiali dalla montatura d'oro, e iniziò.

- “Gli Albi, come è comunemente riconosciuto, costituiscono il vertice tecnico della nostra epoca; animati da una sapiente commistione di Alchimia e Meccanica, sono adatti ad una molteplicità di occupazioni, calibrate secondo il materiale di cui vengono costituiti: cuoio per i lavori più pesanti, pezza per le bambinaie, porcellana per le dame da compagnia. Servizievoli, docili, pazienti, sono lavoratori indefessi e compagnie estremamente piacevoli, a cui si possono anche impartire insegnamenti di moltissimi argomenti. Tuttavia, nulla è più penoso del vedere un uomo od una donna instaurare un tale rapporto con un Albus da non discernerne più la vera natura e a crederlo capace dei sentimenti e dei pensieri di un essere umano. Ricordate, cari lettori: gli Albi sono utili e prodigiose invenzioni, ma nonostante la somiglianza, rimangono questo: invenzioni degli uomini, non uomini.”-

Rimasi immobile, le dita serrate. -Che cosa significa tutto questo, Maestro?-

Il mio creatore si tolse gli occhiali, e il suo sguardo sembrò penetrare la mia pelle, fino all'ultimo degli ingranaggi che le sue mani avevano costruito, fino al cuore meccanico di quella menzogna. -Significa imparare a conoscere il proprio ruolo, Isabella. Finora sei stata una compagna preziosa per Cathy, un' allieva eccezionale per me, e hai quindi svolto perfettamente i tuoi compiti: sei stata attenta, sollecita, ubbidiente, discreta. Ma temo che, con il mio comportamento tollerante, io ti abbia instillato idee che potrebbero mutare la tua condotta in modo...spiacevole.-

L'immagine di Edward mi lampeggiò nella mente. -Vi riferite a qualche evento particolare?-

Il Maestro unì le punta delle dita, la bella fronte spaziosa improvvisamente aggrottata. -Credo che parlarti di certi argomenti, come la mitologia o la letteratura, abbia eccitato eccessivamente la tua immaginazione. Credo che anche proporti tutti quei romanzi sia stato un errore.-

-Un errore? Non vedo perchè...-

-I romanzi e i miti non si basano sulla realtà, Isabella. I fatti che vi vengono narrati non potrebbero mai accadere.-

-Ma i sentimenti che li ispirano sì.-

Sospirò. -Come supponevo, quelle letture ti hanno terribilmente influenzata. E ti hanno distolto dal tuo dovere.-

Serrai le labbra; l'indignazione era un grumo oscuro nell'anima. Sapevo che cosa intendeva, ma dovevo sentirglielo dire. Dovevo. -Quei libri mi hanno semplicemente insegnato a comprendere ciò che sentivo, e a dargli un nome. Mi hanno insegnato ad amare il mondo, a soffrire per i suoi orrori, a gioire delle sue meraviglie. Mi hanno insegnato a vivere.-

-è proprio questo il problema- replicò con voce flautata -Isabella, Pigmalione è solo una storia: le statue non diventano esseri umani. Mai.-

Sussultai, sferzata da quella frase pacata. Pigmalione, il mitico scultore, consumato dall'amore per la sua creazione, e che ottiene per lei la vita dagli dei. Da quando lo avevo ascoltato per la prima volta, ogni sera immaginavo che Edward mi guardasse con la stessa passione, e che magicamente le mie dita divenissero di carne e la mia bocca potesse percepire il tocco della sua. Ora il mio creatore aveva insudiciato per sempre quel sogno, e bruciava.

Si alzò, gli occhi colmi di una gelida compassione. -Spero di non essere stato troppo duro. Voglio solo che tu non ti faccia idee sbagliate, Isabella. Per te, per me, per Cathy.-

Non poter piangere è una condanna orribile: impedisce al dolore di scivolare via, lascia che incancrenisca nella mente come un veleno. Ma accanto al dolore, brillava la rabbia.-Con che autorità decidete quali debbano essere le mie idee?-

Ma il Maestro non lo udì, o non volle udirlo. -Bene, direi che per oggi possiamo fermarci qui. Buona giornata, Isabella.-

Quando alzai lo sguardo, era scomparso.

 

Ritornai nel nostro salottino con un groviglio di rabbia e delusione, il cuore ferito dai cocci del mio sogno infranto. Catherine era lì, abbandonata sui cuscini del divanetto, i capelli ancora raccolti nella lenta treccia in cui li acconcio prima che vada a dormire. Portava una vestaglia amaranto sulla camicia da notte di mussola bianca, con la leggerezza eterea di un fantasma. Mi stupii di trovarla già sveglia: per qualche ragione, mi inquietò.

I suoi grandi occhi grigi, così simili a quelli del Maestro, si appuntarono su di me, scintillando:-Allora?- mi apostrofò prima che potessi salutarla -mio padre ti ha già parlato?-.

Sbattei le palpebre, confusa. -Come? A cosa ti riferisci?- chiesi, sovrappensiero.

Cathy fece un gesto impaziente, sollevandosi a sedere. -Non ti ha ripreso sul tuo... comportamento?-

Il tempo parve fermarsi. Alzai piano la testa. -Sei stata tu- mormorai, e non era una domanda. -Sei stata tu a chiedergli di dirmi quelle cose.-

La mia amica, la mia unica amica, annuì con la grazia rigida di un uccellino. -Bè, certo. Dovevo pur fare qualcosa. Negli ultimi tempi sei stata così...non saprei...strana. Così scostante. Così pensosa. Insomma, non è per macerarti nei tuoi pensieri che ti ha costruito, no?-

Dentro di me, il fuoco cominciò a crepitare; ma se ardeva, allo stesso tempo lo sentivo consumarmi. -Credevo che fossimo amiche. Credevo mi volessi bene.-

-Infatti- rispose subito -io ti voglio molto bene.- mi prese una mano tra le sue, e il calore del suo sguardo mi pugnalò. - Proprio per questo voglio che funzioni al meglio.-

La verità era lì, evidente e dura e nuda come ossa. Anche per Cathy, io ero un utile strumento, un giocattolo divertente e complesso. Ma nulla, né l'intelligenza, né il sentimento, né la passione potevano colmare l'abisso tra di noi, tra la sua pelle calda e la mia porcellana. Neanche questa fame selvaggia di vita che mi preme nel petto, e che grida per schiudersi.

Abbassai la testa, senza forze. -Non riesci proprio a capirlo, vero?- mormorai -Non riesci nemmeno ad immaginarlo, vero?-.

Parve sinceramente perplessa, e forse lo era. -Immaginare che cosa?-

-Quanto io desideri la vita, Cat. La vita che tu stai consumando rinchiusa tra queste pareti, la vita che pulsa nelle vene e si gonfia nel respiro, la vita fatta di calore e di gelo e di profumi e di gusti.-

La mia voce si spezzò. -La vita fatta di morte, e d'amore.-

Mi sorrise, imbarazzata. -Bella, cosa stai dicendo? Tu non sei fatta per queste cose, è semplice. E non dovresti rivolgerti a me con quel tono insolente.-

Mi rialzai, ignorando la sua mano posata sulla mia. -Arrivederci, Catherine.-

-Bella? Dove stai andando...?-

-Arrivederci, Catherine-.

Fu come muoversi nell'acqua, o nelle distanze ovattate di un sogno: senza rumore, mi avviai alla porta, la chiusi alle mie spalle, e cominciai a correre.

 

Il giardino era un turbine di vento e grigio, spazzato dalle raffiche rabbiose della pioggia. Lontano, i tuoni ruggivano come draghi infuriati. Sotto l'ombra del porticato, osservavo la tempesta, i lampi lontani e bianchi che crepavano il cielo, e per la prima volta mi sentii totalmente sola, sospesa tra due mondi a cui non appartenevo. Non sono una macchina, perché penso come una donna; non sono una donna, perché ho un cuore di macchina. Continuai a fissare i tremolii scintillanti delle gocce, e mi sembrò che il cielo piangesse anche per me.

-Signorina Isabella?-

Una voce mi fece sussultare. Mi voltai di scatto, e mi ritrovai di fronte ad Edward. -S-sì?-

-Mi chiedevo solo se steste bene. Ero venuto a cercarvi per chiedervi di suonare ancora, ma da ciò che ho intuito dalle parole della signorina Catherine siete rimasta molto turbata da qualcosa.-

-Oh, no- risposi, sperando che le mie parole non si spezzassero -non vi dovete preoccupare, signor Glowfable: sto perfettamente bene, adesso.-

Si avvicinò -Dai vostri occhi non si direbbe.-.

Abbassai lo sguardo, stringendomi nelle spalle. -I miei occhi non cambiano mai.-

-Questo non è vero- mormorò -credetemi, i vostri occhi dicono molte più cose di quelli della maggior parte delle persone che conosco.-

Quando alzai il volto, scoprii che si era avvicinato ancora: ormai mi sarebbe bastato un passo, meno di un passo, per raggiungerlo, per toccarlo. -Dite davvero?-

-Certamente- il suo viso si addolcì, e la maschera di giovane uomo di mondo si dischiuse di nuovo. -Cosa vi tormenta, Isabella?-

Senza sapere perché, la verità mi venne alle labbra. -Ciò che non sono. Ciò che dovrei, ma non posso più essere.-

Edward non mi chiese che cosa intendessi. Forse lo intuì; forse semplicemente si fidava di me. Con lentezza, con infinita dolcezza, tese le braccia intorno a me, lasciandomi il tempo di ritrarmi. Ma non lo feci.

Rimanemmo abbracciati a lungo, nel sussurro di echi e rimpianti della pioggia. E, per la prima volta, mi sentii protetta e indifesa come di fronte al sorriso del Maestro.

 

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