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di gattapelosa
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Cavolo e acciughe ***
Capitolo 2: *** Rosso ***
Capitolo 3: *** Fenomenali poter cosmici ***
Capitolo 4: *** Io, come ero e come sono ***
Capitolo 5: *** Il coccodrillo che vendeva sogni ***



Capitolo 1
*** Cavolo e acciughe ***


Cavolo e acciughe
 
 
 
Non si sarebbe fatto mettere i piedi in testa: aveva ceduto troppo presto, le prime volte. Certo, se messo alle strette da una bella giovinetta tutta tette e sorrisi, cedere poteva essere facile, ma Biancaneve non era più tanto “giovinetta tutta tette e sorrisi”, quindi poteva anche farcela. Forse.
Però avrebbe insistito. Insomma, era un principe, giusto? E i principi non si facevano mettere i piedi in testa, i principi combattevano. Lui avrebbe combattuto.
Forte di grande energia, entrò in cucina. E ne uscì un attimo dopo.
Cavolo e acciughe.
Biancaneve incinta aveva le voglie più nauseantemente fetide del Reame, appestavano la casa e impuzzolentivano l’armatura di nonno Patrizio. Ora avrebbe dovuto lottare anche contro il fetore, ma ce l’avrebbe fatta, ne era sicuro. Prese un profondo respiro – aria buona! – ed entrò.
Biancaneve, al quarto parto, in tuta slavata e bigodini, aveva perso molto della candida fanciulla “più bella del reame”. Certo, se proprio doveva, in condizioni meno sgradevoli, sarebbe anche potuta tornare la dolce, delicata bellezza di un tempo, ma certe cose andavano affrontate al momento giusto. E comunque, Sua Maestà il Principe aveva altro a cui pensare.
— No. — disse, distraendo Biancaneve da cavolo e acciughe. — Ci ho pensato, e questa volta la risposta è no. Il nome del quarto figlio lo scelgo io.
Biancaneve pulì elegantemente le labbra con un tovagliolo, poi fissò mezza seccata quel pover’uomo di suo marito. Dieci anni di convivenza, e ancora non aveva capito chi portava le braghe, là dentro.
— Cosa c’è che non va nella mia proposta?
— Scherzi? Come puoi anche solo pensare di chiamare tuo figlio Mammolo?
Mammolo era un nome bellissimo, e che nessuno osasse dire il contrario. Ma Biancaneve non era tipo da imporre la propria volontà in forma diretta, bisognava girarci intorno, persuadere.
— Insomma. — continuò il principe, mezzo sconfortato dall’espressione freddamente elegante di sua moglie – Passi Dotto, almeno è di buon auspicio. Chiamare il secondogenito “Eolo” può anche andare, un colto richiamo alla mitologia greca. “Cucciola” per una bambina ci sta, anche se ne riparleremo fra qualche anno. Ma Mammolo? Cosa ti aspetti da lui, un attaccamento morboso alla sua mamma?
— Perché no?
— Ma allora perché non chiamarlo Pappolo, che almeno fai felice pure me?— Inclinazione della voce ed espressione ironica non sembravano aver sortito l’effetto voluto, però.
— Va bene, penso che anche Pappolo sia…
— Non dire altro.
Biancaneve incrociò le braccia al petto, seccata. Certe discussioni non andavano proprio affrontate, non con lei e, soprattutto, non con lei mentre mangiava cavoli e acciughe.
— E come vorresti chiamarlo, quindi?— chiese, perdendo il tono elegantemente distaccato. Suo maritò alzò il mento, gonfiò il petto e portò una mano al cuore, fiero.
— Patrizio Lodovico Percival III.
In risposta, Biancaneve sputò cavolo e acciughe dal naso. La sua risata fece vibrare pure la vecchia armatura di nonno Patrizio.
— Scherzi? Perché lo odi così tanto?
— Sei tu che vuoi chiamare tuo figlio Mammolo!
— Finiscila, non lo permetterò mai. E non mi faccio dare consigli da uno che di nome fa “Principe” e cognome “Azzurro”.
Principe trovava il suo nome bellissimo e le parole di Biancaneve lo ferivano nel profondo. Incassò il colpo in un sussulto scombussolato, occhi lucidi e labbra tremolanti, ma non era ancora disposto a lasciar perdere. Patrizio Lodovico Percival III andava difeso.
— Lui è anche mio figlio. — la voce un po’ bassa, ma sicura. Biancaneve sorrise.
— Lo so, e un giorno mi ringrazierai.— disse, alzandosi. — Voi cosa ne pensate?
Alle spalle di Principe, stavano buoni tre piccoli bimbi. Principe imprecò sottovoce: un conto era cercare di resistere allo charme di sua moglie, un conto al potere angelicamente persuasivo dei tre principini. Si sentiva solo, solo in un campo di battaglia. Ma questa volta non ci andava di mezzo alcun regno, alcun re, non aveva mille uomini da portare a casa, peggio: doveva difendere suo figlio dal nome “Mammolo”.
— Perché non ti piace Mammolo, papà?— chiese Dotto, avvicinandosi. — Non ti piacciono i nomi dei nani?
— Sono bellissimi, tesoro, ma non tutti.
— Dotto dice che avete discusso molto anche per il mio nome, è vero?— chiese Eolo, in un teatrale singhiozzo a lacrima sicura. 
— No, no piccolo mio!— Principe abbracciò il suo bellissimo, insospettabile bimbo. Avesse prestato più attenzione, avrebbe colto il sorrisetto compiaciuto e la strizzatina d’occhio a Biancaneve. — È solo che “Mammolo” sembra un po’ forzato. Non preferiresti chiamare il tuo fratellino come il nonno?
— Il nonno è morto, vuoi che muoia pure il mio fratellino?
— Il nonno è morto a ottantatré anni…
— Non voglio che muoia il mio fratellino!– pianse Cucciola, rannicchiandosi disperata in un angolo della cucina. A Principe cascarono le braccia: aveva sperato supporto almeno dalla sua piccola principessa.
— Oh, avanti! Sono disperato, non mi vedete?— Principe si buttò in ginocchio ai piedi di sua moglie. — Ti prego, ti supplico, non chiamarlo Mammolo.
Faceva pietà, ne era consapevole, ma la pietà non era propria di quella casa. Quattro paia d’occhi luccicavano di scintillante vittoria.
— È inutile, amore mio. — Biancaneve gli prese il volto tra le mani. — Proteggerò mio figlio da quel nome.
Principe non voleva che i suoi figli lo vedessero piangere, così mollò il colpo e si ritirò in camera. Non vide, ovviamente, i dolcetti con cui Biancaneve ricompensò i suoi piccoli traditori, né il sorriso smagliante sul volto bagnato di Cucciola.
— Sono stata brava, mamma?
— Bravissima. Siete stati tutti e tre perfetti. 
Dotto prese il bignè, compiaciuto. — Però il nome di papà non era male.
— Mammolo è meglio. — rispose Biancaneve.
— Mammolo è meglio. — confermò, col volto sporco di cacao.

 
 
 Bacheca dell'autrice

Questa storia non è stata scritta per attacco di genio, ma perché senza non avrei potuto accedere agli altri turni di un bellissimo contest, "
Diving into fairy tales…Walt Disney Contest". Non so scrivere comici. Spero solo non vi sia dispiaciuta troppo. 
 

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Capitolo 2
*** Rosso ***





Rosso





Avevo sempre classificato il rosso come simbolo negativo di esagerazione e irrealtà, perché il rosso era colore dell’amore, ma all’amore ancora non credevo. Era simbolo di violenza, come il sangue dei nemici caduti in guerre cui io avevo preso parte. Poi ho rivalutato tutto, perché i capelli rossi di Ariel non sapevano d’esagerazione, né di irrealtà.
Se solo l’avessi baciata prima, Ursula non avrebbe avuto modo di trascinarla negli abissi dei mari. Sarebbe rimasta con me, per sempre.
E ora mi accontentavo di passeggiare per il litorale, fin sopra gli scogli delle dighe più basse, sognando di scorgere tra le onde del mare il rossore dei suoi capelli.  
Mi lasciai cadere sull’ultimo scoglio, fissando l’acqua farsi scura al passaggio dei pesci, argentata per la luna. E poi, un lieve rossore di superficie.
Spalancai di colpo gli occhi, con quello sfarfallio nelle viscere a gridare “C’è!”. Lentamente emerse dall’acqua una fluida cascata rossa, coprente il volto morbido della bella sirena.
— Ariel— dissi, sconvolto. — Sei qui!
Mi si buttò tra le braccia, piangendo. Non emetteva suoni, come ricordavo dai suoi tre giorni in terra ferma, ma era bella come lo era sempre stata, morbida come avevo sempre sognato che fosse. Viva. Mia.
— Cosa è successo? Ti ha lasciato andare?
Lei, sorridendo, si sporse in avanti a baciarmi le labbra. Era morbida la sua bocca, morbida e salata. Si stese sul mio scoglio, con la pinna verde a ingombrare i movimenti. Tornò a baciarmi le labbra. Avrei voluto sorridere, piangere, farle tante domande, ma era quel calore a distrarmi, a farmi sognare.
— Ti amo— dissi, carezzandole la schiena, sfiorandole il reggiseno.
Poi furono le sue labbra a lasciarmi, per scivolare solo un po’ più giù, fin sopra il petto spoglio della camicia. Tracciavano lascive il contorno dei capezzoli, mordendo e leccando la pelle.
— Ariel…— sussurrai, eccitato. E lo ero sul serio, come la notte del nostro primo incontro, agitato da sogni erotici, e da quelli di tutte le notti successive.
Ariel se ne accorse: lasciò scivolare una mano fin sopra la patta dei pantaloni. Se in un primo momento ne rimasi sorpreso, poi, al tocco delicato della sua dolce mano, iniziai a gemere. Anche Ariel sospirò, mordendo un lembo di pelle e prendendo tra le mani la mia erezione. Esperta come nessuna sirena avrebbe mai potuto essere, mi fece sospirare, gemere e gridare fino all’estremo: inarcai la schiena e baciai Ariel con tutta la passione del momento. Poi lei posò le mani sporche sullo scoglio, sorrise felice, mimò un “Ti amo”.
— Ti amo anche io— risposi.
Allora mi addormentai.
 
Quando riaprii gli occhi faceva freddo, portavo pantaloni e camicia, l’acqua splendeva chiara, ma ero solo. Mi alzai di botto, gridando spaventato.
— Ariel!
Non volevo credere che fosse ancora là sotto, nelle mani di Ursula. Non volevo credere d’aver solo sognato, come tutte le altre volte. Allora sbottonai la camicia, pregando di trovarvi il morso dove la pelle era liscia.
— Ariel!— gridai ancora, e ancora non servì: Ariel non c’era più. Non sarebbe tornata.



Bacheca dell'autrice


Il parto peggiore della mia vita: 500 parole? Scherziamo? Intere frasi sono state cancellate o abbreviate da sinonimi rindondanti e infantili. Ecco perché non scrivo flashfic, no no. 

 

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Capitolo 3
*** Fenomenali poter cosmici ***






Fenomenali poteri cosmici
 
 







Tic-Toc
 

Tic-toc, fa l’orologio. E me lo sento dentro, il tic-toc beffardo di un tempo che scorre per tutti, non per me.
Tic-toc. Mi prendi in giro? Cosa me ne faccio io del tuo rintocco, se ogni istante che vola è pari al prossimo, uguale al precedente? Una schiavitù eterna, una vita fatta di buio, poi la luce del nuovo padrone, che ordina, ringrazia, scompare e di nuovo buio.
— Voglio l’immortalità— dice qualcuno. Sai cos’è l’immortalità? È la speranza di morire. Se potessi sognare sognerei la morte, il silenzio. Nella mia vita non esiste il silenzio, solo un unico rumore.
Tic-toc.

 



Libero e Mortale


​— Genio, che hai?— chiede Al. — Sto bene, è stata solo una piccola caduta.
Una piccola caduta, Al, e ti sei storto il braccio. Mezzo metro di troppo e addio la testa. Ma forse non è corretto parlare di cadute, meglio ampliare il discorso: incidenti, disgrazie, malattie. Voi morite, Al. 
E io finalmente capisco: non era la lampada a farmi soffrire, ma l’immortalità. Essere libero vuol dire conoscere e amare persone provenienti da tutto il mondo. Essere immortale vuol dire vederle morire una dopo l’altra, e non poterci fare proprio niente.








Bacheca dell'autrice

Hola! Eccomi tornata con questo nuovo, appasionante racconto! (Sì, certo...)
Come potete vedere le drabble sono due, e non centrano nulla l'una con l'altra. Perché ciò? Perché HO SBAGLIATO (depressione...)
No, okay, dovevo scrivere del Genio che si strugge per la sua immortalità nella lampada, e ho scritto del Genio che si strugge per la sua immortalità fuori dalla lampada. Mio Dio, che grande mente.
Il guaio? Preferisco di gran lunga quella sbagliata! Mi è dispiaciuto un casino, davvero, ma Tic-Toc è il miglior sostituto che ne sia venuto fuori. Non che mi dispiaccia, ma somma, dopo "Libero e Mortale" speravo in qualcosa di meglio...specialmente perché questo è il mio genere preferito.

Altra cosa che ho notato: vi ricordate la celeberrima frase del Genio (messa dalla sottoscritta come titolo al capitolo)? FENOMENALI POTERI COSMICI, in un minuscolo spazio vitale. 
Ho/abbiamo (per altre partecipanti al contest) scritto di FENOMENALI POTERI COSMICI, nel minuscolo spazio vitale della drabble. Che ironia.

Ah, e amo le drabble, sapete perché? Posso mettere la punteggiatura in maniera totalmente arbitraria! Tanto l'unica cosa che conta è il suono! Oh, che goduria. L'unico lato negativo è che non si può sforare con le parole, infatti qui ho dovuto abbreviare una frase da "è la speranza di poter morire" in " è la speranza di morire". Ma perché lo dico? Semplice! Ho voglia di parlare! 

E fu così che lasciai un commento più lungo del capitolo. 

 

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Capitolo 4
*** Io, come ero e come sono ***





Io, come ero e come sono




Me l’hanno detto un pomeriggio di gennaio, nel soggiorno di casa Moulier: “Tuo padre è morto, una malattia.” Era stata una giornata di sole, poi vennero la pioggia, il temporale, fulmini, saette e tanto dolore. E più io piangevo, più Lady Tremaine si faceva dura, fredda, soddisfatta, credo. Anastasia e Genoveffa s’appropriarono del soggiorno, sostituendo ai libri di papà le loro costosissime bambole. Vidi casa mia trasformarsi, dal chiarore di mura bianche, al tetro pervinca di Lady Tremaine; dal sole tra le finestre, alle fredde sbarre d’acciaio.
Il funerale fu cosa semplice, un carro funebre e qualche parente.
— Lui avrebbe voluto così— aveva detto lei. Falso. Papà amava le cerimonie, vi partecipava con grande entusiasmo, ne organizzava a bizzeffe, quest’ultima occasione avrebbe simboleggiato un addio importante.
La tristezza per Lady Tremaine durò giusto un paio d’ore: tempo di salutare i famigliari di lui, ringraziare il prete, abbracciare me. Poi fu la fine.
Improvvisamente mi ritrovai sola, privata dei bei vestiti, dei giocattoli, della camera privata. Lady Tremaine mi portò in soffitta, stretta per il braccio, con forza.
— Questo è posto per te!— gridò. Mi lanciò contro un paio di stracci, gridando e battendo il piede a terra. — Tu non sei niente, non sei più niente.
Presi a piangere, disperata. Strisciai nella sua direzione, cercando d’agguantare il bordo del vestito.
— Che fai, verme? Non osare toccarmi. Da ora in avanti, tu lavorerai per noi, farai quello che vogliamo noi, sarai la nostra schiava. Sono stata chiara?
— Annuii, distrutta. Lady Tremaine sbatté la porta e si allontanò.
E mentre stavo lì, sola a riflettere, finalmente compresi: papà non stava male. “Un malore improvviso” non conta, se non mi si rivela quale. Papà non poteva essere morto in questo modo, doveva essere successo qualcosa.
Mi lasciai scivolare nell’angolo più buio e scuro della soffitta, arrabbiata. Perché ora non valevo più nulla, e chi prima era niente, regnava. Non è vero, Lady Tremaine? Venni presa da questa improvvisa, orribile consapevolezza: papà era stato ucciso. Da chi? Io lo sapevo: da una donna, da quella stessa, orribile signora che papà aveva sposato dopo l’irrisolto omicidio di mia madre.
Strinsi le mani intorno ai miei capelli, pronta a strapparli. Poi però mi trattenni, meditando vendetta, cercando una maniera pulita per incastrare Lady Tremaine, portarla davanti alle autorità e vederla decapitata.
— Cenerentola!— sentii gridare. Fu come essere svegliata da una secchiata d’acqua gelida.
— Cenerentola, vieni subito qui!
Mi alzai, facendo strisciare i piedi per terra, scendendo le scale lentamente, molto lentamente.
— Cenerentola, muoviti!
Lady Tremaine, con le sue due detestabili figlie, mi aspettava ai piedi della scalinata. Aveva un volto duro, arcigno, nero di rabbia.
— Cenerentola, preparami subito del the.— disse. — Lo voglio pronto in salotto fra cinque minuti.
Io la guardai male, impuntando i piedi a terra e incrociando le braccia.
— No. — dissi.
Lei spalancò gli occhi, Anastasia e Genoveffa sorrisero.
— No?— chiese. — Hai detto no?

— Esattamente, no. Il the te lo puoi preparare da sola.  
Tutta questa nuova sicurezza – dovuta alla rabbia, sicuro – mi si ritorse contro. Non avevo notato lo straccio che Lady Tremaine reggeva tra le mani: mi venne incontro, nera più di prima, con il panno attorcigliato a mo’ di frusta.
— Chiedi scusa. — disse. Io non avrei mai chiesto scusa all’assassina di mio padre.
— L’hai voluto tu. — il primo colpo m’urtò il braccio, il secondo il collo, al terzo ero stesa sulle scale. Anastasia era tutta spaventata, guardava incredula sua madre, Genoveffa pareva estasiata: stringeva i pugni e incitava Lady Tremaine.
Il peggio lo si raggiunse quando mi colpì in bocca, facendo sanguinare la gengiva.
— Basta, mamma!— gridò Anastasia. Lady Tremaine, sorda alle mie preghiere, si dimostrò più accondiscente con la figlia. Smise di picchiarmi, mi guardò in faccia, poi parve quasi star per piangere.
— Preparami il the.— disse. — Lo aspetto in salotto. Ora.
Poi si allontanò, trascinando per un braccio Anastasia.
Ci vollero un paio di minuti perché trovassi la forza di rimettermi in equilibrio. Nessuno aveva mai osato picchiarmi, men che meno in casa mia.
Quando mi alzai strisciai i piedi fino alla cucina, vuota d’ogni domestico. Immaginai che Lady Tremaine avesse già provveduto a licenziarli. Ormai davo per scontato il mio nuovo ruolo: la serva, testimoniata da stracci, lividi e lacrime. Non avevo più una stanza, vivevo nella soffitta. Non avevo più nemmeno un papà.
Non ero mai stata altro che la figlia del padrone, servita e riverita come una principessa, non avevo idea di come si preparasse il the. Una volta però avevo visto una domestica accendere il camino, posarvi sopra una strana cosa da cucina piena d’acqua e scioglierci dentro una bustina color ocra. Papà aveva detto che quello era stato un ottimo the.  
Andai alla ricerca delle bustine. Non erano né sul tavolo, né sugli scaffali, né vicino al camino. Ispezionai la credenza, ma conteneva solo piatti, posate e tanti bicchieri; allora controllai i cassetti, pieni di tovaglie. Le bustine del the, scoprii poi, erano state nascoste in dispensa. Accendere il fuoco fu un’altra impresa, trovare il trepiede la terza sfida, in tutta ‘sta odissea mi ero pure bruciata la mano. Alla fine riuscii a posizionare la teiera – così si chiamava – sull’appoggio ferroso, lasciando che vi si sciogliesse dentro la bustina.
Ci volle qualche minuto prima che prendesse il colore del the, ed era troppo bollente perché l’assaggiassi, così decisi che avrei comunque potuto portarlo direttamente a Lady Tremaine. Se mai non gli fosse piaciuto al massimo mi avrebbe picchiata di nuovo.
Mentre preparavo il vassoio e cercavo le tazzine, comunque, pensai alla matrigna. L’ultima cosa che avrei voluto fare era servirla. Aveva ucciso mio padre, mi aveva picchiata, e io non riuscivo a far di meglio che accontentarla. L’avrei voluta morta. L’avrei ammazzata con le mie stesse mani. In realtà mi sarei accontentata anche di poco, per ora: le avrei messo polvere orticante nei vestiti, resina sui capelli, inchiostro nel cibo, l’avrei ustionata con il the. L’avrei ustionata con il the, sì.
Non sarebbe stato molto, ma è così che avevo intenzione di agire: non importava se mi avrebbe picchiata di nuovo, le avrei reso la vita un inferno, a lei e a quelle sue due mostruose creature. Dispetti, i dispetti di una bambina, e poi la condanna qualora ne avessi avuto la possibilità.
Finii di preparare il vassoio e mi diressi in soggiorno. Ero spinta dai peggiori istinti omicidi, e nel vedere la sagoma scura di Lady Tremaine – sola, ombrosa – davanti la finestra crebbe in me un profondo quanto motivato desiderio di rivalsa. Mi ci avvicinai in punta di piedi, il più silenziosamente possibile, rimuginando. Avrei potuto fingere di servirle il the e poi gettarglielo addosso.
Lady Tremaine si voltò di scatto, cogliendomi di sorpresa, e quasi persi di mano il vassoio. I suoi occhi erano piani d’odio, rossi come dopo il pianto. 
— Ci hai messo troppo tempo!— gridò. — Sei inutile, sei una bambina inutile!
Gonfiai il petto, orgogliosa, e mi ci avvicinai.
— Ora servimi il the.
— Con piacere. — risposi, sollevando la teiera. Fu molto appagante vedere il volto prima stupito, poi contratto dal dolore di Lady Tremaine quando le versai addosso il the. Gridò in un urlo disperato.
Aveva ucciso mio padre, continuavo a ripetermi. Sicuramente era stata lei, io lo sapevo, lo sentivo. Non c’era motivo per sentirsi in colpa. Eppure non fu solo dolore a inasprirle il volto, ma pura disperazione.
— Mostro!— gridò.— Mostro, sei un mostro!— e tentò di versarmi addosso quanto rimasto nella teiera, ma io mi allontanai in tempo, correndo via. Lei non demorse: mi inseguì per mezzo maniero, facendo spaventare il nuovo micio di famiglia – malefico Lucifero – finché non inciampai sulle pieghe di un tappeto e lei non riuscì ad agguantarmi per il braccio. Sapevo cosa sarebbe successo poi. Questa volta mi colpì subito al collo, sul naso, poi passò al petto e ai fianchi. Faceva male. Ogni frustata era agonia, odio, rabbia, ma non volli chiedere pietà: non le avrei permesso di vedermi sottomessa. Alla fine sbollì da sola, e vidi come piano piano i colpi si fecero meno irruenti, meno sicuri.
— Preparami del the. — disse. — E questa volta fallo bene.
Poi se ne andò, quasi correndo. Io non sanguinavo, ma avrei sofferto giorni e giorni il peso delle botte. Almeno l’orgoglio era intatto, e non sarebbe crollato: sarei andata a prepararle altro the e questa volta glielo avrei versato in testa.
A fatica riuscii a trascinarmi nelle cucine, preparare il tripode, la teiera e le bustine. Dovetti farmi forza per sistemare il vassoio, ordinare le tazze e camminare il linea retta fino al salone, dove Lady Tremaine ancora guardava fuori dalla finestra. Questa volta appoggiai il vassoio su di un tavolino nel corridoio, per sgranchirmi un po’ le braccia. Fu allora che vidi Lady Tremaine piangere.
Piangeva sul serio, abbracciata a una fotografia, e non sembrava più la tetra assassina di prima. La vedevo riflessa sul vetro, rossa in volto, con le braccia strette al petto e una cornice tra le mani. Che fosse sua madre? Un amante? Un figlio scomparso?
No. Lady Tremaine riposò la foto sul comodino e vi vidi raffigurato il viso sorridente di mio padre.
— Albert — disse, carezzandogli il volto. — Perché?
Ancora lacrime a inumidirle le gote. 
— Perché sei dovuto morire? Perché hai dovuto lasciarmi con quella bambina che è così simile a te? Perché mi hai lasciata sola?— si portò le mani al volto. — Perché sono così sola?— e questo lo disse con una tale disperazione, con un tale coinvolgimento che mi lasciai cadere a terra.
Lady Tremaine piangeva, e piangeva perché mio padre era morto.
Malattia.
Tuo padre è morto per un malanno improvviso.
Papà era morto per un malanno improvviso, e io non volevo accettarlo. Volevo che fosse stata lei, qualcuno da incolpare, un nemico da combattere.
— Perché sei dovuto morire?
Perché? Perché doveva essere così difficile?
— E perché Cenerentola deve avere il tuo stesso sorriso?
Perché mi aveva insegnato lui a sorridere.
— Perché deve avere la tua forza?
Perché volevo essere come lui.
— Perché deve sempre sfidarmi, come se tutto questo non fosse abbastanza?
Perché per me non era abbastanza. Io avevo bisogno di più. Avevo bisogno di lei.
Mi alzai a fatica, raccogliendo il vassoio ed entrando in salone. Lady Tremaine si bloccò di colpo, impaurita dalla possibilità che io avessi origliato. 
— Le ho preparato il the. — dissi, posando il vassoio sul tavolo. — E scusi per prima.
Lady Tremaine mi guardò meravigliata, per poi recuperare un’aria nobile, superiore.
— Impara la lezione, verme.
Io chinai il capo, annuendo. Allora le versai il the nella tazza, ci aggiunsi un po’ di zucchero e feci un mezzo inchino. Il suo sguardo non mollò mezzo mio movimento, i suoi occhi erano occhi di sfida, ma io non avrei accettato. Ancora per questa volta avrei potuto fare come voleva lei, accettare le sue condizioni, giusto per sentirmi un po’ meno in colpa. Sarei tornata la forte ragazza di un tempo più avanti, dopo essermi debitamente scusata, forse per un po’ – qualche giorno, qualche settimana – avrei potuto fare da domestica. Un giorno mio padre sarà solo un ricordo e io la donna che lui avrebbe tanto voluto vedermi diventare. Fino a quel giorno, pensai, sarò la figlia di una donna che mi odia, devo solo imparare a non odiare più lei.



Bacheca dell'autrice

Allora, la storia è stata scritta in pochissimo tempo e non ho avuto modo di rileggerla, spero non ci siano troppi errori grammaticali. 
A me Cenerentola non piace, sarò sincera, anche se da piccolina l'adoravo (non tanto quando Mulan o altre principesse più toste, sottolineiamolo). E ho pensato a un valido motivo per cui una persona dovrebbe essere così. So che Cenerentola fa da serva perché tanto buona e cara d'animo, ma io ho pensato di ribaltare un po' le carte in tavolo. 



 
 

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Capitolo 5
*** Il coccodrillo che vendeva sogni ***


 


Il coccodrillo che vendeva sogni 




Il Paese delle Meraviglie fa luce pure di notte, ma non ci sono stelle, né luna. Il Paese delle Meraviglie ha tanti cartelli e nessuna indicazione, tante persone e nessuno con cui parlare, tante cose spaventose, e niente che faccia veramente paura.

Il Paese delle Meraviglie è una vera meraviglia, sul serio, ma andarsene… andarsene è troppo difficile. E me ne rendo CONTO dopo ore di tormentato viavai, quando anche la fatica smette di farsi sentire - gira e rigira, torno sempre dove ho cominciato.
— Oh, ma è impossibile!— sbotto, lasciandomi scivolare su di un masso. — Non tornerò mai a casa.
Allora aspetto, perché se nel Paese delle Meraviglie dici qualcosa come “non tornerò mai a casa” e poi aspetti, qualcosa succede davvero. Passano cinque minuti e ci siamo ancora solo io, l’albero e il masso. Ne passano altri cinque e compare un uccello, che poi vola via. Ancora tre e mi rompo le scatole.
— Ma stiamo scherzando?— chiedo. — Mi avete fatto cantare con le margherite, nuotare in una bottiglia, bere con un leprotto il giorno del suo non-compleanno, e quando sono io che chiedo qualche stranezza, questa non arriva?
Risponde il vento, e sembra quasi che rida. Allora finalmente mi convinco che rimanere buona qui ad aspettare non porterà a niente; mi alzo e faccio un paio di passi verso il buio più buio del bosco. Poi sento un campanello. Dal buio più buio – che comunque è pieno di luce, perché siamo nel Paese delle Meraviglie – vedo barcollare un carrettino basso, legnoso e pieno di cose rotonde. Meno strano di tutto il resto, a trainare il carrettino c’è un coccodrillo.
Mi si avvicina pigramente, scampanellando, ma tanto i coccodrilli sono pigri di natura e non me ne stupisco affatto.
— Mi scusi!— grido, avvicinandomi. — Mi scusi, si fermi!
Il coccodrillo esce giusto un po’ dal buio più buio, ma pieno di luce, da cui viene. Ora noto che indossa un mantello color kaki e due bizzarre pantofole a forma di rana.
— Che strano. — sussurro.
— Che cosa è strano?
— Perché lei porta delle pantofole a forma di rana?— chiedo, indicando le ciabatte.
— Dicono porti fortuna. 
Annuisco, c’è da dire però che le rane non mi sono mai piaciute, e nemmeno i coccodrilli, tra l’altro. Comunque questa sembra una persona affidabile, meno bizzarra dello Stregatto.
— Senta, io vorrei chiederle un’indicazione.— dico allora —  Mi piacerebbe tanto poter TORNARE a casa, che strada devo prendere?
Il coccodrillo sembra sinceramente imbarazzato nell’abbassare il capo e grattarsi il dorso.
— Mi spiace, bambina, non ne ho idea. Non sono che un umile VENDITORE di sogni.
Per la prima volta presto caso alle bizzarre cose rotonde che porta sul carrettino basso e legnoso. Hanno tanti colori diversi, alcune sono più luminose di altre, o più grandi, o più tonde, e sembrano stanche di starsene ferme lì a far nulla.
— Questi sono sogni?— domando, prendendone uno tra le mani.
— Oh, sì! Sono i sogni più belli che ho, vuoi comprarli? 
— Mi farebbe molto piacere. — rispondo, dispiaciuta. — Ma non ho soldi.
Il coccodrillo se la ride di gusto, piegato in due. Non ho mai sentito ridere un coccodrillo, sembra un vecchio motore arrugginito, e non so se offendermi o ridere con lui.  
— Bambina mia, ma tu sei piena di soldi!— dice, asciugandosi una lacrima, perché i coccodrilli, quando ridono, piangono tanto.
— No, si sbaglia. — rispondo.
— Ma sì, ti vedo! Tu sei piena di soldi. Guarda, ce li hai pure sulla testa. — mi illude, quando sulla mia testa non c'è proprio nulla.
— Ho solo capelli.
— Appunto! Per una ciocca di capelli, posso regalarti il sogno di una tavola imbandita, con tacchino, aragosta, frutta, verdura, dolci e tanto miele.
Ma io non ho fame e rispondo di no, anche perché ci tengo ai miei capelli. Il coccodrillo però non si lascia abbattere.
— Ma allora prendili dalla bocca, i soldi.
— Ho solo i denti.
— Appunto!— grida ancora. — Due denti e ti REGALO il sogno di un fiore così profumato, ma così profumato che desidererai non sentire più altro odore.
Ma io non voglio sentire alcun profumo, e poi farei fatica a parlare, quindi rifiuto ancora l’affare. Il coccodrillo non si arrende: prende tra le mani un sogno giallo e luminoso, soffiandoci via la polvere. 
— Questo è il sogno di un uccello che vola. Te lo vendo per un paio di dita.
Ancora mi scuso e rifiuto l’offerta, perché vorrei tanto volare, ma ci tengo alle mie dita. Il coccodrillo ora esita un po’.
— E che ne dici del sogno di un bacio? Il bacio più bello e dolce di tutti? Te lo vendo per tre o quattro ciglia.
Ringrazio di cuore, ma ancora niente: a casa c’è chi mi riempie di baci senza che io debba loro nulla in cambio. Il coccodrillo ora è dispiaciuto e siede per terra, frugando tra le ceste del carretto, e quasi vorrei comprare da lui un sogno solo per farlo felice.
— Ho anche altri sogni. — dice a un certo punto. — Ma forse è meglio che mi dica tu cosa vorresti.
— Vorrei TORNARE a casa. — rispondo allora, in tutta onestà, ma il coccodrillo sospira.
— Io vendo sogni, non realtà. La realtà è molto lontana e molto crudele, i sogni sono vicini e piacciono a tutti, e se non piacciono possono sempre cambiare. Se mi mettessi a vendere realtà, nessuno comprerebbe mai niente.
— Io comprerei una strada per casa. — dico allora, incrociando le braccia.
— E con cosa me la compreresti, questa strada? Non bastano mica una ciocca di capelli, un paio di denti, qualche dito e tre o quattro ciglia. Guarda che la realtà costa caro.
— Non lo so, la comprerei con il mio cuore, penso.
Il coccodrillo allora annuisce, rimettendosi in piedi. Si spolvera un po’ il mantello color kaki, che ora è tutto sporco di terra e sogni. Quasi penso che finalmente sia disposto a vendermi la strada, che mette ancora mano alla cesta del carretto.
— Non voglio sogni, Signor Coccodrillo. — ribadisco.
— Lo so, bambina, ma io non vendo altro che sogni, se vuoi tornare a casa devi chiedere alla regina.
— La regina?— il coccodrillo scrolla le spalle, indifferente.
— Non ho mai visto la regina — dice poi. — Ma si vocifera sia una donna molto potente. Devi chiedere a lei.
— E dove la trovo?
— Chiedi allo Stregatto, lui sa sempre tutto. — io e lo Stregatto ci siamo già incontrati, a onor del vero, ma non mi è stato affatto utile: non sa come aiutarmi, né gliene importa. Però magari conosce la strada per il palazzo reale. 
— Grazie, Signor Coccodrillo, allora vado a cercare lo Stregatto. È stato un piacere incontrarla. — faccio un inchino e gli do le spalle, pronta a partire.
— No, aspetta!— mi richiama. — Non lo vuoi proprio comprare un sogno?
Vorrei dire che al mio corpo ci tengo e che non lo baratterò per un paio di sogni, ma ribattere è dura: il coccodrillo mi guarda implorante, quasi piangendo. Allora torno un po’ INDIETRO e chiedo, con voce educata:
— Qual è il sogno più economico che ha?
Il coccodrillo ora riflette, camminando su e giù. Poi s’illumina.
— Lo so!— grida, affondando il muso nella cesta. Ne tira fuori un sogno tanto piccolo da stare bene sulla punta di un dito. È tondo, fucsia e spento, come una biglia.
— Questo sogno — dice poi. — è il sogno di una lacrima. Cala sulla guancia di un bimbo, poi scompare. Nessuno ne sentirà mai la mancanza.
— Che sogno triste…
— Non è triste! La lacrima è stata contenta di esistere, anche solo per poco tempo. La lacrima è una lacrima felice. 
Lo prendo tra le mani, decisa a comprarlo; a contatto con la pelle si fa straordinariamente caldo.  
— Quanto costa il sogno di una lacrima?— chiedo.
— Solo un sorriso, bella bambina.
Annuisco, perché un sorriso credo di avercelo davvero. Frugando un po’ tra le tasche ne pesco uno, forse un po’ spiegazzato, ma sempre bellissimo.
— Questo va bene?
— È perfetto!— dice lui. — È il sorriso più carino che io abbia mai visto, grazie. La prossima volta che ci incontriamo ti porterò una strada, sarà una strada bellissima, con tante luci e tanti colori.
Forse non ci saremmo mai più visti, io e il coccodrillo, ma mi guardo bene dal dirlo. Ringrazio ancora una volta, faccio un piccolo inchino e mi allontano per il sentiero che porta all’albero dello Stregatto. Intanto, quasi distrattamente, stringo tra le mani il sogno della lacrima, chiedendomi cosa voglia dire davvero essere felici di esistere.







Bacheca dell'autrice

Prima avevo scritto questa favoletta in terza persona, ma era venuto fuori un lavoro troppo distaccato, quindi ho dovuto cambiare. Se ci sono tratti un po' bizzarri, probabilmente il motivo è questo.
In realtà la lingua italiana non mi entusiasma, ma l'idea che ho avuto l'adoro. *autocompiacimento: made on*
Speriamo bene! 

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