What do you desire...?

di Himenoshirotsuki
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Una preghiera per il diavolo ***
Capitolo 2: *** Dammi una chance ***
Capitolo 3: *** Il mio cuore per te ***
Capitolo 4: *** Un posto solo per me e per te ***



Capitolo 1
*** Una preghiera per il diavolo ***


Una preghiera per il diavolo

 

Sulla spiaggia i raggi obliqui del sole accarezzavano il suo viso. Un viso pulito, incredulo. Forse il caldo di quella prematura estate le aveva dato alla testa o forse si era addormentata senza accorgersene e ora stava sognando. La sua mano stringeva quella di lui come per accertarsi che non fosse un semplice scherzo della sua immaginazione. Erano arrivati lì dopo una folle corsa attraverso delle stradine che solo lui pareva conoscere, con il vento che le scompigliava i lunghi capelli serici e che le portava il suo profumo. Osservò nuovamente le loro dita intrecciate, mentre il suo sguardo si perdeva negli occhi di lui, occhi color ambra come il sole a picco sul mare. Lui si voltò sorridendo con quel sorriso irresistibile che lei si era sempre immaginata fin da bambina, quando sua madre le leggeva le vicende degli antichi eroi che avevano combattuto una guerra in nome di una donna bella quanto una dea. Aveva amato le battaglie che si erano condotte per lei e si era meravigliata dell'abnegazione che avevano mostrato quegli uomini. Ma, il suo preferito non era né un Patroclo né un Achille né uno di quei famosi eroi, troppo perfetti per avere un animo umano; il suo condottiero veniva da un'isola pietrosa, senza ori o ricchezze. Se l'era figurato tante, troppe volte il suo viso madido di sudore, su cui campeggiavano due occhi dorati fissi sull'orizzonte, alla ricerca della sua Itaca.
“É possibile innamorarsi di un personaggio di un libro e preferirlo a tutti i ragazzi che mi girano attorno? È una cosa normale sperare di incontrarlo?” si chiedeva frequentemente, mentre camminava sulla battigia godendosi la sensazione della sabbia sulla pelle.
In quei momenti scuoteva la testa frustrata dalle sue stesse risposte, che convogliavano sempre verso un'unica amara constatazione. Ma ora lui era lì, lì con lei. Stavano camminando con i piedi nell'acqua su una spiaggia circondata da un'immensa pineta, lontana da sguardi indiscreti. E lui rideva e la faceva ridere, la fissava ironico facendola arrossire.
“Basta credere alla favole perché diventino reali, allora...“ pensò inebriata.
Volsero entrambi lo sguardo verso il vecchio molo, mentre il vento accarezzava loro la pelle. Non era mai stata così felice come ora, eppure la sua mente era assediata da tante, troppe domande. Giunti vicino alla banchina, si sedettero sul bagnasciuga a scrutare lo sterminato blu del mare. Lei avrebbe voluto domandare, avrebbe voluto sapere come lui potesse essere così simile all'Ulisse delle sue fantasie, chi l'avesse mandato da lei, come facesse a conoscerla e a sapere dove trovarla. Fece per aprire la bocca, ma lui poggiò dolcemente un dito sulle sue labbra, come se le avesse letto nella mente e, dopo aver posato il viso sulla sua spalla, cominciò ad accarezzarle la schiena. Mentre un dolce torpore si impadroniva di lei, un fastidioso ricordo fece capolino nella sua mente. Un ricordo insignificante a cui fino a quel giorno non aveva dato peso, ma al quale però la sua razionalità continuava ad aggrapparsi, cercando di metterla in guardia da quel ragazzo sconosciuto.
Era successo poche settimane prima, quando stava ritornando a casa da scuola. Era stata una giornata come tante e, poco prima che suonasse la campanella, fuori si era messo a diluviare. Alla fine delle lezioni c'era stata la solita calca e lei aveva dovuto farsi spazio tra tutti quei corpi ammassati gli uni sugli altri e, non appena si era liberata, si era avviata a testa bassa verso casa. Sulla strada che di solito percorreva c'era sempre un costante via vai, essendo un punto di raccordo tra il centro e la periferia. Eppure, quel giorno, a parte lo scrosciare dell'acqua, non si sentiva alcun altro suono. Si era guardata attorno, disorientata da quel silenzio così innaturale: non c'erano né macchine né passanti, era come se l'intera città fosse sparita. Improvvisamente, aveva udito dei passi in lontananza e poi un uomo era apparso. Indossava una camicia bianca con sopra una giacca nera a coda di rondine e un paio di pantaloni lunghi dello stesso colore, e in testa un cappello a cilindro traslucido, di quelli che si portavano alla fine dell'Ottocento. Inizialmente aveva pensato che quello strambo passante fosse diretto a una festa in maschera. L'uomo però si era avvicinato sempre più e lei aveva notato che, sebbene non stesse portando un ombrello con sé, i suoi abiti non erano per niente zuppi. Anzi, sembrava che la pioggia non li sfiorasse nemmeno, come se intorno a lui ci fosse una specie di barriera. Era indietreggiata, ad un tratto inquieta. Lo sconosciuto aveva continuato a camminare verso di lei come se nulla fosse. Solo in quel momento la ragazza aveva notato che una cicatrice solcava il suo occhio destro, una cicatrice lunga, bianca, profonda. Quando le era passato accanto, un brivido freddo le era corso lungo la schiena. Si era voltata di scatto e aveva incrociato il suo sguardo. Due occhi neri come onice l'avevano fissata per alcuni brevi istanti.
- Quale soave bellezza ho incontrato. - aveva detto l'uomo avvicinandosi, mentre sul suo volto si dipingeva un sorriso ammiccante. Lei si era guardata freneticamente in giro, come per cercare aiuto, ma non c'era nessuno. Lo sconosciuto, allora, si era inginocchiato ai suoi piedi e le aveva baciato la mano: le sue labbra erano fredde come il ghiaccio. – Non abbia paura, mia piccola lady, non serve che si preoccupi. Non ho intenzione di farle del male. - si era alzato tenendole la mano tra le sue, livide e bluastre, – Sono qui per farle una proposta. -
Lei aveva tentato di sottrarsi a quel contatto, ma quegli occhi sembravano abbattere ogni sua resistenza, occhi simili a quelli di un gatto. O di un serpente.
L'uomo le aveva scostato pensoso una ciocca dietro le orecchie: – Mi chieda quel che vuole e le sarà dato. - aveva detto in tono suadente.
-Chi... chi sei...? - aveva balbettato.
L'ennesimo sorriso accattivante si era disegnato su quelle labbra cianotiche: – Io sono un semplice giocoliere, mia lady. Amo rendere felici le persone con le mie magie da quattro soldi. In passato molti uomini si sono rivolti a me per vedere realizzati i loro desideri. - aveva ammiccato, – E nessuno si è mai lamentato di ciò che gli è stato donato. In cambio chiedo solo una promessa, una misera promessa... - le aveva accarezzato con delicatezza la gola, all'altezza della carotide, – ... ma di questo ci occuperemo a tempo debito. - si era allontanato facendo scivolare le unghie lunghe e curate lungo la sua pelle piena di brividi.
Le ci erano voluti un paio di secondi per riprendersi da quel contatto. Il suo istinto le urlava di scappare, ma le sue gambe la tenevano lì impalata, dilaniata dalla paura e dalla curiosità. La logica faceva a botte con quello che era successo pochi attimi prima, perché se da una parte quel che era accaduto non era razionalmente accettabile, dall'altra era impossibile negare i fatti. E la realtà era che quell'uomo l'aveva inchiodata con un solo sguardo. Forse... forse era davvero in grado di realizzare il suo desiderio.
- Può davvero esaudire qualunque mia richiesta...? - la sua voce pareva un sussurro.
L'uomo aveva sorriso, aggiustandosi il farfallino nero che rendeva ancor più eccentrico il suo abbigliamento: - Certo che posso, mia piccola lady. - aveva avvicinato il viso al suo orecchio, – Dimmi cosa desideri e sarà tuo. -
- Voglio che lui diventi reale... - qualcosa le suggeriva che non sarebbe stato necessario specificare a chi si stava riferendo.
- E sia. - si era tirato via il cappello nero e con l'eleganza di un prestigiatore aveva colpito il corpo del cilindro come per fare una magia.
Aveva atteso alcuni secondi, ma non era accaduto nulla, eppure l'espressione dell'uomo pareva parecchio soddisfatta. Senza proferire parola alcuna, si era rimesso in testa il cappello e aveva fatto per andarsene.
– Aspetta! Dove vai? - aveva esclamato lei, – Mi hai ingannata! -
- Oh, mia piccola e dolce lady, non la ho ingannata. Però non posso darle tutto subito. - aveva ghignato, mostrando una sfilza di denti innaturalmente bianchi, – Purtroppo, ho anche molte altre richieste da esaudire. Ma si fidi, presto lo incontrerà. -
Lei si calmò, stranamente rassicurata.
- Dimmi almeno chi sei e perché hai scelto me. Perché hai accolto la mia preghiera? -
Lo sconosciuto aveva chiuso gli occhi. Quando li aveva riaperti, le era parso di vedere due fessure color cremisi, di un rosso simile a quello delle fiamme vive: – Io ho tanti nomi. Mi attribuiste i connotati di un serpente e la colpa della vostra caduta dal paradiso terrestre, e durante gli anni dell'Inquisizione mi cercaste negli uomini più arguti e nelle donne che preferivano vivere in isolamento, tentando di scacciarmi da questo vostro mondo. Mi chiamaste Memnoch, Belial, Belzebù, Mefistofele e mi nominaste re dei caduti e nemico di Dio. Ma poco importa cosa rappresento per voi: io sono l'alfiere della luce, io sono Lucifero. -L'ombra si era allungata sul marciapiede delineando il profilo di un essere con due enormi ali : - Per quel che riguarda l'avere accettato la sua richiesta, mia lady, diciamo che amo aiutare il prossimo. - si era passato la lingua sulle labbra con fare libidinoso, - Soprattutto anime così pure e innocenti come la sua. -
Lei si era allontanata fino ad andare a sbattere contro il muro, ma lui le era stato subito addosso. Con una mano artigliata le aveva accarezzato gli angoli della bocca come per farla sorridere.
– Questo sorriso... sarà mio per l'eternità. - l'aveva fissata per alcuni attimi, poi si era allontanato lasciandola ansante contro la fredda parete.
La pioggia aveva continuato a cadere, mentre il gelo le penetrava nelle ossa. Poi il buio aveva avvolto ogni cosa.
Al suo risveglio si era ritrovata distesa sul marciapiede e una miriade di facce sconosciute la stavano guardando preoccupate. Quando si era ripresa una donna anziana le aveva detto che era svenuta in mezzo alla strada mentre camminava e che era rimasta incosciente per più di mezz'ora. Le aveva offerto gentilmente delle caramelle, ma lei aveva rifiutato e si era allontanata quasi di corsa per sfuggire da quelli sguardi indagatori. Si era infilata in un vicolo, i capelli fradici che le ricadevano sul volto.
“E' stato solo un brutto sogno, è stato solo un brutto sogno, è stato solo un brutto sogno...” si era ripetuta per placare i folli battiti del suo cuore.
Al calar della sera era tornata a casa e, ignorando le pressanti domande dei genitori, si era rifugiata nella sua camera.
Dopo quell'incidente i giorni si erano susseguiti tutti uguali, finché quella mattina era apparso lui in tutto il suo splendore. Nell'istante in cui aveva scorto il suo viso tra la folla, il respiro le era mancato. Lui le aveva fatto cenno di avvicinarsi e lei come in un sogno si era incamminata verso l'uomo che aveva sempre amato.
E ora erano lì, insieme, forse per sempre. Gli strinse la mano sorridendo, poi entrambi si distesero sulla sabbia. Inspirò nuovamente l'odore di salsedine dei suoi capelli, poi si strinse a lui, addormentandosi tra le sue braccia.

Si svegliò che la luna era ormai sorta nel cielo. Una leggera brezza si alzava dal mare scompigliando i capelli di entrambi. Si scostò le ciocche ribelli dal viso senza distogliere lo sguardo da Ulisse, il suo Ulisse, così rassomigliante a quello che si era immaginata, così perfetto. Lui la attirò a sé con delicatezza e le alzò il mento, intrecciando gli sguardi. Il silenzio attorno a loro era assoluto, come se tutto il mondo fosse in attesa. Trattenne il respiro, mentre le loro labbra si avvicinavano, ma prima che si potessero sfiorare lei indietreggiò inorridita: un rosso cremisi si dipinse negli occhi di Ulisse. Si divincolò dalla sua presa e si mise a correre, i piedi che affondavano nella sabbia rallentandola, la fatica che da subito cominciava a dilaniare i suoi muscoli. Il mostro la guardava da dietro, un sorriso perverso che si disegnava su quel volto fin troppo perfetto. La luna lontana e fredda disegnò il profilo di due figure intente in una spasmodica corsa, poi un urlo riecheggiò nel silenzio del mondo.

- Ora del decesso? -
Il medico legale estrasse il termometro: - Dalla temperatura del fegato direi che è avvenuto poche ore fa. - constatò.
Il sergente guardò il corpo della ragazza riverso a terra. Si avvicinò, cercando di aggirare il mare di sangue che aveva imbrattato la sabbia: – Segni particolari? -
- Difficile a dirsi, Thomas. - alzò un polso e lo osservò con attenzione, - Ci sono dei segni di colluttazione. La vittima ha cercato di liberarsi, ma probabilmente il suo aggressore era molto più forte di lei. - indicò un punto preciso sul petto, – Sicuramente la causa della morte è da attribuirsi a questa ferita: le è stato letteralmente strappato il cuore dal petto. -
Prima di coprire completamente il corpo, lo osservò un'ultima volta.
– Bè, quanto meno è morta felice. - indicò il volto livido della ragazza.
La fredda luce lunare illuminò quelle labbra cianotiche ed esangui, distese in un ultimo dolce sorriso.
 

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Capitolo 2
*** Dammi una chance ***


2

Dammi una chance

 

“Che disastro, che disastro...” 
Micael si rigirò il foglio tra le mani, rileggendo più volte quei numeri preoccupanti.
“Italiano è ok. Sì, insomma... è un 6 tirato, ma è pur sempre un 6. Matematica ed elettronica vanno alla grande, quindi non mi devo fare problemi. Però... il resto... è uno sfacelo. L'ultimo compito di informatica è stato un genocidio per tutti i miei compagni, però se non recupero non mi ammetteranno alla maturità e dovrò rimanere un altro maledetto anno qui dentro!” pensò furioso, “E non potrò portarla via da questo posto...” accartocciò il foglio e poi si prese la testa tra le mani, in preda a un'improvvisa tristezza.
Si era impegnato dall'inizio di quel quinto anno, cercando di conseguire il meglio in tutte le materie, si era ripromesso che non si sarebbe fatto distrarre da nulla e che avrebbe passato l'esame finale se non con il massimo, almeno con 90, così da poter accedere a una delle università migliori della sua città e andarsene finalmente via di casa. In principio tutto era filato liscio, persino i suoi genitori si erano congratulati per l'impegno che ci stava mettendo, felici che finalmente avesse messo la testa a posto, ma poi...
Micael si alzò dal divano e cominciò a camminare per il salotto, soffermandosi a guardare i mobili di cedro, la tappezzeria a fiori e i quadri che suo padre aveva comprato all'asta per delle somme folli. Sotto i suoi piedi, il gelo di quell'inverno fin troppo freddo veniva bloccato dallo spesso tessuto multicolore del tappeto persiano. Si accostò alla mensola vicino al caminetto e passò delicatamente le dita su un vecchio soprammobile in argento raffigurante un uomo e una donna, stretti l'un l'altro durante una romantica danza. Da quando si era imposto quei propositi, la sua vita era diventata tutta casa e scuola. I suoi amici non lo riconoscevano più e, dopo pesanti e insistenti domande, avevano smesso di chiedersi il perché di quell'improvviso cambiamento. Aveva rinunciato anche alla vela, la sua più grande passione, tutto perché lei fosse fiera di lui, per dimostrarle che all'occorrenza sapeva prendersi le responsabilità delle sue azioni.
Accarezzò le labbra argentee della ballerina, tracciandone i contorni con i polpastrelli. Anche quelle di lei erano sottili come quelle della donna in miniatura, ma molto più morbide, calde e appetitose. 
“Lei è sempre appetitosa...” pensò, rigirandosi il suppellettile tra le mani, “bella e appetitosa.” 
Un rombo improvviso lo fece sobbalzare. Si avviò verso le finestre e scostò le tende di broccato. Delle nubi minacciose avevano invaso il cielo, oscurando i freddi raggi di quel sole dicembrino e ora una pioggia scrosciante imperversava sulla città. 
“Meglio. Almeno i miei torneranno ancora più tardi del solito e avrò un po' di tempo da passare con lei.” 
Un altro tuono rimbombò nel silenzio della casa, gettando una luce spettrale in quell'ambiente saturo dell'odore del legno. Tornò a guardare la statuetta e sorrise, pensando a quanto quella ballerina del colore della luna assomigliasse a sua sorella, la sua amata sorella.
Era sempre stato innamorato di lei, fin da quando erano bambini, e la proteggeva da tutti gli altri bulli. Erano sempre stati assieme, da quel che ricordava, dall'asilo fino alle medie, e ogni volta che qualcun altro provava a mettersi in mezzo nel loro rapporto veniva liquidato da gelide occhiate. Quando però avevano cominciato le superiori, la sua attenzione si era rivolta verso ben altro, o almeno aveva dovuto fingere che l'interesse per sua sorella fosse stato smorzato dalla nuova vita da liceale. Studiava quel minimo sindacale per arrivare alla sufficienza, cercando di uscire il più spesso possibile per non vedere quella ragazza dai capelli color del grano che girava per casa con aria sempre sognante. 
Un fulmine squarciò il cielo, distorcendo il volto del Gesù crocefisso in un'espressione grottesca, simile a un sorriso di diabolico compiacimento. Micael fissò il volto del Redentore e i suoi occhi gli parvero pieni di severità e biasimo, come quelli di suo padre quando gli diceva che era un fallito e che nella vita non sarebbe mai diventato nulla. In quei momenti sua madre distoglieva lo sguardo da lui, da quel figlio degenere, non capacitandosi di dove avesse sbagliato. Solo sua sorella non si era fatta scrupoli ad affrontare a viso aperto quelle silenti insinuazioni, difendendolo a spada tratta nonostante il fratello trascorresse la maggior parte del suo tempo a fingere di ignorarla. 
Da quando però al solstizio d'inverno lei si era apertamente dichiarata a lui, Micael non aveva più potuto reprimere i propri sentimenti. Si era avvicinato a sua sorella e aveva raccolto le stille luminose che le rigavano il volto, senza mai distogliere gli occhi da quelli leggermente arrossati di lei. Poi, tremando, l'aveva baciata con gentilezza, stringendo con delicatezza quel corpo sottile, quasi temesse che si potesse spezzare da un momento all'altro. Quella notte di poco più di quattro mesi prima, sebbene i genitori non fossero in casa, non avevano fatto sesso. La luna attraversava le tende leggere della stanza di sua sorella, e Micael, in quell'atmosfera onirica, piena di rarefatta voluttà, si era perso nei suoi occhi. Avvolti in quell'alone di compiuta pace, con i rumori del mondo che lentamente si fondevano in una tenue voce corale, si erano addormentati l'uno accanto all'altro, stretti, vicini. Entrambi sapevano che il loro amore era proibito e che il giudizio e l'opinione comune lo avrebbe etichettato come ripugnante. Erano i presunti colpevoli di un crimine che prima o poi avrebbero commesso, un crimine che li avrebbe trascinati all'inferno, precludendo loro le porte del regno riservato ai puri. 
“Ma ciò non importa, perché saremo assieme.” 
Micael scostò nuovamente la tenda, scrutando attraverso quella miriade di gocce i volti dei passanti. 
“Ma dove diamine è finita? Doveva essere qui mezz'ora fa...” 
Afferrò il cappotto dall'appendiabiti e se lo mise addosso, dirigendosi verso la porta di casa. Si concesse un'ultima occhiata al crocefisso, allo sguardo austero e inflessibile del figlio di Dio.
Se dunque il tuo occhio destro ti fa cadere nel peccato, cavalo e gettalo via da te; poiché è meglio per te che una delle tue membra perisca, piuttosto che vada nella Geenna tutto il tuo corpo...*” recitò nella sua mente. 
- E allora vienimi a strappare il cuore, bastardo, - sussurrò sogghignando. 
Poi uscì sotto la pioggia battente, maledicendosi poco dopo per aver dimenticato l'ombrello.
Schermandosi con un braccio, si fece largo tra la folla e procedette per le strade in direzione della scuola di lei, mentre l'acqua gli penetrava fin nelle ossa.
Al semaforo dell'incrocio si fermò in attesa che scattasse il verde. Il suo giubbotto era ormai irrimediabilmente zuppo, come anche gli altri abiti, perciò anche se si fosse messo a correre per fuggire a quelle lacrime celesti non sarebbe cambiato nulla. 
Improvvisamente, sentì qualcuno toccargli il braccio. 
- Mi scusi, buon giovanotto, saprebbe dirmi che ore sono? - 
Micael si era voltato rimanendo piuttosto sorpreso dall'aspetto bizzarro del suo interlocutore. L'uomo che gli aveva appena rivolto la parola indossava un farsetto di raso bianco con una giacca a coda di rondine e un paio di pantaloni aderenti in satin crema, e In testa portava un lungo capello a cilindro di pelle nera. Micael osservò quello strambo signore per alcuni istanti, chiedendosi se avesse tutte le rotelle a posto per vestirsi in quel modo. 
- Uhm... - alzò il polso, scoprendo la manica del giubbotto, - No, mi spiace, ho dimenticato l'orologio a casa. -
Lo sconosciuto sorrise accondiscendente. 
– Male, ragazzo, male. Alla tua età bisognerebbe sempre tenere sotto controllo il proprio tempo. - gli piantò un paio di occhi nero pece addosso, occhi simili a quelli di un predatore. 
Solo in quell'istante Micael si accorse che una cicatrice lunga e distorta gli attraversava la parte destra del volto. I lembi di carne sembravano essere stati ricuciti molto tempo prima, ma i punti di sutura risaltavano lividi su quella pelle cianotica e bluastra.
- Ho qualcosa che fa al caso tuo. - infilò una mano nella giacca e con noncuranza ne estrasse un orologio da taschino. Tenendolo per la catenella dorata glielo porse. 
Il quadrante che recava le ore in numeri romani era stato finemente lavorato con oro e altri metalli, la cassa invece era stata arricchita con vari smalti preziosi. 
Micael indietreggiò, preso da un'improvvisa angoscia. Si strinse nella giacca e si guardò ansiosamente attorno, strabuzzando gli occhi: intorno a lui tutti i passanti erano svaniti come se non fossero mai esistiti, le macchine erano ferme nella strada. Nessun suono, nessun rumore riecheggiava in quel silenzio assoluto, opaco. Il tempo e il mondo erano immobili. L'unica cosa che si percepiva era il continuo e insistente ticchettio delle lancette.
Tic tac, tic tac...
Come attratto da una forza magnetica, Micael prese l'orologio e se lo rigirò tra le mani. Sul dorso, a lettere di fuoco era stata incisa una frase: “Il tempo ti appartiene.”
Alzò lo sguardo, cercando quello del suo interlocutore, quando qualcuno lo urtò.
- Ehi, che diavolo fai fermo qui? Non vedi che la gente ha fretta? - 
Micael si riscosse. L'uomo che gli era venuto addosso indossava un lungo cappotto nero e portava sottobraccio una ventiquattrore. Lo scostò con malagrazia, borbottando qualcosa riguardo all'educazione dei giovani, e attraversò la strada.
“Ma... ma cosa è successo?” 
Micael si guardò a destra e a sinistra. Chi camminava con tranquillità, chi parlava al telefono, studenti di ritorno da scuola che correvano a casa. La città era tornata immersa nel solito via vai. Tastò il freddo metallo del coperchio con i polpastrelli, senza più capacitarsi di cosa fosse successo: l'uomo, quella voce suadente, il vuoto attorno a loro...
“Non può essere accaduto...” pensò, mentre si infilava in un vicolo, lontano dalla calca. Poggiò la testa contro il muro e lasciò che l'acqua corresse sul suo viso, che gli lavasse via l'inquietudine e il ricordo di quegli occhi neri, profondi come l'abisso.
Portò l'orologio vicino al volto. Le lancette segnavano le 17.30.
“Magari funziona... magari il tempo è davvero mio ora.” 
Premette il tasto sulla sommità della cassa, fermando la loro folle corsa. Nel momento stesso in cui il ticchettio si interruppe, ogni rumore cessò. Micael guardò verso l'alto: sopra di lui, come immortalate in un dipinto, stavano immobili le gocce di pioggia. Sfiorò una di quelle stille cristalline e questa si sfaldò tra le sue dita. 
- Ma allora... - corse in strada con il cuore in gola. 
Tutte le persone erano ferme, lo sguardo rivolto verso la direzione che stavano percorrendo. Micael vi passò accanto e i loro occhi non si mossero, le loro orecchie non lo udirono. Il respiro dell'universo era stato smorzato da un semplice pulsante.
Si passò le mani sul volto, mentre una risata isterica scaturiva dalle sue labbra. Alzò il volto al cielo e urlando per la gioia esclamò: – Finalmente non avrò più alcun problema! Non sarò più un fallito! - guardò il quadrante dell'orologio con sguardo trionfante, - E adesso si balla! -
Tenne premuto il tasto per alcuni istanti. Come una pellicola cinematografica, tutta la realtà cominciò a riavvolgersi su se stessa. L'uomo che l'aveva urtato tornò al semaforo e dopo averlo spinto ricominciò a camminare indietro fino a sparire in lontananza. E così gli studenti, le macchine, tutti coloro che gli stavano attorno si mossero meccanicamente verso le loro precedenti direzioni, passando da un'espressione all'altra in meno di un battito di ciglia. In pochi istanti il giorno e la notte si alternarono in un folle gioco di luci ed ombre, mentre le lancette percorrevano più e più volte il quadrante delle ore.
Mano a mano che tornava indietro, rivide tutta la sua vita passata, soffermandosi rapidamente su alcune scelte che ora sapeva a quale risultato lo avrebbero fatto approdare e che col senno di poi aveva rimpianto: il colloquio di lavoro andato male, un violento litigio che aveva avuto con genitori, il precedente compito in classe che gli aveva quasi precluso l'accesso alla maturità. Dopo aver infilato il bigliettino delle risposte nell'astuccio del suo lui del passato, guardò l'orologio con aria compiaciuta.
“E' fatta.” 
Nascosto sotto il porticato della sua scuola, si rigirò quell'oggetto miracoloso tra le mani, assaporando il sapore della vittoria. 
“Ora come torno nel presente?” si chiese. 
Una voce simile a un sibilo emerse dalla sua mente, una voce arcana che pareva sussurrare alla sua stessa coscienza: – Basta che premi due volte il tasto... è così facile! -
Micael rabbrividì. Nonostante fosse più gutturale e raschiante, non poteva non riconoscerla. – Come fai a...? -
- Oh, io sono ovunque, ragazzo. Anche nella tua testolina bacata. - sghignazzò divertito, – E ho visto un paio di cosucce che trovo parecchio interessanti, sai? - 
Una mano si strinse improvvisamente attorno alla gola di Micael, mentre una lingua ruvida e calda percorreva il profilo del collo. 
– Che pensieri sconci che hai fatto sulla tua cara sorellina... sei un peccatore nato. La gente come te, quando viene mandata a casa mia, brucia viva per tutta l'eternità. -
Il ragazzo tentò di divincolarsi, ma le dita si strinsero ancora di più, scavando dei solchi profondi nella pelle. Non poteva vedere chi fosse il suo assalitore, ma sentiva di conoscerlo, come una preda conosce il suo antico, sadico aguzzino.
- Quindi è per questo che hai preso l'orologio, per poter portare via la tua amata sorella da casa e sbattertela in libertà! - qualcosa di affilato sfiorò l'orecchio di Micael, mentre un fiato caldo e mefitico si condensava nell'aria.
- Chi... chi sei in realtà? - balbettò, la voce strozzata dalla paura.
- Io? Davvero non hai ancora capito chi sono? - un'unghia nera e arcuata accarezzò delicatamente le sue labbra, ridacchiando sommessamente, – Io sono colui che ti ha portato via la cosa più importante e presto, molto presto, te ne accorgerai. -
L'assalitore lasciò bruscamente la presa. Micael cadde in ginocchio, massaggiandosi la gola e respirando a stento, mentre un fumo nero si disperdeva nel vento gelido. Si volse, cercando l'uomo misterioso, ma non vide nient'altro che un muro di mattoni. 
“Che cosa avrà inteso con 'la cosa più importante'?” un lampo gli attraversò la mente, “Sorella!” 
Preso da un'improvvisa inquietudine, schiacciò due volte il tasto. 
Come poco prima, il tempo si contorse su se stesso per poi riavvolgersi.
“Fai in fretta, fai in fretta!” il battito impazzito del suo cuore copriva qualunque altro suono. 
Se era vero quel che quell'essere gli aveva detto, a quest'ora lei poteva anche essere ferita o peggio, morta.
Quando sul quadrante apparvero l'ora e la data esatte, Micael smise di fare pressione e cominciò a correre a perdifiato verso casa. La pioggia battente che aveva abbandonato giorni o istanti prima lo riaccolse, penetrandogli nelle ossa, sferzandogli gli occhi come mille spilli. 
Sbatté contro un signore che procedeva nella direzione opposta, buttandolo a terra, ma non si fermò. L'aria gli bruciava nei polmoni, le gambe gli dolevano per lo sforzo, la vista gli giocava brutti scherzi. Vedeva nei passanti il ghigno dell'uomo che gli aveva dato l'orologio, sentiva addosso i suoi occhi neri, scuri, ferali. E più cercava di andare in fretta, più la strada pareva allungarsi all'infinito in quella realtà distorta e confusa. 
Arrivò davanti al portone, cercò le chiavi, ma sbagliò più e più volte. Qual'era la chiave? Perché ne aveva così tante? All'ennesimo tentativo, trovò quella giusta. Girò e si fiondò su per le scale, facendo i gradini cinque a cinque fino al terzo piano. Si buttò sulla maniglia e questa si piegò, facendolo volare dentro l'ingresso di casa.
“Era aperta! Era aperta, dannazione!” 
- Sorella! Sorella! - senza più forze, annaspò verso la camera di lei in fondo al corridoio. 

* Bibbia, Matteo 17-29

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Capitolo 3
*** Il mio cuore per te ***


3

Il mio cuore per te

 

Micael strinse nervosamente la mano intorno alla maniglia, senza però riuscire ad abbassarla. Posò l'orecchio sull'uscio per captare un qualsiasi suono che testimoniasse la presenza della sorella. Nessun rumore, il silenzio totale. Forse era arrivato tardi.
Serrò i pugni, scuotendo la testa nel tentativo di scacciare l'immagine del corpo senza vita, stretto nelle rigide spire della morte.
“No... se... se davvero le è accaduto qualcosa, tornerò indietro e aggiusterò le cose. Sì, farò tornare tutto come prima.”
- Come prima... solo io e lei. - balbettò tra sé e sé, cercando di contrastare la sensazione di malessere che gli attanagliava le viscere.
Con il cuore che ancora gli martellava nelle orecchie, abbassò la maniglia.
Come al solito, tutto era in perfetto ordine. L'ultima luce del giorno che filtrava attraverso le imposte abbassate sfumava l'azzurro delle pareti, ammantando l'ambiente di un'atmosfera ovattata, simile a quella dei sogni; il vento gonfiava le leggere tende di raso bianco, facendole sembrare ancora più impalpabili, rarefatte come le correnti durante la bonaccia. Micael fece un passo all'interno, guardandosi attorno nella penombra alla ricerca di qualcosa fuori posto, senza però trovare nulla.
Scoccò un'occhiata all'orologio. Erano le 17.50 precise. Sua sorella sarebbe già dovuta essere a casa da un'ora.
“Forse è andata in soffitta...” pensò, mentre accarezzava le lenzuola profumate, pregne dell'odore di lei.
Quando erano piccoli, amavano giocare a nascondino in quella stanza polverosa e piena delle più disparate cianfrusaglie che i loro genitori avevano accumulato negli anni. Era il loro posto segreto, un porto sicuro dove potevano trovare asilo quando fuori imperversava la tempesta. Stretti l'uno all'altra, con solo una torcia dalla luce incerta, si leggevano le storie che più li entusiasmavano, o meglio quelle che piacevano a sua sorella. Era fissata con un eroe in particolare: Ulisse. Micael non capiva il perché di quell'attaccamento quasi morboso a un personaggio di un libro. Quando gliel'aveva chiesto, lei aveva sorriso e gli aveva detto che quell'uomo così umile e astuto gli assomigliava, che ogniqualvolta Micael le leggeva delle sue imprese non poteva fare a meno di pensare a lui.
- E poi, sua moglie si chiama come me... - ricordava che si era stretta ancora di più al suo petto, tremante a causa del freddo che penetrava da quella consunta coperta nella quale erano avvolti.
L'aveva guardato e lui si era sentito annegare in quegli occhi liquidi, così diversi a suoi, color dell'oro fuso. Mare e sabbia, sole e oceano.
– Ti aspetterò per sempre, mio Ulisse... - la sua voce si era confusa con il sibilo del vento, - Sempre... -
Una lacrima sgorgò dal suo occhi destro, correndo delicatamente lungo la guancia fino all'incavo del collo. Micael rivolse lo sguardo al crocefisso sopra la testata del letto e inaspettatamente si ritrovò a pregare, a sperare che Dio gli parlasse e che lo rassicurasse come suo padre non aveva mai fatto. Ma Dio era adirato.
Un leggero rumore di passi provenienti dal piano di sopra di lui lo fece tornare alla realtà. Lasciò da parte la soffice coperta, alzando il volto verso il soffitto. Non appena aveva confermato che quella camera era vuota, aveva subito capito che il secondo luogo dove avrebbe dovuto cercarla era la soffitta, eppure aveva voluto ritardare il più possibile il momento della verità.
In lontananza l'ossessivo suono delle campane della Chiesa sembrava accusarlo e giudicarlo, implacabile.
“Le porte del regno dei cieli non si apriranno per te.”
Uscì dalla stanza e cominciò lentamente a salire le scale.
Sentiva lo stomaco stretto per l'angoscia, ma continuava ad avanzare svelto. Arrivato davanti alla porta della soffitta fece per chiamare la sorella, ma si trattenne: non era sicuro che la persona dall'altra parte fosse veramente lei.
- Penelope. - sussurrò quel nome caro, troppo piano perché qualcuno potesse sentirlo. Era un suono delicato, caldo come il sole primaverile.
Dentro la stanza qualcuno stava ridendo, una risatina sommessa, rauca. Micael rabbrividì nel constatare che la voce non apparteneva a nessuno che lui conoscesse. Poi calò di nuovo il silenzio, un silenzio rotto solo dal ticchettio dell'orologio che aveva ancora in tasca.
Tic tac, tic tac...
Con il sudore che gli rendeva le mani scivolose ruotò il pomello.
La porta si aprì cigolando sui vecchi cardini.
Un brivido risalì lungo la schiena di Micael e la voce gli morì in gola, quando la vide. Penelope, la sua amata Penelope era seduta su un vecchio divano, abbracciata a un ragazzo dai capelli dai riflessi dorati. Osservò quelle mani bramose percorrere il profilo dei suoi piccoli seni, le loro lingue intente in una sensuale danza. Mani e lingua che non erano le sue.
- So-sorella...? - le parole uscirono tremanti, incerte.
La ragazza si girò. Una ruga di disappunto le si dipinse sul volto, mentre le labbra si increspavano in una smorfia di disprezzo. Micael strizzò gli occhi, trattenendo a stento le lacrime che premevano per uscire.
- Ah, sei tu. - Penelope fece cenno al ragazzo sconosciuto e questi uscì, non senza avergli prima gettato un'occhiata furiosa.
- Chi... chi era lui? Cosa stavate facendo...? - 
Persino per lui quella domanda era stupida, era ovvio cosa stessero facendo e che era arrivato nel momento sbagliato. Lo poteva scorgere negli occhi irati di sua sorella, nel suo tono di voce. Però, lui doveva capire, trovare una spiegazione...
Penelope lo fissò per alcuni istanti. Era come se il tempo avesse smesso di scorrere.
- Era il mio fidanzato, fratellino. Chi vuoi che fosse? -
- Come il tuo fidanzato? Di che fidanzato parli? -
Sul viso della sorella si dipinse un sorriso sarcastico. – Ma sei rincoglionito? Devo farti un disegnino per fartelo capire? -
Micael fece un passo verso di lei, il volto congestionato dalla rabbia. – E da quando hai un altro fidanzato? - l'ultima parte della frase gli uscì in un ringhio.
Penelope incrociò le braccia al petto, con fare strafottente. – Da circa due mesi. Ma poi, cosa te ne frega a te da quanto sto con lui? Fino ad oggi non mi hai mai calcolata, impegnato com'eri con la scuola e la vela. E ora mi vieni a fare l'interrogatorio su chi frequento e con chi mi porto a casa? Ma chi ti credi di essere? -
All'improvviso gli tornarono alla mente le parole dell'essere che poche ore prima l'aveva ancorato al muro, il tono tagliente e beffardo con cui le aveva sibilate.
“No... no...” si mise le mani sulle orecchie, per non sentire quel che la sorella stava per dire. 
Guardò nuovamente quegli occhi azzurri, ora gelidi come il ghiaccio, senza più alcuna traccia dell'amore che un tempo avevano condiviso.
Prima che Penelope potesse aggiungere qualcosa, si girò e scappò via. Corse a perdifiato giù per le scale, saltando i gradini, cercando di allontanarsi più in fretta che poteva. Non ricordava di avere mai avuto così tanto fiato in vita sua, così tanta forza in quelle gambe magre e sedentarie. Sua sorella l'aveva sempre preso in giro per la sua lentezza quando giocavano ad “Acchiapparella”. Lei correva come il vento, mentre lui a stento riusciva a starle dietro. Alla fine di quelle rincorse, lui stramazzava sulle gambe di lei, esausto, ansante e felice. 

“Sei un polentone! Se continui a dormire a basta, non riuscirai mai a prendermi.”
“Perché mai dovrei faticare come fai tu? Ne basta uno che sappia sfrecciare via veloce.”
“Ma come perché? Se un giorno arriveranno gli zombie, dobbiamo salvarci entrambi!”
“Quanto sei infantile. Gli zombie non esistono.”
“Non sono infantile. Io ti amo, Micael. Anche se nostra madre dice che è contro natura, anche se il nostro è un sentimento proibito e sbagliato, io non posso fare a meno di amarti. Sono tutti bravi a giudicarci brandendo come arma un comune senso di moralità che ci costringe a sottostare a regole che altri hanno deciso per noi. Ma nessuno di loro può capirci veramente: siamo noi che soffriamo per amore, siamo noi che veniamo feriti. Io ti amo davvero, fratello, non mi importa se per questo non potrò andare in paradiso. Preferisco mille e mille volte ancora bruciare all'inferno, piuttosto che strapparmi questo cuore dal petto. Il nostro Eden, fratello, sarà una terra abbandonata da Dio, dove nessuno ci conosce, dove nessuno ci additerà come peccatori. Un luogo oltre il filo spinato, solo per me e per te.”


Il cuore parve rompersi al ricordo di quelle parole dimenticate, mai pronunciate. Micael aprì la porta di casa e si fiondò fuori, sotto la pioggia leggera. Ora anche il cielo stava piangendo per lui. Era tutto chiaro, così tragicamente chiaro: aveva perso sua sorella, il suo amore. Tutto quello che avevano vissuto, detto, promesso era sparito come neve al sole. Ed era soltanto colpa sua, sua e della sua stupidità. A Penelope non era mai importato che lui non andasse bene a scuola, che non riuscisse ad avere un buon rapporto coi loro genitori o che non fosse un gran lettore. A lei bastava che lui rimanesse con lei per sempre...
Ad un tratto qualcosa lo urtò, facendolo rovinare a terra. Quel qualcosa era un ragazzo alto e ben piazzato, dai capelli dorati come la sabbia. Micael si rialzò a fatica, asciugandosi le lacrime che gli rigavano le guance.
- Oh... ti sei fatto male? Scusa, credo proprio di non averti visto, sai? - sogghignò divertito, le labbra increspate in un sorriso crudele. Un sorriso che Micael ricordava fin troppo bene.
- Lurido bastardo... se l'hai toccata, io...-
- Tu cosa, eh? Ma guardati, sei ridicolo con quegli abiti inzuppati di pioggia e gli occhi arrossati. Credi di potermi fare paura? - il bianco degli occhi venne inghiottito da una pupilla più scura, mentre l'iride diventò di un rosso intenso.
Micael guardò dritto in quei laghi rossi. – Perché mi hai fatto questo? Io volevo solo dare una vita migliore a mia sorella. -
Una risata sguaiata riempì l'aria. – Se davvero pensi di aver fatto tutto questo per tua sorella, ti sbagli di grosso. Voi umani non siete capaci di amare nessun altro a parte voi stessi. Vi ammantate delle più belle parole, ma in realtà nascondete i vostri veri desideri negli angoli più reconditi del vostro animo. -
- Io non ho mai nascosto nulla! Non infilarmi tra i perbenisti, Satana, perché sono tutto tranne che un ipocrita rivestito da una cappa dorata. -
- Ci diamo alle citazioni intellettuali, Micael? Non ti credevo così dotto... oh, aspetta: il Micael del passato non lo era, tu sì. – ghignò, mentre gli girava intorno come un leone pronto a scattare sulla preda. 
Ma Micael non aveva paura. Non poteva permettersi quel lusso.
- Ridammi Penelope... - il timbro glaciale con cui proferì quell'ordine sembrò fendere l'aria.
- E se non volessi? Cosa faresti, mio caro ragazzo? -
Micael tirò fuori l'orologio da taschino. – Me la riprenderò coi tuoi stessi mezzi. - 
Premette il bottone sulla sommità prima che il diavolo potesse aggiungere altro. Le lancette si bloccarono un istante e poi cominciarono la loro folle corsa all'indietro, mentre i numeri sul datario cambiavano rapidamente. Per un battito di ciglia la realtà si contorse nel tentativo di opporsi a quell'ordine innaturale, ma poi tutte le cose obbedirono alla tirannia dell'orologio.
Si fermò nuovamente alla stessa ora in cui aveva apportato i cambiamenti che avevano generato quella tragica situazione. In quel momento, si chiese perché il diavolo non si era opposto in qualche modo. In fin dei conti stava per rimettere le cose al loro posto, rovinando tutti i suoi piani.
“Forse non se lo aspettava...” tentò di convincersi, mentre faceva sparire il bigliettino dei suggerimenti dall'astuccio del suo vecchio lui. 
Non era così ingenuo da credere a quell'eventualità, però era l'opzione più verosimile che gli fosse venuta in mente.
Man mano che correggeva i suoi errori, il dubbio si insinuava sempre di più in lui. 
“E se fosse tutto quanto calcolato?” pensò, dopo aver chiuso la chiamata con cui disdiceva l'appuntamento con un suo amico. 
“E se fosse quello che lui voleva fin dall'inizio?” si domandò, mentre spegneva la sveglia che l'avrebbe fatto ritardare al colloquio di lavoro di quel giorno. “Non è possibile, è un ipotesi assurda! Se così fosse, significherebbe che tutto quello che ho fatto è comunque inutile...” 
Micael non voleva crederci. Per quanto effimero, voleva mantenere vivo quell'ultimo barlume di speranza.
Con il cuore in subbuglio tornò nel presente. Com'era prevedibile, lo riaccolse la solita pioggia battente a cui ormai Micael era abituato. Si volse per tornare a casa, quando una foto di una ragazza dai capelli biondi e gli occhi azzurri su un giornale immerso in una pozzanghera attirò la sua attenzione. Con lo stomaco stretto per l'angoscia tirò su quel foglio fradicio. La maggior parte delle lettere era stata cancellata dall'azione dell'acqua e i colori dell'immagine erano tutti sbiaditi, ma Micael l'aveva comunque riconosciuta: Penelope. 
“Trovato cadavere di ragazza di diciassette anni... brutalmente uccisa...” lesse la testata dell'articolo, le mani che gli tremavano, gli occhi dorati pieni di orrore. “No... no... non è possibile! No! Non può essere accaduto sul serio!”
Butto il giornale a terra e riprese a correre. Man mano che si avvicinava il cuore batteva sempre più forte, come se stesse per scoppiare da un momento all'altro. Dopo aver aperto il cancello, salì le scale più in fretta che poté, fino ad arrivare davanti alla porta di casa. Era socchiusa e dall'interno usciva un piccolo spiraglio di luce. 
Micael rimase immobile per alcuni secondi, mentre cercava di tornare a respirare normalmente. Aveva l'impressione di non avere abbastanza aria, come se l'ossigeno non riuscisse a riempirgli i polmoni affaticati.
Sospinse la porta, facendola scivolare silenziosamente sui cardini. La prima cosa che notò fu il silenzio sepolcrale e il freddo che avevano pervaso l'ingresso. Un freddo acuto, di quelli che raschiano le ossa: era come se l'inverno fosse stato suo ospite per interni giorni. Stringendosi nella felpa, Micael fece un passo all'interno e dopo essersi guardato intorno, si avviò verso il salotto e la cucina. Entrambe le stanze erano deserte e gelate.
Con i piedi pesanti e le dita che lentamente perdevano sensibilità si avviò verso la camera di lei. 
Perché i suoi genitori non c'erano? Lui aveva bisogno di capire, di sapere com'era morta, chi le aveva fatto questo, quando era successo...
Entrò nella stanza e le ginocchia cedettero. Con le ultime forze rimaste si appoggiò con la schiena al letto, lo sguardo rivolto al crocefisso sopra la testata.
“Perché non l'hai salvata...? Lei era pura, non meritava quella fine.” incontrò gli occhi severi del Cristo, la sua espressione imperturbabile e scostante.
- Perché non l'hai salvata?! - urlò, mentre lacrime calde gli rigavano il volto ormai freddo, - Perché... perché, Padre? Perché...? - il suo pianto si perse in quel gelido cenotafio. 
Guardò l'orologio: le 18.00 precise.
Fece per chiudere gli occhi, quando udì un leggero rumore di passi alla sua destra. Spostò lo sguardo sulla porta, in attesa. Era così difficile resistere, continuare a lottare per qualcosa che ormai sapeva di aver perduto. Eppure, in mezzo a quel freddo, qualcosa gli diceva di continuare, che non era ancora finita, che poteva ancora sperare.
Dopo un tempo indefinito, sulla soglia apparve una figura che cominciò ad avvicinarsi. Non era sufficientemente vicina perché Micael riuscisse a riconoscerla, ma sentiva il calore tornare a irradiargli il corpo. Gli occhi blu arrivarono prima di tutto il resto; occhi color dell'oceano.
- Penelope... - sussurrò, mentre il respiro gli danzava davanti in nuvolette di vapore freddo. 
Allungò le mani livide, sfiorando appena i capelli color del grano. Lei gli sorrise, accarezzando le sue dita infreddolite, incapaci ormai di percepire alcuna forma di calore.
- Sei...sei tornata per me... -
La sorella si avvicinò, schioccandogli un leggero bacio sulla pelle cianotica. 
– Diciamo di sì... -
Micael sentì il respiro mancargli e poi un atroce dolore lo pervase. Avvertì un fluido caldo inzuppargli i vestiti e si trovò a boccheggiare per respirare. Ma i polmoni non funzionavano più e l'aria si era come rarefatta. 
- So-sorella, per-perché...? - esalò, mentre guardava le mani insanguinate di Penelope che stringevano il suo cuore ancora pulsante. 
Cadde di lato come una marionetta a cui erano stati recisi i fili. Prima che il buio calasse definitivamente sui suoi occhi, cercò per l'ultima volta quelli della sorella: due fiammelle rosse in mezzo a un baratro nero. 

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Capitolo 4
*** Un posto solo per me e per te ***


4

Un posto solo per me e per te

 


Bianco. Un immenso spazio di un bianco splendente, quasi accecante.
Micael si guardò intorno, disorientato. Poi improvvisamente ricordò: il sangue, il freddo, gli occhi ferali di sua sorella. Nel panico, si tastò il petto, incontrando solamente la pelle integra e liscia. Che fosse davvero stato tutto un incubo? 
Si alzò in piedi e cominciò a camminare, facendo spaziare lo sguardo in quel non-luogo in cui regnava un piacevole tepore, simile a quello che provava quando sua madre lo cullava per farlo addormentare. 
Lentamente si sentì avvolgere da un leggero torpore, tanto che cominciò a credere di essere solo spirito, libero dalle catene corporee e dalle costrizioni fisiche. Inspirò profondamente socchiudendo leggermente gli occhi, come narcotizzato da quella sensazione di pace che mai in vita aveva provato. Tutti i ricordi intessuti nella sua memoria cominciarono a dissiparsi, sostituiti da un nuovo vuoto mentale, e così anche la rabbia, la frustrazione e la vergogna cessarono di esistere: sotto quella luce splendente sembrava non esserci posto per nessuna di quelle emozioni negative. Soltanto un pensiero rimase nella sua mente, un pensiero che Micael sapeva essere importante. Scivolando fuori dalla sua bocca, un nome pieno di ombre emerse dalla nebbia dei ricordi.
- Penelope... - sussurrò, – Penelope... -
Una mano si posò sulla sua spalla, una mano calda e gentile. Micael si voltò, incontrando due occhi liquidi, azzurri come l'oceano. Prima che potesse dire qualcosa, le labbra di quella ragazza dai capelli color del grano maturo si posarono sulle sue, schiudendole leggermente e cominciando un lento ballo con le loro lingue. La sua pelle emanava un odore inebriante, simile a quello dei gelsomini durante le lunghe notti d'estate che inondava la loro vecchia casa. La strinse a sé tremando, suggendo quel nettare proibito e peccaminoso. 
Come era stato cieco: Amore, il più saggio degli dei, gli aveva consegnato il cuore dell'unica donna che era stata in grado di accettarlo per quello che era, mentre lui si era reso responsabile di un incalcolabile numero di errori. La negligenza, l'iniziale indifferenza e la sua grossolana stolidità avevano condotto entrambi verso quella misera fine. Si allontanò da lei con le lacrime che già correvano lungo le sue guance: come aveva potuto trascinarla con sé in quel baratro? Come poteva quell'essere che aveva oltraggiato provare ancora anche solo un briciolo di affetto per lui?
- Penelope, io... io... - inspirò, cercando di fermare i singulti che gli scuotevano il petto, - io non volevo. Devi... ti prego, perdonami... -
La sorella raccolse una delle stille luminose, mentre un sorriso sincero si dipingeva sulle sue labbra. – Micael, tu non mi devi chiedere scusa. So che volevi solo offrirmi una vita migliore, in cui entrambi saremmo potuti essere felici. - gli prese la mano tra le sue, piccole e delicate, – Come so che adesso odi te stesso più di colui che ci ha portati fino a questo punto. Riesco a vedere il fiele che fermenta nel fondo della tua anima, mescolandosi all'amore e alla dolcezza di questo momento. Ma per noi non ci sarebbe stato posto nel mondo dei vivi, non avremmo mai trovato un paese che avremmo potuto definire casa. Avremmo vissuto alla deriva, sballottati dalle correnti della vita, rifiutati da ogni popolo per via dei nostri osceni sentimenti. Per quanto sia orrendo ammetterlo, questa morte è stata una specie di dono. -
Micael si asciugò le lacrime. – Penelope, però cosa ti è successo? Perché anche tu sei...? - si morse le labbra, abbassando lo sguardo, - Perché sei qui con me? Sono così confuso... -
La sorella gli alzò delicatamente il volto per far sì che i loro sguardi si incontrassero di nuovo. E Micael non poté fare altro che lasciarsi accarezzare da quelle onde azzurre.
- Perché a noi, Penelope? Perché? - sussurrò ancora.
Prima che lei potesse dire qualcosa, una voce maschile che sembrava provenire da ogni direzione riecheggiò in quel luogo senza tempo. – E' inutile che perdi tempo a chiedere a tua sorella del motivo di tutto questo, non può saperne di più di quello che sai tu. E' un'anima nuova, che non può aver già compreso la crudeltà del destino. -
I due fratelli si girarono e videro due figure indistinte emergere dalla luce e avvicinarsi a loro. Chi aveva parlato era un uomo alto dagli occhi di un marrone caldo, con delle piccole schegge dorate, e una rada barba incorniciava un viso bonario e gentile, premuroso come quello di un padre. Ma fu soprattutto la donna che gli camminava a fianco a catturare l'attenzione di Micael: aggraziata e armoniosa, in tutto e per tutto simile a Penelope. 
Si fermarono a pochi metri da loro, scrutandoli con severità. Rimasero per alcuni istanti così, immersi negli occhi di quei due sconosciuti. 
Come per farsi forza, l'uomo strinse la mano di quella donna dagli occhi argentei e si fece avanti. – Voi siete ciò che lui brama più di ogni altra cosa. In voi c'è una parte di noi, ultimo lascito della nostra esistenza. I nostri corpi e le nostre anime ardono nelle fiamme infernali, ed è solo grazie a questo frammento che riusciamo a parlarvi. Dopo aver atteso che le nostre anime tradissero il legame che le univa, il Diavolo ci trascinò all'inferno, dannandoci per l'eternità. -
Micael li guardò entrambi, confuso. – Aspetta... di che stai parlando? Chi siete voi? -
La donna sorrise e gli fece segno di attendere. – Noi siamo Penelope e Ulisse e voi siete solo le vittime di un gioco perverso, un gioco indetto dal Diavolo per prendersi ciò che non riuscì ad avere molto tempo fa e che mai avrà. -
- Sì, ma perché siamo qui? Ha strappato ad entrambi il cuore! - prese un respiro profondo, cercando di mettere in ordine tutte quelle informazioni.
I due antichi spiriti si guardarono, poi Ulisse continuò: – Nel momento in cui vi siete scambiati il primo, vero bacio, vi siete anche scambiati le rispettive anime. Nessuno può rompere la catena che le lega se non voi due. -
- Ma quando io sono tornato indietro nel tempo, Penelope non si ricordava più di ciò che significavo per lei... la promessa di cui parlate era come se non fosse mai stata pronunciata... -
Il vecchio re lo soppesò con espressione indecifrabile, prima di rispondere. Quando riprese, la sua voce si era fatta seria, ma non per questo scostante. Anche se lo conosceva solo di nome, Micael avvertiva che tra di loro c'era un legame ancestrale, difficile da definire. Nei suoi occhi color sabbia, nei sul modo di parlare... era come se fosse partecipe della sua disperazione. 
– Le anime, come gli dei onniscienti, non risentono degli sbalzi temporali. Per quanto tu possa cambiare il tuo vissuto, quella promessa permane finché entrambi i vostri spiriti desidereranno l'altro. Noi... - inspirò profondamente, mentre lasciava vagare lo sguardo intorno a lui, – noi un giorno ci dividemmo. Io abbandonai Penelope per un'altra donna, lasciandola con il nostro figlio appena nato. Non so perché lo feci, so solo che non appena me ne andai, il Diavolo corse da noi e ci trascinò nel suo regno, senza lasciarci via di scampo. Eravamo delle anime appetitose, un bersaglio irresistibile per una creatura che vive cibandosi della disperazione altrui... - la sua voce si fece greve. 
Micael poté scorgere quanta sofferenza si celasse dietro quegli occhi simili ad oro liquido. 
- Ma per voi è diverso. Voi vi siete sempre voluti. Inconsciamente eravate ognuno alla ricerca dell'altro, in ogni realtà temporale creata ogniqualvolta Micael tornava indietro, la promessa non è mai stata infranta. -
- Persino il Diavolo, per farsi desiderare dalla tua amata sorella, ha dovuto prendere delle sembianze simili alle tue. - aggiunse sorridendo Penelope.
Con il cuore in gola entrambi i fratelli si fecero avanti. – Cosa ne sarà di noi, allora? -
L'antica coppia strinse loro le mani, come per confortarli, mani calde e premurose, mani di chi desiderava la loro felicità. 
– Vivrete per l'eternità in questo limbo situato tra il bene e il male, un luogo creato dal rifiuto di Dio e dalla fuga da Satana. Un luogo oltre il filo spinato, un luogo solo per voi due. -

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