Momentary Things

di Nona
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** prologo ***
Capitolo 2: *** School Time ***
Capitolo 3: *** Break Time ***
Capitolo 4: *** Lunch Time ***
Capitolo 5: *** Garage Time ***



Capitolo 1
*** prologo ***


Prologo

MOMENTARY THINGS

 

Sotto il Cielo c’è un Tempo per ogni Cosa

 

 

 

 

 “Stramaledettissima sveglia!”

 

Io e quell’invenzione diabolica abbiamo da sempre un rapporto conflittuale. Ho cambiato molti telefonini a causa di questa relazione violenta. Però, da quando ho avuto l’intuizione geniale di mettere la sigla di Spongebob Squarepants come suoneria, va un po’ meglio. Mi mette subito di buon umore. Per quanto io possa essere di buon umore alle sei e trenta del mattino.

Il menu del giorno consiglia: scuola, casa, noia, libro, noia, film. Siamo alla normalità.

 

 

Oddio.

 

Il menu è sbagliato! Porcaccia! Mi sono dimenticata! Ma come ho fatto? Che imbecille!

Ieri ci siamo trasferiti in città. Mioddio… Questo vuol dire che oggi è il primo giorno nella scuola nuova... che disgrazia.

Nuova città, nuova casa, nuova scuola. Dubito che riuscirò a resistere alla devastazione psicologica che questi stravolgimenti scateneranno. Già non stavo bene prima, figuriamoci adesso! Vengo da un paesetto più piccolo del quartiere in cui vivo ora. La mia casa nuova però è come quella vecchia, e inizia a diventare un problema, perchè adesso c’è una persona in più, quindi staremo un po’ strettini. Io, mio fratello e nostra madre siamo venuti ad abitare con il mio nuovo patrigno Biagio. A quanto pare sono insieme da due anni, anche se affermano che si sono conosciuti sei mesi fa. Io non mi ero accorta di niente, come al solito, ma mio fratello, che si è preso tutto il cervello che il nostro papi ci ha lasciato in eredità, aveva sentito odore d’amore anche prima di nostra madre. Così ci siamo trasferiti in questa metropoli, tutti assieme. Spero di sopravvivere.

Nota dell'autrice:

Da decadi leggo le vostre storie qui su efp. Non ho mai avuto il coraggio di pubblicare la mia, ma finalmente mi sono decisa. Voglio capire seriamente se devo darmi all'ippica o posso nutrire ancora speranze sul mio futuro creativo. Se riuscirò a farvi ridere, anzi, se riuscirò solo a farvela piacere un pochino, sarò contenta.
Sono anni che porto avanti questa storia. L'ho iniziata alle superiori, e i miei protagonisti sono rimasti lì. Spero comunque che piaccia anche a chi ha qualche anno in più.
Vediamo intanto se qualcuno la trova! Posterò il primo capitolo, "School Time", domani sera. Saluti! Nona

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Capitolo 2
*** School Time ***


School Time

School Time

 

 

Era una merda nella vecchia scuola, sarà una merda in quella nuova. Garantito al limone. Da casa a scuola c’è un bel po’ di strada. Magari mi capita qualcosa di meglio da fare.
Accipicchia, la metro è strapiena. E dire che sono quasi in ritardo. Oh! Un posto, viva! No, mi correggo. C’è un vecchietto che non sembra tanto stabile su quelle gambine rachitiche a parentesi. Gli cedo il posto. Mi sorride, sono contenta. Accidenti alla mia mania per i vecchiettini!
Madò, non respiro. Sono schiacciata tra un impiegato dall’ascella putrida e un gruppo di ragazzine circondate da un alone di profumo micidiale.
Mi piace la metro. Si va sottoterra, si corre veloce… e soprattutto annunciano la fermata, quindi è difficile sbagliare. Però le porte restano aperte per tipo dieci secondi, se va bene. Ti devi catapultare fuori spingendo e sgomitando.
Ho sempre il terrore di saltare la fermata, o di prendere il treno sbagliato, quindi sono costantemente all’erta. Sarebbe una paura irrazionale, come la Barofobia e la Dextrophobia, se non fosse che mi è già successo più di una volta. Ho persino preso il treno sbagliato!
Oh, la fermata! Evviva. Salva.

La scuola è a due isolati dall’uscita della metro. Oddio. Non voglio. Posso tornare indietro? No, non posso. Come mi fa notare un ragazzo in vespa che mi urla di scansarmi e muovermi ad entrare, mentre tira sotto uno per parcheggiare. Cavolo. Dal cancello al portone sono 27 passi. Sono dentro. Diamine! Cerco la segreteria. Prego che la mia iscrizione sia andata persa nella posta. O nella pasta. E invece niente. Sono di fronte alla mia nuova classe. Non voglio entrare. Voglio scappare. Ma la bidella mi tiene stretto il braccio in una morsa di ferro. Dannata! Ecco, inizia la mia veglia funebre. La bidella bussa e mi trascina dentro. Non voglio. Aiuto. Ma, miracolo. ll professore non mi vede neanche. Non si accorge dell’interruzione, e continua a leggere il libro. Di solito uno studente nuovo, entrato per di più ad anno già iniziato, lo mettono alla gogna davanti alla classe. Questo prof sembra uno zombie brillo che non ha la più pallida idea del perché si trovi in una classe. Insegna - forse - matematica e fisica. Non credo che andremo d’accordo. Come già detto, è mio fratello il cervello di casa. Però le materie scientifiche mi affascinano. In quarta elementare ho fatto esplodere la rana Gina, e con lei il laboratorio di scienze. Poverina…

Striscio contro la parete fino ad un banco libero in quinta fila. I ragazzi hanno alzato lo sguardo, e qualcuno commenta neanche tanto a bassa voce, ma nessuno mi rivolge la parola. Magnifico. Il mio compagno di banco è semisvenuto sul libro aperto, con la bava che ha formato un rivolo dal mento fino al capitolo sulle funzioni Lagrangiane.  Inizio quasi a pensare che me la caverò.

La prima ora passa veloce. Non ho neanche il tempo di mettere la mia roba sul banco che già suona la campanella. Che qui in città ha un suono diverso. Anzi, giusto. Proprio da campanella. “Driiiiiin!” Nella mia vecchia scuola invece era una campan-ella. Una campana piccolina. Le bidelle, anzi La Bidella, una sola, scampanettava a mano. “Diiiiin… Doooon…” terribile.
Adesso ci dovrebbe essere storia. Anche se la insegnano così tanto nessuno si accorge che l’umanità ripete gli stessi errori, e visto che questi sono documentati, potremmo benissimo evitarli. Altro che homo sapiens.

Appena il prof esce dall’aula, vengo assalita dalle mie nuove compagne. Sembrano le Barbie. Io non ci ho mai giocato. Che infanzia triste.
Sono circondata da Barbie-stampini, tutte uguali. E sono tutte così rosa… Una si fa avanti, dev’essere la capo branco. In effetti è più bella delle altre. Borbotta qualcosa, sembra una teiera, e mi squadra da capo a piedi. Poi si gira e si mette a confabulare con le sue Barbie-adepte. Si rigira e mi scandisce bene (credo tema che io sia cerebralmente inferiore a causa delle mie origini contadine):
“Devi cambiare vestiti, cambiare pettinatura, cambiare taglia. Ti possiamo aiutare, non temere. Benvenuta.”

Quasi mi ribalto dalle risate, dentro. Fuori mi scappa giusto uno sbuffo e mi si storce la bocca. Riesco a biascicare qualcosa, ma le Barbie non capiscono. Allora ripeto.
“Non sento il bisogno di cambiare vestiti, pettinatura, taglia e cervello. Il mio mi piace e me lo tengo. Grazie per l’offerta, ma devo declinare l’invito. Nella mia vecchia scuola ero il presidente onorario del club dei perdenti, e ho tutta l’intenzione di insidiarmi anche qua.”
“Ma… ma…”
Qualche Barbie protesta, o almeno tenta, agitata ed indignata.
La Barbie-boss prende parola:
“E così hai scelto. Attenta, hai finito ancora prima di incominciare.”
Eeeeeh, che esagerata!
Oh, la profe è arrivata. Le Barbie aspettano che la leader giri i tacchi, e si posizionano ai loro posti.

E vabbè. Speravo di passare l’ultimo anno senza essere vista, ma così è sicuramente più divertente.

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Capitolo 3
*** Break Time ***


Break Time

Break Time

 

 

“Driiiiiiiin!”

Accidenti, è già finita storia. Ma mi sono appena seduta! Autrice scansafatiche.

Oh, la mia prima ricreazione. Devo capire un po’ come funziona qui, e non c’è momento migliore della pausa. Gli studenti si dividono in gruppi, delineano i posti riservati e quelli di dominio pubblico, gli angoli dove gente come me può sperare di restare incolume almeno fino all’ora di pranzo.
Ma soprattutto devo studiare la mia classe. Il gruppo delle Barbie domina incontrastato in numero e in potenza di fuoco. E non ha degni rivali. Oltre a loro ci sono: un gruppetto di cinque ragazzi teppisti; uno, immancabile, di sfigati; i Belli, che stanno lontani dagli altri per paura di insudiciarsi; e qualche triste studente solitario che fa finta di studiare per non pensare a quanto la vita sia ingiusta. Benvenuti in quinta J! Vado a fare un giretto fuori, và.

Gli studenti si radunano alle macchinette e fuori in giardino. Per prendere una lattina ho dovuto spendere il doppio dei soldi, fare tre figuracce e mordere al braccio un ragazzo. Accidenti. Nella mia scuola non c’era neanche un distributore di lattine.

Passo le ultime tre ore della mattinata a studiare la posizione più comoda sulla sedia, a migliorare le mie scarpe ed a personalizzarmi il banco. C’erano delle scritte precedenti “Le Plastiche Regnano”, “Laura Baldracca”, ma con molta cura e precisione le ho cancellate, qualche volta scrostando direttamente il rivestimento marrone chiaro – anzi beige con una punta di giallo – e le ho sostituite con disegnini e atti di proprietà su quest’immobile. Che poi tanto immobile non è, visto che al mio ritorno dalla pausa tra la lezione d’inglese e quella di filosofia non c’è più. Ma dove l’avranno ficcato? Cacchio, è un banco, mica una matita!
Maledette Barbie. È sul terrazzino. Questa classe è molto grande, ed è dotata di un terrazzino di un metro per due, che regge le aste delle bandiere. Difatti il banco non ci sta, ed è mezzo fuori, pericolosamente dondolante. L’ho trovato grazie alla scia a mò di Pollicino di penne e fogli caduti dal sottobanco. Il professore di filosofia è a dir poco indignato, e minaccia una nota di demerito collettiva. Si lancia in un monologo tragico da palcoscenico sull’amicizia e la tolleranza, soprattutto per ragazzi nuovi e con evidenti (evidenti) problemi di socializzazione e comprensione di altre culture. Ma che credono, che vengo dal Burundi? Abitavo a 45 chilometri da qui, in periferia… madonna, ‘sti cittadini.
Il docente di quella superpalla costruita su cazzate megagalattiche dette da annoiati allucinati, ossia filosofia, viene identificato come Il Pera, dal colorito giallognolo da ittero e la forma – appunto – a pera. Sembra un birillo, ecco. Ondeggia invece di camminare. È il responsabile della quinta J, nota all’interno dell’edificio scolastico per i suoi studenti strafatti che controllano con ricatti e soprusi il giro di sostanze illegali della scuola.

Il Pera cerca studenti impreparati per l’interrogazione a sorpresa, miete vittime una dopo l’altra, distribuendo con gaudio e tripudio voti dall’uno al quattro. Io, nuova arrivata, per questa volta sono salva.

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Capitolo 4
*** Lunch Time ***


Lunch Time

Lunch Time

 

 

È dura, ormai lo sappiamo. È sempre uno schifo il primo giorno, il primo pranzo. Ma sopravviverò. E senza ulteriori indugi, vi conduco in mensa. Solita mensa, sono tutte uguali. Tanti tavoli da sei, un lungo bancone con il buffet. Ho scelto questa scuola solo per la mensa, è ottima. Per il resto, una scuola vale l’altra, anche se la Mater voleva che andassi alla scuola privata San Giuliano, perché hanno una divisa bellissimissima…

La fatica è trovare posto a sedere. Grazie ai tavolini gli studenti sono tutti divisi in gruppi, e quindi è facile riconoscere i luoghi neutrali da quelli off-limits. Le Barbie della mia classe si uniscono a quelle delle altre e occupano, solo loro, sedici tavoli. Sono quasi un terzo degli studenti della scuola. Cioè, accidenti se siamo messi male. Trovo la Green Zone in fondo a destra, e mi avvio. Anche se tanto neutra non è neppure quella, perché anche tra i brutti, gli sfigati e gli emarginati c’è discriminazione e astio. Per quelli messi un po’ meglio di loro.

Parlando d’altro, non vedo l’ora di ingozzarmi di purè e cotoletta. E mentre penso a questo, mentre sbavo con gli occhi sul piatto, sbatto contro una persona. Mi dò dell’imbecille quando spalmo la mia maglia e la sua di purè, quando la cotoletta va a finire sulle sue scarpe, e quando il dessert – addirittura due palline di profiterole - si spiaccica in testa ad un tipo seduto al tavolo alla mia sinistra. Mi scuso mille volte, cercando di riparare ai vari danni, pensando che, oddio è un ragazzo, e anche se magrissimo, adesso mi beccherò una randellata coi fiocchi. Invece il magnanimo ragazzo ride, senza cattiveria o ironia, ride della situazione, come se per lui fosse solo un gran divertimento alla faccia della giornata piatta e noiosa.
Ho finito di ripulire come meglio ho potuto la testa dell’altro tipo, che comunque mi ha già detto che mi aspetta fuori dopo le lezioni per farmela pagare. Il mingherlino, registrato all’anagrafe come Stefan Stein, di mamma tedesca, mi ha fatto sedere al suo tavolo (L come Loser, ovvio) e mi ha dato metà del suo pranzo, perfino un profiterole! Santo ragazzo. E così ho concluso la mia prima pausa pranzo non proprio incolume ma con il posto assicurato ed un nuovo amichetto.

Manca tutto il pomeriggio, ma sono quasi di buon umore.

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Capitolo 5
*** Garage Time ***


Garage Time

Garage Time

 

 

Tutto il buonumore accumulato è svanito in un soffio. In questo momento sono in piena crisi di nervi. Ma come si fa, dico io? Come si fa a sopportare questo strazio? Occorre sapere che mio fratello, Sam, visto che ha tutto lo spazio possibile dal collo in su occupato dal cervello, manca di altre parti anatomiche fondamentali, come i vari elementi di un orecchio, e il buongusto, la decenza…
Fa parte di una band amatoriale da più di due anni, i Papa Boyz. Cioè. I Papa Boyz. Vi rendete conto? A parte il nome, questo gruppo di sfigati fa proprio schifo. Ma schifo schifo. Non lo schifo che fanno i Jonas Brothers o Justin Bieber ad un metallaro. Fanno schifissimo. E suonano ogni santo pomeriggio sotto la mia stanza.
Dio, perché, Dio, perché mi fai questo?
Quel rimbecillito di mio fratello suona il flauto. Il flauto! Non ho altro da aggiungere.
Con lui ci sono altri quattro cerebrolesi; il vocalist, un tappo di quattordici anni che canta come Britney Spears; il tastierista, che sembra un maiale e con quelle dita porcelline schiaccia tre tasti al posto di uno; il chitarrista, che avrà sì e no undici anni e la chitarra pesa più di lui (però è bravino) e il batterista, che ha l’età di mio fratello (quindici anni) ma sembra averne almeno il doppio, ed è un pusher pluribocciato. Che cacchio di gruppo di malati mentali. E suonassero rock! Suonano robaccia commerciale, canzoncine pop... porca pupazza. Preferisco andare a lavorare, piuttosto che ascoltare ancora un minuto di questo strazio.
La Mater e il suo uomo hanno aperto un ristorante. “La Mucca Rosa”.
Si capisce infine da dove arrivi la creatività di Sam.
È due isolati più a nord, quindi vado a piedi. Mi piace camminare. Sia con la musica, e potrei andare avanti per ore, ma anche senza niente, ascoltando i suoni che mi circondano. Certo, qui si sente solo il traffico e l’isteria collettiva, a differenza del mio vecchio paese. Cazzo, mi manca tantissimo. Ovviamente quando stavo là mi lamentavo in continuazione. Sia per la totale mancanza di qualsivoglia forma di intrattenimento, sia perché gli esseri viventi presenti erano pressoché inutili al mio svago, visto che i bipedi avevano tutti superato abbondantemente i cent’anni, e i quadrupedi non potevano intrattenere un discorso coerente. Alla fin fine però, il paragone non esiste. Le passeggiate in mezzo alla natura e i suoi suoni qui non si trovano.

“Biagioooooo, ciaoooo!”
“Ciao Principessa! Qual buon vento! Non dirmi che hai voglia di lavorare!”
“Ha! Spiritoso!”
“Ciao tesoro! Sei venuta a darci una mano?”
“Ciao, mamma… penso di sì. O meglio, a casa ci sono i Papa Boyz e sono senza un soldo, quindi questo è il mio unico rifugio…”
“Buahahaha lo sapevo che era per i Papaz!”
“Vado di là allora”
“Lucerto, Principessa!”

Il mio grembiule è rosa. A parte questo, lavorare qui non mi dispiace, è quasi divertente. Che poi un vero lavoro non è. È solo sfruttamento bello e buono. Non mi danno un centesimo! Biagio, quel sadico, dice che ho vitto e alloggio gratis, e meglio di così… Mi sembra d’essere un’estranea e non una figlia! Che cattivi!

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