Always and forever

di xX__Eli_Sev__Xx
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12 ***
Capitolo 13: *** Capitolo 13 ***
Capitolo 14: *** Capitolo 14 ***
Capitolo 15: *** Capitolo 15 ***
Capitolo 16: *** Capitolo 16 ***
Capitolo 17: *** Capitolo 17 ***
Capitolo 18: *** Capitolo 18 ***
Capitolo 19: *** Capitolo 19 ***
Capitolo 20: *** Capitolo 20 ***
Capitolo 21: *** Capitolo 21 ***
Capitolo 22: *** Capitolo 22 ***
Capitolo 23: *** Capitolo 23 ***
Capitolo 24: *** Capitolo 24 ***
Capitolo 25: *** Capitolo 25 ***
Capitolo 26: *** Capitolo 26 ***
Capitolo 27: *** Capitolo 27 ***
Capitolo 28: *** Capitolo 28 ***
Capitolo 29: *** Capitolo 29 ***
Capitolo 30: *** Capitolo 30 ***
Capitolo 31: *** Capitolo 31 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Always and forever
 
 
CAPITOLO 1
 
Respiro l’aria di New York attraverso il finestrino dell’autobus. Sono le due del pomeriggio di un sabato di aprile e sono appena cominciate le vacanze Pasquali. Al college a cui mi sono iscritta, Queens College, potrei tornare a casa praticamente tutti i week-end, perché è  molto vicino a dove abito. Dato che mio padre lavora praticamente ogni domenica, torno a casa solo per le vacanze e per i fine settimana in cui è a casa dal lavoro. È circa cinque mesi che non torno, ma adesso, per due settimane, potrò rimanere qui. Al college studio Lingue straniere e devo dire che adoro, per la prima volta, ogni materia che studio. Ho anche potuto sviluppare la mia passione per la scrittura, anche grazie ad un professore di scrittura creativa che mi incentiva dandomi sempre nuovi esercizi, anche se non frequento il suo corso.
 
L’autobus mi lascia davanti a Central Park. Scendo con la borsa e il pesante zaino e attraverso la strada, diretta verso il laboratorio della scientifica.
Prima di entrare al laboratorio, decido di passare per la stazione di polizia a salutare Don. Stiamo insieme da tre anni e tra due giorni sarà il nostro anniversario, dato che non lo vedo da un po’ volevo fagli una sorpresa tornando due giorni prima. Entro nella centrale e saluto due agenti, che vedendomi e riconoscendomi si fermano per domandarmi come procede la mia vita al college. Rispondo che è tutto bellissimo e chiedo se Flack è qui o se sta facendo un giro di pattuglia. Non sarebbe strano, si offre sempre volontario, preferisce l’azione al lavoro in ufficio.
Entrambi mi indicano l’enorme salone oltre la porta. Quando mi sporgo lo vedo seduto alla sua scrivania. Mi dà la schiena, perciò ne approfitto per fargli uno scherzo. Mi avvicino e quando sono a pochi centimetri da lui, gli copro gli occhi con le mani. Lui poggi la penna sulla scrivania.
«Mani in alto.» dico dolcemente. Sento che sul suo volto si dipinge un sorriso. Quando si volta e io scosto le mani dai suoi occhi, si alza e mi abbraccia, sollevandomi da terra.
«Lena!» dice, visibilmente felice di vedermi.
«Ciao, Don.» lo saluto. Appoggio le mie labbra alle sue, che si chiudono in un bacio.
«Che ci fai qui?» mi domanda. Io sorrido.
«Volevo farti una sorpresa, così sono tornata con due giorni di anticipo.» spiego sorridendo, credo di esserci riuscita.
«Sono così felice.» mi dice abbracciandomi ancora. Vorrei restare qui, ma vedo che sta entrando un uomo ammanettato. È lui che si occupa degli interrogatori, perciò decido di salutarlo e lasciarlo al suo lavoro.
«A che ora finisce il tuo turno?» chiedo.
«Alle nove.»
«Passi da me?» domando speranzosa, voglio passare del tempo con lui. Annuisce e mi dà un bacio sulla guancia.
«Vai da Mac, sarà contento di vederti.» mi consiglia. Annuisco, poi lo saluto e mi dirigo alla scientifica. Non è lontano da lì, perciò cammino lentamente per assaporare l’aria di New York.
Quando entro saluto la ragazza della reception che mi porge il mio tesserino visitatori. La ringrazio e dopo una breve conversazione sul college, dal quale tutti sembrano ossessionati, salgo al secondo piano prendendo le scale. Decido di andare nell’ufficio di Jo, lasciando quello di mio padre per ultimo.
Nel tragitto incontro tutti i miei amici, Danny, Sheldon, Adam e Lindsay. Ci scambiamo abbracci e baci veloci, prima che loro debbano tornare al lavoro. Promettono che se dovessero incontrare Mac, non diranno di avermi visto, così che la mia sorpresa “funzioni”.
Quando arrivo davanti all’ufficio di Jo, busso. Quando mi vede, sul suo viso si dipinge un enorme sorriso, mi fa cenno di entrare e poi mi viene incontro.
«Lena! Cosa fai qui?» mi domanda stritolandomi in un abbraccio «Non dovevi arrivare lunedì?»
«Sì, ma ho deciso di farvi una sorpresa.» spiego, facendole l’occhiolino. Lei annuisce e poi scioglie la stretta.
«Ma guardati!» esclama «Sei cresciuta e sei cambiata tantissimo.»  mi dice osservandomi meglio.
Ed è vero, in parte. I capelli si sono allungati parecchio, così li ho raccolti in una lunga treccia e sono anche cresciuta di qualche centimetro, adesso accentuato del fatto che porto degli stivali con qualche centimetro di tacco, regalo di Jo. Porto sempre l’apparecchio per l’udito all’orecchio destro, che adesso è molto visibile, dato che ho i capelli raccolti. Mi capita di non sentirci bene, ma ormai ci sono abituata.
Inoltre, da qualche mese ho ricominciato a truccarmi. Non la considero una cosa fondamentale, ma per il ritorno ho deciso che fosse una cosa carina. Non pensavo lo notasse, ma forse ho sottovalutato la perspicacia della detective che mi sta davanti, infatti mi ricopre di complimenti e domande sul college per circa cinque minuti, fino a che non la interrompo.
«Mac è in ufficio?» domando.
«Si, come sempre.» conferma. La saluto, promettendole che a cena risponderò a tutte le sue domande. Salgo al piano di sopra. Raggiungo a grandi passi l’ufficio di Mac, salutando alcuni sui colleghi, di cui non ricordo il nome, che mi sorridono calorosamente.
Busso. Con la testa china su un fascicolo, com’è solito fare, mi invita ad entrare. Quando mi richiudo la porta alle spalle, alza la testa per vedere chi ha varcato la soglia del suo ufficio.
Quando mi vede sorride e si alza dalla sedia venendomi incontro. Mi abbraccia forte e mi scocca un bacio sulla guancia. Io rido, felice di poterlo riabbracciare.
«Lena! Ti aspettavo lunedì.» esclama felice. Mentre mi abbraccia mi solleva da terra e mi fa fare una piccola giravolta: adoro quando lo fa, mi fa sentire speciale.
«Lo so, ma volevo farti una sorpresa.» dico.
«Ci sei riuscita.» mi assicura, mettendomi a terra. Mi sorride ancora e non posso fare a meno di ricambiare. Mi accarezza la guancia e i nostri sguardi si incatenano. Jo mi ricorda spesso che prima che io e mio fratello James, morto ormai da due anni, arrivassimo qui, Mac non sorrideva quasi mai. Ha cominciato a farlo dopo aver scoperto che ero sua figlia. E, sinceramente, la cosa ha reso felice anche me. Ci separiamo e poso lo zaino e la borsa accanto al divanetto. Mi siedo e dopo aver risposto ad altre domande sul college, aspetto che finisca il suo lavoro, per poter tornare a casa. Non vedo l’ora di dormire nel mio letto.
 
Io e mio padre decidiamo di uscire a cena con Jo e Don. Ci avviamo verso la pizzeria, dove Flack ci aspetta, alle 19.30. Arriviamo e lui è già davanti all’ingresso. Quando ci vede ci sorride e saluta con un cenno della mano. Gli vado incontro, superando mio padre e Jo. Lo abbraccio e gli scocco un bacio sulle labbra.
«Ehi.» mi saluta.
«Ehi.»
«Sei bellissima.» mi sussurra all’orecchio. Io lo bacio sulle labbra.
«Mi sei mancato.» sussurro.
«Adesso basta, ragazzi.» ci rimprovera mio padre.
Io e Don sorridiamo, ci scambiamo uno sguardo complice e con le dita intrecciate entriamo in pizzeria, seguendo Mac e Jo, anche loro mano nella mano.
Entriamo e durante la cena mi raccontano ciò che mi sono persa durante la mia assenza. Lindsay è incinta e Lucy è felicissima dell’arrivo di un nuovo fratellino o sorellina. Adam ha trovato una ragazza, lavora al laboratorio e adesso sono sempre insieme. Sono davvero felice per lui. Tutti gli altri stanno bene. Spero di rivederli presto e di riuscire a parlare con loro per più di due minuti.
«Come va la tua vita al college?» mi chiede Jo.
Io annuisco. «Bene. Adoro le lezioni e i compagni sono simpatici.»
Racconto delle lezioni, dei miei amici della mia compagna di stanza, Margaret, che ormai è diventata la mia migliore amica. Alla fine della serata, mi sembra di non essere mai partita. Mi piace il college, ma essere di nuovo a casa è davvero bellissimo.
 
Quando torniamo a casa, chiedo a Mac se il giorno dopo potremo andare al cimitero, da mio fratello. Lui annuisce e mi sorride. Sa quanto mi manca. Mi prende la mano e insieme saliamo le scale. Quando entriamo nell’appartamento vedo che ci sono degli scatoloni accatastati per tutta la casa. Mi volto stupita verso mio padre. Che Jo abbia deciso di venire a vivere qui? Poi noto che molti soprammobili sono spariti.
Ok, sono perplessa.
Mi volto e gli rivolgo uno sguardo interrogativo.
«Ascolta…» comincia, schiarendosi la voce «Io e Jo abbiamo deciso di trasferirci.» mi dice. Continuo a non capire.
«Quindi avete deciso di andare a vivere insieme, finalmente?» ribatto, ironica.
Lui mi guarda e poi scoppia a ridere. «Come sarebbe a dire finalmente?» chiede, facendo finta di essere offeso.
«Bè, considerando che state insieme da almeno due anni, era ora.» esclamo.
Lui annuisce. «Ok, forse hai ragione.»
Per un momento credo che vogliano abbandonarmi qui e andarsene, poi, per fortuna, mio padre continua.
«Ovviamente, avrai una stanza tutta per te.» mi lascio sfuggire un sospiro di sollievo e lo abbraccio di slancio. «Abbiamo pensato che dopo tutto ciò che è successo fosse meglio andarsene da qui. Ovviamente doveva essere una sorpresa. Lunedì ti avrei portata alla villetta che abbiamo scelto. Ma il mio piano è saltato.» io rido e anche lui fa lo stesso. «Dato che sei qui, puoi inscatolare tu stessa la tua roba.» mi dice. Sorrido ancora e mi avvio verso la mia camera. Vari scatoloni sono già pieni, non avrò molto lavoro da fare, comunque, comincio.
La roba di James l’avevo già inscatolata dopo la sua morte, perciò non resta che portarla via.
Immagino che questo sia il segno che un nuovo capitolo della mia vita sta per cominciare.
 
ANGOLO DELL’AUTRICE
Ciao a tutti! Rieccomi qui. Dopo aver superato blocchi dello scrittore, mancanza di idee e carichi di compiti, finalmente riesco a pubblicare il primo capitolo della mia storia, seguito di “Little pieces of my life”.
Spero tanto che vi piaccia!
Fatemi sapere!
Un bacio, Izzy, xX__Eli_Sev__Xx

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Always and forever
 
CAPITOLO 2
 
Come promesso, domenica mattina alle nove siamo già nella nuova casa.
Il termine “grande” è decisamente riduttivo. Questa casa è davvero enorme, ancora più grande di quella in cui vivevo a Sacramento. Ovviamente è su due piani e ha due giardini, uno sul retro e uno davanti.
L’atrio al piano inferiore è davvero grande e da lì si possono raggiungere la cucina, il salotto, il bagno e la lavanderia. Al piano di sopra ci sono le camere da letto e un altro bagno. Esploro la casa, mentre Jo e mio padre entrano con alcuni scatoloni.
Dato che il trasloco è già stato effettuato, devo solo sistemare le mie cose e tutto sarà perfetto. Salgo seguendo Mac che mi mostra la mia stanza e poi comincio a sistemare le fotografie, i libri, i vestiti e preparo il letto per questa sera. Quando finalmente tutti i soprammobili sono sistemati e la camera è pronta, mi avvicino alla finestra.
Osservo il piccolo quartiere in cui vivremo da adesso in poi. Alcuni bambini giocano per strada dato che le auto passano di rado. Ridono e si lanciano il pallone entrando nei giardini dei vicini senza fare caso alle aiuole e alle auto.
La nuova villetta è a qualche chilometro dal centro, in una zona residenziale, perciò per andare in città, dovremmo prendere la macchina. E considerando che per il mio diciannovesimo compleanno il regalo di mio padre e dei miei amici del laboratorio è stata una macchina, non mi dispiace che sia lontana dal centro. Perlomeno potrò guidarla, qualche volta.
 
Alle 20.00, tutti in nostri amici arrivano. Avevamo promesso loro una cena, così, li abbiamo invitati questa sera. Il grande tavolo della cucina è stato preparato di me e Jo da più di un’ora. Tutti e tre abbiamo contribuito a preparare la cena, non è niente di che, ma per una cena tra amici è perfetto. Arrivano quasi tutti insieme, Lindsay, Danny e Lucy, Adam insieme a Sheldon e Sid, Flack e subito dopo arrivano anche Jeremy e Ian (anche loro sono tornati a casa dall’università, la stessa che frequento io.). Li saluto con un bacio e tutti ricambiano con abbracci e baci.
Quando raggiungiamo la cucina e ci sediamo a tavola sono già le 21.00 passate.
La serata passa velocemente. Ovviamente, la conversazione favorita è il college, seguita subito sulle scommesse sul sesso del bambino di Danny e Lindsay. Sono contenta per loro, almeno Lucy avrà qualcuno con cui giocare. Sembra felice che a casa stia per arrivare un’altra persona.
Jeremy e Ian scherzano sui nostri nuovi amici e sugli insegnanti del college e, strano a dirsi, riescono anche a far ridere mio padre. Sorrido e lo osservo. È davvero felice.
L’ultimo periodo è stato davvero complicato. La morte di Jeremy è stata devastante per tutti. Lo amavamo tanto ed è stato difficile superare la sua perdita. Ovviamente il college e il lavoro hanno aiutato molto.
 
A mezzanotte, quando tutti se ne sono andati e abbiamo finito di mettere in ordine la cucina, salgo al piano superiore, mentre Jo resta in salotto a guardare un po’ di TV: lei e Mac lo fanno sempre prima di andare a letto.
Prima di raggiungere la mia stanza per mettermi a letto, vedo che la porta della camera di Mac è spalancata. Lo vedo osservare la scrivania, così busso.
«Papà?» lo chiamo. Lui solleva lo sguardo, destato dalla mia voce e sorride. Io ricambio il sorriso e mi avvicino.
Sta guardando una foto. Quando la guardo meglio mi accorgo che non ritrae lui e Jo. La donna è un’altra, non la conosco. Mi volto per domandargli chi sia, ma lui mi risponde senza che io abbia bisogno di parlare.
«È Claire.»
«Claire?» chiedo, dato che non mi aveva mai parlato di lei.
Un pensiero mi attraversa la mente.
E se fosse mia madre? Mi rendo conto di non aver mai chiesto nulla su mia madre, se sia morta o ancora viva, dove sia… Nulla.
«Sì. È stata la mia prima moglie.»
«Non me ne avevi mai parlato.» dico, prendendo la foto e osservandola meglio. Non le somiglio. Forse non è lei.
«È morta l’11 settembre.» mi spiega. E questo basta. In quell’attentato sono morte tante persone; ero piccola, ma ricordo che mi padre aveva chiamato dal lavoro per sapere se avevamo visto quello che era successo. Ero rimasta così impressionata che aveva pianto per più di due ore.
Non sapevo che la moglie di Mac fosse stata coinvolta, anche perché nemmeno sapevo di avere uno zio a New York.
«Mi dispiace.» dico cingendogli le spalle con un braccio. Lui sorride.
Continuo a pensare che potrebbe essere mia madre, quindi decido di chiederglielo.
«Ascolta, papà. Non ti ho mai chiesto chi fosse mia madre e vorrei…» comincio, ma lui mi blocca.
«Lo so, io avrei dovuto dirtelo.» mi interrompe.
«Quindi è lei?» chiedo ancora. Lui annuisce e io torno a guardare la fotografia. Non le somiglio. È alta quasi quanto me, ma ha i capelli color carota e gli occhi verdi. Gli occhi li ho presi da mio padre e probabilmente i capelli sono una via di mezzo tra i corvini di lui e quelli rossi di lei.
«Vorrei averla conosciuta.» continuo. È vero. Vorrei che ci fossimo viste almeno una volta a parte dopo la mia nascita.
«È anche a causa del suo lavoro che non ti abbiamo tenuta. Lei lavorava all’FBI e insieme erano davvero entrambi molto pericolosi per una bambina così piccola. Ma credimi, avremmo voluto tenerti con noi.»
Gli credo. So che è così. Gli sorrido e lui mestamente, fa lo stesso.
Dopo qualche minuto di silenzio gli scocco un bacio sulla guancia e vado in camera mia. Mi lavo i denti e mi infilo il pigiama, il tempo di strisciare sotto le coperte che cado in un sonno profondo.
 
La mattina dopo, mi sveglio alle 9. Scendo per colazione e vedo che sia mio padre che Jo, sono a casa.
«Voi non dovevate lavorare?» chiedo ridendo.
Loro sorridono complici e confessano di aver preso una settimana di ferie per stare con me. Li abbraccio entrambi e poi mi siedo per mangiare le frittelle appena cucinate.
 
Un’ora dopo siamo pronti e, come promesso, andiamo al cimitero.
La tomba di mio fratello è in una zona isolata. È vicino a un grande salice piangente, perciò non faccio fatica a trovarla. Quando vedo la sua fotografia la malinconia mi assale. Un lacrima mi riga il volto e per nasconderla mi chino a posare il mazzo di fiori che abbiamo comprato. Mio padre capisce, si avvicina e intreccia le sue dita alle mie. Sorrido, anche se è l’ultima cosa che vorrei fare. Ripensare alla morte di James mi uccide. Ogni volta.
Rimaniamo in silenzio per alcuni minuti, poi un pensiero mi balena in mente.
«Papà?» dico, rompendo il silenzio.
Lui si volta per farmi capire che mi sta ascoltando.
«Dov’è sepolta Claire?» domando, non so se avrei dovuto parlarne davanti a Jo, ma me ne rendo conto solo ora.
«Noi… non abbiamo mai trovato il corpo …» si blocca e si volta per guadare le altre lapidi. Vedo la rabbia noi suoi occhi. La rabbia di qualcuno che ha perso una persona cara. Proprio com’è successo a me.
«Mi dispiace, papà.» gli dico, poggiandogli una mano sulla spalla. Jo sembra non essere turbata nel sentir parlare di Claire, infatti abbraccia mio padre. Vedo un luccichio nei suoi occhi. Gli manca davvero tanto.
Torno a guardare la lapide di mio fratello.
Ciao, Jamie. penso e insieme a mio padre e Jo esco dal cimitero.
 
La settimana passa in fretta e, come promesso, Jo e Mac la passano tutta insieme a me. Andiamo al mare a Long Island, a visitare il Metropolitan Museum of Art, a mangiare la pizza nei ristoranti che Jo adora e in vari centri commerciali a fare compere, per non parlare delle biblioteche e delle librerie.
È da così tanto tempo che non faccio gite in famiglia che mi sembrano totalmente nuove e estranee. Ovviamente, mi diverto molto, sono davvero felice. Manca solo Don. È dovuto rimanere al lavoro, ma comunque mi ha promesso che riserverà una giornata delle sue ferie solo per me.
Alla fine della settimana sono distrutta.
La domenica sera rimaniamo a casa e dopo la cena ci sediamo tutti e tre sul divano a guardare la TV. Mio padre al centro e io e Jo al suo fianco. Anche questo mi è mancato. Stare accoccolati sul divano a guardare la televisione.
Con mia madre e mio padre lo facevo sempre.
 
Verso le 22.30 gli sbadigli diventano così ricorrenti che non riesco neanche più a guardare la televisione. Mi alzo, scocco un bacio sulla guancia ad entrambi e vado a letto. In pochi minuti cado in un sonno profondo e disturbato.
 
Vedo mia madre e mio padre, Caroline e Steve. Mi sorridono e io faccio lo stesso. Non sono cambiati dall’ultima volta. Cerco di raggiungerli per abbracciarli. Dietro di loro, però, una figura si fa avanti. La vedo estrarre una pistola e sparare. Cinque colpi. Vedo mia madre cadere a terra, mio padre gridare e poi stramazzare al suolo. Vorrei gridare, ma l’urlo mi muore in gola. C’è qualcun altro che arriva.
È mio padre, Mac. Corre verso di me, strilla qualcosa ma non lo sento, ho perso l’udito da entrambe le orecchie. La figura, che intanto si era nascosta, sbuca fuori all’improvviso. Io corro, tento di raggiungerlo, prima che accada il peggio, ma vedo mio padre cadere a terra senza vita. Grido, anche se non sono davvero sicura di averlo fatto. D’altronde non ci sento.
Mi volto per scappare, è da codardi, lo so, ma che altro potrei fare?
Qualcosa mi blocca. Davanti a me, stesi uno vicino all’altra ci sono i corpi dei miei amici. Di tutti i miei amici. Don, Jo, Sheldon, Sid, Danny, Lindsay, Adam, Jeremy, Ian, Margaret, persino Laura, la nostra dolce ma permalosa compagna di stanza al college. Cado a terra in ginocchio, impotente di fronte a questa scena. Prima che la figura mi raggiunga, grido. E questa volta ho la certezza di aver strillato. La gola mi fa talmente male che ne sono sicura.
 
«Lena! Lena!» sento gridare il mio nome. Ho recuperato l’udito. Ci sento di nuovo. Apro gli occhi e vedo che mi padre mi sta scrollando le spalle. Che succede? Mi accorgo di avere il viso madido di sudore. Forse non è sudore, sono… lacrime. Ho pianto. Ancora.
Afferro le mani di mio padre e le stringo forte, poi lo abbraccio. È qui. È vivo. Era solo un incubo. Ogni volta che mi addormento ricominciano a tormentarmi.
«Lena, tesoro, calmati.» mi dice, cullandomi. Jo entra nella mia stanza con dell’acqua e dei tranquillanti. Tremando, butto giù le pillole e bevo l’acqua a piccoli sorsi. Lei mi accarezza i capelli e mi sussurra di stare tranquilla, che lì ci sono loro.
Sono stanca. Gli incubi mi tormentano quasi ogni notte. Sono stanca di dover piangere e rivivere ogni volta il dolore di aver perso le persone a cui tengo di più. Sono stanca di rivedere i loro volti coperti di sangue e di vedere tutti coloro a cui voglio bene morti davanti a me.
Un conato di vomito mi sale lungo la gola.
Mi alzo dal letto su cui sono seduta e corro in bagno. Butto fuori tutto ciò che ho trattenuto per tanto, troppo tempo. Mio padre mi segue e mi tira indietro i capelli, che sono sciolti e mi ricadono lungo il viso. Continuo a tossire, fino a che Jo non mi porge un altro bicchiere d’acqua. Lo prendo continuando a singhiozzare.
Basta, basta. Non mi era mai successo tutto questo. Perché ora?
«Sta’ tranquilla.» mi sussurra mio padre. Io mi siedo appoggiando la schiena al muro di fianco al water. Potrei dover vomitare ancora. Mi gira la testa, così chiudo gli occhi e cerco di rendere regolare il mio respiro. Poggio una mano sulla fronte bagnata dal sudore freddo e continuo a singhiozzare.
«Te la senti di tornare a letto?» mi chiede mio padre. Io scuoto la testa e poi cerco di parlare una lingua comprensibile.
«Rimango qui. Voi tornate a dormire.» dico. Mac si volta e dice a Jo di andare a letto e che lui rimarrà con me. Lei, dopo un attimo di esitazione, esce e torna a dormire.
Mio padre si inginocchia accanto a me e mi sfiora la guancia con la mano.
«Sono qui, Lena.» io sollevo lo sguardo.
«Cos’ho fatto questa volta?» domando. Lui dolcemente mi dice che ho gridato più volte il nome dei miei e il suo. Poi erano soprattutto grida di paura.
Mi scuso per il trambusto e lui mi dice, come sempre, che non importa.
«Cos’hai sognato?» mi domanda.
I miei occhi si incatenano ai suoi.
«Cadaveri.» dico sbrigativa, non sono sicura voglia sapere i dettagli.
«I nostri?» domanda ancora.
Io annuisco e lui fa lo stesso. Poi mi aiuta ad alzarmi e mi accompagna in camera mia. Mi sdraio sotto le coperte e lui, senza che io glielo chieda, si sdraia accanto a me e mi stringe a se, proprio come facevano mio padre e James. Sono felice che sia qui, sono felice di poterlo sentire accanto a me, ma allo stesso tempo la malinconia ritorna.
Mi addormento dopo quasi un’ora e quando mi sveglio lui non c’è più.
 
Sono le 08.00, mio padre dev’essere già al lavoro da un po’. Anche Jo non c’è. La casa è deserta. L’unico rumore udibile è quello degli orologi che ticchettano risuonando in ogni parte della casa. Scendo in cucina e mi preparo la colazione. Non sono ancora molto in forma, comunque decido, dopo aver visto la situazione nel nostro frigorifero, che uscirò per fare la spesa, più tardi.
Alle 10 in punto sono in macchina e sto guidando lungo la strada che mi porterà al supermercato fuori città.
In meno di venti minuti, il carrello è stracolmo. Non c’era davvero più niente a casa. Altri dieci minuti ed ho finito. Quando ho pagato (per la cronaca, una somma considerevole) e sono uscita, carico tutto in macchina e mi preparo a partire. Poi mi blocco. Rifletto per qualche secondo e poi parto, diretta verso il cimitero. Ci sono stata una settimana fa, lo so, ma voglio tornarci da sola.
Parcheggio davanti alla grande struttura e scendo. Faccio un bel respiro e mi dirigo verso la tomba di mio fratello. Quando arrivo mi accorgo che non ho pensato a portare dei fiori, ma per fortuna quelli di lunedì scorso sono ancora in buono stato. Mi inginocchio e do una sistemata al vasetto colorato e poi, assicurandomi che non ci sia nessuno, comincio a parlare.
«Ciao, Jamie.» dico «Sto andando al college, ma ci credi? Avrei tanto voluto andarci con te e anche Ian e Jeremy lo vorrebbero. Vorrei che fossi qui con me, nella nostra nuova casa, con Mac e Jo e tutti i nostri amici. Vorrei che fossi qui a vedere quanto sono felice con Don. È davvero un bravo ragazzo, l’avresti detto la prima volta che l’abbiamo incontrato che ci saremo messi insieme? Siamo così diversi, ma così felici.» a questo punto non riesco davvero più a trattenere le lacrime. «Forse se mi fossi accorta prima che stavi male, che avevi incontrato Romanoff, tu saresti ancora qui con me. Mi dispiace, Jamie, perdonami.» poi mi zittisco. Non so che altro dire. Che altro dovrei dire? Il senso di colpa mi corrode. Non ne ho mai parlato con nessuno, ma è così. Forse avrei potuto salvarlo davvero. Ma ora è troppo tardi.
Mi asciugo le lacrime e torno ad osservare la fotografia che ritrae mio fratello. Mi manca così tanto.
«Ciao.» qualcuno è in piedi alle mie spalle. Non mi ero accorta del rumore dei passi sulla ghiaia, forse il mio udito sta peggiorando. Mi volto e mi alzo in piedi. È un uomo, deve aver più o meno l’età di mio padre. È alto come me è ha i capelli castani. Lo guardo e poi mi ricordo che mi ha salutato.
«Buongiorno.» dico sbrigativa. Non dovrei parlare con gli sconosciuti, ma siamo in un cimitero, quante sono le probabilità che voglia uccidermi?
«È tuo fratello?» mi chiede, indicando la lapide dietro di me.
«Si.» rispondo e raccolgo la mia borsa.
«Taylor, eh?» io alla domanda annuisco. Ce l’ha con mio padre anche lui? «Sei una parente di Mac Taylor, quindi?» chiede ancora. Ok, adesso ho realmente paura che voglia uccidermi anche lui. Medito la risposta mentre lui mi guarda inclinando la testa, i suoi grandi occhi verdi sono incatenati ai miei.
«Si, la figlia.» subito mi rendo conto che adesso che ho confessato di essere la figlia, mi ucciderà davvero.
Lui sorride. «Maddalena, vero?» cos’è un interrogatorio?
«Si, ma tutti mi chiamano Lena.» dico. Come conosce il mio nome?
«Ciao, io sono Cal Lightman.» e mi tende la mano. Io la stringo, titubante. È straordinariamente calda. «Non preoccuparti, non sono uno stupratore.» mi rassicura. Non riesco a trattenere un sorriso.
«Per fortuna.» dico e lui mi sorride.
«Lavoro per l’FBI a Washington.» continua. E mi mostra un biglietto da visita su cui c’è scritto “FBI: Lightman Group” «Sei sorpresa, lo so.» bè, se l’FBI mi conosce devo aver fatto qualcosa di male. Di solito è così.
«Ed è venuto per arrestarmi?» chiedo.
«Perché? Hai fatto qualcosa di male?»
«Ehm… Credo di no.» rispondo.
«Ok, allora non ti devi preoccupare. Anche perché sono solo un consulente dell’FBI. Sono la persona che si occupa di capire se i sospettati mentono.»
Io scuoto la testa. Non capisco. Non è quello che fa ogni poliziotto?
«Sono un esperto di cinesica. Sai di cosa si tratta?» mi domanda.
Sì, ne ho già sentito parlare, così annuisco.
«È la lettura del linguaggio non verbale in relazione a quello verbale.» rispondo.
Lui annuisce stupito. «Davvero brava.» si congratula e io sorrido compiaciuta.
«Che cosa fa qui a New York, signor Lightman?» chiedo. Perché è venuto fin qui da Washington? Per un criminale?
«Sono venuto ad aiutare la polizia per un caso.» lo guardo con aria interrogativa, perciò continua. «E credo che tua padre sia la persona che mi serve.» continuo a non capire. «Sai dov’è adesso?» mi domanda. Io annuisco.
«Al laboratorio della scientifica.»
«Quanto ci vuole a piedi da qui?»
Io rido. «Tanto tempo.» dico, ci vorrebbe più di un’ora.
«Accidenti.»
«Se lei mi assicura di essere dell’FBI le posso dare un passaggio, ho la macchina qui fuori.» propongo. È vero, il biglietto e la sua storia possono essere falsi. Ma quante sono le probabilità? Sarei davvero sfortuna se ogni persona ce l’avesse con me e con la mia famiglia.
«Davvero?» domanda in tono mellifluo. Io annuisco. «Ti ringrazio.» mi dice con la sua voce profonda. Sorrido ancora e insieme ci avviamo verso l’uscita. Quando metto in moto, penso che se avesse voluto uccidermi l’avrebbe già fatto, perciò l’ansia si placa.
 
ANGOLO DELL’AUTRICE
Ciao, ecco a voi il secondo capitolo.
Procede molto velocemente, lo so, ma è un capitolo di passaggio.
La vera vicenda partirà con i prossimi.
Come potete vedere, qui “salta fuori” il Crossover: le strade di “CSI:NY” si incroceranno con quelle di “Lie to me”, o meglio, con quelle di alcuni personaggi di questa serie. Comunque la vicenda principale, continuerà a coinvolgere i protagonisti di CSI:NY.
Spero che vi sia piaciuto. ;D
A presto, fatemi sapere cosa ne pensate.
Izzy, xX__Eli_Sev__Xx

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


 
Always and forever

CAPITOLO 3
 
Dopo dieci minuti di viaggio in auto, arriviamo al laboratorio. Parcheggio a qualche isolato di distanza e lo raggiungiamo a piedi. Mentre camminiamo, vediamo i taxi sfrecciano per le vie della città e molte persone che camminano sui marciapiedi. È quasi ora di pranzo perciò molti stanno uscendo dal lavoro. Ovviamente mio padre non è uno di questi, per questo sono certa che sia in ufficio.
Entriamo al laboratorio e raggiungiamo la reception. La ragazza, di cui continuo a scordarmi il nome, mi regala un sorriso e mi saluta con un cenno della mano. Faccio lo stesso e faccio cenno al mio accompagnatore di seguirmi. Lui annuisce e si avvicina al bancone.
«Ciao, Lena.» mi saluta la ragazza.
Leggo il nome sul cartellino, Sarah. Dovrò ricordarmelo, lei il mio non se lo dimentica mai.
«Ciao, Sarah.» dico con un sorriso.
«Signore, lei è?» chiede rivolta al dottor Lightman. Alla seconda volta in cui l’ho chiamato “signore” mi ha corretto dicendomi che è un dottore, perciò sarà meglio che non sbagli più, o mi ucciderà.
«Cal Lightman, consulente all’FBI.» risponde. La ragazza, proprio come me, rimane a bocca aperta. Prepara un tesserino e glielo porge.
«Ecco il suo…» si blocca e lui finisce la frase per lei.
«Tesserino. Grazie, signorina.» la salutiamo e ci avviamo verso l’ascensore per raggiungere il trentacinquesimo piano.
Nel tragitto tutti si voltano a guardarci. Che c’è di strano? Non posso accompagnare una persona all’ufficio di Mac? Ci rivolgono sguardi perplessi e interrogativi. Io sorrido e continuo a camminare.
Quando arriviamo davanti all’ufficio di mio padre, busso. Nessuno risponde, perciò entriamo; mio padre e i suoi colleghi stanno discutendo su un caso. Alcune foto sono proiettate contro un telo bianco e tutti le stanno osservando. Mac muove la mano davanti al telo, scorrendo tutti i volti e parlando dei loro precedenti reati e degli alibi presentati.
Non si sono nemmeno accorti di noi, dato che ci danno le spalle, ma noi rimaniamo immobili, in attesa.
Quando Mac ci vede si blocca, tutti si voltano e io alzo la mano in segno di saluto.
«Lena.» dice lui sorridendo.
«Ciao, papà.» rispondo «Ciao a tutti.» ma prima che possa parlare ancora per spiegare perché sono lì, lo fa lui.
«Cal. Finalmente!» si avvicina e gli stringe la mano, lui ricambia la stretta. Si conoscono, quindi. Fantastico.
«Mac, come stai?»
«Bene, grazie.» mio padre si volta verso i suoi colleghi. «Ragazzi, questo è Cal Lightman, un consulente dell’FBI. Ci aiuterà con questo caso.» spiega.
Tutti lo salutano calorosamente e poi escono per lasciare che parlino da soli.
«Lena, cosa fai qui?» mi chiede Mac, dopo essersi seduto alla scrivania.
Io mi desto e comincio a parlare. «Ero andata al cimitero e ho incontrato il dottor Lightman, così gli ho dato un passaggio fino a qui.» spiego. Lui annuisce.
«Poteva farti del male.» azzarda, senza far caso al fatto che l’uomo di cui sta parlando sia lì.
«Mi ha mostrato il biglietto da visita.» dico.
«Poteva essere falso.»
«Papà, non posso essere spaventata da ogni cosa.» mi giustifico. E lui annuisce. Sa che ho ragione. Poi si volta verso Lightman.
«Al cimitero?» domanda. L’altro annuisce. «Ti ho detto che Claire non è lì.» sbotta mio padre dopo averci pensato su. Io non capisco. Conosce Claire?
«Volevo esserne certo.» ribatte Lightman. Io sorrido, non si fida di Mac. Forse gli sta anche un po’ antipatico. Notando la mia faccia perplessa, Mac mi spiega.
«Lena, il dottor Lightman è il fratello di tua madre, Claire.» rimango spiazzata.
Il fratello di mia madre? Mio zio? Ho appena conosciuto mio zio e sospettavo che volesse uccidermi?
Lightman sorride. Io mi volto verso di lui.
«Perché non me lo ha detto?» chiedo.
«Non volevo rovinare la sorpresa. E non ero del tutto sicuro che fossi tu, sapevo che Claire ti aveva mandata da suo cognato a Sacramento.» mi dice. Io abbasso lo sguardo. «Quando hai scoperto che è tuo padre?» chiede facendo un cenno con la testa per indicare il cognato.
«Cal.» tenta di bloccarlo mio padre.
«Tre anni fa.» rispondo.
«Te ne sei andata da Sacramento per venire a stare da uno scorbutico come lui?» mi domanda ridendo e vedo Mac scuotere la testa.
«Diciamo che in realtà, sono stata costretta. I miei genitori sono… morti e mio padre, Steve, voleva che io venissi a vivere con lui.» spiego, indicando mio padre. «Solo dopo ho scoperto chi era davvero.»
Adesso è Lightman ad essere spiazzato.
«Mi dispiace.» si scusa. «E tuo fratello?» domanda poi, anche se conosce già la risposta.
«È morto tre anni fa.» annuisco e spiego. Riesco a stento a trattenere le lacrime.
«Come?» domanda.
«È stato ucciso.»
«Oh. Devi aver sofferto tanto.» dice. Annuisco e lui si volta verso mio padre.
Lui dopo avermi studiato attentamente si alza dalla sedia, si avvicina e mi avvolge le spalle con un braccio. «Puoi venire a stare da noi, Cal. Abbiamo una stanza in più. Sei il benvenuto.» gli spiega, facendo pressione sulla mia spalla con la mano.
Lui annuisce e poi parla. «Allora vado a recuperare i bagagli. Sono in albergo.» dice. «A dopo.» e si avvia verso la porta.
Mio padre mi sorride, mi sfiora la guancia con una mano e io capisco.
Esco dall’ufficio di corsa e lo raggiungo prima che entri in ascensore.
«Aspetti!» dico «Posso darle un passaggio, poi la accompagno a casa nostra.» propongo. Lui sorride. «Grazie. Accetto volentieri.» dice sorridendo.
Usciamo dal laboratorio in silenzio e raggiungiamo il parcheggio facendoci strada tra i capannelli di persone ferme a parlare sui marciapiedi.
È lui a parlare, una volta in auto. Io intanto, metto in moto e faccio manovra.
«Ascolta, potresti darmi del tu, adesso.» mi dice.
Non mi ero nemmeno resa conto di aver continuato a rivolgermi a lui dandogli del lei.
«Oh, giusto. Va bene.» annuisco e mi fermo al semaforo.
«Magari chiamarmi ‘zio’ sarà il passo successivo.» afferma e io sorrido.
 
Dopo aver raggiunto l’albergo e aver recuperato la valigia e le borse, andiamo a casa. Parcheggio nel garage e portiamo dentro sia i bagagli che la spesa, che mi ero totalmente dimenticata. Spero che nulla sia andato a male.
«Posso appoggiare qui?» mi chiede quando siamo in cucina. Io annuisco e lui poggia la borsa sul tavolo.
«Vieni, ti mostro la tua stanza.» gli dico, prendo un bagaglio e lui mi segue.
Decido di dargli quella vicino alla mia, è l’unica che abbia pulito, l’altra è ancora tutta da sistemare e funge più da ripostiglio che da stanza da letto.
Cal mi ringrazia e io gli propongo di aiutarlo a fare il letto, prima di scendere. Lui accetta e in poco tempo ho finito; scendo per lasciargli un po’ di privacy.
Metto a posto la spesa, nella mente mi risuonano ancora le sue parole sui miei genitori e  James. Devo ammettere che mi hanno turbato, è stato un pochino... sgarbato. Spero solo che non abbia notato che ci sono rimasta male. Non ce l’ho con lui per questo.
Quando ho finito di risistemare tutto, dato che è ora di pranzo, preparo la pasta e aspetto che l’acqua cominci a bollire. Il rumore di passi mi costringe a voltarmi e lo vedo fermo sulla porta della cucina, appoggiato allo stipite. Gli sorrido. Lui entra e si siede al tavolo.
«Mi dispiace per prima.» sbotta. Io mi volto. «Sono stato… indelicato. Ti ho turbata e mi dispiace.» io scuoto la testa. Quindi se n’è accorto oppure mi ha letto nel pensiero. «Sai, sei molto espressiva.» mi fa notare. Io mi lascio sfuggire una risata. Me lo dicono tutti.
«Ti piace la pasta?» chiedo, cambiando argomento.
«La adoro.»
«Bene, perché è quasi pronta.»
Preparo il tavolo e lui mi dà una mano. Non è così male, dopotutto. Dovrebbe solo essere più delicato e meno sfacciato, ma credo che se non facesse così non avrebbe successo nel suo lavoro.
Ci sediamo uno di fronte all’altra e dato che Mac e Jo non tornano mai per pranzo, mangiamo.  Quando assaggia la pasta con il ragù si complimenta.
«È davvero buonissima!»
«Grazie.» cucinare mi è sempre piaciuto.
«Avresti un futuro da cuoca.» io rido. «Quanti anni hai?» chiede ad un tratto.
«Venti.»
«Sembri più giovane.» dice, io sorrido come ringraziamento «Quindi vai al college.» Annuisco mentre bevo un sorso d’acqua.
«Cosa studi?» domanda.
«Lingue.»
«Ti piacciono le lingue?»
«Sì. Soprattutto quelle neolatine.»
«Allora dovresti trasferirti in Italia. Lì potresti approfondire i tuoi studi.» mi consiglia.
«Vero. Ma New York mi piace.» affermo. Lui sorride.
«Vuoi diventare un’insegnante?» domanda.
«Forse.»
«Liceo?»
«Forse.» rispondo ancora.
«Mac mi ha detto che scrivi. Mi ha detto che non fai leggere a nessuno i tuoi racconti.»
Sa troppe cose di me. Io invece di lui non so nulla, comunque rispondo. «Li facevo leggere a mio fratello James, ma…» mi blocco.
Lui annuisce, così non continuo. «Me li farai leggere?» chiede.
«Perché?» non perché non voglia, ma non credo che potrebbero interessargli.
«Sono curioso. Si può capire molto di una persona da ciò che scrive.» mi spiega. Abbasso lo sguardo. Forse è davvero così. D’altronde io scrivo per sfogarmi, tutto ciò che provo lo metto su carta.
 
Finito il pranzo, Cal mi aiuta a lavare i piatti e poi io lo aiuto a disfare i bagagli rimasti. Non ha molta roba, ma ha davvero sistemato male la valigia, perciò dobbiamo ripiegare tutto e sistemarlo nei cassetti.
 
Quando abbiamo finito sono le 17, perciò, decidiamo di riposarci in salotto.
«Quando comincerai a lavorare al caso?» chiedo, facendogli strada.
«Appena tuo padre mi fornirà i fascicoli per approfondire la mia conoscenza della vittima e dei sospettati.» annuisco e mi siedo sul divano accanto a lui.
Dopo qualche minuto di silenzio in cui guardiamo la TV, decido di parlare. Voglio saperne di più su mia madre. Parlarne con Mac non mi sembra una buona idea e dato che Cal è suo fratello, potrà parlarmene lui.
«Cal?» lo chiamo.
«Mmm?»
«Posso farti una domanda?» chiedo. Lui volge lo sguardo verso di me. Ho la sua attenzione.
«Certo.»
«Ecco…» comincio, spero di non ferirlo «Com’era Claire?»
Lui sembra spiazzato. Prende un bel respiro e poi parla.
«Bè, lei…» comincia «Era una donna simpatica, gentile e altruista. Ne ho conosciute poche come lei.»
«Lavoravate insieme?»
«Lei era un vero e proprio agente dell’FBI. Si occupava di indagini, arresti… Cose così.» minimizza.
«Come si sono conosciuti lei e Mac?» domando.
«Durante un’indagine. Era venuto a Washington per collaborare e si sono incontrati. Poi si sono sposati e lei è venuta a vivere a New York, ma continuando a collaborare con l’FBI.»
Fino al giorno della sua morte, penso. Avrei davvero voluto conoscerla. Dopotutto era mia madre. Sapere che è morta l’11 settembre mi ha davvero turbata. E immagino cosa deve aver provato Mac.
«Tu sei sposato?»
«Divorziato.»
«Mi dispiace.» mi affretto a dire.
«Non andavamo d’accordo. Sai, per il fatto di capire quando mentiva.» sorrido al suo commento. Dev’essere stata dura per lei. Non poteva nascondergli nulla. Non so se resisterei più di una settimana con uno come Cal, lo ammetto.
«Hai dei figli?» chiedo ancora.
«Una figlia. Emily. Vive soprattutto con la madre. Ha la tua età.»
«Mi piacerebbe conoscerla.»  non avevo cugini a Sacramento, tantomeno della mia età. Mia madre era figlia unica e il mio unico zio era Mac.
«Te la presenterò. Andreste d’accordo.» aggiunge, pensandoci su.
 
Quando Mac e Jo tornano sono già le 23 passate. Io sono già a letto da un po’, anche se sono ancora sveglia. Li sento entrare e salutare mio zio e poi salire in camera loro.
Dopo circa un’ora gli occhi si chiudono e cado in un sonno popolato da incubi.
 
POV Cal
 
Sto facendo zapping. Ultimamente in TV non c’è più niente di interessante. Tutti quei programmi inutili e quei terribili notiziari. Non li sopporto, raccontano un sacco di balle.
Prima che arrivino Mac e Jo, decido di chiamare Gillian. Voglio sapere come sta. Chiamerò anche Emily. Ha deciso di rimanere con Zoe mentre sono a New York. Era la nostra settimana e dato che Lena mi sembra entusiasta di avere una cugina, decido che le chiederò di raggiungermi.
Il telefono squilla tre volte e sento la sua voce soave aldilà della cornetta.
«Pronto?» è assonnata.
«Ciao, Gillian. Sono Cal.» dico, felice di sentirla. «Ti ho svegliata?» domando.
«No, Cal, tranquillo. Com’è andato il viaggio?»
«Bene, ti ringrazio. Lì come procede?»
«Tutto a posto. Hai incontrato tuo cognato?» mi chiede con la sua voce dolce.
«Si. Ho anche incontrato sua figlia.» dico. Non se lo aspetta. Voglio vedere come reagisce.
«La figlia di Claire? Ma non era andata a stare a Sacramento?» mi chiede. Colgo subito lo stupore nella sua voce.
«Si, ma i suoi genitori e suo fratello sono morti, perciò è tornata a stare da Mac e ha anche scoperto che è suo padre.»
«Che storia. Sa che sei il fratello di sua madre?» chiede. Sa che mi piace tenere nascoste le cose. Ma non sono così crudele.
«Certo. Gliel’ho detto.»
«Come ha reagito?» mi domanda. Si preoccupa anche per la gente che non conosce.
«Tutto sommato, bene.»
«Ne sono felice.»
«Anche io.» dico. Mi dispiace, ma adesso devo chiamare Emily, perciò mi decido a salutarla. «Ora devo andare, Gill. Ti chiamo domani, ok?»
«Ok, magari nell’ora di pranzo.» mi consiglia. Sapevo di averla svegliata, ma al telefono non potevo sapere se fosse davvero così.
«Buona notte, tesoro.»
«Buona notte, Cal.»
Riattacco e vedo che si è fatto davvero tardi. Chiamerò Emily domani. Non voglio svegliarla. Torno a sedermi sul divano e aspetto l’arrivo di mio cognato.
 
Appena mi addormento vengo ridestato dalla suoneria del mio cellulare. Lo cerco in tutte le tasche e vedo che è caduto dietro un cuscino del divano. Lo prendo e guardo lo schermo.
È Emily.
Non dovrebbe dormire a quest’ora?
Rispondo.
«Ciao, Em.» dico.
«Papà!» dice con tono di rimprovero «Avevi promesso di chiamarmi!»
«Lo so. Ma era davvero tardi. Ti avrei chiamata domani.»
«Com’è andato l’arrivo nella Grande Mela?»  la sua voce squillante cancella la stanchezza nella mia voce.
«Bene. Ho incontrato tuo zio e tua cugina.» anche lei si stupisce come Gillian. Gli racconto la storia di Lena e anche lei sembra contenta di avere una cugina.
«Ascolta, stavo pensando… Perché domani non prendi il treno e non mi raggiungi?» propongo e poi attendo una risposta.
Trattiene a stento un grido.
«Davvero posso, papà?»
«Si, passeremo la nostra settimana qui. E avrai un po’ di tempo per conoscere tua cugina.»
«Grazie, papà!» esclama entusiasta. «Allora domani prendo il treno delle otto. Per le dieci e trenta dovrei arrivare alla stazione.» mi dice. Probabilmente sta leggendo gli orari su internet.
«D’accordo. Mando tua cugina a prenderti, io sarò al lavoro.»
«Ma come mi riconoscerà? Non ci siamo mai viste.»
«Non preoccuparti, le farò vedere una tua foto. Ti riconoscerà. Oppure attaccati un foglio alla maglia con su scritto “Emily Lightman”.» propongo.
«Ah ah. Divertente.»
«Lo so. Sono molto simpatico. Mi raccomando, le dico alle 10.30, allora.»
«D’accordo, a domani allora.»
«A domani, tesoro.»
«’Notte.»
«’Notte.» e riattacco.
Quando arrivano Mac e Jo mi porgono i fascicoli del caso. Comincio a sfogliarli, ma ci rinuncio dopo qualche minuto. Sono stanchissimo: ci penserò domani mattina.
 
ANGOLO DELL’AUTRICE
Ciao a tutti, come promesso, ecco a voi il terzo capitolo.
Spero tanto che vi piaccia! Ci ho messo molto impegno a scriverlo e anche questo è un capitolo di passaggio.
Volevo anche informarvi che pubblicherò i capitoli ogni due giorni (quindi uno sì e uno no, per intenderci! ;D).
A presto, Izzy, xX__Eli_Sev__Xx
 
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


Always and forever
 
CAPITOLO 4


POV Lena
 
Mi sveglio alle 9 passate e scendo in cucina per colazione. Jo, mio padre e Cal devono già essere al lavoro, perché non c’è anima viva in casa.
Quando entro in cucina, vedo un biglietto sul tavolo. Mi avvicino e lo leggo.
 
Ciao, Lena.
Ho chiesto a tua cugina Emily di raggiungermi qui a New York. Arriverà alle 10.30 alla stazione. Potresti andare a prenderla? Ti ho lasciato una fotografia, così la riconoscerai.
Grazie.
 
Tuo zio, Cal.
 
Quando finisco di leggerla, noto che la fotografia è lì accanto a me. La guardo. La ragazza è molto carina. Non assomiglia molto a Cal, quindi suppongo abbia preso dalla madre. Ha capelli lunghi e ondulati, neri. Ma quello che mi colpisce di più sono gli occhi. Quelli sono tutti di suo padre. Talmente verdi da sembrare due smeraldi incastonati nel suo viso.
Prima di partire faccio colazione, mi vesto e mi pettino. Voglio fare una buona impressione, altrimenti se ne ritornerà a Washington di corsa.
Finalmente conoscerò qualcuno della famiglia della mia età, non vedo l’ora.
 
Prendo la macchina e in venti minuti ho raggiunto la stazione ferroviaria. C’è molta gente. Stanno partendo o arrivando e il rumore di passi e di voci di ogni tipo mi riempie le orecchie.
Sono le 10.35. Mi dirigo verso la banchina e vedo una ragazza avvicinarsi, sta trascinando un piccolo trolley e ha una borsa a tracolla. Sembra lei. Così, la raggiungo e le sorrido. Ha capito che sono io perché non esita a sorridermi quando vede che mi avvicino.
«Ciao.» le dico quando sono davanti a lei. «Tu devi essere Emily.»
Lei mi sorride e annuisce.
«Ciao! Tu sei Lena?» annuisco e sorrido a mia volta. «Grazie per essere venuta a prendermi.» mi dice immediatamente.
«Figurati. È davvero un piacere conoscerti.» dico. Lei sorride e ci stringiamo la mano. «Aspetta, ti aiuto.» aggiungo e prendo il trolley che prima stava trascinando.
«Grazie.»
Camminiamo fino alla macchina. Mi dice che New York è davvero bellissima e molto più colorata in confronto a Washington. Non sono mai stata a Washington, comunque se mai mi inviterà a casa sua la voglio visitare tutta, dev’essere spettacolare.
Carichiamo la valigia nel bagagliaio, le dico di salire davanti e partiamo.
«Spero che mio padre non ti abbia spaventato.» sbotta, rompendo il silenzio mentre procediamo verso casa.
Io rido. «No. È simpatico.»
«Bè, ha la scorza un po’ dura, ma quando si apre è dolcissimo, credimi.» mi assicura.
«Anche mio padre è così.» ribatto. Dopo circa mezz’ora di viaggio, a causa del traffico, arriviamo a casa. Quando entriamo rimane a bocca aperta. Effettivamente, casa mia è davvero grande. Però, non pensavo facesse quest’effetto. La osservo mentre si guarda intorno. È davvero carina.
Le dico che dato che la seconda stanza degli ospiti è occupata, potrà dormire in camera mia. Mi dà una mano a spostare il letto dalla stanza-ripostiglio alla mia.
La aiuto a disfare i bagagli, le offro un cassetto per le sue cose e tutto è pronto entro l’ora di pranzo. Quando scendiamo al piano di sotto, il cellulare squilla. È un messaggio.
«Hanno detto che non tornano per pranzo.» dico, dopo aver letto un messaggio di Jo. Emily mi sorride. «Cucino io. Ti fidi?» chiedo.
«Certo.» risponde e si siede al tavolo. Mi osserva mentre mi muovo tra padelle e fornelli.
In poco tempo ho preparato il pollo e le patatine fritte, che considero un bel modo per darle il benvenuto e lei si offre di preparare la tavola. Le indica la credenza e quando il tavolo è apparecchiato, cominciamo a servirci e mangiare.
Durante il pranzo parliamo di noi, cerchiamo di conoscerci meglio. Dovremo convivere per una settimana e poi siamo cugine.
«Cosa studi?» mi domanda, assaporando il pollo.
«Lingue straniere.» rispondo.
«Vuoi diventare insegnante?» chiede ancora.
«Non lo so. Forse. Comunque, so che mi piacciono le lingue e scrivere. Tu? Cosa studi?» domando io.
«Medicina.»
«Notevole!» esclamo.
«Più… complicato, direi.» insieme ridiamo. È una facoltà difficile, c’è molto da studiare, ma è anche un lavoro che dà molte soddisfazioni. «Comunque mi piace. Sapere che potrò aiutare la gente, mi spinge ad impegnarmi.» sorrido. Per fortuna esiste gente come lei.
Ad un tratto la vedo abbassare lo sguardo e sospirare.
«Tutto ok?» chiedo, forse l’ho avvelenata con le patatine fritte.
Lei annuisce. «È che… mio padre mi ha detto che i tuoi genitori adottivi e tuo fratello sono… morti. È vero?» chiede, rompendo il silenzio. «Insomma, non vorrei essere sfacciata, ma… ecco…»
Appoggio la schiena alla sedia e annuisco mestamente. «Non preoccuparti.» la tranquillizzo «È così, sono morti.»
«Mi dispiace così tanto.» ribatte.
«Anche a me. Ma adesso ho Mac.» affermo sorridendo e tentando di trattenere le lacrime, ancora una volta.
 
Dopo pranzo decidiamo di andare a fare un po’ di shopping. È un po’ che non lo faccio. Prendiamo la macchina e raggiungiamo il centro commerciale più vicino. Parcheggiamo e entriamo. Non c’è molta gente dato che è lunedì.
«Che ne dici se andiamo a comprare qualcosa che ti faccia ricordare New York?» le propongo.
«Bella idea!» ribatte entusiasta. Ci dirigiamo verso un negozio di souvenir e lì decidiamo di comprare una coppia di magliette con su scritto una frase della canzone “New York, New York” di Frank Sinatra. Su entrambe c’è scritto “I want to be a part of it, New York, New York.” Almeno quando tornerà a Washington si ricorderà di me. Entriamo in una ventina di negozi e facciamo shopping fino alle 17, poi ci fermiamo in una gelateria. Dopo aver fatto una buona merenda, andiamo a cercare una di quelle macchinette che scattano fotografie e ne stampiamo una decina. Sono venute benissimo. Abbiamo espressioni buffe, anche se in alcune sono venuta davvero male. Lei invece è molto fotogenica, anche se non vuole ammetterlo.
La adoro già. Per un momento riesco anche a non sentire la mancanza di James e a reprime il senso di colpa che da troppo tempo mi corrode.
 
Alla fine del pomeriggio, quando sono ormai le 19 passate, saliamo in macchina e torniamo a casa in quindici minuti. Il traffico è davvero poco, questa sera.
«Mi sono divertita molto.» mi dice mentre accendo la radio. Io le sorrido.
«Anche io. Non ero mai andata a fare shopping, anche perché ho soprattutto amici maschi.»
«Io ho pochi amici maschi. Ma comunque, bisogna ammettere che sono i più fedeli.» mi fa notare. È vero, le ragazze tendono a pugnalare alle spalle fin troppo spesso.
«Te li devo far conoscere.» dico.
«Non vedo l’ora.» fa una pausa «Dato che ormai siamo come sorelle… dimmi… Ce l’hai un ragazzo?» chiede infine.
«Si, tu?»
«Si. Ha cinque anni più di me a mio padre non va proprio giù.» mi spiega. Non conosco Cal, ma avevo sospettato fosse un genitore all’antica. Per fortuna Mac non si è opposto quando ha scoperto di me e Flack.
«Io sto con una gente di polizia.» sbotto. Lei mi guarda stupita e poi ride.
«Stai scherzando?»
«No, Ha quindici anni più me ed è un grande amico di mio padre. Quindi direi che i vostri cinque anni di differenza non sono nulla.» spiego.
«Direi di si!» esclama ridendo «Come si chiama?» mi domanda.
«Don.»
«Bel nome.» ribatte.
«Abbreviativo di Donald.»
«Ok, Don mi piace di più.» ride, dopo un attimo di perplessità. “Donald” non è un nome che si sente parecchio.
«E il tuo ragazzo? Come si chiama?» chiedo, lei sorride, sembra felice che io gliel’abbia chiesto.
«Todd.»
«Carino. Che lavoro fa?» chiedo.
«Lavora in una biblioteca.» biblioteca? È il mio ragazzo ideale, dopo Don, ovviamente. «A me piace leggere. L’ho incontrato lì.» sorrido, mi è successa la stessa cosa con Jeremy.
«Anche io ho incontrato in biblioteca uno dei miei migliori amici.» spiego, dando voce ai miei pensieri.
«Quindi se anche a te piace leggere mi saprai consigliare qualche lettura.»
«Certo.»
Poco dopo siamo a casa. Parcheggio la macchina nel garage e dopo aver recuperato le borse, raggiungiamo la nostra stanza.
Parliamo di libri e di musica per più di un’ora, dato che Cal, mio padre e Jo non si sono ancora fatti vedere. Alla fine, alle 21, decidiamo che è ora di mangiare cena e dopo aver mangiato, peraltro, relativamente poco a causa dell’enorme gelato, andiamo in camera mia.
«Che possiamo fare domani?» mi chiede Emily sdraiandosi sul letto. Ha già indossato il pigiama e io ho fatto lo stesso. Ho piazzato il suo letto di fianco al mio, di modo che possiamo guardarci negli occhi pur essendo sdraiate.
«Non lo so.» dico riflettendo «Ti piacerebbe andare in qualche posto?»
«Mmm.» ci pensa su ma poi scuote la testa, non sapendo cosa rispondere. Effettivamente, se non sei mai stato a New York, sapere dove andare senza spendere tutto il patrimonio di famiglia è quasi impossibile.
Sentiamo la porta aprirsi e delle voci.
«Ok» dico alzandomi dal letto e infilandomi le ciabatte «Sei pronta a conoscere mio padre?»
Lei sorride e annuisce. Mi segue giù per le scale ed entriamo in cucina. Jo è seduta al tavolo, mentre mio padre e Cal sono in piedi e stanno parlando con lei.
Emily sorride e si avvicina.
«Papà!» esclama. Cal si volta e sul suo volto si dipinge un sorriso.
«Emily.» lei lo abbraccia e lui ricambia la stretta «Com’è andato il viaggio?»
«Bene, grazie.»
Io, intanto, raggiungo mio padre e gli scocco un bacio sulla guancia. Mi stringe a sè e io sorrido a Jo, ancora seduta al tavolo.
«Com’è andata al lavoro?» chiedo.
«Faticoso, ma tutto bene.» risponde sorridendo.
«Mac» comincia Cal «lei è mia figlia Emily.» dice, indicandola.
Mio padre si avvicina e le tende la mano. Lei la stringe e sorride.
«Ciao, Emily. Ci eravamo già visti, ma tu eri troppo piccola.»
Lei annuisce. «Ciao, Mac.»
Mio padre si avvicina a Jo e la presenta. «Lei è Jo Danville.»
Lei si alza dalla sedia e raggiunge Emily.
«È un piacere conoscerla.» dice mia cugina, cordiale. Jo le sorride dolcemente.
«Oh, non darmi del lei! Chiamami Jo, d’altronde sono la ragazza di tuo zio!» e le fa l’occhiolino.
«Va bene. Grazie.»
Io sorrido e mio padre ci consiglia di andare a dormire, perché loro ne avranno ancora per un po’.
Io e Emily torniamo nella mia stanza e le racconto di Mac e Jo. Lei sorride e ogni tanto si lascia scappare un “che romantico!” o un “che carini!” e poi insieme scoppiamo in una fragorosa risata.
Ci addormentiamo verso le 23, stanchissime per la lunga giornata.
 
La sveglia suona alle 9. La spengo con un colpo della mano e vedo che anche Emily si sta svegliando.
«Ciao.» dico e lei sorride.
«Ciao.» ribatte, ancora assonnata.
Dopo aver mangiato un’abbondante colazione, cerchiamo di decidere come passare la giornata. Le opzioni sono musei, biblioteca, giro turistico generale della città. Emily opta per il giro turistico, dato che se andasse in biblioteca non potrebbe portarsi via alcun libro, perché resta qui solo per cinque giorni, ancora.
Partiamo da casa alle 10 e raggiungiamo la fermata dell’autobus più vicina. Da lì prendiamo il bus che ci porta in città. Durante il tragitto parliamo del college e dei nostri amici. Ho intenzione di chiamare Ian e Jeremy. Voglio farglieli conoscere al più presto. Magari domani.
Il giro dura più di due ore, poi ci fermiamo a mangiare la pizza in un piccolo locale a due passi dalla stazione di polizia. La pizza è magnifica qui, non so quale sia la ricetta, ma non sono mai riuscita a farla così buona.
Durante il pranzo, sento una voce famigliare che mi chiama.
«Ciao, biondina!» mi volto e vedo che dietro di me c’è Flack.
«Ciao, Don.» mi alzo e gli sfioro le labbra con le mie. Vedo Emily sorridere con la coda dell’occhio. Non vedeva l’ora di conoscerlo…
«Don, questa è mia cugina Emily. La figlia di Cal.» dico. Lui le stringe la mano.
«Molto piacere.»
«Piacere mio!» risponde lei.
«Stai facendo una pausa?» gli chiedo. Lui annuisce. «Perché non mangi con noi?»
Annuisce; sono felice che accetti, così gli lascio un po’ di spazio sul divanetto accanto a me.
Dato che non avrebbe tempo di mangiarsi una pizza intera, prende una fetta della mia.
«Che fate qui, ragazze?» domanda.
Noi sorridiamo.
«Giro turistico della città. Emily voleva vedere New York.» spiego. Lui annuisce e poi si rivolge a mia cugina.
«Ti piace la città?»
«Sì. È molto più colorata di Washington.» risponde; io sorrido e Don si lascia scappare una rasata. Emily beve un sorso della sua bibita e poi si volta a guardare fuori.
«Devo rientrare.» mi dice Don. Sta guardando l’orologio.
«Mi chiami?» chiedo. Lui annuisce e mi dà un bacio sulle labbra.
«Ciao, dolcezza. Ciao, Emily.» ci saluta.
«Ciao, Don.» diciamo in coro e poi torniamo a mangiare.
Quando andiamo alla cassa, scopriamo che ha pagato tutto lui. Dovrò ricordarmi di ringraziarlo. Usciamo dalla pizzeria che sono le tre passate e trascorriamo il resto del pomeriggio, stese sull’erbetta fresca a Central Park.
 
ANGOLO DELL’AUTRICE
Ciao a tutti! Ecco a voi il quarto capitolo! È breve e di passaggio (sono un po’ troppi questi capitoli di passaggio, non me ne ero accorta! Scusate!)…
Fatemi sapere se qualcosa non è chiaro, anche perché procede molto velocemente!
Mi farò perdonare con i prossimi.
Izzy, xX__Eli_Sev__Xx
 

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


Always and forever
 
CAPITOLO 5
 
Alle 10 di mercoledì, sento il campanello suonare. Io e Emily siamo già in piedi da un po’. Vado ad aprire e vedo i miei tre migliori amici fermi sulla porta. Non li vedo da una settimana. Mi mancano già ora che sono abituata a passare tutti i giorni insieme a loro. Scocco un bacio sulla guancia a Ian e Jeremy e abbraccio forte Margaret, la mia compagna di stanza, nonché migliore amica.
«Ciao. Entrate.» dico aprendo la porta e facendo un cenno con la mano.
«Cavolo, è davvero bellissima!» esclama Margaret e vedendo l’atrio di casa mia. Era stata nella mia vecchia casa solo una volta, ma credetemi, la differenza si nota subito.
Li faccio accomodare in salotto, dove Emily ci sta aspettando. Quando ci vede entrare si alza e si sistema la maglietta. Era un po’ in ansia, aveva paura di essere di troppo.
«Ciao.» dice timida.
«Ragazzi, lei è Emily, mia cugina.» la presento.
Loro si presentano e la salutano uno per volta. Lei sorride, è felice di conoscerli, si vede. Ha capito che non è un problema la sua presenza. Sorrido, glielo ripetevo da un giorno che non avrebbe dato fastidio e che sarebbero stati molti felici di conoscerla.
Ad un tratto ho un flash.
«Laura?» domanda a Margaret. È la nostra compagna di stanza; non la vedo da una settimana, come gli altri, ma credevo che sarebbe venuta. Le ho inviato un SMS, dato che non rispondeva al cellulare. Mi ha detto che mi avrebbe fatto sapere, ma alla fine non si è più fatta sentire.
«Doveva vedere Jesse.» mi spiega lei.
Io annuisco e poi spiego ad Emily che Laura è la nostra compagna di stanza al college.
Lei annuisce e sorride. Jeremy le chiede di Washington e dell’università e lei gli risponde, felice che glielo abbia chiesto.
Io, però, sono troppo occupata a pensare a Laura. Quel Jesse, lo ammetto, non mi piace. Lei è davvero innamorata, perciò non le ho mai detto niente e non ho intenzione di farlo. Spero solo che sia una mia impressione e che mi stia sbagliando sul suo conto.
 
Usciamo di casa dopo venti minuti. Jeremy ha preso la sua macchina dato che è più grande, perciò carichiamo tutte le borse e partiamo per un bel pic-nic a Central Park. Ci sediamo sulle coperte sotto un grande albero, così da essere all’ombra.
È una bellissima giornata e dopo aver mangiato passiamo il pomeriggio a ridere e a giocare a pallavolo. Non mi sono mai divertita tanto.
 
La settimana passa davvero troppo velocemente ed Emily deve tornare a casa.
Mi dispiace così tanto. Vorrei che restasse qui ancora un po’, ma dopodomani ricomincerà la scuola e al college è importante essere presenti.
Decido di accompagnarla alla stazione, dato che Cal ha da fare con mio padre. La aiuto a portare il trolley e dato che arriviamo dieci minuti prima ci sediamo sulla panchina della stazione ad aspettare.
Quando il treno sta per arrivare, ci alziamo e la abbraccio forte.
«Chiamami e scrivimi.» le dico. Le ho dato il mio numero di telefono e l’e-mail, perciò non ha scuse per non farlo. Spero tanto di sentirla presto. Posso parlare di tutto con lei e questo è davvero bellissimo. Le uniche persone con cui posso farlo sono Sid e, prima della sua morte, James.
«Anche tu.» si raccomanda ridendo.
«Mi sono divertita tanto.» ribatto, quando sciogliamo l’abbraccio.
«Anche io. La prossima volta vieni tu a Washington!» mi dice con un tono che non ammette repliche.
«D’accordo. Durante le vacanze estive. Così avremo più tempo.» propongo. Lei annuisce e ci abbracciamo forte un’altra volta.
«Mi mancherai!» esclamo.
«Anche tu!» ribatte lei. Ci separiamo appena in tempo e lei sale sul treno che si allontana dopo meno di cinque minuti.
 
Salgo in auto, metto in moto e torno a casa; decido di preparare la borsa e lo zaino per tornare al college, così domani mattina tutto sarà già pronto e potrò passare l’ultimo giorno a riposarmi.
Mi sono divertita durante queste vacanze. Sono contenta di aver conosciuto Emily e Cal. Sono brave persone e non vedo l’ora di rivedere mia cugina, magari a Washington.
Piego alcuni vestiti puliti e dopo averli sistemati ordinatamente nello zaino, lo metto vicino alla porta. Poi controllo che tutto sia nella borsa e scendo al piano di sotto a preparare la cena. Metto in forno le lasagne e dopo aver apparecchiato il tavolo, mi siedo sul divano nel salotto e guardo un po’ di TV. Lo ammetto, i miei pomeriggi solitari mi mancavano un po’.
Faccio zapping, annoiata da notiziari e documentari. Finalmente trovo un film interessante e poggio il telecomando accanto a me.
 
All’ora di cena, tornano tutti a casa.
Ho già preparato tutto, perciò ci sediamo e cominciamo a mangiare dopo dieci minuti. Sembrano tutti stanchissimi.
Il lavoro è impegnativo, ma non avevo mai visto Jo così senza energie.
«Emily è riuscita a prendere il treno?» chiede Cal rompendo il silenzio che prima ci avvolgeva. Io sollevo lo sguardo e annuisco. «Mi dispiace non aver potuto accompagnarla, ma sono contento che l’abbia fatto tu.» continua «Grazie.» e sorride.
«Figurati, mi ha fatto piacere.» ribatto senza distogliere lo sguardo dai suoi occhi verdi.
«Vedo che avete legato molto.» interviene mio padre. Quando apro la bocca per parlare mio zio mi interrompe.
«Bè, dato che è l’unica parente rimasta dopo la morte di suo fratello, è normale che…» comincia Cal, poi si blocca. Alza le mani in segno di scusa e ricomincia a mangiare in silenzio. Sgarbato come sempre, Cal.
«Cal.» lo rimprovera mio padre, scuotendo la testa per il disappunto.
«Non importa papà. Ha ragione.» dico, bloccandolo. Pensandoci è così. È l’unica parente della mia età, o pressappoco, rimasta in famiglia. Forse è per questo che mi sono affezionata subito.
Lui stupito annuisce. Credo che gli piaccia contraddire il cognato. Non immagino il clima che ci deve essere al lavoro.
Dopo qualche minuto di imbarazzante silenzio che segue la nostra conversazione, Jo decide di parlare. Grazie al cielo.
«Tesoro, sai già quando parti?» mi chiede. Io la guardo solleva per aver cominciato una nuova conversazione e poi parlo.
«Domani, alle cinque.» spiego e mio padre solleva lo sguardo come se avesse appena ricordato qualcosa.
«Vuoi che ti accompagni a prendere l’autobus?» mi domanda. Io sorrido. Che domande sono?
«Mi piacerebbe.» dico, trattenendo a stento la gioia. Non abbiamo avuto molto tempo da passare insieme, perciò vorrei che ci fosse. Lui annuisce e mi sorride dolcemente.
«Allora ci sarò.» mi assicura e io sorrido compiaciuta.
Durante il resto della cena, parlano del caso che stanno affrontando. Ci sono già stati tre omicidi, la cosa è inquietante, lo ammetto. Comunque tutti sono fiduciosi, anche perché il caso è seguito contemporaneamente dall’FBI.
So che a mio padre non piace che io ascolti quando parlano di lavoro, perciò appena ho finito corro in camera mia e dopo appena mezz’ora mi sono già addormentata.
 
Io e mio padre stiamo camminando verso la fermata dell’autobus dopo essere stati al laboratorio e alla centrale a salutare i miei amici.
«Com’è lavorare con Cal?» chiedo, prendendolo a braccetto. Lui mi osserva e poi rassegnato parla.
«Non male.»
«Che significa “non male” ?» chiedo interrogativa.
«Che bisogna adattarsi ai suoi metodi.» spiega. Ora capisco.
«Ah, parli della cinesica.»
«Già.»
«Ti scoccia che usi quel metodo?» chiedo ancora.
«Non lo so. Credo sia…» comincia e io concludo per lui.
«Poco attendibile?»
Lui si volta e mi guarda divertito.
«Esatto.»
«Sai» comincio «mi sono documentata e ho letto che, contrariamente a quanto si pensa, è molto, molto attendibile.»
«Davvero?» domanda, ma credo che sia solo per accontentarmi.
«Sì. Anche perché è impossibile non comunicare. È uno degli assiomi della comunicazione.» dico in quello che si può definire un vero e proprio sfoggio di cultura.
«Ma tu studi Psicologia o Lingue?» chiede divertito.
«Dimentichi che mi piace leggere.» spiego «Comunque, io continuo a credere che sia attendibile. Nella comunicazione è molto importante che il linguaggio verbale e quello non verbale concordino, perciò se non è così può esserci un motivo. E poi anche quando non vogliamo comunicare il nostro volto e i nostri gesti lo fanno comunque, come ho detto prima.» concludo.
«Complimenti.» mi dice lui trattenendo a stento le risate.
«È vero!» protesto, dandogli una piccola pacca sulla spalla.
Quando siamo davanti alla fermata ci blocchiamo.
«Chiamami, ok?» si raccomanda. Sorrido alla sua premura e lui fa lo stesso.
Lo abbraccio forte e lo tranquillizzo.
«D’accordo. Non preoccuparti. E tu sii gentile con Cal.»
«Ci proverò. E poi c’è Jo a tenermi a bada.» mi fa notare e io annuisco.
Sciogliamo la stretta e mi scocca un bacio sulla guancia.
«Ti voglio bene, papà.» dico.
«Anche io, Lena. Ci vediamo.» conclude. Ci abbracciamo un’ultima volta e poi lui si allontana.
«Lena!» la voce di Margaret mi costringe a voltarmi.
«Ciao!» la saluto e la abbraccio forte.
«Come stai?» mi chiede e io sorrido.
«Bene, tu?» lei annuisce alzando le spalle.
«Jeremy e Ian ci raggiungeranno là.» mi avverte. Io annuisco e poi ricordo.
«Laura quando arriva?» chiedo.
«Ha detto a Jeremy che era già al college ieri sera.» mi spiega.
Quando l’autobus arriva, saliamo e in meno di un’ora arriviamo al college e alle nostre stanze.
 
ANGOLO DELL’AUTRICE
Ciao a tutti! Ecco, come promesso, il quanto capitolo, spero tanto vi piaccia.
Anche questo scorre velocemente, ma pian piano rallenterà, ve lo prometto.
Fatemi sapere cosa ne pensate e se credete che debba rallentare di più! ;D
Inoltre, colgo l’occasione per ringraziare tutti quelli che mi seguono, preferiscono, ricordano e soprattutto recensiscono! Un bacio grandissimo!
A presto, Izzy, xX__Eli_Sev__Xx

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


Always and forever
 
CAPITOLO 6
 
Le informazioni di Jeremy erano esatte. Quando io e Margaret arriviamo alla nostra stanza troviamo Laura seduta al tavolo e intenta a studiare, come sempre.
«Ciao, Laura!» la salutiamo in coro e vedendoci arrivare si alza dalla sedia e ci viene incontro per abbracciarci.
«Ciao, ragazze!» ci abbracciamo in una stretta di gruppo e quando ci separiamo cominciamo a parlare delle nostre vacanze.
Non sono state lunghe, ma Laura ci racconta che ha raggiunto suo padre a San Francisco, dato che i suoi genitori si erano separati due anni fa. Margaret, invece, è rimasta a New York come me e ha passato il tempo al centro commerciale dove lavora sua madre e ne ha approfittato per darsi alla shopping sfrenato.
Non le invidio, ammetto che ho preferito passare le mie vacanze con Emily. Con lei mi sono divertita e per un po’ ho dimenticato tutti i drammi e il dolore.
Dopo la nostra conversazione, sistemo la mia roba nell’armadio e rimetto i libri che mi ero portata a casa sulla scrivania.
Mi avvicino a quella di Laura per vedere cosa stava studiando e intuisco che stesse studiando qualcosa di architettura; io e le mie amiche frequentiamo tutte facoltà diverse: io lingue, Laura architettura e Margaret matematica. Guardando il libro di Laura, capisco che architettura non sarebbe stata una buona scelta per me. Tutti i segni e le foto sul libro sono davvero incomprensibili.
«Ti piace l’arte?» mi domanda Laura.
Io sorrido e scuoto la testa. «Non è la mia materia ideale. Non sono per niente brava nel disegno.» ammetto. Ed è così. Non riuscivo nemmeno ad arrivare alla sufficienza alle scuole medie.
«Nessuno è negato, basta esercitarsi, è come… suonare uno strumento.» mi spiega e io sorrido. Bel paragone. Forse è così. Ma ciò non toglie che le mie ‘opere’ facciano schifo.
«Preferisco le lingue.» affermo. Lei ride e si scosta i capelli dal viso. Solo ora noto che porta un enorme bracciale al braccio sinistro e una montagna di braccialetti al destro. Non fraintendetemi, anche io ne porto molti. Mi piacciono, ma Laura non li sopporta.
«Sono nuovi?» chiedo indicandoli. Lei guarda i polsi e poi abbassa lo sguardo e si schiarisce la voce.
«Ehm… si, me li ha… ecco… regalati Jesse. Per l’anniversario.» balbetta. Perché si sente in imbarazzo? Da quando mio zio Cal sta con noi mi ha insegnato come si fa, a grandi linee, a capire quando le persone mentono. Adesso non ne posso fare a meno. Sto diventando come lui. Comunque, Laura sta mentendo spudoratamente. Lo vedrebbe anche un idiota.
«Ma non gli ha detto che non li sopportavi i bracciali?» domando ancora.
«Si, ma… lui, ehm… Sai, i regali sono sempre ben accetti. Dopotutto, basta il pensiero.» si giustifica. Non sono sicura sia per questo che li indossa.
A quel punto lei tenta di cambiare discorso e si volta per prendere la borsetta. «Andiamo a cena?» chiede.
Io annuisco, continuando ad osservarla. Ad un tratto il sangue mi si gela nelle vene. Sul polso destro, dove i bracciali si sono spostati vedo spuntare dei lividi. Sono blu, tendenti al violaceo, quindi ancora “freschi”.
Ma cosa…?
«Aspetta, Margaret deve ancora vestirsi.» dico, cercando di non dare l’impressione di aver visto qualcosa che non va.
«Ok, vi aspetto in caffetteria.» dice, io annuisco ancora e lei esce chiudendosi la porta alle spalle.
Aspetto qualche secondo perché si allontani e quando sento i suoi passi riecheggiare lontani nel corridoio, chiamo la mia amica.
«Margaret!» dico.
«Cosa c’è?» chiede lei dal bagno, smettendo per un attimo di cantare.
Io busso. «Posso entrare?» domando di rimando.
«Vieni!» mi dice e io entro, chiudendomi la porta alle spalle, non vorrei che Laura tornasse e ci sentisse parlare di lei.
Margaret è intenta a spazzolarsi i capelli e raccoglierli in una coda. Si guarda allo specchio e i suoi occhi ambrati assumono il colore dell’oro alla luce.
«Ascolta» comincio «hai notato che Laura indossava dei bracciali?» chiedo vaga, forse mi sto sbagliando.
«Sì, glieli ha regalati Jesse. Perché?»
Io scuoto la testa. Forse non dovrei parlargliene. O forse la situazione è più grave di quanto crediamo. Poi mi convinco. «Prima, sotto i bracciali…» faccio una pausa «Mi è sembrato di vedere dei lividi.» spiego. Lei si volta di scatto e smette di mettersi il mascara.
«Cosa?!» sbotta, incredula.
«Hai capito.»
«Ma… credi che glieli abbia fatti Jesse?»
«Non lo so. Ma non penso che sul polso se li sia fatti cadendo.» constato «Ed era visibilmente in imbarazzo quando mi ha detto che glieli aveva regalati Jesse. Stava mentendo.»
«Che dovremmo fare?»
«Proviamo a parlarle. Magari si confiderà.» propongo.
«E se glieli avesse fatti Jesse?»
«Allora le diremo di lasciarlo.»
«D’accordo. Finisco qui e andiamo da lei.» annuisco ed esco.
Quando Margaret è pronta usciamo dalla nostra stanza e raggiungiamo la caffetteria.
 
«Ragazze!» ci chiama Laura quando ci vede arrivare, è ferma all’entrata.
Io lancio a Margaret uno sguardo complice e ci avviciniamo. Abbiamo deciso che sarò io a parlare. Lei non è brava con le parole, o meglio, così dice. Dovrò tentare di essere delicata e non forzarla, altrimenti non parlerà.
Quando raggiungiamo la mensa e troviamo un tavolo libero, ci sediamo. Aspetto che cominci a mangiare e poi parlo.
«Laura?» la chiamo. Lei solleva lo sguardo dall’insalata. «Posso farti una domanda?» chiedo.
«Certo.»
«Come te li sei fatti quei lividi?» e vado dritta al punto. Forse sono stata un po’ troppo diretta. E meno male che dovevo essere delicata. Accidenti!
Lei si blocca e volge lo sguardo verso Margaret.
«Quali lividi?» domanda, portando le mani sotto il tavolo.
«Quelli sui polsi.» insisto. Ormai, la frittata è fatta, tanto vale continuare su questa linea.
È agitata. Abbassa lo sguardo. Non l’ho mai vista così poco sicura di sè come in questo momento.
«Non c’è nessun livido.» continua.
«Li ho visti, Laura. Non mentire.»
«Te li ha fatti Jesse, vero?» interviene Margaret.
Lei scuote la testa abbassando lo sguardo.
«A noi puoi dirlo. Siamo le tue migliori amiche!» insiste Margaret.
«No.» risponde lei ferma.
«Ok.» la accontento «Come te li sei fatti, allora?»
«Ehm… sono caduta.» risponde. Tipico.
«Non possono essere lividi da caduta.» constato.
«E invece lo sono.» insiste.
«Laura, se Jesse ti fa del male devi mollarlo, d’accordo?» interviene Margaret.
«Lui non mi fa del male! Ci amiamo!» si infuria.
«Una persona che ti fa del male non ti ama, Laura!» dico.
«Che ne volete sapere voi?» sbotta.
Margaret sospira. «Almeno non permettergli di farti del male.»
Laura, più arrabbiata di prima si alza e se ne va.
Io e Margaret ci guardiamo stupite.
«Credi che lo lascerà?» mi chiede.
Io scuoto la testa. «No.»
 
Dopo la nostra litigata, Laura per più di quattro giorni non ci rivolge la parola.
Un giorno dopo le lezioni, mentre io e Laura stiamo studiando, sentiamo bussare insistentemente alla porta della stanza.
Mi alzo e vado ad aprire dato che sono la più vicina alla porta.
«Ciao.» mi dice un ragazzo biondo dal viso angelico.
«Ciao, Jesse.» rispondo. È il ragazzo di Laura.
«C’è Laura?» mi chiede gentile.
Annuisco e mi scanso per farlo entrare. Le nostre sono supposizioni, non posso sbatterlo fuori solo perché penso che picchi la nostra amica.
«Ciao, amore!» la saluta. Lei gli va incontro e lo bacia.
«Ehm… Io vado in giardino. Ci vediamo dopo.» dico. Prendo il libro di tedesco e la tracolla ed esco. Appena mi chiudo la porta alle spalle un pensiero mi balena nella mente. E se le facesse del male mentre sono fuori?
Non sarebbe così stupido. mi dico subito. Tutto il college lo sentirebbe.
Così mi avvio verso il giardino, mi siedo sull’erba e comincio a studiare letteratura tedesca.
«Ciao, Lena!» sento dire alle mie spalle. Mi volto. Sono Margaret, Ian e Jeremy.
«Ciao, ragazzi!» sorrido e poso il libro sull’erba.
«Ma studi ancora?» mi chiede Jeremy. Nonostante fosse uno scansafatiche al liceo, ha deciso di mettersi a studiare e adesso frequenta la facoltà di Informatica.
«Già, al contrario di te.» gli faccio notare ridendo.
«Andiamo a fare un giro? Sono le 16, puoi anche staccare un po’!» propone.
Dopo un attimo di esitazione annuisco e mi alzo prendendo la tracolla, in cui ripongo il libro.
«Laura è in camera?» mi chiede Margaret. Annuisco.
Approfittando del fatto che Ian e Jeremy siano qualche passo avanti a noi, la prendo a braccetto e le sussurro all’orecchio ciò che penso.
Lei annuisce.
La pensa come me.
 
Dopo due ore passate alla caffetteria a parlare, io e Margaret torniamo alla stanza. Quando siamo a pochi passi dalla porta sentiamo delle urla. Stanno discutendo. Ci avviciniamo e tendiamo l’orecchio.
«Sono stufa, Jesse! Stufa, hai capito?!»
«Tu? E cosa dovrei dire io?»
«Tu?!» esclama Laura.
«Sono sempre stato gentile e non ti ho mai coinvolta e ora che ti chiedo un favore tu ti tiri indietro?»
«Non voglio saperne niente, capito? Niente!» strilla lei.
«Me lo devi, Laura!»
«Io non ti devo niente. E sai che ti dico? È finita!» dentro di me esulto. È un bene che lo abbia scaricato.
«Davvero? E chi lo decide? Tu?»
«Si! Vattene!» gli ordina lei.
Lui scoppia in una fragorosa risata.
Un brivido mi corre lungo la schiena.
«Altrimenti?» ribatté lui.
Si mette male. Guardo preoccupata Margaret e lei ha la mia stessa espressione.
«Altrimenti urlo e ti faccio cacciare dagli insegnanti.» lo minaccia. Brava Laura!
«Va bene. Me ne vado, ma non è finita qui!» esclama lui, in preda alla rabbia.
Lo sento avvicinarsi, così tiro Margaret per un braccio e la allontano. Ci nascondiamo nel corridoio più vicino e lo vediamo allontanarsi. Appena è uscito raggiungiamo Laura che è in preda alle lacrime. La abbracciamo senza dire niente e lei ricambia la stretta.
«L’ho lasciato.» ci spiega quando ci separiamo.
«Hai fatto la cosa giusta.» le dice Margaret. E io le accarezzo il volto.
«Ma ci dispiace comunque. Sappiamo quanto tenevi a lui.» dico e lei annuisce.
«Avevate ragione. Non dovevo permettergli di trattarmi così.» ammette. Ha riacquistato la ragione, finalmente.
 
ANGOLO DELL’AUTRICE
Ecco a voi il sesto capitolo. Spero tanto vi piaccia.
Compaiono due nuovi personaggi: Laura e il suo ragazzo, Jesse.
Se avete bisogno di chiarimenti perché ho saltato qualche passaggio e non me ne sono accorta, fatemelo sapere.
A presto, la vostra Izzy, xX__Eli_Sev__Xx

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Capitolo 7
*** Capitolo 7 ***


Always and forever
 
CAPITOLO 7
 
L’estate si avvicina e di conseguenza anche gli esami. È il primo giugno e sto passeggiando da più di un’ora nel cortile. È passato un altro anno. Mi sono fatta dei nuovi amici e adoro la facoltà che ho scelto. Non potrebbe andare meglio.
L’aria estiva comincia a farsi sentire e anche il caldo sembra arrivato in anticipo, infatti indosso, come molta altra gente, pantaloni corti e una t-shirt. Alcuni ragazzi sono seduti sull’erba a studiare, altri a prendere il sole.
Dopo due ore di studio, una bella passeggiata è l’ideale per schiarirsi le idee.
Ad un tratto, però, la mia attenzione viene attirata da delle urla.
«Lasciami!» sento gridare. Le grida sono vicine, così svolto l’angolo che mi porta al cortile più interno e imbocco la piccola strada che passa sotto un’arcata decorata con intarsi di ogni genere.
Quando mi affaccio sul giardino mi blocco, non so se per la paura o per l’orrore.
È Laura che sta gridando. È stesa a terra e al suo fianco, che la sta prendendo a calci, c’è Jesse.
Mi desto come da un brutto sogno vedendo che due ragazzi si stanno avvicinando. Tiro un sospiro di sollievo. Lo fermeranno quello schifoso. Sono alti almeno quanto lui e molto robusti. Non li ho mai visti qui, ma l’università è grande.
Dopo qualche secondo in cui osservano Jesse da lontano si avvicinano sempre più e mi accorgo che non vogliono aiutare Laura, anzi stanno… ridendo
Senza pensarci due volte mi muovo e corro verso di loro.
«Ehi!» grido «Lasciatela stare!» loro continuano a ridere. Quando raggiungo Jesse, che per la cronaca è dieci centimetri più alto di me, lo spingo via. Lui però è più forte, quindi gli basta una spinta e mi ha già buttata a terra.
«Lasciala, Jesse!» continuo a gridare.
«Sta’ zitta!» mi strilla contro. Io mi alzo e mi paro davanti alla mia amica, ma Jesse mi afferra per le braccia. Io sferro dei pungi contro il suo petto, ma non sembrano efficaci. Dopo qualche secondo mi ritrovo di nuovo a terra. Un dolore lancinante al braccio, mi costringe a massaggiarlo. Tento di rialzarmi, ma qualcosa mi blocca.
«Ehi!» sento gridare.
Mi reggo la testa con una mano, l’ho sbattuta forte, ho la vista offuscata.
Vedo il signor Anderson, l’insegnante di Italiano del mio corso che si avvicina. È giovane ma ha l’aria autoritaria. Vedo che dietro di lui c’è il signor Brown, l’insegnante di Letteratura Tedesca. Sono molto amici e passeggiano spesso insieme per il college per controllare che sia tutto a posto. E questa volta hanno avuto un tempismo perfetto.
I due ragazzi e Jesse, ridendo, corrono via prima che gli insegnanti possano raggiungerli.
Mi sollevo sul gomito destro. Sono tutta indolenzita, ma sto sicuramente meglio di Laura. È piena di lividi ed è ancora raggomitolata a terra. Mi avvicino strisciando.
«Laura.» sussurro «Se ne sono andati.» la rassicuro. Lei scopre il viso e mi abbraccia.
«Grazie.» è tutto ciò che riesce a dire. Sta sanguinando dal naso, credo che sia rotto.
«Ragazze!» gridano i professori. Brown aiuta Laura ad alzarsi e la accompagna in infermeria, mentre Anderson aiuta me.
«Come stai, Lena?» chiede.
Io annuisco. «Solo un po’ indolenzita.»
«Ma cos’è successo?» chiede allarmato.
«Il ragazzo di Laura, la mia amica…» dico, ma mi sembra che le mie parole non abbiano senso «Lui, la stava picchiando. Lo faceva già da un po’.»
«Capisco.» fa una pausa «Ti porto in infermeria.» mi dice.
«No, posso andarci da sola. Non si preoccupi.» lo rassicuro. Però, quando tento da fare un passo, tutto si fa buio.
 
Credo di essere svenuta, perché quando mi risveglio mi ritrovo in infermeria.
Per fortuna tutti erano a lezione, altrimenti avrebbero di che parlare. Già me li immagino.
«Il professor Anderson ha portato Lena Taylor in infermeria tra le braccia!»
Quando apro gli occhi vedo Laura stesa su letto accanto al mio. È sveglia.
«Ciao.» dico.
Lei sorride. «Ciao, Lena.» fa una pausa e si solleva leggermente dal lettino. «Grazie per prima.»
«Figurati.» dico e mi sollevo anche io. Poggio i piedi a terra e quando capisco che le gambe possono reggermi mi sollevo e la raggiungo.
Ci abbracciamo.
«Ma che volevano da te?» chiedo. Gli occhi le si riempiono di lacrime.
«Jesse è…» si blocca, io la allontano per guardarla meglio «È uno spacciatore.»
Non credo di aver capito bene.
«Come?» domando.
«È uno spacciatore.» ripete lei.
«Ma…» tento di parlare, ma non ci riesco.
«Per questo l’ho lasciato. Mi aveva chiesto di aiutarlo con una partita di droga.
«Avresti dovuto denunciarlo, Laura!» la rimprovero.
«Lo so. Ho sbagliato. Ma intendo rimediare. Domani stesso vado dalla polizia.»
Sospiro e annuisco. Poi la nostra conversazione viene interrotta dall’arrivo di Margaret, che sta piangendo come una fontana, Ian e Jeremy.
 
«È andata dalla polizia?» mi domanda Margaret mentre andiamo a lezione, il giorno dopo l’aggressione. Stiamo camminando nel corridoio, zigzagando tra gli altri studenti e tra gli insegnanti in ritardo.
«Sì.» spiego, schivando una ragazza così bassa che non avevo nemmeno visto.
«Per fortuna sono arrivati i professori.» mi fa notare lei.
Io annuisco, se non fossero stati lì, ci avrebbero massacrate. «Già. Non so come sarebbe finita, altrimenti.»
Arriviamo ad un bivio.
«Ci vediamo dopo le lezioni!» mi dice andando a sinistra.
«A dopo, ciao!» la saluto e vado verso destra, verso l’ultima lezione prima degli esami.
 
Alle 15 io e Margaret ci incontriamo allo stesso bivio. Ci diamo appuntamento lì tutti i giorni. Sorrido, vedendo che arriva quasi correndo.
«Com’è andato l’ultimo giorno?» chiedo, sapendo che me lo avrebbe detto comunque.
«Bene! E il tuo? Finalmente è finita!» esclama felice.
«Bene, saluti e raccomandazioni per gli esami.» dico.
Ci avviamo verso la camera. Alcuni ragazzi stanno correndo in giardino a studiare, tentando di assicurarsi i posti migliori all’ombra del grande albero.
Quando sono davanti alla porta, prendo la chiave e la infilo nella toppa.
È aperto. Forse Laura è già tornata.
Quando spalando la porta, la scena che ci troviamo davanti è terrificante.
Eppure non sto sognando. Non è uno dei miei incubi.
Margaret grida, ma io non ci riesco.
Mi copro la bocca con una mano e soffoco il grido.
Al centro della stanza, a terra, c’è una sedia rovesciata. Una lunga corda pende dalle travi del soffitto in legno. Non è una corda qualunque, è un cappio. Una di quelle corde che utilizzavano per uccidere i criminali nel selvaggio west. Solo che qui non siamo nel selvaggio west. E l’impiccato non è un criminale.
È la mia amica Laura.
 
ANGOLO DELL’AUTRICE
Ciao a tutti! Ecco a voi il settimo capitolo. È breve, ma molto intenso, perciò se c’è qualcosa di poco chiaro, fatemelo sapere! ;D
A presto, la vosta Izzy, xX__Eli_Sev__Xx

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Capitolo 8
*** Capitolo 8 ***


Always and forever
 
CAPITOLO 8
 
Da più di quindici minuti sto fissando, immobile, il pavimento. Ho le dita intrecciate a quelle di Margaret, anche lei non si muove. Il suo corpo è scosso da piccoli tremori e dei piccoli singhiozzi riecheggiano nel corridoio.
Siamo sedute con la schiena appoggiata al muro del corridoio che porta alla nostra stanza da circa un quarto d’ora.
I professori sono accorsi subito dopo aver sentito le grida e sono riusciti ad allontanare gli altri studenti appena in tempo. Sono contenta che il primo ad essere arrivato sia stato Anderson. Ci ha subito trascinate fuori e ci ha rassicurate, anche se niente può rassicurarci davvero.
Vorrei che tutto questo fosse un incubo, uno di quei brutti sogni che sembrano così reali da segnarti per sempre. Vorrei svegliarmi da un momento all’altro nella stanza di casa mia e scoprire che, anche se è stato orribile vedere tutto questo, è tutto finito.
Però non succederà, è tutto maledettamente vero.
Laura è morta. Si è suicidata. E ha scelto la nostra stanza. La stanza dove abbiamo passato i più bei momenti della nostra vita, per farlo.
Delle lacrime mi rigano il volto e ricomincio a singhiozzare. Margaret mi stringe a sé e io la abbraccio forte. Anche lei sta piangendo.
Perché? Perché non possiamo aver neanche un attimo di serenità?
Sentiamo delle auto fermarsi nel cortile. Che sia già arrivata la polizia?
No. Sono i genitori di Margaret e quelli di Laura. Questi ultimi sono in lacrime e quando entrano nella stanza, la madre si lascia sfuggire un grido di disperazione. Vorrei gridare anche io. Rompere tutto per la rabbia.
«Margaret, tesoro?» la chiama sua madre.
«Oh, mamma!» esclama lei quando ci separiamo e la abbraccia. Il padre abbraccia entrambe e io rimango seduta con la schiena appoggiata al muro.
«Lena?» mi chiama la mamma di Margaret, la signora Miller. Io sollevo lo sguardo. Ho pianto così tanto che mi fa male la testa. «Noi usciamo a prendere un po’ d’aria. Vuoi venire con noi, cara?» mi chiede.
Io scuoto la testa. «Grazie comunque.» sussurro. Loro sorridono debolmente e abbracciati alla figlia, escono.
Dopo qualche minuto la polizia scientifica, degli agenti del distretto e il medico legale imboccano il corridoio. Non li vedo dato che ho il viso premuto contro le ginocchia, perciò immagino siano loro. Spero tanto che sia Mac a venire. Ho bisogno dell’abbraccio di mio padre, ora come non mai.
L’immagine di Laura impiccata mi ritorna in mente di colpo. Cerco di scacciarla, ma le lacrime tornano a rigarmi il volto. La nausea mi invade.
Sollevo la testa, che continua a farmi male e vedo, a qualche metro da me, mio padre.
Mi alzo in piedi. Vedo che ha posato la valigetta e quindi gli corro incontro. Lui allarga le braccia e mi stringe forte. Continuo a singhiozzare e non riesco neanche a parlare.
«Shh. Stai tranquilla. Sono qui.» mi sussurra all’orecchio. Io piango ancora e ancora. «Mi dispiace, tesoro.»
Sento qualcuno che mi accarezza i capelli, così volgo lo sguardo verso destra. È Jo.
Sciolgo l’abbraccio con mio padre e mi stringo a lei. Anche lei mi sussurra parole dolci e rassicuranti, ma sono inutili. Come potrei stare tranquilla quando nella mia stanza al college si è impiccata una delle mie migliori amiche?
Sciogliamo la stretta così che possano andare a fare i rilievi.
Solo ora mi accorgo che dietro di loro, in piedi, c’è Don.
Ci guardiamo per un secondo, ma basta poco per capire che deve abbracciarmi. Si avvicina, mi stringe a sé e mi solleva da terra. Io gli scocco un leggero bacio sulla guancia come ringraziamento. Lo lascio andare e anche lui entra nella stanza. Io rimango fuori, sola in mezzo al corridoio. Stringo i pungi e abbasso lo sguardo. Ad un tratto sento che qualcuno mi tocca la spalla con una mano.
«Mi dispiace tanto per la tua amica.» è il professor Anderson.
«Grazie, professore.» dico singhiozzando e lui accenna un sorriso.
«Se avessi bisogno di qualcosa non esitare a chiedere.»
«Grazie, davvero.» ripeto ancora e lui si allontana.
Ricomincio a singhiozzare. Questa volta, come temevo, l’aria comincia a mancarmi. Cerco di respirare regolarmente, ma non ci riesco. Poggio una mano all’altezza del cuore e sento che sta galoppando. Mi reggo la testa. Potrei svenire, credo. La vista mi si offusca e mi sento le gambe molli.
Prima che possa cadere, qualcuno mi afferra per le braccia e mi porta fuori. Solo quando siamo nel cortile mi rendo conto che è Cal. Mi aiuta a sedermi sull’erba e si mette accanto a me.
Non riesco a calmarmi fino a che lui non mi stringe a sé. Ci conosciamo da poco, ma non so perché, mi è utile. Il respiro torna regolare, vedo nitidamente e il cuore, lentamente, rallenta. Gli stringo il braccio con una mano e l’unica cosa che mi dice è: «Mi dispiace, Lena.»
Quando ci allontaniamo, lui mi sposta una ciocca di capelli dal viso e mi accarezza la guancia con il dorso delle dita. Accenno un sorriso, molto sforzato.
«Va meglio?» chiede. Io annuisco. In tutta risposta lui intreccia le sue dita alle mie e le stringe. Appoggio la testa alla sua spalla e rimaniamo lì per quasi mezz’ora, fino a che un agente non ci dice che dobbiamo raggiungere la caffetteria.
 
«Siediti, Lena.» mi dice mio padre, che ha già preso posto ad uno dei tavolini arancioni. Accanto a me c’è Margaret. Le stringo la mano e lei fa lo stesso.
«Ragazze, dobbiamo farvi alcune domande su Laura.» comincia.
Noi annuiamo.
«Margaret, dovresti raggiungerci alla centrale questo pomeriggio alle 16. Dato che sei maggiorenne, puoi anche venire da sola. Vale anche per te, Lena.» dice e noi annuiamo ancora.
«Adesso avrei bisogno del vostro DNA e delle vostre impronte.» Jo si avvicina e prende le impronte e il DNA con un tampone. Appena ha finito, ripone tutto nella valigetta e mi accarezza il volto con una mano.
«Ci vediamo oggi, allora.» conclude mio padre. Noi annuiamo e rimaniamo sedute a guardarli allontanarsi.
 
Alle 16 arriviamo alla centrale. Sto ancora tenendo la mano a Margaret e insieme ci avviamo verso la sala interrogatori.
Ci sediamo sulle seggiole ad aspettare fino a che Jo non viene a chiamarci.
«Lena, cominciamo con te, d’accordo?» mi dice. Io annuisco, abbraccio Margaret ed entro. Non avevo mai visto una vera sala da interrogatorio. Ha le pareti nere e un tavolo di metallo al centro. Sulla parete di fondo c’è un enorme specchio. Ma so benissimo che non è un normale specchio, è unidirezionale. Dall’altra parte c’è sicuramente qualcuno che assisterà a tutta la conversazione.
Mi siedo e poco dopo entrano Cal e un uomo che non conosco.
«Ciao, Lena.» mi salutano e io rispondo molto semplicemente.
«Salve.» poi lui si presenta.
«Sono Michael Mason. Sono stato incaricato di interrogarvi. Dato che sei la figlia del detective Taylor, non volevano che si facesse coinvolgere troppo, così degli interrogatori mi occuperò io.»
Io annuisco e volgo lo sguardo verso Cal, che annuisce rassicurante.
«Allora, l’autopsia ha confermato che Laura è stata uccisa. Non si è suicidata.» fa una pausa e vedendo la mia espressione perplessa, continua «Solo dopo è stato simulato il suicidio.» mi spiega senza dare altri dettagli «Vuoi parlarci di Laura?» mi domanda infine.
Ancora stupita, annuisco e poi comincio. Devo riuscire a formulare un frase di senso compiuto, ma non credo di riuscirci.
«Ehm…» esito qualche secondo e poi parlo «Laura era la nostra compagna di stanza. Lo è stata fin dall’inizio dell’anno scolastico e… eravamo molto amiche anche se frequentavamo facoltà diverse.» quindi non si è uccisa. Non voleva morire. Cerco di trattenere le lacrime, quando la scena della sua morte mi si presenta nella mente.
«Hai notato qualcosa di strano nell’ultimo periodo?» mi domanda Mason, riportandomi alla realtà.
«Qualche mese fa avevo notato dei lividi sulle sue braccia, le avevo chiesto insieme a Margaret, come se li fosse fatti e lei mi aveva detto che era caduta.» spiego, mi fermo qualche secondo e poi continuo «Poi, tempo dopo, aveva lasciato il fidanzato, dato che era stato lui a farle del male. Ieri, stavo facendo una passeggiata nel cortile del college e ho notato il suo ragazzo che con due amici la stava picchiando.» gli racconto di come ho tentato di fermarli, del ritrovamento e del fatto che Laura mi avesse detto che Jesse era uno spacciatore.
«Come ci chiama questo ragazzo?» mi chiede.
Non è mai arrivata a fare la denuncia, quindi.
«Jesse Peterson.» dico senza esitazione. Forse è a causa sua se la mia migliore amica è morta. Potrebbe averla uccisa perché lei aveva tentato di denunciarlo alla polizia.
«D’accordo.» dice, lo appunta su un fascicolo e si volta verso Cal. Lui mi ha sempre osservata per tutta la durata dell’interrogatorio, ma non ha mai parlato.
«Pensi che sia Jesse ad averla uccisa?» mi domanda mio zio. Io sollevo lo sguardo. Come ha fatto a capirlo? Forse ce l’avevo scritto in faccia, come dice spesso.
«Forse.» ammetto. Ma ora non ne sono più così certa, probabilmente l’aveva minacciata ma non è mai passato ai fatti. Comunque non ho potuto negarlo. È stato il mio primo pensiero, tutto è possibile.
«Perché?»
«La picchiava. La voleva costringere a partecipare allo spaccio di droga e quando lei aveva rifiutato l’aveva minacciata.» effettivamente tutto torna.
«Quindi è lui l’assassino.» constata mio zio. Ma dove vuole andare a parare? Non dovrebbe essere dalla mia parte?   
«Non ho detto questo.» lo blocco.
«Ma lo pensi.»
«Ma potrei sbagliarmi.» gli faccio notare «A me Jesse non è mai piaciuto. Forse è per questo che la penso così.»
«Quindi non eri amica del suo ragazzo?» interviene Mason. Io scuoto la testa.
«Nessuno del nostro gruppo di amici lo era.» spiego. «Era strano e giravano strane voci su di lui. E poi ieri Laura mi ha confermato che era uno spacciatore.»
«Quindi secondo te l’ha uccisa lui.» continua ad insistere Cal, impassibile.
«Non l’ho mai detto.» ripeto ancora.
«D’accordo.» dice Mason interrompendoci «Puoi andare. Ma rimani a disposizione.» mi dice, come da procedura.
Mi alzo, saluto cordialmente ed esco. Margaret è ancora seduta sulle seggiole davanti alla sala interrogatori.
«Com’è andata?» mi chiede appena mi vede.
Io scuoto la testa. «Non lo so.» rispondo incerta.
«Anche a te hanno detto che Laura è stata uccisa?» mi chiede.
«Sì.» deve averglielo detto Jo.
«Allora è vero. Non si è suicidata.» e poi si blocca «Da un lato sono… felice.» mi confessa.
«Anche io.» dico. È un sollievo sapere che non si è uccisa. Non che il fatto che un assassino l’abbia uccisa mi faccia stare tanto meglio.
«Margaret Miller?» la chiama un agente. Lei si volta preoccupata. «Può entrare per l’interrogatorio.» le dice.
Lei mi guarda e io la abbraccio. «Sta’ tranquilla e andrà tutto bene.» la rassicuro. Lei annuisce ed entra.
 
Dopo più di un’ora esce, anche lei con le lacrime agli occhi. Mi ringrazia per averla aspettata e insieme torniamo al college. Domani ci aspettano gli esami.
 
ANGOLO DELL’AUTRICE
Ciaoo! Scusate se pubblico con un giorno di ritardo, ma sono stata impegnata con la scuola guida!
Comunque, spero tanto che vi piaccia, fatemi sapere!
A presto, Izzy, xX__Eli_Sev__Xx

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Capitolo 9
*** Capitolo 9 ***


Always and forever

CAPITOLO 9

Dopo una settimana di studio e di esami, finalmente posso tornare a casa. 
Due giorni fa, c’è stato il funerale di Laura. Era presente molta gente. Abbiamo pianto tanto e i suoi genitori hanno ricordato che figlia bellissima avessero. Nessuno, per fortuna, mi ha chiesto di dire qualcosa durante la funzione. Non avrei saputo cosa dire senza essere monotona o scoppiare in lacrime.
Io e Margaret ci siamo tenute per mano per tutta la funzione, fino al momento della sepoltura. Il cimitero era rigoglioso. I prati verdi, i fiori sbocciati che coloravano ogni angolo. Sembra impossibile, ma uno spettacolo come questo quel giorno mi è sembrato più lugubre di un castello abbandonato e infestato da spiriti. Mentre noi piangevamo la nostra amica, la natura era in festa: come se la terra fosse felice di inghiottire la bara di Laura.
Anche il professor Anderson era presente, dato che era stato il primo ad accorrere sulla scena. Non piangeva, ma qualche volta getteva degli sguardi verso me e Margaret, probabilmente per controllare che stessimo bene. 
Per un momento mi era sembrato di vedere anche Jesse, nascosto in fondo al cimitero. Poi, ho subito dedotto fosse stata solo un’impressione. 
Inoltre, due giorni dopo la morte della mia amica, ho ricevuto una telefonata da Emily. Mi ha detto che le dispiaceva molto per ciò che era successo e che se mai avessi avuto bisogno di qualcosa, dato che la scuola era ormai finita, avrei potuto chiamarla in qualsiasi momento. L’ho apprezzato molto e le ho risposto che tutto andava bene.
Però non è così. Non va bene. Nulla va per il verso giusto e non so se mai lo farà.

Io e Margaret siamo sul pullman che ci riporterà a New York.
«Ci sentiremo durante l’estate?» mi chiede guardando malinconica fuori da finestrino. Poi si volta e mi rivolge uno sguardo triste.
«Ovvio. Ogni giorno.» dico sorridendo forzatamente e le prendo la mano. Sui sedili dietro di noi Ian e Jeremy stano ascoltando la musica e quando ci sentono parlare si sporgono sopra i nostri schienali.
«Ci dobbiamo anche vedere.» ci fa notare Jer.
«Certo, magari a casa di Lena.» propone Ian. 
Adorano casa mia, adesso. 
Peccato che Laura non abbia potuto vederla. 
La malinconia mi assale ancora, ma sorrido. Trattengo a fatica le lacrime. Non devo piangere. Devo resistere.
Quando il pullman si ferma davanti alla biblioteca salutiamo Jeremy che scende felice di non dover più studiare per tre mesi. Dice che ci chiamerà e ci saluta con un cenno della mano mentre l’autobus si allontana.
Dopo circa dieci minuti, anche Ian e Margaret scendono dall’autobus dato che abitano a pochi isolati di distanza e io rimango sola. 
Mi sposto sul sedile accanto al finestrino e contemplo la mia New York. È bellissima, come sempre. Le insegne luminose sono già in funzione e tutto è talmente colorato che potrebbe accecarmi. I taxi gialli ci sorpassano a una velocità sconsiderata e un continuo rumore di clacson fende l’aria.
Un’altra fermata passa. Alcuni passeggeri salgono a bordo e io mi volto a osservarli. Sono quasi tutti anziani, il che non mi sorprende, questa è una linea cittadina e per evitare il traffico in auto, molti prendono il pullman o la metro.
Ad un tratto una ragazzo mi arriva alle spalle.  
«Ciao, posso sedermi?» mi chiede. Io mi volto e lo studio. È biondo, alto e una leggera barbetta gli circonda il volto. Ha gli occhi azzurri come il cielo, proprio come i miei. È davvero carino. 
Non l’avevo notato alla fermata, probabilmente è salito dalla porta posteriore.
«Ehm… Certo.» dico alla fine.
«Scusa, è tutto occupato.» si giustifica.
«Figurati.» dico noncurante. Non dev’essere molto più grande di me.
«Come ti chiami?» mi domanda. 
Oh, no. Non sarà mica un altro assassino?! Se mi vuole uccidere per lo meno lo faccia subito, almeno la smetterei di soffrire ogni volta che perdo qualcuno.
Lo guardo interrogativa.
«Scusa. Troppo diretto.» si scusa «Io sono Joseph.» e mi tende la mano. Esito e dopo qualche secondo la stringo, ancora titubante.
«Lena.» mi presento sbrigativa.
«Torni dall’università?» mi domanda, vedendo tutte le mie borse e indicandole.
«Già. Vedo che anche tu stai tornando a casa.» constato. Ha un accento strano. Sembra europeo, di qualche paese nordico.
«Sì. Vado alla Columbia. Primo anno. Lingue.» università prestigiosa.
«Io vado al Queens. Primo anno e Lingue anche io.» ribatto.
«Capito. Sei di New York?» a quella domanda sorrido. Mi sta facendo un interrogatorio? Posso fornirgli la mia corta d'identità se preferisce.
«Sì. Abito in periferia.»
«Davvero? Anche io. Mi sono appena trasferito.» mi dice. 
«Europa?»
«Già, come fai a…?»
«Ho un amico con un accento simile al tuo. È inglese.» Jeremy ha lo stesso modo di parlare di Joseph. Adoro il loro accento.
«Io svedese. Ma ho sempre vissuto in Inghilterra, vicino a Cambridge. Poi mio padre, quando avevo dieci anni si trasferì a Los Angeles per lavoro e io, mia madre e mia sorella lo seguimmo.» racconta. Poi sorride «E tu?»
Io esito e abbasso lo sguardo. Gli racconto velocemente la mia storia e lui annuisce senza mai interrompermi. Non vedo compassione nei suoi occhi e questo mi piace. 
«Bè. Hai avuto una vita movimentata.» esclama quando ho finito. 
Io sorrido. È il primo che non prova compassione per me. Lo trovo molto bello. Lo so, sono orgogliosa, ma non mi piace che tutti siano compassionevoli con me. 
«Abiti vicino a Central Park?» chiedo, vedendo che è la fermata più vicina. Non potrà abitare più in periferia di me.
«Non proprio.» quando mi spiega, dettagliatamente, dove abita rimango a bocca aperta. Stiamo nella stesso quartiere. Quando glielo dico, sul suo viso si dipinge un sorriso. 
«Fantastico!» esclama «Io abito al numero 6.»
Io rido. Che coincidenza.
«Io al 4.» ribatto, trattenendomi dall’esprimere commenti.
«Allora credo che scenderemo insieme.» dice e sorride.
Dopo altri venti minuti di viaggio, arriviamo alla nostra fermata e scendiamo.
«Ho sentito che al Queens c’è stato un omicidio.» sbotta. 
Mi blocco e mi preparo a raccontare.
«Già.» dico sbrigativa, magari riuscirò ad evitarlo.
«Com’è successo?» chiede.
«Ehm... All’inizio si pensava fosse un suicidio, ma hanno constatato che è stato un omicidio.» spiego.
«E tu come lo sai?»
«Era la mia migliore amica. La ragazza morta. L’abbiamo trovata io e la mia compagna di stanza.» racconto.
«Oh. Accidenti.» c’è rimasto male «Mi… mi dispiace.»
«Già.» dico. 
Dopo mezz’ora a piedi, arrivo davanti a casa mia. Abbiamo fatto una bella chiacchierata. È simpatico, dopotutto. Poso il pesante zaino a terra e sorrido al mio nuovo amico.
La sua villetta è praticamente attaccata alla mia. Le nostre finestre e il balcone distano di qualche metro, ho paura che saremo spesso affacciati per chiacchierare.
«Sono arrivata.» dico. Lui sorride e annuisce.
«Bella casa.» si complimenta.
«Grazie. Anche la tua è molto bella.» il che sembra ovvio dato che sono esattamente identiche viste da fuori.
«Bè» comincia «potremo fare una passeggiata nel quartiere una di queste sere.» propone. Io annuisco. Mi piacerebbe, mi aiuterebbe a distrarmi.
«Allora ci vediamo alla finestra.» dice e a quella affermazione sorrido. È strano dirlo, ma mi fa piacere avere qualcuno con cui parlare a pochi metri da me.
«D’accordo. Ciao, Joseph.»
«Ciao, Lena.» ci salutiamo, prendo le chiavi nella borsa ed entro in casa. Ovviamente è vuota. 
Ne approfitto per disfare i bagagli e farmi una doccia. Quando ho finito entro in camera mia e accendo la musica. 
Porto in lavanderia i vestiti da lavare e ripongo quelli puliti nell’armadio. 
Metto in ordine i miei libri e il materiale scolastico. Mi piace che sia tutto in ordine. Ripongo portapenne e agenda nel cassetto e lo chiudo. Poggio il cellulare accanto alla lampada e mi dirigo in bagno per riporre gli oggetti del mio beauty nell'armadietto.
Quando ho finito sono le 18 passate e vedo che sul balcone, che scuote la mano in segno di saluto, c’è Joseph. Apro la portafinestra ed esco. Non avevo mai usato il balconcino se non per prendere una boccata d’aria ogni tanto.
«Ti mancavo già, eh?» dico, ironica.
«Moltissimo!» scherza lui. Siamo così vicini che potremmo sentirci sussurrando. 
«Che cosa facevi?» chiedo.
Lui sorride. «Riordinavo il mio rifugio. E tu?»
«Idem.»
«Parli anche latino?» esclama ridendo.
«No, so solo poche parole.»
«Che lingue studi?» chiede. Appoggiandosi con i gomiti alla ringhiera.
«Italiano, tedesco e spagnolo.»
«Tre lingue?! Io ne studio soltanto due!» esclama stupito.
«Quali?» chiedo curiosa.
«Italiano e spagnolo.»
Sorrido. Anche a lui piacciono le lingue neolatine. Abbiamo molte cose in comune, è bello sapere che qualcuno condivide i tuoi interessi.  
«Ascolta...» comincia «Ti piace correre?» domanda.
«Sì, abbastanza. Perché?»
«Che ne dici se al mattino presto usciamo per una corsetta?» propone.
Faccio finta di riflettere, anche se ho già deciso. «Certo.»
«Facciamo domani alle 7 davanti a casa mia?»
«Ci sarò.» dico annuendo e regalandogli un sorriso.
«Perfetto.»
«Ora scusa ma devo andare, tra poco arriveranno i miei e devo preparare la cena.» dico, scusandomi e guardando l'orlogio che ho al polso.
«Idem.» ripete.
«Ah, impari in fretta.» scherzo.
«Eh, già. Che ci vuoi fare? Sono troppo forte!» esclama.
«Già. Ciao, Mister Modestia!» lo saluto.
«Ciao, Maddy.» mi saluta. 
Oh, no. Adesso mi pento di avergli detto che mi chiamo Maddalena. 
Maddy? Nessuno mi chiama più così da molto tempo. Solo mio padre lo faceva. Sento le lacrime pungermi gli occhi, pronte a sgorgare. Le blocco. Non devo piangere. 

La cena è pronta in meno di venti minuti e quando i miei arrivano e già tutto pronto. Cal ha l’aria visibilmente stanca e Mac non è da meno. L’unica che è ancora arzilla è Jo, ma non mi sorprende, lei è instancabile. Li saluto e ci sediamo a tavola. Parlano poco, il che è imbarazzante, poi per fortuna Jo comincia.
«Come sono andati gli esami?» domanda sorridente.
«Bene, ho preso A+.» dico, senza voler essere presuntuosa, ovviamente, ma è così. Dato che sono cose che mi piacciono, ho buoni risultati.
«Anche in tedesco?!» chiede lei stupita. Io annuisco. «Pensavo fosse difficile come lingua.»
«Non è delle più semplici, ma impararla è come impararne un’altra.» spiego.
«Sei sempre più brava.» si complimenta mio padre. Io sorrido e credo anche di arrossire, i complimenti mi fanno quest’effetto. 
Il silenzio torna a piombare sulla cucina. 
Dopo qualche minuto di quiete totale decido di parlare. Una domanda mi ronza in testa da troppo tempo. Talmente tanto che sta diventando fastidiosa. Devo sapere.
«Papà?» lo chiamo. Lui si volta, come anche Cal e Jo. Ho tutti gli sguardi su di me «Posso chiederti una cosa?»
«Dimmi.» dice, posando la forchetta e appoggiando i gomiti sul tavolo.
Esito qualche secondo. «Ehm… Volevo sapere com’è morta Laura. Mi hanno detto che è stata uccisa, ma nient’altro.» non ce la faccio più, devo saperlo.
«Tesoro, io non credo che…» interviene Jo.
«Jo, voglio saperlo. L’ho trovata insieme a Margaret, era la nostra migliore amica. Non credi sia mio diritto sapere come è stata uccisa? Non voglio i dettagli, solo…» sbotto. 
Lei si blocca. Poi annuisce. Ha capito.
Mio padre esita. Non parla. Devo presentare una richiesta scritta per saperlo? Gliel’ho detto, non voglio i dettagli, solo a grandi linee.
«È stata soffocata.» interviene Cal, brusco.
«Cal!» lo ammonisce mio padre.
«Soffocata? E non è stata, insomma…» comincio. Mio zio sembra capire.
«No. Ma è stata torturata. A lungo.»
«Cosa?» chiedo in un sussurro. Non è possibile. Com’è possibile che una persona sia così malvagia da torturare una ragazza indifesa?
Lui annuisce con indifferenza.
«L’hanno immobilizzata con un tranquillante, poi l’hanno torturata. Ha molteplici ferite inferte da un’arma da taglio in varie parti del corpo e…»
«Cal, ti prego.» anche Jo interviene, adesso, interrompendolo, ma lui sembra non sentirla. Lei ha capito che non reggerò a lungo questa conversazione. Abbasso lo sguardo e gli occhi mi si riempiono di lacrime, scuoto la testa. Non voglio più ascoltare.
«Probabilmente era una vendetta per qualcosa che aveva fatto. Il soffocamento è avvenuto a causa dei danni polmonari. Le hanno sfondato la cassa toracica a calci. Un polmone si è perforato e lei è morta lentamente.» conclude, indifferente.
Non ce la faccio. Volevo sapere come era successo, non i dettagli. Non tutto questo. 
Mi alzo dalla sedia di scatto ed esco dalla cucina coprendomi la bocca con una mano per soffocare i singhiozzi. Raggiungo il salotto e mi affaccio alla finestra per prendere un po' d'aria.
Oh, mio Dio. Soffocata. Torturata. Non pesnavo che una persona potesse arrivare a tanto.
Mio padre entra per primo nel salotto. Si è alzato subito dopo di me. Sono accanto alla finestra che osservo il quartiere, anche se non lo sto guardando davvero. 
Ma perché Cal fa così?
«Lena.» mi chiama. Io piango. Mi manca l’aria. Perché è successo tutto questo? Perché non ci danno mai un momento di tregua? Vorrei che tutto finisse. Vorrei tornare indietro, impedire l’assassino dei miei genitori, di James e anche quello di Laura.
«Tesoro, sta’ tranquilla.» dice Jo. Adesso anche lei è entrata. Mi viene incontro e mi abbraccia forte. Io la allontano. Voglio essere lasciata sola, a piangere da sola.
«Ti senti bene?» mi domanda Cal, fermo sulla porta. Non so perché, ma mi sembra ironico. Sembra mi stia prendendo in giro. Mi volto verso di lui e cerco di smettere di piangere. 
Non dovrebbe essere dalla mia parte? Anche durante l’interrogatorio sembrava essere contro di me. Ma il perché non lo so.
«La vuoi smettere, Cal? Maledizione!» esclama mio padre.
«Perchè? Le ho chiesto se si sente bene.» dice, calmo.
«Mi spieghi che stai facendo? Non dovresti essere dalla mia parte? Anche durante l’interrogatorio ti comportavi così. Perché?» chiedo, dando voce ai miei pensieri.
«Volevo vedere come avresti reagito.» spiega lui.
«A cosa? Alla notizia che la sua amica era stata torturata?» interviene mio padre.
«Sì.» risponde semplicemente. Ho capito. Sospettava potessi essere io l’assassino. Come può pensarlo?
«Bè, adesso hai la conferma.» intervengo io. Mio padre e Jo mi osservano senza capire, Cal invece ha capito che ho compreso ogni cosa.
«Già. Era ciò che mi serviva. La tua amica Margaret si era già scagionata durante l’interrogatorio, tu invece eri stranamente calma, l’unica cosa che riuscivo a leggere sul tuo volto era la rabbia.»
Ma che sta dicendo?
Poi continua. «L’unica cosa che non mi era chiara era: rabbia verso chi? Verso Laura, per qualche motivo riguardante la vostra amicizia? Verso Jesse perché le aveva fatto del male?»
«Non ero arrabbiata con Laura. Perché avrei dovuto?» chiedo di rimando.
«Non lo so. Dimmelo tu.»
Mac e Jo assistono increduli a tutta la scena. Ora non piango più. Sono seria e mi sento più forte che mai. Non la ragazza emotiva che piange per la morte dell’amica, ma la ragazza che deve far valere le sue ragioni.
«Era la mia migliore amica.»
«Molte ragazze uccidono la loro migliore amica per gelosia.»
«Ma che stai dicendo? Non avrei mai ucciso Laura!»
«Ma eri arrabbiata con lei.» continua ad insistere lui.
Adesso basta! La deve smettere!
Furiosa, esco di corsa dal salotto e raggiungo la mia camera. Mi chiudo dentro e comincio a camminare avanti e indietro senza sosta. Sono così arrabbiata che senza pensarci mi metto il pigiama, mi lavo i denti e mi metto a letto. Non so se riuscirò a dormire, ma sono così arrabbiata. Accidenti!
Arrabbiata con lei? Ma si è rincretinito? Dov’è finito l’uomo che mi aveva aiutata a stare meglio al college?
Anche se la rabbia continua a ribollire in me, dopo qualche minuto mi addormento.

«Lena! Lena, aiuto!» Laura è in piedi davanti a me. La osservo. 
Si sta dimenando, come se volesse liberarsi da una stratta. Cerco di raggiungerla, ma sono bloccata a terra. Come se la forza di gravità fosse aumentata di colpo.
«Laura, resisti!» grido. Lei continua a gridare. Ad un tratto una figura nera come la notte arriva alle sue spalle. Grido a squarciagola, tento di avvertirla, ma tutto è inutile. Lei è già a terra. 
La figura la sta prendendo a calci, le sferra pugni, la tortura con un coltello e poi la finisce. Lei grida, poi man mano la voce si affievolisce, e quando la figura se ne va, lei è a terra, immobile. Morta.
«NO! NO, LAURA!» grido, ma tutto attorno a me si sta dissolvendo per lasciare il posto ad un baratro nero e profondo in cui precipito senza riuscire a scappare.

«Lena! Lena!» qualcuno mi sta chiamando. Mi sveglio di soprassalto.
Mio padre è di fronte a me. Mi sta stringendo le braccia, probabilemente per tentare di svegliarmi. 
Sto piangendo. Il mio corpo è scosso da piccoli tremori.
«Papà.» sussurro «Papà...» poi mi metto a sedere e lo abbraccio. Lui mi stringe forte e mi rassicura. Mi dice che è con me. Che non devo aver paura, ma se lui potesse vedere ciò che vedo io ogni notte, non direbbe nulla. Non mi chiederebbe di stare tranquilla.
Comunque lo rassicuro. Gli dico che sto bene. Di tornare a dormire. Lui esita, poi vedendo che sto sorridendo, anche se debolmente, annuisce ed esce dalla stanza.
Quando la porta i chiude mi alzo in piedi e corro in bagno. Osservo la mia immagine riflessa nello specchio. Sono pallida e sudata. La colpa è di Cal. Mi ha distrutta dicendo quelle cose su me e Laura. Non ero arrabbiata con lei. non l'avrei mai uccisa. Come può anche solo pensarlo? Laura era la mia migliore amica, le volevo bene, avevo anche tentato di aiutarla con Jesse. Perché avrei dovuto essere arrabbiata con lei e ucciderla?
Ma…
Ad un tratto mi blocco.
Ecco dove sta il problema.
Forse il Cal che mi aveva dato una mano al college è ancora lì. E sta ancora tentando di aiutarmi. 
Certo. È così.
Pensandoci bene è vero. 
Ero davvero arrabbiata. Però non con Laura. E nemmeno con Jesse.
Ero e sono arrabbiata con… me.
Mi metto a sedere sul materasso. Ecco cosa stava tentando di fare Cal. Voleva aiutarmi a liberarmi di questo peso, così che potessi sfogarmi e stare meglio. Sapeva che ero innocente, non ha mai dubitato di me, ma ha dovuto farmelo credere per farmi reagire e farmi arrivare al problema.
Sono arrabbiata con me stessa perché nonostante abbia tentato di aiutare Laura, lei è morta comunque. Qualcuno le ha fatto del male sotto il nostro naso e io non mi sono accorta di nulla. Non ho potuto fare niente e questo mi fa infuriare. Mi ritorna in mente James. Forse Cal aveva sentito le mie parole al cimitero. Sapeva che mi sentivo in colpa per non essermi accorta di niente. E adesso mi sta succedendo la stessa cosa.
Scuoto la testa. Quell’uomo è un genio. Un vero genio. Domani dovrò scusarmi e ringraziarlo. 
È davvero forte.
Mi avvicino alla finestra e vedo che Joseph è nella sua camera, è ancora sveglio. Quando mi vede mi saluta con un cenno della mano e si prepara a parlare. Gli faccio cenno di fare silenzio, altrimenti sveglierà tutto il vicinato.
Ho un’idea. Gli faccio segno di aspettare, mi avvicino alla scrivania e prendo il mio blocco per gli appunti e un pennarello nero. E ci scrivo sopra: “Se gridi, sveglierai tutti!” poi esco sul balconcino e glielo mostro, lui strizza gli occhi e sorride. Prende un quaderno e un pennarello e scrive.
“Ti senti bene?”
“Insomma.” scrivo io.
“Cos’è successo?”
“Litigio con mio zio.” sono molto telegrafica.
“Capito.” poi si ferma e aggiunge “Domani corsetta?”
 Sorrido, mi aiuterà a sfogarmi.
“Alle 7 da te.” scrivo.
“Ok, ‘notte.”
“’Notte.” tappo il pennarello, lo saluto con un cenno della mano e rientro.
Quando mi addormento, mi sento decisamente meglio, anche se questo non impedisce agli incubi di arrivare.

ANGOLO DELL'AUTRICE
Ciao a tutti! Eccomi qui con il nono capitolo! Lena finalmente torna a casa, ma nonostante ciò non sta meglio. 
In questo capitolo entra in gioco un nuovo personaggio: Joseph. Come avete visto, è molto simpatico e non sembra pensare che Lena abbia bisogno di compassione!
In oltre, per ringraziare alicew in wonderland, che recensisce ogni mio capitolo dandomi consigli utili, ho deciso che per Joseph, la nostra Lena diventerà Maddy, proprio come alicew in wonderland usa chiamarla! ;D
Fatemi sapere cosa ne pensate. 
Spero di riuscire a pubblicare Domenica, ma dato che è il mio compleanno (compio i tanto attesi 18 anni! :D) potrei avere dei problemi a pubblicare il prossimo capitolo. 
In ogni caso, se non ci dovessi sentire Domenica, l'appuntamento sarebbe per Lunedì! 
A presto, Izzy, xX__Eli_Sev__Xx 


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Capitolo 10
*** Capitolo 10 ***


Always and forever

CAPITOLO 10

Alle 6.30 mi sveglio e mi preparo per andare a correre. Tutti dormono in casa e credo che in tutto il quartiere sia così. È sabato, quindi tutti cercano di riposare dopo una settimana di lavoro. Anche i miei sono a casa dal lavoro, perciò tento di non fare rumore.
Esco di casa cinque minuti prima delle 7. Lascio un biglietto sul tavolo della cucina, non vorrei mai pensassero fossi scappata o fossi stata rapita e poi raggiungo il cancelletto dove Joseph mi sta aspettando. Quando mi vede mi sorride e mi saluta con un cenno della mano.
«Buondì!» dico io, sorridendo a mia volta, quando sono a pochi passi da lui.
«Buongiorno!» ribatte lui «Che ne dici se andiamo verso il cimitero?» chiede prontamente.
Annuisco. Cominciamo a correre e devo ammettere che l’aria mattutina che ti sferza il viso è davvero rigenerante. Mi sento letteralmente rinascere. 
«Vedo che stai meglio.» mi dice, rompendo il silenzio. Io annuisco ancora, devo risparmiare il fiato per la corsa.
«È grazie alla litigata con mio zio.» spiego. Sono molto vaga, sarebbe troppo complicato da spiegare.
Lui mi guarda stupito e io rido.
«Storia complicata.» mi giustifico e lui annuisce senza chiede altre spiegazioni.
Questo mi piace di lui. Non chiede spiegazioni a meno che tu non voglia dargliele.

Dopo circa un’ora arriviamo al cimitero e ci fermiamo sulle panchine fuori dalla grande struttura. Abbiamo il fiatone, ma non è strano dopo una corsa così lunga, soprattutto dato che abbiamo chiacchierato tutto il tempo.
«Wow! Sei davvero veloce.» si complimenta, ansimando.
Io rido. «Pensavi che perché sono una ragazza non avrei potuto starti dietro?» chiedo in tono di sfida.
«Dopo questa dimostrazione, no.» ansima.
Ridiamo e dopo dieci minuti ricominciamo a correre e ci avviamo verso casa. Il tragitto sembra più breve al ritorno, ma dura comunque un’ora. Passa davvero troppo velocemente. Avrei voluto parlare ancora un po’. Mi fa stare meglio, Joseph è un tipo che sa ascoltare davvero.

Alle 9 siamo di nuovo davanti a casa sua. Ha cominciato a fare caldo e molti bambini stanno uscendo dalle villette per giocare con gli amichetti in strada. 
Sono tutta sudata, perciò non vedo l’ora di farmi una doccia.
«Allora ci vediamo domani mattina. Stessa ora?» mi chiede.
«D’accordo.» e lo saluto con un cenno della mano. Poi, proprio quando mi sono voltata e sto per andarmene, mi blocco. Mi è venuta in mente una cosa.
«Joseph!» lo chiamo e lui sorridente, quasi come se se lo aspettasse, si volta. «Oggi devo andare a New York per chiedere di un lavoro in biblioteca. Vuoi venire? Poi mi accompagni a fare la spesa.» propongo.
Lui sorride radioso.
«Perfetto. A che ora?»
«Passa da me alle 16. Prendiamo la mia macchina.» dico e lui rimane spiazzato.
«Guidi tu?» chiede, quasi spaventato dalla cosa.
«Che c’è? Non ti fidi?» ridacchio, divertita dalla sua espressione.
«No, va benissimo. Solo, vorrei tornare a casa vivo.»
«Ah, ah. Molto divertente. Ci vediamo alle 16.» e lo saluto.

Dopo essermi fatta una lunga doccia, scendo in cucina per colazione. Ho una fame pazzesca dopo la corsa di due ore con Joseph. La casa è talmente silenziosa che i miei passi risuonano per tutto l’ambiente.
Sulla soglia della cucina mi blocco.
Seduto al tavolo c’è Cal. Sapevo che i miei erano a casa, ma pensavo fossero usciti tutti. Sta guardando il mio biglietto con aria disinteressata. Ha la testa fra le nuvole.
«Ciao.» dico, destandolo.
«Ciao.» ribatte lui sorridendo di sbieco. 
Devo ringraziarlo, ma non so come farlo. Da dove posso cominciare?
«Com’è andata la corsa?» mi chiede, interrompendo il corso dei miei pensieri e il mio tentativo di formulare una frase di senso compiuto.
«È stata rigenerante.» rispondo, prendendo una tazza per il latte e i cereali.
Lui annuisce.
Mi verso il latte nel tazzone e lo infilo nel microonde per farlo riscaldare.
Mi appoggio al piano della cucina e cerco le parola giuste.
«Ascolta, ieri…» comincio, poi mi fermo «So perché hai fatto tutto questo.»
«Davvero?» domanda, ma so che sa già tutto. Ha capito e sa che lo so.
«Mi hai aiutato molto. Avevi ragione, ero arrabbiata con me stessa, per non essermi accorta prima di quello che stava veramente succedendo a Laura.» spiego.
«Lo so.» afferma. Come sospettavo.
«Grazie per quello che hai fatto.» lo ringrazio.
«È quello che si fa in famiglia. Ci si aiuta a vicenda.» ribatte. Io annuisco. È vero. Lo sto rivalutando. Da scorbutico e antipatico, quale lo consideravo, sta diventando… gentile e disponibile.
Il microonde scatta. Tiro fuori la tazza e immergo i cereali al cioccolato nel latte caldo. Mi siedo, porgo un cucchiaio a mio zio e mi avvicino con la tazza. Insieme mangiamo i cereali e devo dire che è la prima volta che sono davvero contenta che lui sia qui. Direi che come ringraziamento, i cereali al cioccolato sono perfetti.
«Formidabili questi cereali.» esclama, dopo averne preso una cucchiaiata. 
«Già. Li adoro. Dopotutto sono al cioccolato!»
«Anche a tua madre piaceva molto il cioccolato.» sbotta.
A quella affermazione, sollevo lo sguardo. Sorrido, anche se una senso di malinconia torna ad impadronirsi di me. Lui lo vede. Come vede ogni altra cosa e stinge la mia mano. Io sorrido, grata per quel gesto così… semplice, ma importante.
Quando abbiamo finito, ripongo tutto in lavastoviglie e la chiudo. Mi volto e mio zio è in piedi, sta guardando fuori dalla finestra.
«Che succede?» chiedo.
«Mi manca Washington.» dice, vago. Io mi avvicino per guardarlo meglio negli occhi. Washington?
«Washington o una persona che sta a Washington?» chiedo. Ho capito, ora devo solo farlo cedere. 
«Washington.» ripete lui.
«Come si chiama?» chiedo ancora.
«Chi?» domanda di rimando.
«Lei.»
«Lei chi?» rido, per quanto vuole andare avanti? «Non c’è nessuna.» insiste.
«Stai mentendo.» dico. Ha fatto un’espressione strana. Un movimento impercettibile. Una volta non ci avrei fatto caso, ma adesso con tutto ciò che mi ha detto sulla cinesica, comincio a capire qualcosa e a vedere cose che prima erano invisibili.
«A sì?»
«Sì» dico, osservandolo attentamente «hai fatto quella cosa strana con le sopracciglia e con gli occhi!» spiego indicando il suo volto. Ah! Beccato!
Cal scoppia in una risata fragorosa.
«Confessa!» dico, sorridendo.
«D’accordo. D’accordo.» cede, infine «Si chiama Gillian Foster.»
Annuisco. Bel nome. È già un inizio. «Collega?»
«E amica.» aggiunge «Lavoriamo insieme al Lightman Group da tanti anni, ormai. Prima era la mia analista.» mi racconta.
«State insieme?» domando.
«No.»
«Come no? Quindi non sa nemmeno che ti piace?»
«Non ho detto che mi piace.» risponde calmo.
«Lo so, ma si vede da come ne parli.» spiego «Dovresti dirglielo.» insisto e torno a sedermi al tavolo. Abbassa lo sguardo e sorride.
«Lo farò. Prima o poi.»
«Emily lo sa?» chiedo. Magari a lei l’ha detto. 
«Non sospetta ancora niente. Credo.» si corregge infine.
«È molto intelligente. Secondo me l’ha già scoperto.» gli faccio notare.
«Già. Come te.» sorrido. Emily è fortunata ad avere lui.

Alle 16 il campanello suona. È Joseph.
Apro la porta e lo saluto. Poi prendo le chiavi e la borsa ed entriamo in garage.
«Bella macchina.» dice quando la vede.
«Grazie. Regalo per i vent’anni.» 
Saliamo sull’auto e ci dirigiamo alla biblioteca.
 
Quando entriamo, l’aria condizionata mi rinfresca dal caldo soffocante di New York. Ci avviamo verso la reception. Una donna anziana è seduta davanti ad un computer. La targhetta dice: Sandra Matthews. Lancio uno sguardo a Joseph, che si ferma qualche metro più indietro di me.
Mi avvicino e poi parlo.
«Buonasera.» saluto. Lei alza lo sguardo. Gli occhi marroni mi guardano da sopra i piccoli occhiali un po’ impolverati.
«Ciao, cara. Posso fare qualcosa per te?» domanda gentile.
«Ehm… Ho sentito che stavate cercando qualcuno per un lavoro.»
«E tu saresti interessata?» chiede ancora.
Annuisco.
«Posso sapere il tuo nome?»
«Maddalena Taylor.»
«Data di nascita?»
«10 dicembre 1992.»
«Molto bene. Potresti favorirmi un documento di identità?»
Tiro fuori il portafoglio e le porgo la mia carta d’identità. La studia per qualche secondo rigirandola tra le mani.
«Frequenti il college?» mi domanda.
«Sì, il primo anno.»
«Dove?»
«Queens College.» la donna fa una pausa e sorride. Ci pensa su, poi cerca qualcosa nel cassetto della scrivania. Mi volto e lancio uno sguardo supplichevole a Joseph, che sorride.
«D’accordo. Questi sono i tuoi turni. Cominci Lunedì.» mi dice, porgendomi un foglio. Rimango a bocca aperta «Sei assunta.» aggiunge infine.
«Grazie mille. A lunedì, allora.» dico, felice.
«A lunedì.» mi dice e torna a timbrare alcuni libri.
Quando usciamo Joseph si complimenta con me.
«Hai trovato lavoro al primo colpo. Complimenti.»
«Grazie.» dico fiera di me e ripongo gli orari in borsa.
«Allora, dov’è che dobbiamo andare?» chiede, mentre raggiungiamo la macchina.
«A fare la spesa. Così ti alleni a diventare un uomo di casa.» dico. Saliamo in macchina e metto in moto. Ci mettiamo più di venti minuti a raggiungere il supermercato, il traffico procede davvero a rilento a New York.

Quando arriviamo davanti al piccolo negozio, parcheggio ed entriamo. È praticamente vuoto, nonostante sia sabato.
«Ok. Allora…» comincio «Tu vai al reparto surgelati e prendi questi.» dico, porgendo a Joseph un pezzo del biglietto.
«D’accordo.» 
«Io vado al reparto pulizia e poi a prendere la pasta.»
«Ok. Ti raggiungo lì.»
«Grazie, a dopo.»
Mi allontano e mi dirigo vero l’ultima corsia e prendo la candeggina, il detersivo e il sapone. Li metto nel carrello e mi dirigo verso la fila di scaffali dove c’è ogni tipo di pasta. Mi metto a studiare lo scaffale. Prendo tre confezioni di pasta più una integrale e poi due barattolini di sugo. Di solito uso quello fatto in casa, ma per questa sera andrà bene questo. Metto tutto nel cestino blu e appena Joseph mi raggiunge andiamo alla cassa a pagare. Carichiamo tutto in macchina e mando lui a posare il carrello. Si allontana mentre io sistemo le borse nel cofano. Quando lo chiudo mi accorgo che qualcuno, dietro di me mi sta osservando, non sono veggente, l’ho notato dall’ombra. Mi volto.
È Jesse.
«Ciao, Lena.» dice. Dal tono sembra furioso.
«Jesse. Mi hai spaventata.» dico e indietreggio di qualche passo, quasi toccando la macchina con la schiena.
«Non era mia intenzione.» ribatte, continuando ad avvicinarsi.
«Cosa fai qui?»
«Volevo parlarti.» dice. Non mi piace il suo tono e tantomeno la sua espressione. Qualcosa non va.
«Di cosa?» chiedo, continuando a prendere tempo. Spero che Joseph torni in fretta.
«Tu e Margaret avete fatto il mio nome alla polizia.» comincia.
«Ci hanno chiesto chi era il ragazzo di Laura. Gliel’abbiamo detto.»
«Avete anche detto che sono uno spacciatore.»
«È la verità.» dico.
«Voi non dovevate impicciarvi!» sbotta e mi afferra per un braccio.
«Jesse, lasciami andare.» dico in tono fermo.
«Perché dovrei? Sai quanti guai mi hai causato, eh? Lo sai?! Non erano affari vostri!» grida.
«Jesse, ti prego.» sta aumentando la presa sul braccio e mi sta davvero facendo male. Poi lo osservo meglio. Le pupille sono dilatate e sta sudando tantissimo, nonostante il vento estivo. È totalmente fatto.
Cerco di spingerlo via.
«Lasciami, Jesse!» esclamo.
«Altrimenti?»
«Mi metto ad urlare!» lo minaccio. Il parcheggio ha cominciato a riempirsi, accorrerebbero in tanti.
«Ehi!» sento gridare alle mie spalle. È Joseph, ringraziando il cielo è arrivato. «Ti ha detto di lasciarla andare.» gli fa notare.
«Oh, abbiamo un nuovo amichetto.» dice Jesse, lasciandomi andare per avvicinarsi a Joseph. Intanto i due che avevano partecipato al pestaggio di Laura raggiungono l’amico. 
Adesso che facciamo? Sono tre energumeni alti due metri!
«Che vuoi da lei?» chiede lui.
«A te che importa biondino?» chiede, in tono minaccioso.
«È mia amica e devi starle lontano, hai capito?» gli ordina Joseph, senza staccare gli occhi dai suoi.
«Che paura. Perché, se la tocco che cosa mi fai? Mi prendi a pungi?» e così dicendo si avvicina a me e mi prende il volto tra le mani. Cerco di scansarlo ma è troppo forte. Non faccio in tempo a dirgli di lasciarmi andare che Joseph gli ha già dato un pugno in pieno viso, facendolo indietreggiare. 
Jesse, però, che ha cinque anni più di noi, risponde con un pungo alle costole che fa piegare in due il mio amico.
«No!» grido, andando verso di lui, ma gli amici di Jesse mi bloccano trattenendomi per le braccia e mi gettano a terra. Avendo gli shorts e una canottiera, striscio sull’asfalto e mi riempio di tagli. Mi sollevo reggendomi sulle braccia e uno degli amici di Jesse mi sferra un poderoso calcio dritto alle costole.
Joseph intanto, non se la sta passando meglio. Sta tentando di rialzarsi, mentre Jesse sta ridendo a crepapelle.
«Ehi, voi!» sento gridare, due uomini si stanno avvicinando. Non riesco a mettere a fuoco le figure, ho la vista offuscata, un po’ dal sole e un po’ dal calcio che, lo giuro, mi ha appena fatto vedere le stelle.
I tre, vedendo che una piccola folla si sta radunando, se la danno a gambe.
Codardi. Salgono su un’auto e sgommano fuori dal parcheggio.
«Ragazzi! State bene?» sento domandare. È una voce famigliare.
Sollevo lo sguardo. «Signor Anderson?» dico, stupita, in un sussurro.
«Lena. Ma che succede?» mi domanda.
L’altro non lo conosco. Dev’essere un amico del mio insegnante. Si dirige verso Joseph e lo aiuta ad alzarsi. Sta bene, gli sanguina solo il naso.
«Il ragazzo della mia amica.» spiego e lui, forse ricordando la rissa al college, annuisce.
Invece, quando Anderson tenta di sollevare me, mi sfugge un gemito di dolore.
«Maddy? Ti senti bene?» mi chiede Joseph, inginocchiandosi accanto a me.
«Non lo so, mi fanno male le costole.» dico. Lui, senza pensarci due volte, mi solleva tra le braccia e mi carica in macchina sul sedile del passeggero.
«Dovete andare alla polizia.» ci consiglia Anderson.
«Lo faremo.» lo rassicura Joseph. 
Io lo ringrazio per il suo tempismo e insieme al mio amico, che si mette al volante, ci avviamo verso la stazione di polizia. 

Entro nella centrale reggendomi alla spalla di Joseph che mi cinge il fianco con un braccio. Appena Flack mi vede ci viene incontro.
«Lena! Cos’è successo?» domanda preoccupato e aiutandomi a sedermi.
«Il ragazzo di Laura.» dico e poi gli spiego cos’è successo. Don decide di chiamare a casa per farmi venire a prendere. Non posso guidare in questo stato.
«Ha risposto Cal. Prende l’autobus e tra mezz’ora sarà qui.» io annuisco «Ti senti bene?» mi chiede Don, accarezzandomi il volto. Io sorrido a quel gesto, mi mancavano le coccole del mio ragazzo.
«Non lo so. Ho paura di avere qualche costola rotta.» dico.
«Vuoi che controlli?» mi chiede. Io annuisco.
«Vieni, andiamo nel mio ufficio.» mi propone. Joseph è impegnato, sta rilasciando una dichiarazione, perciò annuisco e lo seguo.
«E da quando hai un ufficio tutto tuo?» esclamo quando entriamo.
«Da qualche mese. Ti piace?» mi domanda.
«Molto bello.» mi fa accomodare sulla poltrona e alzando la canottiera, ormai rovinata, comincia a controllare le costole.
«Non sono rotte. Hai solo qualche livido.»
Annuisco sollevata. Mi si sono già rotte le costole e non mi è piaciuto per niente.
«Comunque, devi farti medicare questi tagli prima che si infettino.» mi consiglia. Gli assicurò che lo farà Cal e lui annuisce, visibilmente più tranquillo.
«Come stai?» mi chiede, riferendosi alla faccenda di Laura.
«Meglio. Cal mi ha aiutata molto.»
«Davvero? A me sembra uno squinternato.»
«Invece è una brava persona.» affermo e prima di alzarmi per andare a rilasciare la mia dichiarazione sfioro le sue labbra con le mie.
Mi riaccompagna fuori e dopo un altro interrogatorio, insieme aspettiamo il ritorno di Cal.

ANGOLO DELL'AUTRICE
Ciao a tutti! Eccomi qui, diciottenne xD e con un nuovo capitolo. Scorre velocemente, ma è ricco di avvenimenti. Se qualcosa non è chiaro, ovviamente fatemelo sapere... Spero tanto vi piaccia.
A Mercoledì con l'undicesimo, Izzy, xX__Eli_Sev__Xx

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Capitolo 11
*** Capitolo 11 ***


Always and forever

CAPITOLO 11

Io e Joseph siamo seduti alla centrale di polizia. Abbiamo rilasciato le nostre dichiarazioni ad un agente e adesso stiamo aspettando l’arrivo di mio zio. Abbiamo sporto denuncia verso Jesse, spero solo non gli venga voglia di vendicarsi. Comunque non sono ancora convinta che sia stato lui ad uccidere Laura. Spero solo che riescano a trovarlo presto, prima che uccida altra gente. Don è dovuto correre su una scena, perciò ci siamo salutati poco dopo essere usciti dal suo ufficio, adesso stiamo osservando il via vai della centrale. Agenti che entrano ed escono che danno ordini che compilano schede. È davvero un lavoraccio. Non li invidio.
«Conoscerò tuo zio, quindi.» sbotta Joseph ad un tratto.
Io sorrido. «Già. È un po’ strano all’inizio, ma non è cattivo.»
Lui annuisce, rassicurato. Non voglio immaginare quando gli presenterò mio padre.
Non passano cinque secondi che la porta della centrale si spalanca. È Cal. Sorrido. Finalmente. Non vedevo l’ora di andare a casa. 
Quando mi vede, accelera il passo e viene verso di noi salutando alcuni agenti che probabilmente ha conosciuto lavorando con mio padre.
«Lena! Cos’è successo? Flack non mi ha voluto dire niente!» esclama. Si inginocchia davanti a me e studia i miei graffi. «Chi è stato?» chiede. È preoccupato, oltre che furioso. 
Tento di raccontargli com’è andata e ad ogni parola che aggiungo, diventa sempre più furioso. Quando ho finito, si alza in piedi di scatto.
«Quello dovevamo arrestarlo!» esclama.
«Era solo arrabbiato.» lo giustifico «Oltre che totalmente fatto.» aggiungo. Ricordo il suo sguardo perso: si era fatto una dose da poco. Mi ha davvero spaventata, se non fosse arrivato Anderson sarebbe successo un disastro.
Solo adesso, Cal sembra accorgersi di Joseph. Si volta e lo squadra guardandolo di sbieco.
«E tu chi sei?» chiede.
«Mi scusi, signor Lightman.» comincia il mio amico, ma mio zio lo interrompe.
«Dottore.» lo immaginavo, odia essere chiamato signore. Continua  ribadire a tutti che è un dottore.
«Dottore.» ripete Joseph, per far vedere che ha capito «Mi chiamo Joseph Cooper. Abito nella casa accanto alla vostra.» spiega. 
Mio zio annuisce, anche se non sembra molto convinto. Si volta verso di me. Io annuisco, lui sembra convincersi che è un bravo ragazzo e gli stringe la mano.
«Avete finito tutto con la polizia?» chiede.
Noi annuiamo e io gli porgo le chiavi della macchina.
«D’accordo. Andiamo.» Joseph mi aiuta ad alzarmi e ci avviamo, molto lentamente, a causa delle nostre costole indolenzite, verso il parcheggio.  

Dopo aver scaricato Joseph davanti a casa, mio zio parcheggia nel garage e mi aiuta a scendere.  Mi porge la mano e io la afferro. 
«Grazie.» dico, continuando a tenergli la mano. Lui sorride e mi accompagna in cucina, dove mi dice di sedermi. 
Lo faccio e lo osservo mentre cerca la valigetta del pronto soccorso. Mi domanda dov’è e dopo avergliela indicata, la prende e comincia a sistemarmi i tagli e i graffi.
Quando me li disinfetta, sobbalzo. Bruciano come se stesse andando a fuoco tutto il mio corpo, probabilmente avrei dovuto disinfettarli prima.
«Scusa.» dice. Io scuoto la testa. «Quel ragazzo è pericoloso.» continua.
«Te l’ho detto che era strano.»
«Forse avremmo dovuto insistere di più durante il suo interrogatorio.» si rimprovera.
«Avete già scoperto chi l’ha uccisa?» chiedo, dopo un momento di silenzio. 
Lui solleva lo sguardo e infine scuote la testa mestamente.
«Stiamo facendo del nostro meglio.»
«Ne sono certa.» ribatto.
«Ecco fatto.» dice, quando ha finito.
Guardo il risultato. Sono piena di cicatrici su gambe e braccia. Perfetto. Spero solo non mi facciano tanto male. Già non dormo per conto mio, figuriamoci con i dolori a causa delle botte di Jesse. Sono tutta indolenzita. Diciamo che provo un dolore generale.
«Come vanno le costole?» mi chiede.
«Così, così.» rispondo. Si dirige verso l’armadietto dei medicinali e mi porge un antidolorifico. Ringrazio il cielo che esistono queste cose. Lo prendo, ingoiandolo con un sorso d’acqua. Poco dopo comincia a fare effetto. Me ne accorgo dal fatto che sto perdendo totalmente le forze.

Mio padre e Jo tornano a casa qualche ora dopo. Io sono seduta sul divano accanto a Cal. Ho la testa appoggiata alla sua spalle e lui ha la guancia premuta contro i miei capelli. Stiamo guardando la TV.
O meglio, lui sta guardando la TV, io stavo dormendo. Quell’antidolorifico mi ha praticamente stesa, per non parlare di quanto sono debole. Non riuscirei a stare in piedi nemmeno con le stampelle. Inoltre non ci sento bene, dovrei tornare ad usare l’apparecchio per l’udito.
Vengo risvegliata dalla chiave nella toppa. Sollevo la testa di scatto, spaventata da quel rumore. L’ho sentito fin troppo bene.
«Sta’ tranquilla.» mi rassicura Cal e mi accarezza i capelli. Così torno ad appoggiare la testa alla sua spalla. Gli occhi mi bruciano. Sono davvero stanca.
Mio padre entra in salotto e quando mi vede si siede accanto a me, preoccupato. Mi accarezza una guancia. Jo rimane ferma sulla porta. 
«Cos’è successo, tesoro?» mi chiede. Io scuoto la testa per rassicurarlo, sono troppo debole per aprire bocca. È Cal a raccontargli tutto.
Lui annuisce ed ha la stessa reazione del cognato.
«Dovevamo arrestarlo!» esclama.
«Già.» concorda mio zio. Gli do un piccolo buffetto allo stomaco e lui ride e io accenno un sorriso. Mio padre mi accarezza la guancia dolcemente e io gli stringo debolmente la mano libera.
L’orologio del salotto scatta facendomi sobbalzare. Otto rintocchi: è ora di cena.
«Hai fame, tesoro?» mi domanda Jo.
«Non molto.» dico, in un sussurro.
«Non vuoi nemmeno un po’ di latte caldo?» chiede ancora.
«No. Vorrei solo un po’ d’acqua.»
«D’accordo.»
«Grazie.» dico e le sorrido.
«Vuoi andare a letto?» mi chiede mio padre. Io annuisco e quando tento di alzarmi, lui mi blocca. Mi prende tra le braccia e mi solleva. Circondo il suo collo con le braccia  e appoggio la testa alla sua.
Quando arriviamo in camera mia, mi mette sotto le coperte, dato che indossavo già il pigiama. Jo mi porta una bottiglietta d’acqua e un bicchiere. Bevo qualche sorso e poi torno a sdraiarmi.
«Grazie.» dico. Jo esce e mio padre sorride.
«Ti senti meglio?» domanda. 
Annuisco. «Cal mi ha medicato le ferite.»
«Vedo che avete chiarito.»
«Si.» rispondo e poi gli spiego tutta la strategia usata per farmi stare meglio. Lui annuisce.
«Cal è davvero una persona strana.»
«Ma vi sta aiutando.» gli faccio notare.
«Sì. Avevi ragione sul suo metodo.»
«Visto?» dico sorridendo. Adoro sentirmi dire che avevo ragione.
«Vuoi che rimanga qui?» mi domanda, sedendosi accanto a me.
«No, vai a mangiare.» lo rassicuro.
«Ok. Se hai bisogno, chiama.»
Annuisco, lui mi dà un leggero bacio sulla fronte e poi esce.
Dopo nemmeno dieci minuti, sto già dormendo.


Alle sette esco per la solita corsa mattutina. Mi fa davvero bene, le ferite prendono aria e sembrano fare meno male. Mi sento ancora un po’ debole. Corro più lentamente. Anche Joseph l’ha notato.
Mi sono anche ricordata di indossare l’apparecchio per l’udito. Ci sento decisamente meglio.
«Non sapevo non ci sentissi.» dice indicandolo.
«Non è che non ci sento. Succede solo a volte.»
«Com’è successo?» chiede.
«Un po’ di tempo fa, al laboratorio della scientifica c’è stata una sparatoria. Delle schegge di vetro mi hanno danneggiato l’orecchio. Così il medico mi ha consigliato di indossarlo, qualche volta.» spiego. Lui annuisce e dato che nessuno dei due ha voglia di farsi sei chilometri, alle 8 siamo già a casa.

Quando entro in cucina, dato che è presto, preparo la colazione per tutti. Ho davvero fame, sarà perché ieri ho saltato la cena.
Quando tutti e tre scendono in cucina, devo solo preparare il caffè e mettere a riscaldare il latte.
«Buondì.» dico. Loro mi sorridono, ancora assonnati.
«Ciao, vedo che stai meglio.» ribatte mio padre.
«Molto. Anche grazie alla corsa.» spiego. Sono ancora un po’ debole, ma decido di omettere questo particolare.
Mi aspetto qualche domanda su Joseph, che sembra non arrivare. Almeno finchè non entra Jo. Sorride e si siede al tavolo. 
«Allora, questo Joseph?» chiede rompendo il silenzio. 
Io sorrido. È così prevedibile!
«È il nostro vicino di casa. Corriamo insieme e chiacchieriamo ogni tanto.»
Tutti e tre annuiscono. Anche perché sanno che il ragazzo ce l’ho. Dopo aver finito la colazione, decidiamo di andare a fare una passeggiata per New York.

La domenica passa relativamente in fretta. Pranzo in famiglia e poi cena con gli amici.
Durante la cena, si discute il nome del bambino in arrivo. Lindsay non potrebbe essere più felice. Mancano cinque mesi al parto ma è già in fibrillazione. Dev’essere bellissimo diventare mamma. Anche io vorrei dei bambini. Ovviamente una volta finito il college.
La serata procede velocemente. L’unica persona che stona in questo panorama felice è Jo. Ha l’aria triste da qualche giorno. Non vorrei avesse litigato con Mac.
La squadro attentamente, ma lei, ovviamente se ne accorge.
Mimo con le labbra una domanda: “È tutto ok?”. 
Lei annuisce e mi fa capire che me lo spiegherà più tardi. 
Sorrido a Flack, che è seduto accanto a me, era preoccupato dato che mi aveva lasciata sola ad aspettare Cal. Dopo averlo rassicurato per circa venti minuti, continua la sua discussione con Danny sul nome del bambino.
«Se è un maschio potresti chiamarlo Donald.» dice. 
Danny ride. «Preferirei un nome più breve.» fa notare.
«Chiamalo Mac.» propone Sheldon. Mio padre sorride. Non dice niente, ma so che gli farebbe piacere.
«E se è una femmina?» chiede Lindsay.
Io sorrido. «Rebekah.» dico.
«Bel nome!» ribatte lei.
«Io proporrei…» comincia Danny «Trisha.» 
«Trisha?» chiedo io. Non mi piace molto.
«Ok, allora…» fa una pausa per pensare «Elena.»
«Carino.» dice Cal.
«Perché non Eleanor?» propongo.
«Eleanor?» chiede Lindsay.
«Sì, oppure, Ellie.»
Lei annuisce e sorride. «Mi piace.» anche Danny sembra soddisfatto. 
Dopo la cena è ancora tutto da riordinare. Cal e Mac si occupano di alcuni rapporti per il caso di Laura, mentre io e Jo riordiniamo la cucina. Decido di chiederle cosa c’è che non va.
«Allora? È da un po’ che ti vedo giù di morale. Che succede?» chiedo, asciugando una padella e riponendola nella credenza.
Lei scuote la testa. Non ha voglia di parlare, ma io ho imparato a mie spese che è meglio non tenersi tutto dentro.
«E dai Jo.» la incalzo «A me puoi dirlo. Lo sai.»
Lei sospira.
«Hai litigato con Mac?» azzardo.
«No, no.» si affretta a dire «Tra me e tuo padre va tutto a gonfie vele.»
Questa volta sono io a sospirare, ma di sollievo.
«E allora cos’è che ti turba?» domando ancora.
Riflette per un momento, come se volesse pesare le parole. Poi chiude gli occhi.
«Sid mi ha detto una cosa.» dice. Non capisco, così la lascio continuare. «Lui…» comincia e poi si blocca. Vedo una lacrima silenziosa rigarle una guancia.
«Jo. Così mi fai preoccupare.» dico.
«Lui ha il cancro.» sbotta infine. 
È un colpo al cuore. Letteralmente. 
Sid? Il nostro Sid?
«Lui… cosa?» chiedo ancora incredula.
Lei annuisce senza più dire una parola.
«Quando l’ha scoperto?» 
«Un mese fa.»
«E...?»
«Non sa ancora se è curabile.» dice. Io piango silenziosamente. 
Ecco perché non c’era questa sera.
«Gli altri lo sanno?» domando.
«No.» dice «Vuole aspettare.»
Annuisco. Non ne parlerò con nessuno.
«Quando saprà i risultati degli esami?» chiedo.
«Tra una settimana.» 
Annuisco ancora.
Perché va tutto così male? Perché tutte le persone buone devono soffrire o morire? Non è giusto. Non è davvero giusto.

ANGOLO DELL'AUTRICE
Ciao a tutti! Eccomi con l'undicesimo capitolo.
Per rendere tutto più simile alla serie tv, ho aggiunto alcuni particolari tratti dalla decima stagione. 
Spero tanto vi piaccia, fatemi sapere e a Venerdì!
Izzy, xX__Eli_Sev__Xx

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Capitolo 12
*** Capitolo 12 ***


Always and forever

CAPITOLO 12

Quando arriva lunedì, alle 9 mi presento in biblioteca. È il mio primo giorno di lavoro. Sono intenzionata a fare una buona impressione.
«Buongiorno, Maddalena.» mi dice la bibliotecaria.
«Buongiorno, signora Matthews.» la saluto. Mi porge un cartellino con il mio nome e un mazzo di chiavi per accedere ai magazzini.
«Allora, dato che sei nuova, ti occuperai, per oggi, di risistemare i libri nelle varie sezioni. Credo che sarai esperta, ormai. Ti vedevo spesso qui.» dico sorridendo.
Annuisco e sorrido a mia volta. «D’accordo.»
«Da domani, dato che io andrò in ferie per due settimane, ti occuperai anche della parte burocratica.»
«Ok. Grazie.»
Lei mi sorride. «Allora buon lavoro, Maddalena.» mi augura e si china per prendere dei libri da risistemare.
«Può chiamarmi Lena, se vuole.» dico. Lei sorride.
«D’accordo. Tu chiamami Sandra.»
«Ok, Sandra.»
Mi porge una pila di libri e comincio a riordinarli. Ci metto relativamente poco, so esattamente dov’è ogni singola sezione.
Quando torno alla reception, altre tre pile mi aspettano.
Alle 11 ho finito. Fa un caldo pazzesco, nonostante ci sia l’aria condizionata. Ho la gola secca, così chiedo a Sandra se posso prendere una bottiglia d’acqua alle macchinette.
«Certo.» mi dice e mi porge una chiavetta.
Carico qualche dollaro e seleziono una bottiglia da mezzo litro, gasata.
La finisco in meno di dieci minuti. Potrei sinceramente sciogliermi.
La giornata passa velocemente. Continua a fare caldo, molta gente, infatti, frequenta la biblioteca, forse proprio per l’aria condizionata.
Credo di essermi disidratata di colpo. Continuo a bere come un cammello e di conseguenza a correre in bagno.

Le 19 arrivano in fretta. Appena ho finito, saluto Sandra e le auguro una buona vacanza. Lei mi porge le chiavi della biblioteca, così che io possa aprire e chiudere le porte quando lei sarà in ferie. Chiudo la biblioteca, spengo le luci e mi assicuro che tutte le porte siano chiuse a chiave. 
Quando ho finito esco e prendo la macchina. Mio padre lavora fino alle 20 e gli avevo promesso che sarei andata a prenderlo, ma dato che manca ancora un’ora decido di fare un salto da Sid. Voglio parlargli. Ho un peso dentro da quando Jo mi ha parlato del cancro. Vorrei saperne di più.
Quando entro all’ospedale, nello studio del medico legale, incontro un’assistente. È molto giovane, deve lavorare qui da poco.
«Salve.» la saluto.
«Ciao. Stavi cercando qualcuno?» mi chiede. 
«Sì, cerco Sid Hammerback.» dico. Lei mi fa segno di seguirla e mi accompagna in una piccola sala d’aspetto. Mi dice che Sid sta effettuando un’autopsia, perciò dovrò aspettare.
La ringrazio e mi siedo su una delle seggiole. Aspetto per più di dieci minuti, poi, finalmente, la porta della sala autopsie si apre. 
È Sid.
Quando mi vede si blocca e poi mi sorride guardandomi da sopra le lenti degli occhiali. Non riesco a sorridere a mia volta. È come se il mio volto fosse bloccato.
L’unica cosa che riesco a fare è andargli incontro e gettargli le braccia al collo.
«Lena. Va tutto bene?» mi chiede preoccupato, stringendomi a sé.
Io scuoto la testa.
«È successo qualcosa?» domanda ancora asciugando le lacrime che scendono lungo le mie guance arrossate dal caldo.
«Mi dispiace, Jo mi ha detto…» comincio, non riuscivo più a trattenerlo. Dovevo parlarne con qualcuno.
Lui intuisce dove voglio arrivare e mi fa sedere.
«Ascolta…»
«Perché non ce l’hai detto?» sbotto io.
«L’ho detto solo a Jo.» spiega.
Avevo completamente dimenticato che nessun’altro avrebbe dovuto saperlo. Non vorrei mettere nei guai lei.
«Io ho insistito e lei ha ceduto. Sapevo che c’era qualcosa che non andava. Non è colpa sua, non prendertela con lei, ti prego.» mi affretto a dire.
«Non lo farò, ma tu calmati.» mi dice e mi sorride. Si toglie gli occhiali e li appende al camice.
«Come posso calmarmi?» chiedo.
«Ascolta, non ho ancora i risultati delle analisi. Forse è qualcosa di curabile.» mi rassicura.
«E se non lo fosse?»
«Allora andrebbe bene così. La mia vita l’ho fatta, piccola mia.» 
«Non è giusto.»
«Lo so. Ma…»
«Noi non possiamo perderti.» dico singhiozzando.
«Sono qui. Non mi hai perso.»
«Succederà se il cancro non è curabile.»
«Anche se fosse curabile potrebbe succedere.» mi fa notare «E poi, tutti devono morire prima o poi.»
«Non così.» continuo ad insistere.
«Shh. Sta’ tranquilla.» dice e mi abbraccia. Io faccio lo stesso e quando ci separiamo sto meglio. Forse ha ragione. 
Mi ha aiutato così tanto da quando sono arrivata qui. Lo considero come uno di famiglia, uno zio o un nonno. Anche se, se sapesse che lo considero come un nonno, mi ucciderebbe. 
Perché deve accadere a lui?
«Devo chiederti un favore, Lena.» mi dice e io annuisco. Qualsiasi cosa. «Non devi dirlo a nessuno. Voglio essere io a farlo.» mi chiede.
Io annuisco. È suo diritto farlo.
Sono quasi le 20, devo raggiungere il laboratorio. Dopo averlo abbracciato ancora lo saluto. Lui mi rassicura ancora, mi dice che andrà tutto bene. È strano, dovrei essere io a rassicurare lui, è lui che sta male. Ma non ci riesco. E mi sento in colpa, perché non sono io a dover piangere, in fondo.

Quindici minuti dopo sono al laboratorio. Salgo le scale e cerco di mantenere la calma senza scoppiare a piangere davanti a tutti i tecnici. Molti mi salutano con cenni della mano e io faccio lo stesso. Vedo Adam che se ne va con la sua ragazza. Li saluto. Dovrà presentarmela come si deve, prima o poi.
Quando raggiungo l’ufficio di mio padre, busso e entro. Sta studiando dei fascicoli, come sempre.
«Ciao, papà.» dico. Lui mi sorride e mi saluta a sua volta.
«Ciao, tesoro. Com’è andato il primo giorno?» chiede, sollevando lo sguardo delle cartelline gialle da cui è sommerso.
«Bene. Grazie.» rispondo.
«Tra dieci minuti abbiamo finito.» mi dice, io annuisco e mi siedo sul divano ad aspettare. Mi volto a osservare New York. Ripenso alla prima volta in cui sono entrata in questo ufficio. La prima volta che ho visto Flack e tutti i miei amici. 
Ripenso a tutto ciò che Sid ha fatto per me. Le risate. Gli abbracci. Quanto mi mancheranno… Non riesco a descriverlo. Non voglio perdere tutto.
«Lena? È tutto a posto?» mi chiede mio padre, vedendomi sovrappensiero. 
«Sì. Tutto ok.» dico, tutto d’un fiato.
Ad un tratto sento bussare. Non faccio in tempo a voltarmi che una voce famigliare mi desta. È profonda e maschile. Il mio cuore perde un colpo.
«Buonasera, stavo cercando il detective Taylor.» dice cordiale, ma colgo una nota di ironia nel suo tono. 
Tutti i brutti pensieri si allontanano. Ogni cosa brutta se ne va e lascia il posto alla gioia. Non ci posso credere. È possibile, o il mio orecchio mi sta ingannando? Il che non mi sorprenderebbe dato che non ci sento bene.
Volgo lo sguardo verso la porta. In piedi, sulla soglia, c’è D.B. Russell. Il nostro D.B..
Sorrido e lui fa lo stesso. Mi alzo da divano e gli corro incontro. Lo abbraccio forte e lui, come sempre, mi solleva da terra facendomi volteggiare.
«D.B.!» esclamo felicissima che sia qui.
«Ciao, Lena!» mi saluta e mi accarezza i capelli. Quando sciogliamo la stretta, mi volto verso mio padre.
«Pensavo ti avrebbe fatto piacere passare un po’ di tempo con lui.» spiega. Sa quanto mi sia stato vicino quando James era scomparso e anche dopo la sua morte. È come un secondo papà. 
Io annuisco. Ho già detto che adoro mio padre?
«Ciao, Mac.» lo saluta lui e gli stringe la mano.
«Ciao, D.B.»
«E per il lavoro?» chiedo. 
«Tre settimane di ferie.» dice. Tutte arretrate, penso io. Non si prende mai le ferie. Neanche mio padre lo fa mai.
Cal e Jo ci raggiungono dopo pochi minuti. Anche lei lo abbraccia, è felice che ci sia qualcuno che porti un po’ di allegria in casa dopo tutto ciò che è successo.
Dopo avergli presentato Cal, partiamo per tonare a casa. Raggiungiamo la mia macchina e carichiamo i bagagli del nostro amico. Non sono molti, perciò stanno tutti nel baule.
A D.B. lascio il posto davanti, dietro non ci starebbe, così si siedono Cal, Mac e Jo. Il traffico è diminuito, sono tutti a cena. Raggiungiamo casa velocemente.
Mezz’ora e arriviamo. La cena è pronta in venti minuti e mangiamo tutti insieme, parlando del college, di Las Vegas e di New York. Niente sembra essere cambiato. Tanti casi da risolvere e tanto lavoro. D.B. fa i complimenti per la casa. Anche lui è rimasto a bocca aperta.

Dopo la cena, Cal esce in giardino per chiamare Gillian. 
O almeno credo. Deve chiamare Washington, perciò suppongo che chiamerà lei e Emily. Sembra malinconico. Lo osservo uscire e noto che cammina lentamente. Forse è stanco, ultimamente non ha dormito molto.
«Hai mangiato tantissimo.» esclama Jo, lavando i piatti.
«Avevo fame. Ho mangiato poco a pranzo.» dico. Mio padre e D.B. ridono. 
«Allora dovremmo fare più spesa, dato che lavorerai tutta l’estate in biblioteca.» esclama Mac.
«Ah ah. Divertente. Mi sono semplicemente nutrita.» spiego sorridendo.
Scoppiamo tutti a ridere. Che male c’è ad avere fame?
Cal rientra, sempre triste. Forse gli manca davvero casa.
Decidiamo di andare nel giardino sul retro. È ancora giorno. Quando tutti sono fuori blocco mio zio.
«Cal?» lo chiamo. Lui si volta. «Che succede?» domando.
Scuote la testa come se fosse tutto a posto.
«Non mentirmi.» dico.
«Sto bene, non preoccuparti.» mi rassicura scostandomi una ciocca di capelli dal viso. Sorrido, so che non è così ma non chiedo altro.
Usciamo e vedo Jo seduta sulla sdraio vicino al muro. D.B. sta osservando le mie rose. Mio padre si è avvicinato a Jo. Le sorride e le accarezza la guancia.
Anche lui ha capito che è turbata e che qualcosa non va. Ma lei, ovviamente, non tradirà mai la promessa fatta a Sid.
Mi avvicino a D.B.
«Ti piacciono?» chiedo.
Lui annuisce. «Molto belle. Davvero.» Sorrido, fiera di me.
«Mio padre se ne prende cura quando sono al college, ma per il resto ci penso io.» spiego.
Lui annuisce.
«Sono felice che tu sia tornato a trovarci.» dico.
«Mac mi ha detto che eri un po’ giù. Mi dispiace per la tua amica.» conclude.
Annuisco mestamente.
«Ascolta» comincia «non è colpa tua, ok?»
Abbasso lo sguardo.
«È che…» dico, poi mi blocco sento gli occhi pizzicare e la vista si appanna «Non posso fare a meno di pensare che se me ne fossi accorta prima…»
«No. No, Lena. È stata uccisa. Come potevi prevederlo?» mi chiede.
«Avrei dovuto capire che il suo ragazzo si sarebbe vendicato. Anche con me e la mia amica Margaret. Abbiamo fatto il suo nome alla polizia.» così dicendo gli mostro i graffi e i tagli. Lui prende delicatamente il mio braccio e lo osserva.
«Avete sporto denuncia?» tipica domanda da poliziotto.
«Sì. Se ne sta occupando Don.»
Ride. «Allora, quel ragazzo non la farà franca.» esclama. Rido anche io. È vero, con Don sono pochi quelli che riesco a mentire per più di cinque minuti.
«Come mai tutte queste ferie?» chiedo cambiando argomento.
«Sai, ne avevo di arretrate e non vedo l’ora di rivedervi.»
«Sospettavo fossero arretrate!» dico.
«Come sarebbe? Credi che io sia totalmente devoto al lavoro?» chiede, fingendosi offeso.
«Bè…»
«Come “bè”?!» sbotta e mi solleva. Mi circonda le gambe con le braccia e mi carica in spalla, poi mi porta in giro per il giardino, saltellando e facendo delle giravolte. Rido, sembro una bambina. Mio padre, Steve, lo faceva sempre quando ero piccola. Mi mancava. 
Dopo qualche secondo imploro pietà. Potrei vomitare.
Mac sorride e si avvicina.
«Perché stai torturando mia figlia?» chiede all’amico. Lui delicatamente mi poggia a terra e io mi reggo a mio padre per non cadere, mi gira la testa a causa di tutte queste giravolte.
«Pensa che io sia totalmente devoto al lavoro.»
«Lo sei.» gli fa notare mio padre.
Poi intervengo io. «Senti chi parla.» dico.
«Ehi! Dedico anche del tempo a te e a Jo.» mi fa notare e mi scompiglia i capelli. Tutti e tre ridiamo.
Vedo Cal sorridere. Si è seduto dove un attimo prima c’era Mac.
Jo non c’è più. Mi guardo attorno. Dov’è finita? 
Poi la vedo uscire dalla porta sul retro del garage. In mano ha una palla. Evviva! Partita a pallavolo!
Mi avvicino e lei fa un palleggio, passandomi il pallone. Sorrido e lo tiro subito a D.B. che la passa a Mac e così via.
«Due contro due?» chiede Jo.
Io sorrido e mi volto verso Cal.
«Vuoi giocare? Ci diamo il cambio su battuta.» dico.
Lui scuote la testa.
«Sicuro, Cal?» domanda ancora Jo. Lui annuisce.
Cominciamo a giocare e io e Jo, che facciamo squadra, siamo decisamente in vantaggio. Ho praticato pallavolo per 9 anni a Sacramento.
Dopo tre partite, io e Jo abbiamo vito con due set a uno.
«Non siete capaci!» li prende in giro lei.
«Davvero?» chiede mio padre.
Lei annuisce con aria di sfida. Lui le corre incontro e la solleva tra le braccia facendola volteggiare. Poi le scocca in bacio sulle labbra e la poggia a terra.
Sono così carini.
Io vado a sedermi sull’erba accanto a Cal.
«Sei brava.» si complimenta.
«Grazie. Ho praticato pallavolo per 9 anni.»
«Si vede.» poi si zittisce. Sorrido.
Quando rientriamo sono le dieci passate, così decido di andare a letto. Domani devo lavorare.
Salgo in camera mia e mi affaccio alla finestra. Joseph non c’è. Apro la portafinestra che porta sul balcone e dopo essermi messa il pigiama mi metto a letto.

ANGOLO DELL'AUTRICE
Hello everyone! Come va?
Ecco a voi il dodicesimo capitolo. Spero tanto che vi piaccia. Come potete vedere è tornato un personaggio già comparso nella prima storia D.B. Russell, direttamente da CSI: Scena del Crimine! 
Spero con tutto il cuore che vi piaccia, anche perchè sono ricominciati i veri drammi, la mia specialità! xD Sono fatta così!
Fatemi sapere!
A presto (Domenica), Izzy, xX__Eli_Sev__Xx



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Capitolo 13
*** Capitolo 13 ***


Always and forever

CAPITOLO 13

Quando mi sveglio sono appena le 7.30. La sveglia non è ancora suonata. Tutto tace. Nessuno si muove in casa. Mio padre, Jo e Cal devono essere già al lavoro, ma credo che D.B. dorma ancora. Senza svegliare tutto il quartiere con la mia grazia, mi preparo. Quando ho finito scendo al piano di sotto e preparo la colazione. Ho ancora due ore, la biblioteca apre alle 9.30, perciò me la prendo comoda.
Appena ho finito di mangiare il latte con i cereali al cioccolato, vado in camera mia a prendere la borsa. Cerco il cellulare, che, come ogni volta, perdo. Dopo averlo trovato torno al piano di sotto; seduto al tavolo c’è D.B., mi sorride e io faccio lo stesso. Poso la borsa su una sedia e il cellulare sul tavolo, così da non perderlo di nuovo.
«Vuoi la colazione?» chiedo. Lui annuisce, allora continuo «Cosa preferisci? Latte, tè, caffè…?» comincio a elencare.
«Caffè, grazie.»
Annuisco e preparo la caffettiera. Accendo il gas e poi mi volto verso di lui.
«Dormito bene?» chiedo.
«Sì.» sorride «A che ora cominci a lavorare?» mi domanda mentre gli porgo la tazza con il caffè.
«9.30.» rispondo. Lui mi ringrazia per il caffè e annuisce. Mi siedo sulla sedia accanto a lui e lo osservo mentre si gusta il caffè. Sembra stanco, forse il viaggio in aereo l’ha distrutto.
Rimaniamo in silenzio per un po’, poi mi decido a parlare.
«Ascolta, dato che devo lavorare, perché non vieni con me in biblioteca? Così non resti solo.» propongo. Lui finge di pensarci su e poi sul suo volto si dipinge un sorriso.
«Accetto volentieri.» risponde. Sorrido, sapevo che avrebbe accettato, non è bello rimanere soli in vacanza.

Rimaniamo seduti a chiacchierare per un po’, poi alle 9 ci alziamo per partire.
Appena mi sollevo dalla sedia, forse un po’ troppo velocemente, la vista mi si oscura per qualche secondo. Mi appoggio al tavolo con una mano e con l’altra mi stropiccio gli occhi. Era qualche giorno che mi sentintivo debole, ma mai così tanto. 
«Lena, tutto a posto?» mi domanda D.B. avvicinandosi. Mi prende la mano e la scosta dal mio viso. Con le dita mi solleva il mento per guardarmi meglio.
Annuisco flebilmente, se scuotessi troppo violentemente la testa credo che potrei svenire.
«Aspetta, siediti. Prendo un bicchiere d’acqua.» mi dice. Mi aiuta a raggiungere la mia sedia e mi porge il piccolo bicchiere. Bevo a piccoli sorsi e il freddo dell’acqua mi aiuta a ricompormi.
«Meglio?» mi chiede, inginocchiandosi di fronte a me.
«Sì, grazie.»
«Dev’essere lo stress di questi giorni.» constata. Annuisco, probabilmente è così. La morta di Laura. Il "pestaggio" di Jesse. 
È tutto stressante. Dovrei cercare di rilassarmi un po’, ma con il lavoro e tutto il resto è quasi impossibile.
«Facciamo così. Guido io.» dice D.B. e io sono pienamente d’accordo, infatti, senza protestare gli porgo le chiavi. Mi prende a braccetto e mi aiuta a raggiungere il garage.
Arriviamo alla biblioteca e io apro tutte le porte. Preparo i computer e comincio a darmi da fare, timbro i nuovi libri arrivati e li registro. D.B. è seduto su una sedia dietro di me e sta leggendo un libro di criminologia. 
È proprio un’ossessione! Non potrebbe leggere un normale romanzo?
La giornata passa in fretta, è tutto tranquillo, a parte il mio via vai alle macchinette, tra caffè per rimanere sveglia e bottiglie d’acqua per non disidratarmi. Bevo davvero tanto ultimamente, il caldo mi fa un brutto effetto quest’anno, per non parlare della mia presunta allergia. 
Insomma, che altro può essere? A chi è mai capitato di prendersi un raffreddore in piena estate?
Dovrò andare a fare gli esami del sangue, magari riuscirò a prevenirla in qualche modo. Accendo l’aria condizionate già alle 10 del mattino, non era mai successo, il caldo si sta facendo soffocante, per essere solamente a giugno.
È una giornata relativamente tranquilla. Si fanno vedere in pochi, forse proprio a causa dell’afa. Lavoro poco e dopo aver risistemato e timbrato i libri comincio ad annoiarmi. Mi siedo e osservo D.B., anche lui, adesso che ha concluso il libro, si guarda intorno un po' annoiato dalla calma che ci avvolge.

Verso le 17 vedo entrare un ragazzo biondo. Sorrido. È Joseph. Finalmente qualcuno di interessante.
«Ehi, Maddy!» mi saluta sorridendo.
«Ciao.» dico. Si avvicina e mi allunga una mano chiusa a pungo, faccio lo stesso e le battiamo una contro l’altra, è la nostra specie di saluto. 
«Poco lavoro oggi, eh?» constata guardandosi intorno. A parte qualche studente che studia o legge, c’è una calma piatta.
«Già. Non si è visto quasi nessuno. E anche tu non ti sei più fatto vedere.» gli faccio notare. 
«Scusa, ma sono stato impegnato con i miei…» si giustifica.
«Esistono i cellulari.» scherzo.
«No! Davvero?!» ribatte ridendo. 
Sento D.B. schiarirsi la voce, così mi ricordo che devo presentarlo.
«Joseph, questo è D.B. Russell, un amico di famiglia.» dico. Lui si alza dalla sedia e porge la mano al mio amico.
«Molto piacere, signore. Sono Joseph.» dice cordialmente Joseph.
«Piacere mio, Joseph.» ribatte D.B. Il mio amico sorride e mi dice che è venuto per prendere in prestito un libro di letteratura. Si allontana e dopo dieci minuti torna con un enorme volume. Lo registro e glielo porgo.
«Grazie, Maddy.» mi dice prendendolo.
«Grazie a te.» ribatto.
«Che fai stasera?» mi chiede.
«Cena con il mio ragazzo.» dico. 
Lui annuisce. «A che ora?»
«20.30.»
«Allora ci vediamo al balcone, forse.» mi dice sorridendo.
«D’accordo. A dopo.» lo saluto. Accenna un saluto militare. Faccio lo stesso e lo saluto ancora, mentre se ne va. 
D.B. mi guarda stupito.
«Al balcone?» domanda.
Io annuisco. «È il nostro vicino di casa.» spiego «Ci vediamo dai nostri balconi, sono a pochi metri di distanza.»
«Oh.»
«So a che stai pensando. È solo un amico.» dico, prima che possa balenargli in testa qualche idea strana.
Annuisce e si volta per continuare a leggere un libro che avevo poggiato accanto a lui.
Dato che non c’è nessuno in vista, mi alzo. «Puoi rimanere un attimo qui? Devo prendere una cosa.» chiedo.
«Certo.» mi risponde senza nemmeno alzare gli occhi dal libro. Mi allontano e mi dirigo verso la sezione di psicologia.
Cerco negli scaffali, scorro i libri, uno dopo l’altro. Prendo la scala e la avvicino allo scaffale. Salgo due gradini e sulla terza mensola trovo il libro che mi interessa: “Il confine tra verità e menzogna: i segreti della cinesica.” di Cal Lightman. Perfetto. Voglio saperne di più sul lavoro di mio zio. Lo registro a mio nome e lo infilo nella borsa per non dimenticarlo. D.B. sembra non farci caso. 
 
Alle 18.30 chiudiamo la biblioteca e torniamo a casa, mi faccio una doccia e dopo aver finito mi siedo sulla sdraio sul balcone della mia stanza a leggere il libro che ho preso in prestito.
Dopo venti minuti poggio il libro accanto a me e mi affaccio nella mia stanza.
D.B. si sta facendo la doccia, sento l’acqua scrosciare, così decido di rimanere sul balcone ancora un po’. Joseph è in camera sua ed è intento a leggere, quando mi vede, apre le porte ed esce.
«Hola, amiga!» mi saluta, rido e saluto a mia volta.
«Hallo, mein Freund!» lui ride.
«Che fai?» mi chiede. Io mostro il mio libro.
«Leggo.» dico.
«Anche io. Letteratura.» ribatte e mi mostra a sua volta il libro.
Parliamo un po’ e poi gli dico che devo andare a prepararmi. Ci salutiamo, questa volta normalmente e io rientro.
Il libro che ha scritto mio zio è davvero interessante. È davvero possibile capire qual è la verità grazie alle espressioni delle persone. Sembra impossibile. Solo in pochi riescono a nasconderle magistralmente, uno di questi è Cal. È così interessante che sono riuscita a leggere metà libro in meno di un’ora. Ci sono esempi per ogni espressione: attori, politici, persone di rilievo. Una volta capita l’emozione scritta sul loro volto e il contesto, si può capire se mentono oppure no. Incredibile. Voglio saperne di più. Domani continuerò a leggere. 
Finisco di prepararmi, non ci vuole molto e riprendo la mia lettura.

ANGOLO DELL'AUTRICE
Oh-oh-oh! Hi everyone and Merry Christmas! 
Eccomi qui con il tredicesimo capitolo tutto per voi!
Spero tanto che vi piaccia, perciò fatemi sapere! ;D
Volevo anche informarvi che farò una piccola pausa natalizia, perciò ricomincerò a pubblicare il 27! 
Quindi colgo l'occasione per farvi i miei migliori auguri di Natale!
Spero che passiate buone vacanze! Ci rivediamo Venerdì!
Un bacione, Izzy, xX__Eli_Sev__Xx

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Capitolo 14
*** Capitolo 14 ***


Always and forever

CAPITOLO 14
 
Alle 8 Don suona alla porta. Sorrido quando sento il campanello.
Prendo la borsa e scendo le scale.
Ho indossato il mio vestito preferito, bianco, il busto è semplice, mentre la gonna è fatta a balze cucite una sopra all’altra a formare più strati. Avrei voluto indossare i tacchi, ma ho preferito le ballerine bianche. Mi sono fatta una treccia che raccogliesse tutti i capelli dalla cima e il mio trucco è sui toni dell’azzurro. Volevo essere carina, era da un po’ che non uscivo con Flack.
I miei sono tornati da un po’, così li saluto ed esco mentre mi augurano una buona serata. Mi chiudo la porta alle spalle e raggiungo il mio ragazzo.
«Ciao, biondina.» mi saluta, appoggiato alla macchina.
«Ehi.» dico. Gli sfioro le labbra con le mie e lo abbraccio. Lui ricambia e sorride.
«Sei bellissima.» dice.
«Anche tu, tesoro.» dico e gli scocco un bacio sulla guancia. Mi apre la portiera come un vero cavaliere e io salgo in macchina. Mi siedo sul sedile del passeggero e aspetta che anche lui salga. Quando è seduto e mette in moto, la radio parte in automatico. Stava ascoltando la musica.
«Cosa stavi ascoltando?» domando osservando il titolo che scorre sulla schermo.
«Just the way you are.» risponde svoltando per uscire dal quartiere.
«È bellissima. Posso ascoltarla dall’inizio?» domando. Annuisce e io sorrido compiaciuta. Premo il tasto e la canzone inizia dal principio.
 
Oh, her eyes, her eyes
Make the stars look like they’re not shining
Her hair, her hair
Falls perfectly without her trying

She’s so beautiful
And I tell her every day…

 
Rimango incantata da quelle parole bellissime. Così romantiche, così semplici, così belle.
La canto sottovoce, è meravigliosa.
«Hai una voce stupenda.» mi dice ad un tratto. Io mi blocco e mi volto. Sorrido, non mi aveva mai sentita cantare.
«Adoro cantare.» spiego continuando a canticchiare.
Lui sfoggia il suo sorriso sghembo e io mi sciolgo.
«Dove mi stai portando?» chiedo.
«Al miglior ristorante italiano della città.»
«Quale?»
«Da “Piccolo”.»
«Oh! Mac lo adora!» esclamo voltandomi verso di lui.
«È magnifico.» dice ancora sorridendo compiaciuto.
«Non ho mai mangiato italiano. Dovrai consigliarmi.»
«Fidati di me, so cosa ordinare. Ti piacerà.» mi assicura e io sorrido. Mi piace tutto ciò che mangio e lui lo sa bene.
Arriviamo al ristorante dopo venti minuti, ho cantato all’incirca una decina di canzoni e Don è rimasto ad ascoltarmi incantato. Insomma, sapevo di non essere stonata, ma non pensavo di incantare come le sirene. Sembrava Ulisse, nell’ “Odissea”, stordito dal dolce canto delle sirene ammaliatrici. Per fortuna siamo arrivati da “Piccolo” tutti interi e senza deviazioni su isole incantate e infestate da streghe!
«Ho prenotato per due, Flack.» dice all’uomo all’entrata.
«Seguitemi.» risponde lui e facciamo come ci dice. Siamo in una saletta appartata, ci sono altri due tavoli da due persone ma sono tutti vuoti.
Ci sediamo e quando il cameriere arriva, Don ordina anche per me.
«Allora mi fido.» dico, porgendo il menù al cameriere.
«Vedrai, rimarrai a bocca aperta.» sorrido «Allora, come va il lavoro alla biblioteca?» chiede.
«Bene. Potrei viverci, lì.»
«Lo immaginavo.» mi dice e ridiamo.
Dopo un momento di silenzio parlo.
«Avete arrestato l’assassino di Laura?» chiedo.
Scuote la testa mestamente e prende la mia mano, che è appoggiata sul tavolo, tra le sue. La stringe e parla. «Non ancora. Ma lo prenderemo. Te lo prometto.» mi assicura.
Sorrido. Lo spero, davvero. Non vorrei facesse del male a qualcun altro. E soprattutto voglio che l'assassino della mia amica venga punito per quello che ha fatto.
 
Quando ci vengono servite le portate rimango a bocca aperta. Non ho mai assaggiato niente di più buono. A parte, forse, gli involtini primavera. Quelli sì che sono un portento.
Rimaniamo nel ristorante fino alle 23, poi usciamo per una passeggiata sotto le stelle. Paga tutto Don, io protesto ma lui minaccia di arrestarmi se continuerò ad opporre resistenza. Così lo lascio fare.
«Sei bellissima, questa sera.» mi dice, una volta fuori.
«Grazie. Anche tu sei magnifico. Questo completo ti sta d’incanto. Il nero ti dona.» mi complimento. Intreccia le sue dita alle mie e comminiamo lungo le vie di New York. È tutto illuminato e dato che è un giorno feriale non c’è molta gente che passeggia.
L’aria fresca ci sferza il volto e ci rinfresca dopo il caldo del pomeriggio, ringrazio il cielo che la notte sia più fresca altrimenti potrei morire disidratata.
Raggiungiamo Central Park e lì passeggiamo sotto i lunghi viali. Ci fermiamo dopo qualche minuto in riva al grande lago. Le luci di New York si riflettono nello specchio d’acqua creando buffi disegni. Rimango incantata di fronte a quella scena.
«È fantastico!» esclamo.
«Già.»
«E da qui si vedono benissimo le stelle.» continuo alzando gli occhi verso il cielo.
«Io ce l’ho accanto la stella più bella.» dice abbassando lo sguardo verso di me.
Sorrido imbarazzata dal complimento.
«Lena, è stata una serata bellissima.» sbotta dopo qualche secondo di silenzio.
«Magnifica.» gli faccio eco «Ma non dovevi pagare tutto tu! Hai fatto fuori lo stipendio di un mese!» lo rimprovero.
«Lo so. Ma…» comincia. Lo osservo, ha abbassato lo sguardo e ha lasciato la mia mano «questo è il minimo per la donna che amo.» a questo punto credo che un semaforo sarebbe meno appariscente. Sento il mio volto avvampare di rossore. Abbasso lo sguardo per poi tornare a guardarlo negli occhi. È bellissimo, ma non capisco. Di solito non mi riempie di complimenti. Si limita ad abbracci e qualche bacio.
«Ti amo, Lena.» ripete «E so che stai frequentando il college ma voglio chiedertelo. Sarai libera di rifiutare, capisco che ci sono quindici anni di differenza da me a te e che sono anche parecchi, ma…» il mio cuore comincia a galoppare e perde un colpo quando Don tira fuori dalla tasca una scatolina di velluto bianco e si inginocchia davanti a me. Sento gli occhi pizzicare. Eh, no! Non posso piangere ora. Non devo!
«Lena, vuoi diventare mia moglie?» mi chiede.
Rimango a bocca aperta. Osservo l’anello nella scatola. Non riesco a parlare. Ma vorrei gridare. Vorrei gridare a tutti quanto sono felice. Anche se non credo di poterlo descrivere. Poi prendo il coraggio a quattro mani. Devo parlare ora, altrimenti penserà che voglio rifiutare.
«Sì.» dico in un sussurro, poi, accorgendomi che probabilmente non ha sentito, alzo la voce «Sì! Sì! Sì!» ripeto più volte. Lui sfila l’anello dalla scatolina e me lo infila all’anulare sinistro. È stupendo. Credo sia oro bianco. È intrecciato come una vera e propria treccia e all’interno sono incastonati dei piccoli diamanti. Dev’essere costato una fortuna.
Si alza da terra e mi bacia. Le nostre labbra si sfiorano e le nostre lingue si accarezzano dolcemente. Ci abbracciamo così stretti da non riuscire più a respirare. Non sono mai stata così felice in vita mia.
Quando ci separiamo l’unica cosa che riesco a dire è: «Ti amo, Don Flack.»
«Anche io, Lena. E mi dispiace se a volte non lo dimostro.» si scusa.
«Credimi, tesoro, lo dimostri.» lo rassicuro dandogli una carezza sulla guancia. Si è fatto crescere un po’ di barba, sa che la adoro.
Sospira e poi parla mettendomi una ciocca di capelli sfuggita alla treccia dietro un orecchio.
«Credevo mi avresti detto di no.» mi confessa. Io gli prendo il volto tra le mani e incateno i miei occhi ai suoi. Azzurri nei blu, blu negli azzurri.
«Perché avrei dovuto? Io ti amo.» dico come se fosse la cosa più ovvia nel mondo. Perché lo è e lui lo sa.
«Non lo so. La differenza d’età, forse. E poi vai ancora al college.»
Scuoto la testa divertita, sono euforica, devo trattenermi altrimenti scoppierò a ridere. «Sono quindici anni, Don.» alla fine, non è molto. Lo amo, che importa l’età?
«Lo so. Ma quando tu ne avrai cinquantacinque io ne avrò già settanta.»
«Non mi interessa. Io ti amo.» ripeto. Magari si convincerà.
«E per il college?» chiede.
Ci penso su un momento e poi inspiro per parlare.
«Ascolta, non abbiamo fretta. Potrei finire il college e appena mi sarò laureata potremmo sposarci. Che ne dici?» propongo. Lui annuisce e poi sorride.
«D’accordo.» concorda.
«Adesso c’è un unico problema da affrontare.» aggiungo seria. Lui solleva lo sguardo preoccupato. I nostri sguardi si incontrano.
«Quale?» chiede ansioso.
«Mac Taylor.» rispondo.
Insieme ridiamo e ci allontaniamo nella notte attraverso Central Park.
 
ANGOLO DELL’AUTRICE
Ciao a tutti! Eccomi qui, con il mio nuovo pc che mi permette di pubblicare! Evviva!
Spero tanto che questo capitolo vi piaccia. Io lo trovo abbastanza carino!
So che a qualcuno di voi farà piacere ciò che leggerà perché da tempo sperava in un appuntamento romantico tra la nostra protagonista e il suo fidanzato!
Fatemi sapere, ;D…
Izzy, xX__Eli_Sev__Xx
 

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Capitolo 15
*** Capitolo 15 ***


Always and forever

CAPITOLO 15
 
Le due settimane di ferie di Sandra trascorrono velocemente. Appena torna chiedo un permesso di un giorno per andare dal medico a farmi controllare. Farò degli esami per scoprire a cosa sono allergica, così da stare meglio. Ultimamente tra allergia e caldo soffocante sono quasi morta.
Inoltre io e Flack dovremmo dire a mio padre del nostro fidanzamento. Spero non ci uccida con la sua nove millimetri. Vorrei riuscire a sposarmi, prima.
Ancora non mi sembra vero! Sono così felice, nonostante tutto…
 
Il giovedì Flack arriva a casa nostra per cena. Quando sento la macchina parcheggiare davanti al cancello di casa, mi alzo dalla sedia dove ero seduta, in cucina, e raggiungo la porta. La apro e mi affaccio. Lo vedo scendere dall’auto e aspetto che mi venga incontro. In mano ha un mazzo di rose bianche. Sorrido.
Quando è davanti a me, lo saluto alzandomi in punta di piedi e scoccandogli un bacio sulla guancia. «Ciao, Don.» gli sussurro all’orecchio.
«Ciao.» risponde baciandomi una guancia a sua volta.
Mi stringe nervosamente una mano e io avvicino nuovamente il mio volto al suo.
«Andrà tutto bene.» gli sussurro all’orecchio. Lui annuisce e mi sfiora la guancia con le labbra. Il suo profumo mi pervade.
Se mio padre è sopravvissuto alla notizia che il mio ragazzo aveva quindici anni più di me, la notizia del matrimonio quanto potrà sorprenderlo?
Ok, d’accordo. Sono in ansia anche io, un pochino.
 
Dopo la cena, quando andiamo tutti in salotto per il caffè, Don si alza in piedi e comincia a parlare. Si stritola nervosamente le mani. E io non faccio di meglio.
Trattengo il fiato per tutto il tempo. Il mio cuore batte a mille e sto sudando freddo. Neanche per l’esame di tedesco ero così in ansia. Adesso non sono più così sicura che andrà tutto bene!
«Ehm…» comincia il mio futuro marito (che bello poterlo dire!) schiarendosi la voce «Io e Lena dobbiamo fare un annuncio.» mi alzo in piedi. Intreccio le mie dita alle sue e annuisco, così lui continua.
Mac solleva lo sguardo sospettoso mentre Jo sorride. Forse ha già capito. Non mi sorprenderebbe. Si accorge di ogni cosa ancora prima che accada.
Anche Cal e D.B. si sono incuriositi e ci stanno osservando.
Flack inspira profondamente e poi continua. «Ho chiesto a Lena di sposarmi.» dice lentamente, scandendo ogni parola.
Un silenzio tombale cala nella nostra casa.
Ok, è imbarazzante.
Nessuno si muove o respira.
«E lei ha detto sì.» conclude. Sorrido a quella conclusione a scanso di fraintendimenti. Nel caso ancora non l’avessero capito.
Sul volto di Jo si dipinge un enorme sorriso. Si alza dal divano e corre ad abbracciarmi. Mi stringe così forte da mozzarmi il fiato. Io ricambio sorridendo. Almeno qualcuno è felice.
«Congratulazioni, Lena!» esclama al colmo della gioia. «Era ora, Don!» dice dandogli un buffetto sul braccio. Lui sorride, un po’ imbarazzato senza mai lasciare la mia mano.
Aspetto la reazione di mio padre, ma non arriva.
Aspetto ancora, nulla.
Cal lo osserva, poi si alza in piedi e mi abbraccia forte, scoccandomi un bacio sulla guancia. Mi dà un buffetto e mi solleva il mento con due dita.
«Congratulazioni, tesoro. Mi aspetto l’invito!» si raccomanda.
Anche D.B. mi abbraccia e mi sussurra un «Congratulazioni, piccola mia.»
«Grazie.» dico e sorrido.
Sono commossa, ma adesso quello che mi preoccupa è l’uomo ancora seduto sul divano.
Mi volto verso mio padre e lo osservo preoccupata. «Papà?» lo chiamo.
Lui solleva lo sguardo.
«Papà, ti prego, dì qualcosa. Qualunque cosa.» lo imploro. Andrebbe bene anche un “Ma vi siete totalmente ammattiti?!”
Incrocia il mio sguardo e rimane immobile. Ho paura. Ho paura, non del suo rifiuto, ma di averlo deluso. Di aver rovinato tutto.
Poi, inaspettatamente, si alza e mi abbraccia forte. Mi accarezza i capelli e mi sfiora la fronte con le labbra.
Ricambio stupita. Il suo volto è poggiato contro il mio e sento che su esso si dipinge un sorriso. Solo adesso capisco che è tutto a posto. Che va tutto bene.
«Quindi per te va bene?» chiedo, comunque.
«Certo. Insomma, è solo che sei la mia bambina e io…» comincia. Mi allontano di qualche centimetro e gli sorrido. Lui fa lo stesso.
«Lo sarò sempre.» lo rassicuro dandogli una carezza sulla guancia.
«La ami?» chiede al mio fidanzato.
Flack lo osserva per qualche secondo. «Con tutta la mia anima.» a quelle parole mi sciolgo.
Si avvicina a Don e gli stringe la mano. «Congratulazioni.» gli dice e poi sorride.
Poi intervengo io. «Ovviamente lo faremo dopo la mia laurea.» assicuro.
«Sì. Non voglio che lei bruci le tappe.» spiega lui.
Sorrido. Lo amo. Amo, Don Flack.
Lo abbraccio e lui fa lo stesso. Vuole che viva ogni cosa, che faccia tutto senza fretta. Abbiamo tempo. Abbiamo tutta una vita.
Dopo aver ricevuto la benedizione da tutti i membri della mia famiglia, brindiamo e festeggiamo per il resto della serata.
 
All’una Don si congeda.
«Ciao, Don.» gli dico, ferma sulla soglia.
«Buonanotte, Lena.» ribatte lui. Sorride e si volta per andarsene ma io lo trattengo. Lui si volta, io lo tiro verso di me e lo bacio.
«Ti amo.» sussurro.
«Anche io ti amo.» e se ne va.
 
Mio padre mi si avvicina quando tutti se ne sono andati. Mi abbraccia da dietro mentre sto guardando fuori dalla finestra. Io sorrido e volto leggermente la testa. Vedo i suoi occhi blu brillare.
«Congratulazioni, amore mio.» mi dice.
«Grazie, papà.» sussurro e poi mi volto completamente. I suoi occhi sono velati di lacrime, lacrime di gioia.
«Sono molto felice per te.»
«Grazie.» dico. Poi parlo di nuovo. «Credevo che… che non ce l’avresti permesso.»
«Perché no? Se vi amate chi sono io per impedire tutto questo?» chiede. «Solo…» si interrompe e poi ricomincia «sei consapevole che vi separano ben quindici anni?» chiede.
Me l’aspettavo. «Lo so, ma…» vorrei dire che non mi importa, ma non è una ragione sufficiente. Anche se so cos’è sufficiente. «Lo amo.» concludo. È così semplice. Lo amo e questo basta.
Lui sorride e mi abbraccia forte ancora una volta. È sufficiente anche per lui.
«Ti voglio bene, papà.»
«Ti voglio bene anche io.» mi sussurra.
 
Il giorno dopo, dato che mio padre deve lavorare e D.B. passerà solo più due giorni qui, decide di accompagnarmi dal medico per non lasciarmi sola. Guidiamo fino all’ospedale e D.B. parcheggia poco lontano dall’entrata.
Dopo aver fatto il prelievo mi chiedono di tornare un’ora dopo per i risultati, così andiamo a fare colazione dato che ero a digiuno. Ho una fame pazzesca, così ordino un cappuccino e un croissant al cioccolato.
«Sei felice?» mi chiede ad un tratto D.B., rompendo il silenzio. Ha appena finito la sua brioches e ha posato la tazza su tavolino in marmo del bar.
Rimango spiazzata. Se sono felice ora? Bè, a parte il fatto che mi hanno appena piantato un ago nel braccio, sì. Sono felice, soprattutto ora che mi sto gustando un bel croissant al cioccolato.
Poi capisco. Non parla del croissant. Ma di Flack e me. Del matrimonio.
«Sì.» dico soltanto. Non devo giustificare nulla. Sono felice e basta.
Sorride. «Lo sono anche io per te.» non mi sembra convinto. Non vorrà impedirmi di sposarmi?
«Grazie.» dico e poi continuo «Ma…?»
«Nulla. È solo che… la prima volta che ti ho vista eri… poco più di un’adolescente spaventata. Sei cresciuta così tanto. E sono passati solo due anni.» dice, quasi commosso.
Vorrei dirgli che sono stata costretta a crescere. Dopo la morte dei miei, di James e di Laura, sono stata costretta a crescere, a imparare a cavarmela da sola, anche se con mio padre, Jo e Don al mio fianco. Ma non lo faccio. Ascolto incantata. È davvero affezionato a me. Non ha figli, perciò adora venire qui e fare il “papà” con me.
È così dolce. Sorrido.
«Mi inviterai, vero?» conclude.
«Ovviamente.» lo rassicuro.
Sorride e quando abbiamo finito ci avviamo verso l’ospedale per ritirare i risultati. Spero che non ci sia nessuna allergia e che sia solo un raffreddore.
 
Quando arriviamo alla reception saluto la segretaria.
«Salve. Sono venuta a ritirare i risultati dei miei esami.» dico.
«Nome?» chiede lei cordialmente.
«Maddalena Taylor.»
«Il medico la sta aspettando nel suo studio.» dice dopo qualche secondo. Non potrebbe semplicemente darmeli? Dovrei anche tornare a casa prima di domani.
Annuisco rassegnata e D.B. ma fa capire che mi aspetterà nella sala di attesa. Mi avvio lungo il corridoio poco illuminato. Appena vedo la porta dello studio busso.
«Avanti.» sento dire dall’interno.
«Buongiorno, mi hanno detto che mi stava aspettando, dottore.» dico cordialmente.
«Oh, sì Lena, entra.» mi dice sorridendo. Io chiudo la porta «Accomodati.» continua e mi indica la sedia. Mi siedo e aspetto.
«Dunque…» comincia cercando dei fogli «Per quanto riguarda l’allergia ti confermo che come pensavi è un’allergia al polline. Molto comune e facilmente prevenibile.» annuisco «Ma dagli esami è stata riscontrata un’altra…» fa una pausa «patologia. Se così si può chiamare.»
Ma cosa sta dicendo? Non capisco. Patologia? Sono sempre stata sana come un pesce, a parte qualche raffreddore. Spero non si nulla di grave.
La paura mi assale.
«Cos’ha trovato?» chiedo preoccupata.
Lui sospira.
Oh, no, non va affatto bene.
«È stato riscontrato il diabete di tipo uno.» risponde porgendomi un foglio.
Leggo ma non capisco assolutamente nulla di quello che c’è scritto. Diabete? Cosa…? Com’è possibile? Gli occhi mi si riempiono lacrime.
«Mi dispiace.» aggiunge. Io scuoto la testa, ancora incredula.
«Ma com’è possibile?» chiedo, dando voce ai miei pensieri.
«Forse una cosa congenita. Qualcun’altro in famiglia soffriva di diabete?» mi domanda. Ci penso su.
«No. Non che io sappia.» dico.
«Tua madre o tuo padre soffrono di diabete?»
Scuoto la testa, poi mi blocco. Caroline e Steve non erano i miei veri genitori. Mac e Claire sono quelli biologici. Claire aveva il diabete?
Mio padre, no. Di questo sono certa.
«In realtà, mia madre non l’ho mai conosciuta. Forse aveva il diabete. Non lo so.» concludo.
«È probabile che sia ereditario. A meno che tu abbia esagerato con i dolci.» azzarda.
«Non vado matta per i dolci.» dico. A parte un po’ di cioccolato a colazione.
«L’avevo intuito dal tuo colesterolo e dal tuo peso.» dice annuendo.
«E…» comincio, ma subito deglutisco, ho la bocca asciutta. «È curabile?» chiedo, anche se so che la risposta è no.
«No, ma si può controllare.»
«Come?» domando ancora.
«Devi controllare il livello degli zuccheri nel sangue e se è troppo basso devi fare un’iniezione di insulina, che permette il giusto assorbimento del glucosio dalle cellule.» mi spiega.
«E se non mi facessi l’iniezione di insulina?» chiedo.
«Potrebbero esserci delle complicazioni come il coma, la cecità e la morte.» Sobbalzo alla parola morte. Non posso morire. Devo finire il college, sposarmi, vivere la mia vita con Flack.
Lui si siede accanto a me e mi rassicura.
«Ascolta, se seguirai la terapia e i miei consigli, andrà tutto bene, ok?»
Annuisco.
«Quindi dovrò smettere di mangiare dolci?» chiedo. Non che li consideri fondamentali, ma se sono proibiti è meglio saperlo.
«Sarebbe meglio ingerire meno zuccheri possibili, ma nel tuo caso, qualcosa di dolce, ogni tanto, non danneggia.» mi tranquillizza.
La spiegazione va avanti un’altra mezz’ora. Poi, alla fine, il medico mi porge una piccola “borsetta” con tutto l’occorrente per misurami la glicemia.
«Allora, per misurarla devi pungerti il polpastrello con questo.» mi dice e mi mostra un apparecchio di plastica che contiene un ago «A quel punto fai cadere la goccia di sangue su queste strisce che infilerai nella macchinetta che ti dirà i tuoi livelli.» conclude mostrandomi la macchinetta con un piccolo schermo in cui devo infilare le strisce. Annuisco. Per essere sicura che io abbia capito lo proviamo una volta e quando l’ago mi buca il polpastrello sobbalzo.
«Ti consiglio di annotare su un quaderno i livelli ogni volta che misuri la glicemia. E per essere sicura di non star male, devi farti l’insulina prima di tutti i pasti. Ok?»
«Ok.»
«Se avessi bisogno di qualcosa o ti sentissi male, non esitare a chiamarmi.» dice gentilmente.
«Grazie, dottore.» dico. Prendo la mia borsa a tracolla, me la metto in spalla e gli stringo la mano. Lui mi apre la porta per permettermi di uscire.
Chiude la porta dello studio e io mi fermo appoggiata al muro per un po’.
Ho il diabete. Come ho fatto a non accorgermene prima? E se qualcosa dovesse andare storto? Entrerei in coma, diventerei cieca o peggio morirei. Ho paura che qualcosa possa andare male. Passate le crisi di panico cominciamo con il diabete? Perché?
 
Raggiungo D.B., che è ancora nella sala d’aspetto ad aspettare il mio ritorno, dopo cinque minuti.
Mi sembra di essere stata via anni.
Lo osservo dal corridoio prima di avanzare. È seduto su una seggiola e sta leggendo un quotidiano.
Mi sento così sola. Ma devo essere forte. Non devo piangere. Sono grande, devo essere forte.
«Tutto a posto?» chiede D.B., alzandosi e venendomi incontro.
Devo essere molto pallida. In effetti credo di non stare molto bene. La notizia non è stata un bel colpo.
Mentre usciamo cerco di non avere una crisi di panico e cerco di raccontare quello che mi ha detto il medico.
«Ha detto che ho un’allergia al polline.» comincio mentre stiamo uscendo dall’ascensore.
«Non è grave. Bastano degli antistaminici.» ribatte. Annuisco.
Già, fosse solo quello il problema.
«Che succede?» chiede, ha capito che qualcosa non va.
Inspiro profondamente e poi parlo. La voce non è ferma, lo so, ma devo sfogarmi. Non devo piangere, ma so che accadrà, prima o poi scoppierò.
«Ha detto che ho il diabete.» dico, piatta.
Lui si blocca, in mezzo al parcheggio. Mi fermo e mi volto verso di lui. Eh, no! La crisi non può venire a lui, ad avere il diabete sono io.
«Cosa?» sussurra. Lo sento appena.
«Di tipo uno.» continuo. Senza pensarci due volte si avvicina e mi stringe a sè. Mi abbraccia forte e mi dà un bacio sui capelli.
«Lena, mi dispiace.» a quelle parole mi accorgo che ci sono persone che stanno molto peggio, c’è gente che ha il cancro, come Sid. C’è gente che sa di avere solo qualche mese o peggio, qualche settimana di vita. Se è qualcosa che si può controllare che problema c’è? Anche se non sono convinta di tutto ciò, lo ammetto.
«Comunque il medico ha detto che si può controllare.» spiego.
Annuisce e dopo una lunga discussione su quello che mi ha spiegato il medico, si offre di guidare, ancora una volta. Rimango in silenzio per tutto il viaggio, non posso mentire. Sono turbata, ma lo supererò, come tutto il resto.
Per fortuna l’ho scoperto. Chissà cosa sarebbe successo, altrimenti.
 
Ci fermiamo davanti al laboratorio. Entriamo e raggiungiamo l’ufficio di mio padre. Lui è seduto alla scrivania e quando lo vedo alzarsi per venirmi incontro mi rifugio tra le sue braccia. Lui mi stringe e cerca lo sguardo di D.B., ma lui non parla. Cal è seduto sul divanetto e sta esaminando dei documenti. Solleva lo sguardo e poi si alza per raggiungerci.
«Lena, tesoro, stai bene?» mi chiede mio padre «Cos’ha detto il dottore?»
«Ho un’allergia al polline.» dico.
«E sei triste per questo? È solo un’allergia.» esclama Cal.
Mi viene quasi da ridere. Ma non ci riesco, nonostante non riesca a piangere.
Mio padre mi osserva aspettando una qualche reazione, proprio come ho fatto io la sera dell’annuncio del fidanzamento.
«Mi hanno diagnosticato il diabete di tipo uno.» dico con voce melliflua.
Il silenzio cala ancora una volta.
Mac mi abbraccia forte. Io ricambio, ma con debolezza. Non ce la faccio più. La verità è che per ogni momento felice ce ne sono tre tristi. È sempre così e non capisco perché.
Spiego a mio padre e mio zio che cosa mi ha detto il medico e scopro che, sia mia madre sia mio nonno erano diabetici. Fantastico, era praticamente inevitabile.
 
Raggiungo Don alla stazione di polizia e gli racconto tutto. Rimane a bocca aperta, anche perché pensava che fossi andata a dirgli che ci ripensavo sul matrimonio.
«Mi dispiace tanto, Lena.» dice. Annuisco. Lo so.
«Comunque si può controllare. Questo è rassicurante.» tento di rassicurare più me che lui.
Parliamo per un po’, ma viene chiamato per andare su una scena. Esco dalla stazione di polizia. D.B. è rimasto al laboratorio così, decido di andare da Sid. Ha scoperto che il suo cancro è curabile, il che è bellissimo. Non morirà. Sono felice per lui, ma non riesco a sorridere. Sento un peso dentro, vorrei almeno riuscire a piangere.
 
Scendo lentamente dall’auto e raggiungo la sala autopsie. L’infermiera che mi aveva accolta l’altra volta si avvicina.
«Cerchi Sid?» chiede e io annuisco. Sorride e mi fa cenno di aspettare.
Poco dopo lo vedo avvicinarsi ancora con gli occhiali inforcati sul naso.
«Lena. Come mai sei qui?» chiede e si avvicina. Mi sorride amichevole. Vedo che sulla mano ha un cerotto, probabilmente per coprire il posto dove gli viene iniettata il farmaco per la chemioterapia.
Mi avvicino e abbasso lo sguardo e finalmente le tanto attese lacrime cominciano a sgorgare. Singhiozzo silenziosamente e lui vedendomi così mi fa sedere sulle seggiole e mi abbraccia.
«Che succede, piccola?» chiede.
«Ho il diabete.» riesco a dire tra le lacrime.
Si zittisce. Non sa che dire. E neanche io. Rimaniamo abbracciati per più di cinque minuti. Sono felice che lui sia qui. Sono felice che abbia tempo per me. Ne ho bisogno.
«Ehi, Sid! Hai finito l’autopsia di Marty Finch?» sento dire e sollevo lo sguardo. È Sheldon.
Sid si volta e lo guarda, credo che fosse uno sguardo molto eloquente, perché lui si zittisce. Io continuo a singhiozzare.
«Vado a prenderti un po’ d’acqua.» mi dice Sid «Hawkes, rimani qui con lei.» ordina.
Lui si siede accanto a me e mi sfiora una guancia con la mano.
«Ehi, Lena. Che succede?» domanda.
Sollevo lo sguardo e tento di smettere di piangere. Lui mi rivolge un’occhiata dolce.
«Ho il diabete.» ripeto.
La sua espressione cambia. Mi abbraccia forte e mi sfiora una guancia con le labbra. «Andrà tutto bene. Devi solo seguire la cura che ti ha dato il medico, d’accordo? Sta’ tranquilla.»
Rimango lì con lui e con Sid per altri venti minuti e poi torno a casa un po’ più rassicurata. Mi hanno confortata, ma dovrò rassegnarmi all’idea di avere il diabete.
 
ANGOLO DELL’AUTRICE
Ciao a tutti! Tadà! Ecco a voi il 15esimo capitolo!
Finalmente Don e Lena annunciano alla famiglia che si sposeranno. Entrambi erano molto in ansia, ma ce l’hanno fatta!
Inoltre Lena, fa una scoperta sconcertante. Sono proprio crudele, lo so, ma ciò che è successo è funzionale alla storia. Vedrete… ;D
Spero tanto che il capitolo vi sia piaciuto. Fatemi sapere.
Inoltre, dato che non sarò a casa per Capodanno, non pubblicherò fino al 02/01/2014. Giovedì 2 avrete l’onore di leggere il sedicesimo capitolo!
Quindi, buon anno a tutti! Spero che l’inizio del 2014 sia speciale per ognuno di voi! Un bacio e a presto…
Izzy, xX__Eli_Sev__Xx

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Capitolo 16
*** Capitolo 16 ***


Always and forever

CAPITOLO 16
 
 
È passata una settimana da quando D.B. è tornato a Las Vegas. Mi manca già.
Ormai tutti sanno che ho il diabete, un po’ perché hanno visto che devo misurarmi la glicemia e farmi l’insulina e un po’ perché sono stati avvertiti da mio padre.
Ho chiamato subito Emily quel giorno. Ho tentato di trattenere le lacrime e le ho raccontato tutto. Avevo parlato con i miei amici, ma avevo bisogno di parlare un po’ con lei. Sa capirmi molto meglio di altra gente. Mi ha rassicurata, era molto dispiaciuta e mi ha detto che per qualsiasi cosa avrei potuto chiamarla. L’ho ringraziata e le ho augurato buone vacanze, promettendole che l’avrei chiamata presto, per parlare di cose più divertenti.
 
Mi devo ancora abituare all’insulina e a misurarmi regolarmente la glicemia. Devo anche fare attenzione a non fare troppi spuntini altrimenti l’insulina diventa troppa. Spero solo che vada tutto bene.
Per scaricarmi, tutte le mattine ho ripreso a fare la mia corsetta con Joseph, mi aiuta a non pensare. In questo momento è quello che voglio. Non pensare alle cose brutte.
 
È il 27 luglio, estate inoltrata. Devo essermi addormentata, sono le 21. Mi sveglio di soprassalto. Sono tutta sudata ma questa volta non a causa di un incubo o del caldo.
Credo che l’insulina mi porti qualche effetto collaterale.
Cerco di alzarmi ma sono troppo debole per farlo. Ho perso totalmente le forze e non riesco a capire perché. Lentamente mi sollevo sulle braccia poi mi metto a sedere, ma quando è il momento di alzarmi in piedi, so che le mie gambe non mi reggeranno.
Mio padre e Jo non ci sono, non torneranno fino a tardi.
Sono sola. Come posso fare? La testa mi scoppia, non riuscirei nemmeno ad arrivare fino alla porta.
Prendo il cellulare. Devo chiamarli, devo provarci comunque. Non ce la faccio, sto male e non so che fare. Capiranno, credo.
Compongo il numero di mio padre. Dopo qualche squillo parte la segreteria.
Oh, no. Come faccio adesso?
Chiamo Jo. Spero solo che risponda.
Ma lei non lo fa.
Adesso chi posso chiamare? Flack non può allontanarsi dalla centrale e poi ci metterebbe troppo ad arrivare.
Rimane una sola persona.
Scorro la rubrica e quando arrivo al suo nome premo “CHIAMA”.
Squilla una, due, tre volte.
«Pronto?» dice la voce di Cal dall’altro capo.
«Cal, sono Lena, mio padre e Jo non rispondono. Sto male, non sapevo chi chiamare…» sussurro appena. Non so se mia ha sentito, ma non riesco a parlare più forte, mi mancano le forze.
«Arrivo.»  dice e chiude la chiamata.
Poso il cellulare e tento ancora di alzarmi, ma con scarsi risultati. Continuo a sudare e la nausea mi invade. Inspiro e espiro lentamente, ma è inutile.
Sono così debole.
Ho mangiato e mi sono fatta una dose di insulina prima di addormentarmi. Perché sto così male?
Mi reggo la testa con una mano, è madida di sudore. Sto respirando affannosamente, l’aria del salotto non mi basta più, neanche con la finestra aperta.
Ecco, ci mancava anche l’attacco di panico.
Tento di rendere regolari i respiri, mi concentro sul viso di Sid, lui mi aveva spiegato come fare.
Inutile.
Chiudo gli occhi, tutto intorno a me gira come una giostra. Ho paura di svenire. Quando li riapro tutto ondeggia e mi sembra di vedere doppio. Doveva succedere proprio adesso che sono da sola in casa?
Ho bisogno di Cal. Spero che faccia presto.
Comincio a singhiozzare e non riesco nemmeno più a stare seduta, così mi sdraio sul divano del salotto e guardo il soffitto. Gli occhi mi si chiudono lentamente. Tento di lottare contro le mie palpebre ma non ci riesco. Vogliono chiudersi. La vista mi si appanna.
Sento un rumore, la porta sbatte, qualcuno corre nell’atrio.
Fa’ che sia Cal. Ti prego.
Poi tutto si fa buio.
 
POV Cal
 
Apro la porta ed entro di corsa. Mi guardo intorno nell’atrio di quella grande casa.
«Lena!» grido. Entro in salotto. È stesa sul divano, respira a fatica, è madida di sudore: credo che sia svenuta. La scuoto leggermente.
«Lena, tesoro!» la chiamo dolcemente. Nulla, nessuna risposta. La sollevo tra le braccia e la porto sulla sua auto. La adagio sul sedile del passeggero. La devo portare all’ospedale, subito.
Metto in moto e arrivo al pronto soccorso in meno di dieci minuti. Parcheggio davanti all’entrata. Scendo e la prendo tra le braccia. La porto dentro e quando mi vedono arrivare, due infermieri si avvicinano di corsa.
«Cos’è successo?» mi chiede il più anziano.
«Sta male. L’ho trovata così dieci minuti fa.» spiego ancora col fiatone.
«Soffre di qualche patologia?» mi chiede il giovane mentre la osserva e le misura il battito.
«È diabetica.» dico annuendo.
«Fa fatica a respirare, intubiamola.» dice il più anziano al collega. Lui di rimando annuisce. La porto in una piccola sala separata dalle altre con delle tende verde acqua. La adagio su una barella e la osservo. Le accarezzo i capelli.
«Andrà tutto bene, ora ci pensiamo noi.» mi dice il giovane accompagnandomi nell’atrio. «Lei è il padre?»
«No, sono suo zio.» dico continuando a osservarla da lontano.
«I genitori?» chiede ancora.
«Li chiamo.» lo rassicuro.
Lui annuisce. «Aspetti qui.» mi dice e se ne va.
Rimango bloccato nell’atrio. Non riesco a muovermi. Che sia il diabete che la fa stare così male? Spero solo che non succeda niente. Se dovesse… morire… io…
Non posso neanche pensarlo. No, non succederà. Non adesso. Non si merita tutto questo. Starà bene.
Mi sono affezionato dopotutto, lo ammetto. E poi è così simile ad Em. Potrebbero essere sorelle.
È come una figlia per me, ormai. Sono parte della sua vita e lei è parte della mia. Forse avevo bisogno di conoscerla, avevo bisogno di rivedere la persona che tiene vivo il ricordo di Claire.
Prendo il cellulare e chiamo Mac. Risponde alle decima chiamata.
«Taylor.» sento dire.
«Sono Cal.»
«Cal. Ma dove sei finito?» mi chiede.
«Sono dovuto correre a casa. Lena si è sentita male.» dico.
«Cosa?! Dove siete, ora?»  domanda allarmato.
«Al pronto soccorso. Ti aspetto nell’atrio.»
«Arrivo.»
Riattacco e mi siedo sulle seggiole della sala d’aspetto. Andrà tutto bene. So che è così. Sono sicuro, credo.
 
 
POV Lena
 
Quando apro gli occhi una luce bianca mi costringe a chiuderli nuovamente. È abbagliante. Tutto attorno a me è bianco. Sento un odore strano. Neutro. Di pulito.
Dove sono? Ricordo di essermi sentita male e poi… nulla. Cal è mai arrivato? Mi ha trovata? Sono… morta?
La paura mi invade. E se fossi morta? Non ho avuto tempo di salutare nessuno. Avrei dovuto sposarmi con Don, finire il college, salutare i miei amici.
Sento qualcosa che mi scende lungo la gola. È ruvido e mi dà fastidio quando respiro. Avvicino la mano alla bocca e capisco che è un tubo di plastica.
Bè, finire in paradiso e pure intubata…
Qualcosa mi stringe la mano. Volto leggermente la testa. È mio padre.
No. È morto anche lui? Com’è possibile?
Un momento. Se lui è qui, forse vuol dire che non sono morta. Sono ancora viva. Forse sono solo svenuta.
Ma, allora, dove sono?
Sollevo la testa e mi guardo intorno. È… un ospedale. Come ci sono arrivata?
Deduco che Cal sia arrivato in tempo. Adesso dov’è?
I miei pensieri sono incoerenti e scollegati fra loro, sono ancora un po' intontita.
Stringo la mano di mio padre che è addormentato con la testa sul materasso.
Si muove lentamente e quando apre gli occhi vedo che sono arrossati, forse dal pianto.
Solleva la testa e mi guarda, sul suo volto si dipinge un sorriso.
«Lena.» dice «Amore mio.» continua ancora. Vorrei parlare, ma il tubo che mi attraversa la gola me lo impedisce. Così sorrido e gli stringo ancora la mano. «Sono qui, tesoro. Sono qui. Mi dispiace di non aver risposto. Per fortuna c’era Cal, altrimenti…» non lo lascio concludere. Gli sfioro la guancia con la mano e lui mi scocca un bacio sul dorso.
«Lena.» sento dire alle mio fianco. È Jo. Sta piangendo. Mi viene vicino e mi abbraccia. Circondo le sue spalle con le mie braccia. «Avevo paura che ti avremmo persa.» dice tra le lacrime.
In quel momento vedo entrare un infermiere che, vedendo che sto bene, mi toglie il tubo dalla gola (il che è un sollievo) e mi permette di mettermi seduta.
«Tesoro, avevi fatto l’insulina?» mi domanda mio padre.
«Sì, mezz’ora prima di addormentarmi.» dico.
«Forse era lo stress, tesoro. Scoprire di aver il diabete e imparare a conviverci non dev’essere facile.» dice Jo rivolta a Mac. Lui annuisce convinto.
Quando entra Cal, sorrido. Lo ringrazio e lui mi abbraccia. Mi sussurra che è contento che io stia bene e che gli ho fatto prendere un infarto.
«Mi dispiace.» mi scuso e lui mi scompiglia i capelli.
Don aspetta che tutti siano usciti e poi entra.
Ha gli occhi lucidi.
«Ciao, Don.» lo saluto. Lui mi abbraccia. Io gli accarezzo la testa. «Sto bene.»
«Avevo paura che…» comincia.
«Ehi! Sono dura a morire!» esclamo sorridendo. Anche lui sorride rassicurato. Non voglio che si preoccupi. Sto bene. Mi sorride e mi scocca un bacio sulla fronte. Continuo a tranquillizzarlo finchè non si calma. Poi il cellulare squilla.
«Una rapina.» dice, ricomponendosi.
«Sta’ attento.» mi raccomando.
«Come sempre.» ed esce.
 
Sono passate 10 ore da quando mi sono sentita male, così mi permettono di andare via. Mac guida la sua auto con Jo e io torno a casa con Cal sulla mia.
Quando arrivo mi metto a letto anche se sono le 7 di mattina.
Dormo più di un’ora e poi vado al lavoro come se niente fosse. Sto bene, come ho già detto.
 
ANGOLO DELL’AUTRICE
Ciao a tutti! Innanzitutto, Happy New Year!
Come regalo per il nuovo anno, ecco a voi il sedicesimo capitolo…
Spero tanto che vi piaccia, perciò fatemi sapere se qualcosa non è chiaro!
A presto, Izzy, xX__Eli_Sev__Xx
 

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Capitolo 17
*** Capitolo 17 ***


Always and forever

CAPITOLO 17
 
Sto correndo insieme a Joseph. Sono le otto del mattino. È l’ultima settimana di vacanza. Quest’autunno comincerò l’ultimo anno al college.
Mi sto per laureare e sto per compiere 24 anni. È incredibile. Sembra ieri che frequentavo il liceo. Jeremy si è laureato l’anno scorso. Adesso rimaniamo solo io, Ian e Margaret. Anche Emily, mia cugina, si sta per laureare in medicina. Dovremmo festeggiare adesso che sto meglio.
Ho imparato a gestire meglio il diabete e tutto il resto, grazie anche all’aiuto dei miei amici e della mia famiglia. Senza di loro non ce l’avrei fatta.
Cal è tornato a casa da un po’, dato che l’assassino di Laura sembra introvabile. Hanno scoperto chi è ma non riescono ad arrestarlo. Gioca con la polizia. Proprio quando sembra che ce l’abbiano in pungo, lui è già fuggito. Credo che sia due passi avanti a loro, anche se è brutto dirlo.
Ha già ucciso altre due ragazze in altri due college. Sembra inarrestabile. Ma d’altronde Jesse è sempre stato così. Sfuggevole, misterioso, ingannevole. È stato lui, ne sono certi. Hanno paura che possa uccidere ancora, non si fermerà.
A meno che non riescano a prenderlo.
 
Ci fermiamo quando siamo davanti a casa di Joseph.
«Domani alle 7?» mi dice e io annuisco «Ci vediamo questa sera alla finestra.» mi saluta. Io faccio lo stesso e rientro in casa mia.
Devo prepararmi per andare al lavoro. Come ogni estate lavoro alla biblioteca, Sandra serba quel posto per me. È molto carina e lavorare con lei è davvero piacevole.
 
Esco di casa alle 9 e mi avvio con la macchina per le strade di New York. Arrivo alla biblioteca qualche minuto prima dell’apertura. Saluto Sandra e mi metto subito al lavoro.
Anche oggi, come ogni estate non c’è molta gente a parte gli studenti che all’ultimo si devono procurare i libri da leggere durante le vacanze.
Aiuto due ragazze a fare una ricerca e un bambino a trovare un libro di fiabe, per il resto è tutto tranquillo.
Alle 16 vedo entrare Margaret. Le vado incontro e la abbraccio.
«Ciao, Mar!» dico.
«Ciao, Lena!» ribatte.
«Pronta per tornare a scuola?» chiedo.
«Sì. Sto già ripassando. Spero di riuscire a laurearmi.»
«Certo che ci riusciremo. Ci è riuscito Jer!» le faccio notare. Lei ride e annuisce.
«Hanno preso Jesse?» mi domanda dopo qualche attimo di silenzio. Io sollevo lo sguardo. Perché ogni nostra conversazione deve andare a parare sempre lì?
«No, non ancora.» rispondo.
«E se volesse vendicarsi?»
«Lo prenderanno presto, vedrai.» la rassicuro.
Lei annuisce e dopo aver preso il libro che le interessa esce.
 
Alle 19, come ogni martedì, chiudiamo la biblioteca. Saluto Sandra e vado a prendere la macchina nel parcheggio sul retro.
Ovviamente, non trovo le chiavi nella mia borsa. Possibile che ogni volta perdo le chiavi? Ma dove ho la testa?
Quando le trovo posso finalmente partire.
In meno di mezz’ora, che è un record, riesco ad arrivare a casa.
Parcheggio nel garage ed entro dalla porta che collega il box alla cucina.
Vado in camera mia e per prima cosa mi misuro la glicemia. Mi pungo il dico con l’ago e lascio cadere una gocciolina di sangue sulla striscia. È tutto nella norma. Mi faccio la mia iniezione di insulina e mangio cena, dato che mio padre e Jo arriveranno dopo le 21.
Dopo aver lavato i piatti vado a sedermi sul divano. Sono le 20. Accendo la TV e mi immergo in un film horror. Non mi spaventano, li trovo abbastanza divertenti.
 
Ad un tratto mi sembra di sentire un rumore proveniente dalla cucina.
Dei passi. Sollevo la testa e mi volto verso l’atrio. Nulla.
Mi alzo dal divano ed entro in cucina. Mi guardo intorno. Nulla.
Me lo sto immaginando. Forse mi sono fatta suggestionare dal film. Non avrei dovuto guardarlo. Sono divertenti, ma meglio guardarli in compagnia e magari di giorno.
Ritorno a sedermi sul divano, rabbrividendo.
Te lo stai immaginando, Lena. Non c’è nessuno in cucina. Tento di rassicurarmi prima che mi venga un attacco di cuore. Cambio canale e mi concentro su un documentario sull’antica Grecia, tentando di distrarmi.
TOC. TOC. TOC.
Ancora quel rumore. Sollevo lo sguardo. Questa volta li ho sentiti benissimo.
C’è qualcuno in casa. C’è davvero qualcuno.
Che faccio?
Salgo senza fare rumore al piano di sopra e prendo il cellulare. Ho deciso, vado da Joseph finchè non arrivano i miei genitori. Spero solo sia in casa.
Prendo le chiavi dal cassettino di fianco all’appendiabiti nell’atrio e quando sto per aprire la porta sento una leggera puntura sul collo. Tento di voltarmi, ma è come se fossi paralizzata. La paura mi fa un brutto effetto ultimamente.
Allungo una mano, ma non ho tempo di capire che cos’ho sul collo perché tutto si è già fatto buio.
 
Ho un gran mal di testa. Sento che potrebbe esplodermi da un momento all’altro. Apro gli occhi lentamente. Non mi devo abituare alla luce questa volta. È tutto buio. Sono in una stanza. Sembra una prigione. È vuota, ci sono solo una sedia e un materasso sgualcito.
Sono stesa a terra. Mi sollevo sulle braccia e cerco di non vomitare.
Ma dove cavolo sono? Non è casa mia e neanche casa di Joseph.
Come ci sono arrivata?
Mi alzo e raggiungo l’unica porta che vedo. È di ferro. Non è blindata, ma è troppo pesante da buttare giù.
Sono stata rapita. È l’unica risposta possibile. Ma da chi?
Vado a sedermi sul materasso, scoraggiata.
Perché ce l’hanno tutti con me o con la mia famiglia?
Il lato positivo è che il rapitore non è più Romanoff. Già questo è un inizio.
Mi sdraio sul materasso. Guardo il soffitto. Prima o poi si faranno vedere. E ho già paura per quel momento.
 
POV Mac
 
Le dita della mia mano sono intrecciate a quelle di Jo. Ho appena parcheggiato la macchina fuori da casa mia. Vedo una luce proveniente dalla finestra del salotto. La TV è accesa. Lena ci ha aspettato alzati.
Apro la porta e la saluto.
«Ciao, tesoro, siamo a casa.» dico. Jo mi sorride e si stringe al mio braccio.
Nessuna risposta.
Entro in salotto, ma non c’è. Magari è in bagno.
«Vado di sopra. Forse è in bagno.» dice Jo, mi ha letto nel pensiero.
Sale le scale e la vedo sparire.
Poso le chiavi nella cassetta nell’atrio ed entro in salotto. Spengo la TV.
«Mac!» sento gridare, è Jo. «Qui non c’è. Né nel bagno, né nelle altre stanze.» dice affacciandosi sulle scale.
Corro in cucina. Vuota.
«Vado a vedere dai vicini. Magari è da Joseph.» azzardo. Forse è così e non c’è niente di cui preoccuparsi.
Suono alla porta.
È Joseph ad aprire.
«Buonasera, detective.» mi saluta cordiale, con un sorriso.
«Ciao, Joseph. Lena è qui con te?» domando.
«Ehm… No, non c’è.»
Lascio ricadere le braccia lungo i fianchi. Ma dov’è? Dove sei finita, Lena?
«È successo qualcosa?» chiede.
«Non riesco a trovarla.» confesso, è adulto, può capire.
«Magari è uscita con il fidanzato o con i suoi amici.»
«Forse. Grazie comunque, Joseph.» lo saluto e torno a casa.
Jo è in cucina, in piedi di fronte al tavolo. È immobile, paralizzata.
«Non è da Joseph.» dico. Lei si volta e mi porge un foglio. «Che cos’è?» chiedo prendendolo.
«L’ho trovato qui sul tavolo.» dice, sembra che abbia visto un fantasma.
Lo leggo. Forse ha lasciato un biglietto per avvertirci che andava da un’amica.
Guardo Jo. Non so perché, ma la sua espressione mi fa capire che devo preoccuparmi.
Comincio a leggere.
 
Al Detective Taylor.
 
Nonostante io sia praticamente introvabile e vi abbia dimostrato più volte che sono non uno, ma dieci passi avanti a voi, tu e la tua squadra continuate a cercarmi.
Come ti ho già detto, non mi troverete. Potete braccarmi quanto volete, sono più furbo. E la dimostrazione di questo è che questa sera sono riuscito ad entrare in casa tua. Mi è dispiaciuto non trovare te e Danville, ma in compenso ho trovato qualcosa di meglio. La mia amica Lena.
Oh, non preoccuparti, lei sta bene. È solo narcotizzata e per un po’ non si sveglierà, ma presto mi divertirò con lei, stanne certo.
Vi avevo detto di starmi alla larga. Prova a prendermi, adesso.
Cercami detective e tenta di trovarmi, perché se entro un mese non ci sarai riuscito, tua figlia morirà.
Credimi, non scherzo. Non sono il tipo.
 
Mi aspetto impegno da parte tua. Ti osserverò e ti aspetterò con ansia.
Ossequi, Jesse Peterson.
 
Lascio cadere il foglio sul tavolo.
«Mac?» sbotta Jo «L’ha rapita. Dobbiamo fare qualcosa.»
Io scuoto la testa. Non è possibile. L’ha rapita. Come ho potuto permettere che accadesse? Sapevo che avrebbe tentato di vendicarsi. Perché non ho fatto nulla per proteggerla?
«Mac?» mi chiama ancora e mi accarezza una guancia.
«Dobbiamo mettere al sicuro Margaret Miller.» dico, piatto «Potrebbe tentare di rapire anche lei.»
«E Lena?»
«Chiama la squadra. Questa è la scena di un crimine.» dico.
 
Il primo ad arrivare è Don. Entra in casa di corsa.
«Mac!» mi chiama. Io mi volto.
«Don, sta’ clamo.» dico avvicinandomi.
«Come posso stare calmo?! L’hanno rapita!»
«Lo so. Ma se vogliamo aiutarla dobbiamo mantenere la calma.» tento di calmarlo.
Sento i suoi muscoli rilassarsi.
«Mac.» dice Jo entrando in cucina. «Hanno cominciato i rilievi.»
Annuisco ed entro in salotto.
Sheldon e Lindsay sono al lavoro.
«Lindsay? Dov’è Finn?» chiedo. Il loro secondogenito è nato due anni fa e non credo si trovi a casa da solo con Lucy. Dopotutto, lei ha solo dieci anni.
«Con i vicini di casa.»
«Avresti dovuto rimanere con lui.»
«No, voglio aiutarvi a trovare Lena.»
Annuisco. «Grazie.»
«Mac!» la voce di Sheldon mi costringe a voltarmi. «Guarda cos’ho trovato.» tra le dita della mano tiene una siringa.
«Probabilmente è di Lena, forse si stava facendo l’insulina.» azzardo.
«O è dell’aggressore.»
«D’accordo, falla analizzare.» dico. Lui annuisce e la chiude in un sacchetto di plastica.
Se è davvero più bravo di noi e la siringa è sua, perché Jesse l’ha lasciata qui? Vuole proprio farsi trovare.
Sid arriva dopo venti minuti ed entra di corsa. Si ferma sulla porta.
«Sid.» esclamo «Cosa fai qui?» chiedo andandogli incontro.
Lui non risponde. Jo lo vede e lo raggiunge.
«Sid, è meglio che tu non stia qui.» dice e capisco perché. Ha appena sconfitto il cancro. Non vorrà star male di nuovo.
«L’hanno rapita. È vero?» chiede allarmato.
Annuisco mestamente e gli porgo la lettera.
«Dovete trovarla, Mac.» dice con gli occhi lucidi. Una lacrima gli riga il volto stanco.
«Lo faremo, Sid.» lo rassicura Jo, ma anche lei sta tentando di trattenere le lacrime.
 
ANGOLO DELL’AUTRICE
Ciao a tutti! Scusate il ritardo nel pubblicare, ma sono stata molto impegnata!
Spero tanto che il capitolo vi piaccia: in sintesi sono passati tre anni e Lena sta per cominciare il suo quinto anno al college e proprio mentre sta andando tutto bene, arrivo io e… BAM! Una disgrazia dopo l’altra! Comunque, non finiranno qui, vi avverto! Almeno potete prepararvi… ;D
Per farmi perdonare pubblicherò domani!
Un bacio, Izzy, xX__Eli_Sev__Xx
 
 
 

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Capitolo 18
*** Capitolo 18 ***


Always and forever

CAPITOLO 18
 
POV Lena
 
Sono sdraiata sul materasso da ore. Decido di alzarmi e camminare un po’ per la cella, altrimenti mi si atrofizzeranno le gambe.
È tre giorni che sono rinchiusa qui e nessuno è venuto a farmi visita.
Mi avvicino alla porta e accosto l’orecchio.
Niente.
Sono rimasta totalmente sola?
Torno a sedermi sul materasso. Mi sento debole. È da un po’ che non mi faccio l’insulina.  La mia glicemia sarà sballata.
Spero solo di non stare male. Soprattutto adesso che sono sola.
 
Quinto giorno.
La porta si spalanca.
Entra un ragazzo alto sulla ventina, seguito da Jesse. Che fa qui?
Allora vuole davvero vendicarsi. Margaret aveva ragione; spero solo che lei sia al sicuro.
«Buongiorno, Lena. Come stai oggi?» mi domanda il primo.
Mi volto verso di lui e lo guardo disgustata.
«Bene, grazie.» rispondo infine.
«Allora, come ti sembra la tua stanza?» mi domanda ancora, inginocchiandosi di fronte a me.
«Molto carina.» rispondo «Che volete da me?» chiedo.
«Voglio che tuo padre ci trovi.» così dicendo volge lo sguardo verso Jesse.
Li osservo. Vogliono vendicarsi. Ucciderlo per vendicarsi di quello che ha fatto.
«Dunque, ho saputo che sei diabetica.» mi dice.
«Quindi vuoi farmi soffrire e mi lascerai morire?» chiedo.
«No, non lo farei mai.» dice sorridendo «Andremo alla farmacia più vicina, faremo una scorta di insulina e ti faremo avere anche uno di quegli apparecchi per misurare la glicemia, o come si chiama.» dice fiero della sua idea. «Voglio che tuo padre provi a cercarti e che abbia la certezza che tu sia viva. Altrimenti non ti cercherà più. E poi mi devo divertire con te.»
Rimango in silenzio. Anche Jesse sta sorridendo. Sono disgustosi.
«Molto bene. Ci vediamo non appena arriverà l’insulina, mia cara.» ghigna.
Ed escono entrambi sbattendo la porta.
Devo resistere. Devo riuscirci.
Devo laurearmi, sposarmi con Don… Devo resistere per tutti quelli che mi vogliono bene, ancora una volta.
 
POV Mac
 
«Sheldon, cos’hai trovato?» chiedo entrando nella sala per le analisi delle impronte.
«Come pensavo, le impronte non sono di Lena.» dice «Le ho confrontate con quelle di Jesse e non c’è nessun riscontro. Allora ho controllato nel CODIS.»
«E…?» lo incalzo.
«Nulla.»
«Nell’AFIS?»
Scuote la testa.
«Accidenti!» esclamo sferrando un pugno sul tavolo.
«La troveremo, Mac.» tenta di rassicurarmi.
Annuisco ed esco.
«Capo!» mi chiama Danny «I frammenti che abbiamo trovato sulla scena appartengono ad un tipo di legno molto raro usato per pavimentare gli appartamenti nelle casa più ricche di periferia.» mi spiega, mostrandomi ciò che ha trovato sul piccolo palmare.
«Hai contattato chi li produce?» chiedo.
«Non ancora. Ci vado di persona con Flack.»
«D’accordo. Fammi sapere.» dico e raggiungo il mio ufficio.
 
Jo è seduta sul divanetto con la testa fra le mani. È stanca. Lo siamo tutti. La cerchiamo da più di cinque giorni e ancora niente.
«Jo?» la chiamo dolcemente.
«Oh. Mac.» dice voltandosi, destata dalla mia voce.
«Perché non vai a casa a riposare?» propongo e mi siedo accanto a lei. Le accarezzo la guancia con una mano.
«No. Voglio rimanere qui.»
«Lo so, ma hai bisogno di riposo.»
«Anche tu. Eppure eccoti qui.» annuisco, ha ragione.
La sfioro le labbra con le mie. Lei ricambia il bacio. Abbiamo bisogno l’uno dell’altra.
Le lacrime che ho trattenuto per giorni si decidono a scendere. Mi rigano le guance e Jo le asciuga con le dita affusolate.
«Andrà tutto bene. La troveremo.» mi dice per rassicurarmi.
Io scuoto la testa. «Se le fanno del male, io li ucciderò.» prometto.
«Non succederà. Starà bene e tornerà da noi.» annuisco. Lo spero tanto.
 
POV Lena
 
Sono distrutta. Mi sorprende di non essere ancora entrata in coma. Devo controllarmi la glicemia e farmi l’insulina, o morirò. Devono sbrigarsi.
Mi ritrovo a pensare, per la prima volta, che spero che tornino presto.
Il rumore della porta che sbatte mi costringe ad aprire gli occhi.
«Ciao, Lena.» sento dire da una voce accanto a me. Ruoto la testa e vedo che è Jesse.
Non riesco nemmeno a parlare. Muovo a malapena le palpebre. Sono sudata, ma ho freddo, credo di avere qualche linea di febbre.
«Ti ho portato questi.» dice e posa, accanto a me, l’apparecchio per misurare la glicemia e tre scatole di insulina e alcune siringhe. Il suo sguardo mi sembra perso. Vuoto. Più del solito. Mi rivolge un’ultima occhiata e poi, senza aggiungere altro, se ne va.
Raccolgo le ultime forze rimaste e prendo l’apparecchio. Mi misuro la glicemia.
È bassa. Molto bassa. Se avesse tardato un altro giorno, credo che sarei morta.
Mi inietto subito una dose di insulina e decido di dormire un po’. Appena mi sveglierò me ne farò un’altra. Troppa tutta insieme non è salutare.
Mi addormento poco dopo, ancora avvolta dalla sensazione si malessere.
 
POV Mac
 
«Danny!» grido entrando nel laboratorio. Lo vedo correre verso di me.
«Capo?»
«Novità?»
«Abbiamo rintracciato il produttore del legno per pavimenti.»
«Che ha detto?»
«Che sono poche le persone che qui a New York si sono rivolte a lui.»
«Quante?»
«Una trentina, appena. Le altre venivano tutte da fuori città.» mi dice.
«Vi siete fatti dare i nomi?»
«Sì, avevamo il mandato perciò ce li ha dati subito. Adesso io e Flack stiamo andando a controllare le case.»
«D’accordo. Tienimi aggiornato.»
Continuo a camminare attraverso il laboratorio. Raggiungo il mio ufficio e appena mi siedo, sento bussare.
Faccio segno a Sheldon di entrare.
«Novità?» chiedo, come fosse una cantilena.
«Ho capito di chi sono quelle impronte.» dice.
Mi sollevo sulla sedia. Ha attirato la mia attenzione.
«Dato che, chi ha rapito Lena non è un dilettante, ho pensato di chiedere a Flack le cartelle delle ultime persone che sono state incriminate per un reato e che sono in attesa di giudizio.»
Non lo seguo. «Perchè?»
«Bè, la lettera è stata firmata con il nome di Jesse Peterson, ma potrebbe non essere lui la sola ragione per cui Lena è stata rapita.»
«Quindi?»
«Quindi, ho travato questo.» mi porge un foglio su cui spicca una fotografia.
«Chi è?» chiedo.
«Louis Trevor.»
«Precedenti per aggressione, traffico di stupefacenti e rapina a mano armata.» continuo per lui.
«L’avevamo trattenuto circa tre mesi fa per un presunto traffico di droga.»
«Rilasciato per mancanza di prove.» leggo.
«Già. Ma se ben ricordi il caso non è ancora stato archiviato. Stiamo ancora indagando. E poi, è amico di Jesse. Sono nello stesso giro.»
Ora capisco. Tutto ha più senso.
«Quindi credi che a lui dia fastidio il fatto che continuiamo ad indagare. Perché gli mettiamo i bastoni fra le ruote.» azzardo.
Annuisce.
«Bravo. È una buona pista.» mi complimento.
Mi saluta ed esce.
Ci siamo vicini. Se Sheldon ha ragione, possiamo prenderli.
Sto arrivando, Lena.
 
POV Lena
 
Quando mi sveglio mi sento decisamente meglio. Ho recuperato le forze in parte e riesco finalmente a mettermi seduta. Mi alzo per fare due passi fiancheggiando il muro, per non cadere. È l’ottavo giorno e mi hanno solo fatto due visite. Quando tornano? Devo andare in bagno e devo prendere un po’ d’aria. Non ce la faccio più.
Papà, ti prego, fa’ presto.
 
 
ANGOLO DELL’AUTRICE
Ciao! Un augurio a tutte le befane come me! ;D
Come regalo per l’epifania e per farmi perdonare per il ritardo di ieri, ho pubblicato il 18esimo capitolo! Spero tanto che vi piaccia!
La squadra ha cominciato le ricerche e la nostra Maddy ha fatto la conoscenza dei rapitori!
Se qualcosa non è chiaro, fatemelo sapere!
A mercoledì!
Un bacio, Izzy, xX__Eli_Sev__Xx
 
 

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Capitolo 19
*** Capitolo 19 ***


Always and forever

CAPITOLO 19
 
POV Lena
 
Giorno otto.
La porta si apre che non è ancora sorto il sole. Mi alzo dal materasso per capire chi è entrato. Mi stropiccio gli occhi. Ho tanto tempo per dormire, ultimamente, ma, nonostante ciò, sono stanca. Estremamente stanca.
«Buongiorno.» mi saluta il ragazzo di cui non conosco il nome. Non si è ancora presentato. Ha paura che vada dalla polizia a sporgere denuncia?
Non rispondo al suo saluto. Un po’ perché sono ancora assonnata e un po’ perché l’unica cosa che vorrei fare è picchiarlo.
«Ti vedo in forma. L’insulina ha fatto effetto.» constata osservandomi.
Annuisco. «Già.» dico ironica. Come se dovessi essergli grata di essere ancora viva. Non lo ringrazierò per nulla. Non ne vedo il motivo.
«Non c’è di che!» esclama divertito, fingendo di aver frainteso la mia ironia.
Scuoto la testa. «Che vuoi da me?» domando ancora una volta.
«Nulla. Tu sei l’esca.» ripete.
«Che novità.» mi lascio sfuggire tra i denti. Lui sorride.
«Vuoi sapere perché ti ho rapita?» chiede avvicinandosi a me, come se volesse confidarmi un segreto.
Mi volto verso di lui. Ovvio. Anche se credo di avere un’idea al riguardo.
«Sai quante partite di droga ho perso a causa di tuo padre e del tuo fidanzato?» chiede, rompendo il silenzio.
Sollevo lo sguardo. Quindi è questo il problema. La droga.
Comunque, immagino molte, loro sono bravi a smascherare i criminali. Non do voce ai miei pensieri. Aspetto che lui continui.
«Mi hanno rovinato. Sospettavano anche di me. Ma per fortuna sono riuscito ad ingannarli tutti. E sono stati costretti a rilasciarmi.»
«Non sono stupidi. Sanno che nascondete qualcosa.» dico. Mi pare ovvio.
«Il tuo fidanzato ne era convinto. Ma grazie a tuo padre e alla sua magnifica squadra, il caso sta per essere archiviato. Non hanno abbastanza prove contro di me.»
«Non si arrenderanno. A quest’ora avranno già capito che sei tu.» dico.
«Lo spero. Quando verranno a cercarti troveranno una bella sorpresa.»
«Non provare a far loro del male.» lo minaccio, sollevandomi leggermente per guardarlo meglio negli occhi. Poi mi rendo conto che le mie minacce non contano nulla. Lui ha il coltello dalla parte del manico. Può fare quello che vuole di me.
«Avresti dovuto sposarti il prossimo anno, vero?» chiede ad un tratto. Come lo sa? Come fa a saperlo? Che l’abbia capito dall’anello che porto?
Ma potrebbe essere un qualsiasi regalo…
Poi un brivido mi attraversa la schiena.
È riuscito ad entrare in casa mia quando ero sola. Sa che mi devo sposare, sa che archivieranno il caso e che non hanno abbastanza prove per incriminarlo.
«Tu…» comincio.
«Vi ho osservati.» conclude fiero di sé. La mia paura diventa realtà. Ci ha spiati. Per anni, senza essere notato. Sa quali sono le persone a cui teniamo di più. Ci ha in pugno. Forse più di Romanoff quando mi aveva rapita.
Rimango allibita.
Poi, come se si fosse ricordato solamente adesso, si presenta.
«Oh! Non ci siamo ancora presentati per bene.» dice portandosi una mano sulla fronte. Poi sorride «Louis Trevor.» e mi tende la mano. La osservo, ma non la stringo. «D’accordo.» conclude rassegnato.
«A che scopo fai tutto questo?» chiedo.
Alza le spalle e poi parla. «Voglio semplicemente che non intralcino più i miei traffici.» spiega sbrigativo. Vuole cambiare argomento. È nervoso. Cosa lo spaventa?
Ad un tratto un’idea mi balena nella mente. Non voleva che intercettassero i suoi traffici, voleva poter spacciare in pace. Chiunque avesse scoperto la sua identità era solamente un ostacolo che gli impediva di raggiungere i suoi obbiettivi.
«Sei tu che hai ucciso Laura.» dico, senza riuscire a trattenermi. Le avevano chiesto di spacciare per lui e probabilmente le avevano rivelato il suo nome. Quando hanno scoperto che voleva denunciare Jesse l’hanno fermata. Ora tutto ha un senso. Le lacrime mi appannano la vista.
Sorride. «Che ragazza intelligente.»
«Vuoi uccidere anche me? Allora fallo subito.» dico, prendendo il coraggio a quattro mani.
«Ti ho detto che mi servi da esca. Quindi viva. Quando riusciranno a mettersi in contatto con noi, dovrò dare una prova del fatto che sei viva.»
Vorrei dirgli che Mac e Don non verranno mai, che è tutto inutile, non ci cascheranno, ma so che non è così. Verranno e se non riusciranno a capire ciò che li aspetta potrebbero morire. Li ucciderà. E io li perderò.
Se fossi stata più svelta ad uscire di casa e andarmene, forse non saremmo in questo pasticcio.
La porta si apre e sbatte violentemente. Jesse, visibilmente agitato entra nella stanza. Ha gli occhi sgranati, sembra abbia visto un fantasma. O la polizia.
«Louis, stanno arrivando.» dice.
Il ragazzo sposta lo sguardo sul compagno.
«D’accordo. Seminiamoli.» si alza in piedi e mi prende per un braccio. Mi solleva e mi porta fuori dalla stanza.
La polizia sta arrivando! Spero solo che li fermino e che nessuno si faccia male.
Louis mi deve praticamente trascinare, non ho mangiato negli ultimi otto giorni. Sono senza forze.
Mi ammanettano e mi coprono la bocca con del nastro adesivo. Usciamo dall’appartamento. Solo adesso scopro che ci trovavamo in un condominio della periferia di New York.
Mi caricano su un furgone e poi partono sgommando. Sento il rumore delle sirene della polizia. Sono sollevata, spero riescano a liberarmi.
Dopo un paio di curve affrontate a 80 kilometri all’ora, rallentiamo. Il rumore delle sirene è più sommesso. Sono lontane.
Viaggiamo più lentamente lungo un rettilineo, poi senza preavviso, un enorme fuoristrada nero ci blocca la strada.
Flack.
Lo vedo scendere dal mezzo con una pistola in mano.
«Fermi!» grida. Un altro agente lo affianca.
Vedo Louis tirare fuori una pistola. Toglie la sicura e prima che la polizia possa reagire, si sporge fuori dal finestrino e fa fuoco.
Un agente cade a terra e Don fa appena in tempo a ripararsi dietro la portiera dell’auto.
«NO!» tento di dire. Ma il nastro isolante uccide le mie grida prima che emergano.
«Vai, Jesse! Vai!» grida Louis al compagno, che sgomma e tamponando un’auto della polizia, si fa strada lontano da lì.
«Li abbiamo seminati Louis!»  sento dire da Jesse qualche minuto dopo. Ho gli occhi bassi, spero solo che riescano a salvare quel poliziotto e che Don stia bene.
«Sei stato bravo. Adesso troviamo un altro posto dove andare a nasconderci.» ribatte lui.
Ci hanno persi. Non sono riusciti a starci dietro. La paura mi assale. E se non mi trovassero più? Se rimanessi qui con loro per sempre?
«Conosco un motel appena fuori città.» propone Jesse.
«D’accordo. Andrà bene. Gli altri ci raggiungeranno lì.» conclude.
Gli altri? Ce ne sono altri?
Non so se riuscirò a sopravvivere a questo. Spero solo che si limitino a usarmi come esca.
 
POV Mac
 
«Li abbiamo persi!» mi dice Flack, furioso.
Siamo nell’appartamento dove, un’ora prima c’erano Lena e i suoi rapitori. Come hanno fatto a sfuggirci? Com’è possibile?
La rabbia si impossessa di me.
«Come fanno ad essere così veloci?!» ringhio.
Flack scuote la testa, rassegnato.
Entro in cucina dove stanno lavorando Danny e Lindsay.
«Cosa avete trovato?» domando un po’ troppo bruscamente.
Loro scuotono la testa.
«Nulla, capo.» risponde lui.
«Sembra che non ci sia passato nessuno, qui.» aggiunge sua moglie.
«Come possono non aver lasciato tracce? È impossibile.» esclamo.
Dov’è Lena?
Ad un tratto un pensiero si fa strada nella mia mente. Mi tormenta da giorni, ma ho sempre tentato di respingerlo.
«Flack!» esclamo.
«Mac?»
«Hai visto se c’era Lena con loro?» chiedo.
«No, mi dispiace. Hanno fatto fuoco, non sono riuscito a vedere.»
Lena è diabetica. Non aveva dell’insulina con sé. Potrebbe essere morta, o entrata in coma. Forse per questo non ci sono tracce.
Le lacrime mi appannano la vista. Stringo i pungi fino a far sbiancare le nocche. Se è morta e dovessi trovare quei maledetti per primo, li ucciderò. Li farò soffrire. Non possono nemmeno immaginarsi come.
«Torno al laboratorio.» dico e me ne vado.
 
POV Lena
 
Giorno nove.
Siamo arrivati al motel ieri sera. Nessuno sospettava nulla, hanno pagato regolarmente e hanno prenotato una stanza matrimoniale. Nessuno ha notato che indossavo delle manette.
Da più di dodici ore sono ammanettata alla sedia in questa maledetta camera. Ho un braccio libero, così posso misurarmi la glicemia e farmi l’insulina per rimane in vita. Mi portano un po’ d’acqua ogni tanto. Sono già migliorati.
Ieri sera ho anche avuto l’onore di assaporare un panino al prosciutto.
Ma, al contrario di ciò che pensavo, una volta mangiato la fame è solamente aumentata.
Sono debole. Non riesco nemmeno a stare in piedi.
 
All’una, Louis rientra in camera.
«Buongiorno, signorina.» mi dice.
Volgo lo sguardo fuori dalla finestra. C‘è il sole, fa caldo, nonostante sia settembre, vorrei essere a casa mia. Vorrei aver fatto la mia corsa giornaliera con Joseph, vorrei essere in biblioteca a lavorare, vorrei poter abbracciare mio padre, Jo e Don. Mi mancano così tanto.
«Ecco a te.» mi dice e appoggia sulla scrivania vicino a cui sono seduta, un panino
«Buon appetito.»
Jesse, intanto, sta sdraiato sul letto e sta guardando la tv. Louis gli lancia un sacchetto con dei toast caldi e gli porge una lattina di birra. Lui con un cenno ringrazia e comincia a mangiare.
Io prendo il panino. Nonostante abbia la nausea non posso non mangiare, quindi anche controvoglia, ingoio boccone dopo boccone.
 
ANGOLO DELL’AUTRICE
Ciao a tutti! Ecco a voi il 19esimo capitolo! Spero tanto che vi piaccia, io sono abbastanza soddisfatta!
Come avete visto il tempo scorre e se Mac ha solo un mese per trovare Lena è meglio che si affretti… Anche perchè i nostri rapitori sono molto agguerriti!
Fatemi sapere cosa ne pensate!
A Venerdì!
Izzy, xX__Eli_Sev__Xx
 

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Capitolo 20
*** Capitolo 20 ***


Always and forever
 
CAPITOLO 20
 
Giorno dodici.
Siamo rinchiusi in questo maledetto motel da troppo tempo. Voglio uscire, fare una passeggiata, respirare dell’aria fresca. Mi sento soffocare.
Louis è fuori da questa mattina. Sono le 15 passate e non è ancora tornato. Vorrei solo prende un po’ d’aria. Perché continuano a tenermi qui? La polizia non è riuscita a rintracciarci. A cosa serve un’esca, a questo punto? Perché non mi hanno ancora ucciso?
Jesse è in piedi, vicino alla finestra e sta guardando fuori. Sembra incantato. Il sole gli illumina il volto pallido.
«Perché hai permesso che la uccidessero?» chiedo rompendo il silenzio. Se non parlo con qualcuno credo che potrei impazzire.
Lui si volta e mi rivolge uno sguardo interrogativo.
«Laura.» aggiungo.
«Non lo so.» risponde dopo qualche minuto di silenzio.
«Non lo sai?!» domando incredula.
«Senti, non ha voluto lavorare per noi e sapeva troppo. Dovevamo levarla di mezzo.» spiega spazientito.
«Avrebbe dovuto denunciarvi prima. Così che vi sbattessero dentro!» esclamo rabbiosa.
«Peccato che con tutte quelle costole rotte non poteva più muoversi.» ghigna.
«Non provi davvero nessuno rimorso?»
Fa spallucce. «Morta una ragazza se ne fa un’altra.»
«Sei disgustoso.» concludo.
Il silenzio cala nuovamente nella stanza.
 
Louis rientra che sono le 17 passate.
«Ciao a tutti.» dice, con la sua solita, inspiegabile allegria.
«Dove sei stato?» domanda Jesse, senza nemmeno guardarlo in faccia.
«Affari. È tutto a posto con Carlos. Ci incontriamo tra tre giorni nel suo ristorante a Chinatown.» spiega.
Jesse annuisce e torna a farsi gli affari suoi e così anche io.
 
Giorno quindici.
Siamo a Chinatown. Stiamo camminando per la via centrale, sembra che sui muri abbiamo spruzzato vernice di ogni colore senza tener conto di abbinamenti o altro. È tutto così allegro e colorato. Centinaia di persone passeggiano lungo la strada e parlano probabilmente in cinese, dato che non capisco quello che dicono.
«È qui.» dice Louis indicando una porta rossa.
Jesse si volta e insieme mi trascinano in un ristorante che sembra anonimo. Non è molto grande. L’entrata è accogliente, i colori della tappezzeria sono caldi, tutti tendenti al giallo e al rosso. Al centro, spicca un bancone di legno scuro. Un uomo sta seduto ad aspettare i clienti e quando ci vede sorride.
Il cameriere si avvicina.
«Avete prenotato?» chiede.
«No, ma stiamo cercando Carlos Diaz. Siamo con lui.» dice Louis.
L’uomo annuisce e ci guida fino ad un tavolo in una piccola sala sulla destra. È
la meno affollata, l’altra è già gremita da coppiette e famiglie.
Un tavolo è già occupato. Tre persone sono sedute e stanno ridendo. Quando ci vedono si alzano in piedi per salutarci. Si sistemano le cravatte e le giacche e sorrido.
«Louis! Ben arrivato!» lo saluto quello che deve essere Diaz. Ha la pelle scura per essere di queste parti e anche l’accento è strano.
«Buonasera, Carlos.» lo saluta «Questo è il mio amico Jesse e lei è Lena. La figlia di Taylor, il poliziotto di cui ti ho parlato. È il nostro lasciapassare.» conclude rivolgendosi a me. Gli lancio uno sguardo truce. Gli altri ridono davanti a quella scena.
Ci sediamo e i camerieri ci servono le varie portate. Mangio anche io, però controvoglia. Quando arriva il dolce vedo di stargli ben lontana. Posso mangiarli di tanto in tanto, ma non voglio correre il rischio di stare male ora. Non perché non voglio creare problemi, ma perché è una sensazione orribile.  
Durante la cena, parlano di droga e omicidi come se fossero le cose più normali del mondo e soprattutto come se fossero legali. Mi viene la nausea ad ascoltarli. Sono disgustosi, davvero. Giocano a fare Dio. Credono di poter uccidere la gente solo perché non si piega al loro volere. Mi trattengo, se dicessi qualcosa, probabilmente mi sparerebbero con uno dei revolver che tengono appesi alla cintura.
«La prossima partita arriverà domani. Ve la faremo avere e voi dovrete occuparvi di farla arrivare ai clienti.» spiega Diaz, con il suo accento messicano.
«Chi sono?» chiede Louis, apparentemente disinteressato.
«Degli amici.»
«Dove li dobbiamo incontrare?» chiede ancora il mio rapitore. Diaz gli spiega come arrivare al punto di incontro stabilito. Non è lontano dal motel.
«D’accordo. Sarà fatto.» conclude Louis.
«A voi spetterà il 40%.» dice Diaz sorridendo. Non so perché ma c’è puzza di fregatura. Lo capisco io che non me ne intendo. Sta mentendo, ma non dico nulla. Non voglio farmi uccidere e nemmeno voglio aiutare i miei rapitori.
«Allora siamo d’accordo.» conclude Louis e Jesse annuisce.
Quando usciamo, Jesse si volta verso l’amico.
«Ci pagheranno?» chiede.
Louis fa spallucce. «Certo.»
Ci avviamo verso il motel, dove rimaniamo per un’altra eterna notte.
 
ANGOLO DELL’AUTRICE
Ciao a tutti! Come promesso, ecco a voi il ventesimo capitolo! Spero tanto che vi piaccia anche se è molto breve e di passaggio!
Come avete visto, gli affari dei nostri amici Jesse e Louis stanno andando avanti… Chissà cosa succederà!
So che alcuni di voi saranno contenti perché per ora le disgrazie si sono interrotte! ;D
Fatemi sapere cosa ne pensate. A Domenica!
Izzy, xX__Eli_Sev__Xx
 

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Capitolo 21
*** Capitolo 21 ***


Always and forever
 
CAPITOLO 21
 
POV Mac

Cammino avanti e indietro per l’ufficio da più di un’ora. Da quindici giorni non vedo più mia figlia. Perché, alla fine, tutto si ritorce contro di lei? Perché non se la prendono con me? Se dovesse morire, io non lo sopporterei. Avevo promesso a sua madre che l’avrei protetta. In ogni caso.
Mi dispiace, Claire. Mi dispiace.
I miei pensieri vengono interrotti dall’insistente bussare alla porta.
Mi volto.
«Entra, Cal.» dico a mio cognato, fermo sulla porta, immobile.
Sul suo volto, il turbamento misto alla preoccupazione hanno lasciato segni profondi.
«Mac. Novità?» chiede. Scuoto la testa mestamente. Quanto vorrei avere delle novità.
«È scomparsa da quindici giorni.» dico.
«Non li avete ancora rintracciati?»
«No.»
«Vi aiuterò.» dice e si avvicina a me «Spero che la ritroviate viva.»
«Anche io.» ribatto io. Come se lui fosse l’unica persona che vuole bene a Lena.
«Certo che avresti potuto proteggerla un po’ meglio.» mi rimprovera ad un tratto.
«Credi che non mi importi di lei?» sbotto.
«No, dico solo che se l’hanno rapita, forse un motivo c’è. E non credo sia qualcosa che ha fatto Lena.»
I suoi occhi si incatenano ai miei, mi sta osservando intensamente, cerca di capire se nascondo qualcosa.
«Smettila di fare i tuoi giochetti con me!» dico e faccio per uscire dall’ufficio. Non sopporto che mi tratti come un sospettato. È mia figlia!
«Mac!» mi chiama. Mi blocco ma non mi volto. Che vuole ancora? Insinuare che ho commissionato il rapimento di mia figlia?
«Che vuoi ancora? Se vuoi sapere se ho fatto rapire mia figlia, la risposta è no! Ora devo andare, scusa.»
«Aspetta. Hai ragione, ho… esagerato. Ma tu dovresti lasciare il caso ad un altro.» mi dice. Non credo alle mie orecchie. «E per quale motivo?»
«Sei troppo coinvolto.»
«È mia figlia!» esclamo.
Lui riflette un momento. «D’accordo, ma se quelle persone ce l’hanno con te, ti uccideranno e uccideranno anche lei. Così non la aiuti.»
«Con questo cosa intendi?»
«Che fai il loro gioco! Vogliono arrivare a te. Mi sembra ovvio.» dice, come se fosse ovvio.
«Allora mi avranno. Ma dovranno lasciare lei.» ribatto. Se prenderanno me e mi assicureranno che lasceranno libera Lena, farò ciò che vogliono.
«So che vuoi vendetta. Ma uccidendo i rapitori, non otterrai nulla.»
Rimango in silenzio. Era questo che cercava di capire, allora.
Sì, voglio ucciderli. E allora? Non deve immischiarsi.
«Non sono affari tuoi.» mi affretto a dire.
«Lo so. Ma lo dico per il bene di Lena e il tuo.»
«Non permetterò che le facciano del male. Anche a costo di ucciderli tutti.»
«Mac…» comincia, ma io lo interrompo.
Non ce la faccio più. Non ho pace da quando l’hanno rapita. È tutta colpa mia. Solo mia. Non capisce che ho bisogno di partecipare alle indagini?
«Lei… lei è tutta la mia vita.» dico. Le lacrime ormai mi rigano il volto «Non posso perderla. Non posso. Capisci? Ho già perso Claire, James e mio fratello. Come potrei andare avanti senza di lei?»
«Lo so. Ma la tua squadra è preparata e in gamba. Ce la faranno. Prenditi almeno un giorno di riposo.» mi consiglia.
«No. Non posso.» mi ricompongo. Non posso, devo trovarla.
Esco dall’ufficio lasciando Cal solo.
Come possono non capire? Ho già rischiato di perderla troppe volte. Non voglio che accada più.
 
POV Lena
 
Giorno sedici.
La polizia non ci ha ancora trovati. Oggi Louis e Jesse si allontaneranno per due ore per la questione della droga. Forse è il momento buono per tentare di scappare. Rimarranno fuori per un po’. Non posso rimanere qui, devo provare ad andarmene, se non ci riuscissi e mi dovessero uccidere non mi importerebbe, dopotutto. Ormai non ho nulla da perdere.
 
Prima di uscire, alle 17, si raccomandano con me, il che mi sembra stupido.
«Allora, Lena…» comincia Louis «Non tentare di scappare perché se lo farai non esiterò ad ucciderti o meglio ancora farti del male. Hai capito?»
Annuisco.
Idiota. È proprio quello che tenterò di fare fra poco.
Louis controlla che io sia ammanettata per bene e poi quando escono, chiude a chiave la porta.
Sono sola. Finalmente sola.
 
Dopo circa venti minuti, per essere sicura che si siano allontanati, osservo attentamente le manette. Una è chiusa attorno al mio polso sinistro e l’altra è legata alla gamba del tavolo davanti al quale sono seduta da giorni.
Farle passare attraverso la gamba è escluso. È troppo spessa sul fondo, le manette non uscirebbero mai e poi con una mano sola non potrei sollevare un tavolo così pesante.
Pensa, Lena. Pensa.
Il piccolo lucchetto che le tiene chiuse non dev’essere complicato da aprire. Dovrei solo avere un piccolo oggetto appuntito. Mi guardo intorno, poi ricordo.
Sollevo la mano libera e mi tasto i capelli.
La coda di cavallo in cui li ho raccolti è ancora intatta, perciò quando arrivo vicino all’elastico trovo quello che cerco. Una forcina.
La prendo e la osservo. Posso farcela, non dev’essere complicato, nei film lo fanno tutti. È in questi momenti che vorrei essere uno scassinatore.
Tra mezz’ora Louis e Jesse torneranno, perciò devo sbrigarmi.
Infilo la forcina nella piccola serratura e comincio a farla girare.
Ad un tratto il meccanismo scatta.
Evviva! Le manette si aprono e io mi libero il polso, ormai coperto di segni nei punti in cui il bracciale argentato scorreva. Lo massaggio un po’ e mi decido a muovermi, o torneranno.
Mi alzo dalla sedia e raggiungo la porta. Cerco di aprirla facendo forza sulla maniglia, ma è più resistente di quanto sembri. Le sferro un calcio.
Niente.
Osservo la serratura. Prendo un’altra forcina. Se con una faccio forza e con l’altra tento di farla girare dovrebbe aprirsi. Infatti, in meno di dieci minuti sprecati in tentativi, riesco ad aprirla.
Sobbalzo quando la serratura scatta.
Non devo perdere tempo.
Corro alla scrivania e prendo l’apparecchio per la glicemia e le ultime fiale di insulina rimaste, non ho soldi, dovrò farmele bastare. Poi, prima di uscire, noto qualcosa sul letto.
Jesse ha lasciato qui il cellulare.
Mi sembra impossibile. Un miracolo. Come può essere stato così stupido?
Per un momento credo che potrebbe averlo fatto di proposito. Sarebbe possibile? Significherebbe che… vuole aiutarmi. No. Impossibile.
Lo prendo senza pensarci troppo e me lo infilo in tasca.
Senza perdere altro tempo esco di corsa dalla stanza.
Il sole mi acceca per qualche secondo e il vento caldo di fine estate mi accarezza il volto.
Che posso fare? Dove posso andare, senza macchina e senza denaro?
Potrei andare alla reception e chiedere di telefonare alla polizia, da lì potrebbero capire dove sono e raggiungermi. Mi sembra una buona idea, così mi avvio verso la reception ed entro.
«Ciao.» mi saluta l’uomo al bancone. Mi sorride, ignaro del fatto che abbia fretta e che stia scappando dai miei rapitori.
«Salve.» capisce che sono agitata e spaventata. Lo leggo nel suo sguardo.
«Ti senti bene?» mi chiede preoccupato.
«Ho bisogno di fare una telefonata. I due ragazzi che erano con me nella stanza 117, mi hanno rapita. La prego, posso chiamare la polizia?» l’uomo rimane spiazzato davanti alle mie parole.
«Certo. Prego.» mi dice indicando il telefono.
Mi avvicino, ma in quel momento, sento una voce chiamare il mio nome.
È Louis. Sono tornati prima. È fermo nel parcheggio e, ridendo, si sta guardando intorno. Mi sta cercando e mi troverà se non me ne vado. La paura mi assale. L’uomo della reception lo capisce e osserva il ragazzo, poi parla.
«C’è un’uscita sul retro. Corri più veloce che puoi, io chiamo la polizia. Come ti chiami?» mi chiede, mentre mi guida sul retro. Non può aiutarmi, lo uccideranno.
«Maddalena Taylor.» dico.
«D’accordo. Chiamo la polizia, tu corri!»
«Grazie!» dico e comincio a correre più veloce che posso.
Raggiungo il retro del motel e corro lungo la piccola stradina sterrata. Sono abbastanza veloce ma loro hanno una macchina. Non posso nascondermi nei boschi lì vicino o non troverei più la strada per tornare.
Sento sgommare in lontananza e un brivido mi corre lungo la schiena.
Accelero e raggiungo la strada principale. Le auto sfrecciano a tutta velocità. Non posso chiedere un passaggio o metterei in pericolo chiunque tenti di aiutarmi. 
Mi volto, in cerca di un posto qualsiasi in cui rifugiarmi. Poco lontano da lì vedo una struttura che deve essere una fabbrica abbandonata. La raggiungo. Potrebbe esserci chiunque lì dentro. Sempre meglio di due rapitori armati.
Vedo una porta che dà sulle scale antincendio ed entro. Comincio a correre e faccio due gradini alla volta. Ho il fiatone, ma non mi devo fermare. Non posso lasciare che mi raggiungano. Appena ho finito la seconda rampa di scale, sento una brusca frenata proveniente dal parcheggio sottostante.
Oh, no. Sono qui.
A questo punto, l’idea di salire le scale non mi sembra più tanto brillante. Rimarrò bloccata sul tetto.
Comincio a salire più in fretta che posso, ormai non posso più tornare indietro. Ad un tratto arrivo all’ultima rampa. Apro la porta che mi trovo davanti e vedo che sono finita sul tetto. Come immaginavo. Non ho via di scampo. Mi prenderanno e mi uccideranno. Perchè sono stata così sciocca?
Sento la porta sbattere. Sono loro. Mi volto e indietreggio vedendo Louis venire verso di me.
«Lena, Lena, Lena.» mi rimprovera «Non avresti dovuto scappare. Ti avevo avvertita.» ha una pistola in mano e la sta puntando contro di me. Jesse, intanto è uscito dalla porta alle mie spalle e fa la stessa cosa.
Sono in trappola. Questa volta per davvero. Ma non sono pentita di essere scappata. Che mi uccidano, non mi importa.
«Che dobbiamo fare con lei, Jesse?» chiede all’amico.
Lui ride. Ridono entrambi. Già, molto divertente.
Mi uccideranno, nella migliore delle ipotesi. Non oso immaginare cosa altro potrebbero farmi. La paura mi assale ancora e un senso di nausea mi invade.
«La polizia ci sta alle costole e tu pensi di scappare?» dice ancora Louis «Mossa sbagliata, mia cara.» si avvicina sempre di più.
Solleva meglio la pistola di modo che sia puntata verso di me e carica il colpo. Non ho nemmeno il coraggio di chiudere gli occhi.
Quando spara sento un dolore lancinante al fianco e il contraccolpo mi butta a terra. Contemporaneamente sento un altro colpo. Vedo Louis cadere a terra e un’altra pallottola mi colpisce all’altezza dello stomaco. L’adrenalina comincia a scorrere. Non sento dolore. Assolutamente nulla.
Jesse si avvicina a me e mi aiuta ad alzarmi. Ma che sta facendo?
Forse avevo ragione. Mi sta aiutando davvero.
«Vattene, ora!» mi dice. Mi sta aiutando, non ci posso credere. Perché questo cambiamento?
Esplode un altro colpo. Jesse cade a terra. Louis ha capito e gli ha sparato.
«VAI!» mi grida ancora l’ex ragazzo di Laura.
Che altro posso fare?
Corro più veloce che posso reggendomi il fianco. Il dolore comincia a farsi sentire. Mi fa male a camminare e mi rallenta decisamente troppo.
Un altro colpo.
Mi blocco. L’unica cosa che sento sono le grida di Louis.
Allora… Jesse è morto.
Mi ha aiutata. Ha rischiato tutto per me.
Con quel pensiero mi costringo a muovermi; più veloce che posso raggiungo il parcheggio esterno. La macchina di Louis è lì.
Non posso guidare, non in questo stato. Sto perdendo molto sangue. Potrei svenire da un momento all’altro e se mi mettessi al volante potrei causare un incidente.
Ma Louis, una volta sceso, se si metterà al volante mi raggiungerà, nonostante sia ferito.
A quel punto agisco d’istinto.
Apro la portiera del guidatore, estraggo le chiavi dal quadro e le getto più lontano che posso, nel piccolo torrente che scorre lì vicino.
Se non posso guidare io, non lo farà neanche lui.
Chiudo lo sportello dell’auto e mi muovo verso la strada principale.
 
Sono sudata, i fori dei proiettili hanno fatto infezione. Mi sta salendo la febbre e inoltre si sta facendo notte. Non posso rimane qui. Sono troppo esposta. Cammino lungo la strada, non so in quale direzione. Devo raggiungere il motel, ma in questo stato, è già un miracolo che riesca a ricordarmi il mio nome.
 
ANGOLO DELL’AUTRICE
Ciao a tutti! Rieccomi qui con un nuovo capitolo-disgrazia! So che molti di voi ne saranno felici! ;P
Spero tanto che vi piaccia. Io sono abbastanza soddisfatta, lo ammetto! (Viva la modestia!)
Fatemi sapere. A Martedì.
Izzy, xX__Eli_Sev__Xx

 

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Capitolo 22
*** Capitolo 22 ***


Always and forever
 
CAPITOLO 22
 
Cammino lungo la strada da più di un’ora. Sono stanca, sfinita.
Ho raggiunto la periferia della città, ma non so dove mi trovo. Mi guardo intorno. Ho la vista appannata. Poi mi accorgo che devo aver girato in tondo.
Accidenti! Sono di nuovo alla fabbrica abbandonata, la macchina di Louis infatti è di fronte a me. Non mi sono accorta di essere tornata indietro. Com’è possibile? Sono così malmessa che non riesco nemmeno a mantenere la retta via?
Dato che ormai è notte fonda, decido di fermarmi lì. Devo riposarmi. Camminare non mi fa bene. I proiettili potrebbero lacerare qualche parte del mio corpo che causerebbe un’emorragia interna. Devo rimanere ferma per un po’.
Salgo qualche rampa di scale e mi sdraio accanto al muro, nel corridoio. Se dovesse arrivare qualcuno, almeno sarei pronta a scappare.
Sono così stanca.
Continuo a sanguinare, così tento di premere più che posso contro la ferita. Decido di misurarmi la glicemia. Sospetto che avendo perso così tanto sangue potrebbe essere scesa di molto.
Infatti è così, dovrei mangiare. Farmi una dose di insulina peggiorerebbe le cose. Così mi sdraio tentando di addormentarmi. Sto cominciando a sentire freddo, cerco di coprirmi di più con la giacca, ma il freddo è dentro le mie ossa, non fuori.
Spero che mi trovino presto.
E spero che quando succederà, io sarò ancora viva.
 
POV Mac
 
Abbiamo ricevuto la chiamata da un motel in periferia. L’uomo ha detto che Lena, fino a qualche ora prima era lì. I rapitori erano due. Probabilmente erano Louis Trevor e Jesse Peterson.
Quando siamo arrivati, il proprietario ci ha raccontato ciò che ha visto.
Lena è andata da lui, era spaventata e gli ha chiesto di chiamare la polizia, ma dato che la stavano cercando è dovuta scappare.
Gli ha detto il suo nome ed è corsa via.
È viva, c’è ancora speranza. La cosa che mi consola è che mia figlia corre veloce ed è molto sveglia per la sua età.
Jo, a quella notizia sorride e Flack sembra più tranquillo. Ha mantenuto la calma per tutta la durate delle indagini. Non riesco a capire come faccia. Se io fossi al suo posso e rischiassi di perdere la donna che amo, impazzirei, proprio come sto facendo ora.
Anche Cal è sollevato. Osserva la scena e i testimoni, non parla, osserva e basta. Non ha detto assolutamente niente, perciò credo che nessuno stia mentendo o, se lo sta facendo, è davvero bravo.
 
Mentre raccogliamo le prove e le testimonianze, Cal dice che tornerà al laboratorio.
Non lo capisco proprio quest’uomo. Comunque annuisco e lo saluto e così fa anche tutta la mia squadra. Danny e Lindsay stanno lavorando nella stanza dove si erano nascosti e Sheldon e Jo nel parcheggio. Faccio avanti e indietro tra un posto e l’altro e chiedo agli altri ospiti se hanno visto qualcosa. Sembra che nessuno abbia visto niente, perciò raggiungo Jo.
Lei mi osserva e poi mi viene incontro.
«C’è ancora speranza.» mi dice e mi abbraccia.
Avvicino la bocca al suo orecchio e le sussurro un «Ti amo.» carico di gratitudine. Per tutto ciò che fa, per quanto mi ama, per quanto si prende cura di me e di Lena, anche se non è sua figlia.
La amo, è una donna meravigliosa. Non potrei chiedere di meglio.
«Anche io ti amo, Mac.» mi dice e poi sorride, come fa sempre per tirarmi su il morale.
 
POV Cal
 
Sto viaggiando lungo la strada principale per tornare a New York. Sono le otto del mattino, sto per entrare in città quando il cellulare squilla. Accosto e prendo il telefono dal cruscotto. Sullo schermo leggo un numero che non conosco. Che sia qualcuno della squadra? I numeri di Gillian, Locker e Torres li ho registrati tempo fa e se li avessero cambiati mi avrebbero avvertito.
Senza esitare un momento di più rispondo.
«Cal Lightman.» dico e aspetto una risposta.
Una voce sommessa e stanca risponde. «Cal? Sono Lena.»
Quando sento la sua voce, il mio cuore diventa più leggero. È viva.
«Lena, tesoro, dove sei?» chiedo senza lasciare che aggiunga altro.
«A New York. Ascolta, mi hanno rapita…» comincia.
Lei non sa che sono qui, ma allora perché mi ha chiamato?
«Lo so.» dico. Tento di parlare ma lei mi interrompe.
«Ho provato a chiamare Mac, Jo e Flack ma i loro cellulari non sono raggiungibili…»  fa una pausa. «Non sapevo chi chiamare. Mi hanno sparato. E… volevo solo che dicessi ai miei che voglio loro molto bene e a Flack che lo amo.» sta singhiozzando.
«Lena, stai calma. Anche io sono a New York. Dimmi dove sei. Ti vengo a prendere.» dico tutto d’un fiato.
«Alla vecchia fabbrica abbandonata, non molto lontano dal motel sulla sessantaseiesima.» poi si affretta ad aggiungere altro «Ma non venire, potrebbe essere pericoloso. Sto morendo, Cal, non ne vale la pena.» conclude.
«Non è vero, tesoro. Sta’ calma, sto arrivando.» la tranquillizzo. Non voglio nemmeno pensare che morirà.
«Cal, ti prego.» mi implora.
«Non discutere.»
«So che con te è inutile, ma dovevo provare.» sussurra divertita, morirà se non mi sbrigo. La sua voce si sta affievolendo.
«Sto arrivando. Esci dall’edificio.» ma quando sto per riattaccare la sua voce mi blocca.
«Ti voglio bene, Cal.» conclude.
«Lo so, tesoro. Ma non è finita, te lo prometto.» e riattacco.
La andrò a prendere e la riporterò da Mac. L’ho promesso a Claire, ho promesso che avrei protetto la nostra famiglia e lo farò.
Metto in moto e più veloce che posso tento di raggiungere la vecchia fabbrica.
Sto arrivando, Lena.
 
POV Lena
 
Non so perché ho chiamato Cal. Nessuno dei miei amici ha risposto, probabilmente sono al motel, lì i cellulari non prendono.
Mi alzo facendo scorrere la schiena contro il muro.
Reggendomi alla ringhiera raggiungo il parcheggio, ma quando apro la porta, mi trovo davanti lui. La paura, lo spavento e ogni sensazione negativa esistente mi fa aggrovigliare lo stomaco.
Vorrei tornare indietro. Vorrei scappare ma non ho la forza per farlo.
«Ciao, Lena.» mi saluta.
«Louis.» tanto vale arrendermi.
«Sapevo che saresti tornata qui.» mi dice. Sta bene, nonostante Jesse gli abbia sparato, sta bene. Probabilmente ha trovato qualcuno che lo ha aiutato.
Che posso fare?
Cal sta venendo qui. Lo ucciderà.
Pensa, Lena. In fretta.
Troppo tardi, un’auto sgomma nel parcheggio.
«Hai chiamato rinforzi, eh?» Mi dice, gli rivolgo uno sguardo implorante.
«Ti prego, Louis, non fargli del male. Verrò con te. Ma non fargli del male.» lo prego.
«Perché dovrei?» mi chiede divertito. Mi afferra un braccio e mi tira a sé. Mio zio non perde tempo e scende dall’auto.
«Ehi!» grida, vuole fermarlo, ma non sa che non ci riuscirà.
«Bene, ora che ci siamo tutti, possiamo andare!» sbotta Louis.
Lo guardo senza capire.
«Ho tenuto sotto controllo il cellulare di Jesse. Sapevo che stava per arrivare il dottor Lightman e che tu eri qui.» mi spiega. Poi mi getta a terra. La botta violenta contro l’asfalto mi toglie il respiro. Un dolore lancinante mi colpisce allo stomaco e al fianco.
Tira fuori la pistola e la punta contro Cal. Vorrei dirgli di non fargli del male ma non riesco a parlare.
«Ti prego, lasciala andare Louis.» lo implora «È ferita. Ha bisogno di cure.»
«Gliele farò avere. Non preoccuparti. Ma entrambi venite con me.»
«Perché?» chiede Cal. Vuole prendere tempo. Così, dato che Louis mi dà le spalle, prendo il cellulare di Jesse e scrivo un messaggio.
‘Louis ha preso me e Cal. Venite alla vecchia fabbrica abbandonata sulla settantaseiesima. Questo cellulare è controllato da quello di Louis. Lena.’  lo invio a Mac. Quando lo leggerà, sarà più facile trovarci. Getto il telefono vicino al muro, di modo che Louis non lo trovi.
«Perché ho bisogno di voi due. Siete esperti di cinesica. Perciò, voglio che mi aiutiate a scoprire se una persona che lavora con me sta mentendo.» spiega. Poi si guarda intorno.
«Adesso, basta parlare. Andiamo. Alzati!» mi dice. Mi solleva ancora per un braccio ma il dolore aumenta.
«Aspetta! La aiuto io.» lo ferma Cal. Si avvicina e mi aiuta ad alzarmi.
Louis indica l’auto di Cal e ci intima di salire. Cal dovrà guidare, mentre io starà sul sedile posteriore. Mio zio mi aiuta a sdraiarmi e mi dà la sua giacca, ho la febbre e credo anche alta.
«Tesoro, andrà tutto bene.» mi assicura accarezzandomi i capelli.
«Ma che carini! Adesso sali e mettiti al volante!» esclama spazientito Louis.
Si siede al posto del passeggero e tiene la pistola puntata contro Cal.
Da quando mi sono sdraiata sui sedili dell’auto, che per la cronaca sono molto comodi, un senso di sonno mi ha pervasa. Lotto per rimanere cosciente, ma non ci riesco. L’auto dondola cullandomi avanti e indietro.
«Lena, devi restare sveglia.» mi dice mio zio.
Annuisco debolmente, non riesco nemmeno a parlare.
«Tuo zio ha ragione.» interviene Louis, ma la sua non è preoccupazione «Se vuoi restare viva, rimani sveglia.»
 
POV Mac
 
Quando mi allontano dal motel, sento suonare il cellulare. Un messaggio.
Porgo il cellulare a Jo che legge l’SMS ad alta voce, dato che sono al volante.
«“Louis ha preso me e Cal. Venite alla vecchia fabbrica abbandonata sulla settantaseiesima. Questo cellulare è controllato da quello di Louis. Lena.”» quando finisce di leggere, rimango a bocca aperta. Ha tentato di mettersi in contatto con noi.
«Mac…» comincia Jo.
«Chiama gli altri. Andiamo alla fabbrica.» ordino. Lei annuisce e prende il suo cellulare. Facciamo inversione e ad una velocità sconsiderata arriviamo alla fabbrica.
Non c’è più nessuno.
«Facciamo suonare il cellulare. Se è qui lo troveremo.» mi consiglia Sheldon. Annuisco e premo il tasto di chiamata. Sentiamo una suoneria sommessa e cominciamo a cercare l’apparecchio.
«Mac!» mi chiama Lindsay. È vicino all’entrata secondaria della fabbrica. «L’ho trovato!» esclama. Le vado incontro.
«Forse si era nascosta qui.» azzarda Danny.
«Ok. Lindsay, chiama Adam e digli di analizzare il telefono e tenerlo sotto controllo. Se quello di Louis è collegato a questo, possiamo sapere dove si trova e con chi comunica.» spiego. Lei annuisce e lo chiude in un sacchetto di plastica.
A quel punto entro nell’edificio con la pistola tra le mani. Procedo lentamente, se sono nascosti qui e hanno sentito le sirene potrebbero tenderci una trappola.
Mi seguono Danny, Jo, Lindsay e, ovviamente, Flack.
Quando sono alla seconda rampa di scale mi blocco. Un’enorme pozza di sangue copre il pavimento vicino al muro.
Oh, no. Fa che non sia di Lena. Fa che stia bene.
«Oh, mio Dio.» sussurra Jo e mi si avvicina. Le stringo la mano per incoraggiarla ad andare avanti. Anche io cerco di trattenere la rabbia e il panico e continuo a salire, mentre Lindsay si ferma per raccogliere dei campioni.
Arrivo sul tetto. Non c’era più nessuna traccia di sangue, ma in mezzo al grande spiazzo di cemento c’è un corpo steso a terra. Mi avvicino.
È un ragazzo.
Lo conosco. È… Jesse.
Ma cosa sta succedendo?
«Mac? Chi è?» mi domanda Jo. È rimasta più lontano, aveva paura fosse Lena.
«È Jesse.»
«Morto?» chiede Don, che fino a quel momento era rimasto in silenzio.
Annuisco.
«Chiamate Sid.» dico e vedo Danny prendere il cellulare.
 
«Adam!» grido dal corridoio.
Lui, spaventato, si volta verso la porta e quando mi vede si rilassa.
«Capo?»
«Cos’hai scoperto?»
«Che ha chiamato più persone nelle ultime ventiquattro ore.»
«Chi?» chiedo.
«Allora, ho i primi tre numeri.» dice e cerca tra i fogli sulla scrivania. Quando lo trova me lo porge. Sono il mio, quello di Jo e quello di Flack. Lena ha provato a chiamarci ma non è riuscita a rintracciarci.
«Probabilmente vi ha chiamato quando eravate al motel. Lì non c’è campo.» spiega Adam.
«Gli altri numeri?»
«Ce n’è un quarto. Lo sto cercando adesso.» dice e lo digita sul computer.
La ricerca comincia. Dopo qualche secondo, sulla schermata, compare la foto di Cal. Ha chiamato lui perché non riusciva a rintracciare nessuno di noi.
«È di Cal Lightman.» dice Adam.
Annuisco. «Ecco come ha fatto a rapirli entrambi. Lui l’ha raggiunta e ha trovato Louis con lei. Probabilmente l’ha ritrovata dopo la sua fuga.» Adam annuisce. «Bravo, Adam. Tieni sotto controllo il cellulare e se squilla chiamami, d’accordo?» annuisce e mi saluta.
 
«Mac? Posso entrare?» chiede Lindsay sulla porta del mio ufficio.
Annuisco.
«Ho analizzato il sangue trovato nell’edificio.» fa una pausa «È di Lena.»
Mi lascio cadere sulla sedia, sconsolato. Se fosse morta non me lo perdonerei.
«Potrebbe essere ferita. Non necessariamente morta.» mi rassicura Lindsay.
Annuisco, ma non mi sento meglio, non so perché.
Sid entra qualche secondo dopo.
«Ciao, Mac.» saluta.
«Ciao. Cosa mi dici di Jesse?» chiedo.
«È morto due giorni fa. Due colpi di arma da fuoco. Uno alla gamba e uno alla testa. Quello fatale.» dice.
Annuisco. Ecco perché Lena aveva il suo cellulare, è riuscita a sottrarglielo.
«Louis si sarà stufato di lui e l’ha ucciso.» azzarda Lindsay.
«Probabile. Quel ragazzo è instabile.» concordo io.
«Dovete trovarla.» dice Sid «Se è ferita e in più diabetica non resisterà a lungo.»
«Lo so. Stiamo facendo del nostro meglio, credimi.» so quando Sid sia affezionato a Lena. So che è preoccupato per lei e che le manca. Come manca a tutti.
 
ANGOLO DELL’AUTRICE
Ehilà! Come promesso, ecco a voi il 22esimo capitolo! Pieno di colpi di scena, almeno credo. Come potete vedere rispetto a “Little pieces of my life” si seguono molto più da vicino le indagini!
Spero tanto vi piaccia, fatemi sapere cosa ne pensate!
A Giovedì!
Izzy, xX__Eli_Sev__Xx

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Capitolo 23
*** Capitolo 23 ***


Always and forever
 
CAPITOLO 23
 
POV Lena
 
La macchina frena bruscamente destandomi dal mio dormiveglia.
«Scendi.» ordina Louis a mio zio. Lui obbedisce, con le mani alzate. «Prendila.» conclude e indica me.
Cal apre la portiera dal mio lato. «Forza, Lena. Ti tengo io.» mi dice.
Non riesco a parlare. Riesco appena a muovermi e ad avvolgere il suo collo con le braccia. Mi stringo a lui, anche se sono molto debole. Lui mi solleva e io appoggio la testa nell’incavo del suo collo. Sento il suo calore invadermi. È un sollievo, dato che ho freddo da due giorni.
«Andrà tutto bene, tesoro.» mi rassicura.
Louis ci guida all’interno di una casa. Siamo fuori New York, ormai. È una villetta insospettabile, dipinta di bianco, a due piani. La porta è di legno e quando entriamo il profumo del legno ci colpisce. È molto accogliete.
Louis dice a mio zio di farmi sdraiare sul letto nella camera di sopra. Vedo alcune foto di Louis con gli amici e i genitori, lungo le scale. Abita qui, quindi.
Entriamo in quella che doveva essere la sua stanza e Cal mi fa sdraiare sul letto, poi mi sfiora la fronte con le labbra.
«Resisti, tesoro.» mi dice. Non ho la forza di annuire, né di scuotere la testa. L’unica cosa che faccio, e credo che sia un riflesso involontario, è tenere le mani premute sui fori di proiettile. Fa così male. Non so se resisterò ancora a lungo.
Louis entra, sempre con la pistola alzata.
«Tra poco arriverà un medico. È un mio amico, perciò se vi viene in mente di scappare, vi ucciderà. Chiaro?» Cal annuisce.
E chi può scappare? Non riesco nemmeno a muovermi.
 
Il medico entra nella stanza e saluta Louis con un abbraccio. Sorridono entrambi. Poi il medico si avvicina al letto insieme all’amico.
«Le ho sparato. Ho bisogno che si rimetta presto. Deve fare una cosa per me.» dice il nostro rapitore.
Il medico annuisce e mi studia. «Farò del mio meglio.» fa una pausa «Certo, è ridotta proprio male.»
Comincia a tastarmi all’altezza dello stomaco.
Gemo dal dolore. Fa male, ancora più di prima. Quei maledetti proiettili mi uccideranno.
«Dobbiamo rimuovere i proiettili.» dice ad un tratto «Ho bisogno di aiuto.» Comincia a frugare nella sua valigetta.
Cal si avvicina a me e anche Louis: ha paura che lui tenti di scappare, ma non sa che non mi lascerebbe mai qui. Non è codardo come lui.
«Avrei bisogno di qualcosa di caldo. Per cauterizzare.» dice il medico.
«Tipo?» domanda Cal.
«Non lo so… Qualcosa da utilizzare per i fori dei proiettili.»
«Un arricciacapelli può andare?» chiede Louis.
Il dottore ci pensa per un momento. «Sì. Va bene. Prendi dell’alcool e disinfettalo. Lavalo bene.» si raccomanda.
Mio zio mi stringe la mano per rassicurarmi mentre Louis si allontana. Sa che non possiamo scappare. Non prima che mi abbia estratto i proiettili, almeno.
Il medico continua ad osservarmi. Devo essere messa male. Molto male.
Sto sudando freddo. Ho anche delle leggere convulsioni, probabilmente causate dalla febbre.
Quando il nostro rapitore torna, in mano ha un arricciacapelli portatile. Credo che avesse una sorella. A meno che utilizzi un arricciacapelli per lui, ma non credo: i suoi sono lisci.
«Perfetto.» dice il medico «Allora. Potrebbe fare un po’ male.» mi avverte, anche se non credo che gli importi davvero.
Sono pronta. Non sarà così terribile in confronto a ciò che mi aspetta con Louis. Me la farà pagare per essere scappata. Non so come ma ho già i brividi, che si aggiungono a quelli per la febbre.
Quando comincia a “operarmi” non mi accorgo di nulla, anche perché dopo qualche secondo, perdo i sensi.
 
Mi sveglio e accanto a me c’è Cal. Sono ancora in questa maledetta casa.
Sto decisamente meglio. Quanto tento di alzarmi, un dolore lancinante al fianco mi costringe a rimettermi sdraiata.
«Cal?» dico in un sussurro. Lui, che stava dormendo su una poltroncina, si sveglia.
«Lena. Come ti senti?» chiede avvicinandosi.
«Meglio. Grazie.» dico, poi prendo fiato e continuo. Non riesco più a trattenerlo, devo dirglielo «Mi dispiace di averti messo in questo casino. Se avessi saputo che Louis mi avrebbe ritrovata non ti avrei chiamato.» mi scuso.
«Non importa.» mi assicura. «Vuoi misurarti la glicemia?» 
Annuisco. «Grazie.» Mi passa l’apparecchio e io comincio.
È molto bassa. Dovevo immaginarlo con tutto il sangue che ho perso. Spero solo che ci porti del cibo al più presto. Osservo l’insulina rimasta. Sta per finire. Mi basterà per un altro giorno al massimo. Il panico mi assale. Senza insulina sono morta. I primi giorni di prigionia con Louis sono stati orribili senza insulina. Senti l’energia e tutto le tue forze abbandonarti lentamente. Senti che la vita se ne va.
«Louis ne ha portata dell’altra. Non preoccuparti.» mi rassicura mio zio. Annuisco e mi guardo intorno. Non è molto grande come stanza. La mia è più grande nonostante casa mia sia molto più piccola.
«Hai ancora qualche linea di febbre, ma passerà.» conclude Cal.
«Louis è in casa?» chiedo dopo qualche secondo di silenzio.
«Sì.»
Sospiro. Avremmo potuto tentare di andarcene se fosse uscito. Non saremmo andati lontano ma almeno avremmo potuto nasconderci.
«Scappare non è una buona idea, comunque.» mi fa notare, ha capito a cosa stavo pensando. Lo osservo, lo pensa davvero? Pensa che dovremmo rassegnarci?
«Meglio che rimanere qui a far niente.»
Annuisce. «Spero ci trovino.» è preoccupato. Cal Lightman è preoccupato.
«Non credo ci metteranno molto.» dico. Lui mi guarda con aria interrogativa.
«Cosa te lo fa pensare?»
«Diciamo che ho lasciato loro un piccolo aiuto.» Poi gli spiego la storia del cellulare e del messaggio. «Per quanto ne so, se i cellulari sono collegati, con quello di Jesse possono risalire a quello di Louis.» concludo.
Cal annuisce sollevato. «Ma chissà quanto ci metteranno!» mi fa notare.
«Tu non conosci Adam.» dico. Lui è bravissimo con la tecnologia, potrebbe averci già rintracciati. Niente di ciò che è elettronico ha segreti per lui.
Sorride. «Ti ho mai detto che sei molto intelligente?» si complimenta dandomi un buffetto sulla guancia. Sorrido e abbasso lo sguardo. Spero che quello che ho fatto serva a liberarci. Dovrebbe facilitare il lavoro di ricerca. Se ci trovassero presto, potrebbero anche sventare il traffico di droga.
Rimaniamo in silenzio per un po’.
Poi ho un flash. Due anni fa mi aveva confessato che era innamorato di una sua collega. Forse se parliamo di qualcos’altro, riuscirò a distrarmi. 
«Come va tra te e la tua collega?» chiedo, rompendo il silenzio che ormai era diventato assordante.
«Chi?»
«Gillian.» credo si chiamasse così. Sono passati due anni, non mi ricordo molto bene.
«Ah.» si schiarisce la voce e poi fa una pausa.
«Non glielo hai detto.» lo anticipo.
«Non ne ho avuto l’occasione.» si giustifica.
«E in questi due anni cos’hai fatto?»
«Il mio lavoro.»
«E non potevi dirle che ti piace?»
«Ma tu e Emily vi siete messe d’accordo?» chiede di rimando, divertito.
Sorrido. «Forse.» anche se non è così. Ma anche lei pensa che dovrebbe confessare tutto a Gillian. Anche se lui non vuole ammetterlo è più simile a mio padre di quanto voglia credere: anche lui faceva così con Jo.
 
POV Mac
 
«Adam!» lo chiamo dal corridoio facendolo sobbalzare.
«Capo?» la sua risposta tipica. Entro nella piccola stanza di informatica.
«Rintracciato il segnale?» chiedo.
«Non ancora. Non ha ancora chiamato nessuno.» dice.
Ma perché non chiama? Ha capito che vogliamo rintracciarlo?
«D’accordo. Quando chiama qualcuno, fammelo sapere.»
Lo saluto ed esco dalla stanzetta. Ho il tempo di svoltare l’angolo che lo sento gridare.
«Mac!»
Torno indietro e mi affaccio alla porta.
«Cosa c’è?» chiedo.
«Sta chiamando.»
Entro e mi avvicino allo schermo dove sta lavorando.
«Rintraccia la cella a cui si è allacciato.»
Dopo qualche secondo di silenzio, parla.
«Non è a New York.» annuncia.
«Allarga la ricerca anche fuori dalla città.»
Silenzio. L’unico rumore udibile è quello della tastiera sotto le sue dita.
«Trovato!» esclama.
«Bravo, Adam. Dov’è?» chiedo dandogli una pacca sulla spalla.
«In un autogrill appena fuori New York.» senza perdere tempo lo saluto, corro da Jo e poi chiamo Flack.
«L’abbiamo rintracciato.» dico quando lo vedo. Senza aggiungere altro partiamo in macchina.
Stiamo arrivando Lena.
 
POV Lena
 
«In piedi!» la voce di Louis ci costringe a svegliarci «Il nostro ospite è arrivato.» annuncia. Stando a quanto ci ha detto, io e mio zio dovremmo solo scoprire se mente o no. Non so come faremo, nemmeno lo conosciamo.
Cal si avvicina e mi aiuta ad alzarmi dal letto. Sto meglio, sono passati due giorni e la febbre è scesa. Sono esattamente diciannove giorni di prigionia per me. Sto cominciando a stufarmi, davvero.
Mi reggo a mio zio. Lui mi sorride rassicurante.
Prima di uscire dalla stanza mi parla.
«Quanto ne sai di cinesica?» chiede.
«Ho letto un libro e ti ho osservato. Nient’altro.»
«Può bastare. Lascia parlare me e se noti qualcosa di strano fammelo capire. D’accordo?» annuisco. Credo sia una buona idea.
Scendiamo le scale e raggiungiamo il salotto. Seduto sul divano c’è un uomo sulla trentina. È molto attraente, moro, occhi verdi… non fosse che è un trafficante di droga.
Quando entriamo si volta e ci osserva.
Ci sediamo di fronte a lui e Louis ci presenta.
«Loro sono i miei due collaboratori.» wow. Adesso siamo addirittura “collaboratori”. Quale onore.
«È un piacere.» ribatte lui «Io sono Matt.»
Lo osserviamo. Finora niente di strano.
«Allora, Matt. Vado subito dritto al punto. La droga. Dov’è finita?» chiede Louis.
«Era su un tir diretto a New York.»
«D’accordo. Ma non è mai arrivata.»
«Non ne so nulla.» dice. Lo osservo. Ha deglutito più volte, come se fosse in ansia. Muove le sopracciglia in modo strano. Che stia mentendo?
«Sicuro? Perché l’ultimo che ha visto quella partita sei tu.»
Annuisce.
«Carlos, mi ucciderà se non la trovo, lo sai?» chiede ancora Louis.
«Digli che l’hanno rubata al confine.»
«Certo. E secondo te mi crederà?»
«Dovrai essere convincente.» conclude beffardo. Louis si sta innervosendo. Vedo le nocche delle sue mani diventare bianche.
Ad un tratto tira fuori la pistola e la punto contro Matt. Lui alza le mani e lo implora.
«Sta’ calmo, amico.»
«Stare calmo?» sbotta Louis. Io mi volto verso mio zio. Lui mi rivolge uno sguardo tranquillizzante. Osservo ancora Matt.
Un momento.
È fatto. Pupille dilatate, sudore. È nervoso, ma non credo che sia a causa della pistola che Louis gli sta puntando contro. È abituato ad essere minacciato.
«Sta mentendo.» sussurro a mio zio «L’ha presa lui quella droga.»  
Mi osserva perplesso. «Come lo sai?» chiede.
«È totalmente fatto.»
«Sì, ma potrebbe aver usato dell’altra droga, non necessariamente quella.» ribatte. Effettivamente potrebbe essere così.
«È agitato, ha deglutito molte volte. Credo che stia nascondendo qualcosa.» aggiungo a supporto della mia tesi.
Lui annuisce ammirato.
Adesso, però, il problema è un altro: se dicessimo a Louis che sta mentendo e che quella droga l’ha presa lui, lo ucciderebbe.
«Dov’è quella maledetta droga?» domanda Louis furioso, avvicinandosi sempre più a Matt.
«Non lo so!» grida l’altro. La loro conversazione viene interrotta dalla risata di mio zio. Mi volto di scatto. Vuole farsi sparare?
I due si voltano perplessi. Louis lo fulmina con lo sguardo e Matt spaventato continua a osservare sia lui che Louis.
«Che cos’hai da ridere?» chiede Matt.
«È ovvio che stai mentendo.» ribatte mio zio.
Accidenti, adesso siamo nei guai.
«Come ti permetti?!» grida scattando in piedi.
«Oh, andiamo.» comincia Cal, alzandosi dal divano a sua volta. «Digli dov’è, o ti ucciderà.»
«Non so niente.» insiste.
«Certo. Sei visibilmente agitato. Paura che scopra che ti sei fatto con la sua droga?»
«Louis, non gli permetterai di…?»
Louis guarda Cal e sorride. «Sta’ zitto. Vai avanti dottor Lightman.»
«L’hai rubata tu quella droga, per rivenderla.» continua mio zio.
«Perché avrei dovuto?» chiede Matt, allarmato.
Bingo. Cal ha colto nel segno.
«Perché venderla a lui, che è un esperto, ti avrebbe fatto guadagnare molto meno.» Matt si è zittito. «Se l’avessi venduta ad un compratore meno esperto, non si sarebbe accorto che era tagliata male.» fa una pausa e si volta verso Louis «E si sa che la droga tagliata male, aumenta in volume e quindi vale di più.»
Louis si volta verso Matt. Non riesco a decifrare il suo sguardo.
«Ha ragione? È così che è andata?» chiede furioso.
Matt non sa cosa dire, come giustificarsi. Perché è così, Cal ha ragione, è sicuramente andata così.
«Matt.» dice ancora Louis, forse pensa che l’altro non l’abbia sentito «È andata così?» chiede ancora alzando la voce.
Matt solleva lo sguardo e scuote la testa. «Io… Lui… sta mentendo! Ti fidi di lui e non di me?!» sbotta.
Louis annuisce. «È il più famoso esperto di menzogne in tutto il mondo. Non dovrei fidarmi?»
Matt si zittisce. Sa che cosa lo aspetta. Lo ucciderà.
Dobbiamo fermarlo.
Tiro mio zio per una manica per attirare la sua attenzione. Lui si volta e mi guarda. Gli rivolgo uno sguardo implorante.
Scuote la testa e si avvicina. Non vuole che faccia de male a noi.
Louis rivolge un sguardo carico d’odio e di disgusto al suo ex-amico e poi fa fuoco. Il rumore del colpo fende l’aria. Il corpo di Matt viene sbalzato indietro sul divano, dove si crea una chiazza di sangue enorme.
Cal mi ripara con il suo corpo e io mi stringo a lui.
«Grazie dottor Lightman. Mi sei stato molto utile.» dice Louis.
Cal si scosta e io vedo il corpo di Matt. Abbasso lo sguardo tentando di evitare di avere un conato di vomito.
«Tornate di sopra.» ordina.
Cal mi prende la mano e mi guida al piano di sopra.
Un altro cadavere. Un altro morto. Non è giusto, dovrà pagare per tutto questo.
 
ANGOLO DEL’AUTRICE
Ciao a tutti! Ecco a voi il 23esimo capitolo! Spero tanto che vi piaccia! Come sempre è un capitolo-disgrazia. ;D Sono mooolto prevedibile!
Che altro dire?
Fatemi sapere cosa ne pensate e a Sabato!
Un bacio, Izzy, xX__Eli_Sev__Xx

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Capitolo 24
*** Capitolo 24 ***


Always and forever
 
CAPITOLO 24
 
POV Mac
 
Stiamo viaggiando per raggiungere l’autogrill dove è stato localizzato Louis Trevor. Forse lui, Lena e Cal sono lì.
Jo è seduta accanto a me e mi sta tenendo la mano. Forse rivedremo nostra figlia.
Sì, ormai è nostra figlia perché Jo è come una madre per lei. Io la amo, perché se ne prende cura, è con lei quando io non ci sono e capisce ogni cosa prima ancora che lo faccia Lena. Come solo una vera mamma sa fare.
 
Flack accosta sul retro della stazione di servizio, scendiamo ed entriamo. I nostri agenti si guardano intorno.
Niente. Non sono qui.
Mi avvicino al bancone e mi rivolgo al barista.
«Salve.» lo saluto.
«’Sera.»
Gli mostro una foto di Louis e parlo. «Ha mai visto questo ragazzo?»
«Certo. È Louis.» dice.
«È stato qui nelle ultime ventiquattr’ore?»
«No.»
«Sa dove abita?»
«Vicino a Central Park, in un appartamento. A meno che si sia trasferito nelle ultime settimane.»
«Grazie.»
«Non c’è di che.»
«Se lo dovesse vedere, mi chiami.» dico e gli porgo il mio biglietto da visita.
Annuisce e torna al suo lavoro.
«Allora?» chiede Flack quando mi avvicino.
«Non è stato qui ma lo conosce.»
«Che ti ha detto?»
«Che sta in un appartamento vicino a Central Park.»
«Andiamoci.» sbotta Flack.
«Aspetta. Ci mando Danny.» dico, fermandolo.
Annuisce.
Faccio segno ai miei uomini di uscire e ce ne andiamo.
 
Dopo due ore, Danny mi chiama.
«Taylor.»
«Capo? Non c’era nessuno nell’appartamento.»
«Che dicono i condomini?»
«Che non lo vedono da un mese.»
«Se n’è andato?»
«Non lo so.»
«Interroga l’amministratore. Lui saprà di sicuro se si è trasferito.» gli consiglio.
«D’accordo. Ti faccio sapere.»
Riattacco e raggiungo Adam.
«Ha ancora chiamato qualcuno?» chiedo.
«Sì.»
«Da dove?»
«Il cellulare si aggancia sempre alla stessa cella.»
«Eppure lì alla stazione di servizio non c’era.» dico.
«Magari è lì intorno.»
«Sì, ma quella è l’unica cella nel giro di venti chilometri quadrati.»
Adam scuote la testa.
«Grazie comunque. Ottimo lavoro.»
«Ehm… Grazie, Mac… capo.» balbetta. Gli do una pacca sulla spalla ed esco.
 
Il cellulare squilla ancora.
«Taylor.»
«Capo? Sono Danny.»
«Scoperto qualcosa?» chiedo.
«Sì.» dice e poi prende fiato «Allora, l’amministratore ha detto che vive ancora lì, paga regolarmente l’affitto, non disturba gli altri condomini… insomma, un ragazzo modello.»
«Ma?» intuisco che c’è qualcosa di strano.
«Ma… Non si fa vedere da un mese.»
«Sicuro? Forse rientra tardi e se ne va presto alla mattina. O semplicemente nessuno ci ha fatto caso.»
«No. I portieri hanno detto che non lo vedono da un mese e uno fa il turno di giorno e l’altro di notte. La portineria non è mai incustodita.»
«Quindi è scomparso.» deduco.
«Sembra proprio di sì.»
«D’accordo. Grazie, Danny.»
«Nulla.»
E riattacco.
Ma se non vive lì, prima di rapire Lena dove stava? A casa di amici? Parenti?
E poi non può essere sparito così, avrà pur avvertito qualcuno.
Mi avvio lungo il corridoio indeciso sul da farsi.
Da dove posso cominciare?
 
Prendo il fascicolo di Louis Trevor dalla mia scrivania. Mi siedo sul divanetto e comincio a sfogliarlo. Nato il 26 maggio 1985 a Chicago. Padre e madre deceduti sei anni fa in circostanze misteriose. Una sorella.
Residenza, occupazione, stato civile. Nessuna delle informazioni su questo ragazzo sono utili.
Osservo la sua foto. Sembra un normale ragazzo americano. Nulla fa presumere che sia uno spacciatore e un assassino.
Decido di chiamare la sorella. Lei saprà di sicuro qualcosa.
 
«Buongiorno, sono venuta appena ho potuto, detective.» mi dice la ragazza dall’abbronzatura mediterranea e dagli occhi ambrati.
«Grazie, signorina Trevor. È stata molto gentile.» dico e le faccio cenno di sedersi nel mio ufficio. Era a Chicago da degli amici, ci ha messo poco ad arrivare.
«Che cosa voleva sapere?» mi chiede.
«Vede» comincio «sospettiamo che suo fratello sia coinvolto i traffici di droga, in un omicidio e in un rapimento.»
«Rapimento?» chiede incredula.
Annuisco.
«Oh, mio Dio.» esclama portandosi una mano alla fronte «Non ne sapevo nulla. Sapevo che era stato arrestato per droga, ma…» si blocca «Chi ha rapito?»
Esito un momento prima di rispondere. Devo dirle che è mia figlia o dovrei mentire?
«Mia figlia.»
Sul suo volto si dipinge un espressione spaventata e carica di terrore.
«Mi… mi dispiace detective. Qualsiasi cosa io passa fare… non esiti a chiedere.»
«Grazie, signorina.» dico, riconoscente.
«Jennifer.»
Annuisco. «Noi lo stiamo cercando da un po’, ma non riusciamo a rintracciarlo. Lei sa dove potrebbe essere?» chiedo.
Lei ci pensa su. «Ehm… a casa sua non c’era?»
Scuoto la testa.
«Aveva un amico… Un certo Jesse…»
«Mi dispiace. È stato ucciso.»
«Da Louis?» chiede incerta.
Annuisco mestamente. Vedo i suoi occhi luccicare. So cosa prova. Quando ho scoperto che James stava aiutando Romanoff mi sono sentito allo stesso modo.
«Quando eravate piccoli avevate un casa qui a New York?» domando.
Lei mi guarda. «Sì. Non proprio a New York, fuori città.» precisa.
«D’accordo. Può spiegarmi dove si trova?» lei annuisce e comincia a spiegarmi come fare ad arrivarci. È proprio vicino alla stazione di servizio dove pensavamo fosse nascosto. Per questo il suo cellulare si agganciava a quella cella.
«Doveva occuparsi di venderla, l’anno scorso.» mi dice.
«Forse non l’ha fatto.»
Dopo qualche secondo di silenzio parla ancora. «Lei sa perché sta facendo tutto questo?» mi chiede.
Io abbasso lo sguardo.
«Probabilmente aveva capito che la polizia gli stava addosso e ha pensato di cercare un modo per… scampare all’arresto.» ipotizzo.
Lei scuote la testa. «Rapendo una ragazza?»
«Non lo so. Quali altri motivi potrebbe avere?» chiedo di rimando.
Silenzio.
«Posso chiederle come sono morti i vostri genitori?» domando. So di essere sfacciato. Ma devo saperlo. Potrebbe esserci una connessione.
Lei mi osserva, poi annuisce. «Loro sono stati uccisi.»
«Sapete chi è stato?»
«Le indagini si erano protratte a lungo, ma alla fine erano solo sospetti.»
«Contro chi?»
«Uno spacciatore. Un certo… Carlos Diaz.»
Carlos Diaz. Carlos Diaz. L’ho già sentito.
«E crede che fosse stato lui?»
«Non lo so. A quell’epoca Louis era già uno spacciatore, forse gli aveva fatto qualcosa di sbagliato e lui ha voluto… vendicarsi.»
«Forse. Nessuno è mai stato condannato, quindi.»
«Nessuno.»
«Suo fratello cosa ne pensava?»
«Sosteneva che fosse stato Diaz. Ne era certo.»
«Quindi la sua prossima mossa potrebbe essere quella di vendicarsi di Diaz.» ipotizzo.
Annuisce.
«Mi è stata molto utile, Jennifer. Grazie.»
«Si figuri. Se dovesse ancora avere bisogno non esiti a chiamare.»
«Grazie. Arrivederci.»
«Arrivederci, detective.» si allontana e io faccio lo stesso.
Devo avvertire la squadra. Devono cominciare le ricerche.
 
Come pensavo, Diaz è ancora vivo. È lo spacciatore più ‘importate’ degli Stati Uniti, solo chi è davvero bravo entra in affari con lui.
 
Abbiamo cominciato a cercare e risulta che proprio adesso si trovi a Chinatown.
«Danny!» lo chiamo, lui si volta e mi sorride.
«Capo?»
«Tu e Flack andate a Chinatown.» ordino.
«D’accordo.»
«Fatemi sapere.» mi raccomando.
 
ANGOLO DELL’AUTRICE
Ciao a tutti! Chiedo per dono per il ritardo nella pubblicazione, ma ieri lo studio mi ha assorbito completamente. Per farmi perdonare pubblicherò il prossimo domani!
Questo capitolo è tutto dedicato alle indagini, infatti è tutto POV Mac.
Spero tanto che vi piaccia, perciò fatemi sapere cosa ne pensate!
Grazie a tutti coloro che leggono e che recensiscono! ;D
A domani, Izzy, xX__Eli_Sev__Xx
 

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Capitolo 25
*** Capitolo 25 ***


Always and forever

CAPITOLO 25
 
POV Lena
 
Io e Cal siamo segregati nella camera di Louis da due giorni, ormai. Sono passati più di venti giorni dal rapimento. Voglio tornare a casa da mio padre e Jo. Da Flack. E dai miei amici. Non ce la faccio più.
Guardo Cal mentre osserva il paesaggio fuori dalla finestra. Il suo volto non tradisce alcuna emozione.
«Cal?» lo chiamo. Sono seduta sul letto con la schiena appoggiata alla parete. Lui si volta.
«Credi che Louis lo sapesse già che Matt stava mentendo?» chiedo. Non so perché, ma ho avuto l’impressione che sapesse già tutto e stesse solamente cercando un pretesto per ucciderlo.
Fa spallucce. «Forse.»
Il silenzio torna sulla stanza.
Ad un tratto un pensiero mi attraversa la mente.
Il college. È cominciato da giorni, ormai. Come farò a recuperare tutto? Dovrò impegnarmi tantissimo, soprattutto perché è l’ultimo anno.
Sempre che riescano a liberarci.
Sempre che io sopravviva.
Mi alzo dal letto e mi avvicino alla porta. Tendo l’orecchio.
Nulla.
Il nulla più totale.
Siamo soli. Forse Louis è uscito.
Cal mi osserva. Sento il suo sguardo su di me.
«Cosa fai?» mi chiede.
Io mi volto. «Non c’è nessuno in casa.» dico.
Mi osserva con aria interrogativa.
«Potremmo provare a scappare.» propongo.
Lui scuote la testa. «Ci ucciderà. Ti ha già sparato una volta, non esiterà a farlo una seconda.» spiega.
Annuisco. Ha ragione. Non voglio che faccia del male a Cal per colpa mia, perciò, abbandono l’idea. Se dovessero ucciderci sarebbe tutta colpa mia. Io ho chiamato Cal. Io l’ho messo in pericolo. Devo tentare di proteggerlo, ora. So che è una cosa stupida da dire, ma devo prendermi le mie responsabilità: io l’ho cacciato in questo pasticcio, io dovrò farlo uscire illeso. O non me lo perdonerò mai.
Torno a sdraiarmi sul letto. Appoggio la testa al cuscino e osservo il soffitto. È un giorno intero che Louis non ci porta né cibo né acqua e non ci fa visita.
La sete comincia a farsi sentire.
Potrei dormire, ma non sarebbe giusto nei confronti di Cal, così continuo a guardarmi intorno.
Ad un tratto lui si volta verso di me. «È qui.» annuncia.
 
La porta della stanza si spalanca. Louis entra con passo deciso.
«Buongiorno, signori. Come state, oggi?» domanda. Tiene in mano una pistola. Mi alzo dal letto e Cal si avvicina.
«Non ci lamentiamo.» ironizza Cal.
«Lo immaginavo. Dunque, ho tolto quel cadavere dal salotto.» annuncia come se a noi dovesse importare «E volevo farvi sapere che tra qualche ora arriverà Carlos Diaz e tu, Lightman» dice indicando mio zio «dovrai spiegare perché Matt è morto.» conclude.
«È morto perché tu gli hai sparato.» spiega Cal.
Louis sorride divertito. «Dovrai dirgli che aveva rubato lui quella droga.»
«Perché?» chiede mio zio «Puoi anche farlo da solo.»
La situazione sta peggiorando. Cosa costa a Cal dire che aveva rubato Matt quella droga? Fino a venti minuti fa non sarebbe scappato per non farsi uccidere e adesso sfida Louis?
«Tu non hai capito. Non era una richiesta. Era un ordine.» insiste Louis.
«No, tu non hai capito. Io non lavoro per te.»
Louis annuisce. È arrabbiato. Stringe la pistola e fa qualche passo avanti.
«Se non collabori potrebbe succedere l’irreparabile.» lo avvisa.
«Va’ all’inferno.» sbotta Cal. Mi volto verso di lui e gli rivolgo uno sguardo interrogativo e al contempo preoccupato.
«Come?» la rabbia nella voce di Louis è evidente.
«Ho detto: va’ all’inferno.» ripete mio zio. Così manderà tutto all’aria. Ci farà uccidere, ma tutti i torti non li ha. Noi non lavoriamo per lui, perché dovremmo aiutarlo?
Louis annuisce. «D’accordo. Io ti avevo avvertito.» conclude Louis. Mi prende per un braccio e mi tira a sé. Sobbalzo al suo tocco.
Cal avanza. «Lasciala!» esclama.
Louis scuote il capo, divertito. «No.»
«Se non la lasci subito…» comincia mio zio.
«Cosa fai? Mi uccidi? Come?» scoppia in una fragorosa risata e mi cinge i fianchi ancora più forte. «Sai, fino ad adesso non avevo mai preso in considerazione l’opzione di farle del male. Però…»
«Lasciala, schifoso codardo. Prenditela con me. O hai paura di vedertela con qualcuno più vecchio?» lo provoca.
Louis ride e scuote la testa. «No, credimi. Non ho paura.»
Il mio petto è premuto contro il suo. Lo osservo. È lucido.
Sta parlando sul serio? Non mi ha mai fatto del male. Cos’è cambiato?
«Lasciala, Louis.» ripete Cal.
«No. Troppo tardi. Ti avevo avvertito. Adesso a pagarne le conseguenza sarà lei.» indietreggia e usciamo dalla stanza.
«NO!» sento gridare dall’interno. Cal sta battendo i pugni contro la porta, vorrebbe impedire che mi porti via, ma non può.
Louis chiude a chiave senza mai lasciarmi. Non posso muovermi e se lo facessi, mi ucciderebbe.
Mi trascina in un’altra stanza tenendomi per un braccio. La sua stretta mi fa male, ma non ho il coraggio di parlare, sono paralizzata dalla paura.
Probabilmente è la camera dei suoi genitori. Al centro della stanza spicca un letto matrimoniale intatto.
Mi getta a terra e poi mi punta contro la pistola. Lo osservo senza parlare.
«Non ti ho mai fatto del male, ma se tuo zio non si deciderà a collaborare, preparati a patire le pene dell’inferno.» dice ed esce.
Diceva sul serio. Non stava mentendo, gliel’ho letto in faccia.
Ho paura di cosa potrebbe farci.
Ho paura come non mai.
Mi alzo lentamente e con gli occhi lucidi raggiungo il letto. Mi sdraio e mi raggomitolo.
Papà, dove sei? Fa’ presto, ho paura.
 
POV Mac
 
Sono nel mio ufficio da tre ore, ormai. Nonostante tutti gli indizi e le piste non siamo ancora riusciti a trovare Lena e Cal. Dannazione!
Sferro un pugno alla scrivania e un portamatite si rovescia.
Adesso che sappiamo dove si trova la casa dei genitori di Louis, dobbiamo solo aspettare rinforzi e poi potremmo fare irruzione.
Dov’è finito Flack? Non dobbiamo perdere tempo.
Ad un tratto sento bussare. Sollevo lo sguardo.
Una donna è ferma sulla porta.
«Avanti.» dico.
Lei entra. Ha il tesserino visitatori e sorride debolmente. Ha l’aria stanca.
Mi alzo dalla sedia e la raggiungo. «Posso aiutarla?» chiedo. La manderò da qualcuno che possa occuparsi di lei. Adesso non ho tempo.
«Salve, detective.» sorrido «Sono Gillian Foster, una collega di Cal Lightman.»
Rimango spiazzato. Gillian Foster? Non avevo pensato di dover avvertite qualcuno della scomparsa di Cal.
«Salve. Cosa posso fare per lei?»
«Ho chiamato Cal più volte, ma non mi risponde. È successo qualcosa?» chiede.
Come posso dirle che è stato rapito?
Inspiro.
«Si sieda, dottoressa.» dico e la guido verso il divanetto.
Lei si siede e io mi metto di fronte a lei.
«Detective?» mi incalza.
«Dottoressa…» comincio «Cal stava partecipando ad una nostra indagine.»
«Il rapimento di sua nipote, lo so.»
Annuisco. «Lui l’aveva trovata, ma…»
«Ma…?»
«Ma è scomparso insieme a lei. È stato rapito anche lui.» concludo. Inutile girarci intorno.
Delle lacrime silenziose le scendono lungo le sue guance.
«Oh, mio Dio.» sussurra.
«Mi dispiace, dottoressa.» dico.
Scuote il capo. «Sono ancora vivi?»
«Abbiamo motivo di credere di sì.»
Annuisce. «Mi dispiace per sua figlia, detective.»
«Mac.»
Annuisce. Vedo dolore nei suoi occhi. «Ti porto qualcosa di caldo?» chiedo.
Scuote la testa.
«Non posso perderlo.» dice.
Non so perché, ma ho l’impressione che provi qualcosa per lui.
«È il mio migliore amico.»
«Lo so.» ribatto.
«Posso aiutarvi in qualche modo?»
«Ehm… Stiamo per andare a casa del rapitore, crediamo che si nasconda lì.»
«State aspettando un mandato?»
Annuisco ancora. Non possiamo fare irruzione in casa di un sospettato senza mandato. Anche perché non siamo certi sia lui il colpevole. Non al centro per cento. E ci vuole la certezza assoluta.
Annuisce e ricomincia a singhiozzare.
 
POV Lena
 
Silenzio.
Da due ore sono chiusa in questa stanza. Sola. Totalmente sola.
Il silenzio è diventato assordante.
Sento un continuo ronzio nelle orecchie, è così fastidioso.
Ad un tratto la porta si apre. È Louis.
Mi sorride e la chiude a chiave alle sue spalle. Mi alzo dal letto.
Cosa vuole fare?
«Ciao, Lena.» deglutisco a fatica. «Spero ti piaccia la tua nuova collocazione.»
Lo osservo. Non parlo.
«Bene.» conclude. Poi ricomincia «Tuo zio si ostina a non volermi aiutare.»
Abbasso lo sguardo. Odio pensarlo, ma ci sta mettendo entrambi i guai seri.
«Quindi» si avvicina, mi solleva il mio volto con due dita e mi osserva «dovrò fargliela pagare.»
Sento il suo respiro sul mio viso. Distolgo lo sguardo dai suoi occhi.
Sorride.
Non ha una pistola, questa volta. Sa che non posso ribellarmi. È molto più grande e forte di me, un’arma non è necessaria.
Mi sfiora la guancia con il dorso della mano. Le lacrime mi appannano la vista. La nausea mi invade.
«Sai, una volta avevo una ragazza» mi dice «poi, dopo la morte dei miei, ci siamo lasciati. Mi è dispiaciuto. Era molto carina, come te.» conclude. La sua mano scende fino alla camicetta. La sbottona lentamente.
Non riesco neanche a parlare.
Quando arriva all’ultimo bottone, me la sfila. Ho paura che se dovessi reagire mi ucciderebbe.
«Sei davvero molto carina.» ripete. Poi, senza preavviso, mi afferra per i polsi e mi getta sul letto. Tento di indietreggiare, ma lui mi afferra per le braccia e mi tira a sé.
«Ti prego, Louis.» lo imploro.
Lui sorride. «Avanti, tesoro. Non avrai paura di me?»
Piango silenziosamente mentre mi sfila i pantaloni. La mia biancheria è diventata, ormai, il mio unico indumento.
Mi tiene ferma per i polsi e mi sfiora il collo con le labbra. Cerco di divincolarmi ma è inutile. Continuo a piangere.
Poi mi bacia. Un bacio delicato. Sulle labbra.
Proprio mentre sta per sfilarsi i pantaloni, il campanello suona.
Si volta verso la porta, scende dal letto e osservandomi parla.
«Rivestiti.» esce sbattendo la porta a chiudendo a chiave.
Rimango bloccata sul letto. Non riesco a muovermi.
Dopo qualche minuto mi impongo di rivestirmi. Raccolgo i miei abiti sul pavimento. Mi rivesto continuando a piangere.
Perché sta succedendo tutto questo? Perché a noi?
Chiedo solo un po’ di pietà. Nulla di più.
 
ANGOLO DELL’AUTRICE
Ciao a tutti! Ecco a voi, come promesso, il 25esimo capitolo!
È abbastanza intenso, perché parla di temi delicati. Spero di non averli trattati con troppo leggerezza e se fosse così, chiede scusa, non è mia intenzione.
Fatemi sapere cosa ne pensate! :D
Izzy, xX__Eli_Sev__Xx

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Capitolo 26
*** Capitolo 26 ***


Always and forever

CAPITOLO 26
 
Sono seduta sul letto nella stanza dei genitori di Louis. Sono immobile.
Dal piano di sotto sento delle risate. Staranno ridendo di ciò che mi ha fatto Louis? Glielo avrà sicuramente raccontato.
Vorrei strapparmi di dosso la pelle. Ogni brandello, ogni punto in cui mi ha toccata. Mi sento… sporca. Vorrei potermi lavare via questa orribile sensazione.
La porta si apre ancora. Mi volto. È Louis.
«Vieni.» mi dice. Non mi muovo. Mi afferra per un braccio e mi trascina giù per le scale.
«Dato che Lightman non vuole collaborare, sarai tu ad aiutarmi.»
Entriamo in salotto. Diaz è seduto sul divano. È solo.
«Bene. Ecco qui la signorina Taylor.» esclama, quando mi vede «È un piacere rivederla.» dice. Non rispondo nulla.
Louis mi dà una scrollata. «È stata lei a capire che Matt mentiva.» spiega e ci sediamo di fronte allo spacciatore.
Diaz annuisce ammirato. «Potrebbe essere una risorsa fondamentale per il nostro traffico.» dice strizzando l’occhio al mio rapitore.
Louis sorride e annuisce. 
Papà, ti prego, sbrigati.
«D’accordo. Adesso non rimane che scoprire dove si trova quella droga.»
Louis annuisce, poi parla. «Sai, non posso fare a meno di pensare a una cosa.» dice.
Diaz lo osserva e gli fa cenno di andare avanti.
«Se non l’avessi ucciso io, tu che avresti fatto?»
Diaz fa spallucce. «Bè, sai… Errare è umano, perdonare… è divino.»
Louis lo osserva. «Quindi?»
«Probabilmente sarei stato clemente.» ammette Diaz «Ma non è un male che Matt sia morto.»
Louis annuisce. «Adesso andrai a cercare la sua famiglia?» chiede.
Diaz sembra non capire.
«Sai, come hai fatto con la mia.» continua Louis.
«Oh, andiamo ragazzo mio. Non porterai ancora rancore!» esclama mettendosi in piedi.
«No. È solo che… pensavo che la famiglia fosse d’intralcio. Soprattutto quando venivano a sapere dei traffici.»
«Sì, ma la sua famiglia non parlerà. Ci ho già pensato. Hanno assicurato che non diranno nulla.»
Louis sorride e scatta in piedi. «Sai» comincia «ho sempre pensato che fossi una gran persona, Carlos.»
Diaz fa un piccolo inchino.
«Ma adesso…» continua Louis «mi fai schifo.»
Si porta una mano alla cintura e prima che Diaz possa reagire, gli spara alle gambe. Lui cade a terra gridando di dolore. Indietreggio sul divano.
«Questo è per i miei genitori. Loro non centravano nulla.»
«Sapevano troppo.» bofonchia Diaz.
«Non avrebbero parlato con nessuno!»
«Sta’ calmo ragazzo.» tenta di calmarlo.
Lui ride. «Sta’ zitto. Sei solo un codardo. Giochi a fare Dio. Minacci le famiglie degli spacciatori in modo da averli in pugno. Ma adesso basta.»
«I miei scagnozzi ti troveranno e te la faranno pagare!» grida Diaz.
«Non credo. Addio, Carlos.» solleva la pistola e fa fuoco.
Cinque colpi. Alla testa.
Rivivo la morte dei miei ancora una volta. Fa così male. I ricordi si materializzano nella mia mente come flash.
Mio padre che mi dice di non fare rumore.
Io che mi nascondo.
Urla di dolore.
Romanoff che li tortura.
Cinque colpi di pistola.
I loro corpi.
Mia madre. Morta.
Mio padre.
Le sue ultime parole.
La sua morte.
Le mie grida.
Chiudo gli occhi e sento le lacrime bagnarmi le guance. Quando li riapro, vedo che le mie mani sono piene di sangue. Per un momento credo di avere le allucinazioni, che quello sia il sangue dei miei genitori. Poi capisco. Ho premuto così tanto con le unghie contro i palmi, da ferirmi.
Continuo a vedere Romanoff, Steve e Caroline, i loro corpi… James che muore dissanguato, Laura impiccata nella nostra stanza al college.
Mi premo le mani contro le tempie.
Basta! Basta! Basta!
Non voglio più vedere nulla. Basta!
Louis è ancora in piedi accanto a Diaz, ormai esanime. Sorride compiaciuto. Si rigira la pistola tra le mani e poi sferra ancora un calcio al cadavere.
Si volta verso di me. «Torniamo di sopra.»
Mi afferra per un braccio e mi trascina su per le scale. Dalla stanza dov’è rinchiuso Cal non proviene nessuno rumore. Che abbia ucciso anche lui? Eppure non ho sentito spari.
Ma avrebbe potuto farlo in altri modi. Avrebbe potuto soffocarlo, accoltellarlo…
Le immagini di Cal morto mi si materializzano davanti.
Sangue. Morte.
Basta!
Tento di respingerle.
Entriamo nella stanza dei genitori di Louis e lui mi getta a terra ancora una volta.
Chiude la porta a chiave.
«Perché l’hai fatto?» riesco a chiedere.
Sorride. «Aveva ucciso i miei genitori.» come fosse la cosa più ovvia del mondo.
Mi volto. Non voglio guardarlo. Ho paura di cosa potrebbe farmi adesso.
Mi solleva per un braccio e avvicina il suo viso al mio.
Prima che possa ricominciare a spogliarmi lo blocco e tento di allontanarlo poggiando le mie mani sul suo petto.
Lo allontano con una spinta.
«Basta, Louis. Smettila!» grido. Non so da dove sia uscita la voce. Non lo so, davvero. Non so dove io abbia trovato la forza per oppormi. Forse è l’istinto di sopravvivenza.
«Basta?» chiede.
Mi allontano e indietreggio. Lui mi osserva.
Sorride. «Puoi scegliere. O questo, o la morte.»
Abbasso lo sguardo.
Preferisco morire. Non deve più toccarmi. Non lascerò che continui. Lo potrà fare una volta che sarò morta, ma non ora.
«Uccidimi, allora.» sbotto sollevando lo sguardo.
Sorride perplesso. «Davvero? È quello che vuoi?»
«Sì.»
«D’accordo.» annuisce e si avvicina.
Lo osservo. Come pensa di farlo? Mi soffocherà? Mi sparerà? Spero solo sia veloce, che finisca presto.
Senza preavviso mi sferra uno schiaffo. È così forte che mi fa cadere a terra. Ricomincio a piangere.
«Preferisci ancora morire?» chiede e io annuisco.
Un calcio alle costole.
Un altro, ancora.
Basta, basta, basta!
Mi solleva per le spalle e mi spinge contro la parete. Sta ridendo. Queste cose lo divertono.
Un pungo allo stomaco.
Cado a terra.
Si avvicina al comodino di fianco al letto e apre un cassetto. Estrae un coltello.
«Allora… Vediamo un po’.» dice avvicinandosi ancora. «Lo sai che ci sono infiniti modi di uccidere e torturare una persona con un coltello?» mi dice.
Sta’ calma, Lena. Tra un po’ sarà tutto finito.
«Vuoi vedere?» domanda. Non rispondo.
Sorride e si avvicina ancora. Mi prende una mano e prima che possa muovermi, mi incide un taglio sul polso.
Gemo dal dolore. Ritraggo il braccio.
«Ancora adesso preferisci morire?» chiedo.
«Sì.» dico in un sussurro.
«Bene.»
Mi taglia l’altro polso.
Piango. Che altro posso fare?
Mi solleva per un braccio e mi fa sdraiare sul letto. Si mette accanto a me e mi stringe la gola con una mano.
«Sai, all’inizio pensavo di utilizzarti solo come esca per attirare Taylor e fargli capire che Diaz era un assassino, ma adesso penso che anche se tu fossi morta, loro verrebbero a cercarti comunque. E almeno io mi divertirei un po’.» spiega. Scuoto la testa.
Si alza dal letto e tira fuori le sigarette dalla tasca.
Ne accende una e comincia a fumare guardando fuori dalla finestra. Io rimango immobile sul letto. Paralizzata dal dolore. Il sangue cola lungo i miei polsi. Tento di fermare l’emorragia con le mani.
«Spero che Taylor arrivi presto, così ucciderò anche lui. Non era questo il piano, ma non importa. Così potrò finalmente spacciare in pace.»
Si avvicina ancora. Tento di muovermi verso la porta ma lui mi blocca.
«Dove vai? Non abbiamo ancora finito.» Mi tiene ferma per la gola e ha appoggiato le sue ginocchia sulle mie braccia, così che non possa muovermi.
Non lo implorerò, se è questo che vuole. Non lo farò mai.
Ride, compiaciuto per il dolore che provo.
Poi prende la sigaretta e la poggia sul mio avambraccio. Il dolore che provo è terribile. Indescrivibile.
Continua ancora e ancora.
Basta! Voglio morire, non può uccidermi e basta?
Fa la stessa cosa sul collo e poi prende il coltello.
Lo rigira nella mano destra a poi me lo punta alla gola.
«Vediamo un po’…» comincia pensieroso «Voglio lasciarti qualcosa che ti permetta di ricordarti di me.»
Poi sorride.
Alza il coltello e incide mi incide una piccola stella sul collo. Grido da dolore.
Grido per la disperazione, la paura.
Basta!
Che mi uccida. Voglio che tutto questo finisca.
Il campanello suona nuovamente.
Lui mi solleva per un braccio e mi getta a terra contro il guardaroba. Sbatto violentemente la testa. Non riesco più a muovermi. Sono debole.
La glicemia è scesa, non riuscirei nemmeno a muovere un passo se mi alzassi in piedi. Sono troppo debole anche solo per sollevarmi sui gomiti. Respiro e tento di non vomitare. Ho lo stomaco sottosopra.
Louis si pulisce il coltello ai pantaloni, si avvicina alla porta e la apre. «Rimani qui.» mi dice.
Esce lasciando la porta spalancata. Se solo potessi alzarmi e correre via.
Ad un tratto, sento la porta d’ingresso spalancarsi violentemente.
«Fermo! Polizia di New York!» sento gridare.
La polizia? Sto sognando? Sono davvero qui? Non riesco più a capire cos’è reale e cosa non lo è. Louis vorrà prendermi in giro. Illudermi. Darmi il colpo di grazia facendomi credere che mio padre mi abbia trovato.
Un sparo.
Due.
Tre.
Passi.
Porte che sbattono.
Sento dei passi su per le scale. Mi muovo appena. Ruoto la testa verso la porta.
«Lena!» sento gridare.
Papà?
È davvero lui?
Vedo un uomo affacciarsi alla porta della stanza.
«Lena!» è mio padre. È Mac. Corre verso di me. Mi solleva la testa e mi stringe a sé.
«Papà...» sussurro tra le lacrime.
«Sono qui. Sono qui.» mi rassicura.
«Cal…» sussurro.
«Lo hanno già liberato.» mi tranquillizza. «Mi dispiace, tesoro. Mi dispiace di non essere arrivato prima. Perdonami.» singhiozza. Gli stringo il braccio con una mano.
«Mac!» la voce di Flack mi riporta i vita.
Entra nella stanza e si inginocchia accanto a me.
«Lena, amore mio. Stai bene?» chiede. Annuisco.
Sta piangendo. Me ne accorgo solo ora. Don Flack sta piangendo.
Accenno un sorriso rassicurante. Ma non sto bene. Non sto per niente bene.
«Dobbiamo portarla in ospedale.» dice Mac. Mi solleva e io mi stringo a lui.
«Ti voglio bene.» sussurro con la voce rotta dal pianto.
«Anche io ti voglio bene, Lena. Andrà tutto bene.»
Scendiamo le scale e usciamo da questa maledetta casa. L’aria autunnale mi sferza il viso. Respiro.
«Mac! Come sta?» chiede la voce di Jo. La vedo avvicinarsi e lo stesso fanno Danny, Lindsay e Sheldon.
«La porto in ospedale.» spiega mio padre e lei mi accarezza i capelli.
Mi poggia su una barella e mi accarezza i capelli.
«Non ti lascio più, Lena. Te lo prometto.» mi assicura. Annuisco impercettibilmente.
Quando mi caricano sull’ambulanza, posso finalmente riposare. Chiudo gli occhi e cado in un sonno profondo.
 
ANGOLO DELL’AUTRICE
Ciao a tutti! Scusate per il ritardo nella pubblicazione, ma con la scuola ultimamente non riesco più a fare quello che mi piace! Uff!
Comunque, eccomi qui.
Finalmente, Lena è salva. Dopo tutte le disgrazie, finalmente Mac e Don sono arrivati.
;D
Spero tanto che il capitolo vi piaccia, fatemi sapere! ;D
Per farmi perdonare pubblicherò il prossimo domani!
Un bacio, Izzy, xX__Eli_Sev__Xx
 
 

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Capitolo 27
*** Capitolo 27 ***


Always and forever

CAPITOLO 27
 
POV Cal
 
Vedo un donna corrermi incontro.
Non può essere lei. Non può.
«Cal!» grida.
Socchiudo gli occhi per vederla meglio.
Impossibile.
È Gillian. La mia Gill.
«Gill?» dico, ancora incredulo «Cosa fai qui?»
Mi abbraccia di slancio e piange.
«Oh, Cal!» singhiozza.
«Sto bene, Gill.»
«Io… ero così preoccupata… Sono venuta a New York perché Emily era preoccupata per te e quando ho scoperto che eri scomparso, io…»
«Sta’ calma. Sto bene.» la tranquillizzo.
Lei sorride forzatamente e mi stringe ancora di più.
«Non farlo mai più, Cal. D’accordo?»
«È il nostro lavoro, tesoro. Sono i rischi del mestiere.»
«Allora cambiamo mestiere, non voglio perderti a causa sua.»
«Gill…» la allontano.
«No! Adesso ascoltami. Ho avuto paura di non vederti più!»
«Non posso lasciare il lavoro.» affermo. Su questo non si discute.
«Stai più attento, allora. Promettimelo!»
Sorrido alla sua premura. «D’accordo.»
«Prometti.»
«Lo prometto.»
«Sicuro?» chiede ancora.
«Sicuro.» le faccio eco.
«D’accordo. Andiamo, devi farti vedere da un dottore.» conclude e fa per voltarsi. Ho alcune ferite, per i pugni di Louis, ma possono aspettare.
Gill vuole raggiungere Jo e gli altri. Probabilmente ha dato una mano nelle ricerche. È così bella, anche se è sconvolta. Anche se il suo volto è solcato dalle lacrime. È meravigliosa. Sempre. E…
E non posso aspettare oltre.
Emily e Lena hanno ragione.
«Gill?» la blocco, trattenendola per un braccio.
«Mmm?»
Cosa posso dire? Da dove comincio? Dal fatto che l’ho trattenuto per anni perché non avevo il coraggio di confessarglielo?
Poi mi accorgo che non c’è nulla da dire. Proprio nulla.
La tiro a me e la bacio. La stringo tra le mie braccia. Lei ricambia infilandomi la mani tra i capelli e accarezzandoli delicatamente. Rimaniamo vicini per un tempo che sembra infinito.
Vorrei che fosse così, che non finisse mai.
«Ti amo.» le sussurro a fior di labbra, quando ci separiamo.
«Ci voleva tanto?» chiede ironica.
E la bacio ancora.
 
POV Mac
 
L’ambulanza arriva in poco tempo all’ospedale.
Lena sta dormendo sulla barella. Ha molteplici ferite e lividi. Spero stia bene.
Quando scendo insieme a Jo, vediamo che dall’ambulanza a fianco alla nostra scende Louis Trevor. Anche lui è su una barella. Lo abbiamo ferito a una spalla e alla gamba destra.
Se la caverà.
Alla fine Cal aveva ragione: vendicarmi non sarebbe servito a nulla. Meglio il carcere a vita per quel verme. Spero solo che l’estrazione dei proiettili sia dolorosa. So che è sbagliato ma se lo merita. Ha ucciso quattro persone e ha torturato Lena.
Ci separiamo da nostra figlia vicino alla sala operatoria.
«Andrà tutto bene.» mi dice Jo. Annuisco.
Andiamo a sederci sulle seggiole nell’ingresso e aspettiamo.
Non possiamo fare nient’altro.
 
POV Lena
 
Un rumore continuo mi rimbomba nelle orecchie.
Bip. Bip. Bip.
Regolare e acuto. È fastidioso. Ridondante.
Bip. Bip. Bip.
Apro gli occhi lentamente.
Luce.
Bianco.
Pulito.
Ecco quello che vedo.
L’ultima volta, ero in un ospedale. E credo che adesso sia lo stesso.
Sollevo una mano. Un ago e un tubicino escono dal mio braccio. Una flebo.
Sì, sono in ospedale.
Volto lentamente la testa. Sono sola. La stanza è vuota.
Come ci sono arrivata, qui? Non ricordo nulla.
L’ultima cosa che ricordo è… mio padre.
Lui è venuto a salvarmi. Ero a casa di Louis con mio zio. Lui ci aveva rapiti.
Mi hanno salvata.
Il mio cuore si fa più leggero.
Sono viva, salva, al sicuro.
Provo sollievo, felicità, gioia e ogni sensazione positiva possibile.
Una lacrima mi riga la guancia.
Per la prima volta dopo venti lunghi giorni di prigionia, è una lacrima di gioia.
 
«Papà.» dico, quando lo vedo entrare.
«Ciao, Lena.» mi saluta, avvicinandosi al letto e prendendomi la mano. «Come ti senti?»
«Bene.» rispondo. Anche se non ne sono certa. «Avevo paura non ci avreste trovati.» continuo e le lacrime cominciano a sgorgare dai miei occhi.
«Non abbiamo mai smesso di cercarti.»
Sorrido.
«Come sta Cal?» chiedo.
«Bene.»
«Louis è…?»
«No. Anche lui è vivo.»
Annuisco.
«Ma ti assicuro che verrà arrestato.» si affretta ad aggiungere.
Annuisco ancora.
Il silenzio cala nella stanza. Mio padre mi osserva. Io sorrido, ma le lacrime mi tradiscono.
«Tesoro» comincia «Devo farti una domanda. E se non te la senti, potrai dire tutto a Jo, se preferisci.» annuisco per fargli capire che deve continuare. «Louis ti ha violentata?» chiede.
Rimango bloccata. Non perché mi senta in imbarazzo. È che… faccio fatica a riordinare le idee.
«Ascolta, se vuoi parlare con Jo, io…» comincia.
«Va tutto bene, papà.» lo tranquillizzo «Devo solo… riordinare le idee.»
Annuisce.
Pensa, Lena.
Chiudo gli occhi, come per paura che quello che sta prendendo forma nella mia mente possa sfuggirvi attraverso.
Poi ricordo tutto.
Le sue mani su di me. I suoi baci. Ogni cosa.
Un brivido mi sale lungo la schiena.
Riapro gli occhi e delle lacrime silenziose mi rigano le guance.
«No.» concludo.
«Sicura?»
«Lui… voleva. Ma è stato interrotto da Diaz e poi dal vostro arrivo.»
Annuisce.
«Quindi non è successo nulla?»
«No.» non è vero. Qualcosa è successo, ma dovrei parlarne con qualcun altro. Forse con Jo.
«D’accordo.» conclude.
Mi stringe la mano. Mi mancavano il suo tocco, le sue carezze.
Sorride, ma vedo un luccichio nei suoi occhi.
Vorrei abbracciarlo, ma non posso muovermi con tutti questi tubi attaccati alle braccia, così sorrido a mia volta.
 
La porta si apre. Sono seduta con la schiena contro lo schienale del letto. Sollevo lo sguardo per vedere chi è entrato.
Gli occhi mi si riempiono di lacrime.
È Flack.
Nessuno dei due parla. Ci osserviamo e poi lui si avvicina.
Mi abbraccia e io lo stringo tra le braccia.
Sta piangendo. Il suo corpo è scosso da piccoli tremori e sta singhiozzando.
Gli accarezzo i capelli.
«Shh.» tento di rassicurarlo «Va tutto bene.»
Dopo qualche minuto riesce a allontanarsi.
«Io… credevo che non ti avrei più rivista.» mi sussurra.
«Sono qui.» dico.
Sorride forzatamente.
«Ti ha fatto del male?» chiede.
Scuoto la testa.
«Non sai quanto sono felice che tu sia viva.» continua.
«Ti amo.» sussurro avvicinando la bocca al suo orecchio. Non c’è bisogno di dire nient’altro. Sono salva. Questo è ciò che importa.
«Anch’io ti amo.»
 
All’ospedale vengono a farmi visita tutti i miei amici.
Danny, Lindsay con Lucy e Finn, Sheldon, Adam, Jeremy, Margaret, Ian e Joseph. Erano tutti felici di vedermi e ovviamente lo ero anche io. Mi sono mancati così tanto che mi sembrava di non vederli da secoli. Mi portano fiori e libri da leggere, dato che sanno che qui, il tempo libero è molto.
Quando arriva Jo, decido di chiederle di portarmi i miei libri di lingue, così potrò mettermi in pari con il programma.
 
Sono seduta sulla poltrona della mia stanza. Domani mi dimettono dato che sto meglio, così mi hanno anche lasciata libera di scendere dal letto, che era ormai diventato troppo scomodo. Mentre sto leggendo il libro di tedesco, sento la porta scorrere.
Sollevo lo sguardo e osservo l’uomo che è fermo sulla soglia.
Chiudo il libro e mi alzo in piedi. Le gambe sono ancora instabili per i tre giorni in cui ho dormito in ospedale, ma sto recuperando le forze.
Lo osservo. I suoi capelli grigi sono in ordine come sempre e i suoi occhi chiari sono lucidi. È pallido, ma tenta di nascondere le sue emozioni dietro ad un sorriso accennato.
Sid.
Gli vado incontro e lo abbraccio di slancio.
«Oh, Sid.» sussurro.
«Lena, mi dispiace non essere riuscito a venire prima.» si scusa.
Io scuoto il capo e le lacrime mi bagnano le guance. «Non importa. Sei qui.» la mia voce trema.
Lo allontano e vedo che anche lui sta piangendo. Gli asciugo una lacrima e sorrido.
«Basta lacrime.» dico.
Lui annuisce. Intreccio le mie dita alle sue e lo guido fino al divano. Ci sediamo uno di fronte all’altra.
«Credevo che…» comincia, poi si blocca.
«Sono qui. Sto bene.»
«Lo so. Ma ero così preoccupato.» conclude.
Sorrido e abbasso lo sguardo. Poi lo abbraccio. Lui ricambia.
«Sono contento che tu stia bene, tesoro.» mi sussurra all’orecchio.
«E io sono felice che tu sia qui.»
La porta si apre. È l’infermiera. Mi sorride e quando vede Sid fa lo stesso.
«Ciao, Lena. Come ti senti?» mi domanda.
«Molto meglio, grazie.»
«Il dottore ha confermato che domani potrai tornare a casa.» comunica.
«Ok. Grazie.» mi sorride ancora ed esce.
«Quindi domani ricomincerai il college.» mi dice.
Sorrido e annuisco. Non vedevo l’ora di tronare a scuola. Anche perché, il mio ritorno al college è segno che tutto, finalmente, sta andando per il verso giusto.
Sid, dopo qualche minuto, si alza.
«Adesso devo andare.» mi dice. Annuisco e sorrido. «Ci vediamo presto.» Mi scocca un bacio sulla guancia, ci abbracciamo e si avvia verso la porta.
«Ciao, Sid. Grazie.»
Sorride ancora e si allontana lungo il corridoio.
Sto per rimettermi a studiare ma la porta si apre di nuovo.
«Ciao.» sento dire alle mie spalle. È una voce famigliare.
«Ciao.» dico voltandomi.
Cal avanza verso di me e mi sorride. Sorrido a mia volta. Sono felice stia bene.
Dopo un momento di esitazione lo abbraccio. Lui mi stringe, ma con freddezza. Così lo allontano.
«Che succede?» chiedo.
Scuote la testa.
Lo guardo con aria interrogativa.
Un lacrima gli solca la guancia.
«Oh, mio Dio.» dico «È successo qualcosa di grave?» se mio zio piange, vuol dire che è davvero grave.
«Mi dispiace.» sbotta.
«Eh?» chiedo abbassando lo sguardo, dato che sta guardando il pavimento.
«Per tutto.» continua.
«Zio…» tento di parlare ma mi interrompe.
«Se io lo avessi aiutato, forse non ti avrebbe ridotta così.»
Aggrotto le sopracciglia. Mi ero completamente dimenticata che dopo il rifiuto di mio zio, Louis aveva cominciato a comportarsi in modo diverso.
«Zio…» ripeto.
«Spero che potrai perdonarmi.» conclude.
«Cal!» sbotto. Lui solleva lo sguardo. «Va tutto bene. Non ti biasimo. Avrei fatto lo stesso.» A dire la verità no. Però non posso dirglielo.
«Non è vero. Ma grazie, Lena.» sorride.
«Non è stata colpa tua. Stava solo cercando un pretesto per cominciare.» gli faccio notare.
Non lo ritengo responsabile. Louis è un pazzo. Che ci aspettavamo?
«Grazie.» conclude.
Sorrido e lo abbraccio. Lui fa lo stesso, questa volta, però, è un vero abbraccio.
«Ti voglio bene.» gli sussurro all’orecchio.
«Ti voglio bene anche io.» mi dice e poi ci separiamo.
 
ANGOLO DELL’AUTRICE
Ciao a tutti! Dopo aver pubblicato per ben due volte lo stesso capitolo, ecco a voi il 27esimo. Lo pubblicherò solo una volta!
Spero che vi piaccia. Fatemi sapere! ;D
Mi scuso per non aver ancora risposto alle recensioni mail mio computer non me lo lascia fare! Appena riuscirò ad impormi su di lui, risponderò a tutte! Vi ringrazio qui, per cominciare! =)
A Domenica, Izzy, xX__Eli_Sev__Xx

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Capitolo 28
*** Capitolo 28 ***


Always and forever
 
CAPITOLO 28
 
Entro in casa mia e quasi mi viene da piangere. Era un mese che non la vedevo. Mi mancava tantissimo. Inspiro profondamente il profumo del legno del pavimento, mi immergo nei suoi colori e tento di reprimere le lacrime.
Poso la borsa vicino ai piedi.
«Bentornata.» mi dice mio padre. Mi volto verso di lui e sorrido.
Questa sera tutti i nostri amici verranno a cena qui. Non vedo l’ora di riabbracciarli tutti. Voglio poterli abbracciare davvero, sapendo che sono salva. Veramente salva.
 
Porto la borsa con i vestiti usati in ospedale in lavanderia, poi salgo in camera mia.  Appena entro mi sdraio sul letto e fisso per qualche minuto il soffitto.
Casa. La mia casa. La mia camera. La mia vita.
Finalmente sono di nuovo qui.
Inspiro profondamente e poi, alzandomi dal letto, mi affaccio alla finestra a prendere un po’ d’aria. I bambini nel quartiere giocano a pallone per la strada e stanno ridendo. Li osservo. Sono così carini. Volgo lo sguardo verso la villetta vicina. Joseph è in camera sua e appena mi vede esce sul balcone sventolando la mano in segno di saluto. Sorride e quando apre la porta ed esce grida: «Ciao, Maddy!»
«Ciao, Joseph! Come stai?» chiedo, poggiando i gomiti alla ringhiera.
«Bene. Anche tu sei in forma, vedo.» sorride.
Faccio un giro su me stessa. «Trovi?» rido. Ho perso parecchi chili durante la mia prigionia e l’unico modo per non pensarci e non farmi distruggere dal pensiero di quell’esperienza è scherzarci su.
«Già.» ride e si appoggia alla ringhiera con i gomiti, come me «Mi mancavano le nostre chiacchierate alla finestra.» dice.
«Anche a me.» continuo «Mio padre mi ha detto che questa sera a cena ci sei anche tu.» aggiungo, ricordandomi della cena.
«Sì.» risponde e annuisce.
«Sono felice. Rallegrerai la serata.» gli dico. È molto simpatico e anche se non conosce tutti i miei amici, so che si ambienterà presto.
«Spero che il tuo ragazzo non mi uccida.» scherza.
È vero, ricordo di non avergli ancora presentato Don. Sorrido al pensiero del mio ragazzo che arresta Joseph durante la cena. «No, non preoccuparti. Non è così geloso.» lo rassicuro.
Joseph ride e poi si stiracchia. «Sarà meglio che vada a prepararmi.» dice.
Guardo l’orologio che ho al polso. «Mancano ancora due ore!» esclamo.
Lui annuisce. «Lo so, ma devo ancora scegliere lo smalto, i pantaloni e la maglietta! Mi ci vuole un po’!» sbotta imitando la voce di una ragazza.
Rido. «Ah, ah. Divertente.»
Joseph ride e poi continua. «Davvero, vado. Devo finire i compiti.»
«Ok. A stasera.» lo saluto.
«A dopo, Maddy.»
Rientro in camera e ripongo i libri che Jo mi aveva portato in ospedale, sulla scrivania. È fine settembre e ha cominciato a fare fresco, così indosso dei jeans attillati, una felpa azzurra (se non l’aveste capito è un colore che adoro), e degli stivali. Chiudo la finestra e scendo in cucina dove mio padre sta preparando un’insalata per la cena.
Decido di aiutarlo, tagliando le verdure, perciò indosso un grembiule.
«Sei diventato un cuoco provetto.» dico, osservandolo. Indossa una T-shirt nera e dei pantaloni dello stesso colore.
«Grazie. È tutto merito di Jo.»
«Già, hai scelto la donna giusta.» mi complimento e mi volto verso di lui.
Sorride e mi osserva. «Dovrai abituare Flack a cucinare fin da subito, altrimenti diventerà uno scansafatiche.»
Gli do un buffetto sul braccio. «Papà!»
«Che c’è? È vero!» da quando mi hanno ritrovata è diventato molto più allegro e aperto con me. Una volta era freddo e distaccato, ma adesso è diverso. Forse il rapimento l’ha cambiato davvero.
«Come credi che sia sopravvissuto fino ad adesso? Vivendo d’aria e lavando i suoi vestiti con la magia?» rido.
«No, ma esistono ristoranti e lavanderie!»
Continuiamo a ridere finché Jo non rientra con le buste della spesa.
«Ciao, ragazzi!» saluta dall’ingresso.
«Ciao!» diciamo in coro io e mio padre.
Ci raggiunge in cucina e mi scocca un bacio sulla guancia. Io la abbraccio.
«Bentornata a casa, tesoro.» mi dice e poi sfiora le labbra di mio padre con le sue.
«Oh, ma che carini!» esclamo. Mio padre si volta e mi guarda perplesso. «Sei un tenerone, ormai.» dico e poi scoppio a ridere.
Sorride e mi abbraccia forte, Jo fa lo stesso e insieme ridiamo.
Mi mancavano le risate di famiglia. Le nostre risate di gruppo.
«Vi voglio bene.» dico quando sciogliamo la stretta.
«Anche noi, Lena.»
 
«Ciao, Maddy!» esclama Joseph fermo sulla porta. Gli faccio segno di accomodarsi e lo abbraccio «Grazie.» dice quando entra.
«Ciao, Joseph.» lo salutano Mac e Jo, fermi sulla porta della cucina.
«Salve, signori Taylor.» dice lui cordialmente.
Jo sorride. Le piace essere chiamata “signora Taylor”.
«Accomodati.» aggiunge mio padre.
«Grazie, signore.»
Andiamo a sederci in salotto e continuiamo a chiacchierare.
«Come procede la scuola?» chiedo.
«Bene. Anche perché quest’anno, finalmente, avremo finito!» esclama felice.
Sorrido. Mi dispiace finire, anche perché andando a scuola passavo tanto tempo con i miei amici e invece con il lavoro non sarà più così.
 
Il campanello suona.
«Vado io.» dico e raggiungo la porta.
La apro.
«Ciao, Lena!» è Sheldon.
«Ciao!» saluto e lo abbraccio «Entra.»
Ringrazia con un cenno del capo e lo guido in salotto tenendolo per mano. Saluta tutti e si siede accanto a Jo.
 
Dopo venti minuti arrivano Lindsay, Danny, il piccolo Finn e l’ormai undicenne Lucy.
«Ciao, Lena.» mi salutano Danny e Lindsay.
«Ciao, ragazzi.» ribatto.
Lucy mi abbraccia. «Ciao, zia Lena.»
«Ciao, bellissima. Come stai?» chiedo.
«Bene. Ma avevo paura che non tornassi più.» dice e mi stringe ancora di più.
«Bè, zio Mac mi ha trovata.»
«Sono contenta.» sorride e segue suo padre.
«Ciao, Finn.» dico e lo prendo tra le braccia.
«Tao, Lea.» riesce a dire. Gli scocco un bacio sulla guancia e lo abbraccio.
Subito dopo arrivano Adam, Jeremy, Ian e Margaret.
Li saluto con abbracci e baci. Mi sono mancati.
«Mi sei mancata, Lena!» esclama Margaret con le lacrime agli occhi.
«Anche tu. Non sai quanto!» esclamo abbracciandola forte.
«Ehi, biondina!» esclama Ian.
«Ciao, ragazzi!» dico e osservo Jer «Ehi! Da quando hai messo gli occhiali?» chiedo, vedendo i suoi occhi dietro un paio di lenti quadrate.
Sorride. «Ti sei persa un sacco di cose, Lena!»
Rido. «Accomodatevi.» e indico loro il salotto. Margaret mi prende a braccetto e mi sussurra qualcosa all’orecchio.
«Don è già arrivato?» chiede.
Scuoto il capo. «Arriverà, non preoccuparti e te lo presenterò come si deve.» nonostante io e Don siamo fidanzati da vari anni, Margaret non ha ancora avuto l’occasione di conoscerlo, se non alla centrale per l’interrogatorio dopo la morte di Laura.
Dovrò presentarglielo.
 
Quando finalmente arrivano tutti gli invitati e ho presentato Don a tutti i miei amici, ci sediamo a tavola per la cena. Siamo tutti felici, finalmente.
Vorrei che, in momenti come questi, il tempo si fermasse, o perlomeno rallentasse. Adoro la mia famiglia e i miei amici. È grazie a loro che sono sopravvissuta in questo mese. Il pensiero di voler tornare da loro mi ha mandata avanti, mi ha spronata a resistere. Grazie a loro sono qui. Sono viva.
Vorrei ringraziare tutti, ma so che scoppierei in un pianto a dirotto, perciò mi limito a sorridere e osservarli mentre ridono e scherzano, dandosi pacche sulle spalle e abbracci.
Questa è la mia famiglia. Peccato che James e i miei genitori non siano qui per vedere quanto sono felice.
 
ANGOLO DELL’AUTRICE
Ciao a tutti! Finalmente, penserete voi, una capitolo ALLEGRO. Veramente, allegro.
Spero tanto che vi piaccia. Lena è tornata a casa! Evviva! xD
Che dire? Fatemi sapere cosa ne pensate e prometto che risponderò alle vostre recensioni, appena il mio computer me lo permetterà!
A Martedì, Izzy, xX__Eli_Sev__Xx

 
 
 

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Capitolo 29
*** Capitolo 29 ***


Always and forever
 
CAPITOLO 29
 
«Mi sono laureato!» strilla Ian a pieni polmoni, correndo per il campus.
Io e Margaret ridiamo e ci sediamo sotto il grande albero al centro del cortile.
«Ce l’abbiamo fatta.» sbotta lei «Ci credi?»
«È incredibile, sembra ieri che ci siamo incontrate.» dico e sorrido.
«Quando comincerete i preparativi?» domanda, dopo qualche secondo di silenzio.
La osservo con sguardo interrogativo.
«Per il matrimonio.» spiega.
«Oh.» dico. Certo. «Abbiamo già cominciato, a dire il vero.» rispondo.
«Davvero?»
Annuisco. Dovrò chiederle di essere la mia testimone. Spero con tutto il cuore che accetti.
«Sapete già la data?» domanda, osservando Ian che abbraccia Nancy, la sua ragazza e le mostra il foglio che attesta che si è laureato.
«Il 20 agosto.» dico.
Annuisce e sorride.
«Vuoi farmi da testimone?» domando ad un tratto, senza nemmeno pensarci. Non sapevo come chiederlo, ma credo che essendo espliciti sia molto meglio. Lei volta la testa di scatto e con un’espressione stupita tenta di parlare. Sorrido. Non l’ho mai vista balbettare.
«Certo! Ovvio!» esclama dopo qualche secondo. Mi abbraccia forte. «Grazie, Lena!»
«Grazie a te.» dico sorridendo per la sua euforia.
 
«Allora, la chiesa c’è. Il ristorante anche...» dice Don, sollevando i fogli per i preparativi dal tavolino da caffè del salotto. Sorrido, sono seduta accanto a lui e tengo in mano la lista degli invitati. Ci sono tutti i miei amici, la mia famiglia, alcuni ragazzi del dipartimento di polizia e la sorella di Don. Li ho già spediti tutti. Spero solo che tutti riescano a venire.
«Dunque…» ricomincia lui «Il tuo vestito c’è. Il mio anche. Il menu è pronto…»
«Mancano solo gli anelli.» dico.
«Dobbiamo solo ritirarli. Saranno pronti dopodomani.» spiega. Io annuisco.
Sto per sposarmi. Non mi sembra reale. Mi sembra di vivere in un sogno.
«Chi hai scelto come testimone?» domando dopo un momento di silenzio.
«Sheldon e Mac. Tu?»
«Margaret e Emily.»
«Gli anelli chi li porta?»
«Sid si è offerto volontario.» rispondo. Lui sorride.
È il primo agosto, manca poco. Non vedo l’ora che sia il grande giorno. Amo Don e voglio diventare sua moglie. Sono impaziente. Lo sogniamo da tanto.
«Manca solo…» sbotta ad un tratto, interrompendosi con aria vaga.
Io mi volto e lo osservo. I suoi occhi blu slittano verso di me.
«Cosa?» domando preoccupata. Ci siamo dimenticati qualcosa?
«La casa.» conclude con un sorrisetto.
«Casa?»
«Certo. Non ci resta che andare a vedere se ci piace e accettare.»
Abbasso lo sguardo. Ha pensato a tutto. Alla casa, alla chiesa, al ristorante. Voleva che fosse tutto speciale. Tutto pronto per noi.
«Oh, Don. Grazie.» dico e lo abbraccio «Ti amo.»
«Anch’io ti amo.» mi sussurra all’orecchio e poi mi bacia. Un bacio delicato, leggero.
«Andiamo?» dice, appena ci separiamo.
Annuisco, prendo la sua mano e ci avviamo verso casa nostra.
 
Quando arriviamo non posso evitare di rimanere a bocca aperta. È una villetta a due piani dipinta di bianco. Un portichetto spicca al piano terra. La porta è aperta e un uomo ci sta aspettando sulla soglia. Don mi apre la portiera e scendo dall’auto.
«È meravigliosa.» esclamo.
«Ti piace davvero?» domanda.
«Sì, Don. È incredibile.»
«Sono contento che ti piaccia.»
Ci avviciniamo all’uomo, che ci saluta con un cenno della mano. Ci presentiamo e lui ci guida nella villetta. Al piano di sopra ci sono tre stanze da letto, un ripostiglio e un bagno. Al piano inferiore, una cucina, una salotto e una lavanderia.
Alla fine del tour completo, scendiamo in cucina e firmiamo il contratto. Questa è ufficialmente la nostra nuova casa.
 
Quando Don mi riaccompagna a casa, mi padre è seduto in salotto e sta leggendo dei fascicoli per il lavoro. Quando sente la porta chiudersi, si volta verso di me e sorride.
«Ciao.» lo saluto, poso la borsa all’ingresso e lo raggiungo. Mi siedo accanto a lui e gli scocco un bacio sulla guancia.
«Ciao, Lena.»
«Che cosa sono?»
«I fascicoli del caso di Laura.»
«Oh.» mi lascio sfuggire.
«Il caso è ufficialmente chiuso. Louis è stato condannato all’ergastolo.» mi dice. Annuisco e lui mi prende la mano.
«Finalmente è tutto finito.» ribatto. Posso concentrarmi sul matrimonio e dimenticare ciò che mi ha fatto passare Louis.
«Già.»
Devo chiederglielo ora. È il momento migliore.
Devo chiedergli di accompagnarmi all’altare. So che ci tiene. So che lo desidera da tanto tempo.
Così inspiro e poi parlo.
«Papà, ascolta…» comincio «Vorrei che tu mi accompagnassi all’altare.» dico.
Lui si volta verso di me e mi sorride. Poi abbassa lo sguardo.
«Papà?» ripeto. Ha sentito ciò che gli ho chiesto? Vorrei che mi rispondesse. Magari “sì”. «Papà, ti prego, di’ qualcosa.»
«Certo, Lena. Certo che ti accompagnerò all’altare.» risponde sorridendo e incatenando i suoi occhi ai miei.
Sorrido e lo abbraccio forte. «Grazie, grazie, grazie!» esclamo.
«Grazie a te, tesoro.»
«Sono felice che sia tu a farlo.» spiego, sciogliendo la stretta. Una lacrima mi scende lungo la guancia.
«Anche io.» mi asciuga la lacrima e mi prende il volto tra le mani «Ehi, basta lacrime.» mi dice dolcemente. «Stai per sposarti!»
È vero. Ha ragione. Sto per sposarmi con Don. L’uomo che amo più della mia vita. Non dovrei piangere, dovrei sorridere.
 
ANGOLO DELL’AUTRICE
Ciao a tutti! Eccomi qui, con il 29esimo capitolo!
Spero tanto che vi piaccia anche se è breve ed è un capitolo di passaggio!
Fatemi sapere cosa ne pensate!
A presto, Izzy, xX__Eli_Sev__Xx

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Capitolo 30
*** Capitolo 30 ***


Always and forever
 
CAPITOLO 30
 
Mi sveglio alle sei. La sveglia non è ancora suonata, ma mi rigiro nel letto da ore. Non ho dormito molto bene, ma non sono affatto stanca.
Sono nervosa. Molto nervosa.  
Il grande giorno è arrivato. Il calendario accanto al mio letto segna il venti agosto. Accanto al numero venti, scritta in blu, c’è una sola parola: “MATRIMONIO”.
Mi stropiccio gli occhi.
Prima di alzarmi, mi siedo sul bordo del letto ancora caldo e osservo la parola scritta accuratamente.
Mi sto per sposare. Sto per sposarmi!
Non riesco a crederci. Mi sento… non lo so… estasiata? Felice? Impaziente? Non so nemmeno come descriverlo.
Alle 07.00, mi sono infilata la tuta e mi sono lavata da capo a piedi. Sono pulita e profumata per il grande giorno.
Mi asciugo i riccioli biondi ed entro in camera mia.
Tra poco, Lindsay e Margaret saranno qui per aiutarmi a prepararmi. Prendo il beauty case e tutto l’occorrente per la pettinatura e lo poggio sulla scrivania.
Sto per sposarmi. La consapevolezza di ciò che sta succedendo mi travolge. Tra poche ore, Don diventerà mio marito. È tutto così… incredibile.
Sorrido e mi affaccio alla finestra. I prati verdi delle villette si stanno svegliando. I fiori stanno sbocciando e la rugiada se ne sta andando. Il sole colora l’orizzonte di rosso, e sembra che i raggi si stiano stiracchiando per riuscire a splendere meglio. Inspiro l’aria estiva e lascio che i rumori del quartiere mi cullino per un’ultima volta. Da questa sera, non abiterò più qui. Sarà sempre casa mia, come usa ripetermi Jo ogni giorno, ma andrò a vivere con Don. Con mio marito. In una nuova casa.
Oh, mio Dio. Sono così nervosa.
 
«Ciao, Lena!» esclama Margaret quando apro la porta per farla entrare. Mi abbraccia forte e io faccio lo stesso. Da quando le ho chiesto di essere la mia testimone è euforica. Incontrollabile.
«Ciao, Mar!» dico e sorrido.
«Sei pronta per andare all’altare?» mi domanda sciogliendo la stretta. Certo che lo sono. Ma sono nervosa, terribilmente nervosa.
«Sono nervosa, ma impaziente.» confesso. Lei ride e mi poggia una mano sulla spalla. Con lei al mio fianco mi sento meglio, lo ammetto.
«Ci credo!» sorride ancora e insieme entriamo in cucina.
Lindsay è già arrivata e Jo è seduta al tavolo insieme a lei. Stanno parlando del vestito, del trucco e della mia acconciatura. Sono entrambe entusiaste del fatto che mi prepareranno per il giorno più importante della vita.
«Ciao, Margaret!» la salutano in coro.
«Ciao!» dice lei. È euforica quanto me, credo. Si avvicina alle altre e insieme confabulano per quasi cinque minuti.
Mi volto verso l’orologio appeso sopra il frigorifero. Sono le nove e mezza. Alle undici dovrò essere in chiesa. Devo cominciare a prepararmi. Le osservo e notando che sono pensierosa, ma soprattutto tesa, Jo parla.
«Bene. Possiamo cominciare?» domanda, come si mi avesse letto nel pensiero.
Annuisco e Margaret sorride entusiasta. Insieme raggiungiamo la mia stanza.
Quando entriamo, si dividono i compiti.
«Ok, io penso ai capelli.» dice Jo.
«Io al vestito.» aggiunge Lindsay.
«Trucco!» conclude Margaret.
Sorrido. Mi siedo su una sedia e lascio che Jo mi sistemi i capelli in uno chignon. Alcuni ricci mi ricadono lungo il volto e altri sulle spalle. Non posso ancora vedermi allo specchio, ma posso provare a immaginarmi. Jo voleva un acconciatura ordinata, ma che lasciasse in vista alcuni riccioli biondi e io le ho dato il permesso di sbizzarrirsi.
Margaret, intanto, tira fuori dalla mia trousse tutti i trucchi. Prende tutte le sfumature di azzurro possibili e mi prepara. Con tocchi delicati mi sistema ogni parte del volto, di modo che il trucco non sbavi neanche se dovessi piangere fiumi di lacrime.
Un’ora dopo sono pronta. Manca solo il vestito.
Lindsay si avvia verso la stanza degli ospiti. L’abito bianco è poggiato sul letto. Quando torna lo tiene sollevano di modo che non strisci per terra.
Sorrido e mi alzo dalla sedia. Mi tolgo la tuta, rimanendo solo con la biancheria. Lei mi aiuta ad indossarlo e poi incastra sulla mia acconciatura un piccolo velo che scende sulle spalle come un nastro.
«Ok, sei pronta.» dice Jo, osservandomi. Si copre la bocca con le mani e osserva il lavoro terminato.
«Adesso posso vedermi?» chiedo.
Margaret annuisce, apre il mio armadio e io mi metto di fronte alla porta. All’interno c’è un grande specchio che riflette tutta la mia figura.
Quando mi vedo rimango a bocca aperta.
Spero davvero che il trucco resista all’acqua, perché sto per mettermi a piangere.
Non sembro nemmeno io. Sono diversa.
Le scarpe col tacco che mi sono messa, mi alzano di dieci centimetri e il vestito è ancora più bello di quanto mi ricordassi. Il corpetto è semplice, senza spalline. La gonna è lunga e scende fino a terra terminando con un piccolo strascico. È bianco, semplice, senza pizzi o ricami. Proprio come lo avevo sempre sognato. Sono state proprio Margaret, Jo, Lindsay e Emily, che ci aveva raggiunto subito alla fine degli esami, ad aiutarmi a sceglierlo.
Non come ci sia riuscita, ma il trucco di Margaret ha reso i miei occhi più grandi e le sfumature azzurre mettono in risalto il colore delle mie iridi.
Anche l’acconciatura è fantastica. Mi volto mi osservo, era proprio come l’avevo immaginata. Tutto è come l’ho sempre voluto. È magnifico.
«Oh, mio Dio.» sussurro.
Loro sorridono. «Ti piace?» domanda Lindsay.
«Sì. Sono…»
«Bellissima.» dicono contemporaneamente.
Sorrido a quel complimento e poi continuo «Stavo per dire diversa.»
«Ciò non toglie che tu sia bellissima.» continua Jo.
Sorrido ancora e una lacrima scende lungo la mia guancia. Silenziosa e solitaria. Vorrei che anche James, mamma e papà fossero qui per vedermi. Per vedere quanto sono felice.
«Eh, no! Non puoi piangere! Non dopo tutta la fatica che ho fatto a prepararti!» esclama Margaret divertita. Rido insieme a lei.
«Grazie.» dico, rivolta a tutte e tre, che mi abbracciano forte.
«Adesso andiamo a vestirci e poi ti raggiungiamo di sotto.» dice Jo.
Annuisco e mi avvio verso il piano inferiore. Scendo lentamente le scale, come fossi una principessa. È tutto magnifico. Ancora meglio del previsto. Devo resistere e non piangere, però, altrimenti Margaret mi ucciderà.
Entro in salotto e osservo la libreria. Mi tranquillizza osservare i titoli dei miei libri. Tutti i libri che ho letto e che sto per lasciare qui.
Mi mancherà questa casa, anche se potrò tornarci quando vorrò. Sarà sempre casa mia, Jo ha ragione.
Quando Margaret, Jo e Lindsay sono pronte scendono all’ingresso. Le osservo. Lindsay ha un vestito rosa salmone e scarpe dello stesso colore. Jo, un vestito lungo e blu. Margaret un vestito verde acqua lungo fino alle ginocchia. Sono bellissime. Sorrido e faccio loro i complimenti.
«Possiamo andare?» domando.
«Manca l’autista.» dice Jo e osserva l’orologio all’entrata.
Già. Doveva tardare proprio oggi, Joseph? Non voglio arrivare in ritardo il giorno delle mie nozze.
Il campanello suona proprio in quel momento. Ringrazio il cielo che sia arrivato, altrimenti avrei potuto avere una crisi di nervi.
Jo apre la porta e saluta l’uomo fermo sulla soglia.
«Eccolo! Ciao!» esclama e lo abbraccia.
Quando entra rimango a bocca aperta.
Credevo che ci avrebbe accompagnate Joseph in chiesa. Ma questo non è decisamente Joseph.
«D.B.!» esclamo. Lo raggiungo e lo abbraccio forte. Lui sorride.
L’avevo invitato, ma credevo che ci aspettasse in chiesa.
«Lena, sei bellissima.» esclama sciogliendo l’abbraccio e osservandomi.
Abbasso lo sguardo e arrossisco. «Grazie.»
«Bè, possiamo andare, vero?» dice e mi porge il braccio. Lo afferro e osservo le altre.
«Noi andiamo con Joseph. Vi precediamo. Vogliamo assistere all’ingresso della sposa!» annuncia Margaret. Ci salutano ed escono.
Saluto a mia volta e D.B. mi accompagna alla macchina. Aspettiamo che l’auto di Joseph si sia allontanata e poi partiamo anche noi. In pochi minuti abbiamo raggiunto New York. La chiesa non dista molto dal distretto di polizia, perciò ci vorranno ancora dieci minuti.
«Nervosa?» mi chiede, svoltando per uscire dalla via principale.
«Molto.» dico, torturandomi le mani. Intanto tengo stretto il mio mazzo di girasoli, tentando di non distruggerli prima di arrivare in chiesa.
«Andrà tutto bene.» mi rassicura.
«Lo spero.» dico speranzosa.
 
Quando arriviamo davanti alla chiesa, sono già tutti dentro. L’unico che sta aspettando fuori dalla porta è mio padre.
Non aveva visto il mio vestito, chissà come reagirà.
D.B. si ferma e accosta. Spegne il motore e mi apre la portiera. Mi porge una mano, che io afferro. Mi aiuta a scendere e io lo ringrazio. Sorrido nervosa, vedendo la reazione del mio accompagnatore.
Mio padre è paralizzato, poi, accortosi, che deve accompagnarmi all’altare, si muove verso di noi. Sorride e si ferma accanto a me.
«Sei bellissima, tesoro.» mi dice.
Sorrido e mentre mi porge il braccio, sussurro: «Grazie, papà.»
«Pronta?» mi domanda, mentre D.B. riparte con la macchina per parcheggiare.
«Sono nervosa. Potrei morire di crepacuore.» annuncio.
«Andrà tutto bene.» mi dice.
Io annuisco e ci avviamo verso l’entrata.
Uno passo dopo l’altro.
La porta si avvicina. Vedo già la navata centrale.
Potrei morire.
Quando varchiamo la soglia, tutti si voltano a guardarci. Tutti gli occhi sono puntati su di me. C’è chi sorride, che si commuove, come Gillian, e chi si copre la bocca per lo stupore.
Sono davvero così bella?
Avanziamo sul tappeto color crema steso a terra, fino a raggiungere l’altare, adornato di girasoli. I miei fiori preferiti, proprio come quelli del mio bouquet. Li ha scelti Don. Sa cosa mi piace e ha voluto che tutto fosse perfetto.
Mio padre si ferma proprio quando siamo accanto a Don.
Gli porge la mia mano e poi si sposta accanto a lui, con Sheldon. Sono i suoi due testimoni.
Vicino a me ci sono Margaret e Emily, che a stento riesce a trattenere le lacrime.
Sollevo lo sguardo verso l’uomo che mi tiene la mano. I suoi occhi blu percorrono ogni centimetro del mio corpo e poi si incatenano ai miei.
«Sei meravigliosa.» dice, io sorrido arrossendo. Non riesco a parlare, anche se vorrei rispondere. Dirgli che è bellissimo e che lo amo.
«Bene.» comincia il parroco «Benvenuti. Oggi, siamo qui riuniti per unire in matrimonio questi due ragazzi…» il discorso continua per circa mezz’ora. Continuo ad essere nervosa, ma cerco di non darlo a vedere.
«Bene. Adesso avremmo bisogno degli anelli.» a quelle parole, Sid, seduto nel primo banco con la sua famiglia, si muove, porge il piccolo cuscino rosa pallido al parroco, che lo pone sul piccolo banco posto davanti a noi. Io porgo il mio bouquet a Emily, che lo stringe, estasiata.
«Prima lo sposo.» annuncia sorridendo, padre Luke.
Don slega la fede di oro bianco dal piccolo cuscino e la prende tra le il pollice e l’indice destri. Prende un bel respiro e poi parla.
«Io Donald Flack, accolgo te, Maddalena Taylor, come mia sposa. Prometto di esserti fedele sempre, nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia e di amarti e onorarti tutti i giorni della mia vita.» quando conclude e infila l’anello al mio anulare, potrei mettermi a piangere. Cerco di resistere, perché adesso tocca a me.
Forza, Lena!
«La sposa.» dice il parroco, indicando il cuscino.
Prendo la fede nella mano destra e poi pronuncio la formula. «Io Maddalena Taylor, accolgo te, Donald Flack, come mio sposo. Prometto di esserti fedele sempre, nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia e di amarti e onorarti tutti i giorni della mia vita.» infilo l’anello al suo anulare affusolato e sorrido, sollevando lo sguardo.
«Con il potere conferitomi dalla Chiesa, vi dichiaro marito e moglie.» annuncia «Puoi baciare la sposa.» aggiunge sorridendo, rivolto a Don.
Siamo marito e moglie. Siamo sposati, finalmente.
Sono così felice, vorrei saltare, ridere, abbracciare tutti, ma devo contenermi.
Non riesco davvero a descrivere cosa provo.
Don si volta verso di me. Sorride, poi solleva il mio volto con due dita e si avvicina. Poggia le sue labbra sulle mie e mi bacia. Con una mano gli accarezzo la guancia e quel bacio, bellissimo, delicato e pieno d’amore che sugella la nostra unione finisce. Troppo in fretta. Ci separiamo e a fior di labbra mi sussurra un «Ti amo.»
«Anche io ti amo.» dico e un fragoroso applauso riempie le navate della chiesa.
Sorridiamo e ci voltiamo. Attraversiamo la chiesa e usciamo all’esterno. Mi reggo a lui e sorrido.
Alcuni lanciano riso, altri chiedono un bacio. Ci avviciniamo ancora e le sue labbra si chiudono sulle mie ancora una volta.
Dopo i migliaia di scatti, finalmente, possiamo salutare i nostri amici.
Emily mi viene incontro. Anche lei ha un vestito blu come Jo, è davvero bellissima.
«Lena!» mi chiama. Io la abbraccio forte.
«Ciao, Em! Sono felice che tu sia venuta!»
«Non potevo mancare! Sei davvero bellissima! Anche tu, Don.» aggiunge rivolgendosi a mio marito.
«Grazie, Emily.» ribatte lui sorridendo. «Il blu ti sta davvero bene.»
«Grazie, ma questi complimenti dovresti rivolgerli alla sposa!» ride lei. Io rido e mi volto verso di lui, che sta sorridendo.
Abbraccio Jo, che sta sorridendo da quando è cominciata la funzione. Non piange. Non piange quasi mai. L’ho vista piangere solamente quando abbiamo rischiato di perdere Mac.
«Oh, Lena! Sono così felice…» dice e mi stringe a sé. Io faccio lo stesso. Mi è stata così vicina da quando sono arrivata a New York. Ormai è diventata mia madre a tutti gli effetti.
«Grazie, Jo.» dico sorridendo «Ti voglio bene, mamma.» le sussurro all’orecchio. Lei sorride.
«Anche io, tesoro.» dice. So che è felice. La cosa più bella che potessi fare era proprio questa. Chiamarla “mamma”.
Quando arriva mio padre, non posso fare a meno di notare che ha gli occhi lucidi. «Sei bellissima, Lena.» ripete e mi stringe forte a sé. Gli accarezzo i capelli e gli sussurro all’orecchio: «Ti voglio bene, papà.»
«Anche io, Lena. Anche io.» e mi sfiora la guancia con le labbra.
Abbraccio Lindsay, Danny, Lucy e il piccolo Finn.
Sono felici per me e Lindsay trattiene a stento le lacrime.
«Quando sei arrivata eri una bambina e adesso ti stai sposando!» esclama.
Danny alza gli occhi e scuote il capo. «Linds, sei sempre la solita.»
«Sei davvero bellissima, zia Lena.» mi dice Lucy.
Io e la abbraccio forte. «Grazie, Lu. Anche tu sei bellissima. Dopo dobbiamo ballare!» le dice, riferendomi al pranzo. Lei annuisce e si allontana insieme alla madre.
«Congratulazioni.» mi sussurra Sid, avvicinandosi. Lo abbraccio forte e gli sussurro all’orecchio che gli voglio bene e che senza di lui, non ce l’avrei mai fatta a superare tutto ciò che mi è capitato. Lui mi sfiora la guancia con una mano e poi mi scocca un bacio sulla fronte.
«Sei stupenda.» mi dice ancora.
«Anche tu sei davvero elegante. Lo smoking ti dona.» gli faccio notare, sistemandogli la cravatta. Lui sorride e dopo aver salutato sua moglie, mi dirigo verso mio zio.
Quando Cal mi raggiunge mi abbraccia. «Ciao, tesoro.» mi dice.
Gillian, dietro di lui, sorride.
«Sei stupenda.» aggiunge lui.
«Grazie, Cal.» dico. Poi abbraccio Gillian. «Grazie per essere venuta, Gill.»
«Grazie a te per l’invito. Sei davvero bellissima.» si complimenta.
«Merito di Margaret, Lindsay e Jo.» spiego.
Loro annuiscono e mano nella mano si avviano verso Jo e Mac, per salutarli.
Ringrazio e abbraccio tutti i miei amici. Jeremy, Ian, Margaret e Joseph. Sono tutti felici per me, si complimentano per il vestito e poi mi fanno le loro congratulazioni. Lo stesso fanno D.B., Adam e la sua ragazza.
«Sheldon!» dico, vedendo che sta parlando con Don. Fingo di essere offesa. Non è ancora venuto a salutarmi.
«Ciao, Lena!» esclama e mi abbraccia «Sei davvero bellissima.» mi sussurra all’orecchio.
«Grazie. Anche a te questo completo sta d’incanto!» dico e lo osservo. Si è fatto crescere un po’ di barba e si è tagliato i capelli. Sorride compiaciuto e mi dice che è stata Jo ad aiutarlo a sceglierlo.
«Sono felice che tu sia qui.» dico.
«Anche io. Sono tanto felice per voi.»
«Grazie per tutto quello che hai fatto per me in questi anni.» aggiungo.
Lui sorride e mi scocca un bacio sulla guancia.
Sorrido e poi saluto i ragazzi del distretto che mi fanno i complimenti, facendomi arrossire di continuo. Saluto Sam, la sorella di Flack e suo padre, Donald, arrivato da poco.
Sono così felice. E tutti attorno a me sembrano esserlo.
 
Durante il pranzo faccio avanti e indietro ai tavoli per salutare amici e parenti. Il ristorante che abbiamo scelto ha messo a disposizione una piccola orchestra e una sala per ballare. Dopo la torta, I testimoni decidono devono pronunciare i loro discorsi. Spero solo che non sia imbarazzante. Sono seduti accanto a noi, così uno a uno si alzano e cominciano.
La prima e Margaret.
«Innanzitutto, grazie per avermi scelta come testimone, Lena.» comincia «Ti conosco da cinque anni e appena ti ho vista ho capito che saremmo diventate amiche. Sei speciale. Mi hai aiutata tanto al college e per questo ti ringrazio. Sei davvero una persona splendida, la migliore amica che si possa desiderare.» poi si volta verso Don e sorride «Bè, Don. Non provare a farla soffrire, perché altrimenti dovrai vedertela con me!» scherza e io sorrido «Scherzi a parte. Anche tu sei una persona magnifica, Don. Lena non poteva trovare un marito migliore. Congratulazioni.» conclude e tutti battono le mani entusiasti, soprattutto io, Ian, Jer e Joseph.
Poi si alza Emily. «Bè, non conosco così bene Don da poterlo minacciare, però posso assicurarti che ciò che ha detto Margaret è vero. Tutto. Sei un bravo ragazzo e mi sei stato simpatico da subito. Lena è stata fortunata e anche tu lo sei. Mia cugina è davvero una ragazza unica. Le voglio molto bene. Quando l’ho conosciuta non avrei potuto essere più felice. Le ho voluto bene dal primo istante. Sei coraggiosa, dolce, gentile… Hai tutto le qualità per diventare una moglie magnifica. Spero che siate felici, davvero. Perciò, auguri!» conclude e torna a sedersi accanto a me.
Sheldon si alza, si sistema la giacca e poi si schiarisce la voce.
«Bè, credo che Margaret e Emily abbiano già detto tutto.» comincia, poi si rivolge a Don «Flack, sei un mio caro amico e sono davvero felice di essere qui, oggi, in veste di tuo testimone. È il regalo più bello che potessi farmi.» sorrido e Don fa lo stesso. Gli stringo la mano, intrecciando le mie dita alle sue «Lena, in questi otto anni ti ho vista crescere. Da ragazzina fragile e insicura, sei diventata una donna forte e determinata. Vi voglio bene, e spero che possiate vivere al meglio la vita che state cominciando insieme.» conclude alzando il calice con il vino e poi si siede accanto a Don, dandogli una pacca sulla spalla.
Adesso è il turno di mio padre. Mi sporgo leggermente oltre Don, per guardarlo meglio negli occhi. Lui si alza e poi abbassa lo sguardo verso di noi.
«Che posso dire?» chiede, per cominciare «Sono molto felice di essere qui. Mia figlia si è sposata con uno dei miei più cari amici. Uno dei migliori poliziotti che io abbia mai conosciuto. Leale, sempre pronto a dare una mano, sempre presente quando qualcosa non va... Don, sono felice che Lena abbia scelto te. Sei la persona migliore che potesse capitarle.» dice poggiandogli una mano sulla spalla e lui lo ringrazia con un cenno del capo. Poi si rivolge a me, sento già le lacrime pronte a scendere «Tesoro, so di essere ripetitivo, ma tu sarai sempre la mia bambina. Ti ho incontrata che ormai aveva diciassette anni e mi sono perso tutte le cose importanti della tua vita: la tua prima parola, il primo passo, il primo giorno di scuola…» dice e vedo Jo che mi sorride, commossa «Ne abbiamo passate tante. Ho rischiato di perderti e di perdere la donna che amo.» aggiunge rivolto a Jo «E sono felice che adesso a prendersi cura di te ci sia anche Don. Sono felice perché finalmente dopo tutto ciò che è successo, anche tu sei felice. E vedere quel bellissimo sorriso e i tuoi occhi brillare mi riempie il cuore di gioia. Non so descrive come mei sento, davvero. Sei cresciuta. Stai cominciando una nuova vita con un uomo che ami.» poi si ferma «L’ultima cosa che voglio dire potrà sembrare scontata, ma in questi ultimi anni ho imparato che nulla è mai scontato.» dice e qualcuno degli invitati, soprattutto i poliziotti, annuiscono. «Ti voglio bene, Lena. Te ne vorrò sempre.»
Le lacrime scendono lungo le mie guance. Non riesco a fermarle. È un discorso bellissimo. Veniva dal cuore. Non poteva fare di meglio.  
«Grazie. E auguri!» conclude. Poi alza il calice e un coro si leva dal tavolo «A DON E LENA!» gridano tutti e i calici si sollevano in un brindisi.
 
Quando arriva il momento di ballare, ad aprire le danze siamo io e Don. Sorrido mentre mi guida sulla pista. La musica parte e lascio che il mio cavaliere conduca la danza.
Mi poggia una mano sul fianco e con l’altra stringe la mia. Io metto una mano sulla sua spalla e i nostri sguardi si incatenano. Ci muoviamo sulla pista senza rendercene conto. Tutto attorno a noi scompare.
«Sei meravigliosa.» mi dice e io sorrido.
«Anche tu sei bellissimo.» rispondo e gli accarezzo una guancia.
«Sognavo da tanto questo momento. Io e te, che balliamo.»
«Siamo marito e moglie. Siamo noi. Non più io e te.» dico. Lui sorride e poi si avvicina a me. Le sue labbra sfiorano delicatamente le mie. Il bacio diventa sempre più intenso e a malapena riusciamo a separarci. Vorrei baciarlo ancora e ancora. Lo amo così tanto.
Lentamente, tutti quelli attorno a noi entrano in pista e cominciano a ballare.
Dopo due melodie, lascio Don che concede un ballo a sua sorella. Sorrido vedendoli insieme. Sono così diversi.
Poi pian piano, quasi tutti gli invitati mi chiedono di ballare. Jeremy, Ian, Joseph, Sid, Sheldon, Danny, Lucy, Adam, Cal, Margaret, Emily e D.B..
Alla fine, l’ultimo a chiedermi un ballo è mio padre. Si avvicina e mi prende la mano. La afferro e raggiungiamo il centro della pista. Mi poggia una mano sul fianco e cominciamo a ballare.
«Grazie.» gli dico, rompendo il silenzio.
Lui sorride e mi rivolge uno sguardo interrogativo. «Per cosa?»
«Per il discorso.» rispondo. La vista mi si appanna. «È stato… bellissimo.» dico e una lacrima mi riga il volto.
«Amore mio, non devi piangere. Non oggi.» mi dice, asciugandomi le guance ormai imperlate di lacrime.
«Sono lacrime di gioia.»
«Basta lacrime, Lena.» mi dice continuando a muoversi sulla pista «Abbiamo pianto troppo.»
Ha ragione, ho pianto troppo. Per mia madre, per mio padre, per James, per Laura…
«Mi manca.» sbotto ad un tratto, non riuscendo a controllarmi.
«Lo so. Manca anche a me.» ribatte. Sa che sto parlando di James. Del nostro James.
«Vorrei che potesse essere qui. Che mi potesse portarmi sulla pista a ballare come hai fatto tu.»
«Amore mio, ascoltami.» mi dice lui sollevandomi il mento con le mani «Lui sarebbe felice per te. Lo sai. Ma oggi è il giorno più bello della tua vita. Devi essere felice.»
Annuisco e mi asciugo le lacrime prima che mi sciolgano davvero il trucco.
«Grazie, papà.» dico e lo abbraccio. Continuiamo a ballare stretti in un abbraccio. Un abbraccio tra padre e figlia. Un abbraccio pieno d’amore.
«Ti voglio bene, Lena. Non scordarlo mai.»
«Anche io ti voglio bene, papà. Sempre e per sempre.»
 
ANGOLO DELL’AUTRICE
Ciao a tutti! Ecco, come promesso, il penultimo capitolo. È interamente dedicato al matrimonio e penso che molti di voi saranno molto felici!
Spero tanto che vi piaccia, ci ho messo molto impegno a scriverlo e, per essere modesta, devo dire che ne sono abbastanza soddisfatta! ;D
Il prossimo capitolo sarà l’ultimo, ma non vi libererete di me molto facilmente. Sto già cominciando a scrivere il seguito! Non vorremo tralasciare la vita coniugale dei due piccioncini dopo tutte queste disgrazie? xD
Fatemi sapere cosa ne pensate!
Lascio le lacrime e i ringraziamenti per l’ultimo capitolo!
A sabato! Izzy, xX__Eli_Sev__Xx

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Capitolo 31
*** Capitolo 31 ***


Always and forever
 
CAPITOLO 31
 
Alla fine della serata, dopo aver salutato tutti i parenti e gli amici, Don mi guida fuori dal ristorante fino alla macchina. Mi aiuta a salire e ci dirigiamo verso casa nostra.
«È stato il giorno più bello della mia vita.» dico, osservandolo mentre guida.
«Anche per me.» ribatte lui «Seguito dal giorno in cui ti ho incontrata per la prima volta.» aggiunge, voltandosi per osservarmi.
Le luci della strada gli illuminano il viso e gli occhi blu. È davvero bellissimo.
Rimaniamo in silenzio e prima che ce ne accorgiamo arriviamo a destinazione.
Lui parcheggia davanti al garage, scende e mi apre la portiera.
Mi porge la mano e mi aiuta scendere. Quando l’afferro è calda e delicata. La stringo e lui chiude la portiera, per poi prendermi a braccetto. Attraversiamo il vialetto e quando arriviamo davanti alla porta, tira fuori le chiavi, la apre e prima che io possa entrare sulle mie gambe mi solleva tra le braccia.
Rido e avvolgo le braccia attorno al suo collo, poggiando la fronte alla sua tempia.
«Benvenuta a casa, signora Flack.» dice mentre mi prende in braccio.
«Non è necessario…» dico sorridendo.
«Invece sì.» mi poggia a terra e mi prende la mano «Non mi sembra vero.» aggiunge.
«Cosa?» domando. Siamo entrambi fermi all’entrata.
«Essere qui, con te.»
«È tutto vero, detective Flack, credimi.» gli dico e poi sorrido.
Lui sorride e insieme saliamo nella nostra camera da letto. Rimaniamo fermi sulla porta per qualche secondo, poi entriamo.
Mi tolgo il velo, poggiandolo sul mobile di fianco alla porta. Don accende le due piccole lampade sui comodini e poi torna accanto a me. Mentre mi tolgo le scarpe, lui tenta di sfilarsi la cravatta, ma senza risultati. Armeggia con il nodo, senza riuscire a slegarlo.
«Chi te l’ha annodata?» chiedo, avvicinandomi, sorridendo.
«Sam.» risponde, con tono eloquente. Sua sorella è davvero forte. In tutti i sensi.
«Accidenti. Ti voleva impiccare?» chiedo, ridendo.
«Forse.» ride anche lui.
Quando riesco a allentare il nodo la sfilo. Proprio quando sto per posarla sulla cassettiera accanto a noi, lui mi tira a sé.
Le sue labbra incontrano le mie e le nostre lingue si sfiorano dolcemente. Il bacio non dura a lungo. Poco dopo, comincio a sbottonargli la camicia e lui fa scorrere la cerniera del mio vestito fino al fondo della mia schiena.
Gli sfilo la giacca e la camicia e lo bacio ancora. Mi sfila completamente il vestito e rimango solo con la biancheria. Lo porto fino al letto e mi sdraio. Lui mi segue e quando indietreggio verso la testiera, mi sgancia il reggiseno.
Quando gli ultimi indumenti sono sul pavimento, la nostra prima notte di nozze comincia ufficialmente.
Siamo noi. Io e lui. Insieme.
Sapere che lui ci sarà sempre e ogni volta che mi sveglierò sarà lì accanto a me, mi rende la persona più felice del mondo.
So che ci saranno momenti difficili. Crisi, litigi, pianti… Ma ho anche la certezza che passeranno e che saremo qui l’uno per l’altra, perché ce lo siamo promessi.
Saremo qui e ci ameremo, sempre e per sempre.
 
The end
 
 
ANGOLO DELL’AUTRICE
Ciao a tutti! Chiedo scusa per il MEGA ritardo! Non sono riuscita a pubblicare, perciò mi scuso.
Allora, questo è il capitolo finale, la storia è giunta al termine e la prima notte di nozze comincia! ;D
Sto scrivendo il seguito della storia, anche se per un po’ non pubblicherò! La scuola mi impegna davvero molto, quindi ci vorrà un po’!
Grazie a tutti quelli che mi hanno ricordato, seguito, preferito e soprattutto recensito tutti i capitoli! Non riesco a credere che sia già finita!! ;(
Il mio pc, non mi ha ancora permesso di rispondere alle recensioni, ma presto lo farò, mi imporrò e ne uscirò vittoriosa.
Rispondo solamente ad alicew in wonderland: sì, quel sempre e per sempre, che hai trovato anche in questo capitolo, era volontario. È da lì che è venuto il titolo della storia!
 
Grazie ancora a tutti! Vi voglio bene!! <3
A presto, la vostra Izzy, xX__Eli_Sev__Xx 

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