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di AlexisLestrange
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** prologue ***
Capitolo 2: *** chapter I ***
Capitolo 3: *** chapter II ***
Capitolo 4: *** chapter III ***
Capitolo 5: *** chapter IV ***



Capitolo 1
*** prologue ***


prologue




Una brezza gelida penetrò attraverso le finestre aperte dell'appartamento, scostando appena le tende,
in un fruscio. John chiuse gli occhi, e premette il proprio corpo contro quello di Sherlock, sentendo la propria
pelle aderire perfettamente alla sua -nel farlo, avvertì il respiro dell'altro lasciarsi sfuggire un
gemito, e abbassò lo sguardo. Dio, quanto aveva aspettato quel momento, quanto lo aveva voluto,
quanto lo aveva desiderato.

Si chinò su di lui e gli baciò il petto, quella pelle pallida, sentendo le ossa della cassa toracica contro
le proprie labbra, e poi risalì, annidandosi lungo l'incavo del collo, per poi salire ancora, cercando la
bocca di lui con la sua. S'incontrarono, e Sherlock gli tenne stretta la nuca tra le dita sottili,
spingendolo contro di sé mentre si baciavano, più a lungo, più a fondo. John sentì il suo respiro
dentro la propria bocca, gli infilò le dita tra i capelli neri, come aggrappandovisi, mentre premeva il
bacino contro di lui, con più forza, sentendo la stretta di Sherlock su di lui farsi più serrata, e la sua
bocca lasciarsi sfuggire un'esclamazione di piacere.

Era stato così naturale, così spontaneo, così istintivo, John non ricordava neppure come fosse
accaduto. Era stata la distanza, si ritrovò a pensare mentre lasciava andare la presa stringendo tra le
dita il bordo del lenzuolo, quella dannata distanza che li aveva tenuti lontani per anni, quell'assenza che
gli si era infiltrata fin dentro alle ossa, come impregnandolo di una pesante angoscia che pareva non
poterlo più abbandonare. Ma poi era tornato, lo aveva visto, era lui, era vivo, ed ora era suo, tutto
suo; gli avvolse di nuovo le mani intorno al collo, scorrendole sulla pelle di lui, e sentì Sherlock
emettere uno strano suono -che stesse sorridendo? Lui aveva capito, aveva sempre capito tutto,
capiva quanto gli fosse mancato e come non avesse potuto farne a meno, come non avesse potuto
fare altro. Pareva che entrambi sapessero, che avessero saputo fin dal principio che era lì che
dovevano arrivare, le dita intrecciate in una presa salda mentre le loro labbra si cercavano ancora ed
ancora, e che si fossero solo smarriti durante il percorso, senza sapere quale strada imboccare.

Ma John lo aveva sentito, quel desiderio ardente ed impulsivo che gli aveva bruciato il petto in
quegli ultimi anni, e aveva saputo che era giusto, e Sherlock lo aveva capito, e non era sembrato
strano a nessuno dei due. Come fossero mossi dallo stesso, identico, impulso, e tutto quello che
avevano dovuto fare era smettere di farsi domande. Smettere di combatterlo.

Ci era voluto tanto per capirlo, pensò John deglutendo con un brivido, e subito il tocco
inaspettatamente gentile delle mani di Sherlock gli sfiorò la pelle, come cercando di sondare il
problema, come sapessero di essere la soluzione. John strinse quelle dita tra le sue, se le portò
vicino al viso, quelle sottili e lunghe dita da scienziato, quelle dita che aveva visto maneggiare
rapidamente le cose più strane, e che ora poteva prenderle, che ora gli appartenevano, come tutto
lui, e nello stesso modo in cui si dava a Sherlock, completamente, ad occhi chiusi, al buio, con solo
la luce della luna che filtrava dalla finestra insieme al vento freddo, che non poteva più nuocergli.

Sentì Sherlock sollevare appena la testa, tenendosi stretto al corpo di lui come facendosi leva, per
poi infilare le braccia sottili attorno al corpo di lui e stringerle a sé, avvolgendosi in quell'abbraccio,
e John capì che ne aveva bisogno almeno quanto lui, e di nuovo si avvicinò, congiungendo il petto
con il suo, sentendo il respiro di Sherlock alzarsi ed abbassarsi contro al suo bacino, e il cuore di lui
battere sul suo -o era la sua immaginazione?

No, era lì, era reale, e John non lo avrebbe più lasciato andare, non glielo avrebbe permesso, non
ora che aveva capito che non era possibile un'esistenza senza di lui, non ora che si era visto disposto
a lasciare tutto, tutta la vita che aveva cercato disperatamente di costruire, pezzo dopo pezzo, solo
perché lui era tornato, perché lui era di nuovo vivo, era di nuovo là per lui.

Sherlock si lasciò cadere con un gemito sul cuscino, chiudendo appena le palpebre, e John scivolò
silenziosamente al suo fianco, per poi percorrere con un dito il profilo del suo viso, lentamente,
delineando mentalmente ciò che il buio non gli permetteva di vedere, ma che ormai conosceva a
menadito, ogni dettaglio. La lasciò scorrere fino al suo petto, sentendo di nuovo le linee delle sue
ossa, la pelle tesa. Rilassò la mano, aprendo le dita, e rimase là, a sentire il suo respiro alzarsi ed
abbassarsi, finché entrambi non si addormentarono.

Quando lo schermo del telefono di Sherlock si illuminò vibrando, nessuno dei due se ne accorse.



 
Note dell'autrice:

So, here I am!
Dopo un piuttosto lungo periodo di pausa -tra vacanze, università, nuove serie tv, università *coffcoff*, e molto tempo speso
a scrivere, riscrivere, essere betata, convincere qualcuno a betare, eccetera eccetera, finalmente mi sono decisa a fare
uscire questa piccola (piccola?) cosa a cui yep, tengo molto.
Cercherò di aggiornare un paio di volte alla settimana, e ti tenervi compagnia così fino alla *gasp* uscita della terza stagione
(is this the real life? Is this just fantasy?).
Hope you'll enjoy this, al prossimo aggiornamento!
Kisses,

Relya.


 

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Capitolo 2
*** chapter I ***


«Signor Holmes, finalmente riesco a parlarle».

L'uomo, voltò la testa verso la figura seduta sulla poltrona. Era di schiena contro la finestra dalle
tapparelle socchiuse, il che rendeva la sua sagoma decisamente indefinibile, in controluce. L'altro,
seduto su una grande poltrona davanti ad un lungo tavolo di legno, mosse appena la testa, ad
osservarlo meglio.

«È un piacere, signor Bruhl» disse poi, le labbra stirate in un sorriso melenso.

L'uomo alla finestra si girò di scatto, il volto corrugato in una strana espressione, come se avesse
appena deglutito qualcosa di estremamente aspro.

«Vorrei che fosse un piacere anche per me» disse poi, quando sembrò riuscire a ricomporsi, la voce
tremante, tormentandosi le mani. «Ma, come lei certamente avrà saputo...»

«Le mie più sentite condoglianze».

L'uomo chiamato Bruhl distorse di nuovo la bocca in una smorfia, prima di parlare. «Saprà
certamente perché sono qui». Nel parlare, fece un passo in avanti, verso l'altro, che si limitò ad
inclinare appena la testa. «Chiedo giustizia per quel che accaduto».

«Sarò lieto di aiutarla». L'espressione del suo viso era una maschera di impeccabile cortesia, il
sorriso ancora perfettamente al suo posto.

Il signor Bruhl sbatté le mani contro il tavolo. «Mi avevate detto che era morto, signor Holmes! Che
il caso era chiuso, perché era stato trovato morto!» ringhiò, e dagli occhi spalancati scintillò un
guizzo di rabbia repressa.

Mycroft non fece una piega, anche se il suo sorriso parve scivolargli via dal volto. «Era quello che
credevamo tutti» sentenziò, lentamente.

Quello scoppiò in una risata amara e beffarda. «Mi sta dicendo che non sapeva che suo fratello
fosse in vita, prima che la notizia giungesse anche a me?»

A quella parola, l'altro ebbe un quasi impercettibile scatto irritato. La bocca del signor Bruhl si
distorse in un ghigno di trionfo, ma dopo pochi istanti, Mycroft riprese la parola con la più pacata
tranquillità.

«Ci terrei ad informarla, per il suo piacere, che non è ancora stato assodato che sia Sherlock Holmes
il responsabile del rapimento dei suoi figli, signor Bruhl» disse, e di nuovo un sorriso tirato fece
capolino sul suo volto.

Quello spalancò gli occhi, togliendosi una ciocca di capelli sudati dalla fronte, l'espressione
stralunata. «No?» fu tutto quello che riuscì a dire con voce strozzata, a metà tra l'incredulità e il
sarcasmo.

«Innocente fino a prova contraria» rispose tranquillamente Mycroft, abbassando lo sguardo sul
tavolo di legno, che le mani dell'altro stavano facendo tremare.

«E chi altri potrebbe essere stato?» domandò ancora il signor Bruhl, che tra l'affanno e l'ira pareva
un cane rabbioso sul punto di mordere la sua preda.

Mycroft rialzò lo sguardo su di lui, la bocca incurvata nella stessa, garbata espressione. «Siamo
risaliti ad un altro uomo, James Moriarty».

L'altro si leccò nervosamente le labbra, iniziando a camminare avanti ed indietro alla stanza. «E
dov'è quest'uomo, adesso? In prigione?» ansimò; il volto aveva preso uno strano tic nervoso.

Mycroft attese solo un momento prima di rispondere. «È morto».

Il signor Bruhl scoppiò in una seconda risata beffarda, poi scosse più volte la testa, quasi isterico.
«Oh, no, oh, no, signor Holmes. Molto astuto, molto astuto, ma avete già usato questo trucchetto,
non è vero?». Il viso gli si distorse in un ghigno a metà tra l'incredulità ed il dolore, poi, in un
improvviso scatto d'ira, sbatté di nuovo le mani sul tavolo. «Mio figlio è morto per questo! Non
lascerò perdere, non vi lascerò far correre!»

Mycroft non mosse un muscolo del suo beneducato sorriso. «Dovrebbe avere più fiducia nella
nostra polizia, signor Bruhl».

«Voi avete rinunciato!» sputò quello, in un ruggito. «Voi avete chiuso il caso!»

«Non ora che Sherlock Holmes è stato scoperto ancora in vita» rispose placidamente Mycroft, e la
cosa parve mettere a tacere l'uomo, che spalancò gli occhi, sorpreso.

«Indagherete ancora?» domandò poi, con una voce rauca che lasciava trasparire più disperazione di
quanta ne fosse mai passata fino a quel momento.

Il sorriso di Mycroft si fece più melenso ed untuoso che mai. «Deve capire, signor Bruhl, che
potrebbe non essere nei nostri interessi scoprirne di più. Il presunto colpevole è ormai morto, andare
a rispolverare vecchi casi è sempre... sconveniente».

Quello aprì gli occhi come se non credesse a quel che aveva sentito. «Ma è nei miei

«Allora le suggerisco di organizzarsi a sue spese. Trovi qualcuno che scopra come sono andate le
cose». Mycroft fece un garbato cenno con il capo in direzione dell'altro, che contrasse il viso in una
nuova smorfia, per poi deglutire.

«Qualcuno?»

L'altro aspettò un istante prima di riaprire bocca, come per accertarsi che le sue parole sortissero
l'effetto desiderato. «Una volta, lei ritenne Sherlock Holmes l'unico investigatore in grado di
risolvere il rapimento dei suoi figli. Perché non lo richiama?»

Il signor Bruhl lo guardò come se fosse impazzito. «È uno dei sospettati! Su cosa dovrebbe
indagare, sulla propria innocenza?» sbottò, e la voce gli tremava di rabbia repressa.

«Non è quello il problema principale che l'ha portata qui, no?» Mycroft sorrise ancora, con
accondiscendenza.

I pugni dell'altro si serrarono. «Che cosa intende dire?» sibilò, alzando lo sguardo su di lui.

Mycroft inclinò amabilmente la testa. «Ho sentito che sua figlia non se la sta cavando bene».

Gli occhi chiari del signor Bruhl si spalancarono in un abisso di paura. Si lasciò cadere sulla sedia
di fronte all'altro, la fronte madida di sudore, e per lunghi istanti non fu in grado di parlare.

Quando infine riaprì le labbra pallide e tremanti, quello che ne uscì fu un fievole: «Come lo sa?»

Mycroft reclinò appena lo schienale della poltrona, congiungendo le mani, e solo per un attimo
qualcosa di simile al trionfo gli brillò negli occhi.

«Che Sherlock Holmes sia il rapitore, o che sia che il suo investigatore privato, è l'unico a poterle
procurare la cura». Fece una pausa, e si chinò verso di lui. «Lo contatti, signor Bruhl».

Quello sbatté le palpebre, deglutendo, come paralizzato.

*

John aprì le palpebre a fatica, disturbato dalla luce che entrava dalla finestra aperta. Si strofinò gli
occhi con il dorso delle mani, mentre brandelli della notte precedente continuavano a fare la loro
comparsa, vagamente confusi con i frammenti di sogno non ancora del tutto scivolati via dalla sua
mente, tanto che si chiese confusamente quanto c'era di vero e quanto di immaginazione.

Si voltò su di un dorso, e vide che il posto accanto al suo letto era vuoto -sentì lo stomaco contrarsi
appena a quel pensiero, ma di vero c'erano le lenzuola tutte scomposte e drizzate, di vero c'era quel
profumo pungente sul cuscino, e di vero c'era il rumore della doccia dall'altra parte della stanza che
stava a dirgli che lui, John Watson, non era da solo, non più.

Si alzò in piedi stiracchiandosi, infilandosi una vecchia vestaglia marrone, e avviandosi pigramente
verso la cucina, i movimenti ancora lenti dal sonno. Spalancò le tende, strizzò un altro paio di volte
le palpebre, finché non fu in grado di mettere chiaramente a fuoco tutta la stanza, poi prese un
pentolino, lo riempì con abbastanza acqua per preparare il tè per due persone, e accese il fuoco con
uno sbadiglio, per poi lasciarsi cadere sulla poltrona, attendendo la fine dell'ebollizione.

Sfogliò senza troppa convinzione le pagine del quotidiano del giorno prima, ma invece di leggere le
notizie riportate, si fermò ad osservare i segni a matita che cerchiavano le notizie più eclatanti della
cronaca nera, studiandone il tratto, la calligrafia leggermente obliqua che aveva riempito di
scarabocchi i bordi delle pagine, a volte per correggere la grammatica del giornalista in questione, a
volte semplicemente per prendere appunti. Ma, si chiese John senza riuscire a trattenere uno sbuffo
di divertimento, chi diavolo prendeva appunti su di un quotidiano? Lo scroscio della doccia si
interruppe di colpo e la risposta entrò in cucina con uno sbadiglio ed un rumore di telo strascicato.

John inclinò la testa all'indietro per vederlo, e riuscì a trattenere un sorriso proprio sulla punta delle
labbra, mentre apriva la bocca per parlare -la voce, sperava, il più neutrale possibile.

«Buongiorno».

Sherlock inclinò appena la testa per guardarlo meglio, ma si limitò a sbadigliare, avvolto nel suo
lenzuolo come un zombie, e si diresse strisciando verso la cucina, gettando un'occhiata al pentolino
dove bolliva l'acqua, mentre John lo seguiva con lo sguardo, come studiandone le mosse.

«Il tè sarà pronto-»

«-Ora».

Sherlock si strofinò il dorso della mano sul viso, poi versò l'acqua in una tazza, vi infilò dentro una
bustina dell'infuso, e ritornò con tutto il suo lenzuolo nell'angolo dall'altra parte della stanza,
sorseggiandolo con lo sguardo fisso sulla parete.

Mai troppo di buonumore appena sveglio, si disse John trattenendo un secondo sorriso -che
accidenti gli prendeva, oggi?- ma doveva ammettere che c'erano comunque stati dei miglioramenti.

Non si sarebbe mai dimenticato di quella mattina -era stato dopo la prima notte in cui erano,
ricordò, stati insieme- in cui si Sherlock si era presentato nella stanza completamente nudo, e alla
sua espressione sconvolta si era stupito, dichiarando che «dopotutto, mi hai già visto senza vestiti,
John». A nulla era valso il suo discorso sulla decenza («Mi trovi indecente, quindi?») e la sua paura
che qualcuno potesse vederlo («Andiamo, chi entrerebbe nel nostro appartamento alle sette e un
quarto della mattina? La signora Hudson è uscita, ho sentito i suoi passi; andava dal panettiere,
presumo»).

Averlo in giro per casa con il telo della doccia a mo' di mantello, era un già un passo avanti, si disse.
Averlo in giro per casa, era un passo avanti. Averlo. Di nuovo.

John fermò i suoi pensieri prima che entrassero in zona proibita, quella che si stava obbligando ad
evitare, e per sua fortuna il rumore dell'acqua che sfrigolava nel bollitore rischiando di fuoriuscire
dal pentolino lo vece drizzare in piedi e correre a salvare il salvabile. Quando si ritrovò
un'ustionante tazza di tè tra le mani, e andò di nuovo sedersi sulla poltrona, sentì una voce fuori
campo decretare, con una certa supponenza: «Lo avevo detto, che era già pronto».

John si scottò la lingua nel bere e preferì evitare di commentare, prendendo di nuovo in mano il
giornale, e sfogliandolo lentamente. Era quasi riuscito ad immergersi nella lettura di un articolo di
politica estera, quando sentì di nuovo la voce alle sue spalle domandare, con la massima
tranquillità: «Trovato qualcosa di interessante?»

John voltò la testa verso di lui, che si stava vestendo con la massima naturalezza, accovacciato sul
divano. «Hai letto questo giornale ieri, Sherlock, e anch'io» replicò, inarcando appena un
sopracciglio.

Quello si alzò il calzino sinistro prima di rispondere. «Sì, ma non con le mie note».

John aprì il giornale con uno schiocco, mostrandoglielo da sopra la poltrona, per poi leggere una
delle annotazioni ad alta voce. «“La donna che ha scritto quest'articolo, probabilmente una donna
sola ma con un figlio a carico, ha utilizzato per la prima bozza un vecchio notebook, probabilmente
con qualche tasto difettoso, il che legittima gli errori di battitura, ma non giustifica quelli di
sintassi e la poca coerenza dell'articolo, spiegabile solo in caso di una sua relazione,
presumibilmente segreta, con il direttore
”. C'era davvero bisogno di dirlo?»

Si girò a guardarlo. Aveva incurvato appena le labbra in un sorriso di compiacimento. John si
costrinse a non osservare oltre la curva perfetta della sua bocca, e a non pensare a che cosa avrebbe
voluto farci.

«Stavi cercando di impressionarmi?» commentò invece, con una punta di sarcasmo.

Sherlock si voltò dall'altra parte. «Non ne ho bisogno» replicò, e si alzò uscendo dalla stanza con la
camicia ancora abbottonata solo per metà, in una maniera che fece capire a John di aver avuto
indiscutibilmente ragione.

Un cellulare, posato sul tavolino davanti a lui, iniziò ad illuminarsi vibrando, ancor prima che
partisse la suoneria.

«Sherlock!»

John lo chiamò, prendendo in mano il telefono. Era Lestrade.

«Sherlock!»

L'altro non dava segni di averlo sentito, e John si stava giusto chiedendo se non fosse caso di
rispondere egli stesso, quando la chiamata terminò, per far spazio ad un nuovo messaggio di testo.

Scotland Yard. Vieni, appena possibile.

Una sgradevole sensazione si fece largo lungo lo stomaco di John, mentre si obbligava a restare
calmo, ed ad attraversare la stanza a passo rapido, per entrare nella camera spalancando la porta,
trovando l'altro già pronto, con il lungo cappotto nero addosso.

Sherlock accennò con la testa al telefono che John teneva in mano.

«Lestrade?» domandò, annodandosi la sciarpa intorno al collo pallido.

L'altro annuì. «Perché non hai risposto? Ci sono tre chiamate perse solo stamattina» domandò, la
gola stranamente sacca.

«Perché so già che cosa vuole, e mi piace svegliarmi con calma» rispose Sherlock, senza fare una
piega. Attraversò la stanza, prendendogli il telefono di mano ed infilandoselo in una tasca.

«E cosa vuole?» chiese ancora John, immobile sulla soglia, accigliato.

Sherlock era già a un passo dalla porta, quando si voltò verso di lui, e parve attendere un secondo
prima di parlare, come scegliendo le parole giuste. «Ricordi cosa stava facendo l'ultimo giorno che
è stato qui, prima che io...?» Alzò appena le sopracciglia, come a suggerire il resto della frase, e
quel qualcosa che aggravava lo stomaco di John parve appesantirsi di piombo. Deglutì.

«Trovo decisamente difficile dimenticare i dettagli di quel giorno, Sherlock» replicò, duramente.

Lui sembrò non farci caso. Si limitò ad accigliarsi appena, come invitandolo a continuare.

John trattenne un sospiro, e si costrinse a rispondere correttamente alla domanda. «Ti stava... ci
stava arrestando, giusto?»

Sherlock non annuì, ma non lo contraddisse nemmeno. Si limitò a guardarlo con uno sguardo
stranamente perforante, poi aprì la bocca e commentò: «Gli ci è voluto un po' per ricordarsi che non
aveva ancora finito di farlo».

Aprì la porta e fece per sparirci dentro, poi all'ultimo secondo fece capolino dalla soglia, lo guardò
dall'alto in basso, e aggiunse, aggrottando le sopracciglia: «Forse dovresti cambiarti, prima di
uscire, presentarti a Scotland Yard in pigiama sarebbe indecente».


 
Note dell'autrice:

E con incredibile rapidità, ecco già il primo, vero capitolo, yo.
Nonostante Mercoledì avessi postato solo un piccolo, minimo, prologo, già più gente di quanta mi aspettassi ha
buttato un occhio e seguito questa storia, so, grazie mille, I hope you'll stuck with me until the end (did you mean:
"01/01/2014"?)
, e... nulla, grazie a tutti, e uno special thanks to
topstiel che mi sta betando (con estrema calma, LOL), e a
dininokid, che mi sta aiutando psicologicamente con questa cosa.
Oh, e se per qualche sconosciuto motivo qualcuno dovesse essere interessato, su Ao3 c'è la versione inglese di questa
stessa storia, feel free to check it here (-->
http://archiveofourown.org/works/1060910)
Kisses,

Relya.

 

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Capitolo 3
*** chapter II ***


Il taxi attraversava le vie di Londra, sotto la guida irregolare e frettolosa dell'autista, e John si
sentiva sballottare fastidiosamente man mano che avanzavano. Si voltò a guardare Sherlock, ma
quello se ne stava immobile, lo sguardo fisso oltre il finestrino. Inghiottì un groppo di saliva
cercando di far meno rumore possibile. Non voleva che l'altro sentisse le migliaia di domande che
gli ribollivano in testa e che non voleva fare per nessun motivo. Che, come la prima volta, sul primo
taxi -Dio, come faceva ancora a ricordarselo?- percepisse il suo bisogno di parlare sotto quel
silenzio, perché non voleva parlarne, non voleva discuterne. O forse sì? Voltò testardamente la testa
al finestrino, cercando di pensare ad altro, ma la voce di lui lo riportò bruscamente indietro.

«Tutto bene, John?»

Sherlock non si era neppure mosso, si era limitato a gettargli un'occhiata di sfuggita, senza fare una
piega, le pupille azzurre ancora concentrate a seguire e catturare il traffico attorno.
John si raddrizzò appena sul sedile, aprì la bocca per parlare, la richiuse, esitando, poi decise che
cambiare argomento con qualcosa di indolore poteva essere una soluzione funzionante.

«È la prima volta, non è vero?» domandò, schiarendosi appena la voce.

Sherlock si accigliò immediatamente, voltando la testa verso di lui, la bocca semiaperta. «Che
cosa...?»

«Non intendevo... Scotland Yard!» si affrettò a correggere John. «È la prima volta che torni, vero?
Da quando...» Tossì di nuovo, sentendo la voce venirgli meno. «Da quando sei ricomparso».

«Oh». Sherlock ricompose la sua espressione perfettamente impassibile, congiungendo le mani
davanti al viso e tornando ad osservare il finestrino. «Sì». Fece una piccola pausa, poi tornò a
guardarlo, la fronte appena aggrottata. «Dovrebbe essere un problema?»

John si fermò per un istante, per osservare quel volto ingenuo di bambino che ancora non aveva
capito molto bene come funzionavano le cose nel mondo reale. Che se fingi la tua morte per tre anni
la gente non si aspetta vederti ritornare in affari così presto. Ma che nel suo caso non importava a
nessuno, purché fosse tutto come prima, purché continuassero come se nulla fosse successo.

«No, affatto» rispose alla fine, scuotendo appena la testa, e Sherlock rilassò la fronte, le dita posate
sulle labbra pallide, come di nuovo immerso nei suoi pensieri.

Il taxi li lasciò davanti all'entrata della centrale. John aspettò un attimo prima di entrare, ma
Sherlock camminava a grandi falcate verso la porta, le mani infilate nelle tasche del cappotto
aperto, senza alcuna esitazione, e non poté far altro che seguirlo.

Al loro ingresso, ci furono un paio di sguardi curiosi, e qualcuno bisbigliò concitatamente, ma
Sherlock camminava rapido tra tutte quelle persone che si voltavano ad indicarlo senza curarsene, e
John accelerò il passo per raggiungerlo. Era ormai al suo fianco, quando un paio di figure appostate
davanti alla porta li fece rallentare il passo.

Sherlock piegò appena il capo in un cenno di saluto. «Sergente Donovan, Anderson...» salutò con
freddezza, lo sguardo rivolto alla porta, oltre alla quale doveva esserci Lestrade.

La donna lo osservò al di sopra delle braccia incrociate davanti al petto, inarcando un sopracciglio.
«Il nostro Dead Man Walking di nuovo in carreggiata» commentò poi alla fine, osservandolo con le
labbra strette. Nonostante il tono evidentemente sarcastico, non c'era traccia di sorrisi o ghigni
divertiti sul suo viso.

«È un film» bisbigliò John, alzando appena gli occhi su di lui.

«Lo sapevo» borbottò Sherlock di rimando, prima di tornare a guardare l'altra. «Devo vedere
Lestrade» aggiunse, con un tono che voleva indicare la chiusura definitiva della conversazione.

Donovan lo guardò per un attimo, prima di allungare la mano verso la porta per tenergliela aperta.

«È qui» commentò, seccamente, lasciandolo passare. John fece per seguirlo, ma lei lo trattenne con
una mano. Aggrottò la fronte, osservando la donna.

«Non la capisco, dottor Watson» disse lei, con un tono che presagiva una polemica in arrivo, e non
una che John avesse particolarmente voglia di discutere.

«Non capisce? Cosa, non capisce?» ripeté, voltandosi verso il sergente, le mani strette dietro la
schiena. Anderson, appoggiato al muro di fronte, sbuffò.

«Non dovrebbe essere arrabbiato a morte con lui?» replicò Donovan, stringendo ancora di più le
sopracciglia scure. «Tutti quegli anni lei ha pensato che fosse morto, ora ricompare e lei lo segue
come se non fosse successo niente?»

John deglutì un groppo di saliva che pareva essergli incastrato in gola, ma si costrinse a restare
impassibile. «È proprio questo il punto» commentò, gelido. «È quello che è successo. Niente».

Sorrise freddamente, poi la oltrepassò per attraversare la porta ed entrare nell'ufficio, seguito
immediatamente dai due; prima ancora di vederlo, sentì la voce di Lestrade accoglierlo.

«...Credevo ti fosse successo qualcosa, un'altra volta» si stava lamentando, rivolto a Sherlock, già
seduto su una sedia davanti alla sua scrivania. Alzò lo sguardo appena lo sentì arrivare. «Oh,
buongiorno, John».

«Salve» rispose brevemente lui, sedendosi accanto a Sherlock, lievemente in imbarazzo.

Quell'ufficio portava addosso troppi sgradevoli ricordi, e sentì gli occhi di Lestrade su di sé, quegli
occhi che in quegli anni avevano preso l'abitudine di osservarlo in una maniera fin troppo
compassionevole. Ma era finita, ora. Stava bene. Perché dovevano essere tutti così lenti a capirlo?

Lestrade si schiarì la voce, e tornò a fissare Sherlock. «...Avresti potuto rispondere al cellulare,
comunque, ieri» concluse. C'era una maniera paternalistica, quasi forzata, nella maniera in cui gli
parlava ora, ed John era certo che all'investigatore non sarebbe sfuggito.

«Era piena notte, ispettore. Avevo di meglio da fare». Sherlock incurvò appena le labbra e John
tossicchiò, costringendosi a concentrare tutta la sua attenzione sull'angolo destro della scrivania.

«Ho riprovato stamattina» protestò Lestrade.

«E io sono subito accorso qui» Sherlock alzò gli occhi al cielo, esasperato. «Ora, posso sapere chi si
è lamentato del mio ritorno?»

L'ispettore aprì appena la bocca. «Come...?» iniziò, frastornato, poi parve ricomporsi. «Tre anni e
mi ero quasi dimenticato quanto fosse irritante sentirsi prevedere i propri discorsi».

John notò l'angolo destro della bocca di Sherlock arricciarsi con compiacimento. Quelle labbra.
Dannazione.

«Rufus Bruhl» continuò Lestrade, allungando un fascicolo verso di loro. Sherlock lo prese tra le
dita bianche, aprendolo con rapidità. «Ti ricorda niente?»

Gli bastò un istante. Sherlock richiuse lentamente il fascicolo, per poi drizzarsi sulla sedia. «Il padre
dei nostri Hansel e Gretel» rispose lentamente, alzando un sopracciglio scuro. «Immagino abbiate
archiviato il caso dopo la mia scomparsa. Scopre che il presunto rapitore e intenzionalmente
assassino dei suoi figli è ancora in vita, non può fargli piacere, ma perché...» rallentò appena,
aggrottando la fronte. «Accanirsi ancora tanto?»

«È il suo figlio minore, Max» rispose Lestrade, con un mezzo sospiro. «È morto poche settimane
fa».

Sherlock fece un piccolo sbuffo di esasperazione. «Mi si accusa anche di questo, ispettore

«Non credo, visto che si è trattato di suicidio» rispose Lestrade. «A quanto pare, si è gettato dal tetto
della loro casa a Washington».

Le palpebre di Sherlock, notò John, ebbero una sorta di fremito involontario. Deglutì. C'era
qualcosa di incredibilmente sbagliato, in quella faccenda, e qualsiasi cosa fosse, non gli piaceva
affatto.

La voce aspra di Anderson interruppe il filo dei suoi pensieri. «Cosa sta diventando, una moda?»
sbottò, acido.

«Forse, stai pensando di unirti a noi?» ribatté Sherlock alzando appena le iridi azzurre, con un
minuscolo sorriso dipinto nell'angolo della bocca.

Anderson aprì la bocca ma non rispose; John gettò un'occhiata a Sherlock, percependo una sorta di
nervosismo in lui. O era solo la sua immaginazione? Preferì non indagare oltre, e si rivolse a
Lestrade.

«E cosa c'entra questo... con Sherlock, come... potrebbe?» fece, accigliato. «Max è morto in
America, anni dopo tutta questa storia, perché?»

Lestrade parve prendere un respiro prima di rispondere. «A quanto pare, Max e la sorella non si
sono mai effettivamente ripresi dal rapimento» iniziò. «L'analista che li segue ritiene che lo shock
sia stato troppo forte, e il mercurio che hanno assunto...»

«L'analista?» ripeté John, frastornato.

«Hanno avuto parecchi problemi, al rientro in America, a quanto pare» fece Lestrade. «Estrema
suggestionabilità, allucinazioni, attacchi isterici. Hanno dovuto farli seguire da specialisti».

«È una linea un po' sottile per l'accusa di un uomo» osservò Sherlock, inarcando le sopracciglia, le
dita incrociate davanti al viso.

«Non ti ho detto ancora tutto, infatti» replicò Lestrade, e John poté vedere -o se la immaginò solo?-
una traccia di trionfo nello sguardo dell'ispettore, nell'avere questa piccola punta di mistero nella
sua storia. «Rufus Bruhl non è venuto dall'America per accusarti».

Le iridi azzurre di Sherlock si spalancarono per la sorpresa, ma lui non mosse un muscolo.

«No?» si limitò a sussurrare, piano.

Lestrade scosse la testa. «No» ripeté. «Non chiedermi come si sia convinto a fare una cosa del
genere, ma lui vuole che tu indaghi per lui».

Sherlock emise uno sbuffo divertito. «Sul suicidio del figlio?» fece, la voce impregnata di ironia.

«Sul rapitore!» replicò Lestrade, alzandosi in piedi. «Su quello che ha fatto ai suoi figli, sulla
malattia della bambina, e soprattutto sul perché fossimo tutti convinti che fossi stato tu!»

John si schiarì la voce. Qualcosa di estremamente sgradevole pareva starsi facendo strada lungo il
suo stomaco.

«Non c'è nulla su cui indagare, ispettore!» Sherlock si alzò a sua volta, le mani sulla scrivania.
«Moriarty ha organizzato il rapimento, li ha riempiti di mercurio e tutto quello che il signor Bruhl
dovrebbe fare ora è assumere un'analista migliore e chiudere le finestre dell'attico prima di mettere
sua figlia a dormire. Ora, se volete scusarmi...»

Fece per andarsene, ma John scattò in piedi, fermandolo.

«Sherlock, fermati, pensaci, per favore» disse, a bassa voce. «Sarebbe l'occasione di far sapere la
verità, quel che è successo...»

«Non indagherò sulla mia innocenza, John!» replicò quello, bruscamente.

«Non devi indagare sulla tua innocenza, ma su chi è il colpevole» ribatté Lestrade, e Sherlock si
girò verso di lui, di scatto. «Dietro c'era Moriarty, va bene, lo sappiamo, ma aveva uomini, uomini
che seguivano i suoi ordini, che hanno fisicamente preso questi bambini e li hanno portati in quel
posto, se riusciamo a capire chi sono, a catturarli...»

«Questo non farà certo guarire la figlia di Rufus» sbottò Sherlock, come esasperato.

«Allora scopri cosa lo farà» fece Lestrade, abbassando appena la voce, il tono appena più grave,
serio.

Sherlock lo osservò per un istante, in silenzio. «Non è il mio campo» ribatté.

«Forse è quello del rapitore» rispose quello. «Trovalo, Sherlock».

«Perché dovrei?» replicò lui, alzando le sopracciglia.

«Perché se riuscissi, avremmo finalmente modo di scagionarti...» fece Lestrade con forza, ma
Sherlock sbuffò, seccato. «Ascolta, noi lo sappiamo, d'accordo? Sappiamo che non sei colpevole,
ma legalmente, sei ancora uno degli indiziati».

Sherlock si morse l'interno della guancia, e spostando lo sguardo sulla stanza, fino a incrociare
quello di John. «Va bene» disse alla fine, a bassa voce, e l'altro poté tirare un sospiro di sollievo,
chiudendo gli occhi per un momento.

«Grazie al cielo, inizi a ragionare» fece Lestrade, alzando lo sguardo al cielo.

Sherlock lo interruppe prima che aggiungesse altro. «Avrò bisogno di parlare con Rufus, e con la
bambina» cominciò, prendendo il cappotto dal bordo della sedia ed infilandoselo al volo.

«Non sono in America?» fece John, confuso, passando lo sguardo da uno all'altro.

Lestrade aprì la bocca per replicare, ma Sherlock lo precedette. «È venuto in Inghilterra
personalmente per sistemare la questione, non sono affari che si possono discutere per telefono, la
figlia psicologicamente labile di un ambasciatore è una questione top secret, le telefonate vengono
intercettate» fece, annodandosi la sciarpa intorno al collo. «E con il suicidio del figlio così recente,
tu lasceresti la bambina da sola in America con la governante? Non sarebbe una mossa furba, e
quell'uomo si è dimostrato già abbastanza un pessimo padre... No, sono entrambi qui, mi mandi
l'indirizzo della loro residenza, Lestrade, andrò a visitarli. Buona giornata».

Uscì dalla stanza con uno svolazzo, e a John, rimasto in piedi al centro della stanza, non restò altro
che seguirlo, sentendo un misto di ammirazione e amarezza annodarglisi in gola, impedendogli di
parlare.

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Capitolo 4
*** chapter III ***


La temporanea residenza di Rufus Bruhl risultò essere appena fuori Londra, nel bel mezzo della
campagna inglese, probabilmente una di quelle residenze vecchie di qualche secolo che facevano
ancora fare la loro figura alla ricca famiglia di turno, come dedusse Sherlock, mentre guidava l'auto
nera lungo la strada deserta, fuori mano. Era ormai tardo pomeriggio, quando una casa bianca
spuntò all'orizzonte, già visibile molto prima che parcheggiassero in mezzo al campo, per poi
percorrere a piedi l'ultimo tratto di sentiero.

«Non vuole attirare l'attenzione» fece Sherlock, stringendo appena gli occhi per osservare la
dimora. «Probabilmente non si aspetta di rimanere qui per molto, e la visita di un ambasciatore
americano a Londra desterebbe subito l'interesse dei media. Sta agendo con estrema riservatezza
-deve essere per questo che è stato tanto propenso a consultare un investigatore privato, di nuovo».

John lanciò un'occhiata a Sherlock, come cercando nel suo sguardo una traccia di disagio, di
eccitazione, o una qualsiasi emozione diversa dalla calma distaccata che gli permeava il viso
pallido. Nulla. L'altro si limitò ad indicargli l'ingresso al quale erano ormai vicinissimi.

«Una sola auto parcheggiata fuori. Chi lavora in questa casa -avranno una governante per la figlia,
vi abita anche. L'analista di Claudie dev'essere venuta con loro dall'America. Nessuno entra ed esce
dalla casa, per evitare che nessuna notizia sulla famiglia si sparga all'esterno».

«Ma ora stanno facendo entrare noi, e hanno chiamato la polizia, perché?» fece John, appena
accigliato.

«Già, perché?» ripeté Sherlock, sovrappensiero. «La morte del figlio ha fatto cambiare linea
d'azione a Bruhl, vuole che la faccenda si risolva in fretta. Preferisce rischiare che peggiorare la
situazione della bambina -una mossa saggia, ma poco consona ad un uomo di politica come lui.
Deve essere disperato».

«Suo figlio è morto» puntualizzò l'altro, gettandogli un'occhiata, le sopracciglia aggrottate.
Sherlock annuì, quasi compiaciuto. «Già, un ottima ragione, vero? Guarda, le finestre dell'ultimo
piano sono spalancate, ma la luce della stanza è comunque accesa. Deve essere lì che tengono
Claudie -la pazza nell'attico, un classico».

Sherlock si avvicinò alla porta, e bussò tre volte, per poi voltarsi verso, John come se si fosse
appena ricordato di qualcosa.

«Oh, dovrai essere tu ad interrogarla, ovviamente» aggiunse, con leggerezza.

«Io?»

«Beh, lei crede ancora che io sia il rapitore, ricordi?» Sherlock sorrise con giusto un accenno di
ironia alla sua espressione confusa, e nello stesso istante la porta si aprì, e ne uscì una donna i cui i
segni dell'età cominciavano a farsi strada sulla carnagione olivastra.

Lei si scostò una ciocca di capelli neri dal viso, aprendo la porta per lasciarli passare.

«Il signor Holmes, immagino» disse, lanciando un'occhiata al primo, per poi soffermare lo sguardo
su John. «E lei...?»

«Il dottor Watson» rispose Sherlock, prima ancora che quello potesse parlare. «È con me».

È con me.

Qualcosa dentro lo stomaco di John sembrò contorcersi, soffiando e facendo le fusa. È con me.

«Il signor Bruhl vi sta aspettando in soggiorno» concluse la donna, indicandogli una stanza in fondo
ad un corridoio.

Sherlock attraversò lentamente l'ingresso, non senza notare i mobili vecchi, ma puliti di recente
-qualcuno aveva sporcato di candeggina la carta da parati, le piccole e sgradevoli macchie bianche
dietro ad una credenza non lasciavano dubbi. John lo vide far scivolare le dita su uno dei fiori finti
disposti su un vaso davanti a una specchiera, prima di raggiungere la porta segnalata dalla donna.
Poggiò una mano sulla maniglia, poi si fermò, ed indicò a John la scalinata alla loro destra.

«Va a parlare con la bambina» disse, a bassa voce. «Io mi intratterrò con il padre».

John esitò appena, perplesso. «Come, così? Non dovremmo... chiedergli il permesso, o...?»

«Ci ha chiamato per indagare, ed è quello che faremo» replicò Sherlock senza battere ciglio. «Vai».

John si guardò intorno per un secondo, poi sospirò esasperato, e cominciò a percorrere gli scalini di
legno, che scricchiolarono sotto il suo peso, uno ad uno. Sentì Sherlock aprire quasi
contemporaneamente la porta e si voltò a guardarlo, ma tutto quello che vide fu il retro del suo
cappotto sparire oltre la soglia con uno svolazzo.

Senza smettere di osservarsi intorno, come aspettandosi che qualcuno lo fermasse e lo riportasse giù
da un momento all'altro, John percorse l'intera scalinata, raggiungendo il primo piano -gettò
un'occhiata alle stanze interne, che parevano vuote, per un attimo incerto su come procedere. Se
Claudie fosse stata in una di quelle?

L'attico, Sherlock aveva parlato dell'attico. Il che era ovviamente notevole, essendo la prima volta
che entrambi entravano là dentro, ma onestamente, quante volte la cosa era stata di qualche intralcio
per le deduzioni dell'altro? John continuò a salire, gradino dopo gradino, finché non raggiunse
quello che doveva per forza essere l'ultimo piano.

Il soffitto era più basso, e c'era una sola porta davanti a lui. Deglutendo, la aprì lentamente.

Subito udì un singhiozzo ed un respiro trattenuto in fretta. Spalancò la porta.

La stanza era completamente vuota, fatta eccezione per un tavolino, proprio in fondo, ricoperto di
scatole sigillate, ed un armadio. Ma non fu quello ad attirare l'attenzione di John, bensì una figura
minuta rannicchiata nell'angolo opposto della stanza.

«Claudie?» chiamò, esitando appena.

La figura parve tremolare per un po', poi sollevò il viso, scoprendo un volto candido di bambina,
che inclinò la testa per guardarlo, gli occhi scuri bene aperti.

«Chi sei?» domandò lei, e la voce pareva insolitamente ferma.

Lui sollevò le mani, come a scoprire subito le tue carte. «Sono John, Claudie. Sono un dottore. Non
ti voglio fare nulla di male».

La ragazzina si tirò appena su dal pavimento. «Certo che no» lo rimproverò, con tranquillità. «Li
conosco, i dottori, io, ne ho visti un sacco. So cosa fanno».

«Bene, allora, bene, meglio così» John si fermò un istante, senza sapere cosa dire, rendendosi conto
solo in quel momento di non avere la minima idea su cosa Sherlock volesse farlo indagare.

Una risata cristallina interruppe i suoi pensieri. Claudie stava ridendo di gusto, gli occhi che
brillavano.

John aggrottò la fronte, le mani strette dietro la schiena. «Che cosa... c'è, che cosa ho fatto?»

«Sei basso» cantilenò la bambina, ridacchiando.

Quello si accigliò, non credendo alle sue orecchie, sorridendo forzatamente. «Sì, beh, allora...
cosa...?».

«E i tuoi capelli sembrano paglia» constatò serenamente Claudie. «Che cosa sei venuto a fare qui,
dottor John?»

Lui le si avvicinò di qualche passo, aprendo la bocca come in cerca di ispirazione. «Io... sono un
dottore, sono venuto a vedere come stai. Tu stai... bene, sì?» domandò, cercando di suonare
convincente.

Il sorriso scivolò via dal viso della ragazzina, mentre spalancava gli occhi, e qualcosa come puro
terrore le si dipinse negli occhi. John si guardò attorno, preoccupato, ma nulla era cambiato, e
nessuno era entrato.

«Hanno lasciato la finestra aperta» sussurrò Claudie, fissando un punto oltre la sua testa.

John si voltò, ed individuò le stesse vetrate spalancate che Sherlock gli aveva indicato dall'esterno.

«Sì, è aperta... e quindi?» chiese, confuso.

«Non bisogna mai lasciarla aperta, mai!» esclamò Claudie, in un impeto di rabbia, poi si fermò,
schiacciando le mani contro la sua bocca, come a volersi zittire. Solo dopo un istante, lasciò
scivolare via le dita, sussurrando: «La chiuderesti per me, dottor John?»

Lui annuì, non senza una buona dose di perplessità. «Sì... sì, certo» borbottò, mentre si voltava e
raggiungeva la finestra. Gettò un'occhiata fuori, come cercando di trovare nella vista del cortile
qualcosa di spaventoso e terrificante, ma era tutto nella norma. Richiuse le ante, sigillandole, per
buona misura.

Sentì Claudie sospirare di sollievo. «Grazie» esclamò, la voce di nuovo allegra.

«Come mai le finestre... le finestre ti fanno paura, Claudie?» chiese John, avvicinandoglisi e
inginocchiandosi davanti a lei, per essere alla sua stessa altezza.

«Non ho paura delle finestre» lo corresse Claudie, come perplessa da tanta stoltezza.

«Hai paura di quello che potrebbe entrare?» chiese ancora lui, abbassando ancora di più la voce, la
fronte aggrottata.

Con sua sorpresa, Claudie rise di nuovo, forte. «Siamo all'ultimo piano!» esclamò, ma il suo tono
era più duro di prima, e suonava meccanico, come di qualcosa imparato a memoria. «Niente può
entrare da lì».

«Giusto» acconsentì John, annuendo appena. «E allora cosa... cosa c'è che non va, nelle finestre
aperte?»

Claudie si guardò intorno, prima di avvicinare il viso al suo, le labbra a pochi centimetri
dall'orecchio di John, e sussurrare: «Non è quello che viene su. È quello che può andare giù».

«Come, scusa?»

La bambina allontanò il viso di scatto, con un'espressione quasi indignata sul volto. «Non glielo
hanno detto!» esclamò, corrugando la fronte pallida.

«Detto cosa?» chiese l'altro, cominciando ad essere vagamente stufo di continuare a chiedere
ulteriori spiegazioni. Si sentiva estremamente tardo. Dannazione, perché non era venuto Sherlock,
su con lui? Lui lo sapeva, che non era tagliato per quelle cose -lo mandava in giro perché si
divertiva a vederlo arrancare qua e là? Oppure, semplicemente, lo sopravvalutava? Il pensiero era
frustrante.

«Mio fratello» mormorò la bambina, piano. «Non te lo hanno detto, dottor John?»

«Oh. Sì. Certo» fece lui, in un lampo di comprensione. «Mi... mi dispiace molto, Claudie».

Lei parve stupita dalla sua reazione. «Io credo che tornerà» mormorò vagamente, e gettò vagamente
lo sguardo oltre la porta.

«Tornerà?» ripeté John, e per l'ennesima volta gli parve di essersi perso qualcosa. «Ma non è...»
L'ultima parola gli rimase incastrata in gola. Si schiarì la voce, riprovò ancora. «Pensavo fosse...»

«...caduto?» concluse per lui Claudie. «Da un tetto? Sì. Credo si sia buttato».

John strinse le labbra, in un ultimo tentativo di restare distaccato e professionale. Strinse il pugno
destro, sentendo il contatto delle unghie contro la pelle, come se potessero aiutarlo a restare lucido.
«Allora come potrebbe... tornare?» disse, lentamente. Ogni parola pareva inciampargli sulla lingua,
incapace di uscire allo scoperto. «Deve essere... essere...». Oh, andiamo, John. «...morto».

Questa volta, Claudie fece una pausa prima di rispondere. Rimase ferma ad osservare il volto di lui
per qualche istante, gli occhi castani bene aperti, poi iniziò a parlare, sottovoce, lentamente.

«Lui è tornato» disse, in un sussurro. «Noi avevamo paura, mio fratello e io, perché pensavamo che
sarebbe tornato a prenderci, no? La dottoressa diceva che era tutto nella nostra testa, ma io e Max lo
vedevamo, ed era proprio là, davanti a noi, tutte le volte che faceva buio... Papà diceva che non era
vero, che l'uomo sarebbe andato in prigione, ma noi lo sapevamo, che voleva prenderci, e lui poteva
venire, di notte, e ci guardava perché voleva prenderci e noi non potevamo dormire perché lui ci
vedeva e ci toccava e rideva».

Claudie si fermò di nuovo, deglutendo. Le iridi erano vagamente dilatate, notò John, ma non stava
tremando, né dava segni di avere paura. La bambina alzò lo sguardo verso di lui, e d'un tratto scoprì
i denti in un ghigno. John sentì una spiacevole sensazione nella gola.

«Poi un giorno papà è venuto da noi e ha detto: è morto! Potete stare tranquilli, Sherlock Holmes,
l'uomo che vi aveva presi, è morto! Non avete più nulla di cui avere paura, perché lui non c'è più!
Andato, andato per sempre!»

«Claudie...» cominciò John, aprendo la bocca per parlare, ma la bambina scoppiò a ridere.

«Caduto da un palazzo, ha detto papà, proprio dal tetto, come un pupazzo di pezza! Un attimo prima
era lì, e poi, boom! Si è lanciato giù, e poi è morto, morto!»

«Claudie...»

«E io e Max eravamo contenti perché non sarebbe venuto più, e allora sapevamo che gli incubi
dovevano essere solo incubi, perché Sherlock Holmes era morto, no? E non sarebbe mai, mai più
tornato, ce n'eravamo liberati, aveva detto papà!»

La mano sinistra di John stava iniziando impercettibilmente a tremare. «Claudie...»

«Ci hanno detto una bugia!» strillò la bambina, e questa volta sembrò di nuovo spaventata. «Perché
lui è tornato ancora, e adesso e vivo, e adesso ci verrà a prendere, perché non è riuscito a ucciderci e
ora vuole provarci di nuovo, perché Sherlock Holmes è cattivo, cattivo...»

Claudie rabbrividì, dondolandosi appena sul pavimento di legno, e gli occhi si fissarono di nuovo
sulla finestra, ora chiusa a chiave.

John si morse l'interno della guancia, si schiarì la gola, lasciò che le unghie della mano destra
tormentassero il suo palmo, e si infilò quella sinistra in una tasca, per non sentirla tremare. Sbatté le
palpebre un paio di volte, e non appena sentì che gli era tornata la voce, aprì la bocca per parlare.

«Claudie, ascoltami» cominciò, la voce più incerta di quanto si aspettasse. «Devi credermi,
d'accordo? Sherlock Holmes non è affatto come credi tu. Non è stato lui a rapirmi, lui vi ha salvati,
e non è cattivo, perché lui è...» Professionale e distaccato, si ripeté. Ma dannazione, come poteva?
E dopotutto, lei era solo una bambina. «...Lui è una bravissima persona, davvero, è buona, e devi
essere contenta che non sia... morto, perché lui vuole aiutarvi».

Deglutì. Claudie alzò lentamente la testa, inclinandola verso di lui, una mano poggiata sulla
guancia. Sembrava una bambina intenta ad ascoltare la favola della buonanotte.

«E tu come lo sai?» mormorò, guardandolo come se pendesse dalle sue labbra.

«Lo so, perché, Sherlock Holmes...» esitò, poi riprese, schiarendosi la voce per l'ennesima volta,
ringraziando il cielo che non ci fosse nessuno ad assistere la scena. Doveva star dando davvero un
misero spettacolo. «Perché Sherlock Holmes è mio amico. Il mio migliore amico».

Claudie batté le palpebre un paio di volte, distogliendo lo sguardo. John si chiese addirittura se lo
avesse ascoltato, poi scosse la testa, si passò una mano sul mento, e si alzò in piedi. Il colloquio,
sentì, era già durato abbastanza.

«E non è stato lui a farti del male» concluse, lanciando un'occhiata alla bambina.

Rimase incerto solo per un istante sul da farsi, poi voltò le spalle, e se ne andò. I suoi passi
risuonarono sordamente sul legno proprio quando Claudie chiuse gli occhi, le labbra appena
incurvate in un sorriso.


 
Note dell'autrice:

E, con un piccolo, dovuto ritardo (dannati esami e poi pardon, mA THE NEW TRAILER AND ALL MY
FEELS UGH), ecco a voi il nuovo capitolo!
Cosa più importante di tutte, ho pubblicato questa storia con molti dubbi e preoccupazioni e tutto
((come al solito)), ma mi sono ritrovata con tantissime persone, più di quante immaginavo, a seguire
questa fic, e quindi, ecco, ci tenevo a ringraziarvi tutti, uno ad uno, voi che state leggendo, apprezzo
davvero tantissimo. *hugs*
Al prossimo capitolo!
Kisses,

Relya.

 

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Capitolo 5
*** chapter IV ***


La porta del soggiorno si aprì davanti agli occhi di John nello stesso momento in cui la raggiunse,
lasciandovi uscire Sherlock, seguito da un uomo alto, dai capelli chiari e i lineamenti nordici, le
spalle larghe ed una mascella squadrata; ricambiò l'occhiata di John con uno sguardo vagamente
perplesso, prima che fosse Sherlock a prendere la parola, passando le iridi azzurre da uno all'altro.

«John, lui è signor Bruhl, il padre di Claudie. Signor Bruhl, John Watson, mio collega e amico».

John non ebbe neppure il tempo di afferrare il senso della frase, che l'altro gli aveva stretto la mano
in una morsa, con un affannoso: «Molto piacere». C'era qualcosa di stranamente inquietante nel
fatto che un uomo di quella stazza avesse quell'aria persa e confusa -John notò che aveva gli occhi
rossi, e continuava a leccarsi nervosamente le labbra.

«Il piacere è mio» rispose meccanicamente, gettando un'occhiata a Sherlock, impaziente di
raccontargli del suo dialogo con la bambina, nella certezza che lui sarebbe riuscito a tirarne fuori
qualcosa con un minimo di senso.

Sherlock parve capire, ed annuì quasi impercettibilmente, prima di tornare a rivolgersi a Bruhl.
«Direi che il mio lavoro qui è finito, per oggi. Grazie per la disponibilità, le farò avere mie notizie».

Per star conversando con l'uomo che lo aveva accusato di rapimento e tentato omicidio, notò John,
il suo tono era quasi eccessivamente freddo e cortese. D'altro canto, neppure a Bruhl sembrava in
qualche modo importare della cosa: si limitò ad annuire freneticamente, lo sguardo che schizzava da
uno all'altro.

«Andiamo, John?» fece infine Sherlock, e questa volta c'era una punta di disprezzo appena più
visibile. «Buona giornata».

John sentì lo sguardo di Bruhl addosso per tutto il tragitto fino alla porta, e gli sembrò di esserselo
scrollato di dosso solo quando si fu seduto nel posto accanto al conducente dell'auto nera, e
Sherlock ebbe messo in moto, allontanandosi lungo la strada dissestata.

Ci fu un lungo momento di silenzio che sorprese John, chiedendosi che cosa potesse dare all'altro
tanto da pensare, visto che era stato lui ad avere la parte più importante dell'investigazione -alla
fine, non poté evitare di prendere la parola.

«Vuoi che... ti racconti di Claudie, immagino?» disse, esitando solo appena. Poteva essere che stava
perdendo colpi? Era meglio non pensare a quanto tempo prima aveva lavorato insieme.

«Cosa?» fece Sherlock, voltandosi a guardarlo con le sopracciglia appena aggrottate. «Oh, no, no so
già tutto. Ho seguito il vostro incontro dalla rete di telecamere di Bruhl dal soggiorno».

John aprì la bocca per un'istante, confuso, senza sapere cosa rispondere. «Telecamere?»

Sherlock lo guardò con quella tipica occhiata sorpresa che voleva dire che si era perso qualcosa di
apparentemente ovvio. «Dopo che suo figlio si è gettato da un tetto, sarebbe stato sciocco da parte
sua lasciare la figlia incustodita con una finestra aperta, no? Bruhl la tiene d'occhio ventiquattr'ore
su ventiquattro, anche se le volte in cui va fisicamente a trovarla sono sempre meno. Non credo
apprezzi la sua compagnia».

«Ma è suo padre!» replicò John, sbigottito.

«Oh, ma io parlavo di Bruhl».

Ci fu un altro breve silenzio, nel quale John si ritrovò ad esplorare tutte le varie implicazioni
collegate alle telecamere nascoste. Sentì un imprecisato tepore attorno al collo.

«Quindi tu hai... seguito tutta la conversazione?» chiese di nuovo, cercando di suonare il più
neutrale possibile.

«Tutta, sì» rispose Sherlock, distrattamente. Solo un istante dopo, parve ricordarsi all'improvviso di
qualcosa e si voltò a guardarlo. «Oh, e ho apprezzato molto la tua trovata finale. “È mio amico”,
“una bravissima persona” e tutto quella parte emotiva, ottima pensata, probabilmente la prossima
volta potrò parlarle io stesso».

John aggrottò le sopracciglia. «Non era una... trovata, Sherlock» disse poi, lentamente. «Io stavo
davvero...». Non riuscì a trovare una parola adeguata.

«Oh». Sherlock fece una piccola pausa, poi tornò ad osservare la strada. «Più realistico, bene. Più
possibilità che tu l'abbia convinta».

John rimase indeciso fino all'ultimo se replicare o meno, poi decise di lasciar perdere. Cambiare
argomento sarebbe stato decisamente meno indolore.

«Allora?» chiese quindi, osservandolo. «Che cosa hai trovato?»

Sherlock attese un paio di secondi prima di rispondere, e John poté quasi vedere i pezzi della
conversazione rimettersi in ordine nel suo cervello al suo comando, come incastrandosi in un puzzle
perfetto del quale lui aveva semplicemente recuperato qualche tassello.

«Nulla di troppo importante» cominciò alla fine, con un tono che lasciava presagire che aveva
invece scoperto tutto d'importante. «Cominciamo dall'inizio, tu sei entrato nella stanza, Claudie era
in un angolo, spaventata. Hai fatto un passo avanti, e si è messa a ridere. Perché?»

John si sentì vagamente arrossire. «È davvero importante?»

«Andiamo, certo che lo è. Era terrorizzata quando ha sentito aprire la porta, poi è sembrata divertita.
Non capisci perché?» Sherlock non aspettò neanche un suo tentativo di risposta, ed andò avanti. «Si
dice che la risata di un bambino sia provocata dal sollievo quando una situazione avvertita come
pericolo viene smentita. Claudie ha paura del suo rapitore, ma appena ti sei messo alla luce della
finestra, le è stato chiaro che non potevi essere tu, ed ha riso. Questo che cosa ci dice?»

«Che lei sa che io non l'ho rapita?» buttò John, la fronte aggrottata nel seguire il ragionamento.

«Esatto» annuì Sherlock. «E dato che lei non è sicura di come sia fatto il vero colpevole tu devi
avere un aspetto drasticamente diverso da lui. Ha fatto notare l'altezza ed il colore dei capelli -ora
abbiamo la certezza che si trattasse di un uomo alto e presumibilmente moro. Il che, ovviamente,
non è una grande scoperta, visto che era stato scambiato per me, ma è sempre un'utile conferma».

«...Giusto».

«La finestra, ora» Sherlock approfittò di un semaforo rosso per voltarsi verso di lui, abbandonando
il volante, come per dare più enfasi al discorso. «La stava guardando da prima che tu entrassi, e
Bruhl mi ha detto che ne è ossessionata. È collegata all'idea del pericolo, ma quando le hai chiesto
di essere più specifica, Claudie ha iniziato a contraddirsi».

«Schizofrenia?» fece John, con un mezzo sorriso, ma Sherlock scosse la testa.

«Bruhl mi ha detto che la sua terapista sta cercando di convincerla che non ci sia nulla di cui avere
paura. Purtroppo, lo sta facendo nel peggiore dei modi» spiegò, riprendendo in mano il volante e
per ripartire.

«Ovvero?»

«Crede che se fa riesce a provare a Claudie che non le succede nulla di male, lei capirà
l'insensatezza della sua idea. Lascia la finestra aperta per farle vedere che niente le può nuocere».

John aggrottò la fronte. «È un'idea priva di senso!» sbottò, pensando allo sguardo terrorizzato della
bambina. Disumana, era un aggettivo più adeguato, si corresse subito dopo.

Sherlock annuì distrattamente. «E sta avendo risultati controproducenti. Claudie avverte la finestra
aperta come una punizione per essersi lasciata sfuggire le sue paure, e non si sente libera di
parlarne. Da qui la confusione davanti a te, non sapeva se mentire o approfittare del tuo aiuto».

«Dovrebbero licenziarla». Fu decisamente l'unica cosa che riuscì a pensare come risposta.

Sherlock sorrise appena, prima di continuare a parlare. «Poi, la cosa diventa più difficile da
sbrogliare. La morte del fratello? Tutto quel racconto così sentito sulle bugie? Una mossa
decisamente furba, da parte sua».

John alzò le sopracciglia. «Non era solo... confusa e arrabbiata?»

«Oh, vedo che ha giocato anche te». Sherlock inclinò appena la testa, con un sorriso di
compatimento. «Non crederai davvero che lei pensi che il fratello possa ritornare dall'oltretomba?
Ha quasi undici anni, non è sciocca».

«E allora perché ha...?» cominciò John, sempre più perplesso.

«Per testare la tua reazione, ovviamente» rispose Sherlock tranquillamente. «Immagino che dopo
tutte quelle menzogne del padre, abbia imparato come ottenere una reazione sincera dalle persone
che la circondano. E questo ci porta alla questione principale».

«Davvero?»

Sherlock parcheggiò l'auto, e ne scese con un balzo, il lungo cappotto nero girando a ruota
tutt'attorno. John lo raggiunse sulla soglia della porta, mentre infilava le chiave nella serratura,
voltandosi a guardarlo prima di riprendere il discorso.

«Perché la morte del fratello non l'ha sorpresa? Bruhl mi ha detto che non ne è rimasta affatto
sconvolta, anche se nella sua sciocca opinione, la ragione è che sua figlia è troppo mentalmente
danneggiata per realizzare che cosa significhi». Tacque per un istante. «Claudie sapeva già che
sarebbe successo, e sapeva la ragione per cui Max è stato ucciso. Dobbiamo solo trovare il modo di
farcelo dire».

Aprì la porta, salendo i gradini a due a due e sparendo oltre la porta dell'appartamento, lasciando
John sulla soglia, in preda alla confusione. D'un tratto, si rese conto che c'era qualcosa che non
quadrava.

«Sherlock!»

Salì frettolosamente le scale, spalancando la porta e trovando il suo coinquilino già chinò sulla
custodia del violino, testando le corde. Voltò la testa verso di lui, interrogativo.

John esitò un attimo prima di parlare. «Hai detto “è stato ucciso”?» domandò, lentamente.
Sherlock appoggiò lo strumento sulla sua spalla, lanciandogli un'occhiata penetrante. «Bruhl crede
che sua figlia sia tormentata dai ricordi di quello che le è successo, e che la passata intossicazione di
mercurio le abbia causato visioni ed allucinazioni che l'abbiano portata alla pazzia. Crede che la
soluzione a tutto questo sia trovare un modo per farli smettere.»

«E si sbaglia?» domandò John, esitando appena.

Sherlock posò l'archetto sulle corde e lo lasciò scorrere perfettamente perpendicolare, producendo
una sola, lunga nota grave, per poi interromperla di colpo e alzare di nuovo gli occhi sullo sguardo
interrogativo di John, ancora fermo sulla soglia della porta. Attese un'istante, poi aprì di nuovo la
bocca per parlare.

«Credo che la situazione diventerà molto più chiara ad entrambi, non appena scopriremo se gli
incubi di Claudie sono reali o meno».

«E questo, come... come pensi di farlo?» domandò John, la fronte corrugata nel seguire il
ragionamento.

Sherlock non disse più nulla. Sembrava profondamente impegnato con qualche suo pensiero, ma le
iridi azzurre brillavano di eccitazione, e John poté distinguere chiaramente la linea delle sue labbra
incurvarsi in un accenno di sorriso. Sherlock premette l'archetto sulle corde una seconda volta, e
questa volta, una musica lenta, fatta di note grani e suoni discordanti, cominciò a scorrere fuori
dallo strumento, delicatamente.

Non ci fu modo di cavargli fuori altro per il resto della giornata. Rimase in piedi davanti alla
finestra suonare per ore, apparentemente senza alcuno sforzo, mentre John se ne stava seduto sulla
poltrona, accanto al caminetto, ad ascoltare.

Non disse nulla, non voleva interromperlo, e dopotutto, non c'era bisogno di parole, non ora che il
suono del violino era lì a ricordargli la sua presenza, a vibrargli fino a dentro al petto, perché lui ne
potesse godere, di nuovo, a pieno, selvaggiamente, di quel privilegio assurdo ed inconcepibile che
era riaverlo. Il cielo dietro di lui si stava scurendo, ma la stanchezza, i problemi, le paure, tutto
pareva scivolare via, ricacciato fuori dalla musica alla quale Sherlock pareva mettere in bocca tutte
le sue parole, i suoi pensieri. John ne avvertì l'eccitazione della caccia appena cominciata, il fremito
di impazienza, l'esaltazione per quel gusto speciale che era per lui il riflettere, rimettere insieme i
tasselli -e la musica si gonfiò, rapida, veloce, forte- per poi rallentare, per riflettere una sorta di
placida calma, la pausa per prendere il respiro, la quiete prima della tempesta, e poi cambiò di
nuovo -che cos'era, quello? Qualcosa di più che semplice musica parve uscire dallo strumento, era
emozione, era una gioia selvaggia, era disperazione, era chiedere scusa, era tutte quelle cose, o era
solo John che si lasciava andare all'immaginazione?

Aveva chiuso gli occhi senza accorgerne, come per ascoltare meglio, e lasciò che quelle note, che
parevano combaciare perfettamente con tutte i suoi timori e i suoi affanni, lo zittissero, lo
cullassero, gli sussurrassero all'orecchio che andava tutto bene, che la lotta era finita, che non c'era
più nulla di cui preoccuparsi, e la musica parve farsi più intensa -o più vicina?

Sentì il rapido accelerare del suo battito cardiaco mentre qualcosa, qualcuno si sedeva sul bracciolo
della poltrona, mentre il violino scivolava su note basse, gravi, che parvero riecheggiargli in gola, e
più profondamente; sentì il respiro, il suo respiro, più vicino, e poi a soli pochi centimetri dal suo
viso, e tenne gli occhi chiusi, godendo di quella vicinanza, del suo fiato che solleticava la sua nuca,
mentre il violino sussurrava un ultimo motivo, che spirò lentamente, come un soffio.

Ci fu il rumore del legno posato sul tavolino, poi sentì le mani di Sherlock che gli prendevano il
viso tra le mani, accarezzandolo, e intrecciò le dita con le sue, per poi scorrerle lungo il suo volto,
afferrandogli la mascella, e avvicinandolo a sé per baciarlo.
Lo sentì ricambiare con trasporto, e ancora tenne gli occhi chiusi, per concentrarsi sulla pressione
delle sue mani, delle sue labbra che lo cercavano, e per poi sentirlo scivolare su di lui, a cavalcioni,
il corpo premuto sul suo, le mani avvolte dietro alla sua nuca. Lo sentì rabbrividire di eccitazione,
mentre gli lasciava andare il volto, per infilare le mani sottili, fredde, sotto la stoffa ruvida del suo
maglione, sentendo il tepore della sua pelle contro le sue dita ghiacciate, mentre gli percorreva il
petto, per poi scendere ancora, mentre John continuava a baciarlo, sentendo il desiderio bruciarlo,
placato solo dal suo tocco freddo, che lo fece sussultare di piacere, mentre le loro labbra si
lasciavano e lui le schiudeva, lasciandosi sfuggire un gemito.
Fuori aveva iniziato a piovere e le gocce battevano fastidiosamente contro i vetri, ed il ritornello
parve accompagnare i loro corpi avvinghiati sulla poltrona, accanto al fuoco crepitante del
caminetto, incuranti del freddo.

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