Squadra Antimafia 6

di Cesca91
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Tu come stai? ***
Capitolo 2: *** Amici ***
Capitolo 3: *** Sotto lo stesso cielo ***
Capitolo 4: *** Andare o venire ***
Capitolo 5: *** Un altro amore ***
Capitolo 6: *** Hai paura? ***
Capitolo 7: *** (In)certezze ***
Capitolo 8: *** Attese ***
Capitolo 9: *** Progetti ***
Capitolo 10: *** Lettera d'amore ***
Capitolo 11: *** Il giorno più lungo pt. 1 ***
Capitolo 12: *** Il giorno più lungo pt. 2 ***
Capitolo 13: *** Buon Natale Rosy ***
Capitolo 14: *** Perchè non ti lasci salvare da me? ***
Capitolo 15: *** Va bene così, fino in fondo ***
Capitolo 16: *** Sentirsi vivi ***
Capitolo 17: *** Giochiamo? ***
Capitolo 18: *** Esserci ***
Capitolo 19: *** Anche io ***
Capitolo 20: *** Sei felice? ***
Capitolo 21: *** Scacco matto ***



Capitolo 1
*** Tu come stai? ***


1. Tu come stai?

 
Il cielo è grigio su Catania. Le nuvole si accavallano in una tormenta, spinte dal vento di metà ottobre. Sembra che lassù si stia preparando il peggio, un acquazzone di quelli che cancella le strade, i ricordi, le carte stracce buttate a terra. Ma c’è una cosa che non si cancella mai da posti come questi ed è la mafia, che ha sporcato i sogni e le speranze dei cittadini più umili e puliti. Se cammini fra le vie di Catania, leggi sulla faccia della gente la paura di un nuovo attacco, una nuova guerra fra capi, un’altra sparatoria che lasci a terra nuovi cadaveri e nuove macchie di sangue, indelebili come le tracce di una moto che è fuggita via portandosi a bordo un altro latitante assassino. Per questo, quando piove, nel cuore degli abitanti di posti come questo si accende il desiderio che tutto se ne vada via, che dal cielo scenda giù così tanta acqua da portare via anche l’orrore che spezza sempre più vite.
Calcaterra cammina sicuro di sé fra i corridoi dell’ospedale psichiatrico giudiziario di Catania, la sua meta è l’ultima porta alla fine del muro bianco, che nasconde una stanza importante dietro una porta cancello. La pistola infilata nei jeans, il capello spettinato, una maglia bianca sotto un giubbotto di pelle marrone, Mimmo si prepara in mente il discorso da fare. È la prima volta che torna a far visita a Rosy, dopo tutto quello che li ha visti protagonisti, complici, genitori insieme di una stessa vita in frantumi. Per un attimo, Domenico rivede davanti a sé le speranze e le ansie che lo animavano alcuni mesi fa, quando entrava in quell’edificio carico di rabbia e rancore, perché i cattivi erano ancora là fuori e Leonardino nascosto chissà sotto quanti cumuli di terra. Entrava nella stanza di Rosy, un cubo nel mondo che osservava il silenzio e lo sguardo perso nel vuoto di una madre alla quale avevano ammazzato il figlio, e le raccontava gli sviluppi, le novità, sperando di sortire in lei qualche reazione. Ma Rosy non rispondeva, Rosy percepiva e covava. C’è una parte del suo corpo in cui ha raccolto tutte le emozioni e sensazioni successive a quel tragico giorno, alla sparatoria in spiaggia, dove è svenuta fra le braccia del suo sbirro preferito con la speranza di risvegliarsi da un brutto sogno.
Solo che il sogno si è trasformato in un incubo e Leonardino non c’è più. E una mamma che ha perso il proprio bambino non sa da dove ripartire, perché di lei è rimasto nient’altro che una donna ferita, colpita a morte e costretta a vivere con i ricordi e i rimorsi.
- Ciao Rosy… -, un energico Calcaterra entra dalla porta di ferro bianco e si fa strada verso il letto, sul quale è seduta Rosy con le spalle al muro.
- Calcaterra… Ancora qua sei?
- Si, mi sono trattenuto un po’.  
- E’ proprio che ti sei innamorato di questa città, non è vero?
- Può darsi.
- E’ che c’è qualcosa che ti trattiene, sbaglio? O qualcuno…  
- Il lavoro… -, annuisce il poliziotto di fronte ad una che sa sempre tutto, vede tutto oltre l’anima di chi ha di fronte.
- E questo lavoro c’ha pure un nome per caso?
- Filippo De Silva.
Rosy spalanca gli occhi e si rizza sulla schiena, lanciando a Mimmo uno sguardo incredulo e sbarrato, incorniciato dal sopracciglio inarcato. È un’espressione che lui ha visto così tante volte e ci ha letto dentro la paura di essere lanciata nella tana dei leoni senza la corazza protettiva ma anche la sua solita strafottenza, che la rende così forte, così sicura di qualsiasi cosa da sembrare quasi immortale.
- Com’è possibile? Non era con te nella botola?  
- In teoria si, in pratica non so darmi una risposta. C’è un video filmato ripreso da una telecamera che lo ritrae chiaramente, è impossibile negare che sia lui.
- Ma tu ne sei proprio sicuro?
- Al mille per mille. Credo c’entri qualcosa con Africanetz, la punta di diamante dei russi, quello che… 
- Quello che vi è scappato?
- Proprio lui…
- E col quale Veronica Colombo aveva qualche affare in atto.
- E’ che non capisco come abbia fatto De Silva ad arrivare a lui, che cosa lo tiene ancora in vita? Era malato, in quella botola ci aveva lasciato le penne, ne sono sicuro.
- E’ più forte di te sbirro, se non ti salvavano la vita eri tu a lasciarci le penne là dentro.
- Invece sono qua, per il dispiacere di tanta gente che mi vorrebbe morto.
Domenico accantona i suoi problemi di lavoro per concentrarsi su Rosy, che abbassa lo testa fin quasi a toccare con la punta del naso le ginocchia strette fra le braccia.
- Tu, piuttosto, come stai?
- Viva.
- Questo lo vedo…  
- Come vuoi che stia, Domenico?-, dice col suo accento siciliano che raddoppia l’iniziale del nome di lui, - Come una a cui hanno ammazzato il figlio senza pietà, senza… Senza un briciolo di buon senso -
- Stanno pagando tutti per quello che hanno fatto
- Sì, ma Leo non me lo ridà nessuno, cosa vuoi che me ne importi che tutti stanno pagando?
- Ci capitano le vite che ci scegliamo, Rosy…
- Mi stai dicendo che se avessi lasciato Leo con te tutto questo non sarebbe successo? Lo so, me lo ripeto tutti i giorni.
- Non dico questo… Domani ti trasferiscono nel carcere di Catania, lo sai vero?
- Che bello, passo da una galera all’altra.
- Sarai messa in una cella di isolamento per evitare che qualcuno ti faccia del male.
- Anche sola come un cane devo stare. Morirò sola in carcere, che vita di merda.
- Potresti collaborare…
- No Domenico, non esiste. E poi che senso avrebbe? Collaborare per uscire prima di galera e fuori che faccio? Fuori che ci faccio, se non ho un figlio da crescere e coccolare?
- Puoi ricominciare una nuova vita, da zero.
- Ci ho provato e hai visto anche tu come è andata a finire.
- Non era quello il modo migliore per farlo, non salendo su un aereo con tuo figlio e scappando da tutti.
- Era il solo modo che mi permettesse di vivermi mio figlio. Adesso non ho nemmeno più lui…
Rosy abbassa di nuovo il capo, come se nello spazio di universo fra il suo petto e le ginocchia ci fosse un’atmosfera paralizzante, che cancella i pensieri, i ricordi, le sensazioni, come se in quell’angolo del suo corpo lei fosse ancora una brava persona e suo figlio fosse ancora vivo. Domenico riesce a vivere in quello spazio, riceve i suoi pensieri quasi per empatia e semplicemente da uno sguardo, quindi cambia discorso.
- Domani ti mando due della mia squadra durante il trasferimento, per controllare che vada tutto bene. Torno al mio lavoro.
Domenico accarezza delicatamente la guancia di Rosy, lei gli sorride a malapena. Poi gli guarda le spalle forti e coraggiose mentre si allontana verso la porta e pensa fra sé e sé che è un grande uomo, una grande persona che ha sacrificato qualsiasi cosa per suo figlio, spezzando ogni regola, ogni grado superiore.
- Mimmo? -, gli dice lei, è così che lo chiama quando parlano di qualcosa di leggero che non abbia a che fare con la mafia né con la morte. - Sono contenta che sei felice… Te lo meriti.
- E tu cosa ne sai di come sto?
- Ho imparato a conoscerti, ce l’hai scritto in viso… E’ una donna, vero?
Domenico abbozza un sorriso di imbarazzo, di chi si sente in colpa a provare sensazioni di benessere e tranquillità mentre Rosy viene sbattuta fra carceri e manicomi, nell’attesa che il tempo passi e che la morte di Leonardino si faccia sempre più lontana. Poi torna a darle le spalle e si chiude la porta dietro di sé. Forse, se lei avesse cambiato vita così come lui le aveva chiesto, sarebbe stata lei la donna a renderlo felice. 
 

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Capitolo 2
*** Amici ***


2. Amici 

Calcaterra fa il suo ingresso plateale in commissariato. I suoi colleghi alzano la testa tutte le volte che lo vedono passare. Ha combinato un po’ di casini ultimamente, ma lo rispettano tutti. E’ dalla parte della giustizia, lui. Per quante regole abbia infranto, il suo obiettivo è sempre e soltanto uno: ripulire la Sicilia dal gioco schifoso dei mafiosi.
Ha combinato un po’ di casini ultimamente, ma adesso è di nuovo lui il capo. Lui che dirige le azioni, lui che dà gli ordini, lui che indica a tutti la direzione in cui guardare. Domenico Calcaterra è la mente della sua squadra. E anche del corpo di Catania, che all’inizio non esplodeva di felicità nell’accogliere a casa la Duomo di Palermo. Si trattava di dividere la stanza con un fratellastro, uno di quelli che ti ruba i giochi ma poi non ti lascia mai solo in disparte. Dopo un po’ di mesi, la squadra catanese si è innamorata dei suoi colleghi di fuori. Qualcuno, forse, anche troppo.
- Buongiorno! -, esordisce con un sorriso la Colombo, che lascia un bacio delicato sulle labbra del suo collega. Lui però, distratto e pensieroso, non sembra ricambiare. - Oggi è il gran giorno per la tua amica… Come si sente?
- La mia amica -, afferma Calcaterra in risposta a Lara - sta bene, grazie.
- Non so come fai tu ad essere amico dei mafiosi.
- Rosy non è più una mafiosa.
- Certo…
- E’ una donna che ha perso un figlio e tua sorella lo ha seppellito sotto un cumulo di terra lavica.
- Questo me lo ricordo.
- Era solo per rinfrescare la memoria alla sorella di una mafiosa.
- Grazie e buona giornata anche a te Domenico -, taglia corto lei e va via con un sorriso, per stroncare una sicura discussione col suo uomo. Lui non se ne cura e tira dritto per la sua strada, raggiungendo i colleghi alle loro scrivanie di servizio.
- Palla, Sciuto, ho bisogno di voi. Mi serve che seguiate passo passo il furgone che fra un paio d’ore accompagnerà Rosy dall’ospedale psichiatrico al carcere di Catania.
- Agli ordini capo -, sentenziano i due ispettori in coro.
- Ragazzi – dice Domenico indicandoli con l’indice arrabbiato della mano destra, - Attenti a voi, se qualcosa va male la responsabilità sarà solamente vostra.
- Non si preoccupi -, afferma Sciuto con serietà e con la consapevolezza di quanto stiano a cuore a Calcaterra le sorti della regina di Palermo.
Palladino e il suo collega non battono ciglio e si preparano al loro incarico, quindi di tutta risposta Sandro scatta in piedi con la speranza di rendersi utile. Calcaterra lo vede con la coda dell’occhio e, mano sulla spalla, lo invita a sedersi alla scrivania.
- Tu resti qua, Sandro, ho bisogno di te in ufficio.
- Magari potrei servire fuori, la Abate si fida di me.
- Non se ne parla Pientrangeli, ne abbiamo già discusso.
- Cazzo Domenico, è il mio lavoro.
- No Sandro, il tuo lavoro da ora in poi sarà qui dentro, seduto ad una scrivania. Ho bisogno di persone come te per mettere insieme i pezzi, per dirigere i fili…
- Ma…
- Niente ma. Fare il poliziotto non significa solo rischiare la vita tutti i giorni sul campo nel mezzo di una sparatoria. Hai avuto le tue occasioni, ci stavi lasciando, te lo ricordi questo vero?
- Certo che me lo ricordo.
- Non voglio avere sulla coscienza la vita di un padre. Non posso permettermi di perdere un altro uomo, non te. Adesso il tuo lavoro è qua dentro. Ho bisogno di uno in gamba che ci aiuti a capire cosa c’è dietro, uno che faccia un lavoro di testa - Domenico legge sul volto di Sandro perplessità e voglia di agire, di muoversi sul terreno e stanare la faccia mafiosa della Sicilia, quindi gli parla con tono protettivo - La caccia alle streghe là fuori non finisce mai, Sandro, è un continuo. Non riusciamo a metterne un paio dentro che ne troviamo altri dieci fuori, pronti a prendere il posto di chi è appena andato via. Dobbiamo riconoscere i nostri limiti, capire quando è il momento di fermarci. Il tuo momento è adesso, perché c’è un bambino in arrivo che ha bisogno di un padre, un padre vivo, e tu dovrai esserci nel corso della sua vita. Se decidi di scendere in campo, Sandro, potresti non tornare più a casa un giorno di questi. E chi è più importante adesso, un bambino che deve nascere nel meglio o un ragazzo testardo che vuole rischiare la sua vita per farsi ammazzare da qualcuno che corre più veloce?
- E’ una bambina…
- Ma dai… Avete scoperto il sesso?
- No, non vogliamo saperlo… Solo che io lo so, lo so che sarà una bambina, me lo sento. Un padre le sente queste cose…
- Sarà dura, domani più di oggi, ma io voglio vederti incollato a quella cazzo di scrivania tutti i giorni, tutti i minuti.
- Ci proverò.
- Ci devi riuscire, non provare. Tieniti in collegamento telefonico con Palla e Sciuto per sapere se il trasferimento di Rosy va a buon fine.
- Domenico?
- Eh?
- Grazie, sei un amico…
- Lo mettevi in dubbio? -, dice lui stringendo la mano di Sandro e tirandolo verso di sé. Poi si scambiano un sorriso complice, fraterno. Perché per essere un buon poliziotto sul campo o alla scrivania devi fare dei colleghi i tuoi migliori amici, devi saperne captare le azioni e le intenzioni e devi lasciare che sfoghino su di te tutto ciò che è un impedimento al lavoro. E sì, Calcaterra e Sandro sono come due fratelli, con la stessa missione di pace e giustizia che scorre nel sangue.
Il cellulare di Domenico squilla, sul display compare il nome di Palladino.
- Cosa succede Palla?
- Tutto apposto dottore, Rosy è stata portata nella sua cella. Non era molto contenta.
- Tu lo saresti, Palla?
- No, ma io non sono un mafioso.
- Aridaje co sta storia della mafiosa. Va bene ci rivediamo in centrale.
Domenico riattacca il telefono, quindi sale in macchina e Lara fa per seguirlo, ma lui stronca le sue intenzioni.
- E’ una cosa che devo fare da solo, ci vediamo dopo ok?
- Come vuoi -, sentenzia lei non proprio soddisfatta della risposta di Domenico.
Nella sala visite della casa circondariale di Catania, Rosy Abate si prepara a ricevere la sua prima visita, senza alcun dubbio di chi possa essere.
- Non mi aspettavo fossi tu - dice lei con ironia.
- E chi ti aspettavi?
- Nessuno, non c’ho nessuno fuori che mi viene a trovare.
- Ah no? A me sembra che facciano la fila - scherza lui, girandosi di spalle e indicando un’immaginaria fila di persone al di là della porta; Rosy sorride. – Caspita, sono riuscito a farti ridere.
- Difficile di questi tempi. Cosa vuoi Domenico?
- Che c’è, non posso venire a trovare una vecchia amica?
- No è che tu quando vieni da me è perché vuoi qualcosa.
Lui abbassa la testa sorridendo, colpevole di opportunismo.
- Volevo sapere se qui, dalle tue parti, si parla di un certo De Silva.
- Sono appena arrivata… E poi ti ricordo che sto in una cella di isolamento, da sola.
- Beh meglio, no? Sai che noia dividere la stanza con qualcuno.
- Non ci provare Calcaterra, non cado nelle tue trappole.
- Quali trappole? - sorride lui, fingendo di guardare sotto il tavolo in cerca di qualcosa.
- Oggi sei in vena di scherzare o sbaglio?
- Diciamo che mi sono svegliato con una certa allegria.
- E la scarichi addosso ad una mafiosa chiusa in galera per il resto della sua vita?
- Ah ma oggi vi siete messi d’accordo con la storia della mafiosa?
- Perché, chi altri ha parlato di me?
- Un po’ di gente… Sei sulla bocca di tutti, Rosy.
- Tranne su quella di chi vorrei essere.
Rosy sorride torturando le dita di una mano fra i denti bianchi, la testa bassa e lo sguardo alto verso Calcaterra. Lui accoglie il chiaro riferimento e sorride. E, Dio, quanto è bello. Ha la bellezza del ragazzo di strada trascurato, il fascino del ribelle, ma in fondo dentro di sé ha un grande animo da bambino, da cucciolo sulla difensiva. Calcaterra è un bonaccione, con chi riesce a tirar fuori la parte migliore di lui. Che poi ce l’ha scritto sulla faccia, porta la tenerezza appesa al collo e la mostra solo a chi davvero la merita. E’ la dolcezza di un ragazzo che ha scelto di vivere fra le strade pericolose di una nuova città, la dolcezza che si nasconde dietro un velo di sicurezza e di sfacciataggine. Solo che la vedi, la percepisci, la riconosci quando lui vuole tirarla fuori e dedicarla a qualcuno. E’ un sorriso delicato, è una piccola ruga fra le pieghe del viso e la barba. E’ una leggera depressione degli occhi. E Rosy resta come incantata, affascinata. E’ un sottilissimo filo leggero, quello che li lega. E’ un’alchimia di pensieri, sensazioni. E’ un legame di testa.
- Grazie per essere venuto, Mimmo.
- Volevo solo farti sorridere un po’ e a quanto pare per oggi ci sono riuscito.
- Dovresti stare alla larga da una come me, io sono una brutta malattia. Mi attacco alla pelle della gente buona e porto solo rovine, disastri…
- Io, invece, ho conosciuto una persona diversa. Sai a volte capisco perché Claudia ci tenesse così tanto a proteggerti - Rosy non stacca lo sguardo dal poliziotto e una parte di sé vorrebbe abbracciarlo per ringraziarlo di tutto, di qualsiasi cosa, semplicemente del fatto che lui è ancora presente nella sua vita sebbene la madre di suo figlio sia morta su una bomba che doveva essere per Rosy. - Beh, vado, ho da distruggere un po’ di mostri cattivi. Tu riguardati, Rosy.
Lei gli sorride, senza dar pace alle dita che continua a mangiucchiare. Poi, quando Mimmo lascia la stanza, prende a picchiarsi la testa con le mani, con la speranza di spegnere il fuoco di pensieri e intenzioni che arde nel suo cervello. 

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Capitolo 3
*** Sotto lo stesso cielo ***


3. Sotto lo stesso cielo 
 
Una mano curata bussa alla porta dell’ufficio di Calcaterra, quindi entra prima che le sia dato il permesso. Lara Colombo ha i capelli raccolti in un nido di ricci, un bastoncino lungo in legno simile ad una matita lo attraversa tenendolo stabile come un pugnale fra i polmoni, un neo a lato del naso, lo sguardo da cerbiatta orgogliosa. Eppure, dentro, cova una centrifuga di emozioni e disagi, che neppure un buon pettine riuscirebbe a sciogliere.
Quando vede Domenico, poi, si illumina in viso. Gli ha salvato la vita tirandolo fuori dalla botola, ma a volte è come se lui l’avesse salvata a lei. Ha portato il meglio fra le sue cose, i più bei sorrisi sul suo viso e il senso di giustizia forte che anima il vicequestore in tutte le sue azioni.
Legge sul volto del suo collega tanta confusione e voglia di agire, quindi lo interroga preoccupata.
- Ci sono novità?
- No, niente di niente… Niente che ci permetta di collegare De Silva ad Africanetz. Potrebbero lavorare a qualsiasi cosa, ma un semplice video di sorveglianza non ci dice niente.
- Beh, facciamolo parlare no?
- Chi? Chi facciamo parlare? Siamo alle basi, dobbiamo partire da zero…
- Il video… Era una metafora…
Domenico infila le dita fra le ciocche dei suoi capelli, quindi si stringe la testa fra i palmi delle mani come se, spremendola più forte, potesse uscire qualcosa di buono.
- Esaminiamo tutto quello che abbiamo, tutto. Ogni minimo particolare deve essere spulciato fino all’osso. Non ci deve sfuggire niente e soprattutto voglio sapere come ha fatto De Silva a salvarsi… Ancora una volta.
- Va bene. Ci vediamo da te dopo.
- No… Lara.
Lei resta impietrita, come se una scheggia di vetro fosse finita dritta al cuore.
- Come vuoi…
- E’ che preferirei rimanere qui a lavorare, stasera.
- Capito, non è un problema. Buon lavoro.
- Che c’è, ti sei offesa?
- No Domenico, non mi sono offesa. E’ che da un mese non faccio altro che starti dietro, mi prendo cura di te, ti chiedo come stai… Ma tu sei così… Così sfuggente, distratto.
- E’… E’ il lavoro.
- Sì, ma ad un certo punto il lavoro resta in ufficio e noi torniamo a casa e continuiamo la nostra vita anche dopo la mafia.
- Ma la mafia non finisce mai, Lara -, Domenico osserva il suo sguardo indurirsi poco a poco, come se l’aria che respirano in quella stanza trasformasse gli uomini in pietra. Lara lo guarda, senza proferir parola, quindi fa per voltarsi e andare via, ma Domenico la blocca con le parole. - Hai ragione scusami… Ci vediamo da me.
- Se devi farlo solo per compassione risparmiati, ti prego.
- No, lo faccio perché mi va e perché hai ragione tu, bisogna staccare la spina ogni tanto.
Lara annuisce con non troppa soddisfazione, ricevendo in cambio del suo amore un sorriso sforzato di Domenico. Perché poi va a finire sempre così. C’è qualcuno che ci ama più di se stesso ma noi non lo vediamo, non ce ne accorgiamo. E quando siamo di fronte al fatto, quando ci sbattiamo contro a tutto questo amore, gli diamo le spalle. Perché le cose complicate sono sempre le più belle, quelle che ci attirano di più nonostante la consapevolezza di non poterle avere mai. E Domenico questa consapevolezza ce l’ha forte, è la sveglia che tutte le mattine alle 6 lo tira giù dal letto. Si alza e sa che dovrà affrontare un’altra giornata terrificante, fatta di pistole, auto rubate, indagini complicate. Le piste si fanno sempre più difficili e gli occhi puntano dove il corpo non può arrivare. Dietro le sbarre, in una stanzetta bianca che si affaccia sul mondo soltanto da una piccola finestra in alto. E da quella finestra un paio di occhi grandi osserva il cielo, per aspettare l’ora del giorno in cui le nuvole disegnano i riccioli biondi di un bambino che non c’è più.
Domenico guarda Lara uscire dal suo ufficio, quindi lo sguardo gli cade su un portaritratti che vive sulla scrivania da un po’ di tempo. All’interno di una cornice satinata c’è una mamma che stringe fra le braccia suo figlio e sorride, sorridono insieme, perché c’è un filo sottile che collega i loro cuori. Un filo che li tiene in vita assieme, anche a distanza di chilometri, anche fra la terra e l’aldilà. Mimmo osserva Rosy e Leonardino e in quello scatto 10x15 spera di trovare il limite, il confine fra il cuore e la ragione. Spera di svegliarsi all’indomani e di liberare il suo cuore dalla prigione di Catania, perché questa vita gli sta stretta. Un po’ come infilare jeans aderenti in un giorno di caldo appiccicoso. Chiude gli occhi, e per alcuni minuti di silenzio immagina come sarebbe stata la sua vita se alcuni mesi fa le avesse detto sì, mentre lei gli stringeva il viso fra le mani agitate e lo implorava. “Vieni via, vieni via con me”.
Sotto lo stesso cielo, dall’altra parte della città la regina di Palermo è stesa sul letto della sua cella di isolamento, pancia in giù e una foto stropicciata fra le mani. Un pezzo di carta che imprigiona il sorriso di suo figlio, quando il suo cuore batteva ancora. Rosy ha lo guardo spento, di chi ha perso ogni cosa nella terra della mafia. Anche il diritto e il dovere di continuare la guerra, perché l’onore non si spegne mai. Ma Rosy è una perdente. E’ una regina spodestata dal trono e presa a calci dal mondo, che ha vinto contro di lei la battaglia più importante. La terra ha risucchiato suo figlio e ha lasciato a lei il destino di vivere ancora e trascorrere il resto dei suoi giorni a pensare e soffrire e a chiedersi come sarebbe andata a finire, se avesse dato ascolto a chi ha più sale in zucca di lei. E se Leonardino non avesse guardato in viso la donna che lo ha sotterrato sotto una manciata di terra nera? Se non avesse chiamato sua madre invano, prima di chiudere gli occhi per sempre? E se lei non avesse dato alla luce un figlio destinato ad una vita orribile? Se lui non fosse morto a causa sua? Se fosse morta lei, sotto il colpo di pistola di un insensibile Achille qualunque? E se, quel giorno, avesse dato ascolto a Mimmo? Se avesse dato ascolto a Mimmo tutte le volte in cui lui l’aveva pregata di fermarsi un attimo, di fare un passo accanto a lui piuttosto che da sola?
Tutte le volte. Glielo aveva detto sempre. Si trattava di prendere la mano di qualcuno, forse l’unica persona davvero disposta ad aiutarla. L’unica persona che aveva scovato in lei qualcosa che andasse oltre la mafiosa, oltre la corona della regina di Palermo. Doveva soltanto deporre lo scettro e lasciarsi aiutare. “Lasciati aiutare a trovare tuo figlio”. Sarebbe ancora vivo. Leonardino crescerebbe con Mimmo e con uno sceriffo di plastica che lo difenderebbe dai cattivi. Lei pagherebbe per tutto il male fatto. Avrebbe la vita che merita. E se non avesse fatto così tanto del male, Leonardino sarebbe ancora vivo? Se avesse pagato lui, per la cattiveria di sua madre?
Poteva restare. Rosy poteva restare e accettare un aiuto, chè male non sarebbe stato. Avrebbe lasciato che la giustizia facesse il suo corso e, forse, avrebbe trovato fuori ad aspettarla un poliziotto molto carino e un figlio già cresciuto, ma ancora vivo. Che madre sei, se non hai più un figlio? E che donna sei, se per il resto dei tuoi giorni ti è concessa soltanto la visita saltuaria di un uomo che non ha smesso di restarti accanto, seppure al di là delle sbarre? Nasconde la foto sotto il cuscino, poi chiude gli occhi e si addormenta così. Anche oggi, come tutti i giorni. Col suo bambino accanto a lei, così può sognarlo e può sentirlo respirare. E tutti i giorni si addormenta con la speranza di non svegliarsi mai più, perché Leo dorme in una piccola bara bianca mentre a lei è concesso ancora il diritto di addormentarsi su un letto più o meno comodo e ascoltare il rumore della pioggia che picchia forte sui tetti della città. E a Leo quel rumore piaceva tanto, immaginava fossero gli spari dei cattivi che erano venuti a prenderlo, così gli bastava schierare avanti il suo sceriffo col cappello per difendersi. Solo che quella volta i cattivi erano davvero tanti e lo sceriffo, da solo, non era riuscito a difendere la sua squadra. Ed erano caduti tutti, anche il capitano dai riccioli biondi. 
 

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Capitolo 4
*** Andare o venire ***


4. Andare o venire
 
Somiglia ad una di quelle padelle in cui si cucinano le castagne in inverno. Buchi, buchi ovunque. L’uomo giace a terra in una pozza di sangue, il corpo percorso da proiettili che disegnano su di lui un’immagine che gli agenti dell’antimafia hanno visto e rivisto altre volte. Non ha un nome, il volto è sfigurato. Tre colpi di fucile gli hanno cancellato la pelle. Uno dei primi arrivati sul posto gli ha chiuso gli occhi, con i quali forse ha guardato in faccia i suoi assassini poco prima di andarsene per sempre. Ancora una volta la mafia ha colpito, perché può trattarsi solo di mafia se all’alba di un giorno qualunque lasciano un cadavere rastrellato a pochi metri dalla centrale di polizia di Catania.
- E’ davvero possibile che nessuno abbia visto nulla?
- Dottore è difficile vedere qualcosa in piena notte -, spiega Sciuto al suo superiore Calcaterra, agitato e pieno di tenacia e voglia di reprimere ogni male su quella terra.
- Siamo nei pressi di un commissariato, dannazione nessuno ha sentito un corpo che veniva martoriato? Siamo diventati omertosi, adesso? Controllate i filmati delle telecamere di sorveglianza.
- Sta pensando a qualcosa di particolare?
- Sto pensando che la mafia ha colpito ancora.
- Potrebbe essere semplicemente un regolamento di conti.
- Oppure potrebbe essere l’inizio di una nuova strage. Preferisco pensare al peggio, chè così non si sbaglia mai.
- Dottore, venga a vedere.
Un uomo al servizio della squadra di Catania attira l’attenzione di Domenico, quindi raggiunge il poliziotto verso un cassonetto della spazzatura.
- Cosa c’è?
- Un documento d’identità.
- Vicino ad un cassonetto. Chi getta il proprio documento? Tu lo getteresti, Morlino? -, replica Calcaterra verso il suo collega.
- No. Ma la cosa strana è che manca la foto tessera.
- Un documento senza volto. Sembra che oggi sia la giornata dei volti cancellati. Va bene, cercate ovunque di dare un volto a quel nome e un nome a quel cadavere. E copritelo, sembra una scolapasta.
Domenico torna in commissariato e raggiunge frettolosamente il suo ufficio senza incrociare lo sguardo di chi è di servizio per quella notte. Non è affatto un buon inizio di giornata, per l’antimafia di Catania.

- Abbiamo un nome.
- Bene, Palladino, queste sì che sono buone notizie.
- E indovini un po’? Il documento d’identità trovato nella spazzatura appartiene al nostro uomo.
- Quello pieno di buchi?
- Esattamente. Nel database è venuto fuori un nome, Angelino Tommasi. Eccolo qua.
Palladino porge a Domenico un foglio con le generalità del proprietario del documento.
- E’ un costruttore?
- Esattamente. Sul documento fra i segni particolari risulta una voglia al caffè sulla coscia destra, quindi ho chiamato il medico legale e ho chiesto di controllare il corpo dell’uomo.
- Ha trovato la voglia…
- Ha trovato la voglia! Ma la cosa più importante è che dall’autopsia è emerso che l’uomo è stato ucciso dai colpi di arma da fuoco su tutto il corpo, mentre quelli sul viso sono più freschi.
- Quindi è probabile che lo abbiano ammazzato prima e poi lo abbiano portato vicino al commissariato per riempire la sua faccia di buchi. Ora dobbiamo solo capire cosa ha fatto di sbagliato un costruttore per meritare quella fine.
- E soprattutto a chi ha dato fastidio -, interviene Sandro dalla sua scrivania.
- Controllate i filmati.
- Lo abbiamo già fatto, non è emerso nulla.
- Ricontrollate. Setacciate tutta la zona, cercate di capire se qualcuno ha visto o sentito qualcosa. Ci stanno mandando un chiaro segnale, sono proprio curioso di capire chi è il mittente.
Sandro e Palladino accolgono energici l’ordine di Calcaterra, quindi si allontano incrociando Lara che si avvicina al suo uomo.
- Sono arrivata appena ho saputo, cosa succede?
- Niente di buono, prepariamoci al peggio.
- Peggio di ciò che abbiamo già dovuto affrontare?
- Dovresti saperlo meglio di me che questa terra non finisce di riservarci sorprese.
- Di De Silva si è saputo niente? Movimenti, qualcosa?
- Niente di niente, è un fantasma per il momento. Sta preparando qualcosa di grosso, me lo sento.
- Senti tante cose tu…
- Conosco i miei polli.
Lara si poggia alla scrivania di Domenico, sorride. Lei è una di quelli a cui sorridono gli occhi, più che le labbra. Solo che ogni volta sbatte contro un non vedente e ogni volta deve leggere fra le righe dei comportamenti di Domenico, per capire cosa c’è che non va, questa volta. Lui la guarda, con fare assente, mentre le sue mani litigano con fogli di carta stropicciati e che non vogliono stare in ordine. Un po’ come la sua testa. Lara gioca a mettere a posto i pezzi, sforzandosi di tenere in piedi un castello imponente fatto con le carte da gioco, ma Domenico butta giù tutto con un sol respiro.
- Che c’è?
- Niente, mi piace guardarti -, lui risponde con un sorriso debole, uno sforzo troppo grande per un uomo che ha la testa altrove - E’ che tu proprio non ci riesci a stare con me, vero?
Domenico lascia stare le carte e si alza dalla scrivania, avvicinandosi a lei.
- Lara… Io non posso stare con nessuno. Non posso legarmi, non voglio legarmi. Ogni volta che succede vedi come va a finire.
- Ma io non sono il tuo passato, io sono adesso, sono qua…
- Io non… Io ci voglio andare piano, capisci? Va bene così, come sta andando adesso, senza fretta, senza una meta.
- Quindi sono una scopamica? E’ questo che mi stai dicendo?
- Dico che dovremmo prima trovare il tempo per risolvere i nostri casini.
- Ma tu di tempo per me non ne hai mai, risolvi i tuoi casini e corri subito in carcere.
- Cosa c’entra questo, adesso?
- C’entra. Perché io sono qua e sono una poliziotta, mentre tu preferisci una mafiosa dietro le sbarre.
Domenico resta in silenzio, sa che in fondo Lara ha toccato il suo punto debole, il suo tallone d’Achille. Perché lui si è dato delle priorità e lei non figura mai fra queste. Perché è scientificamente provato che fra una cosa facile ed una complicata, lui debba scegliere sempre inevitabilmente quella complicatissima. Ma poi perché? Non sarebbe più facile lasciarsi andare ad una persona che lo ama? Concedersi una storia semplice che non conosca ostacoli e muri alti da abbattere. Invece no. Domenico cade sempre dove c’è più marcio, ha la possibilità di inciampare sulla terra asciutta ma preferisce camminare ancora fin dove c’è acqua sporca, fin dove il fango gli macchia i vestiti e la mente e gli occhi. Forse dovrebbe dare il suo amore a chi ne ha tanto da vendere per lui e allontanare i suoi dubbi e le incertezze. Perché in fondo in cuor suo sa che la vita che continua a sognare per sé è una vita impossibile. E lui dovrebbe arrendersi, dovrebbe gettare la spugna e tornare tutti i giorni a casa con una donna che sia libera di amarlo e che vive in una casa normale, non in una stanza bianca e fredda di una casa piena di stanze tutte uguali che ospitano persone tutte uguali. Prima o poi la vita gli riserverà il conto e lui non potrà tirarsi indietro dal pagare. Prima o poi si ritroverà seduto alla scrivania e non ci sarà più una Lara che, nonostante tutto, continui a guardarlo con amore, mentre lui aspetta ancora che Rosy esca dal carcere.
Lara non resiste al silenzio rivelatore di Calcaterra, quindi preferisce cambiare discorso.
- L’avvocato di mia sorella dice che fra un mese dovrebbe iniziare il processo.
- Bene, era ora.
- Forse dovrei andare a trovarla, per sapere come sta…
Domenico balza in piedi, lo sguardo sbarrato e assassino di chi ha visto e sentito troppo.
- Provi pietà per lei?
- Non provo pietà, ma è pur sempre mia sorella.
- No, Lara, è una donna sporca, è una mafiosa.
- Perché sei sempre così duro quando si parla di lei?
- Perché ha sotterrato un ragazzino di cinque anni, ecco perché!
- Ma andiamo, è stata costretta a farlo… L’avrebbero ammazzata se non avesse collaborato con Ferro, cos’altro doveva fare?
Domenico non crede alle sue parole, sorride con sarcasmo e cerca di tenere a freno la rabbia che gli esplode negli occhi.
- Ti rendi conto di quello che dici, Lara? E’ per colpa di persone come tua sorella se questa terra non cambia mai, se lo schifo continua a crescerci intorno. Metteremo al mondo dei figli in mezzo a ‘sta merda e saremo costretti a tenerceli chiusi in casa, perché c’è gente omertosa in giro.
- Domenico tu avresti fatto lo stesso!
- No, Lara, no! -, replica lui con la voce dura - Non avrei collaborato, avrei cercato di fermare quella strage di orrore come tutti dovrebbero fare. Avrei denunciato tutto alla polizia, se fossi stato un cittadino comune, perché sono stanco di avere paura, stanco di subire. Poteva essere tuo figlio, quel bambino. E, fidati, non avresti parlato in questo modo. Tua sorella pagherà, pagherà per aver appoggiato il gioco sporco della mafia e per non essersi opposta. Devono pagare tutti, ad uno ad uno. Sono stufo di gente che non ha il coraggio di ribellarsi e di pretendere per i propri figli un mondo migliore. Credi che mi piaccia esser svegliato ogni mattina da una telefonata che mi comunica altri morti, altre vittime del sistema? No, mi fa tutto schifo. Ma lo faccio in nome di quelli che se ne sono andati senza meritarlo, in nome dei colleghi che non ci sono più, che sono caduti sotto i proiettili della mafia. Lo faccio per Claudia, per Leonardino, per tutti. E dovresti farlo anche tu, invece di provare pietà per una donna che non ne ha avuta affatto, quando ha dovuto scavare una fossa per quel bambino.
Lara ha lo sguardo duro, perché sa che Domenico ha ragione e sa che le sue parole la colpiscono come spine di legno nelle dita e fanno male, quando le va a toccare. Ma è una donna risentita, arrabbiata, perché continua ad amare un uomo che non la amerà mai e lei questo lo sa benissimo. Preferisce perseverare, fino a sbatterci la testa, fino a raggiungere il suo scopo.
- E allora perché tu provi pietà per una donna che ha ammazzato gente a più non posso? Se l’è meritata questa sorte, l’Abate. Se l’è cercata la morte di suo figlio.
Domenico la guarda con rabbia e delusione, questa volta. Non riesce a pensare ad altro, non riesce a credere che lei sia così vendicativa nei suoi confronti. Non riesce a credere che nessuno sulla faccia di questa terra capisca come si sente lui. Perché la verità è che Rosy è l’unica persona che gli è rimasta, ma sa che quando lo ammetterà a se stesso imboccherà una via di non ritorno.
- Questa conversazione mi sta schifando. Vai pure da tua sorella… Portale i miei saluti. E dille che la lascerò marcire in carcere, fosse anche l’ultima cosa che faccio.

- Non collaboro, non ho sentito nulla su De Silva, nessuno ha cercato di ammazzarmi.
- Che fai? - le chiede Mimmo con un velo di curiosità sul volto.
- Ti dico tutto quello che so prima che mi scarichi il tuo interrogatorio addosso.
Lui sorride, Rosy riesce a sorprenderlo sempre.
- Non sono venuto per interrogarti -, si siede dall’altra parte del tavolo bianco che li separa nella stanza delle visite.
- Strano -, replica lei senza nascondere un sorriso. Mimmo rimane silenzioso a guardarla per alcuni secondi, i lunghi capelli scuri tirati a lato con naturalezza, lo sguardo di sfida, tre nei delicati che disegnano un triangolo sulla guancia destra, le dita consumate dalle battaglie e dalla rabbia repressa. Sta bene, quando va da lei. Sta bene stando semplicemente in silenzio a fissarla, perché oltre la mafia e le sparatorie e la cattiveria, lui ci ha visto dell’altro in lei. Ha visto chi era prima di diventare la regina di Palermo e ha visto qualcosa che c’è ancora, che Rosy non lascia andare via. Perché forse capitano quei giorni di luna buona in cui lei spera ancora di tornare buona, di risvegliarsi dal sonno di sangue e violenza e ricominciare da dove tutto si era interrotto, quella notte in macchina con suo marito pronti ad andar via per sempre prima che una sparatoria infrangesse i loro sogni.
- Mi stai consumando a furia di guardarmi.
- Scusami -, dice lui divertito e portandosi agli occhi un paio di occhiali da sole scuri.
- Ma sei scemo? Togliti quei cosi -, gli dice lei strappandoglieli dal viso, ride. Ridono insieme. Insieme si guardano, parlandosi così, con i disegni del volto.
- Come si sta qua dentro?
- Chiusi… Con un televisore che funziona un giorno sì e dieci no. Là fuori?
- Non è cambiato poi molto. Ancora sangue, ancora cadaveri senza nome.
- Ti fai sempre fottere dalla mafia, Calcaterra.
- Che vuoi farci, mi piacciono i mafiosi. Alcuni…
- E’ che senza di me là fuori nessuno sa più come muoversi. Tempo un paio di mesi e li arresti tutti, vedrai.
- Tu là fuori non ci torni più, lo sai si? Niente più violenza, nessuna sparatoria. Diventerai una donna pulita.
- E al prezzo di cosa? Uscirò da qua con i capelli bianchi e non avrò più nulla per cui combattere.
Il tono della sua voce si addolcisce sotto il tocco di un pizzico di nostalgia e amarezza, quindi Domenico abbassa lo sguardo. Sa che una donna ferita così in fondo non guarisce più.
- Sei sempre in tempo per collaborare e uscire un po’ prima.
Rosy scuote il capo e sorride. Non è l’onore che la anima adesso, è la sconfitta, l’arrendevolezza. E’ il cuore di una madre che non ha voglia e forza di fare più nulla.
- Ci sono dei giorni in cui non va bene per niente… -, incalza lei, col capo basso, sempre a torturarsi le mani - Sto sola qua dentro e mi metto a pensare e ripensare, cerco di capire dove ho sbagliato, perché di errori ne ho fatti tanti, lo so, ma mio figlio… Perché lui, Domenico? Non potevo pagare io? Sarebbe stato più giusto, no? -, alza la testa e scarica la sua rabbia mista alla tristezza negli occhi del poliziotto, che resta impassibile ad ascoltarla, facendosi attraversare da quelle parole di sofferenza. - Perché, sai, io ne ho uccisa di gente, ma mai… -, la voce si rompe in mille pezzi sotto il contraccolpo del pianto, - Mai ho pensato di ammazzare un bambino. Come hanno potuto? Che cosa hanno pensato quando lui… Quando li ha guardati negli occhi dicendo “mamma”? Come fai, Domenico, come fai a guardare un bambino negli occhi e ad ammazzarlo così? Senza ragionare, senza provare un briciolo di pena… Perché, sai, lui non avrebbe parlato, non avrebbe detto niente. Loro si pensavano che Leo parlasse? Ma che ne capisce un bambino di cinque anni? Lui non sa nemmeno che rumore fanno gli spari di una pistola. Avrà pensato che era tutto un gioco, no? Avrà pensato questo il mio bambino, Domenico? -, gli chiede lei con una cascata di lacrime sul volto e la disperazione fra le mani. - Avrà pensato che la mamma lo volesse abbandonare. Ma io… Io volevo solo portarlo via da qui, offrirgli un futuro migliore. E’ una cattiva madre, quella che vuole dare a suo figlio una possibilità? Avevo pensato al meglio per lui, capisci? Perché tu lo sai cosa significa perdere un figlio, lo sai, ma puoi immaginare cosa significa perdere un bambino che hai cresciuto e guardato negli occhi o stretto fra le braccia almeno una volta? -, dice Rosy sorridendo fra le lacrime bagnate, Domenico ingoia un universo di malessere e saliva incastrato in gola, - Ma poi me l’hanno ammazzato… L’hanno guardato negli occhi e l’hanno ammazzato. Come hanno fatto? Me lo dici tu come hanno fatto? Perché io me lo domando tutti i giorni ma continuo a vedere lo sguardo di mio figlio davanti agli occhi e continuo a pensare che sia solo un brutto scherzo e quando ti vedo arrivare da dietro alla porta continuo a sperare che nascondi il mio bambino fra le gambe e che in tutto questo tempo lo hai tenuto lontano per proteggerlo… E’ così, non è vero? Lo stai proteggendo? Dimmi di sì, Domenico, perché io non faccio altro che pensare a… Ai suoi capelli, ai suoi sorrisi, anche a quando mi faceva arrabbiare perché non voleva mai mettersi la canottiera.
Rosy esplode in un pianto di atrocità, sofferenza e voglia di sparire per sempre, la testa bassa e i capelli lungo le guance, mentre le lacrime scorrono giù alla velocità dei colpi che ha sparato contro chiunque, negli ultimi anni. Domenico attraversa il tavolo bianco con il braccio e prende la sua mano, bagnata dal dolore di una madre affranta. E restano così per un paio di minuti, sotto lo sguardo vigile delle telecamere del carcere. Qualcuno, in quell’edificio, sta guardando e ascoltando ogni parola, ogni piaga nel cuore di Rosalia Abate. Solo che adesso niente ha importanza. Adesso sono solo un uomo e una donna in una stanza vuota e silenziosa, dove l’eco del pianto disperato di Rosy si fa sempre più forte. E più si fa forte, più fa male a Mimmo, come quando l’esplosione di una bomba li colse di sorpresa nella casa al mare, quella volta. Quando Rosy parla di suo figlio, un’altra bomba esplode nel corpo di Domenico. Ed è un momento in cui ogni cosa perde significato, non ci sono distintivi e manette, non ci sono differenze di ruolo. C’è soltanto un uomo buono che stringe la mano di una donna triste. E Domenico sa che quel gesto vale più di ogni cosa, più di ogni inutile discorso che provi a consolarla. Perché non c’è niente che possa consolare il cuore di una madre che ha perso un figlio, probabile conseguenza dei suoi errori. Ed è ciò che maggiormente attanaglia Rosy, sapere che un bambino ha pagato per la cattiveria di sua madre.
Restano così per alcuni minuti, sotto l’occhio del mondo che si ferma e spegne ogni colpo di pistola, ogni male, ogni indagine. Due mani si stringono e, adesso, non c’è spazio per nient’altro. E si somigliano, perché hanno combattuto le stesse battaglie, dichiarato le stesse guerre e usato le stesse armi, pur avendo obiettivi diversi. Alla fine si sono ritrovati entrambi alla stessa soglia della vita, soli, senza più nessuno da amare, senza più qualcuno per cui continuare a combattere. Chè tanto il male non finirà mai e qualcuno continuerà a rimetterci la pelle in eterno, Mimmo lo sa bene. Per questo stringe la mano della donna con cui ha condiviso qualcosa di forte e importante, oltre al letto di un rifugio che circonda una pista di gocart. Fra quelle mura sporche di mafia e polizia sognavano il paradiso, ma si sono ritrovati a condividere l’inferno.
Rosy abbandona le sue dita nella mano di Mimmo, quindi il rumore della sua voce si fa duro, rabbioso.
- Non riesco a capire come ho fatto ad arrivare fin qui, perché ho fatto tutto quel male… E ho paura di essere capace di farne ancora, di ammazzare ancora qualcuno. Solo che tutte le volte che ci penso, mi ricordo di mio figlio che è morto a causa mia, quindi mi dico che devo ragionare, che devo imparare a giocare pulito. Ma non lo so… Io non lo so come si fa.
- Potresti iniziare a collaborare, Rosy…
- Perché sei ancora qua, Domenico? -, gli chiede lei, ritirando la mano a sé – Perché non te ne vai e non ti rifai una vita senza di me? Ho portato solo schifo e disgrazie… Claudia è morta per colpa mia, tua figlia anche… E se mi fossi fatta da parte per una dannata volta avresti ancora Leo, perché lui ti voleva un gran bene e … Sarebbe cresciuto con te, no? Sarebbe cresciuto con te e invece ti ho tolto anche lui. Tolgo il meglio a tutte le persone che incrocio. Me lo dici? Me lo dici perché continui a venire qua a trovarmi, cercando di farmi sorridere e di non farmi pensare? Perché mi permetti ancora di far parte della tua vita, Domenico?
Lui la guarda con rammarico, perché sa che ha di fronte una persona senza spina dorsale e senza più la forza nelle mani per arrampicarsi sui muri e scavalcare cancelli. Ha gli occhi tristi, il dottor Calcaterra, perché dietro il giubbotto antiproiettile e la pistola infilata nei pantaloni c’è un animo spento e trapassato da schegge di vetro, per ogni persona che ha perso o che ha visto morire. Domenico guarda Rosy con la certezza che hanno il destino intrecciato, forse per sempre.
- Perché noi due siamo uguali, Rosy. Abbiamo perso tutto, ogni cosa. E perché io sono l’unica persona che ti rimane.
 

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Capitolo 5
*** Un altro amore ***


5. Un altro amore 

Domenico si fa strada sulla sabbia riscaldata dal sole di mezzogiorno, lasciando dietro di sé passi duri, profondi, addosso la divisa da poliziotto. Non la indossa quasi mai, se non in occasioni speciali. Il funerale di Claudia è uno di queste. Un’occasione triste, più che speciale. Perché nel salutare il grande amore che ha cresciuto in grembo tua figlia non c’è niente di speciale. Deve staccare, deve sparire, deve isolarsi almeno un po’.
Raggiunge la cancellata in vimini che circonda la villetta, un cubo bianco con vetrate qua e là che affacciano sul mare di cui si bagna la bella Trinacria, ma un’immagine inaspettata gli appanna la vista. Come guardare la luce per troppo tempo o rimanere al buio a lungo, chè in entrambi i casi quando riporti lo sguardo alla normalità vedi distorto. Le sagome si accavallano e devi far incontrare le palpebre almeno dieci o venti volte, prima di vederci chiaro. Rosy Abate è così. E’ una sagoma nel cortile della casa al mare di Mimmo e Claudia, un’immagine che ti appanna la vista con le mani alzate e i lacrimoni agli occhi, una felpa grigia sotto un giubbino di pelle trapuntato. Domenico è inebetito, le punta la pistola contro senza smettere di tremare, la divisa da soldato del paese inizia a farlo sudare. O forse è Rosy a fargli questo effetto. Lei abbassa le mani, noncurante di un grilletto che resta premuto contro la sua faccia, e si avvicina a Domenico, che osserva il silenzio. Rosy lo accarezza, lo bacia delicatamente sussurrandogli all’orecchio “tu adesso vuoi la stessa che voglio io”. Domenico non parla, è schiavo dei suoi gesti, si lascia fare, perché quella donna sa manovrarlo così bene che neppure la beretta che ha fra le mani ha valore, di fronte a lei. Lei che non ha paura, perché sa che il suo uomo non sparerà, sa che Domenico è venuto in questa casa per cercare conforto da un dolore troppo grande e perché in fondo loro due, adesso, vogliono la stessa cosa.
- Che diavolo stai facendo, Rosy?
- Obbedisco ai miei desideri, Calcaterra.
- Claudia è morta…
- Ma c’è tempo per un altro amore… Un altro amore…

Domenico si sveglia di colpo, come se un blocco di cemento gli fosse precipitato sullo stomaco dandogli quella tipica sensazione di caduta dalle scale. Spalanca gli occhi nel buio della notte, quindi si asciuga la fronte sudata. Poi si volta e si accorge che alla sua sinistra dorme Lara. Non può guardarla, non può saperla al suo fianco, non adesso. Si alza dal letto e, in boxer e maglia nera, si aggira per la casa della sua collega raggiungendo la cucina. Tira fuori dal frigo una bottiglia di acqua fredda e ne manda giù un gran sorso, come per ripulirsi dal brutto sogno appena fatto. Si asciuga il sudore alla manica della maglia, poi si porta una mano fra i capelli. Si sta perdendo, il dottor Calcaterra. E’ sempre così buio nella sua vita, che non riesce più a vedere i segnali verso la strada giusta. E le lampadine sono tutte rotte. E le luci di emergenza a casa sua non esistono. E’ smarrito, è confuso, naviga in un mare di casini con una barchetta da pescatore ed un remo solo. E’ lui, quel remo. E’ lui che lotta contro tutto e tutti, lui che sta annegando ogni giorno di più perché la sua barca è piena di buchi e non c’è nessuno che possa aggiustare i fori nel legno, perché Lara ci prova, ci prova in tutti i modi ma lui continua a perdere acqua da tutte le parti. E allora la manda via, perché è questo che sa fare: perdere le persone che lo amano veramente. E amare quelle persone che allontanano lui in qualche modo.
Beve ancora un po’, poi butta un occhio all’orologio appeso sulla porta della cucina e ancora quattro ore lo separano dalla sveglia. Solo che nella stanza degli incubi questa notte non ci vuol tornare, quindi si stende sul divano consapevole che quando Lara si sveglierà e allungherà il braccio alla sua destra per cercarlo, troverà soltanto il vuoto ad attenderla. Ed è forse un po’ quello che vuole lui. Perché Domenico adesso sa regalare soltanto vuoto e silenzio alle persone che lottano per lui e perché nella vita di tutti i giorni dorme a letto con una poliziotta ma sogna di essere baciato da una mafiosa che lo aspetta alla casa al mare dopo il funerale della madre di sua figlia, esattamente come la prima volta, quando in fondo entrambi volevano la stessa cosa.

- Domenico abbiamo delle novità -, gli dice Sandro avvicinandosi alla sua scrivania e presentandogli avanti un documento di un acquisto recente.
- Tommasi aveva comprato da poco?
- Sì, un terreno nella zona dell’ospedale Garibaldi.
- Lungo via Palermo…
- Lungo via Palermo.
- E perché dovrebbe interessarci questo?
- Perché abbiamo parlato con la moglie del costruttore ed anche con un suo amico geometra ed entrambi ci assicurano che Tommasi non aveva progetti di costruzione per il momento.
- Beh, magari non voleva parlarne con loro, aveva un’idea ancora prematura.
- Non è solo questo. Guarda quanti ettari ha comprato… Abbiamo controllato i suoi conti in banca e non aveva tutto il denaro necessario.
- Pensi ci sia qualcuno dietro?
- Lo pensa anche la moglie. Sono troppi soldi, Domenico, ed è un terreno immenso. E a dare un occhio ai lavori di Tommasi, emerge che le sue costruzioni si limitano a palazzine o villette in periferia. Aveva in mente qualcosa di grande per quello spiazzo.
- Non risultano movimenti di denaro negli ultimi mesi?
- No, nessuno gli ha dato niente né tanto meno lui ha emesso soldi. La moglie è sicura che lui non avesse i soldi contanti per acquistare quel terreno.
- C’è qualcuno che ha mosso i fili del nostro costruttore.
- Sì, ma perché ammazzarlo? E perché farcelo sapere?
- Perché probabilmente Tommasi non voleva andare fino in fondo a questa faccenda. Si tratta di qualcosa di sporco, è chiaro, e lui non voleva metterci il nome. E l’hanno ammazzato, per dimostrarci che chi non fa quel che vogliono loro va incontro a quella fine.
- Quindi è probabile che si rivolgeranno ad un altro costruttore, qualcuno che sia disposto a collaborare e a macchiarsi le mani.
- E noi dobbiamo intercettare in tempo chiunque stia giocando alle costruzioni. Chiama Leoni e tornate dalla moglie di Tommasi, chiedetele se suo marito avesse strani comportamenti ultimamente e risalite a tutti i suoi contatti.
- Io? Ci vado io?
- Sì Sandro, ci vai tu, ma niente corse o sparatorie, mi servi vivo.
- Grazie Mimmo, sei un santo.
- Sandro? Come sta la bambina? -, il suo collega sorride, mostrando sotto il baffo corto tutta la felicità che lo anima in quel momento.
- Inizia a scalciare, ma sta bene.
Domenico annuisce e lo congeda, quindi si ricorda della sua bambina, troppo fragile e indifesa per conoscere le luci di un mondo sporco. E ripensa a Leonardino, che di questo schifo ha pagato le conseguenze. E’ una catena, un processo senza fine che lo tormenterà fino alla fine dei suoi giorni, perché troppa gente ha visto morire sotto i suoi occhi prima di poter dare loro tutto l’amore del mondo. Ripensa ai colleghi morti in servizio per difendere una causa comune e pensa a Claudia che ha sacrificato la propria vita per dare una possibilità in più alla sua storica amica nemica. E infine pensa a Rosy, che per conquistare tutto adesso non ha più niente. Ed è così quasi tutti i giorni, a qualsiasi ora, come una radio che non smette di trasmettere sempre la stessa canzone, come tanti film tutti con lo stesso finale. Perché alla fine dei conti tutti quanti quelli che ci sono stati e che ci sono ancora hanno combattuto o continuano a farlo per avere un po’ di tempo in più, per darsi un’altra possibilità, per vincere un’altra grande battaglia o per vivere un altro amore. Perché in fondo c’è sempre tempo, per un altro amore.

Veronica Colombo entra nella sala delle visite del carcere fuori Catania, lontano da Rosy Abate. Un maglione verde, gli occhi spenti, il viso struccato e segnato dalle rughe della politica, si accende d’animo non appena incrocia il volto duro e severo di sua sorella.
- Gioia mia… -, esclama un po’ incerta, senza incontrare dall’altra parte un briciolo di comprensione e sorriso. E’ evidente che sua sorella non ha piacere ad essere lì, deve trattarsi solo di una visita di cortesia.
Veronica si siede di fronte a lei e sente il mondo crollarle addosso per la seconda volta, dopo quel giorno sull’Etna dove fu proprio sua sorella a cingerle i polsi con le manette. Ha perso tutto, la bella politica, anche l’unica persona che continuava a tenere vivo il legame familiare. Ha perso il rispetto di sua sorella, ha perso il terreno sotto i piedi e la campagna elettorale. Ha perso la libertà perché all’onestà ha preferito la mafia. Restano impassibili per alcuni minuti, silenziose in uno scambio di sguardi atroce. Gli stessi occhi che guardano due realtà diverse. Due sorelle con due destini opposti, la poliziotta che dà la caccia alla strega. E intanto in mezzo si è alzato un muro, contro il quale Veronica lancia la sua richiesta di perdono senza incontrare la pietà di Lara. Lei resta muta, perché sua sorella di gioia non gliene dà proprio più. E’ solo rabbia, è solo risentimento per aver creduto nella sua buona fede fino alla fine e per averla anche coperta, quando il suo mazzo di rose rosse giaceva appassito nella villa dell’incontro con Africanetz.
- Solo una domanda… Perché? -, la sorella minore decide di rompere il silenzio.
- Ma come perché? Rischiavo la vita, Lara… -, replica Veronica, accennando un sorriso debole che non trova risposta nello sguardo congelato di sua sorella.
- Potevi chiedere aiuto, cazzo! Sono tua sorella, sono una poliziotta, ti avrei dato una mano a venirne fuori! -, Lara sbatte i pugni sul tavolo tirando fuori tutta la sua rabbia e guardando il vuoto, perché crede che la persona che ha di fronte non meriti il suo sguardo.
- Non sapevo cosa fare, gioia, Achille Ferro mi avrebbe ammazzata se avessi…
- Se tu avessi chiesto a me di aiutarti, non saresti qui dentro adesso. Dimmi come hai fatto. Come minchia hai fatto a seppellire quel bambino, Veronica? Eppure siamo nate dagli stessi genitori, siamo cresciute insieme, nella stessa educazione, abbiamo imparato gli stessi valori, gli stessi principi… Solo che su di te è passata la mano del diavolo.
- Perché mi parli in questo modo? Perché sei così cruda con me?
- E’ un interrogatorio, le domande le faccio io.
Veronica prende posizione, richiamando a sé l’atteggiamento di penitenza e dispiacere. Adesso indossa la corazza del candidato alle elezioni, il sindaco che deve cacciar fuori gli artigli per difendersi dalle aggressioni dei giornalisti.
- Voglio un avvocato.
- Ah, vuoi l’avvocato? Non avrai niente, non avrai! -, Lara si alza dalla sieda sbattendo con ferocia la mano sul tavolo, mentre le espressioni del suo viso dipingono rabbia e rancore. E’ ferita, sconfitta, umiliata. Difende il paese dalla mafia e non ha saputo tener fuori sua sorella da quel letamaio. Si sente come il miglior chirurgo d’Italia che non è in grado di operare suo figlio per appendicite. Dove ha sbagliato? Che male ha fatto per trovarsi a questo punto? Veronica la osserva, cercando di frenare in dentro le lacrime.
- E’ quello sbirro, non è vero? E’ Calcaterra. Ti ha fatto il lavaggio del cervello.
- Calcaterra aveva ragione, ed io stupida che ho ostacolato le sue indagini perché ci credevo fino in fondo, ero convinta che tu fossi innocente e ci speravo, perché tu eri mia sorella e non potevi essere coinvolta in tanto schifo.
- Perché parli al passato? Noi siamo ancora sorelle… -, Veronica allunga la sua mano nella speranza di incontrare quella della poliziotta, che però si ritrae.
- Io non ti riconosco più. Ho provato a perdonarti, mi son detta che una seconda possibilità va data a tutti, ma tu… Proprio tu… Eri l’ultima persona che dovesse deludermi. Ti guardo e non vedo più niente, non so chi sei. Mi sento come se avessi sbagliato tutto, ma poi mi rendo conto che tu hai sempre fatto tutto di testa tua, ci sei sempre stata te con la tua politica, i tuoi servizi, le cene… Tutte balle! Chissà cosa nascondevi dietro quelle infinite bugie. Io ho fatto del mio meglio per renderti una buona persona, ma se sei diventata questa è soltanto colpa tua, perché io mi alzo tutte le mattine con lo scopo di eliminare gente di merda da questo paese, ma mai e poi mai mi sarei aspettata di mettere le manette proprio a te.
- Non so cosa mi sia successo, la… La sete di potere ha preso il sopravvento sulla mia ragione, ma io mi sono pentita, puoi credermi, sono cambiata.
- In un mese di carcere, sei cambiata? Siete tutti veloci e bravi quando entrate qua dentro, com’è? Poi fuori tornate ad essere bestie con gli artigli e la cattiveria nel sangue. Mi fai schifo, mi fa schifo vederti al di là di quel tavolo.
- No, Lara, devi credermi, io ho intenzione di cambiare, tu sei mia sorella dovresti sperare nel meglio per me.
- Io spero soltanto che tu ci marcisca qua dentro.
- Come puoi dire queste cose? Dov’è finito il bene che ci legava? L’affetto, le battaglie vinte insieme…
- Ma come fai a non renderti conto che era tutto una finzione? Non c’è mai stato niente di tutto questo, ho voluto bene ad una persona che in realtà non esisteva, era solo una copertura…
- Parli come il tuo amico sbirro, uguale a lui sei diventata…
- Meno male… Perché se non fosse stato per la sua testa dura tu saresti ancora lì fuori a combinare chissà quanti altri casini.
- Guardati, lo ami, non è vero? Tutta una vita ad amare una persona che non ti vorrà mai veramente… Lui non ti ama, Lara, lo vuoi capire?
- Queste cose non ti riguardano più.
- Sei sempre mia sorella, tutto ciò che riguarda te riguarda anche a me.
- Noi non siamo sorelle, lo capisci questo? Tornatene nella tua cella. Non ci vedremo più, dimenticati della mia esistenza, dimentica il mio nome, perché quando metterò piede fuori di qui io ti cancellerò.
- Non puoi farmi questo, Lara… Io non sono un’assassina, non ho mai ammazzato nessuno, lo sai bene…
- E’ come se avessi ammazzato me.
Lara lancia un ultimo sguardo ferito alla sorella, poi lascia la stanza sapendo che da quel momento è tutto finito. Abbassa il capo, mentre cammina con disinvoltura fra gli agenti della penitenziaria che la accompagnano all’uscita del carcere. Una lacrima le graffia il viso e precipita giù, sul pavimento fra i suoi piedi, come il legame con sua sorella. Non c’è più niente, niente che abbia valore e importanza. Perché in fondo Veronica ha ragione, ha ragione su tante cose, ha ragione soprattutto su Domenico, che non la amerà mai come lei ama lui, Domenico che al mattino non si fa trovare nel letto dove si erano addormentati la sera prima, Domenico che ha la testa fra le sbarre. E ha ragione quando dice di non aver ammazzato nessuno, perché forse la paura di rischiare la vita ha vinto sul lume della ragione, ma lei è una poliziotta e deve darsi delle regole. Lei si sveglia tutti i giorni col compito di ripulire le strade da chi gioca sporco e Veronica è una di questi. Veronica non è più sua sorella, Veronica è una mafiosa. Veronica ha scavato nella terra dell’Etna per seppellire il corpo sporco di sangue di un bambino di cinque anni. Veronica ha usato le confidenze di sua sorella come soffiate per arrivare sempre prima degli sbirri. Veronica ha tradito, ha architettato, ha mosso i fili di un burattino spaventoso e non può essere sua sorella una che si comporta così. Non può essere sorella di una poliziotta dell’antimafia, una che per successo e soldi, alla mafia dà una bella mano. E continua a ripetersi tutto questo nella mente, mentre lascia la casa circondariale e si dirige alla macchina. Continua a dirselo con le mani sul volante, con gli occhi ai segnali della strada e al parcheggio della centrale, se lo dice quando torna a casa, mentre fa colazione e prima di dormire, perché forse ci vorrà del tempo ma Lara sa di aver fatto la cosa giusta. Lara deve convincersi che sia così, perché una mafiosa non può essere sorella di una poliziotta, non nella sua famiglia. Quindi sì, ha fatto la cosa giusta e aveva ragione Domenico. Domenico che è così bello e coraggioso, Domenico che è dalla parte della giustizia. Eppure Domenico è innamorato di una mafiosa e lo sanno tutti. Tutti tranne lui. 

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Capitolo 6
*** Hai paura? ***


6. Hai paura?
 
- Abate preparati, andiamo in gita.
La voce siciliana di un ragazzone al di là delle sbarre la sveglia dal suo sonno di pensieri. Rosy lascia il letto con lo sguardo interrogativo, il sopracciglio spaventato e un principio di sospetto nella voce.
- Dov’è che andiamo?
- All’ospedale psichiatrico.
- Di nuovo? E che faccio, avanti e indietro?
- I medici hanno disposto una visita di controllo ogni mese, non si sa mai che dai di matto ancora una volta.
- Vaffanculo -, sentenzia lei sotto voce senza farsi sentire, in risposta all’accusa di pazzia. Infila una maglia blu, gli stivaletti consumati dalla strada siciliana che ha cavalcato negli ultimi mesi, quindi si appoggia al cancello che sbarra la sua cella, in attesa che ritorni la guardia a prenderla.
- Posso sapere il perché di questa visita? Voglio la scorta della polizia.
- Pure? E chi sei tu, un pezzo importante da proteggere?
- Voglio la scorta, chiamate Calcaterra, Domenico Calcaterra.
- Io non ti piaccio?
L’uomo la tiene per il braccio, quindi le stringe i polsi nelle manette legate al suo braccio con un filo di gomma elicoidale, di quelli che collegano la cornetta al telefono fisso. Salgono sul furgone della penitenziaria, che li porta dritti all’ospedale.
Durante il viaggio, Rosy annega la testa nei pensieri. Credono tutti che sia pazza, ma nessuno riesce a guardare al di là del proprio naso e a capire che la perdita di un figlio può far male fino ad uccidere. C’è da meravigliarsi, se non si diventa pazzi.
Uno degli agenti apre le porte posteriori del furgone, quindi Rosy scende preceduta dalla guardia a cui è legata. I dubbi iniziano a tempestarle il cervello, ce l’ha scritto in faccia l’Abate, che alza la testa di fronte ad un enorme palazzo bianco con le finestre tutte uguali.
- Ma questo non è l’ospedale psichiatrico…
- Il medico riceve all’ospedale civile per le visite, è un problema per te? -, incalza ironico e strafottente il ragazzo che la trascina, con in testa un berretto blu e azzurro e sul petto, all’altezza del cuore, il simbolo della missione per la quale ha scelto di schierarsi. Solo che dietro quello sguardo furbetto e sotto la divisa sembra nascondersi qualcosa di più, un alone di mistero che non promette bene, neppure un po’ di fiducia, e Rosy ha un grandioso sesto senso per queste cose. Rosy sa che questa visita non la rispedirà in carcere, ma la lancerà in pasto ai lupi nelle strade di Catania. Il suo respiro si fa pesante, ricco di ansie e preoccupazioni, quindi raggiungono il reparto di neurologia dove il medico li attende per il controllo di questo mese.
La seconda guardia che scorta la mafiosa, mani libere e una goccia di sudore lungo la fronte, bussa alla porta dello studio medico per avere il via libera, quindi con addosso la responsabilità della buona riuscita della visita, fa segno al suo collega che trascina la pregiudicata dal suo braccio. Rosy cammina a testa bassa, sotto l’occhio schifato ed il giudizio dei civili che attendono fuori allo studio medico per essere visitati. Qualcuno di loro esterna il suo malcontento nell’essere scavalcato da una carcerata, altri sbiancano in viso di fronte allo sguardo che Rosy non esita a lanciare loro. Le due guardie entrano nello studio del medico, quindi Rosy li segue.
Un sussulto la colpisce all’altezza dello stomaco, come se una delle due guardie la penetrasse ripetutamente con un coltello. Sente il sangue correre freddo lungo tutto il corpo, mentre in viso non riesce a nascondere la sua meraviglia.
La scena nello studio è raccapricciante. Seduti in un angolo, in uno stagno di sangue, giacciono il medico e la sua segreteria, mentre alla scrivania c’è lui. Il capello disordinato, la fronte grande, il baffo che incornicia un sorriso di vittoria. Perché vincere contro Rosy Abate è gratificante, soprattutto quando le espressioni della sua faccia sputano costernazione e senso di rabbia mista ad impotenza.
- Grazie Bonfitto, hai fatto proprio un buon lavoro -, dice rivolgendosi alla guardia che tiene Rosy legata al suo polso, quindi guarda per brevi istanti il secondo agente, senza spogliarsi del suo sorriso prepotente. – Adesso, però, devo assicurarmi che stiate zitti per il resto della vostra vita. Tu, liberala.
Il poliziotto della penitenziaria più sicuro di sé libera Rosy dalle manette, poi la spinge in avanti verso la scrivania e da lì un colpo di pistola parte deciso fino a colpire la guardia che gioca con le manette, quindi tocca allo sbirro spaventato. L’ultima goccia di sudore precipita dalla sua fronte, per incontrare il sangue che guizza fuori dalla vena giugulare, colpita in pieno. Il silenziatore posto alla canna della pistola ha occultato ogni rumore, ogni movimento. Nessuno, al di fuori di quella stanza, ha sentito o visto cosa è appena accaduto sotto gli occhi di Rosy Abate e dell’uomo che siede tranquillo dietro la sua scrivania. Ha appena ucciso due uomini dell’arma, ma non sembra preoccuparsene. La morte non è un suo problema, è resuscitato così tante volte che non ha più paura di niente, adesso. Butta un occhio alle due guardie che giacciono sul pavimento dello studio medico, quindi osserva un’ultima volta il dottore e la sua spalla destra nell’angolo della stanza, senza mai dimettere il suo sorriso soddisfatto. Poi soffia sulla canna della sua arma, come un pistolero nei cartoni animati per bambini, che salva la città da quelli cattivi.
- Sai com’è, questi siciliani parlano sempre tanto, troppo… Non potevo fidarmi del loro silenzio, avrebbero ceduto prima o poi.
- De Silva… Dovevo immaginarlo che c’eri tu dietro tutto questo. Ancora vivo, sei.
- Anche tu non te la passi male, vedo .
- Ho avuto tempi migliori. Pensavo c’avessi lasciato le penne nella botola.
- Pensavi male, cara Abate.
- Ma tu da me che cosa vuoi? Dovresti saperlo che la polizia mi tiene sotto controllo, tra poco arriveranno a noi.
- Ed è per questo che noi ce ne andremo di qui, adesso.
- Dimmi primi cosa cerchi da me.
- Che c’è, hai paura?
De Silva assume lo sguardo serio, come se a seconda delle occasioni cambiasse la maschera riponendo quella vecchia nella tasca della giacca. Punta la pistola contro il viso di Rosy, ancora in piedi di fronte a lui dall’altro lato della scrivania. Lei non si scompone, non ha più paura adesso. Perché se veramente lui avesse voluto ucciderla, l’avrebbe già fatto. La vuole viva, lui. La vuole perché sa che Rosy, nonostante tutto, esercita ancora un grosso potere nella sua terra e sa come muoversi. Solo che De Silva non lo sa che nel frattempo Rosy è diventata amica degli sbirri. Molto amica. Di uno in particolare.

- Dottore abbiamo un problema.
- Un altro?
- Sì, ma questo è un problema serio.
- Che succede Sciuto? Ci sono novità sul costruttore?
- No dottore, si tratta di Rosy Abate. E’ scappata.
Domenico si alza dalla scrivania, il sangue gelato sembra che stia quasi per esplodergli nella testa, gli occhi sbarrati come se avesse appena visto la peggiore delle sparatorie della sua vita. Solo che Rosy ha lasciato il carcere e questo, per il dottor Calcaterra, è anche peggio di una strage di uomini e mitra.
Guida come un pazzo fra le strade di Catania, mentre Sciuto gli fa il punto della situazione. Lui sembra non ascoltare, perché la sua mente sta già immaginando a quanto lontano potrebbe essere lei.
- Due agenti l’hanno portata in ospedale per un controllo, ma abbiamo verificato e fra gli appuntamenti del giorno nel reparto di neurologia non risultava nessuna visita penitenziaria. Poi è strano, avrebbero dovuto avvisarci se fosse stato necessario un controllo, no?
- Come minimo. E all’ospedale ci è arrivata?
- Eccome. Alcune persone che erano in attesa per la visita l’hanno vista entrare accompagnata da due guardie, l’hanno fatta passare avanti. Dopo quasi un’ora, che nessuno entrava o usciva dallo studio medico, hanno visto sangue sotto la porta. Parecchio sangue.
- E di Rosy? -, incalza Domenico, preoccupato dall’origine di quel sangue.
- Nessuna traccia. Un’infermiera è entrata nella stanza e ha trovato i cadaveri di quattro persone, le due guardie che secondo i testimoni hanno accompagnato Rosy fin dentro, il medico e la sua segretaria.
- Merda.
I due poliziotti lasciano l’auto nello spiazzo che introduce all’ospedale, quindi prendono le scale fino al reparto di neurologia. Qualcuno è arrivato prima di loro, mettendo i sigilli e allontanando chiunque non fosse autorizzato. La porta dello studio medico è spalancata, le macchie di sangue sono arrivate fino in corridoio.
Domenico si fa spazio tra i poliziotti e gli uomini della scientifica, quindi entra nello studio senza inquinare le tracce e si porta una mano sulla bocca. L’odore ferreo di sangue gli penetra nel naso, toccandogli le punte del disgusto. I quattro cadaveri sono coperti da un lenzuolo bianco, due nell’angolo della stanza, i restanti poco dopo la porta d’ingresso. Uno di loro porta sul polso destro i segni del laccio di gomma che lo teneva legato all’Abate tramite le manette. Calcaterra, però, non riesce a vedere altro. L’odore del sangue è troppo forte anche per un poliziotto abituato a qualsiasi cosa, come lui. Lui che nel sangue si è sporcato le mani tante volte, ma stavolta no. Stavolta non ci riesce. Perché gli sembra tutto così irrazionale, inspiegabile, la sua presenza in quei corridoi lo stravolge così come l’assenza di Rosy. Si allontana dalla scena, quindi si poggia al telaio della porta che immette alle scale, la testa bassa e il braccio destro che la sostiene. Stringe i pugni, Calcaterra. Stringe i pugni e chiude gli occhi, come se così facendo potesse risvegliarsi da quell’incubo. Uno degli innumerevoli che lo tengono sveglio la notte. Solo che tutto questo fa parte della realtà e fuori, oggi, splende il sole sulle strade di Catania, mentre Rosy Abate è in libertà chissà dove.
Il respiro si fa pesante, affaticato. Sente un dolore all’altezza del petto, come un ragno di ferro che gli stringe il cuore fino a farlo esplodere, di quelli che si usano nei cantieri per scavare nella terra sotto l’asfalto. Avverte il muscolo cardiaco cedere pian piano sotto la morsa di quel sentimento escavatore, è una sensazione che lo sta uccidendo dall’interno. E’ una parte del suo organismo che si ribella a quanto accaduto, è l’olfatto che non regge l’odore del sangue, la vista che crolla di fronte a nuovi cadaveri, è lui che non può sopravvivere all’ennesima fuga di Rosy.
Sciuto lo vede abbracciato al telaio della porta, in preda ad una crisi respiratoria, quindi gli si avvicina.
- Dottore, si sente bene?
- Si Sciuto, sto bene, è un calo di pressione.
- Chiamo qualcuno se vuole, già che ci siamo… -, sentenzia il suo collega con ironia, accennando ad un sorrisetto che si spegne immediatamente, di fronte alla gravità della situazione.
- Sei fuori luogo, Sciuto -, gli dice inaspettatamente Calcaterra, respirando sempre più a fatica.
- Lo so, ha ragione, mi scusi. Le porto una sedia?
- No, no… Vai, io sto bene, tu cerca di capirne di più di quello che è successo. Mobilitate tutte le volanti che abbiamo, voglio Rosy viva e la voglio subito.
Il suo collega annuisce e si allontana, dopo essersi accertato di non essergli d’aiuto. Domenico solleva il capo dalla cornice che circonda la porta, quindi si avvicina a un grande finestrone che dal quarto piano dell’ospedale affaccia sulla vita di Catania, che continua senza remore mentre Rosy è chissà dove e ancora sangue si sparge sul pavimento. Poi il poliziotto si rende conto che, non appena il suo pensiero ricade su di lei, torna a star male, soffocato dal suo stesso respiro mentre davanti agli occhi cala un panno velato. Quindi scuote la testa per recuperare il lume della ragione, ma tutto ciò che ha davanti a sé lo porta a pensare che a partire da questo momento la guerra è riaperta ufficialmente e non sa se a preoccuparlo di più è il fatto che Rosy sia di nuovo fuori sul campo pronta a sparare ancora o il fatto che Rosy sia di nuovo fuori sul campo e lui non potrà andare a trovarla in carcere per i prossimi giorni.  E questo gli fa paura, tanta paura. 
 

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Capitolo 7
*** (In)certezze ***


7. (In)certezze
 
- Non c’è niente, nessuno ha visto niente, nessuno è finito anche solo per sbaglio sulla strada di una detenuta in fuga! -,sentenzia il questore Licata, mentre una vena gli si riempie di rabbia lungo la tempia e il baffo si agita con lui.
- C’è qualcosa dietro, ne sono sicuro.
- Dottor Calcaterra lei è sempre sicuro di tutto, eppure io qua vedo solo guai. Non ci bastava De Silva, adesso abbiamo un problema in più in circolo.
- L’Abate non è un problema, sa il fatto suo.
- Mi sta dicendo che non si tratta di una mafiosa latitante per l’ennesima volta?
- Ha una testa diversa, adesso.
- Eppure è scappata.
- Ma…
- Niente ma, Calcaterra! -, il tono del questore si fa più forte, adesso - Sono mesi che lei mi costringe a giustificare l’Abate, ad aggirare le regole per proteggerla, ma non posso tollerare che la giustifichi ancora, non questa volta. Un bambino di cinque anni ci ha rimesso la pelle per colpa sua.
- Rosy voleva proteggere suo figlio.
- Il modo migliore per proteggerlo era darlo in affidamento ad una famiglia per bene! Invece lei ha scelto la strada sporca, come sempre -, incalza Licata, con la mano destra nella tasca dei pantaloni grigi. Sono il suo cavallo di battaglia, in tinta col colore dei suoi capelli e i baffi disordinati.
- Ma questa volta la troveremo, io mi fido di lei.
- Non voglio più discutere, stiamo togliendo tempo prezioso alle ricerche, ci sono due bestie della mafia là fuori che devono essere prese e sbattute in galera.
- Se dovesse succedere qualcosa, le farò sapere immediatamente.
- Spero siano solo cose positive.
- Certo.
Domenico accompagna il questore alla porta del suo studio e lo guarda allontanarsi con una ventiquattr’ore, senza aver mai dimesso il suo broncio. Non sa da dove cominciare, lo sbirro, quindi inizia col sedersi alla sua scrivania sotto lo sguardo incuriosito di Sandro, che ha fatto da spettatore alla discussione con Licata.
- Mimmo…
- Che c’è?
- Che stai pensando?
- Niente, pensieri inutili.
- Domenico non starai credendo che… ?
- Ma tu sei proprio sicuro che Rosy sia scappata? -, esplode Domenico interrompendo la frase dell’amico – Perché io l’ho vista, Rosy, l’ho vista tante volte in questi ultimi tempi. Ed è cambiata, è diversa, non avrebbe mai fatto una cosa del genere.
- Domenico l’Abate è una mafiosa e i mafiosi non cambiano, non si pentono.
- Io l’ho guardata negli occhi, Sandro.
Domenico ha la voce ammazzata dai ricordi, di quando andava a trovarla alla casa circondariale e si ritrovava di fronte una donna sempre più fragile. Era un pugno in faccia, quell’immagine. Una madre costretta a vivere senza più il suono della voce di suo figlio, senza l’odore dei suoi vestiti.
- Anche io l’ho guardata negli occhi, dopo che ha ammazzato tanta di quella gente… Te lo sei scordato tutto questo, per caso?
- No Sandro, non ho dimenticato tutto il male che ha fatto, sto solo dicendo…
- Stai dicendo che la credi una vittima del sistema!
- Sto dicendo che è cambiata e che una seconda possibilità non si nega a nessuno!
- Una seconda? Ma quante gliene abbiamo date? Infinite. E’ scappata sempre, tutte le volte, anche l’ultima. E vedi com’è andata a finire… E’ colpa sua se suo figlio è stato ammazzato come un cane. Smettila di giustificarla.
- Non la giustifico, Sandro… Ha sofferto, come ognuno di noi qua dentro.
- E sai perché abbiamo sofferto noi? Per colpa sua. Perché ha tolto qualcosa o qualcuno ad ognuno. Ti ha tolto Claudia, come fai a non renderti conto?
- Mi ha aiutato a trovare gli assassini di Claudia.
Sandro resta in silenzio a fissare l’amico, solo che adesso gli sembra di confrontarsi con un estraneo. Non lo capisce, quasi non sopporta i suoi discorsi. Sente come se dietro le sue parole ci fosse qualcos’altro, un frammento che Domenico continua a nascondere a tutti, ma che è sotteso ai suoi comportamenti.
- Cosa mi stai nascondendo, Domenico? Perché io ti vedo molto strano. Non sei in pace con te stesso. Eppure potrei dire che non ti manca nulla, hai una donna che ti ama, un lavoro che ti piace, hai la fortuna di lavorare sul campo, cazzo… Pensa come mi sento io ogni giorno, sbattuto ad una scrivania fra mille cartacce che non mi rendono felice neanche un po’. Tu invece sei sempre inquieto. E’ che secondo me c’è qualcosa dietro, qualcosa che non mi vuoi dire perché sai benissimo di essere nel torto più grande, sai che stai sbagliando e pure tanto.
- Domenico! Oh scusate… -, Lara entra nell’ufficio di Calcaterra senza bussare, temendo di aver interrotto il più importante dei discorsi fra i due amici, quindi fa per andarsene via ma il suo uomo la trattiene.
- Cosa c’è?
- Guarda qua.
Domenico strappa dalle mani di Lara una foto rubata ad una delle telecamere di sorveglianza dell’ospedale, in cui Rosy è stata avvistata l’ultima volta. Un cappuccio in testa, gli stivali neri, il viso piegato dalla preoccupazione. E’ l’anima spaventata, che parla in quella foto. E’ l’immagine di una donna insicura di quello che sta facendo o che sta accadendo attorno a sé. E’ stata paparazzata dalle telecamere mentre si allontana dall’uscita riservata al personale paramedico della clinica, a passo svelto e voltandosi indietro per assicurarsi di non essere seguita da nessuno, forse. Domenico incolla i suoi occhi a quel fermo immagine e continua a pensare che vi sia qualcosa di più grande dietro di lei, perché la Rosy che è andato a trovare lui negli ultimi mesi ha uno sguardo diverso. Lo sguardo di quella foto. La paura, l’angoscia, il senso di impotenza, l’insicurezza di essere fra il giusto e sbagliato. Rosy è diventata solo un burattino nelle mani della Sicilia e Domenico, il suo  Mimmo, è convinto che ci sia qualcuno di potente a muoverne i fili.
- Non sarà andata lontano.
- Quindi cosa facciamo, come ci muoviamo? -, gli chiede Lara.
- Torniamo all’ospedale, cerchiamo di capire se qualcuno ha visto e magari ha semplicemente paura di parlare. Controlliamo i tetti, le uscite secondarie e quelle sotterranee e mettiamo sotto controllo piste di decollo e stazioni ferroviarie. Chi l’ha presa ha un intento ben preciso e sa che non può muoversi troppo liberamente a Catania, finchè ci siamo noi.
- Chi l’ha presa? -, incalza Lara interrogativa, quindi lei e Pietrangeli si scambiano uno sguardo complice, sintomo del fatto che il comportamento di Calcaterra non convince nessuno, in quella stanza. Vorrebbero intervenire, parlare, dire la loro, ma sanno già in partenza che Domenico è disposto a proseguire anche da solo per la sua strada pur di arrivare alla verità. E in passato ne ha dato prova.
- Sì, non è scappata da sola, qualcuno deve averle teso una trappola.
- Cosa te lo fa pensare, Domenico?
- Le due guardie che l’hanno portata in ospedale. Avevano le armi di servizio ancora addosso, la scientifica non ha trovato impronte di Rosy su di esse e i pazienti in attesa della visita in corridoio dicono di non aver sentito nessuno sparo.
- E’ probabile che chi ha sparato avesse una pistola silenziata?
- E’ probabile che non sia stata Rosy ad uccidere quella gente nello studio medico.
- Mando Palla e Leoni in ospedale, io invece torno alla mia bella scrivania, ci divertiamo tanto insieme -, afferma Sandro con un velo di ironia nella voce, Domenico gli sorride sperando di trasmettergli un briciolo di conforto. Anche se l’unica cosa che lo tormenta, in questo momento, è capire dov’è Rosy e soprattutto con chi. E perché.
Lara si trattiene nel suo studio qualche secondo in più, giusto il tempo di sperare che Domenico dica qualcosa, le parli, la guardi anche solo un attimo, pur di rompere quel muro di vetro che si è alzato fra loro due. Ed è terribile, perché chiunque di loro provi a tirare un pugno per sfondarlo, ne uscirà ferito. E’ un amore di vetro, il loro, di quelli che graffiano la pelle e il cuore. Non puoi prenderlo in mano, non puoi stringerlo in un palmo, non puoi portartelo al cuore. Ti farai male in ogni caso. Puoi solo andarci piano, è uno di quei sentimenti da afferrare con la punta delle dita per non tagliarsi e guai se scivola dalle mani, va in mille pezzi e un amore come questo non lo ricostituisci più. Lara è la colla. Tiene insieme i pezzi, si spreme come un tubetto del dentifricio affinchè un altro giorno finisca bene tra loro due, ma quando il sole cala e si avvicina al letto, finisce a terra quasi al punto di arrendersi. Forse perché agli occhi di Domenico pare una colla troppo forte, di quelle che ti attaccano anche le dita se non stai attento, mentre Lara è così debole che per mettere a posto i pezzi della sua storia con Domenico, sta facendo male a se stessa.
Gli regala un sorriso innocente, di chi vorrebbe sentirsi dire una cosa carina una volta tanto, magari fuori dal letto e alla fine di un rapporto sudato. Poi però Domenico non ha il tempo di ricambiare, torna con gli occhi, forse innamorati, sulla foto che ritrae una Rosy incappucciata, e Lara si volta e va via, perché questa volta, in questo giorno, di aspettare un suo gesto non ha alcuna voglia. Farà come vuole lui, una volta tanto. Prenderà quello che viene e si farà bastare qualche notte d’amore, senza clausole sul futuro. Si abituerà a svegliarsi al mattino e a trovare solo il suo odore per casa, ma il letto vuoto, mentre il tavolo della cucina assorbe le macchie del caffè che lui fa cadere così spesso. Imparerà che l’amore non è aspettare ma farsi attendere, che a tenere il capo della matassa dev’essere lei, se vuole uscirne indenne. Perché probabilmente non vale la pena soffrire così tanto per un amore che non nascerà mai, che rimarrà sempre racchiuso sotto le coperte di un letto qualunque, mentre il suo uomo sta già pensando a quanti cattivi arrestare oggi e a come salvare Rosy Abate, ancora una volta. E mentre si convince di tutto ciò, Lara sa che questa storia la distruggerà a pezzettini, dall’interno. A casa sua. Nel suo letto. Fra le sue pareti. Nel suo ufficio. In qualunque cosa che riguardi lei e lei soltanto, perché a farsi male in questo gioco di sguardi è solo lei, mentre fra le cose di Domenico sopravvive ancora l’odore della pelle di Rosy.

Domenico scende dall’auto, parcheggiata in maniera distratta nell’immenso cortile che abbraccia l’ospedale di Catania. Vuol controllare con i propri occhi, se qualcosa da scoprire ancora c’è. Perché Rosy non è scappata da sola e probabilmente ha buttato uno sguardo a quella telecamera volutamente, per lanciare un segnale ai suoi sbirri, per chiedere aiuto.
Il poliziotto si avvicina alla grande scalinata che introduce all’ingresso dell’ospedale, quindi viene interrotto dal suo cellulare che squilla.
- Pronto?
- Domenico, sono io -, dall’altra parte una voce lo chiama raddoppiando l’iniziale del suo nome. Poi il silenzio, nella linea telefonica e nel cuore di Calcaterra. 
 

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Capitolo 8
*** Attese ***


8. Attese 
 
Sei ore prima.
Rosy cammina per le strade periferiche di Catania con la testa bassa, occhiali da sole, un cappellino e una sciarpa che le nascondono quasi totalmente il viso. De Silva ha pensato a tutto, soprattutto a come farsi aiutare da lei. Le ha lasciato un telefono cellulare che dovrà tenere acceso solamente dalle cinque alle sei del pomeriggio, perché lui possa comunicarle il piano del giorno dopo. Le ha detto di nascondersi dove le pare, a lui poco importa se non è al sicuro, è soltanto il suo ingegno e la sua forza che gli servono. E’ quel sapore di astuzia che circonda l’immagine di Rosy Abate, l’odore della cattiveria che le anima gli occhi. Solo che ultimamente molte cose sono cambiate e forse lo stregone non lo sa.
La regina di Palermo si muove tranquilla fra la gente che popola la città siciliana nelle prime ore del mattino. Sa benissimo che la polizia ha disposto controlli e posti di blocco ovunque, la cercano da ieri incessantemente e dovrà stare molto attenta, se vorrà arrivare incolume alle cinque di questo pomeriggio. Tutto sommato il misterioso progetto di De Silva la incuriosisce e non poco.
Si avvicina all’ingresso di un istituto superiore, dove incontra gruppetti di ragazzi che si scambiano occhiate e pensieri poco prima di entrare in classe. Attende che il cortile si svuoti, quindi si avvicina ad un ragazzino in ritardo che corre verso le scale trascinando sulle spalle uno zaino che pesa quanto il suo cervello da piccolo genio. Lo blocca da dietro, quindi si allontanano insieme dall’ingresso della scuola sotto l’occhio distratto del bidello che, sulla porta, non si è accorto della pistola che Rosy stringe fra le mani, premendola sullo stomaco del ragazzino. Forse non si è accorto neppure di lei.
- Ciao, stai zitto, non parlare, non gridare, non ti farò del male se farai tutto quello che ti dirò -, si guarda attorno per assicurarsi che non ci sia nessuno, quindi punta la beretta che gli ha lasciato De Silva contro lo sguardo del ragazzino. Le sue mani tremano, per un attimo immagina che sia Leo da grande e che qualcuno, forse più cattivo di lei, gli stia puntando un’arma addosso per avere da lui qualsiasi cosa. Per un attimo si sente madre, ricorda di esserlo stato e rivede negli occhi di quell’adolescente che se la sta facendo addosso, lo sguardo del suo bambino. Che non c’è più. E che se n’è andato esattamente così, perché qualcuno non ha avuto pietà di sparargli addosso guardandolo in faccia. Quindi abbassa la pistola ed è la mamma di Leo che parla, adesso, non la regina della mafia.
- E’ un giocattolo -, incalza lei sorridendo, con un velo di tristezza negli occhi - La vuoi toccare? Non ti faccio niente, ho un figlio della tua età… Forse. Quanti anni hai?
Il ragazzo spinto al muro ingoia una palla di paura e pietà, quindi con le dita delle mani mima i suoi anni, aprendole tutte.
- Dieci? Dieci anni hai? -, gli chiede Rosy, col sorriso di vita fra i denti; il ragazzo quindi apre di nuovo le mani, questa volta una sola, e lascia alla sua temibile aguzzina il tempo di contare. - Quattordici? Hai quattordici anni… Sei piccolo, ancora. No, mio figlio ha cinque anni, solo cinque. E’ piccolo. Ha i capelli ricci, fra un po’ inizia a cambiare i denti. Penso che quelli da latte che gli cadono me li conservo tutti, sai per ricordo…
Rosy ricorda il volto di suo figlio e il suo sorriso bianco, puro, mentre il ragazzino che ha preso in ostaggio, ancora al muro, la guarda senza trattenere la paura, che prende forma in un fiume di acqua che gli cola fra le gambe, nei pantaloni marroni. Lei se ne accorge, ma non dice nulla. Prova pietà, dispiacere, sente dentro di sé una forza immensa che la spinge a lasciarlo lì, all’angolo di una strada deserta alle otto del mattino, e scappare lontano, fin dove la vita non possa più raggiungerla col suo atroce e appuntito bagaglio di ricordi, foto, pensieri, flashback, strade per le quali ha corso tanto alla ricerca di suo figlio, nelle mani di qualcuno che non fosse lei. Immagina suo figlio al muro sotto l’occhio assassino di qualcuno che voleva vendicarsi sulla sua pelle ingiustamente, così come lei sta facendo con quel ragazzo. Poi butta per terra gli occhiali da sole che stringeva nella mano sinistra e assume uno sguardo di sconfitta, disprezzo, perché la madre di quel ragazzo è a casa sua e non sa che suo figlio, mentre andava a scuola, ha incontrato la pistola dannata di un’altra madre ferita, ma pur sempre cattiva.
- Come ti chiami? Non ti faccio niente, stai tranquillo.
- Lorenzo.
- Lorenzo… -, replica lei, sorridendo con gli occhi - E’ un bel nome, Lorenzo. Ce l’hai un cellulare? Me lo daresti?
Il ragazzo le porge il suo telefonino, tirandolo fuori dalla tasca umida di urine, mentre la sua mano continua a tremare. Non si è dimenticato che nella mano destra Rosy stringe ancora la pistola. Ma non lo sa, lui non lo sa che lei non sparerà più, perché è stata una madre e ogni volta che punterà la pistola in faccia qualcuno si ricorderà di suo figlio che gridava il nome di sua madre poco prima che lo giustiziassero per sempre.
- Grazie Lorenzo. Tieni, prendi questi -, Rosy tira fuori dalla tasca alcune banconote che le ha dato De Silva e le stringe nelle mani del ragazzo - Prendili e vatti a comprare un paio di pantaloni nuovi, a scuola con quelli non ci puoi andare. Ciao… Ciao Lorenzo.
Indossa il suo sorriso più bello, poi riporta gli occhiali da sole sulla faccia, dopo aver nascosto la pistola sotto la felpa, e si allontana sotto lo sguardo congelato del ragazzino, che non ha mai cambiato la sua posizione con le mani sporche di videogiochi incollate al muro e la pipì calda che gli scivola fra le gambe. Guarda quella donna incappucciata dargli le spalle mentre procede a passo svelto e tutto attorno a sé fa un gran silenzio, non ci sono rumori, la sua mente ha spento i pensieri e lungo la strada si avverte solo l’esplosione del suo cuore, che batte forte nel petto ancora in preda ad una paura che forse non se ne andrà mai e lo seguirà anche a letto, tutte le notti.

Il sole si è nascosto presto, oggi, a Catania. Un bagno di nuvole di spumante si sono incontrate in cielo, sembrano schiuma da bagno che si dissolve al soffiare di un bambino. Rosy è stanca di camminare, ha lasciato la scuola e Lorenzo alle sue spalle da diverse ore, senza mai fermarsi, tirando sempre dritto. Un posto in cui nascondersi è l’urgenza più grande per lei, adesso. Costeggia la città spostandosi sempre più in periferia ma senza mai uscirne fuori, perché la polizia può arrivare ovunque e lei, invece, deve trovarsi dove Calcaterra non la cercherebbe mai.
Continua a camminare, mentre la forza delle gambe sotto di lei comincia a cedere poco a poco. E’ in marcia da più di un giorno, senza mai dormire, e l’unica cosa che vorrebbe adesso è un posto in cui stendersi e addormentarsi fra i suoi pensieri, prima che le cinque arrivino. Ogni tanto controlla le tasche per accertarsi di avere entrambi i cellulari, quello per mettersi in contatto col capo della sua missione e quello reperito per emergenza e di cui De Silva non deve sapere. Se deve giocare, deve farlo bene. E di ostelli e mezze pensioni, in questa ennesima parte della sua fuga, non ne vuole sapere. Gli sbirri ci mettono così poco a raggiungerla, che a lei non basterebbe nemmeno il tempo di un battito di ciglia per scappare. Perché ha esaurito l’energia della mafiosa, adesso resta solo una donna distrutta che di correre contro i nemici non ne può più. Si farà guidare e comandare, questa volta, e magari sarà anche l’ultima.
Assorta fra i suoi pensieri, inizia a sentire goccioline di pioggia bagnarle le mani e schiantarsi sulla punta del suo naso, quindi alza la testa al cielo e spalanca la bocca, per idratarsi un po’. E’ acqua sporca, quella che cade da su, sporca come la sua anima dopo tutti questi anni. Quindi beve, così che magari lo sporco vada via per sempre sotto il flusso dell’acqua, portandosi dietro anche la tristezza e i ricordi di un tempo passato in cui lei era una madre e suo figlio poteva ancora giocare a fare disegni e a sporcarsi le mani e la faccia di gelato, un tempo in cui c’era ancora Claudia, che si pretendeva cura di lui, e Domenico attendeva con ansia di diventare padre. Vorrebbe tornare ad un momento di questi, ad un punto in cui tutto ancora andava per il verso giusto, prima che arrivasse lei a togliere tutto alle uniche persone a cui davvero teneva. Ad alcune di loro ha persino tolto la vita.
Con la vista appannata dalla stanchezza, riesce a scorgere in lontananza una casa buttata nel verde povero che affaccia su una strada di provincia, poco fuori da Catania. Accelera il passo, adesso, incrociando la fretta di alcune prostitute accampate sotto un ponte che scappano dall’acquazzone prossimo sulla città. Raggiunge il palazzo, un cubo di mattoni rossi piantati sulla terra che beve acqua dal cielo. E’ diroccato, senza finestre, solo una porta in legno rovinato che introduce nell’abitazione abbandonata, mentre sulla parte alta della palazzina ancora sopravvive una scritta bianca poco consumata dagli eventi atmosferici. “Casa cantoniera”, si legge, quindi sotto il numero dei chilometri che la separano dalla città e il nome della strada su cui è stata erta, anni addietro quando la guerra devastava qualsiasi cosa trovasse davanti e l’asfalto, i ponti e le prostitute al riparo ancora non esistevano. Probabilmente questa casa deve aver ospitato una famiglia di lavoratori anni fa, con dei bambini. Rosy spalanca la porta ed entra dentro per trovar rifugio dalla pioggia. Subito un odore di muffa misto a polvere e povertà le cattura il naso, mentre si fa spazio tra i detriti e i resti degli infissi in legno verde abbandonati sul pavimento. Sulle pareti ci sono ancora i segni dei mobili, un quadro di pittura bianco latte si staglia su un muro che di bianco ormai ha ben poco. C’è sporco ovunque e ben poco da recuperare e utilizzare. Questo posto dev’essere stato il covo di molta gente, nel corso del tempo. Lei non è altro che una dei tanti fuggiaschi che hanno trovato calore e un buon bagno pubblico tra le mura solide e bagnate di questa casa. Ovunque ci sono macchie nere di muffa, mentre un odore acre proviene dal bagno. Rosy avanza fra gli oggetti rotti sul pavimento, cumuli di carta, pezzi di legno, bottiglie di vetro spaccate contro qualcosa o qualcuno, contenitori di cartone sbiaditi con l’immagine di un frutto sopra. Per quanto sia forte la sete, in questo momento, non ha il coraggio neppure di sfiorare con le dita nessuno di quegli oggetti. Preferisce il digiuno e la siccità, la coraggiosa mafiosa.
Da quello che sembrava il soggiorno della casa si sposta in una delle stanze sulla destra, dove l’odore si fa più pulito e puro. Una scritta sul muro le congela il cuore. Un nome, imprigionato nella calligrafia confusa e distorta di un bambino che è passato da quelle parti. Ettore. Poi, per un attimo, torna alla realtà e si ricorda del suo appuntamento telefonico con De Silva. Prende il cellulare che fino a quel giorno era appartenuto a Lorenzo e guarda l’orario. L’orologio segna le 14:07, quindi si siede su una vecchia brandina accampata in quella che forse era stata la stanza di quel bambino che ha lasciato il suo autografo sul muro prima di andare via, chissà dove. Probabilmente è sul suo lettino, che è seduta. Un materasso giallo corroso dagli esseri viventi e animali passati da quelle parti. Al centro campeggia una macchia gigante, forse il ricordo di una delle notti di paura di Ettore che non ha saputo resistere e se l’è fatta sotto. Esattamente come Lorenzo quella stessa mattina. Esattamente come faceva anche il suo Leo.
Con le dita consumate dai denti e le battaglie, inizia a digitare un numero di telefono. Lo conosce a memoria, come quando quella volta, mesi e mesi fa, lo aveva chiamato nella speranza di saperlo ancora vivo sul fondo della botola. Oggi la sua speranza è di sentirlo e basta. Pochi squilli la separano da lui e tanti chilometri sulle strade di Catania, ma sotto lo stesso cielo. Una voce risponde. Il suo cuore si anima, per la prima volta dopo quasi 36 ore.
- Pronto?
- Domenico, sono io -, incalza lei, raddoppiando l’iniziale del suo nome. E’ quasi un titolo di riconoscimento, la firma di Rosy Abate, che vale più della sua stessa voce. Dall’altra parte risponde un forte silenzio, quindi Rosy attende pochi istanti, immaginando che lui non sia solo ovunque si trovi e che debba dargli il tempo di isolarsi per parlare, poi insiste - Domenico rispondi!
- Rosy?
- Sì, sono io.
- Rosy dove cazzo sei? Cosa sta succedendo?
- Non lo so Domenico, non lo so.
- Dimmi dove sei, ti raggiungo.
- No! Non devi… Non dobbiamo vederci, lui non deve sapere che ti ho chiamato. Nessuno lo deve sapere, Domenico, giurami che non lo dirai a nessuno.
- Lui chi? Di chi stai parlando? Chi c’è dietro a tutto questo?
- E’ che… Ho rubato il cellulare a un ragazzino… -, la sua voce si cristallizza in mille frammenti di vetro che le graffiano la gola e le corde vocali, quando ripensa a quel giovanotto impaurito - Dovevi vederlo, se l’è fatta addosso perché pensava che volessi ammazzarlo -, sentenzia lei sorridendo fra i denti e la saliva, che si confonde con le lacrime che scendono giù dai suoi occhi alla stessa velocità con cui la pioggia picchia forte sul tetto della casa.
- Cosa stai dicendo, Rosy? Fammi capire dove minchia sei!
- Sono in un posto, sono al sicuro. Alle cinque mi chiamerà su un altro telefono e mi dirà cosa vuole da me.
- Chi, Rosy? Dimmi chi!
- De Silva! C’è lui dietro tutto questo… -, Rosy si interrompe di fronte al silenzio che l’aspetta dall’altra parte, quindi attende che lui metabolizzi, poi riprende il discorso - L’ho trovato in ospedale, dovevo immaginarlo che fosse roba sua. Le guardie che mi hanno portata via dal carcere erano d’accordo con lui, erano suoi servitori. Lui li ha ammazzati per paura che parlassero, sotto i miei occhi. Quando sono entrata nello studio del dottore, quei due, lui e la sua segretaria, erano già morti.
- Non capisco… Cosa vuole De Silva da te?
- Non lo so, me lo dirà oggi.
- E dov’è adesso? Tu dove sei? Consegnati, Rosy, consegnati immediatamente prima che sia troppo tardi!
- No, Domenico! Non posso… Non capisci? Io sono uno strumento nelle tue mani. Lui mi chiederà aiuto in qualcosa, vorrà la mia collaborazione e io ti aiuterò.
- Dannazione, Rosy, posso farcela anche senza che tu rischi la vita!
- Ma tu De Silva lo vuoi prendere si o no? Perché io ti posso aiutare e ti sto offrendo un’occasione che è da stupidi rifiutare.
- In questo momento mi preoccupa molto più che tu sia sana e salva e che ci resti.
- Non cercare di rintracciare questo numero, Domenico… Sto in un posto sicuro, mi muoverò quando me lo dirà lui e sarò io a chiamarti. Ti darò le indicazioni necessarie ma non informare la tua squadra di questa telefonata. Se lui mi ammazza il responsabile sarai tu, chiaro?
- Cosa fai, ti metti anche a minacciare adesso?
- Ti sto aiutando, Domenico, cazzo!
- Aiutami a stare tranquillo allora, dimmi dove sei! Vengo a prenderti e ti riporto in carcere.
- Ma allora non capisci? Usami, Domenico, usami per arrivare a lui e non rompere i coglioni con le tue leggi della minchia.
- Come faccio a sapere che stai bene, che non ti ha ammazzata?
- Ti chiamerò. Non so fino a quando durerà la batteria di questo telefono.
- E dopo cosa succederà? Come faremo?
- Dopo si vedrà. Adesso fai il tuo cazzo di lavoro, appena saprò qualcosa ti chiamerò -, Domenico dall’altra parte del telefono emette un lungo respiro, che in questo momento è la più lunga risposta che sappia darle - Domenico?
- Eh?
- Lo faccio solo per vendetta… Perché lui ha cercato di far del male a mio figlio e tutti quelli che lo hanno fatto devono marcire sotto terra, proprio come Leo. Non sto collaborando…
- No, certo… -, risponde Domenico, un filo di rassegnazione nella voce.  
- A presto e…
Poi il silenzio. Da entrambe le parti. Rosy interrompe la conversazione prima che la sua bocca possa sputare fuori uno dei pensieri più forti che si nascondono nelle curve del cuore e Domenico ha sentito il telefono chiudersi sulla sua faccia prima di poterle dire anche lui, qualcosa. Solo che questa volta la linea si è interrotta e ha spento i pensieri e le sensazioni di entrambi, messi in moto dalla paura che li muove adesso, la stessa sensazione di precarietà e attenzione, che li unisce anche essendo ai limiti opposti della città. E aspettano così, ognuno qualcosa a modo suo, ognuno una telefonata. Perché magari se il cellulare squilla ancora, Domenico può risentire la voce di Rosy e può dirle ancora quello che pensa e che sente, qualsiasi cosa purchè la telefonata duri più a lungo. Magari anche tutta la vita. E Rosy, dal canto suo, può continuare a respirare i respiri di Domenico, che dall’altra parte del telefono è costretto a subire le sue pazzie e le sue strane idee da mafiosa latitante. Solo che questa volta è diverso, questa volta lei lo vuole aiutare anche per ringraziarlo di quanto ha fatto per suo figlio, di quante forze ha impiegato nel cercarlo e di quanta costanza e sicurezza ha messo nella ricerca della verità, fino a raggiungere il suo piccolo corpo intrappolato nella terra del vulcano. Questa volta è la resa dei conti e, forse, si ritroveranno sul campo d’azione entrambi con la pistola puntata verso la stessa faccia. Si guarderanno negli occhi, mossi dallo stesso stimolo, e torneranno a combattere dalla stessa parte, la criminale e lo sbirro. 
 

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Capitolo 9
*** Progetti ***


Buonasera a tutti :) Mi scuso per l'attesa, purtroppo tra impegni di studio e di lavoro sono riuscita a pubblicare solo oggi! Ne approfitto per ringraziare tutti voi che leggete, recensite e seguite la mia storia con costanza :) per me è davvero importante. Grazie e buona lettura!

9. Progetti
 
Domenico rientra in centrale, con la rabbia fra i capelli e l’apprensione nello stomaco. Con un gesto della mano chiama a rapporto i suoi colleghi, che lo seguono nel suo studio dietro una porta vetrata. Il poliziotto sbatte con violenza il suo telefono sulla scrivania, quindi si passa le dita fra i capelli per rimettere ordine fra i pensieri. Sotto lo sguardo vigile della sua squadra che si aspetta di ricevere la peggiore delle notizie, Domenico sta chiedendo a se stesso se sia giusto raccontare. Se lasciare che Rosy rischi tutto questo da sola e che lui riprenda a proteggerla come aveva già fatto. Perché dieci mani lavorano meglio che quattro soltanto e lui lo sa bene, ma sa anche di aver appena promesso ad una mafiosa di non dire nulla a nessuno della loro telefonata. Perchè per lui è sempre così difficile scegliere fra una cosa facile ed una difficile? Perché si ostina ancora a guardar le spalle di un’assassina? Chè alla fine lui si ritrova sempre nudo al centro del mondo durante l’inverno più lungo e mai nessuno corre a portargli una coperta. E’ un corto circuito che scatta in una casa senza salvavita e va a fuoco, sempre. Sempre da solo.
- In ospedale non ho trovato niente di più di quanto già non sapessimo. Palla, Leoni? Voi avete concluso qualcosa?
- Nulla, dottore… -, gli risponde il suo agente dai capelli brizzolati con una vena di dispiacere in volto.
- Bene, quindi ci tocca ripartire da zero. Abbiamo un costruttore fatto a pezzi dalle nostri parti, De Silva in fuga e l’Abate… Chissà nelle mani di chi.
- Sei davvero convinto che sia stata rapita? -, incalza Lara, nervosa.
- Sì, ne sono più che certo.
- E cosa te lo fa pensare? E’ una mafiosa, ha ammazzato un numero indefinibile di gente, è chiaro che non voleva finire la sua vita in carcere.
- Conosco Rosy e so che non avrebbe mai fatto tutto questo da sola.
- La conosci, certo… Tu stai collaborando con la mafia, Domenico!
- Da quale pulpito… Avevi una sorella mafiosa in casa e continuavi a coprirla?
- Ancora con questa storia?
- Scusate… -, li interrompe Sciuto, che ha seguito il filo del discorso come una pallina da ping pong, saltando da un lato all’altro del tavolo mentre le racchette di legno spingono con violenza. - Penso che non dovremmo sottovalutare nessuna ipotesi, la fuga come il rapimento. Piuttosto cerchiamo di capire cosa ha spinto De Silva di nuovo a Catania, se è vero che lo credevano tutti morto…
- E’ evidente che ha in mente qualcosa di grande -, sentenzia Domenico, con l’espressione di chi sa tutto ma fa finta di niente, come ascoltare una bugia di qualcuno conoscendo già la verità. Perché la verità è che Rosy è in pericolo ed ogni minuto che passa potrebbe rischiare sempre un po’ di più.
- E se ci fosse un collegamento? Potrebbero essere tre pedine di uno stesso scacchiere! -, interviene dal fondo della stanza Sandro, energico. Una voglia di azione che deve reprimere, ma che i suoi occhi non riescono a mascherare.
- Consideriamo anche questo.
Caputo interrompe le confessioni nella sala dei vetri. Una scura barba folta gli avvolge le labbra e incontra le basette lungo i lati del viso, gli occhi vispi e un senso della giustizia forte più di ogni altra cosa. Ha l’animo di un bambino, a sentirlo parlare, la voce da ragazzino impaurito che deve affrontare la fase dello sviluppo, ma quando poi scende in strada caccia fuori gli artigli del leone.
- Scusate l’interruzione… Dottore hanno trovato un cadavere carbonizzato in un cassonetto dell’immondizia.
- Arriviamo.
- Sì, il problema è che è in punto un po’ particolare…
- Dove Caputo? -, chiede Domenico con l’aria preoccupata.
- Fuori al vostro residence, dove ci sono le vostre casette.
Calcaterra infila le mani nelle tasche, gli occhi si fanno sottili per pensare e vederci meglio. Sta collegando i fili, Domenico, e nessuno glielo leva dalla testa che qualcuno gli sta mandando dei segnali, disseminando cadaveri intorno alla sua zona. E non ha dubbi su chi possa essere.
- Avviatevi, io vi raggiungo. Sandro ho un lavoro per te.
Il poliziotto aspetta che la sua squadra lasci la sua stanza, ultima della fila Lara che non esita un secondo a sbattersi la porta alle spalle, facendo tremare i vetri. Ma non il cuore di Calcaterra, che non ha paura di lei adesso.
- Cosa c’è?
- Segnati questo numero -, gli dice Domenico porgendogli il suo telefonino.
- Cosa devo farci?
- Rintraccialo, dimmi da dove ha chiamato. Voglio sapere ogni cosa, la zona, la via, il numero civico.
- Ci provo…
- No, ci riesci. Ne va del tuo posto di lavoro.
- E’ così importante da licenziarmi? -, Domenico non risponde questa volta, combattuto fra i sentimenti che si fanno la guerra dentro di lui. Lascia che sia il silenzio a parlare, assieme all’espressione del suo viso, che si spegne un po’ alla volta quando ripensa alla loro telefonata, a quello che gli ha detto Rosy, ai pericoli ai quali si è esposta, trascinandosi dietro anche lui. - Che mi stai nascondendo questa volta, Domenico? No, perché quando fai il misterioso c’è sempre qualcosa che non puoi dire. Riconosco quell’atteggiamento, ci sono cascato troppe volte.
- Se riesci a rintracciarmi quel numero, te lo spiego.
- E se mi rifiutassi di farlo?
- Lo farò da solo, ma tu non saprai mai di cosa si tratta.
- Finchè non ti esplode un’altra bomba in casa e scopro che nascondi un’altra mafiosa?
Domenico sorride. Per un attimo si riaccende, sul volto e nel cuore. Perché poi gli basta un attimo per stare meglio, un solo ricordo, come quando alla casa al mare dietro i vetri Rosy se ne stava seduta a guardare il mare, fumando le sue sigarette sottili bianche. Lui ancora non aveva imparato a fidarsi, non si era convinto a toglierle le manette. E nemmeno i vestiti. Lei era ritrosa, spocchiosa, maleducata. Eppure, a volte, si scopriva a guardarlo dal basso, forse animata dal senso di colpa o dall’imbarazzo. Forse perché guardava il mare da dove un tempo lui faceva lo stesso con Claudia e forse perché Claudia non c’era più, mentre lei era ancora viva.
- Non nascondo nessuno, stai tranquillo.
- Sarà, ma quel sorrisetto non mi dice nulla di buono.
- Lavora Pietrangeli, lavora.
- Certo, buttato dietro ad una scrivania a cercare l’Abate per te, come se non lo sapessi…
- Faccio finta di non aver sentito! -, incalza Domenico un po’ beffardo. Poi raggiunge la sua squadra alle casette, c’è un nuovo cadavere in attesa di riavere un nome e, forse, un po’ di pace.

- E dai De Silva, cazzo, chiama.
Rosy continua a camminare nella stanza meno mal ridotta della casa abbandonata. Sono passate le 17 ma lo stregone non ha ancora chiamato. Perché? Dove sarà?
La pioggia ha interrotto il suo canto da poco più di mezz’ora, un filo di acqua continua a colare da un buco nel tetto, ma Rosy, infastidita dal ticchettio, ha trascinato un pezzo di stoffa sporca in corrispondenza della catenella di goccioline, per assorbire il rumore della natura.
Non riesce a darsi pace, non sta bene con se stessa fin quando non saprà quale sarà il suo posto nella misteriosa missione. Poi però i suoi pensieri vengono spezzati dalla suoneria del telefono.
- Sei tu?
- Sì, sono io -, una voce prepotente dall’altro lato della chiamata prende fiato, prima di proseguire il discorso - Dove ti sei nascosta? Sei al sicuro?
- Sono al sicuro, sì, ma tu dimmi cosa dobbiamo fare.
- Quanta fretta, Abate, stai tranquilla.
- Stai tranquilla un cazzo, De Silva.
- Ti dice niente Via Palermo?
- L’ospedale?
- Di fronte.
- Non lo so cosa c’è di fronte, non me lo ricordo.
- Un terreno. Immenso. 32 ettari.
- E noi cosa ce ne facciamo?
- L’ho comprato, è mio.
- Minchia, avevi così tanti soldi?
- Ho le mie conoscenze. Al momento è intestato ad un costruttore che ha fatto i capricci e ha scelto di morire.
- Ne ho sentito parlare… Quindi sei stato tu ad ammazzarlo?
- Non mi sporco le mani con i pezzi da strada, ci hanno pensato i miei servitori. Sto cercando un suo collega, valido, che mi aiuti a realizzare il nostro progetto.
- Nostro? Di chi?
- Questo non deve interessarti.
- Dimmi almeno a cosa ti servo io!
- Trovami un costruttore. Uno qualsiasi. Lo minacci un po’ come sai fare tu e poi, dopo averlo convinto a collaborare, me lo porti.
- Dove te lo porto?
- Basta con le domande, fai come ti dico.
- Aspetta, aspetta un attimo… Questo terreno… Come farai ad averlo tu?
- Grazie a te, ecco tutto. Il costruttore che ha comprato il terreno per conto mio ha deciso di tirarsi indietro in un secondo momento, quindi l’ho fatto fuori. Oggi mi è successa la stessa cosa con un brav’uomo che non voleva aiutarmi. Mi rendono cattivo, quelli che non mi obbediscono, quindi stai attenta a come ti muovi.
- Ho capito… Vuoi qualcuno che compri a ribasso il terreno del tuo primo collaboratore che adesso è cadavere?
- Vedo che sei perspicace.
- E’ che non capisco com’è che uno come te riesce a convincere la gente e poi si fa tradire. Qualcosa dev’essere andato storto nei tuoi piani, qualcosa non è piaciuto alla gente a cui ti sei rivolto, quindi si sono fatti indietro.
- Sono invecchiato, non riesco più ad essere convincente come un tempo. Sei dalla mia parte o devo ammazzare anche te?
- Ci risentiamo alla stessa ora, domani, e mi dirai dove portarti il nostro uomo -, De Silva dall’altro lato del telefono e di Catania non nasconde un sorriso, lasciandolo trapelare attraverso i suoi respiri faticosi.
- Possiamo fare grandi cose io e te, Rosy. Diventeremo proprietari di un grande impero.
- Un’ultima cosa. Che progetto hai? A che ti serve quel terreno? Voglio saperlo, prima di fare i miei compiti.
- Un centro commerciale. Il più grande del sud Italia.
- Troppo pulito per uno come te.
- Nasconderà un giro di contrabbando più unico che raro, merce pregiata che proviene dall’est. Quando ti illustrerò i dettagli, non saprai tirarti indietro. Ora ho bisogno di sapere che posso fidarmi di te, quindi prendi il nostro uomo. Possibilmente uno con le palle sotto, che non si tiri indietro nemmeno in punto di morte.
L’uomo chiude la chiamata, quindi Rosy resta immobile per alcuni secondi. Deve capire, deve ragionarci su. Perché De Silva è troppo stanco per fare tutto da solo, si muove sotto i fili di qualcuno. Un grande burattinaio con la faccia cattiva e la mente diabolica. Un padrone del progetto, che da adesso comincerà a muovere anche i suoi, di fili.
Abbandona il telefono sul materasso sporco nella cameretta del bambino, quindi si guarda intorno. Dovrà organizzarsi per la notte, ha bisogno di chiudere gli occhi e dimenticare almeno per alcune ore le ultime 48. Si sdraia sul letto senza lenzuola né coperte e stringe le braccia al petto, come per proteggersi dal freddo che poco a poco si abbatte su di lei. La pioggia del primo pomeriggio ha rinfrescato l’aria, senza ripulire la sua mente. Poi butta un occhio al cellulare che ha rubato, la batteria è a metà e ha paura che quando si risveglierà avrà perso l’unico mezzo di collegamento che le permette di sentire la voce di Domenico. Non le importa raccontargli della telefonata di De Silva, non sono le informazioni che vuole passargli adesso. Ha solo bisogno di sentirlo, ascoltarlo, chiudere gli occhi e ricordare il suo viso, perché ha paura di non poterlo rivedere da vicino per troppo tempo. E ha paura di dimenticarlo, di dimenticare il colore dei suoi occhi o non ricordare quante rughe ha sul viso quando inizia a sorridere. Ha paura che sia qualcun altro a fissargli la piccola depressione che ha sulla guancia destra e che non sia la sua la mano stretta forte fra le sue dita grandi e calde, sicure. Quasi quanto quell’abbraccio che l’ha fatta prigioniera solo pochi mesi fa sull’Etna, mentre il suo bambino correva verso di lei ma Rosy non lo trovava, stringeva le braccia e non c’era nessuno. Solo Domenico, alle sue spalle, che la chiudeva sul suo cuore. C’è sempre solo lui. E’ l’unica persona che le sia rimasta e lo sa bene. L’unico che ha lottato per lei fino alla fine e continua a farlo, oltre le regole, oltre il giusto. Perché alla fine lei arriva sempre a sconvolgere i suoi piani, eppure Mimmo non si tira mai indietro. Non le dice mai di no. Perché alla fine è colpa sua se sono morti tutti, anche Leo, eppure Mimmo è rimasto. Ha risposto alle sue chiamate sempre, tutte le volte, senza mai riattaccare, fin quasi a farsi male le orecchie.
Compone il suo numero sulla tastiera del telefono e resta così, sdraiata sul letto a fissare un soffitto bagnato che da un momento all’altro potrebbe precipitarle addosso. E forse sarebbe meglio così, meglio di una conversazione sperata che però non comincia, perché il telefono continua a squillare ma Domenico non risponde. Questa volta no. E si addormenta, Rosy, mentre il cellulare le resta incollato all’orecchio senza alcuna risposta. In fondo è questa la sua vita, è questo lei, una telefonata che nessuno riesce a prendere in tempo, una suoneria che nessuno sente. Arriva in ritardo o forse troppo presto, come un treno ubriaco che non sa leggere l’orologio. Un capodanno che nessuno festeggia, un bagno caldo mai fatto. E allora si raffredda Rosy, come l’acqua nella vasca, e gira i rubinetti con i quali chiude gli occhi e si addormenta. Per non pensare, ricordare, disperare. Ci penserà il sonno a portarla dove realmente vuole, con la mano stretta fra le dita cicciottelle di suo figlio e Domenico che li guarda. Ci penserà il sogno a regalarle quella famiglia che non ha mai avuto, senza dover sperare in una semplice telefonata per addormentarsi sotto il suono caldo della voce di un poliziotto speciale. 
 

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Capitolo 10
*** Lettera d'amore ***


10. Lettera d'amore

 
- Abbiamo un nome?
- Sì dottore, Riccardo Bragaglio. Abbiamo trovato i documenti a pochi metri dal cassonetto. Si tratta di un costruttore importante, a lui sono intitolati numerosi palazzi della città comprese le casette del residence alle sue spalle.
Domenico si volta a guardare il suo appartamento, confuso in una catena di cubi bianchi tutti uguali.
- Un altro costruttore… Com’è morto?
- Un colpo fatale in fronte, un’esecuzione senza troppi preamboli. L’autopsia confermerà le dinamiche, ma non ci sono dubbi, ha un proiettile incastrato nella testa.
- Chi pensi che sia stato, Sciuto?
- Sarei falso a dire che non penso a Tommasi, anche lui costruttore, i documenti ritrovati a qualche metro di distanza. Entrambi sono stati rivenuti in zone di nostra conoscenza e azione… Potrebbe essere un avvertimento.
- Mi stanno informando che la guerra è ricominciata.
- Pensa sia qualcuno che ce l’ha con lei?
- Penso che si tratti di qualcuno che conosco molto bene.
- Non sarebbe più sicuro cambiare alloggio, almeno per adesso? Sanno dove abita, potrebbero farsi trovare in casa sua.
- Questa è gente che è capace di trovarti anche sotto terra, Sciuto. E poi non ho paura. Se dimostri di temerli, sei fottuto in partenza. Fai conto che sei già morto.
- Il tuo telefono squilla -, lo informa Lara con freddezza e noncuranza, passandogli accanto e coprendo il volto del cadavere con un lenzuolo bianco. Un foro nel cranio, gli occhi spalancati. Anche lui, come il suo collega Tommasi, deve aver guardato in faccia il suo assassino prima di morire. Perché è questa la fine che fai se non ti pieghi sotto il calcio della mafia. Riccardo Bragaglio è morto con la paura negli occhi, lasciando a casa una moglie e un figlio di tre anni. E ha lasciato una vita pulita, dei sogni e molte speranze, disegni di case ancora da costruire, porte da spalancare alla gente. Lui era famoso a Catania, come uno di quelli che ha combattuto per dare un futuro buono alla città. Ed era famoso perché il suo gioco era pulito, limpido e trasparente, senza farsi schiaffeggiare dalle minacce della criminalità organizzata, di chi voleva farci il comodo proprio con i suoi progetti e le sue costruzioni per conquistare l’isola. Non aveva mai avuto paura, il signor costruttore. Mai, prima di quel giorno. Mai, prima di vedere riflesso negli occhi del suo aguzzino il rinculo della pistola puntata sulla sua fronte larga.
Domenico si tasta le tasche dei jeans, quindi controlla quelle del giubbotto senza sentire gli squilli di una chiamata che non si arrende. Lara lo vede con la coda dell’occhio.
- E’ nella tua macchina.
Il poliziotto velocizza il passo verso l’auto, lasciando Sciuto a riflettere sul discorso della paura. Più si avvicina, più sente il suono del suo cellulare. Fa appena in tempo ad aprire la portiera dal lato del guidatore, ma quando apre la chiamata dall’altra parte hanno già riattaccato. Quindi tira un calcio al paraurti della macchina, perché Rosy lo ha chiamato e lui non l’ha presa in tempo. Scorre veloce il dito fra le chiamate perse. Il suo numero è in cima alla lista, evidenziato da un rosso dolore. Dolore per non aver risposto, per non aver portato il cellulare dietro con sé, per aver pensato che l’indagine fosse più importante della telefonata di una mafiosa. Perché per uno sbirro che si rispetti è così che deve andare.
Guarda e riguarda il numero dal quale lei lo ha chiamato, fin tanto da impararlo a memoria, fino a sentir gli occhi bruciare. E più guarda il telefono, più spera che lei ci provi ancora, che non si arrenda. Il suo cellulare squilla una nuova volta, quindi preso da un’improvvisa sensazione di gioia frenetica, risponde alla chiamata a metà del primo squillo.
- Rosy!
- No, Domenico, sono Sandro -, dall’altra parte il dottor Calcaterra resta impassibile per un momento. Gli sembra di essersi appena svegliato da un incubo, tutto sudato e agitato, come quando sogna di piangere e si sveglia con le lacrime che gli graffiano il viso e gli seccano la bocca. Sono lacrime che bruciano, come quelle che tiene strette dietro le quinte degli occhi, lontane dal palcoscenico dei suoi colleghi tutti riuniti attorno ad un uomo che, adesso, merita giustizia. Nasconde una gran sofferenza, lui, quella di chi non si dà pace perché non sa da dove cominciare a mettere a posto, perché ovunque mette la mani riesce solo a sporcarsi. E si sporca le mani e si sporca il cuore, quando accarezza col corpo e coi pensieri l’immagine di una donna normale e poi mafiosa e latitante e costituita e poi ancora latitante e pregiudicata e incarcerata, ma poi rapita e lanciata nella morsa dei lupi. In un circo che non la risparmierà, questa volta. E deve pensarci lui a salvarla, deve riuscire lui a donarle anche un solo attimo di pace. Perché là fuori le tigri hanno i denti appuntiti e gli elefanti corrono veloci, in questa vita.
- Sì, Sandro, dimmi -, incalza lui passandosi una mano fra i capelli e chiudendo gli occhi.
- Tutto bene?
- Tutto bene, sì. Ci sono novità?
- Eccome. Il tuo numero fortunato ha agganciato una cella telefonica solo un paio di minuti fa.
Nella mente di Domenico i pezzi del puzzle corro a sistemarsi ai loro posti di combattimento. Le cose iniziano a quadrare e lui ad avvicinarsi sempre più a lei.
- Benissimo, in che zona?
- Alla periferia di Catania, ti mando le coordinate.
- Grazie Sandro.
- Domenico?
- Eh?
- Ora puoi dirmi cosa cazzo stai combinando? Alle spalle di tutti, dei colleghi, del magistrato… In che guaio ti stai cacciando, ‘stavolta?
- E’ solo un’ipotesi.
- Sei in contatto con l’Abate, non è vero?
- No…
- Hai risposto al telefono con la certezza che fosse lei. Dimmi cosa stai tramando! -, la voce di Sandro inizia ad accendersi, come le ferite sul suo corpo quando cadde con Nerone dal punto più alto del cielo, precipitando sul soglio della vita. Solo che questa volta non si tratta di ammazzare il suo peggior nemico, questa volta ne va del destino del suo amico. Un legame da salvare più di una mafiosa qualunque, un collega da riportare sulla giusta strada, un compagno di vita da aiutare. Perché davanti agli occhi da troppo tempo Domenico ha uno specchio che gli permette di vedere solo se stesso con la sua anima e le sue esigenze e le sue follie. C’è bisogno di qualcuno che proietti in quel vetro tagliente anche l’immagine della vita reale, quella in cui uno sbirro non deve sfidare la morte e la sorte per salvare la regina dello scacchiere della mafia. Deve lasciarla lì dov’è, con i suoi casini e dietro le sue sbarre, chè tanto se l’è meritate. Sandro farebbe questo, se fosse al suo posto. Ma se fosse al suo posto, saprebbe anche cosa scorre nel sangue di Domenico. E sotto quale voce batte il suo cuore.
- Sandro non sto facendo cazzate, non sono più quel tipo di persona.
- A me sembra che tu sia peggiorato.
- Inviami le coordinate.
- Dimmi chi stai cercando, chi pensi di salvare. Se si tratta di lei, io non ti aiuto più.
- Ci vediamo in centrale Sandro.
Domenico chiude la telefonata e controlla ancora una volta le chiamate perse, quelle ricevute, quelle effettuate. Se è vero che lei lo vuole aiutare, così come ha detto, lo richiamerà. E a lui non resta che alzare al massimo il volume della suoneria, per beccare in tempo la chiamata della felicità.

- Non voglio che litighiamo sempre per le solite ragioni.
Lara rompe un silenzio pesante quanto un gas asfissiante, che occupa l’interno della macchina con cui lei e il suo uomo stanno tornando in centrale. Sguardo fisso sulla strada, un occhio al cellulare di tanto in tanto, le sopracciglia aggrottate. Domenico vorrebbe solamente scendere dall’auto, gettar benzina nella sua mente e cancellare la rabbia e il rancore che gli animano il cuore. Lui non lo sa perché se la prende sempre con lei, non lo sa. Forse perché è davvero l’unica disposta ad ascoltarlo, ad aspettarlo la sera quando torna a casa, a spogliarlo nel letto o semplicemente a guardarlo, senza dire niente. Solo che alcune volte, forse tutte, Domenico non ce la fa, non sopporta la sua presenza al suo fianco, le sue teorie e strategie, il suo sguardo che si parcheggia pesante su di lui. E si odia, per questo. Si odia da morire, perché Lara gli sta offrendo il suo amore in tutti i modi possibili e lui continua a ricambiarla con silenzi, assenze e proiettili scagliati dritti al cuore.
- Non litighiamo, discutiamo.
- Non mi piace nemmeno discutere.
- Tutte le coppie lo fanno.
- Perché, noi siamo una coppia? -, gli chiede lei interrogativa e incalzante. Domenico fissa di nuovo il cellulare, questa volta un po’ più a lungo, per tirarsi fuori dall’imbarazzo di quella domanda. In fondo se l’è cercata lui. O semplicemente gliel’ha voluto concedere.
- Come sta tua sorella?
- Non lo so.
- Non sei andata a trovarla?
- Non più. Abbiamo chiuso i rapporti. Non voglio sapere cosa fa, come sta, cosa pensa. E’ uscita dalla mia vita.
Domenico chiude il discorso con un sorriso d’approvazione a ciò che Lara gli ha appena detto. E questa volta è lei ad averlo fatto per lui, perché sa che in fondo è esattamente ciò che Domenico vorrebbe sentirsi dire. Ha scaricato addosso a sua sorella la rabbia e lo schifo che in verità Domenico prova per lei. Lo ha fatto perché lui la guardasse sotto una buona ottica, le fosse riconoscente per questo gesto. Ma fin dentro al suo cuore Lara spera sempre di risvegliarsi da questo brutto sogno e vincere la battaglia contro il suo uomo, dimostrandole che in realtà sua sorella ha sempre voluto combattere la mafia. E non si è ubriacata di potere fino a seppellire il corpo di un bambino di cinque anni.
E’ tutto qua il loro rapporto. Uno scambio di frasi sul mercato del piacere. Ognuno dice ciò che l’altro spera di sentirsi dire. Passano le ore di silenzio ad interpretarsi i comportamenti, per non sbagliare, per non essere fuori posto. Perché una sola parola detta male può accendere un falò troppo grande da spegnere in due. E le loro liti e discussioni continuerebbero a buttare carne sul fuoco ardente. Devono stare attenti, devono dichiararsi le intenzioni con uno sguardo. Perché Domenico non ha tempo per Lara e Lara ha tempo solo per amarlo, niente di più. Ogni litigio che li allontana la uccide ogni volta un po’ di più.
- Ora come ci muoviamo? Cosa pensi di fare?
- Non ho idea. Non so da dove partire, siamo ancora lontani dall’obiettivo del nostro uomo.
- Stasera ne parliamo davanti ad un bicchiere di vino? Ci stai?
- No… Stasera… Ho il turno di notte.

Lungo la strada che gli ha segnalato Sandro non c’è poi molto. Il cielo è nero come i suoi capelli, le stelle questa notte brillano così poco. La tangenziale è trafficata da macchine che corrono all’impazzata, come stelle cadenti. Fai appena in tempo a vederle e, se ti va male, non riesci neppure ad esprimere il desiderio. Quasi sempre è così.
Domenico cammina a passo d'uomo con la sua auto, gli abbaglianti accesi e un occhio fisso sul lato della strada, nella speranza di scorgere qualcosa. Poi un palazzo. Sembra più una casa. Abbandonata, forse. Potrebbe essere il posto ideale per nascondersi. Ferma l’auto nella prima piazzola di sosta che incontra sulla strada, quindi torna indietro a piedi fino a raggiungere quella costruzione misteriosa. Pietre rosse, nessuna finestra, una porta in legno rovinato dalle piogge e dalla mano dell’uomo. Domenico si fa strada con la sua torcia intrecciata alla beretta che stringe fra le mani, mentre un brivido di paura gli graffia la schiena profumata. Lui, quello che non se la fa mai sotto, avvolto dal buio più totale ha tanta fifa. Forse di trovare lì Rosy. Ed è una paura bella, mista alla voglia di rivederla ed abbracciarla e salvarla e portarla via con sé, perché non importa se lei gli aveva detto di non cercarla. Lui ha la testa dura. Ma c’è anche una paura tremenda e grigia, quella di entrare in una casa vuota che di lei conserva solo l’odore.
Il poliziotto spalanca la porta con un calcio, quindi si fa strada fra i detriti e gli oggetti e stracci sparsi sul pavimento. Un po’ alla volta il suo sguardo si abitua all’oscurità della notte in una casa abitata dai fantasmi di chi ci è passato, almeno una volta. Controlla ad una ad una le stanze dell’appartamento, risparmiando al suo naso il cattivo odore di quel che resta del bagno. Poi, in ultimo, entra in una delle stanze sulla destra. Sembra più pulita delle altre. Attaccato al muro c’è un materasso. Domenico lo illumina, una macchia gigante campeggia al centro. Poi fa luce sotto la rete e un sussulto gli spegne il cuore per un attimo. Nel buio pesto della notte, un coniglietto di peluche gli è sembrato una testa mozzata. Ha un orecchio strappato e gli manca un occhio. Non deve vederci molto bene, buttato lì sotto poi.
Lo sbirro capisce che un bambino è stato da quelle parti, in quella stanza. Quindi punta torcia e pistola insieme verso le pareti che lo circondano e lo fissano da tutti i lati. Poi si blocca. Sul muro che fronteggia il materasso con sotto il coniglietto, c’è una scritta. Il nome di un bambino, lasciato inciso sul muro da un pennarello che il passare del tempo non ha cancellato. Ettore. Domenico se lo immagina con i riccioli biondi e il sorriso vispo, quasi come se dietro ad ogni bambino si nascondesse il suo Leo. Chissà se quel ragazzino è ancora vivo. Chissà se sua madre è una brava persona, a posto con la giustizia. Chissà se un padre ce l’ha, quel bambino, e se nessuno l’ha ammazzato, come Rosy ha fatto col padre di suo figlio.
Si avvicina alla parete e illumina più da vicino la scritta. Poi, però, qualcosa richiama la sua attenzione. Un senso di stupore e meraviglia disegna sul volto di Domenico un arco all’altezza degli occhi. La fronte aggrottata, il sopracciglio corrucciato, lo sguardo sbarrato. Molla la pistola e, con l’indice della mano destra, cerca di leggere una scritta un po’ più piccola, fresca, lasciata accanto al nome di quel bambino. Domenico ha un sussulto ancora. E’ come se qualcuno lo sparasse alle spalle, come se ci fosse il peggiore dei killer del mondo con una pistola puntata sulla sua nuca. Ha persino paura a girarsi, non sa cosa potrebbe trovare dietro di sé. O chi. Sa solamente che quella scritta, che continua a ricalcare con la mano destra, non si trova lì per caso. E’ stata lasciata per un motivo. Perché chi l’ha fatta sapeva che lui è un testa dura e sarebbe arrivato in quella casa, in quel covo di cibi avariati e stracci sporchi. Chi ha lasciato quella scritta sul muro, incisa con un oggetto contundente, sapeva che Domenico si sarebbe fermato un po’ più a lungo in quella stanza, non una qualunque. Perché anche lui si è fermato a pensare a Leo per qualche attimo e anche lui ha immaginato e sperato di saperlo ancora vivo. Come ha fatto lei, quando sotto un cielo zuppo di pioggia si è ricordata del profumo del suo bambino e si è chiesta se anche Ettore, il bambino del muro, avesse lo stesso profumo. Si è chiesta se tutti i bambini del mondo profumano come il suo Leo. Quella scritta non è stata fatta per caso, per occupare il tempo. Rosy lo sapeva che Domenico l’avrebbe cercata e così è stato. Solo che lui è arrivato tardi ancora una volta, un’altra chiamata non presa in tempo, ed è come se in quella stanza che conserva nell’intonaco l’odore e le impronte dell’infanzia, loro due si fossero incontrati in qualche modo. Perché quella scritta non è stata messa lì per caso e Domenico lo sa. Continua a seguirla con le dita e dentro di sé non sa se sorridere o morire, perché è arrivato tardi e Rosy potrebbe essere ovunque. Quindi chiude gli occhi e per un momento immagina di averla alle spalle, abbracciata al suo bambino, immagina che gli abbiano fatto uno scherzo e che si siano sempre nascosti in quella casa per proteggersi. Immagina che sia tutto uno scherzo e che Leo non sia stato mai seppellito veramente, e che Rosy sia ancora una madre forte e piena di vita. E immagina tutto questo, mentre con la mano destra e gli occhi chiusi accarezza il muro che conserverà quella scritta, forse per sempre: “Rosy e Leo sono stati qui”. 
 

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Capitolo 11
*** Il giorno più lungo pt. 1 ***


Buon pomeriggio! Ringrazio come sempre tutti coloro che seguono la mia storia, sono iscritta da meno di un mese e ho ottenuto già grandi risultati, quindi davvero vi ringrazio tutti, uno per uno, soprattutto chi recensisce lasciandomi il suo parere. Purtroppo per via del lavoro e delle feste non riuscirò a pubblicare tutti i giorni, ma cercherò comunque di farlo durante la settimana. Buona lettura! Cesca. 

11. Il giorno più lungo pt. 1
 
Lara lascia la camera da letto per passare in cucina, dove trova Domenico seduto al tavolo con una tazzina di caffè fumante fra le mani. La testa bassa, chiusa fra le spalle, il giubbotto ancora addosso. Sembra quasi non accorgersi che lei sia nella stessa stanza, tutto ha così poco significato adesso.
- Ehi sei già qui? Com’è andata la notte?
- Uno schifo.
- C’è qualcosa di nuovo?
- No, appunto.
- Dai, dormici un po’ su.
Lei gli accarezza una spalla, con addosso la paura di essere respinta, ma Domenico si alza di scatto e si butta fra le sue braccia, perché la notte appena trascorsa gli ha lasciato l’amaro in bocca e nel cuore. Si stringe forte a Lara, che lo accoglie sul suo petto e lascia che lui sfoghi le sue emozioni. Lo sente piangere sulla sua maglia del pigiama, le lacrime le trafiggono il petto, perché quando sta male lui sta male anche lei. Eppure lo sa, lo conosce il motivo. Rosy. E va bene così, va bene che lei sia la spalla su cui piangere.
Domenico singhiozza come un ragazzino a scuola a cui hanno rubato la merendina, non sa nemmeno fra le braccia di chi si trova adesso, ma ha solo bisogno di qualcuno. Di conforto, di compagnia, di una persona al suo fianco che lo supporti e lo incoraggi. Perché la vita è troppo lunga e da solo non ce la fa. Non adesso, che ha perso di vista anche la sua donna del cuore. Il sole si risveglia così, mentre in una cucina impregnata dell’odore di silenzi e caffè due poliziotti con gli stessi ideali si addormentano in un abbraccio, mossi dall’amore. Seppure non reciproco.
Ad interromperli è il telefono di Domenico, che squilla. Si asciuga le lacrime da coccodrillo e con le dita bagnate risponde alla chiamata.
- Domenico, si sta spostando.
- Chi, Sandro?
- Il tuo numero… Quello che mi hai chiesto di controllare -, Domenico si risveglia dal sonno di dolore in cui era precipitato e collega i fili del discorso.
- Dove? Dove sta andando?
- Zona Giardino Bellini.
- E perché? Cosa c’è da quelle parti?
- Qualsiasi cosa, se non sappiamo cosa sta cercando.
- Dannazione. Se solo avessi…
- Cosa?
- Niente, lascia stare.
- Aspetta un momento, adesso risulta ferma.
- Dove si trova? Dimmi le coordinate precise.
- Via Luigi Capuana. Non c’è un cazzo qui, c’è un supermercato, lo studio di un costruttore, una ferramenta…
- Un costruttore… Certo, come ho fatto a non pensarci prima cazzo!
- Eh?
- Sandro sei un genio.
- Ti raggiungo.
- No! Sandro no… Devo farlo da solo.
Domenico riattacca il telefono e sotto lo sguardo sconcertato di Lara esce di casa. Senza una spiegazione, senza nemmeno un ciao. Adesso non ha tempo. Adesso deve rispondere ad una telefonata che ha perso troppe volte. E ce la farà. Arriverà in anticipo, prima ancora che Rosy chiami. E si incontreranno e cadranno insieme nell’abbraccio della resa, perché questa volta Domenico arriverà prima di chiunque altro e la salverà. Deve salvarla.
Sale in auto con in bocca ancora il sapore del caffè amaro e delle lacrime pesanti. Ha le mani che tremano e gli occhi annebbiati dalla paura di non farcela nemmeno ‘stavolta. Preme il piede sull’acceleratore in una Catania ancora addormentata, avvolta da una nebbiolina bagnata e dalle auto di chi conosce l’alba della città come casa sua. Il poliziotto si copre il viso con gli occhiali da sole, quindi accende la sirena sulla cappotta dell’auto e si fa spazio fra la gente, che lo lascia passare chiedendosi cosa sia successo nella città, questa volta. In meno di dieci minuti raggiunge la via che gli ha segnalato Sandro, quindi spegne la sirena poco prima per non farsi notare. Sa con chi ha a che fare, non di certo un’ingenua criminale ai suoi primi colpi.
Parcheggia l’auto all’imbocco della strada, poi a piedi raggiunge lo studio del costruttore. Vallari, si legge sull’insegna dorata affissa sul muro. Diego Vallari. E, se tutto va bene, lui è ancora vivo e lei è già dentro. Domenico prende le scale per raggiungere il primo piano, la pistola infilata nei jeans e la maglia bianca segnata da una gocciolina di caffè. Non ha bisogno di armarsi, non nelle mani. Sa che Rosy non sparerà, né a lui né a nessun altro.
Calcaterra si ferma davanti alla porta dello studio, tira un sospiro. Gli sembra di rivivere il passato. Già una volta qualcosa di simile, come quando l’aveva lasciata scappare volutamente. Aveva fatto da ostaggio per lei, sentendosi sussurrare nell’orecchio qualcosa che gli spezzò il cuore. “Saresti stato un buon padre”. Si era fermato il mondo nel frammento di un istante, un abbraccio silenzioso e i respiri faticosi. Anima contro anima, erano diventati complici per un attimo. Perché Leonardino era ancora vivo e la corsa contro i rapitori continuava feroce. Lo sceriffo ammazza cattivi lo stava proteggendo e nel modo giusto. E a Domenico il compito di proteggere lei. Poi, però, era arrivato tardi quella volta. L’aveva trovata in spiaggia con la bocca sporca di sangue. Il sangue di suo figlio. Il suo sangue. Una pistola puntata contro chiunque, perché qualcuno aveva fatto del male a Leonardino e tutto il resto non contava più. Continuava a chiedergli se almeno lui lo avesse visto, se avesse preso con sé il suo bambino. Qualcuno ha visto il mio bambino? No, nessuno lo aveva visto. Erano rimasti solo loro due, con i piedi fra i granelli di sabbia e le pistole stanche. Stanche dei morti, dei feriti, dei cadaveri da coprire. Stanche del sangue da ripulire dalle strade di Catania e sulla faccia della gente. Sulla bocca di Rosy. Domenico era rimasto fermo, con la mano verso di lei e la implorava di calmarsi, di abbassare l’arma, di smetterla. Solo che, in fondo, non ci riusciva nemmeno lui. La faccia bagnata dal pianto, il cuore dal dolore. Una sconfitta che aveva tolto significato alla sua missione, al suo lavoro.
Si toglie gli occhiali dal viso, poggia l’orecchio sulla porta dello studio del costruttore, poi chiude gli occhi. Sembra quasi che sorridano. Una voce forte gli arriva dritta alla testa, riesce a sentirla. E’ lei. La riconoscerebbe anche in mezzo ad una guerra o nell'esplosione di una bomba. Parla con qualcuno, dice qualcosa. Domenico resta fermo così, come se l’averla ascoltata bastasse già alle sue ricerche. E’ lì dentro e non la perderà, questa volta. Lo sguardo fermo su un momento che vale tutto. E’ la voce che sperava di sentire nelle ultime ore. E’ la voce che lo fa sorridere. Una fetta di sorriso si addormenta sul suo viso, la fossetta sulla guancia destra, il cuore batte forte. Rosy è dentro. Dentro allo studio, dentro di lui. La sente muoversi fra una stanza e l’altra, fra il cuore e lo stomaco. Trascina le emozioni in lui, come se si prendessero a schiaffi nel suo corpo. Come quella volta al rifugio di Palladino. Gli schiaffi della passione, del sentimento.
Poi torna alla realtà. Deve intervenire, prima che sia troppo tardi. Decide di farlo nel modo più naturale possibile. Suona il campanello dello studio, quindi il costruttore gli apre. Ha i capelli disordinati, il terrore fra le pieghe del viso, un sorriso bugiardo. Domenico si finge una persona qualunque.
- Salve, sono venuto per un consulto, forse è un pò presto?
- No, no, prego, si accomodi -, incalza Vallari con la paura fra le corde vocali.
Calcaterra si guarda intorno, sa che Rosy è lì dentro. Nascosta da qualche parte, eppure c’è. L’uomo si siede dietro la sua scrivania in vetro, quindi invita il suo cliente a fare lo stesso. Domenico nasconde la pistola dietro il giubbotto di pelle abbottonato, lo sguardo vigile e l’odore della mafia intorno a lui. Il sapore di chi un tempo ne ha fatto parte, ma adesso non più. Lui lo sa, lo sa bene che Rosy ha smesso. Sono crollati quegli ideali, quell’onore che lei ha tanto difeso. Perché il gioco sporco ha ucciso il suo bambino e, in parte, anche lei. Deve fermarla in tempo, non ha bisogno del suo aiuto per arrivare a De Silva, non ha bisogno che lei si comprometta in qualcosa di troppo grande.
- Sì, ecco, volevo sapere se…
Un rumore proveniente dalla porta del bagno distrae lo sbirro. Si drizza sulla sedia, quindi incrocia lo sguardo spaventato del costruttore che ha capito tutto.
- Rosy…
- Guardi, forse è meglio se torna in un altro momento perché l’ufficio non è ancora aperto. Stiamo facendo pulizie, quindi… -, esclama Vallari, sorridendo con l’insicurezza fra i denti.
- E’ là dentro, vero?
- Non so di chi parla.
- Sono uno sbirro, quindi ti conviene parlare -, replica Domenico, scostando il lembo del giubbotto e mostrando la sua beretta carica nei pantaloni - Potrebbe partirmi un colpo, così, per sbaglio…
- Certo è che se le parte un colpo nei jeans… -, dice l’uomo beffardo, con tono scherzoso. Domenico risponde col volto serio, arrabbiato, corrucciato, le labbra leggermente distanziate. Si alza dalla sedia e si avvicina alla porta bianca, sulla sinistra, che riporta la scritta toilette. Rimane così, con le mani attaccate alla porta del bagno, la faccia incollata ai respiri di Rosy dall’altro lato. La sente, la percepisce. Conosce la sua paura e le sue preoccupazioni e sa che è rimasta incastrata in un gioco pericoloso, questa volta. Lui inizia ad aprire la porta scorrevole, quindi infila la mano destra nella fessura che si apre. Si aggrappa con le dita agitate e sudate alla porta, senza fare un passo, senza allontanare il viso dalla posizione conquistata in partenza. Dove sei, Rosy? Dammi la mano. La sua mente continua a immaginare, pensare. La vede davanti a sé, bella com’è sempre stata, con i capelli spontanei, gli occhi grandi e un sorriso distratto. Vorrebbe accarezzarle i nei che ha sul viso, vorrebbe sentirla, sfiorarla, percepirla. Non gli importa di niente, adesso. Non gli importa se il costruttore ne approfitti per scappare o per chiamare la polizia. E’ lui, la polizia. Solo che adesso lo ha dimenticato e resta così, immobile, mentre dall’interno del bagno Rosy Abate intreccia le sue dita consumate alla mano di Domenico. Si sono incontrati, si sono trovati. E si parlano così, mentre si scambiano la pelle e si guardano negli occhi attraverso il cuore e il sentimento. Si abbracciano con le mani e si stringono così forte, da far tremare la porta. E tutto il mondo. Perché il loro abbraccio fa il rumore di una bomba e distrugge tutto. A partire dalle loro vite che adesso si fanno ancora più complicate, perché uno dei due dovrà staccarsi per primo e cambiare i giochi. E invece loro rimarrebbero così anche per sempre e, mentre Catania piano piano mette in moto le sue macchine quotidiane, loro due spengono il motore e, sotto l’occhio del costruttore che combatte fra la vita e la mafia, si accasciano sul pavimento, ai lati opposti della porta, senza mai guardarsi negli occhi, senza muoversi più di così, mentre le mani incrociate scivolano lungo l’asse senza staccarsi mai. E quando l’amore cade sul pavimento, fa un rumore assordante. 
 

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Capitolo 12
*** Il giorno più lungo pt. 2 ***


12. Il giorno più lungo pt. 2

 
- Lascia perdere questa storia, Rosy. Consegnati alla polizia.
- Non posso, Domenico, non posso. E’ la mia ultima battaglia probabilmente, e voglio vincerla.
- Rischiando la tua vita?
- Perché, che importa? E poi ti sto dando una mano, dovresti ringraziarmi.
Rosy e Domenico si guardano pesando i silenzi e il tempo. Il mondo non si è mosso in quella stanza, mentre un uomo qualunque li fissa imperterrito. Adesso sono faccia a faccia, di fronte al bagno attraverso il quale prima si stringevano la mano. Domenico osserva Rosy e sorride. Una piccola striscia di gioia si affranca sul suo viso, richiamando lo sguardo di lei sulla piccola depressione che gli si forma sulla guancia destra. Rosy scuote la testa, per chiedergli a cosa stia pensando. Lei rischia la vita chissà per quale ragione, poi, e lui sorride.
- Sei molto carina oggi -, incalza Mimmo accarezzandole la guancia. Lei abbassa il capo, evidentemente imbarazzata. Una pioggia di affetto le sta bagnando le spalle e Rosy è nuda al centro dell’universo. Ha bisogno di proteggersi, perché l’amore le ha sempre fatto del male sparandole addosso. Quindi tira fuori dalla tasca posteriore del jeans la pistola e la punta contro Domenico, sorpreso.
- Che cazzo fai?
- Ti proteggo. Vattene, lasciami fare le mie cose.
- Cazzo, Rosy, cosa ti sei messa in testa? Vuoi giocare a fare la paladina?
- Minchia Domenico, ti sto chiedendo di fidarti. Fidati di me, per una volta.
- Lo vuoi capire che non posso? Non posso lasciarti scappare ancora, non voglio.
- Fai quello che ti dico, vai via.
- Io da qua non mi muovo.
- Non costringermi a spararti, Domenico.
- Non lo farai.
- Ah no? Potrei ferirti ad un braccio o a una gamba, così riuscirei a scappare -, sentenzia lei, un pizzico di furbizia nella voce e negli occhi. Stringe nel petto una bomba di dolore, Rosy, e glielo si legge nello sguardo. Lucido, come il cielo che si apre su Catania mentre loro due si fanno la guerra dell’amore. Domenico assume un’espressione di disprezzo, adesso, come se quella che ha di fronte non fosse più la donna che ha conosciuto. E che ha imparato ad amare. Ha paura di guardarsi indietro e trovarla così lontana, quella Rosy. Ha paura di dover fare i conti con la regina di Palermo ancora una volta, senza sapere, però, che tutto ciò che anima Rosy è l’amore per lui.
- Mi sembra di non riconoscerti più.
Rosy arresta le lacrime poco prima degli occhi, le labbra tremano. Non può crollare, non adesso.
- Ti prego, Domenico. Lasciami andare. Dammi un briciolo di fiducia, cazzo.
- E se dovesse succederti qualcosa? -, un’espressione di paura e sofferenza fra il viso ed il cuore di Mimmo, che ha dismesso i panni del poliziotto e si è ritrovato uomo, sotto la canna della pistola che Rosy non esita a puntargli contro. Non sparerà, neppure questa volta. Sta solo cercando una ragione per mandarlo via, adesso, e scappare. E fare il suo lavoro. E poi aiutarlo, come ha fatto altre volte.
- Starò attenta.
Calcaterra abbassa la testa, in segno di resa. Chè Rosy è sempre più forte e lui lo sa. Perde sempre, di fronte a lei. Perde perché non riesce a sopportare il suo sguardo su di lui, perché non può stare chiuso in una stanza con lei senza sfiorarla, senza scappare. Perde perché un tempo era un poliziotto innamorato della giustizia e delle regole, mentre adesso è un uomo innamorato di chi la giustizia l’ha violata. Troppe volte. E non si dà pace per questo, non lo può accettare. Prenderebbe a calci il muro, pur di cancellare l’amore per lei. Solo che non può, non riesce. Perché quando chiude gli occhi tutte le sere continua a vedere sempre e solo lo stesso sguardo, quegli occhi che un tempo vivevano per Leonardino. E quando pensa a lei, si ricorda di lui e di quanto dolore hanno condiviso e masticato insieme. Di quanto sangue si sono scambiati e quanta pelle si sono strappati, mentre le pistole non smettevano di sparare. Sorride ancora una volta, Domenico. Dimenticandosi di tutto. Della giustizia, dell’onore, le regole e le gerarchie. E’ un uomo solo di fronte all’amore del mondo e, se ci fosse un corpo armato pronto a sparare su di lui, non si difenderebbe nemmeno. Perché la sua vita è dedicata a lei e questo semplicemente lo mantiene vivo.
- Non sono ancora andato a trovare Leonardino, non ce l’ho fatta -, afferma Domenico con la testa chiusa fra le spalle. Il battito del suo cuore fa rumore, in quella stanza. Rosy non risponde, non dice nulla. Non c’è niente da dire ad un uomo che non riesce a piangere sulla tomba di un bambino. Non c’è niente da dire, quando un bambino non c’è più.
- Perché non te ne vai, Domenico? Perché stai sempre qua?
- Perché ho promesso a me stesso che sarei rimasto.
- Non devi per forza mantenere le promesse, non sono una bambina.
- L’ho promesso a me stesso.
- Prima o poi dimenticherai tutto.
- No, Rosy… Magari un giorno avremo un tempo per noi ed io te lo dirò.
- Cosa?
Domenico la guarda un’ultima volta, dimenticando di essere sotto lo sguardo spaventato del costruttore. Che ha visto tutto e ha visto l’amore prendersi a pugni in quella stanza e sanguinare dagli occhi. Ha visto un uomo debole che ha lasciato andare il suo sogno più grande, fermo ad un passo da lui. E ha visto una donna orgogliosa e fragile, che ha sempre sbagliato tutto ma che questa volta una cosa buona la vuol fare.
Così se ne va, col dolore fra le gambe e l’amore che batte forte nel petto. Gli manca l’aria, gli manca Rosy, gli manca tutto. E non ha niente. Accoglie il gelo nel cuore tutte le volte che la guarda andare via, tutte le volte che la lascia scappare. L’uomo che rispetta le regole, non impone giustizia al suo cuore.
Si avvicina alla porta e, poco prima di lasciare lo studio, tira fuori dalla tasca un cellulare e un carica batterie. Lo lascia a terra, mentre Rosy e il suo ostaggio osservano la scena silenziosi.
- Ci vediamo presto, Abate.
Quindi sorride. Sorride Mimmo, e gli occhi gli si riempiono di lacrime e vita. E’ una sensazione di purezza, libertà. E’ la sensazione di chi guarda il suo posto nel mondo sapendo di essere ad un passo dalla conquista. E’ la sensazione di un uomo che ama, senza dar conto a cosa è giusto e cosa è sbagliato. Perché al suo cuore non gliela può dire, questa cosa qua. Che se ne importa lui? Pulsa lo stesso, tutte le volte che vede lei. Pulsa anche adesso, mentre col suo sguardo verde ed il sorriso immenso le riconosce la sua fiducia. Si impegna a fidarsi, a farsi aiutare. Perché in fondo Domenico lo sa che Rosy se la caverà. Rosy se la cava sempre. Probabilmente è lui che non riesce a cavarsela senza di lei e questo ancora non lo ammette a se stesso. E quando se lo dirà, non potrà più tornare indietro.
Rosy risponde al sorriso di Domenico, dal fondo della stanza. La pistola bassa lungo la gamba, le spalle stanche, il sorriso abbozzato sul suo viso. Ride con gli occhi, perché Domenico è dalla sua parte. Ancora una volta. Ed è esattamente ciò di cui ha bisogno per far bene il suo lavoro. La regina della mafia, che dorme nelle case abbandonate e gira per la città col cappuccio in testa. E’ lei, l’ossigeno dello sbirro. E’ lei che riesce ancora a dare un senso al lavoro di lui. E quando Rosy sorride, il mondo prende colore.
Se ne va così, chiudendosi alle spalle la porta e l’amore. Il tempo si è fermato in quella stanza, ora deve tornare in strada. La sua vita continua fuori di lì, ma non senza di lei. Se ne va con lo sguardo di Rosy ancora addosso, fisso su una porta che si chiude separando inferno e paradiso. Deve camminarci in mezzo a tutto questo e, per quanto voglia evitarlo, non può farne a meno. Ci ricade sempre. E questo rapporto che vive sospeso nell’aria come una funivia è ciò che mette in moto il suo cuore. E’ l’anima delle sue giornate e del suo lavoro. Tutti i giorni a Catania il dottor Calcaterra si sveglia e sa che dovrà vincere un’altra battaglia per arrivare un po’ più vicino a lei. E ci riesce ogni giorno di più. Ogni giorno una nuova conquista. Vive delle assenze di lei e dei suoi sguardi attraverso un nuovo riparo, vive del modo in cui lo chiama lei e della sua voce sicura ma a volte spaventata, vive delle sue sorprese che non finiscono mai. Vive di una mafiosa che non ha più niente e che, forse, sta cercando di proteggere qualcuno che per lei adesso è tutto. Per questo tutti i giorni a Catania Domenico Calcaterra si sveglia e sa che si sta innamorando sempre un po’ di più. E forse un giorno avranno un tempo per loro e lui glielo dirà. Gliela dirà, questa cosa, guardandogli in quegli occhi che lo fanno emozionare tutte le volte.
 

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Capitolo 13
*** Buon Natale Rosy ***


Auguri di Buon Natale a tutti i miei lettori anche se con qualche giorno di ritardo, le feste mi hanno tenuta molto occupata ma finalmente oggi riesco a pubblicare un nuovo capitolo! Spero vi piaccia, baci e buona lettura! Cesca 

13. Buon Natale Rosy
 
- Diego Vallari, 43 anni, costruttore. Non è una vittima, ma è scomparso da sei giorni.
- Ma che c’avranno tutti quanti co’ sti costruttori, adesso? 
- Sappiamo che il primo costruttore che è stato trovato aveva acquistato un terreno, della seconda vittima sappiamo poco. Forse Vallari è l’uomo giusto, quello di cui De Silva ha bisogno. 
- Siamo proprio sicuri che ci sia lui dietro tutto questo?
- Ho un certo sensore per queste cose. 
- Quindi cosa pensi di fare? 
Domenico si guarda intorno, una mano nella tasca in attesa che il cellulare squilli. Sotto la trincea delle domande dei suoi colleghi che gli precipitano addosso come proiettili, Calcaterra ha l’umore a terra. Rosy non ha più chiamato, dal giorno del loro incontro nello studio del costruttore. E’ scappata via col suo ostaggio e Domenico non l’ha più rivista, né sentita. Vorrebbe sapere se sta bene, vorrebbe cercarla. Solo che non saprebbe da dove partire. 
- Dobbiamo cercare Vallari. Dobbiamo capire cosa vuole da lui De Silva. Se cerca disperatamente un costruttore, forse ha in mente un piano ben preciso. 
- Qualcosa che abbia a che fare con il primo uomo? 
- Qualcosa che abbia a che fare con quel terreno. Cerchiamo di ricostruire gli ultimi movimenti di Vallari, controlliamo le telecamere della zona e interroghiamo la famiglia. Qualcuno deve sapere. 
- Dottore, ci vediamo alla cena questa sera? 
- Sì Sciuto, ci vediamo alla cena -, replica Domenico con un sorriso. I suoi colleghi lasciano la sua stanza, eccetto Sandro. Che fissa il suo superiore in silenzio, dal fondo dello studio. A passi piccoli si avvicina alla sua scrivania, quindi sbatte dei fogli su cui sono tracciati percorsi e strade. 
- Via Luigi Capuana 12. Ci sei stato giorni fa. Il giorno in cui è scomparso quell’uomo. Guarda caso a quell’indirizzo risulta il suo studio. Adesso me lo dici che cazzo stai facendo? 
- Non posso Sandro. 
- Domenico se stai coprendo l’Abate, sappi che è una stronzata. Stai facendo un errore colossale e lo sai meglio di me. 
- Non sto coprendo nessuno. 
- E allora cosa diavolo ci facevi lì quella mattina? E di chi è il numero di telefono che mi hai chiesto di controllare? 
- E’ un’indagine privata. 
- Dimmi quello che sai, dimmi cosa succede. Fatti aiutare, cazzo!
- Non posso, Sandro, lo capisci che non posso? 
- Non puoi farti aiutare da un amico ma puoi coprire qualcuno. No, scusami ma non lo capisco. 
- Rosy si è messa in testa questa storia… 
- Rosy, lo sapevo! -, Sandro tira un pugno alla scrivania, preso da rabbia e rammarico per l’amico e collega che è caduto ancora una volta nello stesso errore. - Cosa si è inventata ‘stavolta, pur di scappare? 
- De Silva. L’ha rapita lui. 
- Rapita… Certo, come no. 
- Cazzo Sandro mi vuoi aiutare o sei qui solo per esprimere i tuoi giudizi? 
- No, scusami… Vai, parla.
- Rosy sta collaborando con lui. Mi passa le informazioni, in modo da prenderlo più in fretta possibile. 
- E tu ti fidi dell’Abate? 
- Sì, mi fido. 
- E a che scopo ti sta aiutando, sentiamo? 
- Non lo so… 
- Te lo dico io. Perché pensa di ottenere uno sconto sulla pena, la povera santa. Solo che qui tutti quanti stiamo dimenticando che lei è un’assassina. 
- Ha perso un figlio, Sandro… 
- Ma non è una buona ragione per trattarla con i guanti o per proteggerla! Ogni volta che mette piede fuori dalla galera ammazza qualcuno. 
- Ha preso lei Vallari. De Silva l’ha incaricata di trovare un costruttore disposto a collaborare. Quando sono arrivato allo studio, l’altra mattina, lei era già lì. 
- E l’hai fatta scappare -, Domenico abbassa il capo, sapendo di essere in completo torto. Vorrebbe solo trovare le parole per spiegare che le sue scelte, le sue azioni sono mosse da qualcosa di troppo grande. Solo che nessuno capirebbe, perché in fondo da un po’ di tempo non capisce nulla neanche lui. - Cazzo, Domenico! L’hai fatta… - Sandro si guarda intorno, preso dal timore che qualcuno lo possa sentire, quindi abbassa il tono della voce - L’hai fatta scappare ancora!
- Lo capisci che lei ci porterà da lui? Lo prenderemo, Sandro, lo arresteremo e finalmente De Silva finirà la sua corsa dietro le sbarre. 
- E lei? Poi che pensi di fare, con lei? Te la porti a casa? Magari non so, la proteggi? Perché tanto è questo che sei diventato, il paladino dei cattivi. 
- Non è un problema se tu non sei dalla mia parte, in questa cosa vado avanti anche da solo. Però poi non chiedermi a cosa mi servono le informazioni che ti faccio analizzare. 
- No, sai cosa? Non chiedermelo affatto, non chiedermi di analizzare cose e dati per le tue sporche indagini, perché io non ci sto. 
- Un tempo mi avresti aiutato. 
- Un tempo tu eri una persona ragionevole! 
- Ho perso tutto, Sandro. Ho perso Claudia, ho perso Leonardino. Non ho più stimoli, nulla che mi spinga a combattere ancora. Poi, però, c’è lei… 
- No, guarda, non voglio nemmeno sentirle queste cose. 
- Mi ha fatto sentire amato di nuovo. Mi sento un uomo, quando sto con lei. 
- E quando stai con lei? Mentre punta la pistola addosso a qualcuno e tu fingi di perdere per farla scappare? Perché non riesci a capire che è un errore? 
- Perchè mi sono… 
- Dottore c’è qualcosa che dovrebbe vedere. 
Domenico e Sandro si guardano, forse per spegnere così un discorso difficile che non avrebbe trovato conclusione. Non la giusta conclusione. Entrambi quindi raggiungono la postazione di Sciuto, che fa partire un filmato al computer. 
- Le telecamere di sorveglianza del supermercato che è nella stessa via dello studio di Vallari ha ripreso questa immagine. E’ lui, è evidente. E’ con una donna. 
Domenico ha un sussulto. Il videofilmato mostra l’uomo ancora in giacca e cravatta, spaventato, mentre una donna lo tiene da un braccio. Non una donna qualunque. Ha il cappuccio in testa, il capo abbassato. Il volto è nascosto fra i lunghi capelli scuri. Nasce spontaneo un sorriso sul suo viso, perché per un attimo ricorda quella mattina, quando attraverso la porta del bagno si scambiavano un amore difficile e complicato. Riuscivano a stare bene facendosi male. Riuscivano ad essere felici stringendo la vita fra le mani, pur sapendo che di lì a poco si sarebbero separati. Vivono così, di pochi istanti brillanti che si stagliano nel buio di tutte le giornate sempre uguali. 
Calcaterra incontra lo sguardo taciturno di Sandro, che sa ma non dice. Sa benissimo che, così facendo, lo ha reso complice di un segreto troppo grande, perché se anche non volesse aiutarlo nelle sue indagini lo ha informato dei fatti. Lo ha messo nella condizione di non dire cosa sta succedendo, di non raccontare a nessuno che per l’ennesima volta Domenico sta collaborando con la mafia e nemmeno se ne accorge. Solo che il suo punto di arrivo è la giustizia e Sandro in fondo lo sa. Lo conosce, si conoscono. Per questo resta in silenzio, prima che dalla sua bocca e dal suo senso di verità esca la confessione che quella donna incappucciata è Rosy Abate. Nel suo stile inconfondibile. 
- Potrebbe essere chiunque… Ricontrollate i tabulati telefonici e verificate se Vallari ha ricevuto chiamate da una donna negli ultimi giorni. Rintracciate anche il suo numero di telefono e controllate l’ultima cella a cui ha attaccato. Voglio tutto sulla mia scrivania prima di questa sera. 
- Va bene dottore. Ma non mancherà alla cena, vero? 
- No, Sciuto, non mancherò alla cena, stai tranquillo. 
Domenico si allontana dai suoi colleghi, quindi passa accanto a Sandro e, sfiorandogli la spalla con la mano destra, gli sorride e lo ringrazia. Perché è un poliziotto anche lui e avrebbe potuto parlare, avrebbe potuto denunciare tutto ciò che Calcaterra sta nascondendo per arrivare ad una verità che non è poi tanto sicura. Ma Sandro è prima di tutto un amico e sa che Domenico non sbaglia mai. Per questo è dalla sua parte anche questa volta, seppure in silenzio. Quel silenzio che per Mimmo, adesso, è l’arma più efficace che ci sia. 

I poliziotti di Catania e Palermo sono tutti riuniti attorno alla tavola preparata per la cena di Natale, a casa di Vito. Bottiglie di vino continuano a scolarsi fra un calice e l’altro, mentre le portate di cibo non lasciano mai solo il buffet. Lara aiuta il suo collega che ha messo a disposizione il suo appartamento per festeggiare tutti insieme, lontani da computer, scrivanie e posti di lavoro. Oggi è Natale e tutto si ferma. Tutto deve fermarsi. 
Un grande albero verde pieno di luci illumina il soggiorno, dove di tanto in tanto qualcuno va a sgranchirsi le gambe o a fumare una sigaretta sul balcone. Domenico si avvicina alla finestra, con il suo bicchiere di vino in mano. 
- Te ne verso un po’? -, alle sue spalle Lara, con un sorriso pieno di vita e in mano una bottiglia di vino rosso quasi finito. E’ così bella, questa sera. Con addosso un tubino rosso e i capelli sciolti sulle spalle forti, come una cascata che sbatte sugli scogli. 
- No, basta, devo guidare!
- Ma dai, ancora un pochino! E’ Natale!
- Un goccetto, basta così. 
- Brindiamo. 
- A cosa? 
- Al nostro primo Natale insieme -, Lara sorride contenta, senza incontrare dall’altra parte la stessa identica gioia. Il suo uomo si limita ad un sorriso di compiacenza, di chi ha nel cuore un proiettile che vuole esplodere da un momento all’altro. Solo che oggi è Natale e si deve sforzare, deve farlo per chi in tutti questi mesi non lo ha mai abbandonato un attimo. Avvicina il suo bicchiere a quello della sua collega e lo urta delicatamente. 
- Al nostro primo Natale insieme. 
- Sai che quando si fa il brindisi ci si guarda negli occhi? 
- Non lo sapevo… Allora ripetiamolo, devo rimediare. 
I due poliziotti fanno incontrare i loro calici una seconda volta, questa volta però guardandosi negli occhi. Com’è bello, il dottor Calcaterra. Ha la luce negli occhi, ma non trova la presa di corrente. Lui è come un’eclissi di sole, di quelle che puoi guardare solo con un paio di occhiali adatti. Lui è così, solo che i suoi occhiali speciali non vuol darli mai a nessuno. Nemmeno a Lara, che vive di lui. Così la lascia sola a guardare il sole senza gli occhiali, senza preoccuparsi di proteggerla, perché una luce così forte può far male. E tutte le volte che Lara guarda Domenico, si fa male allo stesso modo. Le bruciano gli occhi, perché lei la vede quella luce, lo vede in lui tutto quel sole. Eppure non si sa proteggere o forse non vuole e continua a bruciarsi, nonostante tutto. 
- E’ stato un anno lungo, questo… 
- Anche troppo… 
- Abbiamo perso tante cose… Ma ne abbiamo trovate altre. Tipo noi due. 
- Vero -, Domenico sorride, non troppo convinto di quello che lei gli sta dicendo. 
- Sono davvero contenta che siate rimasti qui a lavorare con noi… Non ce l’avrei fatta ad abituarmi all’idea di salutarti, di perderti. 
- Invece sono qua. 
- Invece sei qua… -, lei gli accarezza il colletto della camicia, intrappolata in un cardigan di lana nero. Sembra quasi un uomo elegante, con i capelli disordinati e la barba che gli punteggia il viso. Lara si avvicina alle sue labbra sporche di vino e lo bacia, riesce a sentire la vita respirarle nel cuore. Si emoziona, si emoziona tutte le volte che si avvicina a lui, tutte le volte che sono insieme, corpo contro corpo. 
Ma Domenico non ce la fa, non sopporta. Si distanzia da lei, perché il suo odore è troppo forte e quello di Rosy invece è più buono, è delicato e gli ricorda Leonardino. Si distanzia da lei, che non capisce dove ha sbagliato ma resta in silenzio. Non vuole discutere, non vuole chiedere né capire, oggi no. Oggi vuole prendere quello che viene e se non viene nulla, imparerà ad arrendersi. Perché è evidente che Domenico ha la testa fuori da quella casa, lontana chissà quanto. Così gli sorride e si allontana verso il tavolo del buffet, confondendosi fra i suoi colleghi e sperando di perdere i ricordi e i sentimenti in quel caos di pensieri, persone, emozioni. 
Lui resta alla finestra, col suo calice di vino stretto fra le mani. E’ così buio là fuori e fa freddo. Rosy potrebbe essere ovunque. In pericolo o forse sola, la notte di Natale. Non si dovrebbe essere soli in un giorno come questo. Si dovrebbe essere stretti nell’abbraccio della persona che si ama, di chi rappresenta il proprio posto nel mondo. E lui oggi si sente imprigionato in un mondo che non è il suo, col cuore là fuori al gelo. Con gli occhi incollati sulla strada buia fuori dalla finestra, ripensa a quello che è stato. Ad un anno troppo lungo, che gli ha tolto quasi tutto. Ripensa ai sorrisi di un bambino che non c’è più e che oggi gli manca così forte da ucciderlo. Ripensa a Claudia, che è andata via anche lei portandosi in grembo una bambina che forse avrebbe avuto gli occhi verdi di suo padre. Ripensa a quanta gente ha visto spegnersi, la stessa gente che oggi vorrebbe in quella stanza con lui, alla cena di Natale. Pensa che in un giorno come questo vorrebbe solo stare con la gente che ama e che gli riscalda il cuore. E Domenico sa che di quelle persone non ha più nessuno, ha perso tutti. E l’unica persona che gli resta affianco e nel cuore è per strada a rischiare la vita e probabilmente per lui. L’unica persona fra le cui braccia vorrebbe addormentarsi sul divano e con addosso una coperta. L’unica persona con cui vorrebbe brindare oggi e sempre, guardandola negli occhi. Lui non ci rinuncia, non smette di sognare. Non smette di immaginarla e desiderarla una vita con lei, magari anche solo nei pensieri. Eppure è un’immagine che gli fa così bene al cuore, che tutto il resto potrebbe sparire. Non ha bisogno di nulla, finchè al mattino si sveglia e continua a trovare Rosy al suo fianco. 
Solo che la sua vita non va proprio così. Deve accontentarsi di trovarla chiusa nel bagno di uno studio importante o di scoprire il suo odore ed il suo nome incisi sul muro di una casa abbandonata. Deve accontentarsi di ricordare e rivivere tutto ciò che quest’anno lo ha tenuto in vita, nonostante tutto. Come i suoi baci caldi mentre Rosy si portava via suo figlio e gli diceva addio, gli occhi grandi spalancati su di lui mentre due pistole si incrociavano silenziose in un deposito sotto lo sguardo dei colleghi, o come quella volta in cui all’ospedale psichiatrico si erano scambiati i sorrisi, complici. E più la vede e ricorda, più sente che gli manca. E’ un’assenza tagliente, che gli si è incollata alla pelle, e di cui non riesce a liberarsi. Perché oggi è Natale e l’unica persona con cui vorrebbe trascorrerlo è fuori da qualche parte, troppo lontana da lui. E lui non ce la fa. Non ce la fa a sopportare sul viso un sorriso falso, non ce la fa a stringere fra le braccia una donna che non sia la sua, non ce la fa a guardare negli occhi qualcuno che non possa capire come si sente in questo momento, perché oggi è Natale e Domenico si sente un po’ più debole, un po’ più fragile. Sente che potrebbe crollare da un momento all’altro, vorrebbe scivolare sul pavimento e chiudere gli occhi, per non vedere più e non sentire più niente che non sia lei, che non le appartenga. Perché è incredibile, ma con tutte le persone che sono con lui in quella stanza, Domenico ha bisogno dell’unica che oggi manca. E mancherà sempre, mancherà ogni Natale e ad ogni suo compleanno, perché Rosy e Mimmo appartengono a due mondi diversi che non si possono incontrare. E lui questo lo sa. Lo sa bene. Solo che per questa notte vuole dimenticare ogni cosa e rimanere a guardare fuori dalla finestra, pensandola così forte da raggiungerla nel cuore e poterle dire guardandola negli occhi tutto quello che pensa. Come il fatto che quando gli viene in mente lei gli fa male la pelle, gli fa male il corpo intero. E gli bruciano gli occhi, perché si sforza di vederla avanti a sé per paura di dimenticarla e si fa male, sempre male. Come male fa l’amore che prova per lei. E vorrebbe dirle anche questo. Vorrebbe dirle che probabilmente si è innamorato e vorrebbe chiederle scusa se non è perfetto, ma non poteva immaginarlo. Doveva saperlo che non possiamo scegliere di chi innamorarci. Doveva saperlo che a lungo andare si sarebbe addormentato tutte le sere immaginando i suoi occhi grandi e i sorrisi beffardi, preoccupato di saperla al sicuro e lontana dai pericoli. Avrebbe voluto sapere tante cose, Domenico, magari evitarle o scansarle, magari addormentarsi prima di pensare a lei. Solo che non ce la fa, perché adesso ci è finito dentro fino al collo, una strada che gli ruba ogni volta un pezzetto di più. E questa notte gli ha rubato tutto, gli ha portato via ogni cosa, compresa la possibilità di essere felice anche per un solo istante in una stanza qualsiasi del mondo sotto una luce soffusa, abbracciato a lei. Così se ne sta davanti alla finestra, guardando fuori, mentre i suoi colleghi nella stanza accanto si scambiano gli auguri e l’amore. 
- Buon Natale Rosy… 
 

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Capitolo 14
*** Perchè non ti lasci salvare da me? ***


Buon pomeriggio! Buon anno nuovo a tutti :) Mi scuso se pubblico solo adesso il nuovo capitolo, ma le feste e il lavoro mi hanno tenuta impegnata a tempo pieno! Colgo l'occasione per dire che riuscirò a postare solo una volta alla settimana purtroppo, l'università non mi permette diversamente! Buona lettura e grazie a tutti voi che mi seguite sempre! :) Cesca. 
 
14. Perchè non ti lasci salvare da me?
 
Fa freddo a Catania. Il nuovo anno si è intromesso fra le cose con un vento gelido. Gli alberi hanno perso i fiori e le foglie, le strade si svuotano un po’ di più. La vita continua, ma dentro le case, dietro una finestra chiusa che nasconde e allontana i pericoli e le pistole sempre cariche di chi ha sempre sete di potere. Uomini a cui il Natale non ha scaldato il cuore, affatto. Uomini che hanno perso tutto pur di difendere una sola cosa, un solo sentimento: l’onore. Respira nei loro corpi, parla nelle loro bocche e decide nella loro testa. Tutto il resto non ha più alcun senso. Nemmeno la loro stessa vita, a volte.
In un casale abbandonato fuori Catania, lo stregone e i suoi assistenti studiano le prossime mosse da intraprendere per arrivare sempre più vicini al grande premio. Che poi Rosy ancora non lo sa, di cosa si tratta. Lavora per De Silva e forse, in fondo, nemmeno lo vuole sapere. Vuole solo vincere la sua ultima battaglia e consegnare le sue braccia e le sue idee diaboliche nelle mani degli sbirri.
Legato con una corda alla sedia, da giorni Diego Vallari è scomparso dalla città, lasciando di sé come unica traccia un paio di occhiali da vista abbandonati sulla scrivania. Ci vede poco bene, senza quelli. Ma la faccia dei suoi rapitori la riconosce eccome. Ha il viso stanco, la fronte sudata. E’ la paura che lo fa tremare, anche se fuori si contano così pochi gradi. Dorme sulla sedia e nemmeno poi molto, la paura di morire lo mantiene comunque vigile. Ma sa che Rosy Abate non lo ucciderà. L’ha vista debole nel suo studio, vittima di un amore così grande che, forse, una volta tanto nella vita la porterà a compiere le mosse giuste. Non è premere il grilletto ciò che le interessa, ‘stavolta.
- Bene, bene… Vallari. E’ il tuo giorno fortunato, questo. Ti lascerò libero. Farai passare qualche giorno, risponderai alle domande di sbirri e giornalisti, poi tornerai ai tuoi affari. E farai ciò che ti ho detto. Non un solo errore o perderai la testa. E la famiglia.
- No, no, la famiglia no, vi supplico.
- Comportati bene e non vi succederà niente. Diventeremo grandi collaboratori… - incalza De Silva, con un sorriso beffardo disegnato sul suo viso. Poi, con un cenno della testa, fa segno ad uno dei suoi sgherri di tenerlo d’occhio, mentre lui si sposta altrove con Rosy. Lei si guarda attorno, tutto sommato è un bel posto, sicuramente migliore della casa cantoniera in cui aveva trovato rifugio la prima notte. E’ in questa vecchia villa che si nasconderanno, adesso. Covo di strategie, prigionieri e piccioli.
- Ottimo lavoro, Abate. Ha paura, tanta paura… E gli uomini spaventati mi piacciono, obbediscono.
- Pensi che dirà tutto alla polizia?
- Non lo farà.
- Ti fidi troppo facilmente…
- Hai ragione, mi sto fidando di te e non so a che gioco stai giocando.
Rosy indossa la maschera dello stupore, adesso. Finge di essere sorpresa, meravigliata. Quasi delusa dal fatto che lui non mostri poi tanta fiducia. Eppure dietro quella maschera si nasconde il timore di essere scoperta.
- Potrei giocare meglio, se sapessi qual è il premio in palio.
- Non devi saperlo, infatti. Voglio essere sicuro che tu stia dalla mia parte anche senza sapere a cosa stiamo mirando.
- E adesso cosa dovrei fare? A cosa ti servo, adesso?
- Tu a niente. Lasceremo che Vallari agisca come deve, nel frattempo ci pensa Rachele a catturare l’attenzione degli sbirri.
- Chi?
Dalla stanza adiacente spunta fuori una ragazza, con un fucile a salve nella mano destra, una gomma da masticare fra i denti. Gli occhi verdi, la pelle delicata, profuma di innocenza strappata alla quotidianità. Sul braccio sinistro una cicatrice mostra la pelle più chiara, rosea, forse una vecchia bruciatura o forse una ferita di guerra. Un tratto feroce di matita nera le avvolge lo sguardo fiero di combattere, come suo padre o suo zio o chi, prima di lei, ha abbracciato la stessa missione, ha vestito lo stesso tremendo e spaventoso onore.
- Lavora con noi… Per noi. Sembra un brutto anatroccolo così conciata, per questo mi servi tu. Rendila donna, bellissima.
Rosy, fra sé e sé, continua a guardarla e non smette di pensare a quanta bellezza pura e perfetta si nasconda sotto quello sguardo duro e silenzioso, che non si inginocchia né scompone neppure sotto il tiro delle brutali parole di De Silva.
- Io? -, strabuzza gli occhi l’Abate. Il più maschiaccio degli ultimi tempi deve dar forma alla femminilità più grande.
- Tu. Trucchi, vestiti, quello che ti occorre. Nella stanza accanto abbiamo tutto.
- E cosa vuoi farne di lei?
- Una forestiera, una di paese che arriva nella grande città e capita per caso sulla strada di Calcaterra.
- Domenico? -, Rosy è scossa, inizia ad avvertire la minaccia di quella bella ragazza sotto lo sguardo di Mimmo.
- La cosa ti sorprende? So che c’è stato un precedente fra di voi…
- E come lo sai?
- Me lo ha detto lui… Tempo fa, quando cercavamo entrambi di sopravvivere giù nella botola.
- Ah, lui te l’ha detto…
De Silva molla il suo sguardo su Rosy per leggere fra le righe dei suoi comportamenti, fra le bugie dei suoi silenzi. In ogni ruga del viso nasconde un segreto, l’Abate. Solo che il più grande è conservato in una piccola depressione del cuore e batte, batte forte. E quando batte fa male anche a lei, che sembrava la donna più imbattibile del mondo. Alla fine una battaglia l’ha persa, l’amore l’ha ferita e la scomparsa di suo figlio l’ha uccisa. In silenzio, senza dire niente, senza gridare. Sta male così, lei, fra una fuga e un nuovo ostaggio da catturare, mentre Domenico cerca di aiutarla e De Silva la manda in missione.

- E quindi tu sei stata con Domenico Calcaterra… Interessante -, Rachele Ragno rompe il silenzio che raggela la stanza, in cui Rosy cerca di renderla quanto più attraente possibile. La regina di Palermo la guarda senza rispondere alla sua domanda o provocazione. O quello che è. Sicuramente nulla che le interessi. - Lui dice che devo sedurlo…
- Lui chi? -, una parola chiave richiama l’attenzione di Rosy, che dimostra di saper parlare ancora.
- De Silva. Dice che devo andare con lo sbirro, così sarà distratto da me e non si preoccuperà più di cercare te o lui.
- Ne dubito, Domenico è uno che ottiene sempre quello che vuole.
- Tipo te?
- E questo che c’entra?
- Sembra che tu lo conosci bene… Magari puoi darmi qualche consiglio.
Rosy interrompe il trucco per pochi istanti, resta ferma a fissare Rachele. I suoi occhi verdi non mentono affatto. Quando parla, sembra così innocente, così giovane, così… Fuori posto. Qualcuno deve averle messo in testa strane idee o forse agisce solo per vendetta personale. Guarda Rachele e ripensa a se stessa, Rosy. A quanto anche lei fosse stata, un tempo, una ragazza così semplice. Un’americana che in Sicilia era solo di passaggio. Vestiva bene, si pettinava con calma e riusciva ancora a vedersi bella, nello specchio. Poi si è rotto tutto. Le hanno tolto tutto. Suo figlio, in ultimo. Per un attimo vorrebbe salvare la vita di quella ragazza dallo sguardo ancora pieno di vita, di sogni e ambizioni. Per un attimo vorrebbe spiegarle che un fucile fra le mani non è la felicità e che, se sbagli a centrare il bersaglio, rischi di farti male da solo. Non è poi così facile guardare nel mirino, se hai negli occhi la giovinezza e il buon umore. Bisogna essere cattivi per premere il grilletto e Rachele questa determinazione ancora non ce l’ha.
- Non lo so, non lo conosco abbastanza. Ci sono… Ci sono stata solo una volta. E’ un tipo uguale a tutti gli altri.
- E come sono tutti gli altri?
- Inaffidabili.
- Non sei cattiva come dicono tutti… Sembri buona, materna.
- Sei ancora in tempo per tornare sulla strada giusta. Questo mondo non fa per te.
- E tu che ne sai di me? Che ne sai da dove vengo e chi sono?
- Te lo leggo negli occhi.
- Non sei tenuta a farlo. Mi devi solo conciare per le feste, poi ti puoi fare da parte.
- Hai ragione, sai, alla fine chi ti conosce? Che me ne importa di te? -, lo sguardo di Rosy si riempie di orgoglio e fierezza, di chi non ha più nulla da perdere né niente da ottenere. Il sorriso beffardo, le spalle dritte e il potere nelle mani, molla i trucchi su un tavolino, percossa da una scarica di gelosia. - Puoi continuare da sola, no? Non ti servo a niente, io.
Quindi volta le spalle alla ragazza e raggiunge la stanza del casale che De Silva ha riservato a lei. Si siede sul letto, tirando fuori da una tasca interna della felpa il cellulare che le ha lasciato Domenico. Non si sentono da quel giorno allo studio di Vallari, quando si sono scambiati l’amore e le sofferenze seduti sul pavimento. I battiti del cuore accelerati, Rosy fissa il telefono e compone il numero di Calcaterra. Poi lo cancella. E lo ricompone. E lo cancella di nuovo. Chiude la testa fra le ginocchia e, nel silenzio di un vecchio edificio barocco abbandonato nelle campagne lontane dal centro della città, il suo singhiozzare fa il rumore di un tuono durante un temporale. Si sta logorando dentro, Rosy. E’ sola, è sconfitta e sta combattendo per un gioco che non vale la candela. Perché la fiamma si è spenta ormai da tempo e lei vive al buio. E’ buio nella sua testa, buio nel suo cuore, buio ovunque. Perché suo figlio non c’è più e tutti i sorrisi del mondo si sono trasformati nelle lacrime del cielo. Perché in carcere in fondo si stava bene e forse dovrebbe tornarci. Perché Domenico andava a trovarla spesso, mentre adesso il suono della sua voce si modifica attraverso un telefono che profuma di lui. Dei suoi occhi allegri e pensierosi, della sua barba pungente, di quelle mani grandi e potenti che un tempo stringevano le dita curiose di Leonardino. Ha accarezzato il suo viso, con quelle mani. Tante volte. E molte altre non sono riusciti a toccarsi, a incontrarsi. Perché non era la cosa giusta. Così si allontanavano, si abbracciavano e si scansavano, affrontavano sfide difficili e pericolose guerre e alla fine della giornata trovavano consolazione in uno scambio di sguardi che scaldava il loro cuore più di ogni altra cosa. Così si sono parlati in questo modo molto spesso, tante volte. Quando amarsi era un po’ più complicato.
Con le dita bagnate dalle lacrime di sofferenza e speranza, Rosy digita di nuovo il numero di Domenico, questa volta senza riattaccare subito dopo. Lo vuole sentire, lo vuole osservare in silenzio chiudendo gli occhi e immaginando di averlo di fronte a sé, con le sue mani fra le sue, cuore contro cuore, mentre i respiri fanno l’amore sudati e felici.
- Domenico, sono io. Non ho molto tempo, non dire niente e lasciami parlare. C’è una ragazza… Una nuova, lavora per lui. Pare che la conoscerai molto presto, non so cosa hanno pensato di pianificare. E’ soltanto un’esca per arrivare a te, capire cosa sai e allontanarti dalla pista giusta. Stai al suo gioco, ti dirò qualcosa appena ne so di più.
- Rosy? Aspetta non riattaccare… -, la voce di Domenico dall’altra parte si avverte debole e leggera, quasi spezzata dall’assenza degli ultimi giorni, così lunghi, quasi interminabili.
- Che c’è?
- Tu stai bene? Dove sei?
- Sono in un posto, sono al sicuro.
- Vallari è vivo?
- Sì, è vivo.
- Consegnati Rosy, lascia fare a me tutto quanto. Sei ancora in tempo.
- E che faccio, poi? Torno in carcere sapendo che lui proverà ad ammazzarmi fino a riuscirci?
- Ti proteggeremo.
- Non abbastanza.
- Molla tutto, ascoltami!
- Perché non ti lasci salvare da me, Domenico?
- Perché non ne ho bisogno! Perché ti voglio intera e sana e salva, lo capisci?
- Devo andare adesso. Fai quello che ti ho detto.
- Non puoi scappare in eterno, Rosy, non puoi! Devi capire che stai rischiando troppo!
- Non ho niente da perdere, Domenico…
- Ma non è un buon motivo per ritornare in guerra.
- Lo sto facendo solo per te, per aiutarti.
- Non voglio il tuo aiuto.
- Ci vediamo presto.
- Aspetta Rosy…
- Ciao Domenico…
Rosy riattacca. La voce rotta dalla paura, dal risentimento, dalla mancanza. La voglia di raggiungerlo magari adesso, magari di addormentarsi fra il suo odore e al risveglio essere ancora lì, dove i suoi capelli profumano di buono e le sue mani la nascondono dal mondo intero. E’ il suo posto sicuro, lui. La sua casa. Gliel’aveva detto un giorno in carcere, “sono l’unica persona che ti è rimasta”. Aveva ragione. Domenico ha sempre ragione. Solo che Rosy è abituata a fare di testa sua e questa battaglia la vuole vincere.
Nasconde il telefono nella tasca interna della felpa, quindi rimane immobile per alcuni minuti, lo sguardo abbandonato fuori dalla finestra, dove il sole splende in alto e il vento accarezza le strade. Chissà come dev’essere la vita là fuori, di questi tempi. Chissà se si sta bene, con tutto questo ammazzarsi in giro. Chissà se la moglie dell’uomo che lei stessa ha rapito riesce a dormire la notte, quando le luci si spengono e il buio fa un po’ più paura. Chissà se quella donna si sente come si è sentita lei, quando in coda per un volo di sola andata si era girata e Leonardino non c’era più. E non lo avrebbe più rivisto, solo che lei non lo sapeva. E vorrebbe dire alla famiglia di Vallari che lo rivedranno, che lui sta bene. E’ solo la vittima più sfortunata del gioco della mafia. Solo la preda preferita di una giovane mamma che aveva smesso, con le pistole e le camurrie. Finchè la mafia ha scelto proprio lei per divertirsi. E suo figlio. E la sua vita, che quel giorno là, in aeroporto, doveva cambiare.
Forse doveva fermarsi prima che fosse troppo tardi, doveva dar retta a Domenico che le chiedeva di collaborare ancora una volta. Doveva farsi trovare dagli sbirri abbandonata fra le braccia di lui, ingiustamente legato ad un palo che ha fotografato i loro ultimi baci disperati, innamorati. Forse ha sempre sbagliato tutto nella sua vita.
Così, mani alla testa, picchia forte sulla sua fronte e nella mente, dove nascono le sue peggiori idee. Dovrebbe dare ascolto al suo cuore un po’ più spesso, perché è lui che prende le decisioni migliori. E non sbaglia mai, neppure quando la scelta fatta non è poi quella giusta e così semplice. 
 
 

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Capitolo 15
*** Va bene così, fino in fondo ***


Buona sera a tutti! Scusate per la lunga attesa anche questa volta, ma purtroppo il dovere chiama :) spero vi piaccia questo capitolo e vi ringrazio sempre della costanza che avete nell'aspettare e leggere la mia storia, mi fa molto piacere :) Buona lettura a tutti, Cesca.

15. Va bene così, fino in fondo

Domenico gira e rigira attorno alla scrivania del suo studio, lo sguardo a terra perso fra la curiosa traiettoria segnata dalle sue scarpe sul pavimento. E’ l’attore al centro del palcoscenico, lui. Quello attorno a cui ruota tutta la storia, quello da cui dipende il lieto fine. Dagli spalti del teatro lo osservano i suoi colleghi, i più intimi, quelli di cui pensa di potersi fidare. Uno accanto all’altro, si passano il silenzio Sandro, il più anziano della sua squadra, amico di vecchia data e vecchie paure condivise fra le strade di Palermo, Palladino e i suoi capelli più bianchi che neri, Francesca col grande coraggio nel corpo piccolo, Caputo e, ultimi nella fila, i colleghi più freschi, Vito Sciuto e Lara.
Domenico si volta verso di loro, la testa alta e l’espressione incollata sulla fronte di chi deve comunicare la peggiore delle notizie.
- Ho bisogno di sapere che siete dalla mia parte anche dopo quello che sto per dirvi. Non sarà semplice e so che molti di voi non approveranno, per questo vi chiedo se avete intenzione di giocare con me o contro di me.
- Di che si tratta? Anche se forse è inutile chiederlo, mi sembra già evidente di chi stai parlando… -, sentenzia polemica Lara. Domenico la ricambia con uno sguardo di delusione misto a disappunto, sdegno. Perché per lui non è inutile parlarne, per lui non è inutile chiedere l’aiuto degli amici per salvare la pelle alla donna del suo cuore. Solo che forse ne sta discutendo con la persona sbagliata e, tutto sommato, non ha modo e tempo di rendersene conto, di capire che non dorme con Lara da un po’ di giorni ormai né che lei non lo invita più.
- Sono in contatto con l’Abate. E’ stato De Silva a rapirla, vuole servirsene per un progetto al quale sta lavorando ma di cui non sappiamo ancora niente, lui non gliene ha parlato per il momento. L’ha incaricata di rapire un costruttore che potesse aiutarlo nel suo scopo, per questo Rosy ha rapito Vallari. Ero allo studio quella mattina. L’ho lasciata andare -, Domenico abbassa il capo, quasi per colpevolizzarsi. Sa che di fronte al senso di giustizia dei colleghi il suo allentare sempre la presa con Rosy non conosce giustificazioni, non una pacca sulla spalla da parte di un amico che gli dica “hai fatto la cosa giusta”. Lui non si aspetta di essere capito, forse perché in fondo nessuno di loro ha mai amato una persona a cui dover dare la caccia e guardarla negli occhi prima di metterle le manette. - L’ho lasciata andare perché si è messa in testa questa cosa di volermi aiutare a catturare De Silva, di fare la spia, insomma. Ed io voglio vedere dove arriva. Magari se ci avviciniamo abbastanza a lui per catturarlo anche da soli, posso convincerla a consegnarsi. Il resto lo faremo noi. Le ho consegnato un cellulare con il quale ci teniamo in contatto, mi chiama solo lei se ha qualcosa da dirmi. Poco fa abbiamo parlato e qualcosa si sta muovendo, solo che non posso andare fino in fondo da solo. Siete la mia squadra e ho bisogno di voi, del vostro aiuto. Ho bisogno di sapere che tutta questa storia non esca fuori di qui in nessun modo, che non arrivi nelle vostre case neppure come confidenza personale alla vostra compagna o al migliore amico. Dal nostro silenzio dipende la vita di Rosy. E la libertà di De Silva. Se vogliamo prenderlo, dobbiamo agire con cautela. E insieme. Ho bisogno di sapere che siete con me, dalla mia parte.
- E se qualcuno decide di non collaborare? -, chiede generica Francesca.
- E’ fuori dall’indagine.
- Quindi non abbiamo scelta.
- Sì Lara, siete liberi di scegliere. O dentro o fuori. Non ammetto mezze misure, non questa volta.
- Io ci sto. In fondo non è la prima volta che mi trascina in questa cosa, dottore, quindi tanto vale esserci anche ‘stavolta.
- Bene, Palladino, bene.
- Ci sono anche io -, incalza Leoni, che fra un sorriso convinto incontra la mano calda di Palladino intrecciata alla sua, con circospezione e collaborazione. A lei si accoda anche Caputo, che non si mostra mai irriconoscente verso Calcaterra. E’ con lui, ancora una volta.
- Sciuto, Lara? Voi da che parte state?
- Se può servire veramente a catturare De Silva, ci sono anche io.
- Vito ma tu veramente credi che l’Abate ci porterà dritti dritti da lui? A me sembra solo una finzione scenica, tutto architettato per fuggire ancora una volta. Tanto che ci vuole, ci frega sempre.
- Non ha niente da perdere questa volta, niente da difendere -, Domenico interviene in risposta a Lara, buttando l’occhio sulla foto di Leonardino sulla sua scrivania - Non ha un posto in cui andare, né una nuova vita da costruire. Vuole solo prendersi le sue rivincite.
- Certo…
- Sandro?
- Mi sembra di averti già fatto capire quale sia la mia posizione.
Domenico sorride, pago della conferma dell’amico. Ha ottenuto, così, la collaborazione che più sperava. Con un sentimento di gratitudine nel cuore, osserva i suoi colleghi lasciare la sua stanza, sotto lo sguardo di Lara che, ancora una volta, non capisce le sue ragioni.
- Ma non lo capisci che stai facendo il suo gioco? Che così facendo avrà tutta la polizia dalla sua parte? Se vuole collaborare, perché non si consegna e non lo fa dal carcere, sotto un programma di protezione?
- Perché vuole collaborare soltanto con me, perché questo è l’unico maledetto modo in cui sa e vuole farlo, perché le ho promesso di non dire niente a nessuno e invece l’ho fatto e questo potrebbe compromettere le cose!
- Da quando la promessa fatta ad una mafiosa vale qualcosa? Dove sei finito, Domenico? Ti stai perdendo, non hai più il senso della giustizia, non distingui le cose giuste e sbagliate da quelle che ti fanno stare bene o male. Dovresti lasciare la tua vita privata a casa.
- Potrei dirti lo stesso.
- A me?
- Sì, Lara, a te. Ormai sei sul piede di guerra nei miei confronti e lo mostri a tutti, mi parli come se ti avessi fatto il più grande torto. Qual è il problema? Che non vengo a casa tua da un po’? E’ questo che ti turba? Eh? Rispondimi!
- Non sei in te, è chiaro. Dici cose di cui non ti rendi nemmeno conto. Sei assente, sei una persona distratta. Sei qua dentro giusto perché devi esserci, ma se potessi andare via e raggiungere Rosy lo faresti. Abbandoneresti la divisa per lei. Passeresti dalla sua parte.
- No, è proprio questo il punto, è qui che non capisci. Il mio senso di giustizia, come lo chiami tu, è così forte da spingermi ad infrangere anche le regole! Perché ci sono cose che non possono starsene chiuse fra i paletti della legge, perchè il giuramento che hai fatto tu è lo stesso che ho fatto io, ma ne ho visti morire troppi sotto i miei occhi, Lara, troppi. Le regole non mi servono a niente finchè c’è gente innocente che continua a morire.
- Non è aiutando una mafiosa a fuggire che risolvi le cose.
- Non la sto aiutando, sto solo fingendo. Fingo di non incontrarla, di non vederla. E se la vedo giro lo sguardo. E’ l’unica strada che ho per arrivare a De Silva. E se può servire, andrò fino in fondo.
- Andrai fino in fondo per lei e basta. E’ solo questo che ti anima. Tutto il resto non conta niente. Non ti importa di quello che pensiamo noi, non ti importa di sapere il nostro parere, vuoi solo averci dalla tua parte a prescindere che per noi sia una cosa giusta o meno. Non è questo lo spirito di squadra, Domenico, non è costringere cinque o sei persone a lavorare per la mafia, perché Rosy Abate l’avrà vinta anche questa volta e tu lo sai, ti sta bene e ti fa comodo! Averla in qualche posto là fuori ti fa sentire meglio del saperla in carcere. Non ci vuole molto a capirle queste cose, Domenico, non ci vuole molto. Ce l’hai scritto in faccia e io non lo so come ho fatto ad innamorarmi di te, non lo so cosa mi ha attirata, cosa mi ha conquistato. So solamente che se tu avessi provato a ricevere il mio amore almeno per un istante, una sola volta, avresti visto di cosa è capace una donna per amore. E Rosy Abate non ti ama, ficcatelo in testa. Se ti amasse veramente, se ne starebbe in carcere dove sa di essere al sicuro e sa di saperti tranquillo. Invece combatte per la giustizia, lei, la più grande mafiosa. Lei ha solo un interesse personale ed è quello di essere libera. Di te non se ne frega niente e probabilmente non ricorda nemmeno più di essere stata una madre, altrimenti non starebbe buttata in strada a puntare la pistola in faccia alla gente. E’ lei che ha ammazzato tutti, Domenico, sono morti tutti per colpa sua. Ma forse tu l’hai dimenticato, hai dimenticato molte cose, hai dimenticato da che parte stare. Per questo io non voglio stare con te, né sul campo, né nel tuo letto o nel mio, né fra le tue braccia. E’ una cosa sbagliata, la mia, così come stai sbagliando tu. Apri gli occhi e fattelo dire da chi ha ancora la mente lucida. Buona fortuna.
Lara volge le spalle a Domenico, con in bocca ancora un caravan di parole che fanno a spintoni per venir fuori, distrutte dalle lacrime di risentimento ed orgoglio che lei non riesce più a trattenere. E se ne va, se ne va adesso, prima che sia troppo tardi. Prima che possa continuare a dir qualcosa di troppo grande per lei, da rimanere scoperta, nuda, sotto lo sguardo sofferto di Domenico. Lui la osserva allontanarsi, uscire dal suo studio col dolore fra le gambe, perché lo sa quanto Lara ci tenga a lui, lo vede, lo sente. Sa che covava tutto quel risentimento dentro al cuore da troppo tempo e che il dispiacere di non sentirsi ricambiata l’ha portata a questo, a scaricare addosso al suo uomo tutta la sua rabbia ed il suo rancore. Solo che Domenico ha alzato un muro fra sé e le cose giuste, la vita facile, una donna che lo aspetta a casa tutte le sere e che si risveglia al suo fianco la mattina. Domenico ha scelto una strada diversa e ne è consapevole. E vuole andare fino in fondo, ad ogni costo. Perché lui lo sa quanta salita lo attende, quanti colpi di pistola sparati nel vuoto. Sa così tante cose, che alla fine della giornata, nonostante tutto, torna a casa e con la testa sul cuscino è ancora in grado di dirsi “va bene così”. Perché Rosy c’è, Rosy è viva, ed è l’unica persona che gli è rimasta. Si bastano a vicenda, loro due, restano a vicenda. Perché oltre il segno lasciato dal mare si rischia di affondare e Domenico non sa nuotare. E allora va bene così, si fa bastare quello che ha, il fatto che esista ancora qualcuno sulla faccia ruvida della terra che gli faccia battere il cuore nonostante il buio. Si fa bastare il fatto che lui sia ancora in grado di amare, dopo che se ne sono andati tutti, anche un bambino di cinque anni innocente. E forse Rosy ci ha messo del suo, nello schifo del mondo, ma Domenico è un uomo e sa perdonare e vuole perdonare. E l’ha perdonata. E alla fine dei conti ha bisogno di dirlo a se stesso quasi sempre, per giustificarsi, per non sentirsi in colpa. Perché dietro un valido senso di giustizia non c’è mai un manichino da negozio con addosso la divisa da soldato. C’è un cuore, un’anima. C’è la passione di un uomo che ci crede in quello che fa, così tanto da andare a fondo, da scavare con le mani nella sabbia col rischio di tagliarsi sotto l’arma potente delle conchiglie spezzate. E alla fine della giornata si ritrova seduto sul divano a leccarsi le ferite e a ricordarsi che tutto sommato la vita è incontrollabile, inaspettata, incontrovertibile. Perché non era scritto da nessuna parte, quando fece il giuramento, che si sarebbe poi innamorato di una donna a cui dare la caccia. Non lo sapeva, non lo poteva prevedere e non si può sottrarre. E’ capitato a lui e lo stringe fra le mani, questo amore maledetto. Di quelli che ti picchiano il cuore a suon di pugni e schiaffi per tutte le volte in cui vorresti avvicinarti a questo sentimento pungente. Perché Rosy è bella, bella davvero, e lui vorrebbe sentirla su di sé, respirarla fino far esplodere i polmoni, abbracciarla fino a catturarla dentro di sé, corpo dentro corpo, una cosa sola. E Domenico si sente così, si lascia graffiare dal muro di vetro che attraversa tutte le volte in cui Rosy è di fronte a lui ma ne vale la pena. Perché gli basta guardarla o stringerle la mano, per sentirsi vivo, sentirsi al mondo. E allora va bene così, quando il sole tramonta e il turno finisce, quando arriva a casa e una donna ad aspettarlo non c’è, quando di cucinare non ha voglia e tutto quello che gli resta è starsene disteso a guardare il soffitto. Ed è quello il momento migliore della giornata, in cui, solo con i suoi pensieri e sentimenti, può respirare la vita e la felicità ricordandosi che fuori, in strada, c’è un paio di occhi che lo fa emozionare ancora. Al di là di tutto, di ogni pistola puntata, di ogni vita spezzata. Perché, per quanta gente ha ucciso, Rosy ha riportato in vita lui e a lei deve la sua vita, Domenico. E per lei è disposto ad attraversare qualsiasi muro, anche il più spesso e tagliente che esista, perché alla fine della giornata quando torna a casa si guarda allo specchio e si ricorda di essere un uomo. E per quanto forte sia sul campo a vincere i nemici, quell’uomo perde di fronte all’amore. E lui non ci può fare proprio niente. 
 

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Capitolo 16
*** Sentirsi vivi ***


16. Sentirsi vivi
 
Rosy osserva Rachele, ferma sull’uscio del casale abbandonato che li ospita adesso. Mentre il sole tramonta ancora un po’ di più, il brutto anatroccolo si è trasformato in una bella principessa dei cartoni animati e si prepara a conquistare la scarpetta di cristallo. E’ il grande giorno, oggi. La regina di Palermo osserva la ragazza, nella quale si rivede un po’. Si chiede per chi combatta, lei, così giovane e bella. Con quello sguardo così pieno di vita e di sogni. Ha il mondo nelle sue mani e davanti a sé, Rachele, se solo riuscisse a fermarsi in tempo.
- Non sbagliare niente, altrimenti sei fuori dai giochi.
- Non ti preoccupare De Silva, so quello che faccio. Ho il mio asso nella manica.
- L’asso ce lo devi avere sotto il vestito, è chiaro? Calcaterra deve cadere ai tuoi piedi.
- Credi davvero che le avances di una bella ragazza possano distrarre Domenico dal suo lavoro? -, chiede Rosy polemica.
- Scusami, dimenticavo che tu ne sai molto più di me. Non so nemmeno se sto facendo bene a fidarmi di una come te.
- Ti sto aiutando anche senza sapere dove vuoi arrivare, quante altre dimostrazioni ti servono?
- Accompagnala. Porta Rachele alla Duomo e assicurati che faccia quello che deve.
- Non ho bisogno della balia -, sentenzia Rachele.
- Forse, ma Rosy sa come muoversi in queste circostanze.
- Che cosa vuoi che faccia, che entri alla Duomo anche io? -, esclama lei con sorriso sarcastico. Poi rinviene quando comprende che De Silva di scherzare non ha voglia.
- Lasciala lì e aspetta che faccia il suo lavoro.
Rosy si prepara all’azione, acconciandosi un po’ meno bene della sua rivale. Un paio di occhiali da sole sugli occhi, un cappellino grigio sulla testa e la sciarpa che abbraccia il collo. Soffoca i pensieri nel travestimento, quindi con le paure nelle tasche mette in moto e raggiunge la Duomo, con accanto una silenziosa Rachele. Probabilmente Rosy è più spaventata di lei, per le circostanze, le persone, i luoghi. E’ spaventata perché una bellissima ragazza deve far capitolare l’uomo del suo cuore e vivrà dei suoi sguardi alla luce del giorno, seppure solo per finzione. E’ spaventata perché si è buttata a capofitto in una piscina troppo bassa e continua a tuffarsi e rituffarsi, col rischio di picchiare la testa a terra. E forse la Rosy dei vecchi tempi non avrebbe avuto, neppure per un istante, il dubbio di consegnare i polsi a Calcaterra e arrendersi, perché il suo posto adesso è dietro le sbarre e il suo cuscino è piatto e sempre freddo.
- Ti lascio qua, non devi camminare molto. Quello che devi dire lo sai già, fai finta di essere completamente fuori dal mondo, una di un altro pianeta. E ogni tanto sorridi… A Domenico piacciono le ragazze che sorridono -, conclude Rosy con la testa bassa e l’orgoglio fra le corde vocali, la voce di chi si sente trucidare dentro da un coltello che non smette mai di trapassare le pareti dello stomaco. Rachele non si pronuncia, forse nella sua apparente innocenza è riuscita a capire di Rosy molto più di quanto Rosy abbia fatto con se stessa. E nell’istante di un respiro il brutto anatroccolo ha capito che il cuore dell’uomo che deve colpire con la sua freccia appartiene alla sua fata turchina che l’ha truccata, trasformata, impreziosita. A che scopo, poi, Rachele non lo sa.

- Aiutatemi, qualcuno mi aiuti, aiuto!
- Si calmi signorina, si calmi. Che è successo?
- Sono stata derubata.
- Eh, mi dispiace, ma ha sbagliato posto.
- Non siete della polizia, voi?
- Sì, ma siamo un reparto speciale.
- Ah… E non prendete le denunce di furto?
- Non proprio.
- Oddio e adesso come faccio… Non sono di qui, non… Non posso tornare a casa, non posso far nulla -, Rachele inizia a vomitare dagli occhi lacrime bugiarde sotto lo sguardo tenerone di un poliziotto dai capelli stropicciati e la barba appena pungente. Domenico Calcaterra, la sua bellezza e i pettorali nascosti sotto un maglione verde militare. Sono loro la preda di Rachele.
- Non faccia così… Venga, beva un po’ d’acqua, così magari si calma un po’.
- Posso darle del tu?
- Certo, puoi chiamarmi Domenico.
- Io sono Nadia.
- Nadia… Di dove sei?
- Sono della Calabria, sono qui a Catania per il matrimonio di un’amica.
- Ah, adesso capisco perché questo vestito.
- E’ brutto?
- No, assolutamente, solo che non lo metterei per uscire di mercoledì pomeriggio, ecco -, Rachele sorride, ricordandosi degli insegnamenti di Rosy. Domenico diventa dieci volte più bello quando incontra il sorriso sulle labbra di una donna e lo ricambia. Rosy aveva ragione.
- Un amico mi ha lasciata qui per fare la denuncia, lui è al ricevimento. Intanto io sto perdendo il matrimonio della mia amica e sono anche nel posto sbagliato.
- Di cosa ti hanno derubata?
- Tutto, la borsa, il cellulare, i documenti, le carte, qualsiasi cosa. Ma nel 2014 c’è ancora chi ha il coraggio di scippare una donna?
- C’è di peggio. Dai, ti accompagno in questura chè qui ci occupiamo di cose un po’ più complicate.
- Ma no, non preoccuparti, non voglio disturbare il tuo lavoro.
- Stavo andando via, ho finito il turno. Poi con quel vestito dove vorrai andare, a piedi?
- In effetti da nessuna parte.
- E allora vieni con me Cenerentola.
- Hai il cavallo bianco?
- Ho la carrozza, va bene lo stesso?
Domenico sorride e dietro i suoi denti bianchi circondati da uno spruzzo di baffi che lo rendono più uomo si nasconde la consapevolezza che quella è la donna che stava aspettando. Quella che cambierà le carte in tavola e forse anche la sua vita. E quindi ci sta, al gioco. Perché Rosy gli ha detto di fare così e lui si fida, si fida sempre. La polizia che si fida della mafia, bello no? E invece non è così semplice, non è così superficiale. E’ un cuore che si fida di un altro cuore, questa volta. Perché dietro il distintivo o dietro una pistola posseduta indebitamente si nasconde un paio di cuori innamorati con le braccia troppo corte per afferrarsi. Che poi magari riescono anche a toccarsi una volta tanto, a stringersi scambiandosi il sudore e le cellule, quelle più vive del corpo. Solo che poi l’orario di ricevimento finisce e li vedi salutarsi dai due poli opposti del mondo, con le lacrime addosso e una cicatrice sugli occhi. Perché guardarsi a quella distanza fa troppo male. Sarebbe bello poi viversi, annusarsi negli angoli del collo dove la vita profuma di più, addormentarsi sui pensieri dell’altro e ritrovarseli addosso il mattino dopo, in una di quelle vite normali dove dirsi “ciao” non significa “a chissà quando” e se fai l’amore non lo devi nascondere ai colleghi o al magistrato e non stai rubando alla galera una latitante. Una di quelle vite in cui puoi camminare fra le strade di ogni città senza la paura che ti piova addosso un nuovo temporale di proiettili, vendette, conti in sospeso. E’ questo il sogno di Domenico e ha gli occhi grandi e i capelli scuri, un cuore consumato e, al fondo della scatola, la voglia segreta di cambiare vita.
- Quindi tornerai in Calabria dopo il matrimonio?
- Sì, mi trattengo un paio di giorni qui e poi torno a casa. Sempre che riesca a recuperare le mie cose…
- Beh Catania non è poi così piccola, inizia a pensare di rifare i documenti e bloccare le carte.
- Sei molto di conforto per essere un poliziotto!
- Proprio perché sono un poliziotto sono molto realista.
- Non mi hai ancora detto di cosa ti occupi.
- Di mafia -, Domenico guarda negli occhi la ragazza seduta accanto a lui, mentre imbottigliati nel traffico spera di sortire una reazione nelle espressioni del suo viso.
- Una roba leggera…
- Parecchio! E tu? Che fai nella vita, Nadia?
- Gestisco la contabilità nell’albergo di proprietà dei miei genitori a Rossano, in Calabria.
- Una cosa impegnativa.
- Non credi?
- No, no, certo… Non come puntare la pistola in faccia alla gente, ma insomma ha le sue fatiche.
- I numeri non sono una cosa semplice.
- Nemmeno i criminali.
- Ad ognuno i suoi calcoli.
- Siamo arrivati. Qui puoi fare le tue denunce, ti diranno loro cosa fare.
- Ti ringrazio, è stato un piacere conoscerti.
- Questo è il mio numero… Se passi dall’antimafia per caso, vienimi a trovare -, Domenico le sorride porgendole il suo biglietto da visita. Così facendo precede la ragazza nelle sue mosse, arriva esattamente dove lei voleva mirare, a rivedersi.
- Farò in modo di capitarci allora…
- Fatti accompagnare dal tuo amico, lui conosce bene la strada.
- Ciao poliziotto!
Domenico guarda la ragazza allontanarsi dall’auto, quindi tira dritto verso casa sua, dove il silenzio lo aspetta solo con i suoi pensieri. Si sente sporco dentro, come uno che ha rubato i soldi dall’offertorio della chiesa. Si sente come un treno fuori dai binari che continua a camminare ancora, in bilico tra il sopravvivere e il deragliare. Lui è un albero che dev’essere abbattuto, è la neve in un posto di mare. E’ tutto ciò che esista di disordinato, è una monetina di rame fra le banconote. Nessuno la prende, nessuno la sceglie. Le monetine di rame non hanno alcun valore, soprattutto quando sono sporche. L’uomo le calpesta, le oltrepassa senza abbassarsi a prenderle da terra, perché un centesimo o due non cambieranno l’economia del paese. Domenico non cambierà le cose, nessuno si abbassa ad afferrare la mano di uno sporco dentro, una spugna consumata che ha assorbito troppo grasso. E’ ad un punto di non ritorno, arrivare fino in fondo e piantare la bandiera o inginocchiarsi al centro del mondo come chi ha perso la speranza. E lui non sa in cosa sperare, in cosa credere, perché anche alla fine di quest’altra battaglia non gli resterà nient’altro che una lista di gente che se n’è andata per sempre e un amore impossibile da abbracciare e annaffiare come la più bella delle piante in giardino.
Parcheggia l’auto, quindi raggiunge il suo appartamento mescolato fra tanti appartamenti tutti uguali. Infila la chiave nella serratura, poi avverte un gelo dietro la nuca, confuso fra il disordine dei suoi capelli, ognuno nella sua direzione. Un brivido lo picchia nel petto, il dolore pari ad un calcio allo stomaco e la paura che si fa strada nei pantaloni. Una voce tappata gli dice di aprire, Domenico non si volta né ha il coraggio per fare qualcosa di diverso dal girare la chiave nella serratura della porta. Lui, il poliziotto che spara sulla mafia, è messo al muro da una pistola che gli tiene in ostaggio la testa.
Apre la porta di casa, quindi entra a piccoli passi spinto dentro dal suo presunto killer. La porta si chiude alle sue spalle, mentre la beretta allenta la presa e lo libera. Domenico tira fuori la pistola nel movimento che lo fa girare di scatto, quindi punta con decisione il naso di qualcuno che si nasconde sotto un cappello grigio, gli occhiali da sole e una sciarpa attorno al collo. Rosy si sveste dal suo travestimento col sorriso negli occhi, consapevole di aver regalato a Domenico nello stesso istante la paura di morire e la gioia di rivederla.
- Cazzo, Rosy, sei impazzita?
- Non potevo rischiare di farmi beccare, sei circondato da sbirri!
- Sono uno sbirro!
- Ciao Domenico… -, lei abbandona il tono duro per indossare sul viso il più bello dei suoi sorrisi. Ha gli occhi bagnati dalla spensieratezza, adesso, perché è in una stanza con lui al sicuro e tutto il mondo può anche venir meno. Ci sono loro, sono insieme, è quel che conta. Domenico ha gli occhi pietrificati dalla paura e il sudore sulla fronte, mentre il suo cuore non smette di far rumore nel silenzio della sua casa. Forse la paura di essere messo alle strette per davvero, forse la felicità di trovarla di fronte a sé, bella come sempre nonostante tutto. Bella come il suo odore che sa di buono e di freschezza e che gli si incolla alla pelle non appena Domenico la sfiora solo per un attimo. Lo stesso odore che ha l’ossigeno nel suo viaggio fra le vene e i polmoni.
- Come sei arrivata qua?
- Incappucciata.
- Penso sia venuta quella ragazza di cui mi hai parlato.
- Rachele?
- Nadia.
- Rachele -, replica Rosy con tono affermativo.
- Rachele o Nadia?
- Rachele, ma per te sarà Nadia, questi sono i piani.
- Quali piani? Cos’ha intenzione di fare?
- Arrivare a te, conquistarti, qualcosa del genere, non lo so… -, Rosy abbassa la testa come chi vuol proteggere le emozioni dipinte nello sguardo.
- Arrivare a me per quale scopo? Cosa cercano da me?
- Non lo so, Domenico, non lo so. Lui non mi dice niente, non mi informa. Dice che deve capire se si può fidare di me ed io… Ho sempre paura di fare un passo falso, di sbagliare, ho paura che mi scopra.
- Allora evita certe cose pericolose, tipo il venire qui. Se hai da dirmi qualcosa, chiamami.
Rosy lo guarda intensamente e negli occhi ha dipinti i sentimenti più grandi. Lo guarda senza dire nulla, perché forse così vuol fargli capire che ci sono certe cose che non può dire attraverso una telefonata. Ci sono sguardi, sapori, di cui lei ha bisogno per stare in piedi un altro giorno ancora. Il sapore degli occhi verdi di Domenico, spaventati e preoccupati, spalancati su un mondo che non vuol cambiare. Ed è anche per colpa di gente come lei, che nonostante tutto se ne sta dalla parte sbagliata e continua a puntare la pistola contro la legge.
- Devo andare, devo recuperare Rachele. Se manco troppo tempo, potrebbero insospettirsi.
- Vai, vai… Non farla aspettare…
- Tu stai attento, io non lo so che intenzioni hanno, non lo so dove vogliono mirare, non so… -, Domenico afferra il viso di Rosy fra le sue mani calde, interrompendo le sue parole agitate. Occhi contro occhi, lei lo guarda e vorrebbe fermare il tempo per sempre a questo istante.
- Non ti devi preoccupare per me, stai attenta tu a quello che fai, piuttosto.
- Io me la cavo sempre, lo sai.
Domenico sorride, imprigionando fra le sue dita le guance lisce di lei. Si guardano come se fosse la fine del mondo, l’ultimo respiro che possono condividere nello stesso cubo di universo. Poi pian piano tutto quanto sotto ai loro piedi inizia a svanire, muoiono le stelle, si chiude il cielo, la voce della gente si addormenta questa volta e per sempre. Restano loro due, che devono dirsi ciao ancora una volta, a chissà quando.
- Vorrei essere l’uomo al tuo fianco… C’è un’altra vita per noi, ne sono certo. Mi sveglierò e ti troverò accanto a me, lavorerò per te, tornerò a casa da te e quando mi addormenterò ti sognerò la notte con la certezza che il giorno dopo ci sarai ancora.
Rosy abbassa il capo, stretta ancora fra le mani di lui. Una lacrima sofferta scivola sul viso incontrando le sue labbra grandi, gli occhi pieni di speranze nate premature e destinate a morire. Le parole sputate fuori dal cuore di Mimmo le distruggono l’anima un po’ alla volta, strappandole pezzi di coraggio e forza che nessuno le darà mai più. E’ viva soltanto per lui e Rosy questo lo sa. Perché non importa con quante donne andrà a letto e quante altre cercheranno di sedurlo, non importa se avranno bei vestiti da sera o un po’ di trucco sugli occhi, la vita pulita e i sogni della gente normale. Loro si sono legati e non ce n’è per nessuno. Si è distrutto il mondo in mille pezzi e loro sono sopravvissuti insieme, al di là di tutto, al di là di ogni pagina voltata, di ogni vita ricominciata. Si sono legati, si sono innamorati. Al di là di ogni amore impossibile, di ogni schema. Sono quello che sono, un sentimento col cappuccio sulla testa, gli occhi verdi, il sorriso del mondo. Sono quelli che hanno imparato a raggiungersi negli angoli remoti del mondo, a viversi in qualche stanza silenziosa, a puntarsi la pistola sulla faccia e poi a tirarsi indietro, perché l’amore certe volte fa più male di un proiettile che raggiunge il cuore. Sono fatti di sguardi, poche parole, troppi respiri, mani che si cercano, dolori che fanno l’amore al posto di due cuori imprigionati a distanza. Si cercano, si pensano, si respirano nello spazio infinito di un universo che li tiene separati. Poi si raggiungono per pochi frammenti di minuti, giusto il tempo di guardarsi negli occhi e capire che le cose non sono mai cambiate. Che Rosy ha imparato ad amare di nuovo e che Domenico ha consegnato il suo cuore nelle mani consumate di una donna bella come il sole che li baciava quella volta quando, affacciati alla ringhiera, le ricerche li avevano portati lontano.
Avvicina il suo viso profumato alle sue labbra, che accarezzano la pelle morbida di Rosy. Poi si incontrano dove la faccia di lei si colora di un sorriso meraviglioso, dove le lacrime dei suoi occhi trovano la loro fine, dove tante volte si sono ritrovati ed è stato così bello. Domenico bacia Rosy giusto un po’, mangiando le gocce calde d’acqua cristallina che si sono depositate sulla bocca di lei. Restano così, per alcuni istanti. Si scambiano i pensieri, le sensazioni, le paure, in un bacio che ha tardato ad arrivare. Si sentono vivi, adesso, mentre l’ossigeno fa il suo migliore corso dallo stomaco al cuore sfrecciando come un pilota di formula uno. Ed è così che rimettono a posto i cocci rotti nel corso del tempo, quando tanto volte avrebbero voluto viversi e non era mai il momento giusto. Non è mai il momento giusto, per due come loro. Per due che, nonostante tutto, i secondi che precedono il contatto sono i migliori, sono quelli in cui capiscono di esserci ancora al mondo, di essere qualcuno, di valere qualcosa. Sono gli istanti di paradiso in cui hai le ali sotto i piedi perché l’amore sta facendo il suo giro ed è un giro giusto, nonostante le circostanze avverse e i posti scomodi. E’ quanto basta, è quello che il mondo riserva a loro. Che impiegano più tempo a salutarsi ancora che ad amarsi veramente. Ed è quello, poi, il modo in cui si amano di più. Guardarsi negli occhi con la consapevolezza che passeranno ore, giorni, anche troppi. E allora Domenico la bacia ancora, la bacia più forte, la stringe a sé, sente i respiri di lei sul suo cuore, suonano all’unisono in quella casa dei segreti, bagnata adesso di un amore che non se ne andrà più. Resta incollato alle pareti, il loro sentimento. Si arrampica fra le cose dove Domenico potrà ritrovarlo tutte le volte che vorrà. E risentirsi vivo ancora, ancora qualcuno, ancora un uomo con un valore. E si baciano di nuovo, coreografi delle labbra che pattinano su un cielo di bellezze. Due luci troppo forti in una strada troppo buia. E si baciano un’ultima volta, mentre le lacrime che precipitano giù dagli occhi di Rosy si fanno spazio fra i loro visi così attaccati. Sono calde come l’amore che li unisce. Perché loro si sono innamorati e non ce n’è per nessuno. Ed è complicato, è un rapporto complicato che non li vuol lasciare in pace, complicato come i respiri di Rosy che, la testa bassa fra le spalle, sa di dover andare via adesso. Non c’è più scampo, non c’è amore che regga. Sono come due ragazzini chiusi a baciarsi nei bagni del liceo, ma il bidello ha bussato e la preside li vuole vedere.
- Vai, adesso. Chiamami, se hai bisogno… Ti penso sempre, Rosy.
Le sue parole sono per lei come mina da guerra stretta fra le mani. La riduce in mille pezzi con quello che pensa, quello che prova. Restano incollati ancora un istante, come francobolli alle buste da lettera. Poi Rosy si asciuga una nuova lacrima, la più pesante di tutte, perché si porta addosso il peso delle parole non dette, di quelle sussurrate, il peso delle cose che li separano e dei saluti affrettati, chè nessun posto per loro è mai sicuro. E si sente come tutte le altre volte, come un ragazzino al supermercato imbambolato davanti al reparto delle cioccolate. Ma le casse hanno chiuso, si torna a casa, adesso. E Rosy non ne vuole mai sapere, perché casa sua ha i capelli stropicciati, gli occhi verdi e un po’ di barba che le graffia il viso. Come puoi lasciare casa e uscire in strada mentre fuori nevica veleno?
Le loro mani si stringono un’ultima volta, sudate, appiccicate come i panni in lavatrice. Piangono dolore e la voglia di non separarsi mai. Mai più. Lui stringe forte, lei di più. Uno dei due, prima o poi, dovrà mollare la presa, con la consapevolezza che la porta si chiuderà e la magia sarà svanita. E’ un incantesimo troppo breve. Per questo restano così, al centro del mondo che tutt’attorno se ne sta seduto sugli spalti a guardare la tragedia, mentre Mimmo e Rosy si guardano un altro po’. Forse per amarsi ancora, forse per fotografare nel cuore quell’istante che non può finire. Restano immobili a fissarsi, mentre l’amore gli consuma gli occhi e le mani. Perché per due come loro, che non possono amarsi poi veramente, è sempre quello il momento più bello. Il momento in cui il bacio sta per arrivare, perché sanno e si sentono vivi, e il momento in cui il bacio se ne va poi per sempre e capiscono di essere vivi il doppio, perché si sentono sparare alle gambe, alla testa, al cuore e restano fermi al centro del mondo, come chi con le mani giunte implora il cielo di vivere solo un minuto di più, qualche minuto ancora.  

 

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Capitolo 17
*** Giochiamo? ***


Buonasera a tutti :) scusate se vi faccio aspettare così tanto per un nuovo capitolo ma sono in periodo di esami all'università, appena sarò più libera cercherò di pubblicare molto spesso ;) inoltre dal prossimo capitolo ci saranno grandissime novità inimmaginabili, spero di stupirvi! Buona lettura e grazie a tutti voi che leggete sempre :) Cesca. 

17. Giochiamo?
 
- Oggi ci muoviamo verso la meta, lo vedete questo? -, afferma De Silva rivolgendosi alle due donne della sua squadra e indicando con l’indice della mano destra una distesa immensa di terreno, raffigurata su una carta geografica appesa al muro.
- Il terreno dietro l’ospedale?
- Sì, Rachele. Qui faremo nascere un impero.
- E oggi che giorno è? Che cosa succede di importante?
- Rosy, Rosy… Non lo sai che le domande le faccio io?
- Io non ci sto più al tuo gioco, me lo vuoi dire o no dove vuoi arrivare?
- Che cosa ci guadagni?
- Vuoi il mio aiuto?
- Forse non ti è chiaro che sono io che sto aiutando te. O preferivi stare dietro le sbarre, Abate?
- E’ indifferente, so imporre il mio potere ovunque vado.
- Ma con me non l’avrai vinta.
- Non mi importa vincere contro di te. Vuoi costruire il tuo impero? Allora spiegaci su quali basi.
De Silva fissa alcuni istanti Rosy, poi sposta lo sguardo su Rachele, come se guardandole attentamente potesse capire quanto può fidarsi di loro. Del resto non ha scelta, il nome dell’Abate è una garanzia sicura in Sicilia e Rachele gli serve sul campo a combattere.
- Cocaina. Pura, finissima. Ci arriva direttamente dalla Russia e faremo in modo di diventare i principali venditori dell’isola e del meridione.
- Sì, ma come pensi di farla arrivare fin qua superando i controlli?
- E’ semplice. Il centro commerciale di cui ti ho parlato. E’ una roba pulita, tranquilla. Ci sarà un negozio di giocattoli… Venderemo matriosche, di tutti i tipi, di tutte le forme. Matriosche russe originali. Saranno il nostro mezzo di trasporto.
- Vuoi far arrivare la cocaina nei giocattoli dei bambini? -, Rosy lo fissa sconcertata, con un sorriso sarcastico dipinto sul viso, le sopracciglia come ali di gabbiano, i capelli tirati con leggerezza da un lato andando contro il verso della vertigine.
- Loro dispongono le misure, noi le osserviamo.
- Quindi lavoriamo per qualcuno.
- Qualcuno di importante.
Rosy annuisce, quindi tira fuori dalla tasca un pacchetto di sigarette e lo porge a Rachele che, incerta, ne prende una. Ha la faccia di chi non ha mai avvicinato le labbra alla nicotina, ma ci prova per gusto, forse per impegnare i tempi morti in cui le mani non incontrano un’arma da puntare contro il viso di qualcuno. Gira la sigaretta fra le dita, in attesa che Rosy le porga anche l’accendino. Solo che la regina di Palermo si allontana persa fra le sue cose e i suoi pensieri, come chi ha deposto la corona per fare spazio ad un regnante più grande e capace di lei. E ogni minuto della giornata si chiede se stia facendo la cosa giusta, se non sarebbe più accurato sventolare bandiera bianca e chiudere i polsi fra le manette, chè tanto a fare giustizia fra siciliani, russi e affiliati ci pensa di sicuro Calcaterra. Calcaterra. Chissà dov’è oggi. Si avvicina alla finestra che, dal casale, offre un’immagine piccola e lontana di Catania e butta il suo pensiero fra le cose, le case, le persone che si scambiano l’ossigeno fra le strade di una città mai pronta al peggio. Chissà dov’è, oggi, Calcaterra. Non si vedono da dodici giorni. Rosy ha imparato a contarli, dall’ultima volta che si sono visti. Da quando si sono incontrati a casa sua e lui le ha lasciato sulle labbra il sapore dello stare bene. Ha provato a non lavarsi l’anima, da quel giorno, per lasciare indelebile sul cuore l’odore dei suoi baci, per continuare a vedere davanti ai suoi occhi la paura mista alla gioia di un uomo che fa battere i cuori a tante persone, soprattutto quando punta loro contro una pistola, pronto a scaricare proiettili e a fare la giustizia. Come faceva con lei, a volte, quando si sorprendevano sull’orlo delle circostanze e poi abbassava l’arma, chè tanto Rosy non lo avrebbe sparato e lui altrettanto. Ci ha pensato Cupido a spararli a dovere. Sul cuore, con le sue frecce micidiali.
- Oggi cominciano i lavori di costruzione, se tutto va bene nel giro di un mese il centro commerciale è in piedi -, Rosy si avvicina a De Silva, richiamata dal suono delle sue parole che arrivano dritte all’orecchio di una distratta Rachele e, più deboli, alla sua mente appoggiata alla finestra.
- Un mese? E’ impossibile.
- Niente è impossibile. Avremo una ditta che lavorerà al progetto giorno e notte, intanto fisseremo gli ultimi accordi con i russi.
- Chi c’è a capo di tutti questi movimenti?
- Un pezzo grosso.
- Mh. E nel frattempo che la costruzione avanza? Noi che facciamo, stiamo chiusi qua dentro a guardarci in faccia?
- Che c’è, Abate, questo spazio ti sta stretto? Vuoi agire?
- Non ho tempo da perdere.
- E dove devi andare? Piuttosto tu, come ti stai muovendo col nostro sbirro? -, sentenzia lo stregone rivolgendosi ad un’assente Rachele che continua a giocherellare con la sigaretta spenta fra le dita, molto poco interessata allo scambio di provocazioni fra il suo capo e l’Abate.
- Nulla, si era detto di aspettare, no? Me lo dirà Rosy quando agire.
- Rosy? E’ a me che devi dare retta.
- Ma lei è una donna e sa come comportarsi.
- Una donna, figuriamoci… State attente a quello che fate, voi due. Alla prima cazzata siete fuori dai giochi.
De Silva si allontana con i suoi progetti nella testa e la sete di potere fra le labbra, di chi guarda fisso all’obiettivo che ha puntato e non ce n’è di diversi. Se solo sapesse cosa si muove alle sue spalle, inizierebbe ad avere paura anche lui, una volta tanto.
- Che ne dici di oggi? -, incalza inaspettatamente Rosy, rivolgendosi a Rachele.
- Oggi?
- Sì, lui non si aspetta nulla, pensa che tu sia tornata in Calabria alla tua vita. Invece ti fai trovare fuori dal suo ufficio e lo stupisci.
- Non sappiamo nemmeno i suoi orari, che turni fa oggi.
- Calcaterra è uno che lavora sempre, non ci sono problemi di questo tipo con lui.
- Lo conosci molto bene.
- Purtroppo ho avuto questo piacere.
- Com’è a letto? -, Rosy sbarra gli occhi, quella ragazza ancora giovinezza e inesperienza ha toccato un punto debole, un tallone d’Achille. La sua vita privata è solo sua e tale resta.
- E a te che t’interessa?
- Così, giusto per sapere come comportarmi. Non ti dà mica fastidio se ci provo, vero?
- Che me ne importa.
- E se ci fosse qualche altra donna attorno a lui o nel suo cuore?
- Calcaterra non è uno che si lega, non fa spazio ai sentimenti.
- Sembra uno duro.
- Lo è, ne ha subite tante.
- Ma sei dalla sua parte? Perché sembra quasi che ci sei ancora legata, in qualche modo.
- Ma tu come ti permetti, eh? -, Rosy si avvicina di scatto alla sua amica nemica, puntando il suo viso a pochi respiri dal naso di lei. - Tu nemmeno mi conosci, che minchia vuoi da me? Attenta a come parli, ragazzina, posso diventare anche molto cattiva.
- E’ che quando parli di questo sbirro ti scaldi troppo facilmente, quindi volevo capire se me ne posso innamorare senza fare un torto a te.
- A lui non piacciono i criminali…
- Non si direbbe.
Rachele congeda Rosy con un sorriso sarcastico, quindi le dà le spalle e se ne va. Lei rimane lì, immobile come chi ha affondato i piedi nelle sabbie mobili e non c’è via di scampo. Sente che sta andando sempre più a fondo, ogni giorno un po’ più giù. Lei, che vince sempre tutti, è ancora più vicina alla sconfitta. Prima o poi qualcuno farà scacco matto alla regina e a perdere la testa sarà proprio lei. E allora sarà troppo tardi per qualsiasi cosa, anche per estrarre la spada e sfidare i cavalieri avversari, tutto quanto per salvare la vita al re. Il suo re.

- Sì, Sandro, voglio che teniamo d’occhio tutta questa zona, qualsiasi movimento può essere… Scusami un secondo…
Domenico intravede fra le mura della Duomo una faccia conosciuta, il cuore inizia a battere forte in petto. E’ tornata. Lascia le carte nelle mani del suo collega che lo guarda incredulo, quindi avanza verso di lei mostrando sul viso il più bello dei sorrisi. Uno di quelli che lui ha sempre riservato per le persone speciali.
- Nadia!
- Poliziotto, ciao!
- Che… Che cosa ci fai da queste parti?
- Te l’avevo detto che sarei tornata.
- Non mi dire che ti hanno derubata ancora!
- Di sicuro avrei saputo dove andare, questa volta.
- E invece hai scelto il posto giusto, sono contento di rivederti.
- Anche io. Ma ti disturbo? Stai lavorando?
- No, niente di importante.
- Allora mi offri un caffè?
- Anche due. Aspettami qua, prendo la giacca e andiamo.
Domenico recupera i suoi oggetti, quindi a passo svelto lascia la Duomo sotto lo sguardo vigile ed ecografo dei suoi colleghi, che vogliono capirci di più e vogliono capire con quanta costanza il cuore di Calcaterra sia legato a quella donna dagli occhi belli quasi quanto i suoi.
- Certo che Calcaterra fa presto ad impegnarsi…
- A quanto pare. Ma non te la prendere, non è uno che si lega, lui -, incalza Sandro di tutta risposta ad una risentita Lara, che osserva la scena di quella coppia allontanarsi in macchina verso la terra della felicità, inconsapevole di quale sia la verità.

- Allora, dove mi porti? Fammi conoscere questa bella Catania, dai.
- Prima dimmi cosa ci fai da queste parti.
- Ma te l’ho detto, sono venuta per te.
- Soltanto per me?
- Se sono venuta fin qua, non è soltanto per te. Significa che mi andava di rivederti.
- Quanto tempo ti fermi?
- Mah, non saprei, un paio di giorni, forse qualcosa di più. Sono ospite da un’amica, quindi posso stare un po’.
- Hai tanti amici qui a Catania.
- Mi faccio voler bene facilmente.
- E come fai?
- Ho le mie tecniche segrete.
- Potresti mostrarmele…
- Andiamo a casa tua? -, incalza frettolosa lei. Domenico impallidisce, perché la sua casa è solamente sua. Conserva ricordi, odori, scatti rubati. Anche baci rubati. Osserva Nadia per alcuni secondi, cerca dietro il suo dolce sguardo la Rachele di cui gli ha parlato Rosy, mentre il semaforo rosso mette in pausa la sua corsa verso una meta che non ha sapore, non ha colore. Non c’era scritto nel giuramento che, per fare giustizia e applicare la legge, dovesse finire a letto con una qualsiasi. Non c’era scritto neppure che dovesse provare qualcosa per una criminale e finire a letto con una seconda criminale, per salvare la vita alla prima. Non c’erano scritte tante cose, in quel giuramento dell’arma. Non gliel’aveva detto nessuno che le cose fossero così difficili, che in fondo la vita era tutta in discesa quando si buttava a capo fitto nelle cose senza intenzione, senza fare progetti. Chè quando ti inizi a legare diventa un casino. Vedi quel paio di occhi bellissimi davanti a te in ogni istante, ogni momento della giornata. E quanto più sai di non trovarli, più li desideri, li brami, li cerchi negli altri. Come quando perso in mezzo alla folla ti sembra di rivedere esattamente chi speravi e ti colpisce forte un calcio allo stomaco. E’ quello il biglietto da visita dell’amore, è la mano destra che porge alle persone quando si presenta.
Domenico butta il suo sguardo fra le macchine attorno, i passanti al semaforo, la gente sui marciapiedi. Un cappuccio in testa attira i suoi occhi più di tutto il resto, cerca Rosy al di là di tutto e tutti, la cerca anche dove non potrebbe mai stare perché sarebbe infinitamente pericoloso. Poi verde, quindi riparte lasciando che la mente si consumi nella velocità che l’auto prende sull’asfalto, quasi a consumargli i pensieri e i sentimenti. Corre forte fra la città che continua la sua vita, senza chiedersi dove voglia arrivare lo sbirro, cosa pensa di ottenere cedendo alle lusinghe di quella donna dalle confuse identità e cosa Rachele si aspetta di trovare fra le sue carte, le sue cose o le sue giornate.
- Aspetta un attimo qui… -, Domenico lascia la ragazza ad aspettarla fuori dalla porta del suo appartamento, quindi raccoglie le carte delle sue indagini e le foto seminate in giro di Rosy e Leo e nasconde tutto sotto i cuscini del divano, poi le fa cenno di entrare.
E’ un gioco di istanti, sono abiti che volano via senza farsi domande, corpi che si sfiorano nelle stanze che hanno conosciuto l’amore, quello vero. E’ un gioco di sudore, di amara finzione, di doppi intenti. E’ un gioco e basta. E lo sa Domenico, mentre le sfiora i capelli e tutto quello a cui riesce a pensare non ha niente a che fare con i suoi occhi o i suoi piccoli seni. Non gli importa niente, non guarda niente, non sente niente. Ha lo sguardo spento, l’anima triste di chi si addormenta fra le braccia sbagliate dopo aver fatto l’amore con il corpo sbagliato. Vorrebbe mandarla via adesso, subito, vorrebbe dirle che non ce la fa. Che stare fra le cose di un’altra non lo fa vivere bene, perché il modo in cui lei lo bacia non gli piace e non gli piace il suo odore, non gli piacciono i suoi capelli, non gli piace guardarla negli occhi e sperare con tutto se stesso che il viso che stringe fra le mani sia quello piccolo e prepotente di una criminale in giro chissà dove. E poi non ha nei sul viso, Nadia. O Rachele. O quello che è. E lui non può fantasticarci su, non può sfiorarli con le sue morbide labbra spiando sotto il suo viso il sorriso di Rosy, non può stringere sul suo corpo nessuna donna che non sia lei. E vorrebbe tirarsi via i capelli e le lacrime via dagli occhi, chè forse così se ne va anche quello che prova per lei. Anche il ricordo della sua bianca schiena, dei baci al sapore di paura ed errore, chè poi alla fine ritornano sempre al punto di partenza, si ritrovano ogni volta e si amano con lo sguardo, a distanza di qualche cielo. Loro sono l’amore che cresce fra gli spari della gente nelle strade del mondo. I proiettili fanno il loro corso senza mai spezzare il filo sottile che unisce Rosy e Mimmo. Restano immobili nell’universo a chiedersi quanto male faccia l’amore, restano immobili a guardarsi e a scambiarsi i baci e i pensieri così distanti, perché almeno nessuno li vede. Sono la stessa direzione di due diverse strade, entrambi precipitati nelle sabbie mobili di due diverse spiagge del mondo. Perché il destino ha deciso per loro che non si debbano incontrare mai? E perché Domenico finge di star bene mentre un altro corpo della mafia giace sudato su di lui e non può stare bene veramente, stringendo fra le braccia l’amore della sua vita?
- Tutto bene?
- Si, si…
- Ti vedo strano… Spento.
- Sarà solo un po’ di stanchezza, questo lavoro mi massacra.
- Perché non ti prendi un periodo di ferie? Ce ne andiamo insieme da qualche parte, possiamo conoscerci meglio.
- Mh, come corri -, replica Domenico con un sorriso ironico. La principessa non sa che la sua corsa si arresterà molto prima di arrivare al castello. Giusto il tempo di commettere un errore, di cadere veramente fra le braccia del cuore di Domenico ed il gioco è fatto.
- Allora rallento, mi inviti a cena?
La ragazza guarda il suo uomo dritto negli occhi, perdendosi fra le pieghe del verde che gli dipinge lo sguardo di meraviglia. Domenico, fra sé, decide di andare fino in fondo a questa storia per vedere quanto lontano lo porterà.
- Domani?
- Domani!
Il suono del cellulare distrae i loro discorsi, quindi Calcaterra si fa spazio fra le lenzuola.
- Dimmi Sandro.
- Domenico abbiamo presto Rosy!
- Che avete fatto? 
 

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Capitolo 18
*** Esserci ***


18. Esserci
 
Quattro ore prima.

Rosy si muove fra gli alberi che abbracciano gli appartamenti dei ragazzi dell’antimafia, è come casa sua quel posto. Le emozioni più grandi, gli occhi tanto desiderati. Li ha trovati fra quelle foglie, un giorno come un altro, con la paura nelle tasche e l’amore stretto nelle mani sudate. Calcaterra dovrebbe essere già rientrato, la sua auto parcheggiata fuori così fa sperare. E se fosse con Rachele? Sarebbe una pessima idea farsi trovare lì, traditrice innamorata. Quindi ripone l’orgoglio nella tasca del giubbotto di pelle e fa per andar via, quando la canna gelata di una pistola le blocca la testa. Magari è soltanto Domenico, che vuole giocare come lei ha fatto con lui quella volta. Magari sta avendo paura a vuoto, perché nessuno vorrebbe uccidere una mafiosa latitante che ha perso tutto, anche qualcosa per cui continuare a lottare veramente.
- Abate… Che sorpresa. Non fare un passo o giuro che ti ammazzo.
Lara stringe i polsi di Rosy nella sua mano sinistra, quindi la fa voltare e senza mai allontanare l’arma dal punto in cui si incrociano i suoi occhi tira fuori dalla tasca le manette.
- Era il mio sogno arrestarti, stronza. Adesso ce ne andiamo alla Duomo e ci facciamo una bella chiacchierata, ti va?
Rosy non distoglie lo sguardo dalla poliziotta, è un misto di rabbia e disprezzo nel suo viso. E’ lo schifo che prova per la sorella della donna che ha sepolto suo figlio sotto cumuli di terra nera, mentre il vulcano piangeva lava contro la morte di un bambino. Non parla, non risponde. Nessuna frase ha senso, in questo momento. Quindi si fa ammanettare e la segue ovunque la Colombo decida di andare.

- E’ stato anche troppo facile, mi sembra così assurdo -, si pavoneggia Lara, contenta di aver riportato la preda nella tana dei lupi. I colleghi la riempiono di domande, qualcuno entra nella stanza degli interrogatori in cui Rosy è tenuta da più di venti minuti senza parlare con nessuno. Poi Calcaterra si fa spazio fra tutti, strattona la collega dal braccio e la porta nel suo studio, con la rabbia che gli cola dalla fronte come sudore acido dopo alcune ore di sesso senza stimoli.
- Cosa ti è saltato in mente?
- Innanzitutto non alzare la voce con me, so quel che faccio.
- No, Lara, tu sapevi che avevamo un piano!
- E tu sapevi che le mie intenzioni erano quelle di non partecipare al tuo piano.
- Il fatto che tu decida di non stare dalla nostra parte non significa che sei autorizzata a mandare in merda i nostri progetti.
- Nostra parte, nostri progetti… Ma lo vuoi capire che sono tutte idee tue? Hai costretto tutti a fare quel che volevi tu, o dentro o fuori.
- Noi siamo una squadra, Lara, cazzo!
- Domenico siamo una squadra quando torna comodo a te! Siamo una squadra perché tu hai deciso che avevi bisogno di altre braccia per salvare la vita ad una mafiosa che da anni lasci fuggire come se non avesse importanza il suo passato!
- Rosy era l’unica strada per arrivare a De Silva, perché non lo capisci?
- Perché non rispetti le regole, Domenico, fai di testa tua e a me non sta bene. Fai quel che ti pare, esci con chi vuoi, salvi la vita a chi vuoi. Io non faccio il poliziotto per questo, io ho degli ideali, delle regole.
- E’ questo il problema? Che ti ho piantata senza una motivazione? Che la nostra storia non ha avuto futuro? E’ questo che ti turba, Lara?
- Non mi interessa più, puoi stare con quante donne vuoi, tanto vedo che non ci metti molto a rifarti no?
- Quella ragazza lavora per De Silva…
- De Silva?
- Sì, il piano prevede che arrivi a me non so a quale scopo… Rosy mi ha detto tutto, quindi devo stare al gioco se voglio capirci di più.
- Rosy, certo… Da quando Rosy si è pentita e lavora per noi?
- Da quando è l’unico modo che ci resta per prendere quei bastardi, lo vuoi capire?
- No, Domenico, io non capisco te, invece. Non capisco come fai tu a lavorare sporco. Preferisco metterci il doppio del tempo per prenderli, ma per lo meno sono pulita e non proteggo nessuno.
- Il doppio del tempo significa il doppio dei morti, è questo che vuoi? Eh? Avanti, rispondimi! Ti sembra che io abbia mai aiutato Rosy ad andare dall’altra parte del mondo? Pensi che, se avesse voluto, non se ne sarebbe già andata chissà in quale altro continente? Invece è rimasta qua e c’è una ragione, perché vuole aiutarci veramente. E quando i giochi saranno finiti tornerà in carcere, come è già successo.
- Rosy è rimasta a Catania per aiutare te, per te, perché è legata a te. Dove pensi che l’abbia trovata, Domenico? Nascosta fra i cespugli di fronte a casa tua. Non penso che era lì per me.
- E perché non l’hai lasciata andare, cazzo?
- Perché io non sono te, non ho i tuoi principi di merda e non sono innamorata di una mafiosa.
Lara volge le spalle al suo collega, quindi se ne va lasciando nella stanza solo la lunga scia di un silenzio pesante come calcinacci che piovono dal cielo. Domenico non dice nulla, è un tasto così dolente, bollente. Continua a scottarsi e lo sanno tutti, glielo dicono tutti. Ma non si arrende Domenico testa dura Calcaterra. Arriverà fino alla fine dei suoi piani, anche a costo di rimanere solo. La sua lotta ha ragioni ben precise e non si arrenderà.
Raggiunge la sala interrogatori, quindi spalanca la porta con rabbia e violenza e Rosy rinsavisce sulla sedia. Gli occhi grandi, adesso sorridono. Non c’è più niente al mondo che le offra un pizzico di gioia come quando incontra Domenico. Perché al di là di tutto, dei baci, dei contatti, loro sono vicini con uno sguardo. E a pensarci bene, nonostante le fughe, i nascondigli e le pistole, Domenico è l’unico che sia riuscito a cambiarla. E a pensarci bene, è assurdo che adesso Rosy lavori veramente per lui, seppure a modo suo.
- Che diavolo ti è saltato in mente, Rosy? -, sentenzia Mimmo fra un misto di preoccupazione e nervosismo.
- Perché, che ho fatto? E’ la poliziotta che mi ha beccato, non mi sono mica costituita.
- Non ho voglia di scherzare -, le parole di Domenico cambiano il sapore delle cose, adesso. Lo sguardo di Rosy si fa più serio, è quasi spaventata. Perché sa benissimo dove lui vuole arrivare. Chè se non si fosse messa in testa di raggiungerlo a casa sua ancora una volta, lei non sarebbe lì.
- Minchia Domenico, che ne potevo sapere che quella stava là?
- E’ pieno di sbirri là, Rosy, e tu lo sai benissimo! Che cosa pensavi di fare? Lo capisci che non sei più nella condizione di giocare a nascondino? Se scoprono… -, Domenico si ravvede, quindi abbassa il volume della voce per non essere sentito - Se scoprono che più di una volta ti ho fatta scappare ancora, finisco nei casini, lo sai questo si?
- Lo so, ma non lo verrà a sapere nessuno, stai tranquillo.
- Domenico scusami…
- Sandro bussa prima di entrare!
- Ho bussato, forse non hai sentito…
- Ha bussato…
- Grazie! -, risponde con sarcasmo Sandro, rivolgendosi a Rosy - E’ arrivato Licata, lo faccio entrare?
- Sì, fallo entrare.
- Prego, sono di qua -, replica Sandro, quindi il questore entra nella stanza senza neppure rivolgere lo sguardo all’Abate.
- Dottor Calcaterra.
- Questore.
- Bene, vedo che la prima preda l’abbiamo recuperata. Ci vuole dire qualcosa, signora Abate?
- Niente.
- Non ha niente da dire? Magari il nome di chi l’ha fatta scappare dal carcere?
- Nessuno.
- Rosy se tu non aiuti noi, noi non possiamo aiutare te.
- Calcaterra, da quando noi siamo diventati complici? No è che non me lo ricordo, sai mi sfugge.
- Signora Abate non stiamo qui a scherzare, le conviene parlare.
- Mi rifiuto di parlare.
- Va bene, tanto la galera aspetta solo lei.
- Rosy ti prego, dicci quello che sai. Lo sappiamo che è stato De Silva a farti uscire da lì… Cosa vuole da te?
- De Silva? Ma se è da un pezzo che non lo vedo! Ancora vivo è?
- Sì, è ancora vivo e pensiamo che lei lo abbia aiutato in qualcosa… O sbaglio?
- Signor questore io non ho aiutato nessuno a far niente.
- Quindi mi sta dicendo che è scappata da sola dal carcere? Sarebbe una maggiore aggravante questa, giusto dottor Calcaterra?
- Giusto.
- Non parlo, inutile.
- Non avevamo dubbi… Non ho tempo da perdere qui con lei, se ha intenzione di collaborare è sempre in tempo, ma sono consapevole che parlo a vuoto. Arrivederci.
- Dottor Licata mi ci faccia provare ancora, un ultimo tentativo -, Licata osserva un istante Calcaterra, fermi entrambi sulla porta della stanza, quindi gli concede un ultimatum.
- Calcaterra lei non è nella migliore delle posizioni, lo sa questo si? Non facciamo scherzi.
- Nessuno scherzo. Uscirò da questa sala con qualche informazione, si fidi di me.
- L’ultima volta che l’ho fatto ho scoperto che nascondeva l’Abate un po’ ovunque, adesso cosa dovrei aspettarmi?
- Non sono più quell’uomo, dottore.
- Infatti, è peggiorato.
- Grazie della fiducia -, sentenzia Domenico con un piccolo sorriso scoraggiato, quindi chiude la porta alle spalle di Licata e si siede dall’altro lato del tavolo, incolla i suoi occhi sul viso di Rosy e si aspetta che lei parli.
- E’ inutile Domenico, lo sai che non ci sto a questo gioco.
- Ma perché Rosy? Cosa è cambiato? Fino a qualche ora fa mi aiutavi, perché adesso ti rifiuti di parlare?
- Collaboro solo con te, dovresti saperlo.
- Allora parlami, Rosy, parla con me -, Domenico prende le mani di Rosy fra le sue, un calore immenso scorre fra i loro corpi, riporta alla mente l’ultima volta in cui si sono sfiorati, a casa sua.
- Ho perso colpi, Domenico. Non so più come si faccia, ormai, mi faccio beccare come una ragazzina.
- Perché sei cambiata, Rosy, la vita ti ha cambiata.
- E’ anche colpa tua, lo sai.
- Sono contento di questo -, lui sorride e, Dio, quant’è bello. I capelli sempre per i fatti loro, come se di spazzolarli non ne volesse sapere. Lo sguardo verde, l’anima calda, il cuore acceso. Domenico guarda negli occhi Rosy, intravede fra le sue cose la tristezza, un senso di vuoto che la pervade - Che c’è?
- Niente, Domenico, non c’è niente… E’ che…
- Cosa? -, lui stringe forte la sua mano, come per infonderle il coraggio di parlare, di confidarsi con lui come se non fosse più il poliziotto col quale si rifiuta di collaborare.
- Mi sento così vuota, insignificante… -, Rosy tira fuori la sua angoscia, come un bambino dall’utero di sua madre. Le parole si fanno strada fra le corde vocali piegate dalla voglia di piangere, di crollare una volta e per sempre, chè tanto quella forte che non ha paura più di niente ormai non c’è più. Resta una donna, che ha perso tutto e che di andare avanti forse non ne ha più voglia.
- Non lo sei, Rosy, lo sai che non lo sei.
- Lavorare per De Silva era un modo per distrarmi, per non pensarci… Facevo quello che voleva, senza nemmeno chiedermi come e perché. Aspettavo poi di vederti o sentirti anche solo un attimo, perché poi tornavo a sentirmi viva. Mi sento come una persona che sta morendo tutti i giorni, tutti i minuti, come se non fossi più al mondo. Poi, quando ci vediamo, sento il sangue scorrermi di nuovo in tutto il corpo, posso riascoltare il battito del mio cuore, mi ricordo ancora che il mio corpo vive e funziona. Ma quando poi… Quando poi te ne vai, ce ne andiamo, mi sembra di sparire. Come se… Se un serpente mi stesse mangiando la pelle a pezzetti -, le lacrime iniziano a scorrere lungo il viso di Rosy, che non se ne vergogna, non se ne cura affatto - Adesso che sono di nuovo qua, che là fuori non servo più a niente, mi torna tutto alla mente. Leo, i suoi sorrisi, la sua voce… Io non ce la faccio Domenico, non ce la faccio a vivere.
Domenico resta immobile, perché ogni parola di Rosy accompagnata dal temporale di ogni sua lacrima lo uccide come l’eruzione di un vulcano sotto i suoi piedi. Non può fare niente, non c’è frase che tenga. Può solo starle accanto e stringerle le dita fredde fra le sue grosse mani, chè così lei si sente viva ancora un po’. Vorrebbe dirle che lui ha bisogno di lei, ha bisogno che continui a vivere perché lui non sarebbe più nulla senza la donna della sua vita, ma forse Rosy questo già lo sa. Resta semplicemente in silenzio, a fissare le sue labbra che si lasciano bagnare dalle lacrime salate di un dolore potente. Come si sopravvive alla perdita di un figlio? Come si sopravvive al pensiero di essere una madre senza un figlio? Rosy non smette di domandarselo, Domenico non trova risposte. La verità è che la vita ha servito il conto a quella donna che tempo fa ha sbagliato strada. E’ quella la vera Rosy, quella che riuscivano a vedere gli occhi di Claudia, la stessa che Domenico ha poi scoperto con i suoi. Lui ha capito che la verità nelle persone non è mai in superficie e allora ha scavato, è andato a fondo, si è sporcato le braccia, ci ha provato e si è sporcato anche il cuore, pur di conoscerla veramente. E adesso sente che, con lei, ha perso in fondo anche lui. Puniti dalla vita allo stesso modo, senza più le persone che amavano, senza figli. Chi altri poteva unire, Dio, se non loro due? E a dirla tutta loro sono rimasti, sempre, tutte le volte. Non si sono mai allontanati, neppure quando erano distanti quanto l’immensità o anni luce, chè magari nemmeno sanno esattamente quanto grande sia un anno luce, ma nonostante tutto loro si trovavano sempre, in ogni modo, in ogni caso. Quando il sole era alto in cielo o sotto il più violento degli acquazzoni. Nell’assenza più grande dell’universo o in un mercato di gente che aumenta a dismisura. E si trovano perché sono due che si cercano, loro. Chi si ama si cerca, nonostante tutto. E molto spesso chi si cerca non sa nemmeno di amarsi. E quanto costa nascondersi l’amore? Quanto ne vale la pena? Chè tanto da un giorno all’altro la vita cambia il colore delle lenzuola e resti a fissare la finestra con le parole fra le mani, perché ormai è troppo tardi e che ti sei innamorato non gliel’hai detto più.
- Leo non c’è più… -, Rosy guarda Domenico negli occhi, questa volta, distruggendo il chiasso dei suoi pensieri numerosi nella testa. Lo guarda dritto negli occhi con i suoi bagnati di rancore e sofferenza, bagnati di domande che non troveranno mai pace. Una lacrima scivola lungo il viso, esplodendo sul punto in cui si incontrano le loro mani, dove termina la sua corsa. E’ una lacrima grigia, suggella ogni male. Allora Domenico molla la presa, si alza dalla sedia e raggiunge la sua donna dall’altro lato del tavolo, poi l’afferra per un braccio e la trascina con forza fra le sue braccia, dove Rosy si lascia morire per alcuni istanti lunghi tutta una vita. Continua a piangere, non si ferma, non si calma. Perché il battito del cuore del suo bambino suona forte nel suo petto e Domenico stringe forte sul suo cuore il dolore di lei, lasciandosi bagnare il collo dal suo viso. E’ un momento in cui va in pausa il mondo, perché non è più importante dove sono adesso e quanti sbirri ci sono là fuori, non è importante che ce ne sia uno in quella stanza e che stringa fra le braccia una mafiosa il cui posto nell’universo è un letto scomodo di una piccola cella dietro le sbarre. Domenico lo sa, sa bene che Rosy ci tornerà là dentro, ma ci sono delle volte in cui cade ogni rigore, cadono le distinzioni e le appartenenze, perché di fronte a due corpi nudi quel che resta è soltanto l’amore.
- Leo non c’è più, Domenico, Leo non c’è più… Cosa faccio io, ora che Leo non c’è più?
Resta soltanto l’amore, in quella stanza fredda come i ghiacci. Resta l’amore, una frase che non smette di risuonare, troppe lacrime si infrangono sul pavimento e due cuori che battono all’unisono. E Domenico la stringe sempre di più, per spegnere dentro di sé il dolore di lei, per farla smettere di singhiozzare, per annullare dalla sua testa il ricordo di un figlio che non c’è più e di una vita che ha perso colore e significato. E’ il conto da pagare, Rosy Abate. E paga con l’amore di Leo che se n’è andato chiamando mamma troppe volte, paga con l’amore per un uomo così diverso da lei eppure troppo uguale, paga con la sua vita, che continua nonostante tutto ricordandole quanto male ha fatto e quanto, adesso, è costretta a subirne. Se fosse un brutto sogno, se si risvegliasse a tanto tempo fa, lascerebbe le pistole e le camurrie al loro posto, eccome se lo farebbe. E’ solo che, ora, nemmeno tutto il bene del mondo potrebbe riportarle indietro quello che ha perso. Le rimane soltanto Domenico e questa volta non molla la presa. Questa volta lo sente addosso a sé e con le sue braccia stringe forte la sua schiena, il suo corpo. Si cercano, si amano. Non serve dirselo, non sempre. Chi si ama si vive, con tutte le difficoltà, con tutte le distanze. Si vivono nell’eternità di un abbraccio concesso loro una volta e chissà quando, è il loro modo di parlarsi, quello. Scambiarsi la pelle è come fare l’amore tutte le notti e tutta la notte. Esserci è amarsi, per due come loro. E va bene così, chè in una vita così complicata un abbraccio come quello è tutto ciò che serve. 
 
 

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Capitolo 19
*** Anche io ***


Buonasera a tutti! Scusate la lunga assenza, finalmente sono riuscita ad aggiornare :) ringrazio come sempre coloro che leggono e recensiscono, vi auguro buona lettura! Cesca
19. Anche io
 
- Scusate l’interruzione…
- Cazzo, ma nessuno in questo posto ha l’abitudine di bussare?
Domenico si scioglie dall’abbraccio in cui teneva imprigionata Rosy, disturbati dall’arrivo di Lara che spalanca la porta della sala interrogatori. I due visibilmente imbarazzati, mentre la poliziotta non nasconde dal suo viso la riprovazione verso quanto ha visto. Rosy spazza via le lacrime dal suo viso con la manica della sua maglia, quindi dà le spalle alla Colombo.
- Lei dovrebbe andare in carcere adesso, ordini del questore.
- Sì, dì a Licata di aspettare ancora un minuto.
- Ha detto che non può aspettare più…
- Cazzo, Lara, digli di aspettare ancora!
Lara sbatte la porta alle sue spalle, indignata per il trattamento ricevuto. Domenico ha superato ogni limite con lei, questa volta.
- Rosy, ascoltami. Devi collaborare, Rosy, collabora ti prego -, Domenico implora la donna che si è chiusa nelle spalle, con lo sguardo verso la finestra, verso un mondo che si fa sempre più grande per le sue tasche. Lui vorrebbe avvicinarsi a lei, sfiorarla ancora una volta per farla sentire meno sola. Chè poi Domenico è uno, ma quando ama riesce a dare tutto di sé, come se da un solo corpo nascessero miriadi di persone. Vorrebbe proteggere Rosy come solo lui sa fare, ma ha giocato col fuoco troppe volte, lo sbirro. Adesso gli resta solo una scatola vuota senza fiammiferi.
- Ad una sola condizione.
- Quale?
- Io parlo solo con te. Nessuno deve sapere niente di quello che ti dico.
- Lo sai che non posso Rosy, non rendere le cose più complicate…
- Io in carcere non ci torno. De Silva saprebbe come comportarsi, mi farebbe ammazzare, capirebbe che ho parlato.
- E dove pensi di stare, eh? In un bunker, che tanto ci mette due secondi a trovarti?
- All’ospedale psichiatrico. Portatemi lì e vi dirò quello che so. Ma a patto che non si sappia che sono finita lì. I giornali devono sapere che vi sono sfuggita, se De Silva capisce che mi avete presa, quello mi cerca e mi ammazza.
Domenico poggia le spalle al muro, quindi chiude gli occhi. E’ la situazione più assurda in cui si sia mai mischiato. L’acqua più profonda in cui gli sembra di annegare, la fine del mondo per uno che non sa nuotare. Rosy si gira verso di lui, con le guance ancora bagnate dal dolore come rugiada sulle prime foglie di marzo. E’ la vita lei, a guardarla negli occhi. E’ l’odore degli alberi che si rivestono dei fiorellini rosa quando si avvicina la primavera, quelli che al primo colpo di tosse del vento scendono giù, sull’asfalto e nei cappucci della gente. Sono il ricordo offerto al mondo che là fuori le cose belle non sono mai finite. Chè in fondo la natura i suoi modi per sorprendere non li esaurisce mai. Rosy è così, se solo lo volesse. E’ il bello in potenza, lei, che viene fuori solo quando un poliziotto occhi verdi e giacca in pelle le si avvicina anche solo per osservarla.
Domenico avverte la presenza di Rosy accanto a sé, non si muove, non apre gli occhi. E’ un momento che vuol vivere così, in silenzio e al buio, dove si vedono le cose più belle. E’ un gioco che fa da bambino, quello di chiudere gli occhi e immaginare e vedere e divertirsi. E’ stare bene. E’ costruire attorno a sé un mondo che poi non è mai come veramente se lo immagina. Ad occhi chiusi, sa che Rosy lo sta osservando, sa che si stanno vivendo nello stesso cubo di universo. E, a prescindere da quello che lei farà, è un istante che allunga la vita. Come lei che allunga le sue dita fino a sfiorare le labbra di lui, per sentire il suo calore fra le proprie mani. Poi, in silenzio, lo bacia, lasciando scorrere fra i denti due parole. Invisibili ma potenti, che spirano nella bocca di Domenico. “Ti amo”, gli sussurra. A labbra strette strette, per impedirgli di capire poi veramente. Non riesce mai a sbottonarsi troppo, lei. Ma sa che a Domenico glielo deve, perché lo ama veramente e perché con tutto e per tutto lui le ha dato la più grande dimostrazione d’affetto che gli fosse consentita. Ha rischiato ogni cosa per salvarle la vita. Ha rischiato il lavoro, il futuro, la felicità. Poteva scegliere di percorrere il suo cammino in auto e con un giubbotto anti proiettili, ma Domenico ha sempre preferito farlo a piedi e a dorso nudo per cercarla e scoprirla fra le strade più nascoste delle città, sui cui muri hanno disegnato il loro amore a caratteri cubitali trasparenti. E’ una cosa che appartiene a loro e a nessun altro, è un amore silenzioso. Come Rosy lo racconta a lui, in quella stanza riscaldata da vita e coraggio. Domenico non deve capire, non deve sentire. Deve avvertirlo dentro di sé, quello che prova lei, chè poi dirselo non è mica così importante, per due come loro.
- Che hai detto?
- Grazie… -, lui la guarda, un cruccio fra gli occhi, di chi si sente amabilmente preso in giro. Vorrebbe sentirselo dire ancora o forse no, per paura di non aver capito bene. Chè in fondo il mistero rende le cose più belle. Sorride giusto un po’, Domenico, mentre Rosy gli accarezza le labbra e il cuore con le sue dita fredde. Poi gli fa cenno con la testa di andare, prima che si metta nei casini ancora per lei.
Domenico fa quel che vuole Rosy, quindi esce dalla sala interrogatori dove, ad aspettarlo, trova lo sguardo indisposto dei suoi colleghi, ma l’approvazione di nessuno. Eppure è un uomo forte, Calcaterra, perché ciò che gli interessa veramente lo ha lasciato nella stanza alle sue spalle. Tutto il resto è un contorno che preferisce non mangiare.
- Dottor Licata ho bisogno di parlare con lei, se vuole seguirmi nel mio ufficio.
Il questore obbedisce al poliziotto con un cenno della testa, quindi gli sta dietro finchè non si chiudono nella stanza di Domenico, che odora di coraggio e sfacciataggine.
- L’Abate ha deciso di collaborare.
- Oh, bene, questa è una buona notizia.
- Ma ad una condizione…
- Mi sembrava strano che non ci fosse una trappola, Calcaterra.
- Non vuole essere mandata in carcere, vuole che sia diffusa la notizia ai giornali che non l’abbiamo presa. Tornerà nell’ospedale giudiziario, almeno finchè non avremo preso De Silva e chi lavora con lui.
- Mi faccia capire, Calcaterra. Siamo noi che dettiamo legge o ci facciamo dare gli ordini da una latitante?
- Lei capisce che è l’unica soluzione che abbiamo?
- Non alzi la voce con me, Calcaterra!
- Mi scusi, mi scusi… -, Domenico abbassa la testa in segno di sottomissione, poi tira fuori dal petto tutto il coraggio che ha - Rosy è l’unica che può aiutarci in questa situazione, dobbiamo lasciarci aiutare da lei e l’unico modo per farlo è accontentarla in quello che vuole.
- A me sembra che lei stia prendendo troppo in simpatia la vicenda dell’Abate, dottor Calcaterra.
- E se anche fosse, questore? -, Domenico si fa in avanti verso Licata, poggiando le sue mani sulla scrivania e non frenando le sue parole di fronte a niente, a nessuna paura - Se anche fosse come dice lei? Che c’è di male? Io ho conosciuto una donna, dottore, ho conosciuto una donna a cui la vita ha tolto tutto. Rosy Abate è cambiata, può cambiare ancora, può… Può guarire, può tornare ad essere una persona normale, può smettere di fare del male. Ha già cominciato… Poteva uccidere Veronica Colombo, poteva ammazzare la donna che ha seppellito suo figlio sotto cumuli di terra, ma non lo ha fatto. Io… Io c’ero, io l’ho vista. L’ho vista immaginare che suo figlio fosse ancora vivo, l’ho vista correre verso di lui come se non ci fosse nient’altro di importante attorno, l’ho vista buttarsi sulla terra che copriva il suo bambino, senza preoccuparsi che la Colombo potesse spararle da un momento all’altro. Ho visto la disperazione nei suoi occhi quando ha capito che suo figlio non c’era veramente più. Capisco che per lei è tutto normale, che è la giusta punizione per chi ha fatto tutto questo male, ma… Rosy può cambiare, dottore, può cambiare. Aiutiamola e lasciamoci aiutare.
- Non so cosa dirle, così, su due piedi. La sua mi sembra la preghiera di uno uscito fuori di testa. E sappia che se decidessi di accettare le condizioni dell’Abate è solo perché potrebbero sembrarmi necessarie, non di certo perché me lo ha chiesto lei.
- Certo, certo, lo capisco…
- Ne parlerò con Pulvirenti, le farò sapere. Nel frattempo l’Abate resta qui e voglio tre uomini a sorvegliarla, non lasciatela mai da sola nemmeno un istante, mai.
- Non si preoccupi dottore, tanto non scappa.
- No, da sola no, magari scappa con lei.
Licata gira le spalle a Calcaterra e lascia il suo ufficio, dove lo sbirro resta interdetto. Cerca di mettere ordine fra i pensieri che ballano nella sua mente e le parole che ha tirato fuori senza curarsi di chi avesse di fronte, quindi si passa le mani fra i capelli mentre Sandro entra nel suo ufficio.
- Ho bussato ‘stavolta, forse sei diventato un po’ sordo…
- Che c’è, Sandro?
- Niente, volevo sapere come fosse andata.
- Di merda, ecco com’è andata -, sentenzia il poliziotto accarezzando con la punta delle dita la faccia simpatica di Leonardino, imprigionato in una cornice sulla scrivania.
- Licata che ha detto?
- Mi farà sapere cosa ha deciso, ne parlerà con Pulvirenti. Nel frattempo Rosy resta qua e nessuno deve sapere che l’abbiamo presa, almeno finchè non sappiamo come muoverci. Anzi, voglio tre uomini a controllarla di continuo, uno dentro la stanza e due fuori.
- Va bene… Tu?
- Io cosa?
- Tu come stai? -, Domenico ridacchia, tirando su col naso i pensieri che gli circolano lungo tutto il corpo e non lo fanno star tranquillo.
- Prossima domanda?
- Ti ho visto con una ragazza, oggi…
- Non è come sembra. E’ una che lavora per De Silva, è una soffiata di Rosy, poi… Poi vi spiego tutto.
- Ah… Beh non mi sorprende, hai una certa propensione per questo genere di ragazze.
- Ma tu credi che per me sia facile, Sandro? Credi che abbia scelto io di chi innamorarmi?
- Innamorarti, adesso, è un parolone…
- Sì, Sandro, mi sono innamorato come una ragazzino. Che ci posso fare? Mi è successo, è capitato a me, non posso farmi un lavaggio del corpo per ripulirmi da tutto questo, non riesco a scappare… Tutte le donne che scelgo se ne vanno, muoiono sotto i miei occhi e l’unica… L’unica donna che resta in vita è… Non ho scelto io questa situazione complicata, non so come ci sono finito dentro.
- Lo so Mimmo, ma magari potresti importi di non pensarla, di non pensare a lei in quel senso.
- Ci ho provato, Sandro, sono stato con altre donne, ho provato a costruirmi un futuro da persona normale ma non ce l’ho fatta. Credi che non mi piacerebbe avere una vita come tutti? Tornare a casa e trovare mia moglie che dalla cucina mi dice cose come “amore è pronta la cena”? Mi piacerebbe, sì, ma mi sono innamorato di Rosy e non so venirne fuori. Non ti chiedo di capirmi, ma per lo meno di non giudicarmi…
- Non ti giudico, Mimmo…
- Invece sì, lo fate tutti là fuori, devo sopportare il vostro sguardo pesante di sdegno nei miei confronti perché ho scelto di proteggere lei ancora una volta… Capisco che per voi sia inaccettabile questa situazione, ma vi chiedo di rispettarla e rispettarmi, perché dobbiamo lavorare insieme e dobbiamo farlo nel migliore dei modi.
- Hai ragione, ti chiedo scusa, mi rendo conto che più che un amico per te, ultimamente, sono stato solo un maestro di vita, quando in realtà nemmeno io sono un campione di scelte.
- La mia vita fa schifo in tutto e per tutto, ho una sola cosa bella ed è chiusa in quella stanza. Non la posso vivere, non posso sfiorarla, non posso portarla a casa, non posso baciarla senza il timore di essere scoperto e punito perché ho scelto solo di amare… Io… Io non lo so come ci sono finito in questa situazione, Sandro.
Domenico si siede alla scrivania incrociando le ciocche dei suoi capelli fra le sue dita lunghe da combattente. Sandro resta a guardare l’amico e, forse, solo adesso si rende conto di quanto Domenico si ritrovi ad affrontare da solo una situazione grande quanto il mondo intero. Capisce di non essergli mai stato d’aiuto in tutto questo tempo, di avergli solo puntato il dito contro per le sue scelte, per i suoi sentimenti. Capisce che Mimmo è un uomo dal cuore grande, che ha portato avanti il suo compito nonostante tutto, senza mai passare dall’altra parte. Vorrebbe essere come lui, chè di persone così ce ne sono veramente poche.
- Io sono con te, qualunque sia la tua decisione. Se è una cosa che ti fa star bene, allora è quella giusta.
- Come fa ad essere giusta una cosa palesemente sbagliata? Sono uno sbirro che si innamora di una criminale, non è una cosa giusta.
- Non devi dare spiegazioni a nessuno, Domenico, chiaro? La vita è tua, fanne quello che ti pare.
- Mi ha cambiato… Rosy mi ha cambiato la vita. Ho imparato a vedere le cose in maniera diversa, come attraverso un filtro. In tutto quello che faccio ho paura, ho paura che possa capitare qualcosa a lei, che possa succedere qualcosa a me, paura che il destino ci separi da un momento all’altro per punirci. Perché non stiamo facendo una cosa giusta, no? Meritiamo di essere puniti per questo…
- Vivi alla giornata, non pensare a cosa può capitarvi… Prendi quello che viene.
- Penso che lei mi ami, ha provato a dirmelo… Io… Io penso di aver capito questo.
- E’ una bella cosa.
- E’ una bella cosa amare una persona che non potrai mai avere?
- Non lo so…
- Ci sono dei giorni in cui mi sento positivo, il solo pensarla mi fa stare bene, mi fa venir voglia di fare grandi cose… Poi la sera torno a casa e non c’è lei ad aspettarmi, devo immaginarla chissà in quale parte di Catania, in mano a chissà chi. Lei ha collaborato per me, è cambiata, ci ha provato a rifarsi una vita… Forse non sono stato abbastanza convincente, Sandro, non le ho chiesto di restare quando provò a scappare con Leonardino. Se glielo avessi chiesto lei avrebbe accettato e lui sarebbe ancora vivo… Ma io che ne sapevo a quel tempo, ancora non sapevo di… Di amarla…
- Non è colpa tua, Domenico. Le cose accadono perché è scritto così, è nel destino di ognuno.
- Da quando Leonardino non c’è più, io mi sento in dovere di proteggerla perché sono l’unica persona che le è rimasta. E lei è l’unica che è rimasta a me…
- Falla parlare, falle dire tutto quello che sa. Se ti ama veramente, sarà disposta a cambiare.
- Lo credo anche io… Sandro?
- Eh?
- Grazie…
- Non dirlo nemmeno.
- Sarai un buon padre, ne sono convinto.
- Ho avuto un gran maestro…
Sandro strizza l’occhio all’amico, poi col cuore stretto fra le mani lo lascia solo nel suo ufficio. Sa che alle sue spalle c’è un uomo coraggioso e forte, immischiato nella battaglia più difficile dell’universo, che non conosce altre armi se non il cuore, le carezze, le mancanze, gli abbracci. Domenico deve vedersela da solo, senza niente di tutto questo. Deve combattere la battaglia dell’amore a mani nude, sporcando il mondo del suo sangue disperato, con la speranza che dalle sue stesse parti passi poi anche Rosy. Gli ha cambiato la vita e Domenico lo sa. Ha imparato da lei, come un adulto da un bambino, e sa che può aiutarla a riscrivere il proprio destino. A quattro mani, come le migliori storie d’amore che siano mai esistite. E’ finito il gioco uno contro uno, è finito il tempo di gareggiare separati, incontrandosi negli angoli nascosti del mondo. Domenico vuole costruire il momento suo e di Rosy, vuole rincorrere la possibilità per loro con tutto se stesso e arrendersi solo dopo averci provato fino a gettare a terra il cuore come una spugna inzuppata di sudore e buone intenzioni.
Lascia il suo ufficio e la giacca di pelle poggiata sulla scrivania, quindi torna nella sala interrogatori dove trova a controllare Rosy due uomini della Duomo. Senza dare spiegazioni a nessuno, spalanca la porta e sorprende Rosy seduta alla scrivania con la testa poggiata sul palmo della mano destra. Palladino siede di fronte a lei, quindi fa per alzarsi quando Domenico irrompe nel silenzio che si è creato fra i due, come un muro di ghiaccio, ma il poliziotto gli fa segno di restare con la mano. Poi sposta lo sguardo su Rosy, che lo guarda interrogativa, le sopracciglia aggrottate, la fronte ristretta e i capelli lunghi abbandonati sulle spalle. Domenico le sorride.
- Anche io, Rosy…
Le concede giusto il tempo di fissare il movimento delle sue labbra per tradurre il significato delle sue parole, spalancare gli occhi su un uomo tanto misterioso che oggi si è aperto al mondo intero, dopo di che richiude la porta alle sue spalle e si allontana da lì. Perché Rosy lo sa, Rosy lo ha capito. Non ci vogliono grandi parole per quelli come loro, per chi si ama di nascosto incollato ai muri sottili e misteriosi della notte. Non ci vogliono spiegazioni per chi ha l’amore inciso negli occhi come una lettera scritta con inchiostro doppio su carta resistente. Loro si amano così, se lo dicono così. Senza gridarlo al mondo intero, perché il silenzio del loro sentimento ha più voce di tutti gli abitanti della terra. Sono come i primi uomini mandati nello spazio, sono i primi che camminano sull’amore in punta di piedi ma con tutto il cuore, sono i primi che scelgono di andare fino in fondo a questo gioco che vale il prezzo della vita e non saranno mai gli ultimi. Perché là fuori, da qualche parte, ci sono uomini e donne che si desiderano e si conquistano in ginocchio di fronte all’universo, mentre i colpi di pistola esplodono nell’aria attorno a loro. Non importa quante armi si sono puntati contro Rosy e Domenico. Alla fine di tutto si ritrovano qua, fra le mura della vita, a parlarsi d’amore con lo stesso linguaggio dei pizzini di Provenzano. Basta uno sguardo, a quelli che si amano, per appartenersi per sempre. Ad occhi chiusi, nel buio della notte, a prescindere da ogni regola, ogni legge, ogni ruolo. Perché ciò che conta più di tutto il resto, alla fine della giornata, è sentirsi legati alla vita di qualcuno. E in incognito, davanti agli occhi del mondo, loro due lo hanno fatto. Hanno fatto l’amore scambiandosi sorrisi, speranze, confessioni, sogni e la vita. E adesso qualcuno provi pure a separarli… 
 

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Capitolo 20
*** Sei felice? ***


20. Sei felice? 
 
- Posso?
- Sì, vieni…
Lara entra nell’ufficio di Domenico, la testa bassa ma come ruote ferme sull’asfalto, ma il serbatoio pieno di rabbia e orgoglio. Non è stato il migliore dei periodi, questo, per loro due. E poi lei non è una che lascia le cose a metà, mai leggere un libro senza arrivare al finale. E’ come lasciare una porta sempre aperta, guardarsi sempre indietro e mai avanti.
- Tieni -, poggia un foglio bianco piegato in due sulla scrivania, quindi guarda negli occhi Calcaterra aspettando una sua reazione. Lui apre il foglio, resta sbigottito.
- Che significa questo, Lara?
- Quello che c’è scritto.
- Beh, qui c’è scritto che chiedi le dimissioni…
- Infatti.
- Mi devi una spiegazione, non credi?
- Ancora? Ancora ti devo spiegare? Ma non ti è chiaro niente, Domenico?
- No, Lara, non mi è chiaro il tuo comportamento.
- Ah no? Allora lascia che ti spieghi che da quando ti sei messo in testa di proteggere i nemici io sono stata buttata fuori in strada.
- Ancora con questa storia, Lara? Mio dio non ne posso più, ma lo vedi quanti casini ci sono da affrontare tutti i santi giorni? Non ho tempo per subire anche le tue pesantezze…
- Pesantezze? Questo posto era casa mia, Domenico. Sei tu che mi stai cacciando, se non te ne fossi accorto.
- La colpa è mia? E cosa avrei fatto per cacciarti?
- Tutto e niente, decidi da solo, mi tieni fuori dalle indagini come fai con tutta la squadra fino a che non ti senti costretto a renderci partecipi, perché giustamente arriva un momento in cui hai bisogno di noi e allora ti ricordi che esistiamo, che lavoriamo con te -, sentenzia lei con ironia.
- Mi sembra che questo discorso lo abbiamo già affrontato o sbaglio?
- Sei tu che mi hai chiesto spiegazioni. Io non ho niente da aggiungere a quello che già c’è scritto nel foglio. Me ne vado, fine della questione.
- Questo lavoro è anche tuo… Se non sei d’accordo con i modi in cui agisco mi dispiace, sono fatto così e a qualcuno probabilmente sta bene. Se non sei d’accordo col fatto che io mi lasci aiutare da Rosy, allora è un altro discorso.
- Che c’entra Rosy?
- C’entra, perché sai io ci scommetto il culo che è questo che ti dà più fastidio.
- No, sai cosa? E’ che penso di averti fatto un favore a prenderla. Adesso è al chiuso, al sicuro, e tu potrai vederla quando vorrai.
- Non ti ho chiesto io di prenderla, o sbaglio?
- Senti, non ho voglia di discutere, le discussioni con te mi sfiniscono. Chiudiamola qua, passa le dimissioni a Licata e fammi sapere cosa decidono.
- Abbiamo bisogno di te…
- Adesso avete bisogno di me? Sono stata al muro per mesi, Domenico, mesi… Perché tu eri troppo impegnato a cercare Biancaneve in mezzo ai boschi per renderti conto che io ti aspettavo tutte le sere a casa e che volevo costruire una vita vera con te. Non ti sei mai accorto di quanto ci tenessi a noi, di quanto le mie intenzioni fossero serie. Invece per te sono stata solo uno stupido passatempo, il tentativo di fare una vita normale mentre la testa viaggiava altrove. Credi che non me ne accorgessi che tu pensavi a lei, mentre stavi con me? Eri solo tu lo sciocco che non se ne accorgeva.
- Adesso lo so, Lara. Mi dispiace che le cose siano andate così, credimi ci ho provato, ma c’era una forza più grande di me che mi impediva di arrivare fino in fondo con te. Non ho scelto io di innamorarmi di lei piuttosto che di te, è successo. Ti chiedo scusa se mi sono comportato male, per quel che può servire. Ma pensaci bene a questa decisione, proviamo a ripartire da zero e a dimenticare quello che è stato, concentriamoci sul nostro lavoro che è la cosa più importante, adesso.
- Forse è la più importante per te… Non ti rendi conto, vero? Il mio zero sei stato tu, Domenico. Eri tu, tutte le volte che volevo lasciarmi qualcosa alle spalle e cercavo qualcuno a cui aggrapparmi per ricominciare. Mi sono aggrappata a te tutte le volte e non mi sono accorta che tu mi portavi sempre più in basso. Solo ora mi rendo conto che non ho bisogno di te per risalire, ho bisogno di me stessa e ho bisogno di farlo altrove, lontano dal passato, lontano dai fantasmi che non mi fanno dormire la notte, lontano da mia sorella, da Rosy, da te, da tutti… Là fuori c’è la luce, qui dentro mi sento al buio, me ne devo andare.
Lara lascia l’ufficio di Domenico senza neppure attendere una sua risposta, perché l’unica cosa che voleva sentirsi dire era una valida motivazione per restare, per non andare via, perché quel posto poteva diventare la casa di entrambi. Invece Domenico è rimasto solo in un castello troppo grande con tutti i casini che si trascina dietro da troppi mesi. E se fosse lui la causa di ogni male?
- Calcaterra sei un disastro vivente -, sentenzia lui sferrando un pugno alla scrivania, i denti stretti e il dispiacere che gli cola lungo la fronte come sudore nel giorno più caldo dell’anno. La sua vita è uno scaffale di fallimenti e non sa da quale ripiano cominciare, per mettere ordine.

Catania è silenziosa, oggi. Le pistole hanno smesso di sparare, la gente di morire. Per ora.
Nella stanza dell’ospedale psichiatrico giudiziario, Rosalia Abate guarda la tv appesa nell’angolo alto del muro di fronte a lei. I piedi chiusi in un paio di stivali neri consumati dalle strade, le braccia conserte, i capelli sciolti lungo le guance rosee. Ha il viso sereno, oggi.
La guardia incaricata di piantonare la sua cella batte al cancello, “c’è una visita”, la informa. Rosy si alza sui fianchi, quindi si appoggia all’inferriata del letto che batte contro il muro. Il cancello si apre, lei sorride.
- Buongiorno.
- Ciao Domenico.
Il poliziotto entra nella stanza con un sacchetto di carta bianco fra le mani, la felicità sulla faccia come se fosse il sole. Le pieghe del suo viso non nascondono i suoi sentimenti, mai.
- Ti ho portato la colazione!
- Grazie, non dovevi…
- In realtà è la colazione dell’ospedale, ma invece di mandarti un infermiere brutto e di poche parole te l’ho portata io.
- E io che pensavo che stavi diventando un uomo galante.
- Lo sono sempre stato.
Domenico le sorride, quindi le porge una rosa rossa che nascondeva dietro la schiena, nell’altra mano. Rosy ha un’esplosione di gioia sul viso, gli occhi brillanti. Erano anni che qualcuno non le comprava un fiore, pensando a lei di fronte ad una serra piena di colori. Con la mano destra prende la rosa e la stringe fra le dita, il naso abbandonato fra i petali che questa mattina profumano di verità e belle giornate. Lui si accomoda sulla sieda sistemata accanto al letto, poi si guarda attorno. In quella stanza hanno vissuto insieme i giorni peggiori, si sono scambiati silenzi e parole che Rosy non riusciva a pronunciare. La pelle bianca e stanca, lo sguardo spento come il cuore di suo figlio, smarrito chissà in quale parte della Sicilia, un paio di lacrime lungo le guance smunte. “Mi manca dare la caccia a te”, le aveva detto. Perché qualsiasi cosa appariva più sopportabile del sapere che Leo non c’era più e che era suo, il sangue sul sedile dell’altalena consumata dal sole, abbandonata all’ex colonia. Erano rimasti solo loro due, pronti a salvarsi a vicenda. Loro due anche oggi, come ieri.
- Ti vedo bene.
- Sto meglio.
- Sono contento, mi rasserena il pensiero che stai meglio…
- Ma che ci fai qua, Domenico? Vai a lavorare invece di perdere tempo con me…
- Io sto lavorando.
- Con me?
- Sì. Sono venuto a dirti che domani cominciamo.
- Cominciamo cosa?
- Tu cominci a parlare ed io ad ascoltare, o l’hai dimenticato?
- No, sbirro, stai tranquillo. Io mantengo le promesse.
- Lo vedo -, replica Domenico. I suoi occhi si colorano di trasparenze e nostalgia, come se nelle parole di Rosy a volte lui ritrovasse circostanze che li hanno visti protagonisti. Come quando lei era tornata a prendersi Leonardino. Era una promessa anche quella e lei l’aveva mantenuta. Lui era ancora vivo e Domenico anche. Con il bambino è andato via un pezzo di entrambi, forse Rosy per sempre. Certe vite non si spengono mai da sole.
- Non che ci sia molto da sapere, adesso che io sono sparita non so come potrebbe muoversi De Silva.
- Beh, Rachele non si fa sentire da un po’… Da quel giorno che ti sei fatta beccare.
- E’ la tua collega che mi ha beccata.
- Sai che vuole andare via?
- Ah si? -, sentenzia Rosy, le sopracciglia ad arco di gabbiano, gli occhi spalancati al cielo. Sembra che la cosa la entusiasmi più che incuriosirla.
- A quanto pare ho fatto un po’ di casini, sai, dice di non trovarsi più bene, non si sente a casa.
- E’ per il lavoro o per altro?
- Più per altro che per il resto.
- Calcaterra sei un rubacuori.
- Lo ero, prima di chi capire a chi appartenere veramente.
- Non siamo di nessuno. Solo di noi stessi.
- Certo, finchè non troviamo qualcuno che ci completi. Siamo persone a metà, ricordatelo.
- Lo so, lo so… - Rosy abbassa il capo fra le ginocchia, lo sguardo basso e i sensi di colpa agitati come alberi durante un uragano.
- Stai pensando a Leo?
- Tu lo pensi mai?
- Io sempre…
- Una volta mi piacerebbe andare a trovarlo, se è possibile…
- Vedrò cosa posso fare.
- Grazie. Adesso vai, non voglio trattenerti troppo.
- Non sei tu che mi trattieni, sono io che ho piacere a restare.
- Nessuno ha voglia di rimanere al mio fianco, Domenico.
- Beh, Rosy, chiamami nessuno allora. Che ti piaccia o no, io ci sono e tu non sarai l’ennesima persona che mi ricorderà quanto è sbagliato, difficile, controcorrente, sopra ogni regola e tutte quelle parole di condanna che siamo buoni ad usare solo per gli altri. Non ho mai visto nessuno fare solo scelte giuste e se una cosa, che per tutti è sbagliata, mi fa star bene, allora per me è la cosa giusta.
- Non è giusto vivere così.
- La vita mette alla prova sempre le persone migliori, ricordalo.
- Io sono una criminale -, Rosy si autoaccusa, Domenico sorride. - Che c’è? A che pensi?
- Una volta mi dicesti che parlavo come uno sbirro… Potrei dirti lo stesso, parli come una criminale latitante.
- Sono i ruoli che ci sono capitati.
- No, Rosy, sono quelli che abbiamo scelto. Ciò che ci è capitato è diverso ed è bellissimo.
Rosy tira un sospiro lungo quanto la fine del mondo, poi alza gli occhi al cielo. Le parole belle, i per sempre e le promesse la spaventano. Lei è una per cui le cose arrivano il mattino e vanno via la sera dopo. Ci crede ben poco alle persone che restano e non fa che domandarsi tutti i giorni perché Domenico lo faccia. Lei non gli ha chiesto di esserci, di restare. Ma quando apre gli occhi lo trova puntualmente al suo fianco, una mano tesa verso di lei più che verso se stesso. Negli ultimi tempi è stato capace di mettere a repentaglio tutta la sua vita, ogni cosa di sé, compreso il suo lavoro, pur di correrle incontro e proteggerla e salvarla e coprirla. Probabilmente è ancora ferma al primo episodio di questa vicenda, Rosy, e dovrebbe chiedersi piuttosto perché Domenico faccia tutto questo per lei e non perché non vada via.
Quando gli aveva offerto il suo aiuto per vendicare Claudia, non aveva previsto di arrivare a questo punto. La vita li ha sorpresi ad innamorarsi fra le indagini, una fuga e qualche sparatoria. Un colpo di troppo ha cambiato le cose per Rosy una volta per tutte e ha unito i loro destini come colla sulle mani, di quella che da bambini era bello far asciugare e strappare via, come un sottile velo che solleticava la pelle. Loro non si sono strappati, mai.
Domenico fa una carezza delicata a Rosy, quindi si alza dalla sedia e si muove verso la porta, sotto lo sguardo sereno di lei. Poi si volta un ultimo istante, per guardarla bene e stamparla nel suo petto, bella com’è oggi.
- Oh ma lo sai che il tipo qua fuori ha i baffi sporchi di cioccolata? Gli dev’essere piaciuta la colazione, a lui! Ma che ridi? Dico davvero!
Rosy esplode in una risata immensa quanto grande è il cuore del suo sbirro, spalanca le labbra fin dove arriva la faccia e gli butta addosso la sua felicità in forma di denti bianchi e occhi lucidi. E’ divertita, è contenta. Oggi è contenta per davvero, forse come non lo era da così tanto tempo. Domenico resta fermo sul posto, incantato e catturato. Com’è bella ai suoi occhi quando ride. Com’è bella e basta. Gli sembra che stia esplodendo il mondo nel suo stomaco, tutto ciò che gli è concesso sono lunghi respiri faticosi quanto non amare la donna che è sotto il suo sguardo. E più la osserva, più capisce di aver fatto la scelta migliore del mondo, contro la disapprovazione di quasi tutti. Capisce che per troppo tempo si è negato ogni cosa, ogni felicità, si è negato di scoprire che ciò che lo faceva stare bene era a pochi passi da lui, sotto la canna della sua pistola, dietro le sue sbarre, appena dietro i suoi occhi quando di sera si chiudevano e vedeva solo lei. Capisce che Rosy è il suo posto nel mondo, chè potrebbe stare ovunque con lei ma starebbe bene in ogni caso. Perché non lo ha capito prima? Perché ci ha messo così tanto? Perché ha passato le giornate a chiedersi come potesse fare per vivere questo amore, quando in realtà la maniera più bella per sentirsi suo è semplicemente guardarla?
E’ questo che lo rende vivo e umano. E’ stare fermo su un frammento di universo, a fissarla mentre il suo sorriso si chiude timido a poco a poco, non appena Rosy si rende conto che Domenico la guarda in quel modo là, un modo speciale. E qualcuno dovrebbe vederli, dovrebbe immortalarlo il modo in cui la guarda lui. Come un uomo che sospeso nello spazio ammira le luci del mondo accendersi poco alla volta. E poi il suo non sarebbe amore? E perché complicarsi le giornate a cercare vicoli ciechi del pianeta in cui nascondersi e fare l’amore, se amarsi è già soltanto questo? Se amarsi è già soltanto un paio di occhi che brillano quando stringono addosso la vera bellezza del mondo. Rosy gli ha guarito l’anima, gli salva il respiro tutte le volte in cui lo guarda semplicemente o gli regala il più bel sorriso di sempre, come quello di oggi. E a Domenico verrebbe voglia di inginocchiarsi al centro del mondo e ringraziare il cielo per aver stretto nelle manette, un giorno all’aeroporto, i polsi di una donna che aspettava solo qualcuno che le desse un buon motivo per cambiare. Domenico potrebbe essere quel motivo, e mentre lui la aiuta a cambiare vita, lascia che lei la cambi a lui. E meglio di questo non poteva veramente chiedere, no. Niente di meglio di un sorriso come il suo, mentre i capelli lunghi le cadono morbidi lungo le guance puntellate da nei, imbarazzo e un pizzico di amore, dipinto negli occhi umidi di felicità. Perché più forte di un bacio o di una carezza stretti al muro è il linguaggio degli occhi di due come loro, che si scambiano così le più grandi lettere d’amore, frasi che non voleranno via col vento e le illusioni. E per una volta nella vita, Rosy ci sta credendo veramente. E Domenico questo lo sa. 
 

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Capitolo 21
*** Scacco matto ***


21. Scacco matto
 
- Filippo De Silva è l’uomo che stiamo cercando -, Domenico indica con il dito una lavagna bianca magnetica alle sue spalle, alla quale sono appese alcune fotografie, alcuni uomini e due donne. Potenti, bellissime. La sua squadra lo ascolta con attenzione, un solo dettaglio mancato e a farne la spese potrebbe essere la buona riuscita di ogni operazione. Da quelle fotografie, dal legame fra le facce appese sul bianco dipende il futuro delle loro azioni, adesso. - A lui risponde una ragazza, Rachele… Sappiamo solamente il suo nome e questo non è sufficiente, abbiamo bisogno di capirne di più, da dove viene, cosa la spinge a lavorare per lui, se ha un secondo fine. E poi c’è una rete di costruttori alla base che ci ha rimesso la pelle, tranne uno, Vallari. Lui ha collaborato con loro, ha fatto ciò che gli ha chiesto De Silva pur di sopravvivere. Non ha voluto collaborare con noi, invece. E’ stato interrogato più volte e ha sempre negato qualsiasi contatto con loro, soprattutto il rapimento da parte dell’Abate. Sembra quasi che ogni cosa che gli sia successa rimane un mistero e sarebbe tale, se Rosy non avesse parlato. Quest’uomo è servito a De Silva per il lavoro che fa, ha ricomprato un terreno strategico che lui voleva sottrarre al primo costruttore, Tommasi, rifiutatosi di collaborare. Ammazzarlo era il modo migliore per eliminare dalla scena una figura scomoda e così è stato anche per il secondo uomo. Vallari, invece, si è piegato al suo gioco. Sappiamo che ha riacquistato il terreno a nome di Federico Allievi, incensurato. Dobbiamo partire da qui, da lui, cercare di capire se tutti quelli che abbiamo trovato sotto questo nome possano avere un qualche legame con De Silva o se si tratti di un nome falso. Sappiamo che in quel terreno verrà costruito un grande centro commerciale per lo smistamento della cocaina, il mercato di partenza è la Russia.
- Pensi che ci sia il nome di Africanetz dietro tutto questo? -, incalza Sandro.
- Ne sono quasi certo. Rosy è sicura di aver capito che al vertice della piramide c’è una figura importante e, facendo due calcoli, il primo nome a cui mi viene da pensare è proprio lui.
- E la ragazza, Rachele? Cosa dobbiamo cercare su di lei? -, chiede curiosa Francesca.
- Qualsiasi cosa, ogni minimo dettaglio può essere fondamentale ai fini dell’indagine. Ah, c’è una cosa che non vi ho detto… Non a tutti -, Domenico si guarda intorno, si accorge solo adesso che Lara non è fra i colleghi - C’è una… Una cosa, ecco… Prima di essere arrestata, Rosy mi ha dato una soffiata. De Silva ha ordinato a Rachele di provarci con me, diciamo. Non so perché, non so a quale scopo, credo che l’obiettivo sia cercare di strapparmi informazioni su quello che so e quello che non so. Quindi in modi che non sto qui a raccontare siamo usciti insieme, ho deciso di stare al gioco e lei non sa che io so tutto. Si è presentata a me come Nadia, quindi è chiaro che se dovesse presentarsi qui, qualche volta, nessuno di noi deve farle capire che sappiamo chi è veramente. Per tutti lei resta una sconosciuta, una donna con cui mi vedo, niente di più.
- Insomma, non la definirei “niente di più”. Per essere carina, è carina… Anche parecchio -, interviene Sandro, quasi a pugnalare la tensione che si era creata. I colleghi sorridono, tranne Francesca che tira una gomitata nel fianco di Gaetano.
- Allora visto che ti piace così tanto, vai alla tua scrivania e le fai tu le ricerche su di lei, no?
- Va benissimo Mimmo, vado subito. Adesso quasi mi piace stare alla scrivania.
Nel rumore leggero delle risate di tutti, lo studio di Domenico si svuota appena prima che Sciuto gli rivolga uno sguardo di curiosità e mille domande, per saperne di più su Lara, quindi restano soli a parlarne.
- Ci hai parlato?
- Sì, dottore, non ne vuole sapere. Ma lei le dimissioni gliele ha girate a Licata?
- Ce le ho qua… -, Domenico indica una busta da lettera bianca, mischiata fra mille fogli senza nome e colore. In fondo lo sa benissimo che un’arma come Lara non può perderla, non adesso. Al di là di ogni egoismo, di ogni doppio fine, una come lei è ciò che serve a completare la squadra. Ognuno di loro è un pezzo fondamentale di cui Domenico non potrebbe fare a meno.
- Ha intenzione di consegnarle?
- Non lo so Sciuto, penso che Lara stia facendo una grossa cazzata. Me ne assumo la responsabilità, è anche colpa mia… Ma ci sono in ballo troppe cose, adesso, per…
- Per la Colombo c’è in ballo solo lei, dottore. Non so se l’ha capito, questo…
- L’ho capito, certo. Ma è una donna matura abbastanza da tener separate le due cose, si tratta solo di volerlo e di recuperare gli obiettivi verso cui puntare.
- Posso provare a parlarle ancora una volta, ma se non dovesse funzionare credo che lei debba girare la sua richiesta al questore…
Il telefono di Domenico interrompe i loro discorsi.
- Sì? Che cosa? Quando è successo? Perché non sono stato avvertito di questi spostamenti? Al diavolo! -, Domenico riattacca con violenza, spegnendo la voce che dall’altra parte della chiamata tentava di fornire una spiegazione alle sue domande.
- Che cosa succede?
- E’ assurdo… Hanno preso la Colombo.
- Lara? Com’è possibile? Come hanno fatto? Lei sta bene?
- L’altra Colombo, Sciuto… Veronica Colombo.

Calcaterra raggiunge in pochi minuti il posto dell’agguato con al seguito alcuni della sua squadra, quindi un agente lo informa dei fatti.
- Dal carcere hanno disposto il trasferimento della detenuta in un’altra sede, probabilmente era tutto architettato. Dalle prime ricostruzioni, pare che un’auto fosse appostata qui da qualche parte, ci sono segni di frenata e impronte di pneumatici fra le sterpaglie. A giudicare dai proiettili ritrovati, ipotizziamo che due uomini hanno aggredito il mezzo su cui viaggiavano alcuni agenti della penitenziaria e la Colombo. Sono morti tutti e di lei non c’è nessuna traccia.
- Chi ha disposto il trasferimento della Colombo? Il questore era stato informato?
- Dalla direzione del carcere, dicono che si è trattata di una loro decisione. La detenuta subiva aggressioni e molestie da altre donne, quindi è stata spostata.
- Cercatemi chi ha preso questa bella decisione senza informarci.
- Va bene dottore.
Domenico si abbassa sulle ginocchia, cercando nella terra tracce che possano tornargli utili, poi si avvicina ai corpi abbandonati intorno al furgone. Tre uomini, troppo giovani per andar via per sempre. Uno di loro ha la fede al dito, probabilmente a casa lascia qualcuno che attende di essere avvisato. Anche oggi, una pistola ha cambiato la vita di troppa gente. E lui non ha dubbi su chi possa essere. Ogni cosa ritorna al principio e, quanto più gli sembra di avvicinarsi alla meta, più la strada si fa lunga e piena di deviazioni e ostacoli, che riconducono tutte ad un unico nome: Filippo De Silva. Assorto nei suoi pensieri, viene distratto dallo squillo del cellulare. Sul display un nome, Nadia. Una trovata strategica, pensata per depistare ogni cosa. Magari lei lo chiama a bordo dell’auto sulla quale sta viaggiando con De Silva e la Colombo, ma non sa che Calcaterra ha ben chiare fin troppe cose. Per questo decide di rifiutare la chiamata, non è il momento adatto per giocare a capire chi è stato. Chè tanto lui già lo sa.
- Sciuto credo che dovresti avvisare Lara. Si tratta pur sempre di sua sorella.
- Lo faccio subito dottore.
- Voglio posti di blocco e controlli ovunque, spogliate la città in ogni sua strada, ricontrollate il casale in cui De Silva si rifugiava con i suoi. C’era da aspettarselo che avrebbe cambiato riparo, una volta abbandonato dall’Abate, ma se siamo fortunati nel trasloco ha perso qualcosa che a noi è sfuggita al primo controllo. Voglio quella donna e la voglio subito, prima che possa fare ancora cazzate.

Il corridoio che porta alla sua stanza si fa sempre più lungo, ogni giorno di più. Come se misurasse la voglia che lui ha di vederla ogni giorno che passa. Aumenta il desiderio, la strada si allunga. Quando poi raggiunge la meta, l’agente disposto per la custodia lo saluta con un cenno. Domenico sorride. Sorride dentro di sé, nel momento in cui i baffi che abbracciano la bocca del suo collega gli ricordano gli occhi vivi della sua donna.
Questa volta entra senza farsi annunciare, quasi ad essere la sorpresa più grande che c’è. Quando il cancello si apre, Rosy è sdraiata sul fianco, la schiena rivolta verso la porta e nessun cenno a svegliarsi. Lui si avvicina a lei, si sporge a guardarle il viso, quindi si siede accanto al suo corpo cercando di fare meno rumore possibile. Gli piace guardarla mentre dorme. Gli piace la piega dei suoi capelli sul suo viso, il canto del suo respiro, il rumore che fa il battito del cuore nel silenzio della stanza. Gli piace immaginare, dal movimento delle sue palpebre, se sta facendo un sogno bello o brutto. E immagina che quando sorride, lo fa perché sta passeggiando in strada con Leo, senza paura, senza pericoli, senza il rischio di diventare il bersaglio preferito di qualche proiettile sparato nell’aria.
Mentre lui si innamora guardandola, Rosy si sveglia all’improvviso e spalanca gli occhi al cielo bianco d’intonaco sulla sua testa.
- Domenico…
- Ben svegliata. Che fai, dormi sempre? Lo sai che ore sono? -, Rosy si gira sulla schiena spostandosi un po’ più a lato, per fare più spazio a lui sul letto. Si stropiccia gli occhi con la manica della felpa, poi si sistema i capelli. Domenico resta a guardarla senza dire niente, lo sguardo rapito dai suoi movimenti dolci. Vorrebbe dirle che è bellissima. Vorrebbe dirglielo tutti i giorni, ogni volta che la vede.
- Non devi venire qua tutti i giorni, non ce n’è bisogno.
- C’è una cosa che devi sapere -, il viso di Rosy assume un’espressione seria, questa volta. Un cruccio fra le sopracciglia, incertezze e curiosità dipinte come pieghe sulla fronte, le labbra grosse e rosse.
- Che succede?
- Hanno preso la Colombo.
- Ma come, non aveva chiesto le dimissioni? -, Domenico sorride di fronte all’ingenuità della sua donna. Appena sveglia, poi, somiglia a qualcosa come una bambina da stringere fra le braccia.
- L’altra Colombo.
L’espressione di Rosy si colora di tristezza, ricordi e pensieri negativi. Come se quel nome, quella donna e il suo ricordo riportassero alla mente quel bambino che non c’è più. Chè se lei lo avesse difeso, magari Leo sarebbe ancora vivo, quanto lo è nel cuore della sua mamma.
Domenico legge sul suo volto ogni stato d’animo di Rosy, quasi come se con Veronica Colombo di nuovo libera fra le strade di Catania ci fosse nuovamente pericolo per lei o per il suo bambino. Ma Leo non c’è più, e molte volte questa città sembra non fare più paura. La violenza è un’abitudine, gli spari di tutti i giorni sono il suono delle campane della domenica mattina. Se un uomo muore anche oggi, è tutto normale. E’ il gioco della mafia. Soltanto un altro pedone che cade sulla scacchiera.
Calcaterra avvicina la sua mano a quella di Rosy per stringere fra le sue dita le sue preoccupazioni e restituirle un pizzico di quella serenità che le è stata spezzata sotto gli occhi, poi il telefono squilla ancora una volta e interrompe l’amore nella stanza dei batticuori. 

 

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