Corro verso la stanza della signora White. Apro leggermente
la porta e mi affaccio. Dorme.
Mi fiondo verso il suo studio, poche porte più un là. Entro
e accendo la luce.
Mi metto seduta sulla sua poltrona e apro tutti i cassetti.
Guardo tutte le carte, le leggo tutte con una velocità
impressionante.
Poi sul fondo dell’ultimo cassetto lo vedo. Vedo quello
strano segno rosso.
L’afferro e lo riconosco: il
simbolo che era sulla lettera che mi aveva consegnato quell’uomo.
Faccio attenzione che tutti stiano a
letto e la apro.
Alla presenza della
signora White.
La ragazza che si
trova davanti a lei è muta, ed è orfana di padre e di madre.
Io non posso badare a
lei, mi è impossibile, le farei solo del male.
Potrebbe presentare dei strani comportamenti, ma fanno parte di lei.
Per favore, si prenda
cura di lei.
Strani comportamenti? Che significa?
Giro la lettera e fisso quel simbolo rosso. Fissandolo
attentamente noto una scritta minuscola.
“Volterra”
Nel buio mi dirigo velocemente verso la biblioteca. Prima
non sarei mai riuscita a vedere, poi con la mia goffaggine sarei caduta ogni
due metri.
Mi avvicino a uno scaffale e prendo una delle mille
enciclopedie che mi compaiono davanti.
Sfoglio le pagine, fino ad arrivare alla lettera V. Eccola,
“Volterra”:
Volterra è un comune
italiano della provincia di Pisa.
Una città in Italia? Ma io sono in
Inghilterra. Che c’entra?
Non capisco.
A Volterra troverei delle risposte? O solo guai?
Non so chi sono, cosa sono in grado di fare. Mi metto seduta
e comincio a sfogliare le pagine dell’enciclopedia, rimuginando su cosa devo
fare.
Poi abbasso gli occhi e mi ritrovo davanti una parola.
VAMPIRO: essere mitologico o folkloristico che
sopravvive nutrendosi dell’essenza vitale (generalmente sotto forma di sangue)
di altre creature.
Ma che sciocchezza, i vampiri non
esistono.
Inesorabilmente mi torna in mente il corpo che pochi minuti
prima ho prosciugato senza pietà. Forse non è una sciocchezza.
Nel modo più silenzioso possibile mi dirigo
verso la camera comune dove dormiamo noi ragazze. Mi avvicino velocemente al
mio armadio, afferro tutto quello che mi potrebbe servire e tutto quello che
non potrei mai lasciare qui: le mie scarpette da punta, i miei spartiti, alcuni
vestiti, i documenti, il passaporto e la lettera misteriosa. Butto tutto nel
borsone e corro via dalla stanza e mi dirigo di nuovo verso la camera della
signora White. Mi avvicino ai suoi cassetti, ne apro uno e trovo subito delle
banconote.
Ne afferro una manciata ed esco dalla stanza chiudendomi
piano la porta alle spalle.
Cammino per tutto l’atrio fino ad arrivare alla porta.
Osservo quella che è stata la mia casa per sette lunghi
anni, e che non mi vedrà mai più.
Davanti a me si presenta una foresta innevata. Mi guardo
intorno, non avendo idea di dove devo andare. Poi, improvvisamente, sento dei
suoni, delle macchine.
Il mio corpo si lascia andare, senza che io gli dia il permesso, e senza rendermene conto mi ritrovo a
correre ad una velocità impressionante, sfrecciando in mezzo agli alberi.
Seguo i suoni, sperando di arrivare in un punto più
civilizzato rispetto a dov’ero prima.
Smetto di correre quando mi rendo conto di essere in
prossimità di una strada molto trafficata; comincio a correre a lato della
strada, abbastanza lontana per non farmi vedere dalle persone. Dovrò pure
arrivare da qualche parte.
Nel vedere la città di Londra dopo poche ore di corsa rimango
molto sorpresa, pensavo che l’orfanotrofio fosse collocato molto più lontano
dalla civiltà.
Voglio lasciare questa città, questo paese, voglio andarmene.
Potrei andare a Volterra, potrei
scoprire chi sono, da dove vengo, ma ho troppa paura.
Paura di scoprire che in realtà sono una brutta persona che
ha fatto cose brutte, che ha fatto del male. Una vita
come la mia, una vita in cui tutti ti trattano di
merda o ti abbandonano, se la meritano solo persone che hanno fatto qualcosa di
sbagliato, ma io non riesco a ricordare.
Non ricordo nulla, prima della mia prigionia. Non ricordo
nemmeno quando mi ci hanno portato, chi mi ci ha portato.
Ricordo solo quella cella. E Lui, che mi ha fatto provare
sensazioni che nessuno dovrebbe provare. Paura, per la
mia vita. Ansia, pensando a quando sarebbe tornato. Il dolore, mentre faceva
cose impronunciabili. Ho subito violenze, ho mangiato una volta alla settimana per anni. Non ho mai soddisfatto questa
presunta sete di sangue. Immobile in una cella, per tanto, troppo tempo, senza
vedere nessuno, senza parlare, respirando sempre la stessa aria.
Riesco ad arrivare, con non poca fatica, all’
aeroporto, quello stesso aeroporto di tanto tempo fa. Entro e davanti a
me si presenta subito lo schermo con le partenze e gli arrivi.
Berlino, Roma, Madrid, Copenaghen. C’è l’imbarazzo della
scelta.
Trovo una sedia e mi siedo. Apro la borsa e prendo i
documenti con i dati che mi aveva affibbiato quell’uomo.
Secondo quanto dice qui, mi chiamo Elizabeth
Smith, sono nata l’11 settembre 2006 a Londra.
Dovrei avere 17 anni, ma a me
sembra di averne più o meno 20, o 21.
Alzo lo sguardo di nuovo verso le schermo e leggendo tutti
quei nomi della città, riesco a trovare quella perfetta: Mosca.