L'orrore! Oh, l'orrore! di Layla (/viewuser.php?uid=34356)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Poveglia I (l'importanza dei forse) ***
Capitolo 2: *** Poveglia II (l'inferno è vuoto, tutti i diavoli sono qui). ***
Capitolo 3: *** Poveglia III (un messaggio dai morti) ***
Capitolo 4: *** La scala verso l'inferno. ***
Capitolo 5: *** Il motel delle notti di neve. ***
Capitolo 1 *** Poveglia I (l'importanza dei forse) ***
Poveglia I (l'importanza
dei forse)
L’idea di andare a
Venezia, naturalmente è venuta a me.
Le donne hanno sempre idee più brillanti degli uomini,
stando alla media, se poi si ha a
che
fare con un eterno bambino come Mark Hoppus, è abbastanza
facile avere idee
migliori.
Non che lui sia stupido, è che ogni tanto vive un
po’
troppo nel suo mondo fatto di video games, social network e musica e
perde
contatto con la realtà, quindi l’idea è
stata mia.
Mi è venuta guardavo fuori dalla finestra la pioggia
cadere per l’ennesimo giorno a Londra, la finestra era
solcata da gocce, potevo
vedere quello che accadeva nella strada sotto il nostro appartamento e
il mio
volto: quello di una donna sui quarant’anni con i capelli
biondi e delle meches
fucsia, che non si era potuta concedere in gioventù.
Signori e signore, ecco Skye Hoppus.
“Mark!”
Lui ha smesso di insegnare come si suona il basso a Jack
e ha rivolto la sua attenzione verso di me.
“Cosa ne dici se ci concedessimo un week-end a
Venezia?”
Lui mi ha guardato, ha guardato la tetraggine che regnava
fuori da casa nostra e ha annuito.
“Penso sia una bellissima idea, organizzi tutto tu,
vero?”
“Certo, tesoro.
Almeno vedremo il sole.”
Per due californiani come noi stare in una città
così
piovosa come Londra è quasi un trauma, i primi tempi eravamo
eccitati dalla
novità, poi ci è venuta a noia, alla fine ci
abbiamo fatto l’abitudine.
Mark riprende a suonare con Jack, in camera nostra sono
pronte le sue valigie, domani andrà a New York per
registrare il suo programma,
Hoppus on music.
Non gli pesa molto viaggiare da un continente all’altro,
il pigrone della compagnia è Tom, Jen ha serie
difficoltà a smuoverlo da San
Diego.
Visto che l’idea è stata accettata mi metto ai
fornelli e
cerco di cucinare un burrito, Mark apprezza questi tentativi di cucina
messicana perché sa che li faccio solo per lui, a me la
cucina troppo piccante
non piace.
Al nostro primo
appuntamento mi sono quasi soffocata con un piatto troppo piccante di
cui non
ricordo il nome, Mark mi batteva sulla schiena e tentava di farmi bere
e
mangiare del pane,: è stato abbastanza comico nella sua
surrealità.
“Ragazzi, staccatevi dai bassi e venite a mangiare!”
Loro arrivano sorridenti, hanno lo stesso identico
sorriso radioso.
“Stasera la mamma ha fatto messicano, evviva!”
Esclama Jack correndo al suo posto,
Io servo i burrito in tavola e mangiamo in silenzio,
quando c’è di mezzo il cibo quei due non parlano
molto.
Finito di mangiare Jack si siede a tavola per finire gli
ultimi compiti e Mark si fa una lunga doccia, io intanto prenoto hotel
e volo
per Venezia.
Tra una settimana saremo nella laguna veneta a fare i
turisti!
Poco dopo Mark esce dal bagno, mi abbraccia, mi bacia e
mi sussurra “Buonanotte” all’orecchio, io
gli sorrido e gli lancio un bacio.
Torno in salotto e appoggio una mano sulla spalla di
Jack.
“Tesorino mio ritardatario.”
“Sì, mamma?”
“È ora di andare
a
letto.”
“Finisco un paio di operazione e lo faccio.”
Mi risponde sbadigliando, io controllo il quaderno e
annuisco.
Un quarto d’ora sto
rimboccando le coperte al mio
cucciolo e gli sto dando un bacio della buonanotte sulla fronte.
È il nostro
rito segreto, ora che è troppo grande per le fiabe.
Dovrei andare a letto anche io, invece accendo il
portatile e – mentre aspetto che si avvii – esco in
terrazza a fumare una sigaretta.
Ha smesso di piovere, ma nell’aria c’è
ancora odore di
pioggia e sento il suono lontano di un violino, chissà chi e
perché lo starà
suonando.
Finita la mia sigaretta, torno dentro e mi siedo al pc
con una tazza di the caldo tra le mani.
Ci sono un sacco di leggende su Venezia e voglio farmi
un’idea di cosa ci aspetti e se c’è
qualcosa che valga la pena di visitare. Il
mio occhio cade sul nome “Poveglia.” È
un’isoletta della laguna, privata e
inaccessibile ai turisti, nel Seicento era un lazzaretto in cui
venivano portati
i cadaveri degli appestati, appestati e gente che si sospettava covare
il
morbo. Un bel posticino insomma e come tocco finale è stato
un manicomio negli
anni ’20 in cui il direttore sperimentava nuovi metodi sui
suoi pazienti fino al
giorno del suo suicidio. Un suicidio misterioso, si è
buttato dalla torre
dell’edificio e si dice che una strana nebbiolina lo abbia
soffocato.
I veneziano ne hanno paura, dicono sia difficile che ti
ci portino. Beh, lo scoprirò settimana prossima, visto che
ho intenzione di
fare un salto a Poveglia.
Vado a letto, sbadigliando vistosamente.
Domani dovrò alzarmi presto per salutare Mark, portare
Jack a scuola e andare al lavoro.
La solita routine.
La mattina dopo Mark si alza alle sei, mi saluta con un
bacio, poi sparisce in cucina a fare colazione e in bagno a farsi
un’altra
doccia. Io poltrisco a letto in attesa che si affacci a prendere le sue
valigie, cosa che succede abbastanza rapidamente.
“Buongiorno, amore e buon lavoro.”
“Buon lavoro anche a te.”
Esce dal nostro appartamento, io sbadiglio e mi dico che
posso dormire ancora per un’ora prima di svegliare Jack.
Alle sette la sveglia suona implacabile e io mi sveglio
con un grugnito, mi faccio la doccia e vado a chiamare mio figlio, dopo
qualche
tentativo si sveglia.
Facciamo colazione, lui si lava e ci cambiamo, poi
saliamo nella mia macchina.
“Papà
è
a New York?”
“Sì, esattamente.
“Un giorno ci andremo anche noi?”
“Uhm, sì. Magari per Natale, settimana prossima
andiamo a
Venezia, sei contento?”
“Sììì!”
La cosa migliore con Jack è che è sempre di buon
umore e
vede il lato positivo delle cose, non ci ha nemmeno tenuto molto ad
ambientarsi
a scuola.
È un bambino speciale.
La settimana dopo siamo sbarcati
all’aeroporto di
Venezia-Mestre.
È una giornata incerta, il sole fa capolino ogni tanto
dalle nuvole e i nostri bagagli sono in ritardo, quando finalmente li
abbiamo
recuperati, facciamo fatica a trovare un taxi.
Trovato uno ci conduce da dove partono i traghetti, ci
aiuta a caricare sulla nave i bagagli e poi ci augura di passare una
buona
vacanza.
Io spero di non sentirmi male, visto che io e le barche
abbiamo un rapporto tragico, una volta Mark mi ha portato a fare un
giro in
barca e ho vomitato tutto il tempo.
Una volta sul traghetto mi siedo su una delle banchine e
ammiro la distesa d’acqua, interrotta ogni tanto da qualche
palo e dal
passaggio di altre barche e gondole.
Forse questa volta il mal di mare mi ha risparmiato.
Sbarchiamo e ci guardiamo attorno, stando alla cartina il
nostro hotel è vicino a piazza San Marco, così
trasciniamo diligentemente i
nostri trolley e valige in giro per la città, guardandoci in
giro meravigliati.
Arriviamo al hotel e depositiamo Mark e la nostra roba in
camera, Mark giura che sistemerà tutto, io potrei giurare
che invece si metterà
a dormire come un sasso.
Decido di portare con me mio figlio solo perché è
iperattivo e non dormirebbe mai, io invece voglio andare a cercare
qualcuno che
ci porti a Poveglia.
“Vengo anche io, vero mamma?”
“No, tu sei piccolo.”
Lui mette il broncio, odia quando gli dico questa frase.
Credo che tutti i bambini odino questa frase, ma
purtroppo questa volta ho le mie ragioni per dirgliela, non posso certo
portarlo in un’isola popolata da chissà che cosa,
non sono nemmeno certa che
venga Mark.
Gironzoliamo un po’ e chiedo a gondolieri e pescatori, ma
tutti mi dicono categoricamente di no, anche di fronte ai miei dollari.
Sto per mollare quando mi sento chiamare, mi volto e mi
trovo davanti a un ragazzo di venticinque anni circa vestito da rapper.
“Sì?”
“Ho sentito che vuole andare a Poveglia.”
“La mia intenzione sarebbe quella, ma nessuno mi ci vuole
portare.”
Lui sospira.
“Hanno le loro ragioni, su quell’isola
c’è qualcosa. Se
vuole la posso portare io, ho una barca.”
“Quanto vuoi?”
Lui alza una mano come a dire che non vuole niente.
“Vorrei una foto con suo marito.”
Io sgrano gli occhi, lui ride.
“L’ho riconosciuta, lei è Skye Hoppus e
questo è Jack.”
“Oh, wow! Va bene, penso che Mark non farà
storie.”
Lui sorride.
“Va bene, ci vediamo al lido verso le otto.”
“Va bene e grazie ancora.”
“Non mi ringrazi, non le sto facendo un favore.”
Si allontana a passo leggermente strascicato, io esulto,
finalmente ce l’ho fatta, qualcuno ci porterà
là! Non vedo l’ora di dirlo a
Mark!
Io e Jack torniamo in albergo e gli concedo di prendersi
un gelato sulla via, almeno ci rimarrà meno male per
stasera. Arrivati in hotel
chiedo alla ragazza che c’è alla hall se per caso
conosce il numero di qualche
brava babysitter perché stasera io e Mark dobbiamo uscire e
non possiamo
portarci dietro Jack.
Lei sorride e mi porge un bigliettino.
“È la mia migliore amica ed è
un’ottima babysitter.”
“Grazie mille, la chiamerò subito.”
Prima però ne devo parlare con Mark e sperare che
accetti.
Apriamo la porta della nostra camera e troviamo i bagagli
più o meno a posto e Mark che dorme sul letto, io mi siedo
accanto a lui e lo
scuoto leggermente.
Lui si sveglia e mi sorride.
“Quanti negozi hai svaligiato mentre dormivo?”
“Nessuno, però ho prenotato una barca per andare
in
un’isola stregata stasera.”
Lui si alza di scatto e mi guarda come se fossi pazza.
“Scusa?!”
Gli racconto succintamente la storia di Poveglia, il mio
desiderio di vederla e l’incontro con il ragazzo, lui scuote
la testa.
“Pensavo ti fosse passata questa fissa per le case o
altro stregate.”
“Temo non mi passerà mai.”
“Se io ti dicessi di no, tu ci andresti da sola,
giusto?”
“Giusto.”
Lui sbuffa.
“Va bene, perché passare la notte in un comodo
letto
quando possiamo passare la notte all’addiaccio su
un’isola stregata?
Io rido.
“Chiamo la babysitter per Jack allora.”
“Chiamala, chiamala.”
Io compongo il numero che mi ha dato la ragazza alla
reception e mi risponde una voce femminile.
“Ciao, sono una delle clienti del hotel Danieli.
La tua amica alla reception mi ha dato il tuo numero,
scusa per lo scarso preavviso, ma avrei bisogno di una babysitter per
stasera e
per stanotte.”
“Va bene, tanto sono libera.”
“Bene, ci vediamo stasera alle sette e mezza. Sono Skye
Hoppus, camera 310.”
“Hoppus?!”
La sua voce trasuda una certa incredulità felice.
“Hoppus, se vuoi Mark ti fa un autografo.”
“Sarebbe troppo chiedere anche una foto?”
Mi chiede con una vocina sottile.
“No, penso di no. A stasera allora.”
Mark ride di gusto.
“Mi stai usando come merce di scambio, tra poco venderai
anche
il mio corpo!”
Io lo fulmino.
“Quello è mio e non si tocca, non è
colpa mia se hai
tanti fan!”
Lui ride e io mi risollevo: il rumore della sua risata è
uno dei migliori al mondo.
Il pomeriggio lo passiamo
passeggiando.
Mark indossa un paio di occhiali da sole scuri e ogni
tanto si ferma per fare delle foto con il cellulare, come i ragazzini e
come
loro scommetto che presto le caricherà su Instagram o
twitter come a sfidare i
suoi fan a trovarlo.
Lui sembra tranquillo, in me invece cresce una sottile angoscia.
Stamattina ero Skye che forse sarebbe andata a Poveglia per passare una
notte
da brivido, adesso sono la Skye che andrà a Poveglia e ho la
curiosa sensazione
che l’isola mi parli. Non sono parole dolci, sono taglienti
avvertimenti di
stare alla larga.
Io cerco di alzare le spalle e non dare loro retta, mi
dico che sono solo suggestioni che derivano dalla sua cattiva fama e
dall’atteggiamento che assumono tutti quando si pronuncia il
nome.
Insomma, non potrà esserci davvero qualcosa in un mucchio
di rovine?
In fondo sarà solo una notte passata all’addiaccio
sperando che l’ospedale o la chiesa non ci cadano in testa.
O no?
Forse le storie sono vere, forse è davvero pericoloso
andarci e io sto mettendo in pericolo la mia famiglia. È
incredibile come una
parola piccola come “forse” possa cambiare le cose
nella tua testa.
“Skye?”
Il suono della voce di Mark mi fa tornare in me.
“Sì?”
“Hai visto qualcosa che ti piace in quella vetrina?
È un
po’ che sei lì ferma.”
Io noto solo ora che mi sono fermata in una vetrina di
oggetti in vetro, oh merda!
“Ehm, quel set di bicchieri è molto
bello!”
Indico un set di bicchieri rossi decorati d’oro, lui
annuisce.
“Vuoi che li prendiamo?”
“Ehm, perché no?
Forza entriamo!”
Sì, entriamo e tu torna in te Skye Everly Hoppus.
Entriamo nel negozio e compriamo i bicchieri, Mark però
non sembra essersela bevuta perché mi si affianca e mi
prende per mano solo per
ottenere l’effetto che Jack si allontani di qualche passo
schifato.
“Cosa avevi prima?”
“Prima? Assolutamente nulla, stavo guardando una vetrina
come fanno milioni di persone.”
“Sì, la stavi guardando così
attentamente che quando ti
ho chiesto cosa ti piacesse sei caduta dalle nuvole.”
Io sbuffo.
“Mark, erano pensieri miei, niente di grave.”
“Non è che hai paura?”
“Io? NO!”
Lui mi guarda e scuote la testa.
“Se lo dici tu.”
Io non gli rispondo, non so per quale motivo non voglio
che lui sappia che una sottile ansia ha preso possesso di me. Non
voglio che mi
prenda in giro, soprattutto quando arriverò alla parte:
“Per me sono gli
spettri dell’isola che ci stanno cacciando!”,
perché è una frase da pazza.
Nessuno mi crederebbe, o no?
Forse i veneziani, ma non mio marito.
Mi distraggo ancora un attimo e non mi accorgo che un
gabbiano gigantesco ha preso il volo davanti a me, me ne accorgo solo
quando è
a venti centimetri dalla mia faccia.
Urlo, mettendomi le mani davanti al volto e facendo
girare tutta la via verso di noi.
“Non sei nervosa, vero?”
“Piantala, Mark!”
Urlo, ancora più nervosa.
Non mi piace la luce che c’è in questo a Venezia,
è
troppo dorata, sembra di stare dentro a un gigantesco forno e fa
apparire
strano riflessi sulle case e rende più buie la calli, tanti orifizi di un corpo
gigantesco e non sempre
benigno.
“Vuoi andare al ponte dei sospiri o in hotel?”
“Andiamo al ponte dei sospiri e poi in hotel.
La babysitter di Jack arriva alle sette.”
“Devo proprio avere una babysitter? Ormai sono
grande.”
“Sì, ne devi avere una. Sei in un paese straniero
e non
hai ancora quattordici anni, a quattordici anni forse si può
iniziare a parlare
di lasciarti a casa da solo.”
Rispondo più seccamente di quello che vorrei con il solo
risultato di ottenere un broncio da mio figlio.
Io sospiro, che gran casino!
Inizia a farmi male la testa e sento che in un punto
imprecisato della laguna qualcosa vuole che io gli stia lontano. Un
qualcosa di
antico e sofferente, arrabbiato con il mondo e desideroso di vendetta.
Arriviamo al ponte dei sospiri, Mark ferma un turista e
gli chiede di farci una foto, noi tre sfoggiamo i nostri migliori
sorrisi, ma
tutti e tre nascondiamo altri sentimenti sotto.
Io una sottile angoscia, Jack l’irritazione del ragazzino
che non si vede riconoscere i suoi diritti e Mark… Non lo
so! Questa volta è
impenetrabile anche per me.
Arrivati in hotel Jack si lancia sotto la doccia, Mark si
butta sul letto – in attesa che il figlio finisca –
e io esco sulla nostra
terrazza che dà sul mare con una sigaretta.
La distesa d’acqua ha preso riflessi rossastri in questo
strano tramonto, che diventa sempre più rosso, un tramonto
di sangue direbbero
nei libri.
Un cielo rosso e arancio, con una sottile striscia di
giallo appena sopra il mare che si incendia e poi si sbiadisce in un
qualcosa
che ricorda una distesa di sangue.
Il fumo della mia sigaretta sale a spirali, normalissime spirali,
quando all’improvviso uno sbuffo si contorce fino a diventare
un volto umano
urlante.
Io sbatto le palpebre incredula, per un attimo mi sembra
di perdere la presa sul mondo, poi torno in me e il mio cervello mi
recita
petulante che sono sul terrazzo di uno degli hotel più
costosi di Venezia, con
una sigaretta in mano ad ammirare un tramonto.
Tutto normale.
Così normale da mettere angoscia.
“Skye!!”
“Sì, Mark?”
“Vuoi fare tu la doccia?”
“Sì!”
Spengo la cicca ormai mezza spenta già di suo nel posacenere
e torno in camera. Prendo le mie cose ed entro in bagno, una doccia mi
farà
bene.
Mi faccio una lunga doccia calda, poi mi asciugo i
capelli e mi vesto: una camicetta azzurra e un paio di jeans stretti e strappati, secondo la moda
corrente.
Mark è l’ultimo a farsi la doccia, indossa una
delle sue
solite magliette della HiMyNameIsMark, un paio di jeans neri, una
camicia e
delle scarpe da tennis, io mi metto degli anfibi nero e prendo una
giacca di
velluto nero.
Durante la cena nessuno parla molto, Jack ci sta tenendo
il muso – soprattutto a me – e Mark è
immerso nei suoi pensieri.
Finita la cena ci sediamo tutti e tre nella hall in
attesa della babysitter, che arriva puntuale alle sette e mezza.
È una ragazza
dai capelli castani che indossa un lungo maglione nero, dei leggins a
righe e
un paio di anfibi rosso scuro.
“Piacere, sono Marta e mi prenderò cura di
Jack.”
Ci dice sorridente e un po’imbarazzata.
Io le sorriso, Mark le stringe la mano facendola
arrossire ancora di più.
“Po-potrei avere un autografo e una foto?”
Gli chiede imbambolata, mio marito annuisce sorridendo e
firma un foglio di quaderno che gli porge Marta e poi io scatto una
foto con il
cellulare della ragazza di loro due sorridenti, lei oserei dire che
è al
settimo cielo.
“Adesso dobbiamo andare, ti lasciamo Jack in
custodia.”
Lei sorride.
“Sono sicura che andremo d’accordo.”
“Ciao, Jack!”
“Ciao mamma, ciao papà!”
Risponde imbronciato lui, guardando con un filo di
malcelata invidia i nostri zaini.
Ora che Jack è in buone mani possiamo affrontare
l’ignoto
e che Dio ci assista.
Angolo di
Layla.
Uhm, volevo scrivere da
un po' qualcosa di Poveglia ed eventualmente su altre storie horror.
Vedrò se farne altre, intanto godetevi questa.
|
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Capitolo 2 *** Poveglia II (l'inferno è vuoto, tutti i diavoli sono qui). ***
Poveglia
II (l'inferno è vuoto, tutti i diavoli sono qui).
La puntualità
è una bellissima dote, peccato che non sia
nostra.
Nonostante i miei tentativi arriviamo comunque con un
quarto d’ora di ritardo, il ragazzo sta già
camminando avanti e indietro.
“Eccoci! Scusa per il ritardo.”
“Figuratevi. Io sono Angelo, piacere.
Uhm, anche se non so se vi faccio un favore portandovi
lì.”
Il grumo di ansia nella mia pancia morde più forte che
mai.
“Certo che sei alto, Mark Hoppus!”
Mio marito ride.
“Vuoi una foto con l’autografo?”
“Mi farebbe piacere.”
Angelo annuisce, lui e Mark si mettono in posa e io
scatto una foto che Mark firma.
Tutto nella norma, ma cos’è questo sottile senso
di paura
che si sta impossessando sempre più di me?
È la continuazione dell’ansia di questo pomeriggio?
È paura nuova?
Salgo sulla barca insieme a Mark e ad Angelo e prego che
il mio mal di mare mi dia tregua e non mi faccia vomitare.
Pia speranza, la barchetta di Angelo non è un traghetto e
non appena si mette a remare sento la mia cena protestare,
giù nel profondo del
mio stomaco.
Mi rannicchio tra le braccia di Mark e prego che non ci
voglia molto a raggiungere Poveglia, non vorrei vomitare addosso a mio
marito,
è finita da un bel po’ era di vomitare sulle
persone.
Finalmente sento la barca fermarsi, Angelo la fa
attraccare a un porticciolo e poi ci aiuta a scendere. Io sto troppo
male,
sento solo lui e Mark che parlano per qualche minuto e poi il rumore
dei remi
che ritmicamente entrano nell’acqua ed escono.
Io rimango seduta per un po’ sul pontile per farmi
passare il mal di mare, intanto la notte cala sulla laguna, si
accendono le
luci e le stelle, noi siamo in un vasto angolo di buio.
Da noi nessuna luce si accenderà e ho il sospetto che
persino le stelle e la luna nascente non amino illuminare questo posto.
In ogni caso siamo qui e non possiamo tirarci indietro.
“Skye? Stai meglio ora?”
Io mi alzo in piedi leggermente barcollante.
“Sì, Mark andiamo.”
Scendiamo dal pontile e seguiamo un sentierino semi invaso
dalle erbacce che ci porta dentro l’isola. Anni di incuria
hanno fatto crescere
piante e piantine rigogliose, ma non è una buona cosa,
sembra che non vogliano
essere penetrate. Se non avessi paura di passare per pazza giurerei che
ci
stiano sussurrando di tornare indietro finché siamo in tempo.
“Ahi!”
Esclama Mark.
“Cosa è successo?”
“Questo ramo ha tentato di accecarmi.”
Io sospiro piuttosto inquieta, poco prima una radice ha
tentato di farmi cadere a terra e poi c’è troppo
buio.
Troppo troppo buio e non si sente il rumore di qualche
forma di vita, solo il rumore dei nostri passi che avanzano lenti nella
selva.
“Nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai per una selva oscura ché la diritta via era smarrita. Ahi quanto a dir qual era è cosa dura esta selva selvaggia e aspra e forte che nel pensier rinova la paura”
La mia
mente
paranoica recita i versi del primo canto dell’inferno di
Dante, il che la dice
lunga, visto che probabilmente siamo solo impantanati in un
po’ di vegetazione
incolta.
Finalmente vediamo
la luce.
Usciti dalla
vegetazione troviamo un cortile che anticamente doveva essere
lastricato di
pietre, ma che ora è in balia dell’erba.
È bianco e riluce quasi malefico –
come il ghigno di un gigantesco lupo
– e
dietro al cortile c’è un edificio
lungo con delle finestre mezze rotte.
“Siamo arrivati al
manicomio.”
Mi dice Mark.
“Andatevene!”
Urla una voce che
fa gelare il sangue nelle vene, seguita da un coro di macabre voci che
ripetono
la stessa cosa. Non siamo i benvenuti qui, dobbiamo andarcene.
“Li hai sentiti
anche tu?”
Chiedo a Mark, che
annuisce.
“Sì, ma potrebbe
essere una nostra suggestione, no?”
Lo dice poco
convinto.
“Beh, allora
andiamo avanti.”
Percorriamo il
cortile e si sentono solo i nostri passi rimbombare, guidati dalla
gelida luce
della luna, le pietre scricchiolano leggermente.
All’improvviso si
alza un vento freddo, un vento che ci vuole rispedire dritti nella
vegetazione e poi
all’imbarcadero. Io e
Mark avanziamo a fatica, le braccia davanti al volto e i cuori in
tumulto.
Arriviamo alla
struttura e troviamo una finestra rotta per entrare, un volta dentro
rimaniamo
almeno cinque minuti a scaldarci, stringendoci in un abbraccio convulso.
Inizio ad avere
paura.
Mi sento come
Gretel, dispersa nel mondo grande e pauroso, mi pento di aver proposto
questa
gita, ma tant’è, ormai siamo qui.
Mark tira fuori una
pila e ci guardiamo in giro, siamo in un lungo corridoio che in origine
doveva
essere dipinto di un azzurro tenue, ora è per
metà invaso dalla vegetazione e
per metà sporco, qua e là si legge anche qualche
scritta, il soffitto sopra di
noi sembra reggere e scopriamo di trovarci sotto un grande lampadario.
Percorriamo per un
po’ il corridoio, cercando di ignorare le voci che
– intorno a noi – ci dicono
di andarcene e arriviamo davanti alla porta di una camera.
Con grande
attenzione la apro, ma il cigolio che emette è comunque
assordante e
inquietante in questo grande silenzio carico di minaccia che ci avvolge.
La stanza non è
molto grande, ha una finestra in cui dell’edera scura
striscia all’interno, c’è
un armadio caduto in pezzi, un tavolo che ha fatto la stessa fine, una
sedia e
un letto di metallo senza materasso o altro. È parecchio
arrugginito.
{Sono legata al letto e non posso scappare,
presto il dottore arriverà di nuovo, Dio se ci se aiutami!
Non voglio che giochi ancora con la mia mente,
non voglio subire un altro elettroshock!
Io sto bene, è solo quest’isola che mi rende
strana, ma rende tutti strani.
Loro ci sono anche se il direttore lo nega.
Loro ci sono e si vendicheranno.
La porta si apre, il dottore mi controlla e poi
scrive qualcosa sul suo blocco.
“Madre Luisa, la prepari. In serata subirà
probabilmente un altro elettroshock.”
Dio, ti prego, no.
Dio, ti prego liberami!
Lacrime silenziose scendono sulle mie guance.}
“Skye?
Perché piangi?”
“Ho visto…. Ho
visto cosa facevano qui e Dio è orribile.”
Mark mi prende tra
le braccia.
Alla
fine del
corridoio le presenze rumoreggiano di più, sembra quasi che
si stiano chiamando
a raccolta per cacciarci.
Sopra l’inizio del
corridoio è dipinto in blu “Reparto
psichiatrico.”, credo sia qualcosa in
italiano per indicare che dà lì in poi inizia il
manicomio.
Siamo arrivati alla
hall, io mi infilo nel banco della hall, Mark in una stanzetta
lì vicino.
Poco dopo Mark
arriva reggendo fascicoli consunti dal tempo, scritti in italiano e con
una
bella grafia, sono datati più o meno tutti agli anni
’20 e molti dei pazienti
sono donne.
Donne che sfoggiano
un’espressione spaventata per la maggior parte delle foto e
imbambolata solo
per alcune.
Qualcuna ha i
capelli lunghi, qualcuna corti.
Sono tutte morte, è
un quaderno dei morti e se sapessi un po’ di italiano
leggerei le loro storie,
ne metto alcuni in borsa e poi torno alla mia postazione.
Da lì vedo la porta,
un tempo doveva essere stata in elegante stile liberty – lo si intuisce dalle curve
dell’architettura
e dai pochi pezzi di vetro colorato che ancora la decorano –
un tappeto
consunto e un divanetto squarciato color crema.
Mi appoggio un
attimo, giusto per riposarmi.
{Entra l’ennesima famiglia di borghesi
con una
ragazzina al seguito. Indossa un vestito turchese e si divincola, ha
una pancia
che è contenuta a malapena dal vestito.
La guardo negli occhi, ha paura, sa che qui
vivrà l’inferno, come succede a tutte quelle come
lei che vengono qui. Sono
segretaria in questo posto da anni ormai e conosco i tipi di pazienti.
La sera la ragazzina è ricoverata, indossa un
largo camice bianco, io leggiucchio la sua documentazione.
Si chiama Marta De Santis ha solo quindici anni
e ha una non specificata forma di isteria, in realtà
è qui perché è incinta e
il padre è un ragazzo della sua età che scarica
casse al mercato del pesce.
La famiglia ha voluto liberarsi di lei
mandandola in manicomio, non è la prima e non
sarà l’ultima.
Entrano normali ed escono pazze.
Se si è in un manicomio sani c’è
un’alta
possibilità di impazzire, se questo manicomio si trova su
una vecchia isola
infestata dai fantasmi e in cui puoi inciampare in pezzi di scheletri
umani se
fai un giro in giardino, dare di matto è una certezza.
Guardo Marta con pietà, vorrei che le famiglie
non ricorressero a queste soluzioni così drastiche,
sentendosi osservata la
ragazzina viene da me.
“Quando avrò partorito potrò almeno
vedere mio
figlio.”
Io rimango in silenzio per un attimo, la
risposta corretta sarebbe “no”, ma dirgliela
equivarrebbe a distruggerla.
“Non lo so, devo parlarne con il direttore.”
Lei se ne va sconsolata.
Odio il mio lavoro.}
Decidiamo
di salire
sulla torre dell’istituto, Mark davanti a me mi guida con la
luce della torcia,
che sembra spettrale. Il richiamo dei morti si fa più forte
e ritmico.
Sì, si stanno
chiamando a raccolta come le antiche tribù guerriere
dell’Africa, solo che
invece dei tamburi usano questo strano modo a metà tra un
gemito e un ululato.
Arriviamo in cima e
respiriamo con gratitudine l’aria fresca.
Sotto di noi
vediamo la struttura lunga, qualcuno sui tetti ha dimenticato dei
barbecue,
segno che qualche pazzo è venuto a farsi una grigliata qui.
Non so come
facciano, io ho paura.
Io li sento e non
scherzo.
Sento il dolore e
il desiderio di vendetta.
Ci sono uomini che
sono stati portati sani su quest’isola, semplicemente
sospettati di avere la
peste che gridano vendetta, ci sono le pazienti come Marta che gridano giustizia per il
trattamento da loro subito.
Li sento, sono qui
accanto a me e non vogliono che né io né Mark
rimaniamo sulla loro isola, sono
anime incattivite che odiano il mondo.
“Fa paura, vista da
qui, vero?
Non c’è neanche una
luce.”
Il tono di Mark è volutamente
leggero, ma qualcosa mi dice che anche lui è inquieto.
Io guardo sotto di
noi e mi chiedo come sia buttarsi da una struttura simile.
{Loro non esistono.
Io sono un uomo di scienza e loro non posso
esistere, una volta morti si diventa polvere, l’anima non
esiste: è solo
un’invenzione dei preti.
L’idea di inferno e paradiso è solo
un’invenzione per far rigare dritto la gente e per prendersi
i loro soldi e
abbellire le chiese.
Eppure…
Eppure ieri sera giurerei di avere sentito la
voce di Marta De Santis, il che non è assolutamente
possibile dato che è morta
due anni fa.
Depressione post partum.
Dopo che non le hanno fatto vedere il bambino
si è semplicemente lasciata a morire a quindici anni, le sue
ultime parole sono
state più o meno queste: preferiva l’inferno al
rimanere in questa strutture.
Non capisco.
Io li curo per non farli impazzire e loro
continuano con la storia dei morti della peste, dicono che li sentono
parlare,
lamentarsi, gemere.
Baggianate.
Sono solo un mucchio di fottute baggianate,
quegli uomini sono polvere da secoli, niente più che polvere.
Eppure…
Sto salendo alla torretta guidato dalla voce di
quella ragazzina sciocca, devo essere impazzito, dovrei essere a letto
a
quest’ora.
Arrivo in cima, da qui Venezia sembra lontana
come se fosse su un altro pianeta, qui c’è solo
buio. Una macchia di tenebra
nella luce del progresso.
Guidato da Marta mi avvicino al parapetto e lo
scavalco, rimanendo a lungo con le gambe a cavalcioni ad ammirare le
stelle.
Era da quando ero bambino che non lo facevo, mio nonno mi mostrava
sempre le
costellazioni e quando è morto sono morte anche loro per me.
Dopo un po’ lasciarsi cadere diventa naturale,
la voce di Marta mi dice che non si prova dolore, che è come
lanciarsi in una
piscina.
Cado.
Per un attimo credo di volare, ma sto cadendo e
l’impatto con il suolo è dolorosissimo, forse se
urlo arriverà qualche
infermiera.
Urlo come un matto, poi taccio all’improvviso.
Dalla vegetazione li vedo arrivare, argentei e
incorporei, ma non per questo meno pericolosi: c’è
Marta, ci sono altri suicidi
e ci sono loro con i loro consunti vestiti settecenteschi che
ghignano maligni.
In un attimo mille mani invisibili si stringono
intorno al mio collo, facendomi soffocare.
Io sto morendo e loro esistono.
Loro esistono.}
“Mark,
ti prego, andiamo
via di qui.
Andiamo all’imbarcadero,
non mi sento molto bene.”
Lui annuisce.
“Scendiamo piano,
questa vecchia baracca potrebbe caderci addosso.”
“Va bene.”
Scendiamo le scale
piano e poi percorriamo a ritroso il corridoio e usciamo dalla finestra
da cui
siamo entrati.
Solo che questa
volta è diverso, questa volta ci sono loro.
Non sono né
argentei né incorporei, hanno un corpo in putrefazione e
sembrano arrabbiati,
molto arrabbiati.
Mark deglutisce.
“Skye, preparati a
combattere.”
“Co-come?”
“Con del fuoco,
tiragli qualcosa in testa. Tira fuori la ribelle che
c’è in te, questi
sanpietrini ci aiuteranno.”
Io raccolgo una
mangiata di sassi e comincio a correre mentre li tiro, forse solo
quelli
dell’68 e i palestinesi sanno cosa significhi avanzare contro
un nemico
pericoloso e superiore a te.
Qualcuno cade,
altri tendono le mani verso di me, io tiro fuori un accendino e si
ritraggono
subito.
Li colpisco con
rabbia, ma ben presto mi trovo circondata e senza armi.
“MARK, MARK,
AIUTAMI!”
Inizio a piangere,
anche io farò parte di quest’isola d’ora
in poi. Quello più vicino a me fa per
mordermi, ma la sua testa esplode, lanciandomi addosso materia morta e
molliccia. Mark fa capolino dietro di lui – ansante
– e mi tende una mano.
Avanziamo un altro
po’ e poi ci sbarrano ancora la strada ringhiando, si mette
male, malissimo!
“Mark, siamo
fottuti!”
“No! Skye, dammi l’accendino!”
Io glielo passo senza fare domande e lui dà fuoco a un
ramo che ha raccolto per terra e poi lo lancia tra le creature creando
panico e
confusione. Noi ne approfittiamo per seguire il sentierino che porta
all’imbarcadero, graffiandoci e rischiando più
volte di inciampare visto che
barcolliamo come due ubriachi e abbiamo uno sguardo un po’
folle.
Spero che il diversivo di Mark duri abbastanza da
permetterci di andarcene, ma come?
Angelo arriverà domani mattina all’alba e
all’imbarcadero
non saremo certo al sicuro, anche quello è territorio degli
zombie.
Mi sta venendo un mezzo infarto quando Mark mi indica una
barchetta, la esamina rapidamente e conclude che può
navigare.
“Adesso saltiamo su questa cosa, ma tu mi devi aiutare
cercando di mettere un attimo da parte il tuo mal di mare. Ne va della
nostra
vita.”
Io annuisco.
“Arriveranno, questi sono altri sassi che ho raccolto in
cortile, tirarglieli dietro e se ci raggiungono a nuoto cacciali con
questo.”
Mi porge un bastone lungo, deve averlo raccolto qui
intorno.
“Va bene, Mark.
Va bene.”
Dico impugnando il bastone.
Io salto in barca, lui scioglie il nodo che la lega al
pontile e salta dentro a sua volta. Mi sembra così piccola e
fragile questa
barca, reggeremo fino ad arrivare al Lido?
Io guardo Mark e lui mi fa cenno di sì e si mette a
remare.
Non ho altro tempo per pensare perché vedo avanzare gli
zombie e le anime perdute verso di noi.
Cerco di mirare alla testa di più zombie possibile e
molti cadono, ma molti si buttano anche in acqua seguiti lentamente
dalle
anime.
Calma, Skye, calma.
Il mio stomaco brontola, ma io lo ignoro, continuo la mia
sassaiola, ma ormai le munizioni si stanno esaurendo.
Li vedo avvicinarsi a noi e colpisco il primo con un
bastone, l’occhio attraversato dal legno fa un
“pop” che mi perseguiterà a
lungo nei miei incubi.
Continuo a colpirli con la forza della disperazione,
lentamente stiamo uscendo dall’area di influenza di Poveglia.
Non faccio tempo a esultare nemmeno per un secondo perché
sento delle mani incorporee che si stringono attorno alla mia gola.
“Mark! L’anima… mi sta….
Strozzando!”
Cerco di togliere quelle mani fredde e forti, ma come faccio
con qualcosa che non ha corpo?
Lotto ancora per un po’, poi il mio campo visivo diventa
nero e capisco che ormai lo spirito ha vinto, sto per morire.
Un colpo improvviso al collo me lo toglie di dosso e io
mi porto le mani al collo respirando a fatica e guardando Mark.
“Ti ho dato un colpo con il bastone…”
“MARK! DIETRO DI TE!”
Urlo con voce roca, lui si volta e colpisce uno zombie al
naso trapassandolo, poi me lo ridà.
“Continua a combattere e io remerò, tra poco
saremo fuori
dalla loro portata o almeno credo.”
Io annuisco e stringo il pezzo di legno con tutta la
forza che ho, i sensi all’erta, pronta a colpire qualsiasi
cosa che tenti di
intralciare il nostro cammino.
Lo sbatto con poca gentilezza sulla testa di uno zombie e
lo mulino davanti a uno spirito urlando.
“Non vogliamo disturbarvi oltre, ce ne stiamo andando,
lasciateci andare!”
Non so se serva, ma parlare mi aiuta a non notare la
stranezza della situazione e a non impazzire: sono su una piccola barca
in
mezzo al mare a lottare con degli zombie, un’occupazione
normalissima. Tutti,
almeno una volta nella vita, l’hanno fatto.
Dio, come mi manca l’Inghilterra!
Continuo a distribuire colpi e a cercare di evitare che
mi strozzino fino a
quando la spiaggia
del lido non sembra così lontana.
L’ultimo zombie che ci segue lancia un grido acuto da far
gelare il sangue e l’esercito di Poveglia si ritira nel
quartier generale.
Mark continua a remare ansimando – la spiaggia è a
meno
di cinquecento metri – io invece vomito due volte prima che
l’imbarcazione si
incagli sul fondo.
Mio marito è costretto a prendermi in braccio per tirarmi
fuori dalla barca, entrambi ci buttiamo sulla spiaggia, senza fiato,
spaventati
e pieni di lividi e graffi.
Sembriamo due reduci di guerra.
Non so quanto rimaniamo lì, ma quando finalmente ci
rialziamo la luna sta tramontando.
Lui mi prende per mano e ci dirigiamo al nostro hotel,
per oggi abbiamo avuto abbastanza avventure.
Angolo di Layla
Ringrazio tantissimo MorgueTomi, staywith_men
e DeliciousApplePie
per le recensioni. Spero che questo non vi deluda.
|
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Capitolo 3 *** Poveglia III (un messaggio dai morti) ***
Poveglia
III (un messaggio dai morti)
Camminare di notte tra le strade
di Venezia dovrebbe
essere una cosa romantica.
Se tu sei reduce da una battaglia con degli zombie
diventa una lotta continua contro la paranoia, a ogni angolo
controlliamo che
non ci sia nessuno dall’altra parte e ogni vicolo scuro ci
appare una minaccia,
senza contare che sobbalziamo al minimo rumore.
Arriviamo al hotel con i nervi a pezzi, suoniamo il
campanello e il portiere notturno viene ad aprirci, nonostante le
trecento
scuse che gli facciamo sembra lo stesso contrariato per essere stato
svegliato
a quest’ora così poco ortodossa. Dobbiamo fargli
una cattiva impressione, con
la sabbia addosso, i vestiti stracciati ei graffi.
Cercando di fare meno rumore possibile ci infiliamo in
uno dei lussuosi ascensori del hotel e arriviamo al nostro piano.
Apriamo la porta, la prima cosa che faccio è controllare
che Jack ci sia – c’è – e che
stia dormendo – sta dormendo – nel letto accanto
a lui invece dorme Marta, la baby sitter.
Mark è il primo a infilarsi sotto la doccia e ne esce
dopo mezz’ora, poi tocca a me e ci metto anche di
più visto che devo anche
asciugarmi i capelli.
Una volta uscita barcollo verso il letto e mi lascio
cadere di schianto, con un po’ di fatica mi metto sotto le
coperte e tra le
braccia di Mark.
“Mark, chiama Angelo, digli di non andare
sull’isola, che
noi siamo già tornati.”
Lui annuisce e prende il suo prezioso i-phone e compone
il numero del ragazzo, si scambiano qualche battuta
sull’orario in cui lo
stiamo chiamando.
“Beh, a parte l’orario, non andare
sull’isola domani. Noi
siamo già tornati e se ci andassi potresti trovare dei non
morti piuttosto furiosi.”
Pausa.
“Con cosa siamo tornati? C’era una barca attraccata
all’imbarcadero e anche se sembrava un rudere ci ha permesso
di arrivare al
lido.”
Altra pausa.
“Davvero? Che storia strana. Dopo stasera nulla potrebbe
sorprendermi. Non andare a Poveglia, hai capito?”
Silenzio.
“Ok, buonanotte.”
Chiude la chiamata e si massaggia le tempie con
un’espressione di dolore.
“Cosa ti ha detto?”
“Mi ha raccontato la storia della nostra barca.”
“E?”
“Praticamente è stata rubata a un pescatore della
zona,
solo che a un certo punto della traversata il ladro si è
trovato nel bel mezzo
di una tempesta e ha dovuto attraccare a Poveglia.
Sparito.
La barca è rimasta lì, il suo legittimo
proprietario non
osava reclamarla, ho detto ad Angelo che se vuole dirgli che
è al Lido di farlo,
non credo ci servirà ancora.
Adesso tutto quello che ci vuole è una dormita, sono
sicuro che domani alla luce del sole tutto questo ci
sembrerà diverso.
Almeno credo…
No, fanculo, non lo so! Mi scoppia la testa!”
“Scusa per averti coinvolto in questa storia.”
“Non fa niente, ma adesso dormiamo, ok?”
Io annuisco.
Mark dopo nemmeno cinque minuti dorme come un sasso, io
fisso impaurita le ombre che si muovono sul soffitto, le mie mani
massaggiano
il punto in cui ho rischiato di essere strozzata da uno spirito.
Se ripenso a quelle mani addosso a me, mi si gela il
sangue.
“Nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai per una selva oscura ché la diritta via era smarrita. Ahi quanto a dir qual era è cosa dura esta selva selvaggia e aspra e forte che nel pensier rinova la paura!”
Ecco di nuovo Dante che mi
perseguita!
Insieme a Dante e ai suoi versi precipito in un sonno
profondo, senza sogni né incubi, un sonno che ha il solo
potere di far riposare
il corpo.
La mattina dopo ci svegliamo alle
nove, il sole entra
dalle tende illuminando la stanza.
Se non fosse per i graffi, i lividi e i dolori sparsi per
il corpo mi sembrerebbe impossibile aver passato la notte combattendo
degli
zombie, invece è così.
Dalla camera accanto sentiamo del trambusto e Jack arriva
seguito da Marta, che arrossisce vedendoci a letto.
“Scusate, l’intrusione.”
Balbetta.
“Non ti preoccupare, siamo noi a essere arrivati
prima.”
La ragazza porta via Jack e la sento che gli ordina di
lavarsi e cambiarsi.
“Bella avventura questa notte, vero?”
Mi chiede Mark stiracchiandosi.
“Decisamente.”
Mi alzo e indosso una maglia e dei jeans puliti, Mark fa
lo stesso, poi entrambi andiamo nella cameretta di Jack, lo troviamo
vestito e lavato
accanto a Marta.
“Scusatemi ancora per prima.”
“Non fa niente, piuttosto, come si è comportato
Jack?”
“Benissimo è un bambino adorabile.”
Lui sorride soddisfatto.
“Beh, sono contenta.”
Pago la ragazza e poi Jack ci segue fino in camera nostra
curioso.
“Com’è andata la serata?
Avete trovato degli zombie?
Com’erano?”
“Jack, calmo, per l’amor del cielo!”
Esclamo io massaggiandomi le tempie, non ho voglia di
raccontare a mio figlio che ha rischiato di rimanete orfano alla tenera
età di
dodici anni.
“Ma io voglio sapere cosa è successo!
E come mai c’è un bastone lì?”
“Lì, dove?”
Gli chiedo distratta.
“Vicino alla portafinestra.”
Io guardo ed effettivamente c’è un pezzo di legno,
sembra
marcio ed emana un odore di alghe e salsedine.
Mi avvicino per studiarlo meglio e mi si gela il sangue
nelle vene: è un pezzo dell’imbarcadero di
Poveglia!
“MARK!”
Urlo fuori di me, lui accorre subito e appena lo vede
impallidisce.
Loro sono stati qui.
“Adesso scendo a pagare l’albergo, tu fa’
le valigie.”
Mi ordina secco, io annuisco, Jack non capisce.
“Perché ce ne andiamo?”
“Perché è pericoloso stare qui, magari
faremo un altro
week end più avanti.”
“Ma a me Venezia piace.”
Mi risponde deluso.
“Anche a me, ma per ora è un luogo
pericoloso.”
Lui rimane un attimo in silenzio, guarda me che rimetto
le nostre cose dentro la valigia e il pezzo di legno.
“Avete fatto arrabbiare gli zombie di Poveglia?”
Le maglie che stavo mettendo in valigia mi cadono di
mano.
“Come fai a saperlo?”
“Marta mi ha raccontato tutto. Mi ha raccontato un sacco
di leggende spaventose sulla città!”
I suoi occhi brillano di eccitazione, come solo gli occhi
di un dodicenne innocente possono fare.
“Sì, li abbiamo fatti arrabbiare. Ecco
perché ce ne
andiamo, torneremo quando si saranno calmati.”
Lui annuisce e mi dà una mano con le valigie.
Una mezz’ora dopo Mark torna in camera.
“Ho pagato l’hotel, scusandomi cinquecentosessanta
volte
con il direttore e assicurandogli che il servizio è ottimo e
che non me ne vado
perché mi sono trovato male.
Gli ho detto che, purtroppo, un impegno improvviso e
improrogabile mi costringe a tornare in patria e che tornerò
e mi godrò le
bellezze di Venezia e la magnifica ospitalità del suo hotel
un’altra volta.
Ho prenotato un volo, non ce n’è uno che parte da
Venezia
in tempo utile, ma uno stasera che parte da Milano Malpensa.
Abbiamo un treno da prendere e parte da mezz’ora, come
vanno i bagagli?”
“Abbastanza bene, devo mettere via le ultime cose.”
“Ti do una mano.”
Con il suo aiuto finiamo quasi subito di preparare i
bagagli e usciamo dalla stanza, io sono ancora scossa dalla visione di
quel
singolo pezzo di legno.
Per fortuna non hanno toccato Jack o li avrei uccisi.
Prendiamo uno degli ascensori e arriviamo al piano terra,
da lì usciamo e l’aria fresca mi colpisce come un
balsamo.
Va tutto bene.
Mark ferma un taxi e io mi preparo a stare male, cosa che
puntualmente avviene, solo stanotte il mio mal di mare ha deciso di
darmi
tregua.
Arriviamo davanti alla stazione di Venezia Santa Lucia,
entriamo e con i bagagli a seguito andiamo alla biglietteria che per
fortuna
non è molto affollata.
“Sono Mark Hoppus, sono venuto a ritirare il biglietto
che ho prenotato stamattina.”
“Freccia d’argento delle dieci e mezza,
vero?”
Lui annuisce, l’uomo ce lo porge.
“Andate al binario 11, lo troverete là.”
“La ringrazio.”
“Si figuri, arrivederci.”
Sono le dieci e un quarto e quasi corriamo per
raggiungere il dannato binario 11, riusciamo a salire su un treno che
indica
come destinazione Milano Centrale e tiriamo un sospiro di sollievo.
Ce l’abbiamo fatta!
Con un po’ di fatica raggiungiamo il nostro
scompartimento e i nostri posti, sistemiamo i bagagli e poi finalmente
ci
sediamo.
Dai finestrini vediamo Venezia allontanarsi insieme ai
suoi misteri.
Una ragazza passa con il carrello degli alimenti, io e
Mark compriamo un cappuccino e una brioche ciascuno, Jack del latte
caldo e una
brioche.
Non hanno a che vedere con quelli del hotel, ma il solo
fatto che ci stiamo allontanando da quei mostri li rende buoni.
Mark fotografa tutto con il cellulare, quando finalmente
arriviamo sulla terra ferma sbircio e le sta mettendo su instagram,
è rimasto
il solito ragazzino non ancora del tutto cresciuto.
“Uhm, è bello il fatto che non cambi mai,
Mark.”
“Ma dai, sono solo quattro foto.
Ho un sonno pazzesco.”
“Anche io, facciamoci una dormita.”
Ci addormentiamo, dopo aver raccomandato a Jack di non
disturbare, raccomandazione pressoché inutile visto che sta
giocando a Pokemon
e il treno potrebbe deragliare e non se ne accorgerebbe nemmeno.
Dormiamo fino a una città chiamata Brescia, non deve
mancare molto a Milano stando alla cartina che c’è
sul mio cellulare.
Sono sollevata.
Jack si è addormentato, io e Mark lo guardiamo con
tenerezza.
“Pensa che non avremmo più potuto
vederlo.”
“Per fortuna ci siamo salvati. Non tornerei su
quell’isola per nulla al mondo.”
“Nemmeno io, anche perché non avrei mai creduto
che ci
seguissero fino a Venezia.”
Io rabbrividisco.
“Quando ho visto quel pezzo di legno sono quasi morta di
infarto, ma non manca molto ormai. Stiamo per arrivare a Milano e da
lì saremo
al sicuro a Londra.”
Lui annuisce e si stiracchia.
“Che brutto weekend! Ne faremo uno romantico a
Parigi.”
“Mi porti a visitare la catacombe vero?”
Lui sospira.
"Il lupo perde il pelo, ma non il vizio, eh?
Sì, comunque ti ci porto perché so che
lì i morti
rimangono morti.”
“Sei un amore.”
Gli schiocco un bacio sulla guancia.
“No, sono solo uno stupido che si fa abbindolare dai tuoi
occhioni.”
Ridacchia lui.
Quando passa di nuovo il carrello delle bibite, prendiamo
due panini e decidiamo di lasciar dormire nostro figlio. In fondo
può mangiare
sull’aereo.
I panini sono leggermente più buoni rispetto al
caffè e
Milano è sempre più vicina.
Quando finalmente annunciano “Milano Centrale”
svegliamo
Jack e scendiamo dal treno, essendo già stati a Milano
sappiamo già come è
fatta e trascinando i nostri bagagli usciamo all’aperto. Mark
chiama un taxi e
ripartiamo con destinazione Malpensa.
L’ansia che ho avuto per tutto il viaggio si sta
lentamente placando, stiamo mettendo abbastanza miglia tra noi e loro.
Milano è una città grande e caotica e riusciamo
ad
arrivare in aeroporto appena in tempo per il check-in.
Altri dieci minuti e saremmo rimasti a terra e – per la
prima volta in vita mia – non avrei avuto voglia di visitare
la città della moda.
Solo seduta sull’aereo mi sento al sicuro, tra poco si
alzerà in volo e noi saremo nella cara e piovosa Londra.
Quando l’aereo finalmente si alza in volo sento il
familiare vuoto allo stomaco e un peso mi scivola dalle spalle. Credo
che ora
siamo davvero fuori dalla loro portata, ringraziando Dio.
Jack è affamato così ordiniamo un panino per lui
alla
ragazza che passa con il carrello, lui lo divora rapidamente e poco
dopo
ingurgita anche la cena.
Fuori è buio e a tratti si vedono le luci delle
città e i
vuoti delle campagne in cui nessuna luce viene a turbare la
tranquillità.
Non dovremmo metterci molto ad arrivare a Londra.
“Non ho preso neanche una maglia all’Hardrock
Caffè.”
Jack protesta, incrociando le braccia e mettendo il
broncio.
“Però hai conosciuto Marta e le leggende
veneziane.”
“Mica me la posso portare a Londra, Marta.”
Mugugna a denti stretti, facendomi sorridere. E così mio
figlio si è preso una cotta per la baby sitter, precoce come
il padre, chissà
quanti cuori spezzerà tra qualche anno.
Il volo procede tranquillo, le luci passano sotto di noi
e ben presto siamo sul canale della Manica e poi sopra Londra e le sue
mille
luci.
Atterriamo che sono le undici di sera, piove tanto per
cambiare, ma non importa.
Ritiriamo i bagagli e il rumore di noi che corriamo nelle
pozzanghere alla ricerca di un taxi mi mette allegria.
Troviamo un taxi, gli diamo l’indirizzo, Mark chiama il
cinese all’angolo per avere almeno la parvenza di una cena.
Quando la macchina si ferma sotto il palazzo dove abitiamo
mi sento finalmente felice e a casa, entriamo salutando il portiere.
“Signori Hoppus, ho un biglietto per voi.”
Io lo prendo e lo metto in tasca senza leggerlo, sono
troppo impegnata a caricare i bagagli nell’ascensore.
Arrivati a casa mi metto subito a sistemare le valigie,
mentre mio marito e mio figlio aspettano il ragazzo del cinese come due
cani il
padrone.
Una mezz’oretta dopo il campanello suona, io sono a buon
punto e Mark e Jack hanno già pagato e apparecchiato la
tavola, devo solo
mangiare.
Cosa che faccio volentieri ridendo e scherzando con mio
marito e mio figlio, mi sento bene, benedetta quotidianità!
Dopo cena lavo i piatti, mi faccio una doccia e poi mi
siedo sul divano con Mark che sta guardando i Simpson.
“Finalmente siamo a casa, il portiere ha detto che
c’era
un biglietto per noi, io l’ho messo via.”
“Allora tiralo fuori che lo leggiamo, sarà qualche
vicino.”
Io lo cerco nella felpa e poi torno sul divano, lo apro e
il cuore rischia di fermarsi.
È vergato in una scrittura stentata, ma è
chiarissimo.
“Non tornate,
non siete i benvenuti!
Rimanete a Londra.”
Mark lo getta istericamente nel fuoco del nostro
caminetto.
“Non ci disturberanno più ora!”
Esclama con uno sguardo un po’ spiritato.
“Hai ragione!”
Rispondo io con un filo di voce.
Non metterò mai più piede a Poveglia e credo che
ci vorrà
qualche anno per convincermi a rimettere piede a Venezia.
Certe volte le leggende sono vere e vanno ascoltate,
questa è una di queste.
Angolo di
Layla
E questo è
l'ultimo della saga di Poveglia, se mi verrà in mente
qualcos'altro di horror lo metterò qui, spero vi sia
piaciuta.
Ringrazio staywith_me, DeliciousApplePie
e MorgueTomi
per le recensioni.
|
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Capitolo 4 *** La scala verso l'inferno. ***
La scala verso l'inferno.
La pioggia scende copiosa su
Londra questa sera.
Non che le altre sere siano serene e la luna la faccia da
padrone, ma questa sera piove più del solito, forse
perché è novembre.
Halloween è stato ieri sera, Jack ha fatto il giro del
quartiere con i suoi amici e ha raccolto un discreto quantitativo di
caramelle.
È abbastanza soddisfatto in effetti, come possono esserlo
solo i bambini per le piccole cose.
Mi manca essere bambina e subito il mio pensiero corre a
mia nonna, quella che mi chiamava il suo piccolo cielo, giocando con il
mio
nome, Skye.
È morta un anno dopo che io mi sono sposata con Mark, un
tumore fulminante se l’è portata via e per me
è stato difficilissimo accettare
la sua morte. Era il mio membro della famiglia preferito,
l’unica che abbia
accettato Mark, nonostante l’aria da scemo e i capelli rossi.
“Sei sicura di volerti sposare un ragazzo che ha corso
nudo per Los Angeles, fa continue battute sciocche e sembra si voglia
scopare
il suo compagno di band?”
Mi ha chiesto mia madre, io ho detto fieramente di sì.
Mia nonna invece ha abbracciato Mark e gli ha detto che
lo trovava carino e sperava che io e lui le dessimo presto un nipote o
una
nipote.
Non ha mai conosciuto Jack, purtroppo ed essendo sepolta nel New
Jersey non posso andare a trovarla troppo spesso.
Mark sta sistemando alcune cose in valigia, tra due
giorni parte per New York per registrare Hoppus on Music per la Fuse tv.
“Mark!”
“Sì, Skye?”
“Posso venire anche io a New York?”
Mark mi guarda sorpreso, poi annuisce.
“Vuoi goderti lo shopping sulla quinta strada o
l’estate
indiana?”
Io rido.
“Nessuna di queste cose, voglio andare a trovare mia
nonna, poi ovviamente se mi concedi un giro di shopping non ti
dirò di no.”
Rispondo ammiccando.
“Va bene, va bene. Viene anche Jack?”
“Ovvio. Non ha ancora conosciuto sua nonna.”
Jack mi guarda sorpreso, distogliendo per un attimo
l’attenzione dalla tv.
“Ma la nonna è morta.”
“Sì, infatti andremo a visitare la sua tomba e tu
potrai
parlarle se hai voglia, lei ti sentirà.”
“Wow!”
Esclama lui impressionato, poi torna a guardare con aria
meditabonda la tv.
“Ok, visto che venite anche voi prenoto altri
biglietti.”
Mark lascia perdere le valigie e si attacca al computer,
ci rimane fino alle due di notte e di sicuro non ha solo comparato i
nostri
biglietti, ma anche qualcos’altro o si sarà messo
a giocare a qualche gioco di
ruolo.
Alle due gli picchietto sulla spalla.
“Ehi, ci fumiamo una sigaretta e poi andiamo a letto?
Domani devo accompagnare Jack a scuola e tu devi
sistemare un paio di cose in quella canzone.”
Lui si stiracchia.
“Sì, hai ragione. Sono uno stramaledetto
nerd.”
Spegne il computer ed esce in terrazza con me, la pioggia si
è un po’ attenuata
ma la gente continua ad andare in giro.
“Secondo te dove vanno tutti?”
Chiedo a Mark.
“Non ne ho idea, forse vanno a casa, forse vanno a fare
cose che gli permettano di dimenticare almeno un po’ quanto
siano soli.”
“Non c’è più solitudine
più grande di quella di una
città, vero?”
“Vero.”
Finiamo di fumare e andiamo a letto, Jack sta russando
leggermente nella sua stanza.
Il giorno dopo lo accompagno a scuola e quando torno a
casa trovo la colazione pronta e Mark che sta lavorando al
computer.
“ ‘Giorno, amore. Come va la canzone?
“Bene! stasera dobbiamo preparare i bagagli, il volo
parte domani mattina presto e ti avviso che, purtroppo o per fortuna,
avrai
delle ore libere quando registro.”
“Io e la mia carta di credito stiamo ballando la
conga.”
Lui fa una smorfia.
“Beh, immagino. Non riducetemi
sul lastrico, sono solo un povero bassista,
non un miliardario.”
“Sì, amore.”
Gli rispondo sorridendo, lui scuote la testa.
“Oggi per te sono una banca, lo vedo nei tuoi occhi, Skye
Everly.”
Io rido e lo bacio
“Ma no, non esagerare! Farò solo qualche
spesuccia, nulla
di più.”
Lui sospira e riprende a lavorare, io accendo il mio pc e
mi metto a scrivere una relazione per MTV.
Due giorni dopo è un
caos.
Mark si è dimenticato di mettere la sveglia e io –
pensando l’avesse messa lui – non l’ho
messa, così siamo in mega ritardo per
l’aeroporto. Io faccio del mio meglio per svegliare Jack
mentre Mark chiama un
taxi, con qualche bestemmia riesco a farlo uscire dal letto e farlo
vestire.
Portiamo dabbasso le valigie e chiudiamo l’appartamento,
cinque minuti dopo arriva il taxi.
“All’aeroporto, più veloce che
può!”
Mark lo urla al taxista prima che si metta in moto.
È una corsa contro il traffico di Londra e noi la
vinciamo per un pelo, prendiamo l’aereo per New York
all’ultima chiamata
correndo come matti.
Tiriamo un sospiro di sollievo solo quando siamo seduti
sui sedili, legati in fase di decollo. Solo allora ci rilassiamo e
decidiamo di
dormire un po’, più tardi faremo colazione.
Jack è il primo a dormire, il secondo è Mark che
si
addormenta con la testa contro il finestrino e poi viene il mio turno:
dormo
appoggiata alla spalla di mio marito.
Circa due ore dopo siamo tutti svegli e affamati, così
quando passa la ragazza con il carrello ordiniamo due cappuccini, un
latte con
il cioccolato e tre brioches.
Lei ci serve sorridendo, addirittura il suo sorriso si
allarga di più alla vista di Mark, deve essere una fan.
“Lei è Mark Hoppus?”
Gli chiede con un filo di voce.
“In persona.”
“Ecco, non potrebbe farmi un autografo? Vi ascolto da quando
andavo alle
medie!”
Mark sorride, mi chiede una penna e un pezzo di carta,
scrive il nome della ragazza e poi lo firma, lei se ne va camminando
tre metri
sopra il corridoio persa nella gioia della fan girl appagata.
“Cavolo, hai fan ovunque!”
“Eh, già!”
Mangiamo in silenzio quello che ci ha portato e poi i due
maschietti di casa si mettono a giocare con uno dei loro aggeggi e io
mi metto
a leggere un libro.
Dopo non so quanto tempo una voce metallica ci invita ad
allacciare le cinture, visto che siamo in fase di atterraggio.
Ok.
Metto il libro nella borsa e allaccio diligentemente la
mia cintura, siamo arrivati a New York.
Atterriamo senza problemi e notiamo che la pioggia di
Londra qui è scesa sotto forma di neve, un manto bianco
ricopre tutto, Mark è
sulle spine.
“Riuscirò ad arrivare al lavoro puntuale con
questa
neve?”
“Ma sì, dai. Non ti preoccupare.”
Lui grugnisce e dà un calcio alla neve, io cerco un taxi.
Trovato uno carico le nostre cose e poi entriamo, Mark gli detta
l’indirizzo
della Fuse Tv e l’uomo annuisce.
Mio marito sembra calmarsi un po’.
Il taxista fa del suo meglio e Mark non arriva in ritardo
per il suo show.
Scendiamo tutti e paga il taxi.
“Bene, adesso ne avrò per due o tre ore, voi fate
come
volete.”
Io annuisco e lui entra velocemente nella sede del
canale.
“Noi cosa facciamo, mamma?”
“Non è ovvio? Shopping!”
Lui sbuffa e calcia via un po’ di neve.
“Beh, immagino mi tocchi.”
“Esattamente, pensa a quando avrai una fidanzata e vedi
questa seduta come un allenamento.”
“Pft! La mia ragazza sarà come Avril Lavigne
all’inizio, non avrà bisogno di
queste cose!”
Io gli scompiglio i capelli e cominciamo a camminare per
la città coperta di neve. Alcune vetrine hanno ancora le
decorazioni di
Halloween, altre hanno già decorato per Natale.
Fa un effetto un po’ strano perché Natale
è tra due mesi,
ma immagino che questo non importi ai commercianti,
l’importante è vendere, no?
Che sia per Halloween o Natale è uguale.
Ci infiliamo in un grande magazzino, la prima tappa è un
bar, io mi prendo un cappuccino, lui una tazza di cioccolata con panna.
“Potremmo prendere dei vestiti anche per te, stai crescendo
a vista d’occhio.”
“Basta che li scelga io. È il colmo che io debba
comprare
dei vestiti quando mio padre ha una linea di abbigliamento!”
La cosa mi fa scoppiare a ridere, è propr6io vero che il
figlio del ciabattino è sempre quello con le scarpe messe
peggio.
“Sì, li sceglierai tu, è ovvio. Ormai
non posso più
importi nulla.”
Finiamo la nostra colazione ed entriamo nel primo negozio
che vende cose per skater e Jack non fa altro che provare e riprovare
felpe,
jeans e maglie.
Alla fine usciamo con un bel bottino di roba, lui è molto
soddisfatto, adesso però tocca me e lui si sorbisce
stoicamente i miei duecento
cambi di vestiti.
“Bravo, piccolo uomo!”
Lo elogio quando finalmente abbiamo finito, ci resta solo
un po’ di tempo per comprare delle decorazioni natalizie per
la casa.
Dopo tre ore ci presentiamo fuori dalla Fuse Tv, Mark ci
sta aspettando, saltellando sul posto per il freddo.
“Finalmente siete arrivati! Forza, mangiamo qualcosa e
poi andiamo in New Jersey.”
Annuiamo ed entriamo nella prima pizzeria che
incontriamo, una volta mangiato Mark noleggia una macchina e finalmente
partiamo per andare a salutare mia nonna.
Il viaggio è lungo e
noioso.
Più volte io e Jack ci addormentiamo e nella macchina
cala il silenzio, Mark invece sembra di buon umore. A un certo punto mi
offro
di guidare al suo posto, ma lui rifiuta, dicendo che gli piace guidare
e che a
Londra non lo può fare spesso.
Accetto la sua risposta e torno nel mio coma, a metà tra
il sonno e la veglia. A un certo punto qualcuno mi scuote gentilmente e
mi
accorgo che siamo arrivati.
“Grazie, Mark.”
Compriamo un mazzo di fiori dal venditore ambulante fuori
dal cimitero ed entriamo, io e Jack
ci
dirigiamo subito verso la tomba di mia nonna, mio marito invece
gironzola un
po’ tra le tombe.
“Questa è la nonna.”
Dico a Jack indicando la foto di una donna con corti capelli grigi e
con il
nome Marie Everly stampato a lettere d’oro accanto.
“Nonna, ti presento Jack, tuo nipote.
È il figlio di Mark e, non ti sbagliavi, è lui
quello
giusto per me. Mi tratta come una principessa.”
Parlo per un po’ con la tomba di mia nonna aggiornandola
sulle ultime novità e scusandomi per non essermi fatta viva
prima. Ogni tanto
interviene anche Jack e la cosa mi fa molto piacere.
Lo so che è assurdo, ma io credo davvero che lei ci possa
sentire ed essere felice che le cose ci vadano bene.
Credo in un aldilà con una forza e una fede che non ho
per altre cose, sono certa che quando morirò la
rivedrò e la potrò abbracciare
e lei sarà lì con il suo profumo da signora e un
piatto di biscotti.
Dio, quanto mi manca!
Quanto mi mancano le estati trascorse a casa sua a fare i
compiti il mattino e poi a scorazzare in bici per la cittadina dove
viveva il
pomeriggio!
Dopo un ultimo saluto ce ne andiamo e mi chiedo dove sia
finito Mark.
“Mamma, c’è una qualche leggenda
interessante legata a
questo cimitero?”
Io mi gratto la testa.
“Sì, ce n’è una. Me la
raccontava sempre la nonna quando
andava a far visita alla tomba di sua madre.”
“Raccontala un po’!”
“Diceva che nella zona delle vecchie tombe c’era
una
scala molto particolare, non
esteticamente perché erano dei semplici gradini
di pietra con un
corrimano in ferro decorato solo all’inizio, ma magica.
La chiamava la scala verso l’inferno, diceva che su
quella scala sostavano le anime del dannati, cacciati
dall’inferno e in attesa
di venire in questo mondo.
C’era sempre qualcuno di strano attorno a quella scala e
cercava di convincerti a salire la scala, cosa che non andava
assolutamente
fatta o altrimenti si rimaneva intrappolati per sempre al posto del
dannato.”
Jack annuisce.
“Mamma, ma da che parte è andato
papà?”
“Nella parte vecchia del cimitero….
Forse è meglio raggiungerlo.”
Aggiungo nervosa.
Curioso e sfigato com’è Mark sarà
finito davanti alla
scala senza saperlo e poi dobbiamo andare via.
Affretto il passo e io e mio figlio ci arrampichiamo
nella parte più vecchia del cimitero che è stata
costruita sul fianco di una
bassa collina.
Qui ci sono solo mausolei in disuso, statue rotte di
angeli che ancora dopo secoli si protendono verso il cielo, tombe dalle
iscrizioni illeggibili e scheggiate.
Amano venirci gli pseudo satanisti della zona e le
coppiette che cercano una location un po’ diversa al loro
pomiciare.
“Mamma, per caso la scala è piuttosto ripida,
fatta di
gradini di pietra e con un corrimano arrugginito che si arrotola su
sé stesso
all’inizio?”
“Sì, perché?”
“Papà è davanti a una scala del genere
e sembra stia
parlando con qualcuno.”
“Merda!”
Digrigno i denti e corro verso la scala.
“Mark!”
Urlo, ma lui non si gira, così non mi resta altro che
quasi travolgerlo quando arrivo da lui.
“Skye, c’è una vecchietta che ha bisogno
di aiuto per
scendere dalla scala, devo aiutarla.”
Io guardo la scala e vedo una donna gobba e vestita di nero che
somiglia in
modo inquietante a mia nonna e mi sorride maligna.
“È tua nonna Marie, la devo aiutare,”
“Nonna è morta prima che Jack nascesse, non
c’è nessuno
su quella scala, Mark.
Andiamocene, si sta facendo tardi e fa freddo.
Rischiamo di passare la notte nel cimitero.”
Mark continua a fissare la scala con uno sguardo un po’
vacuo, come se fosse ipnotizzato e temo che sia proprio
così. L’anima sulla
scala deve esercitare una certa influenza su di lui e questo non va
affatto
bene.
“Mark, andiamo.”
Lo afferro per un braccio, ma non si muove, al contrario tenta
di dirigersi di nuovo su quella dannata scala.
“La devo aiutare.”
“Non c’è nessuno! Diglielo anche tu,
Jack!”
Il sorriso della donna si allarga in maniera inquietante,
come se sentisse che è prossima alla libertà.
Non ci penso nemmeno a sacrificare mio marito per lei!
“Non c’è nessuno, papà. Ha
ragione la mamma, è meglio
andare.”
Gli lancio uno sguardo eloquente e anche lui afferra
Mark.
“Ma vi dico che c’è e la devo
aiutare!”
Si dirige verso la scala, ma io e Jack lo blocchiamo
cercando di tenerlo lontano con tutte le nostre forze.
“E dai, fatemi fare una buon azione!
Quella povera donna ha bisogno di aiuto!”
“Non c’è nessuna povera donna e tu hai
già fatto la tua buona azione portandomi
qui, andiamocene Mark.”
Lo tiro verso di me con forza e sento che un po’ della
forza che lo tiene legato alla scala sta cedendo. Un’altra
spinta verso di noi
e Mark mormora parole intelligibili su una povera donna imprigionata
che deve
aiutare o finirà all’inferno.
Attraversiamo la parte vecchia del cimitero con lui in
queste condizioni, per fortuna che Jack l’ha visto!
“Tra poco saremo fuori.”
Mormoro a Jack.
“E questa
storia
sarà finita.”
Attraversiamo anche la porta nuova, mentre la neve inizia
a scendere, e finalmente siamo fuori dal cimitero.
“Avete rischiato di rimanere chiusi dentro, non sapevo ci
fosse qualcuno.”
Ci dice sorridendo il custode.
“Cos’ha suo marito?”
“È stato quasi risucchiato dalla scala verso
l’inferno.”
Rispondo io, il volto dell’uomo si distorce in una
smorfia.
“Succede con i forestieri, vostro marito non è di
qua,
vero?”
“No, è californiano.”
“Capisco.”
Ci salutiamo con un cenno, io vado verso la macchina
presa a noleggio e lui verso il cimitero.
Arrivati lì io mi metto alla guida e lego ben stretto
Mark al sedile passeggeri, Jack sale dietro.
Bene, siamo tutti in macchina.
Io parto sgommando e cerco di mettere più chilometri
possibile tra me e la scala maledetta, in modo che anche Mark si senta
meglio
il prima possibile.
Dopo dieci chilometro nel bel mezzo di una tempesta di
neve lui torna in sé.
“Come mai siamo in macchina?”
Mi chiede.
“Ho finito di parlare con mia nonna.”
“Sì, l’avevo capito. Ma
perché l’ultimo ricordo che ho
prima di essere qui è di essere nella parte vecchia del
cimitero?”
Io e Jack ci scambiamo un’occhiata.
“Mettiamola così, Mark, volevi tanto andare
all’inferno.”
“Non ti capisco.”
“Beh, nel cimitero c’è una vecchia
leggenda che racconta
di una scala che va verso l’inferno su cui sostano le anime
espulse verso
l’inferno. Le anime cercano di corrompere le persone per
aiutarle, ma non
appena si mette piede sulla scala si viene risucchiati in un altro
mondo e
l’anima è libera.
Tu avevi una gran voglia di salire quella scala.”
Lui rabbrividisce e so che non è per il freddo.
“Ma perché stando con te si finisce sempre in
queste
situazioni?”
Geme lui, facendomi sbuffare.
“Invece di ringraziarci per averti riportato qui ti
lamenti?”
“Grazie a tutti e due.”
“Così va meglio.
Cavolo, mi sa che dovremo fermarci, questa nevicata sta
diventando una vera e propria tormenta!”
Mark annuisce.
“C’è un motel lì,
fermiamoci.”
Io annuisco, metto la freccia ed entro nel parcheggio del
motel, pieno di macchine.
Abbiamo tutti bisogno di riposo.
Ignoro che lì non troveremo né pace né
riposo.
Angolo di Layla
Ringrazio DeliciousApplePie
per la recensione.
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Capitolo 5 *** Il motel delle notti di neve. ***
Il motel delle notti di
neve.
Non ricordo una simile tormenta di
neve dai giorni
lontani della mia adolescenza quando io e miei venivamo a Natale a
trovare la
nonna.
Ogni tanto si scatenavano vere e proprie bufere di neve
in cui era impossibile vedere al di là del proprio naso, era
un piacere quando
eravamo a casa di nonna e una disgrazia quando eravamo in macchina con
mio
padre.
Oggi tocca a me guidare nella neve e non è per niente
piacevole.
“C’è un motel lì,
fermiamoci!”
Esclama Mark a un certo punto, io seguo la direzione del
suo dito e vedo l’insegna luminosa mezzo nascosta dalla neve
di un motel.
Metto diligentemente la freccia e parcheggio nell’ampio
spazio davanti alla struttura.
Scendiamo dalla macchina ed entriamo nell’edificio, una
donna che sembra uscita dagli anni ’60 ci accoglie con un
sorriso cordiale.
“Siete qui anche voi per la tempesta?”
“Sì, è davvero terribile.”
Lei annuisce.
“Siete fortunati, c’è ancora una stanza
libera: la 666.”
Io e Mark ci guardiamo a disagio, una stanza con il
numero del diavolo non promette nulla di buono, ma o questo o la bufera.
“Ehm, va bene.”
La donna ci sorride – il suo sorriso ha una sfumatura di
incomprensibile maligno trionfo – e ci dà la
chiave, qualcosa in questo posto
non mi piace particolarmente, ma non potevamo continuare a guidare in
quelle
condizioni.
La proprietaria ci scorta fino alla camera e ci augura
buonanotte, noi entriamo e depositiamo i bagagli, poi ci facciamo tutti
e tre
una doccia e ci infiliamo a letto.
Ci sono un letto matrimoniale e un lettino separato dal
nostro da un basso muretto, dopo tutto non è male come
stanza.
Nel tepore delle lenzuola appoggiata sul petto di Mark mi
addormento subito.
Jack p.o.v.
Non riesco a capire come facciano
i miei a dormire. io
sento un incessante gocciolio che mi impedisce di prendere sonno.
Forse qualcuno ha dimenticato aperto un rubinetto dopo
essersi lavato i denti. Di malavoglia, mi alzo e mi metto le mie
ciabatte verde
fosforescente e vado in bagno. Il lavandino non gocciola, ma per un
attimo mi è
sembrato macchiato di sangue.
Fiori di sangue rosso vivo contro la ceramica bianca.
Mi strofino gli occhi e tutto torna normale, leggermente
inquieto torno in camera e mi tolgo il pigiama per rimettermi i miei
vestiti.
Il rumore non è affatto cessato e questo hotel emana
quelle che mia zia Anne chiamerebbe “vibrazioni
negative”.
Facendo attenzione a non farmi sentire dai miei esco
dalla stanza e chiudo delicatamente la porta dietro di me. Sono in un
corridoio
con la tappezzeria di un blu scolorito e il pavimento di linoleum a
cerchi neri
e azzurri, sembra di stare dentro a “Shining” e io
mi sento tanto Danny, il
povero bambino.
Cammino per quelle che mi sembrano ore lungo il
corridoio, finché il rumore di acqua che cade si fa
più forte dietro a una
porta. Mia madre mi ha insegnato l’educazione e il rispetto
della privacy
altrui, quindi se adesso aprissi questa porta le farei un torto e
disturberei
uno dei clienti, ma se non l’aprissi non riuscirei a darmi
pace.
Perché diavolo il rumore viene da questa porta e
perché
si sente in camera mia ?
E soprattutto perché i miei non lo sentono?
Sto impazzendo?
Dovrei tornare in camera, ma l’istinto di sopravvivenza
mi dice di aprire la porta e io gli do retta, stranamente non
è chiusa a
chiave. Quello che vedo mi fa venire voglia di urlare, il mio urlo
però mi
rimane fortunatamente in gola.
Mi trovo davanti a uno spettacolo orribile: una donna con
un vestitino a fiori, pende, muovendosi pigra, dal lampadario.
È mezza
scheletro e mezza di carne viva e il sangue cola con una cadenza
regolare.
Perché questa donna è qui?
E perché nessuno trova strano che si sia impiccata e
nessuno chiama la polizia?
Chiudo la porta dietro di me, chiedendomi cosa troverò
nelle prossime stanze, visto che adesso sento un altro rumore: un forte
ronzio.
Forse sono solo api o calabroni, mi dico per calmarmi, ma
non mi credo nemmeno io.
In ogni caso, continuo a camminare e cerco di capire la
fonte del rumore, che è esattamente due porte più
in là rispetto a quella
dell’impiccata.
Apro la porta – non stupendomi più che non sia
chiusa – e
vedo delle mosche che svolazzano intorno a quello che resta di un uomo.
Questa volta non reggo e vomito sulla porta, prima di
richiuderla.
Dove diavolo siamo capitati?
Mi asciugo i
residui con la manica e cerco di andare verso la hall, giusto poco
prima di arrivarci noto
un quadro che prima non avevo notato.
È una natura morta con un ananas e una pera, solo che
nell’ananas c’è una finestrella in cui
si vede mio padre urlante e nella pera
una finestra con mamma, sotto ai due frutti c’è
una macchia che sembra sangue e
ho la sgradevole sensazione che sia il mio.
In ogni caso proseguo e poi mi nascondo dietro una
colonna, tutti gli ospiti sono nella hall.
“Loro due saranno il sacrificio, abbiamo bisogno di nuovo
sangue.”
Sorride maligna la proprietaria, la sua cotonatura fuori moda mi
dà ai brividi
insieme al suo tono freddo e del tutto privo di emozioni. Parla di
omicidi come
si potrebbe parlare del tempo o della politica.
“Il bambino invece rimarrà con noi.”
L’impiccata batte gioiosa le mani.
“Che bello, ho sempre desiderato un bambino.”
“Allora sarai tu a ucciderlo.”
Un brivido corre lungo la mia schiena.
“Ma se non volesse restare qui?”
“Non dire sciocchezze, Elise.
Chi non vorrebbe rimanere qui?
Voi volete rimanere qui, vero?”
Nessuno risponde alla donna e sotto la crosta umana
intravedo il demone che è in realtà. Ho visto e
sentito abbastanza, è meglio
che me ne vada se voglio salvare i miei genitori.
Percorro di corsa il corridoio e mi ritrovo davanti alla
stanza 666, apro la porta e la richiudo e poi scuoto vigorosamente i
miei.
Al primo tentativo ottengo solo dei grugniti, ma non
mollo, continuo a scuoterli finché non si svegliano.
“Cosa c’è, Jack?”
“Dobbiamo andarcene!”
Bisbiglio a bassa voce.
“Come mai?”
“Questo hotel è abitato da fantasmi, nessuno qui
dentro è vivo, a parte noi e
vogliono ucciderci.
Dobbiamo andarcene finché non si sono accorti che io
so.”
“Jack, è impossibile.
Avrai avuto un incubo.”
“Non sono nemmeno andato a letto, non avete visto che non
indosso il pigiama?”
Mia madre mi squadra.
“In effetti…”
“Sentite, io vi ho creduto senza riserve sulla storia di
Poveglia, per favore
credete alla mia storia questa volta.”
Li prego accoratamente, lentamente mia madre annuisce.
“E sia, ti crediamo.”
Escono tutti e due dal letto e si vestono, mio padre con un paio di
jeans, una
felpa e delle comode scarpe da tennis; mia madre con vestitino rosso e
degli
anfibi.
Prendiamo le giacche e apriamo la porta.
“Non possiamo passare per la hall, ma in fondo al
corridoio c’è un’uscita di emergenza,
forse potremmo usarla.”
Mio padre annuisce e si mette subito dietro di me, mia
madre chiude il corteo, spaventata.
Camminiamo facendo il meno rumore possibile, come se
fossimo dei ladri, tutti i nostri sensi sono all’erta e
questa volta anche i
miei sentono tutta una serie di strani rumori che li innervosiscono.
Arrivati davanti a una vecchia porta verde, con un
maniglione anti panico rosso io lo abbasso e immediatamente si propaga
per
tutto l’hotel il rumore forte di una sirena, simile a quella
che avvisa di un
bombardamento in corso.
Merda!
La porta non si apre, io e mio padre gli diamo una
spallata, in fondo
al corridoio si
cedono avanzare i primi fantasmi, mia madre geme sommessamente.
“Dobbiamo uscire, papà.”
“Diamogli un'altra spallata, Jack!”
Gliela diamo e questa volta cede, i fantasmi sono sempre più
vicini e mia madre
stringe convulsamente la mano di mio padre.
Al terzo tentativo la porta cade con un tonfo sordo e
veniamo investiti da una folata di vento e neve, usciamo correndo
scoordinati
come ubriachi. Io e papà siamo quasi arrivati alla macchina
quando sentiamo un
urlo che fa gelare il sangue nelle vene: un fantasma ha preso mamma e
la sta
trascinando dentro,
“Tu stai qui.”
Mio padre torna indietro e afferra le mani di mia madre
tirandola verso di lui, i
fantasmi però
sono testardi e non sembrano volerla mollare così facilmente.
Ci vuole tutta la forza di mio padre per tirarla via,
alla fine ai fantasmi non rimane altro che un anfibio nero in mano, che
viene
scagliato nella neve.
L’immagine di quell’anfibio nero, sporco di sangue
– è
stata l’impiccata a lanciarlo – mi
perseguiterà a vita.
“Jack, svelto apri la macchina.”
Mi lancia le chiavi e io apro la macchina e mi metto
subito sul sedile passeggeri.
Mio padre, poco dopo, depone mia madre sui sedili
posteriori e poi si mette alla guida.
Parte con una sgommata e corre in una maniera assurda
sulla strada coperta di neve e con il parabrezza mezzo coperto da
quello che i
tergicristalli non riescono a togliere.
Dietro di noi sentiamo dei singulti, io mi volto e vedo
mamma in lacrime che singhiozza in posizione fetale, un piede scalzo.
“Mamma, ce l’abbiamo fatta. È andato
tutto bene.”
Le dico per consolarla, lei annuisce tra le lacrime.
Dopo non so quante ore di guida
sotto una tormenta feroce
di neve arriviamo in una cittadina, mio padre tira un sospiro di
sollievo.
“Dici che si sarà un bed & breakfast o
qualcosa del
genere?”
gironzoliamo per un po’ fino a che non notiamo che
– appeso a una casa – c’è un
cartello in cui si dice che lì c’è un
bed & breakfast.
Io e lui scendiamo dalla macchina e suoniamo il campanello,
dopo un quarto d’ora una donna ci apre.
“Ci scusi per l’orario, ma siamo stati colti dalla
tempesta di neve e abbiamo bisogno di un posto dove dormire.”
La donna annuisce, io vado in macchina e convinco mamma a
scendere e prendo quello che si servirà per la notte.
Entriamo in una casa confortevole e alla luce del salotto
probabilmente dobbiamo sembrare pallidi e spaventati, perché
la donna spalanca
gli occhi.
“Ma voi avete bisogno di un the.”
“Non c’è bisogno che si
disturbi.”
Tenta di scantonare mio padre, ma la donna insiste.
“Soprattutto vostra moglie, forse per lei sarebbe meglio
un dito di whisky.”
Io guardo mia madre, è pallida e con gli occhi persi nel
vuoto. Forse qualcosa
potrebbe aiutarla, anche mio padre sembra pensarla così
perché alla fine
annuisce.
“Va bene.”
Poco dopo la donna torna con due tazze di the forte e zuccherato e un
bicchierino di whisky, che mia madre non
tocca.
“Skye, tesoro, ti prego, bevilo! Dopo ti sentirai un
po’
meglio.
Che ne dici? Vuoi farlo per me e Jack?”
Lei allunga una mano tremante e prende il bicchiere, ne beve una
generosa
sorsata e un po’ di colore sale sulle guance.
“Cosa vi è successo?”
Ci chiede la donna.
“Prima di arrivare qui ci siamo fermati in un motel, solo
che non era un motel normale. Era un posto gestito e abitato da spiriti
che
volevano ucciderci.
Siamo riusciti a scappare solo per un colpo di fortuna.”
La donna impallidisce.
“Io credevo che questa storia fosse finita con
l’incendio, ma certe storie non finiscono mai,
immagino.”
“Scusi, potrebbe essere più chiara?”
Chiede mio padre.
“Il motel di cui parlate venne costruito nei primi anni
del Novecento, su un vecchio cimitero indiano. Pochi anni dopo la sua
apertura
cominciarono ad avvenire cose strane là dentro: omicidi,
suicidi, morti
naturali inspiegabili.
I proprietari cambiavano, ognuno faceva del suo meglio
per ristrutturare e rendere accogliente il posto, ma dopo pochi anni
– dopo
ogni cambio di gestione – le morti iniziavano di nuovo.
L’ultimo che ha preso in gestione la baracca è
stato un
tizio del Maryland all’inizio degli anni Settanta, si era
trasferito qui con il
figlio quindicenne per iniziare una nuova vita dopo la morte della
moglie.
Dopo nemmeno quindici giorni trovò il ragazzino morto per
un overdose di eroina, lui ha giurato che non si era mai fatto. Solo
qualche
canna, ma mai ero e quindi ha deciso di mollare e tornare a casa.
Dopo è rimasto disabitato fino a quando, nell’74,
qualcuno
ha dato fuoco alla casa, il sindaco è stato molto felice di
liberarsi delle
macerie o almeno così raccontano gli anziani.
La leggenda dice che durante le notti di neve come queste
riappare per mietere nuove vittime, c’è qualcosa
in quel posto e vi dico che è
vivo.”
Scuote la testa con un brivido, io e mio padre rimaniamo
a bocca aperta per lo shock.
“E voi siete stati lì dentro?”
Annuiamo come baccalà.
“Siete fortunati a esserne usciti vivi, la maggior parte
della gente che si perde in quella zona non torna più
indietro. Ci credo che
sua moglie stia così male.
Si sente meglio, signora?”
“Sì, credo di sì.”
“Bene, allora è meglio che andiate a letto, domani
vi sembrerà tutto migliore.”
Veniamo scortati al piano superiore, la porta della
stanza e di un legno scuro e dentro c’è un letto
matrimoniale con una calda
trapunta e letto più piccolo per me, sembra molto
accogliente.
Ci facciamo tutti e tre la doccia per la seconda volta e
poi ci mettiamo a letto, questa volta non sento rumori strani e mi
addormento
tranquillo.
Non credo che qui ci siano spiriti pronti a ucciderci.
La mattina dopo mi sveglio di buono umore, mio padre sta
bene e persino mia madre sembra migliore rispetto a ieri sera.
“Scusate per la brutta avventura, ma sembra che io sia in
grado di attirare ogni cosa maledetta o demoniaca nel giro di un
miglio.”
“Skye, non è colpa tua. Stava nevicando, eravamo
tutti stanchi e non vedevamo
l’ora di fermarci, nessuno poteva immaginare che razza di
posto fosse.”
Lei sospira e giurerei che le sia scesa una lacrima.
“Grazie per perdonarmi sempre, vo voglio bene.”
“Non c’è niente da perdonare.”
Mio padre abbraccia mia madre e io mi unisco all’abbraccio,
ho il sospetto che
abbia bisogno di affetto.
Dopo questo abbraccio di gruppo scendiamo al piano
inferiore e troviamo una ricca colazione, preparata dalla proprietaria
del
b&b.
“Buongiorno! Come state?”
“Bene, grazie. Abbiamo dormito benissimo.”
Risponde mio “Lei, signora, sta bene?”
“Sì, grazie e
grazie per il whisky di
ieri sera, ne avevo bisogno.”
“Non c’è nulla per cui ringraziarmi, con
la brutta
avventura che le era capitata era il minimo".
“Già, preferisco non pensarci o sto di nuovo
male.”
Rabbrividisce e si guarda i piedi, forse pensando a
quell’anfibio perso nella
neve che non ritroverà mai più.
Ci sediamo a tavola e mangiamo, stranamente abbiamo tutti
appetito, di solito alla mattina sono io l’unica che ce
l’ha.
“Cosa pensate di fare adesso?”
“Di andarcene una volta cessata la tempesta.”
“Giusto.”
Mark guarda fuori dalla finestra, sta ancora nevicando.
“Penso che per il pomeriggio si sarà
placata.”
Lui annuisce, ci guardiamo negli occhi, nessuno sa cosa
fare.
“Beh, esco a comprare il giornale e le sigarette.”
Mormora incerto mio padre.
“Va bene, io rimarrò qui con Jack.”
Lui esce di casa, mia madre invece dà una mano alla nostra
padrona di casa nel
lavare i piatti e poi si siedono davanti alla tv.
Mi sorbisco una telenovela messicana, mio padre –
rientrato – legge il giornale con finto interesse.
Che mattinata noiosa, ma forse ci vogliono anche queste
mattinate per apprezzare il fatto di essere vivi. Non avrei voluto
essere in
quel motel per nessun motivo al mondo.
Alla fine, a causa della neve, la donna è costretta a
prepararci anche il pranzo, sebbene non rientri tra i suoi compiti
Ci prepara delle bistecche piuttosto buone, è gentile con
noi e soprattutto con mamma, ma è palese che non vede
l’ora che ce ne andiamo.
Verso le due smette di nevicare e possiamo finalmente
metterci in viaggio verso New York, dove ci attende un comodo volo per
Londra.
Di solito mi piace stare negli Stati Uniti, ma questa
volta non vedo l’ora di tornare nella cara vecchia
Inghilterra, penso che lì
staremo in pace almeno per un po’.
Saliamo in macchina e salutiamo la signora che ci
risponde sventolando la sua mano e sorridendo, sembra ok, ma ho come
l’impressione che sia segretamente felice di vederci andare
via.
Arriviamo a New York giusto in tempo per prendere un volo
all’ultimo minuto per Londra, mentre allacciamo le cinture
sento mia madre
emettere un debole sospiro di sollievo. Di noi tre è quella
più provata e l’ho
sorpresa più volte guardarsi il piede destro, come se
ritenesse incredibile
che fosse ancora lì.
Atterriamo e troviamo il famigliare clima piovoso, solo
qualche giorno dopo la pioggia si trasforma in neve, questa volta
però non fa
paura a nessuno.
La vita rientra nei soliti binari: io vado a scuola, mio
padre alterna il suo lavoro a New York con il comporre per i blink
– a volta
vola anche a Los Angeles per questo motivo– mia
madre lavora per mtv come se
nulla fosse.
La nostra breve avventura in quel motel sembra
dimenticata, scorre – come un fiume sotterraneo – nei nostri cervelli e ogni
tanto riappare nei
nostri incubi.
L’estate dopo andiamo di nuovo a trovare la nonna, mio
padre si tiene accuratamente alla larga dalla parte vecchia del
cimitero e
dalla scala, non ha intenzione di finire i suoi giorni su una vecchia scala di
pietra in attesa di un
poveretto che lo liberi e prenda il suo posto.
In quell’occasione percorriamo la stessa strada che
abbiamo fatto quella notte e guardiamo tutti e tre dove avevamo visto
il motel.
Nessuno vuole davvero fermarsi e non c’èa nulla da
vedere, solo
erba: una distesa di prato verde che si gode pigramente il sole estivo.
Non che ci aspettassimo davvero di vedere qualcosa, ma
volevamo verificare la storia che ci aveva raccontato quella donna.
Era tutto vero.
È stato tutto vero, dal gocciolio alla nostra fuga fino a
trovare ospitalità da una povera affittacamere.
Ci allontaniamo con un brivido che corre lungo le nostre
schiene. Nelle notti di neve non ci fermeremo mai più in un
motel.
Non vogliamo diventare i prossimi ospiti per l’eternità.
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