Russian Roulette

di _Rainy_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** 01. Sono una sua creatura ***
Capitolo 3: *** 02. Sono fiero di te ***
Capitolo 4: *** 03. Questo sei, e nient'altro ***
Capitolo 5: *** 04. La tua metà avrebbe dovuto essere bacata ***
Capitolo 6: *** 05. Porterò questo peso; per te ***
Capitolo 7: *** 06. Non osare più definirti mio amico ***
Capitolo 8: *** 07. Ma stavolta esse portavano solo rimorso ***
Capitolo 9: *** 08. Occhi che portavano il segno del tradimento ***
Capitolo 10: *** 09. Quelle anime da lui condannate ***
Capitolo 11: *** 10. Quel demone interiore che la divorava ***
Capitolo 12: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


N RUSSIAN ROULETTE N

Prologo

Il pub era poco affollato e le poche persone presenti non erano esattamente gli amici della domenica con cui sorseggiare una birra chiacchierando amabilmente e raccontandosi barzellette. Al massimo con loro si sarebbe potuta avere una simpatica scazzottata.

Erano tutti lì per un motivo: la convocazione. Dopo l’Incidente erano passati anni, e non si erano più rivisti, quando improvvisamente il loro ex capo li aveva convocati “alla vecchia maniera” per chissà cosa.
E ora erano tutti lì, a squadrarsi diffidenti l’uno con l’altro, intorno ad un tavolo di legno scuro.

D’un tratto la porta si spalancò e vi entrò lei: il capo. Lisci capelli neri, fisico perfetto, occhi di ghiaccio… Che altro serviva per riconoscere Heather? Agli occhi di molti era una ragazza qualunque, molto bella e forse un po’ competitiva, ma solo loro sapevano cos’era realmente…

- Buongiorno ragazzi, vedo che non siete cambiati di una virgola…

Si avvicinò al tavolo e vi posò al centro una rivoltella, semplice, con esattamente 11 proiettili che distribuì ai 10 ragazzi seduti intorno al tavolo; si tenne l’ultimo per sé. I ragazzi la guardarono straniti.

- Heather, cosa vuoi? Cosa significa questa rivoltella?
- Oh, assolutamente niente – Un ghigno attraversò la faccia della ragazza – A meno che non vogliate dare prova di coraggio…

Una ragazza bionda, seduta in fondo al tavolo sbottò:

- Heather avanti, chi credi di prendere in giro?! Cosa vuoi da noi, ancora?!

Un moto di approvazione percorse i ragazzi, Heather rimase impassibile.

- Oh, niente… Ho solo saputo che uno di voi mi ha tradito, anzi, più di uno… E’ a causa loro se siamo qui, con la nostra associazione sciolta e le nostre carriere a pezzi… Sono qui solo per fare un salto nel passato, come ai vecchi tempi e giocare al nostro gioco preferito… Ma stavolta davvero…

Tutti sussultarono. Un tipo dall’aria superba e menefreghista ridacchiò:

- Stai scherzando?! Perché dovremmo fare una cosa del genere con te?!
- Mio caro, perché non avete nulla da perdere! Consideratelo un gioco innocente… E non penso che a nessuno di voi dispiaccia lasciare questo mondo, d’altronde, a cosa rinuncerebbe? A letti caldi? A camerieri? Ne dubito… Quindi perché non giocare?

Il ragazzo la guardò, scettico e scrollò le spalle:
- Io ci sto, la considero una sorta di ricostruzione dei bei vecchi tempi, quando tutti sapevamo che il tamburo* era vuoto… Ma a quali condizioni?

Heather ghignò.
- Sapevo che ci saresti arrivato punk… Questo non sarà un gioco qualsiasi… Questo sarà IL gioco! Prima di premere il grilletto dovrete fare una confessione o raccontare un episodio della vostra vita, ma non un evento qualsiasi: qualcosa che scotti, che lasci tutti a bocca aperta… E poi sparare. Così vedremo se la vita vi vuole punire per i vostri peccati…

I ragazzi si guardarono l’un l’altro e qualcuno si mise a ridere.
- No, tu sei pazza: fuori discussione…

Heather ridacchiò:
- Avete paura, eh? Molto bene, me ne vado… - E fece per afferrare la rivoltella e voltare le spalle ai ragazzi quando un giovane dai lisci capelli neri si alzò e le rispose:

- Cos’era, una provocazione?! Ascolta, se vuoi fare questo gioco facciamolo, così poi chiudiamo con te per il resto della nostra vita, contenta?
- Ma quale coraggio, mio caro! Sapevo che dietro alla facciata da bravo ragazzo avevi anche il cuore di un leone… Ma basterà a sfuggire alla morte? Chi dunque gioca e chi no?

Nessuno scosse la testa.

- Molto bene, quindi, a chi tocca il primo giro?

Di nuovo nessuno si mosse. Heather ghignò:

- Bene, tiriamo a sorte allora… Che la più grande Roulette Russa della storia abbia inizio!


tamburo*: In questa ficcy, basata sul gioco della Roulette Russa (se non sapete cosa sia chiedete, ve lo spiegherò con piacere ;D), userò spesso il termine “tamburo”, che può sembrare strano o essere frainteso da chi non si intende di armi (perché magari non gli interessano eheh…), quindi, cos’è? Semplice, è il “posto” nelle rivoltelle dove si mettono i proiettili, poi lo si fa ruotare velocemente spingendolo e la pistola viene caricata… In realtà si potrebbe anche non farlo girare, ma nel gioco è d’obbligo, ovviamente… Spero di essere stata d’aiuto ^^




-PAUSA CIAMBELLE-
Si, lo so che ho altre due long in corso, ma questa sarà una shortina con 11/12 capitoli, facile facile, venuta fuori da una canzone di Rihanna (guarda caso Russian Roulette, eheh, che genio… No.) che metterà a nudo i nostri protagonisti sotto una luce più dark…
Woah! Sono emozionata *-*
Ok, mi dileguo, così potete liberarvi della mia presenza…
TUTTI: Aleeeee ^-^ Se ne va, yuppiiiiii!!
Sigh… Lo so… Ciauuuu e baciotti a tutti! Ditemi cosa pensate di questo prologo, le vostre aspettative e quello che pensate abbiano da dire i personaggi… Tutto! E lasciate correre la vostra fantasia *-*
_Rainy_
PS: Il rating potrebbe alzarsi ad arancione nel corso della vicenda, ma non so ancora... 

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Capitolo 2
*** 01. Sono una sua creatura ***


N SONO UNA TUA CREATURA N


… “Bene, tiriamo a sorte allora… Che la più grande Roulette Russa della storia abbia inizio!” …


Nessuno mosse un muscolo. Heather, sempre ghignando, lanciò in aria il proiettile, rimbalzò da un angolo all’altro del tavolo, fermandosi proprio davanti a… Alejandro!

- Oh, bene! Signor Burromuerto, voglia concederci l’onore di ascoltare uno dei suoi più grandi peccati… E non dimentichi il proiettile!

Alejandro la fissò:
- Molto bene chica, sei l’unica a divertirsi con questo macabro gioco, ma ti accontenterò… Successe tutto molto tempo fa, ero solo un adolescente…


- Hei Al, avanti costringi quella ragazza a baciarti, su!
- Oh andiamo José, non fare l’idiota, sai che non posso farlo, è solo una povera chica indifesa…

Lo schiaffo arrivò, potente, lasciando un segno rosso molto evidente sulla guancia del ragazzino, ma in fondo, era solo uno dei tanti… Il viso del ragazzino era ormai pieno di graffi e tumefazioni dall’aspetto atroce, ma che non tentava in alcun modo di cancellare, come segno tangibile del suo passato…

- Su, Al! Cosa ti costa?! Solo un bacio, anzi, magari qualcosa in più!

Il fratellino lo guardò inorridito:
- No José! Mai!

Un calcio stavolta, dritto sulla rotula, mentre un dolore lancinante gli urlava nel cervello di smetterla di farsi del male, di arrendersi alla violenza del fratello più grande, di fare ciò che José voleva, per poi essere lasciato in pace, per sempre…

- Su Al! Fai quello che puoi e io ti lascerò in pace, per sempre…
- … Ok, lo farò… Poi sarò lasciato in pace da te?

Una risata sprezzante e un cenno d’intesa, falso più che mai. 
Non era la prima volta che era costretto a fare cose brutte dal fratello: ferire, rubare, approfittarsi degli altri per compiacere il fratello, coprirlo… Nulla ormai aveva più peso: contava solo la pace che avrebbe raggiunto, uno stato mitico, che si sognava ogni volta che il suo viso si arricchiva di un nuovo livido violaceo e pulsante… 
E ogni volta era la stessa storia: il fratello che gli prometteva di lasciarlo in pace e poi puntualmente eccolo lì, a picchiarlo, di nuovo, per obbligarlo a dimostrargli il suo valore, come un vero uomo…

E così crebbe Alejandro: un bambino educato alla battaglia, allo scontro fisico, alla violenza anche psicologica, al bullismo, agli abusi, allo sfruttamento della bellezza per l’ottenimento di qualsiasi cosa… Un’infanzia triste, contornata da un padre tossicodipendente e una madre ricoverata in ospedale psichiatrico… 
Allenamenti militari duri, speranze vane di morire in guerra… La vita era stata sempre crudele con lui.

- Quando lo devo fare?
- Subito mio caro! Dimostrami se riesci a farti prestare il libro con i compiti eh? Ammaliala e rendimi felice, altrimenti… Sai cosa ti succede! Dritto dritto in lavatrice, mio caro…

Solo l’ultima delle torture inventate dal fratello: chiuderlo circa 30 secondi in una lavatrice e azionarla al massimo della potenza… Era terribile stare lì dentro, in uno spazio minuscolo con litri e litri d’acqua che continuamente sembravano sul punto di ucciderti… Ed era meglio se ti facevi piccolo e entravi nella lavatrice per poi uscirne senza urlare, altrimenti il giro era doppio o si allungava!

Rassegnato si diresse verso quella ragazza, neanche brutta: alta, snella, bionda, con grandi occhi verdi. 
Non sapeva chi fosse, ma era sicuro di averla affascinata, data l’insistenza con cui lo fissava, accompagnando gli sguardi con sorrisi e risatine idiote. 
Quando le fu sufficientemente vicino da poterla toccare la spinse contro il muro della scuola stringendo sui suoi fianchi magri e lentamente, come aveva imparato a fare per far arrendere la vittima a sé, consumandola nell’attesa di quel contatto tanto agognato, la baciò, premendo con forza sulle labbra di lei e insinuandovisi. Lei si abbandonò a quel contatto…

- Hei bellezza, io sono Al, come ti chiami?

Le sussurrò sulle labbra, ansimando, con una voce che sapeva essere adorata da moltissime ragazze: questa non era da meno.
- M-Mary… Ciao Al…

Si staccò leggermente per arrotolarsi una ciocca di capelli biondi intorno al dito, non più distante di tre centimetri dalle labbra di lei, che a tratti sfiorava, facendola impazzire di desiderio.

- Uh, che nome affascinante chica… Non è che magari mi presteresti il libro con i compiti? O magari posso venire da te a farli, comodamente steso sul letto, si intende…

Lei ridacchiò, svenevola:
- Oh, subito, te lo vado a prendere subito!

E se ne andò ancheggiando, convinta di fargli un qualche tipo di effetto. Allora José, che era sempre stato nascosto poco lontano, si avvicinò:
- Ottimo lavoro! Sono sicuro che te lo sta portando davvero… Tienitela buona, sarà utile!

Al annuì sconsolato: sarebbe stata una delle tante…

E se qualche volta una ragazza non cedeva o peggio ancora affermava di volergli dare i compiti solo in cambio di qualche favore “in natura” ? L’apocalisse. 
José lo picchiava, lo picchiava e lo picchiava ancora, e poi lo addestrava su come essere più sensuale e ammaliante, senza mai fargli un complimento e tirandogli occasionalmente pugni quando sbagliava qualcosa, cioè molto spesso a parer suo.

Tutto perché era geloso della bellezza indiscutibile del fratello minore, che volendo avrebbe voluto farsi strada nel cuore di qualsiasi donna in modo puro e sincero, non come lo stava obbligando a fare...
Inventava sempre nuove torture man mano che il fratello migliorava, in modo da ricordargli chi comandasse…

Fino alla sera decisiva…
Alejandro, ormai più adulto, era tornato a casa sapendo che il fratello avrebbe tentato di picchiarlo ancora, e rassegnandosi all’idea, ma qualcosa stava cambiando: aveva passato il test fisico per entrare in un’associazione segreta e non propriamente legale di traffico di qualsiasi materiale conosciuto.

Droga, Alcool, Informazioni, Segreti, Gadget ipertecnologici, Soldi riciclati… Tutto passava dalle sue mani, semplice spia che spesso era coinvolta in scontri armati come nei film di spionaggio.
Persino il governo americano a volte usufruiva di quell’organizzazione, in gran segreto…

Dopo mesi di duri allenamenti, prove di coraggio, astuzia e abilità, era tornato a casa con un piano, un piano che lo avrebbe riscattato.
Il fratello, subito, lo aveva interrogato, appena entrato:
- Sei in ritardo! Ho aspettato fin troppo che mi preparassi la cena, e sei tornato ora, il che vuol dire che non è ancora pronto nulla… Forza, vai a preparare e poi vieni qui e togliti camicia e cintura!
- Si José…

Aveva assunto un torno rassegnato, ma in verità dentro di se ghignava all’idea di quello che stava per fare…
Dispose del roast beef su un piatto con un coltello e riempì un bicchiere di acqua bollente… Aspettò qualche secondo, in modo da far finta di cucinare davvero e tornò in salotto, dove il fratello lo attendeva spaparanzato sul divano.

- Sei in ulteriore ritardo! Forza, girati e spogliati!

Alejandro ubbidiente si tolse la camicia e la cintura, e le porse al fratello.
Si puntellò sulle punte dei piedi per evitare di sentire troppo dolore e sopportò in silenzio…

Una frustata… Due frustate…

Segni rossi che si aggiungevano ai molti già presenti sulla schiena del latino, che non avevano tempo di cicatrizzarsi, dilaniati sempre da nuove ferite.

- E ora rivestiti e portami la cena: non sei un bello spettacolo!

Il fratello ghignò:
- Subito José!

A quella sottospecie di riverenza il fratello sembrò soddisfatto e lusingato, e sorrise amabilmente, o almeno finse che quel ghigno fosse qualcosa di amabile.
Alejandro si avvicinò, depose il roast beef sul tavolino davanti al fratello e afferrò il coltello. José, sghignazzando, rovesciò il tavolino con un calcio, frantumando il piatto e facendo finire a terra il roast beef:
- Preparalo di nuovo, verme!

Quando si passava agli insulti voleva dire che un pestaggio era imminente: ma non quella sera!
Al, ghignando crudelmente, prese il bicchiere d’acqua e lo tirò contro il fratello. Lo riempì di gioia vedere la sua espressione sbalordita e poi di dolore quando l’acqua bollente lo investì. 
Senza pensare lanciò il coltello, che descrisse una linea retta perfetta nell’aria e si piantò a fondo nel petto del fratello maggiore, che lo fissò, sbalordito e urlando maledizioni.
Alejandro sibilò:
- Sono una tua creatura!

Poi si voltò, chiamò l’ambulanza e se ne andò, per non tornare mai più…

In futuro spesso si sarebbe chiesto perché la sera del suo riscatto avesse chiamato l’ambulanza, ma la risposta era semplice: non poteva permettere a un tale bastardo come il fratello di morire semplicemente, no… Prima doveva scontare una lunga e dolorosa pena, riscatto di tutti gli anni di angherie che Al aveva dovuto sopportare…


- Uh, molto toccante Al! – Sghignazzò Heather.
- Gradirei se non mi chiamassi così chica! – Rispose lui, a testa bassa.
- Anche io… Al! – Ghignò nuovamente lei.

La bionda che aveva parlato per chiedere brutalmente ad Heather cosa volesse sibilò:
- Non capisco cosa ci trovi di divertente! Questo è il tuo teatrino e lo stai dirigendo con maestria, si, ma se pensi che cambierà qualcosa ti sbagli: non torneremo mai con te!

Heather tornò seria e la fissò:
- Oh, so benissimo che non tornerete mai!

I ragazzi sbuffarono, un po’ inquieti dopo quell’affermazione…

- Avanti Al, gioca! Non penserai che me ne sia dimenticata vero?! Ah! – E ridacchiò di nuovo, godendo di quel momento.

Alejandro afferrò la pistola. Una goccia di sudore gli scese lentamente sulla fronte. 
Inserì il proiettile nel tamburo, girò e spinse.
Clack.
La pistola era carica…

Un colpo…
La vita o la morte…

Se la puntò deciso alla tempia e chiudendo gli occhi sussurrò:
- Sono una sua creatura...
Frase rivolta più a se stesso che agli altri, come a voler giustificare la sua eventuale morte.

Sparò.

Riaprì gli occhi un istante dopo: non era morto…

- Oh, così ti sei salvato eh? La vita è stata generosa, si vede che hai compiuto anche delle buone azioni o che il tuo peccato era giustificato… Avanti, chi è il prossimo?

 

 

-ANGOLODELL’AUTRICECHEAMAILCORSIVO (NELCASONONSIFOSSENOTATO)-
Molto bene, direi che per quest’oggi di corsivo ne avete fin sopra le orecchie, quindi mi sbizzarrisco con il grassetto eheh ^^
Allora… Che ne dite? Questo era il primo chappy, dove vediamo un triste Al sottomesso alle angherie del fratello, ormai celeberrimo…
Non male no? Spero che la risposta sia positiva eheh “>3< (? Faccine non-sense)!
Vi lascio andare liberi :D Se volete recensite e ditemi cosa ne pensate ^_^
Byeee & Good Night!
_Rainy_

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Capitolo 3
*** 02. Sono fiero di te ***


N SONO FIERO DI TE N

- Avanti, chi è il prossimo?

Un cupo ghigno stampato sul volto: evidentemente si stava godendo ogni singolo momento:
- Preferite andare avanti alla cieca o usare un altro proiettile?

Nessuno rispose. La bruna scosse le spalle e lanciò in aria un altro proiettile, che si fermò al centro del tavolo, continuando a girare su se stesso, vorticando ed emettendo un breve ronzio che raggelò in sangue nelle vene dei partecipanti: un soffio delicato, insistente, come la morte…

Finalmente il proiettile si fermò, la punta arcuata esattamente su…Courtney.
L’ispanica trasalì.

- Oh bene, mis. Perfezione… Hai qualche oscuro segreto o preferisci sparare direttamente?

La diretta interessata sembrò disorientata. Heather ridacchiò:
- Avanti, di cosa hai paura? Non sei pronta per questo gioco? Non mi pare tu ti sia tirata indietro… Scegli! O rischiare subito o raccontare qualcosa…

Lentamente, con voce bassa e atona, Courtney cominciò a raccontare, mentre la sicurezza le veniva completamente meno e il colore defluiva dal suo volto…


- Signor Trevis, la prego non faccia così!
- Mi dispiace Jim, non possiamo concludere questo affare, sai anche tu che è troppo…
- Cosa?! Ma… Si tratta di qualche tonnellata di droga, non posso lasciarla in quel container o mercoledì con l’ispezione la troveranno…
- Non è un problema mio Jim, anzi… Ti sei cacciato in questo guaio da solo e da solo ne uscirai!
- Ti prego Logan! Insomma, sei un boss di grado inferiore ma hai molti contatti e non dovrebbe essere un problema per te piazzare quella roba!
- Infatti non lo sarebbe, ma tu mi chiedi di piazzarla tra gli uomini del mio capo e questo vuol dire che rischio la morte! Non se ne parla neanche…
- Nemmeno se…
- Se? Oh Jim, non tirare fuori quell’argomento!
- Andiamo!
- No, basta…

L’uomo, vestito con un elegante completo grigio dal taglio retrò, voltò le spalle a Jim e uscì sbattendo la porta. 
Jim, imprenditore e aspirante boss mafioso, piccolo e tarchiato con una zazzera di capelli grigio scuro, batté con rabbia i pugni sul tavolo:
- E’ solo colpa sua…

Fece qualche telefonata, prese il cappotto e uscì nella notte scura.

Arrivato in un pub abbastanza dimesso dall’arredamento lercio e vecchio ordinò una birra, poi un whisky e infine diversi super alcolici, nei quali affogò tutta la sua frustrazione.
Non si accorse quasi dell’uomo che gli si avvicinò, quatto, alle sue spalle:
- Jim O’Donnel?

L’interpellato alzò la testa di scatto, la mano corse alla pistola nella tasca interna della giacca.
- Oh, non c’è bisogno di essere così ansiosi! Sono Jack Freeman, voglio solo fare quattro chiacchiere…

Qualcosa scattò nel cervello di Jim: Jack Freeman… Ma certo! Jack detto l’Invisibile, un passato oscuro di violenza e droga alle spalle e un presente tutt’altro che rispettabile: era uno dei più rinomati sicari d’America, senza casa ne abitazione, ma residente in tutto il mondo. Un professionista che non veniva reclutato se non nelle occasioni più gravi, quindi che ci faceva lì?

- Salve Invisibile… - Cercò di stare calmo Jim. Jack ridacchiò:
- Oh per favore: non sono qui per ucciderti, quindi puoi darmi del tu… Voglio solo parlare di… Affari…

Jim trasalì: affari?!
- In che termini Jack?

Freeman ghignò:
- Bè, ho saputo che devi piazzare delle sostanze, a quanto pare… Un grosso carico, direi… E mi hanno anche detto che hai provato a rifilarle agli scagnozzi del capo… Giusto?
- Ehm… No, non so chi abbia messo in giro queste voci!
- Be’, chiunque l’abbia fatto deve essere molto ben informato… Anzi, direi che lo era eccezionalmente! Facciamo che tu mi versi ogni mese 5000 dollari e io non dico niente ai giornali se non addirittura a Daddy ok?

Daddy… La cosa si stava ingigantendo… Se l’avesse saputo lui, il Daddy, il grande boss di Manhattan… Sarebbe stata la fine per lui.
- Accetto… - Rispose, forse con troppa foga…

Jack ghignò:
- Molto bene, facciamo che per questo mese passi, ma dal prossimo… Li aspetto puntuali ogni 25 del mese, d’accordo? Andiamo, ti do anche un po’ di tempo per procurarteli! – Rise, infine, una risata glaciale e senza la traccia di divertimento o compassione.

Poi, silenziosamente com’era venuto, Jack l’Invisibile se ne andò. Jim sibilò, rabbioso:
- Quella puttana… Solo colpa sua!

Ubriaco fradicio e impaurito dalla minaccia di Jack corse a casa e appena entrato urlò, falsamente amabile:
- Ehilà, sono tornato! Dove sei pulcino mio?

<< Non uscire, non uscire >> Pensò la ragazzina. Bruna e con due grandi occhi marroni, la tredicenne Courtney O’Donnel era il sogno amoroso di molti ragazzi della sua scuola, di ogni età.

- Coraggio tesoro mio, sono triste anche oggi per la morte di Emily, ho bisogno che tu mi consoli…

<< Sta mentendo! >> Disse a se stessa, a voce bassa. Era acquattata sotto il letto, dove era corsa non appena aveva sentito la chiave girare nella toppa e il passo lento del padre in salotto, al piano inferiore.

- Andiamo Courtney! Non ti farò nulla!

<< Bugiardo! Proprio come ha fatto alla mamma… >> Calde lacrime si fecero strada fino a sgorgare, silenziose, solcando il volto della ragazza.

- Uff… Vuoi giocare a nascondino? Allora giochiamo!

Nessun pensiero: solo le orecchie che si tendevano ad ascoltare i passi del padre che lentamente salivano le scale...
Sarebbe di nuovo successo qualcosa di brutto, lo sapeva… 
D’un tratto le scarpe del padre si mossero davanti ai suoi occhi: eccolo che frugava nell’armadio, nei cassetti, nelle scatole…

- Ti sei nascosta bene eh, troietta… Molto bene, allora passiamo al gioco pesante…

Ogni traccia di falso amore sparita dalla sua voce. 
I piedi uscirono velocemente fuori dalla stanza e tornarono qualche secondo dopo…

<< Oh no… >> Ebbe solo il tempo di pensare anche qualche insulto, poi gli spari risuonarono nella stanza.

- Sei nei cassetti? Vediamo… 
Tre spari.
- Direi di no… Sei nelle scatole del bucato?
Due spari.
- Umm… Neanche qui… Forse nell’armadio?
Uno sparo. Due piedi che si portavano davanti al letto.
- Magari sei sotto il letto

<< E’ il momento: finalmente morirò… >> Pensò al volto giovane di sua madre, Emily, morta per le continue violenze del padre, aspettando il colpo di grazia e pregò fosse dritto al cuore o al cervello.

- Rischio di ucciderti così, però: no no, facciamo così!

Si spostò di lato e sparò. La ragazzina sentì un dolore lancinante al braccio e non ce la fece a non urlare. Il padre esultò, trionfante e la afferrò, tirandola fuori dal suo nascondiglio.

- Oh, ti sei fatta male? Mi dispiace tanto…
Osservò sua figlia piangere con finto interesse, poi sbuffò e la buttò a terra, tempestandola di calci.

- Sai cosa è successo oggi?!

Courtney non si mosse. Il padre ghignò, fuorioso:
- Ho chiesto se sai cosa è successo oggi!

La afferrò per il collo e la spinse contro il muro alzandola alla sua altezza. Courtney scosse la testa e Jim parve soddisfatto.
- Molto bene, allora te lo dico io: oggi mi ha contattato un sicario perché ha scoperto del traffico di droga che cercavo di piazzare e sai cosa mi ha detto? Mi ha detto che se non gli do 5000 dollari al mese spiffererà tutto al Daddy… Cazzo, sai cosa vuol dire?!

Courtney continuò a piangere, senza emettere alcun suono perché sapeva che avrebbe irritato il padre ancora di più…
- Vuol dire che io sono un uomo morto! Dove li trovi tutti quei soldi?! E’ tutta colpa tua, ragazzina bastarda! Né tua madre né io ti volevamo: sei stata una sorpresa quanto mai sgradita! E il giorno del tuo decimo compleanno, quando hai iniziato ad avere delle tue idee, sono cominciati i miei guai! E hai ucciso Emily!

Courtney alzò la testa e gli sputò del sangue in faccia:
- Non è vero! Emily è morta perché tu l’hai accoltellata pensando che ti stesse tradendo!

Il padre divenne paonazzo:
- Stai zitta, stai zitta!

E riprese a picchiarla, ferocemente, sfogando sull’esile corpo della figlia tutta la sua rabbia repressa.
Quando crollò a terra, esausto, Courtney non si mosse, sperando di morire per qualche infezione o commozione… Alla fine però, dato che la morte non sopraggiungeva, si alzò a fatica e chiamò un ambulanza bisbigliando solo il suo indirizzo.

DUE GIORNI DOPO 

- Sveglia Courtney, su!

Lentamente aprì gli occhi e vide il volto sorridente del padre:
- Non sei arrabbiata vero? Ma certo che no, in fondo sai quanto io ti voglia bene…

Era tutto tristemente bianco intorno a lei: il soffitto, gli strumenti, il pavimento… Persino suo padre sembrava avere la pelle lattea…
Aveva sicuramente qualcosa da dirle.

- Sai Courtney, quello che ti ho detto non lo pensavo davvero…

<< No, figuriamoci… E i calci che mi hai dato non erano intenzionali scommetto… >> Pensò tra sé e sé, sorridendogli amabile, come se fosse davvero interessata a lui e non solo intimorita.

- In ogni caso ho risolto la storia del ricatto, devi solo farmi un piccolissimo favore, anzi due…

Courtney trasalì: di male in peggio…
Il padre si chinò e le sussurrò all’orecchio:
- Prima di tutto se ci tieni alla tua integrità fisica non devi far parola con nessuno di quello che ti ho, giustamente, fatto e secondo… Domani vai da Jack l’Invisibile: preparati!

Sentì le lacrime pizzicarle gli occhi, ma si rifiutò di farle sgorgare liberamente come avrebbe voluto.
Era solo l’ultimo dei tristi risvegli in ospedale dove il padre dimostrava di essere interessato a lei e poi rimasti soli la minacciava… Ed era anche l’ultimo degli incontri che il padre le organizzava…

- IL GIORNO DOPO –

- Courtney sei pronta?!

Uscì velocemente dal bagno dandosi un’ultima occhiata allo specchio: capelli a caschetto marroni, appena lavati e profumati, vestitino azzurro a contrasto con la carnagione scura con una profonda scollatura e fin troppo corto… Il solito abbigliamento per fare colpo…

- Si, arrivo Jim…
- Andiamo, puoi chiamarmi per nome, sono tuo padre del resto no?
- Hai smesso di esserlo molti anni fa… - Sussurrò la figlia, senza farsi sentire.

Dopo un breve tragitto in macchina arrivarono ad un sudicio palazzo, dove il padre lasciò la figlia, che suonò a diversi campanelli prima di trovare quello giusto, dal quale una voce che velava ironia le rispose:
- Oh, buongiorno Courtney, entra entra…

Salì le scale e entrò in un appartamento pulitissimo e evidentemente usato molto poco, dove un uomo che riconobbe come Jack l’Invisibile (mostratole in una foto dal padre) la aspettava, sorridente. 
La spinse senza troppi indugi contro il muro, tenendola stretta per i fianchi e le sussurrò vicino all’orecchio:
- Sei ancora più carina di quanto tuo padre mi aveva assicurato, e stai certa che io sono esigente… Sarei anche disposto ad estinguere il suo debito in cambio di una tua visita ogni mese… Che brutta vita eh?

Dato che non sembrava volere una risposta, Courtney non rispose: se c’era una cosa che aveva imparato era che più li si assecondava, prima finiva.

- In effetti è proprio una vita terribile, hai mai pensato di prendere provvedimenti?

Provvedimenti…
Una parola che risuonava nelle orecchie di Courtney come un qualcosa di nuovo, ma atteso da tempo dai recessi del suo animo…
Provvedimenti… 
Sarebbe stata la soluzione a tutto? O si sarebbe pentita della sua scelta?

Si perse nei suoi pensieri mentre Jack si accingeva a spogliarla, con foga e passione…

UNA SETTIMANA DOPO –

L’altro capo del telefono tacque e Jim ghignò: la figlia l’aveva salvato di nuovo e Jack aveva estinto il suo debito per quel mese… 
Poi sarebbe bastata un’altra visita, e poi un’altra e un’altra ancora…
La sua coscienza gli mandava spesso dei segnali, ma lui li zittiva dicendo che era per colpa della figlia se erano cominciati i suoi guai: prima tutto andava meravigliosamente, poi lei aveva fatto quel maledetto compleanno ed erano cominciate le disgrazie, a partire dalla morte della madre…

Toc toc.

- Avanti!

Che strano: non stava aspettando nessuno! Forse era Jack? 
Un brivido freddo gli scese giù per la schiena…
Quando la porta si spalancò però si rilassò: era Courtney.

- Figlia mia! Hai fatto un ottimo lavoro, come sempre… Sei proprio portata per questo lavoro!

Rise da solo alla sua battuta, alla quale Courtney si unì, fingendo di non aver capito l’allusione.
- Papà, in effetti ti dovrei parlare…

Jim smise di ridacchiare e fissò la figlia con uno sguardo glaciale:
- No Courtney, niente droga, niente vacanze, niente motorino!

Courtney ghignò:
- In verità si tratta di qualcos’altro…

Tirò fuori da dietro la schiena un lungo coltello e con decisione si fece avanti, piantandolo nel petto del padre, spingendo con tutto il corpo.
Il padre le rivolse uno sguardo sbalordito e mentre il coltello gli trapassava il cuore finalmente comprese cosa aveva fatto in tutti quegli anni…
Si accasciò a terra, con Courtney che gli reggeva la testa con sguardo duro e ostile. Jim sospirò e sorrise, i denti ancora immacolati:
- Sono fiero di te! Hai finalmente reso giustizia a te stessa… Perdonami…

E detto questo spirò tra le braccia della figlia, che si era inginocchiata accanto a lui, scoppiando in lacrime, forse conscia di quello che aveva appena fatto.
Il grido disperato di aiuto, spinto dalla voglia di ricominciare con un padre che non c’era mai stato, non servì a nulla e quando l’ambulanza accorse, il padre era già morto…

Il resto è storia: la fuga dall’America e il ritorno molti anni dopo per essere reclutata…


- Umm… Non c’è che dire: sei sempre stata una dura… - Heather si leccò le labbra, evidentemente soddisfatta del racconto.

Courtney arrossì:
- Non vado fiera di quello che ho fatto…

La mora sbuffò e scrollò le spalle:
- E perché mai?! In fondo Dio solo sa cosa ti aveva costretto a fare e quali oscuri pensieri si annidavano nel suo cervello…
- Si, ma era mio padre… - Sussurrò Courtney.

Heather sbuffò di nuovo:
- Si, be’, le lacrime di una donzella con il cuore infranto non ci interessano e ormai il patricidio è compiuto, quindi non c’è niente da fare… Vogliamo procedere con la parte più ricca di suspense? Sarai punita o ti sarà concesso di vivere? Direi di scoprirlo, no?

Tutti i presenti fissavano l’ispanica, che afferrò tremante la rivoltella e con un movimento deciso, come ormai sapeva fare dopo anni di addestramento, girò il tamburo e spinse…

Tlack.

Carica.

- Andiamo, vediamo se ci lasci le penne o no! – Ridacchiò Heather…
- Oh insomma! – Sbuffò una ragazza bionda alla destra di Courtney.

La mora non sembrò udirla e fissò Courtney con desiderio, quasi aspettasse quel momento da una vita.

Un colpo…
La vita o la morte…

Se la puntò alla tempia, conservando quella fierezza che sempre l’aveva accompagnata negli anni.
- Papà, sto arrivando… - Sussurrò, sicura che fosse arrivata la sua ora.

Sparò.
Si accasciò sul tavolo e un giovane ragazzo si alzò in piedi, rovesciando la sedia e accorrendo al fianco della ragazza:
- Hei, Courtney… Sei viva? Stai bene?

Tutti i presenti trattennero il fiato, fino a quando l’ispanica si mosse e si tirò su:
- Sono ancora viva…

Ci furono sospiri di sollievo e uno sbuffo deluso da parte di Heather, che acclamava tragedie e giochi mortali.

- Uff… Sta diventando noioso! Possibile che abbiate tutti una fortuna così sfacciata?! Vediamo di ravvivare la serata…

Tutti i presenti volsero lo sguardo all’asiatica, che si beò di tutte quelle attenzioni, anche se in un momento così critico.

- Scusami papà… - Sussurrò Courtney, mentre Heather lanciava in mezzo al tavolo il terzo proiettile…

 

 

-ANGOLO DELL’AUTRICE-
Daiii, vi sta piacendo almeno un po’ questa raccolta *-* ?
A me si: ho scoperto che la sadicità è mia propria eheh ^._.^
Mi scuso per eventuali errori, e vi saluto con am… NO! HO UN’IMPORTANTE DOMANDA!
Dite che il rating va bene giallo o sarebbe meglio switcharlo (?) in arancione? Rispondete anche in messaggio privato, thanks ^^
Lasciatemi anche qualche recensione pleeease, ma so che lo farete… Vero? Vero? Vero? *faccia maniaca*
Molto bene, baciottoni a tuttiiiiiiiii :3
_Rainy_ ciambellosa (?)
PS. Craggy, se ma tornerai tra noi non ti preoccupare: questo mio amore per Courtney è momentaneo (durato solo il tempo di scrivere il chappy), e poi vedrai cosa succederà *-* 

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Capitolo 4
*** 03. Questo sei, e nient'altro ***


QUESTO SEI, E NIENT'ALTRO   N


- Scusami papà… - Sussurrò Courtney, mentre Heather lanciava in mezzo al tavolo il terzo proiettile…

Il proiettile disegnò un perfetto arco in aria e rimbalzò sul tavolo, fermandosi esattamente davanti a…

- Oh, bene, fai ancora la ribelle o giochi?

La bionda squadrò Heather e sbuffò:
- Io sono innocente, non ho peccati da raccontare e inoltre…

Tutti i presenti si guardarono gli uni gli altri, scettici, mentre Heather scoppiava a ridere senza ritegno:
- Oh, andiamo! Tu, innocente? Ma per favore! Eri una delle assassine più spietate della nostra organizzazione, quindi evita di fare affermazioni in cui non credi nemmeno tu… Avanti, sappiamo tutti che fine hanno fatto Joshua, Brian, Stephen…

Lindsay, perché era davanti a Lindsay che si era fermato il proiettile, trasalì:
- Okay… Vi racconterò tutto…

Heather sorrise, soddisfatta, e si mise in ascolto…

Si svegliò e con un gran sorriso si alzò dal letto.
Si sciacquò la faccia e fece colazione alla velocità della luce.
Poi poté dedicarsi al suo vero scopo nella vita: vestirsi.

Minigonna e top scollato o jeans strappati nei punti giusti e canotta?
Gioielli o sciarpa?

No, la sciarpa no: copriva la scollatura!

Vada per i gioielli allora, ma le scarpe?
Tacchi, ovvio, ma stivali o sandali?

Alla fine optò per i jeans chiari  e la canotta bianca e dei semplici sandali rossi con un filo di brillanti sul cinturino.

Uscì di casa disinvolta, vedendo arrivare in lontananza il suo fidanzato Joshua, con cui nelle ultime settimane si era lasciata e ri-fidanzata un paio di volte, intervallando i suoi baci morbidi e sensuali a quelli dei ragazzi più grandi, appassionati e più “esperti”.

Arrivò rombando in moto e frenò sgommando davanti alla bionda, che lo saluto con un sensuale bacio sulle labbra, mentre lui la fissava da dietro i ray ban scuri:
- Sei bellissima, te l’ha mai detto nessuno?

Lindsay gli sorrise e scosse la testa con fare infantile, un gesto che Joshua adorava:
- Vogliamo andare tesoro? – Chiese, allacciandosi ben stretta dietro di lui e accarezzandogli gli addominali attraverso la maglietta aderente e il cavallo dei pantaloni..

Lui inspirò bruscamente e partì a razzo.

L’aria le faceva volare i capelli provocandole un leggero fastidio, ma sapeva che quella sarebbe stata una giornata da non dimenticare…

Joshua entrò in volata nel cortile della scuola e scese dalla moto ficcandosi una sigaretta in boccca.
Fece un ironico inchino davanti alla fidanzata e un ampio gesto con la mano per invitarla a scendere. Lei sorrise, fredda, e scese tra gli sguardi adoranti dei ragazzi.

Si avviarono insieme nel grande atrio e lei si scostò con un gesto impaziente i capelli biondi per poi valutare la popolazione maschile della scuola: sempre gli stessi idioti, ma si potevano notare numerosi ragazzi carini con cui era stata, qualche sfigato che le aveva passato i compiti sperando in qualcosa di più e soprattutto Stephen, la sua nuova preda.

Era alto, con lisci capelli neri e occhi di ghiaccio, il classico bad boy misterioso che faceva morire le ragazze e aveva una lunga lista di cuori infranti alle spalle da far invidia a quella di Lindsay, ma insomma: ciascuno dei due voleva avere il privilegio di “vantare l’altro” nella propria lista delle conquiste e presto o tardi sarebbero gravitati l’uno verso l’altro come due palline in una boccia.

Era mollemente appoggiato ad una colonna, con una rossa avvinghiata a sé, ma non esitò a scostarla quando vide Lindsay fare il suo ingresso tra gli sguardi adoranti.
Lasciò la rossa e si diresse verso la bionda, salutandola:
- Buongiorno splendore!

Joshua divenne rosso in tempo record:
- Brutto figlio di puttana, stai lontano da lei! E’ mia, ok?

Lindsay ridacchiò sottovoce e Joshua le rivolse uno sguardo interrogativo, mentre Stephen se la rideva, capendo che finalmente era arrivato il momento di aggiornare la sua lista delle fidanzate avute..

- Mio caro Joshua, è già da un po’ che volevo parlarti di questa cosa, ma non mi sembrava il caso di preluderti il trattamento speciale di prima, in moto…

Il diretto interessato si irrigidì.

- Sai… Non sei quello giusto per me, definitivamente! Quindi addio, spero potremmo rimanere amici e…

Venne bloccata da Joshua che la prese per le spalle e la baciò con fare possessivo. Quando si staccò la fissò con uno sguardo da cucciolo bastonato e sussurrò:
- Vuoi rinunciare a questo? A tutti i nostri baci?

Lei ridacchiò e pulendosi il rossetto sbavato con un fazzolettino rispose:
- Assolutamente si, e fattelo dire: non erano ‘sta gran cosa! Addio!

E se ne andò ancheggiando, mentre Joshua fremeva di rabbia e disperazione e Stephen rideva sotto i baffi:
- Amico, cosa speravi? Che tenesse davvero a te? Ma sai di chi stiamo parlando?

Joshua ebbe un tremolo e sussurrò per poi progressivamente urlare:
- Non venire a fare lezioni a me, brutto stronzo! Da quanto cerchi di separarci, eh? Da quanto?

Poi caricò e tentò di sferrare un pugno allo stomato a Stephen che ridacchiando sibilò:
- No no, questo non lo dovevi fare razza di bambino viziato…

E in breve si era scatenata una rissa, alla quale poi si aggiunsero altri ragazzi in un caos indefinito attorniato da ragazze urlanti.
Lindsay in quel coro di strilli e grida di gioia faceva da regina, sentendosi la causa scatenante della rissa.

- DOPO LE LEZIONI –

- E quindi, ti stavo dicendo, è venuto a prendermi a casa mia anche oggi, ma l’ho mollato appena arrivati a scuola perché era così rozzo… Non aveva del portamento, dei modi… Parlava come uno scaricatore di porto e non era assolutamente conscio di come si vestiva, anche perché se lo fosse stato non avrebbe di certo abbinato certe cose!
- Infatti! Avevo cercato di dirtelo… - Cinguettò Megan, migliore amica di Lindsay.
- Esatto, non ci hai ascoltate… - Sottolineò Allyson, che da tempo cercava di surclassare Megar e diventare migliore amica di Lindsay, il che equivaleva ad una popolarità pressoché se si era nella cerchia della bionda.

Lindsay ridacchiò:
- Quanto sei patetica Allyson… Mi stavo solo divertendo!

Allyson ammutolì.
Lindsay Parker era la reginetta della scuola, un’ineguagliabile stronza che sapeva il fatto suo e comandava a bacchetta le ragazze per divertirsi con tutti i ragazzi che voleva. Si narrava che l’unico che non caduto nella sua tela fosse un certo Brian, che ormai era creduto gay.

- Ehm… Gentili signorine, potrei parlare un attimo con la qui presente Parker?

Tutto il gruppetto di fan adoranti o gelose di Lindsay si voltò e uno scintillante Stephen apparve davanti ai loro occhi, sorridendo. Quasi tutte si profusero in gridolini isterici, smaglianti sorrisi e camminate ondeggianti mentre lasciavano soli i due.
Lindsay lo guardò fingendosi distaccata, senza dire una parola.

Dopo qualche secondo lui sospirò, ghignò e la trascinò in un angolino appartato, avventandosi sulle sue labbra e divorandole con baci lunghi e possessivi.
Fu Lindsay a interrompere quel giochetto e a sistemarsi i capelli con un gesto che solitamente faceva impazzire i ragazzi (e Stephen non era da meno):
- E questo cosa vorrebbe dire?

Lui sorrise, amabile:
- Niente di particolare, ti va di metterti insieme a me?

Lei ci pensò su e alla fine inclinò la testa di lato rispondendo:
- Uh, vedremo… Ti dico qualcosa di sicuro domani, nel frattempo, bye bye!

E stampò un altro bacio sulle labbra di Stephen, andandosene ondeggiando.

- DUE GIORNI DOPO –

Erano ufficialmente fidanzati, ma non sarebbe durata.

Purtroppo però due giorni dopo il loro fidanzamento Stephen non poté venire a scuola e Lindsay decise di mollarlo con un sms di ghiaccio perché non soddisfava i suoi parametri di stile, simpatia e soprattutto doti sessuali e non.
Niente di particolare, e a lei non bastava qualcosa di ordinario.

 Era in un piccolo corridoio appartato in ristrutturazione (con barre di legno appoggiate ai muri e vetri sparsi per terra) e aveva detto alle sue amiche che le avrebbe raggiunge in centro perché doveva fermarsi a fare un corso di recupero; però era stato annullato, quindi aveva 30 minuti per tornare a casa con calma, rinnovarsi il look e poi uscire di nuovo.

Quindi si stava avviando all’uscita laterale che dava direttamente sulla fermata dell’autobus e si era fermata per mandare il fatidico messaggio a Stephen, con scritto chiaramente che era finita perché non erano “compatibili”, quando sentì una voce pungente e vagamente sprezzante alle sue spalle:
- Ti sei stancata anche di lui?

Si voltò lentamente, un bel sorriso stampato in volto e si trovò davanti esattamente chi sperava di incontrare: Brian.
Nonostante tutti i sospetti delle sue amiche lei era sicura che non fosse gay e che presto o tardi sarebbe stato attratto da lei, come tutti.

Morbidi ricci marroni, luminosi occhi verdi… Davvero un bel ragazzo. Ormai mancava solo lui alla sua collezione e poi avrebbe potuto anche cambiare scuola.

- O’Donnell, come mai da queste parti?

Brian lentamente uscì dall’angolo buio in cui si trovava e si diresse a grandi passi verso la ragazza:
- E tu Parker? Come mai tutta questa formalità?

Lei si esibì in un sorriso seducente e sospirò:
- Okay, Brian. Hai bisogno di qualcosa?
- Si, ho bisogno di te…

E lentamente aveva cominciato a baciarle il collo, sensuale, spingendola contro il muro e accarezzandole i fianchi.
Lei si era abbandonata a questo piacere intenso e tanto a lungo agognato, ma stranamente sentì una vera attrazione verso quel ragazzo così misterioso…

Normalmente non le sarebbe successo: nessun desiderio, nessuna passione, solo un bisogno di apparire migliore e irraggiungibile per molti, e invece eccola lì, a desiderare ardentemente che Brian non la laciasse…

- Hei Lindsay, sbaglio o hai qualcosa che non avevi con gli altri?

<< Non gli sfugge niente eh.. >> Pensò la ragazza. Dopodichè sorrise e rispose, fingendosi distaccata:
- Ehm… A cosa ti riferisci? Non penso, sai, ho avuto così tanti ragazzi che probabilmente non so a cosa tu ti stia riferendo…

Okay, una frase un po’ azzardata, ma ormai aveva una reputazione a cui attenersi…
Brian scosse le spalle e riprese a baciarla, sussurrando:
- Non lo so, mi sembra quasi che ti piaccia…

Lindsay gemette involontariamente e capì di aver commesso un errore, infatti Brian non tardò a fissarla negli occhi e ghignare:
- Aha! Con gli altri non ti avevo mai sentito gemere… Molto bene mia cara Parker, allora…

E con forza premette le proprie labbra sulle sue, assaporandone ogni centimetro. Poi si staccò e sorrise:
- Bene, posso tornarmene a casa…

Si allontanò e diede le spalle alla ragazza, incamminandosi. Lei lo rincorse e lo fermò:
- Scusa, cosa voleva dire quel gesto?!

Lui ghignò di nuovo e per la prima volta la ragazza vide tutto l’odio che si celava in quelle pupille nere come la pece:
- Oh nulla, non mi voglio mettere con te, ma ho notato come mi guardavi e ho lasciato crescere dentro di te questo desiderio… E ora eccoci qui: ti farò consumare dal primo vero amore che tu abbia mai provato, così da imparare cosa si prova, troietta.

La bionda impallidì e balbettò:
- P-Perché?!
- Perché? Ma ovvio! – Rise lui, poi ridusse gli occhi a due fessure e le rivolse un’occhiata glaciale – Perché dovevi lasciar stare il mio fratellino! Tutti, ma non lui: hai spezzato un cuore di troppo!

Vista l’espressione confusa della ragazza proseguì:
- Non sai di chi parli? Ma di Joshua, ovvio! Solo che non abbiamo lo stesso padre e quindi neanche lo stesso cognome, ora scusa, ma mi devo vedere con la mia ragazza, ci si vede!

E lentamente le diede le spalle, andandosene.
Lindsay rimase sola e si sentì vuota, tradita e illusa, mentre la bruciante verità di essersi comportata da vera stronza si abbatteva su di lei.

- Non ti preoccupare, mio fratello esagera… O forse no…
Anche Joshua emerse dall’ombra e senza troppe cerimonie spinse la ragazza nuovamente contro il muro, insinuando le sue dita sotto la stretta maglietta.

- Ahia!
- Ah, adesso ti faccio male brutta stronza? Stai zolo zitta! Tu sei mia, ok? MIA! Non dovevi fare altro che stare con me e invece no, non eri soddisfatta e mi chiedo se tu lo sia mai stata! E ora viene fuori che ti sei invaghita del mio fratellastro? Assolutamente no! Quindi taci soltanto! Una troia, questo sei, e nient’altro…

Presa da un attimo di paura afferrò una lunga sbarra di legno alla sua sinistra e senza esitare la abbatté su Joshua, che la fissò sbalordito prima di accasciarsi a terra.

Un rivolo di sangue schizzò dalla nuca di Joshua quando toccò il pavimento freddo.
Rimane immobile, a occhi spalancati.

- Joshua? Joshua cazzo! – Sentì calde lacrime inumidirle gli occhi e corse fuori, avendo l’intelligenza di non abbandonare l’arma lì…

L’arma…
L’arma del delitto…


- Eri proprio una troietta da giovane e…
- TACI! – Urlò Lindsay – Non mi ha obbligato nessuno ha raccontarti di come uccisi la mia prima vittima, quindi evita di giudicare sottospecie di diavolo senza cuore!

Heather scoppiò a ridere e indicò ghignando la rivoltella appoggiata sul tavolo.

Lindsay la afferrò, la caricò e se la puntò alla tempia.
Fece scorrere lo sguardo su tutti e presenti e mentre premeva il grilletto sorrise:
- Dite a mia sorella che le ho voluto bene…

Un colpo.
La vita o la morte.

Clack.

Sgranò gli occhi e sorrise.

Tutti tirarono un sospiro di sollievo, rassicurati.

Poi però…
Un rivolo rosso scuro colò dalla tempia della bionda al collo, gocciolando sui vestiti e imbrattando la scollatura.

Morì con un sorriso sincero stampato in faccia, con la consapevolezza di essersi meritata di morire e di poter finalmente raggiungere la pace espiando un peccato che la tormentava da tutta la vita.

Heather dopo un primo momento di silenzio ridacchiò sotto i baffi, sadicamente soddisfatta:
- Bene, era ora no? La serata cominciava a diventare noiosa, giusto? – Però si ricompose, delusa, dato che nessuno sembrava condividere il suo pensiero.

Un giovane punk ringhiò:
- Hai finito con i tuoi divertimenti sadici? E’ morta cazzo!
- Be’, non è una grande perdita… - Battè le mani e in fretta un inserviente del pub ormai deserto venne a rimuovere il cadavere.

- Cosa?! – Sibilò una gotica.

Heather annuì:
- Si, ho scelto la location apposta per incidenti… Come questo. – Si godette le espressioni confuse dei suoi ex colleghi, poi riprese – Molto bene, tanto non potete tirarvi indietro, quindi chi è il prossimo?

 

 

-ANGOLO DELL’AUTRICE SCLERATA-
Rieccoci :3
E con questa ho aggiornato tutte le mie serie Atuttorealitose, che brava che sono ^^
*TUTTI: Hai finito? Molto  bene, grazie.*
Che ne dite?
Un passato problematico per tutti e ecco la prima morte… Lindsay…
Un personaggio spesso non considerato nel mondo delle ficcy (si, mi riferisco alle innumerevoli e praticamente sole DxC/DxG/Crack presenti :c), ma ho preferito cominciare con una morte che non vi segnasse particolarmente… Purtroppo ce ne saranno altre… O forse no? Chissà u.u
Ditemi cosa ne pensate nel frattempo, byeee!
Baciottoni e ciambelle a tutti u.u
_Rainy_

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Capitolo 5
*** 04. La tua metà avrebbe dovuto essere bacata ***


N LA TUA META' AVREBBE DOVUTO ESSERE BACATA N 

- … Tanto non potete tirarvi indietro, quindi chi è il prossimo? –

Una frase sussurrata con cattiveria che andava d’accordo con il lampo di piacere che le aveva attraversato gli occhi quando gli inservienti avevano portato via il corpo senza vita di Lindsay.

Il proiettile disegnava archi perfetti in aria, rimbalzando sul tavolo e correndo da una parte all’altra in voluttuose traiettorie arcuate.
Rimbalzò contro un bicchiere e cadde a terra, puntando esattamente contro… Katie.

- Aha! Uno dei personaggi più innocenti del nostro team, svelaci i tuoi segreti, su!

La pelle dell’interpellata di tinse visibilmente di rosso:
- Ehm… Io… Non ho segreti da confessarvi…

Una risatina serpeggio tra i presenti e un punk prese la parola:
- Si, va be’, okay che hai un’aria innocente, ma la metà di noi sa…

La ragazza impallidì e annuì con foga, soffocando una risatina nervosa:
- Ah, si, okay, racconterò… Sappiate che è successo prima che entrassi nel nostro dipartimento di spionag…
- SHHH! – Le urlò Heather, visibilmente furiosa per essersi lasciata quasi sfuggire il loro segreto.

Una biondina ridacchiò:
- Cos’è? Non vuoi che si sappia? Tanto quando usciremo di qua potremmo dirlo a tutti…
- No, non lo farete, perché, come vi ho già detto, non uscirete di qua. – Ghignò la mora – Ma ora, prego Katie, illustraci il tuo più grande peccato!

La ragazza prese un bel respiro e annuì…


- 7 ANNI PRIMA –

Una ragazza grassoccia, ma non troppo carina uscì di casa, decisa a fare la proposta più importante della sua vita alla persona più importante della sua vita con cui aveva condiviso le cose più importanti della sua vita.

Un avvenimento da non prendere sottogamba, insomma.
Doveva essere tutto perfetto: aveva programmato quel giorno con cura…

Aveva pregato questa persona di indossare i vestiti che lei stessa le aveva regalato, insistendo anche perché pettinasse i capelli in un certo modo.

Erano due persone diverse, ma si completavano a vicenda e lei sapeva che la voleva con se per il resto della sua vita.

Contò i passi fino a casa sua, anche se ormai conosceva perfettamente quel numero: 8. Come gli anni che avevano passato insieme, come il giorno in cui si erano conosciute, come i chili che le aveva fatto perdere con un appoggio costante, come il loro numero fortunato…

A lei piaceva pensare che l’otto fosse anche il simbolo dell’infinito e non trovava nulla di più appropriato per descrivere loro due.

Li separavano solo 8 passi, ma quel giorno erano una distanza enorme e allo stesso tempo troppo breve.

Suonò il campanello decisa a mettere fine all’ansia che la stava divorando, ma quando la persona dei suoi sogni aprì la porta tutte le parole che si era prefissata di dire, tutto l’ordinato discorso che si era preparata svanirono il gola…

Le gettò le braccia al collo, investendola con un fiume di parole:
- Oddio ciao! Come stai? Bene? Si? Menomale, dai. Allora ti devo assolutamente parlare, quindi ascoltami senza dire nulla fino a quando non avrò finito. Hai capito? Si? Molto bene, vuoi venire da me? Ho sete… Posso andare in bagno? Si, sono un po’ agitata, si nota tanto? No? Meglio così!

- Hei! Zitta! – Ridacchiò l’altra, districandosi dal suo abbraccio. – Anche io ti devo parlare Sadie…

Sadie osservò l’amica fidata: alta, magra, mora e molto carina, anche se non sapeva di esserlo e non si rendeva conto di quanti ragazzi fossero interessati a lei, ma che ci voleva fare?

- Oh, okay, prima tu… - Sussurrò Sadie.
- Oh no, prima tu! – Ribattè Katie.
- Dai, non tenermi sulle spine, non parlerò se non lo fai prima tu! – Ridacchiò Sadie.
- No! – E si chiuse in un ostinato silenzio, fingendo di essere offesa.

Sadie si mise a saltellarle intorno:
- No, dai, avanti, non fare così! Oh, uffa, okay, parlerò prima io… Ma sei crudele!

Katie sorrise, con aria di trionfo e la fece entrare. La guidò in camera sua e si sedette sul letto, scomparendo un attimo per poi tornare alla velocità della luce con the e pasticcini:
- Allora? Parla! – La esortò, sorridendo.

Sadie annuì, inspirò ed espirò, chiuse gli occhi e attaccò:
- Okay allora, ascolta… Oggi è l’8 aprile e esattamente 8 anni fa io e te ci siamo conosciute, ricordi? – Katie annuì – Ecco, questi 8 anni sono stati i migliori anni della mia vita, io credo di non aver mai conosciuto una persona come te. Hai sostituito la mia famiglia quando non c’era, mi hai consolato quando Justin mi ha lasciata, ho perso peso grazie a te, pensa un po’, 8 chili… Insomma, per me tu c’eri sempre quando avevo bisogno, non mi hai mai negato aiuto, una casa, consolazione e appoggio… Mi ricordo i giorni che ho passato a casa tua quando sono scappata di casa e la tua visita all’ospedale quando ho tentato il suicidio… Quello che sto cercando di dirti è grazie. Grazie di tutto. Volevo chiederti se… Ti andrebbe di essere migliori amiche?

Katie rimase interdetta e non disse niente, poi scoppiò in una fragorosa risata.
Sadie si rabbuiò e abbassò la testa, ma Katie gliela alzò con due dita e le sussurrò:
- Sciocchina, sto ridendo perché io e te siamo già migliori amiche, lo davo per scontato!

Poi lentamente entrambe si misero a piangere, abbracciandosi e sussurrandosi tutto il bene che si volevano.

- Ti voglio bene Sadie. – Concluse infine, tra le lacrime, Katie.
- Io di più! – Ribattè Sadie!
- No, io di più! – La guardò fintamente arrabbiata Katie.
- Ah si? Vediamo se sei dello stesso parere dopo… Questo! – E senza aspettare autorizzazione si avventò sull’amica, torturandola di solletico.

Tra le risate Katie ammise che, forse, si, le voleva più bene Sadie, ma quando smise di ridere sussurrò che non ci aveva mai creduto davvero.

Fecero merenda e passarono il pomeriggio da vere amiche, come facevano di solito…

Sadie ad un tratto si illuminò:
- Ah ecco, questa collana – E tirò fuori due collane che insieme formavano una mela, sulla cui parte destra era incisa una “S”, invece sulla parte sinistra una “K” – è per sancire la nostra amicizia, non toglierla mai, okay? – E fissò la migliore amica seriamente; solo una volta ricevuto un cenno d’assenso distolse lo sguardo, felice e tornò a sorridere. – A proposito, cos’è che volevi dirmi?

Katie si rabbuiò, solo per un istante:
- Ah, nulla, nulla. Non ti preoccupare: non era importante, te lo dirò poi…

- UN ANNO DOPO –

Katie si alzò di buon ora e guardò la data: 14 febbraio.

Era il più triste dei giorni.

Indossò i suoi soliti abiti e la collana che anni prima le aveva regalato la sua migliore amica, quasi una sorella ormai.

Quello che però Sadie non sapeva e che lei non aveva avuto la forza di confessarle tanti anni prima era qualcosa che avrebbe potuto compromettere la loro amicizia.

Si guardò allo specchio prima di uscire e sfoggiò un bel sorriso al vetro, sapendo che quella giornata sarebbe stata terribile più delle altre, non solo perché doveva vedere l’uomo che amava stare con un’altra, ma essendo San Valentino si sarebbero sbaciucchiati senza ritegno coprendosi di regali a vicenda.

Non poteva farci niente, però: anni prima aveva deciso di accettare quella situazione e ogni giorni si malediceva per quello, ma turbarne il delicato equilibrio equivaleva ad una catastrofe, quindi le cose sarebbero rimaste così, sempre.

Uscì di casa, contò 8 passi e si trovò di fronte a casa della sua migliore amica, che già l’aspettava sulla soglia, esageratamente felice:
- Katie! Ciao! Oggi è il grande giorno, finalmente ti troverò un ragazzo!

Katie sorrise e la baciò sulle guance:
- Io non ho bisogno di un fidanzato, stai tranquilla, a me basta la tua amicizia!
- Oh, come sei tenera… Sono fortunata ad avere una migliore amica come te! – E indicò la collana che da anni era un segno tangibile della loro unione.

E si avviarono insieme verso scuola.

Katie sapeva che sarebbe stato doloroso, ma non immaginava a tal punto: appena arrivata Sadie l’aveva abbandonata per andare a rifugiarsi dritta tra le braccia di Will e Katie era rimasta sola, a fare il terzo incomodo in mezzo a un folla di fidanzatini e fidanzatine felici che si sbaciucchiavano e mangiavano cioccolatini cucinati con le proprie mani.

- Katie, Katie, unisciti a noi, non ci dai fastidio, vero Will? – Chiese subito Sadie, entusiasta.

Katie scosse la testa:
- No, tranquilla, andrò a prendermi un gelato, ciao! – E corse via sventolando la mano in segno di saluto.

Alla fine vinse Sadie e la costrinse a riaccompagnarli a casa, così Katie dovette sorbirsi una noiosa (e romantica) passeggiata intorno al lago e aspettare che tornassero da qualche angolino buio dove si erano rifugiati per fare chissà cosa..

Quando riapparvero Katie sorrise a entrambi e fece per tornare a casa, quando Will le disse:
- Aspetta, ti accompagno, tanto sono di strada…

Katie provò a impedirglielo, ma anche Sadie annuì dicendo che avrebbero legato di più come fidanzato-di-Sadie e migliore-amica-di-Sadie ed era essenziale per formare un fantastico trio.

Katie sospirò, certa che non avrebbe resistito, perché il suo segreto era proprio quello: amava Will sopra ogni altra cosa e negli anni non era riuscita a dimenticarlo.

Salutarono Sadie e si avviarono verso cara.
Dopo i blandi tentativi di conversazione di Will, però, calò un fastidioso silenzio e alla fine Katie lo ruppe esordendo con:
- Perché mi hai accompagnata? Sappiamo bene che non sei affatto di strada, quindi perché? E Sadie cosa sta tramando?

Will ridacchiò:
- Ah, lei nulla, cioè, pensa di dover migliorare il rapporto tra me e te per costruire il trio “Sadie-migliore-amica-fidanzato”, ma il mio intento era un altro…

Katie non fece in tempo a chiedere spiegazioni che si ritrovò schiacciata contro il muro di un vicolo buio, con Will che le baciava languido il collo e insinuava le sue mani sotto il top.

- Will, no, aspetta, cosa stai fac… - Ma le sue parole vennero interrotte da un gemito che sfuggì dalle sue labbra, al quale Will rispose con un sorriso di trionfo, prima di avventarsi sulle labbra della mora.

- Katie, mi sei sempre piaciuta, più di quella balenottera di Sadie… In realtà ho sempre voluto arrivare a te, sai… - Mormorò senza smettere di baciarla.

La ragazza provò una sensazione di trionfo al sapere che Will la credeva più bella di Sadie, ma se ne pentì subito e si scostò di poco:
- Will, no! Lei è la mia migliore amica, nonché tua ragazza, e non succederà quello che vuoi che succeda, okay?

Il ragazzo ridacchiò:
- Ahah, e, sentiamo, cosa pensi che voglia da te?

Katie arrossì violentemente e balbettò poche parole confuse. Will, sempre ridacchiando, la prese in braccio e la portò davanti a casa sua, mentre lei rideva nervosamente.
- Apri e ti mostrerò cosa sono venuto a fare…

Lei, ipnotizzata dagli scuri occhi di lui, aprì e lo guidò fino alla sua camera da letto.
- Will, no…

Il ragazzo sogghignò:
- Insomma, mi hai portato fino qui… Katie, diciamocelo, tu mi vuoi…
- No! – Scosse la testa decisa.
- Oh, invece si, tu vuoi questo… - E la baciò sul collo.
- N-No… - Sussurrò lei, la sicurezza che le veniva meno.
- E vuoi anche questo… - La mordicchiò sul labbro.
- Io…
- Avanti, dillo e potrai avere centinaia di questi… - E, finalmente, soddisfò il desiderio della mora, baciandola avidamente sulle labbra e danzando con la sua lingua.
- S-si… - Gemette infine Katie, incapace di resistere.

Trionfante Will la spinse sul letto e si mise sopra di lei, lasciando che il suo cuore agisse per lui…

- GIORNI DOPO –

Era accaduto tutto troppo in fretta: Will e Sadie avevano continuato a stare insieme, mentre di nasconsto Katie e Will si vedevano e si amavano in segreto.

Fino al tragico giorno in cui, per un atto di spavalderia, Will invitò Katie a casa sua e, proprio mentre stavano facendo fluire la passione tra i loro corpi, Sadie era entrata di corsa in camera di Will, strillando:
- Credo di aver dimenticato qui il mio dizionario di Lat…

Ma si era bloccata, senza parole.

La scena che appariva ai suoi occhi era delle più tragiche: il suo ragazzo a letto con la sua migliore amica e entrambi stavano palesemente godendo di quegli attimi rubati.

- Cos… Cosa state facendo?

Will si era subito scostato da Katie, sedendosi sul letto e coprendosi con le coperte, ridacchiando:
- Secondo te?

Sadie scoppiò a piangere di getto. Katie corse fuori dalle coperte, coprendosi alla meglio e le sussurrò, tra le lacrime:
- No, ti prego, mi dispiace, ma io… Io lo amo, la verità è questa… Non te l’ho mai detto perché non volevo farti soffrire, ma è così… Non succederà mai più, però, per favore Sadie…

Ma l’amica non voleva sentire scuse e urlò, in un vortice di parole confuse e rabbiose:
- Katie! Come osi dirmi queste cose?! Se tu me l’avessi detto prima io avrei rinunciato a Will per te, perché sapevo che lui avrebbe sicuramente preferito te: so di non poter paragonare con te la mia infima bellezza! Te lo avrei lasciato, capisci? Capisci?! – Katie balbettò qualcosa, ma Sadie non si fermò – Avrei anche potuto perdonarti se tu me lo avessi confessato prima! “Sai Sadie, vado a letto con il tuo ragazzo!”! Bastava una frase così, ma ora non più! Basta, addio Katie! E addio anche a te Will, lurido puttaniere che non sei altro: avrei dovuto capire che stavi con me solo per arrivare a lei!

E aveva girato i tacchi, andandosene.
Sulla porta però si era fermata, senza voltarsi e aveva sussurrato:
- E sai cosa mi fa più male? Che esattamente 8 anni fa io e te siamo diventate ufficialmente migliori amiche, ma era tutta una bugia: per te non lo siamo mai state! E non provare a dire che non è vero, perché negli anni hai sempre finto, ora lo so, o non avresti fatto una cosa del genere… I tuoi sentimenti possono anche essere stati sinceri, a volte, ma non ci si comporta così con un’amica… Esattamente 8 anni fa io mi sono affidata a te, e questo è quello che ricevo dalla mia sconsiderata fiducia. Mi hai aiutato a superare momenti di grave difficoltà, ma era tutta una bugia, in fondo. – Un singhiozzo – Sai perché ho scelto una mela per rappresentarci? Perché le mele sono simbolo di succosità e bontà… Possono sembrare dure all’esterno, ma rivelano la loro dolcezza all’interno, fino al cuore, resistente e compatto. La tua metà avrebbe dovuto essere bacata. Tienitela, ormai. Addio. – E si stappò tristemente dal collo la sua metà di mela, gettandola a terra e uscendo dalla stanza.


- Wow! Posso dire che non me l’aspettavo? Un tradimento… - Sibilò Heather.

- Non infierire… - Singhiozzò Katie.

- Si, be’, forza: verrai punita o no? – Ridacchiò Heather.

Katie caricò la pistola con rabbia, sperando di porre così fine alla sue sofferenze.
Con questa speranza se la puntò decisa alla tempia.

Un colpo.
La vita o la morte.

Clack.

Il suo desiderio fu esaudito.

La vita volò via dal corpo di Katie, che sorridendo salutò la morte.

Heather applaudì, estasiata da altro sangue versato e battè le mani per far rimuovere il cadavere. Un inserviente arrivò subito.

Nessuno disse una parola, quasi che non si fossero resti conto di aver appena assistito ad un suicidio.
La gotica sbuffò, disgustata e un’afroamericana grassottella emise un verso di disgusto.

Heather si godette la scena:
- Bene bene, vediamo chi sceglierà per noi il quinto proiettile…

 

 

- ANGOLO DELL’AUTRICE SANGUINARIA -
Buongiorno!
Si comincia a intravedere qualcosa dell’organizzazione dei nostri amici eh? Eggià… I più furbi ci saranno quasi arrivati, ma vi mancano ancora molti dettagli, in effetti… Ma non vi preoccupate: la trama si dipanerà nel corso dei capitoli eheh…
Che ne dite di quest’altra morte? Ci voleva eh… In effetti Katie se l’è davvero meritata, su questo non penso ci siano dubbi e ammetto che l’idea è abbastanza scontata, ma diventa sempre più difficile trovare qualcosa di scandaloso per tutti >.< Si cade sempre in idee simili tra loro…
Comunque ta-dah! Questo era il chappy number 4, al prossimooooo!
Ciambelle a tutti, byeeee :3
_Rainy_

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Capitolo 6
*** 05. Porterò questo peso; per te ***


 

PORTERO' QUESTO PESO; PER TE   N

 

 

- … Vediamo chi sceglierà per noi il quinto proiettile…

Con un ghigno malvagio la bruna lanciò il proiettile in mezzo al tavolo: un lancio secco e non molto alto, che fece fermare il proiettile quasi subito.

Un mormorio attraversò la sala.

- Ah! Avanti cara, cos’hai da dire? – Lo sguardo della mora serpeggiò fra le teste dei suoi amici, fino a incrociare lo sguardo di una ragazza che non aveva neanche alzato gli occhi per vedere dove il proiettile si era fermato: Gwen.

Era risaputo che nella loro piccola associazione Gwen era una delle colonne portanti: una killer spietata, una spia formidabile e estremamente fedele al loro capo, con cui però non andava molto d’accordo.

Il suo soprannome, “Asso di Picche”, era legato ad oscuri avvenimenti del suo passato, che però non aveva mai voluto rivelare.

- Sai Gwen, non mi sei mai andata a genio, ma sono curiosa di scoprire cos’hai da raccontare oggi, perché in effetti non sappiamo quasi nulla di te…

L’interpellata alzò la testa lentamente; ciocche verde petrolio le ricaddero ai lati del viso pallido e fissò Heather con uno sguardo glaciale:
- Non sei più il mio capo, non arrogarti il diritto di giudicarci tutti. Vuoi una storia di sangue? Te la racconterò, ma metti fine a questo assurdo gioco.

Heather scosse la testa e ghignò: un chiaro invito a cominciare il racconto…


- Gwendolyne, vieni subito qui. – Sbraitò un uomo sulla cinquantina, grasso e tarchiato.

Una ragazza giovane, dalla pelle estremamente pallida e i capelli neri come l’ebano, corse giù dalle scale e entrò trafelata nell’ufficio del padre, cercando di darsi un contegno:
- Si papà? Hai bisogno di qualcosa?

L’uomo ghignò, si alzò dalla scrivania e raggiunge la figlia, appoggiandole con calma le mani sulle spalle:
- Figlia mia, quanto tempo è che non facciamo un viaggio?

La ragazza deglutì, inquieta a causa delle mani fredde appoggiate sulle sue spalle, dello sguardo indagatore di suo padre e del suo sorriso falsamente amabile:
- Ehm… Non lo so, direi da qualche settimana.

Il padre sorrise compiaciuto e strinse la presa sulle spalle della giovane:
- Giusto mia cara, e dove siamo andati l’ultima volta?

Gwen si agitò ancora di più, capendo dove volesse andare a parare il padre:
- Siamo andati a Las Vegas.
- Esattamente… Cosa è successo quando eravamo lì? – Le mani del padre ormai erano salde sulla sua pelle e stringevano tanto da farle quasi male, ma non doveva emettere un solo gemito.
- Mi hai fatto entrare nel casinò più prestigioso con una carta d’identità falsa e mi hai mandato ai tavoli del Black Jack e successivamente del Poker.
- Che memoria di ferro, bambina mia! – Ghignò lui. – E quanto hai vinto? Ti ricordi?

Gwen trasalì: no, non se lo ricordava.
Scosse lentamente la testa, sapendo che ormai era la fine: aveva perso.

Lo schiaffo arrivò più in fretta di quanto si aspettasse e la buttò a terra. Il padre cominciò a urlare:
- Non ti ricordi eh troia?! Hai vinto circa 100.000$, quando io te ne avevo chiesti almeno il doppio! Perché sei così dannatamente inutile?! Prima tua madre è morta, poi sono cominciati i miei guai finanziari e infine, quando ti chiedo un piccolo sforzo per salvarci dal collasso economico tu cosa fai? Te ne freghi e vinci solo 100.000 miseri dollari!

Un calcio allo sterno.

<< Rilassa i muscoli: farà meno male. >> Pensava la ragazza, a terra.

- Domani partiamo per Monte Carlo e vedi di vincere almeno 500.000$ o puoi dire addio alla tua misera vita.

Gwen strabuzzò gli occhi: 500.000$?! Era una cifra esorbitante! Il massimo che le aveva chiesto era minore di qualche centinaio di dollari, sempre.

- P-Perché ti servono tutti questi soldi? – Sussurrò la ragazza, mentre tentava di rialzarsi.

- Fatti i cazzi tuoi, troia. – Sibilò il padre, poi aggiunse, minaccioso: – O sai come va a finire.

La ragazza ammutolì, terrorizzata.
Il padre si chinò, accarezzandole la guancia con falso amore:
- Gwen, tesoro, tu hai un talento e devi sfruttarlo se vuoi continuare a fare quello che vuoi! Non puoi assolutamente smettere di usarlo se vuoi continuare a vivere normalmente. Io so di essere severo, ma è necessario o la mia ditta fallirebbe e ci ritroveremmo in mezzo alla strada.

La ragazza alzò la testa e lo fissò:
- Tu non sei severo: tu sei un mostro!

Lo sguardo del padre cambiò improvvisamente: da bonario si trasformò in duro, da gentile in freddo.
- Ah si? Vediamo cosa penserai dopo questo…

Lentamente si alzò, estrasse una pistola e sparò.
Gwen non ce la fece a resistere e urlò per il dolore. Si guardò incredula la mano e quello che vide la disgustò al punto da farla quasi vomitare.

La sua mano aveva al centro un buco appena visibile perché coperto dal sangue e dai pezzi di pelle slabbrati che il proiettile aveva tagliato conficcandosi in profondità.

Il padre le lanciò un fazzoletto, che fluttuando dolcemente si posò vicino alla testa della ragazza, cosparsa di goccioline di sudore:
- Non ti permettere mai più, mi hai capito? – Le prese il mento tra le mani e lo strinse, conficcandole le unghie nella pelle.

Gwen annuì, tra le lacrime.
Il padre la lasciò e lei si accasciò nuovamente a terra, mentre lui componeva il numero dell’ambulanza e sbraitava al telefono: “Mia figlia si è messa a giocare con una pistola detenuta legalmente, venite subito qui pezzi d’idioti!”, simulando false lacrime.

La ragazza, priva di forze, sentì la porta chiudersi con un colpo secco dietro al padre che usciva dalla stanza e rimase immobile a terra, a contare i minuti che passavano e ad ascoltare l’ambulanza che pian piano si avvicinava.

- IL GIORNO DOPO –

- Gwendolyne, alzati. Su bambina mia, è ora di andare!

La ragazza aprì gli occhi, trovandosi a pochi centimetri il volto del padre che le accarezzava la testa con finta dolcezza.

- Hai già fatto la valigia?

Gwen si sedette sul letto stiracchiandosi, scuotendo la testa: no, non l’aveva fatta, ma era diventata una vera specialista in fatto di fare e disfare la sua cara valigia nera, quindi non le servivano più di 10 minuti.

Un lampo di ghiaccio passò negli occhi del padre, ma subito si spense, lasciando il posto a un sorriso esageratamente ampio:
- Mia cara, ti ho comprato un vestito apposta per questa sera! E ora alzati, dobbiamo partire tra un’oretta.

Si voltò e uscì.
La ragazza scattò in piedi e si preparò in tutta fretta, gettando un’occhiata rapida al nuovo vestito: niente di particolare, un abito nero con inserti di paiettes sul corpetto, aderente e senza spalline, con un piccolo spacco su un fianco.
Era passato il periodo in cui quei bei vestiti le davano qualsiasi emozione, ora non era più così.

Facendo meno rumore possibile uscì dalla finestra, scivolò sul tetto e saltò sul bancone. Si calò dalla grondaia e scivolò su un tubo per superare anche il cancello. Poi si mise a correre.
Percorse il familiare tragitto a memoria, svoltò un paio di angoli e si fermò davanti a una fatiscente bottega. La facciata era rovinata e l’intonaco era assente in più punti. L’insegna, totalmente illeggibile, era di color verde e giallo assolutamente disgustosi. Delle bancarelle campeggiavano davanti all’apertura che doveva fungere da entrata, con calcinacci che sporgevano dalle pareti e legnetti che cadevano spesso dal soffitto, e ospitavano frutta e verdura, ma non era un negozio ortofrutticolo e Gwen lo sapeva bene.

Superò le bancarelle facendo scricchiolare le macerie sparse sul pavimento sotto i propri anfibi:
- William, sei qui?

Un ragazzo poco più grande di lei uscì dal retrobottega spostando una polverosa tendina giallognola. Nonostante tutto era davvero un bel ragazzo: tratti spigolosi, capelli bianchi come il ghiaccio e pozze nere al posto degli occhi. Il classico abbigliamento punk lo rendeva il solito William che lei conosceva, ma il colore dei capelli la spiazzò:
- Hai cambiato di nuovo eh…

William la squadrò e sorrise con un angolo della bocca, per poi stringerla in un abbraccio:
- Solo per te… L’avevi detto che il bianco mi sarebbe stato bene e… Cavolo si, sto da Dio così!

La ragazza ridacchiò e si sciolse dall’abbraccio, ma tornò subito seria:
- William…
- Lo so, lo so! Se sei qui è perché hai bisogno di qualcosa di QUEL genere, quindi aspetta qui… Lo so che non mi fai mai visite di piacere. – Si finse offeso.

Gwen rise nuovamente e seguì il ragazzo con lo sguardo, fino a non vederlo più oltre la tendina giallognola.

Quando tornò stringeva tra le mani una pistola di metallo lucido:
- Ecco a te, proiettili calibro 22 più piccoli del normale: non trapassa il corpo e non schizza troppo sangue, ma qualche fazzoletto per pulire in caso di emergenza portatelo lo stesso… - Ridacchiò.
- Grazie William, sei la mia salvezza. – Sorrise.

I due ragazzi si squadrarono per qualche secondo, poi William chiese, interrompendo il contatto visivo:
- Dove vai stavolta?
- Monte Carlo.
- Quanto?
- 500.000$
- Stai scherzando spero. – Sussurrò lui, incredulo.

Lei scosse la testa:
- William, proprio perché questa cifra è così alta potrebbe essere l’ultima volta che mi vedi…
- Non dirlo neanche per scherzo. – Finse di essere allegro, ma si capiva che era preoccupato per lei.

Gwen si avvicinò, si alzò in punta di piedi e lo baciò timidamente sulle labbra stranamente non cariche di rossetto nero. Lui la avvolse in un abbraccio e ricambiò appassionatamente il bacio, mordendo leggermente le labbra della dark. Quando si lasciarono per riprendere fiato lui esclamò, ridacchiando:
- E io che avevo intenzione di smetterla di truccarmi le labbra di nero! – Mentre si passava una manica sul labbro superiore, eliminando la traccia di rossetto che la ragazza aveva lasciato dietro di sé.
- Pensa io che non volevo sbavarlo per non doverlo ridare! – Lo punzecchiò lei, sorridendo.

Poi si scurì in volto:
- Devo andare William… A presto, spero.
- Sicuramente. – E con un ultimo veloce bacio la dark uscì dal negozio, mentre il punk seguiva il suo profilo allontanarsi e sospirava.

- MONTE CARLO –

- Signorina, li hai 18 anni?
- Si. – Mentì Gwen, mentre faceva vedere un documento falso e il buttafuori la squadrava, scettico. – Signore, se dubita della mia identità forse dovrei fare presente al suo capo, nonché carissimo amico di mio zio, che il personale di questo casinò è tremendamente fastidioso. Dovrei secondo lei, mister… - Lesse velocemente il tesserino appuntato sul petto della guardia - …Marley?

John Marley non era nella posizione di rischiare il licenziamento, e poi quella ragazza aveva tutti i documenti che ne attestavano la maggiore età, non era compito suo giudicare l’età delle persone solo guardandole, quindi scosse la testa e la fece passare con un gran sorriso.

Gwen gli sorrise a sua volta e si fece per dirigersi verso i tavoli del Black Jack, quando suo padre abilmente camuffato le passò vicino e, urtandole una spalla per attirare la sua attenzione, le sussurrò:
- Ai tavoli del poker, ora. C’è un tale mister Finnigan, un riccone americano che di sicuro ha tanto da buttare al gioco quanto ne ha da spendere in bottiglie di vino, e ti assicuro che ne ha una bella collezione. Hai tempo fino a mezzanotte, poi ci sarà un controllo delle carte d’identità da parte di alcuni buttafuori e non possiamo rischiare, quindi vattene subito e sali subito al settantesimo piano, terza porta a destra, targhetta “C12”.

La ragazza annuì impercettibilmente e si spostò subito, dicendo a voce abbastanza alta:
- Insomma, stia più attento!

Il padre simulò una voce impastata e flebile:
- Mi scusi signorina.

Lei girò la testa dall’altra parte con fare altezzoso e arrivò velocemente ai tavoli del poker, dove la croupier, una giovane donna di circa vent’anni con una camicia esageratamente scollata, un gilet di velluto nero, un vistoso orologio da taschino placcato oro e un corto caschetto di capelli rossi, le gettò un’aria sospetta:
- Fornisca un documento prego.

Un signore che era seduto vicino a Gwen sorrise, leggermente sotto l’effetto del alcool e ridacchiò:
- Garantisco io per lei, non si preoccupi signora croupier.

L’interpellata lanciò un’ultima occhiata sospetta a Gwen, prima di sciogliersi in un sorriso e annunciare:
- Bene mister O’Johnas, se garantisce lei è tutto okay. Signorina, prenda pure posto.

Gwen, incerta su quell’improvviso colpo di fortuna, prese posto e iniziò a giocare senza farsi notare troppo.

Erano le 22.30, aveva ancora tempo.

Perse le prime due manche appositamente, poi comprese a grandi linee in che ordine le carte erano disposte e quanti erano i casi possibili in cui esse si ritrovassero sistemate dopo essere state mischiate e secondo il suo preciso schema mentale di gioco aveva tutto il tempo per vincere 500.000$ e anche di più.

Cominciò a vincere e i soldi piovvero tra le sue mani incessantemente, sotto lo sguardo allibito degli altri giocatori e soprattutto della croupier, che la guardava a ogni mano con più sospetto.

Finse qualche piccola sconfitta qua e là, ma riuscì sempre a recuperare quello che aveva perso e a guadagnare anche di più.
La sua mente lavorava incessantemente eseguendo calcoli, probabilità e stime.

All’improvviso si risvegliò dalla trance e guardò l’ora: le 23.57.
Aveva pochi minuti e aveva accumulato “appena” 430.000$: non bastavano.

Si fece prendere dal panico e accumulò vincite su vincite, dimenticandosi la sua regola d’oro, ossia mai farsi scoprire. Proprio mentre abbassava una scala reale che portò nelle sue tasche altri 10.000$ scoccò la mezzanotte e un altoparlante gracchiò:
- A breve controllo dei documenti. I gentili ospiti potrebbero essere fermati in maniera del tutto casuale e sottoposti a un controllo della carta d’identità per individuare eventuali documenti fasulli. Ci scusiamo per la precauzione purtroppo necessaria.

Gwen sbiancò: doveva andarsene subito.
Raccolse tutte le sue fiches e si spostò al banco di conversione in dollari, agitata. Finse di avere un’aria disinvolta e intascò 490.000$ con naturalezza, mentre si guardava intorno con circospezione e individuava vari buttafuori che eseguivano controlli campione tra il pubblico, soprattutto fra i più giovani.
Sentì delle urla e comprese che qualcuno era stato beccato a barare o era stata scoperta la falsa maggiore età.

Un buttafuori la individuò e si diresse verso di lei, quando una mano la afferrò per un braccio e la trascinò in un angolo appartato, fuori dalla portata della guardia. Era O’Johnas:
- Buonasera signorina… Lei ha molto l’aria di una che nasconde qualcosa, sa?

Gwen provò a divincolarsi e si liberò senza fatica. Fece per andarsene, quando il magnate petrolifero le disse:
- Mia cara, non ti farò scoprire.

La ragazza si voltò, temendo il peggio, ma lui sorrise:
- Abbiamo già giocato l’uno contro l’altra, ma era a Black Jack, diversi anni fa. Quando ti ho vista ho subito capito che eri tu e volevo avere l’occasione per sfidarti di nuovo, bella partita. Hai un talento fuori dal comune e sono quasi sicuro che non stessi barando, dato che la croupier è una mia dipendente. – Sogghignò. – Vai pure, non ringraziarmi: era il minimo. Tra giocatori ci si intende.

Gwen sorrise, stupita e si allontanò velocemente con il suo sacchetto pieno di banconote stretto in mano.

Salì al settantesimo piano e individuò la porta indicatale da suo padre.
Una volta entrata lo vide seduto dietro ad una scrivania.

La camera era riccamente arredata, probabilmente predisposta per un incontro d’affari o una riunione strategica perché c’erano molte sedie e una grande scrivania con dietro una poltrona che doveva essere per il direttore del casinò quando presenziava agli incontri con il personale.
Dietro la poltrona una grande vetrata che lasciava spaziare lo sguardo sulla città illuminata.

- Ciao bambina mia, posa qui il sacchetto.

Gwen eseguì l’ordine con le mani tremanti: e ora?

Il padre la guardò e sorrise, come ad avvertirla che sarebbe stato meglio ci fossero tutti, e iniziò a contare le banconote, estraendole lentamente, mazzetta per mazzetta.

Quando ebbe finito le rispose sulla scrivania e si dondolò sulla poltrona:
- Molto bene, sono 490.000$ e mi pare di avertene chiesto 500.000$, sbaglio? – Gwen scosse la testa. – Bene, quindi dove sono i restanti 10.000$?

La ragazza non rispose e il padre ghignò:
- Non ti conviene fare la difficile con me.

Si alzò, fece il giro della scrivania e le premette le mani sulla gola:
- Tira fuori quei fottuti 10.000$ stronza! Ora!

La figlia non disse di nuovo una parola e lui ghignò:
- Dobbiamo passare a dei metodi più severi? Molto bene… - Si tolse la cintura e la impugnò a mo’ di frusta. – Che vogliamo fare? Non vorrei decorare la tua schiena con altri tagli… - Poi lo colse un’illuminazione. – Oh, forse non li hai vinti?

Ridacchiò istericamente:
- Non sei neanche più in grado di fare quello che ti dico… Molto bene, voltati.

Gwen iniziò a piangere e ignorando i commenti del padre estrasse la calibro 22 dalla giarrettiera. Il padre impallidì:
- Cosa stai cercando di fare? Eh? Metti giù quella pistola, Gwen, avanti. Sono pur sempre tuo padre…
- Appunto. – Sibilò Gwen e sparò.

Il proiettile lacerò la carne del petto e trafisse la colonna vertebrale con precisione. Il padre stramazzò a terra, paralizzato.
Gwen si precipitò al suo fianco pensando a tutte le frustate che aveva ricevuto, ma non riusciva proprio a ucciderlo conficcandogli una pallottola nel cuore.
Così ruppe il vetro dietro la scrivania con un idrante e trascinò il padre fino al bordo del pavimento, dove cocci di vetro erano sparsi ovunque.

- Ehi, penserai mica di buttarmi giù vero? – Nessuna risposta. – Vero?!

La voce del padre era un rantolo soffocato, nessuna traccia della voce arrogante che era prima.
Lentamente l’uomo realizzò che era colpa sua se la figlia era stata costretta ad un atto così estremo:
- Gwen… - La figlia lo guardò negli occhi, tra le lacrime. – Gwen, scusami.

La ragazza impallidì e gli prese la mano, tremante.

- Gwendolyne, ti prego, perdonami. Sono stato uno stolto a sfruttare il tuo talento per i miei scopi. Avrei dovuto capire. Fallo.

Gwen lo fissò, allibita.
- Fallo Gwen. E’ necessario. Così espierò le mie colpe. Sarà un piccolo fardello da portare rispetto a tutto quello che ti ho fatto, rispetto a tutte le cicatrici che ti ho causato. Accetta questo peso e fallo.

La ragazza annuì e con una leggera spinta seguì il padre cadere nel vuoto, fino a urtare il suolo. Dopodichè non distinse più nulla con chiarezza se non tanto sangue che si allargava sull’asfalto.

<< Porterò questo peso; per te. >>


- Una sola parola: wow. – Ridacchiò Heather. – Non pensavo fossi capace di tanta brutalità, mia cara. E ora vediamo un po’ cosa ha deciso la roulette per te.
- Ne parli come se fosse un dio… - Sibilò Gwen a testa bassa.
- Stasera lo è mia cara, è il dio della morte presente qui tra noi e incarnato in questi proiettili. – Ghignò la mora. – Su, vediamo cosa ha deciso per te.

Gwen impugnò la pistola con la freddezza che l’aveva sempre caratterizzata, sotto gli sguardi di un punk ansioso e di una Heather desiderosa della sua morte.

Un colpo.
La vita o la morte.

Clack.

Quasi tutti i presenti chiusero istintivamente gli occhi, quando li riaprirono Gwen non sorrideva.

Se fossero stati in grado di intuire le emozioni di Gwen dietro la sua maschera di freddezza vi avrebbero letto un grande rammarico per quel primo omicidio che non si era mai perdonata, e che neanche quella volta era stato espiato con la sua morte.

- Ah, stasera sopravvivrà tanta gente, a quanto pare… - Sbuffò Heather. – Molto bene, dato che ti sei salvata, a te l’onore di lanciare il proiettile, mia cara Gwen… -

 

-DONUTLY(?) WRITER-
Non potevo uccidere proprio Gwen dai… Si sa! Tutti, ma non Gwen.
Però non ho ucciso neanche Courtney e questo ci porta al solito cliché dei personaggi più importanti della serie al quale non capita mai nulla, ma penso che riuscirò ad evitare di incappare in ciò… Scoprirete poi come muahah.
Ecco dunque un maxi capitolo sulla nostra dark preferita.
Ho la terribile paura di diventare ripetitiva per questa serie, ma spero non succeda “>.<
Piccolo avviso: io e Craggy (cercatela lol) abbiamo aperto un blogguccio in cui tratteremo ANCHE di storie di EFP, non esclusivamente, e questo è il link :
http://raggywords.blogspot.it/, fateci un salto…
Ah, dato che ho ricevuto un consenso per la pagina facebook dedicata a moi, l’ho aperta lol. Questo è il link >  https://www.facebook.com/pages/Rainy_/615961398491860

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Capitolo 7
*** 06. Non osare più definirti mio amico ***


N NON OSARE PIU' DEFINIRTI MIO AMICO N

 

- Ah, stasera sopravvivrà tanta gente, a quanto pare… - Sbuffò Heather. – Molto bene, dato che ti sei salvata, a te l’onore di lanciare il proiettile, mia cara Gwen… -

L’interpellata fissò Heather con un misto di disprezzo e pietà e afferrò con decisione il proiettile. Lo lanciò con un gesto fluido del polso e dopo un breve cerchio in aria esso si fermò con uno scatto secco davanti a… Geoff.

- Ah, il festaiolo! Mi aspetto grandi cose da te… Una storia divertente e con un finale a sorpresa… Anzi, che ne dite di bere qualcosa? Dato che ascolteremo un racconto sicuramente con una festa nel mezzo, direi di simularne una… Dopotutto noi siamo qui per festeggiare! – Rise felice, ma nessuno raccolse la sua ilarità. – Uff, che musoni che siete! Cameriere!

E schiccò le dita con un cenno d’intesa al barman, che sotto gli occhi dei presenti sfornò in breve un cocktail dal colore rosato, spumeggiante e colorato, dal gusto leggermente fruttato e molto alcolico.

- Buona ‘sta roba… - Sussurrò il punk.
- Ma torniamo a noi: prego Geoff, racconta!

E il festaiolo iniziò, malinconico, il suo racconto...


- Geoff, svegliati cazzo, è tardi!
- Avanti Brian, ancora 5 minuti… Hai aspettato fino ad adesso, che differenza ti possono fare 5 minuti in più o in meno?
- Sai quante cose succedono in 5 minuti? – Ridacchiò Brian.
- Uff… Troppe! – Si alzò il biondo sbuffando.

Si vestì in tutta fretta, sapendo di essere in ritardo già quando aveva aperto gli occhi e non si curò nemmeno di mettere una maglietta: una semplice camicia rosa sarebbe bastata.

- Avanti, almeno allacciala per colazione, non vorrei che qualcuna ti saltasse addosso mentre cerchi di smaltire i postumi della sbornia di ieri con una dozzina di caffè!
- Come siamo premurosi… Cosa succede di bello oggi? – Sorrise Geoff guardando l’amico e compagno di stanza.

Si erano conosciuti qualche anno prima ed era stata amicizia a prima vista.
Aveva un sacco di cose in comune: una passione sfrenata per le ragazze, per le feste, gli alcolici, lo “sballo” che faceva dimenticare i problemi…
Brian era texano come Geoff e tra i texani c’era una tacita legge che obbligava a trattare con rispetto i connazionali, anche se non si conoscevano, quindi era stato automatico che diventassero compagni di stanza nel campus, come se fossero destinati ad esserlo. E poi via a mesi frenetici, allegri e assolutamente folli, con gite epiche, tagliate in coppia e l’acquisizione, pian piano, della fama che ora li caratterizzava come “duo scatenato”; un nome una garanzia.
Ogni anno la loro proposta di “viaggio d’istruzione” veniva bocciata, ma alla fine gli studenti andavano sempre in vacanza con loro anziché partecipare alle gite scolastiche normali ed erano giorni di pazzia che era impossibile dimenticare.

- Oggi mio caro, distribuiremo gli inviti per la festa del secolo! – Esultò Brian.
- Ah… E com’è che io non ne sono stato informato? – Lo guardò di sottecchi Geoff.

L’altro scrollò le spalle e rise, aspettando il biondo per scendere a fare colazione.
Mentre si incamminavano per le strette stradine del campus (fermandosi ogni 5 minuti a salutare qualche ragazza) Brian spiegò i dettagli della festa a Geoff:
- Prima di fare domande ascoltami fino in fondo amico mio, perché sarà una cosa grandiosa! Allora, ho ordinato il più strepitoso set di bevande in circolazione e addobbi da paura. Ah, indovina un po’? Mio cugino ha acconsentito a farci da dj e porterà la sua strumentazione oltre a un altro mio cugino che si occuperà del cibo facendomi un prezzo di favore, poi inviteremo tutto il campus e anche i ragazzi della St. Lannox, qui vicino. Balleremo fino al mattino, sarà uno sballo! – Il ragazzo era radioso.
- Wow Brian, hai superato te stesso! Però… Dove sarà? – Chiese Geoff, sospettoso perché se Brian aveva evitato di dirgli il luogo della festa doveva esserci qualcosa sotto…
- Ma è ovvio: sarà a scuola da noi! – Gli rivolse un sorriso raggiante e il biondo sentì un brivido scendergli giù per la schiena e si fermò in mezzo alla strada.
- Cosa?! Ma sei impazzito?! Come diamine faremo a… - Ma venne interrotto dall’amico.
- Non ti preoccupare! Domani è festa, quindi stasera dopo le 18 non ci sarà nessuno a scuola e se anche ci fosse qualcuno, a festa già avviata sarà impossibile fermarla e individuarne i responsabili, avanti, non è un’idea geniale?!

Geoff ci pensò su un po’, valutando i pro e i contro.
- Avanti fratello, non vorrai abbandonarmi proprio prima della festa che ci renderà famosi?! – Lo guardò Brian, fingendosi afflitto.
- Ah, no idiota! Il podio della celebrità non è fatto solo per uno di noi due! – Ridacchiò Geoff, dandogli il cinque: ormai era fatta, aveva accettato.

Passarono tutta la giornata scolastica a distribuire gli inviti e a racimolare offerte per pagare le spese della festa in cambio di buoni per le bevande o pass gratis per entrare. Una volta spiegati alcuni dettagli sulla festa la quantità di soldi che ricevettero fu impressionante, anche sopra le loro più rosee aspettative. Un sacco di studenti che normalmente non concedeva nulla, attirato dal brivido del divieto di svolgere qualsiasi attività “extra scolastica nei locali della scuola senza permesso scritto”, aveva lasciato somme anche più alte di quanto ci si sarebbe aspettati.
Molte ragazze si sentirono onorate ad essere invitate e qualcuna cancellò persino degli impegni per quella sera o l’indomani pur di andare a quella festa.

-

- Geoff, sai, non ti ho detto tutto riguardo a questa festa…

Stavano andando in biblioteca dopo le ultime lezioni per mettere a punto i dettagli finali per il party.
Brian continuò:

- In effetti questa sera pensavo di fare la grande proposta a Jessica… Magari nel mezzo della festa, con qualcosa di speciale… Che ne dici?
Geoff si sentì gelare il sangue nelle vene.

Il grande problema tra loro due era quello: Jess.
Una rossa alta 1,70m, formosa e sogno proibito di ogni ragazzo del loro campus. Una bomba di provocazione e corteggiamento che faceva girare la testa a tutti quelli che la conoscevano, Brian e Geoff compresi. Si, perché entrambi la bramavano in segreto, ma Geoff non se l’era sentita di dirlo a Brian, dato che Jess era il sogno del compagno di stanza da quando aveva 8 anni e non voleva portargliela via. Nonostante tutto, però, si era convinto di non avere speranze e che quindi dire a Brian del suo amore per Jess avrebbe solo fatto soffrire l’amico, quando di fatto il biondo non aveva speranze.
La realtà era un’altra: Jess si era interessata a Geoff per qualche settimane e i loro focosi incontri avevano fatto scalpore nella scuola, ma Brian non ci aveva mai creduto. Alla fine Geoff si era stancato di mentire all’amico e aveva detto addio a Jessica per sempre, ma la ragazza non era abituata a essere lasciata, al massimo era lei che spezzava cuori; per questo, quindi, la ragazza non aveva mai smesso di lanciare incoraggiamenti al biondo, anche quando c’era Brian, che pensava fossero rivolti a lui.

- Si, fratello, mi sembra un’idea fantastica! – Sorrise falsamente Geoff.
- D’altronde – aggiunge Brian con aria sognante – non credo di essere più in grado di resisterle… Tra l’altro… Un paio di giorni fa, ti ricordi? Le era caduto qualcosa e quando si è chinata a prenderla… Be’, ben poco era lasciato all’immaginazione… Ma forse non ci hai fatto caso!
- No, probabilmente non mi ricordo… - Il biondo finse un tono indifferente, ma se lo ricordava perfettamente: la maglietta di Jess era scivolata ampiamente in basso regalando ai due ragazzi un’ampia panoramica del suo decolleté, che aveva avuto un effetto immediato sul livello di eccitazione di entrambi. La differenza era che Geoff aveva colto chiaramente il messaggio rivolto a lui, Brian no.
- Ah amico, quando ne troverai una che ti piaccia davvero capirai a cosa mi riferisco… - Sogghignò il moro.

QUELLA SERA

- Amico mio, hai superato te stesso! – Ridacchiò Geoff guardandosi nell’ampio specchio a parete insieme al compagno di stanza.

Il biondo aveva scelto una semplice camicia, dei jeans e il suo solito cappello, che sapeva gli dava un’aria ribelle e sbarazzina che alle ragazze piaceva. L’amico invece aveva sfoderato tutte le sue migliori armi: pantaloni e camicia firmati e capelli pettinati ad arte. Aveva la pelle di un magnifico colore ambrato e i colori dei vestiti non facevano che accentuarla, oltre a conferire una sfumatura più chiara ai suoi occhi verdi, che in questo modo risaltavano ancora di più.
- Devo darmi da fare stasera… - Sussurrò Brian, compiaciuto.
- E allora andiamo!

Scesero le scale e si diressero a scuola in macchina, da cui erano usciti solo qualche ora prima, per ultimare i preparativi e assicurarsi che ci fossero più ospiti possibili.
Avevano fatto un lavoro incredibile: la palestra e il grande salone al piano terra erano stati trasformati in una grande sala da ballo, con l’angolo cocktail nello sgabuzzino; la piscina era diventata il posto perfetto per un party in costume e su un palchetto rialzato era stata sistemata la strumentazione del dj, collegata a degli amplificatori e a dei microfoni che diffondevano la musica in tutta la scuola. Le aule ai piani superiori erano state lasciate libere e dotate di letti, nel caso qualcuno avesse in mente di chiudersi lì con la propria ragazza per dare sfogo ai propri desideri…
Brian aveva ragione sulle bibite: era un set strepitoso. Alcolici e liquori sparsi in punti strategici del piano terra e ben visibili da tutti.

- Devo dire che ti sei dato da fare, amico! – Ridacchiò Geoff mentre scendeva dalla macchina e scrutava scettico gli alunni che correvano urlanti in giardino, ubriachi.
- Lo so… Allora come sto? Sono accettabile per Jessica? – Chiese dubbioso Brian.

Geoff annuì, una punta di rammarico nel cuore, poi sospirò e aprì le grandi porte del salone al piano terra, pronto a fare il suo ingresso trionfale.
Vennero accolti da ovazioni e urla di gioia, mentre Lucas Jourdey, 4A, urlava dal palco:
- Signore e signori, ecco a voi il duo scatenato che ha permesso a tutti noi di portare i nostri culi a scuola certi di non tornare a casa sobri! Dite ciao a Brian Levis e a Geoff… Cavolo, non me lo ricordo il tuo cognome Geoffy! In ogni caso sei bellissimo anche stasera tesoro! – Ammiccò e storpiò il “tesoro” per farlo sembrare detto da una donna, provocando le risate di tutti.

Geoff gli mandò un bacio per scherzo, poi si diresse verso la pista da ballo, ignorando Jessica che non lo aveva perso di vista.

Decise che si sarebbe divertito e avrebbe dimenticato tutti i problemi che Jess gli aveva causato e che non aveva potuto condividere con il suo migliore amico.
Ballò freneticamente per minuti, forse ore. Aveva perso la cognizione del tempo e il conto delle ragazze che aveva visto dimenarsi tra le sue mani. Scorse Brian baciare appassionatamente una biondina più giovane di un anno, in un angolo.

<< Dov’è Jess? >> Si soprese a chiedersi. << Perché Brian non ci sta provando con lei?! >>

Poi notò che Brian aveva lasciato la biondina per avvicinarsi a una rossa in un miniabito nero che doveva essere Jess. Vide anche che, però, era chiaro il disappunto della ragazza, che si allontanò in fretta, visibilmente seccata.
Brian lo guardò e scrollò le spalle, troppo ubriaco per mollare e seguì Jessica per riprovarci.
Geoff scrollò le spalle: che se la vedessero loro.

Ballò ancora per un po’, poi decise di andarsi a prendere qualcosa da bere: non era abbastanza ubriaco per una festa come quella.

Si sedette al bancone del bar, quando vide con la coda dell’occhio una nuvola rossa estremamente sexy sedersi accanto a lui:
- Heilà Geoff! Hai deciso di dimenticare tutti i tuoi problemi bevendo? – Disse Jess, regalandogli un sorriso che lo lasciò senza fiato.

<< Controllati! >> Si disse.

- Lascia perdere Jess, hai visto come Brian ti gira intorno…
- Si – Rispose lei, visibilmente annoiata – Ma Brian non mi interessa o gli avrei rivolto la mia attenzione molto tempo fa…
- Be’, non è un mio problema… - Ma non riuscì a concludere la frase sentendo la gamba nuda di Jess strusciarsi contro i suoi jeans. Annaspò in cerca d’aria.
- Ah no? Be’, meglio così, ma forse ti interesserà sapere chi voglio io… - Ghignò la ragazza, facendo definitivamente dimenticare a Geoff tutti i suoi buoni propositi.
- Umm.. Sentiamo! – Sussurrò Geoff con il suo miglior tono da conquistatore, che ebbe un effetto immediato sulla ragazza, impreparata a quell’improvviso voltafaccia.
- Ehm… Davvero non lo immagini?
- No. – Ghignò il ragazzo.
- Ah, smettiamola con questo gioco. Vieni con me. – Sussurrò decisa Jess, recuperato il suo tono da conquistatrice.

Lo tirò per la manica fino a una delle aule del secondo piano che si era assicurata fosse vuota attaccandovi un cartello “Inagibile” sulla porta.
Appena entrati spinse Geoff contro il muro e iniziò a baciargli il collo appassionatamente, accarezzandolo con una mano e scendendo lentamente verso il basso.
Il biondo si era ormai lasciato andare e l’effetto delle carezze di Jess e l’alcool che aveva assunto fu letale: il suo corpo rispondeva agli incoraggiamenti di Jess e non ci avrebbe messo molto a perdere il controllo per soddisfare i suoi bisogno fisici.
Invertì le posizioni spingendo Jessica contro il muro e baciandole il collo e il decolleté con passione. A volte la mordeva leggermente o arrivava a qualche centimetro dal baciarla per poi tirarsi indietro, facendola impazzire di desiderio.
Lei gemette sussurrando un “Mi sei mancato” e fu una sorta di benedizione per Geoff che la schiacciò ancora di più con il suo corpo. La spinse sul letto senza esitare oltre, baciandola finalmente sulle labbra, assaporando ogni centimetro del suo corpo non fasciato dal vestito. Con studiata lentezza le sfilò il vestito, mentre lei agguantava, quasi con rabbia, i bottoni della sua camicia e tirava il suo capello lontano.

Nel mezzo della loro travolgente e per troppo tempo sopita passione qualcuno entrò nella stanza, ridacchiando:
- Tranquilla, proprio perché è inagibile non ci sarà ness…

Ma quel qualcuno si bloccò non appena vide Geoff e Jess avvinghiati sul letto, con gli indumenti sparsi per la stanza. Una ragazza del quinto anno ridacchiò:
- Allora c’era qualcuno? Chi? Eh, Brian?

Geoff trasalì. Si voltò e incrociò gli occhi del compagno di stanza, che lo guardava con un misto di tristezza e disprezzo negli occhi:
- Vai via Melany.
- Cosa?! Ma io e te non dovev…
- Vai via. Ora. – Il tono duro di Brian fece trasalire la ragazza, che scrollò le spalle, si voltò e se ne andò, borbottando qualcosa.

- Bene bene, Geoff, mi puoi gentilmente spiegare cosa significa questo? – La voce di Brian era ghiaccio, gli occhi lame che attraversavano il biondo da parte a parte.
- Brian, aspetta…
- Oh, ho tutto il tempo che vuoi. – Non l’ombra di un’emozione nella sua voce.
- Io amo Jess da tanto tempo e stasera… - Provò a parlare Geoff, ma non riuscì a concludere la frase, perché Brian scoppiò a ridere.
- Davvero? Be’, mi fa piacere che questa troia si sia concessa a te prima di dimenticarti. Ora capisco tutti i messaggi che ti mandava… Sono contento per voi, se non fosse che tu sapevi quanto l’amassi. Tu sapevi quanto tenessi a lei. Una cosa sola dovevi fare, ossia stare lontano da lei. Ci sono un sacco di ragazze in questa scuola, eppure no: lei. Non voglio sapere perché, non voglio sapere se questa sia la prima volta o cosa, non mi interessa. Ma tu, tu - sussurrò indicando il biondo, tagliente – Tu, non osare più definirti mio amico. Hai chiuso con me.
- No, ti prego, aspetta! – Geoff si alzò di scatto dal letto e afferrò Brian per il braccio. Il compagno di stanza si voltò e gli tirò un pugno in pieno viso, furioso.
- Geoff basta. Mi sta bene che ami lei, ma stai lontano da me. Almeno questo pensi di riuscire a farlo?

E se ne andò, sbattendo la porta. Jess si avvicinò a Geoff baciandogli il collo e sussurrando:
- Lascialo andare, torna da me…

Il biondo la scaraventò sul letto in malo modo, si rivestì e uscì in fretta.
Brian era seduto al bar e aveva già numerosi bicchieri vuoti allineati al suo fianco.

- Brian, dobbiamo parlare!
- Di solito nei film chi dice cose del genere non intende nulla di buono… No, non dobbiamo parlare. Non abbiamo assolutamente nulla da dirci. – Brian non aveva neanche alzato lo sguardo dal bicchiere.
- Avanti, cerca di comprendermi! Quando mai ce la siamo presa per una ragazza?!
- Comprenderti?  - Il tono del moro rasentava l’incredulità – Io amo Jess da 9 fottutissimi anni! 9! Sai cosa vuol dire?! Vuol dire che ho perso la mia infanzia nel tentativo di farmi notare da lei! E poi ora, in una cazzo di festa che doveva servire a ME per riuscire a conquistarla cosa succede? Tu, mio migliore amico, che la conosce da circa 2 anni, cerca di scoparsela e probabilmente ce l’avresti fatta se il tuo caro compagno di stanza non vi avesse interrotti; scusa tanto!
- Brian! Non sono venuto qui con l’intenzione di farmi Jess, ma sai com’è quella ragazza…
- No Geoff, non lo so! Anzi, tra noi due quello che la conosce meglio sei tu, direi! Dimmi, ha qualche voglia nascosta sul corpo? Qualche tatuaggio? Eh? – Il moro era vagamente divertito, ma sempre furioso.
- Non ci posso credere che stiamo facendo questa conversazione… Senti, riparliamone domani, quando ti sarai calmato. Non bere troppo, io vado a casa. – Sussurrò Geoff.
- Certo mamma. Ricordati che nel caso ti annoiassi puoi fare uno squillo a Jess, vai tranquillo, tanto io non conto nulla per te rispetto a quella puttana, stronzo. – Il tono era tornato duro.

Geoff non sapeva che quell’insulto sarebbe stata l’ultima parola che avrebbe sentito dire dal suo amico.

-

COLDCHESTER’S TIMES

Ancora incerte le condizioni di Brian Levis, studente della Churchill High School che ieri sera è stata teatro di una festa abusiva organizzata da alcuni studenti le cui identità sono ancora sconosciute.
Il ragazzo aveva un tasso alcolico del 3,7 e i dottori presuppongono che, data la quantità di alcool ingerita, il suo corpo non abbia retto e sia svenuto. Le condizioni del ragazzo rimangono critiche e nella peggiore delle ipotesi potrebbe sopraggiungere la morte, quinta di questo genere nell’ultimo mese.
Per ora il ragazzo è in coma vegetativo, tenuto in vita da una macchina. I familiari sono stati convocati d’urgenza in ospedale per quello che potrebbe essere l’ultimo saluto a un figlio modello, ma un po’ spericolato.


- Sono ufficialmente impressionata… Complimenti mio caro, un crimine a regola d’arte… Che fine ha fatto Brian?

Geoff deglutì, visibilmente a disagio:
- Non lo so… Sono fuggito da quella città e ho tagliato i ponti con tutte le persone che conoscevo… Mi sono sentito fare moltissime condoglianze per un lutto che sembrava ormai certo ci sarebbe stato. Sono rimasto in quella scuola ancora per qualche giorno, poi l’hanno chiusa e sono fuggito. Non so che fine abbia fatto Brian.
- Sarebbe interessante scoprirlo… - Ridacchiò Heather. – Be’, vediamo un po’ se oggi verrai giustiziato… Magari da Brian no?

Il biondo deglutì di nuovo e afferrò la pistola. Con un colpo secco ruotò il tamburo e caricò l’arma.
Se la puntò alla tempia fissando il punk, suo compagno di tante avventure successive.

Un colpo.
La vita o la morte.

Clack.

Ridacchiò:
- Brian mi ha punito…

Un rivolto di sangue colò dalla sua tempia, imbrattando la canna della pistola. Geoff si accasciò sul tavolo, con un rumore sordo, mentre la vita fuggiva dal suo corpo.

Heather sorrise, raggiante:
- Wow! Un morto! Finalmente… Sotto a chi tocca ora!

Gwen scosse la testa sussurrando un “sadica..”, rivolto alla mora, ma non fece nulla e mentre un cameriere portava via il cadavere di Geoff bevve un sorso del suo drink.

Heather ghignò:
- Avanti, la serata sta diventando interessante no?

 

- ANGOLO AUTRICE -
Eh allora? ‘Sto Geoff >.< ?!
Mentre scrivevo questo chappy mi sentivo immensamente crudele, perché Geoff è sempre stato un personaggio che mi è stato a cuore… Forse per la sua pazzia o il suo modo allegro di vedere la vita… Insomma, mi sento crudele, però quello che ha fatto è imperdonabile u.u *sadismo*
Ad ogni modo rieccomi con questo chappyyyyyy *^*
Prima di scappare e lasciarvi i soliti due link vi volevo ringraziare per tutto il supporto che mi state dando con questa raccolta :3 Grazie grazie davvero c:
Danke, gracias (si scrive così vero? lol), grazie, thanks <3
Link che vi salveranno la vita (?):
PAGINA FACEBOOK (ps: è finalmente attiva, grazie di cuore a tutti quelli che hanno messo mi piace :3): https://www.facebook.com/pages/Rainy_/615961398491860
BLOGGUCCIO (nuova recensione su Maleficent inserita da poco *^* l’avete visto voi?): http://raggywords.blogspot.it/
Grazie ancora a tutti, bye byeeeee :3
_Rainy_

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Capitolo 8
*** 07. Ma stavolta esse portavano solo rimorso ***


N MA STAVOLTA ESSE PORTAVANO SOLO RIMORSO N

- Avanti, la serata sta diventando interessante no?

I presenti si guardarono l’un l’altro, inorriditi, seguendo con lo sguardo il cameriere che portava via il cadavere del festaiolo.
Una mora formosa sibilò:
- Ti stai divertendo?! In che razza di posto siamo finiti?!

Heather scrollò le spalle, fingendo di non capire e con un ennesimo ghigno fece ruotare con un movimento secco il settimo proiettile.

Esso ruotò su se stesso in circonferenze perfette, stridendo sul legno del tavolo. Girava e girava, ancora e ancora, senza fermarsi mai. Rallentò pian piano e alla fine si fermò, inequivocabilmente puntando verso… Duncan.

- Oh, davvero?! Bene, finalmente qualcuno con una storia seria da raccontare! – Rise sguaiatamente Heather.

Il punk si guardò intorno, furtivo, incrociando lo sguardo carico di disprezzo del suo primo amore e quello pieno di apprensione della sua eterna amante:
- La mia storia molti di voi la sanno già: carcere, droga, qualche piccolo crimine… Il solito.
- Oh avanti, non mi riferisco a quello. Ma al tuo primo vero, serio, crimine. Ci sarà pur qualcosa di cui ti vergogni profondamente… O hai commesso atti illeciti solo per renderti degno delle attenzioni del tuo paparino?! – Ribattè la perfida Heather.
- Taci. Non parteciperò a questi giochetti del cazzo! – Sibilò Duncan, estraendo rapito un coltello dalla tasca e puntandolo alla gola della mora, seduta dall’altro lato del tavolo. Istintivamente Gwen gli mise una mano sul braccio. Heather non battè ciglio:
- Oh, per favore! Evitiamo queste paranoie inutili, non lanceresti mai un coltello al tuo vecchio capo dico bene? Quindi pensa che più in fretta racconti, più in fretta ce ne andremo tutti da questa rievocazione per espiare le nostre colpe.

Il punk sbuffò, tracannò ancora un sorso del suo drink e chiese ad Al se potesse bere anche il suo, che non era stato toccato. Scolatosi anche la bevanda dell’amico sbuffò nuovamente e cominciò a raccontare…


Quella notte era particolarmente fresca e la lieve brezza del vento si era impressa nella mente del punk, che avrebbe ricordato quelle poche ore come le più eccitanti della sua vita.

Era partito di buon’ora con i suoi due compagni di ventura, Linda e Thomas, per imprimere nella storia i loro nomi come quelli dei tre ladri più capaci del nord America.
Avevano affrontato un lungo e divertentissimo viaggio in macchina per giungere finalmente a Cape Town, dove si trovava la sede di una delle banche più importanti di tutti gli USA. Era un colpo studiato da tempo e i loro ruoli si erano definiti nel corso degli anni: Thomas la mente, Duncan la forza bruta e Linda l’agilità e la velocità.
Si conoscevano da tantissimo tempo: Thomas e Duncan erano migliori amici dai tempi delle superiori e Linda era una sensuale e letale ragazza conosciuta in riformatorio e che non ci aveva messo molto a cadere tra le braccia di un Duncan che non l’aveva di certo rifiutata.

Ed ora erano lì, in quella fresca notte di giugno, a scrutare la sede centrale della banca da fuori, valutando l’altezza delle mura di granito.

- Duky, dici che ce la faremo a tornare per il compleanno di mia cugina? – Chiese Linda con la sua voce accattivante e capace di far capitolare ogni uomo sulla terra.
- Ovviamente tesoro, e potremo anche fermarci a comprargli il più bel regalo che possa desiderare. Una Porsche color crema magari… Thomas, ci sei?

L’amico non era con loro fisicamente, ma a qualche metro di distanza, nascosto tra i cespugli e avvolto in una tuta termica a bordo di un furgoncino che all’occorrenza li avrebbe tutti salvati da spiacevoli incontri con la polizia.
- Certo che ci sono D.

Il ragazzo sorrise, sistemandosi i lunghi capelli neri dietro le orecchie e ripensando a come sotto l’aria da innocente secchione di Thomas si nascondesse una vera e propria mente criminale.
- Allora via, caro Tommy. Andiamo a fare il culo a questi pseudo-americani del cazzo.

Linda ridacchiò e osservò Duncan lanciarsi sulle mura per poi scalarle e attirare l’attenzione di tutte le guardie, che cominciarono a seguirlo quasi subito, inesperte.
La ragazza scalò a sua volta rapidissima la parete di granito, sfruttando lo slancio e qualche appiglio di fortuna per sgattaiolare inosservata dall’altra parte.
- Thomas, ci sei? Aggiornami.

Il ragazzo si sistemò gli occhiali sul naso, inserì la chiave nel cruscotto senza girarla e ridacchiò:
- Tesoro, dovresti sapere che tutti gli antifurti sono disattivati e che nessuna telecamera ti può vedere. Saranno tutti a cercare di prendere quel bastardo di D. – Osservò lo schermo dei molteplici portatili che aveva davanti illuminarsi e poi coprirsi di codici binari verdi che scorrevano a una velocità impressionante davanti ai suoi occhi. Riconobbe qualche spezzone di codice, ma poi lasciò perdere quel divertente passatempo per dedicarsi alle telecamere, ricontrollando per l’ennesima volta che i filmati fossero stati innestati correttamente nella sequenza di immagini preesitente.

Linda scattò e in poco tempo fu dentro l’edificio. Tramortì qualche guardia e prese in prestito i vestiti di una di esse, zittendo Thomas che discuteva con se stesso su quanto la guardia fosse attraente e su quanto spogliarla per non approfittarne fosse uno spreco vero e proprio. La ragazza si scostò impaziente una ciocca di capelli rossi e neri dal viso e individuò immediatamente il caveau. Vi si diresse senza indugio.
- Thomas, come stiamo andando?
- Direi benissimo. Il caveau ha dei sensori di movimento e dei raggi infrarossi che fanno scattare una scarica elettrica capace di friggerti il cervello se toccati. Non riesco a disattivarli al momento, ma ci sto lavorando.

Linda ridacchiò:
- Tze, bazzecole!
- Non ho dubbi tesoro! – Rispose Thomas.

La ragazza si destreggiò nel caveau che era immenso e conteneva una tale quantità di denaro tale da superare anche le più rosee aspettative di un poveraccio. Si fermò qualche secondo a contemplare l’immensità di ciò che aveva davanti. Mazzette e mazzette di banconote si soprapponevano le une alle altre fino a formare altissime pile che sembravano delle vere e proprie costruzioni.

Thomas, dal canto suo, stava dando un’occhiata agli aggiornamenti del suo sito porno preferito, interessandosi particolarmente a qualche video d’intrattenimento, quando con la coda dell’occhio scorse un computer che improvvisamente si spegneva.
- Che cazzo…?! – Sussurrò.
- Che cazzo cosa Thomas?! – Sibilarono Linda e Duncan in coro, improvvisamente allarmati.

I portatili cominciarono a spegnersi uno dopo l’altro e Thomas strillò:
- C’è qualcosa che non va ragazzi, forse ho dimenticato qualcosa! Uscite subito di lì!

Ma non fece in tempo a dare direttive per raggiungere l’uscita più vicina che delle guardie armate aprirono il furgoncino dove si nascondeva e senza pietà gli spararono una pallottola dritta nel cervello.
Mentre Thomas esalava l’ultimo respiro gli parve di sentire altri due spari, qualche “Muori troia” e il triste blip del suo ultimo portatile che si spegneva. L’ultima cosa che vide prima che la morte lo abbracciasse fu il grande pulsante lampeggiante che doveva servire a confermare il download del porno che aveva intenzione di guardare una volta arrivato a casa; peccato che a casa non ci sarebbe mai più tornato da vivo.

-

- Svegliatelo!

Udiva i suoni in modo confuso, impreciso e molto strano, quasi come se la voce venisse da una bocca impastata o con qualcosa all’interno. Era sospeso in una bolla di luce che risplendeva nell’oscurità, a tratti più vivida e reale, a tratti nera e profonda.
Non comprendeva e non aveva memoria di chi o dove fosse.

D’un tratto il risveglio: venne strappato violentemente al torpore della confusione e tornò bruscamente alla realtà.
Si trovava in una cella molto spartana, con lucenti sbarre di metallo, solide pareti di cemento e un letto a castello occupato da lui soltanto.
Due guardie vestite di tutto punto sghignazzavano a pochi centimetri dal suo volto; una guancia gli doleva e sentiva che gli erano stati tagliati i capelli.

- Buongiorno fiorellino! Peccato, speravo di arrivare al terzo schiaffo per svegliarti, ma hai reagito meglio del previsto..

Ah! L’umorismo da aguzzini… Non gli era mancato per niente.
Non ci mise molto a collegare l’ambiente nel quale si trovava e le battutacce da carcerieri agli avvenimenti della sera prima che lentamente riaffioravano: era stato catturato.
Provò a parlare, ma la voce era fievole e le parole stentate:
- T… Mas… Nda… - Biascicò.

Una delle due guardie, più alta, con una mascella sporgente, lisci capelli biondi e piccoli occhi marroni sghignazzò:
- Vuoi sapere dove sono i tuoi amici? Fai un salto all’obitorio e lo scoprirai! – E rise sguaiatamente insieme all’altra guardia, un tipo bassino, rotondetto e con capelli e occhi scurissimi.

<< Obitorio >> La parola risuonò nella sua mente come un eco.
Questo voleva dire che ormai erano persi per sempre. La sua adorata Lisa e la sua spalla in mille avventure, Thomas.

- Ragazzi, smettetela di perdere tempo! Duncan Evans! – Nella cella entrò un signore calvo con grandi baffi scuri, evidentemente il direttore del penitenziario, che si rivolse a lui con tono freddo e autoritario. – Conosce i suoi diritti, sa come funzionano le cose qui e noi conosciamo lei: furto, spaccio, qualche piccolo crimine secondario… Non proprio una bella fedina penale eh! In ogni caso dovrà dividere la cella con un altro ragazzo, la avverto. Mi dispiace che non possa stare da solo. – Poi si rivolse alle due guardie. – Portate dentro l’altro prigioniero!

- Non ti rivolgere a me con quella schifosa pietà negli occhi, amico! – Sibilò Duncan, che si era rizzato improvvisamente a sedere e aveva parlato con qualche difficoltà, ma impetuosamente. – Mi stai declassando a criminale minore?! Da quando ho un cazzo di compagno di cella?! Che porti pure il culo fuori da qui, io non ce lo voglio in questa cazzo di stanza.
- Pf… - Il direttore sbuffò, guardandolo gelido. – La smetta signor Evans. Portatelo dentro!

Le guardie uscirono qualche secondo e portarono dentro un ragazzo magrissimo, dalla carnagione candida, un sacco di lentiggini in faccia, qualche dritto capello nero sulla testa e vestito con dei jeans neri e una canotta bianca lurida. Aveva vistosi orecchini di metallo all’orecchio destro, profondi occhi neri fissi a terra, delle manette ai polsi e una cicatrice rossastra che correva dal gomito a metà avambraccio.

Il direttore annunciò allegro:
- Elijah, Duncan. Duncan, Elijah.

Duncan squadrò il nuovo arrivato e sputò per terra, giusto per chiarire chi comandava in quel posto. Elijah non si mosse, mentre l’altro lo fissava seccato e stupito dalla sua reazione al tempo stesso. Lo sguardo del nuovo era perso nella contemplazione delle sue scarpe da ginnastica.
- Hei amico, almeno sai parlare?! – Sibilò Duncan sprezzante.

Le guardie ridacchiarono e li lasciarono soli, togliendo le manette a Elijah prima di andarsene. Il ragazzo continuò a fissarsi le scarpe e si diresse verso la scaletta che portava alla brandina in alto del letto a castello. Duncan si spazientì e si alzò di scatto, spintonando il ragazzo per le spalle:
- Amico, parlo con te!

Alzò un braccio per tirargli un debole pugno, ma la sottile e pallida mano di Elijah si mosse, velocissima, e bloccò il polso di Duncan a mezz’aria. Quest’ultimo fece un salto indietro per la sorpresa e si ritrovò a fissare gli occhi scuri di Elijah, gelidi, ma strafottenti.
- Che cazzo…
- Amico, non pensare che solo perché sei più massiccio di me tu abbia il diritto di fare tutto ciò che vuoi! Non mi farò certo inculare da un punk mancato solo perché è quello che tutti si aspettano! – Ringhiò Elijah, ghignando. La sua voce era particolarmente gioviale e mal si intonava con quello che aveva appena detto.
- Punk mancato?! Ehi, non ti conviene provocarmi! – Sibilò Duncan.

Elijah lo fissò per qualche istante con intensità, dopodichè scoppiò a ridere e gli lasciò il braccio:
- Rilassati, sto scherzando! – Dopodichè alzò il pugno a mezz’aria e Duncan, riluttante, lo colpì delicatamente con il suo.

La faccia di Elijah, da cupa e noncurante, si era aperta in un sorriso sincero e uno sguardo furbo, che scrutavano Duncan con curiosità e allegria.
- Si si, lo so: ti starai chiedendo perché tutta questa sceneggiata, ma ehi! – << Gesticola terribilmente! >> Pensò Duncan. – Non potevo mica arrivare tutto sorridente! Allora, compagno di cella, perché sei qui? – E non smise di sorridere neanche un secondo.
- Be’… - Rispose un po’ spiazzato il ragazzo. - …Ho cercato di fare una rapina importante ed è fallita… Tu? – Non che gliene fregasse qualcosa, ma Elijah era il ritratto dell’allegria e della tranquillità.
- Ah, io ho hackerato il server di una banca svizzera per trasferire metà dei soldi di alcuni ricchi imprenditori nel mio conto in banca, ma purtroppo una falla nel sistema di rimozione dell’antivirus ha permesso ai piedipiatti di acchiapparmi… Immaginati la scena: - E rise ancora. – Io me ne sto tutto nudo e tranquillo nel mio appartamento, con un trancio di pizza in mano, a fissare il mio conto corrente che cresce e cresce e a un certo punto gli sbirri sfondano la porta e entrano due tizi che dicono di volermi arrestare. Uno dei due tra l’altro era una donna, una rossa di 1.80 un po’ cicciotta, ma niente male. Le avrei volentieri dato una ripassata, non so se mi spiego… - E aveva strizzato l’occhio al compagno di cella, ridendo .

Duncan all’inizio aveva provato a trattenersi, ma in effetti il mondo con cui aveva spiegato tutta la scena (gesticolando e facendo le voci dei vari sbirri e della poliziotta che nella sua immaginazione gli diceva frasi sconce) era davvero spassoso e alla fine era scoppiato a ridere anche lui.
Le risate erano, però, state interrotte da Phil, detenuto della cella accanto alla loro, che aveva sghignazzato:
- Cosa sono tutte queste risate da mezze checche?!

Duncan stava per rispondergli, ma Elijah era già premuto contro le sbarre della cella mentre sibilava, fissando Phil negli occhi:
- Senti un po’ ladruncolo sovrappeso ipotrombato, solo perché non scopi con tua moglie da qualche anno non vuol dire che devi scassare il cazzo a tutti qui dentro! Il tuo quoziente intellettivo è pari a quello di un cassetto mio caro e fossi in te non farei tanto il gradasso avendo un conto in banca di 100$, una moglie che di sicuro ti tradisce e neanche la capacità di portare a termine una rapina del cazzo come quella per cui sei stato preso. – E aveva concluso sputando per terra nella sua direzione, mentre Phil cominciava a urlare insulti al nuovo arrivato.

Tutto il corridoio, comprese le guardie, erano ammutolite e solo Phil continuava a inveire contro Elijah. Il diretto interessato passò accanto a Duncan, che aveva alzato il pugno di riflesso, pronto a batterlo contro quello del compagno di cella, che ghignando si sdraiò sulla sua brandina, chiudendo gli occhi:
- Trovo che gli insulti siano ideali per farti venire sonno! Soprattutto… – E alzò un po’ la voce, in modo che Phil lo sentisse. – … Se provenienti da un coglione col cervello in prognosi riservata.

Duncan sghignazzò, chiedendosi chi realmente fosse il suo nuovo compagno di cella.

-

Erano diventati amici.

Dovevano entrambi scontare molti anni di carcere e sapevano di dover contare l’uno sull’altro per poter sopravvivere in quella prigione dove chiunque pensava solo a se stesso.
Passavano le rare ore d’aria insieme ed erano i soli a non ricevere mai visite.

Inizialmente Duncan non era riuscito a fidarsi di lui, ma pian piano si era aperto e aveva capito che Elijah era quanto di più si avvicinasse a un migliore amico, in quel periodo della sua vita.
Sapeva praticamente tutto di lui ed era stato proprio Elijah ad accompagnarlo a vedere i cadaveri di Thomas e Linda per la prima volta e a dirgli che se fossero mai usciti dal carcere illegalmente avrebbe dovuto farsi i capelli verdi.
Era un rimpiazzo di Thomas, per certi versi, lo sapeva.

Quel giorno il sole splendeva alto nel cielo e il numero di anni che doveva ancora scontare in carcere gli sembrava più basso del solito: una bella giornata insomma.
Elijah era seduto sulla sua brandina a trafficare con due pezzi di spago e ad un tratto sbuffò:
- Non sei stanco di tutto questo, Duky?

L’interpellato ridacchiò:
- Ogni santo giorni, amico! Puoi giurarci… Ma che vuoi fare?

Elijah saltò giù ghignando, come se non aspettasse altro che quella frase e gli sussurrò in modo da non dare nell’occhio:
- Oggi Edgar ha in mente di evadere e sta chiedendo a qualcuno di noi se è disposto ad andare con lui. Gli mancano altri due tizi per completare il suo folle piano.
- Piano?! Ossia! Non lasciarmi così sulle spine! – Rispose sorpreso Duncan, che non vedeva l’ora di andarsene da quella umida cella.
- Be’, in realtà è un piano rudimentale. Io e Edgar dovremmo infiltrarci nel sistema di sicurezza del carcere e disattivarlo, ma per farlo ci serve una piattaforma elettronica da cui accedere e qui entri in gioco tu bello mio! – Ridacchiò all’espressione perplessa dell’amico. – Dovresti semplicemente fottere un cellulare a una delle guardie, magari a Johnny, il novellino biondo dall’aria tedesca che fa la ronda a mezzogiorno quando stiamo mangiando… Trova una scusa per fottergli il telefono e poi addio a tutte le misure di sicurezza del carcere, rimarrebbero solo le guardie, ma neanche quelle sarebbero un problema dato che il compagno di cella di Edgar ha assicurato che stasera ci sarà una riduzione del personale a causa della festa del Ringraziamento. Allora? – E poi si era messo a fissarlo, speranzoso.
- Mah… Non saprei… - Duncan era perplesso.
- Oh andiamo! E’ un’occasione imperdibile e poi cos’hai da perdere?! – Lo guardò Elijah, un po’ deluso.

Alla fine Duncan annuì, convinto del fatto che al massimo avrebbe aggiunto altri anni di carcere a quelli che comunque doveva scontare.

-

- Yo! Siamo pronti? – Elijah alzò il pugno in aria trionfante e Duncan ridacchiò, colpendolo con il suo.

- Molto bene fratello, allora andiamo! – Rise nuovamente Elijah.

Uscì dalla cella per dirigersi a pranzo e urlò un “Felice Ringraziamento!” a tutte le guardie, ridacchiando sotto i baffi. Duncan fece prontamente finta di essersi dimenticato la giacca della divisa nella cella e tornò rapidamente indietro, appena in tempo per vedere Johnny che svoltava l’angolo del corridoio e si dirigeva in fretta verso di lui, lo sguardo fisso al cellulare.
- E così tu sei Johnny, il novellino? – Ringhiò Duncan, affidandosi alla sua faccia più minacciosa.

Il biondino alzò la testa e lo fissò, strafottente:
- Ehi feccia, che vuoi?
- Ah! Gli insulti addirittura? – Rise aspramente Duncan. – Bene, ma sappi che mi ci vorrebbero 5 minuti appena per gonfiarti di botte come mai ti è successo prima. O forse si? Hai una faccia di cazzo tale… Non mi sorprenderebbe sapere che ti hanno già pestato…
- Cosa?! – Ringhiò Johnny, mentre delle goccioline di sudore gli colavano giù dall’attaccatura dei capelli e sparivano nel colletto della camicia.
- Dimmi, ce l’hai la ragazza? – Sorrise Duncan, falsamente amabile.

Johnny scosse la testa e portò la mano alla pistola.
Il detenuto si guardò intorno e non vedendo nessuno nel corridoio si avvicinò velocemente a Johnny e si fermò a pochi centimetri dalla sua faccia, inchiodandolo con le braccia alla parete. I loro nasi si sfioravano. Prese tra le dita una ciocca dei fini capelli biondi della guardia e la accarezzò delicatamente.
- Perché un bel giovane come te non ha una ragazza? Eh? – Sussurrò Duncan, flebile. Johnny ormai stava sudando intensamente.
- Io… N-Non lo so! – Poi trattenne bruscamente il fiato, perché Duncan aveva inclinato la testa di lato, avvicinandosi. Si fermò a un soffio dalle sue labbra per tirarsi improvvisamente indietro e sghignazzare:
- Sei una cazzo di checca! – E aveva riso sguaiatamente.
- Non sono gay! – Strillò Johnny, isterico.
- Ah no? Be’, poco importa. Se non vuoi che i tuoi colleghi vengano a sapere di come non avresti rifiutato le mie false avance, e ti assicuro che io sono al 100% etero, ma comprendo che il mio immenso fascino possa fare vittime anche tra persone di sesso maschile, ti conviene fare qualcosa per me! – Ghignò infine Duncan, perfido.
- V-va bene! Okay! Dimmi cosa devo fare! – Cedette infine Johnny, dopo qualche estenuante secondo, schiacciato dall’umiliazione che rischiava di subire.

<< Tipico novellino idiota! >> Pensò Duncan.

- Niente di che, devi solo darmi il cellulare! Mi serve per qualche ora, dopodichè te lo ridarò checca. Devo fare una sola chiamata privata e ad alto contenuto di frasi sconce e inadatte a una piccola, tenera checca. – Ridacchiò.
- Il mio cellulare?! Va bene… - Poi gli allungò il cellulare che un suo collega gli aveva prestato, sentendosi furbissimo ad aver raggirato il detenuto evitando di dargli il proprio, e si allontanò di corsa.

<< Coglione! >> Pensò il detenuto. Dopodichè si avviò a pranzo, sorridendo ad Elijah e passandogli di nascosto il cellulare incriminato, ripercorrendo mentalmente la propria performance in cui il suo ego era decisamente aumentato.

- Mi devi una figura di merda, stronzo! – Ridacchiò Duncan.

- QUELLA SERA -

Stava andando tutto bene.
Tutto era andato secondo i piani fino a quel momento: erano riusciti a disattivare gli antifurti, a mettere fuori gioco le guardie e ad avviarsi verso l’uscita rubando le uniformi agli aguzzini tramortiti, quando Johnny e altri novellini erano accorsi armati di pistole, sparando a più non posso.

Il tempo si era come fermato: tutti si erano nascosti o riparati come meglio potevano, cercando di convincere i novellini di essere guardie e non fuggitivi, ma non c’era stato niente da fare.

Le guardie si avvicinavano inesorabilmente e i proiettili che sfrecciavano sopra le teste di Duncan ed Elijah, riparati dietro una scrivania rovesciata, sembravano non finire mai. Il rumore delle continue ricariche riempiva l’aria e fogli di carta volavano ovunque, rendendo più difficile per tutti vedere dove si stava andando.

- Ehi amico, questi ci faranno il culo, non trovi? Dobbiamo pens… - Ma Duncan si era bloccato a metà frase, perché uno sguardo ad Elijah l’aveva raggelato: era ferito ad una gamba e perdeva molto sangue.
- Oh, Cristo! Elijah, come stai?! – Aveva urlato Duncan, rendendosi conto della stupidità di quella domanda.
- Secondo te come cazzo sto, coglione?! Mi hanno appena sparato ad una gamba! – Aveva urlato di rimando lui, non a torto.
- Io non ti abbandono! Ti porto fuori di qui e poi andiamo da un mio amico che abita qua vicino, lui ti curerà, è fidato!

Elijah annuì.

Duncan allora si era inginocchiato accanto all’amico e senza pensarci due volte era strisciato fino a Jimmy, un altro detenuto che stava cercando di scappare con loro, per poi spingerlo in avanti violentemente. Jimmy era caduto oltre la scrivania dietro la quale si nascondeva, atterrando proprio davanti alle guardie che impiegarono qualche secondo a decidere cosa fare di lui.
Stavano animatamente discutendo se rinchiuderlo nuovamente oppure no, quindi Duncan ne approfittò per caricare Elijah sulle sue spalle e avviarsi faticosamente verso l’uscita, oltre un lungo corridoio rivestito di piastrelle sporche. Gli altri detenuti nel frattempo continuavano a ripararsi come meglio potevano.

Il novellino, Jhonny, se ne accorse e senza pensarci due volte sparò un colpo a Jimmy, che si accasciò a terra, per poi correre dietro ai due fuggiaschi.

<< Magari l’ho sottovalutato… >> Pensò Duncan, ma era troppo tardi.

Stava correndo con Elijah sulle spalle, quando sentì un dolore lancinante esplodergli in una spalla.
Elijah cadde a terra, incapace di sostenersi con le gambe e privato del sostegno della spalla del compagno.

- Duncan! – Urlò Elijah, stramazzando a terra e gemendo per il dolore.

L’amico era in piedi, in mezzo al corridoio.
Alle sue spalle Jhonny che si avvicinava pericolosamente e Elijah, ferito, dall’altra la libertà.

Cosa doveva fare?
Ripensò in pochi secondi a tutto quello che era capitato nella sua vita, a tutti gli amici che lo avevano tradito, a tutte le botte che si era preso fino a quando non aveva imparato che darle era la risposta migliore, alla madre morta giovane e al padre che lo aveva abbandonato davanti ad un orfanotrofio lurido, dal quale era scappato. Ripensò anche alla notte della sua fuga, in cui le stelle splendevano alte nel cielo, quasi a volerlo accompagnare. Le immagini si susseguivano nel suo cervello, rapidissime e ognuna ne chiamava a sé altre, in una catena infinita che sembrava l’inizio di un sogno.

- Elijah… Mi dispiace… - Fu un sussurro, una decisione avventata e un grande dolore, peggiore di quello della spalla, si insinuò nella mente di Duncan.

L’amico lo guardò, il terrore negli occhi e capì. Cominciò a urlargli insulti, a piangere dalla disperazione.
- Sei un egoista Duncan, un cazzo di opportunista. Io non conto niente per te?! Dopo tutto questo, io non conto nulla?

<< Stai sbagliando e lo sai! >> La coscienza di Duncan gli urlava di pensarci due volte, di tornare indietro, ma dall’altro lato gli sussurrava dolcemente che Elijah avrebbe capito, che nessuno voleva morire in modo così orribile.

Questi i suoi pensieri mentre correva nella sconfinata distesa di boschi che circondava il penitenziario.
Migliaia di stelle sopra di lui lo osservavano, a ricordargli la sua passata fuga dall’orfanotrofio, ma stavolta esse portavano solo rimorso.


Nessuno fiatò per qualche istante, dopodichè Heather iniziò a sghignazzare e Duncan afferrò la pistola.
- Ecco il perché di quella ridicola cresta verde… Pensi che così Elijah possa perdonarti per il tuo tradimento

Tradimento… La parola aveva un suono strano nella mente del punk, che mai si era riferito a se stesso in quel modo, forse per codardia o forse perché si rifiutava di pensarci; chissà…
Afferrò la pistola con decisione, spinse il proiettile nel tamburo e con uno scatto secco lo osservò girare, girare e girare, fino alla chiusura. Se lo puntò alla tempia.

Un colpo.
La vita o la morte.

Clack.

Il proiettile penetrò a fondo nel cranio di Duncan, che in materia di armi era esperto. Si accasciò sul tavolo con un urlo soffocato.

Gwen e Courtney si alzarono in contemporanea e dopo essersi squadrate con astio per qualche secondo si lanciarono sul corpo di Duncan, piangendo copiosamente.

Heather dal canto suo sghignazzava, come sempre, e guardando i rimanenti con perfidia mise al centro del tavolo l’ottavo proiettile.


-ANGOLO AUTRICE-
Cerchiamo di non rendere questo capitolo ulteriormente lungo… >.<
Non mi uccidete per la morte di Duncan, ma prima o poi qualcuno di importante doveva morire no? Si. Sono sadica, MUAHAHAHAH ^._.^ Ma io coltivo un odio per quell’infedele causa della guerra DxC/DxG, quindi l’ho punito here :3 Sorry u.u
Bye bye!
_Rainy_
FICCY ORIGINALE DELLA RAINY:
http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=2822907

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Capitolo 9
*** 08. Occhi che portavano il segno del tradimento ***


OCCHI CHE PORTAVANO IL SEGNO DEL TRADIMENTO   N

 

Heather dal canto suo sghignazzava, come sempre, e guardando i rimanenti con perfidia mise al centro del tavolo l’ottavo proiettile.
- Chi vuole avere l’onore di lanciare? – Chiese, velenosa come un serpente.

Nessuno dei presenti si mosse; Courtney e Gwen ancora chine sul corpo inerme di Duncan.

- Coraggio ragazzi! Non possiamo rimanere qui a piangerci addosso tutta la sera! – Ridacchio la mora, poi sbuffò. – Okay, se proprio non volete lo farò io, come al solito.

Fece rapidamente ruotare su se stesso il proiettile ed esso vorticava, mentre tutti i presenti riprendevano i loro posti e sudavano freddo al pensiero che si fermasse su di loro.

Pian piano il proiettile rallentò e si fermò esattamente su una giovane ragazza che aveva appena finito di tracannare il suo bicchiere: Leshawna.

- Dunque è il mio turno, stronzetta… - Sussurrò guardando l’odiata Heather.

La mora annuì e fece il gesto di mettersi in ascolto mentre l’altra faceva una smorfia di disgusto:
- Come sapete io ho vissuto relativamente tranquilla fino ai 20 anni…



Il locale era piccolo e sporco. Casse nascoste con poca cura da pesanti tende occupavano tutti e quattro gli angoli della sala, che ospitava decine di tavoli in legno unto e sedie sgangherate, e diffondevano musica assordante oltre che abbastanza antiquata creando un sottofondo sgradevole, ma che ben accompagnava le attività che si svolgevano abitualmente in quel seminterrato adattato: spaccio, furti, pianificazione di complotti e assassinii...

La frequentazione del locale era adatta alle attività che li abilmente si svolgevano e facendo scorrere lo sguardo tra la folla si potevano vedere tante persone diverse: grassi boss della malavita decaduti, ubriaconi o barboni e persino qualche sgualdrina in abiti provocanti e attillati che ancheggiava spostandosi tra i vari tavoli alla ricerca del cliente successivo.

Leshawna non aveva scelto di lavorare lì, ma ci era stata costretta dal padre che era stato il gestore di quel locale scadente. In quel momento, mentre indossava il suo succinto vestito di paillettes rosse, pensava all’ultima conversazione che aveva avuto con suo padre e alla promessa che gli aveva fatto: non abbandonare quel posto. All’inizio era stato difficile, ma ci aveva fatto l’abitudine.

Il suo più grande desiderio, però, era andarsene e non le importava più, ormai, se ciò voleva dire infrangere la promessa fatta al vecchio padre. Era diventato un’ossessione per lei e veniva percepito come un bisogno fisico, oltre che un forte desiderio.

Con voce suadente Bill urlò alle persone radunate nel locale di prestare attenzione e ascoltarlo:
- Signore e signori, forse non tutti qui sanno che questo locale, si, proprio questo, ha una delle migliori cantanti di tutta l’America! E forse non sapete neanche che questa cantante è qui per voi stasera a deliziarvi con la sua voce e a svuotare i vostri portafogli in fazzoletti per asciugare le vostre lacrime di commozione! Signore e signori, stasera per voi… Leshy! – Il pubblico esplose in grida di approvazione.

Leshawna salì sul palco ancheggiando e sorrise suadente al pubblico urlante. Dopodiché prese il microfono e cominciò a cantare, liberando la sua voce roca, ma melodiosa e ammaliando tutti con le sue parole, come sempre.

Quando la canzone finì sorrise di nuovo e fece un breve inchino, rimanendo a godersi gli applausi. Fece per rientrare dietro le quinte quando Bill prese la parola:
- Leshy, aspetta! – Lei si fermò e tornò subito indietro sprizzando falsa felicità. – Non vorrai andartene così senza aver risposto a qualche domanda del nostro pubblico?
- Magari un’altra volta, Bill… - Rispose Leshawna facendo squillare esageratamente la sua voce.
- Oh andiamo… - Pregò lui, poi si avvicinò e le sussurrò in un orecchio: - Se non rispondi alle loro domande giuro che ti rovino, e stavolta per davvero. – Poi si voltò, di nuovo sorridente come se non fosse successo nulla.

Bill era così e ricopriva tanti ruoli per Leshawna: amico, collega, amante occasionale, ma anche aguzzino e ricattatore. La sua presenza era uno dei punti fermi della vita della ragazza, e spesso costituiva uno dei punti critici e la peggiore delle sue paure.

- Magari riusciamo ad ascoltare qualcuno di voi! – Strillò entusiasta Leshawna, spumeggiante come non mai, ma sudando freddo.

Bill le sorrise dall’alto della sua chioma dorata e si rivolse al pubblico:
- Chi vuole parlare per primo? – Diversi uomini alzarono la mano e Bill fu subito da loro.

Il primo era un noto boss della malavita che le strizzò l’occhio e chiese:
- Quanto vuoi, baby? Se capisci cosa intendo… - Diversi uomini risero, ma la ragazza dentro di sé era solo disgustata, nonostante non potesse mostrarlo.
- Oh, ehm… - Si mise una mano davanti alla bocca, falsamente imbarazzata. – Passa dopo e vedremo di trovare un accordo… Per mandarti via a calci! – E gli strizzò l’occhio mentre il pubblico rideva, lui compreso.

Un altro signore subito si alzò e Bill corse da lui con il microfono:
- Sei troppo sexy, sai?
- Grazie tesoro! – Civettò lei.

Bill vide che nessuno alzava la mano con decisione e risalì sul palco in fretta per congedarla, tornando poi a dirigere lo show e a presentare l’altra cantante del locale.

Leshawna camminò velocemente fino dietro alle quinte e calcolò che mancavano ancora 4 ore prima della fine del suo turno. Si sedette sulla poltrona, sconsolata.

Il suo lavoro non le piaceva per niente: doveva mettere in mostra il suo corpo ogni giorno, sfruttare la sua voce e fare tutto ciò che diceva Bill per guadagnare qualche soldo e mandare avanti quella baracca solo per rispettare l’ultimo desiderio di suo padre. La sua era stata una vita costellata di sacrifici e se Bill era entrato nella gestione del locale era solo perché non riusciva ad incassare abbastanza da sola.

Si cambiò più in fretta che poté, indossando una camicia a quadri allacciata sotto al seno e un paio di jeans strettissimi, per poi dirigersi immediatamente al bancone del bar e portare le ordinazioni ai vari tavoli. La barman, Tina, la guardò intensamente, capendo il disagio di Leshawna a lavorare lì e le consegnò un’ordinazione sussurrandole:
- Quando convincerai Bill a licenziarti sarai libera, lo sai…

Leshawna annuì e si destreggiò tra i tavoli ricevendo fischi e pacche sul sedere al suo passaggio. Quei contatti non le facevano altro che schifo, ma doveva resistere ancora un po’ prima di riuscire ad andarsene.

Sognava di sfondare come cantante, ma sapeva che rimanendo in quel locale le probabilità di farcela erano piuttosto limitate, perciò, da quando aveva realizzato che esaudire l’ultimo desiderio del padre l’avrebbe portata ad una vita insoddisfacente, pregava Bill di licenziarla e di lasciarla libera, ma egli non voleva, ben sapendo che la sua voce era ciò che mandava avanti il locale. La ragazza provava sensazioni contrastanti a quel rifiuto, perché in effetti si sentiva in colpa per desiderare un’altra vita, infangando la memoria del suo amato papà.
Tina era subentrata quasi subito, avendo lavorato in quel bar sin da quando era stato fondato, e aveva cercato di convincere Bill a lasciare libera Leshawna, perché pensava che di sicuro la memoria del vecchio padre non si sarebbe rovinata se la figlia avesse potuto conquistare uno stile di vita decente. Bill, però, era irremovibile e le aveva provate tutte per far firmare a Leshawna un documento che attestava che sarebbe rimasta per sempre.

Alla fine erano giunti ad un accordo: Leshawna avrebbe lavorato lì fino a quando non sarebbe riuscita ad avere un altro posto di lavoro sicuro e in quel caso Bill l’avrebbe lasciata andare, usando Sharon, la cantante minore, come principale attrazione del locale.

Proprio Sharon si stava esibendo in quel momento e quella sera avrebbe dovuto fare lei il cosiddetto “Suicidio” (com’era chiamato da Tina) che consisteva nel cantare ininterrottamente per ore fino alla chiusura del locale in modo da intrattenere gli ospiti e eseguire le canzoni da loro richieste e che toccava una sera a Leshawna e una sera a lei.

Bill avvicinò Leshawna afferrandola per un braccio:
- Ehi! Bella esibizione, tesoro. Ho in mente qualcosa. – Ghignò osservandola attentamente.
- Ah si? – Sussurrò lei dopo aver urlato a Tina di fare anche da cameriera per qualche minuto e cercando di sorridere. – Cosa?
- Be’, stavo pensando che… In effetti potresti diventare l’amante di quel signore che prima ti ha chiesto quanto volessi per una sveltina. Così ci assicureremmo la sua regolare presenza in questo locale, no? E con lui di sicuro arriverebbero i suoi scagnozzi e tanti tanti soldi!

Leshawna impallidì: aveva sentito bene?
- C-Cosa? – Strabuzzò gli occhi.
- Oh, andiamo. – Lo sguardo di Bill divenne gelido. – E’ quasi cosa fatta. Ne ho parlato prima con questo signore e lui ti aspetta stasera per il primo incontro. – Poi si avvicinò all’orecchio della ragazza per sussurrarle, suadente. – Pensa a quanti soldi potresti accumulare: soldi da investire nel tuo nuovo lavoro, no?
- No, Bill. Non posso accettare. Non mi interessa se dovrò lavorare qui per un periodo di tempo più lungo, ma io non voglio quei soldi. Gli parlerò io e tu, in quanto mio dipendente perché il locale è mio, devi rispettare la mia decisione.
- Ah! Ho smesso di essere un tuo dipendente tanto tempo fa, ma va bene: fai come vuoi… - E la lasciò lanciandole un ultimo sguardo freddo.

Leshawna corse da Tina a spiegarle tutto e perse qualche minuto a parlare con il signore in questione:
- Ehm… Mister… Potrei parlare un secondo?

Lui stava sorseggiando una birra circondato dai suoi scagnozzi e le sorrise mostrando i suoi denti gialli. Era un signore basso e tarchiato, con un grasso collo taurino e una fronte perennemente madida di sudore. Gli occhi, piccoli e cattivi, saettavano di qua e di là, ma il tono di voce era sicuro e gentile.
Fece cenno agli scagnozzi di andarsene e rimasto solo annuì, facendole cenno di sedersi.

Leshawna ubbidì e attaccò:
- Vede, non so che proposta le abbia fatto Bill, ma non possiamo stipulare un patto del genere, lei lo capirà sicuramente e oltretutto io non sono…
- S, Leshy. – La interruppe. – Lo so. Avevo già messo in conto un tuo rifiuto, ma se mai avessi bisogno così disperatamente di soldi da dimenticare tutti i tuoi scrupoli non hai che da chiamarmi. Sai dove trovarmi, dopotutto. – E sorrise di nuovo.

La ragazza si rialzò trionfante e lo ringraziò, per poi riprendere a servire ai tavoli e aspettando che quelle lunghe ore passassero.

L’unica cosa che la mandava avanti, che le faceva sopportare tutte le richieste indecenti come quella era il pensiero che prima o poi se ne sarebbe andata: la sua ossessione per i soldi era maniacale e spesso si intascava le mance che qualche cliente lasciava sul tavolo.
Sognava di scappare nel cuore della notte infrangendo il patto con Bill e sapeva che non avrebbe esitato un istante a tradire chiunque pur di potersene andare. Ogni suoi desiderio era finalizzato ad andarsene e sopportava sempre meno il dover lavorare lì per forza; non le importava di nessuno e si vergognava di essere diventata una persona con così bassi valori morali, ma ormai nella sua mente c’era spazio solo per la parola “libertà”.

La sua ossessione l’aveva portata alla pazzia? Forse, ma non era mai stata così vicino a rendere il suo sogno realtà e per quello non importava essere matti o meno.

- PIU’ TARDI –

- Grazie a Dio anche per oggi abbiamo finito! – Esclamò Tina rivolgendosi al resto dello staff.

Leshawna le sorrise, mentre Sharon si cambiava e Bill ne approfittava per accarezzarle la coscia.

- Si, oggi è stato interminabile… - Sussurrò Sharon con la sua voce da oca che diventava profonda e sensuale quando cantava.
- Domani potremmo… - Cominciò Bill, ma venne interrotto da dei pesanti colpi alla porta sul retro.

Tutti sussultarono e Tina chiese a gran voce:
- Chi è?
- Cazzo Leshy, vieni fuori! – Leshawna sussultò: era il boss con cui aveva parlato poco fa e si capiva che era ubriaco. – Non hai idea di tutto quello che possiamo fare insieme. Sei una bomba, baby! Aspetta solo che le mie mani accarezzino il tuo corpo nudo e… - Silenzio. Poi riprese. – Ho dei soldi. Tanti soldi. Vieni fuori troia!

La ragazza non rispose nulla e fissò Bill, spaventata. Lui ghignò e urlò:
- Adesso vengo ad aprirti Charlie! – Poi si diresse a grandi passi verso la porta.
- Ehi, pezzo di stronzo! Che cazzo stai facendo?! – Inveì Tina.
- Affari, puri e semplici affari. – Scrollò le spalle Bill.
- Coglione, è del tuo capo che stai parlando! – Lo agguantò per la maglietta Tina, mentre Charlie cominciava a canticchiare da fuori la porta.
- Oh mia cara, Leshawna non è più il mio capo da un sacco di tempo: tutte voi dipendete da me, okay? – Ringhiò rabbioso lui e andò ad aprire a Charlie, che corse dentro.

Aveva un aspetto orribile: della schiuma gli colava dalla bocca, gli occhi erano annebbiati, i vestiti tutti sporchi di birra e le scarpe di vomito e urina. Biascicò:
- Leshy, come mai c’è tutta questa gente? Hai in mente qualcosa di più di una notte di passione con il sottoscritto? – E si mise a ridere senza alcuna ragione.
- Stai zitto idiota… - Sussurrò Tina.

Sharon e Bill se ne andarono a braccetto senza dire più una parola e Charlie osservò attentamente Leshawna iniziando a slacciarsi i pantaloni:
- Sei un angelo sceso in terra e… - E iniziò a blaterare parole senza senso e frasi sconnesse.
- Okay, ora ti facciamo tornare a casa e dimentichiamo tutto ciò. – Disse Tina con decisione e fece per sollevare Charlie dalle spalle, ma non appena lo toccò lui le si avventò addosso urlando.
- Oh Leshy, quanto ti amo! Sei così… - E cominciò a produrre degli orrendi gemiti spogliando a forza Tina e non riconoscendola.

La ragazza provò ad opporsi, ma Charlie era più pesante e più forte di lei e alla fine ebbe la meglio, riuscendo a denudarla e a gettarla su una poltrona vicina per poi gettarsi su di lei mentre dalla tasca posteriore dei pantaloni numerose banconote cadevano per terra.

- Ehi, aiutami! – Strillò Tina.

Leshawna osservò prima Tina che si contorceva sotto il grasso corpo di Charlie e poi i soldi sparsi sul pavimento.
Che fare? Aiutare un amica in difficoltà per poi essere di sicuro violentata da Charlie o afferrare tutti i soldi che poteva e scappare, finalmente, lontano da tutto e da tutti?
Tina era sempre stata cara con lei, ma in fondo era solo un qualcosa che la teneva legata a quel posto e ogni giorno che la vedeva le ricordava quanto orribile fosse la sua vita.
Quei soldi, però, erano di sicuro macchiati di chissà quali crimini e prenderli voleva dire accettare una vita di fughe, nonostante con quelle banconote lei avrebbe di certo potuto costruirsi una nuova carriera e un nuovo futuro.

Decise in pochi secondi: Tina la stava fissando e lei mimò con le labbra un “Perdonami.” mentre afferrava tutti i soldi che poteva e correva via passando dal retro, uscendo nella fredda aria della notte.

Sentì Tina che le urlava dietro insulti e che strillava di aver sempre saputo che era una stronza non dissimile da Bill, ma poi i suoi urli vennero sostituiti da orrendi gemiti di piacere e dolore e Leshawna smise di ascoltare.

Iniziò a correre e, fermato un taxi, strillò al conducente di portarla dovunque, l’importante era allontanarsi dal luogo dove aveva lasciato parte della sua dignità e aveva dimostrato a se stessa di non essere altro che un’egoista senza scrupoli.

Si disprezzava per quello che aveva fatto? Si, ma dentro di sé si sentiva leggera e in pace per essere finalmente libera ed erano queste sensazioni a disgustarla di più. Sapeva che da quel momento non sarebbe più riuscita a guardarsi allo specchio senza rivedere gli occhi rabbiosi e imploranti di Tina, occhi che portavano il segno del tradimento.



- Ti confesso, “Leshy”… - Disse subito Heather calcando con disprezzo il nomignolo. - … Tutto mi aspettavo tranne che questo. Hai abbandonato la tua unica amica a uno stupratore ubriaco! – Concluse indignata.
- Senti, bella, non venire a fare la predica a me! Tu non mi pare sia mai stata una santarellina nella tua vita! – Ringhiò rabbiosa Leshawna.
- Già, ma io non sono una traditrice. – Ghignò l’altra.
- N-Non mi chiamare così… - Impallidì Leshawna e afferrò la pistola, per poi far ruotare rapidamente il tamburo e spingerlo per caricare la pistola. – Non spetta a te giudicarmi!
- Me ne guardo bene, traditrice. – Ridacchiò la mora guardando Leshawna con occhi impazienti.

La ragazza si puntò la pistola alla tempi e sparò.

Un colpo.
La vita o la morte.

Clack.

La morte di Leshawna fu rapida e poco sanguinolenta. Giusto un rivolo di sangue colò dal buco lasciato dallo sparo, ma si seccò quasi immediatamente.
Il corpo della ragazza venne portato via ancora caldo dagli inservienti e Heather seguì il suo cadavere con lo sguardo, per poi voltarsi a fissare i restanti:
- Sembra che siate baciati dalla sorte… Per ora. La sua storia è stata scialba e leggermente sconclusionata, nonché povera di dettagli, ma che ci si poteva aspettare da una come lei? Mi auguro che la prossima storia sia più emozionante.

Alejandro, che aveva già parlato, si sporse in avanti e chiese:
- Heather, perché stai facendo questo?
- Tutto a suo tempo mio bel latin lover, tutto a suo tempo. – Sorrise Heather sporgendosi verso di lui.
- Ancora mi chiedo perché stiamo facendo tutto questo… - Sussurrò Gwen più a se stessa che agli altri.
- Se hai paura puoi andartene, tesoro. – Sibilò Heather, sprezzante. – La parte migliore deve ancora venire! Ma ora basta, come dicevo prima mi auguro che la prossima storia sia più emozionante…

 


- CIAMBELLANGOLO -
Heilà, mie adorate ciambelline ricoperte di zuccherini (?) :3?
Sono passati seeeecoli da quando ho aggiornato e mi dispiace, ma questo fandom si sta svuotando, non trovate? Quindi non sono molto motivata a scrivere, ma non temete, o pochi rimasti a leggere questo angolo, finirò questa e tutte le serie da me iniziate prima di dedicarmi ad altri generi :3
Ho grandi progetti per il 2015 (?), sia scrittorici (?) sia serietvosi (?) e persino bookosi (? > non c’è due senza tre…) :3
Vi auguro un felicissimo anno e vi ringrazio per tuuuutto il supporto che mi avete dato,
_Rainy_
BLOG: http://raggywords.blogspot.it (la grafica è ancora quella natalizia, ma presto ce ne sarà una nuova :3)
FICCY HARRYPOTTEROSA: http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=2625484
FICCY ORIGINALE: http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=2822907&i=1
PAGINA FACEBOOK DELL’AUTRICE (E poi ho finito con i link, giuro lol): https://www.facebook.com/pages/Rainy_/615961398491860?ref=bookmarks

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Capitolo 10
*** 09. Quelle anime da lui condannate ***


 

N QUELLE ANIME DA LUI CONDANNATE N

- Ma ora basta, come dicevo prima mi auguro che la prossima storia sia più emozionante…

Il proiettile vorticava saltellando da una parte all’altra del tavolo, urtando ora un bicchiere ora la mano di un ragazzo, relativamente spaventato o disgustato.

- Siamo pochini ormai, eh? Vediamo cosa ci riserverà il destino.

Al tavolo sedevano ancora sei persone. Cinque erano le sedie lasciate tristemente vuote da corpi ora cadaveri.

Tling. Il proiettile produsse un suono tenue e acuto quando si fermò in mezzo al tavolo, puntando inequivocabilmente verso… Trent.

- Oh, il nostro musicista dilettante dal cuore tenero! Cosa mai avrai fatto di male nella tua vita? Dai, qualcosa c’è di sicuro… Raccontaci il tuo più grande peccato, suvvia. – Ghignò Heather.

Trent chiuse gli occhi e sospirò rumorosamente. Si inumidì le labbra con la lingua, un gesto veloce e nervoso, e bevve un leggero sorso dal suo bicchiere.

- Facciamola breve…


- Complimenti per il distintivo, colonnello Shank. – Sorrise il suo superiore, bonario. 
- Molto onorato, generale. – Sorrise di rimando un giovane Trent con una zazzera di capelli neri disordinata e vivaci occhi giovanili.

Il maggiore gli posò paternamente una mano sulla spalla e gli strinse energicamente la mano, senza smettere mai di sorridere.

Trent guardò tra la folla radunata alla cerimonia della sua promozione a colonnello e scorse gli occhi lucidi di sua madre e quelli fieri e orgogliosi di suo padre e della sua sorellina Annie.
Quel momento si impresse nella sua memoria.
Era uno dei giorni più felici della sua vita: finalmente i suoi giorni da insignificante soldato con grandi doti fisiche e spiccate doti per il comando erano finiti. 
Colonnello.
Quasi non ci credeva!

Sua madre si alzò in piedi per prima per applaudire, e la folla la seguì come un’onda.

CINQUE SETTIMANE DOPO –

Cos’hai per me, eh? – Sorrise Trent accarezzando la testa del figlio.
- Un disegno, papà! – Strillò felice il bambino, porgendo al padre un foglio di carta tutto scarabocchiato. – E’ la mia famiglia. Qui ci sei tu! – Strillò ancora, sorridente più che mai.
- Ma è bellissimo! Sei un vero artista, sai? Da grande diventerai un pittore famoso!
- Oh, no! Io voglio diventare un poliziotto come il mio papà e sparare ai cattivi! Pum! Pum! – Il bambino cominciò a correre in giro per la casa facendo finta di sparare agli invisibili cattivi che si annidavano, secondo lui, dietro il divano.

Qualcuno bussò allegramente alla porta e Trent corse ad aprire, vedendo Julie comparire davanti a sé.

Sorridendo malizioso la trascinò dentro con sé e la baciò appassionatamente accarezzandole la schiena.

- Mi sei mancata. – Sussurrò chiudendo gli occhi e appoggiando la fronte sulla sua.
- Anche tu. – Sorrise lei.

Poi lui lasciò scivolare verso il basso la mano appoggiata sulla schiena di lei e sorrise, malizioso:
- Stasera, dopo il lavoro, potremmo mandare Carl dai nonni, eh? 
- Sarebbe un’idea meravigliosa. – Gli diede corda lei. – Così potresti aiutarmi a fare una cenetta speciale?
- O potremmo fare qualche attività più divertente…
- Tipo? – Si finse ingenua lei, baciandolo di nuovo.
- Lo scoprirai solo quando tornerò a casa, cara. – Concluse lui, dandole una scherzosa pacca su un fianco.
- Non vedo l’ora! – Rise lei mentre si avviava in cucina per preparare il pranzo e salutava il figlio con un dolce bacio sulla guancia.

Trent sorrise a sé stesso e salì nella camera matrimoniale, dove si preparò per quel pomeriggio.
Sua moglie lo raggiunse quasi immediatamente e chiese, sorridendo:
- Chi vai ad arrestare oggi?
- Un criminale di questa zona della città, sai? Un rapinatore di banche di poco conto, ma un assassino spietato. Ha ucciso tutte le impiegate delle principali banche della zona, hai presente?

La donna annuì, seria.

- Abbiamo ricevuto una soffiata sulla posizione del suo covo e andremo a stanarlo stasera. Spero di tornare non troppo tardi. – Concluse pensieroso, mentre si cambiava la camicia e indossava una maglietta nera aderente.

Indossò la sua uniforme con il giubbotto antiproiettile e infilò due pistole in due fondine differenti: gli sarebbero servite entrambe.

- Ora vado, tesoro. Ci vediamo dopo, okay? – Sorrise lui e si sporse in avanti per baciare di nuovo sua moglie.

Quando scese suo figlio lo rincorse e gli urlò:
- Vai, super-papà! Fai fuori i cattivi! – Rise.
- Solo per te, campione! – E gli diede un buffetto su una guancia.

Entrò in macchina con il familiare sfarfallio nello stomaco che precedeva ogni suo arresto di uomini pericolosi: dentro di sé si chiedeva sempre cosa avrebbe fatto se quella fosse stata la sua ultima missione, se sarebbe morto arrestando un “cattivo” o se anche quel giorno sarebbe tornato a casa, felice.

Quel giorno lo sfarfallio era particolarmente forte.

QUELLA SERA –

- Colonnello, guardi un po’ qui! Questa si che ha due belle…
- Taci, Holmes! – Sbuffò divertito Trent chiudendo la rivista pornografica del soldato. 
- Perché?! Avrò diritto di divertirmi un po’ prima di pericolose missioni in cui potrei perdere la vita?! Direi di si. – Rise sguaiatamente il soldato.

Trent ridacchiò di nuovo e riassunse la missione ancora un volta:
- Allora, Fisher e Gary entrano per primi e controllano che l’area sia libera. Bart e Holmes, dopo, controllano le stanze. Io e Darcy entriamo per ultimi e andiamo a stanare quel bastardo. Nel caso in cui ci fossero problemi tutte le truppe di sostegno e voi 5 siete autorizzati a muovervi liberamente, a lasciare le vostre posizioni e a soccorrere qualcun altro. Non voglio fughe da mammolette, capito stronzetti? – Lanciò loro uno sguardo provocatorio. – Voglio un’azione pulita, silenziosa e veloce. Torniamo tutti a casa per cena, insomma.
- Si, colonnello! – Strillarono all’unisono i suoi uomini più fidati, scelti da lui personalmente per quella missione.

La macchina, un’Audi anonima utilizzata dall’esercito come auto per gli agenti in borghese, sobbalzava ad ogni curva e loro si prendevano delle belle testate sul soffitto. La luce della sera filtrava dai finestrini, ma non illuminava granché ed era poco rassicurante.

La casa alias covo di Berry, l’uomo che dovevano arrestare, era buia, lignea e con un grosso tetto spiovente lastricato in pietra. Dentro non si scorgeva anima viva ed era nascosta in una stradina deserta e tetra, con case prevalentemente di nuova costruzione e perciò ancora disabitate.

Berry era l’unico a non aver venduto il terreno su cui la sua casetta si ergeva (probabilmente a causa di tutto ciò di prettamente illegale che quella casa conteneva e che sarebbe stato un problema trasportare) e quindi era l’unica casa antiquata del quartiere: inconfondibile.

- E’ questo l’indirizzo della soffiata? – Chiese Fisher, un omaccione di quarant’anni appassionato di body-building. 
- Si, Fisher. – Rispose Trent, serissimo. – Vi ricordate il piano? – Chiese per l’ultima volta.
- Si, capo! – Risposero tutti.
- Molto bene, allora procediamo. – Sorrise Trent e a un suo segnale la macchina si fermò.

Attesero qualche secondo e scese il più completo silenzio intorno a loro. Nemmeno i grilli avevano deciso di cantare quella notte.

Ad un segnale convenuto il gruppetto di soldati scese dall’auto e si dispose silenziosamente fuori dall’edificio, controllando che non ci fossero uscite secondare e non ce n’erano. Trent fece un tre con le dita. Poi un due. Un uno. Pugno chiuso.

Fisher e Gary si mossero immediatamente e spalancarono la porta silenziosamente; il vetro dei loro occhiali infrarossi dei loro caschi che rifletteva la luce proveniente dall’unica finestra della stanza.
Fisher fece un segnale a Holmes, che entrò seguito da Bart.

La casetta aveva un solo piano e poche stanze, tutte immerse nel buio e una sola di esse con la porta chiusa. Bart e Holmes non ebbero bisogno di controllare le altre stanze per capire che Berry si nascondeva lì dentro. Ovviamente, però, non potevano dare nulla per scontato e dopo aver controllato tutte le stanze e aver sussurrato dei veloci “Libero!” si voltarono verso Trent e Darcy, che si avvicinarono alla stanza chiusa.

Trent fece dei segni veloci a Darcy, che annuì: gli aveva appena detto di aspettare fuori dalla porta nel caso Berry avesse provato a scappare e che comunque sarebbe rimasto in vista.

Trasse un profondo respiro e spalancò la porta.

Una goccia di sudore freddo gli colò giù per la fronte.

La scena che gli si parò davanti agli occhi era a dir poco raccapricciante: la stanza era semibuia, rischiarata dall’unica flebile luce di una finestrella quadrata su una parete. I muri era di cemento grezzo, senza decori né colori, ed erano incisi con ogni tipo di segno. In mezzo alla stanza c’era uno sgabello di legno sgangherato sul quale sedeva un uomo, vestito di scuro e con la testa bassa.

In mano un coltello insanguinato e una pistola appoggiata in grembo.

Accanto a lui due persone grondanti di sangue e con una benda sulla bocca e sugli occhi si dibattevano, penzolavano dal soffitto, appese per le mani. Gli urli soffocati che uscivano da quelle bocche coperte da pezzi di stoffa consumata erano disumani.

La prima era una donna in un vestito viola dal taglio elegante, strappato in alcuni punti. 
La seconda era un bambino molto piccolo, che urlava forsennato tentando di chiedere spiegazioni alla donna, probabilmente la madre.

Carl e Julie.

<< Oh no… >> Pensò Trent.

In cuor suo aveva sempre pensato che potesse succedere una cosa del genere, ma mai si era concretizzata ed era sempre rimasta nei confini sfumati dell’incubo, mai vividi come in quel momento.

- Buonasera, Shank. – Sussurrò l’uomo seduto, accarezzando il coltellaccio e rimanendo a testa bassa, il mento appoggiato sul petto.
- Berry… - Sussurrò freddamente Trent, sperando che la paura non si sentisse nella sua voce.

All’udirlo Julie e Carl presero a battersi più forsennatamente e a urlare convulsamente. 
Berry si alzò di scatto brandendo il coltellaccio e urlò “Silenzio!” con la sua voce dura e roca, facendo un lungo taglio sulla gamba della madre e sul piede del figlio.

Trent sentì raggelarsi il sangue nelle vene:
- Cosa vuoi da loro?! Non c’entrano in questa storia.
- Oh si, invece. – Ghignò Berry nel buio, girandosi lentamente verso Trent. – C’entrano eccome. Loro sono la mia libertà.
- Berry… - Sussurrò Trent, incerto.

Alle sue spalle poteva percepire la presenza di Darcy, ansiosa e insicura sul da farsi, ed era convinto che stessero per arrivare i suoi uomini, quindi doveva solo perdere tempo.

- La tua libertà? – Chiese, fingendosi confuso.
- Non fare questi giochetti con me, Shank. Sai bene che in quanto ad infliggere dolore e ad uccidere sono piuttosto bravo: non costringermi a dimostrartelo.
- Cosa vuoi, dunque? 
- Ovvio: andarmene sano e salvo di qui. Faremo così, presta attenzione… - Trent trattenne il fiato. - … Io lascio andare tua moglie e tuo figlio e tu dai l’ordine ai tuoi uomini di farmi uscire di qui sano e salvo.

Trent trasalì.

- Si, mio caro. Vuol dire tradire il tuo dipartimento e tutti i valori in cui hai sempre creduto, e ovviamente deludere la tua famiglia, anche se al momento non desiderano altro che vivere, li senti? – Si leccò le labbra. – La loro paura è deliziosa, deliziosa! 
- Smettila. – Sussurrò Trent, a testa bassa, impugnando le pistole. – Perché dovrei accettare e non ucciderti ora?
- Mi credi davvero così stupido?! Attaccato al mio corpo, esattamente qui… - Si indicò un punto all’altezza del cuore. – C’è una bomba, mio caro. Una bomba con innesco biometrico. Io muoio, tutta questa stanza esplode in 2 secondi e si porta via me, la tua famiglia e la tua testa. Ah, non pensare a spararmi a un piede o roba simile per fuggire, perché posso innescare oltre venti bombe sistemate in questa casa quando voglio. Evitiamo di prenderci in giro, okay?

Trent annuì e capì che Darcy aveva sentito, ma non avrebbe fatto nulla: la scelta era sua.

Farsi radiare dall’albo degli agenti con disonore o perdere la sua famiglia, unica cosa di cui gli importava nella sua vita dopo il lavoro?

Poteva vedere i corpi di Julie e Carl ondeggiare pericolosamente nel vuoto, insanguinati. Chissà quali dolori avevano passato prima del suo arrivo. Quando erano stati sequestrati? Immediatamente dopo che lui arrivasse o poco prima? Gli era stata inflitta una tortura lunga e dolorosa o una particolarmente intensa, di pochi istanti?

- Berry… - Provò Trent. – Magari possiamo raggiungere un accordo più vantaggioso…
- Non provarci neanche. – Sibilò l’altro, implacabile, dopodiché si avvicinò con una mossa fulminea e pungolò Trent nell’occhio.

Avrebbe voluto andare più a fondo nel colpo, ma i riflessi pronti di Trent avevano agito per lui e gli avevano fatto tirare fuori la pistola e sparare dritto nella mano di Berry, che aveva perso potenza fino a far penetrare la lama che stringeva di appena qualche centimetro nel bulbo oculare.

In ogni caso l’occhio era perso e rigettava violentemente sangue e materia biancastra, in un grumo sanguinolento e doloroso.

- Oh! Ah ah! – Si mise a ridere fragorosamente Berry, guardandosi la mano insanguinata e bucata da parte a parte dal proiettile. – Allora non hai afferrato il concetto!

Trent era crollato in ginocchio e si premeva la mano sull’occhio insanguinato, uno sguardo di terrore dipinto sul volto.

Berry estrasse lentamente una pulsantiera dalla tasca e premette il primo di una lunga serie di bottoni.

La detonazione scosse la casa e si sentì un urlo umano, stravolto dal dolore.

- Due dei tuoi uomini sono andati, direi. – Ridacchiò Berry, folle.

Darcy aspettò un cenno del suo capo e corse a vedere cosa fosse successo. Una seconda detonazione operata da Berry spazzò via anche la sua vita e quella degli uomini rimasti.

- Ora siamo soli. Deciditi. Ti do qualche istante e dopo…
- Va bene. – Sussurrò Trent, mentre calde lacrime gli rigavano il volto.
- Come?
- Accetto. Vattene e lascia qui la mia famiglia. 
- Debole. – Sputò a terra Berry.

Il criminale si avvicinò a Trent, gli prese il mento tra due dita, lo alzò e gli sputò dritto in faccia, sibilando insulti:
- Sei un debole. Anziché combattere per il tuo onore lasci che i sentimenti abbiano il sopravvento. Cosa ne ricavi? Perdi il lavoro, la stima dei tuoi amici e un occhio. – Rise brevemente. – Devi imparare a non fidarti dei sentimenti, mai! Sono degli ingannevoli bastardi… Te lo spiego subito. – Si avvicinò al corpo della moglie. – Tu in questo momento sei impotente e sai benissimo cosa ho fatto o potrei aver fatto a tua moglie, eppure non reagisci, perché la ami e sai che uccidermi vorrebbe dire salvare l’onore, ma condannare tutta la tua famiglia. Sei inutile, lo capisci?

Fece scorrere avidamente la mano sul corpo della moglie che piangeva, accarezzandone le curve e soffermandosi sul seno. Trent si sentì fremere di rabbia:
- Visto? Potrei anche stuprarla e non faresti nulla! – Rise sguaiatamente. – Ma non lo farò: dopo oggi penso che ne abbia abbastanza di sesso! – E rise nuovamente. – Per non parlare di tuo figlio…

Trent sentì la furia pervaderlo, furia che si sfogò in lacrime e fremiti di disperazione.

Berry, poi, con un gesto deciso e un ultimo sguardo sprezzante pugnalò al cuore sia Julie sia Carl, ghignando:
- Ti do cinque minuti per lasciare questa casa, poi ammazzo anche te.

Trent li vide morire, mentre la consapevolezza di essere stato un debole lo distruggeva. Erano morti per la sua stessa esitazione. Erano morti per colpa sua. Il rimorso lo consumava mentre sussurrava una preghiera per quelle anime da lui condannate.

Si alzò e se ne andò senza dire una parola, consapevole di aver perso tutto.

 
Il silenzio avvolgeva il tavolo da quando Trent aveva smesso di parlare. Persino Heather era ammutolita: troppo anche per lei?

Il ragazzo afferrò la pistola da solo, mentre le lacrime si affacciavano in quel momento come in quella lugubre notte in cui aveva perso molto più del suo occhio; occhio che in quell’istante tutti guardavano in maniera diversa, abituati a considerarlo frutto di un incidente. Invece era tutt’altro: era un simbolo di terribile vergogna che il ragazzo si portava dietro ogni giorno, costantemente a ricordargli la sua debolezza.

Un colpo.
La vita o la morte.

Clack.

Trent pregava di morire in quel momento, ma Dio, il Fato, la fortuna o come preferite chiamarlo, aveva deciso che dovesse scontare ancora un po’ la sua pena, con dolore e rimorso.

Rimorso.

Questo era quello che si leggeva negli occhi del ragazzo quando aveva appoggiato la pistola sul tavolo, consapevole di dover andare avanti ancora, secondo dopo secondo, giorno dopo giorno.

- Come siamo seri, ragazzi! – Rise improvvisamente Heather, tornata se stessa dopo lunghi attimi di riflessione. – Tira Trent, tira!

 


- CIAMBELLANGOLO -
Chissà perché, chissà come mai, ma questo capitolo mi sta a cuore. Pervaso da questa atmosfera così angosciante e di riflessione, mi è proprio piaciuto scriverlo.
Spero di aver ben reso i sentimenti di Trent e che abbiate colto la riflessione sulla “giustizia” della fortuna o del Fato, sul lasciare in vita Trent non perché lo meritasse, ma per altri motivi…
Grazie per la lettura c:,
_Rainy_
PS: 
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FICCY HARRYPOTTEROSA: 
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FICCY ORIGINALE: 
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PAGINA FACEBOOK DELL’AUTRICE (E poi ho finito con i link, giuro lol): 
https://www.facebook.com/pages/Rainy_/615961398491860?ref=bookmarks

N QUELLE ANIME DA LUI CONDANNATE N

 

- Ma ora basta, come dicevo prima mi auguro che la prossima storia sia più emozionante…

Il proiettile vorticava saltellando da una parte all’altra del tavolo, urtando ora un bicchiere ora la mano di un ragazzo, relativamente spaventato o disgustato.

- Siamo pochini ormai, eh? Vediamo cosa ci riserverà il destino.

Al tavolo sedevano ancora sei persone. Cinque erano le sedie lasciate tristemente vuote da corpi ora cadaveri.

Tling. Il proiettile produsse un suono tenue e acuto quando si fermò in mezzo al tavolo, puntando inequivocabilmente verso… Trent.

- Oh, il nostro musicista dilettante dal cuore tenero! Cosa mai avrai fatto di male nella tua vita? Dai, qualcosa c’è di sicuro… Raccontaci il tuo più grande peccato, suvvia. – Ghignò Heather.

Trent chiuse gli occhi e sospirò rumorosamente. Si inumidì le labbra con la lingua, un gesto veloce e nervoso, e bevve un leggero sorso dal suo bicchiere.

- Facciamola breve…


- Complimenti per il distintivo, colonnello Shank. – Sorrise il suo superiore, bonario. 
- Molto onorato, generale. – Sorrise di rimando un giovane Trent con una zazzera di capelli neri disordinata e vivaci occhi giovanili.

Il maggiore gli posò paternamente una mano sulla spalla e gli strinse energicamente la mano, senza smettere mai di sorridere.

Trent guardò tra la folla radunata alla cerimonia della sua promozione a colonnello e scorse gli occhi lucidi di sua madre e quelli fieri e orgogliosi di suo padre e della sua sorellina Annie.
Quel momento si impresse nella sua memoria.
Era uno dei giorni più felici della sua vita: finalmente i suoi giorni da insignificante soldato con grandi doti fisiche e spiccate doti per il comando erano finiti. 
Colonnello.
Quasi non ci credeva!

Sua madre si alzò in piedi per prima per applaudire, e la folla la seguì come un’onda.

CINQUE SETTIMANE DOPO –

Cos’hai per me, eh? – Sorrise Trent accarezzando la testa del figlio.
- Un disegno, papà! – Strillò felice il bambino, porgendo al padre un foglio di carta tutto scarabocchiato. – E’ la mia famiglia. Qui ci sei tu! – Strillò ancora, sorridente più che mai.
- Ma è bellissimo! Sei un vero artista, sai? Da grande diventerai un pittore famoso!
- Oh, no! Io voglio diventare un poliziotto come il mio papà e sparare ai cattivi! Pum! Pum! – Il bambino cominciò a correre in giro per la casa facendo finta di sparare agli invisibili cattivi che si annidavano, secondo lui, dietro il divano.

Qualcuno bussò allegramente alla porta e Trent corse ad aprire, vedendo Julie comparire davanti a sé.

Sorridendo malizioso la trascinò dentro con sé e la baciò appassionatamente accarezzandole la schiena.

- Mi sei mancata. – Sussurrò chiudendo gli occhi e appoggiando la fronte sulla sua.
- Anche tu. – Sorrise lei.

Poi lui lasciò scivolare verso il basso la mano appoggiata sulla schiena di lei e sorrise, malizioso:
- Stasera, dopo il lavoro, potremmo mandare Carl dai nonni, eh? 
- Sarebbe un’idea meravigliosa. – Gli diede corda lei. – Così potresti aiutarmi a fare una cenetta speciale?
- O potremmo fare qualche attività più divertente…
- Tipo? – Si finse ingenua lei, baciandolo di nuovo.
- Lo scoprirai solo quando tornerò a casa, cara. – Concluse lui, dandole una scherzosa pacca su un fianco.
- Non vedo l’ora! – Rise lei mentre si avviava in cucina per preparare il pranzo e salutava il figlio con un dolce bacio sulla guancia.

Trent sorrise a sé stesso e salì nella camera matrimoniale, dove si preparò per quel pomeriggio.
Sua moglie lo raggiunse quasi immediatamente e chiese, sorridendo:
- Chi vai ad arrestare oggi?
- Un criminale di questa zona della città, sai? Un rapinatore di banche di poco conto, ma un assassino spietato. Ha ucciso tutte le impiegate delle principali banche della zona, hai presente?

La donna annuì, seria.

- Abbiamo ricevuto una soffiata sulla posizione del suo covo e andremo a stanarlo stasera. Spero di tornare non troppo tardi. – Concluse pensieroso, mentre si cambiava la camicia e indossava una maglietta nera aderente.

Indossò la sua uniforme con il giubbotto antiproiettile e infilò due pistole in due fondine differenti: gli sarebbero servite entrambe.

- Ora vado, tesoro. Ci vediamo dopo, okay? – Sorrise lui e si sporse in avanti per baciare di nuovo sua moglie.

Quando scese suo figlio lo rincorse e gli urlò:
- Vai, super-papà! Fai fuori i cattivi! – Rise.
- Solo per te, campione! – E gli diede un buffetto su una guancia.

Entrò in macchina con il familiare sfarfallio nello stomaco che precedeva ogni suo arresto di uomini pericolosi: dentro di sé si chiedeva sempre cosa avrebbe fatto se quella fosse stata la sua ultima missione, se sarebbe morto arrestando un “cattivo” o se anche quel giorno sarebbe tornato a casa, felice.

Quel giorno lo sfarfallio era particolarmente forte.

QUELLA SERA –

- Colonnello, guardi un po’ qui! Questa si che ha due belle…
- Taci, Holmes! – Sbuffò divertito Trent chiudendo la rivista pornografica del soldato. 
- Perché?! Avrò diritto di divertirmi un po’ prima di pericolose missioni in cui potrei perdere la vita?! Direi di si. – Rise sguaiatamente il soldato.

Trent ridacchiò di nuovo e riassunse la missione ancora un volta:
- Allora, Fisher e Gary entrano per primi e controllano che l’area sia libera. Bart e Holmes, dopo, controllano le stanze. Io e Darcy entriamo per ultimi e andiamo a stanare quel bastardo. Nel caso in cui ci fossero problemi tutte le truppe di sostegno e voi 5 siete autorizzati a muovervi liberamente, a lasciare le vostre posizioni e a soccorrere qualcun altro. Non voglio fughe da mammolette, capito stronzetti? – Lanciò loro uno sguardo provocatorio. – Voglio un’azione pulita, silenziosa e veloce. Torniamo tutti a casa per cena, insomma.
- Si, colonnello! – Strillarono all’unisono i suoi uomini più fidati, scelti da lui personalmente per quella missione.

La macchina, un’Audi anonima utilizzata dall’esercito come auto per gli agenti in borghese, sobbalzava ad ogni curva e loro si prendevano delle belle testate sul soffitto. La luce della sera filtrava dai finestrini, ma non illuminava granché ed era poco rassicurante.

La casa alias covo di Berry, l’uomo che dovevano arrestare, era buia, lignea e con un grosso tetto spiovente lastricato in pietra. Dentro non si scorgeva anima viva ed era nascosta in una stradina deserta e tetra, con case prevalentemente di nuova costruzione e perciò ancora disabitate.

Berry era l’unico a non aver venduto il terreno su cui la sua casetta si ergeva (probabilmente a causa di tutto ciò di prettamente illegale che quella casa conteneva e che sarebbe stato un problema trasportare) e quindi era l’unica casa antiquata del quartiere: inconfondibile.

- E’ questo l’indirizzo della soffiata? – Chiese Fisher, un omaccione di quarant’anni appassionato di body-building. 
- Si, Fisher. – Rispose Trent, serissimo. – Vi ricordate il piano? – Chiese per l’ultima volta.
- Si, capo! – Risposero tutti.
- Molto bene, allora procediamo. – Sorrise Trent e a un suo segnale la macchina si fermò.

Attesero qualche secondo e scese il più completo silenzio intorno a loro. Nemmeno i grilli avevano deciso di cantare quella notte.

Ad un segnale convenuto il gruppetto di soldati scese dall’auto e si dispose silenziosamente fuori dall’edificio, controllando che non ci fossero uscite secondare e non ce n’erano. Trent fece un tre con le dita. Poi un due. Un uno. Pugno chiuso.

Fisher e Gary si mossero immediatamente e spalancarono la porta silenziosamente; il vetro dei loro occhiali infrarossi dei loro caschi che rifletteva la luce proveniente dall’unica finestra della stanza.
Fisher fece un segnale a Holmes, che entrò seguito da Bart.

La casetta aveva un solo piano e poche stanze, tutte immerse nel buio e una sola di esse con la porta chiusa. Bart e Holmes non ebbero bisogno di controllare le altre stanze per capire che Berry si nascondeva lì dentro. Ovviamente, però, non potevano dare nulla per scontato e dopo aver controllato tutte le stanze e aver sussurrato dei veloci “Libero!” si voltarono verso Trent e Darcy, che si avvicinarono alla stanza chiusa.

Trent fece dei segni veloci a Darcy, che annuì: gli aveva appena detto di aspettare fuori dalla porta nel caso Berry avesse provato a scappare e che comunque sarebbe rimasto in vista.

Trasse un profondo respiro e spalancò la porta.

Una goccia di sudore freddo gli colò giù per la fronte.

La scena che gli si parò davanti agli occhi era a dir poco raccapricciante: la stanza era semibuia, rischiarata dall’unica flebile luce di una finestrella quadrata su una parete. I muri era di cemento grezzo, senza decori né colori, ed erano incisi con ogni tipo di segno. In mezzo alla stanza c’era uno sgabello di legno sgangherato sul quale sedeva un uomo, vestito di scuro e con la testa bassa.

In mano un coltello insanguinato e una pistola appoggiata in grembo.

Accanto a lui due persone grondanti di sangue e con una benda sulla bocca e sugli occhi si dibattevano, penzolavano dal soffitto, appese per le mani. Gli urli soffocati che uscivano da quelle bocche coperte da pezzi di stoffa consumata erano disumani.

La prima era una donna in un vestito viola dal taglio elegante, strappato in alcuni punti. 
La seconda era un bambino molto piccolo, che urlava forsennato tentando di chiedere spiegazioni alla donna, probabilmente la madre.

Carl e Julie.

<< Oh no… >> Pensò Trent.

In cuor suo aveva sempre pensato che potesse succedere una cosa del genere, ma mai si era concretizzata ed era sempre rimasta nei confini sfumati dell’incubo, mai vividi come in quel momento.

- Buonasera, Shank. – Sussurrò l’uomo seduto, accarezzando il coltellaccio e rimanendo a testa bassa, il mento appoggiato sul petto.
- Berry… - Sussurrò freddamente Trent, sperando che la paura non si sentisse nella sua voce.

All’udirlo Julie e Carl presero a battersi più forsennatamente e a urlare convulsamente. 
Berry si alzò di scatto brandendo il coltellaccio e urlò “Silenzio!” con la sua voce dura e roca, facendo un lungo taglio sulla gamba della madre e sul piede del figlio.

Trent sentì raggelarsi il sangue nelle vene:
- Cosa vuoi da loro?! Non c’entrano in questa storia.
- Oh si, invece. – Ghignò Berry nel buio, girandosi lentamente verso Trent. – C’entrano eccome. Loro sono la mia libertà.
- Berry… - Sussurrò Trent, incerto.

Alle sue spalle poteva percepire la presenza di Darcy, ansiosa e insicura sul da farsi, ed era convinto che stessero per arrivare i suoi uomini, quindi doveva solo perdere tempo.

- La tua libertà? – Chiese, fingendosi confuso.
- Non fare questi giochetti con me, Shank. Sai bene che in quanto ad infliggere dolore e ad uccidere sono piuttosto bravo: non costringermi a dimostrartelo.
- Cosa vuoi, dunque? 
- Ovvio: andarmene sano e salvo di qui. Faremo così, presta attenzione… - Trent trattenne il fiato. - … Io lascio andare tua moglie e tuo figlio e tu dai l’ordine ai tuoi uomini di farmi uscire di qui sano e salvo.

Trent trasalì.

- Si, mio caro. Vuol dire tradire il tuo dipartimento e tutti i valori in cui hai sempre creduto, e ovviamente deludere la tua famiglia, anche se al momento non desiderano altro che vivere, li senti? – Si leccò le labbra. – La loro paura è deliziosa, deliziosa! 
- Smettila. – Sussurrò Trent, a testa bassa, impugnando le pistole. – Perché dovrei accettare e non ucciderti ora?
- Mi credi davvero così stupido?! Attaccato al mio corpo, esattamente qui… - Si indicò un punto all’altezza del cuore. – C’è una bomba, mio caro. Una bomba con innesco biometrico. Io muoio, tutta questa stanza esplode in 2 secondi e si porta via me, la tua famiglia e la tua testa. Ah, non pensare a spararmi a un piede o roba simile per fuggire, perché posso innescare oltre venti bombe sistemate in questa casa quando voglio. Evitiamo di prenderci in giro, okay?

Trent annuì e capì che Darcy aveva sentito, ma non avrebbe fatto nulla: la scelta era sua.

Farsi radiare dall’albo degli agenti con disonore o perdere la sua famiglia, unica cosa di cui gli importava nella sua vita dopo il lavoro?

Poteva vedere i corpi di Julie e Carl ondeggiare pericolosamente nel vuoto, insanguinati. Chissà quali dolori avevano passato prima del suo arrivo. Quando erano stati sequestrati? Immediatamente dopo che lui arrivasse o poco prima? Gli era stata inflitta una tortura lunga e dolorosa o una particolarmente intensa, di pochi istanti?

- Berry… - Provò Trent. – Magari possiamo raggiungere un accordo più vantaggioso…
- Non provarci neanche. – Sibilò l’altro, implacabile, dopodiché si avvicinò con una mossa fulminea e pungolò Trent nell’occhio.

Avrebbe voluto andare più a fondo nel colpo, ma i riflessi pronti di Trent avevano agito per lui e gli avevano fatto tirare fuori la pistola e sparare dritto nella mano di Berry, che aveva perso potenza fino a far penetrare la lama che stringeva di appena qualche centimetro nel bulbo oculare.

In ogni caso l’occhio era perso e rigettava violentemente sangue e materia biancastra, in un grumo sanguinolento e doloroso.

- Oh! Ah ah! – Si mise a ridere fragorosamente Berry, guardandosi la mano insanguinata e bucata da parte a parte dal proiettile. – Allora non hai afferrato il concetto!

Trent era crollato in ginocchio e si premeva la mano sull’occhio insanguinato, uno sguardo di terrore dipinto sul volto.

Berry estrasse lentamente una pulsantiera dalla tasca e premette il primo di una lunga serie di bottoni.

La detonazione scosse la casa e si sentì un urlo umano, stravolto dal dolore.

- Due dei tuoi uomini sono andati, direi. – Ridacchiò Berry, folle.

Darcy aspettò un cenno del suo capo e corse a vedere cosa fosse successo. Una seconda detonazione operata da Berry spazzò via anche la sua vita e quella degli uomini rimasti.

- Ora siamo soli. Deciditi. Ti do qualche istante e dopo…
- Va bene. – Sussurrò Trent, mentre calde lacrime gli rigavano il volto.
- Come?
- Accetto. Vattene e lascia qui la mia famiglia. 
- Debole. – Sputò a terra Berry.

Il criminale si avvicinò a Trent, gli prese il mento tra due dita, lo alzò e gli sputò dritto in faccia, sibilando insulti:
- Sei un debole. Anziché combattere per il tuo onore lasci che i sentimenti abbiano il sopravvento. Cosa ne ricavi? Perdi il lavoro, la stima dei tuoi amici e un occhio. – Rise brevemente. – Devi imparare a non fidarti dei sentimenti, mai! Sono degli ingannevoli bastardi… Te lo spiego subito. – Si avvicinò al corpo della moglie. – Tu in questo momento sei impotente e sai benissimo cosa ho fatto o potrei aver fatto a tua moglie, eppure non reagisci, perché la ami e sai che uccidermi vorrebbe dire salvare l’onore, ma condannare tutta la tua famiglia. Sei inutile, lo capisci?

Fece scorrere avidamente la mano sul corpo della moglie che piangeva, accarezzandone le curve e soffermandosi sul seno. Trent si sentì fremere di rabbia:
- Visto? Potrei anche stuprarla e non faresti nulla! – Rise sguaiatamente. – Ma non lo farò: dopo oggi penso che ne abbia abbastanza di sesso! – E rise nuovamente. – Per non parlare di tuo figlio…

Trent sentì la furia pervaderlo, furia che si sfogò in lacrime e fremiti di disperazione.

Berry, poi, con un gesto deciso e un ultimo sguardo sprezzante pugnalò al cuore sia Julie sia Carl, ghignando:
- Ti do cinque minuti per lasciare questa casa, poi ammazzo anche te.

Trent li vide morire, mentre la consapevolezza di essere stato un debole lo distruggeva. Erano morti per la sua stessa esitazione. Erano morti per colpa sua. Il rimorso lo consumava mentre sussurrava una preghiera per quelle anime da lui condannate.

Si alzò e se ne andò senza dire una parola, consapevole di aver perso tutto.

 
Il silenzio avvolgeva il tavolo da quando Trent aveva smesso di parlare. Persino Heather era ammutolita: troppo anche per lei?

Il ragazzo afferrò la pistola da solo, mentre le lacrime si affacciavano in quel momento come in quella lugubre notte in cui aveva perso molto più del suo occhio; occhio che in quell’istante tutti guardavano in maniera diversa, abituati a considerarlo frutto di un incidente. Invece era tutt’altro: era un simbolo di terribile vergogna che il ragazzo si portava dietro ogni giorno, costantemente a ricordargli la sua debolezza.

Un colpo.
La vita o la morte.

Clack.

Trent pregava di morire in quel momento, ma Dio, il Fato, la fortuna o come preferite chiamarlo, aveva deciso che dovesse scontare ancora un po’ la sua pena, con dolore e rimorso.

Rimorso.

Questo era quello che si leggeva negli occhi del ragazzo quando aveva appoggiato la pistola sul tavolo, consapevole di dover andare avanti ancora, secondo dopo secondo, giorno dopo giorno.

- Come siamo seri, ragazzi! – Rise improvvisamente Heather, tornata se stessa dopo lunghi attimi di riflessione. – Tira Trent, tira!

 


- CIAMBELLANGOLO -
Chissà perché, chissà come mai, ma questo capitolo mi sta a cuore. Pervaso da questa atmosfera così angosciante e di riflessione, mi è proprio piaciuto scriverlo.
Spero di aver ben reso i sentimenti di Trent e che abbiate colto la riflessione sulla “giustizia” della fortuna o del Fato, sul lasciare in vita Trent non perché lo meritasse, ma per altri motivi…
Grazie per la lettura c:,
_Rainy_
PS: 
http://raggywords.blogspot.it
FICCY HARRYPOTTEROSA: 
http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=2625484
FICCY ORIGINALE: 
http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=2822907&i=1
PAGINA FACEBOOK DELL’AUTRICE (E poi ho finito con i link, giuro lol): 
https://www.facebook.com/pages/Rainy_/615961398491860?ref=bookmarks

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Capitolo 11
*** 10. Quel demone interiore che la divorava ***


N QUEL DEMONE INTERIORE CHE LA DIVORAVA N

 

- Come siamo seri, ragazzi! – Rise improvvisamente Heather, tornata se stessa dopo lunghi attimi di riflessione. – Tira Trent, tira!

La biondina rimasta nell’ombra si drizzò a sedere e bevve un lungo sorso del suo drink per poi affermare:
- Manchiamo solo io e te, cosa succede dopo?
- Perché rovinare la sorpresa, mia cara! – Sghignazzò Heather. – Io voglio concludere la serata, quindi tocca a te raccontarci il tuo più grande peccato… So che il pubblico non è più così vivace, ma… - Rise sguaiatamente.

Bridgette inorridì:
- Come vuoi… Poi finalmente tutto finirà…

Il ghigno di Heather sembrò fendere l’aria come un coltello.



La mattinata era splendida e Bridgette aveva appena finito di fare colazione.

I residui della pancetta era finiti rapidamente nel cestino e per ora la sua seconda anima era sopita.

“Seconda anima”. Già.

La sentiva dentro di sé da quando aveva compiuto 15 anni.

Una seconda Bridgette oscura e malvagia, il suo lato ossessivo e folle contro il quale doveva lottare ogni giorno e che altrimenti l’avrebbe trasformata in una creatura fuori controllo.

Indelebile nella sua memoria era il giorno in cui aveva mandato all’ospedale una sua cara amica che si era dimenticata di invitarla alla sua festa di compleanno.
Aveva sentito crescere la furia dentro di sé e la follia era esplosa in tutta la sua potenza quando aveva “accidentalmente” spinto la compagna in mezzo alla strada, proprio davanti a una macchina che per fortuna andava a velocità non troppo elevata.

Da quel giorno era stata etichettata come “psicopatica”, ma la notizia non era stata diffusa più dello stretto necessario e aveva potuto continuare a condurre una vita tutto sommato normale, anche se le voci circolavano.
Aveva dovuto sottoporti a rigide visite psichiatriche tutt’altro che amichevoli, dove strizzacervelli fintamente simpatici le rivolgevano domande ambigue e contradditorie. Aveva subito infiniti esami e iniezioni, ma alla fine il suo caso aveva perso importanza ed era stata classificata come inguaribile, ma controllabile.

La sua vita era ripresa quasi normalmente, ma da quel giorno i suoi genitori non l’avevano più trattata allo stesso modo, proprio loro: le persone sulle quali avrebbe dovuto contare maggiormente…
A scuola, a parte qualche primo attimo di tentennamento, nessuno sapeva nulla ed era tornata ad essere la ragazza timida e carina che era prima.

Con un segreto.

La Follia, la sua seconda anima, non se n’era mai andata, solo lei aveva imparato a controllarla ed era contenta che ciò fosse avvenuto senza la sofferenza di qualcun altro.

Quel giorno però, tutto sarebbe cambiato.

A scuola era andata benino come al solito: classiche amicizie, classiche scocciature e classici momenti felici.

Prima di uscire, però, la preside era entrata felicissima nella loro classe, stretta nel suo tailleur scuro e li aveva scrutati da dietro i suoi lucidi occhiali rossi:
- Ragazzi, ho una notizia per voi! – Aveva tubato, felice come una pasqua.

Un mormorio di impazienza si era subito diffuso tra i ragazzi, eccitati.

- Finalmente la vostra cara compagna Melanie è tornata! – Aveva strillato la preside.

A Bridgette era crollato il mondo addosso: Melanie era la compagna che aveva “accidentalmente” fatto finire all’ospedale. Cosa sapeva? Cosa ricordava? Tutto ciò che aveva costruito in quei mesi, durante i quali Melanie era stata in terapia intensiva, poteva andare distrutto con qualche semplice parolina.

Melanie entrò in classe con passo incerto, il collo ancora ingessato e la postura rigida, ma inferma. Il referto medico aveva dichiarato che si era rotta due costole e una terza si era incrinata a causa del violento impatto con la macchina, non veloce a sufficienza per ucciderla.

Tutti si voltarono titubanti verso Bridgette.

- Ciao a tutti. – Sussurrò Melanie, sorridendo semplicemente.

Poi i suoi occhi incontrarono quelli della bionda e mentre i suoi compagni rispondevano al saluto, la ragazza poté perfettamente distinguere le emozioni che Melanie stava provando nel momento in cui l’aveva vista: stupore, perplessità, indignazione e inveterato e profondo odio.

Un odio radicato e morboso che continuò ad animare il suo sguardo anche mentre Melanie prendeva posto.

<< Sa. >> Pensò Bridgette, terrorizzata.

- Magari possiamo farla sedere vicino a Bridgette Johnson! E’ tanto che non si vedono, non crede? – Ammiccò subito la preside e Bridgette la maledì mentalmente.

Melanie si alzò e prese posto vicino alla bionda con estenuante lentezza, sussurrandole:
- Ciao, mia cara.
- Ciao, Melanie.
- Non hai altro da dirmi? – Sibilò lei, la postura rigida.
- Mi dispiace tanto. – Bridgette si voltò a guardarla, gli occhi lucidi.
- Anche a me. – Sorrise Melanie, poi si raggelò e gli occhi tornarono odiosi come poco prima. – Ma io so. Tutti devono sapere. Non pensare che sia così ingenua da non sapere che sotto quella macchina non ci sono finita casualmente. Tu sai a cosa mi riferisco.
- No, davvero… - Sussurrò Bridgette, sgranando gli occhi, ma già sentiva la Follia ribellarsi dentro di lei e fremere per esplodere.

Già si immaginava la scena: le sue mani strette intorno al collo di Melanie improvvisamente scoperto, quegli ossicini così fragili che non aspettavano altro che essere spezzate da un unico movimento deciso e poi…

La ragazza inorridì. Non era la prima volta che le capitava di avere chiare visioni di un omicidio, ma non era mai successo che fosse così reale e in prima persona. Le pareva di sentire ancora la sensazione della lattea pelle di Melanie sotto le sue dita…

- So cosa ti stai immaginando, ma sappi che la tua vita è finita in ogni caso. – Sibilò Melanie. – Tu sei un mostro e tutti meritano di sapere. Anche se la tua mente malata ti porta a farmi del male la mia storia verrà alla luce in ogni caso. La tua storia. La nostra storia. – Ghignò, trionfante.

Bridgette impallidì e abbassò lo sguardo quando la professoressa le richiamò intimando loro di fare silenzio.

Sapeva che Melanie aveva ragione, ma non meritava di essere trattata così… Non era stato un atto volontario… O si? Non lo sapeva, ma si ricordava perfettamente quel senso di appagamento e soddisfazione mentre guardava il sangue di Melanie schizzare l’asfalto scuro.

-

Bridgette non stava sognando né stava facendo un incubo.

Era semplicemente sospesa in una pozza di oscurità e aveva la consapevolezza che stava dormendo, sempre ammesso che ciò fosse possibile e non un semplice parto della sua mente.

Da quando la Follia era diventata parte di lei aveva smesso di sognare, senza alcuna eccezione.

Quella notte, però, si svegliò diverse volte, immaginando come sarebbe stata terribile la sua vita non appena Melanie avesse raccontato qualcosa su di lei.

La sua valvola di sfogo erano sempre stati i libri: leggeva un sacco sin da quando era bambina e non si era mai vergognata di questa sua passione.

Andava spesso in biblioteca e il gestore, un vecchio rugoso di nome Sam, faceva degli orari impossibili per qualsiasi essere umano tranne se stesso e Bridgette.

Sam aveva settant’anni suonati e questo si traduceva in minestrine a colazione, pranzo e cena e meno di cinque ore di sonno al giorno, il che gli permetteva di tenere aperta la biblioteca dalle sei del mattino alle undici di sera circa sette giorni su sette (cosa che non era propriamente legale, ma nessuno si lamentava).

Fu li che Bridgette si diresse non appena scoccarono le sei: non era la prima volta che Sam la vedeva a quegli orari particolari.

- Ciao, Sam, scusa l’ora. – Sussurrò lei, vergognandosi ogni volta come la prima.
- Non ti preoccupare: quando i libri chiamano… - Le sorrise lui mettendo in mostra la sua scintillante dentiera.

Lei sorrise di rimando e si inoltrò tra gli scaffali mentre i suoi passi rimbombavano nel vuoto.

Il profumo dei libri presto le avvolse le narici e il frusciare delle pagine dei libri che sfogliava riuscì a farle dimenticare le sue preoccupazioni.

Almeno fino al rintocco delle otto.

Si accorse improvvisamente di essere in ritardo e uscì al volo dalla biblioteca, correndo come una disperata verso la scuola.

Appena entrò, leggermente in ritardo, ottenne uno sguardo severo della preside, che la fermò afferrandola per un braccio:
- Non così in fretta, signorina. Farebbe meglio a fermarsi nel mio ufficio per qualche minuto. La raggiungerò immediatamente. – Bridgette fece per voltarsi e avviarsi senza farsi troppe domande, quando la preside proseguì: - E abbia cura di usare l’ascensore, la autorizzo io per questa volta: si fidi.

La bionda annuì e percorse le scale a perdifiato senza incrociare nessuno, infilandosi poi silenziosamente nell’ascensore.

Mentre quel parallelepipedo di lucido acciaio scuro saliva lentamente verso il terzo piano, la ragazza si chiedeva cosa avesse mai fatto per meritare una simile convocazione che – è risaputo – non porta mai buone novelle.

L’ufficio della preside era largo e spazioso, con i muri bianchi rivestiti di pannelli di legno color cioccolato al latte. Il pavimento era ricoperto di moquette verde sempre pulita e numerosissimi scaffali ingombri erano addossati alle pareti. Due ampie finestre stavano alle spalle della scrivania, anch’essa del legno dei pannelli posti sui muri e ingombra di carte, penne e di un grosso computer costoso. Tutto in quell’ufficio trasudava autorevolezza.

La preside non si fece aspettare molto e entrò silenziosamente nel suo studio, scrutando Bridgette, ancora in piedi vicino alla porta:
- Siediti. – Nessuna formalità, nessuna formula di cortesia.

Quando la ragazza prese posto, la donna le mise un foglietto davanti. Sul foglio era stampata la testata di una pagina di giornale che recitava: “Ragazza investita da un auto davanti alla St. Lennox School”.

Sotto seguiva un lungo testo scritto a mano in una calligrafia insicura…

“Miei cari ragazzi, forse vi starete chiedendo cos’è questo foglietto apparentemente insignificante che avete in mano, ma non vi chiedo altro che 10 minuti del vostro tempo. Oggi sono qui per parlarvi della vostra tenera e dolce compagna Bridgette, tutti sapete quale.” – Bridgette trasalì. – “Dietro quel bel visino gentile si cela ben di più e sono qui per dirvi cosa: forse avete sentito parlare dell’incidente che la sottoscritta ha avuto qualche mese fa. Sono stata investita da un auto davanti a scuola e apparentemente è stato tutto un incidente, ma la verità è un’altra: io mi ricordo benissimo che quella stronza mi ha spinto. Mi ha spinto per strada. Ricordo con precisione il suo ghigno malvagio mentre io le stavo per urlare cosa stesse facendo e la sua espressione soddisfatta fu l’ultima cosa che vidi prima di quella che pensavo sarebbe stata la mia morte. Davvero un bel modo di andarsene, eh?
Non sto a dilungarmi ulteriormente, ma vi dico solo più che dietro quei modi gentili si cela una mente folle, una psicopatica, una pazza e quasi ASSASSINA (si, uso proprio questo termine, perché le sue intenzioni erano chiare), quindi fate attenzione. I prossimi potreste essere voi. Grazie mille, Melanie.”

Bridgette posò lentamente il foglio quando ebbe finito di leggerlo attentamente per la seconda volta e fissò la preside in volto:
- Cosa significa?
- Mia cara… - Iniziò la preside, ma si interruppe immediatamente.

Ovviamente la donna sapeva del ricovero e degli esami psicologici di Bridgette, ma a quanto le avevano detto in ospedale Melanie non ricordava nulla e non serbava rancore per la ragazza. Quel foglietto, però, dimostrava il contrario.

- Lei non lo sapeva, vero? – Chiese Bridgette, a testa bassa.
- No. Le conseguenze sono… Be’… Stiamo cercando di rimediare, ma…

Bridgette alzò la testa di scatto, rossa in volto dalla rabbia.

La Follia si stava risvegliando, stavolta più forte che mai e la ragazza non era del tutto sicura di riuscire a contenerla, perché non era completamente sicura di volerlo fare.

In fondo cosa ci guadagnava lei? Ora la sua reputazione era rovinata, la sua immagine pubblica e le sue amicizie anche. Cosa avrebbe fatto? Era sola. Lei e la Follia. La Follia e lei.

Una cosa sola, ormai.

Non le rimaneva più nessuno se non quel demone interiore che la divorava ogni secondo di più.

La pazzia si fece lentamente strada in lei e affiorò in un ghigno malvagio, che distorse i tratti altrimenti gentili e aggraziati della giovane:
- Tra le conseguenze? – Sussurrò a voce bassa, suadente.

Era seduta con le mani in grembo e la testa bassa e la preside non riusciva a scorgerle gli occhi, ma quel ghigno la inquietò ugualmente. Premette un veloce numero sulla tastiera del telefono fisso e sussurrò:
- Bridgette, mia cara, so che questa situazione non è facile e mi rincresce di doverlo fare, ma penso che sia meglio per te e per tutti il tuo trasferimento ad un’altra scuola, magari dove sei del tutto sconosciuta.
- Ah si? – Ridacchiò Bridgette, malefica. Si rendeva conto di cosa stava facendo: non aveva ancora perso il controllo di sé stessa.
- Si. Mi dispiace. Ovviamente la tua famiglia riceverà tutti gli aiuti necessari e verrai supportata in questo difficile periodo. – Ad un suo cenno la porta dell’ufficio si spalancò e due uomini in camice bianco entrarono, dirigendosi vero Bridgette.

Erano entrambi smilzi e sui trent’anni e sorrisero alle due donne. Il primo, un tipetto dai capelli marroni come gli occhi e con un paio di occhialetti spessi come fondi di bottiglia, esclamò, gioviale:
- Allora, Bridgette. Noi siamo i dottori Martin e Stein e, se sei d’accordo, ora ti porteremo in ospedale per un brevissima visitina di routine che certamente comprenderai e poi a casa, così che tu possa passare del tempo con i tuoi genitori e magari decidere insieme a loro quale sarà la tua nuova scuola, eh? – Sorrise ampiamente.

Bridgette si alzò e la Follia fece un passo in più verso il suo cervello quando elaborò cosa significava quel discorsetto: reclusione in ospedale per almeno una settimana con saltuarie visite dei genitori, che comunque non sarebbero venuti.

Cacciò indietro il disperato bisogno di liberare il suo tormento e sfoderò il suo migliore sorriso amabile, annuendo:
- Mi pare un’ottima idea!
- Sono contenta per te. Di sicuro la scuola in cui andrai sarà migliore di questa. Mi dispiace tantissimo, Bridgette. – Sorrise a sua volta la preside, accarezzandole brevemente la spalla.

La ragazza si irrigidì a quel contatto e il sorriso si congelò. La donna, però, non parve accorgersene e chiese ai dottori:
- E’ tutto?

I due annuirono e fecero cenno a Bridgette di seguirli.

La ragazza fece quanto le era stato ordinato, ogni traccia del falso sorriso di prima svanita.

Percorsero gli stretti corridoi della scuola incrociando qualche professore e salutandolo brevemente. La ragazza odiava le occhiate pietose che le riservavano tutti quelli che sapevano cosa aveva subito o che credevano di conoscere il suo tormento, ma era una cosa con cui aveva imparato a convivere e in quel momento la lasciava indifferente. Camminava a testa bassa tra i due dottori e formavano una curiosa fila indiana che fece voltare diversi funzionari scolastici.

Arrivati nell’altro i due dottori improvvisamente si fermarono e Bridgette quasi andò addosso a quello davanti a lei.

Nella sala principale, vicino all’entrata, c’era Melanie con un gruppo di studenti della sua classe.

- Oh, guarda chi c’è: la pazza furiosa! – Rise sguaiatamente Melanie, seguita dalle sue amichette.
- Oh, avanti. Lo sappiamo che te lo sei inventato. – Sibilò un ragazzo più grande che aveva una cotta per Bridgette da sempre.
- Ah si? E perché avrei dovuto?
- Perché hai bisogno di notorietà, come tutte le ragazze. Be’, quasi tutte… - Sorrise sinceramente a Bridgette che sentì il cuore sciogliersi un poco e la pazzia arretrare.
- Bridgette! – Melanie si rivolse a lei, le mani sui fianchi e sguardo di sfiga. – Lo chiedo a te: hai il coraggio di ammettere le tue azioni o sei, come allora, una pazza psicopatica che si nasconde dietro a un “Non sono stata io”?

La bionda esitò, sentendo la mano di uno dei due dottori sulla spalla e la sua voce calma che le sussurrava:
- Lascia perdere. Ben presto tutto verrà dimenticato.

Annuì, convinta e sorridente, e fece per voltarsi, ma la voce di Melanie la inseguì e la colpì come un pugno:
- Sei solo una vigliacca. E anche mentalmente instabile. Sei un abominio della natura. – Sghignazzò.

La calma scese su Bridgette e il sorriso svanì insieme all’ultima traccia di Ragione dal suo cervello. La Follia dilagò in lei, ormai incontrollabile e scoppiata definitivamente dopo quell’insulto. Quel gravissimo affronto, così pesante e così immeritato.

- Cos’hai detto? – Ghignò Bridgette, sorridendo malefica, con una voce assolutamente atona. Una voce diabolica.
- Ho detto che… Che sei uno scherzo della natura. – Rispose Melanie, non più così convinta.

Bridgette era ferma nell’atrio e dava le spalle a Melanie; le braccia immobili lungo i fianchi e gli occhi chiusi

- Sai cosa rimpiango? – Chiese calmissima la bionda.
- Non mi interessa minimamente. – Rispose Melanie, arretrando impercettibilmente.
- Rimpiango… - Bridgette si voltò lentamente e fissò Melanie negli occhi con quel ghigno spietato stampato sul viso. - … Che quella macchina non ti abbia ucciso. – Poi scoppiò in una gutturale risata inumana.
- Visto?! Visto?! E’ pazza! – Strillò Melanie. – E’ matta da legare! Aiuto!
- Non ho alcun interessa per te. Tu sei morta, ormai. – Sibilò Bridgette.

Il più completo silenzio scese nell’atrio e i due dottori ne approfittarono per afferrare Bridgette a un cenno convenuto e trascinarla via, ma la ragazza non oppose alcuna resistenza.

Quando furono fuori da scuola, però, si divincolò e scappò più veloce che poté nella chiara luce del pomeriggio, dirigendosi verso l’unico luogo in cui poteva calmare i nervi.

Non era più se stessa, però.

Non era più se stessa quando afferrava la tanica di benzina e i fiammiferi da un ripostiglio segreto dietro la scuola che lei stessa aveva scavato in preda agli spasmi della pazzia, ma di cui non ricordava l’esistenza. Consapevolezza balzatale in mente non appena la Follia aveva preso possesso di lei.

Non era più se stessa quando entrò in biblioteca e senza rivolgere la parola a Sam aprì la tanica per poi spargere la benzina ovunque.

Non era più se stessa quando atterrò Sam con un calcio ben assestato e lo tramortiva, per poi cospargere anche il suo corpo di benzina.

Non era più se stessa quando, silenziosamente, continuava la sua opera ignorando le persone che si avvicinavano a lei per fermarla o urlarle insulti.

Non era più se stessa quando, finalmente, dopo pochi secondi di silenzio assoluto la sua bocca si aprì in un ghigno diabolico e il fiammifero lampeggiò, accedendosi.

Non era più se stessa quando il fiammifero cadde sulla benzina e in un attimo si ritrovò in un inferno caldo e mortale.

Scappò attraverso le fiamme da lei stessa appiccate, ferendosi alle mani e alle ginocchia, uscendo sul retro e inoltrandosi nei boschi dietro all’edificio per poi correre, correre e correre, augurandosi che Melanie rimanesse in vita abbastanza da poter essere uccisa da lei stessa.

 


- Come cazzo hai fatto ad entrare nella nostra organizzazione se sei così?! – Strillò subito Courtney.
- Courtney, ti prego… - Sussurrò Bridgette, a testa bassa. – Io… Non sono più così.
- Oh, avanti, non farti pregare. Anche io voglio sapere come hai fatto. Io stessa ho selezionato i miei agenti ed era chiaro che fossi pazza, ma non così… - Ghignò Heather.
- Be’… Io non sono più la piromane che ero un tempo e…
- Aspetta… Piromane?! Vuoi dire che tutti gli incendi avvenuti ad edifici pubblici in Alabama circa 5 anni fa sono… - Sussurrò Gwen con voce strozzata.

Bridgette non rispose e abbassò la testa.

- Dio… - Sussurrarono Courtney e Gwen all’unisono.
- Aspettate! – Strillò Bridgette, alzando la testa di scatto e mostrando gli occhi pieni di lucide lacrime. – Io non sono più quella spaventata ragazza in preda alla Follia. Io sono cambiata. Ho imparato a dominarla ed è per questo che non sono mai stata rinchiusa in un manicomio e ho potuto condurre una vita normale!
- Una vita normale? – Heather esprimeva tutta la sua perplessità in quelle tre semplici parole.
- Si… Sono stata assunta con voi e ho lavorato. Avevo un fidanzato e ho riallacciato i rapporti con la mia famiglia: la Follia è sempre stata parte di me, ma ho imparato a controllarla e a sfruttarla.
- Quindi stai ammettendo che in effetti il tuo cervello non è del tutto… Sano? – Sussurrò Alejandro, che era rimasto in silenzio fino ad allora.

Bridgette annuì amaramente:
- Se avete finito di giudicarmi… Direi che dopo stasera nessuno avrà più possibilità di ritenersi superiore a qualcun altro…
- Già. Nessuno. – Ghignò Heather. – Vuoi procedere? – Indicò la pistola immobile sul tavolo.

Bridgette deglutì, inserì il proiettile e fece ruotare rapidamente il tamburo, caricando la pistola.

Se la puntò alla testa con gli occhi ancora velati di lacrime, poi abbassò le palpebre..

Un colpo.
La vita o la morte.

Clack.

La pistola cadde a terra, ma Bridgette rimase seduta lì dov’era.

Quando aprì gli occhi vide i restanti che la guardavano, tutti sollevati.

- Evidentemente non era la tua ora. – Sospirò Gwen. – Un motivo ci sarà…

Bridgette annuì senza sorridere.

Avrebbe tanto voluto morire per non dover continuare a combattere ogni giorno la Follia che premeva dentro di lei, ma non era quello il giorno: forse non era morta perché si era redenta, forse perché semplicemente aveva avuto fortuna, forse perché la sua vendetta contro Melanie era giustificata o forse perché, in effetti, quel triste giorno era sì divampato un incendio, ma i soccorsi erano arrivati in tempo, anche se lei questo non lo sapeva…

Tutti i presenti si voltarono verso Heather, che teneva stretto in mano l’ultimo proiettile.

- Perché mi guardate? – Sghignazzò lei. – Come? Volete dirmi che manco solo io? Oh, allora questa divertente serata sembra si stia per concludere…

 


- CIAMBELLANGOLO -
Si, il prossimo chappy sarà l’ultimo. Finalmente ce l’abbiamo fatta, tutti insieme, e ve ne sarò eternamente grata <3
Non ho altro da dire per questa volta c:
Un bacione a tutti quelli che sono arrivati fin qui a leggere e, di nuovo, grazie di cuore,
_Rainy_
PS:
http://raggywords.blogspot.it
FICCY HARRY POTTER:  
http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=2625484
ORIGINALE:
http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=2822907&i=1
 

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Capitolo 12
*** Epilogo ***


N EPILOGO N

 

- Perché mi guardate? – Sghignazzò lei. – Come? Volete dirmi che manco solo io? Oh, allora questa divertente serata sembra si stia per concludere…

- Divertente, pf! Sbrigati a raccontare e facciamola finita! – Esclamò Courtney esasperata.
- Ci puoi giurare, mia cara. – Ghignò Heather. – Vi voglio raccontare una storia un po’ particolare, che prende le mosse tempo fa, anni fa…

 

L’edificio esplose tra le fiamme.

Grida di terrore e di dolore riempivano l’aria afosa, mentre brandelli di lamiera, calcinacci, pietre e polvere fendevano il cielo cadendo nel parco, fiammeggianti.

Dieci persone fissano la scena, impassibili, da una collina poco distante.

Una ragazza sa cosa è successo, non è difficile da capire: quel pacco recapitato nel suo ufficio quel mattino e da lei aperto solo pochi minuti prima è esploso nel suo ufficio, incenerendo ogni cosa e diffondendo le fiamme a tutto il palazzo.

Lei, però, non era li.

Le era stato recapitato il pacco, ma lei si trovava in laboratorio, al piano di sotto, mentre quell’agente infiltrato di un’organizzazione rivale penetrava nel suo ufficio e apriva quella scatola maledetta sperando di trovare chissà quali informazioni, condannandoli, invece, tutti.

Il soffitto crollò sopra di lei, ma riuscì miracolosamente a evitare le macerie e a fuggire dall’uscita posteriore prima che l’intero edificio implodesse su se stesso. Uscì tossendo all’aria aperta, con ancora il camice e gli occhiali da laboratorio addosso, tossendo disperatamente. Si era salvata per un volere superiore, non c’era altra spiegazione: era destino che non morisse quel giorno.

Improvvisamente la consapevolezza: lei non era morta per uno scopo ben preciso. Lei non era morta per vendicarsi.

Vendetta.

Che suono dolce aveva quella parola mentre scrutava quel palazzo crollare e i pompieri arrivare troppo tardi esclusivamente per tirare fuori le decine di cadaveri carbonizzati dei suoi collaboratori.
Quel palazzo rappresentava la sua vita, la carriera che si era faticosamente costruita.

Suo padre, membro dell’FBI fin da ragazzo, le aveva tramandato i valori di giustizia e lealtà, ma poi quella stessa FBI che lei tanto aveva imparato ad adorare l’aveva spedito in Afghanistan per morire assiderato per colpa dei terroristi. Dov’era quella lealtà che tanto predicavano? Dov’era quel riconoscimento dell’onore tanto osannato?

Si ricordò di come lei stessa avesse acquistato quel terreno da un notaio amico di famiglia per costruirci quel palazzo, sede della sua nuova vita: dopo la morte del caro padre aveva deciso che niente in questo mondo valeva la pena di essere salvato tranne pochi incorruttibili che come lei avevano subito ingiustizie da organizzazioni che si professavano “Giuste”.

Così era nato il suo lavoro: aveva fondato un’organizzazione segreta paramilitare per la salvaguardia dei civili e che riuscisse finalmente a trasformare il mondo in un posto migliore facendosi giustizia da soli, visto che il governo aveva fallito.

L’Organizzazione era cresciuta in poco tempo e aveva capito che da molti anni si aspettava qualcuno che facesse un gesto così audace come sfidare il governo: dapprima non le era stata data troppa importanza, poi i collaboratori da dieci erano diventati mille, poi diecimila e in quel terribile giorno contava più di un centomila agenti in tutta l’America che garantivano la sicurezza in altrettante città.

Anche l’ultima trave di quell’edificio, da sempre quartier generale della sua Opera, crollò davanti ai suoi occhi e lei udì distintamente le sirene delle volanti della polizia arrivare.

Il governo aveva cominciato da qualche anno ad osteggiare la sua Organizzazione, dicendo che non erano dissimili dai criminali che condannavano, ma non li avevano fermati, nonostante i mandati di cattura emessi con ricompense spropositate.

Reclutava nuovi agenti, li addestrava, creava nuove armi iper-tecnologiche nei suoi laboratori, estendeva la propria rete di conoscenze e collaborazioni… Non esisteva niente di illecito: l’importante era raggiungere il suo obiettivo, uccidere.

Scappò nel fitto della foresta mentre i suoi occhi si inumidivano di lacrime e i suoi sogni andavano in frantumi. Senza il Quartier Generale non era possibile continuare. Tutti i suoi colleghi sarebbero stati istantaneamente raggiunti dalla notizia grazie ai telegiornali e avrebbero capito che era finita.

Non che fosse un problema: tutti avevano un secondo lavoro di copertura, ma era lo scopo di una vita che si dissolveva tra le fiamme, esattamente di fronte agli occhi del loro fondatore, che più di tutti aveva lavorato per rendere possibile il suo sogno di un mondo giusto e perfetto.

Si infilò nel primo squallido motel che incontrò nella vicina città di Mayville e pianse senza riuscire a trattenersi, iniziando solo dopo a mettere insieme i pezzi.

Il pacco era ovviamente una bomba. Un attentato rivolto a lei sola per ucciderla e far esplodere l’edificio, chi dunque voleva cancellare l’Organizzazione? La lista di nomi era troppo lunga, ma…

Quel pacco le era stato consegnato dall’agente Trent, da sempre loro fidata talpa nella polizia, ma da tempo aveva dubbi sulla sua lealtà, visto che quel ragazzo non si era mai ripreso del tutto dal suo incidente con quel criminale, Berry…

Ah! Si ricordava perfettamente di averlo reclutato proprio il giorno in cui veniva riammesso nei marine dopo aver presentato un rapporto falsificato e delle prove fasulle su quanto successo in quella casa… Aveva accettato senza esitazione di collaborare per farsi giustizia e riscattarsi agli occhi della moglie e dei figli…

Però non poteva aver agito da solo.

Di sicuro qualcuno vicino a lui l’aveva aiutato a mettere a punto quel piano: la consegna del pacco bomba, l’aspetto della scatola… Quei simili dettagli stilistici non potevano che essere opera di Katie e Lindsay, i suoi due agenti migliori, letteralmente salvate da lavori indegni. Si ricordava di come Katie lavorasse come segretaria per un contabile fallito che senza dubbio abusava di lei e di come Lindsay, invece, ballasse tutte le sere in un locale scadente. Anche loro, memori degli oscuri crimini commessi, non avevano esitato a seguirla.

La tensione intorno al tavolo era palpabile, ma Heather proseguì a narrare, senza fissare nessuno negli occhi.

Bel modo di ringraziare…

Quelle due, però, non brillavano d’intelligenza, doveva esserci sotto qualcos’altro…

Si stese sul letto, esausta, dormendo poco e male e quando si svegliò accese la televisione, cercando subito un notiziario.

“Edificio esploso qualche chilometri fuori Los Angeles. Si contano tra i 100 e i 150 morti, di cui più di metà ancora da indentificare… - Ricominciò a piangere, riconoscendo le spoglie di scienziati, agenti, segretari... - … La polizia sostiene che sia stato un incidente, anche se la nostra fonte segreta suggerisce come possa essere stato un attentato mirato per liberarsi delle attività finanziarie che si svolgevano in quel locale. Il posto è stato evacuato ieri.” – Finanziarie?! La ragazza impallidì, fremente di rabbia.

Si alzò, pagò in fretta la camera e tornò sul luogo dell’incendio, ogni passo che faceva più male del precedente. Eccola di nuovo lì, a osservare la carcassa della sua base operativa, lo scheletro dei suoi sogni perduti.

Si incamminò silenziosamente tra le macerie scivolando sotto il nastro giallo della scientifica e esaminò i reperti… Nessuna traccia dell’ordigno se non carta da pacchi bruciacchiata rimasta sotto una roccia.

Un ordigno ben fabbricato dunque, ottimamente anzi. Conosceva solo una persona in grado di sviluppare congegni così: Duncan. Ex-spacciatore convinto ad entrare nella sua Organizzazione per fare il “salto di qualità” era sempre stato appassionato di esplosivi e ne sapeva produrre di tutti i tipi, per questo era immediatamente diventato un killer di professione. Era un bombarolo provetto e chiaramente quella era una sua invenzione: una bomba che non lascia tracce dietro di sé, totalmente invisibile, ma non per lei.

Tutto cominciava a quadrare: era stata sabotata dall’interno! Ma perché?!

Duncan non poteva aver fatto da solo: di sicuro i materiali con cui aveva prodotto quel liquido infiammabile e invisibile dopo l’esplosione erano di sua invenzione, ma non poteva averli prodotti da solo. Quelli della scientifica dovevano averlo aiutato ed era sicura che ci fosse lo zampino di Bridgette, direttore capo di quel reparto della sua Organizzazione, nonché sua fidata collaboratrice… Aveva da subito creduto in lei quando l’aveva vista maneggiare delle provette di acidi tossici in un ospedale psichiatrico prima di uccidere il caporeparto e scomparire nell’ombra: rintracciarla era stato davvero difficile, ma lei era sempre stata determinata e quella ragazza aveva solo bisogno di qualcuno di cui fidarsi.

Alzò gli occhi al cielo: di sicuro Bridgette non avrebbe potuto fare qualcosa del genere da sola, sicuramente Geoff, il suo sciocco fidanzato, aveva approvato il progetto e le aveva fornito il suo sostegno come vice-direttore del reparto scientifico. Era stato semplice da reclutare lui: era amico del bombarolo, Duncan, e lavorava come barman producendo cocktail “peculiari” con le sostanze che gli venivano passate dagli spacciatori della zona. Era discretamente famoso, ma l’aveva seguita senza battere ciglio ed era stato letteralmente salvato da Bridgette con la quale era nato subito un grande e travolgente amore.

Se ne andò velocemente come era venuta e si fermò solo un secondo a rimirare le macerie della lapide da lei costruita per il padre: quando aveva ucciso i suoi assassini, ossia i capi dell’FBI, aveva eretto quella lapide in suo onore sentendosi svuotata, senza più uno scopo, ma poi erano stati proprio i suoi collaboratori più fidati a darle la forza di andare avanti e facendole capire che non poteva tirarsi indietro ormai che il suo grande progetto aveva preso piede.

E ora era tutto finito, pensò di nuovo, liquidato in un servizio di pochi minuti e bollato come “incidente”, senza che nessuno sapesse che opera grandiosa si tenesse in quell’edificio bruciato dalla furia del fuoco. Nessun incidente, in realtà.

Promise a se stessa, in quel giorno di lacrime, che si sarebbe vendicata di chi le aveva portato via tutto, perché lei sapeva - oh, se lo sapeva! – che non era opera di quei sei colpevoli già identificati, c’era dell’altro: loro non avrebbero avuto nessun motivo per ucciderla e togliersi il lavoro; no, era successo qualcosa e lei avrebbe scoperto cosa.

-

Finalmente era riuscita ad accedere agli archivi dell’FBI con il suo hacker più fidato, Jamie, da sempre suo collaboratore, ma mai ufficialmente entrato nell’Organizzazione.

Si trovava a casa del ragazzo e dopo un sano confronto su quanto accaduto, pieno di lacrime, rabbia e desiderio di vendetta, lui, da sempre innamorato di lei, le aveva promesso che l’avrebbe aiutata. Così, in pochi secondi, era entrato nel server dell’FBI con un programmino di sua invenzione ed era riuscito a tracciare i movimenti dei cellulari irrintracciabili (non per il loro capo, ovviamente, che conosceva codici e password di ognuno) di ogni suo collaboratore in quel triste giorno.

Nel Quartier Generale, dunque mancavano ben nove segnali telefonici: Trent, Duncan, Bridgette, Geoff, Katie e Lindsay, come si aspettava, più quelli di altri tre collaboratori che però erano in missione e quindi giustificati.

- Jamie, indaga su di loro. – Gli ordinò.

Lui annuì, docile e si mise al lavoro dopo averle dato un veloce e casto bacio. Lei annuì, sorridendo brevemente e si stese sul letto. Sarebbe rimasta lì fino a quando non si sarebbe scoperto qualcosa di più.

Fissò il soffitto di quell’appartamento di lusso nel cuore di New York, in cima a uno dei grattacieli più scintillanti e famosi, e lasciò che la mente le si annebbiasse grazie alle sostanze stupefacenti che Jamie conservava nella dispensa. Dormì qualche ora e si svegliò per niente riposata: erano giorni che non mangiava e dormiva male, giorni di viaggio da un posto all’altro, di indagini e rabbia sorda che l’avevano ridotta ad uno straccio, ma non avevano scalfito la sua determinazione a vendicarsi, che era la sola cosa che la faceva andare avanti, ormai.

E dopo aver trovato i suoi attentatori? Non lo sapeva, ma qualcosa avrebbe trovato. Amava la vita e non l’avrebbe mai buttata al vento con uno sciocco suicidio. Magari si sarebbe rifatta in qualche organizzazione di spionaggio internazionale e sarebbe ripartita da capo…

- Penso di aver trovato qualcosa! – Dichiarò Jamie dopo ore di “tap-tap” su molteplici tastiere. 

Si riscosse immediatamente e volò al suo fianco, osservando i monitor. La foto dei suoi due assassini migliori occupava due schermi differenti.

- Vedi, qua risulta che fossero in missione in Nepal, ma non si riscontra il segnale dei loro telefoni da nessuna parte, quindi magari sono andati distrutti, e alla frontiera Nepalese non sono state schedate. In Nepal non sono mai arrivate, capisci?

Rispose di si scuotendo la testa per il disappunto.

- Cos’altro sai? Tutto qui? – Chiese, melliflua, accarezzandogli una spalla.
- Be’, secondo le loro informazioni personali prese dal database della tua Organizzazione che conservo qui a casa risulta che entrambe avevano telefoni e passaporti falsi a nome di Lisa e Katy Stangard, entrambe proprietarie di due conti correnti in una banca vicino a Singapore. Hanno importato del contante proprio il giorno dell’incidente e tracciando quel denaro viene fuori che proviene da… Be’, una piccola banca vicino a Mayville. Per quelle quantità di contante e per quella banca di Mayville bisogna recarsi di persona a depositarli, segno che il giorno dell’incidente erano qui in America… Ma a fare cosa? Il denaro è stato poi dirottato ad un conto corrente sconosciuto.
- Scopri di chi è.
- Subito… - Dopo pochi secondi trovò quello che cercava. - … E’ di un certo Roger Harris, noto spacciatore della contea affiliato della mafia e importatore di sostanze illegali, credi che…
- Si.

La bomba era stata fabbricata di sicuro con materiali particolari tali da provocare massimi danni con minime tracce. Quelle sostanze dovevano essere state, dunque, ordinate e pagate il giorno dell’incidente per fabbricare la bomba destinata a lei.

Quei due agenti, i suoi due migliori agenti… L’avevano tradita così… Avevano investito del denaro per ucciderla… Courtney e Gwen… Assassine provette e senza scrupoli, rivali, ma eccellenti collaboratrici, salvate l’una dal suo ruolo di avvocato di bassa lega scavato dal rimorso e l’altra da un appartamento infestato dai topi e dalla dipendenza dal gioco d’azzardo, unica sua speranza per sopravvivere e guadagnare qualcosa.

- Adesso è chiaro. – Annuì lei.
- Però manca ancora una cosa… Cioè, perché un membro della mafia come Roger avrebbe dovuto accettare di collaborare ad una cosa simile? – Rifletté Jamie.
- Perché è stato convinto da qualcuno, ovvio.
- Oh… Leshawna.

Lei sospirò profondamente e annuì: certo. Era da sempre infiltrata in molteplici organizzazioni mafiose mondiali ed era l’unica che avrebbe potuto convincere uno come Roger, ignorante e di bassi desideri, a vendere a Courtney e Gwen quelle sostanze di cui avevano bisogno. La tradiva proprio lei, Leshawna, arruolatasi per riscattarsi dal suo vecchio lavoro da cantante fallita. Non aveva scrupoli e lei l’aveva sempre ammirata, ma non pensava che sarebbe arriva a tradirla.

- Grazie, Jamie. – Gli sfiorò le labbra con un bacio.
- Prego… Pensavo mi avresti ucciso… - Sussurrò lui ricambiando il bacio.
- Non ancora, caro. – Ghignò, uscendo nella notte avvolta dal lungo cappotto nero.

Entrò nel primo bar che trovò e ordinò un caffè macchiato, sedendosi poi ad un tavolo e prendendosi la testa tra le mani.

Qualcosa non quadrava: perché avrebbero dovuto farle una cosa simile?!

Era il loro capo, certo, ed era ovviamente esigente e implacabile, ma un attentato era qualcosa di grosso… No, tutto quello era opera di una mente superiore, un raffinato calcolatore che voleva sbarazzarsi di lei.

Poi d’improvviso la consapevolezza le giunse bruciante come il caffè che le era appena stato servito: lui. Il re dei manipolatori, suo vice capo e più fidato collaboratore, unico membro dell’Organizzazione che si era arruolato spontaneamente dopo aver trovato da solo, scavando nei database dell’FBI di cui faceva parte, la sua Opera. Ricordava perfettamente quel momento: era stata fermata per strada, trascinata gentilmente in un vicolo appartato con la scusa di volerle parlare di affari di droga e poi le aveva chiesto di prenderlo con sé. Ricordava il suo sguardo, non disperato e non implorante, solo deciso. Ricordava di avergli chiesto come avesse fatto a trovarla, ma non aveva ottenuto altro che una scrollata di spalle e alla domanda sulle motivazioni di quella richiesta egli aveva semplicemente risposto con un “Sembra divertente” accompagnato da un ghigno diabolico. Chi se non lui? L’uomo che l’aveva colpita, che, come si aspettava, aveva raggiunto gli alti vertici della sua Organizzazione, arrivando a diventare suo vice, e che lei aveva segretamente amato.

Lui doveva averli spinti a tanto, sicuramente li aveva manipolati tutti convincendoli che fosse un’idea grandiosa e che liberarsi di lei convenisse. Sicuramente ambiva al potere personale.

Eccoli lì: i suoi dieci collaboratori più fidati che si erano rivelati dei traditori e sciocchi a sufficienza da credere alle promesse di quell’opportunista.

Ma non sarebbero vissuti a lungo per potersi beare della loro piccola, sporca opera: lei era viva ed era desiderosa quanto mai di versare il loro sangue.

Un ghigno illuminò la notte e l’oscurità inghiottì la ragazza, dilaniata dall’odio.

 


Il silenzio era calato sul tavolo e Heather tirò su lo sguardo, fissando ad uno ad uno i presenti:
- Allora?
- Be’, non hai raccontato il tuo peggiore peccato… - Sussurrò Bridgette, rossa in volto per quell’intervento così infantile e inutile.
- No, mia cara… - Heather ghignò diabolicamente e quel ghigno stillava più odio di qualsiasi altro. - … Perché il mio più grande peccato, nonché la mia più grande soddisfazione, si compie stasera! – Esclamò ed esplose in una risata innaturale.

Squadrò i presenti con quel ghigno malefico stampato in faccia: Courtney, Gwen, Alejandro, Bridgette e Trent erano lì per assistere al suo trionfo, per vedere la sua vendetta compiersi.

Erano già morta metà dei traditori che sperava morissero quella sera ed ora la sua opera era quasi completa…

- Ma cosa stai dicendo?! – Scattò Gwen. – Cosa intendi con…

Ma non riuscì a finire la frase, perché si portò una mano alla gola, spalancando gli occhi pregni di puro terrore e si accasciò sul tavolo, un braccio abbandonato mollemente mentre ancora quella mano stringeva il bicchiere con il cocktail, che si rovesciò e colò lentamente fino a terra… Improvvisamente quella sostanza rossa scura che riempiva il bicchiere sembrava sangue.

Courtney scattò in piedi, inorridita e fissando Heather, ma il ghigno del suo ex-capo fu l’ultima cosa che vide prima che le si annebbiasse la vista e cadesse a terra, morta.

Uno alla volta a seconda di quanto avevano bevuto, Trent e Bridgette caddero riversi sul tavolo con una bava biancastra che colava fuori dalle loro bocche, incapaci di emettere più alcun suono, ormai.

- Cocktail avvelenati, eh? Proprio nel tuo stile… - Sussurrò Alejandro, raddrizzandosi sulla sedia e osservando i camerieri che portavano via i cadaveri dei ragazzi.
- Ti ringrazio, mio caro. Ora, veniamo a noi… - Sorrise Heather.

Si alzò e fece due passi ancheggiando verso il ragazzo, arrivandogli di fronte stringendo la pistola e l’ultima pallottola nella mano. Si sedette elegantemente sulle sue gambe, sospirando.

Alejandro si irrigidì, ma mise un braccio dietro alla vita della ragazza, sorreggendola:
- Cosa stai facendo, Heather? – Chiese, scrutandola negli occhi.
- Voglio sapere perché hai organizzato tutto questo: so che ci sei tu dietro a quell’attentato che rovinò la mia vita. – Lo fissò di rimando lei, seria come non mai.
- Tesoro… - Le accarezzò una guancia stringendola di più a sé. - …  Per il potere. Io sono infinitamente più adatto a guidare una simile organizzazione. Progetto onorevole, non c’è che dire, ma non eri adatta a gestirlo. Dopo la morte degli assassini di tuo padre hai perso determinazione e… Be’, qualcuno doveva succederti. Non è stato difficile, se lo vuoi sapere, convincere gli altri a seguirmi: non eri esattamente ben voluta… - Sorrise senza traccia di scherno, finendo di spiegare con tono impassibile e piegando la testa di lato, avvicinandosi al volto della ragazza.
- Ah, capisco. Quindi solo per il potere…? – Chiese lei, avvicinandosi a sua volta e riducendo la voce ad un sussurro.
- Sapevo della tua relazione con Jamie. – Ammise Alejandro.
- Ah! – Rise Heather. – Capisco… Complimenti per aver capito del veleno, non che mi aspettassi qualcosa di meno da te, mio caro…

Heather caricò lentamente la pistola, inserendo il colpo in canna.

- Non è leale: dovresti farla girare a vuoto e lasciare che la sorte decida per te… - La punzecchiò Alejandro.
- Cosa pensi che succederà ora? – Lo fissò profondamente Heather mettendogli una mano dietro la nuca.
- Sarebbe inutile scappare: immagino ci siano uomini appostati qui fuori pronti ad uccidere chiunque esca di qua, quindi… Dimmelo tu. Se devo morire che almeno sia piacevole. – Sorrise ammiccando.

Lei annuì ridacchiando e lo attirò a se baciandolo profondamente.

Le loro labbra si incontrarono, si esplorarono e le loro lingue si intrecciarono, giocando e provocandosi a vicenda. Heather puntò la canna della pistola al petto del ragazzo, poggiando il dito sul grilletto. Alejandro non si mosse e sussurrò, sulle labbra della ragazza, senza aprire gli occhi e spingendo perché il suo corpo aderisse al proprio:
- Ti amo.

I loro petti si toccavano e Heather sorrise, rispondendo, mentre calde lacrime le scivolavano giù dalle guance:
- Bugiardo…

Poi premette il grilletto.

Il corpo del ragazzo si afflosciò tra le sue braccia e esalò il suo ultimo respiro in un sorriso, accarezzando debolmente una sua guancia, bagnata di lacrime.

Heather si raddrizzò nel locale improvvisamente silenzioso, squadrandosi intorno: era tutto finito.

Il tavolo che aveva visto la sua vendetta compiersi era stato ripulito, pronto ad ospitare i suoi prossimi clienti come se niente fosse accaduto.

Appoggiò una banconota da cento dollari nel mezzo del tavolo fermandola con un sassolino che si estrasse dalla tasca dei pantaloni.

Fece un cenno ai camerieri e uscì nella notte avvolgendosi nel suo impermeabile.

E ora cosa avrebbe fatto? Non era tempo di preoccuparsi di quello.

Si avviò verso una macchina parcheggiata li di fianco mentre la pioggia scendeva leggera e le inzuppava i capelli. Non mancava molto all’alba e sorrise pensando a come avrebbe osservato il sole sorgere sapendo di essersi liberata di un fardello che si portava dietro da troppo tempo.

Premette il pulsante rosso di innesco della bomba e mentre il sasso che aveva lasciato vicino ai soldi esplodeva distruggendo il pub, lei si allontanò scomparendo nell’oscurità, un ghigno soddisfatto che le illuminava il viso.


FINE 

 

 

- CIAMBELLANGOLO -
Non ci credo che sto per dirlo, ma… E’ finita.
Ce l’abbiamo fatta <3 “Abbiamo”, si, “abbiamo”. Noi. Insieme :3
Vi ringrazio infinitamente per tutto il supporto che mi avete dato, questa storia mi è piaciuta dall’inizio alla fine ed è grazie a voi se non ho mollato c:
So che “Grazie” è riduttivo per esprimere quanto vi voglia bene, ma non saprei trovare le parole adatte per esprimere in altri modi quanto viene così meravigliosamente detto da questa splendida parolina c:
Grazie per le recensioni, i pareri, i complimenti e per essere arrivati fin qui dopo questo maxi epilogo (seriously: non è l’epilogo più giganorme di tutta la storia ahah?) <3
Vi voglio bene, a una prossima storia (probabilmente non più su A Tutto Reality, ma questa andava scritta su ATR, per forza, su, dai u.u) :3
Con tanto amore e tanta gratitudine,
_Rainy_

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