21051

di Soqquadro04
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 21051 ***
Capitolo 2: *** 21051#2 ***



Capitolo 1
*** 21051 ***




21
051

Un’atrocità non è minore per il fatto che viene commessa in un laboratorio ed è chiamata ricerca medica: resta sempre un’atrocità.
George Bernard Shaw

 

21051.

È il numero con cui registrano gli sviluppi, in piedi vicino al tuo letto – oltretutto, un letto scomodo. Dovresti ricordarti di chiedere un cambio di materasso –, mentre ti iniettano qualcosa che, in teoria, dovrebbe essere sangue – la tua cena, forse –, ma che in pratica è quasi sicuramente un virus altamente pericoloso, o una nuova forma batteriologica o qualche altro esperimento da scienziati pazzi. Il che non è del tutto fuori luogo, visto che sei accerchiato da, pensa un po', scienziati pazzi, che ti fanno capire che, effettivamente, non sei altro che un esperimento.

21051 sei tu.

 

Hai sete.

La stanza non ha contorni, le pareti sfocate e la mente che non riesce a concentrarsi su molto altro – nulla, a essere sinceri – che non sia il fuoco che ti ustiona la gola, la bocca.

Hai sete.

Non ti danno del sangue, o qualcosa che ci somigli anche solo vagamente, da almeno cinque giorni – perlomeno sei abbastanza sicuro che siano cinque giorni.
Forse di più.

Dio, hai sete.

Non riesci a pensare – cos'altro c'era in quelle flebo? Cosa diavolo era?

Hai sete.

Ti slanci contro la figura che si sta avvicinando, vestita in camice bianco e guanti di lattice – odorano di sangue, lui odora di sangue – facendo gemere le molle vecchie e tendere le cinghie che ti legano – quando l'hanno fatto? Quando?

Hai sete.

Mentre snudi i denti, come un animale rabbioso – ma già troppo debole, troppo sfinito – , qualcuno fa un cenno che non riesci a vedere; non passa un secondo e la verbena ti sta bruciando le vene. Ti sembrano di carta, in questo momento, tanto secche e aride che basterebbe un niente a sbriciolarle.
Prima che il nero dell'oblio inghiotta del tutto il tuo campo visivo – no, diamine, devi restare sveglio. Sveglio – riesci a sentire un'annotazione fatta con voce monocorde, professionale.

«Il soggetto numero 21051 mostra aggressività. Nessuna diminuzione dell'istinto verso il sangue umano.»

 

Non sai quanto tempo è passato, o quante altre dosi di verbena ti hanno infilato in corpo, quando riesci ad aprire gli occhi – ad aprirli del tutto, cercando di contenere l'ondata di confusione.
Devi andartene.

Ora.

Sei sveglio – ma sei sveglio? – e avverti di nuovo la sete, e percepisci ogni singolo battito in tutto l'edificio, ogni più piccola deglutizione, ogni respiro.
Sollevi la testa, le narici dilatate, quando qualcuno attraversa il corridoio.
Vicino.

Strattoni le corde, ringhiando – ma non ti liberi, perché non ti liberi?

Senti la porta aprirsi – ce n'è solo una, sul muro di fondo. O forse era dall'altra parte? Non lo ricordi, e non riesci a vederlo – e i cardini cigolare e, Dio, ti scoppia la testa, la testa.

Un altro camice bianco si accosta al letto, controllando qualcosa in quelle maledette flebo.
Ti lanci di nuovo contro di lui, bloccato al materasso dalle cinghie.
L'altro è impassibile, come se non avessi fatto un gesto.

E poi l'orrore mentre realizzi che no, non l'hai fatto, quando quello studia per un attimo il tuo volto – vicino, troppo vicino. Senti il sangue scorrere sotto la pelle. Fai schioccare i denti, forse – e scuote il capo vedendo la furia e forse, forse anche la follia, per un attimo, nelle tue iridi, perché quella c'è, è l'unica cosa di cui sei sicuro.

Il camice bianco si allontana per poi tornare subito dopo, una siringa in mano – una siringa piena di un liquido rosso che non è sangue o, se lo è, è malato, ormai lo sai.

La consapevolezza che ti ha preso è orripilante – sei impotente. Stupidamente, inutilmente impotente. Ma l'istinto è più forte di qualsiasi ragionevole conclusione.

Ti dimeni, cerchi di morderlo, tenti di distruggerlo mentre la prepara e l'avvicina all'occhio destro.
E in realtà sei immobile, non urli neanche, non reagisci nemmeno – non puoi, non puoi – quando il dolore esplode e si dipana nel cervello e annienta ogni altra cosa.

«Il soggetto numero 21051 reagisce bene al sedativo; pare lucido, ma è completamente immobilizzato. Iniettato composto numero 248.»

 

Sangue.

Ovunque.

Non sai quanto è tuo, perché ne perdi troppo, troppo. Le ferite dei vampiri si rimarginano, ma queste sembrano non voler smettere di gettare liquido denso e rosso e scivoloso sul pavimento, rischiando di farti cadere perché non vedi bene, diamine, non riesci a concentrarti per più di qualche secondo. Sai solo che devi andartene, devi uscire da lì e correre, correre fino a che non saprai più nemmeno cosa significa correre.

E devi spegnere la sete.

Ti avventi contro uno dei camici bianchi. Urla – è lo stesso che ti ha distrutto gli occhi? Oppure un altro, magari quello che ha dato l'ordine di iniziare con la verbena? –, mentre i denti squarciano il velo sottile della pelle.

Qualcuno dietro di te prende un coltello, o forse un bisturi. Ne senti il tintinnio di ferro pesante contro il piano in metallo, la lama che cade di piatto subito riafferrata con dita troppo tremanti, mentre finisci di bere, i sensi acuti come non lo sono mai stati e l'istinto – devi andartene. Ora – che combatte contro il sapore dolce della vendetta.

Ti volti, ma sei troppo lento e il camice bianco riesce a graffiarti, ma dopo un secondo è morto anche lui e non c'è più nessuno e – sei libero – corri e sei fuori, sei fuori dopo un paio di corridoi – solo un paio di corridoi – sei fuori.

Ma non ti fermi e continui a correre senza guardarti indietro, senza sapere dove sei, dove devi andare.
Non importa.

Corri, Damon.
 

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N/A - Note dell'Autrice

Questa storia è stata un parto, ma avevo bisogno di scriverla, anche se volevo buttar giù qualcosa di allegro. Ma non riuscivo a smettere di pensare a... a questo. Perché è orribile, schifosamente orribile e mi fa sinceramente ribrezzo il sapere come gli "scienziati" di quel posto maledetto conducevano i loro esperimenti e avrei tanto, tanto preferito non saperlo.
Non è solo perché è Damon. O meglio, il novantanove virgola nove percento del tutto è per questo, sì, ma il restante zero virgola uno per cento è l'idea stessa di un vampiro - creature che, per quanto mitologiche e blablabla, amo più di molte altre cose al mondo da quando avevo circa sei anni e quella santa donna di mia madre mi fece vedere una puntata di Being Human -, uno qualsiasi, legato a un letto e costretto a venir studiato, analizzato e riprogrammato per sbranare i suoi simili come un cane rabbioso.
E' una cosa che mi fa veramente rabbia, oltre che provocarmi disgusto.
E poi è Stefan a parlare di stress post-traumatico (ho una voglia di mandarlo in quel posto e dirgli di non tornare mai più...)

Oltretutto, spero di reggere alle scene splatter che, a quanto mi è stato raccontato - mi rifiuto di guardare il promo. Mi rifiuto -, si prospettano la prossima volta (sono contenta che ci sia una settimana in più di mezzo, e credevo che non lo avrei mai detto), perché sono quasi certa che il tempo di vedere il primo flashback e parto per il Withmore College. Armata. 

Qualche spiegazione riguardo la roba qui sopra: siccome non abbiamo (io non ho, almeno) la minima idea di come sia arrivato nelle mani di quei pazzi la prima volta (anche se in tutta probabilità l'hanno, che so... verbenizzato, legato e portato dentro), io sono andata a sentimento e ho seguito la prima idea che mi è venuta in mente: che l'avessero reclutato, un po' come quando offrono denaro/nonsochealtro per esperimenti vari ed eventuali.
Anche se mi sembra alquanto stupido, bisogna anche ricordare che non mi sembra avesse granché da fare, oltre a girovagare, mangiare gente e etc. etc.
E invece, nell'ultimo pezzettino ho ipotizzato che si fosse liberato da solo, una volta finito l'effetto del sedativo, per poi scappare allegramente dopo aver decimato lo staff di pazzi - e qui c'è da dire che ho voluto darmi soddisfazione personale, anche.
In tutta probabilità sono andata OOC, ma capitemi: hanno aggiunto un pezzo del suo passato che non avrei mai, mai e poi mai immaginato, quando io, dopo "tanto" che ne scrivo mi ero fatta una certa idea, quindi al momento sono un po' sballata.
E non avendo il minimo indizio su come si è svolta la faccenda dell'incontro/prigionia/liberazione, non è stato proprio facile >.<

Mi sento come se avessi tenuto un discorso lungo una vita >.<
A presto,
la vostra Soqquadro

P.S. Spero che il rating Arancione sia abbastanza, ma non credo sia troppo, dopotutto

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Capitolo 2
*** 21051#2 ***




21
051


A un certo punto i ricordi diventano troppi per chiunque.
Dimenticare era solo un modo per ricordare.
Katharina Hagena – Il sapore dei semi di mela

 

Nei ricordi di ogni uomo ci sono certe cose che egli non svela a tutti, ma forse soltanto agli amici. Ce ne sono altre che non svelerà neppure agli amici, ma forse solo a se stesso, e comunque in gran segreto. Ma ve ne sono, infine, di quelle che l'uomo ha paura di svelare perfino a se stesso, e ogni uomo perbene accumula parecchie cose del genere.
Fëdor Dostoevskij

 

Il dolore è parte della vita. A volte è una parte grande, e a volte no, ma in entrambi i casi, è una parte del grande puzzle [...] Il dolore fa due cose: ti insegna, ti dice che sei vivo. Poi passa e ti lascia cambiato. E ti lascia più saggio, a volte. In alcuni casi ti lascia più forte. In entrambe le circostanze, il dolore lascia il segno, e tutto ciò che di importante potrà mai accadere nella tua vita lo comporterà in un modo o nell’altro.
Jim Butcher

 


Sei immobile, intrappolato, cieco e impotente.
Rumore di porte spalancate – sbattute, quasi scardinate –, e un grido di allarme soffocato da un colpo sordo.

Provi ad alzare la testa, ma è così difficile – troppo difficile, le membra così pesanti e il buio così fitto.

Poi, la voce di lei – la voce di Elena, acuta e spaventata, e tu vorresti così tanto riuscire a calmarla, riuscire a parlarle, riuscire a liberarti, mentre un principio di panico si fa strada nel tuo petto freddo con lunghe, striscianti, gelide dita e l'oscurità che ti impedisce di vedere sembra ridere di una risata cattiva e maliziosamente perfida. Ma sai che non è reale, che non importa, che l'unica cosa che importa davvero è che lei non può stare qui.

Sei tu che devi andartene, che devi raggiungerla, che devi trovare un modo.

Lei non può stare qui.

La prenderanno, e loro non possono prenderla.

Non puoi permettere che la prendano – che le facciano quello che hanno fatto a te, che la tocchino, che la sfiorino con le loro mani lorde di sangue.

Che la facciano impazzire.
Lentamente. Dolorosamente.

Li hai visti, gli altri, quando ancora riuscivi a pensare, quando ancora la prima dose di sedativo sembrava qualcosa d'innocuo, quando ancora sembrava tutto un gioco, un modo per passare qualche anno differente dai precedenti.
Li hai visti accartocciarsi su loro stessi come carta gettata nel fuoco, urlare e ringhiarsi addosso come bestie rabbiose – oppure morire in silenzio con gli occhi pieni di follia, mentre la siringa iniettava qualcosa di nuovo, qualcosa di
troppo.

E lei non è telei non può sopportarlo, lo sai, perché lei è troppo umana, lei non reggerebbe all'orrore e alla paura e alla sofferenza, lei non riuscirebbe mai a tirarsene fuori abbastanza in fretta da sopravvivere.

E quando grida sai che l'hanno presa, Dio, l'hanno presa e tu non ci vedi, tu non la vedi, ma non ha più importanza, non ha più importanza neanche la spossatezza innaturale e la confusione e i ricordi – che cosa importa più?

Devi salvarla – dovete andarvene, e correre come hai già corso, correre tanto che i brandelli del tempo non riusciranno a starvi dietro.
Gridi anche tu – gridi il suo nome, o credi di farlo.

Apri gli occhi, ma è ancora tutto, tutto nero.

 

Apri gli occhi.

E non è buio, non è nero – è bianco, un bianco sterile come la prima neve di dicembre, il bianco del viso dei cadaveri.

Sono lenzuola sulla pelle intorpidita, il soffitto e le pareti perfettamente intonacate, l'odore di cose – taglienti, sai che hanno un bordo dentellato e pericoloso. Sono lame – metalliche sporche di sangue fantasma, asettiche e mediche, che ti riempie le narici, e il senso di dejà-vu è così forte che ti chiedi – per un attimo, solo per un attimo, perché è tutto così confuso e sfocato e sembra cucito alla tua memoria con un filo troppo sottile – se tutto quello che ricordi – se quella corsa disperata, mentre scappavi, scappavi, scappavi, se gli anni passati a dimenticare, se Mystic Falls e Katherine e Stefan, ed Elena, e tutto quello che ne è seguito – non siano solo un'allucinazione. Solo un effetto collaterale.

Che anno è?

Poi la realtà si fa strada nella mente annebbiata dall'incubo, con la durezza cruda del risveglio – e l'unica cosa a cui riesci a pensare è che Elena non c'è, Elena è salva.

Ma ti hanno preso.

Augustine – no, non Augustine. Maxfield.
Non è Augustine.

Augustine dev'essere morto, ormai. Deve essere morto.
Ormai.

Il respiro si spezza in un valzer frenetico, gli occhi che scandagliano la stanza bianca – è la stessa, la stessa –, rapidi e tormentati di ricordi.

Immobile. Sei immobile.

Composto numero duecentoquarantotto, lo ricordi – ricordi che funziona, su di te.
Ricordi che aveva ucciso una delle tre donne, prima che vi separassero.

Sai che non servirà a niente – paladino delle cause perse, come al solito –, ma cerchi di strattonare le cinghie – sono ancora cinghie, di nuovo cinghie robuste che non sarebbero nulla, se solo potessi fare un gesto.

Ma non puoi farlo – sei immobile, immobile.

E rimani solo – solo, con i tuoi ricordi e il viso di lei marchiato a fuoco nelle retine.

Lei arriverà.
Ma tu non puoi lasciare che arrivi.

 

Altro sedativo, iniettato attraverso un qualche comando a distanza – nessuno ti ha raggiunto, nessuno di quei pazzi in camice bianco si avvicina al letto dell'instabile, rabbioso soggetto numero 21051.

Non sai più da quanto tempo sei legato, da quanto non ti bagni la bocca di sangue – sai che dev'essere almeno una settimana, lo senti nelle vene che, prosciugate, ti attraversano il corpo come sentieri di sabbia rovente, nella mente quasi febbricitante per la sete.

Non ti aiuta a pensare – ma non puoi permetterti di perdere la lucidità che già non hai più, perché devi andartene.

Devi andartene – prima che arrivino a cercare di salvarti.

Prima che si facciano intrappolare in quell'inferno, sprovveduti come cuccioli nel bosco del lupo – un rumore di sparo, e un lupo con gli occhi rossi e il pelo bianco, bianco come la morte, che ti raggiunge con passo famelico, i denti che digrignano bava e un ghigno soddisfatto a deformargli il viso.

Poi il lupo parla – parla in una lingua che senti di dover capire –, tu sbatti le palpebre e la realtà torna ad imporsi.

E non c'è nessun lupo.
Nessun lupo.

Solo un uomo dal camice immacolato che ti si avvicina, lento e calmo, con un bisturi in mano.

E sono solamente i tuoi occhi ad urlare.

 

Sei intrappolato, cieco e impotente.
Rumore di porte spalancate – sbattute, quasi scardinate –, e un grido di allarme soffocato da un colpo sordo.

Non ci fai caso – provi a non farci caso.
È così che comincia l'incubo – è così che prende forma ciò che ti terrorizza più di ogni altra cosa al mondo.

La sete non è il male peggiore – anche se brucia, anche se vorresti solamente sentire sangue scuro, denso, dolce che scende nella gola e placa l'arsura –, quando gli effetti collaterali attaccano l'area del cervello in cui risiede la paura.

Aspetti di sentire la voce di lei che grida, disperata e consapevole – ma non arriva.
Il tonfo di un corpo che cade, vetri infranti – cosa sta succedendo?

Apri gli occhi.

La porta bianca di quella stanza bianca è aperta – dà su un corridoio, ha sempre dato su un corridoio.

Ed Elena è vicino a te – no, lei non deve essere qui.

La prenderanno.

Ma è qui – col viso trasformato dall'orrore mentre, impietrita, cerca di capire come liberarti dalle corde, quale flebo distruggere per prima.

Non puoi parlare.
Non puoi dirle di andarsene.

E la osservi, inutile come un fantoccio di pezza, quando slaccia con dita incerte – ma veloci, incerte ma veloci. Sa – le prime fibbie, passando a quelle che ti stringono i fianchi.

Vattene. Vattene. Vattene.
Scappa, io me ne andrò. Scappa.

Sfila gli aghi dal tuo braccio, e una lacrima cade sulla tua pelle, bollente.

Ti guarda, e nel suo volto vedi il riflesso della tua paura – ti specchi nelle sue iridi, i lineamenti distorti dalla brama, dall'arsura, da quel panico che fai fatica ad esprimere, i tratti irrigiditi dal veleno.

Chiudi gli occhi, ed è tutto nero.
Poi li riapri – e il soffitto è bianco, i muri sono bianchi e non c'è nessuno, di fianco a te.

Sei sveglio.

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N/A - Note dell'Autrice

Non doveva esserci un seguito - era stato già abbastanza terribile da solo.
Non è serata, né giornata, né settimana... né mese.
"Bad day?"
"Bad century."

Tanto per dirla alla TVDiana.

E poi, perdonate il francesismo, gente, ho bisogno di cominciare una lunga sfilza d'insulti: fanculo tutta Mystic Falls, Elena e Stefan compresi – loro più di tutti, in realtà, perché per quanto mi riguarda, al diavolo qualsiasi tipo di prudenza e no, non me ne frega niente se dovessero anche far saltare in aria il college, devono irrompere in quel covo di pazzi furiosi e tirarlo fuori di lì prima che anche uno solo di quei mostri gli si avvicini con la punta di un bisturi. O che lo sfiori con qualunque parte del suo corpo indegno.

Diamine, dovevano impedire che ci finisse dentro, nemmeno ridursi a doverlo tirare fuori!
Per quel che mi riguarda, non avrei nulla in contrario a vedere o, ancora meglio, a passeggiare fra le prestigiosissime teste degli “scienziati”, infilzate su qualche bella picca nel cortile della pensione Salvatore. Anzi, probabilmente comincerei io il lavoro.

Credo di stare avendo un attacco di panico – non va bene, no ç_______________ç
E, ragazze, credo che voi mi capiate se al momento i segnalibri fatti in casa di mia madre sono il mio problema minore – qualcuna che può venire a spiegarglielo o a darmi man forte?

Rendiamoci conto che non riesco a dormire decentemente da almeno almeno martedì scorso – che è più o meno quando mi sono accorta che no, non ho mai avuto bisogno di questa pausa, perché ho paura e più tempo passa più la mia testa parte per la tangente e mi fa desiderare di trasformarmi in un essere privo di immaginazione fotografica.
Per il resto: nella storia qui sopra credo di essere andata un po' molto OOC, ma spero non sia troppo OOC.

Addio, vado a passare un'ennesima notte insonne
A presto ed istericamente vostra,
Soqquadro

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