Abbandonata

di Renesmee_CuLLen
(/viewuser.php?uid=83260)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


18 gennaio 2016

 

 

 

 

 

Dalle tenebre di quella che ormai era diventata casa mia, vidi entrare prepotente una luce abbagliante, che mi costrinse a coprire gli occhi con il braccio destro, ricoperto da graffi, morsi e da sangue. Il mio sangue.

-“Presto alzati!” Urlò una voce maschile.

Non capii, non era Lui.

Lo vidi guardarsi alle spalle, per poi tendermi la sua mano. Non reagii.

Si avvicinò, quasi come se fosse arrabbiato, mi prese violentemente per un polso.

Nonostante riconobbi la presa possente e dolorosa che mi premeva sulla pelle, non sentii la Sua presa. Era diversa.

Quell’uomo mi trasmetteva paura, timore, ma soprattutto fretta.

-“Alzati, forza, voglio portarti via di qui!” Nonostante continuasse ad urlarmi contro di correre via, io non riuscii ad alzarmi.

D’un tratto lo vidi fissare un punto alle mie spalle. Lo vidi irrigidirsi.

Mi lasciò il polso, mi diede le spalle e se ne andò di corsa, chiudendo la porta blindata che riportò con sé le tenebre.

 

Poco dopo, sentii dei passi. Erano i Suoi passi.

Lo sentii girare la chiave, lentamente, come faceva ogni volta, per tormentarmi.

Poi sentii lo scatto finale della serratura, e vidi una sottile scia di luce entrare.

Ogni volta che veniva da me era attento nel non lasciare entrare troppa luce. Troppa speranza.

Si chiuse la porta alle spalle mentre continuava a fissarmi.

Si avvicinò. Mi afferrò per un polso e in un secondo il sangue smise di circolarmi nella mano.

La Sua morsa trasmetteva possesso.

Mi strattonò, in modo che il mio viso fosse a due centimetri dal Suo.

-“Allora, mia piccola Gea, dove eravamo rimasti l’ultima volta?”

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Passarono minuti, ore, giorni. Lui non si fece vivo per un po’.

Ma, un giorno, sentii di nuovo quei passi.

No, non i Suoi.

Era di nuovo quell’individuo sconosciuto.

L’ondata di luce mi colpii in viso, e io mi coprii di nuovo. Mi faceva paura.

Non fu come la volta prima.

Si precipitò su di me, mi afferrò per le spalle e mi tirò su in piedi, sempre tenendomi per non farmi cadere.

Era da tanto tempo che stavo seduta, o sdraiata. Non mi alzavo ormai da non so quanti anni.

-“E’ finita.” Tentò di sollevarmi, ma con la poca forza che avevo mi scansai.

Cominciai a piangere in silenzio.

-“Non abbiamo tempo!” Ricominciò ad urlare.

Non volevo andare. Non volevo andarmene da Lui. Si sarebbe arrabbiato.

Non sarebbe più venuto a trovarmi. Mi avrebbe fatto del male, più del solito.

Mi diceva sempre che lui senza di me non viveva.

Mi diceva che ero importante, che non poteva lasciarmi andare.

Mi diceva che sarei stata sempre con lui.

Mi diceva che non sarei vissuta più di un minuto là fuori.

-“Va bene ora basta!” L’uomo si avvicinò, avvolse la sua mano sulla mia bocca per non farmi urlare e mi trascinò fuori.

 

Non mi mossi. Non ci riuscii.

Le lacrime scorrevano sul mio viso, veloci, ma al tempo stesso lente.

Le sentivo scivolare giù, portandosi dietro tutta la mia amarezza, tutto il mio dolore.

Ma la paura era ancora lì, non se ne andava.

Il cuore batteva veloce, e i pensieri vorticavano nella testa.

Lui sarebbe tornato. Lui si sarebbe arrabbiato.

 

Non vidi nulla. Ero accecata dalle mie stesse lacrime, mi annebbiavano la vista.

Mi spinse dentro una macchina.

Riuscii a mettere a fuoco tutto e lo vidi sedersi al posto di guida e sfrecciare via.

Guardai attentamente i suoi lineamenti, i suoi capelli, i suoi occhi. Rossi come il sangue.

Non sapevo chi, o cosa fosse.

Fermò bruscamente la macchina. Scese, prese uno zaino poggiato sui sedili posteriori, aprì la portiera e, senza che io riuscissi a capire cosa stesse facendo, mi infilò una felpa, dei pantaloni, delle scarpe e un cappello. Mi fece scendere e mi trascinò via.

Non capivo nulla. Non vedevo più nulla.

Non sapevo con chi ero, dov’ero, e soprattutto perché non ero più nelle mie tenebre.

Con la vista offuscata vidi tante persone che mi venivano incontro, senza guardarmi realmente, senza avere una vera meta.

Poi non so cosa successe, vidi l’individuo parlare con una donna, vestita di blu.

L’unica parola che riuscii a sentire fu “Londra”.

 

 

_

 

 

I miei ricordi riprendono in uno strano luogo, non avevo idea di dove mi trovassi.

Lui era sempre con me, mi teneva per un braccio  e mi trascinava via in mezzo alle persone.

Poi mi accorsi che si stava dirigendo verso una macchina, mi ci spinse dentro e sfrecciò via.

 

Ci fermammo davanti a un’enorme casa, malandata e piena di erbacce.

Lui scese, riprese lo zaino e venne ad aprire la mia portiera. Mi prese delicatamente, come non aveva mai fatto dal nostro primo incontro. Mise le sue mani sulle mie spalle e mi guardò negli occhi.

-“Ora vai alla porta.” Tolse la sua mano destra per prendere una lettera che aveva in tasca e me la diede.

–“Dai questa a chi ti aprirà.”

Afferrai la lettera e la guardai. Notai uno strano segno rosso.

Lui mi riprese per le spalle.

-“E’ importante che tu non parli. Mai. È fondamentale. Ricordatelo.”

Mi lasciò andare, rientrò in macchina e se ne andò.

 

Rimasi a guardare il punto in cui era sparito per non so quanto tempo; presi lo zaino, riguardai la lettera e mi incamminai verso la porta, non avendo idea di dove stessi andando o di cosa stessi facendo.

 

Bussai piano, tre volte.

Mi aprì una signora anziana, ricordo che non mi fece una bella impressione.

Mi guardò dalla testa ai piedi.

-“Chi sei?” Mi chiese con una voce acuta e fastidiosa.

Io le porsi la lettera. Lei mi guardò e la aprii titubante.

Quando i suoi occhi smisero di scorrere su quel foglio di carta mi riguardò in viso.

Non fu uno sguardo di pietà, né di compassione. Mi sembrò addirittura infastidita.

Si spostò dalla porta e mi fece entrare.

 

Non potevo lontanamente immaginare tutto quello che accadde poi.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


23 marzo 2023

 

 

Mi è sempre piaciuto il buio, la solitudine; ma, soprattutto, mi piace essere muta.

Non parlo ormai da tempo; c’è stato un periodo in cui pensavo davvero che la mia testa potesse scoppiare da un momento all’altro, non riuscivo a contenere tutti i pensieri che mi frullavano in testa.

Poi, fortunatamente, molte delle domande mentali che mi ponevo hanno avuto una risposta.

Per esempio, cosa sono io? Sicuramente non umana.

Qui, gli altri mi ritengono strana, mi allontanano.

Dicono che sono una strega. Lo dicono da quella volta che mi è scoppiato un bicchiere di vetro pieno d’acqua nella mano.

Sì, è strano, ma le streghe non esistono. Ho cercato di dare mille spiegazioni a quell’evento, ma senza risultato.

Mi hanno deriso. Non volevo neanche ribattere, e poi anche se avessi voluto, non avrei potuto. L’istruzione di quell’uomo fu netta e chiara. E io l’ho rispettata per sette anni.

Non parlo, per gli altri sono muta.

 

Con “gli altri” intendo tutti gli altri orfani come me. Quell’uomo misterioso mi ha portato in questa baracca, gestita dalla signora White, una vecchiaccia acida.

Io sono la strega, l’emarginata, “quella che ha la bocca cucita”, quella allontanata.

A me non dispiace. Sono felice così come sto.

Ho la mia danza, il mio pianoforte ed i miei adorati libri. Non chiedo altro.

 

Mi sono sempre chiesta chi sono, da dove vengo.

Ricordo solo la cella buia. I ricordi precedenti li ho totalmente rimossi.

Spesso ho provato a concentrarmi per ricordare, ma il risultato è stato sempre un gran mal di testa. In realtà, non so se voglio conoscere la mia identità.

Se ero rinchiusa in quella cella un motivo ci sarà stato, e mi spaventa molto scoprirlo.

Non lo so, forse sarò stata colpevole di qualcosa. E l’ultima cosa che voglio è tornare lì.

 

Tutti si stanno ritirando per andare a letto, rispettando il coprifuoco stabilito dalla signora White, ma io devo assolutamente bere un bicchiere d’acqua, ho molta sete.

 

Sono sulla soglia della porta della cucina quando sento qualcosa di metallico cadere a terra.

Mi affaccio per guardare cosa sta succedendo e vedo un coltello ricoperto di sangue sul pavimento. Alzo lo sguardo e vedo il cuoco che si tampona una ferita al braccio con la mano, premendo forte. Nonostante i suoi sforzi, il sangue cola lungo il suo avambraccio per poi cadere lentamente a terra.

 

Percepisco un cambiamento. Sento una strana sensazione, mai provata prima.

Il mio corpo sta mutando.

Sono pervasa da piccole convulsioni, sento un dolore improvviso ai denti, nello specifico nei canini, che mi fa spalancare la bocca da cui emano un suono mostruoso, simile a un ringhio. La testa mi scoppia e sento che tutto, lentamente, sta rallentando.

Poi la quiete.

Non sento il cuore battere, il sangue scorrere. Sento letteralmente il vuoto.

 

Poi, d’un tratto, sento un odore, il più buono che abbia mai sentito nella mia vita.

Mi giro e vedo il cuoco schiacciato contro il muro che mi fissa.

Ha paura, lo percepisco.

Io fisso la sua ferita, capisco che l’odore che sento è quello del sangue.

Smetto di pensare, smetto di essere umana  e mi fiondo su di lui, mi faccio trasportare dall’istinto. Lo spingo ancora di più contro al muro e infilo i miei canini nella sua carne.

No, non sono decisamente umana.

 

Realizzato di essere soddisfatta, mi stacco dalla vittima e la fisso immobile al suolo.

Alzo lo sguardo e vedo il mio riflesso su uno specchio verticale.

Mi avvicino. Sono pallida, i miei ricci rossi sembrano la criniera di un leone. I miei occhi sono rossi come il sangue. Come quello di cui mi sono appena nutrita. Come quelli dell’individuo sconosciuto. Mostro i denti al mio riflesso e vedo i canini sporgenti più che mai. Richiudo la bocca, spaventata da me stessa.

Mi guardo in giro, controllando che nessuno abbia visto niente. La mia vista e il mio udito non sono normali. Riesco a sentire tutto.

Noto una bottiglia d’acqua sul tavolo. È incredibile, non sento più il bisogno di bere acqua, non sento la fame, non sento la stanchezza.

Che strana creatura sono? Non posso essere una strega.

 

Ho appena bevuto del sangue.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


Corro verso la stanza della signora White. Apro leggermente la porta e mi affaccio. Dorme.

Mi fiondo verso il suo studio, poche porte più un là. Entro e accendo la luce.

Mi metto seduta sulla sua poltrona e apro tutti i cassetti.

Guardo tutte le carte, le leggo tutte con una velocità impressionante.

Poi sul fondo dell’ultimo cassetto lo vedo. Vedo quello strano segno rosso.

L’afferro e lo riconosco: il simbolo che era sulla lettera che mi aveva consegnato quell’uomo.

Faccio attenzione che tutti stiano a letto e la apro.

 

Alla presenza della signora White.

La ragazza che si trova davanti a lei è muta, ed è orfana di padre e di madre.

Io non posso badare a lei, mi è impossibile, le farei solo del male.

Potrebbe presentare dei strani comportamenti, ma fanno parte di lei.

Per favore, si prenda cura di lei.

 

Strani comportamenti? Che significa?

Giro la lettera e fisso quel simbolo rosso. Fissandolo attentamente noto una scritta minuscola.

 

“Volterra”

 

 

 

 

Nel buio mi dirigo velocemente verso la biblioteca. Prima non sarei mai riuscita a vedere, poi con la mia goffaggine sarei caduta ogni due metri.

Mi avvicino a uno scaffale e prendo una delle mille enciclopedie che mi compaiono davanti.

Sfoglio le pagine, fino ad arrivare alla lettera V. Eccola, “Volterra”:

 

Volterra è un comune italiano della provincia di Pisa.

 

Una città in Italia? Ma io sono in Inghilterra. Che c’entra?

Non capisco.

A Volterra troverei delle risposte? O solo guai?

Non so chi sono, cosa sono in grado di fare. Mi metto seduta e comincio a sfogliare le pagine dell’enciclopedia, rimuginando su cosa devo fare.

Poi abbasso gli occhi e mi ritrovo davanti una parola.

 

VAMPIRO: essere mitologico o folkloristico che sopravvive nutrendosi dell’essenza vitale (generalmente sotto forma di sangue) di altre creature.

 

Ma che sciocchezza, i vampiri non esistono.

Inesorabilmente mi torna in mente il corpo che pochi minuti prima ho prosciugato senza pietà. Forse non è una sciocchezza.

 

 

Nel modo più silenzioso possibile mi dirigo verso la camera comune dove dormiamo noi ragazze. Mi avvicino velocemente al mio armadio, afferro tutto quello che mi potrebbe servire e tutto quello che non potrei mai lasciare qui: le mie scarpette da punta, i miei spartiti, alcuni vestiti, i documenti, il passaporto e la lettera misteriosa. Butto tutto nel borsone e corro via dalla stanza e mi dirigo di nuovo verso la camera della signora White. Mi avvicino ai suoi cassetti, ne apro uno e trovo subito delle banconote.

Ne afferro una manciata ed esco dalla stanza chiudendomi piano la porta alle spalle.

Cammino per tutto l’atrio fino ad arrivare alla porta.

Osservo quella che è stata la mia casa per sette lunghi anni, e che non mi vedrà mai più.

 

Davanti a me si presenta una foresta innevata. Mi guardo intorno, non avendo idea di dove devo andare. Poi, improvvisamente, sento dei suoni, delle macchine.

Il mio corpo si lascia andare, senza che io gli dia il permesso, e senza rendermene conto mi ritrovo a correre ad una velocità impressionante, sfrecciando in mezzo agli alberi.

Seguo i suoni, sperando di arrivare in un punto più civilizzato rispetto a dov’ero prima.

Smetto di correre quando mi rendo conto di essere in prossimità di una strada molto trafficata; comincio a correre a lato della strada, abbastanza lontana per non farmi vedere dalle persone. Dovrò pure arrivare da qualche parte.

 

Nel vedere la città di Londra dopo poche ore di corsa rimango molto sorpresa, pensavo che l’orfanotrofio fosse collocato molto più lontano dalla civiltà.

Voglio lasciare questa città, questo paese, voglio andarmene.

 

Potrei andare a Volterra, potrei scoprire chi sono, da dove vengo, ma ho troppa paura.

Paura di scoprire che in realtà sono una brutta persona che ha fatto cose brutte, che ha fatto del male. Una vita come la mia, una vita in cui tutti ti trattano di merda o ti abbandonano, se la meritano solo persone che hanno fatto qualcosa di sbagliato, ma io non riesco a ricordare.

Non ricordo nulla, prima della mia prigionia. Non ricordo nemmeno quando mi ci hanno portato, chi mi ci ha portato.

Ricordo solo quella cella. E Lui, che mi ha fatto provare sensazioni che nessuno dovrebbe provare. Paura, per la mia vita. Ansia, pensando a quando sarebbe tornato. Il dolore, mentre faceva cose impronunciabili. Ho subito violenze, ho mangiato una volta alla settimana per anni. Non ho mai soddisfatto questa presunta sete di sangue. Immobile in una cella, per tanto, troppo tempo, senza vedere nessuno, senza parlare, respirando sempre la stessa aria.

 

Riesco ad arrivare, con non poca fatica, all’ aeroporto, quello stesso aeroporto di tanto tempo fa. Entro e davanti a me si presenta subito lo schermo con le partenze e gli arrivi.

Berlino, Roma, Madrid, Copenaghen. C’è l’imbarazzo della scelta.

Trovo una sedia e mi siedo. Apro la borsa e prendo i documenti con i dati che mi aveva affibbiato quell’uomo.

Secondo quanto dice qui, mi chiamo Elizabeth Smith, sono nata l’11 settembre 2006 a Londra.

Dovrei avere 17 anni, ma a me sembra di averne più o meno 20, o 21.

Alzo lo sguardo di nuovo verso le schermo e leggendo tutti quei nomi della città, riesco a trovare quella perfetta: Mosca.

 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=2294040