Pastelli di Luce

di Belle_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Color cielo ***
Capitolo 2: *** Color luna ***
Capitolo 3: *** Color blu ***
Capitolo 4: *** Color oro ***
Capitolo 5: *** Color bianco ***
Capitolo 6: *** Color marrone ***
Capitolo 7: *** Color Indaco ***
Capitolo 8: *** Color cielo ***
Capitolo 9: *** Color sangue ***
Capitolo 10: *** Color giallo ***
Capitolo 11: *** Color Mamoru ***



Capitolo 1
*** Color cielo ***





Pastelli di Luce
 


1) Color Cielo




Bruciava. Quella ferita bruciava.
Era nascosta in qualche posto in cui Usagi non capiva, ma bruciava intensamente. E seppe sin da subito di non ricordare dove esattamente stava bruciando, ma sentiva il fuoco da qualche parte del suo corpo e sentiva che quel fuoco avvampava sempre con più forza. Una forza tremenda.
Decise così di aprire gli occhi, di inumidire le labbra secche, di alzarsi in qualche modo e di fare qualcosa che le era rimasto da fare, ma non ricordava cosa. Sapeva che era una cosa importante, qualcosa che doveva fare prima di addormentarsi, ma proprio non le veniva in mente.
Le sembrava di aver dormito per giorni.
Pazienza, pensò. Lo avrebbe ricordato in seguito.
Così aprì gli occhi e la luce del neon la ferì, se li strofinò con la mano e, mugugnando impercettibilmente, si alzò da quel posto così caldo. Si guardò attorno e capì che il suo rifugio era l'ospedale, lo aveva capito già da prima per via dell'odore acuto, ma le premeva sapere un'altra cosa che non lasciava troppo spazio ai dubbi.
Come ci era arrivata in ospedale?
Si toccò istintivamente le mani, strofinandole.
Era un brutto vizio, quello, ma sapeva che strofinarsi i palmi delle mani era un rito, un capriccio della sua mente per controllare qualsiasi evento le capitava e che proprio non riusciva a gestire.
Si osservò e non trovò nulla di rotto, oltre che quel mal di testa lancinante e le fasce sotto il pigiama, proprio sull'addome, che cercava di coprire ferite sanguigne. Si pizzicò e a bruciare ora furono le striature rossastre che non guarivano sotto le bende.
Emise gemiti di dolore, respirando affannosamente.
Sentì la porta cigolare e si rigettò nel letto, voltandosi verso la finestra e stendendosi di fianco. Trattenne il respiro e non si spiegò il perché di quel suo nascondersi, ma non si era nemmeno spiegata il perché si trovava in un ospedale con l'addome completamente scorticato. Si accucciò, sperando in una parte piccolissima e recondita di cambiare quello stato di malata, di capire come mai era in un ospedale.
La porta si aprì completamente e, insieme a passi incerti, entrò un rivolo d'aria fresca che accarezzò di nascosto nelle caviglie scoperte di Usagi.
«Si è voltata?».
La voce sull'uscio della porta parve disorientata, forse un po’ sollevata.
Usagi si era domandata cosa c'era di strano nel voltarsi durante il sonno, ma la domanda scappò via subito perché quella bruciante sensazione che si trovava sotto la sua pelle le suggerì, con comando immediato, di voltarsi e guardare negli occhi chi si preoccupava dei suoi movimenti nel sonno.
Era una voce maschile. Era un uomo, un corpo con una voce calda, aveva note incerte nel suo timbro di voce eppure erano così personali. Un voce ferma, fredda, una voce sua.
La sentì improvvisamente addosso, a ricordo di qualcosa che le sfuggiva.
Usagi si voltò di scatto, incapace di trattenere la curiosità, e si ritrovò ad ammirare un ragazzo che non riconosceva, ma che sentiva di averlo visto tante volte, di aver provato a baciare le sue labbra e di aver cercato rifugio dentro le sue braccia. Sapeva che dentro quelle braccia c’era un mondo, un cielo, un mare che l’avevano aspettata. Qualcosa di suo.
Il ragazzo sussultò, facendo un passo indietro, e afferrò la maniglia della porta per sorreggersi e fermare il mondo che girava vorticosamente. Increspò le lunghe sopracciglia nere e il viso si contrasse, mentre i suoi occhi color cielo tremavano per l'emozione e le labbra si incurvavano in giù.
Usagi notò quella cicatrice tra la guancia e il sorriso si plasmava e si deformava, assecondando le rughe del lieve sorriso. Lo rendeva così… vero.
«Usagi...», pronunciò.
Fu un flutto tremendo a colpirle il cuore, dei ricordi senza identità.
La cosa più strana che ritrovò a chiedersi non fu chi era quel ragazzo bellissimo, vestito con i jeans a sigaretta e camicia azzurra sotto un giubbino di pelle nero, con quei capelli neri e vaporosi come piaceva a lei, ma si stava chiedendo se il suo nome fosse davvero Usagi. Non si era chiesta chi era proprio perché lei sentiva di essere qualcuno e di aver fatto qualcosa che la reputava importante in quel pezzetto di vita, e di dover finire quell'azione che aveva lasciato a metà e che ancora non ricordava.
«Sei sveglia», mormorò, inebetito.
Lo disse come a confermare a se stesso una teoria lontana, quasi impossibile, come a ricordarsi che svegliarsi era una funzione normale e realizzabile.
Usagi lesse in quel tono di voce un soffio di speranza che rinasceva a poco a poco, un pezzo di colore che veniva fuori da quegli occhi come il cielo di inverno. Un cielo di mezzanotte. Un cielo tutto suo.
E, quando il ragazzo si avvicinò a lei e l'abbracciò con forza, sentì dentro le sue ossa quella speranza che sapeva di amore, quell'emozione che sapeva di passione.
Quel passato che sapeva di sale. Era amore.
Lui era amore.
Un po' impietrita e imbarazzata, guardò attonita il volto del ragazzo che la sovrastava e che sembrava amarla con quegli occhi azzurri. E sembrava che anche lei lo stesse amando, o che lo avesse amato.
Ma perché non lo ricordava? Caspita, avrebbe dovuto ricordarsi di essere stata con uno schianto simile!
«Usagi...», ripeté con dolcezza.
Le stava accarezzando le guance piene di biancore, poi passò a toccarle i capelli dorati lasciati anonimi sulle spalle, ed infine sfiorò le sue labbra con entrambe le mani, con tutte e dieci le dita. La toccava come se fosse tutta roba sua, come se in qualche tempo tutta quella pelle, quelle palpitazioni e quelle ossa fossero state sue. Solo sue.
«Usagi...», sussurrò ancora.
Si chinò sul suo viso con gli occhi dischiusi, le labbra pronte ad improntarsi sulle sue, il respiro spezzato da un'emozione più grande.
Ma lei si scostò, spaventata, e iniziò a toccarsi le mani con morbosità.
Lui le fermò con la sua presa salda, sicura e spaventosa, consapevole di quel vizio immaturo, e la stava fissando con quegli occhi suoi, color cielo. Un cielo antico si stava stagliando su di lei, un cielo pieno di dolore.
Usagi aveva così tante domande sulla lingua, così tante cose da sapere, ma la sua voce uscì con un rantolo e con un lento respiro.
«Il mio nome è Usagi?».
Gli occhi di quello sconosciuto si sbarrarono, colti da un dolore improvviso, mesti alla resa, alla sconfitta perenne. Come a volerle dire che doveva esserci qualcosa che non sarebbe mai andata nel verso giusto, tra di loro. Sospirò, arreso, gli abbassò in un estremo gesto di dolore e strinse le sue mani con una forza che dalle sue parole non uscì.
«Sì, tu sei Usagi Tsukino».
Usagi annuì, seria.
Sapeva che non doveva chiederglielo perché quella domanda gli avrebbe fatto male e non se la sentiva di vedere quel cielo discendere su di lei insieme ad una tempesta, ma doveva sapere.
«Tu chi sei?».
Il ragazzo deglutì e si sforzò di sorridere.
Quel sorriso forzato, spinto da chissà quali forze, le ricordava qualcosa di tremendo e lontano, antico e dal sapore di morte.
«Mamoru», rispose.
«E... sei il mio ragazzo?», chiese con un certo timore.
«Quasi», sorrise. Un sorriso bucato.
«Quasi?».
Mamoru annuì. «Quasi».


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Capitolo 2
*** Color luna ***





2) Color Luna



C'era qualcosa in quel sogno ricorrente che la infastidiva, la spaventava quasi.
All'inizio, Usagi aveva persino paura a chiudere gli occhi, paura di addormentarsi perché le veniva sempre in mente il ricordo di quel Mamoru affranto, dispiaciuto, combattuto per la sua amnesia. E non dimenticava il volto provato della madre, del padre e di sua sorella, volti spezzati, portati alla deriva.
All’inizio cercò di non dormire, aveva paura di non svegliarsi più, ma la stanchezza vinceva sulle sue palpebre e lentamente si addormentava, cullata in uno stato insicuro dove non c'era altro che bianco.
Stanze vuote, incolori. Porte grandi e ceree, porte vecchie con grandi graffi. C'erano finestre con i vetri rotti, con venature bianche gelide, finestre che la barravano in una casa colma di mura immense e accecanti, finestre che le mostravano ombre che si muovevano energicamente oltre il vetro e che, in qualche modo, capiva che stavano cercando lei.
Sentirsi intrappolata nella sua amnesia era inevitabile.
Si mordicchiò il labbro inferiore, mentre ripensava a quello strano sogno. Stava scendendo dalle scale di marmo dell'ospedale con sua madre, con la donna che si era presentata come sua madre e che non riconosceva, con la maglia di lana tra le mani e un sorriso lasciato a metà dal suo viso graffiato.
Scendeva in silenzio.
Si sentiva a disagio accanto a quella donna alta, mora, dall'aria di chi è perennemente arrabbiato con il mondo, anche se sentiva che c'era qualcosa di forte tra di loro. Qualcosa di forte come un legame eterno. All'inizio aveva persino pensato che non poteva essere sua madre, vista la differenza fisica tra di loro e la differenza degli animi che riusciva a vedere dentro i suoi occhi duri e color cioccolato.
Erano due opposti in continuo ciclo, Usagi lo sapeva.
E, proprio mentre scendeva l'ultimo scalino, vide Mamoru che incedeva verso di lei con l'espressione interdetta e corrucciata, stringeva una rosa bianca in una mano e il casco integrale da motociclista nell'altra. Così dimenticò il cruccio riguardo alla madre.
Si fermò davanti a lui, lui si fermò davanti a lei, e si guardarono negli occhi, ognuno alla disperata ricerca di qualcosa dentro gli occhi dell'altro.
«Ti mandano a casa?», le chiese con un tono di voce intimidatorio.
Le porse il bocciolo di rosa bianca, impacchettato per bene dalla carta blu, con uno strano sorriso che gli aveva visto quasi sempre negli ultimi giorni. In contraddizione con il tono di voce appena usato.
Usagi la afferrò con un sorriso, accostandola al naso per assaporare il profumo fresco che sapeva di rugiada e di innocenza, e sentì le briciole del profumo di Mamoru sui petali della rosa. Era un profumo forte, speziato, dolce. Era un profumo che sapeva di amare. Sapeva, ma non ricordava.
«Mi piacciono le rose bianche?», chiese, aprendo gli occhi.
Mamoru davanti a lei rimase inibito, la guardava con la bocca socchiusa e con gli occhi fissi sulle sue labbra, quelle stesse labbra che giorni prima Usagi gli aveva negato appena sveglia. Si sforzò di guardarla negli occhi, di vedere dentro di lei tutto il vuoto che si era portata l'amnesia, e le disse: «Preferisci le rose rosse».
«E perché mi porti quelle bianche?». Era un po' confusa.
Mamoru fece spallucce, sorridendo amaramente. «Tanto non ricordi niente, che senso ha portarti qualcosa di cui non ricordi il gusto?».
Le stava dando una colpa, come se lei avesse voluto perdere la memoria volontariamente, come se a lei fosse piaciuto perdere tutto quello che aveva costruito in diciotto anni.
Già, ma cosa aveva costruito in diciotto anni?
«E allora perché continui a venire?», si difese.
Mamoru capì il senso della domanda, si avvicinò al suo volto e si abbassò per poterla guardare bene negli occhi. Afferrò la sua testa bionda e l'accostò alla sua, cozzando, ma attento che anche quel contatto potesse scatenare un nuovo rifiuto.
Invece rimase lì: sotto i suoi occhi, a guardarlo e ad aspettare che parlasse.
«Perché tu mi ami», sussurrò infine. Arreso, esasperato.
«Questo lo so, non sono stupida».
Fu una risposta del tutto involontaria, uscì e basta, ma non poteva certo negare di sapere che amava quest'uomo che le stava davanti. Era l'unica cosa che era rimasta dentro di lei, dopo il suo risveglio.
«Almeno questo non l'hai scordato», commentò, acido.
«Tu non ti scopri mai, vero?», lo prese in contropiede. «Vieni a trovarmi perché io ti amo e non perché sei il mio quasi-fidanzato?».
Nonostante non ricordasse chi era quel Mamoru e di come lo aveva conosciuto, di come lo aveva amato e di come lui amava lei, Usagi aveva capito nei giorni in cui era rimasta in ospedale che era una persona schiva, un po' fredda e molto riservata. Era una persona che non si faceva raggiungere mai da nessuno, una persona che viveva delle sue insicurezze e ne faceva una corazza impenetrabile. Come un eremita.
Sapeva di odiare tutto quel silenzio di Mamoru, sapeva che nel passato lei era stata molto chiassosa, sapeva che unire quei due ingredienti non era un'ottima idea. Perché erano due eterni opposti in continua attrazione. Due mondi che non si fondevano bene.
«Le cose non sono così semplici, Usagi. Un tempo lo sapevi».
Si allontanò e rinunciò a baciarla, come aveva desiderato ogni notte mentre lei era confinata in quel coma maledetto. E mentre il mondo non smetteva ancora di vorticare e recargli dolore. Tutto a causa di una serata difettosa. Si era ripromesso che se fosse tornata quaggiù, le avrebbe dato sempre un bacio. Uno profondo, vero, uno come quelli che non le aveva dato mai.
Soffiò un sospiro affranto, inchiodando gli occhi di Usagi.
«Un tempo ricordavo», lo ammonì.
Sorrise a malincuore, Mamoru, e si drizzò con la schiena. Notò che aveva scorto la figura di Ikuko a qualche passo distante da loro.
«Buongiorno, signora Tsukino», disse educato.
«Mamoru», biascicò a denti stretti. Sua madre lo aveva salutato con freddezza.
«Le dispiace se prima accompagno Usagi a prendere un gelato?», chiese, voltandosi completamente dalla donna.
Il volto di Ikuko si impietrì quasi istantaneamente, schioccò uno sguardo truce proprio a Mamoru e scosse la testa. «
E con cosa? Con quella motocicletta? Con quella macchina per uccidere. No, non ci pensare, Mamoru».
Il sospiro di Mamoru lo sentì addosso, un sospiro davvero stanco. Forse un po' arrabbiato, ma pervaso da una spossatezza languida.
«Be', signora, quella macchina per uccidere a me ancora non ha fatto nemmeno un graffio», rispose un po' offeso. «Comunque, vorrei accompagnarla a prendere un gelato alla gelateria che sta qui di fronte. A piedi».
Ikuko guardò Mamoru con un nuovo sguardo arrabbiato, con le labbra strette e stropicciate tra loro, come se avesse voluto dirgli chissà quale dolore, forse dargli una colpa davvero grossa, ma poi guardò sua figlia. Proprio quella ragazza che aveva commesso uno dei gesti che mai si sarebbe aspettata, proprio quella figlia con la quale litigava ogni giorno, quella figlia che aveva visto inanimata e che le aveva spezzato il cuore solo nel vederla con gli occhi chiusi e su un lettino d’ospedale.
«E va bene, andate pure, ma tra mezz'ora vi voglio qui».
Mamoru scosse la testa, tenendosi dentro qualcosa da dire, ma afferrò le spalle di Usagi e la portò con sé oltre la muratura dell'ospedale, sempre tenendola stretta. Sempre guardandola con la coda dell'occhio, come se avesse potuto sfuggire da lui. Ma Usagi non sarebbe scappata dal calore della sua pelle, le dava una sicurezza quasi maledetta e sapeva che non avrebbe voluto rinunciarci.
Mamoru sentì Usagi accucciarsi al suo torace, sentendosi rilassato nel poter finalmente risentire il suo corpo contro il suo e il profumo dei suoi capelli che gli solleticava il naso. Per lui, quello, fu uno di quei momenti che avrebbe ricordato a vita, un pezzo di pace poco per volta si riappiccicava al suo cuore e ne era solo felice. Sì, felice. Una felicità tremenda.
Usagi teneva stretta la rosa e sentiva ancora quel fuoco bruciare in qualche parte introvabile, sentiva ancora le lingue di quelle fiamme che pizzicavano le ferite sotto l'addome e dentro il petto. Cercavano di bruciare il suo cuore, forse?
Doveva ricordare qualcosa di importante, doveva fare qualcosa, e non le veniva niente alla mente e le pareti bianche si facevano più alte, più insormontabili. E il fuoco avvampava in quel posto nascosto con più forza. Con più crudeltà, trascinandola nell'oblio.
Una mano di Mamoru premette distrattamente contro una sua spalla e lei si sentì pervadere dal senso di benessere, una sensazione così chiara e potente che decise di voler rimanere lì per sempre.
«Mi piace mangiare il gelato?», chiese, cercando di intrattenere una conversazione.
Lui stava ordinando i suoi gusti preferiti, cioccolato e liquirizia con piccoli confetti di cioccolato sulle palline gelate, e le diede un'occhiata di sbieco.
«Da matti e, appena lo mangi, ti senti sempre in colpa».
Usagi ebbe un moto di rabbia. «E allora perché vuoi farmelo mangiare? Accipicchia!».
Mamoru le porse il cono con dolcezza e ridacchiò, guardandola trafelata e infastidita dal suo comportamento sempre un po' immaturo. Ma lui era sempre così con lei: amava vederla in difficoltà, amava prenderla in giro. Qualcosa non era cambiato, si disse.
«Ne è valsa la pena», commentò.
«Se lo dici tu... », giudicò lei e iniziò il suo gelato.
Il gusto giunse dritto al cuore e gli occhi blu di Usagi si spalancarono improvvisamente, affranti e disgustati da un forte dolore. Anche quel gusto le suggeriva qualcosa, voleva ricordarle un evento, ma, mentre si sforzava nel capire il messaggio che Mamoru aveva nascosto nel gelato, le venne il mal di testa più acuto che avrebbe ricordato.
Chiuse gli occhi, lanciando a terra il gelato e stringendosi le meningi con le dita vanamente.
Mamoru accorse, massaggiandole le tempie con le sue dita affusolate e sicure, il volto verso il suo e gli occhi spaventati. Il suo corpo era chino verso quello di Usagi, completamente pieno di lei e dei suoi umori. Il contatto delle sue mani ebbe la capacità di calmare il pulsare prepotente delle sue vene, godendo appieno delle carezze tondeggianti che percorrevano il suo viso.
Chiuse gli occhi, rilassata.
«Stai meglio ora?», le soffiò dolcemente.
Il soffio leggero raggiunse la pelle che attorniava il suo sguardo e dovette aprire gli occhi, a malincuore.
«Sta passando...», affermò tremante.
Cercò di non morire sotto le sue mani. Perché sotto quel tocco così semplice si velava un'intimità sofferta.
Mamoru cercò di sorridere, ma la tristezza era più forte e distorse il suo sorriso infelice, facendo comprendere a Usagi quanto dolore c'era dentro la sua prima vita. Con un impeto furioso, non si trattenne e l'abbracciò a sé, come se ogni fibra delle sue braccia avesse potuto ridarle ogni ricordo perduto, come se abbracciarla fosse una cura contro l'amnesia. L'unica cura.
«Mamoru...», cercò di dire.
Lui la stringeva con troppa forza e il fuoco nascosto dentro Usagi scoppiettava, aumentava, si innalzava. La stava uccidendo, senza un motivo.
Alzò appena gli occhi e vide quelli di Mamoru che la inghiottivano nella loro profondità, la rapivano per portarla dentro quell'impeto intenso, dentro un cielo scuro e pieno di fulmini che saettavano contro il suo cuore. Dentro quel cielo lei era già morta...
«Ti prego, chiamami solo una volta Mamochan. Una sola volta».
Adesso soltanto cominciò a considerare la reazione di Mamoru, ne fu confusa e abbagliata nello stesso momento. Quel dolore colpiva anche lei.
«Come?».
«Mamochan. Mi prendevi sempre in giro chiamandomi così. Amavi chiamarmi così davanti alla mia ragazza», confessò con voce rotta.
Non ci fu il tempo di registrare ogni sua espressione, tutto si confuse e si deformò contro il suo cuore già arso da un fuoco lontano e maligno.
«Davanti alla tua ragazza?», chiese sbigottita.
Mamoru annuì, lasciandola andare con un certo turbamento, sofferente.
«Ora capisco quel quasi-fidanzato», disse, odiandosi. «Siamo amanti, allora?».
Lui accennò ad una smorfia un po' disgustata, ma tornò subito glaciale.
«Oh, no, credimi», disse, sorridendo.
«Non sarò venuta a letto con te, vero?».
Le mani di Usagi si incontrarono per iniziare a strofinarsi l'una contro l'altra, con agitazione, con trepidazione. Con dolore.
«No», si accigliò. «Ti sarebbe dispiaciuto?».
Dispiaciuto. L'unica cosa che trovava piacevole era il colore dei suoi occhi, tutto adesso le dispiaceva, tutto le confermava una vita che non voleva.
«Sei fidanzato, santo cielo! Mi sarebbe dispiaciuto moltissimo, per la tua ragazza. Non avrei mai potuto ferire un'altra persona così».
Forse voleva urlare, ma lo sussurrò, colta da una sofferenza che non era sua e che purtroppo sentiva appropriarsi del suo cuore, delle sue membra. «
Non sono una persona così cattiva, vero?», domandò sempre con un sussurro.
Tremare fu solo un riflesso, ma capì che era davvero spaventata.
Mamoru tremò, ma non lo disse a Usagi. Si avvicinò a lei, accarezzandole il viso con affetto e dolcezza con quelle dita perfette. Solo per rassicurarla, solo per salvarla almeno una volta. Le rispose con i suoi occhi, addolcendoli.
No, non lo sei, dissero quei pozzi angelici.
«Per fortuna, la tua purezza è rimasta intatta anche dopo questa maledetta amnesia», mormorò con un debole sorriso. «E anche la tua virtù con me non è stata profanata, tranquilla. Non sei una tipa tanto facile, anche se l'ho desiderato più di una volta».
Forse lo aveva desiderato anche lei, ma non volle scoprirlo.
«Come puoi pensare una cosa simile?». Usagi era profondamente provata.
«Cosa dici?». Le fermò le mani con le sue calde, lunghe, perfette.
«Hai una ragazza. Come puoi pensare di andare a letto con un'altra donna? Come puoi pensare di venire a letto con me?».
La testa corvina di Mamoru si mosse in un cenno di negazione, stropicciò le labbra in una smorfia di disgusto, in un dolore disgustoso che la pungeva.
«Stiamo parlando di te, Usagi», biascicò a denti stretti. «Stiamo parlando di te e me, gli eterni attratti che si sono sfuggiti per una vita. Se solo ricordassi anche una piccola parte di tutto ciò che ci circondava, non saresti così dura contro i miei pensieri».
Gli eterni attratti. Sfuggiti per una vita.
Ma di che vita stava parlando? Quale mondo circondava quella Usagi lontana che era stata per diciotto anni?
«Ma io non ricordo niente e nemmeno voglio ricordare questa tresca orribile. Non voglio essere una ragazza così, non voglio ferire un'altra persona. Non voglio, non voglio!».
Usagi prese a piangere fortemente, sentendosi sempre più spaesata dentro questa realtà così cattiva, così lontana. Non si riconosceva, non sentiva vere quelle parole, quelle verità disperate che sentiva dire da un uomo altrettanto disperato. Non poteva essere lei una persona del genere, non poteva credere che il suo cuore fosse legato ad un uomo già impegnato, un uomo che aveva già amato un'altra donna, non poteva credere che tutto quel silenzio nella sua mente serviva a nascondere una delle cose peggiori al mondo. Era una traditrice. Una che aveva sbagliato tanto e a lungo.
Mamoru le accarezzò una guancia, le diede la sua mano per farla alzare dalla panchina e la strinse con un solo braccio. Abbassò la testa.
«Credimi, Usako: appena ricorderai, sarai meno dura con te stessa. E con me», le sussurrò.
Quell'ultima frase fu una supplica, una richiesta di perdono silenziosa e disperata. Una supplica implicita, tipica di Mamoru.
«Tu non puoi immaginare come io mi senta spaccata a metà, adesso. Accidenti, non ricordo assolutamente niente della mia vita ed ora vengo a conoscenza che ero una poco di buono! Una che ruba i fidanzati! E la cosa peggiore è che non ricordo assolutamente niente di tutto questo!».
Usagi iniziò a dimenarsi, a strofinare le mani con quel fare ossessivo, a odiarsi così fortemente che una parvenza di un ricordo le tornò nel cuore. Si era odiata per tutta la vita, lei.
Mamoru la bloccò nuovamente, trattenendo i suoi comandi. Le impose una rigidità, un appoggio solido.
«Sta' calma, respira».
Lei fece guizzare i suoi occhi dentro quelli di Mamoru e sentì con dolcezza che la paura iniziava a sciogliersi, a cambiare forma, a diventare un ricordo sparso nel color antico che sapeva di buono, che sapeva di casa. Ma era ancora troppo lontano da lei, troppo flebile per scontrarsi con le mura di amianto bianco che ostruivano la sua mente. Riprese il respiro regolare e afferrò un suo braccio muscoloso con una forza disperata, conficcando le unghia nella sua pelle, sentendosi così inebetita sotto quegli occhi color cielo da dover trovare riparo. Così incapace di avercela contro se stessa per averlo amato.
Seppe che qualunque memoria le fosse tornata, Mamoru sarebbe rimasto accanto a lei, a sorreggerla, a fermarle quel brutto vizio delle mani, a farla respirare, a farle da scudo benché il vero pericolo fosse lui. Amarlo significava amare la propria malattia.
«Va meglio?».
Usagi annuì.
Lui non ne fu molto convinto, ma credette ai suoi gesti silenti e le afferrò una mano, portandola con sé. Oltre la gelateria, oltre l'amnesia.
«Andiamo», pronunciò un po’ indeciso.
Usagi lo seguì con lo sguardo basso.
Proseguirono verso l'ospedale in un comodo silenzio, ancora stretti l'uno all'altra in una sorta di catena di bilanciamento. Si amavano, in qualche modo Usagi e Mamoru avevano avuto un passato insieme, e cercavano di trovare il giusto incastro in quel groviglio di fili spinati.
Arrivati davanti al cancello, Mamoru sospirò e si diresse verso la sua motocicletta, lasciandola andare senza dire una parola. Lasciarsi fu un vero dolore interno che non mostrò, per orgoglio.
Usagi rimase stupefatta davanti a quella modella metallica, blu cobalto, scintillante sotto quel timido sole di dicembre. Sembrava essere una parte di Mamoru, lo raccontava nel silenzio del parcheggio. Forse era proprio quel silenzio a parlare di lui, di quel pezzo di lui.
Ne sorrise, dolcemente.
«Mamoru...», lo chiamò.
Mamochan, lo chiamò dentro sé.
«Sì?».
Lui si voltò, prima di infilarsi il suo casco scuro, e le rivolse uno di quei sguardi penetranti che le avrebbero lasciato addosso troppo brividi. Per un momento dimenticò cosa volesse chiedergli, poi parlò.
«Mi piacciono le moto?».
Mamoru annuì, sorridente. Forse felice, ma fu una flebile parvenza.
«Soprattutto i motociclisti», ammiccò.
Lei non poté far altro che arrossire; dentro quell'occhio socchiuso e quell'affermazione c'era un passato condiviso, un'allusione timida e sincera ad un amore travagliato e intenso. C'erano loro, ciò che erano stati.
«Che bel colore...», commentò.
Passò un dito sulla carrozzeria blu scintillante con tanta delicatezza, sentendo di toccare una parte molto intima di Mamoru.
«E' color luna», disse dolcemente lui.
«Color luna? Ma la luna è bianca», lo corresse.
Mamoru annunciò un lieve sorriso e abbassò la visiera, nascondendo uno sguardo addolorato, accese la moto e rombò atrocemente poco prima di partire. Un ultimo cenno ad Usagi con la testa e partì più veloce della luce, mentre il respiro graffiante ruggiva contro il cielo, contro il mondo. Contro quell'amnesia che gli aveva tolto ogni colore addosso.
Lei si sentiva debole e scoraggiata, ma nello stesso tempo affascinata da quel colore insolito della moto e dai movimenti enigmatici e affascinanti di Mamoru. Da Mamoru solamente che era una parte integrante della sua vecchia vita, forse l'unica parte.
Alcuni passi la raggiunsero e trovò sua madre al suo fianco.
«E' tutto ok, tesoro?», le chiese, mentre in macchina.
«E' tutto ok», confermò, infilandosi in auto. «Se sapessi cosa vuol dire ''tutto ok''».



Tre ore dopo, Usagi se ne stava seduta nella sua cameretta, inginocchiata su un morbido cuscino e messa di fronte al piccolo tavolo pieno di fotografie e fogli di carta bianca. Ancora immacolati.
Puntellò la penna sul foglio bianco, un foglio vergine che aspettava che un solo nome fosse scritto, e afferrò una tra le numerose fotografie. Fotografie date da sua madre, consigliate dal medico per indurre la memoria a tornare, a ricordare almeno i volti delle persone.
Ma come può un cuore dimentico amare quei volti?
Si accigliò e sbruffò. Prese la fotografia di una notte d'estate. C’era un luogo illuminato da luci di candela, soffuse e tiepide, e colorato da tanti palloncini verdi, un buffet generoso nello sfondo e un gran movimento attorno ai soggetti fotografati. C'era lei, sorridente nonostante il rossetto rosso porpora sulle labbra, flessuosa in quel vestito color ciliegia, elegante, senza spalline e con il punto vita che lasciava scendere la gonna lunga fino a toccare i suoi vertiginosi tacchi bianchi. Bellissima con quell'acconciatura vintage che le scopriva un lato del visino color alabastro, ondulati e vaporosi lungo l'altro lato del volto. Oro brillante che colava su una spalla e portati in avanti mentre la rosa bianca, appuntata sulla testa, le ricordava quanta semplicità poteva esserci dentro di lei e con quanta semplicità amasse quel momento. Felice, portava in mano una torta a forma di mezzaluna con il numero 18 come candeline, mentre con un sorriso splendido si appoggiava ad una ragazza un po' più alta di lei che sorrideva affettuosa alla camera.
La ragazza, che le era vicino, era mozzafiato. Lo riconobbe. Il volto era a forma di cuore, le labbra abbondanti e rosa perla, gli occhi grigi e a mandorla, accentuati dalla matita nera attorno ad essi. Erano letali, tremendi e affascinanti. I capelli erano neri corvini, ondulati e lunghissimi, lasciati sciolti e che ricadevano in avanti, coccolando il viso perfetto e completamente candido. La mano della ragazza mora stringeva la spalla di Usagi con una certa forza, un certo affetto che sembrava evidente dal sorriso di entrambe. Sembravano essere molto amiche.
La osservò ancora una volta, strinse gli occhi e si sforzò. Usagi cercò di ricordare chi fosse quella ragazza e perché si stringevano così affettuosamente al suo compleanno, cercava di trovare il suo nome alla fine di quel mal di testa, ma il bianco ancora accecava la sua mente. Anzi, sembrava aumentare l'ampiezza delle stanze bianche e sperdute, e questo la fece infuriare. Desiderava fortemente abbattere quelle mura di amianto.
Ma con quale forza? Poteva bastare quella di volontà?
Posò la fotografia, un po' con aria disperata, e bevve un lungo sorso dalla sua tazza con i coniglietti bianchi e vaghi richiami della mezzaluna. Era cioccolata calda e, senza ricordare, sapeva che le piaceva moltissimo. Guardò fuori dalla finestra e si rincuorò che oltre quella finestra poteva vedere nitidamente, senza bianchi accecanti che le otturavano la vista, e godé dello scrosciare della pioggia sul tetto spiovente di casa sua.
Casa sua.
Era così strano stare dentro quella stanza, dentro quelle camere che non sentiva sue.
Ma forse sentirsi un’estranea dentro casa sua, per i primi tempi, era una cosa normale, si disse. Trovarsi in una cameretta in cui non riconosceva nemmeno un oggetto, nemmeno una foto dove era ritratto il suo corpo e il suo sorriso era davvero scoraggiante. Non riconosceva nemmeno il proprio viso, a dir la verità, perché aveva perso la coscienza di se stessa e non ricordava come era quella Usagi Tsukino e chi era dietro quelle foto. S
embrava felice in ogni foto; quindi era una ragazza di diciotto anni, aveva un'amica affettuosa ed era felice.
Felice. Sì, l’espressione raggiante non lasciava dubbi.
Per Mamoru, forse?
Si guardò attorno e vide tanti pezzi di una vita sconosciuta, tante lacrime sparse sul letto, forse proprio per lui, tanti segreti sussurrati alla finestra, tanti sogni lasciati a giacere sul cuscino. Tanti ricordi rimasti in pezzi, dietro al suo incidente. Tanti volti annebbiati, tanti sorrisi dimenticati. Era una stanza ricca di ricordi, ma nessuno giungeva alla sua mente.
E' color luna.
Riassaporò l'emozione di un ricordo rimasto nella mente, un ricordo fresco ma che era già così antico, e si domandò che colore era 'color luna'. L'aveva ammirata una sera dalla finestra dell'ospedale e aveva chiesto a sua madre che cosa era quella palla sul cielo e perché brillava in quel modo così maestoso. Sapeva cos'era, ma non ricordava come era fatta una luna. E aveva visto la tinta scintillante e polverosa che rischiarava il cielo blu.
Argento e bianco, colori della luna, ripeté dentro sé.
E sulla motocicletta non c'erano colori simili o caricature stilizzate di essa. Nulla, solo un significato assordante che non afferrava.
Il cielo tuonò spaventosamente e Usagi tremò, gettando un urletto mentre si stringeva come per ripararsi da un nemico sonoro. Un nemico temuto.
Quando la luce del lampo scomparve un secondo dopo, alzò gli occhi verso il cielo arrabbiato e denso di nuvole nere e chiese: «Ho paura dei tuoni?».
«Sì...».
Quando si voltò verso la porta, vide una piccola ragazza che era incerta sull'uscio, timorosa e affranta almeno quanto lei per quella situazione spinosa. Gli occhi scarlatti erano uggiosi , le code che dovevano essere state vaporose erano flosce e oscurate dal mal tempo e il rosa pastello era spento, triste, come la sua espressione sul visino identico al proprio.
Guardarla le fece un certo effetto. Era come specchiarsi. Ebbe un moto di affetto incondizionato verso quella bambina, quella creatura che le avevano detto di essere sua sorella minore, e volle abbracciarla, ma c'era un muro che le impediva di allungare le braccia e stringerla. C'era qualcosa in tutto quel biancore nella sua mente che le diceva di provare del rancore verso di lei, nonostante sentisse il cuore straziarsi di un affetto incommensurabile.
Deglutì e l'affrontò.
«Chibiusa, vero?», le chiese con una punta di rigidità nella voce.
La ragazza annuì seriamente e si avvicinò a lei, sedendosi attorno al tavolino pieno di fotografie. Ogni suo movimento le ricordava sempre qualcosa e questo premette nel petto di Usagi con molta profondità, perché c'era una malinconia trascinata in sua sorella. C’era tensione nell’aria e una forma di imbarazzo.
Chibiusa prese la fotografia che un attimo prima Usagi aveva studiato, la rigirò e commentò: «Che bella serata! Peccato che tu non ricordi dell'emozione quando hai scoperto della festa a sorpresa e di come ti sei abbuffata di dolci, mentre ridevi come una matta».
Usagi, però, di quell'allegria che c'era dentro quel ricordo, trovò solo un enorme fastidio, un magone che non faceva altro che aumentare. Provò della rabbia verso sua sorella perché si permetteva di ricordare cose che doveva sapere lei, esperienze sue che aveva amato e che le erano state portate via da un coma di un mese e mezzo, da una commozione celebrale.
Si sentiva interrotta, lei era un ciclo interrotto.
Usagi si sentiva così: difettosa. A metà. Senza un arto, senza un passato.
Forse Chibiusa si accorse dello stato catartico in cui era, così le toccò un braccio con la punta di un dito e le sorrise.
«Non ricordi nemmeno questa ragazza?», le indicò quell'amica sorridente e bellissima che era con lei nella foto.
Scosse la testa a 'mo di no.
«Lei è Nehellenia, eravate inseparabili».
Non la ricordava, non sentiva nemmeno un senso di affetto verso di lei e lo trovava molto strano, perché aveva imparato ad avere una sorta di sesto senso verso quelle persone di cui non ricordava. Per quei volti senza nomi. Era capace di sentire solo le briciole dell'amore provato per loro, era già tanto per una mente amnetica come la sua. Era successo con Mamoru appena lo aveva visto e con Chibiusa quando le era stata presentata da sua madre.
Dentro di lei c'erano i residui dell'emozioni provate di quella vita non ricordata, sprazzi di amori sentiti tanto sulla pelle e che rimanevano là a solleticare solo le emozioni, senza discendere nella carne e quindi nel cuore.
«Forse è un bene», commentò seccamente. «Non è stata molto gentile con te».
Chibiusa sospirò tristemente e sventolò la fotografia.
Fu in quel momento che Usagi vide quell'ombra nella fotografia, quella figura accostata a un angolo che fissava la protagonista della festa con uno sguardo accigliato e intenso. Con lo sguardo identico al cielo.
Mamoru.
Se ne stava lì, poggiato ad un muro con la schiena e le braccia conserte, la sua camicia rosa chiaro con le maniche arrotolate lungo i gomiti, lasciata fuori i pantaloni di jeans, con il volto adombrato dalla voluminosa chioma corvina. Se ne stava lì, solo, in un angolo, a guardarla mentre lei con la sua vita andava incontro alla maggiore età e forse a voltargli le spalle, se ne stava lì a guardare quella rosa bianca sulla sua testa bionda. E proprio studiando quell'ombra che Usagi ebbe un dubbio, ricordando della rosa bianca che Mamoru le aveva portato quando era uscita dall'ospedale.
Capì che era successo qualcosa tra loro, ma non sapeva spiegarsi la sensazione contraddittoria e contrastante che mangiava lo stomaco. Qualcosa di triste. Qualcosa di doloroso. Forse troppo dolorosa.
Chiuse gli occhi, taciturna più che mai. Cercò di distruggere i muri bianchi inutilmente e si procurò una fitta profonda alla testa, facendo impazzire il sangue nelle arterie. Ma lei desiderava sapere cosa erano loro due.
«Non sforzarti, Usagi. I ricordi torneranno da soli», le disse dolcemente Chibiusa.
Fu un sorriso tiepido e dolce quello che le rivolse Chibiusa, un sorriso amico e che riconosceva lontanamente.
«Come fai a saperlo?».
Ogni risposta che trovava, per Usagi era una nuova domanda da porsi.
«Ogni giorno guarderai dentro i nostri occhi, ogni giorno imparerai ad amarci come se fosse stata la prima volta, nonostante sappiamo che sarà la seconda volta, ed è così che ricorderai. Con le emozioni nuove, troverai le vecchie».
Sì, perché quella che stava vivendo era una seconda possibilità. La versione romantica che aveva dato a tutta quella tragica faccenda era che stava rivivendo la sua vita, dimenticando ciò che in passato aveva vissuto, ciò che nell’adolescenza chiunque avrebbe voluto scordare. Era rinata, dopo l’incidente. Era prima morta per quarantacinque giorni e poi era tornata alla vita, ripercorrendo tutti i passi primari , quelli che si fanno traballando con le mani della mamma che ti attendono, ma con le gambe perfettamente funzionanti.
«Chi te le racconta queste belle cose?», mormorò.
«Tu. Me le raccontavi tu», Chibiusa si commosse.
Usagi la osservò e notò il grande dolore che portava quella sua malattia, era un dolore che ghermiva la cerchia di persone che le erano vicino e doveva far male. Quella era l'altra faccia della medaglia: il dolore altrui.
Le sorrise e afferrò la foto.
«Devo chiamare Nehellenia, allora».
Chibiusa storse il muso. «Perché non chiami Mamoru, invece?», chiese tutto d'un fiato.
Mamoru? Batté le palpebre, incredula.
«Perché proprio lui?», chiese per risposta. Ed era molto infastidita.
«Perché lui è la tua marcia in più».
Credimi, Usako: appena ricorderai, sarai meno dura con te stessa. E con me.
La sua marcia in più. Le sue tende, le sue coperte, le sue fotografie, le sue pantofole, le sue penne, i suoi quaderni, i suoi profumi. Le sue emozioni.
Tutto era suo, eppure nulla sentiva che le apparteneva. Era tutto lontano, vuoto, inutile. Era tutto estraneo.
Perché lui è la tua marcia in più.
Un sospiro forte, una mano traballante sul tavolo.
E' tutto ok, tesoro?
E' tutto ok.

La stanza che vorticava e l'immagine della luna nella sua testa, il mal di testa che si ingrandiva e inghiottiva i suoi recenti ricordi, annebbiando tutto.
Mamochan.
Un tonfo e Usagi cadde a terra, raggomitolata in se stessa, mentre urlava per il mal di testa, per i ricordi accalcati che spingevano contro il muro bianco con forza, con veemenza. Come a voler sfondare tutto dolorosamente.
Un tonfo e la confusione prese possesso della sua mente, sentendo lontane le voci di Ikuko e Chibiusa, un tonfo e i ricordi di qualche giorno prima si mescolavano alla distorsione dei suoni, delle immagini.
Mi prendevi sempre in giro chiamandomi così.
La sua marcia in più. Le sue tende, le sue coperte, le sue fotografie, le sue pantofole, le sue penne, i suoi quaderni, i suoi profumi. Le sue emozioni.
Amavi chiamarmi così davanti alla mia ragazza.
Davanti alla tua ragazza?

La sua ragazza. La ragazza di Mamoru.
Un fiotto pesante nella testa oscurò tutto e Usagi perse i sensi.



 

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Capitolo 3
*** Color blu ***





-3) Color Blu  
      Un po' acqua, un po' cielo.




Usagi si trovava nella grande stanza bianca e vedeva tanti vasi di argilla pieni d'acqua fino all'orlo, vasi color crema e senza un disegno, vasi fermi, duri, colmi di acqua limpida. Tantissime giare, sparsi per tutta la stanza bianca dalle mura alte, tanti che gocciolavano, tanti che riproducevano il suono dell'acqua. Fresco, rilassante. Il suono puro della natura. Usagi guardò i vasi e vide riflettere il suo viso sullo specchio d'acqua, un visetto pallido, tremante, impaurito. Fece più attenzione e nello specchio d'acqua trovò, oltre la sua immagine, il riverbero argentato della luna piena. Se ne stava sullo sfondo, dietro il suo viso, ferma nel cielo blu. Usagi si voltò indietro e vide soltanto le mura bianche, così tornò a guardare il riflesso nei vasi e c'era la luna ritratta su ogni pozza, scintillante, prosperosa, ammiccante. Luminosa. Luce d'argento si allungava sulla superficie delle pozze, il cerchio perfetto e ruvido brillava di bianco puro.
Argento e bianco, colori della luna.
Qualcosa deviò i suoi occhi dalle pozze e dalla luna riflessa.
… Disturbo... a lungo termine...
… Forma acuta...
… Retrograda...
… No... per fortuna, non...
… Amnesia...

Usagi spalancò gli occhi, ascoltando l'ultima parola che per lei significava il dolore più profondo. Amnesia, perdita della memoria. Malattia del suo cuore. Perdita delle persone. Trovò davanti a sé un uomo che stava seduto sul suo letto con le gambe lunghe e accavallate, i pantaloni rigidi che formavano uno svolazzo di lato. L'uomo gesticolava molto e Usagi non poté non vedere le lunghe dita snelle, curate, che stringevano un penna stilografica tra l'indice e il medio. Mani da dottore. Non si spiegava come faceva sapere come fossero le mani dei medici, ma c'erano così tante cose che non si spiegava, cose a cui non trovava spiegazioni. Cose come il suo incidente, come era finita in coma? Perché la madre ogni volta si ammutoliva e non profferiva parola? E cose come Mamoru. Come poteva essere possibile che lui fosse già fidanzato se amava lei?
Sospirò fortemente, distrutta.
<< Esatto, signora. >>, disse loquace, il medico.
Sua madre sbirciò di lato e poté vedere che Usagi aveva aperto gli occhi. << Usagi! >>.
L'uomo si voltò e sorrise a Usagi con un bellissimo sorriso affascinante. << Come stai? >>, le chiese mentre usava la sua pila per esaminare gli occhi. << Piacere, Usagi, io sono Diamond! Sono il tuo medico curante. >>.
Usagi strizzò gli occhi, ferita dal faro di luce che la investì improvvisamente, e storse il muso. << Piacere... >>, mormorò.
<< Hai mal di testa? >>.
<< Sì. >>, sospirò e finalmente la luce cessò di infastidirla.
<< Uhm, uhm. >>, annuì il medico e sorrise ancora.
Gli occhi di Usagi avevano smesso di avere bagliori che le bruciavano la vista e poté vedere la chioma argentata del medico, fili lunghi che coprivano il viso, e i suoi occhi profondi.
<< Usagi, ricordi cosa stavi pensando prima di perdere i sensi? >>.
<< A Mamoru. >>, ammise troppo sinceramente.
<< Mamoru Chiba? >>, chiese, innalzando un sopracciglio argenteo.
<< Credo... >>. Usagi si accigliò. << Lo conosce? >>.
<< Sì, è un tirocinante del mio reparto, anzi è il mio tirocinante. Che strano tipo! >>, sorrise ancora. << Ora capisco perché prima girovagava sempre accanto la tua stanza! >>.
Usagi si accorse di essere diventata rossa e non poté non accorgersi di sua madre che storse il muso appena sentì parlare di Mamoru. Si chiese cosa desse fastidio a sua madre di Mamoru, oltre l'evidente atteggiamento arrogante. C'erano tante cose da capire che quasi sentiva il pressante chiodo nelle tempie spingere nuovamente, così tirò un sospiro trattenuto e rifletté sul da farsi. Prese il foglio bianco sul tavolo della sua stanza, ed iniziò a scrivere.

Cose da fare:
-ricordare perché la mamma ce l'ha con Mamoru
-chiamare Mamoru
-incontrare Nehellenia
-rivedere le fotografie
-ricordare e basta.


<< Cosa scrivi? >>, chiese il medico.
<< Una lista di cose da fare. >>.
<< Brava, Usagi. Intanto, non sforzare troppo la mente nel ricordare. Può darsi che tornerà da sola la memoria, oppure... >>.
<< Oppure? >>, Usagi si allarmò.
<< Oppure, non riacquisterai mai la tua memoria. Vedi, Usagi, il tuo è un disturbo delle memoria a lungo termine, una forma acuta di amnesia. E' specifica nel caso di amnesia retrograda, quindi non ricordi nulla di ciò che ti è successo prima dell'incidente. E l'incidente stesso, a quanto pare. >>, il volto di Diamond era serio. << Guarirai, te lo prometto. Sono il neurochirurgo più rinomato di Tokyo. >>.
Usagi annuì e basta, strofinando le mani. Guardò oltre la finestra e attese che tutti se ne andassero, attese che rimanesse sola. Aveva bisogno di riposare, di stare sola con i suoi pensieri e i suoi ricordi difettosi, aveva bisogno di attendere un miracolo. Si accostò al tavolino e si mise a studiare le fotografie. Guardò tutti quei volti, tutti quei sorrisi accanto al suo, tutti quei corpi alti, bassi, magri, grassi, tutti quelle risate che formavano una grande nuvola invisibile su di loro. Risate che non raggiungevano il cuore di Usagi. Sospirò e afferrò l'ultima fotografia rimasta che ritrattava lei nella serata della sua festa di compleanno, sorridente e solare mentre era nel mezzo di due ragazzi alti molto più di lei. Il più basso nemmeno sfiorò la sua memoria; bellissimo con lo sguardo da finto innocente e verde smeraldo, lunghi capelli grigi, accomodati per bene accanto al visino perfetto, elegante per una semplice festa di compleanno. Ma fu il ragazzo più alto a stridere nella sua testa così fortemente che alla fine Usagi trovò il suo nome e lo pronunciò come se il miracolo stesso vivesse tra le sillabe di quel nome.
<< Seiya! >>.
Sgranando gli occhi, osservò il suo primo ricordo di quella vita passata e lontana, e lo ammirò. Ammirò i lunghi capelli ricciolini, stretti in un codino lungo e ribelle, ammirò il nero dei capelli, il blu acquatico dei suoi occhi. Un'acqua profonda, quelle acque degli oceani con metri di profondità da far paura. Ammirò il sorriso semplice, la furbizia decantata nell'espressione. Amò il suo primo ricordo, il primo nome pronunciato senza aver il timore di sbagliare, senza paura che non fosse vero. Quel ragazzo era Seiya, un suo compagno di scuola. Prese a ridere e si alzò con foga dal suo cuscino di pail, corse nella stanza di sua sorella, bussando freneticamente. << Chibiusa, Chibiusa! >>.
Chibiusa aprì un po' spaventata, << Che succede? >>.
Usagi alzò la sua fotografia e la indicò, sorridendole giuliva. << Lui è Seiya! E' Seiya! >>.
<< E allora? >>, disse Chibiusa, ma poi si accorse del messaggio della sorella. << Oh, mio Dio! Hai ricordato che lui è Seiya? Davvero, Usagi? >>.
<< Sì! >>, e Usagi abbracciò sua sorella in un impeto di felicità.
A Chibiusa scapparono alcune lacrime dal viso rosato, ma strinse ancor più forte sua sorella, godendo un po' della sua naturale ilarità, della sua allegria che per un mese e mezzo era mancata in quella casetta di periferia. << Brava, Usagi! >>. Quello era il nuovo inizio per tutta la famiglia, si era detta Chibiusa. Usagi era stata la fine, ma avrebbe riportato alla vita la loro famiglia. Distruzione e rinascita, Usagi era questo.
<< Ti prego, dimmi qualcosa di lui! Ricordo il suo nome, so che era un mio compagno di scuola, ma più di questo non vado oltre. >>.
Usagi aveva bisogno di sapere chi era quel Seiya che aveva ricordato, il primo nome che le si era appoggiato sulla lingua e la sua voce aveva suonato dolcemente. Era sicuramente una persona speciale se era stato il primo a ricordare, il primo a farla ridere e gioire. Non era successo nemmeno con Mamoru che aveva sentito sin dall'inizio di amare fortemente, ma non ricordava il suo nome e nemmeno chi fosse, cosa facesse e che avesse già una fidanzata. Sapeva solo di amarlo, ma non ricordava di averlo amato. Invece, quel ragazzo dagli occhi un po' come l'acqua profonda le era giunto sin nella mente, nella parte malata dove ragnatele di sangue coagulavano milioni di ricordi e sentimenti. Quel ragazzo, quel Seiya, era il primo che aveva aperto la sua mente.
Chibiusa sorrise, si sedettero sul letto. << Lui è Seiya Kou, e non è semplicemente un tuo compagno di classe. Lui è il tuo compagno di classe. Quello con il quale ti punzecchiavi appena arrivata in classe, quello che non sopportavi mai e che avresti preferito vedere in un calderone pieno di lava che seduto dietro di te nella tua classe. Quel compagno di classe che persino Mamoru ha... >>, si bloccò improvvisamente, scossa da un dubbio.
<< Continua, Chibiusa! Che ti prende? >>.
<< Mi domandavo se fosse giusto raccontarti queste cose, in fondo sono ricordi tuoi e devi riappropriartene da sola. Tu e la tua mente, con lentezza. >>.
<< Ma... >>.
<< Dimmi, Usagi, ricordi qualcosa di quello che ti ho appena raccontato? >>, chiese la piccola con il viso serio.
Usagi si sforzò di vedere tutto quello che Chibiusa le aveva descritto, cercò persino di immaginarselo e mentire pur di sentir raccontare di Seiya, ma nel bianco accecante della sua mente vedeva solo il viso di Seiya. Vedeva le sue braccia, lunghe e poco vigorose. Vedeva il suo busto nella solita camicia inamidata bianca, i bottoni del colletto slacciati che lasciavano vedere la sua collana di caucciù. Vedeva il suo collo lungo, bianco, che sorreggeva la sua testa. Vedeva la sua testa, sorridente, ricciolina, inclinata verso destra, gli occhi socchiusi nel sorriso e blu.
Blu, un po' come acqua.
Vedeva Seiya nel mezzo del bianco stanco della sua memoria, vedeva solo lui e il resto era il niente assoluto. La desolazione si appropriò nuovamente di Usagi, capitolandola nuovamente. Ripensò a Seiya, l'unico presente nei suoi ricordi. << No. >>, confessò a Chibiusa.
Sua sorella sorrise amaramente, le accarezzò una guancia e l'abbracciò. << Dai, Usagi, non essere triste. Come dicevi tu, un mal di denti non è eterno! >>.
<< Chibiusa... >>, si staccò leggermente dall'abbraccio. << A me piaceva Seiya? >>.
<< Forse, un po'. Forse, no. >>.
<< Domani ti va' di portarmi a fare un giro per Tokyo? >>, chiese infine, Usagi, guardando oltre la finestra della stanza di Chibiusa. Per un attimo si chiese come si sentiva bene sua sorella nel sentirsi a casa sua, nel riconoscere ogni oggetto come suo e non di un'estranea. La invidiò un po' e il rancore dettato dal biancore tornò a galla.
<< Centro commerciale? O Crown? >>. Chibiusa si illuminò per la gioia.
<< Dove vuoi. >>.
<< Allora, andiamo al Crown. Lì ci saranno molti tuoi amici e ti sarà utile per riprendere padronanza dei ricordi a poco a poco... >>.
Usagi sentì nel cuore il calore dolce e rassicurante dell'affetto della sorella, cancellando per il momento il rancore imposto dalla sua mente pigra. Le sorrise e le chiese: << Perché sei così gentile con me? >>.
<< Perché sei mia sorella, ti devo la vita! >>. Chibiusa sorrise raggiante.
<< Sai, la prima volta che ti sei presentata, ho sentito un grandissimo affetto verso di te, ma c'era qualcosa che mi impedisce di abbracciarti come se nulla fosse. C'è un rancore antico che mi destabilizza, oltre che questa memoria difettosa. >>, confessò alla sorella.
Chibiusa abbassò lo sguardo, sorrise amaramente. << Già... >>, mormorò.

La stessa notte Usagi dormì poco, girandosi nel letto molte volte e non trovando mai un po' di sollievo tra le calde lenzuola con i coniglietti. Passò tutta la notte a sbirciare la luna dalla finestra socchiusa, a domandarsi quali colori eterei fossero ritratti sulla motocicletta di Mamoru. E passò quasi tutta la notte a pensare al sollievo che aveva provato sotto il braccio di Mamoru, sotto il tocco suo, in mezzo ai suoi occhi pensierosi, tra le sue parole pungenti e offensive. Pensò a come era controcorrente tutta quella sua vita, come era complessa da capire per lei e la sua mente ferita. Si era chiesta, anche, come mai avesse ricordato solo il nome di Seiya e il suo volto. Perché lui e non Mamoru?
Infine, verso le luci dell'alba, Usagi si assopì molto più per stanchezza che per sonno e riposò a lungo, trovandosi sempre nel bianco spossante dei suoi sogni, ma stavolta con lei c'era Seiya che sorrideva. Non era più sola dentro il niente, c'era qualcuno che le sorrideva.
<< Tesoro, sei sveglia? >>.
<< Mmm... mmm... >>. Usagi non aveva voglia di svegliarsi, voleva rimanere ancora un po' a letto e riposare la sua mente, perché svegliarsi significava due cose in contrasto. Una cosa era la gioia di rialzarsi in un nuovo giorno, aprire gli occhi, vivere; l'altra erano le conseguenze che portava il suo risveglio imperfetto, il doversi chiedere il perché su ogni cosa, lo sforzare la mente nella ricerca della risposta che non arrivava.
<< Dai, Usagichan! >>, sua madre ridacchiò, divertita. << Alzati, Chibiusa ti sta aspettando per andare a fare un giro per la città. >>.
Usagi sbucò dalle coperte calde, guardando la madre in modo assonnato. La vide sorridente e affettuosa, ebbe un senso di profondo affetto, e si rincuorò di vederla così rilassata. << Perché ridi, mamma? >>, chiese, impastata.
<< Perché non ti alzi dal letto! >>, sorrise ancora. << Qualcosa non è cambiato! >>.
Usagi si chiese il perché, molte delle persone che le erano vicino, cercavano di trovare qualcosa che non fosse cambiato, qualcosa che le riportasse nel passato. Forse, perché le faceva felici. Ma per Usagi, che non aveva un passato al quale appellarsi, non era importante tornare come un tempo. Era importante capire, non tornare indietro.
<< Ora mi alzo, altri cinque minuti. >>.
<< Va bene... >>, la madre uscì dalla sua stanza.
Usagi, a malincuore, si alzò dal suo caldo giaciglio e andò verso l'armadio, lo aprì e scelse cosa indossare. Guardò il suo guardaroba con espressione esterrefatta e non si immaginava dentro quegli abiti così fantasiosi; c'erano gonne a vita alta, alcune morbide e altre rigide, jeans strappati, altri stretti a sigaretta, maglie attillate e da tonalità tenue, vestiti corti e medi. C'era un guardaroba colmo, e ridacchiò, intuendo che amasse fare shopping. Però, quel giorno decise di indossare un semplice jeans a sigaretta, una calda camicia a quadrettoni bianca e grigia con una maglia sotto. Acconciò i suoi capelli con i soliti codini paffuti, seguendo istintivamente le mani, e uscì dalla sua stanza.
<< Pronta! >>, disse alla sorella.
Chibiusa le sorrise e le strinse la mano, pronte per andare al Crown. Durante tutto il tragitto, Chibiusa non fece che parlare della sua scuola, di come lei e Hotaru fossero amiche, di come ci fosse un nuovo arrivato che le interessava. Helios, disse di chiamarsi, le piaceva molto con quella folta capigliatura biondo platino, quasi bianco, e gli occhi dorati. Usagi l'ascoltava silenziosa e attenta e annuiva, senza dire una sola parola. Poi disse una cosa che fece soffrire Usagi e la fece divenire molto rigida. << E' così che ti senti quando sei con Mamoru? Al tuo posto, felice. Appagata. >>.
< < Non lo so... >>, mormorò, abbassando lo sguardo.
<< Oh, scusami, Usachan. >>.
< < Tranquilla. >>, Usagi sorrise dolorosamente.
Chibiusa annuì, stanca , ma ridestò il suo buon umore, guardando il grande locale con le porte scorrevoli che era alla loro sinistra. << Siamo arrivati! >>.
Usagi sbirciò oltre il vetro della porta e vide un gran movimento dentro quella sala giochi, sentiva rumori elettronici e urla infantili. Si sentì nuovamente come dentro il suo sogno ricorrente, estraniata da una felicità che non le apparteneva, esclusa e sola. Abbassò gli occhi, mordendosi un labbro e strofinando le mani l'una contro l'altra. Una sua parte attese che Mamoru giungesse magicamente lì e le fermasse quel movimento ossessivo e sbagliato.
<< Dai, entriamo! >>. Chibiusa la trascinò dentro la sala giochi, facendo tintinnare le porte scorrevoli.
Appena Usagi entrò sentì il calore di un luogo scaldato dalle persone e non da aggeggi elettrici, sentì il profumo tipico di quella sala giochi- bar che ricordava appena, sentì la famigliarità farsi strada dolcemente e lentamente. Si guardò attorno e vide tante teste in movimento, tante risate sparse per la stanza, tanti amori nascosti, tante amicizie strette.
<< Usagi!!! >>, qualcuno urlò il suo nome. Si voltò e vide una bella bionda che saltellava verso di lei; era proprio bella con quei setosi capelli dorati, infantilmente raccolti in un nastro rosso, con quegli occhioni blu e seducenti e quel viso vispo e sereno. Le balzò letteralmente addosso, stringendola con un affetto che non sapeva potesse esistere, vedendo sul proprio viso il sorriso di quell'insolita ragazza che respirava con serenità.
<< Dai, Minako, non stritolarla! >>, disse un'altra voce che ridacchiava.
<< Come posso non stritolarla, Rei? Lei si è permessa di andare in coma e di non svegliarsi più per un mese e mezzo, si è permessa persino di non ricordarsi di me! Sapete quanto io sia vendicativa! >>. La sua voce era squillante, un flutto di civetteria buona.
<< Ti chiami Minako? >>, chiese Usagi un po' desolata.
<< Esatto! >>, annuì fortemente, tanto da far cozzare le loro teste l'una contro l'altra. Minako non si preoccupò di portare danni alla testa di Usagi, ma si premurò di presentarsi per bene in modo che la sua amata Usagi non avesse possibilità di dimenticarla. << Minako Aino, detta Minachan per gli amici. O semplicemente rompiscatole! >>.
Usagi sorrise, lieta. Peccato che non si ricordava di lei, era una boccata d'aria fresca per lei. Così Usagi l'abbracciò fortemente, << Piacere, Minachan. Sono sicura che diventeremo grandi amiche! >>.
<< Già lo siamo. >>, mormorò singhiozzante.
<< Ben tornata, Usagichan! >>, disse, sorridente, il barista. << Io sono Motoki. >>.
<< Sì, ben tornata, Usagi. >>, disse una voce familiare a Usagi. Osservò con più attenzione e vide la testa corvina di Mamoru reclinata in basso, vide le sue labbra strette mentre beveva una Cocacola con una cannuccia, vide il suo casco poggiato su una sedia vicina.
Perché lui è la tua marcia in più.
Il battito del cuore la resa ancor più confusa, non nascondendo a sé stessa di voler baciare quelle labbra, di voler attraversare la stanza e sedersi vicino a lui. <
< Ciao, Mamoru. >>, disse semplicemente.
<< Ecco, Mamoru se lo ricorda e di noi no! >>, disse Minako, imbronciata.
<< Ti sbagli, rompiscatole. Di me non si ricorda, sa chi sono perché quando era in ospedale le sono stato sempre vicino. >>.
<< E Galaxia lo sapeva? >>, chiese Minako, mordendosi subito dopo la lingua.
Usagi sentì il fuoco bruciare con troppo forza, quel fuoco nascosto adesso scoppiettava con ardore, tanto da far giungere le sue fiamme nella mente di Usagi, portandole il mal di testa che ripeteva come una nenia il nome di Galaxia. << Chi è Galaxia? >>, chiese.
<< Come non ti ricordi di Galaxia? >>, disse qualcuno che sbucò da dietro una macchina. Era una ragazza bellissima, una ragazza con occhi come il ghiaccio e capelli come la pece, una ragazza che Usagi aveva visto nelle fotografie.
Nehellenia.
<< Ciao, Nehellenia! >>, Usagi la fissava.
<< Come ti va la vita da smemorata, Usagi? Non cambia poi molto da prima. Guarda caso non ti ricordi di Galaxia, la ragazza di Mamoru. Che strana coincidenza! >>. Nehellenia iniziò a sorridere in modo fastidioso.
<< Io non mi ricordo di nessuno! >>, disse sulla difensiva.
<< E' un bene che non ti ricordi di me, io ti ho rovinato la vita! >>, ammiccò.
<< Nehellenia, che ne dici di andar via da qui? >>, disse la ragazza bruna che era accanto a Minako. La fissava con un fuoco che Usagi invidiò, un fuoco che scoppiettava nel violetto delle iride di quella ragazza. Doveva essere Rei, si disse.
<< No, lasciala rimanere. >>, disse Usagi, guardandola. << Voglio sentire cosa ha da dire sulla rovina della mia vita. >>.
<< Molto, credimi. >>, sibilò minacciosa.
<< Prego. >>, Usagi fece un passo avanti, verso Nehellenia, con lo sguardo intenso e determinato. << Inizia pure... >>.
<< Noi eravamo molto amiche, lo ricordi? Poi, però abbiamo litigato. >>.
<< Queste sono cose che già so, giungi al sodo. >>, commentò Usagi, sempre non lasciando il suo sguardo ghiacciato. Sempre osservando quei tratti del viso che erano mescolati con la nebbia della sua dimenticanza.
<< Sei una puttana. >>, ridacchiava, Nehellenia, mentre lo diceva.
All'inizio, Usagi si era chiesta se fosse vera una cosa del genere e, forse, un po' si sentiva una poco di buono a causa di Mamoru e di Galaxia, ma sapeva distinguere un'offesa da una verità. << E la cosa ti sconvolge perché sto seguendo le tue orme? >>, disse, infine.
Mamoru ridacchiò, divertito.
<< Come osi? >>. Nehellenia scattò in avanti e le afferrò bruscamente un braccio, avvicinandola al suo sguardo ghiacciato di cui Usagi non temeva. Si limitava a guardarla negli occhi, senza dire una parola.
Poi, Mamoru si avvicinò alle due litiganti e afferrò con accortezza il braccio di Usagi e lo allontanò dalla presa di Nehellenia. << E' meglio che vi separi prima che succeda qualcosa di spiacevole a una delle due... >>, disse, ridendo.
<< Esatto, altrimenti Usagi si farà molto male. >>, sogghignò Nehellenia.
<< Io parlavo di te, Nehellenia. >>, disse senza guardarla, trascinando con dolcezza Usagi.
Usagi guardò Mamoru con gli stessi occhi di cui si guardava un eroe, fissò i suoi occhi un po' come il cielo e se ne innamorò un'altra volta. Un'ennesima volta.
Perché lui è la tua marcia in più.
Mamoru la portò fuori il locale, nel freddo umido di dicembre, e le arrotolò la sua sciarpa con meticolosità. Poi, si accese una sigaretta e iniziò a boccheggiare anelli di fumo. << Ci sono cose che non cambiano mai, eh?!? >>, disse a Usagi, sorridendole dolcemente.
<< Fumi? >>, chiese, invece.
<< Non sono un fumatore accanito, Usagi. Fumo ogni tanto. >>.
<< Fumare fa comunque male. >>, lo rimbrottò.
<< E tu che ne sai? >>, un altro tiro profondo alla sigaretta e le si avvicinò, profumandola di fumo nocivo, fissandola negli occhi.
<< Lo so e basta. >>, girò la sua testa bionda di lato per non dovere guardare il suo sguardo magnetico.
Blu, un po' come il cielo.
<< Guardami. >>, le girò con dolcezza il viso per poterla guardare negli occhi.
Usagi, però, si staccò dalla presa vellutata di Mamoru e si voltò nuovamente di lato, accigliata e determinata. << Non voglio guardarti. >>.
<< Perché se lo facessi, non resteresti ferma. >>, le sussurrò, afferrandole nuovamente il mento con le sue dita perfette e calde. Quando gli furono davanti i suoi occhi, la osservò con malinconia e accostò il suo viso al suo orecchio. << Sarà sempre così, Usako. Ci sfuggiremo sempre. >>, bisbigliò rauco.
<< Sarà così solo se vogliamo che vada così. >>, mormorò incerta.
Mamoru ridacchiò. << Un cuore di pietra e un cuore di pane non possono convivere. >>.
<< E' il cuore di pietra che amerà con più intensità. >>.
<< I cuori di pietra non amano. >>, la corresse.
<< E' pur sempre un cuore, amerà per principio. >>, lo fissò con dolcezza e determinazione.
Mamoru sorrise come rincuorato da qualche pensiero annidato dentro i suoi occhi come cielo di dicembre, adombrato dalle nubi, screziato dai teneri raggi. La avvicinò ancor di più a sé e, non riuscendo a fermarsi, la baciò prima con fervore, ma poi, come se decise di godersi quel miracolo, la baciò con dolcezza. Inoltrò la lingua come avesse voluto prometterle quell'amore a lei sconosciuto, la roteò attorno alla sua, creando una scia stellata con la sua saliva, amando ogni singolo contatto tra le lingue.
Usagi sentiva di scoppiare, sentiva di dover stringersi al corpo di Mamoru e, quando si accoccolò al suo torace, fu come se iniziò a incastrarsi a lui, come se Usagi fosse stata disegnata appositamente per essere posizionata al fianco, tra le braccia, di Mamoru.
Quando si staccarono, si osservarono con imbarazzo.
Mamoru, però, osservando il viso di Usagi, ebbe l'impulso di doverla baciare di nuovo e lo fece con una passione raddoppiata, attorniando il gracile corpo con le sue braccia lunghe e stringendola come se ne fosse il solo padrone. Come se quei capelli dorati, impigliati tra le braccia sue e la spalla di Usagi, fossero suoi, come se la schiena incurvata verso di lui, tutte le ossa, tutti nervi intrecciati, tutti gli strati di pelle, fossero suoi. Come se Usagi fosse il suo modo di essere di più umano e non il medico-robot senza il sorriso che tutti conoscevano. Era come se Usagi fosse in grado di allargare le sue labbra e farlo sorridere con la sola forza del pensiero.
<< Piano... >>, mormorò Usagi, ritraendosi appena.
<< Cosa? >>, chiese confuso.
<< Le ferite... >>.
<< Oh, scusami! >>, si allontanò, guardandole il ventre. Non si era accorto che l'aveva abbracciata con troppo veemenza e le aveva fatto male, ma bastava che guardasse nuovamente il suo volto per aver ancora voglia di baciarla.
<< Ora passa... >>, disse.
<< Usagichan! >>, la chiamò un'altra voce maschile.
Usagi si girò e vide, davanti alla sala giochi, un ragazzo con un piumino addosso di colore nero, la zazzera corvina e riccioluta coperta da un cappellotto rosso, che la guardava con sorpresa e speranza. << Seiya! >>, corse verso di lui.
<< Ti ricordi di me? >>, chiese, sorpreso.
<< Ti ricordi di lui? >>, chiese Mamoru, giunto al suo fianco.


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Capitolo 4
*** Color oro ***







- 4) Color Oro
       Un po' ruggine, un po' sole.



Usagi si trovava sotto gli occhi blu di Seiya e li osservava come si osserva la caduta di una stella luminosa nel cielo nero. Proprio come si guardava in faccia un miracolo, ed era sciocco, si disse, ma per lei era così adesso. Era senza una famiglia, senza una radice sulla quale sedere, senza un passato sul quale affacciare. Era così: povera di ricordi e poter guardare il volto a disagio di Seiya per lei voleva dire avere tra le mani un oggetto dorato. Un tesoro ambito, conquistato.
<< Ti ricordi di lui, Usagi? >>.
La voce di Mamoru la riportò alla realtà, lo strisciare delle parole la inondò nuovamente di sensazioni contrastanti e tristi. Odiava sentirsi così, odiava essere sempre in difficoltà nel dover spiegare cose di cui non conosceva l'origine, di arrancare ad essere sé stessa. E c'era una cosa che nessuno cercava di ricordare o semplicemente capire: Usagi non sapeva essere sé stessa, non si ricordava com'era essere sé stessi. Si sentiva una sconosciuta, dentro una pelle che non le apparteneva, a gestire una vita che non apprezzava.
Guardò attentamente Mamoru e non poteva fare a meno di sentire dentro tutto l'amore sepolto dai ricordi che sapevano di ruggine; lo sentiva dentro, forte e ruggiva, era un amore arrabbiato, un amore con troppa passione mai svelata. Lo sentiva palpitare dentro con quella pulsazione potente come se volesse uscire dal suo corpo, come se avesse voluto arrivare alle guance di quel Mamoru preoccupato che aveva davanti e avesse voluto perforargli la pelle, come se avesse voluto bucargli un lembo di pelle, o un occhio, o ancora perforargli il cuore per fargli sentire quante sensazioni, quanti sentimenti erano per lui. Perché lei apprezzava ed amava qualsiasi cosa di lui, le piccole imperfezioni e i pregi che l'affascinavano, ma ciò che la conquistava era il suo lato peggiore.
A Usagi piacevano le cose con i difetti.
<< Sì, l'ho ricordato mentre osservavo le fotografie del mio diciottesimo compleanno. >>.
<< E di me proprio non ti ricordi? >>, chiese con fatica, con gli occhi blu che luccicavano e speravano. Attendevano lei e la sua illuminazione, il suo ricordo. Gli occhi color cielo sembravano schiantarsi contro di lei con tutta la loro irruenza e intensità, e la portavano ad odiare il nuovo miracolo della sua vita invece di amarlo. Si odiava per non essersi ricordata di Mamoru, si sentiva sempre peggio.
<< No... >>, scosse la testa con lentezza.
Seiya fece un passo avanti e Usagi sentì la brezza serena che aleggiava attorno al suo viso, la luce che si appiccicava alle sue labbra e che induceva a sorridere anche lei. << Non forzarla, Mamoru: ricorderà. Questo è già un passo avanti, sapevamo benissimo che Usagi aveva una mente instancabile e attenta. >>.
Mamoru fissò Usagi e poi Seiya con un'espressione così atroce che bucò il cuore di Usagi un'altra volta, quella violenza che sentiva cucita addosso per via di quello sguardo che oscurava il suo cielo e lo faceva tuonare di lampi dorati, quella malinconia raccontata solo da uno sguardo. Si soffermò su Seiya che cercava di sorridere e Usagi ebbe la sensazione che Mamoru lo stesse avvelenando con il suo sguardo pieno di acido, come se avesse potuto ossidare la luce di Seiya.
<< Sì, piano piano ricorderò anche di te! >>, cercò di sorridere anche Usagi e seppe che il coraggio le venne solo grazie a Seiya che le allungava la luce positiva che sapeva di sole e di stelle.
<< Ma vaffanculo! >>, furono le parole uscite dalla bocca di Mamoru. Gettò a terra la sua sigaretta ancora accesa, girò i tacchi e lanciò uno sguardo a Usagi e Seiya, andandosene via. Usagi rimase interdetta, lo osservava mentre si incamminava per la sua strada, mentre riascoltava quella parola poco elegante diretta solo a lei. Forse avrebbe dovuto andargli dietro e rassicurarlo e forse era la cosa giusta da fare, ma quella era la vita che abitava Usagi e nulla era giusto. Quella era la realtà che abitava. Non lo raggiunse, rimase immobile accanto al suo miracolo, immersa nel suo dispiacere e nel suo dolore nitido e profondo che ancora portava il nome di Mamoru. Sapeva che un 'vaffanculo' di Mamoru era una richiesta di aiuto da parte sua, era un 'seguimi e abbracciami'. Ma non gli andò dietro, offesa, scavata dentro da tutto quei perché nascosti.
Ci sfuggiremo sempre.
La voce di Mamoru tuonava nella sua testa insieme alla sigaretta che bruciava in fretta sul pavimento grezzo e bagnato, Usagi concentrava la sua attenzione proprio a quella scia grigia di cenere e segreti che la sigaretta lasciava sul terreno, guardava la sua vita cambiare bruscamente sotto i suoi piedi e lei non muoveva in dito. Tutto si concentrava in quel cappotto grigio chiaro che andava via dopo un vaffanculo urlato, tutto attorno perdeva il suono e tutto si allontanava proprio come quei capelli corvini svoltavano l'angolo e andavano per conto loro. Tutto girava intorno alla ruggine del suo cervello, a quei pezzi grezzi che non ingranavano più, a quei ricordi rimasti impigliati tra le ruote dentate che non si muovevano più, a quella sua luce che era rimasta chiusa ermeticamente nei ricordi persi. Tutto ruotava intorno al ricordo perso di Mamoru.
<< Non gli vai dietro? >>.
Usagi guardò Seiya con l'aria scoraggiata, << No. >>.
Seiya la osservò, pensando alla luce spenta che c'era nel cuore di Usagi, ai sorrisi rimasti dietro a quello stridio di un'auto e lo schianto di Usagi, al coraggio di lei perso nei ricordi e tra le note incerte della sua voce. Sorrise a malincuore, << Sei piuttosto noiosa. >>.
Usagi sgranò gli occhi, incredula. << Perché? >>.
<< Dico, ma conosci Usagi Tsukino? >>.
<< Sono io! >>, si accigliò.
<< No, non sei tu. >>, insistette Seiya.
<< L'anagrafe dice così. >>, fece spallucce e fece per andare dentro il locale.
Seiya la fermò, afferrandole il braccio. << Vieni con me! >>.
Usagi si voltò, percependo i brividi lungo la schiena. << E dove? >>.
<< Ma da quando chiedi dove andare? Tu vai e basta, Usagichan. >>, inarcò un sopracciglio nero e abbozzò un sorriso furbo e divertito.
Usagi pensò a cosa potesse divertire tanto Seiya, a quale ricordo si fosse intrufolato nei suoi pensieri, a quale emozione conservava con tanta gelosia. << Oh, va bene. >>, disse.
Seiya sorrise, illuminandola. << Ehi, Chibiusachan, porto Usagi a fare un giro! >>.
<< Ehm, forse non è il caso, Seiya. >>, disse la ragazzina con gli occhioni rubini.
<< Io, invece, credo il contrario. >>, sorriso beffardo, afferrando Usagi e trascinandola. << Ciao, Chibiusa. A più tardi. >>.
<< Ehi, aspetta, Seiya! >>, disse Usagi, fermandosi.
<< Cosa c'è adesso? >>, sbuffò.
<< Chibiusa non crede che io... >>.
Seiya la interruppe con una risata sardonica, fissandola negli occhi. << Oh, adesso Chibiusa è la sorella maggiore? >>.
<< Smettila di sfidarmi, Seiya! >>.
<< Ah, non vuoi? Prima che dormissi come la bella addormentata ti piaceva che io ti sfidassi, anzi eri tu che sfidavi me. >> La fissò di sbieco, << Anche se devo correggermi su qualcosa... >>.
<< Su cosa? >>. Usagi continuava a fissare la sua espressione beffarda che la punzecchiava, sentendo un pezzo alla volta della sua vecchia vita riattaccarsi alla sua pelle.
<< Mi correggo sulla bella addormentata, perché non sei bella, e mentre dormivi russavi e avevi pose orribili. >>, e prese a ridere fragorosamente.
Usagi lo spinse e arrossì tutta. << Io non dormivo e non russo! >>.
<< Hai ragione solo su una cosa: non dormivi. >>, le disse, tornando serio.
Quindi, Seiya era davvero una persona speciale. Era l'unico che si fosse dimostrato suo amico, l'unico che non la sforzava a ricordare troppo e la divertiva, regalandole un pezzo alla volta dei vecchi tempi. Mamoru, invece, spingeva sempre la sua testa a ricordare con giochetti furbi, con frasi, con baci improvvisi, ma era da capire, si disse. Non avere la memoria di qualcuno spezza inevitabilmente qualcosa e a loro mancava qualcosa che non riusciva a ricordare. Mamoru e Usagi erano uniti e non era solo attrazione reciproca e un sentimento forte che li schiacciava, c'era anche una quotidianità che li univa, un sorriso dimenticato del tutto futile, un luogo inutile, un litigio, ma comunque un dettaglio che li incollava e li univa così fortemente.
Usagi sorrise dolcemente, cancellando ogni rancore. << Conosci mia sorella? >>.
<< Tutti conoscono Chibiusa e Usagi Tsukino dopo l'incidente che ti ha messa praticamente KO. >>, disse mentre entrava nella sua auto e faceva cenno a Usagi di entrare.
<< Tu... >>, si sedette con timidezza. << Sai qualcosa sul mio incidente? >>.
Seiya la guardò sconcertato, come a volerle dire quanto la stava odiando in quel momento per la domanda del tutto sciocca. << Non puoi farmi questa domanda, Usagi. >>, disse, abbassando la testa sul volante dell'auto, rimanendo fermo per un istante carico di dolore.
<< Scusami... >>, bofonchiò arresa.
Come avrebbe fatto mai a ricordare la sua vita precedente se tutti tacevano? Come poteva sapere come affrontare la vita se non sapeva cosa era accaduto in quell'incidente che le aveva cambiato la vita per sempre? Non sapere cosa aveva fatto la annientava. Guidava troppo veloce e si era schiantata? O era caduta da un piano alto? O cosa? Accidenti!
Sospirò e guardò fuori il finestrino dell'auto, osservando la porta scorrevole della sala giochi e le persone che uscivano ed entravano. Tutte con il sorriso appeso al viso, tutte con gli occhi pieni, lucenti, colmi di ricordi. Non osservò il cielo, rimase a guardare la strada grigia e bagnata, perché sapeva che guardarlo, grigio e nebuloso, le avrebbe ricordato Mamoru che andava via. Mamoru e le sue parole offensive, Mamoru e i suoi dettagli.
Sentì che un calore sconosciuto si rannicchiava sulla sua mano, un pezzo di amore che non conosceva, e si voltò per trovare Seiya che la osservava con lo sguardo serio mentre le stringeva una mano. << Seiya... >>, mormorò.
<< Non mi va di pensare alle cose brutte, andiamo, ok? >>, sorrise forzatamente.
<< Okay. >>, annuì tremante. << Dove andiamo? >>.
<< Andiamo ad un Music Shop. >>, accese l'auto.
<< Devi comprare un CD? >>, chiese mentre l'auto schizzava sulla strada ad una velocità alta. << Piano, per favore! >>, urlò appena sentì salirle nella gola una sensazione forte.
<< Hai ragione, scusami. >>, decelerò con dolcezza. << E' che sono abituato a correre e non mi rendo mai conto di quanto veloce io vada. >>.
<< E' pericoloso correre, Seiya. >>.
<< Cosa ne sai, tu? >>.
<< Lo so. >>, disse a voce bassa.
Lo sapeva e basta, non poteva spiegarsi il perché, ma conosceva quel pericolo e ne era terrorizzata.
<< Sai, Usagichan, sei una rammollita. >>, le lanciò uno sguardo di sbieco e tornò alla strada che si parava davanti a lui. << Prima eri una pazza, una che raggiungeva i cento chilometri orari e non se ne curava, una che non chiedeva mai e prendeva, una che sbagliava sempre in tutto e cadeva sempre. Una che aveva la forza di rialzarsi sempre, una che credeva fortemente, una che amava e non si nascondeva, una che lottava con le unghie. Una che aveva il cuore puro, nonostante fosse un po' duro. >>.
<< Davvero ero così piena di vita? >>.
Seiya annuì e schioccò una risata amara. << Ora sei un po' come la luna, un riflesso di una profonda luce. Sei nel mezzo perfetto, tra la ruggine dei tuoi ricordi e il sole che eri un tempo. Eri una luce color oro splendente, Usagichan. >> Fermò l'auto e guardò alla sua destra: << Siamo arrivati, forza. >>.
Usagi ebbe nel cuore piccoli sensazioni che la ghermirono e non poté muoversi per un po', affranta e affascinata nello stesso momento della sua vecchia identità. Affascinata da Seiya, affascinata dal vaffanculo di Mamoru, affascinata per la prima volta dalla sua vita. Scese dall'auto e proseguì verso il Music Shop insieme al suo amico, entrò e venne sopraffatta dal profumo di quella vecchia boutique della musica. L'odore delle copertine, il calore della stanza, l'odore unico di ogni CD, la musica che proveniva dalle casse appese al muro. Chiuse gli occhi, vedendo nella sua mente formarsi un vecchio ricordo, sfumato e dorato che viaggiava lentamente verso la sua mente. Vedeva difficilmente sé stessa con la sua divisa scolastica dentro quel negozio con lo sguardo perso su qualcosa, intenta a cercare qualcosa. Cosa stava cercando?
Perse il respiro e divenne pallida, ma si riprese. << Seiya! >>, urlò.
Seiya passeggiava tra i scaffali di vecchi CD con lo sguardo attento a trovare un autore in particolare, la guardò di sbieco con lo sguardo annoiato e tornò a concentrarsi su i CD. << Mmm, cosa c'è? >>.
<< A me piace la musica? >>, chiese agitata, avvicinandosi a lui con passo felpato.
<< Molto. >>, disse distratto e afferrò un CD dalla copertina bianca con delle scritte rosse. << Trovato! >>, sorrise.
<< Seiya, sii serio. Che musica mi piace? >>.
<< Ehi, cos'è quest'agitazione adesso? Sembri quasi te stessa... >>. Il suo sorriso sornione apostrofò il suo viso che era una chiara espressione di vittoria.
<< Ho avuto un ricordo sfocato di me che sono qui dentro. >>, raccontò a voce bassa e a disagio. Si sentiva come se doveva correre dietro ad un treno in partenza, doveva affrettarsi a sapere cosa cercava perché voleva riavere un pezzo di quella Usagi fantastica che le era stata raccontata da questo suo amico bellissimo e furbo.
Seiya ebbe un sussulto violento e la scosse. << Davvero? >>, le chiese, fremente.
<< Sì! >>, si agitò ancora di più. << Ti prego, dimmi qualcosa. >>.
<< Sta' calma, Usachan. Adesso ascolta questo CD e, forse, qualcosa ti torna in mente. >>, le allungò il CD con un sorriso smagliante. Mise il CD dentro un lettore CD che era nel negozio e le mise le cuffie alle orecchie da dietro e le sussurrò: << Ora chiudi gli occhi e fatti trascinare dalle note di questa canzone, annulla tutto il resto e vivi i tuoi ricordi. >>.
Usagi annuì, schiacciò il pulsante ''Play'' e iniziò ad ascoltare quella voce profonda e piena di saggezza che le raggiunse subito il cuore. Il mondo attorno a sé iniziò a tremare...

Gli occhi fanno quel che possono
niente meno, niente più tutto
quello che non vedono
è perché non vuoi vederlo tu.


Le mani strette alle grandi cuffie, il cuore che palpitava forte, quella voce che cantava nei suoi orecchi era familiare, era una storia sua che parlava di sé. Seiya era dietro di lei, premeva le mani contro le sue sulle cuffie, respirava con dolcezza e Usagi sentì il suo respiro insieme alla sua canzone. Sapeva che era attratta da lui, lo sentiva quel ricordo che pulsava oltre il labirinto della sua amnesia, lo percepiva ma non era del tutto sicura.

E' la vita in cui abiti
niente meno e niente più
sembra un posto in cui si scivola
ma queste cose le sai meglio tu
Cosa vuoi che sia
passa tutto quanto
solo un po' di tempo
e ci riderai su.


Le note si alzavano e la sua testa strideva mentre annegava dentro un mare di ricordi senza volti, solo frangenti veloci che scorrevano nella sua testa, immagini estranee e dorate che sbattevano contro il muro bianco e che le facevano molto male. Ma fu determinata e non cedette al mal di testa, rimase con gli occhi chiusi e vide i suoi ricordi lontani e senza un volto, senza un sentimento che li facesse sentire suoi, fino a che non captò un ricordo nel bianco accecante. Un vecchio ricordo che le portava in bocca il sapore rugginoso del sangue, del profumo di acquavite, un profumo intenso e maschile.
Era un ricordo di Mamoru...

Mamoru era dietro il bancone del Crown, vestito da cameriere e vestito del suo solito atteggiamento da arrogante, e stava preparando un bel gelato.
Usagi era seduta insieme a Minako di fronte al bancone e beveva un cappuccino con cacao con lentezza, mentre guardava Mamoru in silenzio.
<< Prima di cena, lo avrai mangiato per intero. >>, disse la voce squillante che le era accanto. Anche lei beveva un cappuccino e giocherellava con i suoi lunghi capelli.
Usagi osservò Minako non riuscendo a capire di cosa stesse parlando e scosse la testa, accigliandosi.
<< Parlo di Mamoru. Se continui a guardarlo, lo consumerai. >>.
<< Ah, già. >>, sorrise imbarazzata.
<< Be', credo che anche tu rimarrai consumata entro sera. >>, ammiccò.
<< E perché? >>.
<< Non ti stacca gli occhi di dosso! >>.
Usagi avvampò immediatamente, abbassando lo sguardo, ma ridendo sommessamente. Poi, le casse del bar iniziarono a produrre suoni che catturarono sin da subito Usagi, prima di poca recezione e poi ripresero a suonare con volume troppo alto. La canzone cantata fece sobbalzare Usagi che osservò il soffitto del bar che aveva appese le casse, sentendosi mozzare il fiato sotto quelle note che le cadevano addosso come una cascata d'acqua fredda.

Cosa vuoi che sia
passa tutto quanto.

<< Ligabue! >>, pronunciò entusiasta, accorgendosi presto che qualcun altro aveva ripetuto con lei il nome del suo cantante preferito. Abbassò lo sguardo e si ritrovò dentro gli occhi di Mamoru che la guardava incredulo e intensamente.
<< Cosa vuoi che sia! >>, fece spallucce, Mamoru.


Usagi sentì la stretta di Seiya sulle sue mani ed aprì gli occhi, disorientata e preoccupata. Si era domanda per un solo istante il perché Seiya avesse voluto farle ascoltare quella canzone, ma decise di non chiedere. Aveva avuto un piccolo ricordo della sua prima vita e non voleva rovinare tutto con i suoi dubbi, voleva gioire, ma l'ultima frase di Mamoru nel suo ricordo la lasciava pensierosa. Come sempre.
Sarà sempre così, Usako. Ci sfuggiremo sempre.
<< Ricordi il nome di questo cantante? >>, le chiese con quel sorriso che fece bene al cuore di Usagi sempre immerso nel dubbio.
Sembri quasi te stessa.
<< Ligabue. >>, mormorò con il sorriso.
Cosa vuoi che sia!
<<
Ligabue. >>, confermò il suo bellissimo amico.

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Capitolo 5
*** Color bianco ***




-6) Color Bianco
      Un po' cristallo, un po' neve.





Se ne stava lì, la divisa. Appesa fuori l'armadio, stirata, inamidata, plissettata. Coccolata dai teneri raggi del sole mattutino che entravano dalle finestre socchiuse. Se ne stava lì, in silenzio e in attesa. Come una sfida. Se ne stava lì, mentre le ferite di Usagi sanguinavano dentro la sua testa, dentro le sue mani ferite, mentre il mondo non smetteva di crollarle addosso. Mentre precipitava dal grattacielo più alto di Tokyo.
Se ne stava lì, e Usagi si nascondeva sotto le coperte.
Era giunto il momento di tornare a scuola, era giunto il momento di staccarsi dall'ala materna e affrontare quel suo vecchio mondo e guardare in faccia quel passato. Quel passato che sembrava attanagliarla crudelmente, un calderone di ricordi che se ne stavano oltre la parete bianca ma che le mordevano il cuore. E, quella mattina, Usagi non voleva alzarsi dal suo letto. Non voleva compiere quei pochi passi e vestirsi, non voleva uscire e correre verso la scuola. Aveva paura di trovare qualcos'altro che l'avrebbe terrorizzata o che l'avrebbe fatta sentire come si sentiva da qualche giorno a quella parte.
Tutto per Galaxia e i suoi occhi cioccolato.
Tutto perché Usagi si era arresa.
<< Non voglio. >>, mormorò sotto le coperte. << Questa vita fa troppo male. >>. 
Si sentì accarezzare la testa con dolcezza, << Devi, in qualche modo. >>.
Alzò la testa, affacciò fuori la coperta e vide nell'offuscamento del sonno il viso di una ragazza che imponeva su di lei con il sorriso benevolo, con gli occhi intelligenti e tristi. Lunghi fili corvini scendevano sul suo viso, gli occhi sinceri e violetti che la guardavano, il viso color perla, liscio.
Rei.
<< Rei, che ci fai qui? >>, le chiese con la voce impastata.
<< Sono qui a fare l'amica. >>. Un nuovo sorriso, dolce, amaro per via di quelle lacrime che scendevano dagli angoli degli occhi. Un sorriso amico. << Io ti voglio bene, Usagi, e mi manchi un mondo. Non ti riconosco e vorrei poter fare qualcosa per farti tornare quello scricciolo felice che eri un tempo. >>.
Ma Usagi si era arresa. Non la voleva ricordare, quella vita.
Incoerentemente alle sue decisioni interiori, balzò fuori dalle coperte e, in un impeto di affetto, l'abbracciò fortemente. Iniziò a piangere convulsamente, bagnando la bellissima divisa grigia di Rei con le sue lacrime, ma non se ne curava perché voleva stringersi fortemente a lei. Voleva possedere un pezzo di quella vita lontana, un briciolo di quella felicità che adesso struggeva una delle sue amiche.
Lo vedeva, quel briciolo di felicità. Lo vedeva dentro gli occhi piccoli e tonti di Rei, lo vedeva di riflesso, ma lo vedeva.
<< Ero davvero felice? >>, chiese tra un singhiozzo e l'altro.
Rei si sedette su un angolo del letto, la osservò con dolcezza, e alla fine disse: << Credo che fosse solo una facciata, la tua, ma eri sempre molto sorridente. Forse, era l'amore per Mamoru che ti rendeva così bella e felice, nonostante l'ovvio fatto che avesse una ragazza. Ma questo lo sapevi solo tu. >>.
<< L'amore per Mamoru? >>, inclinò la testa.
Rei annuì. << E' vera la leggenda delle anime gemelle, sai? Credevo a quella leggenda solo perché io e il mio fidanzato stiamo insieme dall'età delle medie, eravamo dei bambini quando ci siamo conosciuti, ma sin da subito ci siamo amati. Un po' perché volevamo essere più grandi della nostra età, un po' perché il cielo ci aveva unito. Ma adesso ci credo con fermezza grazie a te e Mamoru. >>.
<< Io e Mamoru non siamo anime gemelle. >>, mormorò, abbassando la testa.
Già, perché lei si era arresa. Non ci credeva, non voleva crederci.
<< Oh, invece lo siete. >>, annuì con fermezza. << Forse, i tuoi ricordi ci metteranno un po' ad arrivare, ma io e te ci siamo conosciute quando eri già innamorata di Mamoru e io ti ho odiata. Abbiamo litigato per tanto tempo prima di diventare amiche. >
>.
<< Davvero? >>, si sedette comodamente. Si sedeva meglio sulla sua vita. << Perché? >>.
Rei ridacchiò. << Io e Mamoru siamo cugini. Tu eri l'amante di un uomo che stava per sposarsi e, tra l'altro, era mio cugino. >>.
<< Stava per sposarsi?!? >>. Fissò Rei con il terrore negli occhi.
Perché la sua vita doveva essere così? Perché doveva essere una donna così poco raccomandabile? Perché?
No, basta. Niente ricordi, niente di niente. Non voleva più.
<< Poi non si è sposato più, ma la colpa non era tua. Io ho voluto darti la colpa sin dall'inizio e litigavamo sempre troppo per questo, ma non sei stata tu a separarli. Oggi lo so e lo sa anche Galaxia. >>.
<< Galaxia e Mamoru stavano per sposarsi. >>, ripeté come una nenia.
<< Li aveva separati il destino già tempo e un po' erano stati loro stessi, incapaci di non perdonarsi. Tu eri la seconda possibilità di Mamoru, tu eri la sua rinascita, il suo riscatto. E lui lo ha capito, tardi, ed ora lo sappiamo tutti. Meno che tu >>. Rei stava fissando il cielo gonfio di neve, aveva lo sguardo dolce e triste. Guardava fuori per non affrontare lo spaesamento dentro gli occhi suoi. Poi, si volse a Usagi: << Non ricordi nulla di tutto questo, vero? >>.
<< No. >>. Gli occhi erano pieni di lacrime, i singhiozzi si alternavano tra un ricordo frantumato e l'altro, bianco. << Io non so come sia stata capace di fare una cosa del genere, Rei. Ero davvero una ragazza cattiva. >>.
<< Non mi hai sentita, per caso? >>, la rimbrottò.
<< Cosa? >>.
<< Tu sai perché Mamoru sta ancora con Galaxia? >>, le chiese, tornando accanto a lei.
<< No, non me l'ha detto e non lo ricordo. >>.
<< Dovresti chiederglielo, capiresti molto sulla vostra storia. >>, le carezzò i capelli.
<< Non abbiamo una storia, Rei. Ero solo la sua amante. >>.
<< Un'amante fa sesso con un uomo. Tu non hai mai fatto l'amore con Mamoru, tu l'hai solo amato con le parole, con le carezze. L'hai amato con quella forma d'amore che Mamoru aveva bisogno di riscoprire e soprattutto con quella forma di amore di cui aveva bisogno. >>, la stava guardando con molta convinzione. << E in questo caso non si parla di amante, ma di donna della vita, di destino. Di Amore, quello con la A maiuscola. >>.
Rei.
Usagi si cullò per un po' dentro quelle parole dette con dolcezza, dentro quella realtà buona, dentro quel cristallo che rischiava di frantumarsi da un momento all'altro.
<< Stai facendo fin troppo bene l'amica. >>, le sorrise con le lacrime.
<< Dico la verità, Usagichan. >>, sorrise. << Ci ho messo un po' a capirlo, ti ho prima criticata, giustiziata, ma è sbagliando che si impara. Tu e Mamoru siete... tu e Mamoru. >>.
<< Gli eterni indecisi. >>, bisbigliò, stropicciando il lenzuolo.
Ci sfuggiremo sempre.
<< Mi domando se un giorno troverete il coraggio di stare insieme e basta. >>, prese la divisa. << Su, andiamo a scuola. E' ora! >>.
Usagi annuì.
Guardami.
Non voglio guardarti.

Prese la divisa e si vestì con lentezza, mentre la sua testa ripercorreva quei pochi momenti con Mamoru, sentendosi sempre più innamorata. Sempre più lacerata dentro, fratturata dalla dimenticanza e dalla consapevolezza che la sua vita era fin troppo intensa.
Perché se lo facessi, non resteresti ferma.
Aveva detto così Mamoru e forse non aveva torto. Usagi in sua presenza si sentiva come obbligata a baciare le sue labbra, come se ci fosse stata una mano invisibile a spingerla su quelle labbra. Labbra che l'avrebbero accolta senza reticenze.
La gonna plissettata le scendeva dolce sui fianchi, il blu acceso sembrava illuminarla con lo sfondo dalla finestra totalmente bianco.
I cuori di pietra non amano.
Il fiocco rosso sul petto sembrava ammiccare con i bagliori del sole timido di dicembre, il suo viso sembrava che stava iniziando ad alzarsi verso un futuro nuovo e felice.
Perché il suo cuore era ricoperto di roccia? Cosa lo aveva spinto a rintanarsi dentro quella pietra indistruttibile e non accogliere un po' di luce?
Osservò Rei che le sorrideva sulla porta, guardò i suoi tratti e vide alcuni tratti silenziosi di Mamoru sul suo volto. Le sorrise, l'amava perché in lei c'era un pezzo di Mamoru.
E di me proprio non ti ricordi?
No...
Perché non voleva avere un po' di amore dentro quel cuore di pietra?
Non forzarla, Mamoru: ricorderà.
Lo rifiutava come se ne avesse paura, come se non volesse accettare di nuovo quell'amore dentro sé. Come se qualcosa già lo aveva illuminato, ma quella luce lo aveva ferito e bruciato con una tale intensità da spaventarlo come una belva con il fuoco.
Ma vaffanculo!
Usagi sgranò gli occhi, incredula davanti a ciò che aveva capito.
Mamoru aveva già amato.
Abbozzò un sorriso amaro, spezzata dalla sua stessa di decisione di arrendersi.
Mamoru.

La camminata verso la scuola era stata tranquilla e molto rilassante. Il freddo dicembrino l'aveva risvegliata bruscamente e le chiacchiere allegre di Rei le misero il buonumore, nonostante quei particolari che cozzavano contro la sua mente immersa nel biancore accecante. Appena arrivata a scuola, salutò Rei ed entrò dentro la classe che le aveva detto di raggiungere. Secondo piano, terza porta a sinistra.
Quando entrò, la classe rimase in silenzio, sbigottita nel vederla entrare proprio da quella soglia. Usagi rimase ferma sulla porta, bloccata dalla sensazione di essere sotto gli occhi di tutti. Si sentiva come un'intrusa, e fece un passo per indietreggiare e andare via. Qualcosa la bloccò, si voltò spaventata con il cuore che pulsava troppo velocemente.
<< Ehi, Testolina buffa! >>, sussurrò il ragazzo alto, afferrandole una spalla.
La prima cosa che pensò Usagi fu il suo nome come una dolce panna, come qualcosa troppo buono per il suo palato. Come un miracolo.
Seiya.
<< Dove credi di andare? >>, le disse con il sorriso. << E' ora di affrontare i tuoi demoni. Benvenuta nella nostra classe! >>.
<< Io... non credo... >>.
<< Sta' zitta! >>, le disse con tono dolce. << Andiamo. >>, la spinse oltre la soglia e urlò alla classe come se fosse ad una festa: << E' tornata Usagichan! >>.
Seiya.
Il silenzio della classe si spezzò in un fragore di risate e di bentornata calorosi, avvolgendola nell'entusiasmo di semplice affetto, avviluppandola in abbracci sconosciuti e dolci che amò incommensurabilmente.
<< Ben tornata, Usagichan. >>, le disse un ragazzo altissimo con la chioma castana e lunga. << Ora dovrai metterti sotto a studiare più del dovuto. >>.
<< Grazie, mi impegnerò. >>, gli sorrise un po' imbarazzata.
<< Io sono Taiki Kou, il cugino di Seiya. >>, si presentò, togliendola dall'imbarazzo.
<< Ed io sono Yaten Kou! >>, disse energicamente il ragazzo dai capelli argentati. << Sempre il cugino di Seiya e fratello di Taiki. >>.
<< Piacere di riconoscervi. >>, sorrise dolcemente.
<< Usagichan, se vuoi ti darò una mano a studiare, a recuperare... >>.
Usagi si voltò e trovò al suo fianco una piccola ed esile ragazza dal taglio di capelli molto corto, aveva il colore del mare negli occhi e nei capelli.
<< Io sono Ami Mizuno, sono una ragazza della classe accanto ed eravamo amiche. >>, le spiegò timidamente. La vide arrossire mentre stringeva quel tomo di fisica con forza nelle sue minute braccia.
Ami.
Usagi la osservò con il sorriso e l'abbracciò fortemente, fiondandosi addosso alla piccola amica sua. << Piacere di conoscerti di nuovo, Amichan! >>, e rise con fragore. Sentì le braccia di Ami che avvolsero la sua schiena e la strinsero.
<< Ehi, non consumare troppo la mia Amichan! >>, disse Taiki con il broncio.
Ami arrossì e lasciò il suo abbraccio per rifugiarsi dentro quello di Taiki.
<< Forse, la nostra Usagi sta tornando. >>, disse Seiya che la osservava con dolcezza.
<< Usaaaaagiiiichaaannn! >>, le urla da fuori le caddero addosso, assordandola, insieme al corpo di una Minako felice che fece cadere a terra entrambe. << Finalmente ti si rivede a scuola e così posso abbracciarti forte forte! >>.
<< Minachan! >>, disse addolcita. La osservò con quegli occhi blu e quell'espressione infantile che coinvolgeva il suo cuore a battere per la gioia.
Minako.
<< Minako, sei sempre la solita esagerata. >>, la ammonì Yaten con lo sguardo severo.
<< Oh, Yatenuccio mio, non essere troppo severo. Morivo dalla voglia di abbracciarla! >>.
<< Tu muori dalla voglia di tutto... >>, roteò gli occhi in aria.
<< Cosa stai alludendo? >>, Minako lo stava fulminando.
<< Oh, tu muori dalla voglia di quelle scarpe rosse. Muori dalla voglia di mangiare un gelato, muori dalla voglia di quel pupazzo in centro, tu muori dalla voglia di andare al cinema, muori dalla voglia di quel vestito costoso... >>, replicò amaramente.
Minako si alzò da terra e corse da Yaten, gli schioccò un bacio sulla guancia con dolcezza. << Hai dimenticato una cosa: io muoio di te. >>, ammiccò.
Yaten arrossì e l'attirò a sé per la vita, dandole un bacio sulla tempia.
Seiya l'aiutò ad alzarsi, ridendo con allegria. << Ebbene, sì, Usa. Tu facevi parte di questo gruppo squinternato e tanto allegro! >>.
<< Io vi adoro! >>, si lasciò andare alla sincerità. In fondo, la sua vita non era così male.
<< Cos'è questa confusione, ragazzi? >>, una voce femminile entrò insieme al suo corpo perfetto dalla porta. << Seduti! >>.
<< Chi è? >>, chiese in un sussurro a Seiya.
<< E' la professoressa Kaio, professoressa di italiano. >>, sussurrò anche lui. << Ehi, prof! Guardi chi c'è! Usagi Tsukino! Sì, sì, ha sentito bene: Tsukino è tornata dal regno dei morti. >>.
La professoressa si commosse solo nell'udir il nome della sua alunna, giungendo di fronte a Usagi. Le sorrise con dolcezza, come si guarda una figlia perduta, come una zia lontana avrebbe guardato una nipote che era il suo riflesso, e le accarezzò una guancia. << Ben tornata, Usagi. >>, le disse dolcemente.
<< Grazie, professoressa. >>.
<< E' tornata la sua pupilla, prof! Chissà se il prossimo concorso di temi lo vincerà, come il precedente. >>, disse un buffo ragazzo con gli occhialoni spessi e basso. << Io sono Umino, Usagi. Sono il secchione della classe. >>, fece delle virgolette immaginarie con le mani.
Usagi annuì con un sorriso di circostanza.
<< Sì, magari vincerà anche questo concorso. >>, replicò con amore la professoressa.
<< Io le volevo bene, vero? >>, chiese Usagi alla bellissima professoressa dai capelli increspati dal colore del mare.
<< Come io ne volevo a te, ma sono la tua peggiore professoressa. Nonostante sei la mia preferita, non ti avvantaggio mai in nulla. I dieci che prendi ai temi sono solo meritati. Vero, Kou? >>, ammiccò simpaticamente.
<< Certo... >>, brontolò.
<< Lui è uno dei più bravi della classe e si lamenta sempre che tu riesca a prendere voti alti in italiano. Crede che io ti coccoli un po', solo perché sei una persona allegra e immatura. >>, le spiegò mentre andava a sedersi alla cattedra.
Usagi guardò Seiya e ridacchiò, divertita.
<< Cos'hai da ridere, tu? >>, alzò la voce, dandole un buffetto sulla fronte. << E' ancora aperta la sfida sul tema più bello, Usagichan. >>.
<< D'accordo. >>.
<< Bene, ora sedetevi. >>, disse la professoressa.
Usagi si sedette nel posto davanti a Seiya e stette in silenzio per tutta la durata della lezione di italiano, appuntandosi alcune cose una volta tanto. E il resto delle due ore di italiano proseguirono in tranquillità, fino al momento che la professoressa di Diritto ed Economia fece l'ingresso nella sua classe. La professoressa Ten'oo salutò con la stessa dolcezza Usagi, le chiese le cose come andavano e di come si sentisse, ma non accennò a chiederle se ricordasse qualcosa.
Usagi lo scoprì più tardi quando la Ten'oo le chiese una sciocchezza sul Diritto. << Cos'è il diritto, Tsukino? >>.
Usagi si bloccò all'istante, iniziò a strofinare le mani, desiderando con ogni fibra di sé stessa che Mamoru venisse a prenderla e rinchiudesse dentro le sue braccia forti e protettive. Quelle braccia che custodivano un cuore di pietra...
<< Io... non... >>, disse, singhiozzando.
Chiuse gli occhi con forza, sforzandosi di trovare qualcosa da dire. C'era il vuoto, dentro la sua mente. C'era la neve che congelava qualsiasi ricordo o informazione futile, c'era il gelo che la fermava in quella fase di stallo. C'era la sofferenza dentro quel suo vuoto, c'era l'incapacità di andare avanti.
Non ricordava cosa fosse il diritto.
Non ricordava Mamoru.
Non ricordava sua madre.
Non ricordava quale libro amasse e quale no.
Non poteva andare avanti. Rimaneva lì, a metà, senza una meta, senza capire.
Si stava arrendendo lentamente e con violenza.
<< Tsukino, ti senti bene? >>, le chiese la professoressa, avvicinandosi.
<< Forse, è meglio non forzarla, prof! >>, disse, dietro di sé, Seiya.
Usagi scosse la testa, piangendo. << Io non mi ricordo cos'è il diritto e nemmeno la storia europea, nemmeno la geografia. Nemmeno il Teorema di Pitagora, nemmeno uno scrittore, o un cantante. >>, parlò mentre tremava. << Io non ricordo niente. >>.
… Si era arresa.

Uscendo da scuola, Usagi si sentiva sperduta. Camminava a testa bassa, con le mani che stringevano troppo fortemente la sua cartella, e guardava le sue impronte sulla neve. Il venticello le filtrava nelle ossa, ma non le interessava e nemmeno le importava dove quelle sue gambe la stessero portando. Le bruciava la ferita sotto l'addome che con il freddo gelido si era risvegliata, le bruciava la testa, gli occhi e soprattutto quella parte introvabile e che avvampava con più audacia della sua ferita di carne. Quella sull'addome. Camminava senza sapere la meta, ma non se ne preoccupava perché era fuori posto. Ovunque fosse andata, non sarebbe stata casa sua perché aveva scordato diciotto anni.
Le guance vennero inondate dalle lacrime mentre scappava da Rei e Minako, mentre si nascondeva dalla sua stessa vita.
Si era arresa.
La tua mente ti protegge da qualcosa di molto doloroso, Usagi.

Era cosi che le aveva detto Diamond nel suo studio, seduto sulla grande poltrona verde bottiglia mentre gesticolava troppo con quelle sue mani e l'aria saccente.
Forse, prima dell'incidente hai vissuto una situazione non facile ed ora il tuo subconscio ti vieta di soffrire ancora per quella situazione. C'entra Chiba, vero?
Cosa gli importava se Mamoru c'entrasse o meno. Quella era la sua vita e la rivoleva tutta quanta, senza sconti. Senza gabbie di cristallo che minacciassero di rompersi con un urlo di sofferenza. La voleva, quella vita. La voleva disperatamente, voleva viverla con quella stessa audacia che sapeva essere solo sua, voleva viversi e lasciarsi vivere da Mamoru. Quella vita era sua. Punto. E non era possibile per quella sua maledetta mente e il trauma cranico che le aveva guastato la vita intera.
La voleva, decise, ma quel barlume di coraggio già stava sfumando come il suo alitare nel gelo. Le nuvolette del suo respiro già volavano nel cielo, come la sua determinazione, come il suo passato. Si ricongiungeva al cielo, almeno quello.
Il cielo era di un bianco accecante, non era più azzurro.
Un cielo triste.
Si era arresa.

<< Usagi? >>, qualcuno la strappò dai suoi pensieri disperati. << Che ci fai qui? >>.
Mamoru.
Si voltò, gettando a terra la sua cartella e fiondandosi nel suo petto, annaspando.
Non sapeva spiegarsi perché aveva corso contro di lui, importava solo che lui l'aveva accolta e l'aveva stretta con tutta la forza che poteva contenere. Non l'aveva fatto perché voleva consolarsi, l'aveva fatto perché aveva bisogno proprio di lui, del suo petto, del suo calore dimenticato, delle sue braccia sulla schiena.
Era questo l'amore, no? Stringersi al bisognoso desiderio di qualcuno, cercare una via d'uscita dentro un altro labirinto. Un labirinto di carne e respiri, un nuovo intrico in cui perdersi.
Le accarezzò la testa con solo due dita, sfiorandole i capelli dorati, e prese a sorriderle con dolcezza. Quel sorriso bucato ai lati, quegli occhi color cielo che accoglievano rughe di tenerezza. Il suo sorriso, bellissimo e terrificante nello stesso istante. << Che succede, Usako? >>, sussurrò con troppa dolcezza.
Quella voce era rassicurante, quelle braccia non minacciavano nulla, quegli occhi però...
<< Perché sei venuta a casa mia? >>, fece cenno con la testa.
Usagi guardò il grattacielo grigio e scosse la testa. << Io... non lo so. Sono state le mie gambe a portarmi qui, io non sapevo che tu abitassi qui. >>.
Mamoru sorrise ancora. << Evidentemente il tuo corpo freme per me, non come la tua mente che ti difende dal mio ricordo. >>. Ancora giocava con i suoi capelli.
Usagi prese a piangere rumorosamente, stringendosi a lui.
<< Ehi, calma. Che succede? >>.
Usagi non voleva, Usagi voleva semplicemente far riposare la sua mente. Niente più domande, niente più risposte senza meta, ma il suo nuovo labirinto era la sua incognita primaria. Il suo eterno forse ed il se passato.
Quegli occhi, però, erano letali. Quel cielo blu minacciava di inghiottirla ancora, di spezzarla, di ucciderla ancora e ancora.
Un respiro profondo. << Io non mi ricordo niente. >>.
<< Lo so. >>.
<< Nemmeno le cose basilari a scuola. >>.
<< Oh. >>, disse, intristendosi. << Andiamo sopra, parliamo un po'. >>.
Usagi annuì e entrò con Mamoru.

Quando entrò nell'appartamento di Mamoru ebbe sul cuore una sensazione di ghiaccio, una patina rigida e crudele che le imponeva di non fare un altro passo. Nemmeno uno, perché se ne sarebbe pentita. Lo stomaco non smetteva di protestare, attorcigliandosi, e la mente continuava a lanciare spilli troppo lunghi alle tempie per fermarla.
Ma Usagi proseguì.
<< Vieni. >>, disse in tono basso mentre la conduceva nel salotto, stringendola per la vita.
Lei iniziò a guardarsi intorno con curiosità, studiando ogni oggetto della casa di Mamoru e non ricordava un solo oggetto. Forse, quella era la prima volta che era entrata lì.
<< E' carino, l'appartamento. >>, commentò.
Mamoru ridacchiò mentre le porgeva una cocacola. << Lo hai detto anche la prima volta che sei venuta qui. Sei così scontata, a volte. >>.
Usagi sorrise appena e prese a vagabondare nel salone, si sedette sul divano verde scuro. C'era un tavolino, un televisore ultima generazione, tanti libri, due librerie, tanti quadri, tante cornici con il suo diploma, la sua laurea, i suoi attestati, i suoi premi in qualche sport. E non c'erano fotografie. Nemmeno una.
<< Ti senti meglio? >>.
<< Un po'. >>, mentì. Lì dentro si sentiva peggio, ma non poteva essere cattiva contro quegli occhi come il cielo che custodivano già una ferita.
Chissà quale amore gli aveva fatto così male...
Forse quello con Galaxia.
<< Cosa c'è? >>, le chiese.
<< Niente, mi chiedevo una cosa. >>.
<< Cosa? >>.
Lo osservò e fece spallucce. << Perché non ti sei sposato più con Galaxia? >>.
Mamoru strabuzzò gli occhi, << Hai ricordato? >>.
<< No. >>.
Mamoru si irrigidì, posò la sua bevanda e fissò un punto indefinito. << Abbiamo fatto tanti sbagli e il matrimonio non era una scelta sensata. >>.
<< E allora perché ancora stai con lei e non con me? >>.
Mamoru sorrise con amarezza. C'era fin troppa amarezza negli occhi suoi. << Mi domando quando smetterai di chiedermelo. >>.
<< Mi domando quando ti deciderai a rispondermi. >>.
<< Usa, io semplicemente non posso. >>, volse lo sguardo a qualcosa dietro di Usagi.
<< Giusto, è uno di quei romanzetti stupidi. Ti barcameni tra due donne, stai con me, ma non puoi lasciare la tua fidanzata. Non ti sembra giusto. >>. Sospirò e si alzò.
<< No! >>, urlò. << Non farlo anche tu. >>.
<< Cosa? >>, chiese con spavento.
<< Tu mi stai giustificando, tu mi stai perdonando. >>, lo disse come se fosse stato un dolore pari ad una carne che bruciava.
<< E allora? >>.
<< L'hai sempre fatto, Usagi, non farlo ancora. Mi ha perdonato perché non ho lasciato Galaxia, mi hai perdonato perché ti ho mandato a quel paese, mi hai perdonato per non avere la stima dei tuoi. Mi perdoni anche per il fatto che io ti ami troppo per immischiarti dentro tutto questo. Basta! >>. Mamoru si stava agitando.
Si avvicinò, accarezzandone i capelli sulla fronte. << Devo odiarti, forse? >>.
<< No. >>, disse a tono basso. << Voglio che tu non mi perdoni per tutto questo. Lo fa già Galaxia e non lo sopporto. >>.
<< Lo fa per amore? >>, chiese mentre continuava ad accarezzargli i ciuffi corvini.
Annuì, perso. << Lo fa per andare avanti. Non lo fa come te. >>.
Usagi sorrise. << Come lo faccio? >>.
<< Tu lo fai con amore. Tu lo fai perché io ti amo, lo fai perché tu scegli di perdonarmi, di amarmi comunque, di avermi in silenzio e senza fare l'amore. Lei lo fa perché mi ama, perché sa fare bene l'amore, perché abbiamo dentro qualcosa che non potrà mai dividerci. >>.
Usagi ebbe il cuore che tremava, ma non si scompose più di tanto perché sapeva che quel brivido l'aveva già provato. Mamoru già le aveva confessato che l'amava, ma non ricordava. << Ma non è l'amore. >>, concluse proprio lei.
Mamoru annuì. << Qualcosa di più grande, purtroppo. >>.
Usagi scosse la testa, non capendo, ma si chinò sulle sue labbra e ci poggiò le sue con dolcezza, con troppo amore. Riaprì gli occhi e decise di farlo. Sì, respirò e gli disse: << Ti amo. >>. Sì, lo amava tanto, troppo. Era un amore grande, grande come uno sbaglio.
Mamoru si alzò e la prese tra le braccia, stendendola sul divano, i polsi intrappolati dalle sue dite, il suo addome tumefatto sotto il suo possente. Le sue labbra irrimediabilmente sotto le sue, gli occhi inevitabilmente aperti mentre si baciavano. Si staccò, ma rimase fermo su di lei a guardarla. << Tanto lo sai. >>, disse.
Usagi fermò il suo viso tra le sue mani. << Voglio sentirlo. >>. Almeno questo, si disse.
Sorrise con dolcezza. << Ti amo. >>.
Usagi sorrise piena di gioia, era una gioia dannata e lo sapeva benissimo, ma ci si cullò lo stesso. Quell'amore era troppo egoista, si era detta.
<< Vado a prendere qualcosa da bere. >>, disse Mamoru.
<< Forse, è meglio. >>, rispose.
Mamoru si alzò e andò nel cucinino a prendere qualche bevanda nel suo frigo e Usagi si stava ricomponendo. Si era alzata e girovagava nel salotto. Si sorprese quando vide una cornice su un mobile sottile, la prese tra le mani e ne studiò il soggetto. Era una bambina di pochi mesi ripresa mentre guardava spaventata la camera che la stava fotografando. Aveva capelli ricciolini e rossastri, con due occhioni azzurri come quelli di Mamoru, come lo era il viso perfetto e liscio come la buccia di una pesca. Usagi poteva considerarla benissimo la sorellina minore di Mamoru, vista la somiglia straordinaria, ma considerò con troppa maturità i tratti della bambina che non appartenevano troppo a lui.
Sospirò mentre il mondo continuava a frammentarsi sotto i suoi piedi. Stava precipitando giù, giù, sempre più giù.
<< Che fai, Usa? >>, le chiese.
Lo osservò e tornò alla fotografia dello scricchiolo, osservò i tratti teneri e decisi allo stesso tempo, gli occhioni bellissimi ed ingenui che osservavano con quella forza che aveva visto solo dentro gli occhi di... Galaxia.
Deglutì, il cuore spezzato. << Non è l'amore a unirvi per sempre, ma qualcosa di più grande. >>, comprese a voce alta. << Qualcosa di più grande: un figlio. >>.
Mamoru fu schiacciato da una sofferenza troppo grande da poter raccontare solo con gli occhi, abbassò la testa e disse con tormento: << Lei è Chibichibi. >>.
<< Tua figlia. >>, completò la frase. << Tua e di Galaxia. >>.
Vide apparire da dietro la porta il volto serio e rigido di Galaxia, con tutta la sua analisi della fotografia non aveva sentito che qualcuno entrava nell'appartamento. Galaxia la stava guardando come se fosse stata la peggiore ragazza del mondo, un mostro che spezzava cuori e li mangiava. I suoi occhi cioccolato penetrarono dentro i suoi troppo chiari e ingenui per sorreggere quel tipo di dolore.
<< Nostra figlia morta. >>, disse senza tono, sterile e senza emozioni.
Usagi guardò prima Mamoru e poi Galaxia, tornando alla fotografia della bambina bellissima e inesistente ormai.
Qualcosa di più grande, purtroppo.
Purtroppo.

<< Sì, lei non c'è più. >>, disse atono Mamoru mentre lacrime troppo grandi lo scuotevano.
Mentre il cristallo si frantumava con clangore attorno a Usagi e la neve ricopriva il cuore. Mentre il bianco perpetuo la condannava.




Un abbraccio, al prossimo capitolo.
Belle_

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Capitolo 6
*** Color marrone ***







-5) Color Marrone.
   Un po' terra, un po' cioccolato.





Nei successivi giorni Usagi era tornata un po' come un tempo; girava per casa con il sorriso sulle labbra, rideva di gusto, scherzava e urlava, e abbracciava con forza sua sorella di continuo, e non faceva altro che chiedere ai suoi poveri genitori qualunque cosa. Domande del tipo: quando è il mio compleanno, sono brava a scuola, amo ballare, chi sono le mie amiche, mi piacciono le verdure, sono ancora vive le mie nonne. Domande importanti e inutili che riempivano la testa di Ikuko e Kenjii e che sembravano non sopportarla più, ma appena Usagi voltava le spalle, offesa e infuriata, sorridevano nel poter vedere quei codini scodinzolanti che giravano per casa.
Sorridevano nel poter rivedere la loro figlia.
Era come se Usagi fosse rinata e stesse ripercorrendo i passi dell'infanzia e quindi il periodo del perché perenne, della scoperta del mondo. Come se Ikuko avesse avuto un'altra figlia e la stesse educando di nuovo. E a Usagi quell'aria casalinga piaceva. Piaceva essere viziata un po' dal latte caldo prima di andare a dormire, dai baci della madre che sapeva essere rari, dai sorrisi rigidi del padre che le rivolgeva, dai dolci che le arrivavano dalle sue amiche, dai fiori di pesco che la mandava una misteriosa nonna. Le piaceva stare dentro quella piccola tana che lentamente sentiva essere casa sua, le piaceva l'aria di protezione dentro quelle mura e il senso di benessere sotto una coperta calda mentre fuori la pioggia perseverava. Capitava spesso, però, che Usagi si fermava sulle banalità, come quella volta che si era ritrovata davanti una TV e non sapeva come accenderla; non perché non ne fosse capace, ma perché non ricordava come azionarla. Ed era così che calava di nuovo il sipario sulla famigliola Tsukino, riapparivano quei volti scuri e pensierosi come a dirle che loro erano stati la causa della sua amnesia.
Era così che Usagi scendeva nell'abisso e rivedeva i tratti del viso di Mamoru, era così che si riappropriava dell'innata malinconia nel suo pensiero. In quei giorni erano state tante le volte che aveva pensato a Mamoru e al suo ultimo saluto, aveva persino sperato di poterlo vedere passare sotto casa sua, ma si sentiva profondamente offesa dal suo gesto. Ferita dal suo stesso dolore, ammise a sé stessa. Lo pensava sotto le coperte, mentre prendeva una cioccolata con il caramello, quando guardava la TV, quando rideva con Chibiusa. Tornava così a riprendere quell'unica fotografia in cui si scorgeva Mamoru, quell'angolo con metà del suo volto, e lo osservava con quello sguardo accigliato e serio. Lì, in un angolo, come se non volesse disturbare, come se non doveva esserci lì.
Tornava a chiedersi tante cose; come aveva conosciuto Mamoru? Come aveva reagito quando aveva saputo che era già un uomo fidanzato? Perché Mamoru era così duro con lei?
E soprattutto perché Usagi non si era ribellata a quel triangolo?
Ma le risposte non arrivavano mai, trascinandola nello sconforto e nelle lacrime che il suo cuscino ospitava con gentilezza ogni volta con la mano cortese della seta. Come unico conforto c'era il suo gattino nero che le faceva le fusa accanto, strusciando la sua coda contro la pelle, accoccolandosi sulle sue ginocchia, giocherellare con l'orlo delle sue gonne. Forse, quel gattino sapeva più cose e peccato che fosse solo un docile animaletto senza capacità di parlare. Anche se Usagi era convinta che gli animali potessero parlare a modo loro. E lo sconforto, l'arida distesa bianca della sua mente, la facevano tremare fortemente,ma non facevano altro che darle più forza e più curiosità.
Voleva conoscersi.
Fu così che quel pomeriggio scese in salotto con la sua felpa rossa con quella caricatura di un cartone animato e con i capelli sciolti, ondulati, lasciati oziare sulle spalle, e si sedette di fronte a sua madre. Con lo sguardo fisso, attento, mentre la osservava.
Ikuko stava in cucina, indaffarata nel preparare il piatto preferito di Usagi, gli gnocchi, e le sorrise bonariamente, nonostante si vedesse la sua stanchezza sul volto. Usagi le fece segno di sedersi accanto a lei, lo fece e la osservò con un punto interrogativo negli occhi. << Dimmi, Usachan. >>, la incitò a parlare.
Usagi la fissava, ne studiava ogni piccolezza, cercando un dettaglio che la portasse a ricordare qualcosa, perché aveva imparato che erano i dettagli a fare la differenza nella sua vita e che ingiustamente la portavano a ricordare. Inchiodò gli occhi di Ikuko con i suoi perché amava guardare le sfumature delle iridi, amava guardare i colori che possedeva e a quali poteva allungarsi e fondersi. Sua madre aveva gli occhi color cioccolato, occhi seri e scuri, ma che avevano una cadenza ai lati molto dolce. Quasi come se fossero cioccolato al latte che continuava a mescolarsi con piacere. Amava quel cioccolato.
<< Allora? >>, chiese Ikuko.
<< Voglio altre fotografie. Fotografie in cui ci sia Mamoru. >>, le disse.
Ci sfuggiremo sempre.
Ikuko si irrigidì, fulminando sua figlia. << Non ne abbiamo. >>, fu secca.
<< Non è vero. >>, sibilò Usagi, capendo la menzogna.
<< Non replicare, Usagi. Ti ho detto che non ne abbiamo, capitolo chiuso. >>.
Si alzò dalla sedia e prese a impastare la massa giallastra e prosperosa che era stata messa di lato sul tavolo. Torturò quella pasta con pugni e carezze troppo energiche mentre inchiodava i suoi occhi color cioccolato proprio sul suo lavoro, come a volersi concentrare solo sugli gnocchi e non alle assurdità che diceva la figlia.
Perché, per Ikuko, Mamoru era un'assurdità.
<< Mamma... >>.
Ikuko alzò gli occhi ed ebbe un tremito al cuore così profondo che sentì mancare un battito, sentirsi di nuovo alle prese con la figlia adolescente e irrequieta. Gli occhi di Usagi erano fissi nei suoi e la guardava con la determinazione che bruciava nei suoi, con quella determinazione che sentiva di odiare. Aveva sempre odiato quella parte di Usagi.
<< Ho bisogno di ricordi. >>, disse con una strana tranquillità, senza smettere di guardare.
Ikuko stette per dire qualcosa, lasciò la pasta ammassata sul tavolo, vittima di massaggi troppo furenti, e si avvicinò a sua figlia con le mani sporche di farina, con il viso spezzato dal dolore, con gli occhi lucidi. Duri, fermi, come terra. Aprì la bocca, ma Kenjii le interruppe: << Volete smetterla? >>.
Gli occhi di suo padre sprofondarono nei suoi, condannandola ancora una volta senza sapere per quale motivo.
Usagi si rispecchiò dentro quegli occhi, sentì il brivido della paura e della verità che bruciava e mordeva dentro di lui, ma gli cedette una tregua. Abbassò lo sguardo e si sedette sulla sedia di ciliegio, esausta. << Oh, va bene, come volete voi. Mi arrendo. >>, disse con la voce rotta da un pianto sommesso.
Desiderava tantissimo sapere qualcosa, qualcosa di sé e automaticamente c'entrava Mamoru perché lo sentiva cucito sulla sua memoria difettosa. Dentro quella vita un po' arida e un po' generosa.
I suoi genitori si guardarono per un attimo negli occhi, leggendo l'una dentro l'altro la paura di rivedere la loro figlia spegnersi, perché quello non era proprio un atteggiamento della loro Usagi. Kenjii stette per dire qualcosa, ma suonò il campanello di casa e andò verso la porta.
Mentre suo padre si dirigeva nell'ingresso, Usagi rivolse uno sguardo nascosto a sua madre e poté vedere i suoi occhi lucidi, cioccolato fondente e amaro che si permeava di lacrime nascoste. Cioccolato e terra che combattevano l'uno contro l'altra. Morbidezza e durezza in conflitto dentro gli occhi di sua madre.
<< … Stavolta non ti presenti come futuro marito di Usagi? >>, sentì dire dall'ingresso.
Spinta dalla curiosità, andò verso l'ingresso di casa e quasi le venne un colpo nel vedere sull'uscio della porta quel ragazzo alto e con i capelli corvini, quel ragazzo con gli occhi come il cielo che fissavano in cagnesco suo padre, quel ragazzo che si erigeva ritto e rigido. Quel ragazzo che, con un tono basso, la chiamò: << Usagi, devo parlarti. >>.
Ma vaffanculo!
<< Mamoru? >>, rimase allibita.
Suo padre la guardò e la fulminò con gli occhi. << Fate in fretta. >>, disse secco.
<< Be', entra. >>, gli disse.
<< No, faccio subito. >>.
<< Okay. >>.
<< Ok. >>.
<< Come va? >>, gli chiese, sentendosi in imbarazzo.
<< Potrebbe andare meglio. >>, parlò con distacco. << Tu, invece? I ricordi come vanno? Arrivano? >>.
Usagi sorrise e si diresse verso la porta, uscendo sotto il porticato spiovente mentre la pioggia ticchettava placida sull'erba rada e gialla e scottata dal gelo. La brina punzecchiò le punte dei capelli biondi di Usagi e si infiltrò rapida nei polmoni, rinfrescandola. C'era la neve, era caduta la notte prima, e imbiancava gran parte del suo piccolo giardino. Donava a tutto un'aria angelica, divina. << Sai che ho ricordato qual è la mia canzone preferita? >>, disse, sedendosi sul muretto.
Mamoru la imitò, si sedette accanto a lei e le prese una mano con dolcezza. << Cosa vuoi che sia, giusto? >>, chiese con una mal celata timidezza.
<< Sì. >>, arrossì insensatamente.
<< Adoro quella canzone. >>, fissò il cielo denso di pioggia con gli occhi rilassati. Li chiuse.
<< Lo so. >>.
Li riaprì, incredulo. << Come fai...? >>.
<< L'ho ricordato e nel ricordo c'eri tu. >>, gli sorrise come se fosse bastato sorridergli. Come se avesse voluto ricominciare, come se quel sorriso leggero aveva la potenza di poter cancellare il brutto saluto e il passato dimenticato. Aveva bisogno di ripartire, Usagi.
Mamoru finalmente sorrise.
Fu uno di quei sorrisi che Usagi non avrebbe dimenticato, uno di quei spasmi muscolari che lo rendeva così brutto per via delle rughe attorno agli occhi, ma nello stesso tempo bello da mozzare il fiato per la gioia che era descritta nel suono, nei contorni, nel modo di farlo. Apparve come se sorridere fosse una poesia.
Sapeva che avrebbe amato quel sorriso, sapeva che lo aveva amato.
<< Ti devo chiedere scusa. >>, disse infine.
<< Per il 'dolce' saluto dell'altra volta? >>, lo punzecchiò.
<< Sì. >>, abbassò la testa. << Sono stato uno stupido. >>.
<< Un cafone. >>, lo corresse, accigliandosi.
<< Concordo. >>.
Usagi lo guardo negli occhi, sentendo che quegli occhi fossero suoi, ogni sfumatura, ogni cosa che guardavano, ogni persona che sfioravano. << E' passato, comunque. >>.
<< A volte non riesco a frenare i miei impulsi, la mia rabbia mi acceca spesso. >>.
<< Rabbia? E per cosa? >>, batté più volte le palpebre, un po' titubante.
<< Usagi, avevi ricordato Seiya e non me. >>, la fulminò.
<< Mamoru, tu hai una ragazza. >>, strisciò.
<< E tu avevi baciato me poco prima. >>.
<< Non posso comandare i miei ricordi. >>.
<< Ma le tue labbra sì. >>, si alzò e si posizionò davanti a lei, mentre stringeva una sua coscia con una mano con troppa forza.
<< Mi stai dando la colpa di quel bacio? >>, si alterò. << Tu ti sei chinato su di me! >>.
<< E tu non ti sei spostata! >>, urlò.
<< Ma tu avevi una ragazza! >>, lo rimbeccò con più determinazione.
<< E tu il ricordo di Seiya nel cuore! >>, ribatté, avvicinandosi ancora di più.
<< Cos'è, sei geloso? >>, Usagi si alzò e lo fissò negli occhi, infuriata.
<< E tu non sei gelosa di Galaxia? >>, incalzò.
Usagi si morse la lingua prima di gridare un sì, voltò il viso e, strisciando, disse: << No. >>
<< Usagi... >>, la chiamò, strisciando.
<< No, non sono gelosa di te! >>, urlò, facendosi avanti per arrivare ad un passo dal suo volto. << Non lo sono, non lo sono, e basta! >>.
Mamoru abbozzò uno di quei sorrisi divertiti e si avvicinò al collo di Usagi, baciandone ogni piccolo pezzo di pelle, respirando con fatica il suo profumo fresco. Per tutta risposta, Usagi inclinò il collo per permettere a Mamoru di procedere senza intralcio, sentendo i baci dolci e leggeri che si dirigevano al lobo dell'orecchio.
<< Sei gelosa, ammettilo. >>, sussurrò.
Usagi sentì la parte vecchia di sé stessa che si ridestava, così aprì gli occhi e lo fissò con troppa determinazione e un pizzico di malizia. Poggiò le sue labbra schiuse sulla sua guancia, lasciandone piccoli e impercettibili baci mentre raggiungeva lievemente uno zigomo. Sentì la pelle di Mamoru rabbrividire, lo sentì trattenere un respiro e irrigidirsi.
Sentì pezzettini di ruggine snocciolarsi dalla sua memoria e trovare un po' di sensazioni vecchie, antiche, che sapevano un po' di rancido, ma che Usagi assaporò come se fosse una torta alle fragole o un bel piatto di gnocchi. Si sentiva lentamente sé stessa...
<< Usagi, spostati. >>, soffiò con voce roca.
<< No. >>.
<< Fallo! >>, le afferrò le spalle con le sue mani.
<< No. >>, ripeté.
<< Fallo, altrimenti non rispondo di me stesso. >>, cercò senza forza di spostarla.
<< Ammetti che sei geloso e mi allontano. >>, sussurrò, nascondendo il rossore.
<< Sei una scema. >>, si rabbuiò, guardandola in viso.
<< Perché? >>, lo fissò con la testa inclinata.
<< Perché ho una ragazza. >>, disse a denti stretti.
<< Lo so. >>, si allontanò, esausta. Osservò il cielo, grigio e prosperoso di fiocchi danzanti che si scioglievano man mano che scendevano sul pavimento della città. << Mi chiedo come avrò fatto in passato a sopportare tutto questo. >>.
Mamoru l'abbracciò da dietro, stringendola forte. << Mi chiedo se riuscirai a perdonarmi un giorno per tutto questo. >>, le sussurrò nell'orecchio con la voce rotta.
Usagi si voltò per guardarlo e vide quella maschera di acciaio che si scioglieva sotto un fuoco sconosciuto, osservò quel volto fratturato dal dolore che non poteva comprendere, quel dolore profondo e nascosto, quel senso di colpa così schiacciante. Gli carezzò una guancia, fissandolo dolcemente.
<< Mamochan... >>, la sua voce tremava ed aveva bisogno di familiarità. Aveva bisogno di trovare un pezzo di sé stessa e sapeva di trovarlo dentro di lui, aveva bisogno di perdonarlo e ci sarebbe riuscita soltanto guardando i suoi occhi che riflettevano il cielo immenso e sperduto, leggero e tuonante.
<< Usako... >>, disse roco, chinandosi sul suo volto, pronto a baciarla. << Non posso permettermi il lusso di essere geloso di te. >>.
Usagi sospirò, dandogli un bacio sulla guancia. << Tregua, ok? >>.
<< Okay. >>, abbozzò un sorriso.
E rimase così, fermo davanti all'uscio della porta di casa Tsukino, curvo a causa dell'abbraccio scomodo con Usagi e sotto gli occhi pungenti di Ikuko che era affacciata alla finestra. Eppure non si mosse, rimase lì.
<< Mia madre è alla finestra. >>, annunciò Usagi, osservando di lato il cioccolato degli occhi della madre.
<< Lo so. >>, sorrise con amarezza. << Non sono il loro pupillo. >>.
<< Perché? >>, chiese, affamata di passato.
<< Perché anni fa ho fatto un grande sbaglio. >>.
<< Quello di presentarti a mio padre dicendo di essere il mio futuro marito? >>, chiese divertita.
<< Hai sentito, quindi. >>, poggiò la sua testa su quella di Usagi. << No, non per quello. Magari fosse stato solo quello... >>.
<< Cosa può aver fatto di tanto grave un laureando in medicina? >>, chiese, sorridendo.
<< Sono già laureato. >>, la corresse.
<< Oh, davvero? >>.
Mamoru annuì e si disse che gli sarebbe piaciuto stare sempre così. Abbracciati, calmi, a chiacchierare del più e del meno. Anche se il più e del meno non era appropriato da dire.
<< Quando? >>.
<< Mentre tu eri in coma ho discusso la mia tesi di laurea, sono fresco di confetti. >>.
Si costrinse a sorridere, nonostante avesse avuto nel cuore una crepatura quando si era voltato alla folla con il sorriso e con la Laurea in mano, quando non la vide lì, seduta ad applaudire per il suo traguardo. Per quel traguardo tanto agognato che proprio lei aveva spinto a proseguire, a non mollare.
<< Oh! >>, disse semplicemente, Usagi. Gli sorrise e, alzando le punte, gli diede due baci sulle guance. << Congratulazioni, Dottor Chiba! >>.
Usagi vide il suo viso cambiare espressioni una dopo l'altra, e sperò che la sua assenza potesse essere perdonata in qualche modo.
<< Dimmi la verità, Usagi. >>, disse con un tono malizioso. << Lo hai fatto solo perché vuoi che ti porti i confetti. >>.
Usagi iniziò a ridere fragorosamente. << Sì, hai ragione. >>, disse tra un singhiozzo e l'altro.
Risero insieme per un lungo minuto.

<< Ecco le tue fotografie, Usagi. >>, disse Ikuko quando Usagi rientrò dentro e Mamoru se ne era andato. << Di Mamoru ce ne sono poche, fattele bastare. >>.
Le brillarono gli occhi e si gettò sulla madre, stringendola fortemente. << Grazie, mamma. Grazie mille, mammina! >>.
Usagi vide il sorriso che nasceva dispettoso sul sorriso della madre e tradiva la sua maschera di freddezza e di madre ferita, lo vide nitido e luminoso e non lo dimenticò. Un sorriso bello come quello non l'aveva mai visto, uno movimento di labbra così dolce non l'aveva mai colpita al cuore. Un sorriso soffice sulla porporina che erano le sue labbra, un morbido cioccolato alle fragole che si distendeva, ma nello stesso tempo era un sorriso rigido, un sorriso trattenuto, un sorriso fertile di saggezza, come terra arida e spaventata dalle calamità della terra. Era il sorriso di una donna, il sorriso dolce e amaro di chi aveva sofferto tanto e tacitamente. Era il sorriso di una mamma.
Quel sorriso carico di fertilità le strappò qualcosa dentro e lo fece violentemente, riaprendo cassetti della sua mente così carichi di emozioni che la annientarono.

Davanti agli occhi di Usagi c'era sua madre che faceva la spesa, la borsa nuova sotto la spalla, un sorriso da spezzarle il cuore.
<< Vuoi che compri la mozzarella, Usachan? >>.
<< Sì! >>, si sentì dire. Era stata proprio lei a dirlo.
Camminarono per il supermercato mentre Usagi spingeva il carrello con la spesa e Ikuko che si muoveva sicura da uno scaffale all'altro. A Usagi annoiava fare la spesa, ma per qualche motivo che non ricordava era lì. Tutto procedeva tranquillo, finché Usagi non incontrò lo sguardo bruno di una donna.
Era una donna bellissima, una che curava i capelli giorno per giorno, una donna da voluttuose onde dorate con le punte rossicce. Una donna con gli occhi profondi e castano scuro, una donna che dentro gli occhi aveva il tacito dolore forte e intenso che sembrò bucare il cuore di Usagi. Una donna che conosceva e che temeva, una donna che stava condividendo per un estatico momento il suo dolore con il contatto di un semplice sguardo. E Usagi conosceva l'origine di quel dolore, sorresse lo sguardo come a dimostrare che lei sapeva e che non si sarebbe spaventata.
Un ultimo momento e distolsero lo sguardo entrambe, tornando alla spesa nel silenzio e nell'imbarazzo.


Usagi deglutì, sentendo addosso tutte quelle emozioni. Non diede a vedere a sua madre il dolore che, attraverso un ricordo, l'aveva inondata e pervasa con brividi tremendi. Iniziò a sfogliare l'album fotografico mentre si sedeva sul divano verde di casa sua, con la speranza che qualcosa dentro quelle fotografie potesse guarirle la profonda ferita che quel ricordo le aveva aperto e squarciato con crudeltà.
Chi era quella donna?
Usagi continuava a domandarselo mentre le dita pizzicavano le fotografie di lei con molte ragazze, amiche, e molti ragazzi. Dedusse che non prediligesse un rapporto d'amicizia femminile. C'erano numerose fotografie con Nehellenia, altre con Minako e Rei. Altre con Seiya. Altre ancora con sua madre, con suo padre e Chibiusa. C'erano anche fotografie di Usagi, sola, che stringeva un enorme pupazzo con una faccetta paffuta e due occhioni blu e due lunghissimi codini biondi, la buffa divisa corta, blu e rossa, con mezzelune che apparivano ovunque ci fosse un piccolo spazio.
<< E questo pupazzo? >>, chiese alla madre, indicando la foto.
Ikuko ridacchiò, compiaciuta. << Questo è il pupazzo di Sailor Moon, non lo ricordi? >>.
Usagi scossa la testa, mordicchiandosi il labbro.
<< Eppure, avrei scommesso che di lei ti saresti ricordata. Sailor Moon era la tua eroina quando eri una bambina e lo è stato fino ai tuoi diciotto anni, non hai mai smesso di credere e ammirare questa buffa ragazzina che si destreggiava tra combattimenti e vita quotidiana. Hai numerosi gadget di Sailor Moon e li custodivi gelosamente nell'ultima anta dell'armadio della tua cameretta. >>.
Usagi inclinò la testa, guardando quel pupazzo troppo grande da coprirla interamente e che lei stessa abbracciava fortemente. Guardando gli occhioni ingenui di questa Sailor Moon sentì un pezzetto di infanzia riattaccarsi alle sue braccia, su quelle gambette che scorticava spesso mentre correva per casa con uno scettro di fortuna e balzava sulle scale e fingeva di essere una favolosa eroina.
<< Mi costringevi sempre a fare quei ridicoli codini ogni mattino. Per fortuna, oggi sai farteli da sola. >>, sorrideva mentre prendeva tra le mani una fotografia di lei mentre sorrideva agguerrita contro il suo papà che le stava scattando la foto.
<< La adoravo? >>, chiese.
<< Era una sorta di amica per te. Ci parlavi, l'aspettavi ogni pomeriggio per poterla vedere in TV, la imitavi e volevi sposare quel suo damerino in frac. Tuxedo, credo si chiamasse. >>
Usagi, con il sorriso sulle labbra, proseguì a sfogliare l'album fotografico e infine trovò le fotografie di lei e Mamoru che sorridevano mentre andavano in bici con Nehellenia e un altro ragazzo. Altre di loro da soli mentre parlavano concentrati, altre ancora abbracciati, altre ancora di loro che si facevano brutte smorfie. L'ultima fu quella che ritraeva lei che era seduta su un prato con un libro in mano e Mamoru che le stava di fronte, il viso poggiato sulle mani, e teneva in mano un piccolo bocciolo di rosa per stuzzicarla mentre leggeva. E dietro, posizionata di lato a un maestoso albero, c'era quella donna. Quella che aveva ricordato. Quella con i lunghi capelli biondi e rossi, quella con lo sguardo infuriato e perso in un punto indecifrabile. Con lo sguardo profondo e doloroso proprio come lo aveva visto dentro il suo nuovo ricordo.
<< Chi è questa donna? >>, diede voce ai suoi pensieri.
Sfiorò la fotografia come a voler palpare quel dolore prepotente che quella donna teneva dentro con tanta forza. Usagi ammirava quella donna con tutto quel dolore dentro, quella donna con gli occhi lucidi e che facevano da contorno ad un giornata soleggiata e allegra.
Ammirava quella forza. Quella stessa forza che vedeva negli occhi della madre, quel dolore silenzioso e selvaggio che custodiva senza urlare.
Usagi non credeva nel dolore urlato, ai pianti rumorosi. Credeva nei dolori silenziosi, quelli con gli occhi lucidi e le labbra serrate nel tentativo di trattenere il pianto, credeva in quei dolori che squarciano l'anima con clangore, ma che restano in silenzio. Nascosti tra le lacrime intrappolate negli occhi lucidi e nel viso contrito. Credeva anche agli eroi, ma a quegli eroi che portavano stivali neri di cuoio, a quelli con la divisa verde che impugnavano un fucile e che non sparavano. Credeva ai padri di famiglia che si sacrificano giorno per giorno, a quelli che si spaccano la schiena per costruire un futuro migliore ai loro figli. Credeva alle donne che avevano subito una violenza e che, dopo essersi rivestite, avevano il coraggio di andare dalla Polizia e denunciare la violenza. Credeva negli eroi che impugnavano un enorme tubo d'acqua e si inoltravano nel fuoco fitto per salvare una famiglia o semplicemente un cane. Credeva agli eroi quotidiani, al sacrificio costante della vita, al sostegno delle proprie idee.
Non credeva più alla gonnella blu e al fiocco rosso, non voleva credere più ai codini che provenivano dalla luna. C'era stato un tempo in cui aveva bisogno di credere in lei, in Sailor Moon, ma poi era cresciuta ed aveva sostituito i lunghi codini biondi con gli occhi color cioccolato di sua madre.
Quegli occhi marroni: un po' come terra, un po' come cioccolato.
<< E' Galaxia. >>, e gli occhi della madre la inghiottirono.









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Capitolo 7
*** Color Indaco ***




Piccola Nota: Il capitolo che seguirà sarà un capitolo molto duro, è estremamente triste, quindi se non volete sentirvi partecipe di un dolore troppo grande, vi consiglio di non proseguire con la lettura. Inoltre, è un capitolo più lungo degli altri.
Volevo ringraziare chi mi sta seguendo con molta dolcezza e chi recensisce perché sento molto vicino il loro pensiero. In particolare Robiz, Beppin79 e Shelly2010.
Vi abbraccio fortemente, buona lettura per chi se la sente.






7) Color Indaco
    Un po' nuvola, un po' foschia




Forse, non avevano troppo diritto di scendere, ma caddero a terra. Macchiarono la moquette verde di pallidi tondini trasparenti, numerosi, giacenti sul morbido. Forse, non dovevano scendere, le lacrime, ma scesero dagli occhi di Usagi.
<< Mi dispiace... >>, mormorò con un filo di voce, e sentì che era stata una frase fuori luogo. Scosse la testa, lasciò la cornice inerme sul mobile, la bambina coraggiosa che non c'era più, e fece per uscire dall'appartamento. Contando i suoi passi.
Qualcuno la fermò.
Era rimasta per un momento incerta nel proseguire, ma tornò sui suoi passi e decise di andarsene, lasciando quella presa, perché lei dentro quel dolore così profondo non c'entrava nulla. Era un'intrusa. Anche se sentiva gli occhi di Mamoru sulle sue spalle che la imploravano di rimanere, proprio ora che la sabbia era soffiata su quel dolore, infettandolo. Proprio ora aveva bisogno di lei, lo sentiva.
<< Per favore, lasciami. >>, disse roca, fievole, triste.
La presa non accennava a sciogliersi, anzi si intensificava.
<< Non puoi andare via proprio ora, Usagi. >>, sentì dire dietro di lei.
Non era la voce di Mamoru, aveva realizzato. Si voltò di scatto per poterla guardare in faccia, per poter capire quella richiesta di aiuto tanto insensata.
Perché doveva restare?
Inclinò la testa, << Perché? >>.
Galaxia sciolse la presa, abbassò gli occhi e prese a guardare la fotografia della sua bambina con quell'amore che Usagi poteva solo sfiorare con i sogni. Uno sguardo pieno di amore, di rimpianti, un affetto totalizzante, pieno. Lo sguardo di una mamma. << Perché devo farti carico di troppe emozioni, di troppi dolori. Vorrei picchiarti, insultarti. Vorrei persino ammazzarti per il male che mi hai fatto. >>.
<< Fallo. >>, concesse.
Gli occhi cioccolato sprofondarono nei suoi, fermi, interi, umidi. << Mi hai tolto da sotto le mani un grande amore. Un amore troppo grosso. >>, replicò amara.
<< Davvero troppo... >>, bofonchiò Mamoru, volgendo gli occhi a Chibichibi.
Galaxia lo osservò, ma non diede credito alle sue parole. << L'uomo che mi avrebbe sposata da lì a tre mesi, un uomo che aveva concepito con me un figlio. Sai cosa vuol dire rimanere incinta dell'uomo che hai amato totalmente e perdutamente per cinque lunghi anni? No che non lo sai, non sei che una ragazzina. >>.
Usagi parve offesa dall'ultima frase di Galaxia, perché non ci sentiva più una ragazzina, perché aveva perso la sua verve, la sua audacia nel guardare dritto negli occhi la vita. Aveva perso tutto questo, si era smarrito dietro la parete bianca della sua mente. Ma stette comunque in silenzio; non si poteva paragonare il suo dolore a quello di Galaxia.
Lei aveva perso una figlia, Usagi solo dei ricordi.
<< E la mia bambina, che sembrava essere il collante eterno, è morta due giorni dopo la nascita. E' volata su, sulle nuvole. E quello stesso giorno, insieme a Chibichibi, è volato via anche l'amore di Mamoru che provava per me, schiacciato dal fottuto colpo di fulmine che ha avuto con te. Un amore di cinque lunghi anni non è stato capace di sopprimere un colpo di fulmine di cinque secondi, assurdo come questo. >>.
Galaxia scosse la testa, mentre continuava a guardarla con quegli occhi fermi, aridi, presenti.
<< Io ti ho odiata, Usagi. Dal primo momento che ho visto Mamoru avvicinarsi a sé, sembrava spinto dalla tua direzione e non nella mia che ero in un letto d'ospedale con la vagina otturata di punti e il cuore che mi sanguinava. Ti ho odiata per un lungo anno, quando mi ha lasciata alla fine per stare con te, quando poi è tornato perché era schiacciato dai rimorsi, quando non faceva altro che cedere a Usagi Tsukino e resistere all'amore che avrei potuto offrirgli io per sempre. Ti ho odiata persino quando hai avuto quell'incidente che ti ha segnata, ti odio persino adesso che sei sveglia e che ti arrampichi sugli specchi per sapere qualcosa della tua vita. Perché diavolo hai fatto tutto questo, Usagi?!? >>. Adesso stava urlando contro Usagi, la scosse con le braccia e la voce sembrava rotta, affannata, ma manteneva il pianto dentro il suo cuore. Ancora.
<< Galaxia, adesso non esagerare! >>, urlò Mamoru, camminando piano verso di loro.
<< Fatti gli affari tuoi, Mamoru. >>, rispose secca. << Avrei voluto che anche Mamoru ti avesse odiata per quello che hai fatto, dovrebbe odiarti, ma lui non fa che amarti. Non fa che stringersi a te. Non fa che parlare di te, dei tuoi progressi, dei tuoi occhi. Di quella luce color pastello che hai dentro e che sembra spenta, invece c'è. Persino quando sei stata in coma io ti ho odiata profondamente, perché non ho mai visto Mamoru piegarsi in ginocchio e stringere le mani per pregare un Dio in cui non ha mai creduto. Ma stava pregando per te, Usagi l'amore della mia vita, e quindi non dovevo stupirmi più di tanto. Non ha mai pregato per il mio cuore a pezzi. Solo per te e per Chibichibi. >>.
<< Mi dispiace... >>, ripeté Usagi, mormorando.
Non sapeva cosa dire dopo quello sfogo drammatico, non sapeva più chi in realtà fosse, era solo più chiaro che il rapporto con Mamoru era stato intenso sin da subito, ma il resto ancora echeggiava nel vuoto. Era stata cattiva, lo ammetteva, una senza cuore.
<< Ti dispiace?!? >>, Galaxia quasi l'assaltò, facendola sbattere contro lo spigolo di un mobile quadrato e facendola cascare a terra.
Il dolore che investì Usagi fu acuto, dietro la schiena, e per qualche secondo boccheggiò in cerca di aria e di coraggio. Le lacrime del dolore fisico le fece rimanere negli occhi e si alzò per poter guardare negli occhi Galaxia, per non sfuggire a tutto questo perché non voleva essere una vigliacca, almeno per questa volta.
<< Non ti sei fatta male. >>, disse Galaxia. Fu più un ordine che una domanda.
Mamoru si piegò verso Usagi e l'aiutò a rialzarsi, guardandola con dolore, rammarico, e fece per aprire la bocca per dire qualcosa in difesa di Usagi, ma fu fermato dallo sguardo proprio di Usagi che lo supplicava di non dire nulla.
<< Sto bene. >>, bofonchiò Usagi.
Galaxia si sedette sul bracciolo del divano, incurvando le spalle e fissando per un momento il pavimento sul quale giacevano ancora le lacrime di Usagi. Corrucciò la fronte e tornò a guardarla, ma stavolta si presentò con gli occhi pieni di lacrime, con il rimpianto nel cuore e il viso era stropicciato dal dolore immenso.
<< Ma tutto questo mio odio è insensato verso di te, Usagi, perché ho molta stima verso il tuo carattere. Insomma, devi aver avuto molto coraggio per fare quello che hai fatto. Puoi essere tanto crudele, tu? Tu che ti sei sacrificata? In quel momento ho capito che eravamo sulla stessa lunghezza d'onda, ho capito che Mamoru aveva semplicemente trovato la sua seconda possibilità dopo la morte della mia Chibichibi, il motivo per andare avanti, e non era giusto che si arpionava ancora al nostro amore appassito. >>.
Avrebbe voluto abbracciarla, ma sarebbe stato da ipocriti.
Usagi era la causa del suo male, quel dolore ancora nitido e prorompente che la faceva singhiozzare, e non poteva allungare una mano verso di lei per confortarla. Non era giusto nei confronti di Galaxia che già sembrava in difficoltà nell'odiarla così acidamente, e non era giusto per Mamoru perché quel gesto toccava solo a lui. Doveva essere lui a spingersi verso Galaxia e consolarla da un dolore così immenso, perché solo lui poteva aiutarla, prendendosi un pezzo di quel dolore e sputarlo fuori piano piano.
Insieme alla neve che scendeva, con la stessa cadenza: lentamente e in sincronia.
Lo osservò e gli fece segno con la testa di avvicinarsi a Galaxia.
Lui fu titubante, un po' geloso del suo dolore, e la guardò con stupore. << Perché? >>.
<< E' giusto così, Mamoru. >>, disse. << Dovete superare la morte di Chibichibi, è palese che nessuno dei due l'ha superata, semmai si possa superare la morte di un figlio. >>.
<< Perché devi continuare, Usagi? >>, mormorò Galaxia.
<< Perché ha ancora la sua luce dentro. >>, rispose Mamoru al posto suo.
<< La luce color pastello... >>, disse acidamente Galaxia, scuotendo la testa.
Usagi vide Mamoru cedere alla fine e dirigersi verso Galaxia per abbracciarla, iniziare a condividere un dolore grosso come una montagna insieme alla sua futura sposa.
Era giusto così.
E non doveva soffermarsi al dolore che sentiva trafiggerla, non doveva guardare il dolore provato appena Mamoru aveva allungato le sue braccia attorno alle spalle di Galaxia. No, doveva essere forte. Era giusto così.
Lei aveva rovinato tutto, aveva rotto un equilibrio.
Perché sapeva che se lei non fosse mai apparsa davanti a Mamoru, loro ce l'avrebbero fatta insieme. Avrebbero accettato la morte della loro amata bambina e, forse, ne avrebbero avuto un altro e avrebbero costruito la loro famiglia numerosa. Avrebbero riso insieme e si sarebbero amati.
Era giusto così.
<< Io vado... >>, sussurrò.
Iniziò a camminare verso l'ingresso con lentezza, si stava dando della stupida perché doveva andarsene di lì più in fretta che poteva, perché Mamoru avrebbe presto smesso di abbracciare Galaxia e avrebbero parlato, pianto, si sarebbero persino baciati e stavolta lo avrebbero fatto con dolcezza e senza quella rabbia che aveva caratterizzato il loro rapporto per più di un anno.
Incapaci di non perdonarsi.
Così aveva detto Rei, rammentò Usagi. Si erano perdonati più e più volte: per essersi lasciati, per non aver affrontato insieme il lutto, per essere tornati insieme. Si erano perdonati tutto, solo con la voglia di andare avanti, di riuscire in un modo o nell'altro a vivere insieme. Restare una coppia, questo volevano, ma Usagi aveva rotto tutto.
Aveva ucciso per la seconda volta Chibichibi perché aveva spezzato ciò che l'aveva fatta nascere, il loro amore, e ciò per cui era vissuta per due giorni. Solo due giorni tra le braccia del suo papà, solo due giorni dentro la culla che la madre aveva fatto per lei, solo due giorni per respirare un po' di nuvole e un po' di foschia.
Solo due giorni.

<< Usagi... >>, Mamoru la chiamò quando fu fuori l'ingresso.
<< Sì? >>. Cercò di sorridere, volgendosi a lui.
Mamoru, suo malgrado, sorrise. Fu il solito sorriso di Mamoru, quello amaro, triste, quello che Usagi aveva visto appena si era tornata alla vita, quello che aveva amato per la seconda volta da subito senza spiegazioni, senza remore. << Volevo dirti che... >>, parve confuso in un primo momento. << Il giorno che ci siamo incontrati in ospedale è stato il giorno più vero della mia esistenza. >>.
<< Risparmiatelo, Mamoru. >>, disse con dolcezza. << Va' da Galaxia. >>.
<< Ci andrò, ma volevo dirtelo. Quel giorno era morta Chibichibi e tu sei arrivata d'improvviso nel nido con quegli occhi sognanti, piena di aspettative verso il tuo futuro, eri una ragazzina, e purtroppo ti sei voltata dalla mia parte. >>.
<< Perché stavi nel nido? >>.
<< Volevo vedere cosa aveva perso mia figlia, cosa avrebbe vissuto, la stavo immaginando ancora là dentro. >>.
Usagi sorrise amaramente. << Salutami Galaxia, Mamoru. Tanti auguri! >>.
Mamoru la fermò ancora, afferrandole il polso. << Trovi giusto andar via ora? >>.
Annuì e basta, osservandolo.
L'avvicinò a sé, avvolgendola in un abbraccio morbido, caldo, e si chinò con la testa per respirare sul suo collo con la stessa dolcezza. << Ti amo, Usako. >>, sussurrò.
Fu un sussurro talmente flebile che Usagi si domandò se non fosse stata una sua proiezione, un suo sogno che stava prendendo troppa forma.
<< Hai sentito bene. >>, la rassicurò, fermandole le mani che si stavano strofinando l'una contro l'altra. << Mi raccomando. >>.
Usagi deglutì, abbassò lo sguardo e si allontanò da Mamoru. Ebbe freddo, ma cercò di non pensarci.
<< Ciao, Mamochan. >>, disse e voltò le spalle.


Quando giunse a casa sua, non salutò i suoi genitori sentendosi profondamente adirata con loro per non vedere di buon occhio Mamoru che aveva sofferto molto, e si barricò dentro la sua stanza. Si gettò sul letto e si concesse un pianto liberatorio, arpionando il suo cuscino come se si stesse arrampicando su una parete rocciosa.
Il bussare incessante di sua madre la infastidì a tal punto di urlare contro di lei di non scocciarla, di lasciarla sola. Ma alla fine, sua madre entrò, usando una seconda chiave.
<< Adesso mi dici cosa succede. >>, ordinò Ikuko.
Usagi la guardò con rabbia. << Perché? Cosa ti interessa, mamma? >>.
<< Ma che ti prende? >>, sussultò, indietreggiando.
<< Che mi prende? Ce l'avete con Mamoru perché ha perso una figlia? Perché era in procinto di sposarsi? >>, urlò affannosamente. << E perché mi tenete allo scuro del mio incidente? Cosa c'è da nascondere? E perché volete allontanarmi dalla Usagi che ero prima, non restituendomi il mio cellulare e il mio PC? Cosa volete che io non ricordi? Se volevate che io non mi innamorassi di Mamoru è troppo tardi perché da quando mi sono svegliata ho provato lo stesso sentimento per lui, anche senza ricordi. >>.
<< Calmati, Usagi. Noi volevamo... >>.
<< Volevate che io non vedessi la mia vita, i miei amici, il mio Mamoru. Ecco! >>.
<< No! >>, urlò anche Ikuko. << Non volevo che non odiassi tua sorella! >>.
<< Perché dovrei odiarla, mamma? >>, chiese con calma, adesso. << Io sento di provare per lei un affetto molto profondo, non so cosa farei se le succedesse qualcosa. >>.
Ikuko parve colpita a fondo da un coltello, ma girò le spalle e se ne andò.
Usagi la rincorse per casa e le chiese: << Perché dovrei odiarla? >>.
<< Lasciami in pace, Usagi. Va' in camera tua e restaci. >>.
<< Ho diciotto anni, mamma. Non credi che sia un po' troppo ordinarmi di restare in camera mia? >>, disse con dolcezza, sorridendole. << Adesso dimmi, mamma. >>.
<< No. >>, fu cruda. Andò verso la cassapanca che c'era in salotto e l'aprì, tirando fuori una grande scatola. Aprì anche la scatola e ne estrasse un PC portatile e un cellulare rosso, li porse a Usagi con lo stesso sguardo duro come la terra. << Tieni, eccoti i tuoi accessori. Buon viaggio, Usagi. >>.
<< Buon viaggio? >>, chiese stupita.
<< Viaggerai dentro la tua vecchia vita, adesso. >>.
Senza dire una parola, Usagi andò nella sua stanza e accese il PC e il suo cellulare. La prima cosa che andò a vedere furono i messaggi nella scheda telefonica e lì trovò un'altra ondata ghiacciata che la investì avidamente, ghermendola in uno stato pietoso.
C'erano molti messaggi di Mamoru. Altri di Seiya, altri di Rei, altri ancora di Nehellenia. Tutti furono la doccia fredda di Usagi.
Quelli di Mamoru furono i più duri da digerire, ma che lesse per prima.

Sei a casa?
Sì, perché?
Adesso passo, devo darti una cosa.
Cosa?
Un bacio.

Stai dormendo, Usako?
Hm, quasi. Tu?
No. Ho un'idea.
Quale?
Adesso vengo da te, entro dalla finestra e ti riempio di baci.
Buonanotte, Mamoru. :)

Oggi eri strana. Che succede?
Nulla.
Usagi...
Non mi va di stare sempre così, Mamochan!
Cosi come?
Ma c'eri anche tu al Crown quando è arrivata Galaxia con Nehellenia, perché fingi?
Non fingo, pensavo che non volessi dar peso a loro.
Invece, sì.
Usako, ma di cosa hai paura?
Di niente. E' brutto sentirsi giudicate.
Ricorda che siamo in due, amore mio.

Galaxia mi ha chiamato.
Cosa ti ha detto?
Vuole vedermi.
Va bene. Vai, almeno questo ce lo devi.
Sei sicura?
Sì.
So che ti stai mangiando lo stomaco, Usako, ma apprezzo tutto questo.
Già, anche io...

Dobbiamo lasciarci.
Cosa???
Non posso vedere Galaxia in quello stato.
Ah, è per lei. Va bene.
Va bene?
Mamoru, sapevo che sarebbe successo.
Usagi, io amo te, ma lei non ce la fa ad affrontare tutto questo.
Lo so.
Possiamo vederci dopo scuola? Voglio baciarti un'ultima volta.
No.
Perché?
Perché se ci vedessimo, non riusciremo a farla essere un'ultima volta.

Rispondi, Usagi. Rispondi a questo maledetto telefono, ho bisogno di sentirti.
Ehi, Usako, per favore. Rispondimi.
Amore... ti prego!

Vederti è la cosa giusta, lo penso ogni volta.
Mamoru, stai con Galaxia. Lasciami in pace.
Non ci riesco.
Stai sbagliando su ogni fronte allora. Non puoi stare con Galaxia se cerchi ancora me.

Stasera andrò al Crown con Galaxia.
E quindi?
Vieni anche tu. Ho bisogno di vederti.
NO.

Perché diavolo dovevi venire con Seiya?
Come, scusa?
Non fare la finta tonta.
Mamoru, tu eri lì con Galaxia. Cosa pretendi da me? Che ti aspetti in eterno?
Sarebbe una buona idea.
Vaffanculo.

Sei fidanzata con Seiya, adesso?
No! cosa te lo fa pensare?
I vostri atteggiamenti.
No, Seiya è solo Seiya. Anche se è molto affascinante.
Affascinante??? Usagi, stai rischiando.

Buongiorno, amore mio! Come stai quest'oggi?
Ti supplico di lasciarmi in pace, Mamoru. Io non voglio più sentirti.
Ci riusciresti?
No.
E allora perché credi che io ne sia capace?
Perché tu hai una fidanzata.

Vorrei che ti svegliassi, che mi guardassi con quegli occhi azzurri per rassicurarmi ancora. Vorrei che mi dicessi che tutto questo è uno sbaglio, e ti ascolterei perché è solo il sentire della tua voce che mi farebbe stare meglio. Perché sei sveglia, perché sei viva.
Invece, sei ancora lì. Dentro quel letto a respirare con dei macchinari infernali, con gli occhi chiusi e il cuore duro come una pietra.
Non ti fanno tenerezza le mie suppliche ogni volta che vengo lì? Perché rimani muta e inerme, ogni volta che ti sfioro una mano?
Tu sei viva, Usagi. Io lo so, lo sento. Tu non puoi morire.
Tu sei viva.


Poi c'erano quelli di Seiya, più dolci e molto più leggeri.

Andiamo! Ti rifiuti ad una partita a pallone? Ma che ti succede, Usagi?
Sono solo impegnata nello studio, Seiya. Scusami!
Non mi dire bugie, Usagi.

Oggi a scuola ho vinto io.
Non ci pensare proprio, carissimo. Il mio era un bel 10, il tuo un misero 9 e mezzo.
Ma hai letto le note della prof? ''Lo stile è pressappoco di alto livello, la creatività denota molta fantasia e non ci sono errori di ortografia'', cito la professoressa.
Seiya Kou, non serve a niente arrampicarti sugli specchi! Se ho preso mezzo voto più di te ci sarà un perché, no?
Sì, perché sei la cocca della prof!
E tu un idiota!

Il nuovo CD lo comprerò domani, lo prendo anche per te?
Oh, che galantuomo! Me lo regaleresti? ;)
Affatto. Se vuoi che te lo prenda, mi devi un anticipo e in più una mancia per il servizio.
Antipatico!
Opportunista!

Stamattina hai dimenticato di pettinare i capelli.
Tu mi mandi un messaggio e sei proprio dietro di me? Durante la lezione, poi!
Tu mi rispondi al messaggio e sei proprio davanti a me? Durante la lezione, poi!
Sai che mi basterebbe poco per simulare un incidente e farti cadere accidentalmente una squadra affilata e appuntita sulle tue dita?
Sai che potrei tagliarti i capelli da questa mia posizione?
Devi continuare a farmi eco?
Ihihi, è troppo divertente.

Oggi eri più carina del solito, cosa avevi fatto? Un trattamento di bellezza?
Seiya, ricordi che io non sono una delle tue amichette, vero? Sputa il rospo! Che favore ti serve questa volta?
Ma perché non mi credi? Se io stessi dicendo la verità?
Se fosse così, non me lo diresti inviandomi un msg!


Proseguì con quelli di Nehellenia. Molto più amari, crudeli.

Ci sono rimasta malissimo dal tuo comportamento, Usagi. Pensavo che fossi una ragazzina con un po' più di morale dentro. Non posso credere che sono stata tua amica per otto lunghi anni!
Tu... mi stai accusando?
Se tu vedi un'accusa, non è colpa mia. Io ti sto dicendo solo la verità.
E per te la verità è sputandomi addosso il pensiero comune? Tu sei la mia migliore amica, dovresti stare dalla mia parte, dovresti schierarti con me. Come ho sempre fatto io per difenderti da tutti quei ragazzi che ti sono piaciuti e poi li hai buttati via.
Mi stai dando della poco di buono?
Non cominciare a travisare le cose, Nehellenia. E se poi qui dovrebbe esserci un'offesa, quella dovrei essere io. Non credi?

Grazie per il tradimento, Nehellenia. Davvero, grazie infinite.
Non è colpa mia se sei una povera scema che crede che tutti si schierino dalla tua solo perché sei buona e gentile con tutti.
Dico, ma tu sei stata la mia migliore amica per anni! Dovresti conoscermi e dovresti sapere che io non potrei mai fare nulla che ti facesse del male. Ma che succede?
Succede che sono stufa di essere amica ad una ragazzina, una bambina che pensa ancora a Sailor moon ed esce con quattro ochette per divertirsi.
Nehellenia, hai un ragazzo tu. Credi che sarebbe divertente uscire in tre? Cosa farei, reggerei le candele mentre voi pomiciate come due arrapati?
Semplicemente potresti aspettare quando ho un po' di tempo libero per uscire con me.
Oh, sì e rinchiudermi dentro casa e rifiutare una vita sociale per te? Per te che mi hai voltato le spalle alla prima difficoltà?

Continui ad atteggiarti a scuola come una prima dama, ma non lo sai che niente eri e niente sarai? Ci credo che mi invidi, io un giorno sarò qualcuno, Usagi.
Un ingegnere ricco.

Potrei sapere a chi era indirizzato il tuo articolo del giornale della scuola?
A Leopardi.
Oh, che donna colta!
Problemi?
Uno solo: tu.
Nehellenia, fottiti.

Se hai qualcosa da dire, il mio numero lo conosci.
Non ho nulla da dirti, Nehellenia.
Certo, non ci sarebbe nulla da dire sul mio conto. Non sono io quella che è stata con uno quasi sposato...
Eppure, io in te ci avevo visto qualcosa di buono, ma ora non lo ricordo proprio. Vedo solo marcio. Per quanto la tua bellezza possa illudere, la tua vera essenza salta fuori.


Passò tutta la notte a leggere i messaggi nel suo cellulare e le mail nel suo PC, mentre il suo gattino rumoreggiava con le fusa nel suo letto. Non prese sonno, guardò per tutta la notte il soffitto della sua stanza e cominciò a pensare, a pensare, a pensare...
Insomma, devi aver avuto molto coraggio per fare quello che hai fatto.
In cosa aveva avuto coraggio? Galaxia era stata chiara nel definirla in qualsiasi cosa di mostruoso c'era, ma l'aveva lodata, per dire, per un suo sacrificio.
Puoi essere tanto crudele, tu? Tu che ti sei sacrificata?
In cosa si era sacrificata? E poi c'erano mille domande su Mamoru, su Nehellenia, su Seiya e su sua madre che temeva che potesse odiare sua sorella Chibiusa.
Mamoru e Usagi erano stati insieme, quindi. E Mamoru sembrava davvero molto innamorato di lei, come lei sembrava che volesse mettere dei freni a tutto quell'amore. E nei messaggi che aveva scambiato con Nehellenia si parlava di un tradimento, sembrava un'estranea nonostante fosse stato accennato più volte la durata della loro lunga amicizia.
Come aveva tradito Usagi? Cosa mai avrebbe potuto ferirla così profondamente?
L'unica rassicurazione era Seiya. Frizzante, simpatico, dolce, presente sia prima che dopo il coma. Qualcosa era rimasto immutato, pensò, e se ne sorprese. Seiya era davvero il suo piccolo miracolo dentro quella vita di diciotto anni disastrosi. Uno peggio dell'altro. Insomma, aveva fatto una cosa più sconsiderata dell'altra.
Per Usagi era tutto avvolto dentro la nuvola color indaco dove ora giaceva la piccola Chibichibi, colmo di foschia violenta e penetrante. Era tutto avvolta dalle nuvole del cielo, come lo era stata in passato avvolta unicamente dal cielo blu. Ora però la breve vita di Chibichibi, la bambina dagli occhi indaco, si riversava su di lei con ferocia, annebbiando qualsiasi cosa che riuscisse a far quadrare la sua vita. Era tutto una nuvola densa e vischiosa, un pericolo per quelle sue memorie a lungo assopite.

Il giorno dopo, mentre usciva da scuola, fu fermata da Seiya.
<< Usagichan, ho una notizia meravigliosa per te! >>, le comunicò frizzante, con il sorriso.
<< Cosa? >>, chiese, facendosi prendere dal sorriso di lui. Sorrise anche lei. Era inevitabile farlo, la sua luce penetrava sin dentro il cuore fratturato di Usagi.
<< Una partita a calcio. Tu sei l'attaccante, come sempre. >>.
<< Attaccante, io? Gioco a calcio? >>, sbarrò gli occhi.
<< Tu giochi a calcio? Cosa debbono udire le mie povere orecchie! Usachan, tu sei una tifosa sfegatata del calcio e giochi saltuariamente con la squadra maschile della scuola. >>.
Usagi rise, attorcigliandosi un capello accanto all'orecchio. << E che squadra tiferei? >>.
<< Quella della nostra scuola e l'Inter. La tua passione smodata per questa roba prettamente maschile mi ha sempre lasciato un po' interdetto, ma insomma stiamo parlando di te. E poi sei un buon attaccante, non manchi mai la porta. >>.
<< Quindi sarei un maschiaccio. >>, dedusse.
<< Assolutamente, no. Sgambetti per il campo come solo una donna può fare, ma non ti arrendi quando ti spintonano, ti fanno male a qualche parte del corpo. E poi se devo dirla tutta, piaci a molti dei nostri compagni di squadra. >>, continuava a parlare con la sua parlantina e il suo sorriso, mentre la portava al campo da calcio della scuola.
Usagi, quando vide il suo campo, ebbe nel cuore un sussurro caldo. Una sensazione di Deja vù che le colorava il viso, una sensazione che sapeva di ricordi e di dolci appena sfornati. Lei in quel campo aveva lottato, pianto, esultato, era inciampata e si era rialzata. In quel campo vedeva le tracce della Usagi che era stata prima di rintanarsi nel coma, perché alla fine aveva ceduto ad una sua vocina e aveva creduto che fosse stata lei a rifugiarsi nel coma per fuggire dalle atrocità della sua vita, ma continuava a vedere quei pezzi color indaco sul campo verde smeraldo, contornato dal bianco della neve. Indaco come gli occhi di Chibichibi e come la luce color pastello di cui parlava Mamoru.
Sì, tra i fili d'erba e le gambe massicce dei giocatori c'era il filo che avrebbe ripristinato il suo equilibrio. La sua memoria, il suo passato.
Guardò Seiya e annuì. << Voglio giocare. >>, profferì decisa.
<< Vuoi? >>, le chiese una conferma, sorridendo.
<< Devo. So che amo questo campo. >>.
So, ma non ricordo.
Ma questa era strada da compiere.
<< D'accordo. >>, Seiya annuì e le diede la maglia della squadra.
Usagi si aggrappò alla maglia, ne toccò la tessitura ai bordi e il materiale caldo e liscio, osservò il suo nome ''TSUKINO'' scritto in bianco sul colore indaco della maglia e osservò il suo numero scritto a caratteri cubitali. 17. Che ironia della sorte...
<< Vado a cambiarmi. >>, e si infilò nello spogliatoio delle donne.
Mentre si cambiava vibrò il suo cellulare, informandola che un messaggio le era stato inviato. Lo sbloccò e lesse il nome di Galaxia. Scosse la testa, non capendo, e deglutì.
Galaxia.
Cosa voleva? Lesse il messaggio con le mani che le tremavano, il cuore che pompava una quantità di sangue da farle venire il mal di testa e lo stomaco che ricominciava a contorcersi in segno di disappunto. Quelli erano i segni inconfondibili, un avvertimento.

Ho lasciato Mamoru. Era giusto così, non per te, ma per me e Mamoru.
Ora è tutto tuo, fanne un uomo felice.


Ebbe un tuffo nel cuore, e prese a tremare. Ma si riprese, Usagi, e posò il cellulare nella sua borsa, determinata più che mai ad andare avanti con quella partita che stava per giocare, perché quella era una partita in cui era appeso un filo sottilissimo. Il filo tra la vecchia Usagi e quella sperduta di adesso.
Perché Usagi era una donna forte, era donna a soli diciotto anni. Usagi aveva una luce color pastello dentro il suo cuore e intendeva riprendersela, riappropriandosene per vivere con il brio dell'arcobaleno. Con l'allegria dei colori che fino a quel giorno aveva paragonato alle numerose avventure vissute senza una memoria.
Entrò in campo nel silenzio della squadra avversaria e nei sorrisi dei suoi compagni di squadra, entrò in campo facendo un sospiro forte e trattenuto. Entrò in campo, guardando la tribuna, entrò in campo, avendo visto Mamoru sulle panchine di legno.
Al fischio dell'arbitro e fino a che Usagi non prese possesso della palla, la sua mente continuava a proiettarle l'immagine della testa corvina di Mamoru che sbucava nella tribuna con quel sorriso buono e sincero. Un po' fallace, ma era il sorriso delle nuvole.
Il primo tempo proseguì tranquillamente e Usagi si stupì di come poteva sentirsi quando aveva la palla tra i piedi e la calciava con determinazione, con la sola intenzione di farla entrare nella rete, o di come si sentiva piena di adrenalina mentre correva nel campo per rubare la palla al suo avversario e poi passarla a un suo compagno. 
Segnò due goal nel primo tempo, proprio Usagi.
Ma nel secondo tempo, la squadra avversaria rientrò in campo con molta violenza, molto agguerriti per i due palloni subiti da una ragazza oltretutto. Ma fu proprio il secondo tempo che determinò un pallone netto nello stomaco di Usagi, strofinandosi contro il suo torace ancora non completamente guarito e facendola cadere a terra contro il palo della porta. E fu proprio il suo volersi mettere in gioco fino alla fine che la spinse contro quella palla che la rovesciò a terra, insieme alle urla di Seiya che aveva urlato un secondo prima che la palla raggiungesse Usagi.
<< Usagi! Sta' ferma! >>.
Furono queste urla che fecero rompere qualcosa dentro la testa di Usagi, facendola rimanere a terra che fissava il prato sintetico con gli occhi sbarrati come se fosse stata colpita mortalmente.
Usagi! Sta' ferma!
Perché furono queste parole che spezzarono in mille pezzi l'immenso muro bianco che albergava nella testa annebbiata di Usagi, ridandole non solo i ricordi vecchi, i suoi dispiaceri e le sue gioie. Furono quelle parole che ridiedero agli occhi di Usagi il brio scintillante della luce color pastello, facendola sorridere.
<< Va tutto bene? >>, chiese Seiya, chino su di lei.
Una cerchia di ragazzi si era attorniata a lei e poté vedere nelle tribune l'esile figura di Mamoru che svettava per la sua altezza, si era alzato e stava guardando con il respiro spezzato, preoccupato che le fosse successo qualcosa di grave.
Usagi! Sta' ferma!
Le stesse parole dell'incidente.
<< Sì... >>, mormorò, rialzandosi.
La cosa strana è che non ci furono episodi che le passarono in testa, momenti struggenti che l'avrebbero fatta piangere nel ricordare, non si vide passare un'intera vita davanti. Ci fu semplice uno schiocco secco, come quando veniva messo l'ultimo mattone per costruire una casa, e Usagi non ebbe bisogno di ricordare, perché lei ora semplicemente sapeva. E tutto aveva il colore dei pastelli. Tutto somigliava al colore innocente dell'indaco.
<< Ho solo ricordato tutto. >>.

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Capitolo 8
*** Color cielo ***




8) Color Cielo
     Un po' vita, un po' morte





Quella nebbia sarebbe dovuta sparire dalla sua mente, eppure ancora c'era. Rimaneva lì a intossicarle il cuore, a spingere la sua ragione alla più appassionata follia.
Ora lei sapeva e questo la rincuorava. Sapeva chi era Usagi Tsukino, sapeva le sofferenze che si erano appianate sul suo cuore come una patina mentre era senza memoria, ne conosceva l'atrocità e la semplicità, ora sapeva chi erano le persone che le erano state vicino e chi le era stato lontano.
Ora era in grado di essere sé stessa, poteva toccare nuovamente quella luce pastello che vedeva in lontananza e riappropriarsi di tutti quei colori che rallegravano la sua identità. Ma quella Usagi, che era stata per un mese e che l'aveva messa in ombra, sembrava persistere su di lei, come l'ombra di un pino immenso e altissimo su un piccolo fiore.
Decise di riprendere aria e farsi dare il cambio dall'allenatore, aveva bisogno di una doccia calda e di rilassarsi sotto lo scroscio dell'acqua.
Mamoru era fuori il campo da calcio, imbottito nel suo cappotto e gli occhi in cerca di lei.
<< Stai bene? >>, chiese, avventandosi su di lei. Passò a revisionare la sua testa, toccandola con le dita e studiarla con occhio clinico.
Usagi si sentì morire, si sentì precipitare. Quella sensazione familiare la cullò nell'odore fresco di Mamoru, lasciandole chiudere gli occhi per assaporare quel momento. Aveva bisogno di viverlo con il cuore, quel momento, perché ora lei ricordava. Lui era Mamoru, non solo il suo tormento, il suo dolore, ma anche e solamente il suo grande amore che l'aveva investita a soli diciassette anni. Quell'amore che la lasciava in mille brividi di piacere e di dolore simultaneamente, quell'amore che la lanciava dalla montagna più alta e la lasciava precipitare lentamente e poi farla cadere sui morbidi cuscini pieni di piume e di foglie. Quell'amore che le stampava in testa il colore del cielo.
<< Usako... >>, mormorò al suo orecchio.
Usagi riaprì gli occhi e guardò il volto di Mamoru, felice di ricordare quanto fosse bella e magnificente la sua tristezza e la sua alta statura. Come brillassero i suoi capelli al pallido sole dicembrino, come fossero pieni di nuvole i suoi occhi color cielo. Come fosse interamente attratta da quest'uomo che la sovrastava e la riempiva, che la svuotava delle allegrie e la riempiva di sofferenze. Perché Usagi non era inciampata in quel tipo di amore, dove chiudeva un periodo triste e ne apriva uno bellissimo con il suo arrivo. Stava dentro quell'amore che l'aveva fatta precipitare in basso, sempre più sotto la terra, sempre più giù.
Era una persona felice, prima di Mamoru. Amava la sua vita, semplice, piena di amici, piena di serata al Crown e risate, piena di sua madre che la metteva in ombra, piena di quei temi che sfioravano il dieci, piena di insufficienze in matematica. Stava bene lì, dentro quella vita adolescenziale che non richiedeva troppo sforzo. Era felice.
Incontrando Mamoru, la sua vita è stata capovolta completamente, come una clessidra, e le persone che credeva essere sue amiche erano state le prime che l'avevano abbandonata. Completamente catapultata dentro un mondo che le aveva richiesto di crescere subito, per essere in grado di affrontare situazioni che una semplice ragazzina di diciassette anni non avrebbe potuto comprendere. Incontrando lui, poteva dire davvero di averlo amato con ogni forza, contro ogni giudizio, contro ogni cosa, perché aveva messo in discussione completamente la sua vita.
Perché incontrando lui, gli occhi di Usagi si erano aperti all'intimità di un amore, alla complicità di amare, alla semplicità di rinunciare. Perché incontrando Mamoru, il colpo di fulmine che l'aveva stecchita, l'aveva risvegliata e fatta entrare dentro il tunnel più profondo e buio. E non se ne era dispiaciuta.
Lei lo amava. Contro tutti, contro tutto. Contro sé stessa, contro lui.
Perché Mamoru era stato un po' vita e un po' morte.
Toccò le sue guance con le sue dita, passando sulla cornice delle labbra e saggiarne la morbidezza, andando a tastare la fronte alta, soffermarsi sulle sue palpebre e lasciare che le sue dita si precipitassero, come stava facendo il suo cuore, sui suoi capelli. Color ebano, color notte buia. Color Mamoru.
Mamoru sorrise con dolcezza e Usagi si sentì morire nuovamente sotto quel sorriso bucato.
Quante volte si poteva morire in un minuto?
<< Usako... >>, ripetè, rauco.
E quante volte si poteva rinascere in una vita soltanto?
<< Aspettami. >>, disse Usagi e andò nello spogliatoio in cerca di una doccia.

Spogliata dei suoi vestiti e delle sue paure, Usagi si gettò sotto la doccia e una doccia calda di ricordi le cadde addosso, dandole il sapore di cannella e sofferenze.
Il suo odore.
Mamoru.
Lui, il suo cielo.

Era successo tutto come in un banale romanzetto, era successo per caso che Usagi si era imbattuta in Mamoru e nel peggiore dei modi.
Dentro un nido, nell'ospedale di Tokyo. E lui era lì che contemplava i gemiti dei neonati, i volti innocenti e ignari, perso chissà in quale mondo, con le mani in tasca, strette in un pugno a loro volta, nel suo tipico modo da timido. Aveva la testa poggiata contro il vetro e i capelli corvini gli ricadevano sugli occhi come una cascata nera e imperdonabile, intenti a risucchiare il cielo dei suoi occhi.
Usagi, invece, era corsa al nido mentre rideva e quasi capitolava dalle scale, tanto da andare a finire perfettamente contro il vetro del nido con la punta delle dita e il naso. Con i capelli lucenti che le turbinavano attorno e che le ricadevano sulle spalle, gli occhi gioiosi e in cerca di quel bambino da paragonare ad uno dei suoi sogni. La tipica curiosità famelica di un'adolescente stampata sul sorriso, marcata negli occhi blu e sognanti.
La sua risata fresca destò immediatamente Mamoru dal suo stato pensieroso, voltandosi da lei che guardava affascinata il bambino appena nato della sua amica Setsuna.
Poi, si voltò anche lei, sentendosi osservata.
E il mondo minacciò che fiondarsi addosso a lei, mentre quel cielo blu la spogliava delle sue risate e della sua ingenuità, mentre un tremito profondo colpì incapace e distratto il cuore. Mentre nella sua mente venivano ritratti quegli occhi, come unica fonte di vita.
Quel ragazzo con gli occhi gonfi e rossi, quello dai capelli in disordine e appiattiti contro il suo volto bianco e stanco, quello dai vestiti dimessi e stropicciati, sì, quel ragazzo distrutto era apparso agli occhi di Usagi l'uomo più bello di tutta la Terra.
Non guardarmi, ragazzina. Sto per sposarmi.
Le aveva detto con tutta la serietà che i suoi occhi potevano esprimere, tornando a guardare quei bambini piangenti e tranquilli che stavano dentro le cullette.
Usagi aveva fatto spallucce ed era tornata a guardare i bambini, in cerca del bambino col cappellino azzurro e la tutina dello stesso colore, in cerca del bambino col cognome Meio.
Oh, eccolo!, aveva esultato, accarezzando il vetro con un dito, in direzione di quel bambino paffuto e dai ricciolini verde smeraldo. Il sorriso di Usagi si era aperto di nuovo, mentre si alzava sulle punte per poterlo guardare meglio, quel frutto d'amore avuto troppo tempo prima della maturità della madre. Ma sapeva che Setsuna lo avrebbe amato come se avesse avuto trent'anni e non solo diciassette.
E Mamoru, forse incapace di non guardarla, si era avvicinato a lei e aveva sorriso al bambino ricciolino che piangeva a squarciagola nella sua culla blu. Aveva sorriso a ciò che il cuore di Usagi puntava, ad un bambino, all'innocenza.
Non stai per sposarti, tu?, gli aveva chiesto Usagi, canzonandolo.
Lui le sorrise, formando la fossetta agli angoli della bocca, e mostrando un segno di rinascita dentro quel dolore che pareva pendere su di lui con una grossa spada.
E Usagi, a quel sorriso fratturato dalla sofferenza, non aveva resistito e decise di innamorarsi perdutamente di lui, di cancellare quella tristezza e sostituirla con i sorrisi che solo un amore sincero sapeva dare.
Perché Mamoru sapeva essere anche un po' vita.
Sapeva saziarla e dissetarla con un solo sorriso, un sorriso che arrivava sin dentro gli occhi color cielo.
E tu non sei troppo giovane per stare qui?, aveva risposto Mamoru.
Potrei dire la stessa cosa, aveva mormorato Usagi.
Non sono troppo giovane per avere un figlio.
Ma sei troppo giovane per poter guardare altri bambini con tristezza
, aveva detto Usagi.
Mia figlia è morta, oggi, aveva risposto, tagliando a corto.
E Usagi sentì che la Terra si stava aprendo sotto i suoi piedi, incapace anche solo di immaginare un dolore come quello, incapace solo di pensare e paragonare le sue difficoltà a quelle che stavano finendo Mamoru. Così, ignara che ciò che stava per fare avrebbe complicato ogni azione della sua vita, non disse nulla e lo abbracciò, aggrappandosi al suo collo e stringendolo contro sé stessa. Perché non bisognavano parole, nessun cordoglio, c'era la necessità di curare un po' quella ferita che sgorgava di sangue al sale.
C'era bisogno di amore per tappare una ferita d'amore.
E non si era nemmeno domandata se era giusto abbracciare uno sconosciuto, dargli conforto, perché le sue braccia erano state guidate da qualcosa di esterno e si erano attorniate al collo di Mamoru come se fossero state addestrate solo a quel movimento. Già da quel momento, Usagi comprese che Mamoru aveva il sapore dell'ambrosia, sentendone il profumo, e che quel sapore divino e inimitabile era mescolato alle qualità più forti e catastrofiche che esistevano.
Mamoru sapeva un po' di morte.
Mamoru, all'inizio era rimasto rigido nell'abbraccio di Usagi, poi forse ascoltando qualcosa nei messaggi muti di Usagi, ricambiò l'abbraccio, affondando la testa nell'incavo della spalla. Perché non c'era niente di più naturale in tutto quello, era semplice e non c'era imbarazzo tra loro. C'era solo l'inizio di ciò che sarebbero stati in futuro.
Sto per sposarmi, aveva mormorato, staccandosi.
E più di un rifiuto per Usagi, era un promemoria al suo cuore.
Sto per sposarmi, lo aveva ripetuto anche mentre tornava da Galaxia con in testa solo quell'abbraccio.
Sto per sposarmi, lo aveva ripetuto un secondo dopo che aveva chiesto informazioni all'infermeria di dove si trovava la madre del bambino Meio.
Sto per sposarmi, lo aveva detto anche a Setsuna, a cui aveva chiesto l'indirizzo di casa di Usagi.
Sto per sposarmi, lo aveva detto un secondo dopo che aveva visto Usagi che si affacciava alla finestra, dopo che era stato ore ad aspettarla fuori casa.
Sto per sposarmi, lo aveva sussurrato anche un secondo prima di baciare per la prima volta Usagi, sotto l'abete del cortile della sua università.
E aveva smesso di mormorarlo solo qualche mese dopo, quando aveva lasciato finalmente Galaxia per potersi godere Usagi in tutto. Aveva smesso di mormorarlo solo dopo aver affrontato i pregiudizi degli altri solo per stare con Usagi, solo dopo aver sofferto nel vedere Galaxia completamente distrutta, solo dopo essersi accorto che non c'era niente di più giusto che stare tra le braccia di Usagi. Aveva smesso di dirlo solo dopo essersi presentato al padre di Usagi come suo futuro marito, perché l'intenzione di Mamoru era di far diventare Usagi sua moglie. S
tavano insieme tutti i pomeriggi al Crown, dove lui lavorava, e qualche volta la sera a casa sua e, solo quando c'era Usagi, Mamoru riusciva a dormire, dimentico dei suoi incubi. Uscivano spesso per la città, insieme a Motoki e Makoto, e si godevano la loro relazione al meglio che potevano.
Dandosi più baci che potevano, stringendosi più tempo che potevano. Cosciente che prima o poi tutto quello sarebbe finito.
E poi tutto era finito, per via di Nehellenia che aveva baciato a tradimento Mamoru.
Tutto aveva cominciato a rotolare verso il basso di una discesa pericolosa, lasciandosi con Mamoru e vedendolo tornare con Galaxia, litigando atrocemente con Nehellenia, allontanandosi dalla sua famiglia che l'aveva sempre lasciata in un angolo, poiché solo Chibiusa era in grado di poter fare qualsiasi cosa in maniera perfetta.
Rotolava tutto giù dalla discesa, ma Usagi fortunatamente aveva trovato il suo appiglio alla sopravvivenza, il suo miracolo, ed era stato Seiya, con il quale aveva costruito un ottimo rapporto e del quale era molto attratta. Erano entrambi attratti l'uno dell'altra, ma c'era una sorta di limite che non si poteva varcare, e questo Mamoru lo aveva capito.
Lo aveva capito in quelle sere in cui andava al Crown con Galaxia e vedeva entrare Usagi con Seiya, senza tenersi la mano, ma comunque si vedeva che erano uniti. Lo aveva visto chiaramente che, dentro quello spazio che li teneva a distanza, c'era il loro futuro e che le loro risate e i loro discorsi formavano un arco perfetto tra le loro teste, come un ponte in costruzione. Un ponte da un cuore all'altro.
Per questo motivo Mamoru dava di matto nei messaggi con Usagi, geloso di ciò che sarebbero potuti essere loro due. Geloso che a Usagi era stata offerta una seconda possibilità, come era stata offerta a lui, ma che lei aveva tutte le probabilità di afferrarla e goderne. Perché Usagi non era stupida come lui.
Ma tutto rotolava giù, velocemente e portandosi dietro amare ferite, fino ad arrivare a toccare il fondo del precipizio.
Fino al giorno dell'incidente.
L'episodio dell'incidente scosse Usagi, che tornò alla realtà, dopo aver ricordato ogni cosa.
Chiuse l'acqua.
Si asciugò.
Si vestì.
E capì benissimo cosa doveva fare.
Loro non potevano stare insieme.

Una volta fuori, Usagi individuò Mamoru e, senza timore, si fiondò su di lui, arpionandolo.
Aveva voglia di lui, aveva una voglia pazzesca di stringerlo e sapere finalmente chi stava abbracciando. Aveva la voglia disumana di stritolarlo, per recuperare alla lontananza vissuta per via di Galaxia e della sua amnesia. Usagi sapeva che non potevano stare insieme, completamente spiazzata dal suo profumo di ambrosia che sapeva un po' di morte e un po' di vita e dai suoi meravigliosi occhi di cielo.
Spiazzata, come lo era stata un momento prima dell'incidente. Perduta, come si era sentita lontana dalle sue braccia ,un momento prima di perdere i sensi e la memoria. Viva, come si era sentita durante lo schianto. Morta, come si era sentita per il resto della sua vita, dopo il coma. <
< Mamoru! Mamochan! >>, disse, annaspando contro il suo torace. Respirando l'odore di ambrosia del suo Mamoru. << Hai ventiquattro anni, studiavi medicina generale, non hai la mamma e il papà perché sono morti quando eri bambino, la tua motocicletta è color luna perché per te gli occhi di Chibichibi erano lucenti come la luna. >>.
Mamoru si allontanò appena per poterla guardare in volto, inghiottendola con i suoi occhi color cielo e fissarla con un interrogativo sul viso.
<< Ho ricordato tutto, Mamochan! Non ho più l'amnesia! >>, rispose alla domanda silenziosa, sorridendo giuliva e felice.
Un rivolo della vecchia Usagi tornò a colorare l'aura che aveva attorno e sentì nel cuore sbocciare una di quelle emozioni esplosive e audaci che solo quando era semplicemente Usagi aveva dentro. Era stata per un millesimo di secondo felice.
<< La luce negli occhi! >>, mormorò elettrizzato, toccandole gli zigomi del viso. Accarezzando i capelli, toccando il volto, baciando a fior di labbra i suoi occhi. << Hai negli occhi la luce color pastello, Usako! >>.
<< Sì! Sì! Sì! >>, urlò, stringendolo ancora più forte.
Mamoru la strinse più che poteva, le baciò la linea del collo, succhiandone un po' il sapore alla cannella, e le annusò i capelli. << La mia Usako è tornata... >>.
Usagi chiuse gli occhi, beandosi al tocco di Mamoru.
Proprio come era stata qualche minuto prima dell'incidente.
Perché Mamoru aveva quel sapore agro e dolciastro insieme, era l'unico uomo che sapeva un po' di vita e un po' morte, perché era l'unico uomo che era in grado di farla sentire viva in un secondo e morta in un altro secondo successivo.
Quante volte si poteva morire in un'ora?
Adorava quel sapore di morte che la spingeva giù nel precipizio e adorava quel sapore di vita che la portava a scontrarsi contro cuscini morbidi, lasciandole guardare, dal profondo in cui si trovava, il cielo blu.
<< Devo dirti una cosa. >>, iniziò a dire Mamoru con un tono molto triste.
Usagi alzò la testa e lo guardo negli occhi blu, in attesa del sapore di morte che già sentiva nell'aria, in attesa di morire ancora.
<< Vado in America. >>.
Sgranò gli occhi, fissandosi nei suoi che l'avevano pugnalata, sentendosi fratturata, spogliata, uccisa come si era sentita sull'asfalto, un secondo dopo l'incidente.
Li fissò.
Quegli occhi color cielo, quegli occhi che sapevano un po' di vita e un po' di morte.



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Capitolo 9
*** Color sangue ***




9) Color Sangue
   Un po' eroi, un po' idioti


Morire.

Nascere.
Crescere.
Vivere.
Amare.
Sbagliare.
Soffrire.
Gioire.
E morire.
E poi ancora rinascere.
In un solo mese. Trentuno giorni, settecentotrenta ore, quarantatremilaottocentoventinove minuti e due milioni seicento ventinovemila e settecentoquarantatré secondi. Tutti questi attimi pieni di palpitazioni, momenti colmi di pensieri, sentimenti, respiri e bisogni umani, persi in un solo minuto. Un minuto per morire.
Quante volte si poteva morire in un minuto?
Mille, cento, o forse solo una, se la morte sapeva essere decisiva.
Era stato così per Usagi: un colpo solo, profondo, accurato. Un solo colpo sferrato dalle lame che fuoriuscivano dalla bocca di Mamoru e Usagi era stata messa a giacere dentro un altro mondo, un mondo che era l'immensità del Giappone. Un mondo che non era l'America. No, quello lì era troppo da desiderare, le bastava la realtà, dove a separare il Giappone dall'America c'era un immenso e profondo oceano, ma voleva guardarla da lontano. A debita distanza. Chilometri di distanza, come sarebbero stati da lì a poco, loro. A
chilometri di distanza in un mare color rosso, come il sangue che aveva oscurato i suoi ricordi.
<< Avevo fatto domanda mentre eri in coma. >>, spiegò Mamoru.
<< Perché? >>, chiese senza voce Usagi.
<< Comprendimi, Usagi. Tu eri in coma e... >>.
<< E avevi deciso di scappare da tutto questo! Ecco cosa devo comprendere! >>.
<< Per favore, non fare così. Sai che io sono innamorato di te! >>.
<< Non abbastanza. >>, disse, sconfortata.
<< Ma cosa dici? Hai ricordato tutto, no?!? >>.
<< Sì, ho ricordato come io mi sono venduta per stare con te una sola ora. Ho ricordato il tradimento di Nehellenia, mentre ti stava appiccicata alla bocca, ho ricordato la delusione dei miei genitori quando hanno saputo che mi vedevo con un uomo quasi sposato, ho ricordato le serate che mi hai lasciata da sola al Crown perché Galaxia aveva un problema. Ho ricordato la vergogna che mi ha investito, ho ricordato quello che io ho fatto per te, Mamoru. Perché di concreto non c'è nulla da parte tua, solo parole. >>.
E quanto aveva amato quelle parole che l'avevano tenuta in vita.
E Mamoru l'aveva guardata con il dispiacere negli occhi, un po' rincuorato di rivedere quella forza tornare nella sua voce, ma, con gli occhi bassi, fece per andarsene.
<< Ho lasciato la donna che ha partorito la mia amata bambina per te, Usagi. Ti ho aspettata per ore, al freddo, davanti la scuola solo per rubarti un bacio. Ho litigato, picchiandomi, con il fratello di Galaxia solo perché ti stavo osservando. Sono tornato a sorridere, solo per te, sono tornato ad amare. Se questo è poco per te, dovremmo chiuderla qua. >>
Sì, si poteva morire cento volte in un'ora. Perché c'erano assassini affascinanti che non si limitavano a dare il colpo di grazia, ma continuavano a infierire con i loro occhi di cielo.
<< L'avremmo chiusa comunque qua, no? >>.
<< Non se mi avessi aspettato. >>.
<< E quanto? Sei mesi? >>.
<< Due anni. >>.
Usagi morì per la terza volta in un minuto.
Due anni erano un insieme di giorni, di mesi, di ore e di minuti che non sarebbe stata in grado di affrontare. Una lontananza così prolungata, così sofferta, non l'avrebbe affrontata. No, decise, non potevano stare insieme.
<< Sei forse pazzo? Sai cosa sono due anni, Mamoru? >>.
<< Un immensità di tempo. >>.
Sì, un tempo troppo lungo ad una distanza troppo lunga. E seppe in cuor suo che il loro rapporto era stato plasmato in continuazione dalla distanza, voluta e dovuta.
Galaxia. L'amnesia. E ora l'America.
Non era così difficile da capire cosa avrebbe voluto Usagi, come qualunque ragazza. Non voleva essere una principessa, venerata e amata, ma voleva avere per sé l'unica persona che contava, l'unica che avrebbe voluto. Era stata cosciente sin dall'inizio che non potevano stare insieme, ma desiderarlo non era un reato troppo grave.
Non per il suo cuore, però. Il suo rubino fratturato.
Così Usagi si prese cura di sé stessa e del suo cuore e se ne andò, lasciandolo davanti il campo e lasciandolo all'America, la scusa e il nuovo potere che lo strappava da lei.
Per quanto dolore avesse avuto dentro, questo era il tempo di chiudere questa storia tormentata e cercare in qualche modo di lasciarsi curare dal tempo o da una buona cioccolata.
Era ora di camminare a ritroso, dentro le pozze del suo sangue.
Come un'idiota.

Due sere dopo, Usagi camminava lungo la strada principale che volgeva al Crown, in silenzio e religiosamente chiusa nei suoi pensieri.
Aveva una cena di classe, quella sera. Non ne era molto entusiasta, aveva solo voglia di infilarsi nel suo letto e guardare la TV. Nulla di troppo pretenzioso, solo una quotidianità che prima dell'amnesia amava fare. Anche perché uscire significava rivedere quei volti che aveva dimenticato e non sapeva cosa dire loro, e soprattutto perché aveva il cuore a pezzi. Camminava mentre pezzi troppo grandi rimanevano nelle pozze del suo sangue...
<< Posso entrare nei tuoi pensieri? >>.
Usagi alzò la testa, spaventata dalla voce tiepida che si era intrufolata nel suo orecchio. << Seiya! >>, disse, tirando un respiro di sollievo. << Mi hai spaventata. >>.
Seiya sorrise, annunciando il suo rammarico, e le scompigliò i capelli. << A cosa pensavi? >>, le chiese con curiosità.
<< Non so come scusarmi con gli altri. >>.
<< E per cosa? >>, sbarrò gli occhi.
<< Per essermi dimenticata di loro. >>.
<< Non essere sciocca. >>, cominciò a dire Seiya, sorridendole in quel modo luminoso che spingeva a sorridere anche Usagi.
In verità, il sorriso di Seiya spingeva a fare ben altro, dentro di sé, ora che le memorie si erano ripristinate. Un battito d'ali si smosse nello stomaco di Usagi e i brividi cominciarono a salirle in gola, dicendosi che sì, Seiya era davvero il suo miracolo dentro quella vita. Il primo ricordo nell'amnesia.
Lui, come una calamita, attirava i suoi sorrisi ad estendersi e brillare della sua luce color pastello, o forse perché Usagi era incapace di non fare ciò che Seiya le suggeriva con gli occhi e, quindi, anche con il cuore. Come se tra i due cuori ci fosse stato un filo di connessione che permetteva loro di capirsi in una maniera intima e di muoversi in simultanea lungo la strada della vita.
<< Loro non hanno nulla da scusarti. >>, si mise a giocare con un sassolino lungo il marciapiede, sorridendole appena.
Usagi gli sorrise e ripensò al loro primo incontro, avvenuto anni prima a scuola. Al terzo anno, dove Usagi aveva cambiato classe e indirizzo di formazione.

<< Tu sei Usagi, giusto? >>.
Usagi aveva alzato la testa dalla sua cartella, intenta a cercare il suo cellulare, un po' in disordine, e si soffermò ad osservare il compagno di classe. Uno schianto di compagno di classe, doveva ammetterlo. C'era qualcosa dentro di lui che le apparteneva, ma non seppe se era il sorriso o quegli occhi blu che le sorridevano da appena si erano visti.
Annuì, sorridendogli.
<< Che strana testa che hai! >>, disse lui, beffeggiandola.
Le sorrise nel modo tipico che in futuro avrebbe caratterizzato Seiya e Usagi lo osservò, arrossendo un po', vedendone quegli occhi blu come il mare e i lunghi capelli neri. Ad Usagi era sembrato annegare per un secondo dentro quegli occhi, ma appena scese con lo sguardo sulla bocca, piegata nel sorriso più bello, capì che quelle erano acque che non le avrebbero fatto del male. Anzi, l'avrebbero dissetata. Avvolta, tratta in salvo.
Erano acque buone, acque sue.
<< Perché, cos'hai contro la mia testa? >>, chiese, affilando lo sguardo.
<< Be', sono strani questi cosi. >>, le palpò i codini, incerto. << Cos'è, lisciarti i capelli come il resto della tribù femminile non si adduce ad una come te? Sei sofisticata? >>.
Usagi prese a ridere con dolcezza. << Il resto della tribù è un po' banale, per me. >>.
<< E tu sei ridicola con questi codini, Usagi Tsukino. >>, la guardò seriamente.
Usagi gli sorrise. << Se non ti piacciono, puoi benissimo guardare le altre ragazze con i loro capelli perfettamente lisci e senza forme. >>.
Seiya guardò per un secondo il cielo attraverso la finestra, nascondendo i suoi pensieri e raccontargli solo al silenzio, e poi sorrise. << Credo che mi piacerà guardare solo te con queste polpette in testa e questi occhi che già credono di sapere la vita. >>. Le diede un buffetto sulla guancia, sorridendole.
<< Sono una ragazza fidanzata, io. >>.
<< E chi ti dice che sia quello giusto? >>, ammiccò.


Già. Chi le diceva che Mamoru era quello giusto?
Il suo cuore? Banalità.
I suoi sensi? Banalità.
I suoi occhi? Banalità.
Seiya? Forse.
Guardò il suo compagno di passeggiata e gli sorrise ancora, perché non era capace di far altro in sua presenza se non quello di ringraziarlo con gli occhi per ogni momento restituitele, grazie alla passione che le aveva mostrato.
<< Ma tu devi scusarmi per qualcosa, vero? >>, mormorò, timida.
Seiya la guardò di sbieco. << Forse. >>. <
< Tu sei qui, eri qui già da prima, e io non ho mai fatto nulla per te. >>.
<< Sei solo un'idiota, Usagi. >>, iniziò col dire, avvicinandosi a lei, accorciando il ponte. << Questo Mamoru ti ha preso tutto: tempo, sorrisi, sforzi. Ha preso te stessa e l'ha rubata, non ti ha mai più restituita. Perché se tu sei stata la sua cura, lui era il tuo male. Poco ma sicuro. >>.
<< Sei amareggiato, lo capisco. >>. <
< No, tu non capisci niente. Da quando è uscito fuori questo qui, io non ti ho riconosciuta più. Certo, sei maturata, ma hai perso con il tempo la tua audacia ed è per questo motivo che, durante l'amnesia, ho cercato di farti tornare in mente la luce che eri un tempo. Ovviamente l'incidente e l'amnesia hanno dato il colpo di grazia. >>.
Usagi abbassò gli occhi, dandosi dell'idiota. Ancora una volta.
<< Io l'ho amato moltissimo, Seiya. >>.
Seiya si parò davanti a lei, fissandola severamente. << E con questo? Amare fa così male? Invece ti portarti su, nel cielo, ti porta giù, nel mare? >>.
Usagi cercò di sorreggere il suo sguardo, determinata. << Non tutti gli amori sono da favola, Seiya! Non tutto è rose e fiori, accidenti! >>.
<< E allora? >>, persistette Seiya. << E questo amore quanto buono può essere se ti ha ridotta ad una fiammella? Usagi, tu eri una fiamma! Tu sei un eroe. >>.
<< Buono? Questo amore non ha avuto il tempo di essere buono, non ha vissuto delle quotidianità giuste, dei sorrisi disinteressati, dei litigi. E' stato un amore fatto solo di fretta, di sorrisi innamorati e rari, e non c'era spazio per i litigi. C'era già il mondo che ci voleva separati. >>.
<< Galaxia non è il mondo, Usagi. >>, mormorò amaramente.
<< Ma Chibichibi era il mondo di Mamoru. >>, sputò, avendo gli occhi lucidi.
<< E tu vuoi farti una colpa, Usachan? Vuoi prenderti la colpa della morte di una bambina concepita solo da un rapporto senza amore? Non puoi essere la cura di Mamoru a vita. >>. Seiya osservò l'angolo della strada e sospirò. << E' un uomo fallace, rotto dalla vita, e ha cercato a tastoni di crearsi una famiglia. Non è l'uomo che saprebbe farti brillare, saprebbe portarti sempre più giù e lasciare che su di te si compia un'eclissi violenta. Capisco benissimo la tua prospettiva; prima di lui eri felice e questo dimostra che hai seguito i tuoi sentimenti a discapito tuo e della tua vita. Si vede che lo ami moltissimo. Davvero lo capisco, Usagi, ma quando si tocca il fondo, è giusto tornare a galla. E' ora di rinascere. >>.
Rinascere ancora dalle ceneri, riemergere da quel mare color sangue e affrontare la vita.
Rinascere. Come un eroe.
<< Va' in America, Seiya. L'ho lasciato per sempre. >>.
La sua voce stava morendo in gola, perché era consapevole che un suo per sempre era una promessa irrevocabile.
Questo era un addio, questa era la rinascita.
Seiya abbozzò un sorriso. << Sai, da quanto ti ho incontrata sono cambiate molte cose nella mia vita e nella vita di tutti. Siamo adolescenti e le cose sotto le nostre mani scivolano velocemente e prematuramente, ma tu sei sempre stata una costante. Io non so cosa c'è davvero dentro di te, visto che sei stata capace anche di far a tornare ad amare Mamoru, ma, vedendoti, capisco che l'amore è il motore del mondo. All'inizio ti ho anche odiata un po', ma poi ho sempre avuto voglia di capire questo sentimento, di studiarlo, di abbracciarlo. Davvero, io non conosco la tua educazione e chi ti ha insegnato una forma di amore tanto puro verso gli altri, ma guardare te che aiutavi un uomo spezzato, la tua ex migliore amica ad alzarsi da altre sofferenze, aiutare Rei che rischiava di rimanere incinta, aiutare chiunque, mi ha aperto un mondo. Esiste qualcosa dentro di te che... >>.
Sailor Moon. Lei le aveva insegnato ad amare così.
<< Ora non idealizzarmi, Seiya. Ho solo amato le persone che mi erano vicine, credo che questo tu sai farlo molto meglio di me. >>.
Seiya si fermò, afferrandole un braccio. << No, io non so cosa significhi amare, e tu me lo stai insegnando giorno per giorno, con il tempo, con la dolcezza, con la sofferenza. E' come se tu avessi questo talento particolare, una sorta di terzo arto. Lo spiega anche il tuo incidente. >>. U
sagi scosse la testa, sorridendogli. << Ami la tua ragazza, Seiya? >>, chiese a bruciapelo.
<< No. >>, mormorò, sconfitto. << Non è lei che mi spinge ad amare. >>.
Usagi osservò quel mare in tempesta che erano i suoi occhi ed era strano. Vedere quelle iridi incerte e confuse su qualcosa, le bucava il cuore, e non seppe spiegarsi il perché, quella confusione che aleggiava attorno al sorriso e forava quel mare la rendevano molto inquieta. Stranamente inquieta.
Voleva allungare una mano verso di lui e capire cosa la lasciava così.
Lo fece e il ponte in costruzione minacciò di trovare le fondamenta, perché lo sguardo che adesso Seiya le stava rivolgendo era uno sguardo di ardente voglia di rinascere.
Non più morire.
Non più soffrire.
Non più piangere.
Solo rinascere.
Solo amare.
Solo gioire.
Solo crescere insieme.
Usagi spostò lo sguardo sulla strada e la riconobbe. Quella curva. Quella striscia di sangue ancora permaneva sull'asfalto bagnato e sdrucciolevole, quei suoni ampliati ancora stridevano in quel luogo, quella frenata ancora lasciava il suo segno massiccio e nero. E fu lì che, nelle pozze di sangue rappreso, ad Usagi parve di vedere un riflesso di Seiya e un riflesso di sé stessa. Un sorriso mescolato al sapore di sangue, al sapore di pane e aceto.
Tornò a guardare Seiya con i suoi occhi bagnati dal sangue di quel giorno amaro. Con quegli occhi un po' eroi e un po' idioti.
Le promesse di Seiya erano la doppia faccia delle monete, la parte felice e quella infelice che si poteva vivere in un amore. Ciò che Mamoru, invece, non le aveva dato: una scelta.
Una parte felice ed una dolorosa. Solo la memoria di un amore sofferto, cariato dalla gelosia, ingannato dalle promesse che non avevano trovato rifugio nella realtà. Solo un amore tormentato. Qualcosa che a diciotto anni non si poteva avere, qualcosa che non avrebbe avuto mai più nella sua vita e che non avrebbe desiderato, nonostante tutto questo amore che ancora avvampava.
Era la fine. Ed Usagi lo capì.
Si sentiva distrutta, come lo era stata su questo asfalto.
Si sentiva un po' idiota e un po' eroe.
Come quella maledetta sera in mezzo al suo sangue.

Per Usagi la vita aveva una sua filosofia: c'era un equilibrio da proteggere.
Nella scuola, nel lavoro, con gli amici, con i genitori, con la persona amata e con sé stessi. C'era una sorta di confine, una linea tracciata sulla quale bisognava camminare in punta di piedi e con la malsana sicurezza che quelle punte avessero la capacità di sorreggere tutto il nostro peso. C'erano persone, però, che di quell'equilibrio se ne prendevano gioco; percorrevano la linea come ubriachi, urlando, ridendo, barcollando un po' a destra e un po' a sinistra. Sempre in bilico.
Erano persone irresponsabili, pure, persone determinate e folli. Erano eroi.
Quella sera, infatti, Usagi e Mamoru si erano comportati come due perfetti ubriachi, due perfetti irresponsabili. Si erano scambiati un bacio appassionato davanti a tutti, fuori il Crown, sotto gli occhi increduli di Galaxia, sotto gli occhi critici di tutti.
Non riuscendo a mettere a tacere gli istinti troppo furiosi per la lite, Mamoru aveva messo a tacere la sua bocca con le sue carnose labbra. Muovendole sulle sue come una danza, come un Valzer muto, inoltrando la lingua come se nella vita le sue papille gustative non avessero aspettato altro. Quando si erano staccati, ansimanti e imbarazzati, videro gli occhi sgranati di Galaxia che si aprivano ad un nuovo dolore agghiacciante e iniziarono a camminare verso di lei, indecisi e timorosi.
Usagi iniziò a strofinare le mani, mentre il silenzio ombreggiava la sua mente, ma le mani di Mamoru afferrarono con una strana dolcezza le sue e la osservò con lo sguardo arreso. Strinse la sua mano e camminarono insieme verso Galaxia con la tacita promessa di restare finalmente insieme. Consapevoli del male che avrebbe inflitto.
Doveva chiedere scusa a Galaxia, si era detta,
doveva.
Ma qualcosa irruppe nel suo silenzio: il rumore di un'auto che correva, un motore furibondo che mangiava l'asfalto, così si voltò e vide i fari alti che facevano capolino dalla curva della strada e vide nella stessa traiettoria sua sorella che camminava di spalle, distratta dalle cuffiette dell'Mp3.
Ingerì una dose massiccia di paure e si voltò completamente per chiamare Chibiusa, urlando a squarciagola.
<< Chibiusa, spostati! Chibiusa! >>, urlava come un'ossessa.
Ma la ragazzina non sentiva, non vedeva che la sua vita era appesa ad un filo, appesa ad un filo nero di un Mp3.
Così Usagi prese a correre verso sua sorella, attraversando la strada e percependo che stava iniziando a barcollare sul filo dell'equilibrio. Sentiva i piedi che si prendevano gioco del confine, barcollando un po' troppo a sinistra e un po' troppo a destra.
Sentiva che stava smettendo di proteggere il suo equilibrio per proteggere l'equilibrio di sua sorella.
<< Ehi, dove vai? >>, le chiese Mamoru, cercando di afferrarla.
Usagi nemmeno udì a pieno la voce di Mamoru, era persa nella sua corsa verso sua sorella, nella corsa contro il tempo, contro quei fari troppo alti, contro quel pedale di velocità troppo premuto, contro uno stridio assordante.
<< Ehi, Chibiusa! Chibiusa! Spostati, accidenti!>>. Aveva la gola in fiamme, la voce che era raschiante e pericolosa contro le corde vocali consumate.
E Chibiusa non accennava a sentire, immersa dentro quella canzone che la prendeva totalmente, annullando il mondo circostante.
L'auto era troppo vicina e Usagi troppo lontana.
<<
Usagi! Sta' ferma! >>.
Le urla di Mamoru accompagnarono la marcia di Usagi lungo la linea che si sfilacciava, che diminuiva spaventosamente. Mentre barcollava.
Un respiro profondo e Usagi accelerò i suoi passi e spinse via Chibiusa dalla traiettoria dell'auto, spostandola sul marciapiede rudemente, e così l'auto si impattò contro il suo gracile corpo che scrocchiò terribilmente e venne spintonata via di qualche metro.
Il clacson dell'auto prese a suonare ininterrottamente e la scivolata di Usagi lungo l'asfalto fu quanto dolorosa quanto rude, tanto da giungere a mangiare il primo strato di pelle dell'addome. La scivolata continuò fino a che il corpo stordito di Usagi non cozzò contro il monumento bitorzoluto della curva, sbattendo bruscamente la testa contro lo spigolo del piedistallo del monumento.
Ebbe la gola piena d'aria che non riusciva a ingerire, né a tirar fuori, sentendo le palpitazioni rimbombare nella testa, il sangue che usciva copioso dal suo addome e che si riversava con una certa lentezza all'interno del suo corpo.
Usagi ebbe paura di non respirare più, prima di sgranare gli occhi davanti ad un buio spaventoso e per poi assopirsi pesantemente contro l'asfalto, sbollentato dallo strusciare della sua stessa pelle. Per chiudere la mente con la sua ultima frase che avrebbe dimenticato:
scusami.

Mamoru si era detto di commettere un grande sbaglio nel voler affrontare Galaxia e lasciarla per dirle che amava Usagi, si era dato dello stupido perché dopo la morte della loro Chibichibi non meritava altro. E poi non si spiegava il perché del silenzio di Usagi, non parlava e incedeva con passi incerti.
Certo, dopotutto non poteva essere davvero così forte l'amore di Usagi per lui, non poteva essere determinata a voler avere sulla coscienza l'infelicità di un'altra persona solo per amor suo. Sapeva che Usagi in passato era stata la prima a non voler far del male alla sua ragazza, comprendeva il dolore. Gli era stato sempre vicino.
Lui l'aveva sempre trattata male, l'aveva sempre presa in giro, le aveva sempre detto apertamente che non avrebbe mai lasciato la sua fidanzata. Le aveva sempre mostrato il lato peggiore, sempre spavaldo, sempre arrogante, offensivo, poco elegante, eppure Usagi gli aveva sempre tenuto testa, aveva sempre la risposta pronta e gli era sempre stata vicino. Ingoiava il suo dolore e offriva quella spalla, sempre la stessa, dove Mamoru poggiava la testa e parlava a stento mentre lei finiva i suoi pensieri.
Completandolo.
Succedeva rare volte che Usagi si lasciava baciare e, quando Mamoru ne usciva vittorioso, si innamorava per la centesima volta degli occhi profondi di Usagi, delle smorfie del viso, della labbra mordicchiate e cicatrizzate dai segni. Ogni volta che succedeva, raramente, era sempre una magia che voleva ripetere.
Sapeva che era sbagliato baciarla, come era altrettanto sbagliato correre da lei quando un esame andava male, quando gli amici non ne potevano più del suo carattere, quando era l'anniversario della morte dei suoi genitori. Correre da lei e stare in silenzio perché tanto lei capiva, sapeva che Mamoru non parlava e vedeva che spesso si divertiva a indovinare cosa era potuto accadere, così lui si sentiva in una sorta di cupola soffice e riusciva a parlare senza timore. Sempre poche frasi, ma Usagi sapeva essere già un gran lusso. Sapeva che era sbagliato, ma ogni volta aveva l'infiammante desiderio di baciarla nuovamente, di stringerla a sé e riempire i suoi polmoni di lei, del suo profumo.
Così come era successo quella sera davanti a tutti, per mettere a tacere quelle urla di rabbia contro di lui, quell'inveire contro la sua anima maschile, aveva usato le sue labbra come arma. Ma si ricordò di avere un'arma a doppio taglio, coinvolgendo anche lui. Desiderando di esplorarla sempre di più con la lingua in ogni parte, desiderando di conoscere il suo piacere e i suoi fastidi. Desiderando di averla per sé ogni giorno per godere di un rapporto dove il vero piacere era
dare piacere.
Guardò Usagi e vide che le sue mani si strofinavano l'una contro l'altra, e sorrise. Le fermò le mani con la sua presa salda e la fissò, arreso dinnanzi a lei, davanti al suo timore di ferire un'altra persona. Arreso perché finalmente stava facendo la cosa giusta, finalmente le prometteva di restare insieme.
Finalmente.
Ma Usagi venne distratta da un rumore e la vide agitarsi, la vide ingoiare respiri pesanti e poi voltarsi completamente verso l'altra parte della strada e lasciare la sua mano.
A lungo Mamoru avrebbe rivisto nei sogni quella sua mano staccarsi dalla sua.
<< Ehi, dove vai? >>, le aveva chiesto, ma lei non stava ascoltando.
<< Ehi, Chibiusa! Chibiusa! Spostati, accidenti!>>.
Stava urlando mentre correva verso sua sorella che ascoltava la musica e Mamoru vide solo in quel momento l'auto che sfrenava furiosamente e che si dirigeva contro Chibiusa. Così capì qual era l'intento di Usagi, capì che non stava pensando e che le palpitazioni rimbombavano nella sua testa, ascoltando solo il cuore. Perché Usagi era una persona di cuore, una che quando parlava non mentiva mai, una persona che quando rispondeva ad una domanda era perché la sua voce aveva un canale diretto con il cuore e quasi mai ascoltava il cervello, nonostante fosse una ragazza intelligente.
Perché Usagi amava Mamoru con quel cuore puro e lui era un idiota che l'aveva sempre allontanata quando l'unica cosa sensata da fare era abbracciarla.
Non rifiutarla, non prenderla in giro, ma amarla, stringerla.
Era un cuore puro.
E lui un idiota.
Un cuore spezzato.
<<
Usagi! Sta' ferma! >>, le urlò dietro, sentendo il suo cuore palpitare fortemente e assordargli la mente. I
nfatti, Mamoru vide la scena con il silenziatore. Lentamente.
Usagi raggiunse sua sorella.
Trafelata e rossa in viso.
Spintonò via Chibiusa.
Aspettò coraggiosamente per un secondo interminabile.
L'auto arrivò al suo bacino e la scaraventò via.
Il suo corpo scrocchiò atrocemente e lentamente per gli occhi di Mamoru.
Poi, la vide alzarsi sino a raggiungere quasi il cielo e cascare bruscamente a terra, vide il suo corpo strofinare voracemente contro l'asfalto e perdere una cupa scia di sangue, vide il suo capo e le sue palpitazioni urtare contro lo spigolo del monumento, la vide ingoiare respiri impossibili e poi chiudere pesantemente le palpebre.
Vide il silenzio mentre l'agitazione attorniava Mamoru.
Prima di capire cosa stava realmente accadendo, dovette guardare da vicino Usagi e corse da lei. Era sporca di sangue, un colore così scintillante che non avrebbe dimenticato, e senza sensi. Era vuota.
Le sentì il polso e percepì il battito lento e lontano, e iniziò ad agitarsi, Mamoru, dimenticando i suoi corsi di medicina, il pronto intervento. Era senza un braccio, inutile, non riusciva a salvare l'unica persona che valeva la pena salvare.
Gli era capitato una volta, nel tirocinio, di dover togliere frammenti di vetro dalla spalla di un uomo, era stato un colpo sferrato dalla moglie mal menata e violentata da lui. Non voleva curarlo, non poteva permettere che quell'uomo tornasse ad usare il braccio destro, non poteva permettere che quel braccio destro, curato da lui, picchiasse nuovamente la moglie troppo coraggiosa.
Ma fu costretto e dovette estrarre i residui dei vetri.
Il Giuramento di Ippocrate, bla bla bla.
E cosa era valso studiare sei lunghi anni, tre da tirocinante, se le sue cure non tornavano alla mente ora?
Ora che doveva salvare Usagi.
La sua Usagi.
Ora era come la sua Chibichibi. Senza vita.
Per fortuna, qualcun altro stava chiamando un'ambulanza e stava dando indicazioni precise con la voce rotta, dando recapiti e nominativi necessari.

Qualcuno stava salvando Usagi e non era lui.
Cercò nella folla chi stesse con il telefono all'orecchio e lo trovò, posto appena vicino al corpo svenuto di Usagi con le mani tremanti e il viso preoccupato.

Seiya.
Lui.
Sì, lui stava salvando la vita di Usagi.
Tornò a guardare Usagi e il rosso porfido del suo sangue sparso lungo la strada, i suoi codini biondi, arruffati e abboccolati disastrosamente attorno al viso, i suoi occhi chiusi, il suo viso senza più una storia da raccontare.
La sua Usagi, la sua bambolina preferita, la sua donna preferita. L'unica. Quella in grado di frapporsi al suo malato amore con Galaxia, un amore consumato e mai sbocciato. Un amore senza seme. Invece, in lei c'era il seme dell'amore, lei era l'albero con le foglie che cercava. Germogliante, viva, buona. Pura.
Usagi, la sua Usako.

La sua eroina.
Accanto a lui c'era Chibiusa che piangeva disperatamente, ma annullò quasi subito quell'immagine di rimorsi sul suo volto, perché arrivarono i soccorsi avviluppati dal bianco. Fecero molte domande, troppe, e sollevarono con accortezza la povera ragazza per metterla sulla barella e poi infilarla dentro l'auto.
<< Lei è il suo fidanzato, signore? >>, chiese una donna dall'aria di chi non dormiva.
Mamoru la guardò frastornato, non capendo cosa stesse realmente dicendo e afferrò solo la parola che lui non era mai stato in grado di essere.

Fidanzato.
<< Cosa? >>, chiese.
<< Ho chiesto... >>, la donna sospirò brutalmente. << E' il suo fidanzato? Se vuole, può entrare nell'auto con lei. >>.
Mamoru guardò quella ragazza dagli occhioni blu ora chiusi, quella che era finita su quell'ambulanza per aver salvato la sorella minore, per aver preferito sacrificarsi in un momento lieto come quello e sporcare qualunque cosa con il suo sangue.

Il sangue di un eroe.
E lui non era degno di lei, non era capace di reggere il confronto con una ragazza che si prodigava per l'amore di altri, una ragazza dal cuore tanto grande che gli faceva paura.
<< Signore, non abbiamo tempo da perdere! >>, lo rimbrottò, l'infermiera.
<< No, non sono il suo fidanzato. >>, disse a voce bassa, rotta.

Non sono in grado di esserlo, avrebbe voluto confessare.
<< Sono io, il suo fidanzato! >>, sbottò Seiya. << Posso venire? >>.
L'infermiera guardò prima Mamoru e poi Seiya che si fissarono per la prima volta con complicità, e poi rispose: << Certo! >>.
Mamoru concesse il passo a Seiya e pensò dentro sé stesso che solo Seiya poteva reggere il confronto con Usagi, perché anche lui era un cuore puro.
Lui, Mamoru, invece aveva un cuore di pietra. Un masso nei polmoni pesante e grezzo che serviva solo a pompare sangue al cervello, un masso che aveva un crepa con una piantina rossa insinuata per bene. Un masso che col tempo avrebbe schiacciato Usagi e il suo cuore puro.
L'ambulanza corse via, suonando stridente e fortemente, e Mamoru rimase per mezzo secondo a fissare la lunga striscia rossa lungo l'asfalto.
<< Mamoru... >>, fu Galaxia a chiamarlo.
Lui si voltò da lei e seppe di non voler parlare con la donna che non aveva mai amato in quei lunghi cinque anni, seppe di avercela con lei per aver innescato in lui un senso di dovere, di pietà, da non farla lasciare mai per Usagi. Non si era goduto Usagi per colpa sua, si ripeteva erroneamente.
<< No. >>, disse e si allontanò, lasciandola spaesata.
Andò all'ospedale, dove trovò la triste realtà e Seiya poggiato contro un muro, con il viso immerso in un dispiacere che davvero capiva. Dopo essersi concesso uno sfogo contro il muro del bagno, picchiandolo, se ne tornò al Crown e decise di prendere un caffè. Lo ordinò e rimase per le restanti due ore a fissare il liquido color petrolio nella tazzina, il fumo che aveva smesso di aleggiare e i movimenti impercettibili del liquido.
<< Per quant'altro tempo hai intenzione di rimanere qui, Mamoru? >>.
Mamoru alzò gli occhi e trovò davanti a sé Motoki con il suo solito grembiule, i suoi soliti capelli ramati, i suoi soliti occhi marroni.
<< Adesso me ne vado. >>.
<< Bene. >>, si sedette di fronte a lui.
<< Che vuoi? >>.
<< Non credi che sia ora di cedere? >>.
<< Cosa intendi? >>.
<< Usagi è in ospedale, Mamoru. E' ora che vinci i tuoi fantasmi e corra da lei. Ha bisogno di te, adesso. >>, parlò lentamente.
<< Non posso. >>, disse semplicemente, Mamoru.
Motoki schioccò una risata. << Perché, Mamoru? >>.
<< Lei ha un cuore puro. >>, disse.
<< E tu uno di pietra. >>.
<< Esatto. >>.
<< Però, lei è l'unica che ha creato delle crepe in quella pietra. Mi sbaglio? Tu l'ami. >>, Motoki prese a girare il caffè.
<< Non l'ho mai negato. >>.
<< Non essere ipocrita! >>, sbottò l'amico. << Hai sempre cercato di reprimere tutto. >>.
<< Sì, Motoki, ma adesso che... >>.
<< Adesso, cosa? Mamoru, smettila di giocare. Hai ventiquattro anni, una figlia al cimitero ed una donna che già si è distrutta per te. E' ora che guardi in facci a la realtà. Chibichibi non c'è più e il tuo amore con Galaxia altrettanto. Rifatti una vita, e sai che quella vita può essere solo con Usagi, la tua seconda possibilità. >>.
<< La realtà è che non posso reggere il confronto con una persona che sceglie di sacrificare la propria vita per salvarne altre. >>, Mamoru stava iniziando ad alterarsi.
<< Anche tu salvi vite. >>.
<< Ma non sono lì a impedire che muoiano parandomi con il mio corpo. Io le curo quando hanno già commesso uno sbaglio. >>.
<< Sei talmente sciocco da non renderti conto quanto tu e Usagi abbiate in comune, nonostante le grandi differenze caratteriali. Pensavo che per te ci sarebbe stata una seconda possibilità, Mamoru, e l'avevo vista in Usagi. Ma mi sbagliavo. Mi dispiace. >>, commentò tristemente, alzandosi dal tavolino del Caffè.
<< Usagi è la mia possibilità di migliorare? >>, chiese.
<< Usagi ti ha già migliorato. >>, sorrise Motoki. << Era un'eroina già da tempo! >>.
Ridacchiarono insieme.
Mamoru posò lo sguardo sul sangue che macchiava la strada di fronte, il sangue rappreso che disegnava strane forme sul nero dell'asfalto. <
< A cosa pensi? >>, chiese Motoki.
<< Al colore degli eroi. >>, rispose Mamoru, guardandolo in faccia.
<< E qual è il colore degli eroi? >>.
<< E' color sangue. >>.

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Capitolo 10
*** Color giallo ***




10) Color Giallo
       Un po' aurora, un po' tramonto




Usagi alzò gli occhi, fissò quella curva e scosse la testa.
Voler lavare quel sangue dal manto stradale era una cosa quasi sciocca, ma in cuor suo voleva rimuovere qualsiasi segno di quella sera disastrosa. Voleva cancellare quel litigio inutile con Mamoru, voleva annullare lo sguardo di Galaxia che l'aveva perforata con il suo dolore quando lui l'aveva assalita con quel bacio. Voleva togliersi di dosso quel sentimento che la faceva ancora rabbrividire a quel bacio, a quell'eccesso di rabbia, di paure, di dolore.
Ancora ricordava quelle mani che le scorrevano lungo la schiena e la spinta forse troppo violenta contro il suo torace, quel respiro sulla sua pelle e quelle labbra che minacciavano di divorarla. Ancora sentiva le punture delle lacrime negli occhi, al ricordo di quel dolore che permeava l'istante esatto del bacio.
Perché c'era dolore, in quel bacio. Colpevolezza, rammarico e dolore.
Cercò di spostare lo sguardo dalla curva, guardando Seiya, ma i ricordi affollavano la sua mente con un'orribile precisione. Si sentì in balia di quella sensazione enorme e schiacciante, quella che l'aveva annientata durante la corsa contro il monumento. Il dolore carnale, lo spavento, la sorpresa e una paura quasi mastodontica, opprimente, senza vie di scampo.
I suoi ricordi erano stati per un tempo interminabile appannati dal bianco accecante e non riusciva mai a vedere, invece adesso li ricordava con un nitore crudele. Erano come colorati di giallo ed erano sfolgoranti, spigolosi contro ogni sensazione, ma lucenti e puliti. Senza più ombre e foschie. Abbaglianti come un'alba, deludenti come un tramonto.
Riusciva a ricordare la mente vuota e poi quel pensiero futile e fuori luogo che l'aveva distratta per un millesimo di secondo: i suoi capelli. Li aveva visti gialli e non biondi, innaturali e non suoi. Doveva cambiare colore ai capelli.
Cosa c'era in quella curva? Un concentrato di ricordi?
Ma era una costante della sua vita, ormai, sentirsi priva di qualcosa. Prima non aveva i ricordi, quindi non aveva un passato e una vita, radici e respiri, ora li aveva e le mancava colui che aveva un posto in ogni sua memoria.
Finalmente ebbe il coraggio di spostare lo sguardo dalla curva che conservava quella macchia di sangue come un trofeo, un acido ricordo della sua stupidità, e guardò il suo amico. Sprofondò dentro il mare degli occhi di Seiya, un mare amico, cristallino, e si sentiva già meglio. Quegli occhi azzurri come il acqua, quelle sfumature tiepide e a volte con pagliuzze dorate le davano il senso di pace e di pienezza. Le era sempre piaciuto il mare e si era sempre sentita legata ad esso per uno strano e criptico motivo, perché aveva sempre osservato le 0nde in tutte le sue strane frotte con un misto di attrazione e paura. Le aveva guardate sempre con meraviglia e curiosità ed era straordinario come ogni onda, che aveva guizzato sotto le sue ciglia, rispecchiasse i morbidi sorrisi di Seiya. E le sue espressioni così limpide e sicure, altre ancora forti e indecise.
Come mare, come acqua, come vita.
E Seiya non era un ricordo spigoloso, non era una puntura sul cuore. Lui era morbido, sorridente, un ricordo senza spine, senza baci al sapore di sangue. Troppo presa dal cielo e troppo accecata dalla luce dell'aurora, aveva lasciato che il mare sotto di sé capitolasse in grandi cascate. E si annullasse.
<< Quella sera tu mi hai salvata. >>.
Fu un mormorio leggero quello che uscì dalla bocca piccola di Usagi. Quelle labbra fregiate da tanti sbagli, unte dalla lingua dell'amore sbagliato, da un desiderio affrettato, e cercò di seguire ancora quella linea, dorata e luminescente, tracciata dai sorrisi di Seiya. Una linea evanescente, lieve, eppure così sicura e c'era sempre stata, sempre tracciata per lei e in attesa che venisse afferrata prima o poi. Un ponte in costruzione senza cemento e senza pilastri, un ponte posto solo sui tramonti e sui testi di Ligabue. Eppure era più resistente di tanti cieli irraggiungibili e pieni di nuvole.
Seiya le sorrise amorevolmente.
<< Lo sai? >>, le chiese, accorciando la distanza.
Lei annuì e quasi le parve di riassaporare il dolore alla testa e quella sensazione di vuoto le mordicchiò il cuore. Ma lei non voleva sentire più quel dolore nella testa e nel cuore, non voleva essere più persa dentro la sua stessa vita, non voleva più farsi trasportare dagli eventi. Voleva guidare la sua vita.
<< Me l'ha detto Chibiusa e un po' credo di averlo letto dagli occhi di Mamoru. >>.
Già, quegli occhi che l'avevano ammaliata in ogni prima volta che aveva vissuto, quelle iridi chiare e adombrate che nel nido avevano spezzato chissà quali castelli di cristallo e che in ospedale le aveva fatto riassaporare il sapore antico e incomparabile del cielo servito in uno sguardo.
Quei maledetti occhi che occupavano lo spazio di notti insonni, quegli occhi che volevano amarla e non ci riuscivano mai. Quegli occhi che lei, invece, amava immensamente.
<< Cosa hai letto? >>. Stava facendo un altro passo verso di lei.
Usagi sperò che non facesse un solo altro passo verso di lei, che non cercasse di raggiungerla perché era irraggiungibile, maledetta e persa dentro la sua stessa vita. Lontana e sola. Sperò con ogni forza che non le allungasse una mano ancora, perché non se la sentiva di voltare le spalle ancora a quegli occhi pieni di maree limpide. Perché non voleva annegare più.
<< Rassegnazione, dispiacere. >>.
Seiya fece spallucce e si fermò a tre passi da lei, lasciandola sospirare in silenzio, e lanciò uno sguardo al cielo notturno e nebuloso. Era uno sguardo mesto e sincero, uno sguardo che comprendeva qualcosa che non gli era stato spiegato.
<< Il cielo è un mondo triste. >>, iniziò a dire.
Lei lo osservò con attenzione e seppe a cosa voleva riferirsi, a chi voleva rivolgere quell'insulto quasi innocente. Lui non aveva mai visto di buon occhio Mamoru, ricordò, e aveva sempre cercato di dirlo.
<< E' un mondo messo a testa in giù e non ci appartiene. E' troppo in alto, troppo lontano. Quel mondo là non ti appartiene, non farti ingannare dalle scintille delle stelle, dalle lacrime della luna che soffiano di notte, non farti ammaliare dai bestiali sorrisi del sole e dalle nuvole in cui giacciono angeli troppo giovani. Il cielo è vuoto e i tuoi occhi stanno prendendo lo stesso colore. >>.
.. e gli occhi han preso il colore del cielo
a furia di guardarlo.

<< Ligabue. >>, mormorò lei, trovando ancora rifugio dentro quelle canzoni.
Ma era sempre così con Seiya, si ricordò. Ogni volta che condivideva un momento con lui, una canzone di Ligabue faceva capolino nella sua testa e ripeteva allo sfinimento il ritornello fino a identificare quei momenti lì con una parola di Ligabue. Fino a che non si sentiva a casa. Forse perché in Seiya c'era sempre la passione della musica dentro i sorrisi, quel tormento di un sogno soppresso dalla realtà, o forse perché quelle canzoni avevano la qualità di farti morire dentro per la bellezza delle parole e nello stesso tempo comprendere un significato di vita nuovo.
Fissò i suoi piedi che erano diventati molto interessanti. E quelli di Seiya fecero un altro passo verso di lei, verso l'irraggiungibile Usagi che si era sporcata di un amore stupido, verso quella Usagi che non era da classificare come un'eroina per aver salvato la sorellina, ma piuttosto come un'adolescente stupida che aveva creduto alla favola e al lieto fine.
Come se Galaxia era stata la strega cattiva e lei la dolce e maltrattata fanciulla, come se Mamoru fosse l'unico principe rimasto al mondo o forse l'unico che sapeva farla sognare a questa maniera, benché il loro amore non avesse nulla di favolistico. Come se l'America era il nemico da sconfiggere e lei era l'eroina che correva verso il suo principe azzurro, per giurargli amore eterno e di aspettarlo per sempre.
Che vita si era costruita prima? Una farsa?
Come poteva ritenersi una brava ragazza, dopo aver strappato un padre ferito ad una madre altrettanto ferita per un distrattissimo colpo di fulmine?
Come aveva potuto vivere la sua vita, lasciandosi trascinare dagli eventi?
Aveva incontrato Mamoru, quindi basta: lo avrebbe sposato e amato in eterno perché era così che diceva la sua favola.
Usagi era stata troppo passiva alla vita, l'aveva lasciata scorrere e gli eventi le erano caduti addosso, sormontandola e schiacciandola contro un muro che si era costruita da sola. Un muro, una realtà infantile e idealizzata.
E i passi di Seiya si avvicinavano, mentre accorciavano quella distanza ineguagliabile, mentre raggiungevano la Usagi di diciassette anni e che rideva di fronte alla vita e che correva giù dalle scale dell'ospedale. Forse, voleva raggiungerla in quel nido, in quello sbadato giorno della nascita del bambino di Setsuna, e afferrarla prima che andasse a sbattere contro gli occhi di Mamoru. Salvarla da qualcosa di troppo grosso.
Sì, voleva raggiungere quella Usagi dai capelli dorati e non quella che era stata plasmata da Mamoru, quello scricchiolo a cui era stata data l'esperienza di un amore grosso e l'identità della vittima della sua stessa vita. Quella dai capelli gialli, quella finta. Non voleva vedere più quella ragazza remissiva, poco sorridente, rigida e silenziosa. Voleva bearsi del suo baccano, del rumore dei tacchi contro il pavimento, delle risate ubriache di vita e di ingenuità, di quelle urla agitate e violente. Quei sorrisi sinceri, quelle mani che si stringevano alle sue, quella spalla che gli dava appoggio, quelle battutine infelici, quell'amicizia pura di sempre e senza il sentore dell'attrazione che provavano l'uno per l'altra.
Seiya voleva Usagi, quella un po' stronza che non aveva mai filato di striscio un ragazzo solo perché pensava che era troppo presto per lei, quella che era consapevole di aver sbagliato ad avere Mamoru, anche se in maniera del tutto innocente, quella che si era gettata a salvare Chibiusa solo perché era sua sorella e non perché fosse un'eroina. Desiderava raggiungere il disincanto di Usagi e strapparla da quella dimensione fatta di cieli azzurri e nuvole piene di angeli dai capelli rossi, portarla verso di sé, sulla Terra dove c'era aria da respirare e mari nel quale annegare. Vita e risate, lacrime e esperienze.
Un mondo vivo e vero.
<< Ci sono cose più vere di un bacio sotto una quercia, Usagi. Ci sono giornate bellissime quaggiù, freddi inverni e sopravviviamo perché poi c'è l'estate. L'estate ha il mare e tu dovresti tuffartici, dovresti farti un bagno della vita vera perché la vita vera, quella che rischi e piangi giorno per giorno, è come il mare, come acqua che ti può travolgere con uno Tsunami e come acqua che ti può dissetare. E in entrambi i casi si allungano le mani, sia per bere e che per nuotare contro la corrente e salvarti, si muovono in cerca di qualcosa da prendere nel grembo del destino. >>.
Usagi lo osservò ed ebbe la voglia di urlare contro il cielo, di strappare urla gigantesche contro quelle nuvole candide che velavano la luna calante e stanca. Era stata per troppo tempo incantata dall'aurora dei cieli, dall'alba dei sorrisi di Mamoru, dai temporali improvvisi che la investivano e dai raggi del sole, accecanti e dispersivi.
Era stata innamorata del cielo per troppo tempo. Aveva sempre alzato gli occhi al cielo, aveva sempre guardato l'età di Mamoru come una cosa raggiungibile, una scala verso il cielo, come se fosse raggiungibile un uomo così.
Non poteva raggiungerlo: né sui cieli, né in America.
Un uomo così era impossibile da raggiungere, poiché non si lasciava mai raggiungere e non si dava la possibilità di raggiungersi e capire cosa voleva davvero dalla vita, dagli altri e dal mondo. E Usagi, che gli era stata vicino, aveva solo rischiato di cadere da quell'alta scala, si era rotta più e più volte solo perché cercava invano di raggiungerlo con un amore di cui, sì, aveva estremamente bisogno, ma che, no, non riusciva ad afferrare. Mamoru già conosceva quell'amore fatto di baci e di gambe divaricate che lo lasciavano entrare e non riusciva a farsi amare semplicemente da un abbraccio innocente o da un bacio dato sulla curva del sorriso. Era già padre e Usagi era ancora una bambina in cerca della vita e non della disperazione e della passione. Doveva ancora crescere.
In quella curva aveva creduto di morire, stesa a terra contro il suo stesso sangue, ma solo in quell'esatto momento poteva capire che le mani del destino stavano solo prendendo una scorciatoia per farle aprire gli occhi. La sua memoria intaccata, i flash back sempre più rari e quell'amore che aveva sentito sin da subito per Mamoru che le appiattiva il cuore sempre più giù, come una fortissima repulsione, erano solo quella parte lontana e sbagliata che doveva lasciare al passato. La sua stessa mente aveva intrappolato i ricordi legati a Mamoru, i suoi stessi sensi le impedivano di raggiungerlo, il suo stesso cuore le impediva di tornare quella biondina assurda che aveva lasciato la sua vita ad un canto per poter aiutare a vivere un uomo bello che grosso. Tutto formava un indistruttibile barriera anti-Mamoru, tutto la proteggeva da Mamoru, tutto l'allontanava da Mamoru. I suoi genitori, Nehellenia che le aveva voltato le spalle, le maldicenze, i suoi ricordi impastati di nubi, le sue mani che, quando lo cercavano, sapevano quanto fallaci potevano essere i suoi rimedi, anche se si sentiva morire.
Lei stessa, nella parte più profonda. Tutto perché lei capisse che era ora di crescere ed amarsi, volersi bene per quello che era e non per quello che diventava per Mamoru. Tutto, ma lei aveva tentato ancora il colpo grosso e lo aveva baciato ancora, dando la colpa alla vita per averla fatta innamorare di un uomo già impegnato, e lo aveva cercato ancora, sapendo che negli angoli della sua storia d'amore c'era sempre stato il cuore di Galaxia reso in frammenti solo a causa sua.
Tutto le diceva di allontanarsi e lei rimaneva. Incapace di prendere decisioni davvero sue e non dettate dal suo cuore, inadeguata alla sua stessa vita che non faceva altro che travolgerla e portarla sempre a toccare il fondo. Poche volte risaliva e non respirava mai perché trovava sempre il sorriso mozzafiato di Mamoru.
E cascava ancora e ancora, senza trovare una fine.
Si rompeva in mille pezzi. Ogni minuto.
Usagi non voleva più rompersi sotto l'aurora.


Passo dopo passo, Galaxia sentiva il cuore salirle in gola, centimetro dopo centimetro il dolore si faceva più nitido, più irruente. Quasi concreto, reale.
Si portò una mano sul cuore e respirò forzatamente, chiudendo gli occhi. Chiudeva gli occhi e respirava forte. Ininterrottamente e a scatti. Fortemente e smaniosamente.
Respirare le toglieva l'aria, paradossalmente, e più cercava invano di riafferrare dell'ossigeno e più sembrava mancarle, più la soffocava. Più si sentiva morire, si sentiva impotente. Sola.
Si appoggiò contro il palo della pensilina della stazione ferroviaria, una mano ancora sul cuore e un'altra contro l'acciaio, un respiro sforzato e ansioso, e una sensazione ributtante e acidula nella gola.
Riaprì gli occhi, ma il respiro ancora le mancava, ancora non giungeva, e lei impallidiva e annaspava contro... qualcosa. Uno spiraglio pur di vivere ancora, pur di cercare di farlo. Meritava un'altra possibilità, Cristo!
Galaxia era in preda a un attacco di ansia ed era completamente sola. Senza più il suo amato Mamoru, senza più quello scricciolo di Chibichibi ad unirli, senza più una città a stringerli. Non aveva più niente, era vuota ed era vuoto il futuro che si presentava. Persino i suoi polmoni erano vuoti.
Perché il destino doveva punirla così crudelmente?
Perché doveva perdere anche Mamoru?
Era il padre di sua figlia, era ciò per cui aveva vissuto fino a quel giorno.
Perché quel giorno Mamoru era andato nell'asilo nido?
Perché semplicemente non aveva voltato le spalle a quella ragazzina che veniva dal piano di sopra?
Perché Usagi non si era ritirata?
Cazzo, era un uomo impegnato.
Un altro respiro mozzato, un altro dolore approfondiva dentro le carni, dentro l'anima. Tutto questo era crudele, ingiustamente crudele. Strinse la mano sul petto e affondò le unghie contro la sua stessa pelle. Lì, sulla superficie che ricopriva il suo cuore fratturato, lì, sul quel cuore spento, vuoto.
Cosa avrebbe fatto d'ora in avanti?
Doveva lasciare la sua casa, il suo fidanzato, la tomba di Chibichibi. Doveva lasciare Tokyo. E Usagi. Lei aveva rovinato tutto, lei aveva distrutto ogni cosa. La odiava profondamente.
E ancora il cuore batteva forte e il respiro le mancava, facendole vorticare la testa. Sentiva i sensi deboli, flebili e impalpabili. Lontani. Voleva morire. Lì, in una stazione ferroviaria e di notte. Sola.
Al diavolo la seconda possibilità, al diavolo chi le aveva rovinato la sua unica possibilità. Lei voleva morire, voleva stendersi e smettere di respirare, anche se questo era profondamente doloroso, quasi lancinante.
Chiuse gli occhi un'altra volta, cercò di spegnersi a poco a poco.
Respirava fortemente e cominciava a spaventarsi, a perdere l'equilibrio. Ma l'aria ancora non le giungeva in corpo. Era come se l'aria stessa la ripudiasse, come se attorno a sé ci fosse stata una bolla che la isolava dal mondo intero, come se la mancanza di ossigeno servisse ad allontanarla dal suo mondo, da ... Mamoru.
Non ci sarebbero stati più albori biondi che le avrebbero sorriso, nemmeno tramonti rossicci che avrebbe ammiccato prima di sparire nel buio. Non ci sarebbe stato più nulla.
Niente.
Il vuoto.

Decise di non arrancare più e lasciare che morisse senza aria, che soffocasse in preda al dolore unico e spregevole che un amore frantumato sapeva portare dietro di sé. Decise di lasciarsi andare...
<< Signorina! Signorina! >>.
Una voce femminile e agitata le arrivava sin dentro le ossa e un senso di vuoto si faceva strada nelle sue membra, nella sua testa. Non voleva rispondere, era impegnata a morire.
<< Respiri, per favore. Respiri! >>.
Un paio di mani le circondarono la vita e la spostarono di qualche metro in avanti, trascinandola. Quelle mani erano calde e, sulla sua pelle fredda ed esposta al freddo invernale, marcavano superfici sottostanti alla pelle di Galaxia. Erano mani amiche.
<< Ora, da brava, inizi respirare lentamente. >>, la voce si era avvicinata. << Respiri con me, piano piano. D'accordo? >>. Galaxia non le rispose. Aveva ancora gli occhi chiusi, ma sentì il respiro lento e sincronizzato che le faceva da mentore, che cercava di guidarla. Non la stava lasciando sola, la seguiva, la guidava.
Dove la stava portando?
Inconsciamente Galaxia iniziò a seguire il respiro di quella sconosciuta, a farsi trasportare senza remore, senza pensieri. E l'aria cominciò a rientrare dentro i suoi polmoni, infrangendo quella bolla invisibile che l'allontanava dal mondo. Infrangendo i suoi dolori.
<< Brava. Continui così. >>.
E Galaxia non osò deludere quella voce che le stava vicino, orgogliosa del suo passo minimo verso il mondo. Verso sé stessa. Respirando lentamente, abbozzò un sorriso.
Dove la stava portando questa sconosciuta?
<< Ottimo. >>, continuava a dirle. << Ed ora non smetta mai più di farlo. >>.
Il sorriso di Galaxia si allargò e prese a splendere sul viso pallido, restituendo speranza.
Dove?
Aprì i suoi occhi color cioccolato e si trovò avanti una ragazza minuta e mora che le sorrideva premurosamente, i suoi occhioni grandi e verdi che la guardavano con bontà.
Dove l'avrebbe portata?
<< Fortuna che conoscevo questa tecnica, altrimenti chissà cosa sarebbe successo! >>.
Galaxia le sorrise e spostò lo sguardo verso l'ombra che era proprio accanto alla sua futura amica, un'ombra con capelli ramati e uno sguardo altrettanto verde. Un uomo.
Dove l'avrebbe portata?
<< Oh, non badi a lui. >>, le disse con il sorriso. << E' solo mio fratello. >>.
Osservò il ragazzo che la guardava in modo enigmatico e sorrise con dolcezza, socchiudendo quegli occhioni cioccolato e facendoli brillare.
Dove?
Alla vita, l'avrebbe portata alla vita.
Galaxia sorrise.


Seiya era rimasto in silenzio a osservare Usagi che guardava ancora la curva della strada e sperò che qualcosa dentro di lei si stesse rompendo o che tornasse in lei, in un certo senso.
Perché era stufo di perderla, di vederla andare via o di cascare nel baratro. Aveva sempre cercato di afferrarla per salvarla, aveva sempre allungato i suoi sorrisi silenziosi e lucenti, i suoi consigli affinché cercasse di prendere una strada diversa dalla ''Mamoru's street'', ma lei lasciava sempre la sua mano e cascava. Lui sarebbe stato soddisfatto solamente se avesse imboccato la ''Usagi's street'', perché se avesse scelto se stessa, avrebbe scelto anche lui e la sua amicizia.
Perché Seiya era la scelta giusta e non era amore. Seiya era la sua seconda possibilità, la sua rinascita, la sua capacità di prendere la vita con realismo e di lasciare al mondo l'idea del destino.
<< Entriamo, ok? >>, le chiese, rompendo i suoi pensieri.
Fece un altro passo e la raggiunse finalmente, chinò la testa e la poggiò sulla sua fronte, sorridendole con dolcezza. Usagi gli sorrise e lui ne fu come investito da quella luce bionda che finalmente aveva imporporato il suo viso.
<< D'accordo. >>, biascicò.
Entrarono nel locale e tutti salutarono i due arrivati. Brindarono, scherzarono, risero, mangiarono pizza e patatine e parlarono. Tanto, per tutta la serata e con tutti. Usagi era lì e tutti erano lì, ognuno un pezzetto importante di un puzzle enorme e bello, nonostante le avversità.
Ognuno con una luce dentro, una luce da un colore diverso e scintillante.


Usagi rideva, non erano più sorrisi tirati, ma risate larghe e luminose.
A quella rimpatriata c'era anche Nehellenia, ma e lei non importava più il dolore del tradimento e delle ingiurie alzate sulla sua persona. L'aveva guardata per un istante, ricordandosi di quella sera che le due amiche aveva litigato tanto a lungo e quel bacio che forse scottava ancora un po', ma le sorrise. Con dolcezza e senza il rancore degli ultimi tempi.
Semplicemente non erano così amiche come aveva creduto per anni, non si poteva dare una colpa troppo grossa a chi non poteva reggere il peso dell'amicizia. Semplicemente andava per la sua strada, ormai.
Il cellulare vibrò nella sua borsa e, nel profondo, sapeva già chi era.

Sto per andare via dal continente per due anni e tu non mi rispondi nemmeno a una semplice chiamata. Cristo, sono due anni!

Due anni. Due lunghissimi anni lontano da lui.
Scosse la testa e si morse le labbra. Quel messaggio era carico di dolore e di rabbia e lei infondo lo capì, ma non volle più saperne. Doveva chiarire con se stessa e far pace con il mondo. E il mondo era Seiya, la parte bella e bucata alla stessa maniera delle ciambelle, Seiya e i suoi interminabili sorrisi. Seiya e la realtà, la vita vera. Seiya e la sua amicizia.
Doveva aprire gli occhi e affrontarsi, prendere la decisione giusta. Doveva finalmente guardarsi allo specchio e vedere chi era davvero, senza i fronzoli delle favole, senza le giustificazioni date alla sua bontà.
Seiya continuava a sorriderle e a guardarla con quello sguardo un po' infiammato e un po' triste, si avvicinò un altro po' a lei e fece per abbracciarla.
Usagi sapeva che non c'era nulla di sbagliato in quello abbraccio e un pezzo di lei voleva tremendamente rifugiarsi dentro quelle braccia e salutare il mondo ancora una volta. Sentiva l'aria di casa, sentiva vivere tante possibilità dentro quelle braccia. Sentiva la svolta a tutto, sentiva un calore e un risveglio.
Si lasciò abbracciare, affondando nel suo petto. Lo strinse forte, si aggrappò contro alla sua schiena con una forza che non sapeva di possedere e si lasciò andare appena a quel profumo di salsedine che aveva indosso e che amava.
<< Non rispondi? >>, le chiese.
Gli sorrise. << No. >>.
Seiya annuì semplicemente, consapevole di ciò che Usagi aveva deciso.
Lei si voltò e osservò il suo cellulare.

Mamoru fissò lo schermo del suo cellulare con la speranza che arrivasse una risposta a tutto quel tormento, ma in Usagi si stava allargando qualcosa e lui non comprendeva cosa. La stava perdendo e lo sapeva, adesso se ne era uscito candidamente con questa storia dell'America e di doverlo aspettare per due anni lunghissimi. Era normale una reazione simile.
Scosse la testa e gettò il cellulare sul divano verde del suo salotto, sospirò con amarezza e lanciò distrattamente uno sguardo alla porta che stava in fondo al corridoio. Si maledì, ricordando quale porta fosse. Quella porta colorata di bianco e dal pomello dorato, quella che chiudeva una stanza con una culla bianca e rosa e un fasciatoio ancora incelofanato. Quella porta che in due anni non aveva avuto il coraggio di riaprire, né lui né Galaxia, quella che al solo pensiero di chi avrebbe potuto tener dentro nelle notti gli spezzava il cuore.
Il tempo non cura nulla, si disse. Il tempo è come sale.
Spostò lo sguardo da quella porta e tornò a fissare il suo cellulare che ancora non dava segni di ripresa, ma qualcosa dentro di sé gli diceva di non abbassare lo sguardo. Non ancora. Così, alzò gli occhi e osservò quella porta.
Come sale su una ferita.
Schioccò la lingua nella bocca, pensando che stava perdendo la testa per una ragazzina di diciotto anni, quando dentro la sua stessa casa aveva la prova di un amore finito male. Un amore... doloroso.
Fece quei pochi passi necessari ad arrivare in fondo al corridoio e, quando alzò il braccio, si fermò e scosse la testa, indeciso.
Come poteva tornare dentro quella stanza?
Ricordò quando trovò Usagi a sbirciare lì dentro e il dolore nell'entrare lì dentro fu talmente grosso che non fu capace di dire una sola parola, chiudendosi dentro quel guscio di pietre e diamanti che non lasciava entrare alcuna luce. Solo un'immensa oscurità.
No, non poteva entrare lì dentro. Non poteva essere sommerso da quel grosso dolore un'altra volta e rimanerne annientato proprio qualche giorno prima di partire per Boston. Non poteva annegare ancora dentro quel ricordo bello, quanto struggente, della sua bambina delicata e troppo vulnerabile per il mondo, a quel visino identico a quello di Galaxia e gli era sembrato, già da così piccola, portarsi dietro un dolore massiccio. Schiacciante.
Non poteva entrare dentro la stanza di Chibichibi...
La sua mano strinse il pomello e la porta si spalancò, cigolando mestamente e aprendo una stanza che colpì il naso di Mamoru per l'odore di chiuso e di cipria. L'altra mano accese la luce della stanza e il giallo pallido delle pareti sembrò cadergli addosso, ma i suoi occhi presero a guardare il resto della stanza, non stando agli ordini del suo cervello. Ritrovando tutto al suo posto, niente fuori posto, come il suo dolore. Ancora se ne stava lì, sulla culla.
Le sue gambe lo portarono vicino alla sedia a dondolo, la vernice bianca rischiava di cadere da un momento all'altro e il cuscino imbottito e con un orsacchiotto ritratto sopra era malridotto dalla polvere e dal tempo. Per qualche strano motivo, guardò la culla e la sua tendina bianca con le farfalline colorate e si sentì spiazzato nel rivedere sul cuscino rosa il ciondolo a forma di stella che aveva regalato a Usagi, quando erano stati insieme.
Forse le era caduto lì poco prima, poi c'era stata l'amnesia.
Crollò sulla sedia a dondolo, il ciondolo dorato tra le mani e la testa china, mentre i suoi capelli gli cadevano davanti. Crollò e si dondolò, stringendo la copertina della Disney e il ciondolo con una forza convulsa. Quella stanza puzzava di dolore. Quella stanza non poteva raccontare ancora la storia di Chibichibi con tanta perfezione, non poteva ancora ricordare i riccioli biondi e rossi di Galaxia nella stanza mentre montava faticosamente la culla.
Non poteva ricordarsi con tanto nitore la vistosa pancia che conteneva Chibichibi che nel letto occupava troppo spazio, quel rigonfiamento che gli aveva fatto credere di poter amare Galaxia in qualche modo. Non poteva trovare ancora il ricordo di lui stesso che posava quel peluche a forma di coniglietto nella culla e le sue stesse mani che avevano preso a cullare una culla vuota e ancora felice per l'attesa.
Non poteva avere ancora quei ricordi tanto magnifici e pensare che tutto quello non aveva avuto mai senso, però era così. Ancora ricordava e ancora soffriva, una lama simile non cadrà mai da un cuore squarciato.
Pianse tanto quella sera, a cavallo della sedia dove avrebbe cullato Chibichibi e stringendo una copertina che non aveva scaldato il corpicino giusto e un ciondolo che non era rimasto al collo giusto. Quando ebbe la forza di alzarsi da quella sedia, posò la copertina nella culla e aprì il ciondolo di Usagi, ricordandosi del carillon che era incorporato. La melodia triste e armoniosa affondò soffice nella stanza e riempì le orecchie di Mamoru con dolcezza e con un'immensa tristezza.
Il ricordo di lei gli riempì la mente e si mordicchiò le labbra.
Lì, seduta a terra mentre accarezzava i peluche e la copertina, i suoi occhi coperti da un dolore che osava affrontare e che conosceva attraverso i suoi ostinati silenzi, il sorriso addolcito e spezzato. Lei che non sobbalzò quando lui entrò in quella stanza, ma che lo fece sedere vicino a lei e che gli strinse la mano, senza dire una parola. Lei che lo aveva abbracciato con le lacrime che rigavano le sue guance e il mezzo sorriso che somigliava ad un'aurora.
Lei che adesso riprendeva un po' di amor proprio.
Depositò delicatamente il ciondolo sul cuscino della culla e lo lasciò aperto, facendolo suonare senza fine in quella stanza gialla e rosa. Uscì, ma non chiuse la porta. La lasciò aperta e lanciò un'occhiata prima di andare a dormire, poco dopo aver spento il cellulare.
Per tutta la notte ascoltò quella melodia e il giorno dopo fece le valigie e partì.
Se ne andò senza salutare i suoi amici e Usagi, se ne andò nel completo silenzio. Se ne andò con cicatrici e lividi, con gli occhi rossi e il sorriso bucato. Senza addii struggenti e ti amo urlati. Se ne andò e basta.
Perché è così che succede nella realtà: le persone se ne vanno in silenzio.

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Capitolo 11
*** Color Mamoru ***


A Mamoru e alle sue stelle.
Ai pastelli nel cielo, alle luci dei suoi occhi.
A Mamoru, quel sorriso di nuvola.

 



*Tu che conosci il cielo, saluta Dio per me.
-Luciano Ligabue.





11) Color Mamoru
Un po' cielo, un po' pastelli




Ritrovare quel viso davanti a sé, le fece un effetto triste. Un effetto che la ferì, profondamente.
Usagi aveva vissuto quei lunghissimi sei mesi concentrandosi su se stessa, sulla scuola e sugli amici. Lo aveva fatto con molta fatica, annaspando contro una vita che desiderava altro, un mondo racchiuso in un unico paio di braccia. Braccia lontane, purtroppo.
Ogni volta ripensava a lui con una tale forza da immaginarselo lì con lei, spesso le sembrava di sentire quell'odore addosso, ma resisteva. Intrappolava le lacrime dentro il suo petto e sorrideva al resto del mondo che, secondo lei, aveva perso un colore bellissimo nella scala di Iride. L'azzurro, il blu, l'indaco.
Ogni sfumatura del cielo era andata persa, in quel suo mondo ogni colore non brillava più come una volta.
Resistere era stato un tormento unico, duro, ma doveva farlo, altrimenti sarebbe impazzita.
Quando aveva saputo che Mamoru era partito per gli Stati Uniti senza salutarla, ebbe la forza necessaria per non piangere, ma si era innescato in lei un meccanismo di rifiuto. Ogni volta che sentiva il suo nome sulla bocca di qualcuno, distoglieva l'attenzione dalla conversazione.
Non parlava mai di lui spontaneamente e negava persino di averlo amato. Cercava vanamente di toglierlo dalla sua vita, cercava di oscurare quel suo passato che aveva già posseduto una nebbia vendicativa.
A volte, si diceva che recuperare la memoria non era stato un gran bene, perché quella vita lì era meglio dimenticarla.
Dopo tutto il male che si erano fatti a vicenda, quell'inerzia era risultata la cosa più grave e imperdonabile. Era sciocco, ma sentiva un grande male. E
ra stato come se fosse stata dimenticata da un grande amore e faceva un male agghiacciante, per questo si sentiva persa senza avergli detto addio. Persa senza quell'azzurro addosso, spezzata senza quel cielo colorato dal pastello giusto.
Aveva bisogno di un addio, un addio che avrebbe avuto il sapore di un bacio alle lacrime, ma non sarebbe stato più un addio, lo sapeva.
E ritrovarlo davanti a sé, quasi per magia, mandò ogni suo sforzo a frammentarsi con clangore contro quegli occhi inimitabili. Affilati dalla sofferenza, veri. Ogni barriera cadde e i suoi sentimenti, fintamente messi a tacere, rinacquero con un boato atroce.
Osservò il volto che adesso le stava davanti e fece un passo indietro, scuotendo la testa.
Non poteva accettare di trovarselo davanti, nonostante erano state numerose le volte che lo aveva immaginato e, forse, desiderato. Era incredibile come quei tratti pronunciati del viso, quelle labbra così perfettamente disegnate e quegli occhi così intensi li avesse ricordati così come erano e che sapevano ancora incantarla come la prima volta. Erano ancora una magia, solo che sapevano di bugia.
Ancora riusciva a vedere il cielo dentro quello sguardo, ancora ci aggrappava le sue speranze in silenzio. Ancora moriva dentro, ogni volta che li vedeva.
«Che ci fai qui?».
Fu spietata e autoritaria. Non avrebbe voluto farlo, esisteva una dolcezza chiara e tiepida dentro di lei, ma il dolore tornò nel suo petto con una forza brutale, spezzando via tutti quei fili di ferro che aveva costruito con meticolosità, come una trincea, attorno al proprio cuore.
Come avrebbe voluto essere ancora in coma...
Se non si fosse svegliata, lei non avrebbe rivisto Mamoru e non se ne sarebbe innamorata ancora. Sembrava impossibile non farlo; la prima volta che lo aveva visto era successo in un attimo e quel cielo le era entrato dentro, così come nell'ospedale dopo il coma. Non sapeva nemmeno chi era e già lo amava, tanto da ricordarsi quanto male faceva.
Ed ora, mentre scuoteva la testa, era successo di nuovo: un attimo e, dopo sei lunghi mesi, quel cielo le penetrava l'anima come se fosse stata la prima volta. E l'amore e il dolore continuavano a frapporsi dentro di lei in un miscuglio di sale e acqua.
Lui le sorrise e lo fece in quel modo che solo con lei usava fare, un po' triste e un po' felice, bellissimo e terribile, e le fece sentire dentro quella sensazione che le bucava ogni volta il petto. In quel continuo combattersi un opposto contro l'altro, il piacere e il dolore in una lotta spietata e senza vincitori.
Ma questo era Mamoru: amarlo era bello quanto doloroso, tanto da non sapere dove finisse l'uno e iniziasse l'altro.
La cicatrice ancora divideva lievemente la guancia dal sorriso di Mamoru, come a voler delineare un limite, una gioia che non avrebbe raggiunto i suoi occhi blu come il cielo. Quella cicatrice che si era procurato quando aveva diciassette anni in una rissa, quando il suo cielo era solitario e senza genitori a fermare il sangue delle sue ferite. Quel ragazzino spaventato e codardo che non ci metteva nulla a picchiare duro, ma che si nascondeva dalle vere sensazioni. Quel ragazzino era ancora dentro di lui, ben mascherato da quel sorriso celestiale che si portava dietro tanti demoni.
Questo era Mamoru. Con quella sua parte di cielo brillante nello sguardo, con quella sua vertigine verso la vita, la paura verso i sentimenti, con quei capelli corvini mai troppo curati e quei riflessi di ghiaccio.
Mamoru e i suoi colori. Chiari, penetranti, acidi.
Rosa chiarissimo, la sua pelle. Nero corvino, i suoi capelli. Rosso cremisi, le sue labbra. Verde foglia, la sua giacca. Bianco puro, la sua camicia. Blu notte, i suoi occhi tristi. Azzurro cielo, i suoi occhi felici. Indaco brillante, i suoi occhi dentro il corpicino di Chibichibi.
Questo era Mamoru con i suoi colori e umori. Mamoru e i fulmini che l'avevano dilaniata, Mamoru e i cieli con le stelle più tenere, Mamoru e le nuvole che avevano il sapore di zucchero. Mamoru e i suoi stramaledetti occhi azzurri. Quel pezzo di cielo che aveva cucito addosso, rubato alla natura, dentro quelle fessure piccole e profonde, quel pezzo di cielo che lei sentiva sempre addosso, sulla propria pelle. Anche quando i suoi occhi non erano posati su di lei.
Usagi riconobbe ogni emozione. Le sentì nuovamente sulla propria pelle, amare e tristi sulle mani, felici e disperate sulla sua schiena.
Si sentì ancora sua, in qualche modo irreparabile. Solo sua, per sempre.
Lui aprì la bocca e fece un passo in avanti, verso di lei. In quel suo continuo e disperato modo di tendersi verso di lei, con le mani, con gli occhi. Con quelle parole non dette e che gli rimanevano incastrate dentro, forse nella gabbia toracica, oppure tra i denti.
Sarebbero bastate quelle parole a rompere il ghiaccio che si era formato attorno a loro; quelle parole trattenute a lungo, asfissiate dentro una tormenta di sentimenti, rese carnefici di tanti sbagli.
«Sono tornato», disse semplicemente.
E semplicemente l'avvolse in se stesso, catturandola in un mondo privato e ovattato che solo con lei riusciva a dividere ed apprezzare, stringendola contro la sua pelle così fredda. Così semplicemente da rinchiuderla in quel mondo azzurro, un regno fatto di nuvole e cielo infiniti, così semplicemente da farle ritrovare il giusto equilibrio: il loro. Perso e ammaccato, ma indistruttibile. Invariabile, vero, sofferto e privato.
Altrettanto semplicemente, però, Usagi si staccò da quel mondo che la stava richiamando, annegando ancora, e schiaffeggiò Mamoru con decisione, recidendo ogni radice con quel mondo che aveva il cielo che tanto amava.
Il sorriso di rammarico, che lui le regalò, le spezzò ancora il cuore, ma non si fece impietosire. Non questa volta: quel cielo l'aveva tradita.
Barcollando, fece molti passi indietro. Lo osservò ancora una volta con quella disperata voglia di rivedere in lui ciò che più amava, studiando ogni ruga e legarla a un dolore che lei non aveva potuto curargli, ritrovando ogni ciglia al suo posto e, quelle paure, erano ancora incastrate lì. Ritrovò persino quel senso di colpa verso Galaxia che se ne stava adagiato tra le rughe d'espressione che Mamoru aveva attorno agli occhi.
Fu questo che la gelò in quel silenzio sinistro: ritrovò ogni cosa al suo posto.
Ogni maledetto dettaglio che ancora le pareva affascinante e, dentro quei dettagli tanto amari, ci si rivide. Un ricordo, un pensiero.
Ciò che avrebbe voluto fare, era toccare il volto di Mamoru con entrambe le mani, con tutte e dieci le dita, proprio come aveva fatto lui quando l'aveva trovata sveglia in ospedale. Avrebbe voluto sentire com'era riavere sotto la pelle qualcosa che le era appartenuto in qualche maniera arcana.
Qualcosa che le sfuggiva sempre...
Ci sfuggiremo sempre, Usako.
Ma non lo fece e ingoiò il dispiacere.
Non ci furono altre parole, non volle dirle questa volta, e preferì il silenzio, sentendole dentro il suo petto che spingevano per uscire dalla bocca. Soppresse quella frase che tanto sentiva di dirgli con decisione, portandosi una mano sul petto e fissandolo negli occhi con attenzione. Quegli occhi la supplicarono di parlare, di scaldare quel ghiaccio a cui la vita li aveva costretti con uno schiocco secco, leggero, marcato.
Uno schiocco ci fu, ma fu lo schiocco dei tacchi di Usagi.
Si era voltata, lasciandosi alle spalle Mamoru e il suo cielo, e aveva cominciato a correre verso casa sua, portando a inclinare brutalmente il tacco a spillo delle sue scarpe.
Si era fermata un secondo ad osservarle.
Erano azzurre, belle, fresche di vernice che avevano appena perso un tacco. Proprio come si sentiva lei in quel momento: con il cuore strappato.
Le tolse entrambe e le lasciò sul marciapiede, correndo via. Perché voleva fuggire via, era brava in questo e lo ricordava benissimo, e dimenticare quella vita tanto intricata.
Cristo, aveva solo diciannove anni! Voleva una vita spensierata!
Ancora teneva la mano sul petto che cercava, vanamente, di trattenere quella frase tra le costole e i denti. Ancora cercava di ingabbiarla nel suo singhiozzo feroce, spingendola sempre più giù, verso lo stomaco, le ovaie, le cosce e poi verso i piedi.
Via, lontano da lei. Quella frase doveva volare via.
Ma, quando entrò in camera sua nel frastuono della sua corsa e con il fiato corto, vinse la frase che riemerse nel suo corpo, salendo dai piedi fino al cuore, colpendolo con decisione, e arrivò con estrema precisione sulle sue labbra e spinse per uscire.
Vinse, vinse la frase, e Usagi si sentì nuovamente persa.
«Ti amo», mormorò alla stanza vuota.
Ti amo, ripeté dentro di sé. Come se fosse stato possibile il contrario.
Si alzò da terra e raccolse i cocci del suo cuore che erano stati sparsi ovunque in quella città, ma non dentro di lei. Un pezzo per ogni luogo che aveva diviso con Mamoru, un pezzo per ogni sofferenza che aveva ingoiato. Si era spezzata in milioni di pezzi due anni prima in quell'ospedale e non li aveva mai ritrovati, per questo si aggrappava a Mamoru. Si sentiva come una falena in cerca della luce artificiale, attratta e senza ritorno, o come Icaro che vola troppo vicino al sole con le sue ali di cera.
Non aveva voglia di fare più nulla, non era stanca, ma si sentiva distrutta.
Era solo uscita un sabato pomeriggio con Rei a fare shopping, non lo faceva da una vita, e aveva deciso di indossare subito quelle scarpe. Le erano piaciute sin da subito e non sapeva spiegarsi il perché, forse non era il modello ad attirare la sua attenzione, ma il colore che l'aveva colpita subito al cuore.
Azzurro ghiaccio. Lucide. Alte. Pericolose. Erano come Mamoru.
Si guardò i piedi nudi e arrossì. Erano sporchi per l'asfalto che avevano attraversato, freddi e bianchi, un po' umidicci. I suoi piedi da fatina erano sporchi e senza quelle meravigliose scarpe, quelle scarpe che aveva indossato da subito e che la facevano sentire diversa. Non la Usagi con la memoria persa, non quella innamorata di un uomo irraggiungibile, non quella che litigava per l'ultima coscia di pollo con Seiya, m una persona forte, sicura, con la memoria intatta e in grado di affrontare quella sofferenza nel cuore.
Adesso era nuda, di nuovo se stessa. E si odiava.
Percorse la stanza con dolcezza, sentendosi riscaldare un po' dalla moquette del pavimento, e raggiunse la finestra, notando che il cielo si era gonfiato di pioggia. Il cielo quel giorno era come lei: gonfio, nero, triste.
Scosse la testa e si asciugò le lacrime dal viso con la manica della maglia bianca che portava sul vestito estivo di colore azzurro. Ormai lei vestiva sempre di azzurro, ma non se ne rendeva veramente conto.
Era un riflesso involontario, il suo. Forse un bisogno nascosto. Vestirsi del colore del cielo, avere il cielo sulla pelle la faceva stare meglio.
Respirò profondamente e fece per voltarsi verso il suo letto, ma un particolare nella sua visuale colpì la sua attenzione e rimase impietrita.
Fu come quando vide la fotografia della festa dei suoi diciotto anni e una sensazione di deja- vu la colpì, perché fu un angolo ad attrarla, un dettaglio triste che stava oltre la fotografia e, ora, oltre la finestra. Il dettaglio della vita di Usagi era Mamoru, un dettaglio grosso come il cielo.
Lui se ne stava sotto l'albero del giardino, completamente bagnato per via della pioggia, con i capelli irrorati attorno al viso angelico, caldo, e le mani lungo i fianchi mentre stringevano quelle scarpe azzurre.
Usagi mancò due battiti. Si sentì profondamente triste nel vederlo lì, così toccata da quegli occhi che da sopra la finestra avevano l'aspetto di due lapislazzuli minuti, eppure ne vedeva una profondità spaventosa, pericolosa per la sua essenza.
Senza pensare realmente a ciò che faceva, aprì la finestra con un gesto asciutto e si sporse in fuori, bagnando completamente la sua testa bionda della pioggia estiva. Sporgendosi, fece innescare un moto di reazione nei movimenti di Mamoru e lo vide mentre faceva due passi in un fasullo slancio in avanti, ignaro di non poterla salvare se fosse caduta.
Usagi ne sorrise con dolcezza e, lasciando che la pioggia imperlasse il suo viso, inclinò il viso e gli disse: «Cosa ci fai lì? Piove».
Il suo tono non era stato acido come prima, era divenuto una soffice nuvola di premura che si dirigeva verso Mamoru.
Lui le sorrise, felice. Alzò le scarpette azzurre e il tacco ormai rotto con quelle mani grandi che avrebbero preso il viso di Usagi con un solo gesto.
«Voglio restituire la scarpetta a cenerentola», le urlò.
E lei non poté che ridere. Rise senza un reale motivo, alzando la testa al cielo, e inspirò profondamente quell'aria secca di agosto. Fu naturale sentire gli angoli della bocca aprirsi in un sorriso docile, felice, così come si sentiva insensatamente serena sotto quel cielo tumultuoso e grigio.
Abbassò lo sguardo e si addolcì, ritrovando quel Mamoru così dispiaciuto.
Chi fosse, in realtà, quell'uomo non poteva saperlo.
Sapeva così poco di lui, nonostante ne fosse perdutamente innamorata. Conosceva le sue paure a furia di ripercuoterle sulla loro storia, conosceva quel passato così sterile e senza genitori e conosceva quell'attaccamento a Galaxia e all'idea di famiglia che si era fatto. Conosceva la sua bravura in tutto e soprattutto nello spezzare cuori di pane, come il suo. Ma non sapeva poi molto, non poteva mai scorgere delle verità dentro degli occhi così profondi, così misteriosi. Si consolava nel vedere che possedeva un vero cielo dentro, ma il cielo non è vuoto, ci sono numerose stelle e pianeti a costellare il suo splendore.
Chi era Mamoru?
Non lo avrebbe mai saputo. E questo faceva paura.
«Aspettami. Scendo», disse.
Scese e lo trovò davanti a sé, spaventato. Aveva gli occhi lucidi, arrossati, mentre un sorriso appena annunciato si mostrava sul volto bagnato. Non poteva soffermarsi a pensare quanto fosse bello con quelle dolci fossette ai lati del sorriso intimidito, con quegli occhi chiari e umidi e con quei capelli lasciati modellare dal tempo e non dalle sue mani.
Avrebbe voluto accarezzargli la testa, dolcemente. Come avrebbe fatto una mamma col suo piccolo, con dolcezza e amore.
«Ciao», mormorò Mamoru.
«Ciao», gli sorrise.
Usagi fece qualche passo in avanti e inclinò la testa, completamente abbagliata da quell'immagine rarefatta che aveva davanti.
Lui, Mamoru. Con quel cipiglio così sofferente, quel pezzo di cielo addosso che lo schiacciava e che sorreggeva con fatica. Lui, così come lo vide la prima volta in quell'ospedale, davanti alla nursery.
Fu questo ricordo che le fece scaturire da dentro un pianto liberatorio, facendole versare tutte quelle lacrime nascoste e represse che sapevano di fuoco sulla sua pelle. Tutta quella sofferenza così latente: loro, l'amnesia, Galaxia, loro e l'America.
Mamoru scattò in avanti e corse verso di lei, gettando a terra le scarpe. La strinse a sé con una forza inaudita e la cullò, cercando forse di calmare anche il suo, di cuore. Quell'abbraccio era la cosa più sanante che poteva esistere.
Quanto dolore avevano masticato in quei due anni, quante sofferenze ancora dovevano dimenticare per poter essere felici. Troppe, un numero impossibile.
«Che succede?», le chiese.
Ma i singhiozzi di Usagi erano più forti di qualsiasi altra parola, erano così clamorosi che lo scuotersi del petto non cessava e il dolore inabissava la sua volontà. Il fatto era che lei lo amava così fortemente che spesso veniva investita dal suo stesso amore, un amore così malamente ricambiato.
Lei aveva fatto davvero di tutto per restare al passo di Mamoru e non si era mai fatta schiacciare dalle pesanti verità della sua vita; aveva affrontato tutto coraggiosamente, anche se aveva avuto paura, e aveva continuato a camminargli vicino. Anche se a fatica.
Lei lo amava tanto, in una maniera che dovrebbe essere illegale.
«Su, Usako», le disse dolcemente. «Sono qui adesso».
Era qui adesso! Santo cielo, non capiva!
No, non poteva capire quanto lei lo amava, quanto era stata esposta, cosa era stata capace di fare solo per lui. Solo per poter curare quelle ferite che continuavano a sanguinare nel suo cuore. Mamoru non poteva vedere tutto questo, la sua paura era come una massiccia benda sugli occhi e non si sentiva mai veramente rassicurato da lei.
Lui era in grado di affogare il suo bisogno di lei, lei no.
Lei era morta in quei sei mesi senza di lui, nonostante avesse desiderato lasciarlo andare via. Lei moriva ogni giorno, sapendo di essere stata il terzo incomodo di una lunga relazione, una relazione così malata che nonostante tutto aveva donato un bellissimo scricciolo come Chibichibi. E non c'era stata una sola notte in cui Usagi non aveva sognato la piccola che piangeva nel vedere il suo papà e la sua mamma separati, una sola notte senza il rimorso a renderla vittima di incubi tremendi.
Usagi moriva ogni giorno da quando lo aveva incontrato. E moriva ogni volta che quegli occhi la guardavano, ogni volta che sentiva quel cielo addosso a porre nostalgia e dolore alla sua pelle.
Mamoru continuava a parlare, senza che Usagi lo ascoltasse, dato che i singhiozzi erano forti e dolorosi. Ma la sua voce le entrava dentro come una filastrocca dolcissima, un leggero dondolo per il suo cuore ferito da questo bellissimo carnefice.
Lo amava così tanto da far male.
«... Non voglio lasciarti più», stava dicendo.
Quante volte lo aveva sentito? E quante volte si era trovata sola, senza di lui?
Tante volte, così tante che non avrebbe mai curato davvero quel vuoto.
Usagi alzò la testa e sentì lo stomaco contorcersi sotto quello sguardo interrogativo e bellissimo.
Lui inclinò la testa e addolcì lo sguardo, lasciando vedere a Usagi un pezzo di cielo limpido, luminoso, pieno di colore, un cielo che non aveva visto e che avrebbe voluto vedere sempre.
Le sorrise. «Ti amo».
Lei rimase a bocca aperta, incredula. Mai le aveva detto così apertamente di amarla, era stato sempre restio a manifestare i suoi sentimenti e lo diceva sempre a denti stretti. Era sempre stato spaventato da tutto questo.
Lui rise dolcemente. «Hai sentito benissimo».
E adesso era lei ad essere spaventata a morte. Perché questa volta Mamoru stava giocando davvero sporco, quella era una bugia così detta bene che un giorno, quando si sarebbe trovata di nuovo sola, avrebbe bruciato.
Bastardo! Bastardo di un Mamoru!
Lei scosse la testa, mentre un pianto soffocato percuoteva il suo petto. Decise di allontanarsi da lui, ma farlo consisteva in una rinuncia davvero coraggiosa.
Amava stare tra le sue braccia, si sentiva al sicuro, a casa. Lo amava ed era normale amare anche quelle braccia.
«So cosa stai pensando», disse ancora Mamoru.
Lei sospirò. «No, non sai cosa sto pensando».
Lui sorrise, compiaciuto, lieto di poter ritrovare quella Usagi. Lieto di un pezzo di felicità che finalmente lo baciava.
«Illuminami», le disse.
Lei affondò la testa al suo petto, sentendo con una briciola di sollievo il profumo che tanto a lungo aveva sentito vagare leggero per la città, e sorrise.
«Ti amo», mormorò.
Lui ridacchiò con dolcezza. «No, non sapevo a cosa stavi pensando».
Si guardarono e sorrisero dolcemente, l'uno complice dell'altra.
Entrambi così opposti eppure così uguali, così feriti e paurosi, così lontani eppure così vicini.
L'uno il cielo dell'altra, l'una il sorriso dell'altro. Insieme così difettosi, eppure così perfetti. Divisi così giusti, eppure imperfetti.
L'una la metà dell'altro, paradossalmente.
Quando si congiungevano, dimenticavano la loro pelle e i loro corpi. Si univano in uno di quei rari abbracci in cui era l'anima a venir sfiorata. Ed era questo che era successo dopo mesi di assenza, dopo due anni di sofferenza e torti fatti senza pietà.
La verità era che Usagi non sapeva negarsi a quegli occhi azzurri e non sapeva negar loro altro amore, quell'amore che in realtà non avevano mai avuto e apprezzato. Non sapeva ritrarsi da quell'abbraccio che sapeva di magia e bugie perché, per quanto facesse paura, Usagi ne era follemente innamorata.
Era iniziato tutto con lui, Mamoru. Lo aveva dimenticato a causa dell'amnesia, ma non c'era stata attimo in cui non lo aveva amato. Lo aveva messo da parte per poter tornare quella di una volta, amareggiata e ferita per via della sua decisione di trasferirsi in America, ma era da capire. Aveva avuto solo paura che Usagi non si fosse svegliata dal coma e, scappare da un dolore simile, era l'unica cosa sensata da fare, per lui.
E adesso erano lì, stretti in un abbraccio che non lasciava entrare l'aria, ma solo lacrime e sorrisi timidi.
Mamoru abbassò leggermente la testa e andò a posare le sue labbra su quelle di Usagi.
La baciò, delicato. Le sorrise sulle labbra e fece per staccarsi, ma lei lo fermò e infilò la sua lingua, dicendogli silenziosamente quanto lo amava. Lui l'afferrò interamente e la incastrò contro il muro del porticato, sorreggendola così come avrebbe voluto fare per una vita intera. La baciò con tutta la passione che aveva avuto per lei, con tutto quell'amore che aveva represso e che non smetteva di svegliarlo di notte.
«Non ho fatto altro che pensarti», disse sulle sue labbra. «Non ho fatto altro che rivederti dentro i miei sogni mentre piangevi».
Usagi attese in silenzio che quella confessione continuasse, mentre veniva tormentata dalle sue labbra calde e bagnate e così esperte.
«Non ho fatto altro che domandarmi in che modo ti avessi persa, in che modo avrei potuto riafferrarti, ma...», si fermò, senza fiato. «Sei così fuggevole, Usako».
Così... fuggevole? Lei?
Quella frase le bruciò il volto, perché era stata detta con tanto dolore che sentirsi scottata fu solo una sensazione.
Lo capiva e abbassò gli occhi.
Sarà sempre così, Usako.
Anche lui era sempre fuggevole con lei, si sentiva sempre un passo indietro a lui e, quando finalmente credeva di averlo raggiunto, lui fuggiva ancora.
Lontano... in America o tra le braccia di Galaxia.
E lei? Dove fuggiva?
In un'amnesia o da Seiya.
La verità era che anche lei era una codarda, si nascondeva da quell'amore e lo temeva da morire. Un po' per la sua giovane età, un po' per la grandiosità di un sentimento così profondo e così tormentato. Amare Mamoru portava tormento. Tanto.
Ma non era mai scappata, era rimasta sempre. Era rimasta quando aveva saputo che stava per sposarsi, quando si rivedeva con Galaxia, era rimasta anche quando lo aveva dimenticato tutto e ricordato lentamente. Era rimasta a tenergli la mano, sempre, e non poteva essere così ingiusto con lei.
«Non è vero», disse. «Non sono io ad essere fuggevole».
Mamoru inclinò la testa, riassaporando il ricordo di mesi prima quando erano stati davanti al porticato di casa Tsukino a guardare la neve. Si erano solo abbracciati, ma valeva così tanto per lui quell'abbraccio semplice. E adesso erano lì, dopo mesi senza vedersi e sentirsi, a riabbracciarsi di un affetto così sobrio e sincero, nonostante ci fosse una grande quantità di sofferenza da smaltire. Erano di nuovo lì, reduci da una lontananza, a baciarsi.
Era l'unica cosa che sapevano fare bene, lo sentivano entrambi che quando si congiungevano era l'unico movimento giusto, sacro per due caratteri come i loro. Per una storia come la loro, la fisicità poteva essere un toccasana, ma non c'era mai stato il tempo di potersi amare anche col corpo.
Mamoru aveva sempre voluto stare ai tempi di Usagi, non dimenticava che allora era ancora una diciassettenne e non voleva di certo rubargli qualcosa di troppo prezioso, ma era stato uno sbaglio.
Lei cercava di stare al suo passo, lui cercava di restare fermo per aspettarla, eppure non si erano mai incontrati. Erano stati entrambi fuggevoli, entrambi per amor dell'altro.
Che scemi! Scemo era Mamoru che era ebro di lei, amava quel suo lato ancora così innocente e si diceva sempre di potersi dare un'altra possibilità con lei. E scema era stata Usagi che impazziva per quel lato così acerbamente maturo di lui.
Mamoru abbassò di nuovo il capo e poggiò la sua fronte su quella di Usagi, fissandola con uno sguardo puro, intenso. Un cielo che si capovolgeva in piccolo lago turbinante.
«Hai ragione, scusami», disse a voce bassa. «Sono stato io a fuggire sempre».
Sempre. Voleva fuggire sempre da quella loro attrazione che non lasciava mai spazio ad altre azioni indipendenti, un'attrazione sibillina e così intensa che aveva macinato il cuore di Galaxia e qualsiasi cosa ci fosse stato come cornice.
«Già», parlottò Usagi. «Ma perché scappare da tutto questo?».
Aveva allargato le braccia, divincolandosi per poco da quell'abbraccio, e fece mostra, con un gesto, del magnifico annesso che impersonavano quando si univano. Era pura magia, attrazione ad un livello puro, lo sapeva.
Eppure, un po' capiva quel timore di Mamoru. Non era mai stata facile la loro storia, si erano ritrovati catapultati dentro senza avere scelta, perché era successo tutto per un fortuito caso. Si erano scontrati e si erano voluti sin da subito, ignorando deliberatamente Galaxia e il legame che la univa a Mamoru.
Tra di loro c'era qualcosa di imprescindibile. Qualcosa che, così come li aveva uniti, li avrebbe separati e tutto sarebbe successo con uno scoppio pieno di fragore e dolore, perché doloroso fu il loro incontro e doloroso sarebbe stato il loro addio.
Chi non poteva avere paura di tutto questo?
Solo una sciocca ragazzina che credeva di essere pronta ad un amore impegnativo, solo una povera romantica che trovava bella la cicatrice di Mamoru, ignorando quanto fosse stato solo e pericoloso un tempo.
Avere paura fa parte della crescita. Avere paura rende coraggiosi e Mamoru era stato temerario nel cercarla e averla voluta al suo fianco in passato, perché era un rischio per uno come lui che di sofferenze ne aveva viste.
«Perché tu mi spaventi», disse con incertezza.
Sul suo volto si disegnò una grande ombra di angoscia, portando quel sorriso a offuscarsi nelle tenebre che si dipanavano nel suo sguardo blu.
Lei corse verso di lui e lo strinse. «In che modo?».
Lui rimase senza respiro per alcuni istanti e con gli occhi sbarrati, guardando attentamente la testolina bionda di Usagi che se ne stava sul suo petto. Poi sorrise e l'accarezzò con estrema lentezza la testa.
«Per questo», rispose.
«Non capisco».
Mamoru continuò ad accarezzarle i capelli e lasciò la sua immagine per potersi dedicare al cielo grigio che stava scemando a poco a poco.
«Usagi, io non sono mai stato molto equilibrato. Io non ho più i genitori e non sai quanto una cosa simile ti segni per la vita, oltre che ricordare così poco di loro e la nostra storia», spiegò con dolcezza.
Era una dolcezza che non aveva mai cullato la sua voce e Usagi ne fu sorpresa, cominciando a domandarsi in che modo fosse riuscito ad addolcire gli spigoli del suo carattere.
«Vivere da solo non ha giovato molto al mio carattere, sai? Mi sono rintanato sempre nel mio appartamento, solo, e mi piaceva stare solo. Non ho amici, lo sai, e quando ho incontrato Galaxia mi ci sono aggrappato come fa una pulce ad un cane», scosse la testa, tormentato. «A dire la verità, in lei non ho mai trovato nulla di davvero interessante, ma mi sono cullato in quella sorta di legame che ci univa e le ho chiesto di sposarmi solo perché credevo che fosse la cosa più giusta da fare dopo un certo periodo insieme».
Usagi smise di respirare e lo fece di proposito. Sentire quelle frasi riguardo Galaxia facevano un male tremendo, un dolore che non si aspettava di conoscere davvero. Era gelosia, pura e insana gelosia.
La cosa che la feriva ancora di più era il suo cuore inesperto nei legami con chiunque incontrasse, era sempre più spaventata da questa persona che la teneva in bilico tra l'inferno e il paradiso.
«Poi, avevo appena saputo che avremmo avuto Chibichibi. Ero sicuro che l'avrei amata, quella bambina, con tutto me stesso. E non importava se avevo solo ventidue anni e senza un reale lavoro, non mi importava niente se Galaxia non era il mio tipo, me la sarei fatta piacere. Tutto pur di avere un mezzo scorcio di famiglia, pur di assaporarne il sapore buono».
Il cuore di Usagi si dimenticò di battere, lasciandola in balia di un'apprensione eccessiva verso Mamoru, quello che ancora non aveva conosciuto. Quello che senza una famiglia non sapeva distinguere un affetto profondo a quello più superficiale, quel ragazzino a cui mancavano le basi.
«Ma mi rendo conto che così ho rovinato la vita di Galaxia, tenendola appesa ad un legame fasullo. Per un mio egoistico bisogno, ho rovinato la vita a tutti coloro che mi sono stati vicini e non ho idea perché Dio abbia voluto togliermi Chibichibi dopo avermela fatta conoscere. Davvero non lo so, mi è sembrato crudele e ingiusto».
«E' stato ingiusto», confermò istintivamente Usagi.
Ma lei si riferiva a Chibichibi e alla poca vita che aveva vissuto, all'ingiustizia che si era riversata su di lei, invece di punire quei genitori distratti.
Mamoru tornò a guardarla e le prese il viso tra le dita, lo avvicinò al suo volto e la bacio dolcemente in una leggera danza di anime. Quando aprì gli occhi, in lui nacque un dolore e sospirò.
«Dopo sei arrivata tu. In un modo assurdo, con rumore, con semplicità nello stesso giorno che Chibichibi è morta. Quando ti ho vista, ho pensato che eri solo una ragazzina e in modo davvero poco gentile. Poi, però, ti ho osservato e c'era un'armonia su di te, una dolcezza così attraente mentre sorridevi che non riuscivo a staccarmi da te», stava sorridendo mentre parlava. «E quando mi hai abbracciato... be', mi sono sentito così bene che, all'inizio, ho pensato fosse un sogno. Più ti toccavo e più c'eri, più prendevi forma dentro di me. Credo di averti amata sin da subito, solo che ne avevo paura. Di te, di questa nuova sensazione. Io, quel calore...», l'abbracciò dolcemente. «Non lo avevo mai conosciuto, nemmeno quando facevo l'amore con Galaxia. Un abbraccio dolce e forte come quello, e come quelli che ci siamo sempre scambiati, non l'avevo mai conosciuto. Per questo avevo paura».
Calò gli occhi su Usagi, in cerca di una reazione a tutta quella confessione.
«Credo di aver avuto paura anche io», mormorò Usagi. «Solo che non ho avuto il tempo di pensare alla paura, Mamochan. Esistevi solo tu per me, tu e il dolore che ti portavi dietro e che cercavo vanamente di curare».
Mamoru sgranò gli occhi, facendo colare il suo cielo in lacrime, e l'abbracciò a sé con furia. Prese a baciarle il collo e salire, fino a raggiungere l'angolo della sua bocca per poterla prendere con una dolcezza così malinconica.
Lei si ruppe sotto di lui, ammaliata da quel tocco così pungente ed esperto, paralizzata dalla paura di quel futuro che finalmente si apriva davanti loro. Era rattristata da cosa aveva scorto finalmente dentro gli occhi di Mamoru, dentro quegli occhi un po' come cielo e un po' come pastelli di luce che l'avevano da sempre colorata. Aveva scorto un bambino triste e solo che la stava aspettando, un cucciolo che si leccava le sue ferite e che aveva avuto bisogno del suo tempo per poter comprendere appieno il suo bisogno di lei.
«Non sei solo, Mamochan», gli disse con la voce tremante.
Era questo che succedeva sempre: gli donava il cuore. Lo rassicurava, lo curava e lo amava tanto. In un modo da dover essere illegale.
Mamoru la baciò con molta passione, portandola sempre di più dentro il suo abbraccio per poterla respirare. La baciò così profondamente che rimase senza respiro, senza più quei rimorsi a legargli l'anima, senza più quel dolore.
Adesso erano dentro una bolla calda con delle sfumature dorate, dolcemente avviluppati dalle stelle e deliziosamente scortati in un cielo blu intenso. Adesso c'erano loro dentro un bacio che finalmente esigeva passione, contatto, amore e ansimi in un fugace abbraccio nudo.
Adesso c'erano solo loro. E quel bacio li divorava, li schiacciava l'uno contro l'altra, li ottenebrava in una desiderio leggero e sempre più pronunciato.
«Usako... io», mormorò Mamoru a denti stretti.
Usagi aprì gli occhi, dolcemente risvegliata da un incantesimo sigillato dalle sue labbra, e fissò gli occhi del suo adorato Mamochan, trovandoli scuri.
Non era il solito sguardo a concederle il paradiso, ma uno sguardo brillante, cupo in quel colore del cielo che adesso diventava notte fonda. Era uno sguardo desideroso, così sconosciuto a lei in ogni forma.
Capì cosa finalmente le stava dicendo con quegli occhi e con il respiro affannoso e si ritrovò ad essere estremamente paurosa di quel desiderio. Un desiderio che adesso prendeva anche lei.
«A- andiamo di sopra», disse, incerta.
Si spostò da lui e afferrò le sue mani, trascinandolo verso casa.
Lo stava portando dentro di lei e, forse, non se ne rendeva davvero conto.
Mamoru, però, la fermò. La osservò attentamente e l'abbracciò, rinchiudendola con una tale dolcezza che il cuore di Usagi minacciò di sgretolarsi.
«Sei sicura?», le sussurrò.
Era sicura? Doveva essere sicura sulla propria verginità?
Alzò la testa e guardò con amore il suo viso, candido e spezzato come lo aveva sempre visto. Adesso lo avrebbe avuto addosso, lo avrebbe avuto dentro quel viso, dentro il cuore, dentro la pelle.
Ripensò distrattamente alle parole di Seiya di qualche giorno prima, dopo che le aveva messo una mano sul viso e le aveva sorriso con molta dolcezza.
Ti manca, vero? Lo so, Usagi, che ti manca. Guardare te è come vedere un uccello con un'ala strappata che cerca comunque di volare.
Gli era mancato, era vero. Come l'aria. E Seiya lo aveva capito, solo lui poteva capire cosa si era scatenato dentro di lei in quei sei mesi. Solo lui aveva visto che, in quel malsano rapporto che c'era tra loro, c'era un compromesso: lui le mostrava il suo cielo e lei gli insegnava a volare. Proprio come una magia.
Solo Seiya con quel sorriso al cioccolato poteva curarla almeno un po', solo un amico che in quei lunghi sei mesi non le aveva mai voltato le spalle poteva comprendere da cosa era stata lontana. Solo Seiya, il suo migliore amico.
Per questo Usagi non era del tutto sicura di ciò che stava per fare, perché se avesse avuto Mamoru ancora più dentro della pelle e si fossero persi di nuovo, non avrebbe mai più volato. Invece di una sola ala strappata, ne avrebbe avuto due e non avrebbe mai più visto il cielo da vicino. Lei che amava il cielo.
Ma, dentro di sé, si formò un coraggio improvviso e annuì lo stesso e lo portò verso la sua camera. Era ubriaca di una sensazione nuova e, in quel tempo, non le interessava troppo cosa sarebbe il giorno dopo. Semplicemente e amaramente perché una parte del suo cuore le diceva che non potevano perdere altro tempo, loro due. Ne avevano perso già troppo.
Era spaventata, curiosa, eppure così consapevole di ciò che stava per fare. Era consapevole a cosa stava rinunciando e non era più una ragazzina cotta del suo ragazzo, era semplicemente arrivata alla consapevolezza di volersi dare interamente al suo amato uomo. All'uomo che le lasciava guardare il suo cielo.
Giunti in camera sua, si sentì fortunata nel sapere che i suoi erano via e sorrise di riflesso.
«E'... tutto ok?», domandò Mamoru.
Si avvicinò a lei e le prese il viso con la mano destra, mentre cercava di sorriderle con serietà, ma era nervoso. Si vedeva dalle leggere rughe che si dipanavano sulla fronte e dagli occhi che scintillavano. Un tuono nel cielo.
«Sì», annuì.
Alzò le punte e lo baciò. Sentì le braccia di Mamoru che l'attorniavano con dolcezza, mente tremavano, e lei stessa tremava nel suo abbraccio. E
rano entrambi spaventati, tremavano.
Lui soffiò un lieve sorriso agitato sulle sue labbra e le accarezzò i capelli.
«Usako, voglio... voglio dirti una cosa», mormorò.
Lei si fermò e aspettò, curiosa, con il sorriso sulle labbra e il rossore a colorare il volto imbarazzato.
«Io... io, ecco», cominciò col dire. «Io... io».
Era insensatamente nervoso e spaventato. Cosa lo bloccava?
Usagi gli accarezzò una guancia e capì che aveva bisogno di essere rassicurato, di doverlo abbracciare e amare.
«Mamo, ti amo», pronunciò con molta dolcezza.
Lui rise, nervosamente. «Era quello che cercavo di dirti».
Lei sorrise, serena. «Cercavi di dirmi che io ti amo?», scherzò.
Mamoru scoppiò a ridere con molta dolcezza e scosse la testa. «Cercavo di dirti che ti amo e che sentirmi amato è strano, ma è bello. Per cui, grazie, amore».
Usagi scosse la testa, sorridente.
Era conscia dell'inesperienza di Mamoru in fatto di sentimenti, ma vederlo ammettere certe sensazioni le faceva tremare il cuore, perché finalmente non vedeva più il bambino spaventato che si immischiava in una rissa. Finalmente vedeva un uomo che aveva avuto il coraggio di guardarsi allo specchio e si era lasciato raggiungere nel suo cielo.
E così una malsana consapevolezza si sciolse sulla sua schiena e nel cuore, portandola ad avere una paura grossa come un pianeta. Non bisognava perdere altro tempo, perché cominciava a sentire che di tempo non ne avevano più.
Usagi gli accarezzò nuovamente una guancia e la baciò delicatamente.
Nei gesti di Mamoru c'era una dolcezza così triste che faceva sembrare tutto come un doloroso addio, in quei cenni leggeri e così tremanti si nascondeva un amore così difficoltosamente tenero.
«Ti amo», gli sussurro con sofferenza.
Fu una sofferenza così repentina che la colpì perfidamente e che la fece tremare ancora tra le sue braccia. Aveva paura, una grande paura.
Mamoru le sorrise e l'abbagliò. «Anche io ti amo».
E il sorriso abbagliante discese sulle sue labbra, intento a baciare la sua pelle, mentre nervosamente un paio di mani fredde e abili cercavano di aprire la cerniera del suo vestito azzurro. Quel sorriso le passò accanto all'orecchio e le baciò il collo, invece delle braccia sicure e spaventose la portavano sul letto, calandola dolcemente. E quel sorriso offuscò ogni vestito che veniva gettato a terra, mentre le mani di Usagi toccavano con un amore da spezzare il cuore il petto di Mamoru. Quel sorriso la distraeva dal corpo perfetto che le si piegava sopra, cercava di adombrare i suoi futuri ricordi di quel pomeriggio e una parte di lei odiò quella luminescenza, perché sentiva di dover registrare ogni attimo. Doveva imprimere ogni movimento, qualsiasi cosa, perché temeva di perdere nuovamente tutto questo. Ma il sorriso di Mamoru vinse su di lei e offuscò ogni paura nel momento in cui si ritrovò completamente nuda sotto quel cielo color pastello che le si scioglieva addosso, ottenebrò il suo rossore e contemplò il corpo atletico e asciutto di Mamoru che non le nascondeva un desiderio davvero sofferto e grande.
Era tutto avvolto da una patina leggera e bianca, come se tutto fosse magico e coperto da una profumata polverina bianca fatata.
Usagi, però, sapeva che ogni magia ha un prezzo da pagare.
Quale prezzo avrebbe pagato?
La domanda si smaterializzò nel momento in cui la punzecchiò ancora la frase detta da Seiya, trovando una dolce verità. Così dolce che ne ebbe paura.
E' così strano vedere come insieme siete difettosi, eppure funzionate.
Ma le dimenticò nel momento in cui trovò il volto di Mamoru sul proprio volto, quel volto che le era stato lontano troppo a lungo, quel volto che aveva desiderato sin dal primo momento e che la vita le aveva tolto sempre con estrema crudeltà.
«Ciao», le disse Mamoru.
Usagi gli sorrise, incapace di far altro, e arrossì tiepidamente. «Ciao».
Il sorriso di Mamoru si aprì ancora su di lei, mentre tutto il calore della sua pelle si divideva e si plasmava sulla pelle di Usagi.
L'emozione di trovarsi pelle contro pelle era stata debilitante, spiazzava ogni senso di inibizione in entrambi che non si erano mai visti così. In quel letto non si stavano solo denudando dei vestiti, ma stavano entrando l'uno dentro il dolore dell'altra in una danza antica e suadente.
In quel letto stretto e cigolante loro ci stavano bene e lo capirono quando Mamoru, con estrema dolcezza, cercò di entrare in Usagi, portando a sgranare gli occhi dietro quel contatto divino. Carnale e doloroso.
Per Usagi ci fu un dolore secco e strascicato per qualche istante che le divampò in ogni terminazione del basso ventre e delle gambe, poi il dolore iniziò a sciogliersi mentre l'espressione apprensiva di Mamoru si faceva sempre più grave.
«Usa, va tu...», stava per domandare, ma venne bloccato da un bacio.
Si baciarono e si sorrisero, complici, e Mamoru iniziò a spingerle dentro la sua passione, ansimando a fiato leggero.
Ad ogni affondo, c'era un sospiro vaporoso che veleggiava verso la pelle dell'altro. Ad ogni spinta, c'era una risposta di Usagi che si spingeva verso di lui, cercando di dar più piacere possibile. Ad ogni movimento, c'era una reazione che portava a controllare un equilibrio perfetto e delizioso. Correvano mani su un corpo ancora tutto da scoprire, volavano sospiri deliziati e sofferenti verso una meta sconosciuta per entrambi, sfregavano pelli che non si erano mai appartenute per davvero, ma che erano nate solo per potersi congiungere un giorno.
Aveva ragione Seiya: loro insieme funzionavano.
Su quel turbinio di ansimi e di movimenti profondi scendeva la notte, fondendo le stelle col tramontare del sole, e in quel groviglio di braccia e gambe si scorgeva solo un paio di occhi color cielo che scendevano in picchiata su un lago profondo e blu. Occhi lucidi e bramanti che raccontavano un tale dolore e un tale amore che nell'oscurità erano impareggiabili.
Quando entrambi si sciolsero in un dolce e frettoloso piacere, non ebbero alcun desiderio di allontanarsi e rimasero abbracciati senza dire una parola. Entrambi tremavano ancora e respiravano affannosamente. Avrebbero voluto dirsi chissà quali parole d'amore, chissà quali pensieri avrebbe voluto esternare, ma tutto venne inevitabilmente cancellato dal bacio che li unì. Un baciò che ebbe subito un seguito più intimo e corsero a fare l'amore ancora.
Fecero l'amore abbracciati e si guardarono per tutto il tempo negli occhi, tutto si svolse molto lentamente, torturando entrambi in un ridente contatto che sembrava portare all'apice in un secondo e nell'altro si spegneva, ma con la promessa invitante e affamata di dare ancora piacere. Poi il piacere arrivò ancora e fu più intenso per entrambi, tanto da farli cascare addormentati l'uno sopra all'altro, ancora sporchi dei loro umori e del loro amore.
Siete una macchina male assemblata, eppure una macchina che cammina.
Le parole di Seiya cullarono Usagi nel sonno, mentre si sentiva dolcemente amata dalle braccia di Mamoru. Quelle braccia erano la cosa più bella che potesse desiderare di avere, perché la issavano al cielo, ma al cielo dei suoi occhi finalmente.
Non doveva più saltare per poterlo raggiungere, adesso era Mamoru che le mostrava il suo cielo e la sorreggeva con le sue braccia.


A svegliarla fu il vibrare insistente del suo cellulare.
Aveva sognato tutto il tempo Mamoru che la salutava da lontano ed era morbidamente avvolto da una nebbiolina bianca e molto gradevole, ma non se ne spiegava il motivo. Forse, aveva così paura di perderlo che tutto si riversava nei suoi sogni.
Aprì gli occhi e con la mano cercò il corpo di Mamoru, ma non lo trovò. Si voltò e, trovare il vuoto accanto, le fece sentire un freddo inspiegabile, così corse a infilarsi qualcosa. Prima di andare a vedere la chiamata del suo cellulare, diede uno sguardo al cielo ed era nero e completamente cosparso di stelle lucenti.
Non ricordava di aver mai visto un cielo così maestoso, se non dentro lo sguardo di Mamoru.
Sorrise e ripensò a cosa aveva appena condiviso con quello che doveva essere il suo amore rinnegato. Avevano fatto l'amore. Nemmeno lei ci credeva.
Arrossì e si toccò il ventre, mentre sentiva una fitta profonda di imbarazzo.
Raggiunse il comodino e, invece di prendere il suo cellulare, afferrò un foglio di carta metodicamente piegato in quattro. Lo portò al naso e ne inspirò il dolce profumo che riconobbe subito come il profumo di Mamoru.
Lo aprì.

''Scusami se non mi troverai, quando ti sveglierai. Vengo a prenderti domani mattina e ti porterò a fare colazione, anzi voglio fare colazione con te tutte le mattine della mia vita. E' stato bello guardarti dormire.
Ti amo tantissimo, Usako.
Mamo''.



Usagi sorrise dolcemente ed ebbe il cuore colmo di gioia nel sapere che avrebbe fatto colazione con Mamoru e che avrebbe voluto farla ogni mattino con lei. Quel biglietto aveva il sapore della speranza. Si apriva davanti a lei una prospettiva colorata di pastello e non ci avrebbe rinunciato per nulla al mondo, perché era già innamorata di quel punto di vista a cui era stata lontana.
Chiuse il biglietto e lo poggiò sul suo petto, immergendosi in una dolce contemplazione dei suoi ultimi ricordi con Mamochan. Ma il vibrare petulante del suo cellulare la disturbò e finalmente rispose, profondamente infastidita dall'intrusione nei suoi ricordi, dato che ora ricordare non era più un problema.
''Pronto, Usagi? Finalmente mi rispondi!''.
Fu Rei ad aprirsi, mentre Usagi prese a tremare senza motivo. Forse fu il tono che la sua amica aveva usato a farle temere il peggio, ma decise di non dare ragione al suo istinto e sorrise.
«Dai, scusami. Sai, devo raccontarti un mucchio di cose...», cominciò.
Cercò di frenare i tremiti che la scuotevano, ma aveva insensatamente paura di ciò che stava per pararsi di fronte a lei. Sentiva qualcosa di strano attorno al suo corpo, come una delicata carezza sulle spalle.
''Oh, ascoltami. Adesso vestiti e raggiungimi''.
Usagi inclinò la testa e si domandò cosa stava accadendo a Rei.
«Rei, mi dici che ti succede?».
Il silenzio che sentì provenire dall'altra parte dell'interfono un po' la spaventò, ma dentro aveva una felicità così limpida che nulla avrebbe potuto inquinarla.
Inclinò la testa e diede tutto il tempo alla sua amica, mentre si perdeva con lo sguardo verso l'orizzonte ancora leggermente color arancio mentre si combinava dolcemente con il blu intenso della notte. Quel cielo era bellissimo: qualcosa lo aveva tinto di pastello.
''Usagi, so che, forse, non vorresti saperlo, ma Mamoru è tornato da Boston''.
Il tono incerto e a disagio di Rei la fece sentire molto più tranquilla, finalmente consapevole cosa voleva dirle tanto insistentemente. Il ritorno del suo Mamochan era stato sfiancante anche per Rei, dedusse con ironia.
«Lo so, Rei», rispose sicura. '
'Davvero?''.
«Ci siamo rivisti».
Rivisti? Oh, non era nulla in confronto a cosa era appena successo tra loro, ma Usagi non paragonava solo al fatto di aver fatto l'amore con l'unico uomo che avrebbe voluto per il resto della sua vita, ma anche al cambiamento sottile di Mamoru e al suo voler sgretolare lentamente quell'invincibile corazza.
Mamoru finalmente le aveva teso una mano e non l'aveva lasciata cadere, l'aveva sorretta anche se stavano cadendo rovinosamente verso l'inferno.
Adesso erano insieme, era un noi, e non un Usagi che ama Mamoru.
Il sospiro spezzato di Rei la impensierì, ma subito dopo sentì la sua voce ricongiungersi al dialogo.
''State insieme, vero?'', le chiese.
«Non lo so».
No, Usagi non sapeva ancora se erano una coppia, perché il loro modo di stare insieme era malato, per nulla normale. Così si ritrovò dubbiosa anche dopo aver attaccato con Rei, tanto da non trovare riposo tra le sue coperte.
Sbruffò sonoramente e si alzò dal letto, afferrando il biglietto di Mamoru che le ridonò un senso di pace per un secondo. Le parole che c'erano scritte e le promesse che erano state tacitamente sigillate quel pomeriggio volevano solo dire che, sì, erano una coppia. Una meravigliosa coppia.
Ma con Mamoru non si poteva mai dire; mille dubbi da snodare e uno appena risolto. Era un enigma continuo, un continuare di sofferenze e serenità fallaci.
Diede uno sguardo alla finestra e, sorprendendosi, trovò la figura alta di Mamoru che se ne stava appollaiato sul ramo dell'albero che era proprio vicino la sua stanza. Si spaventò e corse ad aprire la finestra, inclinando la testa dalla confusione.
Lui le rispose con un sorriso smagliante che fece invidia alle stelle e le porse un sacchetto marroncino da cui proveniva un'invitante profumo di cornetti caldi.
«Non ho resistito», disse. «Ti va una colazione adesso?».
Sembrava un bambino. Era un uomo felice finalmente e Usagi si commosse nel vedere quegli occhi così chiaro e puro, tanto da sentir il cielo fondersi alla sua pelle.
Usagi si spostò di poco e lo fece entrare nella sua stanza, sentendo il leggero fremito che aveva nelle braccia e nel cuore per poterlo abbracciare.
«Non è un po' presto?», lo canzonò.
Lui fece spallucce e la rapì in un abbraccio leggero, mentre in lei si districavano i mille dubbi da quei nodi aggrovigliati. Quell'abbraccio le ridonò la forza necessaria per qualsiasi cosa, la racchiuse in una corazza di diamante e di sicurezze. Finalmente era a casa, Usagi. Finalmente era al suo posto.
«Sono in ritardo di quasi due anni, Usako», mormorò a voce roca. «Non voglio perdere altro tempo».
Usagi sorrise impercettibilmente sul suo petto, finalmente felice di ciò che stava ascoltando e non erano solo per quelle parole che provenivano da quel cielo così vicino ormai. Stava anche ascoltando cosa la sua pelle le stava dicendo in quell'abbraccio ed erano mille suppliche sommesse di non lasciarlo andare mai più. Né in America, né da Galaxia. Doveva tenerlo lì con lei.
«Va bene», disse Usagi.
Si sedettero sul letto e iniziarono a mangiare lo stesso cornetto vuoto, sorridendosi complici.
Un morso Usagi e un morso Mamoru, mentre la stringeva in un abbraccio che non lasciava vie d'uscite.
Si stavano respirando, si stavano vivendo, si stavano amando.
«Sai di cosa ho voglia?», cominciò col dire Usagi.
Mamoru scosse la testa e la osservò, in attesa.
«Ecco, ti va di raccontarmi cosa hai fatto in questi sei mesi a Boston?».
Gli occhi di Usagi penetrarono quelli di Mamoru in quella disperata ricerca di vedere il cambiamento tanto bramato che le aveva promesso le stelle.
Mamoru le sorrise e annuì, incerto. «Da cosa posso cominciare?».
Il sorriso di Mamoru si fece lentamente più sincero e più aperto e cominciò a raccontarle una lunga storia, mentre dentro di lui si stava scatenando qualcosa, qualcosa che il cuore di Usagi leggeva con amore. E che la riempiva.
Usagi si stava colorando di Mamoru, un colore dal sapore di cielo. Quel cielo color pastello, un pastello tinto da una leggerissima luce azzurrina.
«Da te», mormorò Usagi. «Comincia da te, Mamochan».



In fine eccomi qui che calorosamente vi saluto. So di aver impiegato un anno per terminare questa storia e non è ancora finita per me, dato che la sto revisionando. Scusarmi per l'enorme ritardo di mesi credo che risulti scontato, perché chi mi segue sa che sono una ritardataria cronica, ma sono comunque felice di aver terminato questi tremendi undici capitoli. Quest'ultimo è stato particolare, perché differisce dalla realtà, ma sono soddisfatta di aver dato questo lieto fine al mio Mamochan e alla mia Usako. '
'Pastelli di luce'' è dedicato a tutti coloro che hanno amato tanto, a chi ha vissuto esperienze che hanno influito particolarmente nella loro vita, a chi ha provato dolore. A tutti.
E' dedicata a voi, ragazze. Forza, qualunque cosa si pari davanti, non vi scoraggiate e vivete al massimo e con il sorriso.


Volevo ringraziare con molto affetto il supporto di Daniela (Kitri) che mi ha revisionato questo ultimo capitolo, mi ha consigliata sulla vera vicenda e che si è dimostrata una persona molto cara e molto amica. I miei ringraziamenti vanno anche a Gabriella (Kim Nanà) autrice impeccabile e che considerò davvero una bella persona, oltre che speciale. Ringrazio anche Beppin79 che è stata la mia prima lettrice, Shelly 2010 che semplicemente adoro per il suo comportamento sempre positivo, Aryli, Cricri che è davvero simpaticissima, Emyname, Robiz, Leaf 81 e celtics. Ringrazio di cuore tutte coloro che hanno inserito la mia storia tra le seguite: aryli, ayame90, beppin79, Black_Isis, brescy, celtics, christin89, cuoricino289, DeepDerk, Emiemi, Faith 18, Fire Soul, Freegirl87, Frogvale91, Kim Nanà, Kitri, lalla5585, lyn81, Maryanto84, olga86, Pandora_2_Vertigo, QeenSerenity83, Quintessence, Ran_neechan, red85, sailor star light, sailorbu, sailorm, Seiya Kou Tsukino, Sereniti2783, Shike, Shining star 83, Strega_Morgana, taty, testolino buffo e windancer.
Un grazie enorme a tutti, GRAZIE DI CUORE.
E adesso spero di vero cuore di potermi dedicare completamente a ''Cappuccetto rosso e il cristallo d'argento'', una storia molto più leggera e che amo proprio per questa leggerezza.
Un bacione a tutti e alla prossima!
Belle!

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