Minus One Degrees

di Pineapple__
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I Found You ***
Capitolo 2: *** It's Time ***
Capitolo 3: *** Upside Down ***
Capitolo 4: *** Tutta La Verità Sulla Verità ***
Capitolo 5: *** More Than This ***
Capitolo 6: *** Che Il Lupo Cattivo Vegli Su Di Te ***
Capitolo 7: *** A Demon's Fate ***
Capitolo 8: *** Blood On Blood ***
Capitolo 9: *** Mentre Tutto Scorre ***
Capitolo 10: *** Quando Una Stella Muore ***
Capitolo 11: *** Wherever You Will Go ***
Capitolo 12: *** Crazy ***
Capitolo 13: *** Fireflies ***



Capitolo 1
*** I Found You ***


Ti ho trovata, nell’ora più buia
Ti ho trovata, sotto la pioggia battente
Ti ho trovata, quando ne avevo bisogno
         E il tuo amore mi ha fatto indietreggiare nuovamente.

-I Found You, The Wanted-


L’uomo camminava imperturbato per la spiaggia, mentre la tempesta gli soffiava intorno, tempestanto i suoi scuri abiti di gelidi fiocchi nivei. Scostava bruscamente la leggera sabbia al suo imponente passaggio. Lo sguardo perennemente abbassato, quasi malinconico.
 
Sbuffò, generando con il suo fiato delle dense nuvolette lattee. Lo sciabordare delle onde imbizzarrite che si infrangevano sulla fine arena ed umida gli bombardava incessante le orecchie. Puntò i suoi occhi color del ghiaccio su quella infinita distesa d’acqua burrascosa, contemplando mutamente la sua grande forza distruttiva. Enormi cavalloni si abbattevano violentemente sulla riva, stuzzicando fastidiosamente il naso dell’uomo con l’odore salmastro della spuma.
 
Avviluppò le grandi mani nelle imbottite tasche del lungo cappotto all’ennesima folata di vento gelido. La più profonda e deprimente solitudine di quell’isola desolata lo avvolgeva nelle sue ignobili spire.
L’avevano strappato dal suo equipaggio e collocato in quella dannata e sperduta isola. Digrignò rabbiosamente i denti al solo pensiero di quel riso sarcastico e strafottente degli uomini della Marina.
Solo una cosa lo faceva sentire rasserenato; sapeva che il suo equipaggio stava bene e questo era tutto quello che di più al momento gli importava.
 
Un poderoso vagito lo distolse dai suoi pensieri, costringendolo a guardarsi intorno per capire da dove venisse quell’insolito suono. Solo lui viveva sull’isola e poteva giurare di non aver mai visto o udito bambini in tutto il tempo che aveva passato in quel luogo. Il suo sguardo attonito finalmente ricadde poco più avanti, su una cesta mezza carbonizzata, che batteva la sciupata base sulla sabbia, seguendo il moto ondulatorio dell’oceano.
 
Il pirata si avvicinò a grandi falcate verso il canestrino, mentre una serie di domande frullavano impetuose nella sua mente. Lo raggiunse e lo sollevò delicatamente, consapevole che, se l’avesse sbatacchiata troppo, si sarebbe sfasciata e il contenuto sarebbe caduto tristemente al suolo. Scostò cautamente la scoperchiatura e si ritrovò davanti qualcosa, o meglio qualcuno, che non avrebbe mai pensato lo raggiungesse su quella dispersa terra circondata dalle acque. Il corpicino coperto da un’inconsistente copertina lanuginosa di una neonata strillante si presentò davanti ai suoi occhi.
 
Il Chirurgo alzò sfacciatamente un sopracciglio e sbuffò sonoramente, guardandosi intorno per verificare che  quelli della Marina non gli stessero tirando un altro brutto scherzo. Non vedendo nessuna forma di vita oltre a loro due, riportò l’attenzione sul fagottino che teneva in braccio. La piccola continuava imperterrita a piangere, riempiendo l’aria circostante con i suoi disperati lamenti.
“Certo che per essere così piccola ne hai di aria nei polmoni. Dai, spegniti un po’, stai già cominciando a darmi alla testa.” commentò estraendola dalla pericolante cesta.
 
Rabbrividì non appena toccò il corpo della piccina. Era gelido. Si meravigliò di come quella creatura così fragile potesse essere ancora viva. Si aprì la giacca sul petto e vi ci infilò la neonata. Ringraziò che nessuno, in quel momento, li stesse vedendo. Non ci avrebbe fatto una grande figura. La piccola lo guardò, confusa, scoprendo due magnifici occhi che parevano smeraldi. Lui girò stizzosamente il capo con un’espressione indecifrabile dipinta sul volto.
“Non so chi sei e nemmeno mi interessa saperlo. Ma non posso lasciarti morire qui. Andiamo.” e detto questo di incamminò svelto verso casa.

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Capitolo 2
*** It's Time ***


E’ tempo di iniziare, vero? 
Diventerò un po' più grande 
Ma poi ammetterò che 
Sarò lo stesso di quel che ero 
Adesso non capisci che 
Non cambierò mai quello che sono.

-It’s Time, Imagine Dragons-
 
 
 
Il pirata alzò stizzosamente lo sguardo, incontrando quello inquieto del Marine in piedi di fronte a lui. Sollevò un sopracciglio, mentre il pungente odore della tazza di caffè appoggiata sul basso tavolino di fronte a lui gli accarezzava il diritto setto nasale. Lo scoppiettante crepitio del fuoco riempiva il pesante silenzio creatosi pochi minuti addietro tra i due uomini. La luce generata dalle fiamme colpiva tremolante il viso serio e imperscrutabile del capitano, risaltandone i lineamenti morbidi e perfetti.
 
All’esterno, intanto, innumerevoli fiocchi lattei pattinavano leggiadri nella polare etere, per poi accasciarsi aggraziatamente al suolo. Lo sguardo si perdeva alla vista di quello spesso ed immacolato manto che avvolgeva l’area circostante. Gli occhi del corsaro si spostarono annoiati verso l’impolverata finestra, osservando tacito la bufera che soffiava inclemente sull’isola, facendo cigolare lo spiovente tetto di tegole rossicce. Quei pochi mesi che aveva trascorso in quella sperduta landa, li aveva passati nella granitica morsa dei costanti ghiacci del Nord. L’estate non arrivava mai e mai sarebbe arrivata. La fitta pineta non sarebbe mai stata accarezzata dai caldi raggi del sole d’agosto, ma avrebbe sempre mugolato tristemente sotto il peso della neve.
 
Scosse lievemente il capo e riportò l’attenzione sul Marine, riprendendo a fissarlo grevemente. Non sapeva perché, ma il fatto di intimorire così tanto il giovane uomo lo divertiva infinitamente. Il suo sadico giochetto venne interrotto dal fastidioso squittio di un secondo giochino, molto più innocuo del primo. Una pallina a striature violacee rotolò vicino alle scarpe di Law, il quale si abbassò seccato e squadrò seccato la piccola figura che gattonava goffa cercando il piccolo oggetto sferico.
 
“Vogliamo smetterla con questo gioco scemo, piccola peste?” chiese con una punta di ironia sulla lingua.
 
Allungò le braccia e la afferrò con delicatezza innaturale, poggiandola sulle sue smagrite cosce. La piccola gorgheggiò di protesta, pretendendo che le fosse restituito il gioco. Il Marine deglutì sonoramente e serrò i pugni, forse deciso a proferire parola.
 
“Allora, vuoi portare via questa piccola pulce gorgheggiante o vogliamo continuare a giocare alle belle statuine?” sbottò l’uomo dal cappello a macchie porgendogli sgraziatamente la bambina.
 
“I Grandammiragli si sono riuniti per parlare della tua situazione, Trafalgar Law…” iniziò titubante il marinaio passandosi una mano sulla rada barbetta.
 
“Interessante. Prendi la bambina e sparisci.” incalzò Trafalgar, cominciando a perdere la pazienza.
 
“E hanno pensato che, per la tua stabilità mentale, sarebbe meglio che tu tenga la piccola.” sentenziò mordendosi l’interno delle guance.
 
Il pirata sbarrò gli occhi e schioccò tediato la lingua, scagliando un’occhiata raggelante al Marine.
 
“Sono mentalmente più stabile di tutti voi della Marina messi insieme. Non intendo abbassarmi a fare da balia ad una mocciosa. Ho ancora una reputazione da Supernova da difendere.” asserì riacciuffando la neonata che cercava di sgattaiolare via dalle sue gambe.
 
“Se riuscirai a crescerla fino ad otto anni compiuti, avrai in cambio la libertà.” continuò imperterrito l’uomo allacciando le mani dietro la schiena.
 
Per il corsaro fu come una cannonata in pieno stomaco. Avrebbe solo dovuto fare da padre ad una marmocchia per ricevere in cambio la libertà. La storia gli puzzava inimmaginabilmente, ma se quel piano fosse andato veramente in porto, avrebbe rivisto la sua ciurma. Certo, otto anni erano davvero tanti. Ma avrebbe affrontato quel lungo periodo solo per sentire di nuovo l’odore asettico che aleggiava pesantemente in quel suo angusto sottomarino. La sua vera casa. Avrebbe fatto fronte a otto lunghi anni di convivenza con una perfetta sconosciuta, solo per udire di nuovo i bisticci che volavano tra Shachi e Penguin, per poter appoggiare ancora una volta la sua testa sulla morbida pancia di Bepo.
Sapeva di non poter negoziare, conoscendo la testardaggine degli uomini della Marina, soprattutto degli alti ranghi. Ma otto anni erano davvero tanti. Troppi.
Interminabili e silenti si susseguirono, mentre il capitano ponderava doverosamente il da farsi. Buttarsi? Lui non era per queste cose.
Decise di rischiare comunque. In fondo, che cosa aveva da perdere?
 
“E va bene, terrò la marmocchia. Ma da dove comincio?” sbuffò girando lo sguardo contrariato.
 
“Perché non cominci con il trovarle un nome?” propose il Marine dirigendosi verso la porta, per poi uscire come risucchiato dal turbinio di fiocchi nivei.
 
La Supernova si appoggiò esasperato allo schienale del divano, accarezzandosi energicamente una guancia. In che cosa diavolo si era cacciato? Si era aperto un nuovo capitolo nella vita del pirata. E se si fosse affezionato a quella piccola pulce gorgheggiante?
 
“Impossibile. Trafalgar Law non si affeziona a nessuno.”  pensò scuotendo leggermente il capo.
 
Fu a quel punto che la piccina si voltò, fissandolo con quei grandi e luminosi occhi verdi. Lui la guardò solo per pochissimi secondi, prima di distogliere antipaticamente lo sguardo come al solito. La sua attenzione fu catturata nuovamente dalla tempesta che imperversava furiosa all’esterno. Pareva che i fiocchi di neve danzassero trasportati dal vento. Puri. Soffici. Lievi.
 
“Yuki. Ti chiamerò Yuki.” dichiarò con convinzione sistemandosela tra le braccia.
 
Fu solo per un istante, ma Trafalgar intravide un sorriso farsi strada sul volto della bambina. Quel nome sembrava piacerle.

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Capitolo 3
*** Upside Down ***


N.B.: Questo capitolo sarà una raccolta di sette momenti che corrispondono a sette anni di convivenza tra Law e la piccola Yuki. Perché? Perché sì.


Al contrario 
Chi può dire cosa è impossibile? 
E cosa non può essere trovato? 
Io non voglio che questa sensazione vada via.

-Upside Down, Jack Johnson- 
 
 
#0
Un poderoso pianto spezzò aspramente la tranquillità della notte. Subito la porta della stanza adibita a cameretta si aprì, producendo un prolungato cigolio, e una testa dagli scarmigliati capelli corvini fece capolino dall’anta socchiusa. Lo sguardo ghiacciato e infastidito del pirata ricadde sulla semplice culla lignea tempestata di adesivi fluorescenti, al cui interno vi era la bimba che continuava a disturbare il sonno dell’uomo. Era la terza volta che il corsaro si svegliava perché Yuki scoppiava, chissà per quale misteriosa ragione, a piangere. Accese la luce e si diresse con fare scocciato verso il giaciglio della piccola.
 
“Allora, piccoletta. Non hai fame, non sei bagnata e non ti fa nemmeno male qualcosa. La vuoi smettere di piangere? Sai, anche io ho bisogno di dormire.” sbuffò caricandosela nuovamente in braccio.
 
Anche questa volta, appena la piccola si ritrovò tra le sue braccia, si calmò di colpo. Solo in quel momento, vedendola stringersi al suo petto, Law capì. Era tutto solamente un modo per attirare la sua attenzione. Trafalgar scosse impercettibilmente la testa, esasperato.
 
“Sei davvero appiccicosa, marmocchia.” dichiarò con un sorrisetto divertito.
 
 
 
 
#1
La piccola rovinò di nuovo sulle ginocchia. Si puntellò sulle manine e si alzò per l’ennesima in piedi. Le gambine si muovevano macchinosamente e tremolanti. Yuki non era ancora capace di reggersi in piedi ma, ogni volta che cadeva, si rialzava, imperterrita, decisa a continuare il suo percorso. Il capitano sollevò gli occhi dal libro che stava leggendo, comodamente sprofondato sul soffice divano, e la fissò mentre ruzzolava goffamente per terra. Alzò un sopracciglio. Come poteva pensare, quella piccoletta, di riuscire a camminare senza avere il ben che minimo appoggio?
Chiuse sospirando il volume e si alzò dal sofà, dirigendosi apaticamente verso la piccola, che intanto lo fissava interrogativa. La afferrò saldamente per le manine la fece tirare il più delicatamente possibile in piedi. La piccina, sentendosi sorretta da qualcuno che non l’avrebbe lasciata cadere, procedette sempre più sicura dei piccoli passetti che compiva.
 
“Non sai nemmeno camminare senza che io ti tenga. Io alla tua età già correvo.” affermò borioso storcendo la bocca.
 
Di tutta risposta, la piccola alzò innocentemente la testolina e gli sorrise, come a volerlo ringraziare per averla aiutata.
 
 
 
 
#2

“Law.”
 
“Pa… pà.”
 
“LAW.”
 
“Pa… pà.”
 
“L – A – W.”
 
“Papà!”
 
Il corsaro si portò una mano sul volto, esasperato. Quante volte avrebbe dovuto sentirsi chiamare con quella parola che tanto non sopportava? Per lei, lui era solo Trafalgar Law, non papà. La guardò profondamente negli occhi. In quei grandi e luminosi occhi verde smeraldo. La bambina sorrise ingenuamente, sistemandosi sulle gambe dell’uomo.
 
“Ascoltami, Yuki, io non sono il tuo papà. Mettitelo bene in testa. Non voglio che tu creda questa cosa.” mise le cose in chiaro il chirurgo.
 
Seppur avendo soltanto due anni, la piccola capì a pieno le parole fredde e distaccate dell’uomo. I suoi occhi immediatamente si spensero, riempiendosi dolorosamente di lacrime. Law si morse leggermente il labbro inferiore, consapevole di essere stato forse troppo duro con la bambina. Sospirò pesantemente e portò una mano sulla testa della piccina, scompigliandole i setosi capelli castani.
 
“Pa… pà?”
 
“E va bene. Sono il tuo papà, Yuki.” ammise tentando di imitare un tono vagamente dolce.
 
 
 
 
#3
Gli zampettii della piccola Yuki risuonavano per il lungo corridoio. Stringeva tra le piccole quel foglio di carta su cui aveva lavorato buona parte di quel grigio pomeriggio. Ora voleva mostrarlo al suo papà. Ricevere, almeno questa volta, un gesto d’affetto, seppure appena accennato. Corse a precipizio giù dalle scale e raggiunse Law in cucina, occupato a bere svogliatamente una tazza di thè appoggiato al piano. Si avvicinò a lui con un sorriso spontaneo, ricevendo da parte sua la solita occhiata indifferente. Gli porse il foglio e si allontanò di qualche passo, allacciando le mani dietro la schiena. Aspettava il fatidico momento in cui si sarebbe davvero apprezzata. Il capitano fece scivolare il suo argenteo sguardo sul foglio.
 
“E questo cos’è?” domandò rigirandoselo tra le grandi mani.
 
L’immagine rappresentava due figure infantilmente stilizzate. Il soggetto più alto assomigliava vagamente a Law per via dell’inconfondibile cappello a macchie e il lungo cappotto color pece. Vece scivolare lo sguardo verso il basso e sbarrò gli occhi; erano proprio loro due. Che si tenevano per mano con un sorriso smagliante dipinto sul viso. Allungò una mano verso la piccina e, senza guardarla, le accarezzò frettolosamente la testa.
 
“Non è il disegno più bello del mondo, ma sei stata comunque brava, Yuki.” annuì sentendo su di se il peso del sorriso estasiato della figlia.
 
 
 
 
#4
La neve turbinava intorno all’alto e magro capitano imbacuccato in quel lungo cappotto nero con il Jolly Roger degli Heart Pirates in bella vista. Sentiva la sua presenza approssimarsi sempre di più a lui. Il candido oggetto sferico sfrecciò in direzione dell’obbiettivo, centrandolo in pieno. L’uomo alzò lo sguardo al cielo plumbeo, scocciato, e si voltò verso quella piccola figura avvolta nel soffice piumino rosa che se la rideva di gusto.
 
“Ti piace proprio infastidirmi, eh, pulce?” chiese sarcasticamente l’uomo sistemandosi il cappello sulla testa.
 
“Papà salame!” lo sbeffeggiò la piccina con un sorrisetto sprezzante dipinto sul viso liscio e paffuto.
 
“E così sarei un salame?”  ripeté, irritato dal fatto che quella mocciosa lo deridesse così apertamente.
 
Allungò con falsa minacciosità una mano e le fece cenno di avvicinarsi. La bimba trotterellò spensieratamente verso il genitore, con un tenero sorriso dipinto sulle fini labbra leggermente secche a causa dell’intenso freddo. Quando se la ritrovò davanti la prese con poca grazia per le ascelle, posizionandola in modo che la potesse guardare direttamente negli occhi. Anche dopo averla fissata grevemente per una manciata di secondi, la bambina non cambiò la sua espressione giocosa. Incredibile. La stessa occhiataccia che aveva fatto impallidire centinaia di coraggiosi corsari non era efficace su una frugoletta di quattro anni.
 
“Sei davvero una piccola peste.” dichiarò sconfitto, caricandosela sulle spalle.
 
“E tu sei un salame, papà!” rise lei appoggiando l’arrossata punta del nasino tra la soffice pelle del cappello dell’uomo.
 
 
 
 
#5
 
“Papà… ci sono i mostri che vogliono mangiarmi…” pigolò la bambina in piedi sulla soglia della stanza del padre.
 
Stringeva al petto un soffice peluche che raffigurava Bepo, come se questo potesse darle un po’ di conforto durante quelle notti lunghe e buie. Ma quella notte degli scricchiolii improvvisi l’avevano spaventata a tal punto da cercare rifugio nel lettone paterno. L’uomo aprì svogliatamente un occhio  e cercò di rispedirla in camera sua con un movimento della mano.
 
“Ma smettila, Yuki, non esistono i mostri. Torna a dormire.” la liquidò sbrigativo desideroso di tornare a ronfare beatamente.
 
“Ma io… ho paura…” pipiò la bimba a voce incredibilmente bassa.
 
Law alzò gli occhi al cielo e, domandandosi da dove gli arrivasse tutta quella pazienza, si tirò su in piedi. Si diresse verso la piccolina che ancora tremava stringendo il suo pupazzo e, prendendola delicatamente in braccio, tornò a stendersi sul morbido letto matrimoniale. La piccina si accoccolò con naturalezza contro il petto del padre e si addormentò subito, avvolta dalle protettive braccia del corsaro. Trafalgar si sentiva profondamente imbarazzato da quella tenera scena. Qualcosa dentro di lui scattò in quel momento, forse il suo istinto paterno da sempre sopito, e appoggiò le labbra sul capo di Yuki.
 
“I mostri non ti sfioreranno nemmeno con un dito.” dichiarò lasciandole una delicato bacio sui capelli.
 
 
 
 
#6
La donna sbatté il libro di testo sul tavolo, squadrando con fare lievemente omicida la piccola che sgambettava beatamente seduta sulla sedia della sala. Yuki odiava stare ore e ore sui libri, imparando cose che non le sarebbero mai servite. Almeno non nel “lavoro” che si era prefissata di svolgere una volta diventata grande. E soprattutto non le piaceva Storia della Marina Militare, la quale appassionava la sua “carissima” insegnante. Spostò svogliatamente lo sguardo sulla donna e sbuffò sonoramente, sistemandosi una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
 
“Non ce la fai proprio a stare attenta, vero?” domandò seccata lei sistemandosi i fini occhiali sul naso.
 
“Che noia, Tashigi, non voglio studiare questa roba. Piuttosto potresti insegnarmi navigazione!” propose la piccola battendo emozionata le mani.
 
“E a cosa dovrebbe servirti, scusa?” chiese con una punta di curiosità nella voce.
 
“Semplice! Io diventerò un terribile pirata!” esclamò gonfiando vanagloriosamente il petto.
 
Gli occhi di Tashigi si spalancarono e assunse uno spaventoso colorito latteo.
Nella stanza accanto Law, che aveva sentito tutto quello che Yuki aveva detto alla donna dai capelli blu, annuì con un sorrisetto sornione. Yuki il pirata. Si sentii fiero di se stesso; l’aveva proprio indirizzata sulla retta via.
 
 
 
 
#7
Sei e mezza del mattino. Calma piatta. L’unico suono che si riusciva a percepire era quello dell’inclemente vento che soffiava sull’isola, facendo increspare il mare grigiastro. La porta della camera di Trafalgar si spalancò improvvisamente e una piccola figura sfrecciò verso di lui, tuffandosi a capofitto sul suo grande e morbido letto. Il chirurgo si svegliò di soprassalto e, quando riuscì a mettere a fuoco la situazione, vide una piccoletta stesa prona di fianco a lui, con la testa appoggiata sugli avambracci e due luminosi occhi verdi che sembravano rifulgere di luce propria. La guardò sbuffando e si voltò dall’altra parte, anelando a riprendere il ben meritato sonno. Ma lei non demorse.
 
“Buongiorno papà!” cinguettò giuliva scuotendolo energicamente per una spalla.
 
“Yuki, per favore… E’ presto…” masticò l’uomo con la voce impastata.
 
“Dai, papà, non puoi restare a letto per sempre! E poi, devo chiederti una cosa molto importante.” riferì improvvisamente seria.
 
“Che cosa?” domandò stropicciandosi gli occhi e sbadigliando.
 
“Ma tu… mi vuoi bene?” chiese inaspettatamente fissandolo dritto negli occhi.
 
Fu come una fucilata in pieno cervello, per lui. Che cosa le avrebbe dovuto rispondere? Non voleva ferirla, ma nemmeno passare per la mammoletta di turno. Decise di operare nella maniera migliore. La sua specialità.
 
“Ma che razza di domande sono, alle sei e mezza della mattina?” sbuffò il capitano cercando di non guardarla in viso.
 
“Sei proprio bravo a sviare i discorsi, papà. Comunque, io ti voglio bene.” dichiarò smontando dal letto e sparendo nel lungo corridoio.
 
Il corsaro sbarrò completamente gli occhi e si coprì completamente con il caldo piumone verdastro. Complimenti, pensò, Trafalgar Law, una Supernova, soprannominato Il Chirurgo della Morte, si è lasciato trasportare così tanto dalle emozioni solo perché una bambina di sette anni gli ha dimostrato il proprio affetto. Mi hai deluso, vecchio mio. E, intanto, un incontrollato sorriso intenerito si fece strada tra le sua labbra.

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Capitolo 4
*** Tutta La Verità Sulla Verità ***


Tutta la verità sulla verità
Sta nell'abilità di raccontarla 
Tutta la verità sulla verità

 Sta nell'abilità di sopportarla.
-Tutta La Verità Sulla Verità, Eva Mon Amour-
 
 
 
 
L’uomo si passò stancamente una mano sullo scavato volto, fissando il suo piglio smagrito riflesso nell’opaco specchio. Notò che le sue immancabili e profonde occhiaie si erano ingigantite. E qualche capello grigiastro aveva cominciato a spaziare attraverso la, ancora fortunatamente folta, capigliatura corvina. Quei sette anni erano passati incredibilmente veloci, tanto che solo quella mattina il corsaro iniziò a rilevare i primi segni di quella fase d’invecchiamento della vita. Seppur avendo solamente trentun'anni, principiava a percepire il peso del tempo che scorreva inesorabile pesare sulle sue spalle. Per quanto avrebbe dovuto tenersi lontano dall’oceano? Dalle battaglie? Dalla sua ciurma?
 
Improvvisamente una piccola figura fece capolino dalla porta socchiusa, avvolta in quell’orribile camicia da notte vinaccia a sottili righe turchesi che le sfioravano le snelle caviglie. Un indumento che sarebbe stato meglio indosso ad una zitella cinquantenne. La piccina sorrise, avvicinandosi a piccoli passi cadenzati verso il capitano. Lui la degnò del sovente sguardo d’indifferenza.
 
“Ti specchi, papà?” domandò innocentemente la bambina dondolandosi sui talloni.
 
“Si, Yuki, mi specchio. E’ forse un reato?” rispose acidamente il moro.
 
“Non credo, però sono venti minuti che stai lì immobile a specchiarti. Sembri una di quelle donne che sclerano al primo capello bianco.” rise la castana additando l’uomo, che intanto la squadrava con celati istinti omicidi.
 
Law si inginocchiò davanti alla bimba, sbuffando infastidito. A volte quella marmocchia sapeva essere davvero irritante e tediosa. Se la caricò in braccio e le sistemò le scarmigliate ciocche color cioccolato che le ricadevano impertinenti ai lati del paffuto e fanciullesco visino. Quei capelli la rispecchiavano in tutto e per tutto. Una chioma che tornava lucida e setosa solamente dopo diversi colpi di spazzola. Una ragazzina ribelle con dei capelli ribelli.
 
“Sei la prima a rivolgerti così a Trafalgar Law, sai?” le ricordò puntandole un dito sul nasino.
 
“Non fare il figo, papà, tanto lo so che non è vero.” affermò lei con sicurezza.
 
“Che sfacciata che sei.” disse il corsaro uscendo dal bagno.
 
Prese a camminare per il lungo corridoio. I suoi passi, ovattati dalle morbide pantofole, producevano un attutito e morbido suono, procedendo sullo scricchiolante parquet. Volse lo sguardo verso la frugoletta che ancora stringeva tra le sue braccia. La guardava attentamente, ancora, se che lei se ne accorgesse, troppo impegnata a giocherellare con l’unico pon pon rimasto che penzolava tristemente dal colletto della vestaglia.
 
L’aveva sempre osservata, sempre, dalla sua ombra della sua velata indifferenza. Aveva promesso che non si sarebbe affezionato a quella mocciosa, ma aveva fallito miseramente. Ma non le avrebbe mai dimostrato il proprio attaccamento. Non aspirava ad apparire un tenero papà, o peggio, una checca sentimentale. E quando la piccolina gli aveva domandato se le voleva bene, aveva preferito sviare semplicemente il discorso.
 
Arrivò in cucina e la pose sull’alta sedia, dalla quale la bambina non riusciva a poggiare i piedini a terra. Si avvicinò al piano e raccattò le vivande strettamente necessarie per una colazione appena mangiabile: pane raffermo da svariati giorni sul quale si cominciavano a notare piccole macchie di muffa, burro che aveva assunto un insolito colorito giallastro, un barattolo di marmellata, probabilmente al gusto di fragola, abbandonata in un angolo della credenza e una bottiglia di succo stranamente denso.
 
“Sei sicuro che poi non mi viene il mal di pancia ma mangiare questa roba?” chiese lei alzando un sopracciglio mentre il padre le appoggiava davanti quello che sarebbe stata la sua “colazione”.
 
“Ascolta, non fare la schizzinosa e mangia. Sai quante storie mi fanno quelli della Marina se si ti trovano sotto anche di qualche etto.” asserì afferrando con noncuranza la sua solita tazza di caffè bollente.
 
Yuki sbuffò esasperata, spalmando la purea rossastra su una sottile fetta di pane appena faticosamente tagliata. Non guardò nemmeno il burro, convinta che se ne avesse ingerito anche solo una minima parte avrebbe passato tutta la giornata chiusa in bagno in preda a dolori lancinanti. Versò il succo nel bicchiere e addentò la porzione di pane. In effetti, era molto meglio di quanto pensasse.
 
Law la osservava minuziosamente da dietro, non perdendo nemmeno una mossa della bambina. Doveva stare attento che non si tagliasse con quel coltello fin troppo appuntito per quella sua liscia e delicata pelle. Cosa diavolo gli stava prendendo? Scosse leggermente la testa; si stava proprio trasformando in un padre per il quale il benessere della sua bambina veniva prima di tutto. Se lo avessero scoperto le altre Supernove, si sarebbe come minimo seppellito vivo.
 
“Papà?” lo chiamò ad un tratto la castana “Com’è la mia mamma?” domandò improvvisamente fissando insistentemente la neve che turbinava all’esterno.
 
Il corsaro sbarrò gli occhi, quasi strozzandosi con il caffè appena ingollato. Si chiese cosa stesse le passando per quella strana testa da bambina di sette anni. Non aveva mai chiesto nulla di una sua ipotetica madre. Il problema era sostanzialmente uno: avrebbe dovuto rivelarle la dura verità oppure continuare a farla crogiolare nel suo felice brodo di menzogna? Non era sua intenzione spezzarle il cuore, ma decise di scegliere la soluzione più dura, seppur la più giusta. Non avrebbe potuto mentirle per sempre.
 
Appoggiò la tazza vuota nel lavello e la raggiunse al tavolo, sedendosi di fianco a lei. Non aveva il coraggio di guardarla in faccia. Non riusciva a reggere il peso di quei grandi occhi verdi che gravavano su di lui. Che ti prende, Law, diglielo e basta pensò. Deglutì.
 
“Yuki, ascoltami bene. Io non sono il tuo vero papà, ok? Ti ho solo trovata da neonata sulla spiaggia e ti ho tenuto con me. Non posso sapere come fosse tua madre.” proferì tutto d’un fiato alzando lo sguardo al suo viso.
 
“Dai, papà… non mi piacciono questi scherzi.” pigolò la bimba con un sorrisetto alquanto nervoso.
 
“Non scherzerei mai su queste cose, Yuki. E’ la verità.” affermò con raggelante serietà.
 
La piccina lasciò cadere pesantemente la fetta di pane sul ruvido tavolo ligneo, portandosi le manine tremanti alla bocca. I luminosi occhi della castana si fecero immediatamente cupi e tenebrosi mentre grandi lacrime rotolavano lungo le smunte guance. Uno smorzato singhiozzo si fece strada le tremolanti labbra, seguito da innumerevoli altri. Il chirurgo sentì una ferrea morsa di dolore stringergli qualcosa al centro del petto. Non avrebbe mai pensato di avere una reazione così esagerata.
 
“Mi hai preso in giro tutti questi anni…” gemette Yuki cercando di asciugarsi invano gli occhi lacrimanti.
 
“Non pensarlo nemmeno. Ti ho sempre trattato sempre come se fossi mi figlia, lo sai.” attestò allungando una mano verso il suo capo, nel tentativo di calmarla.
 
“Ah, si? E come? Negando sempre di volermi bene? E’ così che tratteresti la tua VERA figlia?!” gridò disperata scendendo dalla sedia e correndo verso l’uscita.
 
Il moro fu lesto nei movimenti e riuscì a riacciuffarla per un braccio. Si inginocchiò a terra e la attirò prudentemente a se, stringendola in un delicato abbraccio. Ancora una volta, si meravigliò di se stesso. Si stava ritrovando a consolare la bambina che per anni aveva tenuto a debita distanza, semplicemente per timore di afferzionarvisi troppo. Socchiuse gli occhi e le appoggiò una mano sulla testa, facendogliela appoggiare sulla propria spalla.
 
La piccina, dopo essersi divincolata per una consistente manciata di secondi, si abbandonò tra le braccia del capitano. Lui sbuffò, alzando lo sguardo al glabro soffitto grigiastro.
 
“Anche se non sono il tuo papà, Yuki, è come se lo fossi. E’ da quando ho deciso di tenerti con me che lo sono. So bene di non essere mai stato un padre affettuoso o appiccicoso, non è nel mio carattere. Ma per te ci sono sempre stato, no?” sussurrò con un’insolita nota di dolcezza nella voce.
 
“Ma se io non sono tua figlia… allora chi sono?” singhiozzò strabuzzando gli occhi rossi di pianto.
 
“Lo scopriremo, va bene? Ti aiuterò a scoprire chi sei.” sorrise carezzandole timidamente la schiena.
 
“Promesso?” domandò lei.
 
“Promesso.” assicurò lui.
 
Complimenti Law, si rimproverò mentalmente, sei diventato ufficialmente una mammoletta.






Questo disegno è stato realizzato magistralmente da Lady Grigori_96 (che ringrazio infinitamente) e colorato orribilmente dalla sottoscritta. Sono Law con la piccola Yuki. Non sono bellissimi? *^*

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Capitolo 5
*** More Than This ***


Se parlassi a voce più alta, mi vedresti? 
Ti abbandoneresti fra le mie braccia

 E mi salveresti? 
Perché noi siamo uguali 
Tu mi salvi,

Quando te ne vai è di nuovo finita.
-One Direction, More Than This-
 
 
 
 
La bambina si ritrovò di nuovo a fissare persa lo scolorito soffitto della sua cameretta, distesa sul soffice letto. Era passata più o meno una settimana da quando il padre, il suo amato papà, le avevo rivelato che lui, in realtà, non era colui che la piccina si era sempre aspettata. Da quel giorno così emotivamente distruttivo il dialogo con l’uomo si era ridotto a semplici monosillabi e cenni del capo. Ogni volta che il pirata cercava di intavolare una conversazione, la piccola scivolava via dal suo sguardo. Quello sguardo ghiacciato che voleva sembrare dolce e protettivo, senza evidenti risultati. Allungò una manina e acciuffò per una zampona il peluche di Bepo, stringendolo tra le fini braccia.
 
“Questo colletto non sta mai su, eh Bepo?” sbuffò divertita sistemando minuziosamente quella piega di stoffa che circondava il peloso collo dell’orso.
 
Improvvisamente la porta si aprì con lentezza, proiettando uno spiraglio di luce che colpì la bambina, illuminandola lievemente. L’uomo mosse qualche incerto passo all’interno della camera, producendo un fastidioso squittio a causa degli stivali di pelle. Si avvicinò titubante verso la bambina, fissandola con i suoi occhi di ghiaccio. Non sarcastici ed indifferenti. Al contrario, erano stranamente malinconici. Si passò una mano tra i folti capelli corvini e si sedette sul letto al fianco della figlia.
 
La bimba non si scompose, come se nella cameretta ci fosse ancora solo lei. Non lo degnò di un solo sguardo. In fondo… perché avrebbe dovuto parlare con uno sconosciuto? Mantenne la sua marmorea posizione d’impassibilità anche quando l’uomo iniziò a parlarle.
 
“Ehi, Yuki, sono arrivate le scorte alimentari di questo mese. Vieni a prenderle con me?” propose il moro appoggiandole una mano sulla spalla.
 
“No.” tagliò corto lei, sottraendosi dal tocco del pirata.
 
Law sbuffò, irritato. Ne aveva piene le tasche di tutta quell’insensibilità da parte della figlia. Non poteva capire quanta frustrazione stesse provando la piccola, ma sicuramente non era un buon motivo per essere trattato con tanta freddezza. Con la stessa statuaria freddezza con cui il corsaro l’aveva trattata per tutti quegli anni. Faticava ad ammetterlo, ma non vederla sorridere del suo adorabile sorriso faceva male. Sapere di essere la causa di tutta quella sofferenza era una sensazione orribile ma, ancora più orribile, era la consapevolezza di non sapere che fare per farla tornare la solita Yuki. La sua Yuki, la sua bambina.
 
“Senti, Yuki, che dovevo fare? Dovevo continuare a mentirti? Era questo che volevi?! E guardami quando ti parlo!” esclamò prendendola di forza per le ascelle e poggiandosela sulle sue gambe.
 
Forse, quello non era proprio l’approccio adatto.
 
“Sì! Sono segregata su quest’isola deserta mentre i bambini della mia età giocano insieme, vanno a scuola, vanno alle giostre e hanno una mamma e un papà! Non potevi almeno farmelo credere?” gemette strattonandolo per la felpa.
 
“Non essere egoista, mocciosa, pensi che io non ci avrei sofferto nel mentirti?! Anche se sono una Supernova, pensi non abbia dei sentimenti?! Sono un essere umano anche io!” ringhiò infuriato arpionandola per le spalle.
 
“Sei cattivo! Ti odio!” gridò la castana sul punto di scoppiare nuovamente a piangere.
 
Il Capitano si morse violentemente la lingua, pentito per l’insieme di terribili cose appena dette alla sua piccolina. Era come se le stesse scaricando addosso tutta la colpa del loro litigio mentre, in realtà, quello col piede di fallo era solamente lui. Era normale che la bambina avesse quella reazione. Le cinse i fianchi con le braccia e la strinse al suo petto, appoggiando il mento sopra la sua testa. Le parlava con un tono di aspra dolcezza nella voce, tentando di calmarla. Lei era impassibile, fredda come il marmo. Dal suo candido viso non si intravedeva nemmeno l’ombra di un’emozione.
 
“Se vieni con me, magari i Marines ti sapranno dire qualcosa sul tuo passato.” sospirò, all’ultima spiaggia.
 
Improvvisamente la piccina saltò giù dalle sue gambe e imboccò in tutta fretta la via che portava in sala. Law poteva sentire i suoi celeri passettini sfumare per poi venire interrotti dalla chiusura della porta che conduceva all’ingresso. Si alzò scuotendo lievemente la testa e la raggiunse entrata, trovandola già imbacuccata nello sfuggito cappotto rosa shocking.
 
“Ti sei messa tutto? Cappello, sciarpa, guanti, mutande foderate?” sghignazzò infilandosi il lungo cappotto nero e il suo inseparabile cappello a macchie.
 
Yuki si limitò ad alzare apaticamente un fine sopracciglio, mentre si assicurava la rozza borsa di lana a tracolla. Nemmeno un risolino divertito fuoriuscì dalle labbra della castana. Eppure queste battute avevano sempre un effetto ilare su di lei. La bambina aprì la porta con un gesto secco e una gelida ventata sferzò dall’anta socchiusa, punteggiando qua e là l’ingresso con morbidi soffi nivei che si scioglievano al primo contatto con il tiepido parquet.
 
Mosse un passo fuori casa e vide il suo scarpone grigiastro affondare nella cedevole e farinosa coltre che dipingeva perennemente il paesaggio circostante. S’incamminò speditamente verso la spiaggia, l’imperturbabile sguardo posto diritto davanti a se. Law la seguiva da dietro senza far alcun rumore. Nemmeno lo scricchiolante suono degli stivali sulla candida neve era perfettamente udibile. La guardava con insistenza, rimembrando nostalgico i giorni in cui Yuki lo guardava con ammirazione e gli poneva interminabili domande su come era fatto il mondo al di fuori di quell’isola.
 
Ma vederla ora, incurante e menefreghista, scatenava nel Chirurgo una serie di strane sensazioni.
 
Angoscia, rimorso, frustrazione… tristezza.
 
“Papà.” lo chiamò lei, ridestandolo dal mondo dei sogni “Siamo arrivati alla spiaggia. Potrei andare da sola a parlare con i Marines?” domandò girandosi di tre quarti, almeno per vederlo in volto.
 
“Certo, Yuki, vai pure.” sorrise con celata amarezza.
 
La piccina trotterellò verso i due uomini della Marina, sfoderando il sorriso più genuino che riuscì disegnarsi in volto. Era arrivato il momento, doveva raccogliere tutto il coraggio che fino a quel giorno aveva covato nel suo cuore e usarlo per porre loro quella importante domanda, davanti alla quale tutti sarebbero impalliditi.
 
“Buongiorno.” cinguettò Yuki allacciando le mani dietro la schiena.

“Ciao, piccoletta. Ma dov’è il tuo papà?” domandò uno di loro, sorpreso dalla mancanza del corsaro.
 
“Papà non è venuto. Ci sono solo io e vorrei farvi una domanda importante.” vagheggiò guardandoli scaricare casse su casse di generi alimentari.
 
“Dicci pure.” affermò l’altro arrancando sotto il peso di una enorme cesta di frutta.
 
“Io da dove vengo? Come ho fatto a finire su questa isola?” chiese tutto d’un fiato.
 
I due uomini si fermarono per alcuni lunghi istanti, squadrandosi tra di loro con un’espressione indecifrabile pitturata in volto, per poi riprendere silenti il loro lavoro, come se nulla fosse accaduto. Yuki gonfiò le guance e procedette imperterrita verso uno dei Marine. Odiava quando qualcuno non rispondeva alle sue domande anche se conosceva perfettamente la risposta. Loro lo sapevano. Afferrò l’uomo più alto per una manica dell’immacolato giaccone e lo strattonò con forza.
 
“Dimmelo! Io so che voi lo sapete, ve lo si legge in faccia! Io voglio sapere da dove vengo!” intimò la bambina imitando il minaccioso tono del padre.
 
“Non possiamo dirtelo, smettila di rompere e tornatene a casa.” rispose con malgrazia il Marine.
 
“Io DEVO sapere da dove vengo e come ho fatto a finire qui!” incalzò la piccola puntando i piedini a terra.
 
L’uomo la prese violentemente per il colletto del giubbotto e la sollevò alla sua altezza, avvicinandosela al viso contratto. Le assestò un poderoso ceffone sulla guancia destra, lasciando in bella vista il segno della cinquina, mentre il compagno si complimentava per il gesto. La castana si passò una mano nel punto dove aveva ricevuto il colpo, mentre varie stille salate cadevano dai languidi occhi per colpa del dolore causatole dallo schiaffo. Improvvisamente vide qualcosa avanzare fulmineamente verso di loro. La cupola si allargava sempre di più mentre una voce risuonava bieca nella ghiacciata etere.
 
“Room.”
 
Vari fendenti si scagliarono contro i due Marines, tagliando i loro corpi in vari pezzi. Law scattò in avanti e prese al volo la figlia, caricandosela su un avambraccio. Mosse una mano, fissandoli sadico. Aspettava solo un momento come questo, per poter usare nuovamente i suoi poteri.
 
“Shambles.”
 
I corpi tagliuzzati della coppia di uomini si riunirono alla rinfusa, provocando negli individui una serie di urletti strozzati e terrorizzati. Sorrise vedendoli contorcersi per capire dove potessero essere finite le altre parti della loro corporatura. Nessuno. Nessuno poteva azzardarsi ad alzare le mani su Yuki. Quando aveva visto il Marine colpire la sua bambina con quel poderoso manrovescio non ci aveva visto più ed era partito all’attacco come una furia. Non era mai stato un tipo istintivo.
 
“Prendete la vostra barca e andatevene immediatamente, fecce.” ordinò il corsaro puntando la Nodachi contro di loro.
 
I due uomini saltarono atterriti sulla loro imbarcazione e, dopo aver acceso con qualche difficoltà il motore, sfrecciarono via con la coda tra le gambe, scomparendo all’orizzonte come inghiottiti dai flutti del mare. Il Capitano rinfoderò con lentezza la spada, osservando la sua bambina cercare di asciugarsi gli occhi lacrimanti. Raccolse un pungo di neve e lo premette contro l’impronta rossa ancora ben visibile sulla guancia della piccina.
 
“Grazie…” pigolò stringendosi timidamente al suo petto.
 
“Non potevo lasciare che ti facesse del male.” attestò accarezzandole timoroso la schiena.
 
“Papà… mi dispiace. Mi dispiace per tutto.” mugolò alzando al suo viso gli occhi ancora vagamente lucidi.
 
“Ora non pensarci, ok? E poi è stata colpa di entrambi, non solo tua.” la rassicurò abbozzando un sorriso vagamente dolce.
 
Yuki annuì debolmente e, con un gesto cauto, estrasse dalla borsa a tracolla una bottiglia di vetro ben chiusa. All’interno giaceva un foglio sapientemente arrotolato in modo da passare per lo stretto collo dell’oggetto. La piccola l’afferrò con mano ferma e caricò il braccino, per poi scagliarla tra le onde a una decina di metri dalla riva. Il Chirurgo la guardò, alzando un sopracciglio.
 
“Che hai scritto in quel messaggio in bottiglia?” domandò lievemente confuso.
 
“Avevo preso in considerazione il fatto che i Marines non volessero dirmi nulla. Quindi ho scritto una richiesta di informazioni e le coordinate della nostra isola. Spero solo che qualcuno la riceva.” sorrise giocherellando con una ciocca di capelli.
 
“Eccolo lì.” si addolcì il moro, guardandola con tenerezza.
 
“Cosa, papà?” chiese lei, lievemente confusa.
 
“Il tuo sorriso. Mi è mancato tanto, il tuo sorriso.” sussurrò baciandole delicatamente la fronte.

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Capitolo 6
*** Che Il Lupo Cattivo Vegli Su Di Te ***


N.B.: Scusate, so che questo capitolo è molto corto. Ma è solo un prologo, perché il prossimo capitolo sarà molto lungo.
 
Dormi, bel bambino,
Che l’ora è tarda già.
Nascondi in fondo al cuore la tua diversità.
Che il lupo cattivo vegli su di te
Insieme a tutti gli animali
Che son tali e quali a te.
-Appino, Che Il Lupo Cattivo Vegli Su Di Te-
 
 
 
 
Lo ricordava bene. La piccola gli era corsa incontro sbandierando giuliva la lettera ingiallita che stringeva tra le fini dita. Un enorme sorriso le inarcava le labbra e i suoi movimenti saltellanti ne accentuavano la grande euforia. Si era fiondata sbattendo fortemente la porta e ricevendo, di tutta risposta, un sopracciglio alzato da parte del padre. Lo aveva raggiunto sul divano e si era posizionata sulle sue gambe, guardandolo, mentre le manine fremevano di gioia. Il pirata aveva scosso intenerito la testa, mentre accarezzava i setosi capelli color cioccolato della bambina.
 
“Avanti, leggi cosa c’è scritto.” l’aveva spronata, leggermente incuriosito
 
“Ti riassumo in poche parole, papà. Uno stimato professore di storia ha trovato il mio messaggio in bottiglia e ha detto che verrà la settimana prossima con il suo galeone per discutere a riguardo della mia richiesta!” aveva riferito tutto d’un fiato.
 
Ma vedendola in quel momento, non sembrava più poi così entusiasta. Se ne stava in piedi di fianco al padre, quasi attaccata alla sua gamba. Leggeri fiocchi nivei trasportati dal glaciale vento si posavano candidamente sulle ciocche di morbida chioma sapientemente raccolta in una coda di cavallo che le pendeva sulla spalla destra. Si sistemò per l’ennesima volta la pesante gonna a balze del vestitino di lana lilla indossato per la grande occasione e, anche se il capo le pizzicava inclemente la pelle diafana, quello era l’unico abito “formale” che la Marina le aveva concesso. Era nervosa, glielo si leggeva sul visino fanciullesco arrossato dal freddo.
 
Nemmeno Law era del tutto tranquillo. Gli suonava parecchio strano che proprio uno “stimato professore di storia” avesse trovato la bottiglia che la piccina aveva lanciato tra i selvaggi flutti marittimi. Scrollò le spalle, rifiutandosi di cedere ancora una volta allo scetticismo che per tutta la vita è stato suo nobile consigliere. Dopo non averla trovata morta assiderata quando era ancora neonata, non si meravigliava più di quanta fortuna potesse avere quella bambina
 
“Papà? E se non mi piace quello che il professore mi dirà?” chiese vedendo la chiatta che l’avrebbe scortata al vascello approssimarsi a loro.
 
“Beh, puoi sempre dire di essere la figlia di Trafalgar Law. Dovrebbe bastarti.” affermò appoggiandole una mano sulla spalla e voltando lo sguardo altrove.
 
“Sei davvero vanitoso, papà, dico sul serio.” ridacchiò lei scrutandolo con la coda dell’occhio.
 
La bimba fece scivolare la propria mano sopra quella paterna e gliela strinse timidamente, come ricercando un distaccato conforto. Il corsaro sbarrò gli occhi color ghiaccio non appena percepì il tiepido contatto con il palmo della figlia. Annullò all’istante quella piacevole adiacenza, profondamente imbarazzato, per poi conficcarsi la grande e snella mano nella tasca del cappotto. Troppo vicini.  La piccola alzò un sopracciglio e lo fissò. Si poteva leggere una fonda delusione trasparire da quei luminosi occhi smeraldo. Gli strattonò lievemente la lunga giacca pece, nel tentativo di richiamare la sua attenzione.
 
“Papà, mi vuoi bene?” domandò fatidicamente la piccola.
 
“Ehm… Ehi, guarda, la chiatta è arrivata.” sospirò, sollevato di aver evitato ancora una volta di risponderle.
 
La piccina gonfiò le guance, irritata, e si avviò insieme a lui verso il molo dove era appena attraccata la piccola imbarcazione. Al timone si trovava un uomo alto e muscoloso, sulla trentina e dalla pelle ambrata, con indosso dei vestiti non proprio adatti a contrastare l’eterno freddo che imperversava sull’isola. Yuki salì a bordo tramite la traballante passerella e si posizionò, in piedi, dietro al timoniere, data la mancanza di sedili. Ma, quando Law fece un primo passo per prendere posto vicino alla figlia, il nocchiere lo fermò inspiegabilmente.
 
“No. Professore ha chiesto solo bambina. No adulto.” pronunciò con un forte accento straniero.
 
“Dì a quel professore che non mi fido di lui e che devo tenere d’occhio mia figlia.” asserì, squadrandolo glaciale.
 
“Aspetta, papà, è meglio così. Voglio andare da sola, è una cosa che riguarda me.” sorrise dolcemente la castana.
 
Il Chirurgo sospirò esasperato e ritrasse il piede che aveva poggiato sulla bassa balaustra del battello. Strinse in mano l’inseparabile Nodachi, mentre il suo senso di irrequietezza cresceva sempre di più. Un professore di cui nemmeno si sapeva il nome che chiedeva di ricevere una bambina di sette anni da sola. La storia gli puzzava sempre di più. Ma, per una volta, decise di essere ottimista e di affidarsi ai buoni propositi della sua bambina.
 
“Va bene, ma fai la brava e comportati bene. Se c’è qualche problema, grida. Io rimango qui sulla riva e ti sento.” si assicurò scrupolosamente.
 
“Non preoccuparti, papà, andrà tutto bene. Tornerò che saprò chi sono veramente, ciao!” esclamò, mentre la barca si allontanava sempre di più dalla banchina.
 
Il moro si lasciò cadere seduto sul bordo del pontile. Pareva che quella opprimente sensazione di pericolo lo stesse corrodendo dall’interno, facendo vacillare pericolosamente tutti i suoi buoni propositi di restare calmo. Una miriade di domande frullavano incontrollate nella sua mente, facendola contorcere e atrofizzare. Si tolse il caldo cappello maculato e si passò frettolosamente una mano tra i setosi capelli corvini. Avrebbe voluto rifiutarsi di credere che sarebbe successo qualcosa di negativo ma, ogni secondo che passava, l’uomo era sempre più nervoso. Ogni secondo che passava, la sua bambina si allontanava sempre di più da lui.
 
**
 
La piccola attraversò rapidamente il lungo corridoio principale. Il rumore dei suoi passettini si diffondeva nell’ambiente circostante, generando un ritmico e cadenzato suono, attutito dal preziosi tappeti persiani perfettamente stesi sopra il lucido parquet. Vari quadri pendevano dai muri immacolati e una grande quantità di vasi di pregevole fattura erano appoggiati su deliziosi tavolini in ferro battuto. Questo signore è davvero molto ricco, pensò la bambina fermandosi davanti a una grande porta a due ante in legno, finemente decorate con intarsi aurei.
 
La fissò per svariati minuti, con il cuore che le martellava irrequieto nel petto. Deglutì più volte, agitata, come se avesse una brutta sensazione. La sensazione che, se fosse entrata in quella stanza, avrebbe trovato ad aspettarla una brutta sorpresa. Serrò i pungi e scosse la testa; lei doveva sapere. Doveva saperlo ora. Per troppo tempo era stata immersa nel suo caldo brodo di giuggiole e bugie. Allungò una mano e aprì la porta, respirando profondamente.
 
Si ritrovò davanti a una grande stanza rotonda, agghindata alla stessa maniera dell’androne. Tappeti, quadri e vasi. In fondo alla stanza vi era poi una larga scrivania lignea con una poltrona di velluto rossa, girata verso la grande vetrata che si affacciava sul calmo oceano. Yuki rimase sulla soglia parecchi secondi, cercando di capire quale tipo di personaggio le stava dando le spalle, seduto su quella comoda sedia, quando una voce la chiamò.
 
“Vieni pure, piccola, non ti mangio mica. Non sono il lupo cattivo.” la rassicurò, mentre la poltrona girava gracchiante su se stessa, scoprendo finalmente l’aspetto di quel misterioso individuo.
 
Una ispida zazzera bionda spuntò come un irto cespuglio sul capo dell’uomo. La piccola si chiuse la porta alle spalle e avanzò titubante verso di lui, sentendo gravare sulle sue spalle il peso dell’enorme sorriso dell’individuo. Non ha assolutamente l’aria del professore, ragionò fermandosi davanti alla scrivania. L’aria si fece immediatamente pesante, quasi irrespirabile. Fissò le strane lenti dell’uomo, per poi far scivolare lo sguardo sugli sgargianti ed eccentrici abiti. E lei che si aspettava il solito studioso con l’abito elegante e il monocolo.
 
Allungò una mano e sforzò un sorriso, intimidita dall’imponente figura che troneggiava davanti a lei, nonostante fosse solamente seduto. Il “professore” gliela strinse con convinzione, allargando ancora di più il suo inquietante sorriso. La piccina si ripromise che avrebbe mantenuto il sangue freddo, proprio come faceva il suo papà, anche se avvertiva dei brividi gelati correre su e giù per la spina dorsale.
 
“Sono Trafalgar Yuki, molto piacere, signor professore.” pigolò la bambina operando un piccolo inchino.
 
“Il piacere è mio, mi chiamo…” l’uomo fece una piccola pausa e la squadrò con celato sguardo maniaco ”Don Quijote Doflamingo. Ma tu chiamami zio Dofy, ok piccola?”
                      
La castana annuì. Avrebbe voluto scappare da quel posto. C’era qualcosa, in quello zio Dofy, che la spaventava a morte.

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Capitolo 7
*** A Demon's Fate ***


Che cosa hai fatto?
E' questo che volevi?
Cosa sei diventato?
Ora la tua anima è abbandonata
Camminerai da solo
Dal cielo fin dentro all'inferno.

-Within Temptation, A Demon’s Fate-
 
 
 
 
La piccola deglutì sonoramente, temendo di venire schiacciata dall’insostenibile silenzio che era calato nella stanza. Il peso dell’inquietante sorriso dell’uomo sembrava penetrarle la carne, sempre più a fondo, fino alle ossa. Avrebbe voluto scappare da quel luogo, da quell’individuo che poteva essere di tutto tranne che uno stimato professore di storia. Ma doveva restare, doveva sapere chi in realtà fosse lei.
 
“Allora, piccola Yuki, entrambi sappiamo perche siamo qui. Ti dirò quello che vuoi sapere.” affermò appoggiando con maleducazione le gambe sulla scrivania.
 
La bimba respirò profondamente; era finalmente ora. L’ora nella quale tutto sarebbe venuto a galla, nel bene o nel male. Il cuore le martellava furiosamente nel petto, mentre osservava preoccupata il sorriso dell’uomo ampliarsi ancora di più. Strinse le manine profusamente sudate e annuì con convinzione.
 
“Da dove vuole che inizi… principessa?” sghignazzò, soddisfatto dell’espressione incredula che la bambina aveva assunto.
 
“Io… una principessa?” domandò grattandosi confusa la nuca.
 
Era una principessa. Chissà, forse una di quelle figlie di un re e una regina ricchissimi dallo sfarzoso castello, dalle corone laccate di oro e pietre preziose e da quei meravigliosi abiti pomposi che lei aveva sempre sognato di indossare. Figlia di un re a comando di numerosi e coraggiosissimi cavalieri e della donna più bella del reame, la quale di solito diventa regina. Una principessa.
 
“Oi, ti sei incantata? Non ho mica finito qui. Tu sei l’unica erede al trono di un piccolo ma potente clan, il Clan della Stalattite, completamente e misteriosamente scomparso il quattro dicembre sette anni fa, mentre tutti erano riuniti su una nave.” continuò intrecciando tra loro le affusolate dita.
 
“Il quattro dicembre? Ma è…”
 
“In quella data cade il tuo compleanno, esatto. Era una notte fredda e la regina ebbe le doglie proprio mentre l’intero clan stava tornando da una riunione diplomatica. Fu così che nacqui tu, Yuki, anche se il tuo nome dovrebbe essere stato Sonoko. Ma i tuoi genitori non ebbero nemmeno tempo di darti un nome. La nave venne attaccata da una banda di pirati, ma questa è un'altra storia. Comunque sia, misero a ferro e fuoco la nave e sterminarono tutti, dal primo all’ultimo. L’unica cosa che il re e la regina riuscirono a fare per salvare almeno te fu metterti in una cesta e lasciarla al mare, nella speranza che qualcuno ti trovasse.” riferì senza inutili pause, mutando completamente espressione.
 
Yuki sgranò i luminosi occhi smeraldo, coprendosi la bocca con le manine tremanti. Slittò nervosamente lo sguardo da una parte all’altra della stanza. Non riusciva a credere alle parole di quell’uomo così ambiguo. Era una bambina, ma non era così stupida e ingenua.
 
Quella storia era troppo inverosimile. Si morse il labbro. Tutto coincideva perfettamente, tra tempo, luoghi e date, ogni cosa era al posto giusto. E se, per una volta, la persona che aveva davanti le stesse dicendo il vero? Un destino infelice aveva atteso subdolamente i suoi genitori naturali, ma lei si era miracolosamente salvata. Qualcun altro si era offerto di prendersi cura di lei. Non era una storia così inverosimile, in fondo.
 
“Lei come fa a sapere tutte queste cose?” chiese sporgendosi lievemente in avanti.
 
Improvvisamente Doflamingo ritrasse le gambe da sopra lo scrittoio e spiccò un agile balzo, riatterrando proprio davanti alla piccola. La castana indietreggiò, impaurita dal bizzarro comportamento del professore. Avanzò con passo lento verso di lei, mentre quel maledetto sorriso sghembo si faceva di nuovo strada sul suo viso, corrugandolo. Si passò la lingua sulle labbra e tese la mano.
 
Dalla punta delle dita fuoriuscirono vari fili che si scagliarono come naturalmente contro la bambina, avviluppandola nelle loro strette spire. Yuki represse un grido spaventato, cercando di essere coraggiosa, proprio come il suo papà. Ma il terrore la attanagliava, gli occhi le si erano spalancati a dismisura e dalla sua gola non uscivano che strozzati gorgheggi gutturali. Tremava, come un agnello al cospetto del macellaio. Aveva paura. Per la prima volta nella sua vita, percepiva la vera paura percorrerle il corpo da capo a piedi.
 
“Non ti ho ancora raccontato la parte più interessante del racconto. Prima di lasciarti andare, i tuoi carissimi genitori ti hanno fatto un dono. Un dono maledetto, tesoro mio, ma che per me potrebbe rivelarsi importantissimo, lo sai?” sogghignò malefico al suo orecchio.
 
“C-Cosa vuole farmi?” pigolò mentre grandi stille salate le colarono dagli occhi.
 
“Non piangere, suvvia. Una principessa deve sempre mostrare un certo autocontrollo. O forse dovrei dire… Principessa Demone?” ghignò sadico, assestando un preciso e violento colpo al centro del capo della piccola.
 
Dopo essere rimasta per qualche colpo intontita, tutto si fece buio intorno a lei. Un’oscurità malvagia e penetrante l’avvolse, trascinandola nell’oblio più impenetrabile. Invocò un’unica, disperata richiesta d’aiuto.
 
”PAPAAAAAA’!”
 
Si accasciò a terra e svenne. Tuttavia, riusciva ancora a sentire una voce. Una voce nuova, di una bambina. Cantilenante, diventava ogni secondo più forte. Una nenia demoniaca.
 
”Ko… o… ri…”
 
**
 
L’urlo gli perforò bruscamente i timpani, facendolo scattare repentinamente in piedi. Strinse tra le mani lunga e snella spada. Il suo cuore cominciò a battere sempre più celere, rischiando la tachicardia.
 
“YUKI!” gridò disperato.
 
Lo sapeva. Lui lo sapeva. Non avrebbe dovuto lasciarla andare da sola. Avrebbe dovuto dare ascolto a quel suo pessimistico sesto senso. Cominciò a camminare ansiosamente avanti e indietro per il lato corto del molo, come un povero cane mentre attende di essere fatto entrare in casa. Una sensazione di pericolo imminente gli invadeva le membra, facendole tremare lievemente.
 
“YUKI! RISPONDI!” chiamò, con una punta di terrore nella voce.
 
Prontamente, come fosse una risposta al suo richiamo, una grande vetrata semicircolare si frantumò sotto la forza di un colpo apparentemente devastante, spargendo in aria luccicanti scaglie del materiale trasparente. Sferzò una glaciale folata di vento, dal freddo molto più intenso di quelle che solitamente spazzavano l’isola, che congelò in pochi istanti l’increspata superficie del mare.
Il Chirurgo fissò stupito i flutti cristallizzarsi durante il loro moto ondulatorio, creando piccoli ed incompleti archi. Il ghiaccio avanzava inesorabile, veloce, fino a ricoprire di scivolosa brina il molo dal quale il corsaro assisteva a quel bizzarro spettacolo. Solo un suono, una voce, raccapricciante, accompagna lo staffilare inclemente del vento.
 
”Ko… o… ri…”
 
Socchiuse gli occhi e si riparò il viso con la manica dello scuro cappello, intravedendo due figure farsi avanti in mezzo al turbinio di neve che la folata aveva spazzato fino al mare. La prima era alta e voluminosa e avanzava con una camminata alquanto bizzarra. La seconda era della stessa statura della sua bambina e incedeva ciondolante davanti alla prima sagoma. Una risatina sadica e maledettamente familiare invase l’aria circostante, facendo sbarrare completamente gli occhi di Law. Non riusciva a credere di aver lasciato la sua piccola nelle mani di quel mostro.
 
Sfoderò frettolosamente la Nodachi e schizzò verso di lui, contraendo i muscoli facciali in un’espressione infuriata. Un’altra volta, ancora un’altra, fottuta volta aveva reagito senza pensare, lanciandosi sul nemico per proteggere Yuki. Ma questa volta, sfortunatamente, non si trattava di Marine o di ceffoni ben assestati. No. Un unico errore poteva costargli la vita. O peggio, poteva costare quella della bimba.
 
“Vai, Koori.” pronunciò Doflamingo con fare quasi annoiato.
 
La piccina alzò il viso e per Law fu come una fucilate al cuore. Era completamente paralizzato. I tratti somatici della bambina erano rimasti immutati. I capelli si erano allungati a dismisura, fino quasi a sfiorarle le caviglie, e avevano assunto un’inquietante colorazione corvina. La pelle era inimmaginabilmente pallida, quasi cerulea, come se la piccola fosse sotto un avanzato stato di ipotermia. Ma l’aspetto più terrificante era quello degli occhi. Si erano ingigantiti, il triplo di quelli che aveva di solito. Il nero lo faceva da padrone, avendo coperto anche la pupilla. Due buchi neri. Due enormi, terribili buchi neri. E quella voce. Oh, quella voce…
 
”Ko… o… ri…”
 
La piccola alzò la manina e la chiuse a becco, proiettandola avanti grazie alla spinta del braccio. Un appuntito cono di ghiaccio si materializzò dal nulla e fu lanciato verso Law con sorprendente velocità per poi conficcarsi atrocemente nella sua spalla, bucandola da parte a parte. Il Capitano trattenne a stento un grido di dolore, sentendo lo spuntone penetrare nella carne e perforare l’osso. Quella cosa non era la sua tenera e dolce Yuki. Era qualcosa di completamente diverso. Un mostro.
 
“Doflamingo! Cosa le hai fatto?! Cosa hai fatto alla mia Yuki?!” esclamò mentre dalla ferita cominciava a gocciolare copioso sangue.
 
“La tua Yuki?” ridacchiò “Guarda che non passi per la figura del papà amorevole e protettivo dicendo così.”
 
“Dimmi cosa le hai fatto!” incalzò stringendo rabbiosamente i pugni.
 
“Ho solo riportato alla luce ciò che aveva nascosto dentro di sé. Ovvero Koori, il Demone del Ghiaccio, la piaga che ogni erede al trono ha il dovere di conservare.” spiegò il fenicottero allacciando dei fili ai polsi e alle caviglie della bambina.
 
“Demone del Ghiaccio? Erede al trono? Ma cosa diavolo stai farneticando, maledetto?!” ringhiò Law puntando pericolosamente la spada davanti a se.
 
Appena mosse le labbra per richiamare Room, un secondo spuntone ghiacciato sfrecciò nella sua direzione, colpendolo questa volta al fianco. Si inginocchiò a terra, ansimante, scorgendo il denso liquido vermiglio macchiare il mare congelato sotto i suoi piedi. Digrignò i denti e alzò lo sguardo, la vista era offuscata. L’unica cosa che riusciva a vedere era la sua piccina usata come marionetta da quello sporco bastardo.
 
Tentò di rialzarsi in piedi, senza evidenti risultati. Qualcosa, oltre il lancinante dolore delle ferite, lo ancorava a terra e lo rendeva incapace di muoversi. Timore, ecco cosa lo fermava dall’attaccare quel fenicottero ossigenato. Aveva il timore che se lo avesse attaccato, il biondo non si sarebbe fatto alcuno scrupolo a farsi da scudo con il corpo della castana. Strabuzzò gli occhi, accecato dall’ira, e strinse tanto i pugni da far sbiancare le nocche.
 
“Cosa vuoi farle?” domandò stringendosi la spalla nel tentativo di fermare l’emorragia.
 
“Questi anni sono stati davvero noiosi, niente che fosse neanche lontanamente divertente. Poi ho ricevuto la notizia, da fonti certe, che il Demone del Clan della Stallatite era ancora in libertà. Diciamo che sto operando in collaborazione con una nota organizzazione per impadronirci del potere della bambina.” attestò sistemandosi i buffi occhiali sul naso.
 
“Non te lo lascerò fare…” ansò il corvino, stremato dal copioso sangue perso.
 
“Sei sempre il solito cane, non cambi mai. Anche se stai per morire pensi al bene della tua piccola e dolce Yuki. Questa scenetta mi ha stufato; forza, Koori, uccidilo.” intimò facendola procedere verso Law
 
L’uomo venne scosso da un lieve tremito, non appena vide il Demone dagli atri occhi avanzare oscillante verso di lui, mentre le unghie delle mani diventavano sempre più lunghe ed appuntite, simili ad acuminate sommità di un pugnale. Sentì la gola seccarsi aspramente. La guardò con occhi velati di tristezza, pensando a come si sarebbe sentita Yuki quando si sarebbe svegliata e avrebbe scoperto l’atrocità che era stata costretta a compiere.
 
Non aveva paura per sé, era stato abituato all’idea che la morte sarebbe arrivata più presto del solito per lui, bensì per la sua piccola. Come avrebbe fatto? Il Chirurgo era l’unico legame che la bimba aveva e reciderlo sarebbe significato la fine del suo contagioso sorriso. Non sarebbe morto. Non lì, non in quella maniera. Si decise che doveva sopravvivere. Era il ruolo di padre che si era impegnato a prendere sette anni prima che glielo impediva.
 
La bambina si fermò a pochi centimetri dal pirata, fissandolo persa. Portò la manina al suo collo, puntandoci contro gli affilati artigli. Lui le appoggiò le mani sulle spalle, tremando per le insopportabili stilettate delle ferite.
 
”Yuki… So che sei lì dentro…”
 
Il Demone cominciò a imprimere una leggera forza sulla giugulare, dalla quale cominciarono a gocciolare varie stille di sangue. Non demorse.
 
”Sono io, sono il tuo papà… Io…”
 
Si morse la lingua, non appena sentì anche solo qualche millimetro delle unghie di Koori conficcarsi nella carne. Non aveva più tempo. Per quanto fosse difficile, doveva dirglielo.
 
“Io ti voglio bene, Yuki.”
 
La creatura strappò la mano dal collo dell’uomo, come non riuscisse più a sopportare il contatto diretto con la sua pelle. Gridò un'unica volta. Un grido immondo e perforante, che ridondò nel cervello di Law per una manciata di secondi. Si lasciò poi cadere tra le braccia dell’uomo, il quale la prese prontamente in braccio, assistendo sollevato alla trasformazione; i capelli tornarono quella media lunghezza color cioccolato. Riuscì fugacemente a notare che gli occhi della piccola erano nuovamente di quel luccicante verde smeraldo, prima che Yuki perdesse i sensi.
 
“No!” latrò Doflamingo, imponendo le mani come per strattonare a se il corpo della bambina.
 
Fortunatamente Law riprese con rinnovata energia la sua Nodachi e tranciò prontamente i fili che legavano i polsi e le caviglie della castana. Rinfoderò l’arma, assottigliando gli occhi in un’espressione omicida.
 
“E va bene. Per ora mi ritiro. Ma se non sarò io a ucciderti lo farà il mare. Il ghiaccio tra un paio di minuti sarà completamente sciolto. Ti consiglio di iniziare a correre, o meglio, a zoppicare.” asserì issandosi sulla sua nave grazie ad un ennesimo filamento.
Il corvino spostò lo sguardo all’orizzonte e constatò che, evidentemente, il ghiaccio stava perdendo la sua egemonia e il mare ricominciava a spaziare sotto la spessa lastra. Scattò in piedi e cominciò a correre verso il molo, tentando di non crollare sotto le atroci fitte che le ferite gli inviavano. L’acqua incedeva sempre più celere alle sue spalle, guizzando e gorgogliando cupa. Era consapevole che, se fosse caduto in mare, sarebbe stata la fine per entrambi.
 
Spiccò un agile balzo e atterrò di schiena sul molo, appena in tempo che il ghiaccio si sciogliesse del tutto. Ansava stremato, generando con il suo alito dense nuvolette lattee. Strinse al suo petto il corpicino freddo ed inerme della bambina, accarezzandole dolcemente la chioma castana. Sentire il flebile respiro della piccina contro la pelle era fonte di conforto. Lui era mezzo maciullato, ma poco gli importava. Il dolore che avrebbe provato a perdere Yuki non sarebbe stato nemmeno lontanamente paragonabile a quello che le ferite gli provocava.
 
“Tranquilla, ci sono io qui con te.” la rassicurò, posandole un lieve bacio sulla fronte.

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Capitolo 8
*** Blood On Blood ***


Sangue su sangue, faccia a faccia
Saremo ancora in piedi
Alla resa dei conti
Sangue su sangue, faccia a faccia
E ti aiuterà fino alla fine del mondo
Sangue su sangue.
-Blood On Blood, Bon Jovi-
 
 
 
 
Si svegliò di soprassalto, il sudore si raggrumava in leggere perle fredde sulla fronte. Ogni secondo che passava sentiva il fiato morirgli in gola. Pregò che fosse tutto un orribile incubo da quale si era risvegliato appena in tempo, ma un’ennesima stilettata al fianco minuziosamente fasciato gli soppresse quel lume di speranza che si era azzardato ad accendere. Un singolo battito di ciglia servì a fargli ricordare tutto.
 
Il grido, il ghiaccio, Doflamingo, quegli occhi neri come atri e fondi pozzi.
 
Quella unica serie di immagini vorticavano insistentemente nella sua testa. Non ricordava granché di quello che successe dopo, solo una sequenza di confusi momenti sconnessi tra loro. Probabilmente il dolore provocatogli dalle ferite annebbiato talmente tanto la mente che non riusciva a rimembrare quello che accadde in seguito. Sta di fatto che si era ritrovato perfettamente bendato e con una piccola pulce addormentata stretta al suo petto.
 
Si portò la mano del braccio buono al viso, frizionandolo con forza per eliminare quella fastidiosa sensazione di umido. Ancora non riusciva a credere di aver lasciato con tanta docilità la sua Yuki in mano a quel losco individuo del fenicottero. Quella stronzata di sicuro aveva azzerato i “Punti Papà” che la piccina gli assegnava ogni settimana. Ma, soprattutto, non gli avevano affatto dato una buona impressione tutte quelle cose che aveva sparato il biondo; aveva parlato di Clan della Stalattite, erede al trono, Demone del Ghiaccio.
 
Probabilmente, quella creatura dagli enormi occhi color ossidiana, era proprio il Demone. Koori. Non avrebbe mai pensato che la sua bambina contenesse dentro di sé un potere simile. Aveva assistito al congelamento della superficie marina da parte sua. Era stato qualcosa di fulmineo. Prima la superficie dell’oceano lambiva naturalmente l’arena scolorita, perdendosi nella sua danza dei selvaggi flutti, mentre, un attimo dopo, tutto si era inspiegabilmente congelato e gli zampilli d’acqua ghiacciati creavano un magnifico e altrettanto inquietante spettacolo. Roba da far impallidire Aokiji.
 
Sopirò a pieni polmoni, circondando con le braccia la schiena della castana. La strinse ancora di più a sé, accarezzandole con innaturale gentilezza la chioma setosa. La sentiva così fragile al suo tocco. Era convinto che, se l’avesse stretta con troppo vigore, si sarebbe frantumata in mille pezzi. Scosse la testa, chiedendosi cosa avrebbero pensato le altre Supernove se lo avessero visto in quello stato. Eppure sentiva un irrefrenabile bisogno di proteggere quella bimba che teneva con tanta delicatezza tra le braccia.
 
Sette anni prima aveva giurato di non affezionarsi a quella insopportabile pulce gorgheggiante, quella che gattonava per tutta la casa, rischiando di ferirsi con le punte dei chiodi che sporgevano dal pavimento. Sorrise lievemente, ricordando che anche in quelle occasioni si affrettava a riprendersela in braccio per evitare che si ferisse. Aveva fallito. Aveva fallito anche prima di pronunciare la frase che sentenziava che non si sarebbe mai affezionato a lei. Se n’era accorto troppo tardi, ma non gli importava. In fondo, non gli sembrava male fare da padre.
 
“Capito? Ti proteggerò. Da tutto, non solo da Doflamingo, ma da chiunque cercherà di separarci. Solo quando stavo per perderti mi sono accorto che senza di te, ormai, la mia vita non sarebbe la stessa.” sussurrò, felice che nessuno, nemmeno Yuki, in quel momento stesse ascoltando.
 
Improvvisamente il campanello suonò, spezzando il silenzio che aleggiava tra le stanze dell’abitazione. Il Chirurgo alzò stizzosamente un sopracciglio, chiedendosi chi venisse a disturbare alle prime luci del mattino. Si alzò dal letto, rimboccando accuratamente le calde coperte intorno al corpo della piccola. Le posò un lieve bacio sulla fronte e uscì dalla stanza, pronto ad accogliere con il dovuto benvenuto lo scocciatore delle sei della mattina. Le sue ferite erano sicuramente migliorate, ma ancora faticava a muoversi decentemente. Avanzò zoppicante fino alla porta d’ingresso, fermandocisi davanti.
 
“Chiunque sia venuto a rompere a quest’ora e proprio in questo momento farebbe meglio ad alzare i tacchi.” sputò il corvino con il suo solito charm.
 
“Law, fammi entrare. Ora.” sentenziò una voce cavernosa che, purtroppo, il Capitano conosceva fin troppo bene.
 
“Sparisci. Ti ho detto che non è il momento.” ringhiò minacciosamente.
 
“Non c’è nessun bisogno di fare tanto il misterioso, Law, so quello che è successo.” asserì l’uomo, imperterrito.
 
Si passò una mano sul viso e sbuffò, evidentemente infastidito. Era chiaro il fatto che la notizia dell’ennesimo scontro tra lui e il fenicottero si fosse diffusa a macchia d’olio, raggiungendo anche le più alte sfere della Marine. Ecco perché lui era lì. Probabilmente gli avrebbe fatto la solita interminabile ramanzina in aggiunta a due ceffoni ben assestati. Allungò scocciato la mano verso il pomello della porta e fece scattare la serratura. La torreggiante figura dell’uomo apparve davanti a lui, squadrandolo con i suoi severi occhi color caramello.
 
“Cosa c’è, Smoker-ya?” domandò alzando svogliatamente un fine sopracciglio.
 
“Contrariamente a quanto tu pensi, sono qui solo per parlarti. Con permesso.” affermò entrando in casa dopo essersi scrupolosamente pulito gli stivali lordi di neve e fango sullo zerbino.
 
“Spero vivamente che la tua concezione di ”parlarmi”  non comprenda spaccarmi in testa quel Jitte che ti porti sempre dietro.” attestò invitandolo a sedere a fianco a lui sul morbido divano.
 
L’uomo di fumo tacque, fissando grevemente la magra figura davanti a se. Aspirò intensamente i due soliti sigari che stringeva tra le labbra avide di tabacco, per poi rilasciare nell’etere una densa nuvoletta grigiastra. Era impressionante come quel Capitano dal bizzarro cappello maculato stesse perennemente sulla difensiva, pensando che tutti e tutto quello che gli si presentava davanti fosse una minaccia per lui. Probabilmente aveva adottato questa pratica anche con la bambina.
 
 “Allora, vuoi dirmi perché sei qui? Ti ho detto che sono abbastanza nervoso, oggi.” ringhiò, incrociando le braccia al petto.
 
“Devo parlarti di Yuki. Sia tu che lei, ma soprattutto lei, siete in grave pericolo.” disse l’albino allontanando per pochi secondi gli avana dalla bocca.
 
Il Chirurgo rimpiazzò il suo solito ghigno con un’espressione di profonda preoccupazione. Il modo in cui il vecchio Smoker lo teneva sulle spine non gli piaceva affatto. Lunghi secondi di assordante silenzio si susseguirono, non facendo altro che accrescere la tensione fra i due individui. Dopo un’altra profonda boccata, il Vice Ammiraglio cominciò a parlare. Esplicava a voce incredibilmente bassa, tanto che il corvino faceva fatica a seguire il discorso. Sembrava avesse timore di essere ascoltato da orecchie indiscrete.
 
“Non ho molto tempo, ma ti farò un piccolo riassunto, saltando tutta la parte della storia che riguarda personalmente Yuki. La Marina sta cercando di impossessarsi del potere del Demone del Ghiaccio contenuto appunto dentro di lei. Pensano che possa essere il rimedio universale contro i pirati. Bah, stronzate. Comunque sia, il quattro dicembre Yuki compirà otto anni.”
 
Fece poi una lunga pausa, come se fosse indeciso se rivelare la verità all’uomo che gli stava dinanzi. Mordicchiò nervosamente il filtro del sigaro, pentendosi di quello che aveva appena rivelato ad un nemico della Marina. Lui, sempre stato un fiero e rispettato esponente dell’organizzazione, si ritrovava a spartire dossier top secret con un pirata. Ma non era forse il compito della Marina proteggere i più deboli?
 
“Quindi? Sputa il rospo, Smoker-ya.” incalzò l’altro sfregandosi nervosamente le mani.
 
“Agli otto anni compiuti, si ha un risveglio generale dei poteri di Koori, i quali risultano più difficili da controllare. Quello che voglio dire, in sostanza, è che… La Marina sta organizzando una spedizione sull’isola. Arriveranno la notte del quattro sull’isola. Sarà un battaglione intero, capitanato nientemeno da Doflamingo, dato che è in combutta con gli Ammiragli. Hanno intenzione di ucciderti e di prendersi Yuki. Law, dovete scappare. Dovete scappare subito.” scalpitò il Vice Ammiraglio, passandosi una mano tra i capelli nivei.
 
Law rimase attonito, fissando un punto indefinito sul pavimento ligneo. Era tutto così intricato e complesso, che persino la sua mente da stratega faticava a capire quel folle piano. Utilizzare una bambina per risolvere il problema dei pirati; si capiva che quei pazzi della Marina non avessero più assi nella manica. Si passò una mano sul volto, cercando di calmarsi. Cercando di pensare ad un piano per fuggire dall’isola. L’unica immagine che riusciva a realizzare, però, era quella di Doflamingo che strappava Yuki dalle sue braccia.
 
“Smoker-ya, perché mi stai dicendo tutto questo? Questo è alto tradimento, se ti scoprono ti fanno fuori.” sospirò frizionandosi energicamente una guancia.
 
“Sono sempre stato dell’idea che un’organizzazione come la Marina, dovesse aiutare e difendere le persone e soprattutto i bambini, non utilizzarli per queste pazzie suicide. Sia chiaro che non lo faccio per te, ma per Yuki. Io non posso aiutarvi più di così.” espettorò l’uomo appoggiando sul basso tavolino un piccolo Den Den Mushi.
 
Il Chirurgo fece scivolare i suoi occhi di ghiaccio sul Lumacofono. Riconobbe immediatamente quel Jolly Roger stampato sul fianco del guscio. Sbiancò completamente, assumendo uno spaventoso colorito latteo. Cosa aveva in mente, quel vecchio? Se davvero pensava che si sarebbe abbassato a chiedere aiuto a loro, di nuovo, aveva preso un gigantesco granchio. Aveva giurato, sette anni prima, che non sarebbe mai più salito di nuovo in quella gabbia di matti detta nave.
 
“Porta via questo Lumacofono, non ho bisogno del loro aiuto.” sbuffò minacciosamente il corvino.
 
“Davvero pensi di farcela contro uno stuolo di cinquecento Marines,ma soprattutto contro Doflamingo?! Lascia stare per una volta quel tuo orgoglio di merda e pensa all’incolumità della bambina!” esclamò Smoker, tentando di farlo desistere.
 
“Proteggerò io Yuki!” abbaiò alzandosi di scatto dal divano “La proteggerò io, da solo, senza l’aiuto di nessuno!”
 
“Fai come ti pare, stupido. Voglio dirti solo una cosa; anche se riuscirete a scappare, il Grandammiraglio Akainu, vi darà costantemente la caccia. Pondera bene, c’è in ballo il destino della vostra specie e soprattutto quello della tua bambina.” asserì aprendo la porta ed uscendo rapidamente da casa.
 
Il corsaro afferrò un cuscino e glielo lanciò contro, urtando però la porta ormai chiusa, come un bambino capriccioso a cui erano state negate le caramelle. Quello che il vecchiaccio aveva detto, gli aveva smosso qualcosa nel profondo, facendo venire a galla come una sensazione di rigurgito caldo ed acido di bile salire per la gola. Strinse tra le affusolate dita la stoffa dei pantaloni. Tremavano leggermente.
 
Non avrebbe voluto chiedere aiuto, era un tipo che riusciva a cavarsela egregiamente da solo. Ma, come giustamente aveva affermato Smoker, non si stava giocando una partita a Monopoli, ma un gioco mortale. O la vita o la morte. La cosa che lo preoccupava di più era quello sarebbe successo alla sua piccola se fosse caduta in mano a quei loschi figuri della Marina. No. Non avrebbe mai permesso che qualcuno osasse fare del male a Yuki.
 
Allungò infastidito una mano e accese il Lumacofono. Il caratteristico squillo del Den Den Mushi risuonava quasi inquietante nella stanza vuota, accompagnato dal gelido vento che, all’esterno, spazzava leggeri fiocchi di neve in ogni angolo dell’isola. Dopo alcuni secondi, sentì qualcuno rispondere. Scosse la testa. Come avrebbe potuto dimenticare quella voce tanto fastidiosa?
 
-Ohi!-

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Capitolo 9
*** Mentre Tutto Scorre ***


Usami,
straziami,
strappami l’anima
Fai di me quel che vuoi
Tanto non cambia l’idea che io ho di te
Verde coniglio dalle mille facce buffe.
-Negramaro, Mentre Tutto Scorre-
 
 
 
 
La voce sgraziata dell’altro risuonava squillante e fanciullesca nel salotto freddamente illuminato dalla biancastra luce del neon. Il chirurgo sbuffò esasperato, maledicendo quel giorno in cui aveva accettato l’idea di Smoker di chiedere aiuto a quella pseudo ciurma di pirati. Soprattutto l’incapacità e la stoltezza del Capitano lo scioccavano, dovendo essere il Capitano un punto di riferimento.  Cos’era lui, invece? Un buffone.
 
“Cosa significa che arriverete solo a quell’ora? E’ troppo tardi, plotone potrebbe già avermi ammazzato e aver preso Yuki!” esclamò massaggiandosi con forza gli occhi.
 
“Non possiamo arrivare prima, siamo troppo lontani!” si giustificò lui con voce lagnosa.
 
“Hai detto che arriverete dalla costa Ovest dell’isola, giusto?” domandò appoggiando la schiena alla spalliera dello scuro divano di pelle.
 
“Sì, proprio così. Ehi, ti sento strano.” disse con una nota di preoccupazione nella voce.
 
“Non ho nulla, davvero, sono solo stanco. Ora vado a stendermi, ti chiamo domani per gli ultimi accertamenti.” tagliò corto e, senza nemmeno salutare, spense il collegamento.
 
Riappoggiò il Lumacofono sul basso tavolino e assunse una comoda posizione supina, incrociando le braccia dietro la testa. Fissò per lunghi istanti lo smunto soffitto, ricoperto a piccoli tratti di muffa e macchie d’umidità. Un tremendo torpore gli avvolgeva le membra, ma era fin troppo stanco per raggiungere il suo letto. Non aveva dormito affatto durante gli ultimi giorni e la stanchezza cominciava a gravare sulle sue spalle. In quel momento non aveva senso preoccuparsi inutilmente; una buona dormita non gli avrebbe fatto altro che bene. Fece appena in tempo a chiudere gli occhi che una flebile vocina lo chiamò.
 
A quel richiamo scattò in piedi, come un cane da caccia risponde al richiamo del suo padrone, e si incamminò speditamente verso la propria camera, luogo dal quale veniva quello smorzato suono. Socchiuse la porta, lasciando entrare uno spiraglio di luce che squarciò l’inquietante buio in cui giaceva la stanza. Due grandi occhi verdi, che sembravano rifulgere nella tenue penombra, si puntarono quasi intimiditi su di lui. Da quando si era svegliata, subito aveva notato lo strano comportamento della sua bambina. Non riusciva a guardarlo in volto e aveva uno sguardo perennemente pentito, come se ricordasse cosa gli aveva fatto.
 
“Papà, non vieni a dormire?”
 
Parlava a voce incredibilmente bassa, quasi un sussurro che si disperdeva languido nella viziata aria della stanza. Avanzò e si sedette di fianco a lei, sul bordo del letto, accarezzandole quasi timorosamente la chioma castana. Il contatto con i setosi capelli della figlia riusciva a conferirgli un senso di apparente ed istantanea calma.
 
“Mi dispiace, papà…” pigolò “Mi dispiace di averti fatto male…”
 
“Ehi, non devi azzardarti a dire queste cose. Non è stata colpa tua.” la rimproverò con dolcezza, passandole un dito sulla guancia paffuta.
 
La bambina sospirò affranta, affondando mezzo viso nel morbido guanciale di piume. Il corsaro la fissò per un attimo, prima di inginocchiarsi di fronte a lei, in modo da vederla in qui lucenti occhi color smeraldo. Riusciva a percepire una profonda frustrazione nello sguardo della piccola. Aveva incontrato quel “professore” nella speranza di sapere chi fosse.
 
Ma, alla fine, chi era Yuki? Un Demone? Una principessa? No. A lui non servivano conferme esterne, tantomeno da quel losco individuo travestito da uccello acquatico rosa. Per il corvino, la piccina sarebbe rimasta comunque sua figlia. Ecco chi era Yuki, semplicemente sua figlia. Avvicinò le labbra alla sua fronte e ce le posò con estrema attenzione sopra, lasciandole un delicato bacio.
 
“Ora non pensarci, Yuki. Comunque, non serviva cercassi spiegazioni altrove. Io ho sempre saputo chi sei; sei la mia bambina, mia figlia.” asserì annuendo con convinzione.
 
La piccola alzò le sopracciglia, sorpresa di come suo padre avesse ragione. Si era arrabattata ed affannata inutilmente per cercare di scoprire le sue origini, quando la verità che tanto bramava era sotto il suo naso. Scosse la testa e sorrise, dandosi dell’ingenua. Posò lo sguardo su quell’uomo che in quel momento la stava osservando con così tanta premura. Non si sentiva un’erede al trono, né una creatura ultraterrena. Era solo Trafalgar Yuki, figlia unica di Trafalgar Law, e non poteva chiedere di meglio.
 
“Grazie, papà. Non posso nemmeno più darti i punti, perché sei troppo bravo.” disse lei, sfoderando un sorriso genuino.
 
“Su, ora non diciamo sciocchezze. E’ tardi e domani sarà una giornata impegnativa, faresti meglio a dormire un po’.” affermò alzandosi in piedi e schioccandole un ultimo bacio sui capelli.
 
“Va bene, papà, buonanotte. Ti voglio bene.” sussurrò queste ultime tre parole, imbacuccandosi nel caldo piumone.
 
“Buonanotte, piccola mia.” le augurò richiudendo scrupolosamente la porta dietro di se.
 
Si passò una mano tra i folti capelli d’ossidiana, una volta uscito dalla camera, intenzionato ad adagiarsi per riposare i suoi occhi incredibilmente stanchi. Ma un secondo suono, assurdamente violento e assordante, lo fece sobbalzare improvvisamente. Cominciò una forsennata corsa verso l’ingresso, per verificare quale razza di animale si fosse introdotto in casa sua e, se necessario, spedirlo fuori a calci.
 
Arrivò ansimando all’entrata, ancora affaticato dalle ferite di qualche giorno prima, e, lo spettacolo che gli si parò davanti lo lasciò completamente spiazzato. Qualcosa aveva sferrato un potente pugno contro la porta, la quale ora giaceva spezzata in due contro la parete opposta. In una nuvola di polvere cinerea si ergeva una figura torreggiante, massiccia e, soprattutto, fottutamente familiare. La lunga pelliccia svolazzava, sospinta dall’impetuoso vento che proveniva dall’esterno, e due fessure color ambra spiccavano in mezzo al polverone. Furenti. Sì, quello poteva essere classificato come “animale”.
 
Sentì qualcosa di freddo e rigido afferrarlo per il collo, per poi sbatterlo con malgrazia contro il muro. Sbarrò gli occhi non appena ebbe la certezza di chi fosse quel losco individuo irrotto di punto in bianco nella sua abitazione. Se ne accorse solo toccano l’oggetto che lo costringeva contro la slavata parete. Sbuffò infastidito, domandandosi perché dovevano capitare tutte a lui. Non bastava la Marina a rompergli i coglioni, ora ci si metteva anche lui. Dalla padella alla brace, come si suol dire. La voce cavernosa dell’uomo penetrò nelle sue orecchie, intontendolo.
 
“Trovato, Law.” sorrise sadico.
 
“Non è una partita nascondino, stupido… Eustass-ya.” ringhiò, non più abituato a proferire quel nome.
 
“Quasi otto anni che sei sparito, ma rimani il solito cane bastardo. Villeggiatura?” domandò il rosso fissandolo dritto negli occhi.
 
“Macchè villeggiatura, merda, mi ci ha confinato la Marina. Se sei venuto fino a qui, forse so cosa vuoi. Fammi prende la Nodachi e aspettami fuori da qui.” ordinò liberandosi dalla stretta del Capitano.
 
“E chi ha detto che dobbiamo combattere fuori? Sarebbe meglio dentro, spaccheremmo tutto.” ghignò l’altro guardandosi attorno con soddisfazione.
 
“Non ci provare, Eustass-ya. Mia figlia dorme nell’altra stanza. E’ stanchissima, e guai a te se osi svegliarla.” minacciò il moro puntandogli un dito contro.
 
“Sei patetico, dico sul serio, ti hanno persino messo a fare da balia ad una mocciosa. Che pena, per una Supernova. Ma non sono qui per combattere, non stavolta. E nemmeno per parlare del tuo lavoro da mammina.” attestò con sguardo poco rassicurante.
 
“E allora a cosa devo il dispiacere di questa vis…”
 
Non fece in tempo a finire la frase che Law si ritrovò le labbra imbrattate del rosso dell’altro premute con coercizione contro le sue. Spalancò gli occhi, spaesato, e il rosso approfittò di questo suo momento di debolezza per placcarlo per i polsi contro il muro. Il moro poteva distintamente sentire la lingua dell’altro penetrare bruscamente nella sua bocca, per poi avvolgerla con la sua in una voluttuoso ed intricato gioco di passione. Percepì il pastoso sapore del suo rossetto sparato forzatamente nelle sue fauci. Avrebbe voluto staccargli il muscolo orale a morsi ma qualcosa, dentro di lui, lo bloccava.
 
Strinse gli occhi, non appena sentì la fredda mano di Kidd, quella “umana”, entrare in contatto con la sua pelle, insinuandosi maliziosa sotto la sua felpa e accarezzandogli sensuale i capezzoli già turgidi. Gli strappò di dosso l’indumento superiore e si avventò famelico sulla tenera pelle del collo, quasi a volerla lacerare. Il corsaro aveva avuto la conferma; Eustass “Captain” Kidd era davvero un animale. Ma non riusciva a spiegarsi la strana ondata di eros che aveva investito quella testa di pomodoro.
 
Il flusso dei suoi pensieri venne interrotto quando Eustass passò la lingua bollente su uno dei suoi capezzoli. In quel momento, uno fievole gemito scaturì dalle labbra dell’uomo dagli occhi di ghiaccio, prontamente represso dalla sua stessa mano. Non avrebbe mai concesso a quell’orco una simile soddisfazione. Sfortunatamente, la natura stava cominciando a fare il suo corso e, ben presto, Trafalgar iniziò a sentire qualcosa tirare dal cavallo dei pantaloni. Deglutì a fatica, percependo ancora la mano e la lingua dell’uomo dai capelli scarlatti stuzzicarlo crudelmente.
 
“Aye, Eustass-ya, basta così…” mugolò cercando di scollarselo di dosso.
 
“Ma come basta, abbiamo appena cominciato. Potevi respingermi prima, ora è troppo tardi.” sogghignò posizionando una gamba in mezzo alle sue. “Certo che sei sensibile.”
 
“V-Vaffanculo…” sputò girando stizzosamente lo sguardo.
 
Sentiva le gote andargli a fuoco, quasi raggiungendo il medesimo colorito delle ispide ciocche dell’omone. Un inimmaginabile calore attanagliò il suo corpo seminudo, nonostante la gelida aria che permeava dall’anta distrutta. La sua ruvida mano scese incuriosita, avventurandosi all’interno dei pantaloni slacciati in precedenza, mentre l’altra si occupava di spingere lo scheletrico torso di Law contro quello pompato di Eustass. Accarezzò sensuale la sua intimità, percependone l’innaturale durezza. Kidd sghignazzò maleico, scrutandolo dritto in quei refrattari occhi color ghiaccio.
 
Il moro ringhiò aggressivo, spostando con sdegno il capo paonazzo per non incrociare quei frammenti ambrati. Sentiva montare dentro di lui una strana e poco casta voglia, che ogni secondo si ingigantiva, facendo crescere in lui il desiderio del rosso. Non poteva lasciar trasparire nessuna emozione ma, nel suo profondo, non gli dava fastidio che Kidd lo stesse toccando. Non si aspettava una tale delicatezza, se così si poteva chiamare l’essergli saltato addosso come un visone rabbioso, da parte sua.
 
Ed era lì, a godersi le attenzioni che, finalmente, erano rivolte solo a lui. Non alle belle donne o all’alcool, ma solamente a lui. Cercò di reprimere un sorriso e riportò lo sguardo su di lui, osservandolo in tutta la sua imponente magnificenza. I capelli cremisi antigravitazionali, gli scintillanti occhi ambra, l’esagerata massa muscolare, il braccio e la gamba meccaniche e persino quel naso, così aquilino e storto, gli facevano perdere la testa. Non lo avrebbe mai ammesso, nemmeno sotto tortura, ma adorava il fatto che il suo pomodoro fosse lì, in quel momento.
 
L’imponente uomo gli sfilò con foga gli ultimi indumenti che indossava, lasciandolo completamente scoperto davanti a quel bestione. Il rosso alzò con impressionante facilità le gambe del corsaro di fronte a lui, facendo aderire alla parete la sua schiena. Sorrise e si leccò maniacale le labbra, pregustando il piacere che avrebbe provato a scopare di nuovo con la sua puttana.
 
“Rilassati, sennò non riesco a muovermi.” gli sussurrò voluttuoso all’orecchio.
 
Senza che Trafalgar potesse controbattere, entrò dentro di lui. Il corvino spalancò gli occhi, conficcandosi i denti nel labbro inferiore. Faceva male. Cazzo, se faceva male. Ma, come aveva detto Eustass in precedenza, era troppo tardi per tirarsi indietro. Cominciò a spingere, godendosi dei lascivi gemiti che impregnavano la stanza, danzando al ritmo di quell’osceno e lussurioso spettacolo. I loro muscoli guizzavano spasmodici, quasi in contemporanea. A ogni spinta sentiva il membro di Kidd scivolare sempre più fluido dentro di lui.
 
Gli allacciò le braccia al collo e si strinse a lui, come un tacito invito a continuare quel peccaminoso ballo, fatto di gemiti repressi, languidi e sfuggenti sguardi e violenti colpi contro il muro ogni qualvolta quella testa di pomodoro metteva troppa forza nella penetrazione. Una passione sbocciata dal nulla, in un istante. Una passione che appassiva e si rinverdiva l’istante seguente. Improvvisamente Law alzò la testa e appoggiò focosamente le labbra su quelle dell’uomo di fianco a lui, bramoso di esplorare ancora una volta quella bocca così invitante.
 
Raggiunsero presto l’orgasmo ed entrambi, ognuno sporco della passione dell’altro. Ansimavano esausti, facendo scivolare le calde mani sulle schiene. I due Capitani si guardarono nuovamente per qualche secondo. Ghignarono, pronti a riprendere la sfilza di insulti che si sarebbero detti di lì a poco. Non immaginavano, però, che quella notte, dopo tanto tempo senza una notte a condividere lo stesso letto, qualcosa tra loro fosse finalmente sbocciato. Erano lì, bloccati nel tempo, mentre fuori il mondo scorreva inesorabile.
 
Law sussurrò quelle maledette due parole, tra un ansito e l’altro, ma, quando Kidd domandò di ripetere cosa avesse detto lui rispose con un sonoro ”Non ho detto nulla, idiota. Oltre ad essere un cretino senti anche le voci?”. Da quel momento, si susseguirono altri momenti di baci appassionati e insulti sputati in faccia l’uno all’altro. No, non avrebbe mai detto ad Eustass quei due monosillabi che aveva grugnito poco prima. 

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Capitolo 10
*** Quando Una Stella Muore ***


Cambia il cielo
Cambia la musica dell’anima
Ma tu resti qui con me
Tra lo stomaco e i pensieri più invisibili
E da lì non te ne andrai.

-Giorga, Quando Una Stella Muore-
 
 
 
 
La bambina soffiò con forza sul piccolo cupcake panna e cioccolato, spegnendo la fiammella che torreggiava candelina colorata di un tenue rosa. Una mano istoriata di segni neri si appoggiò fugace sulla sua testa, carezzandole la setosa chioma bruna, per poi essere ritratta pochi secondi dopo. L’uomo distolse con inimmaginabile lentezza lo sguardo ghiacciato dall’immagine della pioggia che all’esterno scrosciava inclemente e lo posò su quella sorridente figura che gli stava offrendo una metà di quel fin troppo melenso dolcetto.
 
“No, grazie, Yuki. Non ho fame.” sorrise Law, tentando un tono rilassato.
 
In realtà, dentro di lui infuriava una tempesta di dimensioni bibliche. Cercava in tutti i modi di nascondere la sua inquietudine, in modo da non far cadere anche la piccola nel suo stesso angoscioso vortice. Se lo meritava. Un po’ di tranquillità dopo quei giorni nei quali ne erano successe di tutti i colori era d’obbligo, almeno il giorno del suo compleanno. Ma sapeva che, di lì a poco, avrebbe dovuto affrontare l’ennesima sfida per salvare Yuki e anche se stesso; l’ennesima battaglia per la sopravvivenza. Osservò la bimba mangiare con gusto il cupcake, domandandosi se il mondo, là fuori, fosse fin troppo spietato e crudele per lei.
 
Si sbatté il palmo della mano sulla fronte, cercando di darsi un contegno. Lui era Trafalgar Law, Il Chirurgo della Morte. Non si sarebbe fatto intimidire da un plotone di Marines, nemmeno da quel fenicottero trasandato. Avrebbe combattuto con le unghie e con i denti. Tutto, pur di proteggere sua figlia, e sapere di avere l’uomo di fumo dalla sua gli regalava un’impercettibile senso di leggerezza. La castana si pulì la bocca dai rimasugli di pasta al cioccolato, per poi andarsi a sedere tra le gambe del padre. Appoggiò la schiena al suo torso e respirò profondamente, lasciando che due accoglienti e muscolose braccia la circondassero.
 
“Non mi piace la pioggia, papà.” sentenziò lei scrutando fuori dalla vetrata.
 
“E’ per questo che abbiamo appeso lui, no?” disse il pirata additando il piccolo fantasmino che penzolava davanti alla finestra.
 
La piccina annuì e sorrise, spostando quei suoi brillanti smeraldi sulla statuetta costruita con l’ausilio di due fazzoletti, un pennarello e un elastico. Era fantastico vederla tanto impegnata in quella cosa che stava facendo, anche se era così effimera. Ma la sua Yuki era così, nelle cose che faceva metteva tutto l’impegno che poteva. Anche se le cose non le riuscivano sempre alla perfezione (quel povero pupazzetto era uscito mezzo strabico) ammirava la sua dedizione e sarebbe stato uno onore averla nella sua ciurma.
 
“Quel Teru Teru Bozu scaccerà la pioggia e domani verrà il sole!” esclamò sorridente la bambina.
 
“Già, verrà il sole.” ripeté spostando con innaturale lentezza lo sguardo sull’orologio a muro.
 
Ormai segnava le dieci e mezza. Le dieci e mezza della sera del quattro dicembre. Sarebbe stata una notte indelebilmente macchiata di liquido scarlatto, non sapeva se suo oppure dei marines, che avrebbe marchiato la candida neve. Ma non davanti agli occhi di Yuki. Non avrebbe permesso che fosse inerme spettatrice di quella maledetta danza di morte. Non ancora. Si alzò e si diresse verso la cassettiera, facendo segno alla piccola di seguirlo. Estrasse un nastro violaceo da un ripiano del mobile e si inginocchiò davanti a lei, che lo guardava lievemente stranita.
 
“Dimmi , Yuki, che regalo vorresti per il tuo compleanno?” domandò fissandola con velata dolcezza.
 
“Mi piacerebbe tanto andare allo zoo, papà!” cinguettò allegramente.
 
“Va bene, ti porterò allo zoo. E’ una promessa.” asserì bendandole con cura gli occhi.
“Papà…” lo chiamò con voce più smorzata “Che succede? Perché mi hai bendata?”
 
“Beh, è un gioco. Una caccia al tesoro dove non puoi usare né la vista né l’udito.” mentì caricandosela delicatamente in braccio.
 
“Neanche l’udito?” si lamentò scherzosamente, coprendosi le orecchie con le mani.
 
“Esatto. Hai presente la canzoncina che ti piace tanto? Ecco, cantala finché non siamo arrivati.” si raccomandò caricandosi in spalla gli unici due zaini.
 
“Va bene, papà. Mi fido di te.” sussurrò e iniziò a cantare quella cantilenante nenia.
 
Teru Teru Bozu
Teru Bozu
Ashita tenki ni shite o-kure
Itsuka no yume no sora no yo ni
Haretara kin no suzu ageyo…
 
Restò per qualche secondo a rimirare smarrito la piccola figura che stringeva tra le braccia. Le labbra livide si muovevano timidamente, a ritmo della quasi inquietante canzoncina. Quelle parole che aveva pronunciato l’avevano sbigottito; possibile che Yuki fosse al corrente di quello che sarebbe successo quella notte? A sentire la sua sentenza di pochi secondi prima, il corsaro immaginò di non aver operato con abbastanza segretezza. Si maledisse e, anche se non lo dava a vedere, sapeva che la sua bambina aveva paura. La strinse ancora di più a se, come nel tentativo di rasserenarla. Lei si fidava del suo papà. Law non avrebbe mai potuto tradire la sua fiducia.
 
Spalancò la porta e sgusciò all’esterno con passo felpato. Aveva lasciato di proposito le luci accese nel tentativo di depistare per almeno qualche minuto i Marines. Si girò un solo istante, scrutando all’interno dalla finestra che dava sul salotto. Ringraziò mutamente quella casa che, accogliente e calda, li aveva protetti perfettamente dal gelo dell’isola. Il suo sguardo ricadde sul divano di pelle marrone. Riuscì a vedere di nuovo se stesso, con un piccolo fagotto gorgheggiante tra le braccia. Quegli anni erano passati così in fretta che non aveva nemmeno avuto il tempo di rendersene conto. Digrignò i denti e si calò la visiera del cappello sugli occhi, cominciando a correre verso la scogliera.
 
La pioggia continuava a cadere, imperterrita e scrosciante, sciogliendo pericolosamente la neve sotto di lui. Il terreno fangoso scivolava sfuggente sotto di lui, rischiando più volte di farlo cadere. I fulmini squarciavano incessantemente il cielo, illuminandolo a giorno per effimeri secondi, per poi sparire lasciandosi dietro un potente fragore di tuoni. Percepiva la piccola sussultare ad ognuno di quegli assordanti boati. Le posò una mano sulla testa e si accorse che era bagnata fradicia e tremava dal freddo, ma continuava a cantare ostinatamente. Trafalgar voltò la testa dietro di sé per controllare la situazione e quello che vide gli fece raggelare il sangue nelle vene.
 
Riusciva a scorgere le luci delle navi della Marina che attraccavano sbrigative al piccolo molo dell’isoletta. Un’ondata di panico assalì le sue membra, intorpidendole. Nonostante il suo netto vantaggio sentiva montare in lui un crescendo di ansia misto ad agitazione. Accelerò ancora di più la sua corsa, per quanto fosse stato possibile, e strinse rabbiosamente la Nodachi nella mano. Se fosse arrivata l’ora di combattere, non avrebbe esitato. Law non avrebbe mai potuto tradire la sua fiducia.
 
Teru teru bozu
Teru bozu
Ashita tenki ni shite o-kure
Watashi no negai wo kiita nara
Amai o-sake wo tanto nomasho…
 
Arrivò senza più fiato nei polmoni alla scogliera. Ansima, generando nell’etere delle dense nuvolette lattee. Piantò lo sguardo sul mare oscuro e tempestoso, attraversato a più riprese da enormi cavalloni d’acqua che galoppavano inclementi e si infrangevano sulle erose pareti dello strapiombo, cercando disperatamente la nave che li avrebbe tratti in salvo. Nulla, solo un’immensa distesa d’acqua agitata e gorgogliante si estendeva cupa davanti a lui. Un senso di disperazione lo assalì, ormai sentendo l’alito dei Marines gravare sul suo collo. Voltatosi completamente, estrasse la spada e la posizionò davanti a sé. Trasse un lungo e pesante respiro, avvistando quegli odiosi uomini dalla candida divisa che spiccava nella tetra notte, farsi strada lungo il sentiero in precedenza percorso dal Capitano, brandendo pistole e lunghe sciabole. Tese la mano e ghignò, sadico.
 
”Room.”
 
La cupola si espanse, inglobando una buona quantità di uomini. Era certo che non sarebbe stato difficile eliminare cinquecento Marines. Scattò fulmineamente in avanti, tenendo saldamente la piccola su un avambraccio, mentre utilizzava l’altro braccio per colpire i nemici. Si rallegrò al solo pensiero di poter strappare ancora qualche cuore dal petto della gente. La cosa che lo preoccupava maggiormente era l’individuo che sarebbe arrivato di lì a poco, quando ormai tutti i marinai sarebbero già periti. Quel bastardo era così, gli piaceva prendersela comoda.
 
”Mes.”
 
Si fece agilmente strada tra quegli uomini armati fino ai denti, sferrando invisibili fendenti che si disperdevano nell’aria gelida. Ogni singolo muscolo cardiaco che il Chirurgo faceva allegramente saltare fuori dal torace dell’avversario veniva immediatamente tagliato. Spruzzi di sangue e gemiti di Marines morenti si susseguirono per quegli interminabili minuti. Il denso liquido scarlatto si mescolava al terreno limaccioso, conferendogli un tetro colorito grigiastro. Ogni nuovo nemico che si apprestava ad arrivare dal sentiero antistante veniva brutalmente freddato. La sua furia assassina si placò solo quando non ebbe sterminato l’intero plotone di Marines.
 
Ansò esausto, appoggiandosi al manico della Nodachi piantata a terra, nel tentativo di riprendere fiato dalla faticosa sfida. Osservò soddisfatto i corpi senza vita degli uomini; dopo otto anni fu meraviglioso ritornare alle vecchie abitudini. Ma il peggio doveva ancora arrivare. Il corvino udì un sarcastico battito di mani approssimarsi a loro e dei passi cadenzati provenire dallo stesso viottolo. Dalla fitta boscaglia sbucò sogghignante un uomo alto, vestito con inconfondibili abiti sgargianti. Il corsaro ringhiò, stringendo forte contro di sé la bambina che ancora, irremovibile, continuava a intonare la canzoncina. L’uomo calciò barbaramente il cadavere di uno dei Marines che gli intralciava la strada, proseguendo il suo cammino verso Trafalgar.
 
“Non avvicinarti!” gridò lanciandogli un’occhiata raggelante.
 
“Sei davvero uno stupido se pensi che ti lascia andare via con quella piccola miniera d’oro, Law.” sghignazzò indicando divertito Yuki.
 
“Questo lo dici tu… Joker.” minacciò con aria di sfida.
 
“Law, perché ti preoccupa tanto quello che faremo a Yuki?” Si leccò sadico le labbra. “Lei non dovrebbe essere nulla per te.”
 
Il corvino corrugò la fronte, assumendo un’ espressione di profonda collera. Forse quell’estrinsecazione sarebbe stata azzeccata nel primo periodo di convivenza con la piccina, quando la considerava una noia, una piccola pulce gorgheggiante. Ma con il tempo cominciò a cambiare, Law. La bambina diventò l’unico legame che il Chirurgo durante il suo periodo di prigionia poteva avere e che era intenzionato a mantenere. E in quel momento, vedendo davanti a se l’uomo che aspirava a strapparla dalle sue braccia, una tale bile gli saliva al cervello.
 
Sfrecciò verso di lui e, grazie ad una rapida successione di Shambles, riuscì a teletrasportarsi dinanzi a lui, assestandogli una violenta ginocchiata in viso, crinandogli una lente dei ridicoli occhiali dalle lenti violacee. Law indietreggiò. Si sistemò alla meglio la piccola sull’avambraccio, arrivando alla conclusione che non era certo una passeggiata combattere  trasportando una bambina di almeno venti o venticinque chili.
 
“Mi importa, stupido fenicottero, mi importa! Questa bambina non sarà mia figlia, ma la amo come se lo fosse.! E’ l’unica persona a cui tengo che mi è rimasta. Mi salvato dalla solitudine e io la salverò da te!” rivelò, furibondo, ringraziando che Yuki non stesse ascoltando.
 
Il biondo lo guardò storto per qualche secondo, per poi scoppiare fragorosamente a ridere. Il pirata lo squadrò in cagnesco, sempre non riuscendo a meravigliarsi della sua snervante reazione ilare. L’unica cosa che lo lasciava perplesso era la sua posa, fin troppo statuaria e immobile per il Doflamingo da lui conosciuto. Allarmante era la posa delle mani, anchilosate come se stesse manipolando i suoi soliti fili. Il moro indietreggiò, fino a raggiungere l’orlo del precipizio; non si fidava assolutamente dell’apparente quiete del fenicottero. Improvvisamente, l’aria venne fesa da una voce gracchiante e maledettamente familiare.
 
”TORAO, SALTA!”
 
Trafalgar sgranò incredulo gli occhi, domandandosi come fossero riusciti ad arrivare in gran segreto e non con i soliti schiamazzi di sottofondo. Scrollò le spalle e ghignò soddisfatto, retrocedendo di un altro passo e lasciandosi cadere nel vuoto. Portò una mano dietro il capo di Yuki e le sciolse con delicatezza il pezzo di stoffa, lasciandolo schizzare via nell’aria sferzante. La castana dischiuse gli occhi e guardò terrorizzata verso il basso, realizzando che stavano precipitando dalla scogliera.
 
”GOMU GOMU NO… AMI!”
 
Dopo un tempo che a entrambi era sembrato interminabile, vennero acciuffati da un complicato intreccio di dita gommose che bloccarono appena in tempo la loro caduta. Il Capitano non fece nemmeno in tempo a tirare un sospiro di sollievo che, inaspettatamente, dal orlo dello strapiombo spuntò nuovamente la possente figura dell’uomo dalla voluminosa pelliccia rosa. Si chinò verso di loro e alzò un indice verso l’alto, allargando ancora di più il suo malefico e sghembo sorriso.
 
Sentì come se qualcosa stesse tirando la piccola nella stessa direzione che stava indicando spasmodicamente il biondo. Un ennesimo fulmine squarciò l’atro cielo, illuminando visibilmente un filo. Un filo attorcigliato attorno alla vita di Yuki, la quale si aggrappava disperatamente al cappotto del padre nel tentativo di resistere all’attrazione del fenicottero. Evidentemente la lotta non era ancora finita e Doflamingo non aveva nessuna intenzione di lasciarsi sfuggire la piccina.
 
La strinse forte al suo petto, ostinato, ripetendosi mentalmente che non doveva perdere la calma. Ma quando un ronzio raggiunse le sue orecchie, realizzò che non c’era tempo di formulare complessi provvedimenti: quegli idioti avevano attivato il Coup de Burst e se non si fosse dato una mossa, Yuki sarebbe stata tranciata in due. La sua mente era talmente atrofizzata dal panico e dalla fretta, che solo in parte si accorse che la bambina stava lentamente lasciando la presa.
 
“Papà…” lo chiamò, pigolando. “Lasciami andare.”
 
Quelle parole furono come milioni di spilli che si conficcarono all’unisono nella sua pelle. La fissò allibito, accorgendosi dei suoi occhi gonfi di lacrime. No, non poteva lasciarla nelle mani di quel soggetto. Aveva promesso che l’avrebbe protetta a tutti i costi. Scosse angosciato la testa, . Per la prima volta dopo anni, sentì la paura strisciare viscida fin dentro la sua anima. E intanto il suono si faceva sempre più udibile. Più forte.
 
“E’ me che vuole, papà, tu non centri nulla…” sussurrò accarezzandogli una guancia.
 
“No, io non ti lascerò a Doflamingo! Non hai idea di quello che ti farà! Io… Io ti avevo promesso che saremmo andati allo zoo…” sospirò affranto, portandosi una mano sugli occhi.
 
La bambina allungò di poco il collo e gli schioccò un dolce bacio sulla guancia, come a volerlo ringraziare per tutto quello che aveva fatto per lei. Piano piano, i loro corpi persero aderenza. Il corvino incuneò i suoi occhi di ghiaccio, afflitti e doloranti, in quelli melliflui di lei. Della sua bambina, la sua Yuki. Quella piccola mocciosa che aveva cercato di sbolognare ad un qualsiasi Marine, quella pulce che ormai era diventata il suo stare al mondo. Solo una mano, ora, si stringeva l’una all’altra, come per darsi conforto. Un ultimo sorriso, un ultimo sguardo, un ultima carezza sulla pelle nivea.
 
“Ti voglio bene, papà…”
 
“Tornerò a prenderti, Yuki… Papà non ti lascerà qui…”
 
E tutto si annullò. Vide la sua bambina sbalzata in aria e presa in braccio dall’uomo che intanto sogghignava compiaciuto. Qualcosa di sconosciuto si mischiò alla pioggia battente. Calda, umida. Una lacrima gli rigò il volto mentre il galeone dalla testa leonina saettò via. L’isola si allontanava sempre di più e, con lei, anche Yuki.
 
Teru teru bozu
Teru bozu
Ashita tenki ni shite o-kure
Sorete mo kumotte naitetara
Sonata no kubi wo
Chon to kiru zo…


-SPAM TIME!-
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Pagina nata da poco, ci farebbe piacere se metteste un bel mi piace! 

 

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Capitolo 11
*** Wherever You Will Go ***


Scappo via con il mio cuore
Scappo via con la mia speranza
Scappo via con il mio amore
Ora so abbastanza bene
Quanto la mia vita e il mio amore
Possano andare avanti
Ne tuo cuore, nella tua mente
Starò con te per tutto il tempo.
-The Calling, Wherever You Will Go-
 
 
 
 
Si perdeva, il suo sguardo, tra i perpetui flutti dell’oceano che abbandonavano la sfrigolante spuma biancastra sullo scavo della nave. I raggi del tenero Sole appena sorto si rifrangevano sull’acqua appena increspata, donandole un tenue colorito rossastro. Colpivano pure il suo viso, come una tenera e rassicurante carezza, costringendolo a strabuzzare gli occhi, infastidito. La frizzante brezza mattutina scompigliava burlona i suoi capelli corvini e si insinuava serpeggiante nei meandri del lungo cappotto nero. I suoi occhi vagano spenti e vuoti, privati di quel luccichio sarcastico che sovente illuminava le iridi ghiacchiate, seguendo i guizzanti riverberi che attraversavano la superficie melliflua.
 
Erano ormai passati tre giorni. Tre giorni nei quali il suo cuore, il suo animo stavano lentamente appassendo sotto il peso di una disperata angoscia. Nonostante gli insistenti tentativi dei Mugiwara di risollevargli il morale nemmeno la vista di quell’idiota di Rufy con due bacchette lignee infilate nelle cavità nasali riusciva a strappargli una smorfia. Il suo viso era tornato marmoreo ed impassibile. Non voleva azzardarsi a pensare a cosa la sua Yuki sarebbe stata costretta a passare tra le grinfie di quel bastardo del fenicottero. Se immaginava allo stesso trattamento che Doflamingo aveva riservato a lui fin da quando era un bambino innocente applicato su una bambina come Yuki (dalla forte personalità, certo, ma pur sempre una bambina di otto anni), il sapore acido di un rigurgito acido di bile gli impregnava le fauci.
 
Si appoggiò stancamente alla balaustra e si passò una mano istoriata di atri segni tra i capelli. Erano giorni che non chiudeva occhio, troppo impegnato a pensare a un piano per salvare la sua bambina. Continuava a domandarsi perché, mentre quella scena si ripeteva a nastro nella sua mente. Vedeva quei verdi prati sconfinati e le labbra livide che sussurravano quelle due parole. Quelle due maledette parole esternate con un’immane dolcezza. Lasciami andare. Le cose non sarebbero dovute andare così. Era lui che doveva proteggerla, non il contrario.
 
“Law-sama?” lo chiamò una titubante vocina dal basso.
 
“Non scocciare, Touya, non è il momento.” sputò il corsaro fissando il piccoletto con la coda dell’occhio.
 
Ora vi starete chiedendo sia questo Touya, dico bene? In effetti nemmeno Law riusciva a crederci, ma non appena si ritrovò davanti un bambino della stessa età di Yuki, dai corti capelli color carota e da due vispi occhietti d’ossidiana, dovette ricredersi. Persino la sua mente geniale non riuscì subito a comprendere la situazione ma, dopo un’accurata spiegazione da parte del cuoco, tutto gli fu più chiaro e non riuscì a trattenere un sorriso intenerito. Quella zucca vuota di Monkey D. Rufy era inaspettatamente riuscito a far cadere ai suoi piedi nientemeno che la bella e formosa navigatrice e, dal loro matrimonio, era nato uno sveglio e attento frugoletto. Fortuna per lui che non abbia ereditato il cervello del padre, pensò il Chirurgo sorpreso e a tratti toccato. Era incredibile come anche un cretino come Mugiwara-ya avesse trovato l’amore avesse messo su famiglia.
 
“Papà ha detto che non le fa bene stare qui a rimuginare, per di più a stomaco vuoto! Su, venga che zio Sanji ha già preparato la colazione!” trillò strattonandolo debolmente per un lembo del cappoto.
 
“Ti ho detto di lasciarmi stare! Non ho intenzione di farmi trascinare in quel refettorio dove tutti sono allegri e spensierati!” esclamò con i tendini del collo estremamente protesi.
 
Il piccolo indietreggiò impaurito, nascondendosi dietro una delle seducenti gambe della madre, di cui solo in quel momento aveva notato la presenza. La donna sbuffò, accarezzando materna le scompigliate ciocche carota del figlio. Il suo viso si aprì in un vago e dolce sorriso, alla vista del quale il bambino si rasserenò di colpo. Il corsaro sbarrò gli occhi, riuscendo chiaramente a rivedere se stesso riflesso in Nami, mentre con quella sua callosa mano ancora impregnata del sangue di numerose vite, vezzeggiava gli ondulati capelli della figlia.
 
“Su, Touya, vai in mensa che gli altri ti aspettano. Io cerco di far ragionare questo testone.” affermò spinge dolo delicatamente verso le scale.
 
“Va bene, mamma, ma per favore, non essere troppo dura con Law-san.” Fece una piccola pausa, voltandosi verso il soggetto in questione. “E’ solo molto triste.”
 
Un sorriso a trentadue denti si fece strada sul paffuto viso del bimbo, per poi fiondarsi verso la stanza indicatogli dalla madre, gracchiando che aveva una fame da lupi. Il moro voltò nuovamente lo sguardo verso lo sconfinato oceano, ridacchiando sommessamente; magari non aveva ereditato la scarsa intelligenza del padre, ma non era riuscito ad evitare di farsi trasmettere anche la sua profonda ingordigia. L’arancione si avvicinò alla balaustra e, con un agile balzo, si posizionò a sedere di fianco a lui.
 
Lasciava infantilmente le gambe a penzolare nel vuoto e i lunghi capelli color carota ondeggiavano nel freddo vento del mattino del cinque dicembre. Voltò lo sguardo e ricominciò a vagare di nuovo, con la mente. Incassò la testa tra le smagrite spalle e si conficcò gli immacolati denti nel labbro inferiore, tanto violentemente da percepire in bocca l’acre odore del sangue. Non poteva manifestare così palesemente la sua tormenta interiore ma, a quanto pare, nulla sfuggiva all’occhio indagatore della navigatrice. Lei allungò una mano e tirò impietosamente l’orecchio del Chirurgo.
 
“Mi fai male, brutta strega, lasciami!” ringhiò sommessamente il corvino.
 
“Non ti abbacchiare così tanto, ok? Rufy ti ha promesso che la riporteremo indietro e così sarà.” sbuffò esaudendo il desiderio di libertà del pirata.
 
“Non ti abbacchiare, eh? Bene, voglio rigirarti la domanda; cosa faresti se uno stronzo come Doflamingo rapisse Touya?! Diresti semplicemente Non devo abbacchiarmi, tanto lo andrò a salvare?!” sbraitò mostrando i denti come un cane rabbioso.
 
“Law, calmati, non serve a nulla arrabbiarsi così.” rispose lei dandogli una pacca sulla fronte, il che lo fece imbestialire ancora di più.
 
“Sono arrabbiato, sono arrabbiato con me stesso per averla lasciata con quel mostro!” incalzò stringendo infuriato i pugni.
 
“Hai paura che le faccia qualcosa?” domandò Nami assumendo un tono decisamente più dolce.
 
Il moro trasse un profondo respiro nel tentativo di calmarsi e appoggiò i gomiti alla balaustra, affondando le mani tra la spettinata e folta chioma. Sentiva nell’arancione un’intonazione che non aveva mai udito prima; era stranamente rassicurante, probabilmente forgiata dal suo lavoro di madre. Lui sapeva qualcosa in merito. Anche l’uomo era cambiato, non lo negava. A volte i bambini possono insegnare davvero tanto ai genitori, soprattutto se quest’ultimi non hanno avuto una vita all’insegna della gioia. E, in quel momento, vedere l’espressione di profondo dispiacere della navigatrice era di grande conforto per lui. Fissò per qualche lungo istante la sua Nodachi prima di rispondere, rimembrando quegli ultimi disperati tentativi di salvare la piccina.
 
“Sì, ho paura che faccia quello che ha fatto a me per tanti anni, fin da quando ero un moccioso.” ammise con uno sbuffo.
 
Nami piegò di poco la testa, facendo sfuggire diverse ciocche pel di carota dal controllo di quello chignon di fortuna che le teneva legati i capelli. Lui la guardò di sfuggita, domandandosi se fosse il caso di aprirsi così tanto.
 
**
 
Ripiombò di schianto sul lettino, percependo le convulsioni involontarie del suo corpo scemare al diminuire dell’intensità delle scariche elettriche che percorrevano inclementi il gracile corpo. Ansimava esausta mentre i quadrettoni del soffitto in pietra scura roteavano vorticosamente intorno alla sua testa pulsante. Misteriose figure vestite con lunghi camici bianchi e mascherina si affannavano intorno alla barella su cui era costretta tramite delle cinghie che le legavano polsi e caviglie. Quelle figure, tuttavia, erano confuse e i suoni stranamente ovattati da quel buffo casco munito di lampadine che si ritrovava in testa.
 
Sentiva il sudore impregnarle la fronte e i palmi delle mani. Sarebbe dovuto essere dicembre, ma in quella stanza faceva estremamente caldo. Una piccola lacrima spuntò tra le ciglia della castana, sfuggendo al suo ferreo controllo. Faceva male. Ogni cosa a cui l’avevano sottoposta da quando era stata internata in quella prigione era estremamente dolorosa per le sue tenere carni; elettroshock, iniezioni di sostanze strane tramite aghi esageratamente lunghi, essere immersa in acqua gelata e subito dopo in acqua bollente.
 
L’aggeggio che più però odiava era L’Aspirapolvere. Così lo chiamava, per la vaga somiglianza con l’oggetto domestico. Ma non era affatto innocuo come quest’ultimo; serviva infatti per trasmetterle, per via orale, un intruglio verdastro dal sapore disgustoso e che le provocava un forte mal di pancia. La sua mente, però, è sempre rimasta lucida e con una nitida immagine impressa al suo interno: il suo papà. Era convinta che il suo amato genitore sarebbe arrivato presto a salvarlo insieme a quella ciurma dalla nave dalla testa leonina.
 
“Doflamingo-sama, non risponde nemmeno a una scarica così potente.” annunciò sconsolato uno degli uomini dal camice bianco.
 
“Uscite tutti, incapaci, prima che vi smembri.” bofonchiò aggressivo il biondo sistemandosi gli occhiali sul naso.
 
A quelle minacciose parole tutti si accalcarono verso la porta per paura di fare una fine poco piacevole e, in infimi istanti, in quella spoglia stanza di pietra rimasero solo quelle due figure così contrastanti. Il fenicottero scostò la schiena dal muro e avanzò a passi cadenzati verso il lettino. Yuki sentiva lo scricchiolante rumore dei suoi mocassini rimbalzare sulle pareti pietrose per poi rimbombare nelle sue orecchie. Per tre lunghissimi giorni quella specie di uccello acquatico era rimasto inerme contro la parete, osservando tacito le reazioni della piccola a quei test a dir poco disumani.
 
Gli unici ghigni soddisfatti vennero fuori quando, stroncata dal dolore e dall’esasperazione, la castana si lasciava scappare gemito o un grido disperato. E lei se ne stava lì, oppressa su quel piatto materasso, attendendo che quel forte cavaliere senza macchia e senza paura dal lungo cappotto nero e dal peloso cappello maculato la salvasse dal drago cattivo. Sapeva che il suo papà non sarebbe rimasto con le mani in mano ma avrebbe fatto di tutto per poterla stringere di nuovo. E Yuki sognava. Sognava quelle braccia forti e rassicuranti e persino quegli occhi così freddi che solo poche volte aveva visto sciogliersi. Un violento schiaffo si infranse contro la sua guancia, riportandola alla realtà.
 
“Perché? Perché Koori non reagisce?!” sbraitò lui afferrandola per il colletto del camice.
 
“Visto? Nemmeno i Demoni si sottomettono a un buffone come te.” ridacchiò beffarda.
 
“Vedo che Law ti ha cresciuta a sua immagine e somiglianza. Piccola impertinente, ora riceverai lo stesso trattamento che ho riservato per lui.” sogghignò soddisfatto sfilandosi l’imponente pelliccia rosa.
 
”Quando avevo più o meno l’età di Yuki,
quel bastardo mi chiamò in infermeria per
curare un idiota che si era fatto una profonda ferita
maneggiando una spada.”
 
La bambina se lo ritrovò addosso. Riusciva ad intravedere un luccichio sadico negli occhi di Doflamingo, anche se coperti da delle nuove lenti di colore scarlatto. Sentiva il suo fiato pesante gravare sul collo. Quella situazione non le piaceva affatto ed era consapevole che sarebbe finita in uno dei peggiori dei modi. Cominciò quindi ad agitare tutto il corpo, per quanto fosse in grado di fare, nel tentativo di scrollarsi via quel colosso di dosso. Ma non sembrò funzionare, dato che percepì i denti del fenicottero affondare famelici nella diafana pelle del collo, mentre una mano scivolò grama sotto l’inconsistente veste.
 
”Andai in infermeria ma, una volta là, mi resi conto
che non c’era nessuno. Sentii poi una porta sbattere
alle mie spalle e la serratura cigolare. Mi voltai e vidi
Doflamingo che mi guardava in modo strano…
Un’espressione che non gli avevo mai visto prima…”
 
La bambina gridò disperata. In preda alle lacrime cercava di spingere la testa dell’uomo mentre invocava spiantata l’aiuto di qualcuno. Ma fu tutto inutile; ora nulla poteva distogliere l’attenzione del cacciatore dalla sua preda inerme. Il leggero vestitino le fu strappato brutalmente di dosso, lasciandola discinta davanti a quell’omone che la guardava con lo stesso sguardo con cui aveva fissato il fragile corpicino del padre. Era incredibile che avessero la stessa corporatura minuta, la stessa pelle così delicata e lo stesso sguardo di terrore negli occhi. L’ex Shichibukai percorse con il muscolo orale l’innocente e asciutto fisico della piccina, beandosi delle sue urla sgomente.
 
”Mi saltò addosso e mi strappò di dosso i vestiti.
Senza tanti indugi cominciò… ad abusare di me.
E andò avanti, sempre di più, sempre più forte,
fregandosene delle mie suppliche. Non dimenticherò
mai quel momento e i momenti uguali che si susseguirono
durante la mia permanenza nella Donquijote Family.”
 
Entrò in lei con tutta la crudeltà e la violenza di cui il biondo era capace. Yuki gridò un ultima volta, poi fu il silenzio più totale. Il solo rumore che si percepiva era il respiro affannoso del uomo, forse non più abituato a pratiche tanto barbare. Fu così che, quella notte, quella illibata piccola creatura, la cui colpa fu solamente quella di essere venuta al mondo, venne bestialmente deflorata dall’uomo che avrebbe popolato i suoi incubi d’ora in avanti. Percepiva un intenso dolore avvolgerle tutto il corpo, mentre le lacrime scorrevano come un fiume in piena. Ma timide, silenziose. E il dolore che provava non era solo fisico, ma soprattutto interiore.
 
Voltò semplicemente lo sguardo verso la porta, perdendosi nella speranza che il suo papà, il suo cavaliere, irrompesse in quel preciso istante in quella stanza illuminata solo da una fioca luce al neon e la portasse via con sé. Ovviamente non accadde e lei continuava, inerme, a subire le sevizie di quell’essere senza cuore o anima. Non aveva nemmeno la forza di reagire, di sputargli in faccia qualche insulto. Nulla. Era come un agnello indifeso davanti al suo carnefice. Spingeva, spingeva, sempre di più, sempre più forte.
 
Proprio come una notte di tanti anni fa, una pura creatura veniva incivilmente violata dallo stesso uomo. Voglia di gridare montava in lei. Gridare il suo dolore, la sua rabbia, la sua angoscia. Ma non poteva. Non si azzardava ad emettere un singolo suono, per paura che potesse peggiorare l’orribile situazione in cui si trovava. Copioso sangue proveniente da lei iniziò a gocciolare dal lettino e a impregnare di un orribile rosso diluito l’imbottitura del materasso. Scosse la testa e gonfiò i polmoni d’aria. Pronta, decisa ad urlare la sua immonda sofferenza.
 
“PAPA’ FAI PRESTO!”
 
E, finalmente, il buio l’accolse nella sua tetra e al contempo gratificante morsa. Svenne. 

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Capitolo 12
*** Crazy ***


Ricordo quando, ricordo, ricordo
Quando ho perso la testa
C’era qualcosa di così piacevole in quel posto
Anche le tue emozioni avevano un eco
E così tanto spazio
E quando sei là fuori, senza attenzione
Sì, perdi il senso della realtà.
-Gnarls Barkley, Crazy-
 
 
 
 
Utopia.
Che quell’inferno potesse cessare era pura e semplice utopia.
Alzò di poco la testa pulsante, mentre il debole corpicino ignudo tremava a contatto con la fredda pavimentazione della stanza. Troppo fredda. Procedette a tentoni con una stanca manina, arrestandosi subito dopo che una delle sue paffute dita venne pinzata da qualcosa simile ad un ago. Cercò di mettere a fuoco le immagini sfocate dalle lacrime che le appannavano la vista e rendevano ancora più melliflui i suoi, ormai cupi, occhi verdi. Tutto quello che riuscì a vedere liberandosi dallo strato di lacrime fu tutta la superficie della cella ricoperta da appuntiti ghiaccioli.
 
Fu solo un’impressione, ma a Yuki parve che quel ghiaccio fosse terribilmente sporco; infatti non riconosceva l’azzurrognolo penetrante di quei cristalli che erano soliti formarsi durante le gelate sulle grondaie arrugginite della loro casetta, ma un insolito e funebre colore cinereo. Chissà se Doflamingo l’avrebbe lasciata in pace, ora che aveva dimostrato di sapere, involontariamente parlando, controllare quell’elemento. Tuttavia, controllare era un parolone che non si addiceva alla situazione. Il suo potere si manifestava solamente in seguito a un determinato evento. Doloroso, nella maggior parte dei casi.
 
Abbandonò la testa di lato, sconsolata, e fissò nostalgica al di fuori delle sbarre. Vedeva Marines su Marines piroettare professionalmente tra le infinite ed anguste celle della prigione, lanciando insulti contro i detenuti e colpendone altri con l’impugnatura dei fucili. Nessuno di essi, il cui sguardo si posava sulla stia della castana, riusciva a contenersi da un commentino sarcastico sulla sua natura demoniaca. Demone? Lei non si sentiva un Demone, eppure tutti affermavano che dentro di lei fosse segregata questa forza maligna chiamata Koori. Una bambina di più o meno cinque anni, dai lunghissimi capelli neri e dagli occhi del medesimo colore. Si diceva fosse spietata e malvagia e che logorasse dall’interno l’anima dell’ospite. Eppure Yuki sentiva che non era tutto così. Non era come gli esterni avevano prefissato. Improvvisamente udì dei passi approssimarsi alla sua postazione e immediatamente chiuse gli occhi, pregando che non fosse ancora quel fenicottero maledetto.
 
Il grande uomo, la cui ombra di rifletteva tremolante sul cupo muro di pietra, arrivò davanti alla cella e fissò all’interno con espressione di muto e profondo dispiacere. Allungò la callosa mano, ma si fermò non appena sentì qualcosa di gelido e appuntito gravare contro l’indurito polpastrello. Tutta la superficie dello spoglio gabbiotto, al centro del quale giaceva quel corpicino inerme e diafano, era ricoperta da uno strato di piccoli ma affilati spuntoni di ghiaccio. Sospirò pesantemente, pensando che quella piccina stesse usando quella spinosa coltre di gelo per cercare una provvisoria difesa fisica davanti alla freddezza dei corrotti animi umani. Quanto avrebbe dovuto sopportare prima che qualcuno si muovesse in suo aiuto? Ricordava perfettamente il suo primo incontro con quella indifesa creatura.
 
Avanzava per i camminamenti che collegavano le celle poste ad alveare, consapevole di un minuscolo ospite che non avrebbe dovuto trovarsi in quel luogo. Un luogo dove veniva confinata la marmaglia della peggiore specie non era un posto per una bambina senza colpe e senza addosso l’odore della cattiveria e del sangue che sovente si respirava tra quelle sbarre. Ad un tratto la sua vocina, flebile e spezzata, aveva catturato la sua attenzione. Seguendo con l’udito il mugolio emesso da quella cucciola interiormente ferita, arrivò davanti alla sua postazione. La bambina disse all’uomo di avere fame e sete e lui, anche attraverso la sua dura scorza di marinaio, aveva captato la profonda disperazione del tono di voce. Riuscì a sgraffignare solo miseri alimenti e una bottiglia di acqua dalla cucina che, tuttavia, non vennero assolutamente disprezzati.
 
”Nonno Sigaro… cos’ho fatto di male?”
 
Smoker si genuflesse, trovando sostegno per le scricchiolanti ossa appoggiandosi al Jitte che recava in mano. Protrasse l’arto, infischiandosene delle leggere escoriazioni che quegli spuntoni di ghiaccio gli procuravano alla pelle, abituata a ferite ben più gravi di qualche pressione e puntura. Arrivò a malapena agli scarmigliati capelli della piccina, accarezzandoli goffamente nel tentativo di rassicurarla almeno un poco. La bambina alzò gli occhi verso l’uomo dinanzi a lui e lo fissò un silenzio. Una riconoscente quiete che Yuki stava sfruttando per ringraziare quell’unica anima benevola in quell’inferno in cui era caduta. L’albino aggrottò le sopracciglia, mentre una profonda ira attanagliava viscida il suo animo già di per sé burbero e scontroso. Non poteva rimanere indifferente davanti a tanta sofferenza gratuita ed ingiustificata.
 
“Niente, Yuki, non hai fatto nulla. Solo che al mondo ci sono molte, troppe persone cattive. Stai tranquilla, tuo papà verrà a prenderti.” annuì il Marine ritornando in posizione eretta.
 
“No, lui non verrà…” pigolò affranta lei.
 
“Perché non dovrebbe?” domandò sporgendosi incuriosito verso di lei.
 
“Sono già passati dieci giorni. E’ ovvio che mi ha abbandonata, non gliene importa più nulla di me!” gemette mentre un piccolo singhiozzo si faceva strada tra le labbra livide.
 
“Questo non puoi dirlo, Yuki. Smettila di sputare sentenze se non sei al corrente dei fatti. L’ho appena chiamato alla Den Den Mushi e ti giuro che non l’avevo mai sentito così depresso.” sentenziò convinto.
 
“Davvero?” domandò incredula la piccina.
 
“Davvero. Rispondeva solo con versi o monosillabi e anche il suo solito tono strafottente sembrava essere scomparso. E’ distrutto, fidati di me.” asserì passandosi una mano tra i capelli nivei.
 
“Povero papà, chissà quanto starà soffrendo…” rifletté ad alta voce.
 
“Quattro giorni. Resisti solo altri quattro giorni e sarai libera. Ho detto a Law dove ci troviamo.” affermò allontanandosi a passo svelto dalla cella.
 
Finalmente era ora delle famose quattro chiacchiere con quel pazzo che tirava le fila di quello scempio.
Akainu.
 
**
 
“La base di Guantanamo 51 è un posto che solo ai Marines di un certo rango è dato conoscerne l’esistenza. E’ situato in un preciso luogo del Grande Blu, per la precisione al largo dell’Arcipelago della Isole Sabaody, chiamato Fog End. Questo banco di nebbia così fitto e impenetrabile è chiamato così dai pescatori del luogo per il fatto che nessuna nave è mai tornata una volta addentratavisi. In quello spazio dove le strumentazioni per la navigazione sono inutili a causa dei forti campi magnetici sorge quella base, adibita a carcere, sulle quali sono nate numerose leggende. Ci sono tre rotte per arrivare a Guantanamo 51 attraverso la Fog End. Seguite le coordinate che vi ho dato e può darsi che arriverete sani e salvi.”
 
Law premette il pollice sulla sommità del Tone Dial, interrompendo così la registrazione della conversazione tra lui e l’uomo di fumo. Non aveva alcuna intenzione lasciar sentire a quegli idioti dei Mugiwara tutta la parte del dialogo telefonico nella quale il corvino insisteva caparbiamente per venire a conoscenza della situazione della sua bambina, ricevendo più volte un inconsapevole dissenso da parte del bianco. Passarono lunghi secondi di silenzio assoluto, nei quali solo era udibile il fastidioso stridere dei gabbiani. I membri della ciurma si scambiarono delle occhiate interrogative.
 
“Ma perché Smoker ha detto che forse arriveremo sani e salvi alla base?” ruppe il ghiaccio Usopp, disperato.
 
“Non lo so, Nasolungo-ya, e poco mi interessa. Mugiwara-ya, cosa dici?” chiese al Capitano dal cappello di paglia.
 
“Cosa dico?” Il morettino sorrise con l’espressione di chi aveva capito tutto. “Dico che si fa rotta verso la Fog End! Destinazione Guantanamo 51!”
 
Il Chirurgo sorrise di nascosto, ringraziandolo mentalmente. Chi meglio di un padre poteva capire un altro padre? Era come se quello scapestrato ventisettenne riuscisse a leggere nel profondo del suo animo la grande preoccupazione per la figlia che lo attanagliava nella sua ferrea morsa. Aveva sempre sottovalutato interiormente Cappello di Paglia, ritenendolo troppo ingenuo e impegnato ad ascoltare i lamenti del suo stomaco perennemente affamato per affrontare come si deve il tema sentimentale. Ma vedendolo ora, un poco cresciuto ma ancora così cerebralmente indietro da sporgersi dalla balaustra per vedere meglio degli sgargianti pesci e rischiare di cadere in acqua,  non poteva fare a meno di credere che le relazioni possono seriamente cambiare qualcuno.
 
Ne aveva avuto la piena conferma con Yuki, e questo era un dato di fatto. Nemmeno lui si sentiva più il vecchio Trafalgar Law e, per quanto gli mancasse affondare le mani coperte da guanti di lattice nei cadaveri ancora caldi di vita, la sua priorità era di proteggere quella piccoletta che l’aveva cambiato così radicalmente. Stessa storia per quell’animale del suo amante Eustass Kidd. Anche se con lui il rapporto non era così zuccheroso gli piaceva definirlo come una delle sue relazioni; sempre se insultarsi e tirarsi addosso bestemmie represse per poi finire a fare allegra ginnastica su una superficie di fortuna poteva definirsi tale. Si chiese cosa stesse facendo quell’idiota: dopo la visitina che gli aveva fatto sulla sua isola se n’era andato senza dire una parola, forse stroncato da quelle due paroline che, in realtà, aveva capito benissimo. Fu una voce femminile, enormemente imbufalita, a riportarlo alla realtà.
 
“Ma lo usi il cervello? E’ un carcere di massima sicurezza della Marina, come pensi di poterci entrare?!” gridò l’arancione sbatacchiando con forza il marito.
 
“Io sono entrato e uscito da Impel Down, ce la posso fare!” ridacchiò posandole un infantile bacio sulle labbra.
 
“Non attacca, idiota!” strillò infuriata colpendolo più volte sulla testa, mentre il piccolo Touya cercava rifugio dietro una delle gambe dello spadaccino.
 
Il moro sbuffò divertito, appoggiando la schiena alla balaustra e aspettando che tra i due sposini si calmassero le acque. Un giorno o l’altro avrebbe dovuto congratularsi con Nami per il suo coraggio ad aver affiancato nel matrimonio un pazzo come Mugiwara-ya. Era incredibile cosa un sentimento che lui riteneva effimero e marginale come l’amore riuscisse ad abbattere delle barriere che allontanano due persone. Diciamolo, Nami e Rufy erano due poli opposti. Ma aveva imparato a sue spese quanto il destino potesse essere imprevedibile.
 
“Nami-swan, sei bellissima quando ti arrabbi! Sposami!” esclamò il cuoco di bordo perdendo una consistente quantità di sangue dal naso.
 
“E’ già sposata, cuoco decerebrato.” gli rispose Zoro storcendo la bocca.
 
“Come ti permetti, idiota di un marimo?!” ringhiò fulminandolo con lo sguardo.
 
E anche questa volta Touya, impaurito, scappò e si nascose dietro la gamba del cyborg dai capelli azzurri. Trafalgar osservava segretamente divertito la scena. Sapeva perfettamente che se Yuki fosse stata con lui, sarebbe come minimo morta dalle risate. Era certo che, nonostante i cazzottoni in testa di Nami e le lagne di Usopp e Chopper, Rufy non avrebbe rifiutato di dargli una mano. Si sarebbe ripreso la sua bambina, a qualsiasi costo.
 
**
 
Le poderose nocche del Cacciatore Bianco si abbatterono tre volte, a cadenza regolare, sullo spesso portone ligneo. Sbuffò piccole nuvolette di fumo cinereo dalle labbra socchiuse, tanto per alleggerire quell’aria di tensione che gli opprimeva le membra. Non sapeva cosa ci faceva lì, davanti allo studio di quel cane pazzo; vedere Yuki, una bambina di appena otto anni, ridotta in quelle condizioni, farcita di droghe e invasivi medicinali vari, aveva scatenato in lui una farandola di emozioni poco amichevoli. Ma ora che si ritrovava prossimo ad esporre al capo supremo della Marina il suo profondo disaccordo, era attanagliato da una certa ansia. E, si sa, l’uomo di fumo non era famoso per la sua delicatezza.
 
Finalmente il cavernoso consenso di accesso arrivò e l’albino penetrò nella stanza, incrociando immediatamente quei malati occhi dal colore indefinito che lo scrutavano in ogni sua mossa. Se ne stava comodamente seduto sulla logora scrivania con le gambe accavallate e uno sghembo sorriso dipinto sul volto solcato da alcune profonde rughe. Smoker gli si parò spavaldamente davanti, incrociando le braccia al petto e degnandolo di uno dei suoi peggiori sguardi. Quanto avrebbe voluto sparargli un White Blow su quella testa ancora testardamente coperta dal cappellino bianco che riportava la scritta Marine.
 
“Allora, Smoker, a cosa devo questa piacevole visita?” domandò sarcastico il Grand’Ammiraglio.
 
“Sakazuki.” Lo chiamò grevemente per nome “Non pensavo ti spingessi a tanto. Sei disumano.”
 
“Cosa stai dicendo?” chiese l’altro grattandosi annoiato una guancia.
 
“Non fare il finto tonto, sai di chi sto parlando. Di quella bambina trattata come una criminale e sbattuta in cella.” spiegò digrignando i denti.
 
L’uomo dal vestito rosso lo squadrò da capo a piedi con un’espressione indecifrabile impressa sul viso. Alzò un sopracciglio e sbadigliò, nel tentativo di fargli capire quanto poco l’argomento gli interessasse quel tema di conversazione. Una vena ballerina comparve sulla sua fronte, sentore che la sua pazienza si stava velocemente esaurendo. E, si sa, l’uomo di fumo non era famoso nemmeno per la sua pazienza. Si chiedeva quanto ancora quello stupido gioco potesse andare avanti, per quanto tempo avrebbe continuato a ridergli segretamente in faccia. Quell’uomo non era degno di della carica che ricopriva. Si approssimò ancora di più al Grand’Ammiraglio, cercando di trattenersi dal pestarlo.
 
“Cosa vuoi che ti dica? Abbiamo cercato quel Demone per anni. Ora che ce l’abbiamo in mano non intendo lasciarlo scappare.” sentenziò aggiustandosi le maniche del completo.
 
“Un’istituzione come la Marina dovrebbe proteggere i deboli e gli indifesi come i bambini! Tu invece la stai torturando con un metodo che non servirà a nulla! Non vi darà mai il suo potere!” abbaiò il bianco afferrandolo per il colletto della camicia.
 
“Non ci darà mai il suo potere, eh? Vedremo.” affermò con un sorrisetto sadico.
 
Allungò una mano e con un gesto fulmineo aprì uno dei cigolanti cassetti della scrivania, prendendo sulla mano una piccola Den Den Mushi bianca dalle striature blu. Compose un numero attraverso la tastiera sul lato del guscio e se la avvicinò alle labbra, raggrinzite in un sorriso alquanto sghembo. L’albino lasciò la presa, confuso dal suo strano comportamento. Quell’uomo era completamente impazzito. Da quando aveva sconfitto Aokiji e aveva conquistato la supremazia all’interno dell’organizzazione, la sua mente era stata lentamente consumata dalla sete di potere, riducendo una gloriosa istituzione mondiale a un branco di soldati di professione svogliati ed amorfi ai quali interessava solo il bene del proprio portafoglio. Era diventato completamente pazzo e questo Smoker lo sapeva bene.
 
“Alle unità mediche. Triplicare il trattamento per il prigioniero 582092. Ripeto, triplicare il trattamento per il prigioniero 582092.” scandì, cercando di trattenere le risate.
 
“Tu sei pazzo, Sakazuki, sei pazzo. E’ una bambina di otto anni, non sopravvivrà mai!” gridò Smoker fuori di sé.
 
“Smettila di farneticare. Negli ultimi tempi stai iniziando a parlare come uno di quei Rivoluzionari pidocchiosi. Non ti ho nominato Ammiraglio perché tu mi tradisca, Smoker.” lo riprese Akainu agitando un indice in aria.
 
Non fece in tempo a controbattere, il Cacciatore Bianco, che un devastante pugnò si schiantò all’altezza del suo stomaco. L’onda d’urto generata dall’impatto lo sbalzò violentemente contro il muro, crepandolo. Percepì in bocca il ferroso odore del sangue, mentre vedeva il possente uomo avanzare lentamente verso di lui. Nei primi tempi la nomina ad Ammiraglio lo inorgogliva non poco. Se ne andava in giro tra i subordinati mostrando con fierezza il lungo e svolazzante cappotto immacolato appoggiato sulle massicce spalle. In seguito quell’entusiasmo scemò, non appena si rese conto di essere circondato non più da Marines con a cuore il bene dei civili ma da mercenari solamente interessati al proprio tornaconto e di essere comandato da un uomo la cui ragione era andata perduta. Solo una coraggiosa piccoletta dai capelli blu, ormai Vice Ammiraglio, continuava a seguirlo fedelmente. Il cane rosso si piegò sulla figura dolorante dell’Ammiraglio, ghignando.
 
“Abbiamo intercettato tutte le tue conversazioni con quel bastardo di Law. Sta venendo qui? Bene, lo accoglieremo a braccia aperte. O meglio, tu lo accoglierai a braccia aperte.” fece Sakazuki afferrandolo per il collo.
 
“B-Bastardo…” soffiò aggressivo l’albino.
 
“E’ un ordine. Uccidi Trafalgar Law. Tradiscimi ancora e io farò aprire le celle dello strato più basso di Impel Down solo per te.” sussurrò malefico al suo orecchio.
 
Smoker fu costretto ad annuire. Anche se detestava sottostare agli ordini di quel psicopatico di Akainu, era suo dovere eseguirli. Solo per un istante, il suo fermo animo da Marine vacillò e, per la prima volta, maledisse quel malato sistema ancora oggi chiamato Marina.
 
 
 
Din, don, pubblicità. :3
 
A.A.A Cercasi persona esperta (ma anche meno) per la realizzazione di un disegno inerente alla storia, data la mia poca familiarità con matite, colori, eccetera. Il sei in Arte e Immagine delle medie si fa sentire, osti.
Comunque, per chi fosse interessato può contattarmi tramite messaggio qui su EFP oppure su FacciaBuco.
Account FacciaBuco: Guendalina Tomlinson Salvafiorita (l’immagine di profilo è quell’opossum dai capelli castani con la felpa rossa di Law. <3)
Grazie per chi si prenderà questa briga. Vi adoro tutti.
bacissimi
Pineapple__ 

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Capitolo 13
*** Fireflies ***


Lascio la porta aperta come tentativo
Per favore portatemi via da qui
Perché soffro d’insonnia
Per favore portatemi via da qui
Perché sono stanco di contare le pecore?
Per favore portatemi via da qui
Quando sono davvero troppo stanco
Per addormentarmi tra dieci milioni di lucciole
Sono un tipo stano perché odio gli addii
Ho gli occhi pieni di lacrime
Quando la gente mi dice arrivederci.
-Owl City, Fireflies-
 
 
 
 
”Yuki…”
 
La bambina si voltò lentamente, timorosa di quello che le si sarebbe presentato dinanzi. La piccina dalla cadaverica pelle di porcellana era lì, che la osservava inespressiva, dal baratro senza fine dei suoi occhi. Anche l’ambiente che le circondava era oscuro, freddo.
 
“Cosa vuoi? Chi sei?”
 
”Sono io, sono Koori. E tu rimarrai sempre con me.”
 
La castana indietreggiò.
 
“No, io devo andare dal mio papà. Devo diventare un pirata e vivere mille avventure!”
 
”Sciocca. Le ho promesso che ti avrei protetta, e lo farò.”
 
“Lei chi?”
 
”Vieni con me e lo scoprirai.”
 
 “No! Scordati che verrò con te!”
 
La bimba dai lunghissimi capelli corvini scomparve e subito le riapparve di fronte, afferrandole sgraziatamente un polso. Immediatamente il braccio di Yuki si irrigidì e una spiacevole sensazione di gelo la percorse da capo a piedi.
 
”Tu verrai con me, che ti piaccia o no.”
 
“C’è già papà che mi protegge!”
 
”Ti ostini a dire questo, ma non è ancora arrivato.”
 
“Arriverà presto!”
 
”Testarda, come può amare una bambina che non è sua figlia?”
 
“Lui mi vuole bene!”
 
Il freddo aumentò d’intensità, tanto che la bambina dai capelli castani cominciò a tremare.
 
”L’hai voluto tu. Non volevo farlo ma sarò costretta a raccontarti tutta la verità.”
 
**
 
Il moro scrutava imperterrito l’orizzonte, per quanto fosse possibile. Un fittissimo banco di nebbia si estendeva interminabile intorno alla nave, accarezzandone lo scafo con i suoi leggeri e al contempo inquietanti sbuffi lattei. Pareva che le anime dei detenuti di quel misterioso carcere della Marina si fossero addensate attorno ad esso, impossibilitate a trovare il meritato riposo. Eternamente legate a quel mitologico luogo di sofferenza che, con il tempo, aveva sollevato leggende infondate come quella sopracitata. Era stato un autentico spasso vedere le espressioni atterrite di Usopp e Chopper non appena sentirono quell’angosciante storia. Mito o meno, non avrebbe mai lasciato di Yuki si unisse a quello stuolo di ectoplasmi sofferenti.
 
Erano ormai passati quindici giorni dal rapimento della sua bambina. Il calendario segnava precisamente il diciannove dicembre, ovvero sei giorni mancavano alla festa preferita dalla figlia: Natale. Ricordava divertito tutti quegli stucchevoli, forse per troppo per un tipo serio e cupo come lui, momenti natalizi passati insieme a lei; il tintinnare dei campanelli che la piccola si divertiva ad appendere per tutta casa, lo sfavillio delle ghirlande e del loro spelacchiato albero di Natale, il profumo invitante dei biscotti la mattina del venticinque. Erano tutti piccoli momenti che rimembrava con letizia e, chiudendo gli occhi, riusciva di nuovo a vedere il suo sorriso entusiasta mentre addobbava il salone e intonava a bassa voce, conscia che il padre non gradisse, quegli infantili canti natalizi. Scosse la testa e dischiuse di nuovo le palpebre, questa volta trovandosi davanti il capitano della Sunny che gli sorrideva a trentadue denti.
 
“Mugiwara-ya, la vuoi piantare? Mi farai prendere un infarto prima o poi.” sospirò esasperato spiattellandogli una mano in faccia nel tentativo di allontanarlo.
 
“I preparativi sono finiti!” esclamò agitando forsennatamente le braccia.
 
“Sul serio? Forza, allora, sono curioso di vedere il piano che mi avete tenuto nascosto per tutto questo tempo.” sogghignò il corvino lanciandogli un’occhiata di sfida.
 
Rufy lo afferrò entusiasta per il braccio e lo trascinò, impaziente di mostrargli il piano da lui stesso ingegnosamente creato. Che con il passare dell’età abbia acquisito qualche neurone in più? Pensandoci bene, negli ultimi giorni tutti i componenti della Ciurma di Cappello di Paglia si comportavano in modo strano e fin troppo schivo. Soltanto il piccolo Touya gli si avvicinava con la sua solita spontaneità, facendosi scoprire un bimbo allegro e con un grande appetito, tuttavia possedeva arguzia e intelligenza, unita a una spiccata dote di osservazione. Solo dopo aver attaccato al muro Usopp e avendolo costretto a cantare puntandogli la Nodachi alla gola, aveva scoperto che Luffy aveva un piano geniale in mente per infiltrarsi a Guantanamo 51 e ci teneva che fosse una sorpresa.
 
La maggior parte delle volte, però, l’euforia di Rufy era altamente pericolosa. Sbatté violentemente il ventre contro la balaustra, per poi fulminare il responsabile con lo sguardo. Non ebbe nemmeno il tempo per incazzarsi come si deve che una scena alquanto ridicola gli si presentò dinanzi. Vari materassi erano sparpagliati alla rinfusa per il ponte, completamente spogli e privi di corredo. Mentre gli altri erano impegnati ad accatastare i morbidi giacigli sull’erba, Nami e Robin, vestite in abiti particolarmente professionali e professionalmente succinti, provavano varie frasi che le facevano assomigliare a delle venditrici porta a porta. Puntò con il dito la grottesca cornice, solo riuscendo a boccheggiare parole sconnesse tra loro. Non era la prima volta che i Mugiwara gli facevano questo tipo di spiacevoli sorprese.
 
“Allora, ti piace? Robin, Nami e Usopp si fingeranno venditrici porta a porta di materassi mentre io, te, Sanji e Zoro scendiamo per il condotto fognario, arriviamo alle celle, prendiamo Yuki, meniamo un po’ le mani e scappiamo!” attestò fieramente il moretto.
 
“E’ una missione di salvataggio, idiota, dobbiamo fare meno confusione possibile. Sostituisci il Cuoco con lo Scheletro. Bah, che razza di piano cretino, sapevo che non avrei dovuto fidarmi di voi.” sbuffo passandosi esasperato una mano sul viso.
 
“Va bene! Ehi, Sanji, ti dispiacerebbe fare a cambio con Brook?” domandò catturando l’attenzione dei diretti interessati
 
Prima che il biondo potesse rispondere, la vocina di Touya proveniente dalla posizione di vedetta fece accalcare tutta la ciurma, ospite per primo, verso la prua della nave. Il moro aguzzò il glaciale sguardo, cominciando a intravedere un possente edificio che si stagliava in mezzo alla nebbia, arroccato su un altro altrettanto grande scoglio. Tutto taceva. L’unica cosa udibile erano i secchi scricchiolii che la nave produceva cullata dalle onde e la brezza che avvolgeva i dintorni nelle sue fredde spire. Approssimandosi ancora di più, notarono due alberi sempreverdi posti all’entrata principale della prigione e pure le loro fronde ondeggiavano quasi minacciose alle spazzate del vento.
 
Pareva proprio uno di questi mostri di cui, con timore, Yuki parlava per poi fiondarsi nel letto paterno in cerca di protezione. Solo che quello non era un’illusione, né una proiezione astratta della mente di una bambina spaventata dal sinistro e insistente picchiettare di un ramo contro il vetro della finestra. Era un mostro fatto di mattoni i cui alberi rappresentavano i lunghi denti che sporgevano dalle enormi fauci piegate in un malefico sogghigno, mentre la banchisa in legno per l’attracco delle navi sembrava esplicitare le lunghe e anchilosate braccia della creatura, pronte ad afferrare chiunque si trovi nel suo raggio d’azione per trascinarlo con sé in un limbo di oscura dannazione.
 
Entrate, provate a sfidarmi. Ma dubito che ne uscirete vivi.
 
Tutti gli occhi della ciurma si erano puntanti sul capitano degli Hearts. I denti perfettamente allineati del moro erano rabbiosamente digrignati, gli occhi impegnati a fissare con astio l’edificio che si approssimava sempre di più. Finalmente attraccarono alla scricchiolante banchina lignea e i partecipanti alla missione di salvataggio scesero frettolosamente dalla nave, cercando di produrre il minimo rumore possibile, alla stregua di ladri che si appropinquavano a compiere un efferato furto. Trafalgar strinse la Nodachi tra le grandi e callose mani. La sensazione che provava sulla pelle era viscida e stomachevole, pensando a cosa avrebbero potuto fare a Yuki durante quelle due settimane di separazione. Il pensiero che la sua bambina stesse soffrendo, da sola, lontana da suo papà e circondata da persone crudeli e senza cuore, gli faceva salire la bile al cervello.
 
Distolse lo sguardo dall’edificio. Non era assolutamente il momento per farsi sopraffare dall’ira che faceva pulsare in lui la voglia di piombare all’interno della prigione e operare una strage di qualunque essere senziente, galeotto o secondino che fosse, per poi recuperare la propria figlia e squagliarsela come se nulla fosse successo. Ma sapeva che non sarebbe andata così. Si incamminò seguito dagli altri componenti della squadra di soccorso, mentre Robin e Nami si avviavano verso la porta principale e Usopp arrancava sotto il peso dei numerosi materassi che recava sulla schiena. Raggiunsero un tombino che si trovava al lato del penitenziario. Il vomitevole stemma della Marina spiccava tra i rombi di lega metallica che lo formavano. Rufy si chinò e tentò, inutilmente, di scoperchiare l’accesso al condotto fognario. Provò pure a colpirlo con un pugno, ma fu prontamente fermato dalla mano di Law.
 
“Cretino, se gli dai una pugno e lo deformi poi è ovvio che non riusciremo più a sollevarlo.” riferì freddamente mollando la presa sul gommoso arto del Capitano.
 
Con un cenno della testa fece capire allo spadaccino dai capelli verdi di tagliare in due la coperchiatura del chiusino. Il verde annuì leggermente ed estrasse la sua Shuusui dall’atro fodero, preparandosi per scagliare un micidiale fendente. Il Chirurgo rimase a fissare per qualche secondo la tenebrosa lama della katana, domandandosi se anche lui avrebbe avuto occasione di utilizzare la sua arma. Una sciabolata raggiunse la spessa lastra tondeggiante, lacerandola esattamente a metà e lasciando che le due parti ottenute cadessero di sotto, tuffandosi nelle stagnati acque delle fognature. Un puzzo di marcio impregnò l’aria circostante costringendo i quattro a tapparsi il naso con espressione rigettata.
 
“Law-san… Dobbiamo per forza calarci qui dentro? Non c’è un’altra strada?” alitò Brook sbuffando contrariato.
 
“Ringraziate il vostro caro Capitano se vi trovate in questa situazione. Siete pirati, comunque, non fate le donnicciole e portate il vostro culo lì sotto.” intimò il moro quasi ringhiando.
 
“Qualcuno qui deve tenere a freno i suoi schizzi da donna mestruata.” sospirò a bassa voce Zoro calandosi dalla scaletta attaccata alla parete.
 
Raggiunsero finalmente il convoglio di quella fetida cloaca, nella quale il puzzo che aleggiava era quasi insopportabile. Le incrostate pareti verdine e una decina di paia di occhietti rossi che li fissavano dalla penombra, probabilmente appartenenti a dei roditori di passaggio, conferivano all’ambiente attiguo un’ambientazione da scadente film dell’orrore. Presero a camminare senza una meta precisa, ovviamente capitanati da Law, seguendo le opache frecce segnaletiche che conducevano alle vie di fuga del condotto fognario. Nessuno osava proferire parola e il silenzio assoluto spirava tra quei nauseabondi corridoi, solamente interrotti dal celere rumore dei loro passi e dalle saltuarie grida di qualche prigioniero apparentemente fustigato. Il moro strinse collericamente i pugni all’interno delle calde tasche; come avrebbe reagito, se si fosse veramente trovato davanti la sua Yuki con evidenti segni violenza gratuita sul corpo? Una mano lo afferrò per il cappuccio della felpa che sbordava dalla giacca, costringendolo a fermarsi.
 
“Guarda qui. C’è scritto…” cominciò Zoro.
 
“Ingresso celle. Siamo arrivati.” lo interruppe il Chirurgo, deglutendo sonoramente.
 
La tensione tra i tre pirati aveva quasi formato una cortina di nebbia simile a quella esterna all’edificio, tanto era spessa e tangibile. Solo quel babbeo di Rufy continuava a mantenere alto lo spirito positivistico della squadra, con quella sua faccia gommosa tirata in un intrepido sorriso. Trafalgar afferrò il primo piolo della scala e si issò fino a raggiungerne la sommità, allungando l’istoriata mano per testare se almeno quel tombino fosse docile all’apertura senza prevedere metodi violenti. Incredibilmente, il chiusino si aprì solo con una leggera pressione delle appendici. Lo scostò ed uscì in superficie, facendo cenno ai suoi compagni di darsi una mossa ed uscire dal buco. Era sollevato di respirare un po’ di aria fresca che, se fresca si poteva chiamare, era sempre meglio di quel ripugnante odore di uova marce delle fogne. Un altro macabro scenario gli si presentò dinanzi, il quale gli fece per un effimero attimo rimpiangere le sedimentate pareti della cloaca. Un unico colore, il grigio, si estendeva a perdita d’occhio davanti ai suoi occhi. Innumerevoli celle poste ad alveare erano dislocate in fila perfetta su vari livelli, come fosse una scacchiera. Dagli angusti e spogli vani provenivano disperate grida dei prigionieri seviziati da dei sadici Marines. Era deciso che Yuki non sarebbe rimasta un secondo più a lungo in quel crudele inferno.
 
Si assicurò che i suoi compari fossero usciti dal tombino prima di richiuderlo, lasciando una piccola apertura per quando avessero dovuto scappare. Cominciarono a correre il più silenziosamente possibile, evitando sguardi indiscreti di guardie o prigionieri e, quando qualcuno riusciva a vederli, Brook li addormentava con il suo violino prima che essi riuscissero a chiamare i soccorsi. I Mugiwara non avevano assolutamente idea di dove fosse stata rinchiusa Yuki, semplicemente seguivano il Capitano degli Heart. Dal canto suo, il Chiruro, sembrava sapere perfettamente in che direzione recarsi. Non riusciva a distinguere se fosse semplicemente intuito oppure i suoi istinti paterni completamente all’erta durante ricerca della figlia gli mostrassero, alla stregua di un radar, la posizione della figlia. Sentiva solo che doveva accelerare ancora, ancora. Sentiva che la sua bambina stava soffrendo non poco, percepiva il suo pianto interiore, anche se nell’aria non risuonava nessun rumore riconducibile al gemito di quella sventurata creatura.
 
Si fermò repentinamente, percependo una familiare sensazione di intenso freddo. Fece cenno agli altri di fermarsi, mentre lui avanzava solitario verso una cella in particolare. Un tremito lo percorse da capo a piedi, squassandolo nel profondo; da quella nicchia scavata nella roccia, trapelavano appuntiti ghiaccioli cinerei. Era come una fortezza, protetta da individui malvagi attraverso drastici sistemi di difesa. Vi si precipitò dinanzi e lo spettacolo che si parò davanti ai suoi occhi era… orribile; una vera e propria foresta di acuminati coni di ghiaccio ricopriva interamente le pareti pietrose. Ma il particolare più inquietante era che varie parti umane, probabilmente appartenenti a Marines, erano infilzate su quei glaciali puntigli, macchiandoli di sgargiante liquido cremisi. In mezzo alla stanza, dove un piccolo stralcio di pavimento era stato risparmiato, giaceva lei… Yuki. Gli occhi serrati e un’espressione fin troppo rilassata sul viso. Dalla sua posizione Law non riusciva a scorgere il flebile alzarsi e abbassarsi della gabbia toracica della piccola, né gli smorzati tremolii che percorrevano il corpicino diafano e nudo, imbrattato da importanti segni di percosse.
 
“Yuki.” la chiamò, tentando di mantenere un tono di voce saldo “Yuki, sono papà. Alzati.”
 
Il Chirurgo si sentì morire il fiato in gola, vedendo la mancata risposta della figlia. Se ne stava lì, semplicemente immobile. Cadaverica. Strinse furiosamente le sbarre tra le callose mani, ferendosi con l’appuntito ghiaccio. Scosse violentemente la testa. Non voleva crederci. Solo stringendo al suo petto l’inerme corpicino della figlia e costatando che davvero l’aveva lasciato si sarebbe arreso all’evidenza che il lavoro di padre l’aveva solo condotto alla rovina emotiva. Ma non si poteva arrendere proprio in quel momento. L’avrebbe salvata ad ogni costo. Richiamò Room e, con un fendente ben assestato, si aprì un varco all’interno della cella. Impudente, camminò sopra le aguzzate stalagmiti, digrignando i denti sentendole bucare la suola degli stivali e conficcarsi come famelici denti nella pianta del piede. Avanzò imperterrito, non curandosi dei lancinanti dolori, deciso a riprendersi la sua bambina. Per troppo tempo erano stati separati ed ora che era a pochi centimetri da lei non si sarebbe certamente lasciato intimorire da delle ferite. Quelle si sarebbero curate, più o meno facilmente, ma non esisteva una cura per un animo lacerato. Anche un tipo freddo e refrattario come lui lo sapeva.
 
Finalmente la raggiunse e le se inginocchiò di fianco. Ancora una volta ebbe quella sgradevole sensazione di umido agli occhi, mentre si toglieva con cura la giacca e vi ci avvolgeva il corpicino impotente della bambina. La prese, finalmente, dopo tanto tempo, in braccio e la strinse con dolcezza a sé, constatando che era ancora viva. Le passò una mano tra i fibrosi e scoloriti capelli castani, non più brillanti come una volta, accarezzandoli con innata premura. Si chiese che razza di padre fosse, permettere a degli sconosciuti di far del male alla propria figlia. Quella creatura che ogni giorno lo svegliava ad un orario indecente con il suo contagioso sorriso ora era lì, stretta tra le sue braccia, inerme spettatrice e innocente cavia di uomini senza scrupoli che avrebbero dovuto rappresentare la giustizia. Oscillava, Yuki, tra la vita e la morte,  e la colpa di tutto era innegabilmente riconducibile a suo padre. Le posò un delicato bacio sulla fronte, scoprendola estremamente calda. Si alzò in piedi, cullandola con estrema dolcezza, come quando, da piccola, aveva bisogno delle protettive braccia del suo papà per sentirsi al sicuro e protetta. Quella protezione che Law si era solamente illuso di offrirle. Ma non avrebbe mai permesso che quelli fossero solamente bei ricordi della sua Yuki. Yuki avrebbe continuato a vivere. Sarebbero usciti insieme, dalla pancia di quel mostro di pietra.
 
“Non ti preoccupare, Yuki, ora papà è qui. Non lascerò più che ti facciano del male.” le sussurrò sfregando delicatamente la punta del naso contro la smunta guancia della bimba.
 
Retrocesse con artificiosa lentezza, procurandosi nuove ferite ai piedi. Questa volta non riuscì a percepire assolutamente nulla, nemmeno il più flebile pizzicorio, troppo impegnato ad osservare con muta disperazione il flebile alzarsi e abbassarsi spasmodico del diaframma del tremante corpicino acciambellato contro il suo scolpito petto. Avrebbe pagato qualunque cifra per rivedere quei brillanti smeraldi posarsi allegramente sul suo impassibile viso, per sentire due piccole braccia allacciarsi alla sua gamba anche solo in cerca di una fugace carezza sull’ondulata chioma castana. Ma era cosciente, in cuor suo, che la possibilità che questo non potesse più accadere era tutt’altro che remota. Finalmente fuori da quell’inferno di ghiaccio e sangue, incontrò lo sguardo degli altri membri della squadra. Si erano approssimati fino a raggiungere l’entrata della cella, senza osare avventurarsi oltre la soglia; erano consapevoli che il Chirurgo della Morte l’avrebbe considerato un gesto invadente. Il moro alzò gli occhi, incontrando per primi quelli del Capitano dei Mugiwara. Aveva assunto un’espressione alquanto insolita per un ragazzo perennemente gioviale come lui; era corrucciata, adirata, i denti lievemente digrignati. Il moretto allungò una mano e passò gentilmente le dita gommose tra gli opachi filamenti cioccolato della bimba. Bastò una fuggevole occhiata e i due capirono al volo quello che avrebbero dovuto fare ora. In fondo, tra padri ci si intende all’istante.
 
“Andiamo via da qui.” proferì Rufy ammiccando al punto da cui erano partiti.
 
“Non così in fretta.”  asserì una voce maledettamente familiare proveniente dall’alto.
 
Merda. Non poteva essere lui, non di nuovo. Perché proprio mentre stava tutto andando per il meglio, doveva spuntare fuori quel sadico invasato del loro nemico. Era come un pescatore alle prese con un pesce fin troppo combattivo; gli dava lenza per poi ritirarla tutta d’un colpo. Un voluminoso e massiccio corpo atterrò dinanzi a loro, scatenando una reazione difensiva nei confronti della squadra di salvataggio. I due spadaccini impugnarono celeri le loro armi, mentre Rufy fu lesto a preparare un pugno allungabile da sparare in caso di attacco. Law fu l’unico che, ringhiando e lanciando frecciatine omicide verso il loro bersaglio come farebbe un lupo messo alle strette, non si preparò alla battaglia. Sapeva che combattere mentre recava in braccio una bambina di otto anni in quello stato non avrebbe fatto altro che rallentare i suoi compagni o, nel peggiore dei casi, mettere a repentaglio la già in bilico vita della figlia. La figura si rizzò in piedi e, seppur avvolto da una consistente penombra, riuscirono a scorgere il bieco ghigno aperto sul volto del biondo. Una sensazione di collera e disgusto attanagliarono le membra dell’uomo dalla scura felpa al cui centro spiccava il Jolly Roger della propria ciurma non appena lo sguardo protetto da bizzarre lenti rosse scivolò sul fagotto che teneva tra le salde braccia. Un risolino maniaco fuoriuscì dalle labbra distese, mentre si sistemava con cura la montatura sul naso.
 
“Dove pensate di portare la nostra più preziosa prigioniera? Ci eravamo divertiti tanto insieme.” domandò scaricando il peso corporeo sulla gamba sinistra.
 
“La portiamo via, idiota di un Min-” gridò infuriato il morettino prima di essere interrotto dall’istoriata mano di Law.
 
“Cosa le hai fatto, miserabile bastardo?” chiese assottigliando aggressivo lo sguardo.
 
Di rimando, Doflamingo esplose in una fragorosa e sguaiata risata che risuonò in ogni oscuro meandro della prigione, la lingua lasciata penzolare da un lato della bocca. Fu in quel momento, quando sentì l’indecente risposta del fenicottero, Trafalgar capì. Capì di essere arrivato troppo tardi. Che tutto quello che aveva sperato non accadesse era accaduto. Quel mostro aveva osato strappare con così tanta animalesca brutalità la purezza della sua bambina. Yuki, inaspettatamente, reagì allo stimolo esterno del rumoroso sghignazzo, lasciandosi scappare un flebile singulto dalle labbra livide. Il padre assisteva impotente a quella straziante scena, domandandosi che colpa mai quella frugoletta avesse dovuto avere per essere capitata ad un tipo come lui. Avrebbe dovuto lasciarla su quella spiaggia, accompagnata da quel freddo pungente che piano piano l’avrebbe cullata verso il sonno eterno. E invece no. Si era comportato egoisticamente, trascinando quella innocente creatura in una farandola di situazioni di gran lunga più grandi di lei. E, in quel momento, stava maledicendo sé stesso, Doflamingo e il mondo intero; aveva sperimentato sulla sua pelle il dolore, le amare lacrime e il pesante corpo del fenicottero che gravava sul suo. Infilò cautamente una mano all’interno delle pieghe che il cappotto arrotolato formava, arrestandosi soltanto quando trovò una piccola, gelida appendice, alla quale si ancorò saldamente, accarezzandone il dorso con premura.
 
In un inaspettato impeto di rabbia il Chirurgo si voltò verso i compagni, i quali continuavano a capirci poco e niente della situazione ma ben edotti sul da farsi; dovevano andarsene prima che fossero arrivati i rinforzi. Il moro camminò a passi estremamente pesanti verso lo spadaccino dai capelli verdi, assicurando la piccola tra le nerborute braccia dell’uomo. Zoro alzò gli occhi al viso dell’uomo leggendoci sopra la più glaciale e seria determinazione. Deglutì, spostando lo sguardo in cerca di conferme verso Rufy e Brook, mentre stringeva goffamente quel fagottino tremante. Era certo che quel cuoco di merda avrebbe riso di lui se fosse venuto a sapere della situazione in cui Trafalgar l’aveva cacciato. Improvvisamente l’uomo dal cappello maculato si voltò di scatto, sfoderando rapidamente la lunga spada che si portava appresso. Aveva deciso che avrebbe regolato i conti ora, con quel bastardo di un fenicottero. La scoperta di pochi minuti addietro era stata la famosa goccia che fece traboccare il vaso. Non avrebbe mai permesso che qualcuno come quel mostro rosa camminasse ancora su quella terra. Cappello di paglia mosse un passo in avanti e strattonò Law per una manica del lungo cappotto nero, incuneando i suoi vispi occhioni neri in quelli del compare, così fottutamente collerici ed iracondi. Non avrebbe permesso che quella sfortunata bambina restasse senza qualcuno disposto a rimanerle a fianco. Intanto lo Shichibukai osservava divertito quel teatrino così commovente e così dannatamente inutile.
 
“Andatevene, di lui mi occupo io. Voi assicuratevi di portare subito Yuki fuori da qui.” intimò liberandosi dalla presa del ragazzetto di gomma
 
“No, Torao! Avevi detto che saremo usciti senza combattere! Non puoi restare qui, non puoi abbandonare Yuki proprio ora che l’hai ritrovata!” gridò Rufy assumendo un’espressione da bambino al quale erano state negate le caramelle.
 
“Andate via.” ringhiò tenendo la lama della Nodachi fissa contro il suo obbiettivo principale.
 
Il Capitano dei Mugiwara, infuriato per la testardaggine del suo amico, scaraventò contro in muro un violento pugno, mandandolo in frantumi. Dopo quella fugace scenata isterica che sarebbe stata riconducibile a una di quelle del suo amate, Law trattenne a stento un sospiro di sollievo percependo il rumore dei passi che si allontanavano celeri dalla sua posizione. In quel momento, finalmente, si trovarono faccia a faccia. L’uno per riprendersi l’oggetto del suo interesse, l’altro per vendicare le atrocità compiute da quel soggetto su di lui e su sua figlia. Ogni secondo che passava sentiva crescere in lui la voglia di sgozzare quel pennuto, l’immagine del biondo con la carotide gocciolante di denso liquido carminio che gli imbrattava gli abiti sgargianti era fissa nella sua mente. Non avrebbe più permesso che quel pazzo torcesse anche un solo capello alla sua Yuki. Era arrivato il tempo di mettere fine a quella faida durata anni. Ma nessuno dei due fece in tempo a fare una mossa, che qualcosa di non identificato comparve framezzo loro. Una sorta di densa nuvola cinerea che piombò con tonfo sordo sulla pavimentazione di pietra. Per entrambi i contendenti la visuale fu dimezzata, fin quando quella corposa coltre non cominciò a compattarsi e a solidificarsi, formando una alta e massiccia figura antropomorfa.
 
“Fufufu. Hai deciso di farti vivo, allora.” lo punzecchiò Doflamigo con un sorrisetto sornione.
 
“Tu… Che ci fai qui?” domandò scioccato il pirata nel veder apparire un lungo cappotto bianco tremendamente familiare.
 
L’uomo aspirò avidamente i due sigari saldamente stretti fra le carnose labbra. Braccia e gambe secernevano copioso fumo, sospingendo il tabarro malamente appoggiato sulle larghe spalle. Il Jitte era stretto nella mano destra e gli occhi color caramello dell’Ammiraglio erano stizzosamente puntati sullo stesso obbiettivo al quale il Chirurgo anelava. Che cosa significava questa teatrale entrata in scena di Smoker? Che, nonostante l’ordine impartitogli da Sakazuki in persona, si fosse schierato dalla sua parte per proteggere quella piccoletta che ora stava cercando disperatamente di scappare insieme a tre noni della ciurma di Cappello di Paglia? Gli pareva assolutamente impossibile, dato il suo quasi maniacale attaccamento a quella istituzione chiama Marina Militare, eppure il suo sguardo era così spaventosamente serio ed imperscrutabile. L’aveva personalmente saggiato durante il suo soggiorno a Punk Hazard, quanto fosse testardo l’Ammiraglio riguardo ad avvenimenti che lo interessassero davvero. Lo affiancò con un sorrisetto sornione dipinto sullo smunto viso, lanciando un’occhiata complice all’alta figura al suo fianco. Questa, per tutta risposta, e nemmeno degnandolo di un singolo grugnito o semplicemente di una semplice occhiataccia che il Cacciatore sovente gli riservava, si limitò a spingerlo indietro servendosi del lato dell’arma.
 
“Non se ne parla, Chase-ya, combatto anche io!” protestò Law stringendo infuriato i pugni.
 
“Vuoi davvero rischiare di lasciare Yuki senza un padre? Se ammazza me non succederà nulla, ma se tu schiatti in questo scontro Yuki si ritroverà sola al mondo! E’ questo che vuoi, Law?!” latrò stringendo i denti.
 
“Io non morirò! L’ho promesso alla mia-”
 
Non riuscì a finire la frase che gli stizzosi occhi del Marine si staccarono dalla ghignante figura del fenicottero, per poi posarli sul contratto volto del pirata. Le sue iridi melliflue fremevano di rabbia e il Capitano degli Hearts, forse, riuscì ad intendere perché il Marinao fosse in uno stato di così profondo furore; nonostante fosse indignato per la fine che quella disgraziata creatura avrebbe potuto fare all’interno di Guantanamo 51 si sentiva tremendamente angosciato nel disobbedire a quell’associazione alla quale era stato fedele per tutta una vita, mirando a degli ideali di giustizia e di pace poi estinti con la salita al potere di un pazzo che solamente pensava ad eliminare il problema dei pirati, pronto pure a coinvolgere innocenti civili. Il vecchio era parecchio combattuto, glielo si leggeva tra le piccole rughe agli angoli di occhi e bocca. Il pirata, amareggiato e sconfitto, gli volse le spalle e cominciò a correre a perdifiato evitando diversi cadaveri di Marines stesi a terra con degli evidenti tagli insanguinati che spiccavano sulla divisa immacolata. Sicuramente Zoro era passato di lì. Maledisse e ringraziò, in contemporanea, quel pazzo di Smoker che, seppur probabilmente a costo della sua stessa vita, gli aveva regalato la possibilità di tornare da sua figlia sano e salvo. Non avrebbe mai voluto, ma doveva effettivamente dargli ragione; non poteva abbandonare Yuki. Lei, ora, era la priorità. Voltò indietro lo sguardo un’ultima volta, vedendo scomparire le due sagome in lontananza.
 
“Cosa pensi di fare, Smoker-kun? Usare la tua carica di Ammiraglio per sconfiggermi e vendicare la piccola Yuki?” sogghignò Doflamingo anchilosando le dita, pronto all’attacco.
 
Il bianco mise mano alla propria spalla e, con un gesto secco, rimosse il lungo e sfarfallante cappotto candido. Lo gettò quasi con ferocia a terra, per poi calpestarlo senza pietà, un gesto che lasciò di stucco persino l’uomo dalla voluminosa pelliccia rosa. Con quell’azzardato gesto, il White Chase aveva tranciato di netto la sottile corda che lo teneva ancora ancorato a quel sistema malato del quale, una volta, egli faceva parte. E, presumibilmente, anche una certa bamboccia dai capelli blu l’avrebbe seguito nel suo viaggio da ribelle. Puntò nuovamente il Jitte contro il biondo, partendo all’attacco grazie al fumo emanato dalle gambe che lo fece schizzare verso il nemico come un razzo.
 
”D’ora in poi, creerò io la mia giustizia!”

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