L'orrore! Oh, l'orrore!

di Layla
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Poveglia I (l'importanza dei forse) ***
Capitolo 2: *** Poveglia II (l'inferno è vuoto, tutti i diavoli sono qui). ***
Capitolo 3: *** Poveglia III (un messaggio dai morti) ***
Capitolo 4: *** La scala verso l'inferno. ***
Capitolo 5: *** Il motel delle notti di neve. ***



Capitolo 1
*** Poveglia I (l'importanza dei forse) ***


Poveglia I (l'importanza dei forse)

L’idea di andare a Venezia, naturalmente è venuta a me.
Le donne hanno sempre idee più brillanti degli uomini, stando alla media, se poi si ha a che fare con un eterno bambino come Mark Hoppus, è abbastanza facile avere idee migliori.
Non che lui sia stupido, è che ogni tanto vive un po’ troppo nel suo mondo fatto di video games, social network e musica e perde contatto con la realtà, quindi l’idea è stata mia.
Mi è venuta guardavo fuori dalla finestra la pioggia cadere per l’ennesimo giorno a Londra, la finestra era solcata da gocce, potevo vedere quello che accadeva nella strada sotto il nostro appartamento e il mio volto: quello di una donna sui quarant’anni con i capelli biondi e delle meches fucsia, che non si era potuta concedere in gioventù.
Signori e signore, ecco Skye Hoppus.
“Mark!”
Lui ha smesso di insegnare come si suona il basso a Jack e ha rivolto la sua attenzione verso di me.
“Cosa ne dici se ci concedessimo un week-end a Venezia?”
Lui mi ha guardato, ha guardato la tetraggine che regnava fuori da casa nostra e ha annuito.
“Penso sia una bellissima idea, organizzi tutto tu, vero?”
“Certo, tesoro.
Almeno vedremo il sole.”
Per due californiani come noi stare in una città così piovosa come Londra è quasi un trauma, i primi tempi eravamo eccitati dalla novità, poi ci è venuta a noia, alla fine ci abbiamo fatto l’abitudine.
Mark riprende a suonare con Jack, in camera nostra sono pronte le sue valigie, domani andrà a New York per registrare il suo programma, Hoppus on music.
Non gli pesa molto viaggiare da un continente all’altro, il pigrone della compagnia è Tom, Jen ha serie difficoltà a smuoverlo da San Diego.
Visto che l’idea è stata accettata mi metto ai fornelli e cerco di cucinare un burrito, Mark apprezza questi tentativi di cucina messicana perché sa che li faccio solo per lui, a me la cucina troppo piccante non piace.
Al nostro  primo appuntamento mi sono quasi soffocata con un piatto troppo piccante di cui non ricordo il nome, Mark mi batteva sulla schiena e tentava di farmi bere e mangiare del pane,: è stato abbastanza comico nella sua surrealità.
“Ragazzi, staccatevi dai bassi e venite a mangiare!”
Loro arrivano sorridenti, hanno lo stesso identico sorriso radioso.
“Stasera la mamma ha fatto messicano, evviva!”
Esclama Jack correndo al suo posto,
Io servo i burrito in tavola e mangiamo in silenzio, quando c’è di mezzo il cibo quei due non parlano molto.
Finito di mangiare Jack si siede a tavola per finire gli ultimi compiti e Mark si fa una lunga doccia, io intanto prenoto hotel e volo per Venezia.
Tra una settimana saremo nella laguna veneta a fare i turisti!
Poco dopo Mark esce dal bagno, mi abbraccia, mi bacia e mi sussurra “Buonanotte” all’orecchio, io gli sorrido e gli lancio un bacio.
Torno in salotto e appoggio una mano sulla spalla di Jack.
“Tesorino mio ritardatario.”
“Sì, mamma?”
“È ora di andare  a letto.”
“Finisco un paio di operazione e lo faccio.”
Mi risponde sbadigliando, io controllo il quaderno e annuisco.

 

Un quarto d’ora sto rimboccando le coperte al mio cucciolo e gli sto dando un bacio della buonanotte sulla fronte. È il nostro rito segreto, ora che è troppo grande per le fiabe.
Dovrei andare a letto anche io, invece accendo il portatile e – mentre aspetto che si avvii – esco in terrazza a fumare una sigaretta.
Ha smesso di piovere, ma nell’aria c’è ancora odore di pioggia e sento il suono lontano di un violino, chissà chi e perché lo starà suonando.
Finita la mia sigaretta, torno dentro e mi siedo al pc con una tazza di the caldo tra le mani.
Ci sono un sacco di leggende su Venezia e voglio farmi un’idea di cosa ci aspetti e se c’è qualcosa che valga la pena di visitare. Il mio occhio cade sul nome “Poveglia.” È un’isoletta della laguna, privata e inaccessibile ai turisti, nel Seicento era un lazzaretto in cui venivano portati i cadaveri degli appestati, appestati e gente che si sospettava covare il morbo. Un bel posticino insomma e come tocco finale è stato un manicomio negli anni ’20 in cui il direttore sperimentava nuovi metodi sui suoi pazienti fino al giorno del suo suicidio. Un suicidio misterioso, si è buttato dalla torre dell’edificio e si dice che una strana nebbiolina lo abbia soffocato.
I veneziano ne hanno paura, dicono sia difficile che ti ci portino. Beh, lo scoprirò settimana prossima, visto che ho intenzione di fare un salto a Poveglia.
Vado a letto, sbadigliando vistosamente.
Domani dovrò alzarmi presto per salutare Mark, portare Jack a scuola e andare al lavoro.
La solita routine.
La mattina dopo Mark si alza alle sei, mi saluta con un bacio, poi sparisce in cucina a fare colazione e in bagno a farsi un’altra doccia. Io poltrisco a letto in attesa che si affacci a prendere le sue valigie, cosa che succede abbastanza rapidamente.
“Buongiorno, amore e buon lavoro.”
“Buon lavoro anche a te.”
Esce dal nostro appartamento, io sbadiglio e mi dico che posso dormire ancora per un’ora prima di svegliare Jack.
Alle sette la sveglia suona implacabile e io mi sveglio con un grugnito, mi faccio la doccia e vado a chiamare mio figlio, dopo qualche tentativo si sveglia.
Facciamo colazione, lui si lava e ci cambiamo, poi saliamo nella mia macchina.
“Papà è a New York?”
“Sì, esattamente.
“Un giorno ci andremo anche noi?”
“Uhm, sì. Magari per Natale, settimana prossima andiamo a Venezia, sei contento?”
“Sììì!”
La cosa migliore con Jack è che è sempre di buon umore e vede il lato positivo delle cose, non ci ha nemmeno tenuto molto ad ambientarsi a scuola.
È un bambino speciale.

 

La settimana dopo siamo sbarcati all’aeroporto di Venezia-Mestre.
È una giornata incerta, il sole fa capolino ogni tanto dalle nuvole e i nostri bagagli sono in ritardo, quando finalmente li abbiamo recuperati, facciamo fatica a trovare un taxi.
Trovato uno ci conduce da dove partono i traghetti, ci aiuta a caricare sulla nave i bagagli e poi ci augura di passare una buona vacanza.
Io spero di non sentirmi male, visto che io e le barche abbiamo un rapporto tragico, una volta Mark mi ha portato a fare un giro in barca e ho vomitato tutto il tempo.
Una volta sul traghetto mi siedo su una delle banchine e ammiro la distesa d’acqua, interrotta ogni tanto da qualche palo e dal passaggio di altre barche e gondole.
Forse questa volta il mal di mare mi ha risparmiato.
Sbarchiamo e ci guardiamo attorno, stando alla cartina il nostro hotel è vicino a piazza San Marco, così trasciniamo diligentemente i nostri trolley e valige in giro per la città, guardandoci in giro meravigliati.
Arriviamo al hotel e depositiamo Mark e la nostra roba in camera, Mark giura che sistemerà tutto, io potrei giurare che invece si metterà a dormire come un sasso.
Decido di portare con me mio figlio solo perché è iperattivo e non dormirebbe mai, io invece voglio andare a cercare qualcuno che ci porti a Poveglia.
“Vengo anche io, vero mamma?”
“No, tu sei piccolo.”
Lui mette il broncio, odia quando gli dico questa frase.
Credo che tutti i bambini odino questa frase, ma purtroppo questa volta ho le mie ragioni per dirgliela, non posso certo portarlo in un’isola popolata da chissà che cosa, non sono nemmeno certa che venga Mark.
Gironzoliamo un po’ e chiedo a gondolieri e pescatori, ma tutti mi dicono categoricamente di no, anche di fronte ai miei dollari.
Sto per mollare quando mi sento chiamare, mi volto e mi trovo davanti a un ragazzo di venticinque anni circa vestito da rapper.
“Sì?”
“Ho sentito che vuole andare a Poveglia.”
“La mia intenzione sarebbe quella, ma nessuno mi ci vuole portare.”
Lui sospira.
“Hanno le loro ragioni, su quell’isola c’è qualcosa. Se vuole la posso portare io, ho una barca.”
“Quanto vuoi?”
Lui alza una mano come a dire che non vuole niente.
“Vorrei una foto con suo marito.”
Io sgrano gli occhi, lui ride.
“L’ho riconosciuta, lei è Skye Hoppus e questo è Jack.”
“Oh, wow! Va bene, penso che Mark non farà storie.”
Lui sorride.
“Va bene, ci vediamo al lido verso le otto.”
“Va bene e grazie ancora.”
“Non mi ringrazi, non le sto facendo un favore.”
Si allontana a passo leggermente strascicato, io esulto, finalmente ce l’ho fatta, qualcuno ci porterà là! Non vedo l’ora di dirlo a Mark!
Io e Jack torniamo in albergo e gli concedo di prendersi un gelato sulla via, almeno ci rimarrà meno male per stasera. Arrivati in hotel chiedo alla ragazza che c’è alla hall se per caso conosce il numero di qualche brava babysitter perché stasera io e Mark dobbiamo uscire e non possiamo portarci dietro Jack.
Lei sorride e mi porge un bigliettino.
“È la mia migliore amica ed è un’ottima babysitter.”
“Grazie mille, la chiamerò subito.”
Prima però ne devo parlare con Mark e sperare che accetti.
Apriamo la porta della nostra camera e troviamo i bagagli più o meno a posto e Mark che dorme sul letto, io mi siedo accanto a lui e lo scuoto leggermente.
Lui si sveglia e mi sorride.
“Quanti negozi hai svaligiato mentre dormivo?”
“Nessuno, però ho prenotato una barca per andare in un’isola stregata stasera.”
Lui si alza di scatto e mi guarda come se fossi pazza.
“Scusa?!”
Gli racconto succintamente la storia di Poveglia, il mio desiderio di vederla e l’incontro con il ragazzo, lui scuote la testa.
“Pensavo ti fosse passata questa fissa per le case o altro stregate.”
“Temo non mi passerà mai.”
“Se io ti dicessi di no, tu ci andresti da sola, giusto?”
“Giusto.”
Lui sbuffa.
“Va bene, perché passare la notte in un comodo letto quando possiamo passare la notte all’addiaccio su un’isola stregata?
Io rido.
“Chiamo la babysitter per Jack allora.”
“Chiamala, chiamala.”
Io compongo il numero che mi ha dato la ragazza alla reception e mi risponde una voce femminile.
“Ciao, sono una delle clienti del hotel Danieli.
La tua amica alla reception mi ha dato il tuo numero, scusa per lo scarso preavviso, ma avrei bisogno di una babysitter per stasera e per stanotte.”
“Va bene, tanto sono libera.”
“Bene, ci vediamo stasera alle sette e mezza. Sono Skye Hoppus, camera 310.”
“Hoppus?!”
La sua voce trasuda una certa incredulità felice.
“Hoppus, se vuoi Mark ti fa un autografo.”
“Sarebbe troppo chiedere anche una foto?”
Mi chiede con una vocina sottile.
“No, penso di no. A stasera allora.”
Mark ride di gusto.
“Mi stai usando come merce di scambio, tra poco venderai anche il mio corpo!”
Io lo fulmino.
“Quello è mio e non si tocca, non è colpa mia se hai tanti fan!”
Lui ride e io mi risollevo: il rumore della sua risata è uno dei migliori al mondo.

 

Il pomeriggio lo passiamo passeggiando.
Mark indossa un paio di occhiali da sole scuri e ogni tanto si ferma per fare delle foto con il cellulare, come i ragazzini e come loro scommetto che presto le caricherà su Instagram o twitter come a sfidare i suoi fan a trovarlo.
Lui sembra tranquillo, in me invece cresce una sottile angoscia. Stamattina ero Skye che forse sarebbe andata a Poveglia per passare una notte da brivido, adesso sono la Skye che andrà a Poveglia e ho la curiosa sensazione che l’isola mi parli. Non sono parole dolci, sono taglienti avvertimenti di stare alla larga.
Io cerco di alzare le spalle e non dare loro retta, mi dico che sono solo suggestioni che derivano dalla sua cattiva fama e dall’atteggiamento che assumono tutti quando si pronuncia il nome.
Insomma, non potrà esserci davvero qualcosa in un mucchio di rovine?
In fondo sarà solo una notte passata all’addiaccio sperando che l’ospedale o la chiesa non ci cadano in testa.
O no?
Forse le storie sono vere, forse è davvero pericoloso andarci e io sto mettendo in pericolo la mia famiglia. È incredibile come una parola piccola come “forse” possa cambiare le cose nella tua testa.
“Skye?”
Il suono della voce di Mark mi fa tornare in me.
“Sì?”
“Hai visto qualcosa che ti piace in quella vetrina? È un po’ che sei lì ferma.”
Io noto solo ora che mi sono fermata in una vetrina di oggetti in vetro, oh merda!
“Ehm, quel set di bicchieri è molto bello!”
Indico un set di bicchieri rossi decorati d’oro, lui annuisce.
“Vuoi che li prendiamo?”
“Ehm, perché no?
Forza entriamo!”
Sì, entriamo e tu torna in te Skye Everly Hoppus.
Entriamo nel negozio e compriamo i bicchieri, Mark però non sembra essersela bevuta perché mi si affianca e mi prende per mano solo per ottenere l’effetto che Jack si allontani di qualche passo schifato.
“Cosa avevi prima?”
“Prima? Assolutamente nulla, stavo guardando una vetrina come fanno milioni di persone.”
“Sì, la stavi guardando così attentamente che quando ti ho chiesto cosa ti piacesse sei caduta dalle nuvole.”
Io sbuffo.
“Mark, erano pensieri miei, niente di grave.”
“Non è che hai paura?”
“Io? NO!”
Lui mi guarda e scuote la testa.
“Se lo dici tu.”
Io non gli rispondo, non so per quale motivo non voglio che lui sappia che una sottile ansia ha preso possesso di me. Non voglio che mi prenda in giro, soprattutto quando arriverò alla parte: “Per me sono gli spettri dell’isola che ci stanno cacciando!”, perché è una frase da pazza.
Nessuno mi crederebbe, o no?
Forse i veneziani, ma non mio marito.
Mi distraggo ancora un attimo e non mi accorgo che un gabbiano gigantesco ha preso il volo davanti a me, me ne accorgo solo quando è a venti centimetri dalla mia faccia.
Urlo, mettendomi le mani davanti al volto e facendo girare tutta la via verso di noi.
“Non sei nervosa, vero?”
“Piantala, Mark!”
Urlo, ancora più nervosa.
Non mi piace la luce che c’è in questo a Venezia, è troppo dorata, sembra di stare dentro a un gigantesco forno e fa apparire strano riflessi sulle case e rende più buie la calli, tanti  orifizi di un corpo gigantesco e non sempre benigno.
“Vuoi andare al ponte dei sospiri o in hotel?”
“Andiamo al ponte dei sospiri e poi in hotel.
La babysitter di Jack arriva alle sette.”
“Devo proprio avere una babysitter? Ormai sono grande.”
“Sì, ne devi avere una. Sei in un paese straniero e non hai ancora quattordici anni, a quattordici anni forse si può iniziare a parlare di lasciarti a casa da solo.”
Rispondo più seccamente di quello che vorrei con il solo risultato di ottenere un broncio da mio figlio.
Io sospiro, che gran casino!
Inizia a farmi male la testa e sento che in un punto imprecisato della laguna qualcosa vuole che io gli stia lontano. Un qualcosa di antico e sofferente, arrabbiato con il mondo e desideroso di vendetta.
Arriviamo al ponte dei sospiri, Mark ferma un turista e gli chiede di farci una foto, noi tre sfoggiamo i nostri migliori sorrisi, ma tutti e tre nascondiamo altri sentimenti sotto.
Io una sottile angoscia, Jack l’irritazione del ragazzino che non si vede riconoscere i suoi diritti e Mark… Non lo so! Questa volta è impenetrabile anche per me.
Arrivati in hotel Jack si lancia sotto la doccia, Mark si butta sul letto – in attesa che il figlio finisca – e io esco sulla nostra terrazza che dà sul mare con una sigaretta.
La distesa d’acqua ha preso riflessi rossastri in questo strano tramonto, che diventa sempre più rosso, un tramonto di sangue direbbero nei libri.
Un cielo rosso e arancio, con una sottile striscia di giallo appena sopra il mare che si incendia e poi si sbiadisce in un qualcosa che ricorda una distesa di sangue.
Il fumo della mia sigaretta sale a spirali, normalissime spirali, quando all’improvviso uno sbuffo si contorce fino a diventare un volto umano urlante.
Io sbatto le palpebre incredula, per un attimo mi sembra di perdere la presa sul mondo, poi torno in me e il mio cervello mi recita petulante che sono sul terrazzo di uno degli hotel più costosi di Venezia, con una sigaretta in mano ad ammirare un tramonto.
Tutto normale.
Così normale da mettere angoscia.
“Skye!!”
“Sì, Mark?”
“Vuoi fare tu la doccia?”
“Sì!”
Spengo la cicca ormai mezza spenta già di suo nel posacenere e torno in camera. Prendo le mie cose ed entro in bagno, una doccia mi farà bene.
Mi faccio una lunga doccia calda, poi mi asciugo i capelli e mi vesto: una camicetta azzurra e un paio di jeans stretti e  strappati, secondo la moda corrente.
Mark è l’ultimo a farsi la doccia, indossa una delle sue solite magliette della HiMyNameIsMark, un paio di jeans neri, una camicia e delle scarpe da tennis, io mi metto degli anfibi nero e prendo una giacca di velluto nero.
Durante la cena nessuno parla molto, Jack ci sta tenendo il muso – soprattutto a me – e Mark è immerso nei suoi pensieri.
Finita la cena ci sediamo tutti e tre nella hall in attesa della babysitter, che arriva puntuale alle sette e mezza. È una ragazza dai capelli castani che indossa un lungo maglione nero, dei leggins a righe e un paio di anfibi rosso scuro.
“Piacere, sono Marta e mi prenderò cura di Jack.”
Ci dice sorridente e un po’imbarazzata.
Io le sorriso, Mark le stringe la mano facendola arrossire ancora di più.
“Po-potrei avere un autografo e una foto?”
Gli chiede imbambolata, mio marito annuisce sorridendo e firma un foglio di quaderno che gli porge Marta e poi io scatto una foto con il cellulare della ragazza di loro due sorridenti, lei oserei dire che è al settimo cielo.
“Adesso dobbiamo andare, ti lasciamo Jack in custodia.”
Lei sorride.
“Sono sicura che andremo d’accordo.”
“Ciao, Jack!”
“Ciao mamma, ciao papà!”
Risponde imbronciato lui, guardando con un filo di malcelata invidia i nostri zaini.
Ora che Jack è in buone mani possiamo affrontare l’ignoto e che Dio ci assista.

 Angolo di Layla.

Uhm, volevo scrivere da un po' qualcosa di Poveglia ed eventualmente su altre storie horror. Vedrò se farne altre,  intanto godetevi questa.

 

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Capitolo 2
*** Poveglia II (l'inferno è vuoto, tutti i diavoli sono qui). ***


Poveglia II (l'inferno è vuoto, tutti i diavoli sono qui).

 

La puntualità è una bellissima dote, peccato che non sia nostra.
Nonostante i miei tentativi arriviamo comunque con un quarto d’ora di ritardo, il ragazzo sta già camminando avanti e indietro.
“Eccoci! Scusa per il ritardo.”
“Figuratevi. Io sono Angelo, piacere.
Uhm, anche se non so se vi faccio un favore portandovi lì.”
Il grumo di ansia nella mia pancia morde più forte che mai.
“Certo che sei alto, Mark Hoppus!”
Mio marito ride.
“Vuoi una foto con l’autografo?”
“Mi farebbe piacere.”
Angelo annuisce, lui e Mark si mettono in posa e io scatto una foto che Mark firma.
Tutto nella norma, ma cos’è questo sottile senso di paura che si sta impossessando sempre più di me?
È la continuazione dell’ansia di questo pomeriggio?
È paura nuova?
Salgo sulla barca insieme a Mark e ad Angelo e prego che il mio mal di mare mi dia tregua e non mi faccia vomitare.
Pia speranza, la barchetta di Angelo non è un traghetto e non appena si mette a remare sento la mia cena protestare, giù nel profondo del mio stomaco.
Mi rannicchio tra le braccia di Mark e prego che non ci voglia molto a raggiungere Poveglia, non vorrei vomitare addosso a mio marito, è finita da un bel po’ era di vomitare sulle persone.
Finalmente sento la barca fermarsi, Angelo la fa attraccare a un porticciolo e poi ci aiuta a scendere. Io sto troppo male, sento solo lui e Mark che parlano per qualche minuto e poi il rumore dei remi che ritmicamente entrano nell’acqua ed escono.
Io rimango seduta per un po’ sul pontile per farmi passare il mal di mare, intanto la notte cala sulla laguna, si accendono le luci e le stelle, noi siamo in un vasto angolo di buio.
Da noi nessuna luce si accenderà e ho il sospetto che persino le stelle e la luna nascente non amino illuminare questo posto.
In ogni caso siamo qui e non possiamo tirarci indietro.
“Skye? Stai meglio ora?”
Io mi alzo in piedi leggermente barcollante.
“Sì, Mark andiamo.”
Scendiamo dal pontile e seguiamo un sentierino semi invaso dalle erbacce che ci porta dentro l’isola. Anni di incuria hanno fatto crescere piante e piantine rigogliose, ma non è una buona cosa, sembra che non vogliano essere penetrate. Se non avessi paura di passare per pazza giurerei che ci stiano sussurrando di tornare indietro finché siamo in tempo.
“Ahi!”
Esclama Mark.
“Cosa è successo?”
“Questo ramo ha tentato di accecarmi.”
Io sospiro piuttosto inquieta, poco prima una radice ha tentato di farmi cadere a terra e poi c’è troppo buio.
Troppo troppo buio e non si sente il rumore di qualche forma di vita, solo il rumore dei nostri passi che avanzano lenti nella selva.

Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura

ché la diritta via era smarrita.

Ahi quanto a dir qual era è cosa dura

esta selva selvaggia e aspra e forte

che nel pensier rinova la paura”

La mia mente paranoica recita i versi del primo canto dell’inferno di Dante, il che la dice lunga, visto che probabilmente siamo solo impantanati in un po’ di vegetazione incolta.
Finalmente vediamo la luce.
Usciti dalla vegetazione troviamo un cortile che anticamente doveva essere lastricato di pietre, ma che ora è in balia dell’erba.  È bianco e riluce quasi malefico – come il ghigno di un gigantesco lupo –  e dietro al cortile c’è un edificio lungo con delle finestre mezze rotte.
“Siamo arrivati al manicomio.”
Mi dice Mark.
“Andatevene!”
Urla una voce che fa gelare il sangue nelle vene, seguita da un coro di macabre voci che ripetono la stessa cosa. Non siamo i benvenuti qui, dobbiamo andarcene.
“Li hai sentiti anche tu?”
Chiedo a Mark, che annuisce.
“Sì, ma potrebbe essere una nostra suggestione, no?”
Lo dice poco convinto.
“Beh, allora andiamo avanti.”
Percorriamo il cortile e si sentono solo i nostri passi rimbombare, guidati dalla gelida luce della luna, le pietre scricchiolano leggermente.
All’improvviso si alza un vento freddo, un vento che ci vuole rispedire dritti nella vegetazione  e poi all’imbarcadero. Io e Mark avanziamo a fatica, le braccia davanti al volto e i cuori in tumulto.
Arriviamo alla struttura e troviamo una finestra rotta per entrare, un volta dentro rimaniamo almeno cinque minuti a scaldarci, stringendoci in un abbraccio convulso.
Inizio ad avere paura.
Mi sento come Gretel, dispersa nel mondo grande e pauroso, mi pento di aver proposto questa gita, ma tant’è, ormai siamo qui.
Mark tira fuori una pila e ci guardiamo in giro, siamo in un lungo corridoio che in origine doveva essere dipinto di un azzurro tenue, ora è per metà invaso dalla vegetazione e per metà sporco, qua e là si legge anche qualche scritta, il soffitto sopra di noi sembra reggere e scopriamo di trovarci sotto un grande lampadario.
Percorriamo per un po’ il corridoio, cercando di ignorare le voci che – intorno a noi – ci dicono di andarcene e arriviamo davanti alla porta di una camera.
Con grande attenzione la apro, ma il cigolio che emette è comunque assordante e inquietante in questo grande silenzio carico di minaccia che ci avvolge.
La stanza non è molto grande, ha una finestra in cui dell’edera scura striscia all’interno, c’è un armadio caduto in pezzi, un tavolo che ha fatto la stessa fine, una sedia e un letto di metallo senza materasso o altro. È parecchio arrugginito.

{Sono legata al letto e non posso scappare, presto il dottore arriverà di nuovo, Dio se ci se aiutami!
Non voglio che giochi ancora con la mia mente, non voglio subire un altro elettroshock!
Io sto bene, è solo quest’isola che mi rende strana, ma rende tutti strani.
Loro ci sono anche se il direttore lo nega.
Loro ci sono e si vendicheranno.
La porta si apre, il dottore mi controlla e poi scrive qualcosa sul suo blocco.
“Madre Luisa, la prepari. In serata subirà probabilmente un altro elettroshock.”
Dio, ti prego, no.
Dio, ti prego liberami!
Lacrime silenziose scendono sulle mie guance.}

“Skye?
Perché piangi?”
“Ho visto…. Ho visto cosa facevano qui e Dio è orribile.”
Mark mi prende tra le braccia.
 

Alla fine del corridoio le presenze rumoreggiano di più, sembra quasi che si stiano chiamando a raccolta per cacciarci.
Sopra l’inizio del corridoio è dipinto in blu “Reparto psichiatrico.”, credo sia qualcosa in italiano per indicare che dà lì in poi inizia il manicomio.
Siamo arrivati alla hall, io mi infilo nel banco della hall, Mark in una stanzetta lì vicino.
Poco dopo Mark arriva reggendo fascicoli consunti dal tempo, scritti in italiano e con una bella grafia, sono datati più o meno tutti agli anni ’20 e molti dei pazienti sono donne.
Donne che sfoggiano un’espressione spaventata per la maggior parte delle foto e imbambolata solo per alcune.
Qualcuna ha i capelli lunghi, qualcuna corti.
Sono tutte morte, è un quaderno dei morti e se sapessi un po’ di italiano leggerei le loro storie, ne metto alcuni in borsa e poi torno alla mia postazione.
Da lì vedo la porta, un tempo doveva essere stata in elegante stile liberty –  lo si intuisce dalle curve dell’architettura e dai pochi pezzi di vetro colorato che ancora la decorano – un tappeto consunto e un divanetto squarciato color crema.
Mi appoggio un attimo, giusto per riposarmi.

{Entra l’ennesima famiglia di borghesi con una ragazzina al seguito. Indossa un vestito turchese e si divincola, ha una pancia che è contenuta a malapena dal vestito.
La guardo negli occhi, ha paura, sa che qui vivrà l’inferno, come succede a tutte quelle come lei che vengono qui. Sono segretaria in questo posto da anni ormai e conosco i tipi di pazienti.
La sera la ragazzina è ricoverata, indossa un largo camice bianco, io leggiucchio la sua documentazione.
Si chiama Marta De Santis ha solo quindici anni e ha una non specificata forma di isteria, in realtà è qui perché è incinta e il padre è un ragazzo della sua età che scarica casse al mercato del pesce.
La famiglia ha voluto liberarsi di lei mandandola in manicomio, non è la prima e non sarà l’ultima.
Entrano normali ed escono pazze.
Se si è in un manicomio sani c’è un’alta possibilità di impazzire, se questo manicomio si trova su una vecchia isola infestata dai fantasmi e in cui puoi inciampare in pezzi di scheletri umani se fai un giro in giardino, dare di matto è una certezza.
Guardo Marta con pietà, vorrei che le famiglie non ricorressero a queste soluzioni così drastiche, sentendosi osservata la ragazzina viene da me.
“Quando avrò partorito potrò almeno vedere mio figlio.”
Io rimango in silenzio per un attimo, la risposta corretta sarebbe “no”, ma dirgliela equivarrebbe a distruggerla.
“Non lo so, devo parlarne con il direttore.”
Lei se ne va sconsolata.
Odio il mio lavoro.}

Decidiamo di salire sulla torre dell’istituto, Mark davanti a me mi guida con la luce della torcia, che sembra spettrale. Il richiamo dei morti si fa più forte e ritmico.
Sì, si stanno chiamando a raccolta come le antiche tribù guerriere dell’Africa, solo che invece dei tamburi usano questo strano modo a metà tra un gemito e un ululato.
Arriviamo in cima e respiriamo con gratitudine l’aria fresca.
Sotto di noi vediamo la struttura lunga, qualcuno sui tetti ha dimenticato dei barbecue, segno che qualche pazzo è venuto a farsi una grigliata qui.
Non so come facciano, io ho paura.
Io li sento e non scherzo.
Sento il dolore e il desiderio di vendetta.
Ci sono uomini che sono stati portati sani su quest’isola, semplicemente sospettati di avere la peste che gridano vendetta, ci sono le pazienti come Marta che gridano  giustizia per il trattamento da loro subito.
Li sento, sono qui accanto a me e non vogliono che né io né Mark rimaniamo sulla loro isola, sono anime incattivite che odiano il mondo.
“Fa paura, vista da qui, vero?
Non c’è neanche una luce.”
Il tono di Mark è volutamente leggero, ma qualcosa mi dice che anche lui è inquieto.
Io guardo sotto di noi e mi chiedo come sia buttarsi da una struttura simile.

{Loro non esistono.
Io sono un uomo di scienza e loro non posso esistere, una volta morti si diventa polvere, l’anima non esiste: è solo un’invenzione dei preti.
L’idea di inferno e paradiso è solo un’invenzione per far rigare dritto la gente e per prendersi i loro soldi e abbellire le chiese.
Eppure…
Eppure ieri sera giurerei di avere sentito la voce di Marta De Santis, il che non è assolutamente possibile dato che è morta due anni fa.
Depressione post partum.
Dopo che non le hanno fatto vedere il bambino si è semplicemente lasciata a morire a quindici anni, le sue ultime parole sono state più o meno queste: preferiva l’inferno al rimanere in questa strutture.
Non capisco.
Io li curo per non farli impazzire e loro continuano con la storia dei morti della peste, dicono che li sentono parlare, lamentarsi, gemere.
Baggianate.
Sono solo un mucchio di fottute baggianate, quegli uomini sono polvere da secoli, niente più che polvere.
Eppure…
Sto salendo alla torretta guidato dalla voce di quella ragazzina sciocca, devo essere impazzito, dovrei essere a letto a quest’ora.
Arrivo in cima, da qui Venezia sembra lontana come se fosse su un altro pianeta, qui c’è solo buio. Una macchia di tenebra nella luce del progresso.
Guidato da Marta mi avvicino al parapetto e lo scavalco, rimanendo a lungo con le gambe a cavalcioni ad ammirare le stelle. Era da quando ero bambino che non lo facevo, mio nonno mi mostrava sempre le costellazioni e quando è morto sono morte anche loro per me.
Dopo un po’ lasciarsi cadere diventa naturale, la voce di Marta mi dice che non si prova dolore, che è come lanciarsi in una piscina.
Cado.
Per un attimo credo di volare, ma sto cadendo e l’impatto con il suolo è dolorosissimo, forse se urlo arriverà qualche infermiera.
Urlo come un matto, poi taccio all’improvviso.
Dalla vegetazione li vedo arrivare, argentei e incorporei, ma non per questo meno pericolosi: c’è Marta, ci sono altri suicidi e ci sono loro con i loro consunti vestiti settecenteschi che
ghignano maligni.
In un attimo mille mani invisibili si stringono intorno al mio collo, facendomi soffocare.
Io sto morendo e loro esistono.
Loro esistono.}

“Mark, ti prego, andiamo via di qui.
Andiamo  all’imbarcadero, non mi sento molto bene.”
Lui annuisce.
“Scendiamo piano, questa vecchia baracca potrebbe caderci addosso.”
“Va bene.”
Scendiamo le scale piano e poi percorriamo a ritroso il corridoio e usciamo dalla finestra da cui siamo entrati.
Solo che questa volta è diverso, questa volta ci sono loro.
Non sono né argentei né incorporei, hanno un corpo in putrefazione e sembrano arrabbiati, molto arrabbiati.
Mark deglutisce.
“Skye, preparati a combattere.”
“Co-come?”
“Con del fuoco, tiragli qualcosa in testa. Tira fuori la ribelle che c’è in te, questi sanpietrini ci aiuteranno.”
Io raccolgo una mangiata di sassi e comincio a correre mentre li tiro, forse solo quelli dell’68 e i palestinesi sanno cosa significhi avanzare contro un  nemico pericoloso e superiore a te.
Qualcuno cade, altri tendono le mani verso di me, io tiro fuori un accendino e si ritraggono subito.
Li colpisco con rabbia, ma ben presto mi trovo circondata e senza armi.
“MARK, MARK, AIUTAMI!”
Inizio a piangere, anche io farò parte di quest’isola d’ora in poi. Quello più vicino a me fa per mordermi, ma la sua testa esplode, lanciandomi addosso materia morta e molliccia. Mark fa capolino dietro di lui – ansante – e mi tende una mano.
Avanziamo un altro po’ e poi ci sbarrano ancora la strada ringhiando, si mette male, malissimo!
“Mark, siamo fottuti!”

“No! Skye, dammi l’accendino!”
Io glielo passo senza fare domande e lui dà fuoco a un ramo che ha raccolto per terra e poi lo lancia tra le creature creando panico e confusione. Noi ne approfittiamo per seguire il sentierino che porta all’imbarcadero, graffiandoci e rischiando più volte di inciampare visto che barcolliamo come due ubriachi e abbiamo uno sguardo un po’ folle.
Spero che il diversivo di Mark duri abbastanza da permetterci di andarcene, ma come?
Angelo arriverà domani mattina all’alba e all’imbarcadero non saremo certo al sicuro, anche quello è territorio degli zombie.
Mi sta venendo un mezzo infarto quando Mark mi indica una barchetta, la esamina rapidamente e conclude che può navigare.
“Adesso saltiamo su questa cosa, ma tu mi devi aiutare cercando di mettere un attimo da parte il tuo mal di mare. Ne va della nostra vita.”
Io annuisco.
“Arriveranno, questi sono altri sassi che ho raccolto in cortile, tirarglieli dietro e se ci raggiungono a nuoto cacciali con questo.”
Mi porge un bastone lungo, deve averlo raccolto qui intorno.
“Va bene, Mark.
Va bene.”
Dico impugnando il bastone.
Io salto in barca, lui scioglie il nodo che la lega al pontile e salta dentro a sua volta. Mi sembra così piccola e fragile questa barca, reggeremo fino ad arrivare al Lido?
Io guardo Mark e lui mi fa cenno di sì e si mette a remare.
Non ho altro tempo per pensare perché vedo avanzare gli zombie e le anime perdute verso di noi.
Cerco di mirare alla testa di più zombie possibile e molti cadono, ma molti si buttano anche in acqua seguiti lentamente dalle anime.
Calma, Skye, calma.
Il mio stomaco brontola, ma io lo ignoro, continuo la mia sassaiola, ma ormai le munizioni si stanno esaurendo.
Li vedo avvicinarsi a noi e colpisco il primo con un bastone, l’occhio attraversato dal legno fa un “pop” che mi perseguiterà a lungo nei miei incubi.
Continuo a colpirli con la forza della disperazione, lentamente stiamo uscendo dall’area di influenza di Poveglia.
Non faccio tempo a esultare nemmeno per un secondo perché sento delle mani incorporee che si stringono attorno alla mia gola.
“Mark! L’anima… mi sta…. Strozzando!”
Cerco di togliere quelle mani fredde e forti, ma come faccio con qualcosa che non ha corpo?
Lotto ancora per un po’, poi il mio campo visivo diventa nero e capisco che ormai lo spirito ha vinto, sto per morire.
Un colpo improvviso al collo me lo toglie di dosso e io mi porto le mani al collo respirando a fatica e guardando Mark.
“Ti ho dato un colpo con il bastone…”
“MARK! DIETRO DI TE!”       
Urlo con voce roca, lui si volta e colpisce uno zombie al naso trapassandolo, poi me lo ridà.
“Continua a combattere e io remerò, tra poco saremo fuori dalla loro portata o almeno credo.”
Io annuisco e stringo il pezzo di legno con tutta la forza che ho, i sensi all’erta, pronta a colpire qualsiasi cosa che tenti di intralciare il nostro cammino.
Lo sbatto con poca gentilezza sulla testa di uno zombie e lo mulino davanti a uno spirito urlando.
“Non vogliamo disturbarvi oltre, ce ne stiamo andando, lasciateci andare!”
Non so se serva, ma parlare mi aiuta a non notare la stranezza della situazione e a non impazzire: sono su una piccola barca in mezzo al mare a lottare con degli zombie, un’occupazione normalissima. Tutti, almeno una volta nella vita, l’hanno fatto.
Dio, come mi manca l’Inghilterra!
Continuo a distribuire colpi e a cercare di evitare che mi strozzino fino  a quando la spiaggia del lido non sembra così lontana.
L’ultimo zombie che ci segue lancia un grido acuto da far gelare il sangue e l’esercito di Poveglia si ritira nel quartier generale.
Mark continua a remare ansimando – la spiaggia è a meno di cinquecento metri – io invece vomito due volte prima che l’imbarcazione si incagli sul fondo.
Mio marito è costretto a prendermi in braccio per tirarmi fuori dalla barca, entrambi ci buttiamo sulla spiaggia, senza fiato, spaventati e pieni di lividi e graffi.
Sembriamo due reduci di guerra.
Non so quanto rimaniamo lì, ma quando finalmente ci rialziamo la luna sta tramontando.
Lui mi prende per mano e ci dirigiamo al nostro hotel, per oggi abbiamo avuto abbastanza avventure.

Angolo di Layla

Ringrazio tantissimo MorgueTomi, staywith_men e DeliciousApplePie per le recensioni. Spero che questo non vi deluda.

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Capitolo 3
*** Poveglia III (un messaggio dai morti) ***


Poveglia III (un messaggio dai morti)

 

Camminare di notte tra le strade di Venezia dovrebbe essere una cosa romantica.
Se tu sei reduce da una battaglia con degli zombie diventa una lotta continua contro la paranoia, a ogni angolo controlliamo che non ci sia nessuno dall’altra parte e ogni vicolo scuro ci appare una minaccia, senza contare che sobbalziamo al minimo rumore.
Arriviamo al hotel con i nervi a pezzi, suoniamo il campanello e il portiere notturno viene ad aprirci, nonostante le trecento scuse che gli facciamo sembra lo stesso contrariato per essere stato svegliato a quest’ora così poco ortodossa. Dobbiamo fargli una cattiva impressione, con la sabbia addosso, i vestiti stracciati ei graffi.
Cercando di fare meno rumore possibile ci infiliamo in uno dei lussuosi ascensori del hotel e arriviamo al nostro piano.
Apriamo la porta, la prima cosa che faccio è controllare che Jack ci sia – c’è – e che stia dormendo – sta dormendo – nel letto accanto a lui invece dorme Marta, la baby sitter.
Mark è il primo a infilarsi sotto la doccia e ne esce dopo mezz’ora, poi tocca a me e ci metto anche di più visto che devo anche asciugarmi i capelli.
Una volta uscita barcollo verso il letto e mi lascio cadere di schianto, con un po’ di fatica mi metto sotto le coperte e tra le braccia di Mark.
“Mark, chiama Angelo, digli di non andare sull’isola, che noi siamo già tornati.”
Lui annuisce e prende il suo prezioso i-phone e compone il numero del ragazzo, si scambiano qualche battuta sull’orario in cui lo stiamo chiamando.
“Beh, a parte l’orario, non andare sull’isola domani. Noi siamo già tornati e se ci andassi potresti trovare dei non morti piuttosto furiosi.”
Pausa.
“Con cosa siamo tornati? C’era una barca attraccata all’imbarcadero e anche se sembrava un rudere ci ha permesso di arrivare al lido.”
Altra pausa.
“Davvero? Che storia strana. Dopo stasera nulla potrebbe sorprendermi. Non andare a Poveglia, hai capito?”
Silenzio.
“Ok, buonanotte.”
Chiude la chiamata e si massaggia le tempie con un’espressione di dolore.
“Cosa ti ha detto?”
“Mi ha raccontato la storia della nostra barca.”
“E?”
“Praticamente è stata rubata a un pescatore della zona, solo che a un certo punto della traversata il ladro si è trovato nel bel mezzo di una tempesta e ha dovuto attraccare a Poveglia.
Sparito.
La barca è rimasta lì, il suo legittimo proprietario non osava reclamarla, ho detto ad Angelo che se vuole dirgli che è al Lido di farlo, non credo ci servirà ancora.
Adesso tutto quello che ci vuole è una dormita, sono sicuro che domani alla luce del sole tutto questo ci sembrerà diverso.
Almeno credo…
No, fanculo, non lo so! Mi scoppia la testa!”
“Scusa per averti coinvolto in questa storia.”
“Non fa niente, ma adesso dormiamo, ok?”
Io annuisco.
Mark dopo nemmeno cinque minuti dorme come un sasso, io fisso impaurita le ombre che si muovono sul soffitto, le mie mani massaggiano il punto in cui ho rischiato di essere strozzata da uno spirito.
Se ripenso a quelle mani addosso a me, mi si gela il sangue.

Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura
ché la diritta via era smarrita.
Ahi quanto a dir qual era è cosa dura
esta selva selvaggia e aspra e forte
che nel pensier rinova la paura!”

Ecco di nuovo Dante che mi perseguita!
Insieme a Dante e ai suoi versi precipito in un sonno profondo, senza sogni né incubi, un sonno che ha il solo potere di far riposare il corpo.

 

La mattina dopo ci svegliamo alle nove, il sole entra dalle tende illuminando la stanza.
Se non fosse per i graffi, i lividi e i dolori sparsi per il corpo mi sembrerebbe impossibile aver passato la notte combattendo degli zombie, invece è così.
Dalla camera accanto sentiamo del trambusto e Jack arriva seguito da Marta, che arrossisce vedendoci a letto.
“Scusate, l’intrusione.”
Balbetta.
“Non ti preoccupare, siamo noi a essere arrivati prima.”
La ragazza porta via Jack e la sento che gli ordina di lavarsi e cambiarsi.
“Bella avventura questa notte, vero?”
Mi chiede Mark stiracchiandosi.
“Decisamente.”
Mi alzo e indosso una maglia e dei jeans puliti, Mark fa lo stesso, poi entrambi andiamo nella cameretta di Jack, lo troviamo vestito e lavato accanto a Marta.
“Scusatemi ancora per prima.”
“Non fa niente, piuttosto, come si è comportato Jack?”
“Benissimo è un bambino adorabile.”
Lui sorride soddisfatto.
“Beh, sono contenta.”
Pago la ragazza e poi Jack ci segue fino in camera nostra curioso.
“Com’è andata la serata?
Avete trovato degli zombie?
Com’erano?”
“Jack, calmo, per l’amor del cielo!”
Esclamo io massaggiandomi le tempie, non ho voglia di raccontare a mio figlio che ha rischiato di rimanete orfano alla tenera età di dodici anni.
“Ma io voglio sapere cosa è successo!
E come mai c’è un bastone lì?”
“Lì, dove?”
Gli chiedo distratta.
“Vicino alla portafinestra.”
Io guardo ed effettivamente c’è un pezzo di legno, sembra marcio ed emana un odore di alghe e salsedine.
Mi avvicino per studiarlo meglio e mi si gela il sangue nelle vene: è un pezzo dell’imbarcadero di Poveglia!
“MARK!”
Urlo fuori di me, lui accorre subito e appena lo vede impallidisce.
Loro sono stati qui.
“Adesso scendo a pagare l’albergo, tu fa’ le valigie.”
Mi ordina secco, io annuisco, Jack non capisce.
“Perché ce ne andiamo?”
“Perché è pericoloso stare qui, magari faremo un altro week end più avanti.”
“Ma a me Venezia piace.”
Mi risponde deluso.
“Anche a me, ma per ora è un luogo pericoloso.”
Lui rimane un attimo in silenzio, guarda me che rimetto le nostre cose dentro la valigia e il pezzo di legno.
“Avete fatto arrabbiare gli zombie di Poveglia?”
Le maglie che stavo mettendo in valigia mi cadono di mano.
“Come fai a saperlo?”
“Marta mi ha raccontato tutto. Mi ha raccontato un sacco di leggende spaventose sulla città!”
I suoi occhi brillano di eccitazione, come solo gli occhi di un dodicenne innocente possono fare.
“Sì, li abbiamo fatti arrabbiare. Ecco perché ce ne andiamo, torneremo quando si saranno calmati.”
Lui annuisce e mi dà una mano con le valigie.
Una mezz’ora dopo Mark torna in camera.
“Ho pagato l’hotel, scusandomi cinquecentosessanta volte con il direttore e assicurandogli che il servizio è ottimo e che non me ne vado perché mi sono trovato male.
Gli ho detto che, purtroppo, un impegno improvviso e improrogabile mi costringe a tornare in patria e che tornerò e mi godrò le bellezze di Venezia e la magnifica ospitalità del suo hotel un’altra volta.
Ho prenotato un volo, non ce n’è uno che parte da Venezia in tempo utile, ma uno stasera che parte da Milano Malpensa.
Abbiamo un treno da prendere e parte da mezz’ora, come vanno i bagagli?”
“Abbastanza bene, devo mettere via le ultime cose.”
“Ti do una mano.”
Con il suo aiuto finiamo quasi subito di preparare i bagagli e usciamo dalla stanza, io sono ancora scossa dalla visione di quel singolo pezzo di legno.
Per fortuna non hanno toccato Jack o li avrei uccisi.
Prendiamo uno degli ascensori e arriviamo al piano terra, da lì usciamo e l’aria fresca mi colpisce come un balsamo.
Va tutto bene.
Mark ferma un taxi e io mi preparo a stare male, cosa che puntualmente avviene, solo stanotte il mio mal di mare ha deciso di darmi tregua.
Arriviamo davanti alla stazione di Venezia Santa Lucia, entriamo e con i bagagli a seguito andiamo alla biglietteria che per fortuna non è molto affollata.
“Sono Mark Hoppus, sono venuto a ritirare il biglietto che ho prenotato stamattina.”
“Freccia d’argento delle dieci e mezza, vero?”
Lui annuisce, l’uomo ce lo porge.
“Andate al binario 11, lo troverete là.”
“La ringrazio.”
“Si figuri, arrivederci.”
Sono le dieci e un quarto e quasi corriamo per raggiungere il dannato binario 11, riusciamo a salire su un treno che indica come destinazione Milano Centrale e tiriamo un sospiro di sollievo.
Ce l’abbiamo fatta!
Con un po’ di fatica raggiungiamo il nostro scompartimento e i nostri posti, sistemiamo i bagagli e poi finalmente ci sediamo.
Dai finestrini vediamo Venezia allontanarsi insieme ai suoi misteri.
Una ragazza passa con il carrello degli alimenti, io e Mark compriamo un cappuccino e una brioche ciascuno, Jack del latte caldo e una brioche.
Non hanno a che vedere con quelli del hotel, ma il solo fatto che ci stiamo allontanando da quei mostri li rende buoni.
Mark fotografa tutto con il cellulare, quando finalmente arriviamo sulla terra ferma sbircio e le sta mettendo su instagram, è rimasto il solito ragazzino non ancora del tutto cresciuto.
“Uhm, è bello il fatto che non cambi mai, Mark.”
“Ma dai, sono solo quattro foto.
Ho un sonno pazzesco.”
“Anche io, facciamoci una dormita.”
Ci addormentiamo, dopo aver raccomandato a Jack di non disturbare, raccomandazione pressoché inutile visto che sta giocando a Pokemon e il treno potrebbe deragliare e non se ne accorgerebbe nemmeno.
Dormiamo fino a una città chiamata Brescia, non deve mancare molto a Milano stando alla cartina che c’è sul mio cellulare.
Sono sollevata.
Jack si è addormentato, io e Mark lo guardiamo con tenerezza.
“Pensa che non avremmo più potuto vederlo.”
“Per fortuna ci siamo salvati. Non tornerei su quell’isola per nulla al mondo.”
“Nemmeno io, anche perché non avrei mai creduto che ci seguissero fino a Venezia.”
Io rabbrividisco.
“Quando ho visto quel pezzo di legno sono quasi morta di infarto, ma non manca molto ormai. Stiamo per arrivare a Milano e da lì saremo al sicuro a Londra.”
Lui annuisce e si stiracchia.
“Che brutto weekend! Ne faremo uno romantico a Parigi.”
“Mi porti a visitare la catacombe vero?”
Lui sospira.
"Il lupo perde il pelo, ma non il vizio, eh?
Sì, comunque ti ci porto perché so che lì i morti rimangono morti.”
“Sei un amore.”
Gli schiocco un bacio sulla guancia.
“No, sono solo uno stupido che si fa abbindolare dai tuoi occhioni.”
Ridacchia lui.
Quando passa di nuovo il carrello delle bibite, prendiamo due panini e decidiamo di lasciar dormire nostro figlio. In fondo può mangiare sull’aereo.
I panini sono leggermente più buoni rispetto al caffè e Milano è sempre più vicina.
Quando finalmente annunciano “Milano Centrale” svegliamo Jack e scendiamo dal treno, essendo già stati a Milano sappiamo già come è fatta e trascinando i nostri bagagli usciamo all’aperto. Mark chiama un taxi e ripartiamo con destinazione Malpensa.
L’ansia che ho avuto per tutto il viaggio si sta lentamente placando, stiamo mettendo abbastanza miglia tra noi e loro.
Milano è una città grande e caotica e riusciamo ad arrivare in aeroporto appena in tempo per il check-in.
Altri dieci minuti e saremmo rimasti a terra e – per la prima volta in vita mia – non avrei avuto voglia di visitare la città della moda.
Solo seduta sull’aereo mi sento al sicuro, tra poco si alzerà in volo e noi saremo nella cara e piovosa Londra.
Quando l’aereo finalmente si alza in volo sento il familiare vuoto allo stomaco e un peso mi scivola dalle spalle. Credo che ora siamo davvero fuori dalla loro portata, ringraziando Dio.
Jack è affamato così ordiniamo un panino per lui alla ragazza che passa con il carrello, lui lo divora rapidamente e poco dopo ingurgita anche la cena.
Fuori è buio e a tratti si vedono le luci delle città e i vuoti delle campagne in cui nessuna luce viene a turbare la tranquillità.
Non dovremmo metterci molto ad arrivare a Londra.
“Non ho preso neanche una maglia all’Hardrock Caffè.”
Jack protesta, incrociando le braccia e mettendo il broncio.
“Però hai conosciuto Marta e le leggende veneziane.”
“Mica me la posso portare a Londra, Marta.”
Mugugna a denti stretti, facendomi sorridere. E così mio figlio si è preso una cotta per la baby sitter, precoce come il padre, chissà quanti cuori spezzerà tra qualche anno.
Il volo procede tranquillo, le luci passano sotto di noi e ben presto siamo sul canale della Manica e poi sopra Londra e le sue mille luci.
Atterriamo che sono le undici di sera, piove tanto per cambiare, ma non importa.
Ritiriamo i bagagli e il rumore di noi che corriamo nelle pozzanghere alla ricerca di un taxi mi mette allegria.
Troviamo un taxi, gli diamo l’indirizzo, Mark chiama il cinese all’angolo per avere almeno la parvenza di una cena.
Quando la macchina si ferma sotto il palazzo dove abitiamo mi sento finalmente felice e a casa, entriamo salutando il portiere.
“Signori Hoppus, ho un biglietto per voi.”
Io lo prendo e lo metto in tasca senza leggerlo, sono troppo impegnata a caricare i bagagli nell’ascensore.
Arrivati a casa mi metto subito a sistemare le valigie, mentre mio marito e mio figlio aspettano il ragazzo del cinese come due cani il padrone.
Una mezz’oretta dopo il campanello suona, io sono a buon punto e Mark e Jack hanno già pagato e apparecchiato la tavola, devo solo mangiare.
Cosa che faccio volentieri ridendo e scherzando con mio marito e mio figlio, mi sento bene, benedetta quotidianità!
Dopo cena lavo i piatti, mi faccio una doccia e poi mi siedo sul divano con Mark che sta guardando i Simpson.
“Finalmente siamo a casa, il portiere ha detto che c’era un biglietto per noi, io l’ho messo via.”
“Allora tiralo fuori che lo leggiamo, sarà qualche vicino.”
Io lo cerco nella felpa e poi torno sul divano, lo apro e il cuore rischia di fermarsi.
È vergato in una scrittura stentata, ma è chiarissimo.
Non tornate, non siete i benvenuti!
Rimanete a Londra.”
Mark lo getta istericamente nel fuoco del nostro caminetto.
“Non ci disturberanno più ora!”
Esclama con uno sguardo un po’ spiritato.
“Hai ragione!”
Rispondo io con un filo di voce.
Non metterò mai più piede a Poveglia e credo che ci vorrà qualche anno per convincermi a rimettere piede a Venezia.
Certe volte le leggende sono vere e vanno ascoltate, questa è una di queste.

 Angolo di Layla

E questo è l'ultimo della saga di Poveglia, se mi verrà in mente qualcos'altro di horror lo metterò qui, spero vi sia piaciuta.

Ringrazio staywith_me, DeliciousApplePie  e MorgueTomi per le recensioni.

 

 

 

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Capitolo 4
*** La scala verso l'inferno. ***


La scala verso l'inferno.

 

La pioggia scende copiosa su Londra questa sera.
Non che le altre sere siano serene e la luna la faccia da padrone, ma questa sera piove più del solito, forse perché è novembre.
Halloween è stato ieri sera, Jack ha fatto il giro del quartiere con i suoi amici e ha raccolto un discreto quantitativo di caramelle.
È abbastanza soddisfatto in effetti, come possono esserlo solo i bambini per le piccole cose.
Mi manca essere bambina e subito il mio pensiero corre a mia nonna, quella che mi chiamava il suo piccolo cielo, giocando con il mio nome, Skye.
È morta un anno dopo che io mi sono sposata con Mark, un tumore fulminante se l’è portata via e per me è stato difficilissimo accettare la sua morte. Era il mio membro della famiglia preferito, l’unica che abbia accettato Mark, nonostante l’aria da scemo e i capelli rossi.
“Sei sicura di volerti sposare un ragazzo che ha corso nudo per Los Angeles, fa continue battute sciocche e sembra si voglia scopare il suo compagno di band?”
Mi ha chiesto mia madre, io ho detto fieramente di sì.
Mia nonna invece ha abbracciato Mark e gli ha detto che lo trovava carino e sperava che io e lui le dessimo presto un nipote o una nipote.
Non ha mai conosciuto Jack, purtroppo ed essendo sepolta nel New Jersey non posso andare a trovarla troppo spesso.
Mark sta sistemando alcune cose in valigia, tra due giorni parte per New York per registrare Hoppus on Music per la Fuse tv.
“Mark!”
“Sì, Skye?”
“Posso venire anche io a New York?”
Mark mi guarda sorpreso, poi annuisce.
“Vuoi goderti lo shopping sulla quinta strada o l’estate indiana?”
Io rido.
“Nessuna di queste cose, voglio andare a trovare mia nonna, poi ovviamente se mi concedi un giro di shopping non ti dirò di no.”
Rispondo ammiccando.
“Va bene, va bene. Viene anche Jack?”
“Ovvio. Non ha ancora conosciuto sua nonna.”
Jack mi guarda sorpreso, distogliendo per un attimo l’attenzione dalla tv.
“Ma la nonna è morta.”
“Sì, infatti andremo a visitare la sua tomba e tu potrai parlarle se hai voglia, lei ti sentirà.”
“Wow!”
Esclama lui impressionato, poi torna a guardare con aria meditabonda la tv.
“Ok, visto che venite anche voi prenoto altri biglietti.”
Mark lascia perdere le valigie e si attacca al computer, ci rimane fino alle due di notte e di sicuro non ha solo comparato i nostri biglietti, ma anche qualcos’altro o si sarà messo a giocare a qualche gioco di ruolo.
Alle due gli picchietto sulla spalla.
“Ehi, ci fumiamo una sigaretta e poi andiamo a letto?
Domani devo accompagnare Jack a scuola e tu devi sistemare un paio di cose in quella canzone.”
Lui si stiracchia.
“Sì, hai ragione. Sono uno stramaledetto nerd.”
Spegne il computer ed esce in terrazza con me, la pioggia si è un po’ attenuata ma la gente continua ad andare in giro.
“Secondo te dove vanno tutti?”
Chiedo a Mark.
“Non ne ho idea, forse vanno a casa, forse vanno a fare cose che gli permettano di dimenticare almeno un po’ quanto siano soli.”
“Non c’è più solitudine più grande di quella di una città, vero?”
“Vero.”
Finiamo di fumare e andiamo a letto, Jack sta russando leggermente nella sua stanza.
Il giorno dopo lo accompagno a scuola e quando torno a casa trovo la colazione pronta e Mark che sta lavorando al computer.
“ ‘Giorno, amore. Come va la canzone?
“Bene! stasera dobbiamo preparare i bagagli, il volo parte domani mattina presto e ti avviso che, purtroppo o per fortuna, avrai delle ore libere quando registro.”
“Io e la mia carta di credito stiamo ballando la conga.”
Lui fa una smorfia.
“Beh, immagino. Non riducetemi  sul lastrico, sono solo un povero bassista, non un miliardario.”
“Sì, amore.”
Gli rispondo sorridendo, lui scuote la testa.
“Oggi per te sono una banca, lo vedo nei tuoi occhi, Skye Everly.”
Io rido e lo bacio
“Ma no, non esagerare! Farò solo qualche spesuccia, nulla di più.”
Lui sospira e riprende a lavorare, io accendo il mio pc e mi metto a scrivere una relazione per MTV.

 

Due giorni dopo è un caos.
Mark si è dimenticato di mettere la sveglia e io – pensando l’avesse messa lui – non l’ho messa, così siamo in mega ritardo per l’aeroporto. Io faccio del mio meglio per svegliare Jack mentre Mark chiama un taxi, con qualche bestemmia riesco a farlo uscire dal letto e farlo vestire.
Portiamo dabbasso le valigie e chiudiamo l’appartamento, cinque minuti dopo arriva il taxi.
“All’aeroporto, più veloce che può!”
Mark lo urla al taxista prima che si metta in moto.
È una corsa contro il traffico di Londra e noi la vinciamo per un pelo, prendiamo l’aereo per New York all’ultima chiamata correndo come matti.
Tiriamo un sospiro di sollievo solo quando siamo seduti sui sedili, legati in fase di decollo. Solo allora ci rilassiamo e decidiamo di dormire un po’, più tardi faremo colazione.
Jack è il primo a dormire, il secondo è Mark che si addormenta con la testa contro il finestrino e poi viene il mio turno: dormo appoggiata alla spalla di mio marito.
Circa due ore dopo siamo tutti svegli e affamati, così quando passa la ragazza con il carrello ordiniamo due cappuccini, un latte con il cioccolato e tre brioches.
Lei ci serve sorridendo, addirittura il suo sorriso si allarga di più alla vista di Mark, deve essere una fan.
“Lei è Mark Hoppus?”
Gli chiede con un filo di voce.
“In persona.”
“Ecco, non potrebbe farmi un autografo? Vi ascolto da quando andavo alle medie!”
Mark sorride, mi chiede una penna e un pezzo di carta, scrive il nome della ragazza e poi lo firma, lei se ne va camminando tre metri sopra il corridoio persa nella gioia della fan girl appagata.
“Cavolo, hai fan ovunque!”
“Eh, già!”
Mangiamo in silenzio quello che ci ha portato e poi i due maschietti di casa si mettono a giocare con uno dei loro aggeggi e io mi metto a leggere un libro.
Dopo non so quanto tempo una voce metallica ci invita ad allacciare le cinture, visto che siamo in fase di atterraggio.
Ok.
Metto il libro nella borsa e allaccio diligentemente la mia cintura, siamo arrivati a New York.
Atterriamo senza problemi e notiamo che la pioggia di Londra qui è scesa sotto forma di neve, un manto bianco ricopre tutto, Mark è sulle spine.
“Riuscirò ad arrivare al lavoro puntuale con questa neve?”
“Ma sì, dai. Non ti preoccupare.”
Lui grugnisce e dà un calcio alla neve, io cerco un taxi. Trovato uno carico le nostre cose e poi entriamo, Mark gli detta l’indirizzo della Fuse Tv e l’uomo annuisce.
Mio marito sembra calmarsi un po’.
Il taxista fa del suo meglio e Mark non arriva in ritardo per il suo show.
Scendiamo tutti e paga il taxi.
“Bene, adesso ne avrò per due o tre ore, voi fate come volete.”
Io annuisco e lui entra velocemente nella sede del canale.
“Noi cosa facciamo, mamma?”
“Non è ovvio? Shopping!”
Lui sbuffa e calcia via un po’ di neve.
“Beh, immagino mi tocchi.”
“Esattamente, pensa a quando avrai una fidanzata e vedi questa seduta come un allenamento.”
“Pft! La mia ragazza sarà come Avril Lavigne all’inizio, non avrà bisogno di queste cose!”
Io gli scompiglio i capelli e cominciamo a camminare per la città coperta di neve. Alcune vetrine hanno ancora le decorazioni di Halloween, altre hanno già decorato per Natale.
Fa un effetto un po’ strano perché Natale è tra due mesi, ma immagino che questo non importi ai commercianti, l’importante è vendere, no?
Che sia per Halloween o Natale è uguale.
Ci infiliamo in un grande magazzino, la prima tappa è un bar, io mi prendo un cappuccino, lui una tazza di cioccolata con panna.
“Potremmo prendere dei vestiti anche per te, stai crescendo a vista d’occhio.”
“Basta che li scelga io. È il colmo che io debba comprare dei vestiti quando mio padre ha una linea di abbigliamento!”
La cosa mi fa scoppiare a ridere, è propr6io vero che il figlio del ciabattino è sempre quello con le scarpe messe peggio.
“Sì, li sceglierai tu, è ovvio. Ormai non posso più importi nulla.”
Finiamo la nostra colazione ed entriamo nel primo negozio che vende cose per skater e Jack non fa altro che provare e riprovare felpe, jeans e maglie.
Alla fine usciamo con un bel bottino di roba, lui è molto soddisfatto, adesso però tocca me e lui si sorbisce stoicamente i miei duecento cambi di vestiti.
“Bravo, piccolo uomo!”
Lo elogio quando finalmente abbiamo finito, ci resta solo un po’ di tempo per comprare delle decorazioni natalizie per la casa.
Dopo tre ore ci presentiamo fuori dalla Fuse Tv, Mark ci sta aspettando, saltellando sul posto per il freddo.
“Finalmente siete arrivati! Forza, mangiamo qualcosa e poi andiamo in New Jersey.”
Annuiamo ed entriamo nella prima pizzeria che incontriamo, una volta mangiato Mark noleggia una macchina e finalmente partiamo per andare a salutare mia nonna.

 

Il viaggio è lungo e noioso.
Più volte io e Jack ci addormentiamo e nella macchina cala il silenzio, Mark invece sembra di buon umore. A un certo punto mi offro di guidare al suo posto, ma lui rifiuta, dicendo che gli piace guidare e che a Londra non lo può fare spesso.
Accetto la sua risposta e torno nel mio coma, a metà tra il sonno e la veglia. A un certo punto qualcuno mi scuote gentilmente e mi accorgo che siamo arrivati.
“Grazie, Mark.”
Compriamo un mazzo di fiori dal venditore ambulante fuori dal cimitero ed entriamo, io e  Jack ci dirigiamo subito verso la tomba di mia nonna, mio marito invece gironzola un po’ tra le tombe.
“Questa è la nonna.”
Dico a Jack indicando la foto di una donna con corti capelli grigi e con il nome Marie Everly stampato a lettere d’oro accanto.
“Nonna, ti presento Jack, tuo nipote.
È il figlio di Mark e, non ti sbagliavi, è lui quello giusto per me. Mi tratta come una principessa.”
Parlo per un po’ con la tomba di mia nonna aggiornandola sulle ultime novità e scusandomi per non essermi fatta viva prima. Ogni tanto interviene anche Jack e la cosa mi fa molto piacere.
Lo so che è assurdo, ma io credo davvero che lei ci possa sentire ed essere felice che le cose ci vadano bene.
Credo in un aldilà con una forza e una fede che non ho per altre cose, sono certa che quando morirò la rivedrò e la potrò abbracciare e lei sarà lì con il suo profumo da signora e un piatto di biscotti.
Dio, quanto mi manca!
Quanto mi mancano le estati trascorse a casa sua a fare i compiti il mattino e poi a scorazzare in bici per la cittadina dove viveva il pomeriggio!
Dopo un ultimo saluto ce ne andiamo e mi chiedo dove sia finito Mark.
“Mamma, c’è una qualche leggenda interessante legata a questo cimitero?”
Io mi gratto la testa.
“Sì, ce n’è una. Me la raccontava sempre la nonna quando andava a far visita alla tomba di sua madre.”
“Raccontala un po’!”
“Diceva che nella zona delle vecchie tombe c’era una scala molto particolare, non  esteticamente perché erano dei semplici gradini di pietra con un corrimano in ferro decorato solo all’inizio, ma magica.
La chiamava la scala verso l’inferno, diceva che su quella scala sostavano le anime del dannati, cacciati dall’inferno e in attesa di venire in questo mondo.
C’era sempre qualcuno di strano attorno a quella scala e cercava di convincerti a salire la scala, cosa che non andava assolutamente fatta o altrimenti si rimaneva intrappolati per sempre al posto del dannato.”
Jack annuisce.
“Mamma, ma da che parte è andato papà?”
“Nella parte vecchia del cimitero….
Forse è meglio raggiungerlo.”
Aggiungo nervosa.
Curioso e sfigato com’è Mark sarà finito davanti alla scala senza saperlo e poi dobbiamo andare via.
Affretto il passo e io e mio figlio ci arrampichiamo nella parte più vecchia del cimitero che è stata costruita sul fianco di una bassa collina.
Qui ci sono solo mausolei in disuso, statue rotte di angeli che ancora dopo secoli si protendono verso il cielo, tombe dalle iscrizioni illeggibili e scheggiate.
Amano venirci gli pseudo satanisti della zona e le coppiette che cercano una location un po’ diversa al loro pomiciare.
“Mamma, per caso la scala è piuttosto ripida, fatta di gradini di pietra e con un corrimano arrugginito che si arrotola su sé stesso all’inizio?”
“Sì, perché?”
“Papà è davanti a una scala del genere e sembra stia parlando con qualcuno.”
“Merda!”
Digrigno i denti e corro verso la scala.
“Mark!”
Urlo, ma lui non si gira, così non mi resta altro che quasi travolgerlo quando arrivo da lui.
“Skye, c’è una vecchietta che ha bisogno di aiuto per scendere dalla scala, devo aiutarla.”
Io guardo la scala e vedo una donna gobba e vestita di nero che somiglia in modo inquietante a mia nonna e mi sorride maligna.
“È tua nonna Marie, la devo aiutare,”
“Nonna è morta prima che Jack nascesse, non c’è nessuno su quella scala, Mark.
Andiamocene, si sta facendo tardi e fa freddo.
Rischiamo di passare la notte nel cimitero.”
Mark continua a fissare la scala con uno sguardo un po’ vacuo, come se fosse ipnotizzato e temo che sia proprio così. L’anima sulla scala deve esercitare una certa influenza su di lui e questo non va affatto bene.
“Mark, andiamo.”
Lo afferro per un braccio, ma non si muove, al contrario tenta di dirigersi di nuovo su quella dannata scala.
“La devo aiutare.”
“Non c’è nessuno! Diglielo anche tu, Jack!”
Il sorriso della donna si allarga in maniera inquietante, come se sentisse che è prossima alla libertà.
Non ci penso nemmeno a sacrificare mio marito per lei!
“Non c’è nessuno, papà. Ha ragione la mamma, è meglio andare.”
Gli lancio uno sguardo eloquente e anche lui afferra Mark.
“Ma vi dico che c’è e la devo aiutare!”
Si dirige verso la scala, ma io e Jack lo blocchiamo cercando di tenerlo lontano con tutte le nostre forze.
“E dai, fatemi fare una buon azione!
Quella povera donna ha bisogno di aiuto!”
“Non c’è nessuna povera donna e tu hai già fatto la tua buona azione portandomi qui, andiamocene Mark.”
Lo tiro verso di me con forza e sento che un po’ della forza che lo tiene legato alla scala sta cedendo. Un’altra spinta verso di noi e Mark mormora parole intelligibili su una povera donna imprigionata che deve aiutare o finirà all’inferno.
Attraversiamo la parte vecchia del cimitero con lui in queste condizioni, per fortuna che Jack l’ha visto!
“Tra poco saremo fuori.”
Mormoro a Jack.
“E  questa storia sarà finita.”
Attraversiamo anche la porta nuova, mentre la neve inizia a scendere, e finalmente siamo fuori dal cimitero.
“Avete rischiato di rimanere chiusi dentro, non sapevo ci fosse qualcuno.”
Ci dice sorridendo il custode.
“Cos’ha suo marito?”
“È stato quasi risucchiato dalla scala verso l’inferno.”
Rispondo io, il volto dell’uomo si distorce in una smorfia.
“Succede con i forestieri, vostro marito non è di qua, vero?”
“No, è californiano.”
“Capisco.”
Ci salutiamo con un cenno, io vado verso la macchina presa a noleggio e lui verso il cimitero.
Arrivati lì io mi metto alla guida e lego ben stretto Mark al sedile passeggeri, Jack sale dietro.
Bene, siamo tutti in macchina.
Io parto sgommando e cerco di mettere più chilometri possibile tra me e la scala maledetta, in modo che anche Mark si senta meglio il prima possibile.
Dopo dieci chilometro nel bel mezzo di una tempesta di neve lui torna in sé.
“Come mai siamo in macchina?”
Mi chiede.
“Ho finito di parlare con mia nonna.”
“Sì, l’avevo capito. Ma perché l’ultimo ricordo che ho prima di essere qui è di essere nella parte vecchia del cimitero?”
Io e Jack ci scambiamo un’occhiata.
“Mettiamola così, Mark, volevi tanto andare all’inferno.”
“Non ti capisco.”
“Beh, nel cimitero c’è una vecchia leggenda che racconta di una scala che va verso l’inferno su cui sostano le anime espulse verso l’inferno. Le anime cercano di corrompere le persone per aiutarle, ma non appena si mette piede sulla scala si viene risucchiati in un altro mondo e l’anima è libera.
Tu avevi una gran voglia di salire quella scala.”
Lui rabbrividisce e so che non è per il freddo.
“Ma perché stando con te si finisce sempre in queste situazioni?”
Geme lui, facendomi sbuffare.
“Invece di ringraziarci per averti riportato qui ti lamenti?”
“Grazie a tutti e due.”
“Così va meglio.
Cavolo, mi sa che dovremo fermarci, questa nevicata sta diventando una vera e propria tormenta!”
Mark annuisce.
“C’è un motel lì, fermiamoci.”
Io annuisco, metto la freccia ed entro nel parcheggio del motel, pieno di macchine.
Abbiamo tutti bisogno di riposo.
Ignoro che lì non troveremo né pace né riposo.

Angolo di Layla

Ringrazio DeliciousApplePie per la recensione.

 

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Capitolo 5
*** Il motel delle notti di neve. ***


Il motel delle notti di neve.

Non ricordo una simile tormenta di neve dai giorni lontani della mia adolescenza quando io e miei venivamo a Natale a trovare la nonna.
Ogni tanto si scatenavano vere e proprie bufere di neve in cui era impossibile vedere al di là del proprio naso, era un piacere quando eravamo a casa di nonna e una disgrazia quando eravamo in macchina con mio padre.
Oggi tocca a me guidare nella neve e non è per niente piacevole.
“C’è un motel lì, fermiamoci!”
Esclama Mark a un certo punto, io seguo la direzione del suo dito e vedo l’insegna luminosa mezzo nascosta dalla neve di un motel.
Metto diligentemente la freccia e parcheggio nell’ampio spazio davanti alla struttura.
Scendiamo dalla macchina ed entriamo nell’edificio, una donna che sembra uscita dagli anni ’60 ci accoglie con un sorriso cordiale.
“Siete qui anche voi per la tempesta?”
“Sì, è davvero terribile.”
Lei annuisce.
“Siete fortunati, c’è ancora una stanza libera: la 666.”
Io e Mark ci guardiamo a disagio, una stanza con il numero del diavolo non promette nulla di buono, ma o questo o la bufera.
“Ehm, va bene.”
La donna ci sorride – il suo sorriso ha una sfumatura di incomprensibile maligno trionfo – e ci dà la chiave, qualcosa in questo posto non mi piace particolarmente, ma non potevamo continuare a guidare in quelle condizioni.
La proprietaria ci scorta fino alla camera e ci augura buonanotte, noi entriamo e depositiamo i bagagli, poi ci facciamo tutti e tre una doccia e ci infiliamo a letto.
Ci sono un letto matrimoniale e un lettino separato dal nostro da un basso muretto, dopo tutto non è male come stanza.
Nel tepore delle lenzuola appoggiata sul petto di Mark mi addormento subito.

 

Jack p.o.v.

 

Non riesco a capire come facciano i miei a dormire. io sento un incessante gocciolio che mi impedisce di prendere sonno.
Forse qualcuno ha dimenticato aperto un rubinetto dopo essersi lavato i denti. Di malavoglia, mi alzo e mi metto le mie ciabatte verde fosforescente e vado in bagno. Il lavandino non gocciola, ma per un attimo mi è sembrato macchiato di sangue.
Fiori di sangue rosso vivo contro la ceramica bianca.
Mi strofino gli occhi e tutto torna normale, leggermente inquieto torno in camera e mi tolgo il pigiama per rimettermi i miei vestiti.
Il rumore non è affatto cessato e questo hotel emana quelle che mia zia Anne chiamerebbe “vibrazioni negative”.
Facendo attenzione a non farmi sentire dai miei esco dalla stanza e chiudo delicatamente la porta dietro di me. Sono in un corridoio con la tappezzeria di un blu scolorito e il pavimento di linoleum a cerchi neri e azzurri, sembra di stare dentro a “Shining” e io mi sento tanto Danny, il povero bambino.
Cammino per quelle che mi sembrano ore lungo il corridoio, finché il rumore di acqua che cade si fa più forte dietro a una porta. Mia madre mi ha insegnato l’educazione e il rispetto della privacy altrui, quindi se adesso aprissi questa porta le farei un torto e disturberei uno dei clienti, ma se non l’aprissi non riuscirei a darmi pace.
Perché diavolo il rumore viene da questa porta e perché si sente in camera mia ?
E soprattutto perché i miei non lo sentono?
Sto impazzendo?
Dovrei tornare in camera, ma l’istinto di sopravvivenza mi dice di aprire la porta e io gli do retta, stranamente non è chiusa a chiave. Quello che vedo mi fa venire voglia di urlare, il mio urlo però mi rimane fortunatamente in gola.
Mi trovo davanti a uno spettacolo orribile: una donna con un vestitino a fiori, pende, muovendosi pigra, dal lampadario. È mezza scheletro e mezza di carne viva e il sangue cola con una cadenza regolare.
Perché questa donna è qui?
E perché nessuno trova strano che si sia impiccata e nessuno chiama la polizia?
Chiudo la porta dietro di me, chiedendomi cosa troverò nelle prossime stanze, visto che adesso sento un altro rumore: un forte ronzio.
Forse sono solo api o calabroni, mi dico per calmarmi, ma non mi credo nemmeno io.
In ogni caso, continuo a camminare e cerco di capire la fonte del rumore, che è esattamente due porte più in là rispetto a quella dell’impiccata.
Apro la porta – non stupendomi più che non sia chiusa – e vedo delle mosche che svolazzano intorno a quello che resta di un uomo.
Questa volta non reggo e vomito sulla porta, prima di richiuderla.
Dove diavolo siamo capitati?
Mi asciugo  i residui con la manica e cerco di andare verso la hall, giusto poco prima di arrivarci noto un quadro che prima non avevo notato.
È una natura morta con un ananas e una pera, solo che nell’ananas c’è una finestrella in cui si vede mio padre urlante e nella pera una finestra con mamma, sotto ai due frutti c’è una macchia che sembra sangue e ho la sgradevole sensazione che sia il mio.
In ogni caso proseguo e poi mi nascondo dietro una colonna, tutti gli ospiti sono nella hall.
“Loro due saranno il sacrificio, abbiamo bisogno di nuovo sangue.”
Sorride maligna la proprietaria, la sua cotonatura fuori moda mi dà ai brividi insieme al suo tono freddo e del tutto privo di emozioni. Parla di omicidi come si potrebbe parlare del tempo o della politica.
“Il bambino invece rimarrà con noi.”
L’impiccata batte gioiosa le mani.
“Che bello, ho sempre desiderato un bambino.”
“Allora sarai tu a ucciderlo.”
Un brivido corre lungo la mia schiena.
“Ma se non volesse restare qui?”
“Non dire sciocchezze, Elise.
Chi non vorrebbe rimanere qui?
Voi volete rimanere qui, vero?”
Nessuno risponde alla donna e sotto la crosta umana intravedo il demone che è in realtà. Ho visto e sentito abbastanza, è meglio che me ne vada se voglio salvare i miei genitori.
Percorro di corsa il corridoio e mi ritrovo davanti alla stanza 666, apro la porta e la richiudo e poi scuoto vigorosamente i miei.
Al primo tentativo ottengo solo dei grugniti, ma non mollo, continuo a scuoterli finché non si svegliano.
“Cosa c’è, Jack?”
“Dobbiamo andarcene!”
Bisbiglio a bassa voce.
“Come mai?”
“Questo hotel è abitato da fantasmi, nessuno qui dentro è vivo, a parte noi e vogliono ucciderci.
Dobbiamo andarcene finché non si sono accorti che io so.”
“Jack, è impossibile.
Avrai avuto un incubo.”
“Non sono nemmeno andato a letto, non avete visto che non indosso il pigiama?”
Mia madre mi squadra.
“In effetti…”
“Sentite, io vi ho creduto senza riserve sulla storia di Poveglia, per favore credete alla mia storia questa volta.”
Li prego accoratamente, lentamente mia madre annuisce.
“E sia, ti crediamo.”
Escono tutti e due dal letto e si vestono, mio padre con un paio di jeans, una felpa e delle comode scarpe da tennis; mia madre con vestitino rosso e degli anfibi.
Prendiamo le giacche e apriamo la porta.
“Non possiamo passare per la hall, ma in fondo al corridoio c’è un’uscita di emergenza, forse potremmo usarla.”
Mio padre annuisce e si mette subito dietro di me, mia madre chiude il corteo, spaventata.
Camminiamo facendo il meno rumore possibile, come se fossimo dei ladri, tutti i nostri sensi sono all’erta e questa volta anche i miei sentono tutta una serie di strani rumori che li innervosiscono.
Arrivati davanti a una vecchia porta verde, con un maniglione anti panico rosso io lo abbasso e immediatamente si propaga per tutto l’hotel il rumore forte di una sirena, simile a quella che avvisa di un bombardamento in corso.
Merda!
La porta non si apre, io e mio padre gli diamo una spallata,  in fondo al corridoio si cedono avanzare i primi fantasmi, mia madre geme sommessamente.
“Dobbiamo uscire, papà.”
“Diamogli un'altra spallata, Jack!”
Gliela diamo e questa volta cede, i fantasmi sono sempre più vicini e mia madre stringe convulsamente la mano di mio padre.
Al terzo tentativo la porta cade con un tonfo sordo e veniamo investiti da una folata di vento e neve, usciamo correndo scoordinati come ubriachi. Io e papà siamo quasi arrivati alla macchina quando sentiamo un urlo che fa gelare il sangue nelle vene: un fantasma ha preso mamma e la sta trascinando dentro,
“Tu stai qui.”
Mio padre torna indietro e afferra le mani di mia madre tirandola verso di lui,  i fantasmi però sono testardi e non sembrano volerla mollare così facilmente.
Ci vuole tutta la forza di mio padre per tirarla via, alla fine ai fantasmi non rimane altro che un anfibio nero in mano, che viene scagliato nella neve.
L’immagine di quell’anfibio nero, sporco di sangue – è stata l’impiccata a lanciarlo – mi perseguiterà a vita.
“Jack, svelto apri la macchina.”
Mi lancia le chiavi e io apro la macchina e mi metto subito sul sedile passeggeri.
Mio padre, poco dopo, depone mia madre sui sedili posteriori e poi si mette alla guida.
Parte con una sgommata e corre in una maniera assurda sulla strada coperta di neve e con il parabrezza mezzo coperto da quello che i tergicristalli non riescono a togliere.
Dietro di noi sentiamo dei singulti, io mi volto e vedo mamma in lacrime che singhiozza in posizione fetale, un piede scalzo.
“Mamma, ce l’abbiamo fatta. È andato tutto bene.”
Le dico per consolarla, lei annuisce tra le lacrime.

 

Dopo non so quante ore di guida sotto una tormenta feroce di neve arriviamo in una cittadina, mio padre tira un sospiro di sollievo.
“Dici che si sarà un bed & breakfast o qualcosa del genere?”
gironzoliamo per un po’ fino a che non notiamo che – appeso a una casa – c’è un cartello in cui si dice che lì c’è un bed & breakfast.
Io e lui scendiamo dalla macchina e suoniamo il campanello, dopo un quarto d’ora una donna ci apre.
“Ci scusi per l’orario, ma siamo stati colti dalla tempesta di neve e abbiamo bisogno di un posto dove dormire.”
La donna annuisce, io vado in macchina e convinco mamma a scendere e prendo quello che si servirà per la notte.
Entriamo in una casa confortevole e alla luce del salotto probabilmente dobbiamo sembrare pallidi e spaventati, perché la donna spalanca gli occhi.
“Ma voi avete bisogno di un the.”
“Non c’è bisogno che si disturbi.”
Tenta di scantonare mio padre, ma la donna insiste.
“Soprattutto vostra moglie, forse per lei sarebbe meglio un dito di whisky.”
Io guardo mia madre, è pallida e con gli occhi persi nel vuoto. Forse qualcosa potrebbe aiutarla, anche mio padre sembra pensarla così perché alla fine annuisce.
“Va bene.”
Poco dopo la donna torna con due tazze di the forte e zuccherato e un bicchierino di whisky, che mia madre non  tocca.
“Skye, tesoro, ti prego, bevilo! Dopo ti sentirai un po’ meglio.
Che ne dici? Vuoi farlo per me e Jack?”
Lei allunga una mano tremante e prende il bicchiere, ne beve una generosa sorsata e un po’ di colore sale sulle guance.
“Cosa vi è successo?”
Ci chiede la donna.
“Prima di arrivare qui ci siamo fermati in un motel, solo che non era un motel normale. Era un posto gestito e abitato da spiriti che volevano ucciderci.
Siamo riusciti a scappare solo per un colpo di fortuna.”
La donna impallidisce.
“Io credevo che questa storia fosse finita con l’incendio, ma certe storie non finiscono mai, immagino.”
“Scusi, potrebbe essere più chiara?”
Chiede mio padre.
“Il motel di cui parlate venne costruito nei primi anni del Novecento, su un vecchio cimitero indiano. Pochi anni dopo la sua apertura cominciarono ad avvenire cose strane là dentro: omicidi, suicidi, morti naturali inspiegabili.
I proprietari cambiavano, ognuno faceva del suo meglio per ristrutturare e rendere accogliente il posto, ma dopo pochi anni – dopo ogni cambio di gestione – le morti iniziavano di nuovo.
L’ultimo che ha preso in gestione la baracca è stato un tizio del Maryland all’inizio degli anni Settanta, si era trasferito qui con il figlio quindicenne per iniziare una nuova vita dopo la morte della moglie.
Dopo nemmeno quindici giorni trovò il ragazzino morto per un overdose di eroina, lui ha giurato che non si era mai fatto. Solo qualche canna, ma mai ero e quindi ha deciso di mollare e tornare a casa.
Dopo è rimasto disabitato fino a quando, nell’74, qualcuno ha dato fuoco alla casa, il sindaco è stato molto felice di liberarsi delle macerie o almeno così raccontano gli anziani.
La leggenda dice che durante le notti di neve come queste riappare per mietere nuove vittime, c’è qualcosa in quel posto e vi dico che è vivo.”
Scuote la testa con un brivido, io e mio padre rimaniamo a bocca aperta per lo shock.
“E voi siete stati lì dentro?”
Annuiamo come baccalà.
“Siete fortunati a esserne usciti vivi, la maggior parte della gente che si perde in quella zona non torna più indietro. Ci credo che sua moglie stia così male.
Si sente meglio, signora?”
“Sì, credo di sì.”
“Bene, allora è meglio che andiate a letto, domani vi sembrerà tutto migliore.”
Veniamo scortati al piano superiore, la porta della stanza e di un legno scuro e dentro c’è un letto matrimoniale con una calda trapunta e letto più piccolo per me, sembra molto accogliente.
Ci facciamo tutti e tre la doccia per la seconda volta e poi ci mettiamo a letto, questa volta non sento rumori strani e mi addormento tranquillo.
Non credo che qui ci siano spiriti pronti a ucciderci.
La mattina dopo mi sveglio di buono umore, mio padre sta bene e persino mia madre sembra migliore rispetto a ieri sera.
“Scusate per la brutta avventura, ma sembra che io sia in grado di attirare ogni cosa maledetta o demoniaca nel giro di un miglio.”
“Skye, non è colpa tua. Stava nevicando, eravamo tutti stanchi e non vedevamo l’ora di fermarci, nessuno poteva immaginare che razza di posto fosse.”
Lei sospira e giurerei che le sia scesa una lacrima.
“Grazie per perdonarmi sempre, vo voglio bene.”
“Non c’è niente da perdonare.”
Mio padre abbraccia mia madre e io mi unisco all’abbraccio, ho il sospetto che abbia bisogno di affetto.
Dopo questo abbraccio di gruppo scendiamo al piano inferiore e troviamo una ricca colazione, preparata dalla proprietaria del b&b.
“Buongiorno! Come state?”
“Bene, grazie. Abbiamo dormito benissimo.”
Risponde mio “Lei, signora, sta bene?”
“Sì, grazie  e grazie per il whisky di ieri sera, ne avevo bisogno.”
“Non c’è nulla per cui ringraziarmi, con la brutta avventura che le era capitata era il minimo".
“Già, preferisco non pensarci o sto di nuovo male.”
Rabbrividisce e si guarda i piedi, forse pensando a quell’anfibio perso nella neve che non ritroverà mai più.
Ci sediamo a tavola e mangiamo, stranamente abbiamo tutti appetito, di solito alla mattina sono io l’unica che ce l’ha.
“Cosa pensate di fare adesso?”
“Di andarcene una volta cessata la tempesta.”
“Giusto.”
Mark guarda fuori dalla finestra, sta ancora nevicando.
“Penso che per il pomeriggio si sarà placata.”
Lui annuisce, ci guardiamo negli occhi, nessuno sa cosa fare.
“Beh, esco a comprare il giornale e le sigarette.”
Mormora incerto mio padre.
“Va bene, io rimarrò qui con Jack.”
Lui esce di casa, mia madre invece dà una mano alla nostra padrona di casa nel lavare i piatti e poi si siedono davanti alla tv.
Mi sorbisco una telenovela messicana, mio padre – rientrato – legge il giornale con finto interesse.
Che mattinata noiosa, ma forse ci vogliono anche queste mattinate per apprezzare il fatto di essere vivi. Non avrei voluto essere in quel motel per nessun motivo al mondo.
Alla fine, a causa della neve, la donna è costretta a prepararci anche il pranzo, sebbene non rientri tra i suoi compiti
Ci prepara delle bistecche piuttosto buone, è gentile con noi e soprattutto con mamma, ma è palese che non vede l’ora che ce ne andiamo.
Verso le due smette di nevicare e possiamo finalmente metterci in viaggio verso New York, dove ci attende un comodo volo per Londra.
Di solito mi piace stare negli Stati Uniti, ma questa volta non vedo l’ora di tornare nella cara vecchia Inghilterra, penso che lì staremo in pace almeno per un po’.
Saliamo in macchina e salutiamo la signora che ci risponde sventolando la sua mano e sorridendo, sembra ok, ma ho come l’impressione che sia segretamente felice di vederci andare via.
Arriviamo a New York giusto in tempo per prendere un volo all’ultimo minuto per Londra, mentre allacciamo le cinture sento mia madre emettere un debole sospiro di sollievo. Di noi tre è quella più provata e l’ho sorpresa più volte guardarsi il piede destro, come se ritenesse incredibile che fosse ancora lì.
Atterriamo e troviamo il famigliare clima piovoso, solo qualche giorno dopo la pioggia si trasforma in neve, questa volta però non fa paura a nessuno.
La vita rientra nei soliti binari: io vado a scuola, mio padre alterna il suo lavoro a New York con il comporre per i blink – a volta vola anche a Los Angeles  per questo motivo– mia madre lavora per mtv come se nulla fosse.
La nostra breve avventura in quel motel sembra dimenticata, scorre – come un fiume sotterraneo –  nei nostri cervelli e ogni tanto riappare nei nostri incubi.
L’estate dopo andiamo di nuovo a trovare la nonna, mio padre si tiene accuratamente alla larga dalla parte vecchia del cimitero e dalla scala, non ha intenzione di finire i suoi giorni su  una vecchia scala di pietra in attesa di un poveretto che lo liberi e prenda il suo posto.
In quell’occasione percorriamo la stessa strada che abbiamo fatto quella notte e guardiamo tutti e tre dove avevamo visto il motel.
Nessuno vuole davvero fermarsi e non c’èa nulla da vedere, solo erba: una distesa di prato verde che si gode pigramente il sole estivo.
Non che ci aspettassimo davvero di vedere qualcosa, ma volevamo verificare la storia che ci aveva raccontato quella donna.
Era tutto vero.
È stato tutto vero, dal gocciolio alla nostra fuga fino a trovare ospitalità da una povera affittacamere.
Ci allontaniamo con un brivido che corre lungo le nostre schiene. Nelle notti di neve non ci fermeremo mai più in un motel.
Non vogliamo diventare i prossimi ospiti per l’eternità.

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